Opere
 9788841895221

Table of contents :
Indice del Volume......Page 5
Frontespizio......Page 3
Introduzione......Page 7
Nota biografica......Page 33
Nota bibliografica......Page 55
La Teoria della Classe Agiata......Page 69
Prefazione......Page 70
Capitolo I......Page 72
Capitolo II......Page 86
Capitolo III......Page 94
Capitolo IV......Page 115
Capitolo V......Page 136
Capitole VI......Page 144
Capitolo VII......Page 176
Capitolo VIII......Page 189
Capitolo IX......Page 204
Capitolo X......Page 224
Capitolo XI......Page 243
Capitolo XII......Page 254
Capitolo XIII......Page 278
Capitolo XIV......Page 297
La Germania Imperiale e La Rivoluzione Industriale......Page 320
Prefazione......Page 321
Capitolo I......Page 323
Capitolo II......Page 330
Capitolo III......Page 356
Capitolo IV......Page 380
Capitolo V......Page 421
Capitolo VI......Page 438
Capitolo VII......Page 463
Capitolo VIII......Page 481
Note supplementari......Page 509
Ricerca Sulla Natura Della Pace e Le Condizioni Della Sua Perpetuazione......Page 562
Prefazione......Page 563
Capitolo I......Page 565
Capitolo II......Page 585
Capitolo III......Page 614
Capitolo IV......Page 640
Capitolo V......Page 678
Capitolo VI......Page 714
Capitolo VII......Page 758
Gli Ingegneri e il Sistema dei Prezzi......Page 805
Capitolo I......Page 806
Capitolo II......Page 820
Capitolo III......Page 833
Capitolo IV......Page 849
Capitolo V......Page 861
Capitolo VI......Page 879
Indice delle tavole......Page 896

Citation preview

CLASSICI DELLA SOCIOLOGIA COLLEZIONE DIRETTA DA

FRANCO FERRAROTTI

Thorstein Veblen

OPERE A cura di

FRANCESCO DE DOMENICO Introduzione di

FRANCO FERRAROTTI UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE

© De Agostini Libri S.p.A. - Novara 2013 UTET www.utetlibri.it www.deagostini.it ISBN: 978-88-418-9522-1 Prima edizione eBook: Marzo 2013 © 1969 Unione Tipografico-Editrice Torinese nella collana Classici della sociologia Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico o in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. La casa editrice resta a disposizione per ogni eventuale adempimento riguardante i diritti d’autore degli apparati critici, introduzione e traduzione del testo qui riprodotto.

INDICE DEL VOLUME

Introduzione Nota biografica Nota bibliografica LA TEORIA DELLA CLASSE AGIATA

STUDIO ECONOMICO SULLE ISTITUZIONI

Prefazione Capitolo I - Preliminari Capitolo II - L’emulazione finanziaria Capitolo III - L’agiatezza vistosa Capitolo IV - Il consumo vistoso Capitolo V - Il livello finanziario di vita Capitole VI - I canoni finanziari del gusto Capitolo VII - L’abbigliamento come espressione della civiltàfinanziaria Capitolo VIII - L’esenzione industriale e il conservatorismo Capitolo IX - La conservazione delle caratteristiche arcaiche Capitolo X - Moderne sopravvivenze della virtù del co-raggio Capitolo XI - La credenza nella fortuna Capitolo XII - Le pratiche devote Capitolo XIII - Sopravvivenze dell’interesse non antagonistico Capitolo XIV - Gli studi superiori come espressione della ci-viltà finanziaria LA GERMANIA IMPERIALE E LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Prefazione Capitolo I - Introduzione - Popoli e razze Capitolo II - L’antico ordinamento Capitolo III - Lo stato dinastico

Capitolo IV - Il caso dell’Inghilterra Capitolo V - La Germania imperiale Capitolo VI - La rivoluzione industriale in Germania. Capitolo VII - La politica economica dello stato imperiale Capitolo VIII - Il vantaggio netto Note supplementari RICERCA SULLA NATURA DELLA PACE E LE CONDIZIONI DELLA SUA PERPETUAZIONE Prefazione Capitolo I - Introduzione: sullo stato e i suoi rapporti con la pace e la guerra Capitolo II - Sulla natura e gli usi del patriottismo. Capitolo III - Sulle condizioni di una pace duratura Capitolo IV - Pace senza onore Capitolo V - Pace e neutralità Capitolo VI - Eliminazione dei non idonei Capitolo VII - La pace e il sistema dei prezzi GLI INGEGNERI E IL SISTEMA DEI PREZZI Capitolo I - Sulla natura e le funzioni del sabotaggio Capitolo II - Il sistema industriale e i capitani d’industria Capitolo III - I capitani della finanza e gli ingegneri Capitolo IV - Sul pericolo di un sommovimento rivoluzio-nario Capitolo V - Sulle circostanze che fanno prevedere un mu-tamento Capitolo VI - Memorandum su un realizzabile soviet ditecnici Indice delle tavole

INTRODUZIONE

I Per capire il pensiero di Thorstein Veblen, sociologo nordamericano vissuto dal 1857 al 1929occorre in primo luogo capire l’uomo: nel quadro economico e nel clima intellettuale del suo tempo ma anche come individuo con le sue origini familiari, la comunità agricola dell’infanzia nel Wisconsin e nel Minnesota, il furore dell’autodidatta, gli studi enciclopedici alla grande maniera e le voraci letture eclettiche, i matrimoni sbagliati e la carriera fallimentare. Ciò potrà, almeno a prima vista, apparire abbastanza semplice. Le informazioni non mancano e basta alla bisogna la monumentale biografia di Joseph Dorfman (cfr. J. D., Thorstein Veblen and his America, New York, The Viking Press, 1935). Di più: vi sono scrittori per i quali l’esperienza biografica conta poco, quasi nulla, e la si può mettere tranquillamente fra parentesi. Si nota in essi un sicuro distacco, se non una separazione netta, fra i libri e la vita. Non è questo il caso di Thorstein Veblen. Il legame fra la produzione scientifica e i dati biografici è in lui così stretto che ad un esame superficiale Veblen può addirittura apparire uno scrittore d’occasione. È difficile, per esempio, non vedere il nesso fra l’ostilità profonda manifestata da Veblen in tutti i suoi scritti per i legulei e per il mondo del grande capitale finanziario e il fatto che sia il nonno paterno che materno erano stati spogliati delle proprie fattorie e ridotti a fittavoli appunto da banchieri senza scrupoli e in base a cavilli giuridici. La stessa famosa «teoria della classe agiata», cioè l’idea che, superato il livello della pura sussistenza, gli esseri umani si guardino bene dall’usare razionalmente le maggiori risorse disponibili preferendo valersene per «consumi onorifici» rigorosamente inutili e «sciupìo vistoso» tali da istituire fra sé e gli altri un «confronto antagonistico» (invidious comparison), trae elementi fondamentali, l’ispirazione e si pone anzi come la trascrizione in termini concettuali generali dell’esperienza fatta dal giovane Veblen nel 1881 quando, iscrittosi con il fratello alla Johns Hopkins University di Baltimora, era a pensione presso una famiglia di tradizioni aristocratiche con un traiti de vie di stile pre-guerra di secessione con carrozze, cavalli, cani, servitù in livrea, e così via. In questo senso ha ragione C. Wright Mills quando osserva che la «teoria della classe agiata» descrive un modo di vita al tramonto, che essa ha più che altro valore retrospettivo quanto meno con riguardo agli Stati Uniti; nessun dubbio infatti

che di lì a poco, nella prima decade del Novecento, l’istituzione dell’imposta sul reddito (income tax) doveva insegnare ai grandi ricchi, se non la discrezione, la prudenza nell’ostentare la propria «capacità di pagare» (ability to pay). Del resto gran parte dei libri di Veblen, come abbiamo detto, si collegano direttamente a esperienze esistenziali trasparenti. Si noti inoltre che «teoria» in Veblen non è mai termine usato in senso formale come insieme di ipotesi di lavoro da verificarsi o da falsificarsi in base alle risultanze della ricerca empirica; è piuttosto, come il significato etimologico suggerisce, uno «sguardo sulle cose che avvengono» per rendersene conto in termini non tanto di logica cogente quanto di passabile plausibilità. «Teoria» in Veblen è un poco più di congettura ma un poco meno di enunciato scientifico rigorosamente provato come vorrebbero i positivisti logici. Congettura, impressione, intuizione, esperienza: all’esperienza dell’operosità contadina nell’ambito della fattoria norvegese dove Veblen, sesto di dodici figli, vive fino a diciassette anni senza conoscere l’inglese, che studierà al Carleton College come una lingua straniera, corrisponde la teoria dell’istinto dell’efficienza (the instinct of workmanship) alle infelici esperienze universitarie che non lo videro mai superare i gradini più bassi della carriera è legato The Higher Learning in America con un primo sottotitolo, in seguito modificato, piuttosto esplicito (a study in total depravity); al viaggio in Europa e al periodo della guerra e al soggiorno a Washington si possono invece far corrispondere Imperiai Germany and the Industriai Revolution e The Nature of Peace and the Terms of Its Perpetuaron; alle speranze infine dell’ultimo periodo della vita e all’intensa esperienza come direttore di The Dial a New York, il breve, inconsuetamente programmatico volume The Engineers and the Price System. Ma in generale in tutte le opere, specialmente in quella Theory of Business Enterprise che pubblica a sue spese nel 1904 e che gli procura subito lettere di persone che chiedono consigli su come far soldi mettendo in pratica i metodi di pirateria affaristica da lui così efficacemente descritti, emergono le contrapposte polarità «uso razionale delle risorse - sciupìo vistoso» nelle quali non è difficile ancora una volta scorgere il rifiuto, tinto di moralismo ma espresso per lo più in un gergo così freddamente scientifico da sortire effetti vagamente umoristici o francamente parodistici, che il contadino norvegese,

parsimonioso, sensibile a semplici esigenze direttamente produttive, oppone al modo di vita urbano, alle stravaganze non direttamente collegate ai bisogni della sopravvivenza che lo caratterizzano, al lusso ostentato, allo spreco sistematico e alle varie tecniche sabotatrici che avvocati, affaristi e speculatori di vario genere elaborano e applicano allo scopo di creare strozzature nel flusso produttivo e aver modo di lucrare sulle crisi ad arte determinate. Sono forse sufficienti questi pochi cenni per far intendere dove, nel quadro culturale e politico del suo tempo, si collochi Veblen. Nell’America che dopo il trauma della guerra civile ha imboccato la via di uno sviluppo capitalistico impetuoso, in cui la regola della libera concorrenza conosce eccessi tragici e i «robber barons» manovrano la finanza sul metro di interessi strettamente privati e settoriali mentre si consolidano fra un sussulto e l’altro le colossali fortune che ancor oggi tengono il campo (i Rockefeller, i Vanderbilt, i Carnegie, i Du Pont, i Ford, gli Harriman, ecc.), non vi possono essere ragionevoli dubbi sulla chiara appartenenza di Veblen alla tradizione dei «muckrackers» americani, in compagnia di uomini come Henry Demerset Lloyd e Upton Sinclair e, in tempi recenti, di sociologi come C Wright Mills, Irving L. Horowitz e Alfred McClung Lee. Ma c’è una nota negli attacchi di Veblen che sembra venire da più lontano. Non è solo il turbamento che prende buona parte dei progressisti, dei liberals negli Stati Uniti ogni qual volta si rendono conto che fra gli ideali americani, le «verità autoevidenti» della dichiarazione jeffersoniana e la realtà reale della vita e dei rapporti sociali americani non si dà perfetta coincidenza. Il che, manco a dirlo, è destino che accada piuttosto sovente, anche se ogni volta, dallo scandalo che ne mena e dagli alti lamenti cui candidamente il progressista s’abbandona, sembra la prima volta. In Veblen c’è qualche cosa di diverso. In lui si avverte l’acre ostilità di chi combatte senza speranza e senza illusioni, che quindi rinuncia alla retorica riformistica e ricorre di preferenza all’acido corrosivo d’una ironia sapientemente distillata. È chiaro che ciò significa per Veblen esporsi doppiamente: all’inimicizia degli interessi consolidati per i quali fin dalla pubblicazione della Teoria della classe agiata (The Theory of the Leisure Class, New York, MacMillan, 1899) egli è un «uomo segnato» ma anche all’incomprensione e alla taccia di irresponsabilità negli ambienti del perbenismo bigotto e riformistico di sinistra. L’intento di Veblen è più sottile e scava più a fondo. Le allusioni ironico-parodistiche contro i grandi affari e il loro «parassitismo dinamico», la sua lotta tenace, continua, sotterranea contro i captains of business e la loro irresistibile vocazione a

cavar un «ragionevole profitto» sulla pelle della comunità, quello stile indiretto, latineggiante e sornione cui sacrifica allegramente la sua rispettabilità accademica, sono a mio giudizio accorgimenti dettati in parte da esigenze di legittima difesa, in parte, ma è la parte decisiva, dall’antico calcolo contadino di non dire tutto in una volta, di graduare l’attacco per farlo durare più a lungo, per trasformarlo da un gioco di fioretto in un’operazione all’ultimo sangue, devastante, definitiva. Di qui la differenza sostanziale fra Veblen e i progressisti generici e canori, i liberáis che pure gli fungono di tanto in tanto nella vita, specie verso la fine, da compagni di strada. Veblen non spera in una possibilità quale che sia di contrattazione o di compromesso con il sistema. L’idea di rappacificazione lo fa rabbrividire. Egli appare disincantato; non si ripromette nulla; non attende nulla; lo sviluppo sociale gli appare solo l’esito di una cieca sequenza cumulativa di eventi. Ma non è un cinico e neppure lontanamente sembra toccarlo lo spirito volterriano di un Pareto; lo scetticismo di cui dà prova in più luoghi è piuttosto il riflesso della quieta disperata accettazione contadina che sembra diradarsi solo all’epoca dell’esperienza giornalistica a New York; solo allora, e per pochi mesi del resto, forse sulla cresta degli entusiasmi per la sorgente Russia dei Soviet, Veblen sembra lasciarsi andare ad un atteggiamento «costruttivo», programmatico e azzarda una classica profezia sbagliata: lui così acuto nell’intuire la debolezza dell’internazionalismo operaio e del razionalismo degli economisti classici, lui così cauto e reticente, così consapevole della molteplicità dei fattori in gioco e d’altro canto così preciso nel preannunciare sia la grande crisi del 1929 che la razionalità irragionevole della società consumistica, auspica e prevede niente meno che il «soviet degli ingegneri».

II Il nesso dato biografico-costruzione teoretica, nel caso di Thorstein Veblen, va sempre tenuto presente. È una chiave preziosa. Ma questa chiave va usata con cautela. Può condurre a interpretazioni schematiche oppure far passare come plausibili operazioni fortemente riduttive. Il problema che qui si pone riguarda la graduazione dell’analisi, ossia: come cogliere i lineamenti del condizionamento dovuto alla matrice della cultura d’origine di Veblen senza cadere nelle viete secche di un determinismo grezzo e sprovveduto.

Il tentativo fatto in questa direzione da David Riesman ci sembra interessante per certi aspetti particolari (rapporti di Veblen con il padre; contraddittorio amore di questi per la macchina; alienazione linguistica e isolamento degli immigrati incapaci di valersi dei servizi della comunità, ecc.), ma nel complesso deludente e fuorviante (cfr. D. RIESMAN, Thorstein Veblen, A criticai Interpretation, New York, Scribner’s, 1953). L’ambizione di dare un’interpretazione prevalentemente psicoanalitica di uno scrittore come Veblen è certamente legittima, ma va subito detto che se la psicoanalisi incontra limiti precisi quando viene usata per «trattare» persone viventi i limiti divengono invalicabili allorché i pazienti sono morti e l’analisi non può che essere retrospettiva. I testi vengono allora regolarmente forzati; certi particolari biografici sono ingranditi per amore di tesi; le prese di posizione teoretiche non sono mai esaminate per quello che dicono e per quello che sono; la tentazione di utilizzarle come spia del mondo psicologico dell’autore non sembra resistibile. Per esempio: che Veblen attacchi frontalmente le istituzioni del capitalismo finanziario come essenzialmente parassitarie non suggerisce a questo tipo di interprete l’idea di un controllo per vedere se in effetti tali istituzioni sono parassitarie e nocive per la comunità in generale (e naturalmente nella stessa proporzione profittevoli per la ristretta comunità degli speculatori); ci si limita a richiamare la radice contadina: richiamo utile, persino illuminante ma solo nella misura in cui non è usato unilateralmente come spiegazione passe-partout. Oppure: quando Veblen critica a fondo e con dovizia di particolari la gestione ottusa delle università da parte degli interessi consolidati zelantemente rappresentati da amministrazioni fiscali e téte-bornée per le quali l’università non è che un’azienda come un’altra e avanza ipotesi, scopre nessi e prospetta soluzioni da far impallidire lo stesso Movimento studentesco odierno, si è lesti a ricordarne in funzione esplicativa la sfortunata carriera universitaria, le borse di studio cui concorse senza successo, il mancato rinnovo del suo contratto da parte dell’Università di Chicago, e così via. I limiti della spiegazione psicologica nel caso di Veblen risultano evidenti su due piani. In primo luogo, sul piano propriamente teoretico. È difficile, è anzi impossibile spiegare il fenomeno Veblen e penetrarne il pensiero senza prendere in seria considerazione Pinfluenza esercitata su di lui da filosofi, scienziati naturalisti, economisti e sociologi come Kant, Reid, Hamilton,

Mansel, Hume, John Stuart Mill, Darwin, Charles Peirce, William G. Sumner, John Bates Clark, Marx e Spencer. Il pensiero di Veblen trascende nettamente i dati dell’esperienza biografica e le peculiarità della cultura d’origine. Solo in questo modo è possibile spiegarne la straordinaria capacità predittiva e la perdurante, se pur controversa, attualità. Abbiamo più sopra accennato alle succose anticipazioni che un movimento così pieno d’avvenire come il Movimento studentesco potrebbe trovare in The Higher Le amiti g in America specie là dove Veblen illustra i fasti della gestione burocratica o aziendalistica delle attività di ricerca scientifica e le conseguenze di quella che chiama c forceful mediocrity» sulla direzione delle indagini, inevitabilmente assai più strettamente legate, da ultimo, ai dettami della «(saggezza mondana» e ai canoni di ciò che è considerato correntemente come appropriato e conveniente che non ai criteri dell’analisi scientifica a livello critico (p. 189). Ma gli esempi sono numerosi. È impressionante, per citarne uno, non solo l’esattezza con cui Veblen prevede il rapido sviluppo industriale del Giappone, e la sua futura minaccia imperialistica nei confronti degli Stati Uniti, ma più ancora la sua circostanziata previsione circa il sorgere del nazismo nella Germania del primo dopoguerra. Contro le accese speranze dei socialisti internazionalisti egli nota fin dal 1906 che niente è lì a garantire in maniera certa che le classi lavoratrici di paesi europei, come la Germania, non «si abbandoneranno entusiasticamente», in base alla loro abitudine alla lealtà nazionale e alla coesione e spinte dalle loro «tendenze sportive», al gioco della politica dinastica, la sola che i loro bellicosi governanti considerino degna di essere perseguita. «Il principale tra i fattori che hanno mantenuta intatta la fedeltà sottomessa del popolo tedesco allo Stato — commenta più tardi Veblen in Imperiai Germany and the Industriai Revolution — è ovviamente la vittoriosa condotta delle. guerre, spalleggiata dagli effetti disciplinari della preparazione bellica e dell’addestramento all’arroganza e alle ambizioni guerresche… L’esperienza della guerra produce una mentalità bellicistica; e la pratica guerresca, in quanto addestramento a seguire il proprio capo e all’esecuzione di ordini arbitrari, conduce a una mentalità di sottomissione entusiastica e di obbedienza senza discussione all’autorità. Quello che è un’organizzazione militare in guerra lo è un’organizzazione servile in pace. Il sistema è lo stesso… Esso raggiunge la massima efficienza nell’un caso come nell’altro, in guerra o in pace, solo quando la consuetudine dell’autorità arbitraria e dell’obbedienza senza discussione è stata così compiutamente assimilata che la

sottomissione diviene un’aspirazione appassionata per la popolazione dei sudditi, quando l’uso della fedeltà ha raggiunto un tale grado di automaticità che l’ideale di libertà del suddito consiste nel permesso di obbedire agli ordini — un po’ allo stesso modo in cui i teologi interpretano la libertà dei fedeli, il cui supremo privilegio è quello di eseguire tutti i comandamenti divini. Un simile sviluppo ideale del sentimento patriottico sembra essere stato raggiunto, entro limiti sopportabili di approssimazione, nel case tedesco…» (pp. 349-350). Ma le previsioni di Veblen non si limitano a siffatte indicazioni di massima, per quanto stimolanti esse siano. La capacità predittiva in senso specifico di Veblen si manifesta in pieno nei confronti di quello che sarà il futuro Asse Berlino-Tokyo. Parlando del Giappone e della sua futura espansione imperialistica, che costituiva in certa misura un fatto di ampia notorietà, Veblen lo definisce in The Nature of Peace «il naturale alleato della Germania nell’estremo Oriente»: tutto ciò nel 1917, cioè in un momento in cui i due paesi erano in guerra tra loro. Veblen prevede anche la «miracolosa» ripresa economica tedesca del primo dopoguerra e la depressione negli altri paesi che dalla guerra erano usciti vittoriosi sulla semplice base offerta dalle cognizioni tecnologiche ormai divenute patrimonio popolare, d’importanza ben più duratura che non le attrezzature materiali perdute o consegnate a titolo di riparazioni. Scrivendo Imperiai Germany and the Industriai Revolution nel febbraio 1915, dopo un viaggio in Europa che lo aveva portato appunto in Germania allo scoppio delle ostilità e gli aveva permesso di assistere in propria persona all’orgia di isterismo nazionalistico che ne seguì, (con il Reichstag che vota all’unanimità i crediti di guerra, compreso tutto il gruppo socialdemocratico di cui faceva ancora parte il futuro spartakista Karl Liebknecht, che votò a favore, sia pure per disciplina di partito), Veblen dedica una delle sue tipiche note a pie di pagina, in cui se è possibile sembra farsi più caustico e sornione che mai, al partito socialdemocratico tedesco, che era allora la punta di diamante del movimento socialista mondiale: «La disciplina del servilismo, o della servitù, imposta dal servizio militare va probabilmente ritenuta il fattore principale che ha provocato il definitivo crollo del socialismo in Germania — definitivo, s’intende, per il presente ed il prevedibile futuro, e sotto tutti gli aspetti tranne il nome, il cerimoniale e gli uffici» (p. 476). Più avanti, Veblen parla di «innocuo disuso» del movimento socialista tedesco. Non può sfuggire come questa definizione si applichi anche alla di poco posteriore esperienza governativa del partito socialdemocratico nella Repubblica di Weimar,

prodromo all’avvento al potere del regime nazista. Almeno altrettanto negativo, e purtroppo fondato, è il giudizio che Veblen dà degli intellettuali tedeschi in The Nature of Peace riferendosi alla loro entusiastica esaltazione delle radiose prospettive offerte all’umanità dal progetto di dominazione mondiale dell’Impero tedesco, quasi si trattasse di una nuova età di Pericle, se non proprio di una saturnia aetas. La categoria degli «intellettuali» viene vista nella sua qualità di portavoce accreditato della nazione tedesca nei suoi rapporti con il mondo esterno, isolato dalle masse popolari tedesche ed invece in stretto contatto con il gruppo dirigente che ne tira i fili. «Per quanto possano essere, in ispirito, cittadini della repubblica cosmopolita della conoscenza e dell’intelligenza — scrive Veblen — essi sono nonostante tutto, in propria persona, sudditi in modo immediato e irrimediabile dello stato dinastico tedesco», ossia compartecipi della concezione tedesca secondo cui la manifestazione suprema della libertà consiste nella «libertà di obbedire agli ordini» proprio come la concezione inglese intende la libertà come «esenzione dal ricevere ordini». Abbiamo qui un esempio significativo di linguaggio vebleniano, circonvoluto, sornione, che colpisce il bersaglio solo indirettamente ma non per questo con minor efficacia: «Sulla semplice base del valore facciale delle testimonianze disponibili, un estraneo potrebbe facilmente cadere nell’errore di credere che quando la grande avventura guerresca (nel 1914) si spalancò cavanti a loro…, gli Intellettuali della Madrepatria germanica si siano distinti al di sopra di tutte le altre classi sociali quanto a esuberanza del loro abbandono patriottico. La realtà è che gli Intellettuali non raggiunsero il culmine dell’esaltazione, ma soltanto che, addestrati com’erano nell’uso della lingua, furono in grado di esprimere le loro emozioni con estrema facilità». Una singolare riprova dell’acutezza di giudizio e della capacità di previsione di Veblen merita qui di venire accennata. Nel 1920 Veblen, che dal 1909 aveva abbandonato la pratica di scrivere recensioni sulle riviste — salvo una trascurabile eccezione — scrive per l’ultima volta una lunga nota di commento al libro di John Maynard Keynes, The Economie Consequences of Peace, uscito l’anno prima. La recensione è redatta, come di consueto, in uno spirito fortemente critico; ciò non toglie nulla al significato della sua scelta ove si consideri che Keynes era allora pressoché sconosciuto nel mondo scientifico avendo partecipato come semplice delegato del Tesoro britannico alle trattative di Versailles grazie alla sua esperienza di amministratore.

Veblen è inoltre consapevole e prevede con nettezza il crescente fondamentale ruolo che la pubblicità e le altre tecniche di persuasione più o meno occulta sono destinate ad esercitare nell’ambito della società consumistica. Quello che scrive intorno alla pubblicità, in The Theory of Business Enterprise, e al suo principio fondamentale, cioè la reiterazione di un’affermazione, la cui veridicità è di secondaria importanza, come fattore principale per convincere il prossimo, le osservazioni intorno alla funzione del mezzo pubblicitario teso unicamente ad aumentare la «vendibilità» del prodotto indipendentemente dall’effettivo servizio reso alla comunità sono ancora tutte da leggere. Più tardi, in The Engineers and the Price System, la critica vebleniana non perde mordente né attualità: «La pubblicità e le manovre adescatone nelle tecniche di vendita sembrano esser l’unica risorsa a cui gli uomini d’affari del paese sappiano far ricorso per porre rimedio al groviglio di difficoltà in cui lo scoppio della pace affaristica ha precipitato il mondo commercializzato»; … «ma le classi inferiori sono tuttora molto credule per tutto ciò che viene detto e fatto nel nome degli Affari ed è inutile nutrire apprensioni riguardo allo scoppio d’una sommossa, per ora».

III Anche sul piano della personalità la spiegazione psicologica incontra difficoltà e richiede cautela. Thorstein Veblen è una figura singolare, fatta apposta per rimescolare le carte e far saltare gli schemi precostituiti. In un sistema di vita fondato sulla glad band, sul conformismo di gruppo, sul farsi avanti e gomitate e a sorrisi a seconda dei casi, giovanilistico, competitivo ed efficiente, panlavorista ed ottimista, egli appare allusivo, goffo, per lo più silenzioso o reticente, disoccupato o sottooccupato, in una parola «ritardatario», laggard. Si direbbe che è «fuori del sistema» per diritto di nascita. Solo con il primo matrimonio corre il rischio di integrarsi diventando impiegato industriale. Conseguito il dottorato a ventisette anni con una dissertazione sui «Fondamenti etici di una dottrina della ricompensa» con riferimento a Kant e a Spencer, non riesce a trovare una sistemazione vedendosi costantemente preferire laureati in teologia anche per le sue origini norvegesi e il suo sospetto agnosticismo. Torna dunque a vivere in campagna a carico della famiglia non badando ad altro per alcuni anni fuor che £ leggere

tutto il giorno. Finalmente nel 1888. a trentun anni, sposa Ellen Rolfe e con lei, appartenente ad una famiglia bene di industriali delle ferrovie, si trasferisce a Stacyville nello Iowa in una fattoria di proprietà del suocero. Veblen è sempre senza lavoro, passa le giornate a leggere e a fare passeggiate e non sembra preoccuparsi eccessivamente. Ma Ellen si dà da fare; pur di avere un posto il novello sposo appare disposto a tutto ed è a questo punto che Veblen rischia di diventare un «ostaggio della società». Si prospetta infatti la possibilità di un posto di economo nella compagnia ferroviaria Santa Fé di cui era presidente lo zio W. B. Strong, ma la cosa sfuma per alcune difficoltà aziendali sopravvenute nel frattempo. Non è agevole racchiudere la figura di Veblen entro uno schema logico, animata com’è da contraddizioni profonde. Siamo di fronte a un contadino autentico, a un uomo che non appena gliene si presenti il destro fugge in campagna con la furia dei claustrofobia nel Minnesota nello Iowa in California; eppure questo contadino è perdutamente innamorato della macchina e scorge nel processo della disciplina meccanica il fattore più potente, quello decisivo, per la civiltà odierna; fra una crisi di depressione e l’altra, appare convinto che la tecnica potrà alla fine liberare l’uomo. Veblen è certamente un riformista, un progressista, ma non ha orecchio per quella religione laica del progresso che fa di molti progressisti odierni dei bigotti di segno contrario. È un anticapitalista convinto e radicale, ma non è un socialista ortodosso; semmai, è un anarchico. Lo si può definire, e lo si definisce correntemente, un istituzionalista, ma è assai più un nemico mortale delle istituzioni e delle loro ottuse impersonali esigenze burocratiche che un correttore benevolo o un rabberciatore paziente delle disfunzioni esistenti. C’è poi in lui, fin dai primi anni, una vena diabolica di irriverenza e il gusto potente per il paradosso che ne fa un dissacratore di razza per quanto circospetto e schermato. Studente al Carleton College -— e non bisogna dimenticare la chiusa atmosfera confessionale di tali colleges del Midwest, non ancora laicizzati, più divinity schools che scuole nel senso odierno, dove un professore rischiava il licenziamento in tronco solo per aver letto quel terribile rivoluzionario che si supponeva fosse Herbert Spencer! — Veblen scrive e tiene pubbliche dissertazioni in difesa del cannibalismo e sui vantaggi dell’ubriachezza. Come insegnante la sua eccentricità è presto proverbiale. Spesso non tiene esami; preferisce dare un voto comune a tutti gli studenti, di solito non più di C che corrisponde al nostro 18-20 su trenta. Trasandato nel vestire, non sempre puntuale, incurante delle attenzioni che l’amministrazione

mostra per la popolarità e la bella figura dell’università, tende a scoraggiare l’afflusso ai suoi corsi della massa degli studenti, specialmente gli under graduates, le matricole, ricorrendo ad almeno due metodi: borbottando le lezioni, cioè praticando sistematicamente il caratteristico mum bling, sì che tranne i più vicini nessuno può udire o capire che cosa dice, e assegnando come testi di lettura obbligatoria ponderosi libri in lingue straniere con preferenza per il tedesco. Ha però vivissimo il senso del piccolo gruppo di seguaci. Si forma infatti ben presto un gruppo di vebleniani fedeli che lo seguono adoranti nelle sue peregrinazioni di clericus vagans; alcuni di essi lo finanzieranno per tutta la vita. Ne avrà bisogno, soprattutto quando falliscono vari tentativi per trovargli un posto, qualsiasi posto, in diverse università. Va a vuoto anche una sua domanda al posto di ispettore scolastico a Warner, nel South Dakota. A trentaquattro anni Veblen torna come studente sui banchi dell’Università di Cornell. Qui conosce J. Lawrence Laughlin, il noto economista seguace di John Stuart Mill che gli ottiene un sussidio speciale per consentirgli di seguire i corsi di economia. Qui, sempre nel 1891, scrive e finalmente pubblica negli Armai $ of the American of Politicai and Social Science il saggio «Some neglected points in the Theory o£ Socialism» che in nuce contiene molti dei temi che svilupperà in seguito. L’anno dopo comincia a pubblicare una lunga serie di recensioni nel Quarterly Journal of Economics e decide di seguire Laughlin, nominato head professor alla nuova università di Chicago fondata pochi mesi prima da John D. Rockefeller. Finalmente sembra che Veblen cominci ad «. ingranare» con la carriera. Ha infatti ormai alle sue spalle, con le pubblicazioni che viene accumulando, quel vuoto, quel gap di otto anni trascorsi immerso in lunghe quotidiane letture, quattro anni con la famiglia e quattro anni con la moglie a Stacyville, anni per lui preziosi, di solitudine e di maturazione, che costituiscono però un innegabile buco nel suo curriculum e che dai burocrati accademici gli vengono ottusamente rimproverati come anni in cui «non ha fatto nulla», anni in cui «non ha prodotto». A Chicago l’ascesa di Veblen non è travolgente, ma si direbbe che ce l’ha fatta a mettersi, per così dire, sull’escalator. Cioè si muove: da borsista (una fellowship di cinquecento dollari l’armo per tenere un corso di economia alla graduate school) viene promosso «reader», lettore, nel 1893 e diviene anche redattore del Journal of Politicai Economy; l’anno dopo è «tutor»; nel 1896 è promosso «instructor»; nel 1900, dopo il successo della Theory of the

Leisure Class uscita nel 1899, viene promosso «assistant professor»; la tenure, cioè il contratto fisso con la conseguente stabilità d’impiego, è ancora lontana, ma le prospettive di carriera sono ben aperte. Cominciano però le prime difficoltà. Non si tratta solo del fatto che il suo radicalismo non aiuta l’immagine che il pubblico si fa della nuova università. C’è anche, determinante, una storia di donne. Nel 1904 nel corso di un viaggio in Europa viene visto in compagnia di un’ammiratrice. Per Rockefeller che ha regalato ai contadini cinesi migliaia di lanterne purché vi brucino il suo petrolio il denaro non olet, ma sulle questioni di moralità il tartufismo puritanico dell’ambiente universitario non transige. Con il suo comportamento non conformista Veblen diviene d’un tratto una liability, un passivo che l’amministrazione accademica ritiene intollerabile. Al cancelliere Harper che gli fa compunto le sue rimostranze, ovviamente preoccupato della salute morale delle mogli dei colleghi, la leggenda vuole che Veblen risponda molto lentamente e sottovoce, in piedi davanti la scrivania, in pantaloni di velluto e una spalla più alta dell’altra: «Fve tried them ali. They are no good» (Le ho provate tutte; non valgono un bottone). Il tema dei rapporti fra Veblen e le donne è troppo ghiotto perché numerosi commentatori, in primo luogo Riesman, non vi abbiano dedicato un’attenzione assorbente. I risultati però non vanno di regola al di là dell’aneddoto. In generale va notato che l’atteggiamento di Veblen nei riguardi dell’altro sesso non ha nulla da spartire con quello di un altro sociologo radicale contemporaneo, C. Wright Mills. La «muscolarità» di Mills è anche a questo riguardo completamente estranea a Veblen. Mills ha l’atteggiamento ipervirile che fa sospettare un omosessuale represso; «usa» le donne con distacco e talvolta con crudeltà; abbandona la moglie non appena questa, in agguato per un anno nei gabinetti del grande magazzino di vendite Macy’s a New York, ha terminato di passargli gli appunti sulle conversazioni delle commesse colte a volo, appunti ed osservazioni essenziali per l’autore di White Collar. Veblen, che può dall’esterno apparire un incorreggibile dongiovanni, è in verità la vittima: «What can you do when women move on you?» (Che fare quando le donne ti cadono addosso?). Sta di fatto che a Chicago la carriera di Veblen viene interrotta fra l’altro anche a causa di storie di donne. Più tardi, nel dicembre 1909, già separato da Ellen Rolfe, associate professor a Stanford grazie a David Starr Jordan con uno stipendio rispettabile di tremila dollari l’anno, è costretto a dimettersi in

seguito allo scandalo provocato dalla presenza di un’amica nel suo cottage. Le prime difficoltà con la moglie risalgono al 1894, ma il dissenso con Ellen si acuisce verso il 1904; nelle mani di lei finiscono molte lettere di ammiratrici e si ha una serie di periodiche rotture e di pacificazioni, generalmente su iniziativa di lui. Agli occhi di Veblen pare che il difetto principale di Ellen sia la scarsa propensione ai lavori domestici e in generale le sue non brillanti doti di casalinga. Veblen non ripeterà l’errore di sposare una donna che gli è superiore come origine sociale; il suo matrimonio nel 1914 con Anne Fessenbenden Bradley, divorziata con due figlie, una delle quali accompagnerà Veblen fino alla morte, rispecchia il bisogno d’una casa ben tenuta e fors’anche d’una infermiera a portata di mano. Non che tutto fili liscio neppur questa volta: Anne è una seguace fervente delle idee del marito, convoca riunioni di amiche radicali e outspolen quanto lei, riunioni che hanno il potere di far andare Veblen su tutte le furie e di farlo scappare da casa a precipizio. Ma Anne non disarma: educa le figlie seguendo alla lettera i precetti della «teoria della classe agiata»; le mode correnti le servono da controindicazione: gonne corte quando vanno lunghe; capelli lunghi quando è di moda l’acconciatura alla maschietta. L’identificazione con le idee e il ruolo sociale del marito è così forte che nel 1919, nel clima di caccia alle streghe che si è determinato con la rivoluzione sovietica e la conseguente «red scare», Anne dà segni di mania di persecuzione, viene internata in un sanatorio nel 1919 e vi muore nel 1920. Lo stesso anno Veblen lascia New York e va in California. Qui trova la sua log cabin, il suo cottage, recinto da una siepe che ne rende impossibile l’accesso: durante la sua assenza e nel corso di varie compravendite il suo cottage deve essere stato per errore compreso nella terra di qualche nuovo proprietario. Veblen in uno scatto di collera sfonda la siepe e lo fa letteralmente a pezzi con le sue mani distruggendolo. Dopo questo episodio inizia a scrivere Absentee Ownership. È l’ultima decade della vita di Veblen, piuttosto amara; tiene un corso alla New School for Social Research, ma non ha serie offerte alternative; i tecnocrati lo deludono; fallisce un tentativo presso alcune università scandinave; dal 1923 un suo ex-studente di Chicago contribuisce al suo mantenimento con cinquecento dollari l’anno; rinuncia a un viaggio in Inghilterra per mancanza di fondi; rifiuta l’offerta di designazione a presidente per un anno l’American Economic Association; rifiuta l’offerta di tenere una serie di lezioni alla Broo\ings Graduate School. Morta nel 1926 la prima moglie, con cui era sempre rimasto in contatto

epistolare, Veblen torna in California con la figliastra Becky e si stabilisce nella casetta a suo tempo costruita da Ellen Rolfe a Palo Alto. Qui legge, come sempre, molto e si dà a lavori manuali; scrive l’ultimo articolo, «An Experiment in Eugenics» che viene respinto per la pubblicazione; vive ormai in una quasi completa solitudine, preoccupandosi del fallimento dei suoi investimenti nell’industria dell’uva passa e nelle azioni petrolifere, e viene a morte per collasso cardiaco il 3 agosto 1929, pochi mesi prima dello scoppio clamoroso della «grande crisi» da lui preannunciata.

IV Qual è la tesi centrale, il nucleo del pensiero di Veblen? A mio giudizio, il problema centrale di Veblen è dato dall’innovazione tecnica e dalle ripercussioni economiche, sociali e intellettuali di essa. Partendo da tale nucleo è forse possibile dare un rapido profilo dei passaggi logici di un pensiero che a ragione viene considerato non sempre perspicuo nell’espressione, indiretto nelle intenzioni, equivoco talvolta pur nell’estrema eleganza formale. Brevemente: al centro è dunque la tecnica intesa come un modo particolare di trasformare la natura e di produrre ricchezza. La tecnica così intesa non è in fondo altro che scienza applicata. Di qui il posto privilegiato che la scienza e l’abito mentale scientifico occupano nel sistema vebleniano; la scienza ha una funzione sociale rilevante ed è alla radice della lunga, dura polemica di Veblen contro il concetto di «leggi» e di «diritti naturali» (cioè: tutti i diritti sono storici, quindi sono soggetti alla legge dell’evoluzione storica; non vi sono diritti eterni, ivi compreso quello della proprietà privata). Ma l’adozione dei procedimenti meccanici e dei mezzi tecnici su vasta scala implica, argomenta Veblen, una completa rivoluzione mentale, al livello degli individui, e una completa rivoluzione strutturale, al livello delle istituzioni: si tratta di passare dalla tradizione alla ragione come criterio di legittimità, ossia si tratta di riconoscere e di dare la preminenza al nesso causa-effetto sugli abiti mentali antropomorfici, animistici, predatorii, prerazionali e sulle forme istituzionali che ad essi corrispondono. Di qui l’importanza che Veblen annette alla «disciplina della macchina». Di qui inoltre l’importanza del luogo in cui la disciplina della macchina trova la sua compiuta espressione, cioè l’azienda. Di qui infine la spaccatura, nel

corpo stesso dell’azienda e in generale nelle strutture e nelle operazioni economiche, in due grandi campi: quello degli ingegneri, dei tecnici, dei razionalizzatori, dei capitani d’industria, cioè dei produttori in senso proprio, e quello dei capitalisti dinastici, dei capitani d’affari, dei predoni della finanza, interessati a speculare e a consumare, non a far progredire la logica della produzione. A ben guardare, tutte le opere di Veblen sono un commento, talvolta allusivo e ironico, tai’altra mordace fino all’amarezza, di questi due grandi campi o tipi sociali: da una parte gli interessi consolidati, i parassiti, dall’altra gli organizzatori della produzione, i tecnici, al limite il «soviet degli ingegneri». La concezione sostanzialmente dicotomica di Veblen emerge con chiarezza fin dalla Teoria della classe agiata1. La tesi, cui abbiamo più sopra accennato, è in verità molto semplice ed è possibile ridurla a poche scarne proposizioni: in tutte le epoche che ci sono note i gruppi umani che son riusciti a oltrepassare la linea della mera sussistenza non si valgono per solito dei beni di cui dispongono per scopi utili2. Questi gruppi non appaiono preoccupati di vivere meglio, più saggiamente e con maggiore intelligenza. Non si pongono il problema della «retta vita» e neppure quello del «tempo libero». Essi appaiono completamente assorbiti da un pensiero dominante: mettere davanti agli occhi degli altri e costringerli a «realizzare» il fatto che essi dispongono di beni in misura sovrabbondante, arrivando a istituire fra sé e gli altri un vero e proprio «confronto antagonistico». I vari modi con cui la «classe comoda» o «agiata» (leisure class), ossia i gruppi socialmente privilegiati, mirano a impressionare gli altri e a porre le premesse, psicologiche e di fatto, per dar luogo al «confronto antagonistico» sono da Veblen indicati complessivamente con la formula «sciupìo vistoso» (conspicuous wasté). Ed è probabilmente nelle descrizioni, accuratissime e distaccate come si conviene a opera di scienziato, delle irrazionali o gratuite linee di condotta della classe agiata e della sua «etica del consumo onorifico» che Veblen dà fondo alle proprie risorse di stilista consumato, costruendo pazientemente frasi a lento svolgimento, ripiene di parole polisillabiche di origine latina, in cui il rimando intenzionale, le allusioni e la parodia hanno modo di crescere e caratterizzarsi per via di successive sovrapposizioni fino alla spietata definizione dei particolari più minuti, in una vena critica apparentemente infinita. Le descrizioni vebleniane, sorrette da un’informazione straordinariamente varia ed estesa, recano analisi ed esempi da tutte le epoche e da tutti i paesi, dalla pratica di atrofizzare i piedi delle nobildonne cinesi, sì da poter loro garantire la più assoluta, fisica

incapacità di adempiere a quelle mansioni e a quei lavori che sono invece riservati al volgo, collocandole per ciò stesso infinitamente al di sopra della folla dei comuni mortali, al mesto caso di quel re di Francia che, vero martire della «buona forma», «nell’assenza del funzionario incaricato di trasportare il seggio del suo signore, sedette senza lamentarsi di fronte al fuoco del caminetto e permise che la sua reale persona venisse tostata al di là di ogni possibilità di recupero». «Ciò facendo tuttavia — conclude Veblen — egli salvò la sua Maestà Cristianissima dalla contaminazione del lavoro manuale (menial contamitiation)». Sembrerà di leggere le boutades di un’erudizione spensierata se non irresponsabile. Si tratta invece, a ben guardare, di colpi piuttosto temibili che Veblen porta implacabilmente contro gli idola prediletti degli economisti classici, in particolare di Alfred Marshall e della Scuola austriaca, certi che lo svolgimento dei processi economici e sociali abbia luogo sulla trama di una «legge naturale», di un superiore, prestabilito disegno. Veblen svela quanto poco razionale nella realtà sia quel loro razionalissimo manichino dell’homo oeconomicus. Le esemplificazioni addotte da Veblen sono tutte gustose, ma è forse nel capitolo decimo della Teoria della classe agiata, dedicato alle attività sportive, che Veblen riesce a cogliere nel modo più convincente in atteggiamenti e in comportamenti odierni il riflesso o la sopravvivenza di abitudini di vita e di abiti mentali predatori, prerazionali e premoderni. Per Veblen, nonostante l’abbondante letteratura intorno allo sport come attività igienica o stimolo ad una vita moralmente ordinata — il vecchio cliché della mens sana in corpore sano — le attività sportive sono integralmente sussunte nello schema produzione-scambio, tipico della società nella quale operiamo, e ad esse si applica pertanto il criterio di giudizio dello «spreco vistoso» e del «confronto antagonistico». Possiamo qui osservare che in una società in cui la produzione sia divorziata rispetto al consumo, il consumo diviene una necessità. Per un’interessante perversione dialettica, si entra in un circolo vizioso e autogenerantesi per cui l’esigenza più alta, e più onorifica, consiste nel consumare, non importa cosa o come, per poter continuare a produrre e a tenere le ruote del mercato in movimento, indefinitamente. Le attività sportive di massa, così come oggi le conosciamo, non si sottraggono a questo schema. All’origine, esse sono tuttavia un prodotto tipico del modo di vita della classe agiata. Nel linguaggio di Veblen, esse costituiscono «le sopravvivenze moderne dello spirito di prodezza».

«Il terreno favorevole per dedicarsi ad una attività sportiva — commenta Veblen — è (infatti) una costituzione spirituale di tipo arcaico — ossia il possesso, in un grado piuttosto alto, di una disposizione emulativa predatoria (predatory emulative pro peti sity)». Egli scopre la molla di ogni attività sportiva nella persistenza di abiti mentali in arretrato rispetto all’evoluzione strutturale delle istituzioni, le quali trovano tuttavia il modo di soddisfare le proprie esigenze obiettive, per esempio il consumo, servendosi anche di tali «sopravvivenze arcaiche». Le attività sportive, secondo Veblen, come del resto tutte le manifestazioni rilevanti, per un verso o per l’altro, del temperamento predatorio sono caratterizzate dal loro oggetto ultimo che sempre è costituito da una qualche specie di exploit. Come tali, da una parte esse possono venire considerate come «espressioni semplici, non riflesse di un atteggiamento di ferocia antagonistica»; dall’altra, possono ben essere un tipo di attività al quale ci si dedica deliberatamente per accrescere il proprio prestigio (with a view to gaining repute for prowess). In questa duplice categoria Veblen comprende praticamente tutte le attività sportive, dalle corride alle partite di caccia e pesca, dall’atletica leggera al rugby, al foot-ball, e così via. L’elemento comune a queste attività, pur differenti quanto alle regole e all’equipaggiamento tecnico, è dato dalla loro «bellicosità», che Veblen riconosce presente anche nel loro linguaggio e dalla loro fondamentale «inutilità», se non addirittura dalla tendenza a recare danno («sciupìo vistoso» attivo!). Naturalmente Veblen non è insensibile alle giustificazioni che gli sportivi, cacciatori e pescatori per esempio, adducono per le proprie attività. In particolare, si sofferma a considerare quelle ragioni che chiamano in causa «l’amore della natura» oppure «il bisogno di ricreazione». «Questi ovvi motivi sono sovente reali — riconosce — e aggiungono un’attrattiva supplementare alla vita dello sportivo; ma questi non possono essere i motivi determinanti. Infatti, tali ovvi motivi potrebbero indubbiamente venire soddisfatti più prontamente e completamente se non si accompagnassero allo sforzo sistematico di uccidere le creature che costituiscono parte essenziale di quella «natura» di cui lo sportivo si proclama innamorato». La conclusione di Veblen è che i motivi del bisogno di ricreazione e di vita all’aria aperta giocano probabilmente la loro parte, ma che a loro volta vengono asserviti all’osservanza di quel precetto dello «sciupìo vistoso» cui non ci si può sottrarre senza mettere a repentaglio la propria rispettabilità. Sarebbe di notevole interesse mettere a confronto una conclusione siffatta, che

scorge nelle tecniche sportive più raffinate ampi avanzi di antica barbarie, con le considerazioni di Theodor W. Adorno (cfr. Minima moralia, tr. it., Torino, 1954) intorno alle vacanze e al cosiddetto «ritorno alla natura». L’atteggiamento severamente critico di Adorno di fronte all’uomo moderno in slip, pronto a stravaccarsi e a confondersi nel «collettivo della spiaggia» è certamente affine, nonostante i due diversi orientamenti di fondo, dialettico l’uno, evoluzionistico l’altro, all’atteggiamento di Veblen: anche qui «la nuova barbarie non fa che smascherare la vecchia». Ciò che a noi interessa in questa sede è però l’elemento teorico che dall’esempio delle attività sportive si può ricavare per una comprensione del modo di procedere dell’analisi vebleniana. In essa è fondamentale la nozione di «scarto culturale», o cultural lag, e quella, strettamente concomitante, di «sopravvivenza». La polemica anti-giusnaturalistica e anti-razionalistìca. soprattutto anti-edonistica, di Veblen trova il suo fondamento in una concezione della natura umana che va chiarita. Le esemplificazioni che nella Teoria della classe agiata toccano con sovrana indifferenza e un gusto provocatorio per la contaminazione temi diversi, dall’uso delle bevande alcooliche alle pratiche devote, alle scommesse sui cavalli e al vario ritualismo superstizioso che accomuna agli occhi di Veblen bigotti e gangsters, puntano chiaramente alla contrapposizione più o meno latente e drammatica fra istinti e istituzioni; per esempio, fra istinti produttivi, riassunti nello schema dell’istinto dell’operosità o dell’efficienza, e istituzioni parassitarie (si veda per questo specialmente The Theory of Business Enteprise e The Engineers and the Price System e, con riguardo alla vera e propria teorizzazione, The Instinct of Workman-ship) fra l’istinto o la tendenza alla «curiosità pigra» (bent of idle curiosity) che per Veblen è alla base delle ricerche di scienza pura, e la struttura commercialistica e utilitaria delle università, per cui è fondamentale The Higher Learning in America e alcuni dei saggi più importanti di The Place of Science in Modem Civilization3. Per Veblen l’uomo è un essere agente in senso teologico, cioè una «struttura coerente di proclività e di abitudini che cerca realizzazioni ed espressioni in un’attività che si sviluppa» (a coherent structure of propensities and habits which sees realization and expression in an unfolding activity). Contrariamente ai postulati edonistici degli economisti classici, l’uomo vebleniano è assai più homo faber che homo economicus; vi è in lui una spinta

a fare che dà luogo ad una accumulazione di abitudini mentali ed operative in costante processo di trasformazione sia nei confronti dell’ambiente che con riguardo agli stessi individui agenti. In questo senso, il gruppo e il comportamento di gruppo ricorrente, cioè l’istituzione, sono per Veblen determinanti e forse si colgono qui i riflessi dell’insegnamento sumneriano: il gruppo pesa sull’individuo; le forme istituzionali sono risposte cristallizzate alle esigenze poste dalle condizioni materiali di vita per la sopravvivenza e per la perpetuazione dei gruppi umani sotto il duplice profilo di mere consuetudini collettive non riflesse oppure di mores cioè di comportamenti legittimati e resi vincolanti da valori variamente in iemalizzati. Ciò che ad ogni buon conto non va mai perso di vista è l’influsso determinante sulla condotta e sugli atteggiamenti dell’individuo delle abitudini, dei valori, degli interessi, delle norme più o meno esplicite e dei mezzi tecnici del gruppo cui l’individuo appartiene. Siamo dunque in presenza di una forma di determinismo a sfondo economico? Sembrerebbe difficile negarlo. Ma il determinismo vebleniano mostra all’analisi caratteristiche peculiari. Nessun dubbio che in Veblen anche le istituzioni non economiche siano influenzate in certa misura dall’interesse economico. Ma tale onnipervasività del momento economico Veblen non la vede legata ad una reale, oggettiva preminenza del fattore economico nella vita individuale e sociale, come invece ritiene Marx, bensì la vede scaturire dalla fondamentale interconnessione dell’esperienza umana intesa come struttura vivente, storicamente capace di evoluzione. Ciò non significa che Veblen ceda ad un’impostazione psicologistica. Il quadro teoretico di Veblen è complesso e sfugge irrimediabilmente alle interpretazioni dilemmatiche del tipo determinismo-indeterminismo, strutturalismo-psicologismo. Anche se Veblen rifiuta un’impostazione dialettica, fedele com’è allo schema darwiniano e spenceriano d’una evoluzione cumulativa e meccanicamente determinata, priva di scatti aprioristicamente prevedibili, il rapporto fra gli abiti mentali e lo schema istituzionale che si fonda su di essi è un rapporto a due vie, si potrebbe anche dire di reciproco condizionamento se si avesse l’avvertenza di aggiungere che tale condizionamento non si realizza in senso puramente orizzontale e statico ma piuttosto lungo una spirale di continue, problematiche tensioni. Cioè: gli abiti mentali, solidificandosi sotto forma di abitudini sociali e di modelli di comportamento sanzionati dall’approvazione, formale o informale, della comunità, danno vita alla struttura istituzionale della società; questa, a sua volta, dopo essersi costituita e stabilizzata, agisce come un

potente fattore selettivo degli abiti mentali individuali e di gruppo, plasmandoli con la propria influenza, diretta o indiretta. Secondo Veblen, il moto evolutivo della società è dunque dato dalla interazione fra abiti mentali e schema istituzionale, la quale non ha peraltro luogo in vacuo bensì nel quadro delle condizioni ambientali che a loro volta si trasformano. Queste trasformazioni ambientali richiedono una parallela trasformazione delle istituzioni e degli abiti mentali allo scopo di un adeguamento positivo. Ma è a questo punto che il peso e i legami della tradizione, la posizione di privilegio sociale relativo, in particolare l’esistenza di una classe di persone al riparo dalle nuove esigenze materiali poste dalle trasformazioni ambientali creano gli «scarti culturali» e le «contraddizioni istituzionali» che sono alla base della lotta economica e del disagio socio-psicologico della nostra epoca. Creano, in altri termini, un ritardo più o meno grave fra lo stadio raggiunto dalla tecnica produttiva, ossia dalla scienza applicata, espressione dell’istinto dell’efficienza, e l’insieme delle istituzioni tradizionali con il loro contorno legittimante di abiti mentali, atteggiamenti e valori. Per Veblen, che non ha bisogno dell’insegnamento di Spengler o di Toynbee per porsi come oggetto di analisi civiltà o culture globalmente intese, il momento tecnico è, nello sviluppo delle società umane, il momento nettamente prioritario. Ciò che egli propone, benché mai in termini espliciti, è una teoria tecnologica dello sviluppo storico. È chiaro che si tratta di una priorità relativa che non va assolutizzata pena il fraintendimento totale dell’intento e della costruzione teoretica della sociologia veblianiana. Ma nessun dubbio che per Veblen, come per Peirce e più tardi Dewey, gli abiti mentali (la cultura) dipendano dalle occupazioni e dalle specifiche attività esercitate. Di qui il primato (relativo) della tecnica come scienza applicata. Come al solito, gli esempi addotti da Veblen, per provare la connessione fra tecnica, scienza applicata, servizio alla comunità, declino degli atteggiamenti predatorii e condizioni di pace chiamano in causa intere epoche storiche, vanno dalla Grecia classica al Rinascimento, alla Gran Bretagna e all’esperienza degli Stati Uniti. A suo giudizio, l’avvento dell’era della tecnica, cioè della meccanizzazione su vasta scala, è destinato a rivoluzionare la struttura istituzionale e gli abiti mentali ereditati dal passato. Esso costringe i gruppi umani, ancora essenzialmente animistici e antropomorfici nelle loro rappresentazioni della realtà, a prendere coscienza del rapporto di causalità impersonale intercorrente fra i fenomeni. Entra qui in gioco, potente e onnipresente come linea di tendenza, la

«disciplina del processo della macchina» (discipline of the machine process). Questa «disciplina» viene descritta nella maniera più diretta e compiuta nella Theory of Business Enterprise, specialmente nei capitoli II, IX e X. «Là dove la destrezza manuale — scrive Veblen — la regola del pollice e le congiunture accidentali delle stagioni sono state sostituite da una procedura ragionata sulla base di una conoscenza sistematica delle forze impiegate là si trova l’industria meccanica anche in assenza di complessi strumenti meccanici. È una questione riguardante la natura del processo piuttosto che la complessità dei mezzi tecnici impiegati» (The Theory of Business Enterprise, p. 6). Veblen è chiaramente consapevole che il processo di industrializzazione, anche nelle fasi incipienti, è necessariamente un processo sociale globale o, come ama dire, all-pervading, cioè onni-pervasivo. Egli scorge tuttavia nel processo industriale due fondamentali caratteristiche: a) la continua cura per il mantenimento degli adattamenti interstiziali fra i vari sotto-processi o settori dell’industria ovunque vengano in contatto l’uno con l’altro nello svolgimento dell’attività industriale, che è qui correttamente concepita come un continuum; b) un’implacabile richiesta di precisione quantitativa e di accuratezza con riguardo al ritmo di lavoro e alle fasi produttive, all’energia, ai materiali e a tutta la struttura tecnica. Questo bisogno di accuratezza e di precisione ai fini produttivi, specie per una produzione non oscillante ma ordinata e attendibile, viene visto da Veblen come un fattore potente di uniformità e di standardizzazione e di vari adattamenti ad essa collegati, uniformità e standardizzazione che non si limitano a investire i prodotti ma coinvolgono inevitabilmente anche i servizi, le abitudini di svago, i mezzi di comunicazione, i rapporti interpersonali almeno di quella parte dell’umanità che appartiene al mondo urbano industriale. La disciplina delle macchine non è dunque altro che l’aspetto saliente di un sistema industriale che a Veblen si presenta come «una concatenazione di processi», comprensivo ed equilibrato nel senso che una qualsiasi interferenza in un qualsiasi punto o settore di esso si allarga al di là della zona direttamente interessata e finisce per ripercuotersi con effetti più o meno profondi e duraturi su tutto l’insieme. Questa «disciplina» opera naturalmente contro l’intelligenza «poetica» del mondo e in generale dell’esperienza umana: opera cioè contro le concezioni antropomorfiche, animistiche, magiche. Se tiro questa leva, ottengo questo effetto; se premo questo bottone, la macchina si mette in moto. La gente che

lavora, non certo la classe agiata, commenta Veblen, scopre così e si abitua a pensare e ad agire in base al nesso causa-effetto. Che vuol dire? Che diventiamo tutti scientifici? E che con ciò saremo più felici? Che l’umanità passerà dal regno della necessità con un gran salto al regno della libertà? Sogni; evoluzionistici o dialettici, sempre sogni. Per Veblen non vi sono garanzie precostituite per lo sbocco ottimistico dello sviluppo sociale. Contrariamente a Marx, Veblen non ritiene di poter fidare in alcuna illusione avveniristica. Sia in Veblen che in Marx la concezione dell’uomo è una concezione «attiva», richiama l’immagine di un animale operante e istituzionale, di un infaticabile ideatore e costruttore. Mentre però Marx ne delinea, proiettato nel futuro, un quadro tutto sommato idillico, di perfetta integrazione sì che momento estetico ed economico-utilitario appaiono fusi di là da ogni contraddizione in una splendida onnidimensionalità («l’uomo sarà cacciatore al mattino, pescatore nel Domeriggio», ecc. ecc.), per Veblen il quadro è diverso, più realistico: vige una disciplina, onni-comprensiva, cioè (Veblen non lo dice ma lo si può legittimamente ricavare dai suoi testi) transideologica, con effetti emergenti ovunque il processo meccanico faccia la sua comparsa storica; vige dunque una disciplina, razionale fin che si vuole, ma al fondo grigia, legata all’opaca sequenza causa-effetto, com’è grigio e opaco il continuum meccanicamente cumulativo cui si riduce il processo sociale. La razionalità, cioè il carattere di causalità impersonale, della disciplina delle macchine e del processo industriale non ha secondo Veblen nulla da spartire con gli «uomini d’affari» che all’apparenza ne reggono le sorti. Anzi, questi ultimi, indicati con tutta una serie di colorite designazioni, guadagnano e prosperano solo nella misura in cui riescono a interferire nella conduzione razionale dell’impresa industriale e nello svolgersi della logica produttiva per crearvi difficoltà operative, facendo generalmente ricorso a manovre finanziarie, e poter quindi speculare sulle oscillazioni dei prezzi che ne derivano. «Nella corrente teoria economica — scrive Veblen, prendendo come al solito le cose piuttosto alla larga — si parla dell’uomo d’affari sotto il nome di «imprenditore» o «undertaker» e si ritiene che la sua funzione consista nel coordinare i processi industriali allo scopo di accrescerne l’utilità e di operare economie. Non è il caso di saggiare la giustezza di questa opinione. Ha un notevole valore sentimentale ed è anche utile sotto molti aspetti. C’è anche in essa un pizzico di verità in rapporto alla situazione di fatto… Come gli altri uomini anche l’uomo d’affari ha una qualche frazione di istinto dell’efficienza.

Nessun dubbio che tale aspirazione muova il grande affarista con minore urgenza di molti altri che hanno peraltro minor successo negli affari (op. cit., p. 41). E più avanti: «il lavoro (dell’uomo d’affari) di mantenere e di disturbare gli adattamenti interstiziali (del flusso produttivo) non mira alla produzione di beni come alla sua fonte di guadagno, ma alle mutazioni di valore implicite nelle alterazioni della condizione di equilibrio. … Questo lavoro si colloca nel mezzo, fra le iniziative commerciali in senso proprio, da un lato, e l’impresa industriale nel senso più stretto, dall’altro» (p. 49). L’uomo d’affari dunque lucra, secondo Veblen, non producendo a costi minori i beni più richiesti e più utili alla comunità, sibbene approfittando delle strozzature produttive da lui stesso provocate e dalla penuria relativa di beni così ottenuta. La sua non è la logica della produzione, ma il capriccio della speculazione. Si ha così il grottesco, assurdo esito d’una situazione oggettiva tecnicamente assai avanzata, dotata di una sua logica lineare ed ineccepibile, che è però dominata, in base ai «diritti naturali» e in primo luogo al principio della proprietà privata, da persone, gli affaristi, i «capitani della finanza», i quali sono mossi da grossolane sopravvivenze dello spirito di prodezza, non capiscono la logica produttiva, sono destinati a scontrarsi sempre più duramente con gli organizzatori funzionali del processo produttivo (i tecnici, gli ingegneri), non vedono mai il benessere della comunità, ma ragionano semplicemente in termini di perdite e guadagni personali o, al più, familiari, cioè dinastici. A questo fine ciò che per loro conta non sono il miglioramento, tecnico, dei mezzi di produzione e la qualità e utilità dei beni prodotti, ma unicamente la loro «vendibilità» a un prezzo remunerativo, cioè tale da consentire un «ragionevole profitto». Di qui le campagne pubblicitarie, il cui intento fondamentalmente mistificatorio e manipolativo trova in Veblen un puntuale e deciso accusatore; di qui inoltre la preminenza dei criteri puramente finanziari di gestione al di sopra di quelli produttivi; di qui, logicamente, la contrapposizione, scandalosa per gli economisti ivi compresi i più audaci, come Joseph A. Schumpeter, pronti a riconoscere nel «businessman» il titanico demiurgo dei nostri tempi, fra investimento produttivo e investimento finanziario -— certamente uno dei punti più controversi della teoria economica vebleniana; di qui l’insanabile contrasto fra disciplina della macchina, progresso tecnico-industriale in senso proprio, e princìpi affaristici, «virtù» borghesi (senso della proprietà privata, risparmio, dissimulazione); di qui, in una parola, la tensione, nella quale per una volta con troppo ottimismo Veblen legge i segni dell’avvenire, fra

proprietari e tecnici. Daniel Bell si è a questo proposito divertito a ricercare precursori fra i riformatori utopisti francesi, e i nomi d’obbligo sono naturalmente Fourier e Saint-Simon4. Ma il parallelo mi sembra insostenibile. Qui non ci sono di mezzo falansteri o parlamenti industriali di tecnici da opporsi ed eventualmente sostituirsi alle strutture politiche tradizionali. La dicotomia vebleniana richiama piuttosto, con ben maggior fondamento, Marx. Senonché, mentre per Marx la contraddizione è fra rapporti di proprietà dei mezzi di produzione e rapporti tecno-sociali del processo di produzione, per Veblen il contrasto si profila insanabile e sempre più profondo fra logica della produzione, fondata sul nesso causa-effetto, e proprietà privata delle aziende, fondata sul sistema non funzionale, provvidenzialistico dei diritti naturali. Marx, in base a quella contraddizione e ai suoi inevitabili corollari, prevede e a gran voce preannuncia la «rottura finale complessiva» del sistema capitalistico (la Zusammenbruchtheorié); Veblen in base a quel contrasto avanza timidamente e non senza ambiguità l’opinione di una «decadenza naturale dell’impresa d’affari» (si veda il capitolo conclusivo della Theory of Business Enterprise)5. Per Marx si tratta di una promessa, per così dire, della dialettica; per Veblen non si danno certezze, neppure relative, tanto meno si danno appuntamenti storici: il dilemma resta aperto; il proletariato è assente, se non addirittura proclive a darsi prigioniero alle «tendenze sportive e predatorie» delle politiche reazionali dinastiche; i tecnici, gli ingegneri, in cui l’ultimo Veblen sembra per un attimo fidare, risolvono i propri umori «rivoluzionari» nella predicazione e nell’applicazione pratica, in termini di disciplina aziendale, dei princìpi dell’organizzazione scientifica del lavoro che avevano trovato in Frederick Win-slow Taylor il loro puritanico, autoritario apostolo. È forse sufficiente questo epilogo, amaro e ironico a un tempo, a sottolineare la debolezza concettuale e pratico-politica dello schema dicotomico vebleniano. Resta tuttavia pienamente valida e attuale, oggi, l’intenzione che lo muove, vale a dire il richiamo alla necessità di determinare, chiarire e interpretare i meccanismi effettivi di manipolazione del potere, il cm locus reale tende a nascondersi e in ogni caso non coincide necessariamente con le definizioni formali correnti. FRANCO FERRAROTTI 1. È stata la prima opera di Veblen tradotta in italiano e pubblicata nel 1949 per i tipi dell’editore Einaudi. La traduzione era stata affidata allo scrivente di Cesare Pavese. Uscita nei primi giorni del gennaio 1949, già il 15 dello stesso mese nel «Corriere della Sera» Benedetto Croce la stroncava

violentemente decretandone la «completa ottusità»; cfr. ora in B. C, Terze pagine sparse, Bari, 1955, pp 133136. La cosa ebbe un séguito polemico, per cui si vedano le osservazioni in «La Critica sociologica», 5, primavera 1968, pp. 129-130; alla polemica parteciparono all’epoca Antonio Giolitti e Vittorio Angiolini (cfr. «Critica economica», 3, 1949, p. 100). Su «Rivista di Filosofia» ebbi allora modo di intervenire con due saggi, La sociologia di Th. V., «Riv. Fil.», voi. 41, 1950, pp. 402-419; Un critico americano di Marx, «Riv Fil.», voi. 42, 1951, pp. 154-163. È da notare che di questa prima presentazione del pensiero di Veblen in Italia non fa cenno il libro, pur ampio e documentato, di Mino Vianello, Thorstein Veblen, Milano, 1961. Una nota interessante su Veblen, in particolare sullo instinct of workmanship, si trova nei quaderni di A. Gramsci, che ne discute riferendosi alla «gioia nel lavoro» di Henri de Man e prendendo lo spunto da un articolo di Arturo Masoero, Un americano non edonista, «Economia», voi. 7, 2 febbraio 1931, pp. 151-172. 2. Si veda in proposito il mio saggio Un sociologo e gli sports, in «Centro sociale», n. 7, 1956. 3. A proposito del concetto di «natura umana» da intendersi in senso storico e da non ipostatizzarsi in senso dogmatico mi si consenta di rinviare il lettore ai miei due saggi più sopra citati. 4. Cfr. D. BELL, «Introduzione» alla ed. Harbinger di The Engineers and the Prìce System, New York, 1963, pp. 2-35. 5. Cfr. in proposito W. C. FREDERICK, Was Veblen righi about the Future of Business Enterprise?, in The American Journal of Economics and Sociolog), vol. 24, 3 luglio 1965, pp. 225-240; l’Autore non pone correttamente il problema, se ne rende conto e non arrischia alcuna risposta.

NOTA BIOGRAFICA

1857 Thorstein Bunde Veblen nasce il 30 luglio in una fattoria nei dintorni di Cato, nel Wisconsin (Manitowoc County), sesto di 12 figli (quarte maschio) di Thomas Anderson Veblen e Kari Thorsteins-datter Bunde, assumendo il nome del nonno materno, Thorstein Bunde. Ambedue i nonni paterno e materno di Veblen erano stati piccoli proprietari terrieri norvegesi che si videro costretti da artifici legali a cedere lo proprie fattorie, riducendosi così allo status subordinato di fittavoli, in particolare il nonno paterno Andris Haldorson Oigare si era stanziato nella fattoria chiamata Veblen, nella vallata di Valders, il cui nome sarebbe stato poi riesumato dal figlio. Nel 1847, in seguito alla depressione che colpiva l’agricoltura norvegese, il padre di Veblen era emigrato con la famiglia negli Stati Uniti, più precisamente nel Wisconsin; qui aveva acquistato nel 1849 una fattoria nella Sheboygan County, che poi cedette in cambio di un’altra più vasta a Cato; dove appunto nacque Thorstein, in una comunità formata di soli norvegesi, i cui contatti con l’esterno erano assai ridotti; solo la madre di Veblen conosceva l’inglese, ma non aveva occasione di usarlo, e Thorstein arriverà all’età di 17 anni e completerà l’istruzione primaria senza conoscere altra lingua che quella dei suoi antenati. 1864 La famiglia si trasferisce in una nuova, più ampia fattoria di 290 acri (circa 117 ettari) a Wheeling, nella Rice County (Minnesota). In questa occasione, Thomas Anderson assume il cognome Veblen, secondo l’uso norvegese che consentiva ai soli proprietari terrieri la distinzione di aggiungere al primo nome e al patronimico il nome della fattoria posseduta. Il padre di Veblen viene ricordato come taciturno, cauto, equilibrato

e distaccato; la madre per contro possedeva una personalità dominante, caratterizzata da una viva e calda religiosità e da un intuito penetrante. Ambedue esercitarono una profonda influenza sul giovane Thorstein, il quale usava dire di non aver conosciuto nessuno in grado di esprimere giudizi approfonditi più di suo padre, da cui gli derivò buona parte del suo atteggiamento caustico e critico verso k classe agiata parassitaria. 1874 Thorstein entra al Carleton College Academy, a Northfield, dove già da tre anni compiva gli studi medi superiori il fratello maggiore Andrew. L’istruzione dei figli costituiva invero una delle massime ambizioni del padre, che divisava di destinare Thorstein alla vita sacerdotale. Il Carleton College era infatti fortemente permeato dalla impronta religiosa tradizionale agli studi superiori. Gli insegnanti erano per lo più dei religiosi, congregazionalisti della Nuova Inghilterra, e gii insegnamenti fondamentali non si discostavano dall’ambito dei classici, della religione e della filosofia morale. Il sistema filosofico accettato era quello del senso comune, fondato da Thomas Reid delia chiesa presbiteriana di Scozia, che aveva i suoi massimi esponenti in William Hamilton, H. L. Mansel, James Me Cosh, Laurence Hickok e Joseph Haven. Esso faceva appello al-1 immutabile senso comune dell’umanità per convalidare le fondamentali verità rivelate, auto-evidenti e non necessitanti ulteriori dimostrazioni; e sosteneva il carattere naturale ed etico del diritto di proprietà, istituito da Dio per il bene dell’uomo, nonché la rispondenza ai canoni di natura dell’ordine sociale esistente. Kant, Stuart Mill e Spencer erano ovviamente banditi da questo contesto. Veblen studiò economia sul vecchio testo del Vescovo Francis Wayland, riveduto e aggiornato dal Rev. A. L. Chapin quarant’anni dopo la sua pubblicazione in quanto ritenuto del tutto adeguato. L’unico insegnante del Carleton che influenzò Veblen in senso positivo fu John Bates Clark, in teoria docente di filosofia morale, che in realtà indirizzava i suoi interessi soprattutto verso la scienza economica, seguendo la sua aspirazione verso una forma di vago socialismo compatibile con l’ordine naturale fondato sulla proprietà. Per tutta la durata dei suoi studi, ostacolato inizialmente dalle difficoltà di imparare la lingua e una corretta pronuncia, Veblen non sa inserisce nell’ortodossia dell’ambiente, si sente a disagio sia nella

fattoria paterna che nel college; in compenso legge moltissimo, soprattutto Kant, Spencer, John Stuart Mill, Hume, Rousseau, Huxley, Tyndall; studia con il fratello le antiche sagre norrene e islandesi e le opere di William Morris e impara il tedesco. Il giovane si distingue per il suo spirito sardonico, che gli aliena gli insegnanti — con l’eccezione di Clark — e molti tra gli studenti; in particolare si fa notare per l’abilità nell’affibbiare indovinati nomignoli canzonatori, come per le esercitazioni retoriche lette in pubblico su temi quali «In difesa del cannibalismo», «Apologia di un beone», «La scienza del riso», una caratteriologia basata sulla forma del naso, un carmen in latino in lode di Bacco, ed altri sull’assenza di socialità nella vita studentesca e il prezzo del grano. A Carleton ha inizio l’idillio con Ellen Rolfe, nipote del rettore James W. Strong e di William B. Strong, magnate delle ferrovie del Middle West, studentessa intelligente e brillante, anche se introversa e facile alle fantasticherie. 1880 Veblen ottiene, con un anno di anticipo, il diploma di Bachelor of Aris, con ottimi voti, tenendo una dissertazione sulla critica di Mill alla filosofia di Hamilton. Il fratello Andrew gli procura un posto di insegnante alla Monona Academy (Madison, Wisc.) che dipendeva dal sinodo norvegese; alla fine dell’anno però questa chiude i battenti. In questo periodo Veblen assiste a una serie di conferenze di Hjalmar Bj0rnson, eroe nazionale norvegese. 1881 Andrew e Thorstein si iscrivono alla Johns Hopkins University, a Baltimora. Thorstein, studente di filosofia, trascorre un periodo a pensione presso una famiglia semiagiata di tradizioni aristocratiche, con un ménage di stile anteguerra di secessione (servi in livrea, ecc.); segue i corsi di H. B. Adams, G. S. Morris, Charles Peirce, e quelli di economia politica di Richard T. Ely, concorrendo senza successo ad una borsa di studio, con uno scritto sulla Teoria della tassazione della terra in J. S. Mill. 1882 Non essendo in grado di mantenersi a Baltimora, prima della fine del trimestre Veblen si trasferisce a Yale, dove rimarrà per due anni e mezzo integrando il suo magro bilancio con lezioni private. A Yale (Newhaven, Conn.) segue i corsi di William Graham Sumner e del rettore Noah Por ter, a cui si lega strettamente. È questo il periodo in cui la dottrina evoluzionistica e sociologica si va affermando, grazie

soprattutto a Herbert Spencer, che proprio in quell’anno visita Yale, dove il suo testo The Study of Sociology era stato fino a poco tempo prima vietato, mentre gli studi teologici predominanti sono in fase di graduale regresso e vengono tolti dal curriculum dei corsi obbligatori. 1883 Veblen vince il premio annuale John A. Porter di $ 250 con un saggio sul tema dell’impiego del surplus federale. 1884 Si laurea Doctor of Philosophy in filosofia con una tesi sui Fondamenti etici di una dottrina della ricompensa in cui si richiama a Kant e Spencer. Nello stesso anno, pubblica sul «Journal o£ Speculative Phiìosophy» articolo sulla Critica del Giudizio di Kant; e lavora alla traduzione di un volume di metafisica del kantiano Hermann Lotze per il Rev. George T. Ladd. Hanno inizio da questo momento le sue difficoltà nel reperire una sistemazione duratura, che lo perseguiteranno per tutta la vita; le sue origini norvegesi ed il suo sospetto agnosticismo fanno sì che Veblen si veda ripetutamente preferire come insegnanti dei laureati in teologia, in particolare alla University of Iowa. È costretto perciò a ritornare alla fattoria paterna, ove vive per 4 anni a carico dei genitori in apparente inattività, allegando a pretesto una pretesa cattiva salute. 1886 Si fidanza con Ellen Rolfe, reduce da una negativa esperienza di insegnamento in una high school; scrive articoletti a pagamento per giornali e riviste, si occupa di utensili agricoli e di botanica. Legge sempre moltissimo, e discute con il padre — che nel 1884 aveva persuaso a votare per il candidato democratico e liberoscambista Grover Cleveland, rompendo il tradizionale vincolo delle comunità norvegesi con i repubblicani. 1888 Viene celebrato il matrimonio con Ellen Rolfe, già rinviato in assenza di una sistemazione; gli sposi si trasferiscono in una fattoria di proprietà del suocero, a Stacyville, Iowa. Si profila brevemente per Veblen la possibilità di un impiego in qualità di economo nella Santa Fe Raiì Road, di cui era presidente lo zio di Ellen, W. B. Strong; possibilità che sfuma per sopraggiunte difficoltà aziendali, dovute al carico di costi fissi. I coniugi Veblen conducono una vita rurale appartata, dedicandosi a letture comuni. Veblen inizia la traduzione dall’islandese della Laxdaela Saga, che completerà negli ultimi anni della sua vita; e insegna per

breve tempo al Cedar Valley Seminary di Osage. 1889 Fallisce un rinnovato tentativo del fratello Andrew di trovargli un posto di professore di politicai science alla Università dell’Iowa: il posto — grazie anche all’ostilità dello zio di Ellen Rolfe, James Strong, — va a un Bachelor of Divinity. Analoga sorte subiscono altri tentativi per posti di ispettore scolastico a Warner, South Dakota; e di insegnante al St. Olaf College (norvegese). 1891 Veblen, inattivo ormai da 7 anni, attraversa un periodo di profonda depressione, che si conclude con la risoluzione di riprendere il lavoro accademico, se necessario anche come semplice studente; la scelta cade sulla Cornell University (Ithaca, N. Y.) dove si iscrive nell’inverno come graduate student for an advanced degree (corso post lauream) di economia. A Cornell ottiene, grazie all’appoggio di J. Laurence Laughlin, il noto economista seguace di John Stuart Mill, uno speciale sussidio per collaborare ai corsi di economia. Scrive il saggio Alcuni aspetti trascurati della teoria del socialismo, sulle origini economiche del disagio dell’epoca, prendendo lo spunto da uno scritto di Spencer; grazie ad esso ottiene una felhwship in economia e finanza di $ 400 per il 1892. 1892 Pubblica in questo periodo due note sul «Quarterly Journal of Economie s» in apparente sostegno della posizione di Laughlin e di J. S. Mill. Nell’autunno Laughlin viene nominato head professor of economics alla nuova università di Chicago, fondata Fanno precedente su finanziamento di John D. Rockefeller; e ottiene per Veblen una fellowship di $ 520 per tenere un corso di economia alla scuola di specializzazione per laureati. Il Rettore dell’università, William R. Harper, aveva reclutato un corpo accademico di notevole prestigio, che includeva tra l’altro i sociologi Albion Small e W. I. Thomas, lo storico H. E. von Holst, Harry P. Judson per la scienza politica, Jacques Loeb per la fisiologia» Frederick Starr per l’antropologia, l’economista William Caldwell; nel 1895 John Dewey sarebbe stato nominato head professor of phiìosophy. Veblen, che a 35 anni non è che un semplice fellow mentre alcuni suoi ex-colleghi di università sono già professori nello stesso campus, si dedica alla redazione del nuovo trimestrale «The Journal of Politicai

Economy» diretto da Laughlin, su cui appaiono due suoi scritti dedicati al prezzo del grano e all’offerta di derrate alimentari, e traduce dal tedesco La scienza della finanza di Gustav Colin; nel contempo inizia un corso sull’agricoltura americana, e uno sul socialismo, usando come testo Thomas Kirkup, corso in cui dibatte Marx, Adam Smith, Lassalle e Rodbertus. 1893 Viene promosso reader, o lettore; scrive una serie di recensioni di autori socialisti e di studiosi di problemi agricoli per il «Journal». 1894 Ulteriore promozione a tutor (la struttura dell’università di Chicago prevedeva un elevato numero di posizioni nella scala gerarchica) e pubblicazione di articoli su L’esercito di Salute Pubblica (l’abortita marcia dei disoccupati agricoli su Washington), e La teoria economica dell’abbligliamento femminile in cui espone per la prima volta il principio dello sciupìo vistoso. L’influenza di Veblen nell’ambiente universitario è ora in fase crescente, nonostante il ridotto numero dei suoi studenti, scoraggiati dall’apparente casualità erratica dei corsi e dalla difficoltà di prender appunti; hanno però inizio in questo periodo le sue difficoltà coniugali, originate dalla gelosia della moglie nei confronti delle studentesse. 1896 A partire dal gennaio ottiene la promozione a instructor (e un aumento di stipendio) per tenere un corso di teoria economica per laureati nell’ambito del dipartimento di economia; in quello stesso anno avviene una prima frattura con la moglie, che acquista un pezzo di terra nell’Idaho e vi fabbrica una casetta, rimanendovi fino alla rappacificazione. Nel corso dell’estate, Veblen compie un viaggio in Europa e fa visita a William Morris, di cui rimane profondamente deluso, trovandolo dedito esclusivamente alla sua stamperia che rifiutava i metodi moderni a vantaggio dei sistemi artigianali (l’«esaltazione del difettoso» di cui parlerà nella Classe agiata). 1897-99 Sono numerose in questi anni le sue recensioni sul «Journal of Politicai Economy»; tra gli altri, vengono analizzati libri di Marx, Enrico Ferri, Antonio Labriola, Werner Sombart, Gabriel Tarde; accanto ad esse, Veblen pubblica una serie di articoli sul «Quarterly Journal of Economics», dai titoli Perché l’economia non è una scienza evoluzionistica? e I concetti basilari della scienza economica; e tre saggi

sull’«American Journal of Sociology»: L’istinto dell’efficienza e il disgusto del lavoro, Gli inizi della proprietà e Lo stato barbarico della donna, che sono la premessa logica alla Teoria della classe agiata, che Veblen aveva iniziato a scrivere fin dal 1895, riprendendo idee e temi sviluppati fino dall’infanzia, e tratti anche da osservazioni paterne. 1899 Quando il libro appare nel febbraio, Veblen a 42 anni era un semplice instructor, e Laughlin incontrava regolarmente delle difficoltà per ottenergli il rinnovo dell’incarico annuale; nell’ultima occasione, Veblen aveva chiesto un aumento di stipendio, e si era visto rispondere negativamente da Harper, sulla base della ben scarsa pubblicità da lui fatta all’Università di Chicago; per tutta risposta Veblen aveva scritto una lettera di dimissioni, poi rientrate in seguito all’intervento di Laughlin, che riuscì anche ad ottenere l’aumento richiesto. A partire dal 1899, il corso sull’agricoltura viene sostituito da quello che sarà il suo corso più famoso e preferito dagli studenti, dedicato ai «Fattori economici della civiltà». La Teoria della classe agiata, pubblicata largamente a sue spese, suscita inizialmente una reazione sfavorevole; il tono iconoclasta irrita i commentatori, che la definiscono «dilettantesca» e «carente dell’appoggio di citazioni autorevoli». Sullo stesso «Journal of Politicai Economy», nel numero del settembre 1899, in assenza di Veblen il suo ex-collega John Cummings di Harvard fa apparire una nota critica, a cui Veblen stesso risponde — per la prima e l’ultima volta — nel numero successivo della rivista. Il libro colpisce però favorevolmente il ben noto sociologo Lester F. Ward, di Stanford, che ha parole di apprezzamento per l’autore; e il critico letterario William Dean Howells, che lo lancia nel mondo dei circoli letterari, in particolare tra gli intellettuali radicali e socialisti i quali ne gustano soprattutto la mordente satira del lusso aristocratico e il linguaggio polisillabico; frasi come «sciupìo vistoso», «consumo vistoso», e «agiatezza vicaria» divengono d’uso comune, la lettura di Veblen è d’obbligo per esser ammessi nell’ambiente. 1900 Grazie anche a questa pur tardiva notorietà, Veblen ottiene la promozione a assistant professor, in posizione ancora subordinata ma non più all’estremo inferiore delia gerarchia accademica. 1901 Pubblica il lungo saggio per 1’«American Economie

Association» Impieghi industriali e finanziari che non è altro che un’ulteriore precisazione della sua fondamentale distinzione già operata nella Teoria della classe agiata e una prefigurazione della successiva Teoria dell’impresa d’affari. Oltre ai suoi tre corsi regolari sull’ambito e metodi dell’economia politica, sulla storia dell’economia politica, e sui fattori economici della civiltà tiene per singoli trimestri corsi sulla condizione economica dei lavoratori (1901) e sui rapporti tra lo Stato e l’organizzazione industriale, con particolare riguardo ai trusts (1902; corso che dal 1904 sarà dedicato all’organizzazione dell’impresa d’affari). Continua a pubblicare sul «Journal» numerose recensioni (tra gli altri di Lester Ward e ancora Tarde, Sombart e Schmoiler). 1903 Tra le pubblicazioni per il decennale dell’università di Chicago appaiono due saggi contrastanti sul tema del credito, di Laughlin e di Veblen: quest’ultimo scritto (La funzione del credito e dei prestiti negli affari moderni), diverrà poi un capitolo della Teoria dell’impresa affaristica, finita di scrivere nel giugno 1903. 1904 La Teorìa dell’impresa affaristica, pubblicata, sempre a sue spese, nell’aprile (subito dopo la comparsa di un suo saggio sul «Journal» dal titolo Un antico esperimento di trusts, che dà conto dei cartelli tra gli incursori vichinghi dell’Alto Medioevo), provoca reazioni sia critiche che favorevoli, alimentando una nutrita polemica pro e contro di lui; in genere pero i commentatori dimostrano una scarsa comprensione dell’intento vebleniano, limitandosi a sottolineare lo spirito polemico e l’intonazione socialista non ortodossa di un docente stipendiato sia pur indirettamente da Rockefeller. Paradossalmente, le maggiori critiche vennero proprio da parte socialista; mentre taluni lettori presero a scrivere a Veblen per chiedergli consigli su come far danari con i metodi d’iniziativa affaristica da lui descritti! Veblen, il cui salario era passato nel 1903 da $ 600 a $ 1000 all’anno, teneva ora lezioni per quattro giorni alla settimana, con la sua voce sempre uguale, improntata a una ben coltivata ironia. Richiesto da studenti e colleghi di esprimere un giudizio su un autore e magari in fatto di opinioni religiose, si rifiutava sempre di prender posizione in maniera diretta ed inequivoca e di indicare precise soluzioni a particolari problemi, limitandosi a risposte evasive in tono sornione. I suoi corsi continuavano a dimostrarsi ostici per gli undergraduales, che

del resto Veblen scoraggiava — oltre che con l’andamento apparentemente incolore delle lezioni — assegnando regolarmente ponderosi testi in lingua straniera, per lo più in tedesco; le sue preferenze andavano invece ai seminari per graduate students, o laureati, a cui prendevano parte anche molti instructors, seminari caratterizzati dal ridotto numero dei partecipanti, con i quali era possibile instaurare un rapporto più significativo. Diversi tra questi studenti laureati rimarranno infatti legati a Veblen e lo aiuteranno nelle successive traversie. Gli esami costituivano ovviamente, per un docente così poco ortodosso, un adempimento meramente formale, di cui faceva volentieri a meno attribuendo c’ufficio un voto unico (di solito C) a tutti. Risalgono a questo periodo alcuni viaggi in Europa: si ricorda un pranzo alla tavola di re Oskar II di Svezia e Norvegia, di cui conservò il cartoncino del menu che poi fece avere alla madre, ed alcune visite in Islanda; viaggi che egli compiva sempre da solo, approfondendo il distacco con la moglie. Le crisi coniugali si facevano sempre più frequenti» e con esse i periodi di separazione, alimentati dai ripetuti casi di lettere di ammiratrici che Veblen lasciava con assoluta noncuranza nelle proprie tasche, donde finivano immancabilmente nelle mani della moglie. Pare che la principale lamentela che Veblen muoveva da parte sua a carico di Ellen Rolfe fosse quella di non esser un’ottima casalinga; in effetti gli interessi di lei si orientavano in direzioni alquanto diverse dalla cura del ménage domestico e dalla puntuale preparazione dei pasti: erano recenti la sua adesione all’ideologia socialista e la pubblicazione di un libro per l’infanzia. Nel 1904, nel corso di un nuovo viaggio in Europa, Veblen viene visto in compagnia di un’ammiratrice; la notizia, diffusasi nel campus, suscita scandalo e un’ennesima rottura con la moglie, che va ad abitare nell’Oregon. Veblen è costretto a pensare ad una sistemazione alternativa: gli viene offerto il posto di direttore di una nuova rivista, «Tomorrow» di Parker H. Sercombe, ma l’iniziativa non si concreta; mentre una sua domanda rivolta ad ottenere l’incarico di capo della divisione documentazione della Library of Congress, a cui aveva allegato il proprio curriculum e la conoscenza di non meno di sette lingue, viene respinta perché la direzione della biblioteca nutriva

diffidenza verso un personaggio così controverso. 1905 Veblen viene nominato, su proposta di Lester F. Ward, membro dell’Institut International de Sociologie, di cui nel 1916 sarà designato vicepresidente. Nel contempo, il disaccordo con Laughlin si approfondisce con la pubblicazione sul «Journal» del saggio Credito e prezzi, in cui Veblen critica apertamente il punto di vista del suo protettore. 1906 II «Journal of Politicai Economy» diviene mensile, e Veblen ne lascia la direzione a John Cummings mentre appare sull’«American Journal of Sociology» il suo importante saggio Il ruolo della scienza nella civiltà moderna. Rinnovati tentativi di sistemazione presso un’organizzazione assistenziale di New York e all’università di Harvard — dove tiene in aprile una serie di lezioni su invito di Thomas N. Carver, in seguito pubblicate sul «Quarterly Journal of Economics» con il titolo L’economia socialista di Karl Marx e dei suoi seguaci — subiscono la stessa sorte dei precedenti. Finalmente, a metà del 1906 il rettore dell’università di Stanford, David Starr Jordan, gli offre un incarico in qualità di associate professor con un discreto trattamento economico ($ 3.000 annui). Il trasferimento da Chicago a Palo Alto, California, ha luogo nell’agosto, mese in cui muore il padre di Veblen, seguito poco tempo dopo dalla madre; esso fornisce l’occasione per una nuova riconciliazione con la moglie. La coppia si stabilisce in un cottage situato in un boschetto appartato, ma la pace familiare si rivela effimera; in breve si giunge a un’ennesima frattura che questa volta si dimostrerà definitiva, spingendo Ellen Rolfe a costruirsi una propria casetta vicino al cottage. Vicende coniugali a parte, i tre anni trascorsi a Palo Alto costituiscono uno dei periodi più sereni nella vita di Veblen, che apprezzava molto l’ambiente e le occasioni di diretto contatto con la natura che esso offriva; tra l’altro lo vediamo esercitare la sua «curiosità meccanica» fabbricandosi da solo una baracca sulla catena montuosa che separa la Sta Clara Valley dal mare. È a Palo Alto che Veblen fa la conoscenza di Upton Sinclair, di Jack London e poi di Guido Marx, professore di disegno meccanico, che entra nel ristretto circolo delle sue amicizie, comprendente anche gli ex studenti Henry W. Stuart, Harry A. Millis.

Spurgeon Bell, William R. Camp e il professore di greco Henry W. Rolfe, con cui si dedica a studi omerici e sugli scavi cretesi. Tema dei suoi corsi, come sempre frequentati da un numero assai ridotto di studenti, sono la storia del pensiero economico e naturalmente i «fattori economici della civiltà»; tra gli scritti di questa fase, alcune recensioni di John Bates Clark e Irving Fisher e i saggi Sulla natura del capitale, L’evoluzione del punto di vista scientifico, I limiti deli utilità marginale, La morale cristiana e il sistema concorrenziale pubblicati su vari periodici di economia, sociologia e filosofia. 1909 Nel dicembre nuove difficoltà amatorie (in altre parole la presenza di un’amica nel suo cottage di Palo Alto) e il conseguente pubblico scandalo costringono Veblen alle dimissioni dall’università. 1910 Un sondaggio compiuto a Toronto per un incarico di economia presso quella università si urta contro il non lieve ostacolo rappresentato dal suo infelice curriculum accademico. Veblen, che in questo periodo risiede nell’Idaho, si dedica perciò al tentativo di ottenere un research grani (sussidio per ricerche) da qualche fondazione, rivolgendosi in particolare alla Carnegie Institution di Washington, per la quale scrive il saggio antropologico La teoria delle mutazioni, la razza bionda e la cultura ariana (poi rielaborato e pubblicato in due parti) e il memorandum Circa una proposta ricerca sulle antichità baltiche e cretesi. La Carnegie manifesta inizialmente un certo interesse per la proposta di una ricerca triennale, ma — forse dopo aver assunto più dettagliate informazioni sul richiedente — dichiara in seguito di non aver fondi disponibili; e identica risposta perviene dall’Archaeological Institute of America, anch’esso interpellato. 1911 Alla fine del 1910 Herbert J. Davenport, direttore del dipartimento di economia all’università del Missouri (e suo ex-studente a Chicago) gli aveva offerto un incarico come semplice lecturer. Veblen accetta e parte per Columbia, dove inizia nel febbraio i suoi corsi sui «fattori economici» e sulla storia della teoria economica; abitando per i primi anni in casa dello stesso Davenport. Rimarrà nel ristretto ambiente di Columbia, una tipica country town destinata ad accentuare il suo disgusto per la provincia americana, per sette anni, con un salario annuo oscillante tra i $ 1.900 del 1913 ed i $ 2.400 del 1917. Il trasferimento nel Missouri segna anche la fine dei suoi lunghi saggi su

riviste specializzate. 1912 Veblen ottiene il divorzio da Ellen Rolfe — che inizialmente glielo aveva rifiutato — sulla base del suo mancato adempimento al dovere di provvedere al mantenimento della moglie. 1914 Sposa Anne Fessenden Bradley, una divorziata con due figlie che conosceva fin dall’epoca di Chicago. La seconda moglie sembra aver posseduto, a differenza della prima, eccellenti doti di casalinga, oltre ad essere una brava dattilografa; di idee radicali e assai dottrinaria in politica, fu influenzata dalla personalità del marito fino al punto di decidere di allevare le figlie Becky e Anne secondo i precetti della Teoria della classe agiata — ossia rigettando ogni concessione alla moda e allo sciupìo vistoso e non curandosi del profitto scolastico. Tra gli argomenti dei corsi di Veblen alla School of Commerce, di cui Davenport era dean, si ricordano la finanza azionaria, i trusts e le combinazioni, la storia del pensiero economico, oltre all’ormai famoso corso suo personale sui fattori economici della civiltà, che richiamava anche molti docenti — tra cui lo stesso Davenport — attratti dalla fama dell’autore della Teoria della classe agiata (ripubblicato nel 1912 in edizione economica con un diverso sottotitolo e sempre in piena voga). Le sue lezioni non si discostavano dall’andamento di sempre: tenute con voce bassa e monotona, facendo a meno di qualsiasi nota o appunto, inframmezzate da lunghissime digressioni — per lo più occasionate dalle domande degli studenti — in particolare su argomenti di carattere geografico, antropologico o biologico, nonché da filastrocche popolari, da citazioni latine… Scarso il numero degli studenti, dissuasi dalle letture consigliate a titolo di deterrente ed anche gli esami, quando si tenevano, registravano quasi invariabilmente dei voti medi e uguali per tutti. Tra i suoi assistenti lo avevano seguito a Columbia William Camp, Leon Ardzrooni (ex studenti a Stanford) e Spurgeon Bell; nel 1916 a questi si unirà Isador Lubin. Nello stesso anno Veblen pubblica L’istinto dell’efficienza e lo stadio delle tecniche industriali, a cui lavorava dal 1909, che considerò il più importante tra i suoi libri. Nel corso dell’estate compie un nuovo viaggio in Norvegia; la dichiarazione di guerra lo trova in Germania. Tornato a Columbia, inizia a scrivere La Germania imperiale e la rivoluzione industriale.

1915 La Germania imperiale, pubblicato nel giugno, incontra un’accoglienza inizialmente incerta, anche se viene salutato con favore negli ambienti liberali e riformisti (vedi la recensione di Graham Wallas sul «Quarterly Journal of Economics»); ottiene poi il consenso di Francis Hackett, il celebre redattore letterario di «The New Republic». Contemporaneamente Veblen pubblica il saggio L’occasione del Giappone sul «Journal of Race Development», e inizia a scrivere L’istruzione superiore in America, memorandum sulla gestione dell’università da parte degli uomini d’affari. Quest’ultimo libro, completato nel marzo 1916 e destinato alla pubblicazione nell’ambito della raccolta degli studi dell’università del Missouri, rimarrà invece inedito sino al 1918, su consiglio del Rettore A. Ross Hill, preoccupato dal tono dissacratore e demistificatorio dell’ambiente accademico a cui è improntata l’opera (il cui sottotitolo originario era a quanto pare Studio su una depravazione integrale). 1916 Gli amici Herbert Davenport e Walter Stewart lasciano l’università del Missouri, mentre muore Robert Hoxie che era stato uno tra i suoi allievi preferiti. Dopo la rielezione di Woodrow Wilson — nei cui confronti nutriva minor sfiducia che non verso gli altri politici — alla Presidenza (novembre 1916) Veblen inizia a scrivere al ritmo febbrile di 1.000 parole al giorno Una ricerca sulla natura della pace e le condizioni della sua perpetuazione, in cui espone la sua posizione favorevole all’ingresso degli Stati Uniti nella guerra contro la Germania. 1917 La Natura della Pace, uscito in primavera proprio nei giorni della dichiarazione di guerra, ottiene un successo immediato, e riscuote il consenso di uomini come Herbert Croly, Walter Lippmann e John Dewey, oltre che di Francis Hackett (che lo definisce «la più significativa opera in inglese sul conseguimento di una pace duratura»), portando l’autore alla ribalta della notorietà internazionale e facendone un’autorità sui grandi temi politici del momento; tra l’altro la «Fondazione Carnegie per la pace internazionale» ne acquista 500 copie per diffonderle nei colleges e nelle università; tutto ciò non impedisce peraltro il fallimento delle trattative per procurargli un incarico alla Clark University e per l’insegnamento alternato alla University of Missouri e alla Cornell. Nel giugno appare su «New Republic» la sua lettera «I giapponesi abbandonano le speranze nella Germania».

Nell’ottobre 1917 Veblen compie un viaggio a Washington, nell’illusione di poter esercitare un’attiva influenza in campo politico; si incontra con il Secretary of War Newton D. Baker e poi con il giudice della Corte Suprema Louis D. Brandeis, ma i colloqui hanno un esito scoraggiante. Viene comunque invitato a far parte, in qualità di membro non permanente, del Comitato di studi sui problemi dell’assetto postbellico diretto dal Colonnello Edward H. House, consigliere personale ed eminenza grigia del Presidente Wilson. Il Comitato aveva sede a New York e ne era segretario Walter Lippmann. allora redattore di «New Republic». Nel mese di dicembre Veblen sottopone a Lippmann due memorandum, dedicati rispettivamente al programma di lavoro di un’indagine sulle presumibili condizioni della pace (in cui si occupa della proposta istituzione di una Società delle Nazioni pacifiche) e ai lineamenti di una politica atta a controllare la colonizzazione economica dei paesi sottosviluppati e gli investimenti all’estero; i memorandum vengono archiviati senza alcuna reazione apprezzabile. 1918 Tiene una conferenza al National Insti tute of Social Sciences di New York nel gennaio sul tema Princìpi generali di una politica di ricostruzione (ripubblicata su «New Republic»); e scrive un articolo (Il superamento delle frontiere nazionali) per «The Dial». Scoraggiato dalla sua esperienza politica «di vertice», ma tuttora deciso a contribuire alla soluzione dei problemi connessi con l’assetto bellico e post-bellico del paese, nel febbraio 1918 Veblen accetta un poste nella divisione statistiche della Food Administration, l’organismo governativo incaricato dei problemi dell’alimentazione, collocandosi in aspettativa dall’università del Missouri. Il posto gli era stato offerto dal direttore del reparto Raymond Pearl, un altro ex studente di Chicago. Contemporaneamente scoppia una polemica sulla Natura della pace: il prof. William H. Hobbes, docente di geologia dell’università del Michigan, attacca sulla stampa Veblen definendolo un acceso fautore della sottomissione degli Stati Uniti all’egemonia del Kaiser e citando i passi incriminati del libro; l’attacco viene fatto proprio da Henry A. Wise Wood, Presidente del Conference Committee on War Preparedness, in una lettera al «New York Tribune». Nonostante che «New Republic», «The Dial» e altri facciano rilevare la completa incomprensione del testo vebleniano e mettano in luce l’ironia con cui

viene avanzata la presunta «proposta di sottomissione» e nonostante una ritrattazione del «New York Tribune», la polemica si allarga e viene ad investire anche La Germania imperiale per le critiche ivi formulate nei confronti dei regimi democratici anglo-sassoni. L’American Defense Society e altre organizzazioni ultranazionalistiche inviano delle lamentele contro La natura della pace al Ministero della Giustizia; secondo una versione non confermata, un funzionario del Ministero si sarebbe indotto alla lettura del testo incriminato; incapace com’era di decifrare il difficile gergo vebleniano, si sarebbe limitato a rilevare il programma di sanzioni ivi proposto per la Germania sconfitta, e trovandolo più radicale di qualunque altro ufficialmente avanzato, si sarebbe convinto di esser di fronte all’opera di uno zelante superpatriota. Vero o no che sia l’aneddoto, rimane il fatto che mentre il governativo Committee on Public Information diretto da George Creel esprime un giudizio positivo sulla Germania imperiale, la spedizione a mezzo posta dello stesso libro viene vietata ai sensi della legge sullo spionaggio da parte del Post Office Department (Ministero delle Poste). Questo divieto, non revocato nonostante l’intervento di Felix Frankfurter e del Ministero della Giustizia, provoca nel marzo-aprile 1918 il fallimento di un nuovo progetto per una cattedra di professor of economie institutions a Cornell. Nel corso dei tre mesi trascorsi al servizio della Food Administration, Veblen si dedica al lavoro di ricerca sul campo, compiendo un viaggio negli Stati del Middle West di cui prepara un resoconto con l’aiuto dell’assistente Isador Lubin. Il problema era il reperimento di manodopera agricola in coincidenza con la leva in massa; su questo tema Veblen scrive altri due memorandum, nel primo dei quali propone l’uso degli Industriai Workers of the World, i sindacalisti anarchici e pacifisti, per il raccolto del grano, formulando critiche contro l’atteggiamento persecutorio del governo nei loro confronti; mentre il secondo», dal titolo Manodopera agricola per il periodo della guerra, viene pubblicato su «The Public» alla pari di un saggio sui Servitori domestici durante il periodo bellico. Un altro memorandum è infine dedicato al controllo dei prezzi delle derrate alimentari di base.

Vista la sostanziale indifferenza contro cui si scontrava il loro lavoro, verificata anche nel corso di incontri con Herbert Hoover, Bernard Baruch del War Industries Board e altri dirigenti politici e finanziari; e a maggior ragione di fronte alla vera e propria ostilità suscitata dal memoriale sugli I.W.W., Veblen e Lubin rassegnano le dimissioni dall’Amministrazione nel maggio 1918. In quello stesso mese Veblen tiene una serie di lezioni all’università di Amherst su invito di Walton Hamilton e di Walter Stewart, sul tema L’economìa bellica e il punto di vista moderno. Jett Lauck, suo ex studente di Chicago ed executive secretary del War Lab or Board, gli offre un posto di examiner (ispettore) con un salario annuo di $ 4.8oo (più elevato di qualsiasi compenso mai ottenuto nella carriera accademica); l’offerta viene inizialmente accettata, ma in seguito al successivo invito ad entrare nella redazione di «The Dial» Veblen decide di optare per quest’ultima, sebbene comporti condizioni economiche assai meno favorevoli. Nel giugno-luglio viene pubblicato L’istruzione superiore in America, con l’aggiunta di un capitolo su La guerra e l’istruzione superiore già apparso a parte su «The Dial». Il libro suscita un’eco favorevole da parte di commentatori quali Harold Laski, Charles Beard, Horace Kallen. A partire dal mese di giugno 1918 «The Dial», rivista letteraria originariamente fondata nel 1840 da Ralph Waldo Emerson e Margaret Fuller, e riesumata nel 1880 da un editore di Chicago, assume un’impronta più propriamente politica, lanciando un programma basato sull’internazionalismo e la ricostruzione dell’industria e del sistema scolastico. La rivista, trasferitasi a New York su impulso della comproprietaria Helen Marot, entra cioè in competizione con analoghe pubblicazioni «liberali» quali «The Nation» e «The New Republic», reclutando un comitato di redazione composto da John Dewey, Veblen, la stessa Helen Marot e George Donlin; tra i redattori associati Harold Stearns, Randolph Bourne e Lewis Mumford. Veblen si trasferisce a New York a partire dall’autunno, affiancato prima da Ardzrooni e poi di nuovo da Lubin; ed è a questo punto che la moglie, vittima di un collasso nervoso e impressionata dalle campagne diffamatorie contro il marito, deve venir ricoverata in sanatorio (dove morrà nel 1920).

Ha inizio con il numero di «The Dial» del 19 ottobre 1918 la sequenza dei lunghissimi articoli o saggi vebleniani, preannunziata da un editoriale; la prima serie (ottobre 1918-gennaio 1919), basata sulle lezioni tenute ad Amherst, s’intitola Il punto di vista moderno e il nuovo ordinamento’, essa viene pubblicata in forma di volume nel marzo successivo (Gli interessi costituiti e lo stadio delle tecniche industriali) e rappresenta una prima stesura del programma politico vebleniano, in cui a detta dei suoi amici lo spirito dell’agitatore e l’intento di coniare nuovi slogans hanno un po’ la precedenza sullo studioso. È questo il momento in cui la popolarità e la moda di Veblen toccano il loro apice; la Teoria della classe agiata, nuovamente ristampata, viene approvata dalla sofisticata rivista «Vanity Fair»; H. L. Mencken gli dedica un saggio su «Smart Set», descrivendo la detronizzazione della moda di Dewey da parte di quella di Veblen nei circoli intellettuali sull’onda della disillusione seguita alla fine della guerra, accompagnata dal diffondersi delle velleità rivoluzionarie, del nihilismo e del dadaismo: «Poi, di colpo, ecco balzar fuori i soviet degli intellettuali, l’attacco frontale contro i vecchi postulati della ricerca pedagogica, la detronizzazione nihilistica del professor Dewey — e urrà urrà per il prof. dott. Thorstein Veblen! (…) Nell’ambito di pochi mesi — sembrano quasi pochi giorni — s’incomincia a trovarlo continuamente su “The Nation”, “The Dial”, “The New Republic” e le altre riviste del genere, i suoi opuscoli vengono stampati in gran copia, i giornali riportano ogni suo ammiccamento e sussurro (…) Chiunque nutra pretese intellettuali legge le sue opere. Il veblenianismo risplende di pieno fulgore, ci sono vebleniani, clubs Veblen, rimedi alla Veblen per tutti i mali del mondo. C’erano perfino, a Chicago, Veblen Girls…»1. 1919 Nel febbraio appare su «The Dial» il suo articolo II bolscevismo è una minaccia — per chi?; il mese successivo il «Politicai Science Quarterly» pubblica il saggio ha preminenza intellettuale degli ebrei nell’Europa moderna, scritto nel luglio 1918 su commissione di una rivista sionista, che poi lo aveva respinto perché non abbastanza favorevole alla causa. Veblen segue con estremo interesse gli sviluppi della rivoluzione bolscevica e le campagne militari in corso sul territorio russo; studia il

russo, si interessa seppur platonicamente ai dibattiti del soviet dei lavoratori costituitosi nell’ambito di «The Dial». Verso la fine del 1919 ha un incontro con Ludwig Martens, rappresentante di Lenin negli Stati Uniti; e riceve inoltre una visita di R. H. Tawney. Nel periodo aprileluglio appaiono su «The Dial» numerosi articoli ed editoriali dedicati a temi di attualità, dal sabotaggio al bolscevismo, alla pace, alle trattative di Versailles (in cui critica apertamente la condotta del Presidente Wilson), agli interessi costituiti. Si entra ora nella fase della «grande paura» dei rossi, in seguito alla campagna di allarmismo e di caccia alle streghe lanciata nell’Attorney General A. Mitcheli Palmer, con l’aiuto di organizzazioni di destra quali lo Union League Club, la Security League, la Civic Federation of American Legion. Viene creata a New York la Commissione Lusk, o «Comitato legislativo congiunto per l’investigazione delle attività sediziose», che compie indagini sui radicali conclusesi con oltre un migliaio di arresti. Veblen stesso è tra i sospetti, in séguito alla inclusione di un suo brano in un pamphlet in difesa degli I.W.W. edito dalla Civil Liberties’ Union; e dedica al rema due editoriali del settembre, dal titolo Il terrore dei rossi — finalmente è arrivato in America e Il terrore dei rossi e gli interessi costituiti. Nel periodo aprile-giugno e ottobre-novembre 1919 il «Dial» pubblica due serie di articoli, intitolate Problemi contemporanei della ricostruzione e Il bolscevismo e gli interessi costituiti in America, che saranno raccolte e ripubblicate nel febbraio 1921 formando Gli ingegneri e il sistema dei prezzi. Nel luglio una proposta per una ricerca sull’ordinamento economico, con particolare riferimento al sistema creditizio, finanziata dal Federai Council of Churches e dell’Inter-Church World Movernent sfuma, dopo contatti tra questi organismi e Veblen, Stewart, Lubin, Hamilton, Leo Wolman e Helen Maro:. Frattanto «The Dial», che fin dal momento in cui aveva assunto un carattere più chiaramente politico si era trovato a far fronte alla scarsità di finanziamenti e sussidi, è costretto nell’autunno 1919 a riprendere la sua veste letteraria. Veblen ne lascia perciò la redazione, dopo un ultimo editoriale del novembre dedicato alla Pace crepuscolare dell’armistizio.

Contemporaneamente una raccolta di suoi saggi del periodo 1891-1913, scelti ca Stewart, Wesley C. Mitchell e Ardzrooni, viene pubblicata con il titolo di uno di essi, Il ruolo della scienza nella civiltà moderna. La nuova sistemazione viene trovata nel corpo docente della New School for Social Research, in corso di allestimento a New York, che costituisce un esperimento avanzato dì studi superiori di élite a livello post lauream. Essa annovera tra i cocenti nomi quali Charles A. Beard, James Harvey Robinson, Wesley C. Mitchell, tutti provenienti dalla Columbia University; e inoltre Graham Wallas, Leo Wolman, Leo Ardzrooni, Horace Kallen, Harold Laski. Lo stesso John Dewey vi tenne alcune serie di lezioni. Veblen per parte sua riprende il suo corso tradizionale sui fattori economici della civiltà, più un corso specialistico, con un compenso annuo di $ 6.000 in parte offerto da un ex studente. Veblen vede nella New School la migliore sede per perseguire gli studi sul ruolo dei tecnici nell’industria, ed anche come occasione di contatto con essi. L’idea tecnocratica, frutto delle sue conversazioni con Guido Marx a Stanford e già elaborata nei saggi su «The Dial», era in questo momento il suo interesse predominante, rafforzato anche dalla sopravalutazione delle inquietudini serpeggianti nel mondo dei tecnici. È in questa prospettiva che va collocata la richiesta da lui rivolta a Marx di tenere una serie di lezioni alla New School sul tema della funzione sociale dell’ingegnere. Nel dicembre Guido Marx decide di aderire all’invito, che comportava la rinuncia ad un semestre a Stanford. Una volta giunto a New York, egli si rende peraltro rapidamente conto dell’effettiva inconsistenza del presunto «movimento dei tecnici», a. séguito di una serie di infruttuosi incontri e contatti soprattutto con Morris L. Cooke, seguace delle teorie di Frederick Winslow Taylor sullo scientific management e vicepresidente dell’A.S.M.E. (American Society for Medianica! Engineers), con il Col. Fred J. Millen presidente della stessa associazione — che costituiva un po’ l’avanguardia del movimento —, con Calvin Rice ed alcuni docenti della New School. 1920 Dopo la partenza di Marx, Otto Beyer ne continua i corsi; Veblen ha ulteriori contatti con Cooke ed altri, tenendo nell’inverno un corso insieme ad Ardzrooni sull’impiego produttivo delle risorse; ma in buona sostanza gli ingegneri rifiutano la sua leadership, vedendo in lui nient’altro che un teorico di estrema sinistra, e si orientano verso una

molto più «salda e sicura» impostazione corporativa. L’unico risultato apparente sarà che Howard Scott, un sedicente ingegnere che aveva partecipato ai corsi insieme a Stuart Chase, organizzerà verso la fine del 1920 un’ambiziosa quanto inconsistente Technical Alliance, includendo a sua insaputa lo stesso Veblen nel comitato organizzatore; ma l’iniziativa naufraga nel breve giro di alcuni mesi, senza aver dato risultati degni di rilievo; così che quando nel febbraio 1921 esce Gli ingegneri ed il sistema dei prezzi tutto è tornato ormai alla piena normalità. Veblen, che aveva trascorso le vacanze estive del 1919 a Washington Island presso la locale colonia islandese, dedica quelle del 1920 ad una visita in California, dove trova la sua baracca di montagna inglobata per errore in una proprietà contigua, e la distrugge lui stesso in un impeto d’irritazione. Le uniche sue pubblicazioni di questo periodo sono una recensione del primo libro di J. M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace; ed un saggio, Tra il bolscevismo e la guerra, apparso sulla rivista «Freeman» nel maggio 1921. Si registra inoltre una nuova edizione de Gli interessi costituiti del 1919, con il titolo mutato in Gli interessi costituiti e l’uomo comune (novembre 1920). 1922 La New School viene riorganizzata su nuove basi: l’endemica scarsità di finanziamenti costringe il nuovo direttore, Alvin Johnson, ad indirizzare l’ambito degli studi verso una caratterizzazione più propriamente professionale, abbandonando l’impegnativo programma progressista originario. In seguito a questa svolta Beard, Mitchell e Robinson abbandonano la scuola; Veblen li seguirebbe volentieri, ma non ha offerte alternative. L’ostacolo del clima e della salute gli impedisce di prender in considerazione l’offerta di Davenport per un incarico alla Cornell, e un sondaggio presso alcuni atenei scandinavi non si concreta; identica sorte subisce la richiesta di Wallace W. Atwood, cognato della moglie e rettore della Clark University, per una serie di lezioni alla Clark. Il suo legame con la New Schoolcontinua quindi fino alla metà del 1924, grazie all’amicizia del direttore ed all’aiuto economico dell’ex studente di Chicago. In questo anno appare su «Freeman» l’articolo Dementici praecox, in cui prefigura la grande depressione — che sopraggiungerà pochi mesi dopo la sua morte, nel 1929.

1923 L’età, oltre alle recenti delusioni, pesano ormai seriamente sul suo lavoro. Viene pubblicato l’ultimo loro di Veblen, La proprietà assenteista e l’impresa d’affari nei tempi recenti: il caso dell’ America, iniziato nel 1920 e rivelatosi assai più faticoso dei precedenti. La pubblicazione, preceduta dall’uscita di diversi capitoli singoli su «Freeman», suscita un’eco piuttosto attenuata. Nello stesso anno, preoccupato della propria situazione di ristrettezza economica, compie un tentativo speculativo in borsa, acquistando azioni di una compagnia petrolifera che viene poco dopo coinvolta in uno scandalo politico; Veblen riesce comunque ad uscirne per il momento in attivo. Estremamente esitante e scoraggiato, progetta nel 1924 un viaggio in Inghilterra per studiare l’imperialismo britannico e il modo con cui quel paese era riuscito a conservare così a lungo l’egemonia mondiale — studio che riteneva il coronamento della sua opera — ma il progetto come sempre abortisce per mancanza di finanziamento. 1924 La sua notorietà internazionale è in ascesa: una tesi sulla sua opera viene discussa alla Sorbona da William Jaffé; i suoi lavori sono apprezzati da sociologi quali Werner Sombart e Max Weber, e altrettanto sentitamente disistimati dagli economisti ortodossi quali Joseph Schumpeter. La Teoria della classe agiata giunge alla nona ristampa nel 1925. Sempre nel 1924, la Washington University delibera di incidere il suo nome sul muro dell’edificio della School of Commerce and Finance, accanto a quelli degli economisti ortodossi quali Jevons, Ricardo, Smith, Malthus e Mill. Nello stesso anno, Veblen scrìve un paper per il convegno dell’’American Economie Association (La teoria economica nei futuro prevedibile), di cui era presidente pro-tempore l’amico Wesley C. Mitchell. Un tentativo di alcuni amici rivolto ad ottenere la designazione di Veblen alla presidenza per il 1925 non riesce a prevalere sulla candidatura di Allyn Young; la designazione viene invece ottenuta l’anno successivo, ma a questo punto Veblen la rifiuta; così come declina, per i consueti motivi di salute, l’invito a tenere una serie di lezioni alla R. Broo-kings Graduate School, rivoltogli nel corso di una visita a Isador Lubin. 1925 Messi da parte gli studi economici e sociologici, l’amore per l’antica letteratura scandinava lo porta a riesumare la traduzione della

Laxdada Saga, intrapresa 37 anni prima, completandola e dandola alle stampe con una sua inxroduzione. 1926 Nel maggio muore Ellen Rolfe, con cui Veblen si era sempre mantenuto in contatto epistolare. Egli fa ritorno perciò, seppur di malavoglia, in California, nella proprietà lasciata libera presso Palo Alto, insieme alla figliastra Becky. Qui trova sia il cottage che la casetta occupati da inquilini abusivi, ed è costretto a sloggiare l’occupante della casetta in nome del suo diritto di «proprietà assenteista». Negli ultimi anni cella sua vita abita alternativamente nella casetta di Palo Alto e nella baracca di montagna (che aveva fatto riparare), dedicandosi a lavori manuali ed alla lettura, soffrendo della sua quasi completa solitudine, se si eccettuano occasionali visite da parte di ex-studenti, del nipote Oswald, di Davenport; sentendosi abbandonato da tutti e afflitto dal desiderio di tornare all’Est, oltre che preoccupato per la perdita di alcuni investimenti nel settore dell’uva passa e nelle azioni petrolifere. In realtà le sue preoccupazioni finanziarie erano eccessive: tra la generosità di diversi amici e le varie altre fonti di entrata, il suo reddito superava i mille dollari annui, largamente sufficienti per il suo frugale tenore di vita. 1927 Scrive il suo ultimo articolo, Un esperimento di eugenetica, di cui viene rifiutata la pubblicazione: esso comparirà solo nel volume collettaneo Saggi sulla nostra società che cambia, edito postumo nel 1934 a cura di Leon Ardzrooni e comprendente un gran numero dei suoi scritti, a partire dal primo saggio giovanile su Kant. 1929 La morte sopraggiunge il 5 agosto, per collasso cardiaco, a 72 anni di età. 1. Citato in JOSEPH DORFMAN, Thorstein Veblen and His America, p. 423.

NOTA BIBLIOGRAFICA

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D. F. DOWD (a cura di), T. Veblen: a critical reappraisal, volume collettaneo edito in occasione del centenario della nascita di Veblen, Cornell University Press, Ithaca, N. Y., 1958, p. 328 (tra gli altri, scritti di C. E. Ayres, N. Kaplan, Morris A. Copeland, Paul M. Sweezy, Joseph Dorfman, Walton Hamilton). M. VIANELLO, Per il centenario vebleniano, in «Nuova Rivista Storica», a. XLIII, fase. 2, 1959, pp. 267-288. Id., Thorstein Veblen, Comunità, Milano, 1961. F. FERRAROTTI, introduzione al volume collettaneo «La Sociologia», Garzanti, Milano, 1967, pp. 19-20.

LA TEORIA DELLA CLASSE AGIATA STUDIO ECONOMICO SULLE ISTITUZIONI

PREFAZIONE Scopo di queste indagini è di discutere il posto e il valore della classe agiata come fattore economico nella vita moderna, ma è risultato impossibile restringere la discussione entro i limiti così definiti. È stato giocoforza prestare qualche attenzione all’origine e alla linea di sviluppo dell’istituzione, così come a caratteristiche della vita sociale che generalmente non sono considerate economiche. In alcuni punti la discussione procede su motivi di teoria economica o di astrazione etnologica che possono riuscire un poco peregrini. Si spera che il capitolo introduttivo indichi la natura di queste premesse teoriche quanto basta per evitare ogni oscurità. Un’esposizione più esplicita della posizione teorica implicita è fatta in una serie di articoli pubblicati nel IV volume dell’«American Journal of Sociology», su L’Istinto dell’efficienza e il disgusto del lavoro, Gli inizi della proprietà, e Lo stato barbarico delle donne1. Però l’argomento non si fonda su queste — in parte nuove — generalizzazioni in modo tale da perdere completamente il suo ipotetico valore come parte della teoria economica, nel caso che queste nuove generalizzazioni dovessero apparire, al lettore, insufficientemente coonestate da un’autorità o da dati. In parte per motivi di convenienza e in parte perché fenomeni familiari a ciascuno si prestano meno a esser fraintesi, i dati impiegati per illustrare o confortare la tesi sono stati tratti di preferenza dalla vita quotidiana per mezzo dell’osservazione diretta o della notorietà generale, piuttosto che da fonti di seconda mano più recondite. Si spera che nessuno si sentirà offeso nella sua competenza letteraria o scientifica da questo ricorso a fatti familiari, o da ciò che potrà talvolta sembrare libertà indelicata nel trattare fenomeni volgari o fenomeni il cui posto intimo nella vita degli uomini ha talvolta impedito che cadessero preda delle dispute economiche. Supposizioni e prove decisive quali vengono tratte da fonti più remote, così come qualsiasi sorta di teoria o di deduzione venga presa dalla scienza etnologica, sono anch’esse fra le più usuali e accessibili, e persone

discretamente colte le potranno prontamente riportare alla loro fonte. Pertanto non si è seguito l’uso di citare fonti e autori. Similmente anche i pochi passi che sono stati riprodotti, principalmente a mo’ d’esempio, sono di tal fatta che saranno generalmente riconosciuti con una certa facilità senza la guida della citazione.

1. Gli articoli citati apparvero sui numeri del settembre 1898, novembre 1898 e gennaio 1899 dell’«American Journal of Sociology». La prima edizione del presente testo, com’è noto, è del febbraio 1899. Il sottotitolo originale, mutato nel 1912, era Studio economico sull’evoluzione delle istituzioni. L’«American Journal of Sociology» era diretto da Albion Small, direttore del dipartimento di sociologia della Università di Chicago.

CAPITOLO I. PRELIMINARI L’istituzione di una classe agiata si trova nel suo miglior sviluppo nei più alti gradi della civiltà barbarica; come, per esempio, nell’Europa o nel Giappone feudali. In tali comunità la distinzione fra le classi è molto rigorosamente osservata, e la caratteristica che più colpisce, dal punto ci vista economico, in queste differenze di classe è la distinzione mantenuta fra gli impieghi propri alle diverse classi. Le classi superiori sono per tradizione esenti o escluse dalle occupazioni industriali1 e sono riservate a certi impieghi, ai quali si annette un certo grado di onore. Il primo fra gli impieghi onorevoli in ogni comunità feudale è quello militare; e di regola il servizio sacerdotale gli è secondo. Se la comunità barbarica non è particolarmente bellicosa, l’ufficio sacerdotale può avere la precedenza, con quello del guerriero per secondo. Ma la regola, con trascurabili eccezioni, è che, siano guerrieri o sacerdoti, le classi superiori sono esenti dalle occupazioni dell’industria, e questa esenzione è l’espressione economica del loro rango superiore. L’India dei Brahmini offre un bell’esempio dell’esenzione di ambedue quelle classi dall’industria. Nelle comunità appartenenti alla più alta civiltà barbarica c’è una considerevole differenziazione di sottoclassi nel seno di quella che si può nel suo insieme chiamare la classe agiata; e c’è fra queste sottoclassi una corrispondente differenziazione d’impieghi. La classe agiata comprende come un tutto le classi nobili e sacerdotali, insieme con molti elementi del loro seguito. Le occupazioni della classe sono corrispondentemente diversificate; ma esse hanno in comune la caratteristica economica di non essere industriali. Queste occupazioni non industriali delle classi superiori possono essere suppergiù suddivise in governo, guerra, pratiche religiose e sport. In una fase meno recente di barbarie, ma non nella più antica, la classe agiata si trova in una forma meno differenziata. Né le distinzioni di classe né le distinzioni fra le occupazioni della classe agiata sono così minuziose e intricate. Gli isolani della Polinesia mostrano generalmente chiaro questo stadio di sviluppo, con l’eccezione che, a causa dell’assenza di selvaggina grossa, la caccia non detiene il solito posto d’onore nel modello della loro

esistenza. Anche la comunità islandese del tempo delle Saghe offre un esempio calzante. In una tale comunità vige una rigorosa distinzione fra le classi e fra le occupazioni proprie a ciascuna. Lavoro manuale, industria, tutto ciò che riguarda direttamente il lavoro quotidiano per procurarsi i mezzi di sussistenza, è l’occupazione esclusiva della classe inferiore. Questa classe inferiore comprende gli schiavi e altri dipendenti, e ordinariamente anche tutte le donne. Se vi sono diversi gradi di aristocrazia, le donne di alto rango sono generalmente esenti dall’impiego nell’industria, o almeno dai generi più volgari di lavoro manuale. Gli uomini delle classi superiori non solo sono esenti, ma per una prescrizione tradizionale sono loro vietate tutte le occupazioni industriali. Le serie di impieghi aperti ad essi è nettamente definita. Come già s’è detto più sopra, queste occupazioni sono il governo, la guerra, le pratiche religiose e gli sport. Questi quattro generi di attività dominano il modello di vita delle classi superiori, e per il rango più alto — i re o i condottieri — questi sono i soli generi di attività che il senso comune o il costume della comunità consente. Difatti là dove il modello è bene sviluppato, nemmeno gli sport sono del tutto legittimi per i membri del rango più alto. Ai gradi inferiori della classe agiata sono aperti vari altri impieghi, che sono però impieghi sussidiari all’una o all’altra di queste tipiche occupazioni della classe agiata. Tali sono, a esempio, la fabbricazione e manutenzione di armi, arnesi e imbarcazioni di guerra, l’allevamento e la cura di cavalli, cani e falconi, la preparazione di apparati sacri, ecc. Le classi inferiori sono escluse da questi secondari impieghi onorifici, tranne quelli che presentano un carattere nettamente industriale e non hanno che un rapporto assai remoto con le tipiche occupazioni della classe agiata. Se noi facciamo un passo indietro da questo esempio di civiltà barbarica, verso gli stadi inferiori della barbarie, non troviamo più la classe agiata nella sua forma pienamente sviluppata. Ma questa più bassa barbarie mostra gli usi, i motivi, e le circostanze da cui è sorta l’istituzione di una classe agiata e rivela i passi del suo primo sviluppo. Tribù nomadi di cacciatori illustrano in varie parti del mondo queste fasi più primitive della differenziazione. Qualunque tribù di cacciatori del Nord-America può servirci da esempio. Raramente si può dire che queste tribù abbiano una classe agiata definita. C’è una differenziazione di funzioni, e c’è una distinzione fra le classi in base a questa differenziazione, ma l’esenzione della classe superiore dal lavoro non è andata tanto in là da rendere senz’altro applicabile la denominazione di «classe agiata». Le tribù appartenenti a questo livello economico hanno portato la

differenziazione economica al punto in cui si apre una marcata distinzione fra le occupazioni degli uomini e delle donne, e questa distinzione è di carattere antagonistico. In quasi tutte queste tribù le donne, per prescrizione tradizionale, sono tenute a quelle mansioni, dalle quali nel prossimo stadio dovranno svilupparsi le occupazioni industriali. Gli uomini sono esenti da tali volgari occupazioni e si riservano per la guerra, la caccia, gli sport e le pratiche religiose. Nella faccenda è evidente, di solito, una discriminazione accuratissima. Questa divisione del lavoro coincide con la distinzione tra classe lavoratrice e classe agiata, quale appare nella civiltà barbarica superiore. Man mano che procede la diversificazione e la specializzazione degli impieghi, la linea di demarcazione così tracciata viene a separare le occupazioni industriali da quelle non industriali. L’occupazione degli uomini come si presenta nella primitiva fase barbarica non è il ceppo da cui si sia sviluppata, in misura apprezzabile, l’industria posteriore. Tale occupazione nello sviluppo posteriore sopravvive soltanto in impieghi che non sono classificati come industriali — la guerra, la politica, gli sport, gli studi e l’ufficio sacerdotale. Le sole eccezioni notevoli sono una parte dell’industria peschereccia e alcuni trascurabili impieghi che è incerto se si debbano classificare come industria; quali la manifattura di armi, utensili, e arnesi sportivi. Virtualmente l’intera serie degli impieghi industriali è uno sviluppo di ciò che nella primitiva comunità barbarica si considera lavoro da donne. Il lavoro degli uomini nella civiltà barbarica meno avanzata è non meno indispensabile alla vita del gruppo che il lavoro svolto dalle donne. Può anche essere che il lavoro degli uomini contribuisca altrettanto a procurare il cibo e a sopperire agli altri indispensabili bisogni del gruppo. Difatti, è così ovvio tale carattere «produttivo» del lavoro degli uomini, che negli scritti economici convenzionali l’occupazione della caccia è riguardata come il tipo dell’industria primitiva. Ma intorno a ciò non la pensa così l’uomo primitivo. Ai suoi propri occhi egli non è un lavoratore, e sotto questo rispetto egli non è classificabile con le donne; né il suo sforzo deve essere classificato con i degradanti lavori delle donne, come un lavoro manuale o un’industria, così che possa venir confuso con questi ultimi. C’è in tutte le comunità barbariche un senso profondo della disparità fra il lavoro dell’uomo e della donna. Il lavoro dell’uomo può contribuire al mantenimento del gruppo, ma si sente che opera così attraverso una specie di eccellenza e di efficacia che non possono, senza venir menomate, essere paragonate con la piatta diligenza delle donne.

A un gradino più basso nella scala culturale — fra gruppi selvaggi — la differenziazione degli impieghi è ancor meno elaborata e la distinzione antagonistica fra classi e impieghi è meno consistente e meno rigorosa. È difficile trovare esempi indiscutibili di selvaggia civiltà primitiva. Pochi di quei gruppi o comunità che vengono classificati come «selvaggi» non mostrano tracce di regressione da un più avanzato stadio culturale. Ma ci sono gruppi — alcuni di essi non sono a quanto pare risultato di una regressione — i quali mostrano i tratti dello stato selvaggio primitivo con una certa fedeltà. La loro civiltà differisce da quella delle comunità barbariche per la mancanza di una classe agiata e per la mancanza, in misura rilevante, della mentalità o dell’atteggiamento spirituale su cui poggia l’istituzione di una classe agiata. Queste comunità di selvaggi primitivi nelle quali non vi è nessuna gerarchia di classi economiche non costituiscono che una piccola e trascurabile frazione della razza umana. Il miglior esempio di questa fase culturale che si possa avere è offerto dalle tribù degli Andamani, oppure dai Toda dei monti Nilgiri2. Il modello di vita di questi gruppi al tempo del loro primo incontro con gli europei sembra sia stato quasi tipico, per quanto riguarda la mancanza di una classe agiata. Come ulteriore esempio potrebbero esser citati gli Ainu di Yezo3, e, con maggiore incertezza, anche alcuni gruppi di Boscimani e di Eschimesi. Alcune comunità Pueblo4 si possono meno sicuramente includere nella medesima categoria. La maggior parte, se non tutte, delle comunità qui citate, possono benissimo rappresentare casi di degenerazione da una forma superiore di barbarie, piuttosto che esempi di una civiltà che non sia mai salita sopra il suo livello presente. Se così è, esse son da prendersi per lo scopo presente con riserva, ma possono servire ciò nonostante come prova al medesimo effetto che se fossero realmente popolazioni «primitive». Queste comunità che sono senza una classe agiata definita si rassomigliano anche in alcuni altri tratti della loro struttura sociale e della loro maniera di vita. Esse sono piccoli gruppi e di struttura semplice (arcaica); sono usualmente pacifiche e sedentarie; sono povere; e la proprietà individuale non è la nota caratteristica del loro sistema economico. Nello stesso tempo non ne consegue che esse siano le più piccole fra le comunità esistenti o che la loro struttura sociale sia sotto tutti i rispetti la meno differenziata; né la loro categoria include necessariamente tutte le comunità primitive che non hanno nessun sistema definito di proprietà individuale. Ma è da notare che la categoria comprende i più pacifici gruppi primitivi di uomini — forse tutti quelli caratteristicamente pacifici. Difatti, il tratto più notevole comune ai

membri di tali comunità è una certa amabile inefficienza quando si trovano di fronte alla forza o alla frode. La prova offerta dagli usi e dalle caratteristiche culturali delle comunità a un basso stadio di sviluppo indica che l’istituzione di una classe agiata è emersa gradualmente durante il trapasso dal primitivo stato selvaggio alla barbarie; o più precisamente, durante il trapasso da un’abitudine di vita pacifica a un’altra costantemente bellicosa. Le condizioni apparentemente necessarie al suo stabilirsi in forma consistente sono: I) la comunità deve avere un abito di vita rapace (guerra, oppure caccia di selvaggina grossa, o ambedue le cose); vale a dire, gli uomini che in tali casi costituiscono l’incipiente classe agiata devono essere abituati a recare oltraggio con la forza e lo stratagemma; 2) la sussistenza deve poter essere procacciata con sufficiente facilità al fine di permettere l’esenzione di una parte notevole della comunità dalla continua applicazione a un lavoro sistematico. L’istituzione di una classe agiata è il risultato di una primitiva discriminazione fra le occupazioni, in conseguenza della quale alcune mansioni hanno dignità e altre no. Sotto questa antica distinzione le mansioni che hanno dignità sono quelle che si possono classificare fra le gesta illustri; senza dignità sono invece quelle faccende necessarie ogni giorno, nelle quali non entra nessun notevole elemento glorioso. Questa distinzione non ha che scarso significato in una moderna comunità industriale, e ha perciò ricevuta ben poca attenzione da parte degli scrittori di economia. Quando viene guardata alla luce di quel moderno senso comune che ha guidato la discussione economica, essa sembra formale e inconsistente. Ma essa persiste assai tenace come comunissimo preconcetto anche nella vita moderna, com’è dimostrato, per esempio, dalla nostra avversione abituale per i lavori servili. È una distinzione di un genere personale: di superiorità e di inferiorità. Nelle più remote fasi della civiltà, quando la forza personale dell’individuo contava più immediatamente e ovviamente nel determinare il corso degli eventi, l’elemento glorioso aveva un peso maggiore nel sistema di vita d’ogni giorno. L’interesse si fissava più intensamente attorno a questo fatto. Per conseguenza una distinzione che procedesse su questa base appariva più imperativa e più definitiva allora che non oggi. Perciò, nel seguito della evoluzione, la distinzione è divenuta un fatto sostanziale e poggia su fondamenti abbastanza validi ed evidenti. Il fondamento su cui è abitualmente praticata una discriminazione tra certi fatti cambia secondo che cambia l’interesse con cui i fatti sono abitualmente

considerati. Sono sostanziali e salienti quelle caratteristiche dei fatti presenti, sulle quali l’interesse dominante del tempo getta maggior luce. Una data base di distinzione sembrerà non sostanziale a chi di solito s’interessi dei fatti in questione da un punto di vista differente e li valuti in vista di uno scopo diverso. L’abitudine di distinguere e classificare i vari scopi e direzioni dell’attività prevale necessariamente sempre e dovunque; poiché è indispensabile per raggiungere una teoria o un modello di vita operanti. Il punto di vista particolare o la particolare caratteristica che vien fissata come definitiva nella classificazione dei fatti della vita dipende dall’interesse con cui si cerca una discriminazione dei fatti. I fondamenti della discriminazione, e la norma di procedura nel classificare i fatti, mutano perciò progressivamente come avanza lo sviluppo della civiltà; poiché il fine per cui i fatti della vita vengono pensati muta e conseguentemente muta pure il punto di vista. Cosicché quelli che sono riconosciuti come i tratti salienti e decisivi di una classe di attività o di una classe sociale in un determinato stadio di civiltà non riterranno la stessa importanza relativa agli scopi della classificazione in ogni stadio ulteriore. Ma il mutamento di criteri e di punti di vista è soltanto graduale, e raramente esso conduce a un’inversione o soppressione completa di un punto di vista già accettato. Una distinzione viene ancora abitualmente fatta tra occupazioni industriali e non industriali; e questa distinzione moderna è una forma derivata della distinzione barbarica fra impresa gloriosa e lavoro degradante. Uffici come la guerra, la politica, il servizio divino pubblico e i pubblici divertimenti nell’opinione popolare sono considerati intrinsecamente differenti dal lavoro che s’occupa di elaborare i mezzi materiali della vita. La linea precisa di demarcazione non è la stessa del primitivo modello barbarico, ma la larga distinzione non è caduta in disuso. Oggi la distinzione tacita, suggerita dal senso comune, è in effetti che ogni sforzo va considerato industriale solo fin dove il suo scopo ultimo è l’utilizzazione di cose non umane. L’utilizzazione coercitiva dell’uomo da parte dell’uomo non è considerata una funzione industriale; ma ogni sforzo diretto a sviluppare la vita umana vincendo l’ambiente non umano è raccolto sotto l’etichetta di attività industriale. Da parte degli economisti che meglio hanno ritenuto e adattato la tradizione classica il «potere dell’uomo sulla natura» è di regola postulato come il fatto caratteristico della produttività industriale. Si ritiene che questo potere industriale sulla natura comprenda il potere dell’uomo sulla vita delle bestie e sopra tutte le forze elementari. In tal

modo è tracciata una linea fra il genere umano e la creazione bruta. In altri tempi e fra uomini imbevuti di un diverso complesso di concetti basilari, questa linea non viene tracciata precisamente come noi la tracciamo oggi. Nel modello di vita selvaggio o barbarico essa è tracciata in un punto diverso e in un altro modo. In tutte le comunità di civiltà barbarica c’è un acuto e vigile senso di antitesi fra due vasti gruppi di fenomeni, in uno dei quali l’uomo barbarico comprende se stesso e nell’altro il suo vitto. C’è un’antitesi sentita tra fenomeni economici e non economici, ma essa non è concepita al modo d’oggigiorno; essa non è fra l’uomo e la creazione bruta ma fra cose animate e inanimate. Oggi come oggi può essere un eccesso di zelo spiegare che la nozione barbarica che qui s’intende esprimere con il termine «animato» non è quella che si sarebbe espressa con la parola «vivente». Il termine non comprende tutte le cose viventi, e ne indica invece una gran quantità di altre. Un fenomeno naturale così impressionante come un uragano, una malattia, una cascata, sono riconosciuti «animati»: mentre erbe e frutti, e persino animali di non grande mole, come mosche, vermi, conigli, ovini, non sono ordinariamente tenuti come «animati», salvo se presi collettivamente. Il termine qui usato non implica necessariamente un’anima o uno spirito interiori. Il concetto comprende quelle cose che, nell’immaginazione del selvaggio o barbaro animista, riescono formidabili in virtù di una reale o presunta capacità di dare inizio a un’azione. Questa categoria comprende una gran quantità e una intera serie di oggetti e fenomeni naturali. Ma tale distinzione tra le cose inerti e le attive è tuttora presente nelle abitudini di pensiero di persone irriflessive, e tuttora profondamente impregna la teoria predominante della vita umana e dei processi naturali; essa però non pervade la nostra vita quotidiana nella misura o con le vaste conseguenze pratiche che appaiono nei primi stadi della civiltà e delle credenze. Nella mente del barbaro, l’elaborazione e l’utilizzazione di ciò che è offerto dalla natura inerte è un’attività su un piano completamente diverso dai suoi contatti con le cose e le forze «animate». La linea di demarcazione può essere vaga e indeterminata, ma la distinzione all’ingrosso è abbastanza reale ed evidente da influire sul modello di vita barbarico. Nella categoria delle cose concepite come animate, l’immaginazione barbarica colloca uno spiegamento di attività diretto a qualche fine. È questa teleologica esplicazione di attività che fa di un oggetto o di un fenomeno un fatto «animato». Laddove il selvaggio o il barbaro allo stato di natura s’incontra con un’attività che viene

interamente dal difuori, egli la interpreta con i soli termini che ha a portata di mano — i termini dati immediatamente nella consapevolezza delle sue proprie azioni. L’attività viene quindi assimilata all’azione umana, e gli oggetti attivi sono in questo modo assimilati all’agente umano. I fenomeni di questo genere — specialmente quelli il cui svolgimento è particolarmente temibile o sconcertante — devono essere affrontati con un diverso spirito e con un’abilità di un genere diverso da quella che è richiesta per trattare le cose inerti. Far fronte con successo a tali fenomeni è piuttosto una gesta gloriosa che un’impresa industriale. È una affermazione di coraggio, non di diligenza. Sotto la suggestione di questa ingenua discriminazione fra le cose inerti e le animate, le attività del gruppo sociale primitivo tendono a suddividersi in due classi, che con parole moderne si potrebbero chiamare della gesta e dell’industria. L’industria è uno sforzo che tende a creare una cosa nuova, con un nuovo scopo conferitole dalla industre mano di colui che la trae dalla materia passiva («bruta»); mentre la gesta, in quanto produca un frutto utile a chi la compie, consiste nel far convergere ai propri fini energie prima dirette a qualche altro fine da qualche altro agente. Noi ancora parliamo di «materia bruta» con qualcosa del profondo significato che questo termine aveva per i barbari. La differenza fra gesta e ordinaria sfaticata coincide con una differenza fra i sessi. I sessi differiscono non solo nella statura e nella forza muscolare, ma forse anche più decisamente quanto al temperamento, e questo deve aver dato origine per tempo a una corrispondente divisione del lavoro. Tutta la serie delle attività che sono comprese nella categoria delle gesta tocca a: maschi, che sono più robusti, più massicci, più adatti a uno sforzo improvviso e violento, e più immediatamente proclivi all’autoaffermazione, all’emulazione attiva e all’aggressione. La differenza nel corpo, nel carattere fisiologico e nel temperamento può essere minima fra i membri del gruppo primitivo; in effetti essa è relativamente leggera e priva di conseguenze in alcune delle comunità più arcaiche di cui noi siamo venuti a conoscenza — quali per esempio le tribù degli Andamani. Ma non appena una differenziazione di funzione sarà ben avviata in base a questa differenza nel fisico e nell’animo, la differenza originaria fra i sessi aumenterà. Si stabilirà un processo cumulativo di adattamento selettivo alla nuova distribuzione degli impieghi, specialmente se l’ambiente o la fauna con cui il gruppo è alle prese sia tale da richiedere un considerevole esercizio delle qualità più ardite. La caccia abituale di selvaggina grossa richiede parecchie qualità maschili di robustezza, agilità e

ferocia, e per questo non può fare a meno di affrettare e allargare la differenza di funzioni fra i sessi. Non appena poi il gruppo viene ad urtarsi con altri gruppi, la divergenza di funzioni assume la forma sviluppata di una distinzione fra gesta e industria. In siffatto gruppo predatorio di cacciatori la mansione degli uomini abili viene ad essere la guerra e la caccia. Le donne fanno tutti gli altri lavori che ci sono da fare — poiché gli altri membri inabili alla mansione virile sono a questo scopo classificati tra le donne. Ma il cacciare e il combattere sono due cose del medesimo carattere generico. Entrambe sono di natura predatoria; il guerriero e il cacciatore raccolgono dove non hanno seminato. La loro aggressiva affermazione di forza e accortezza differisce naturalmente dal diligente e ordinario lavoro su oggetti materiali, che fanno le donne; essa non può considerarsi come un lavoro produttivo, ma piuttosto un acquisto di sostanze attraverso la rapina. Essendo questo il lavoro dell’uomo barbarico, nel suo più alto sviluppo e nella più accentuata divergenza dal lavoro delle donne, ogni sforzo che non implichi un’affermazione di coraggio viene a essere indegno dell’uomo. Come la tradizione prende consistenza, il senso comune della comunità ne fa una regola di condotta; cosicché nessun impiego e nessun acquisto è in questa fase culturale moralmente possibile all’uomo che si rispetti, eccetto quello che si muova su una base di coraggio — la violenza o la frode. Quando l’abito di vita predatoria si è stabilito nel gruppo per una lunga consuetudine, nell’economia sociale l’ufficio accreditato dell’uomo abile diventa uccidere, eliminare nella lotta per l’esistenza i competitori che cercano di resistergli o di sfuggirgli, sopraffare e soggiogare quelle forze estranee che nell’ambiente circostante si affermano ostilmente. Così tenacemente e con tale minuzia si è radicata questa distinzione teorica fra gesta e lavoro ordinario che in parecchie tribù di cacciatori l’uomo non deve portare a casa la selvaggina ch’egli ha uccisa, ma deve invece mandare la sua donna a compiere questo vile ufficio. Come è già stato detto, la distinzione fra gesta e lavoro di poco conto è una distinzione di carattere antagonistico fra le occupazioni. Quelle mansioni che vanno classificate come gesta sono degne, onorevoli, nobili; gli altri impieghi, che non contengono tale elemento di gloria, e specialmente quelli che implicano servilità o sottomissione, sono di nessun conto, degradanti, ignobili. Il concetto di dignità, valore o onore, com’è applicato o alle persone o alla condotta, ha conseguenze di prim’or-dine nello sviluppo delle classi e delle distinzioni di classe, ed è perciò necessario dire qualcosa sulla sua

derivazione e sul suo significato. Il suo fondamento psicologico può essere indicato in breve come segue. Per necessità selettiva, l’uomo è un agente. Egli è, nella sua propria concezione, un centro di attività dispiegantesi e impulsiva: attività «teleologica». Egli è un agente che cerca in ogni atto il compimento di qualche fine concreto, oggettivo, impersonale. In forza del suo esser tale, egli sente gusto per il lavoro efficiente e disgusto per quello futile. Egli ha un senso del merito dell’utilità o efficienza e del demerito della futilità, dello sciupìo o incapacità. Tale attitudine o inclinazione si può chiamare Fi-stinto dell’efficienza. Là dove le circostanze o le tradizioni di vita portano al confronto abituale di una persona con un’altra in fatto di capacità, l’istinto dell’efficienza opera attraverso un confronto di carattere emulatorio o antagonistico tra persone. La misura a cui giunge questo risultato dipende in grado considerevole dal temperamento della popolazione. In ogni comunità dove un tale confronto antagonistico di persone sia fatto abitualmente, il successo pubblico diventa un fine ricercato per se stesso come base di estimazione. Si guadagna la stima e si evita il disprezzo mettendo in mostra la propria efficienza. Il risultato è che l’istinto dell’efficienza si esprime attraverso una dimostrazione di forza emulatoria. Durante quella fase primitiva della evoluzione sociale, quando la comunità è ancora abitualmente pacifica, forse sedentaria, e senza un sistema sviluppato di proprietà privata, l’efficienza dell’individuo può mostrarsi principalmente e con maggior consistenza in qualche ufficio che serva a favorire la vita del gruppo. Quell’emulazione di natura economica che c’è fra i membri di un tal gruppo sarà specialmente emulazione industriale nell’utilità. Nello stesso tempo l’incentivo all’emulazione non è forte, né per l’emulazione c’è molto campo. Quando la comunità passa da uno stadio di vita selvaggio a un altro di rapina, le condizioni dell’emulazione cambiano. L’opportunità e l’incentivo all’emulazione crescono grandemente quanto alla portata e all’urgenza. L’attività degli uomini assume sempre più un carattere di gesta e il confronto antagonistico fra un cacciatore o un guerriero e un altro si fa sempre più facile e abituale. Segni tangibili di coraggio — i trofei — trovano posto nei pensieri abituali degli uomini come un elemento essenziale delle cose della vita. Il bottino, i trofei della caccia o della razzia vengono ad essere considerati segni evidenti di forza superiore. L’aggressione diventa la forma accreditata di azione, e il bottino serve come prova immediata di un’aggressione vittoriosa.

Com’è intesa in questo stadio culturale, la forma accreditata, degna, di autoaffermazione è la lotta; e arnesi o servizi utili, ottenuti con la rapina o per forza, servono come prova convenzionale di lotta vittoriosa. Perciò, l’ottenere merci con sistemi diversi dalla rapina viene per contrasto ad essere stimato indegno di un uomo nel fiore delle sue condizioni. Il portare a termine il lavoro produttivo, o l’impiego in servizi personali, cade sotto la stessa avversione per il medesimo motivo. In tal modo una distinzione antagonistica sorge fra gesta e acquisto per rapina da una parte, e occupazione industriale dall’altra. Il lavoro assume un carattere detestabile in virtù della indegnità che gli viene attribuita.

Thorstein Veblen nel 1920. Al barbaro primitivo, prima che il semplice contenuto della nozione sia stato oscurato dalle sue proprie diramazioni e da un ulteriore sviluppo di idee da esso scaturite, sembra che «onorevole» non denoti altro che

un’affermazione di forza superiore. «Onorevole» vale «formidabile», «degno» vale «prepotente». Un atto onorifico è in ultima analisi poco o punto diverso da un atto di aggressione che si riconosca ben riuscito; e dove aggressione significa combattimento con uomini e bestie, l’attività che viene ad essere specialmente e soprattutto onorevole è l’affermazione del braccio forte. L’ingenua abitudine arcaica di interpretare tutte le manifestazioni di forza in termini di personalità o «forza di volontà» accentua notevolmente questa convenzionale esaltazione del braccio forte. Epiteti onorifici, di moda fra le tribù barbariche così come fra popoli di civiltà più avanzata, sono comunemente improntati a questo semplice senso dell’onore. Gli appellativi e i titoli usati nel rivolgersi ai capi, e nella propiziazione di re o di dèi, in linea di massima attribuiscono una tendenza alla violenza travolgente e un’irresistibile forza devastatrice alla persona da propiziarsi. Ciò è vero in certa misura anche nelle comunità più civili del giorno d’oggi. La predilezione mostrata negli stemmi araldici per le bestie e gli uccelli da preda più rapaci viene a corroborare la stessa tesi. Con questo apprezzamento del valore e dell’onore da parte del senso comune barbarico, il togliere la vita — l’uccidere competitori temibili, sia bruti che umani — è onorevole nel più alto grado. E questo alto ufficio della strage, come espressione della prepotenza di chi uccide, avvolge di un’aureola gloriosa ogni atto di strage e tutti gli arnesi e gli accessori dell’atto. Le armi sono onorevoli, e l’impiego di esse, persino nell’insidiare la vita dei più trascurabili animali dei campi, diventa un impiego onorifico. Nello stesso tempo, l’impiego nell’industria diventa de testabile e, nella stima comune, il maneggio degli arnesi e degli utensili dell’industria cade al di sotto della dignità di un uomo vero. Il lavoro diventa disgustoso. Si è qui presupposto che nello sviluppo dell’evoluzione culturale i gruppi umani primitivi sono passati da uno stadio pacifico iniziale a un ulteriore stadio in cui combattere è la riconosciuta e caratteristica mansione del gruppo. Ma ciò non vuol dire che ci sia stato un brusco trapasso da una pace e benevolenza costanti a una fase posteriore o più evoluta di vita in cui il fatto della lotta s’incontri per la prima volta. Né ciò significa che ogni pacifica industria scompaia nel passaggio alla fase culturale della rapina. Un po’ di lotta, lo si può dire sicuramente, s’incontrerà in ogni stadio primitivo dello sviluppo sociale. Di lotte, più o meno frequenti, ne avvenivano attraverso la competizione sessuale. Le abitudini dei gruppi primitivi noti, così come le abitudini delle scimmie antropoidi appoggiano questa tesi, e la prova data

dalle ben note tendenze della natura umana conferma lo stesso punto di vista. Si può perciò obiettare che può non esserci stato alcuno stadio iniziale di vita pacifica, quale si è qui presupposto. Non c’è alcun momento nell’evoluzione culturale prima del quale non si incontri la lotta. Ma il punto in questione non è il verificarsi della lotta, occasionale o sporadica, o perfino più o meno frequente e abituale; è una questione concernente il formarsi di una mentalità abitualmente bellicosa — una prevalente abitudine di giudicare fatti ed eventi dal punto di vista della lotta. La fase predatoria della civiltà è raggiunta solo quando l’atteggiamento rapinatorio è divenuto l’atteggiamento spirituale accreditato e abituale per i membri del gruppo; quando il combattimento è diventato la nota dominante nella concezione comune della vita; quando l’apprezzamento di uomini e cose da parte del senso comune è arrivato ad essere un apprezzamento dal punto di vista della lotta. La differenza sostanziale fra la fase culturale pacifica e quella predatoria è perciò una differenza spirituale, non una meccanica. Il mutamento dell’atteggiamento spirituale è il risultato di un mutamento nei fatti materiali della vita del gruppo, ed esso si afferma gradualmente secondo che sopraggiungono circostanze materiali favorevoli a un atteggiamento di rapina. Il limite inferiore della civiltà di rapina è un limite industriale. La rapina non può divenire l’abituale, convenzionale risorsa di un gruppo o di una classe fino a che i metodi industriali non si siano sviluppati a un grado tale di efficienza da lasciare un margine per cui valga la pena combattere, al di sopra della sussistenza di quelli incaricati di procurare il cibo. Il trapasso dalla pace alla rapina dipende perciò dallo sviluppo delle scienze tecniche e dall’uso di utensili. Così è impraticabile una civiltà di rapina nei tempi antichi, finché le armi non si sono sviluppate a un punto tale da fare dell’uomo un animale temibile. Il primitivo sviluppo di armi e di utensili è naturalmente lo stesso fatto giudicato da due punti di vista differenti. La vita di un dato gruppo può essere denominata pacifica per tutto il tempo in cui il ricorso abituale al combattimento non ha portato la lotta nell’intimo dei pensieri quotidiani degli uomini, come un tratto caratteristico della vita umana. Un gruppo può evidentemente raggiungere un simile atteggiamento predatorio con un grado maggiore o minore di compiutezza, cosicché il suo sistema di vita e le sue regole di condotta possono in maggiore o minore misura essere signoreggiate dall’animus rapace. La fase predatoria della civiltà è perciò concepita come crescente per gradi attraverso uno sviluppo cumulativo di attitudini, abitudini e tradizioni di rapina — questo

sviluppo essendo dovuto a un cambiamento nelle circostanze della vita del gruppo tale da sviluppare e conservare quei tratti della natura umana e quelle tradizioni e norme di condotta che si confanno a una vita di rapina piuttosto che a una vita pacifica. La prova dell’ipotesi che un tale stadio pacifico nella civiltà primitiva sia esistito si trae in gran parte dalla psicologia più che dall’etnologia e qui non può essere esposta dettagliatamente. In parte sarà esposta in un capitolo ulteriore, trattando della sopravvivenza dei caratteri arcaici della natura umana nella civiltà moderna. 1. Nel senso di «produttive ai fini degli interessi della comunità». Veblen stesso spiegò il suo uso del termine replicando alle critiche del collega John Cummings di Harvard, sul «Journal of Politicai Economy» del dicembre 1899. 2. Gli Andamani abitano un omonimo arcipelago nell’Oceano Indiano, tra la costa birmana e l’isola di Sumatra; i Toda abitano le Nilgiri Hills, nell’India del Sud, e furono oggetto di una famosa monografia di W. H. R. Rivers, pubblicata nel 1966. Veblen si servì al riguardo delle ricerche dell’inglese B. H. BadenPowell, cioè The Land-Systems of British India, da lui recensito sul «Journal of Politicai Economy» del dicembre 1893. 3. Gli Ainu erano gli originari abitanti dell’isola di Yezo, oggi Hokkaido, la più settentrionale dell’arcipelago nipponico. 4. I Boscimani sono tribù nomadi aborigene del Sud Africa. Le tribù Pueblo risiedono negli Stati Uniti del Sud-ovest e nel Messico. Veblen attinge le notizie relative agli Eschimesi e ai Boscimani da Frederick Starr, antropologo all’università di Chicago e suo amico, che nel 1896 tradusse Le origini dell’Arte di Ernst Grosse; e quelle sugli Indiani dai volumi di ricerche etnologiche della Smithsonian Institution.

CAPITOLO II. L’EMULAZIONE FINANZIARIA Nell’ulteriore evoluzione culturale il sorgere di una classe agiata coincide con l’inizio della proprietà. Così stanno necessariamente le cose, poiché queste due istituzioni scaturiscono dal medesimo complesso di forze economiche. Nella fase iniziale del loro sviluppo esse non sono che aspetti differenti degli stessi fatti generali della struttura sociale. È come elementi della struttura sociale — fatti convenzionali — che l’agiatezza e la proprietà c’interessano per il nostro scopo. Un’abituale negligenza del lavoro non basta a costituire una classe agiata, né il fatto meccanico dell’uso e del consumo a costituire la proprietà. La presente indagine, perciò, non ricerca come avesse inizio l’indolenza o l’appropriazione di articoli utili per il consumo individuale. Il punto in questione è l’origine e la natura di una classe agiata convenzionale, da un lato, e gli inizi della proprietà individuale come diritto convenzionale o equa rivendicazione, dall’altro. La prima differenziazione da cui nasce la distinzione fra classe agiata e classe lavoratrice è la divisione mantenuta tra il lavoro degli uomini e quello delle donne negli infimi stadi della barbarie. Allo stesso modo la primissima forma di proprietà è proprietà delle donne da parte degli uomini capaci della comunità. I fatti possono venir espressi in termini più generali e più consoni all’importanza della teoria barbarica della vita, dicendo che c’è una proprietà della donna da parte dell’uomo. Senza dubbio, qualche appropriazione di cose utili esisteva già prima che sorgesse il costume d’impadronirsi delle donne. Le usanze di comunità arcaiche esistenti in cui non si riscontra nessuna appropriazione delle donne sono una riprova di tale verità. In tutte le comunità i membri, maschi e femmine, abitualmente s’impadroniscono per il loro uso privato di varie cose utili; ma non si pensa che queste cose utili appartengano alle persone che se ne appropriano e le consumano. L’appropriazione e il consumo abituale di certi trascurabili effetti personali avviene senza dar luogo alla questione della proprietà; vale a dire, la questione di un equo e convenzionale diritto a cose estranee.

La proprietà delle donne comincia negli stadi inferiori, barbarici della civiltà, evidentemente con il ratto di prigioniere. Il motivo originario del ratto e dell’appropriazione delle donne sembra fosse la loro utilità come trofei. L’usanza di rapire donne al nemico come trofei diede origine a una forma di proprietà-matrimonio, che mise poi capo alla famiglia governata da un maschio. A ciò fece seguito un estendersi della schiavitù anche ad altri prigionieri e dipendenti, oltre le donne, e un estendersi della proprietàmatrimonio ad altre donne, oltre a quelle rapite al nemico. Per questo, risultato dell’emulazione nelle circostanze di una vita di rapina fu da un lato una forma di matrimonio basata sulla costrizione e dall’altro l’uso della proprietà. Le due istituzioni non si possono distinguere nella fase iniziale del loro sviluppo; ambedue nascono dal desiderio degli uomini capaci di mettere in evidenza il loro coraggio con l’esibire qualche durevole risultato delle loro gesta. Ambedue quindi contribuiscono a quella tendenza al primato che pervade tutte le comunità predatorie. Dalla proprietà delle donne il concetto di proprietà si allarga fino a comprendere i prodotti della loro industria, e così nasce la proprietà tanto delle cose che delle persone. In questo modo un coerente sistema di proprietà di merci viene gradualmente stabilito. E benché nei più recenti stadi di sviluppo l’adattabilità delle merci al consumo venga a essere l’elemento più evidente del loro valore, ciò nonostante la ricchezza non ha ancora perduto la sua utilità come segno onorifico della prepotenza del proprietario. Dovunque si trova l’istituzione della proprietà privata, anche in forma poco sviluppata, il processo economico ha il carattere di una lotta fra uomini per il possesso dei beni. È diventato tradizionale negli studi economici, e specialmente fra quegli economisti che aderiscono più risolutamente all’insieme delle dottrine classiche ammodernate, interpretare questa lotta per la ricchezza come se fosse sostanzialmente una lotta per i mezzi di sussistenza. Tale è senza dubbio in massima parte il suo carattere durante le prime e meno efficienti fasi dell’industria. Tale è pure il suo carattere in tutti i casi in cui «l’avarizia della natura» è così grande da non offrire che scarsi mezzi di vita alla comunità, in compenso di una continua e sfibrante applicazione per procurarsi di che vivere. Ma in tutte le comunità che progrediscono, si fa presto ad avanzare oltre questo primo stadio dello sviluppo tecnologico. L’efficienza dell’industria è ben presto arrivata a un punto tale da offrire qualcosa di più apprezzabile che la pura sussistenza a coloro che sono occupati nel processo industriale. E non di rado la teoria economica ha parlato

dell’ulteriore lotta per la ricchezza su questa nuova base industriale come di una competizione per accrescere le comodità della vita — principalmente per accrescere le comodità materiali, che il consumo dei beni offre. Si ritiene convenzionalmente che il fine dell’appropriazione e dell’accumulazione sia il consumo delle merci accumulate — sia che il consumo venga fatto direttamente dal proprietario dei beni oppure dalla famiglia che fa capo a lui e che a questo proposito viene identificata con lui in teoria. Almeno si sente che questo è il fine economicamente legittimo dell’appropriazione e che di questo soltanto la teoria deve tener conto. Si può naturalmente concepire tale consumo al servizio delle necessità fisiche del consumatore — la sua comodità materiale — o delle sue cosiddette esigenze superiori — spirituali, estetiche, intellettuali o che so io; essendo queste ultime soddisfatte indirettamente da un consumo di beni, nel modo familiare a tutti i lettori di economia. Ma soltanto quando sia preso in un senso molto lontano dal suo significato originario il consumo di merci può dirsi offrire l’incentivo a cui consegue invariabilmente l’accumulazione. Il motivo che sta alla radice della proprietà è l’emulazione; e lo stesso motivo dell’emulazione continua ad agire nell’ulteriore sviluppo dell’istituto al quale ha dato origine, e nello sviluppo di tutte quelle caratteristiche della struttura sociale che questo istituto della proprietà interessa. Il possesso della ricchezza conferisce onore, è una distinzione antagonistica. Nessuna parola così forte può dirsi del consumo di beni né di ogni altro concepibile incentivo all’appropriazione né specialmente di ogni incentivo ad accumulare ricchezza. Non va naturalmente taciuto che in una società in cui quasi tutti i beni sono proprietà privata, la necessità di guadagnarsi da vivere è un potente e continuo stimolo per i membri più poveri della comunità. Il bisogno di mezzi di sussistenza e di un aumento del conforto materiale può per un certo tempo essere il motivo dominante dell’acquisizione per quelle classi che siano abitualmente impiegate nel lavoro manuale, la cui sussistenza poggi su basi precarie, che posseggano poco e d’ordinario accumulino poco; ma nel corso della discussione apparirà chiaro che persino nel caso di queste classi povere il predominio del motivo del benessere materiale non è così netto come si è talvolta supposto. D’altra parte, per quanto riguarda quei membri e quelle classi della società che sono particolarmente interessati all’accumulazione della ricchezza, l’incentivo della sussistenza o del conforto materiale non rappresenta mai una parte considerevole. La proprietà cominciò e diventò

un’istituzione umana, su basi che non hanno relazione con il minimo necessario alla sussistenza. L’incentivo dominante fu dall’inizio la distinzione antagonistica, connessa con la ricchezza, e, fuorché in via eccezionale e temporanea, nessun altro motivo ha usurpato la supremazia in qualche stadio posteriore dello sviluppo. La proprietà ebbe origine come bottino considerato quale trofeo della razzia fortunata. Per tutto il tempo che il gruppo non si fu che di poco allontanato dall’organizzazione primitiva e fino a quando esso rimase in stretto contatto con altri gruppi ostili, l’utilità delle cose o delle persone possedute consistette soprattutto in un confronto antagonistico fra il loro possessore e il nemico a cui fossero state prese. L’abitudine di distinguere fra gli interessi dell’individuo e quelli del gruppo al quale egli appartiene è evidentemente uno sviluppo posteriore. Il confronto antagonistico fra il possessore del bottino onorifico e i suoi meno gloriosi vicini nell’interno del gruppo agì senza dubbio assai presto come elemento del vantaggio derivato dal possesso delle cose, benché non fosse all’origine il fattore principale del loro pregio. Il coraggio dell’uomo era ancora anzitutto coraggio del gruppo, e il possessore del bottino sentiva in modo particolare di essere il campione dell’onore del gruppo. Tale apprezzamento della gesta dal punto di vista della comunità lo si incontra pure in stadi posteriori dello sviluppo sociale, specialmente per quanto riguarda i trionfi di guerra. Ma non appena comincia a prendere consistenza l’uso della proprietà individuale, il punto di vista adottato nel confronto antagonistico su cui poggia la proprietà privata comincia a cambiare. Difatti l’un cambiamento non è che il riflesso dell’altro. La fase iniziale della proprietà, la fase dell’acquisizione attraverso la semplice cattura e il cambio, comincia a passare nello stadio successivo di un’incipiente organizzazione dell’industria sulla base della proprietà privata (in schiavi); l’orda si sviluppa in una comunità industriale più o meno autosufficiente; le cose possedute vengono allora a essere valutate non tanto come prova di una razzia vittoriosa, bensì come prova della superiorità del possessore di questi beni su altri individui all’interno della comunità. Il confronto antagonistico diventa ora principalmente un confronto del proprietario con gli altri membri del gruppo. La proprietà tiene ancora della natura del trofeo ma, con l’avanzare della civiltà, essa diventa sempre più un trofeo di successi ottenuti nella gara della proprietà praticata fra i membri del gruppo con i metodi semi-pacifici di una vita nomade.

A poco a poco, come l’attività industriale sostituisce sempre più largamente l’attività di rapina nella vita quotidiana della comunità e negli abiti mentali degli uomini, la proprietà accumulata sostituisce sempre più i trofei delle gesta predatorie come fondamento convenzionale di strapotere e di successo. Perciò con lo sviluppo dell’industria organizzata il possesso della ricchezza acquista relativamente importanza ed efficacia come base convenzionale della reputazione e della stima. Non che la stima cessi di venire aggiudicata in base a un’altra e più diretta prova di coraggio; non che un’aggressione ladronesca o un’impresa guerresca riuscita cessi di suscitare l’approvazione e l’ammirazione della folla, o di stuzzicare l’invidia dei competitori meno fortunati; ma le opportunità di acquistarsi chiara fama per mezzo di questa diretta manifestazione di forza superiore diventano meno favorevoli per portata e per frequenza. Nello stesso tempo, le opportunità della gara nel campo industriale e nell’accumulo di proprietà attraverso i sistemi quasi pacifici dell’industria nomade aumentano quanto alla portata e all’idoneità. Ed è anche più vicino al nòcciolo del problema dire che la proprietà adesso diventa la prova più facilmente riconosciuta di un grado notevole di successo distinto dalla gesta eroica o segnalata. Essa diventa perciò la base della reputazione. Possederne in certa misura diventa necessario per occupare una qualunque considerevole posizione nella comunità. Diventa indispensabile accumulare, acquistare proprietà, per conservare il proprio buon nome. Una volta che i beni accumulati sono diventati in questo modo il segno riconosciuto dell’efficienza, il possesso della ricchezza assume allora il carattere di una base autonoma e definitiva di stima. Il possesso di beni, acquistati attivamente dalla propria iniziativa oppure passivamente attraverso l’eredità trasmessa da altri, diventa una base convenzionale di rispettabilità. Il possesso della ricchezza, che all’inizio era considerato semplicemente prova di capacità, nell’opinione popolare diventa esso stesso un atto meritorio. La ricchezza è ora essa stessa intrinsecamente onorevole e conferisce onore a chi la possiede. Con un ulteriore raffinamento, la ricchezza acquistata passivamente per eredità dagli avi o da altri progenitori diventa adesso persino più onorifica che la ricchezza acquistata dal possessore con sforzi; ma questa distinzione appartiene a uno stadio posteriore nell’evoluzione della civiltà del danaro e se ne parlerà a suo luogo. Il coraggio e la gesta possono ancora rimanere la base per decidere della più alta stima popolare, benché il possesso della ricchezza sia diventato la base ordinaria della rispettabilità e di una posizione sociale irreprensibile. L’istinto

di rapina e la conseguente approvazione dell’efficienza predatoria sono profondamente radicati nelle abitudini mentali di quelle genti che sono passate sotto la disciplina di una protratta civiltà di rapina. In armonia con il giudizio della gente, i più alti onori alla portata di un uomo possono, ancor oggi, essere quelli raggiunti dimostrando un’eccezionale capacità predatoria in guerra o quasi-predatoria in politica; ma ai fini di un’ordinaria e conveniente posizione nella comunità questi mezzi per procacciarsi reputazione sono stati sostituiti dall’acquisto e dall’accumulo della ricchezza. Per godere di buona fama agli occhi della comunità è necessario arrivare a un certo grado, un po’ vago e convenzionale, di ricchezza; proprio come nel primitivo stadio di rapina era necessario per l’uomo barbaro raggiungere la media tribale di fisica sopportazione, di astuzia e abilità nel maneggio delle armi. Un certo grado di ricchezza in un caso e di coraggio nell’altro sono condizione necessaria per riuscire rispettabili, e tutto quanto supera questo grado ordinario diventa meritorio. Quei membri della comunità che non raggiungono questo grado normale, un po’ vago, di coraggio e di proprietà, riescono menomati nella stima dei compagni; e per conseguenza riescono pure menomati nella stima che hanno di se stessi, poiché la base usuale del rispetto di sé è il rispetto concesso dal proprio vicino. Soltanto individui dotati di un temperamento fuori dell’ordinario possono a lungo andare conservare la stima di se medesimi di fronte alla disistima dei compagni. S’incontrano apparenti eccezioni a questa regola, specialmente fra gente di profonde convinzioni religiose. Ma queste apparenti eccezioni di rado sono eccezioni vere e proprie, poiché tali persone ricorrono comunemente alla supposta approvazione delle loro azioni da parte di qualche spirito soprannaturale. Non appena il possesso di proprietà diventa la base della stima popolare, per ciò stesso esso diventa anche un requisito di quella compiacenza che noi chiamiamo rispetto di sé. In ogni comunità, in cui si posseggono beni separatamente, è necessario, per la pace del suo spirito, che un individuo possieda tanti beni quanti ne posseggono gli altri con i quali è solito classificare se stesso; ed è cosa estremamente lusinghiera possedere qualcosa in più degli altri. Appena però una persona fa nuovi acquisti e si abitua al nuovo livello di ricchezza che ne deriva, il nuovo livello cessa di offrire una soddisfazione notevolmente più grande di quella che offriva il livello di prima. In ogni caso la tendenza è sempre di fare del presente grado di ricchezza il punto di partenza per un nuovo aumento; e questo a sua volta dà origine a un

nuovo livello di agiatezza e a una nuova classificazione finanziaria per chiunque si paragoni al proprio vicino. Per quanto riguarda questo problema, il fine cui tende l’accumulazione è di mettersi in alto in fatto di possibilità finanziarie a paragone con il resto della comunità. Per tutto il tempo che il paragone gli è chiaramente sfavorevole, l’individuo normale medio vivrà in uno stato di cronica scontentezza della propria sorte; quando poi egli ha raggiunto quello che si può chiamare il livello finanziario normale della comunità o della sua classe nella comunità, questa cronica insoddisfazione darà luogo a un continuo sforzo per stabilire un più ampio e sempre più profondo intervallo finanziario fra se stesso e quel livello medio. Il confronto antagonistico non può mai essere così favorevole all’individuo che lo fa, che egli non desideri classificarsi ancora più in alto rispetto ai concorrenti nella lotta per la rispettabilità finanziaria. In questo caso il desiderio di ricchezza raramente può venir appagato in un caso individuale, ed evidentemente un appagamento del normale o generale desiderio di ricchezza è fuori questione. Per quanto largamente o egualmente o «discretamente» possa essa venir distribuita, nessun aumento generale della ricchezza della comunità può anche lontanamente saziare questo bisogno, il cui fondamento è il desiderio di ciascuno di eccellere sopra ogni altro nell’accumulare ricchezze. Se, come talvolta si pensa, lo stimolo ad accumulare fosse il bisogno della sussistenza oppure del benessere fisico, allora il complesso delle necessità economiche di una comunità potrebbe presumibilmente venir soddisfatto in certa misura con il progredire dell’efficienza industriale; ma poiché la lotta è sostanzialmente una corsa alla onorabilità basata su di un confronto antagonistico, non è possibile nessun avvicinamento ad una meta definitiva. Ciò che si è detto or ora non va inteso nel senso che non ci siano altri incentivi ad acquistare e ad accumulare oltre a questo desiderio di eccellere nella posizione finanziaria e procurarsi così la stima e l’invidia dei propri simili. Il desiderio d’accrescere la comodità e la sicurezza dal bisogno è presente come motivo in ogni stadio del processo di accumulazione in una società industriale moderna; benché il livello di agiatezza a questo proposito sia a sua volta grandemente influenzato dall’abitudine dell’emulazione finanziaria. Quest’emulazione crea in gran parte i metodi e sceglie gli oggetti della spesa per il benessere personale e un buon tenore di vita. A parte questo, anche il potere conferito dalla ricchezza offre un motivo per accumulare. La tendenza a un’attività che abbia un fine, e quella

ripugnanza a ogni sforzo futile propria dell’uomo in virtù del suo carattere ci agente, non lo abbandona quand’egli esce dalla semplice civiltà comunitaria, in cui la caratteristica dominante della vita è la solidarietà indifferenziata e non analizzata dell’individuo con il gruppo al quale è legata la sua vita. Allorché egli entra nello stadio di rapina, in cui la ricerca del proprio interesse nel senso più stretto diventa la nota dominante, questa tendenza lo segue ancora, come caratteristica che foggia e pervade il suo modello di vita. La tendenza alla riuscita e la ripugnanza per la futilità rimangono il motivo economico fondamentale. La tendenza muta soltanto nella forma della sua espressione e nei fini prossimi a cui indirizza l’attività dell’uomo. In regime di proprietà individuale il mezzo più adatto per raggiungere uno scopo manifesto è quello offerto dall’acquisto e dall’accantonamento di beni; quando poi la reciproca antitesi fra uomo e uomo raggiunge piena consapevolezza, la tendenza alla riuscita — l’istinto dell’efficienza — tende sempre più a diventare uno sforzo per superare gli altri nel successo finanziario. Un successo relativo, testimoniato da un confronto finanziario antagonistico con altri uomini, diventa il fine convenzionale dell’azione. Il fine legittimo dello sforzo, comunemente accettato, diventa il raggiungimento di un confronto favorevole con altri uomini; e perciò la ripugnanza per la futilità si fonde in gran parte con lo stimolo dell’emulazione. Essa contribuisce ad accentuare la lotta per la rispettabilità finanziaria, colpendo con una più secca disapprovazione ogni inferiorità e ogni prova di inferiorità in fatto di successo finanziario. Lo sforzo diretto a un fine viene a significare principalmente sforzo diretto, oppure sforzo risultante, a un più onorevole sfoggio di ricchezza accantonata. Fra i motivi che spingono gli uomini ad accumulare ricchezza il primato, sia quanto allo scopo che all’intensità, continua perciò ad appartenere a questo motivo dell’emulazione finanziaria. Facendo uso del termine «antagonistico», può essere superfluo rilevare, noi non abbiamo nessuna intenzione di sopravvalutare o di deprezzare, o di elogiare o deplorare qualunque dei fenomeni caratterizzati con l’uso di questa parola. Il termine è usato in senso tecnico per descrivere un confronto fra persone al fine di classificarle e graduarle rispetto al relativo valore o merito — in senso estetico o morale — e di assegnare e definire i relativi gradi di compiacenza con cui essi possono legittimamente essere contemplati da se stessi e da altri. Un confronto antagonistico è un processo di valutazione delle persone rispetto al merito.

CAPITOLO III. L’AGIATEZZA VISTOSA Se la sua efficacia non fosse turbata da altre forze economiche o da altre caratteristiche del processo di emulazione, l’effetto immediato di una tale lotta finanziaria com’è stata poco sopra sinteticamente descritta sarebbe quello di rendere gli uomini amanti del lavoro e sobri. Questo risultato in una certa misura ne consegue effettivamente, per quanto concerne le classi inferiori, il cui mezzo ordinario per acquistare dei beni è il lavoro produttivo. Ciò è più particolarmente vero per le classi lavoratrici di una comunità sedentaria che si trovi in uno stadio agricolo della tecnica, in cui ci sia una notevole suddivisione della proprietà e le cui leggi e costumi assicurino a queste classi una parte più o meno definita del prodotto della loro operosità. In ogni caso queste classi inferiori non possono evitare il lavoro, e il fatto di lavorare non è perciò molto mortificante per i loro componenti, non almeno all’interno della classe. Piuttosto, poiché il lavoro è il loro modo di vita riconosciuto e accettato, essi cavano un certo orgoglio emulatore dalla fama d’efficienza nel loro lavoro, essendo questa sovente la sola emulazione ad essi aperta. Per quelli ai quali l’acquisizione e l’emulazione è possibile soltanto nel campo del risparmio e della efficienza produttiva, la lotta per la rispettabilità finanziaria avrà in una certa misura come risultato un aumento di diligenza e di parsimonia. Ma certe caratteristiche secondarie del processo dell’emulazione, di cui dobbiamo ancora parlare, intervengono a circoscrivere e modificare assai seriamente l’emulazione in queste direzioni sia fra le classi finanziariamente inferiori che fra quelle superiori. D’altra parte, è con la classe finanziariamente superiore che noi abbiamo qui immediatamente a che fare. Nemmeno per questa classe manca lo stimolo alla diligenza e al risparmio; la sua azione però è così profondamente modificata dalle esigenze secondarie dell’emulazione finanziaria, che ogni inclinazione in questa direzione è praticamente sopraffatta e ogni stimolo alla diligenza tende a non avere nessun effetto. La più imperativa fra queste esigenze secondarie dell’emulazione, e anche quella di più vasta portata, è la richiesta di astensione dal lavoro produttivo. Questo è vero in modo

particolare per lo stadio barbarico della civiltà. Durante la civiltà di rapina il lavoro viene ad essere associato, nelle abitudini mentali degli uomini, alla debolezza e alla soggezione verso un padrone. Esso è perciò un marchio di infe-riorità e viene pertanto stimato indegno di un uomo nel fiore delle sue condizioni. In virtù di questa tradizione il lavoro lo si sente degradante, e questa tradizione non è mai morta dei tutto. Al contrario, con il progredire della differenziazione sociale essa ha acquistato la forza assiomatica propria di un’antica e indiscussa prescrizione. Per cattivarsi e conservare la stima degli uomini non basta possedere semplicemente ricchezza o potenza. Ricchezza e potenza devono essere messe in evidenza, poiché la stima è concessa solo di fronte all’evidenza. E non solo l’evidenza della ricchezza serve a imprimere negli altri la propria importanza e a mantenere in essi vivo e operante il senso di questa importanza, ma essa è altrettanto necessaria per creare e conservare la compiacenza di sé. In tutti gli stadi della civiltà eccetto i più primitivi l’uomo di normale costituzione è incoraggiato e aiutato nel rispetto di se stesso da un «ambiente rispettabile» e dall’esenzione da «lavori servili». Il distacco forzato dal suo tipo abituale di rispettabilità, sia nelle comodità di vita che nel genere e nel volume della sua attività quotidiana, è sentito come una mancanza di riguardo alla sua dignità di uomo, anche a prescindere da ogni cosciente considerazione dell’approvazione o della disapprovazione dei suoi compagni. L’arcaica distinzione teorica fra ciò che è vile e ciò che è onorevole nel modo di vivere di un uomo detiene ancor moltissima della sua antica forza anche oggidì. Tanto che sono pochi gli uomini della classe superiore che non si lascino prendere da un’istintiva ripugnanza per le forme volgari di lavoro. Noi abbiamo un acuto senso dell’indecenza sociale, connessa specialmente con le occupazioni che nei nostri pensieri abituali si associano con le mansioni servili. Tutte le persone di gusto raffinato avvertono che una certa contaminazione spirituale è inseparabile da certi uffici che sono convenzionalmente richiesti ai domestici. Un ambiente volgare, meschine (vale a dire poco dispendiose) dimore, e occupazioni grossolanamente produttive vengono senza esitazioni condannate ed evitate. Esse sono incompatibili con una vita su un soddisfacente piano spirituale — con «l’elevato sentire». Dai tempi dei filosofi greci fino a oggi, un certo grado di comodità e di esenzione dal contatto con quei procedimenti tecnici che servono i fini immediati e quotidiani della vita umana è sempre stato riconosciuto dagli uomini di pensiero come un requisito preliminare per una

vita d’uomo degna o bella o anche soltanto irreprensibile. In sé e nelle sue conseguenze la vita agiata è bella e nobilitante agli occhi di tutti gli uomini civili. Questa valutazione diretta, soggettiva, dell’agiatezza e degli altri segni di ricchezza è senza dubbio in gran parte secondaria e derivata. In parte è il riflesso dell’utilità dell’agiatezza come mezzo per cattivarsi il rispetto degli altri, e in parte è il prodotto di una sostituzione mentale. Fare un lavoro è stato accettato come un segno convenzionale di forza inferiore; perciò esso viene di per sé considerato, per un sottinteso mentale, come intrinsecamente degradante. Durante lo stadio di rapina vero e proprio, e particolarmente durante i primi stadi dello sviluppo quasi pacifico dell’industria che segue lo stadio di rapina, una vita agiata è la prova più conclusiva di un potere finanziario e per questo di una forza superiore; purché, beninteso, il signore agiato possa vivere fra agi e conforti manifesti. In questo stadio la ricchezza consiste principalmente negli schiavi, e i vantaggi provenienti dall’aver in mano ricchezze e potenza prendono specialmente la forma di un servizio personale e dei prodotti immediati del servizio personale. Una quasi totale astensione dal lavoro diventa perciò il segno convenzionale del maggior successo finanziario e l’indice convenzionale della rispettabilità; per converso, poiché l’applicazione al lavoro produttivo è un segno di povertà e di soggezione, essa diventa incompatibile con un tenore di vita stimabile nella comunità. Per questo, le abitudini al lavoro tecnico e al risparmio non vengono uniformemente favorite da una prevalente emulazione finanziaria» Al contrario, questo genere di emulazione si oppone indirettamente alla partecipazione al lavoro produttivo. Il lavoro diventerebbe inevitabilmente disonorevole, come segno di povertà, anche se non fosse già considerato indecoroso sotto l’antica tradizione discesa da uno stadio culturale anteriore. L’antica tradizione della civiltà di rapina è che lo sforzo produttivo va evitato poiché indegno di uomini capaci, e questa tradizione è accentuata piuttosto che indebolita nel passaggio dal modo di vivere predatorio a quello quasi pacifico. Anche se l’istituzione di una classe agiata non fosse sorta con il primo formarsi della proprietà individuale, grazie al disonore connesso con gli impieghi produttivi, sarebbe in ogni caso sorta come una delle prime conseguenze della proprietà. Va inoltre rilevato che, mentre la classe agiata esisteva in teoria fin dall’inizio della civiltà di rapina, l’istituzione assume un

nuovo e più pieno significato con il passaggio dallo stadio di civiltà predatoria a quello finanziario che viene subito dopo. Data da questo tempo una «classe agiata», nella realtà così come in teoria. Da questo punto ha inizio l’istituzione della classe agiata nella sua forma perfetta. Durante lo stadio di rapina vero e proprio la distinzione fra classe agiata e classe lavoratrice è in un certo grado soltanto una distinzione cerimoniale. Gli uomini capaci stanno con cura lontani da tutto ciò che a loro giudizio è soltanto uno sfacchinare servile, ma in effetti la loro attività contribuisce notevolmente al sostentamento del gruppo. Lo stadio seguente dell’industria quasi pacifica è usualmente caratterizzato dallo stabilirsi di un capitale di schiavi, di mandrie di bestiame, e di una classe servile di mandriani e di pastori; la tecnica è tanto progredita che la comunità non dipende più per la sua sussistenza dalla caccia o da qualsiasi altra forma di attività che si possa agevolmente far passare per gloriosa. D’ora in poi, il tratto caratteristico della vita della classe agiata è un’esenzione quasi totale da ogni occupazione utile. Le occupazioni normali e caratteristiche della classe in questa fase matura della storia della sua esistenza sono quanto alla forma proprio identiche a quelle dei suoi primi giorni. Queste mansioni sono il governo, la guerra, gli sport e le pratiche devote. Chi voglia sottilizzare indebitamente sulla teoria, può sostenere che tali occupazioni sono ancora incidentalmente e indirettamente «produttive»; va però osservato come punto decisivo per il problema in questione che il motivo ordinario ed evidente della classe agiata nell’occuparsi di queste mansioni non è certamente un aumento di ricchezza attraverso uno sforzo produttivo. In questo come in ogni altro stadio culturale il governo e la guerra, almeno in parte, sono esercitati per il vantaggio finanziario di quelli che se ne occupano; ma è un vantaggio ottenuto con l’onorevole sistema della rapina e della conversione. Queste occupazioni sono della natura di quelle predatorie e non produttive. Qualcosa di simile può dirsi della caccia, ma con una differenza. Allorché la comunità esce dallo stadio della caccia vero e proprio, la caccia a poco a poco si differenzia in due distinte attività. Da un lato essa è un commercio, praticato specialmente in vista del guadagno; e da questo l’elemento glorioso è virtualmente assente; o non è ad ogni modo presente in grado sufficiente per dissipare l’imputazione d’industria lucrosa. Da un altro lato la caccia è anche uno sport — un esercizio del puro istinto di rapina. Come tale essa non offre un apprezzabile incentivo finanziario, ma contiene un più o meno ovvio elemento di gesta. È quest’ultimo sviluppo della caccia — liberata da ogni accusa di lavoro manuale

— che solo è meritorio e fa bellamente parte del modello di vita della classe agiata sviluppata. Astenersi dal lavoro è non solo un atto onorifico e meritorio, ma diventa tosto un requisito della rispettabilità. Durante i primi stadi dell’ accumulazione della ricchezza s’insiste sulla proprietà come base della rispettabilità in modo ingenuo e imperioso. L’astensione dal lavoro è la prova convenzionale della ricchezza ed è perciò il segno convenzionale del livello sociale; e questa insistenza sul merito della ricchezza porta a una più ostinata insistenza sul benessere. Nota notae est nota rei ipsius. In armonia con le leggi saldamente stabilite della natura umana, la prescrizione incide su questo segno convenzionale della ricchezza e lo fissa nelle abitudini mentali degli uomini come qualcosa che è in se stesso sostanzialmente meritorio e nobilitante; mentre il lavoro produttivo nello stesso tempo e per un simile procedimento diviene in doppio senso intrinsecamente indegno. La prescrizione finisce per rendere il lavoro non solo degradante agli occhi della comunità, ma moralmente impossibile all’uomo nobile e libero, e incompatibile con una vita degna. Questo tabù sul lavoro ha un’ulteriore conseguenza nella differenziazione tecnica delle classi. Come la densità della popolazione aumenta e il gruppo di razziatori si trasforma in comunità ordinata e lavoratrice, le autorità costituite e le consuetudini che reggono la proprietà guadagnano in ampiezza e consistenza. Diventa allora per il momento praticamente impossibile accumulare ricchezze per semplice razzia, e logicamente l’arricchimento attraverso l’industria è egualmente impossibile per uomini d’alto sentire e privi di mezzi. L’alternativa che a loro si apre è la questua oppure l’indigenza. Dovunque il canone della vistosa agiatezza abbia piena possibilità di sviluppare la sua tendenza, là nascerà per ciò una classe agiata secondaria — agiata per modo di dire — povera e abietta, con una vita precaria d’indigenza e miseria, ma moralmente incapace di abbassarsi a occupazioni lucrose. Il gentiluomo decaduto e la nobildonna che ha visto giorni migliori non sono per niente fenomeni peregrini neppur oggi. Questo acuto senso della indegnità del più piccolo lavoro manuale è familiare a tutti i popoli civili, come pure ai popoli di civiltà finanziaria meno avanzata. In persone di sensibilità delicata, che per lungo tempo siano state abituate a gentili maniere, il senso dell’abiezione del lavoro manuale può diventare così forte che, in una situazione critica, metterà da parte persino l’istinto della conservazione. Così per esempio si dice di certi capi polinesiani, che, per ragioni d’etichetta,

preferirono morire d’inedia piuttosto che portarsi il cibo alla bocca con le proprie mani. È vero, questa condotta può esser dovuta, almeno in parte, a un’eccessiva santità o tabù connesso con la persona del capo. Il tabù sarebbe stato comunicato attraverso il contatto delle mani e così avrebbe reso tutte le cose da lui toccate inadatte al sostentamento. Ma il tabù è esso stesso un derivato dell’indegnità o della incompatibilità morale del lavoro; cosicché, anche quando venga interpretata in questo senso, la condotta dei capi polinesiani è più conforme al canone dell’agiatezza onorifica di quanto potrebbe a prima vista sembrare. Un esempio migliore, o almeno più esplicito, è offerto da un certo re di Francia, del quale si dice che perdette la vita per un eccesso di resistenza morale nell’osservanza dell’etichetta. Nell’assenza del funzionario il cui ufficio consisteva nel trasportare il suo seggio, il re sedette senza un lamento davanti al fuoco e sopportò che la sua regale persona venisse irreparabilmente rosolata. Così facendo però, egli salvò la sua Cri. stianissima Maestà da una contaminazione servile. Summum crede nefas animam praeferre pudori, et propter vitam vivendi perdere causas1 È già stato rilevato che il termine «agiatezza», com’è qui usato, non indica ignavia né ozio. Ciò ch’esso indica è un consumo, non produttivo, di tempo. Il tempo è speso senza un lavoro produttivo: 1) per un senso dell’indegnità del lavoro produttivo, e 2) come un segno della capacità finanziaria di condurre una vita oziosa. Ma non tutta la vita del nobiluomo appartenente alla classe agiata trascorre sotto gli occhi degli spettatori che si vuole impressionare con quello spettacolo di agio onorifico che nel modello ideale forma la sua vita. Per qualche frazione di tempo questa vita è per forza sottratta agli occhi del pubblico, e di questa parte trascorsa in privato il nobiluomo deve, per salvaguardare il suo buon nome, saper dare un convincente resoconto. Egli deve trovare qualche sistema per mettere in evidenza la vita agiata che non viene trascorsa alla vista degli spettatori. Ciò può farsi solo indirettamente, attraverso l’esibizione di durevoli, tangibili risultati dell’agio così goduto — in modo analogo alla mostra familiare di durevoli e tangibili prodotti del lavoro compiuto per l’agiato nobiluomo dai domestici e servitori al suo servizio. Il segno duraturo del lavoro produttivo è il suo prodotto materiale: generalmente qualche articolo di consumo. Nel caso della gesta gloriosa è parimenti possibile e normale procurarsi qualche frutto tangibile che può servire all’esibizione a mo’ di trofeo o di bottino. In una fase posteriore dello

sviluppo è tradizionale assumere qualche emblema o distintivo onorifico che dovrà servire come segno convenzionalmente accettato di distinzione, e die nello stesso tempo indica la quantità o il grado di distinzione di cui è il simbolo. Man mano che la popolazione aumenta in densità e le relazioni umane si fanno più numerose e più complesse, tutti i particolari della vita subiscono un processo di elaborazione e di selezione; e in questo processo di elaborazione l’uso dei trofei si sviluppa in un sistema di ranghi, titoli, gradi e distinzioni, esempio tipico dei quali sono i motti, le medaglie e i blasoni araldici. Studiato dal punto di vista economico, l’agio, considerato come occupazione, è strettamente legato per qualità alla vita di gesta; e i successi che caratterizzano una vita agiata e che restano sue insegne d’onore hanno molto in comune con i trofei delle gesta. Ma l’agio nel senso più stretto, distinto dalla gesta e da ogni sforzo ostensibilmente produttivo a proposito di oggetti che non hanno nessuna utilità intrinseca, non lascia generalmente nessun prodotto materiale. I segni pertanto di un agio passato prendono generalmente la forma di beni «immateriali». Queste prove immateriali dell’agiatezza trascorsa consistono in perfezionamenti che tengono dell’erudito e dell’artistico. e nella conoscenza di procedimenti e di circostanze che non conducono direttamente a promuovere la vita umana. Così, per esempio, nel nostro tempo c’è la conoscenza delle lingue morte e delle scienze occulte, del parlare corretto, della prosodia e della sintassi; delle varie forme di musica da camera e di altre arti familiari; delle ultime mode quanto ai vestiti, ai mobili e all’arredamento; dei giochi, degli sport e degli animali di lusso, quali i cani e i cavalli da corsa. In tutti questi rami del sapere il motivo iniziale da cui all’inizio derivò la loro acquisizione, e attraverso cui essi vennero dapprima in voga, può essere stato qualcosa di completamente differente dal desiderio di mostrare che il proprio tempo non era stato speso in un’occupazione industriale; però, se tali perfezionamenti non fossero passati come una buona prova di aver speso inoperosamente il proprio tempo, essi non sarebbero sopravvissuti e non avrebbero mantenuto il loro posto quali tradizionali perfezionamenti della classe agiata. Tali perfezionamenti possono, in un certo senso, venir classificati come rami del sapere. A parte e di là da questi c’è un’altra gamma di fatti sociali che va dal campo del sapere a quello dell’abitudine e della destrezza fisiche. Di questo genere sono quelle cose che son conosciute come le buone maniere e la buona creanza, la cortesia, la decenza e in generale le regole e i formalismi

dell’etichetta. I fatti di questa categoria sono perfino più immediatamente e apertamente offerti all’osservazione e su di essi più particolarmente e imperiosamente s’insiste quali segni indispensabili di un livello onorevole di agiatezza. Vale la pena di rilevare che tutta quella serie di regole di etichetta, che si comprendono sotto la generica denominazione di buone maniere, ha un posto più importante nella stima degli uomini durante lo stadio culturale in cui l’agiatezza vistosa è in massima voga che non negli stadi ulteriori dello sviluppo culturale. Il barbaro dello stadio quasi pacifico dell’industria è, in tutto ciò che riguarda il decoro, notoriamente gentiluomo più compito di qualunque altro uomo — eccetto i più raffinati — di uno stadio posteriore. Difatti si sa benissimo — o almeno è universale credenza — che le buone maniere si sono progressivamente deteriorate via via che la società si è allontanata dallo stadio patriarcale. Più di un gentiluomo di vecchio stampo si è sentito mosso a rilevare con rincrescimento i modi e il comportamento sconvenienti persino delle classi migliori delle società industriali del giorno d’oggi; e il tramonto del codice dell’etichetta — o, come viene in altro modo chiamato, l’involgarimento della vita — fra le classi industriali vere e proprie è diventata una delle principali magagne della civiltà di questi ultimi tempi agli occhi di tutte le persone di sensibilità delicata. La decadenza di cui ha sofferto l’etichetta ad opera della gente d’affari attesta — a parte ogni deprecazione — che il decoro è prodotto ed esponente della vita della classe agiata e prospera pienamente soltanto in regime di casta. L’origine, o meglio la derivazione delle buone maniere va senza dubbio ricercata altrove che nello sforzo cosciente da parte degli uomini creanzati di mostrare che molto tempo è stato speso per acquistarle. Il fine prossimo dell’innovazione e dell’elaborazione è stata la maggior efficacia del nuovo comportamento in fatto di bellezza e di espressività. Il codice delle buone creanze deve in gran parte il suo principio e il suo sviluppo al desiderio di conciliare o di mostrare benevolenza, come antropologi e sociologi sostengono abitualmente, e questo motivo iniziale è raramente assente, se mai lo è, dalla condotta delle persone di belle maniere in ogni stadio dell’ulteriore sviluppo. Le buone maniere, abbiamo detto, sono in parte un’elaborazione del gesto e in parte sono sopravvivenze simboliche e convenzionali che rappresentano antichi atti di dominio, oppure di servizio o di contatto personali. In gran parte esse sono un’espressione della relazione fra le varie condizioni civili — una simbolica pantomima della padronanza da una parte e della sottomissione dall’altra. Ovunque oggidì l’abito mentale di rapina, e il conseguente

atteggiamento della padronanza e della sottomissione, dà il suo carattere al modello di vita accreditato, ivi l’importanza di ogni formalità di condotta è estrema, e l’assiduità con cui ci si attiene alle regole di etichetta dei titoli e del grado si avvicina strettamente all’ideale stabilito dal barbaro della civiltà nomade quasi pacifica. Alcuni paesi continentali offrono esempi calzanti di questa sopravvivenza spirituale. In queste società ci si avvicina parimenti all’ideale arcaico per quanto concerne la stima accordata alle buone maniere come a un fatto di valore intrinseco. Il decoro cominciò con l’essere un simbolo e una raffigurazione e con l’avere utilità solo come rappresentante dei fatti e delle qualità simboleggiate; ma esso ha ora subito il mutamento che comunemente subiscono i fatti simbolici nei rapporti umani. Nell’opinione popolare, le buone maniere sono presentemente diventate detentrici di una sostanziale utilità in se stesse; esse hanno acquisito un carattere sacramentale, in gran parte indipendente dai fatti di cui erano in origine i simboli. Le infrazioni al codice del decoro sono diventate intrinsecamente odiose a tutti gli uomini, e il buon comportamento, nell’opinione comune, non è semplicemente un segno accidentale dell’eccellenza umana, ma una caratteristica integrale dell’anima di un uomo d’onore. Poche cose vi sono che ci rivoltano così istintivamente quanto la violazione del decoro; e noi siamo andati tanto innanzi nell’attribuire un’intrinseca utilità alle regole dell’etichetta che pochi di noi, se pur ve n’è qualcuno, riescono a distinguere un’infrazione dell’etichetta da un senso della sostanziale indegnità del violatore. Un’offesa alla fiducia si può perdonare, ma un’offesa alle regole del decoro non si può. «Le maniere fanno l’uomo». Ciò nondimeno, mentre le buone maniere hanno quest’intrinseca utilità nell’opinione sia di chi le pratica che di chi le vede praticare, questo senso dell’intrinseca rettitudine del decoro è soltanto il fondamento prossimo della moda del buon comportamento e delle buone maniere. Il loro fondamento più pròfondo, economico, va ricercato nel carattere onorifico di quell’agio o di quell’impiego di tempo e di sforzo non produttivo senza di cui le buone maniere non si acquistano. La conoscenza e l’abitudine delle buone usanze vengono soltanto da un lungo uso. Gusti raffinati, buone maniere e abitudini di vita sono un utile segno di distinzione, poiché la buona educazione richiede tempo, applicazione e spesa, e perciò non può essere raggiunta da coloro il cui tempo e la cui energia sono assorbiti dal lavoro. La pratica delle buone maniere è prova evidentissima che quella parte della vita della persona compita che non è stata trascorsa sotto gli occhi dell’osservatore è stata

degnamente spesa nel perseguire perfezionamenti per niente lucrosi. In ultima analisi, il valore delle buone maniere consiste nel fatto che esse sono la garanzia di una vita agiata. Perciò, reciprocamente, poiché l’agio è il mezzo convenzionale per godere credito finanziario, un qualche progresso in fatto di decoro è doveroso per tutti coloro che aspirano a un minimo di rispettabilità finanziaria. Tutta quella parte di un’onorevole vita agiata che non viene trascorsa sotto gli occhi del pubblico può essere utile ai fini della rispettabilità solo in quanto lascia un palese risultato tangibile, che può essere messo in evidenza e venir misurato e paragonato con prodotti della medesima categoria esibiti dagli aspiranti alla reputazione concorrenti. Qualche effetto del genere, come per esempio portamento e maniere agiate, scaturisce dalla semplice prolungata astensione dal lavoro, persino quando il soggetto non prende a cuore la faccenda e non si dà studiatamente un’aria di agiata opulenza e superiorità. Sembra che sia particolarmente vero che una vita agiata condotta in tal modo attraverso parecchie generazioni lascerà un effetto persistente, accertabile nella conformazione della persona e ancor più nella sua condotta e nel suo comportamento abituali. Ma tutte le suggestioni di una vita di agio e ogni progresso in fatto di decoro derivato dall’abitudine passiva possono esser ulteriormente perfezionati dedicandovi cure e acquistando con assiduità i segni dell’agio onorevole, ed elevando poi l’esibizione di questi segni accidentali di esenzione dal lavoro a rigida e sistematica disciplina. Evidentemente, questo è un punto in cui una diligente applicazione di buona volontà e di tempo possono grandemente favorire il raggiungimento di un decoroso progresso nelle doti speciali della classe agiata. Reciprocamente, quanto maggiore è il progresso e più evidente la prova di un alto grado di abitudine alle regole che non servono nessun fine lucrativo oppure direttamente utile, e la perdita di tempo e di denaro implicitamente impiegati nelP acquistarle, tanto maggiore è la buona reputazione che ne deriva. Di qui, data la lotta fra diversi concorrenti per progredire nelle buone maniere, deriva che per coltivare le buone usanze si fatica assai; e di qui, i particolari del decoro si sviluppano in una vasta disciplina, la conformità alla quale è richiesta a tutti quelli che vorrebbero essere ritenuti irreprensibili in fatto di reputazione. Di qui, d’altra parte, questo agio vistoso, di cui il decoro è una ramificazione, si evolve gradualmente in un laborioso allenamento del contegno e in un’educazione del gusto e del giudizio di quali oggetti di consumo siano decorosi e quali siano i metodi più decorosi per consumarli.

A questo proposito vale la pena di notare che la possibilità di produrre idiosincrasie di modi e di persona, patologiche o d’altro genere, con un’accorta imitazione e un allenamento sistematico, è stata indirizzata alla deliberata produzione di una classe colta — spesso con un felicissimo esito. In questo modo, attraverso il procedimento volgarmente conosciuto come snobismo, una sommaria evoluzione di nascita e discendenza nobile è ottenuta nel caso di un bel numero di famiglie e casate. Questa sommaria origine nobile dà risultati che, in fatto di utilità come fattore di classe agiata tra la popolazione, non sono in alcun modo sostanzialmente inferiori agli altri che possono avere avuto un più lungo ma meno duro tirocinio nelle regole del decoro finanziario. Ci sono, inoltre, dei gradi misurabili di conformità all’ultimo codice accreditato della formalità, per quanto riguarda i mezzi e i metodi decorosi di consumo. Le differenze fra una persona e l’altra nel grado di conformità all’ideale sotto questi rispetti possono venir paragonate, e le persone venir graduate e classificate con una certa accuratezza ed effetto secondo una scala progressiva di condotta e di buone maniere. L’assegnazione della rispettabilità a questo riguardo è comunemente fatta in buona fede, in base alla conformità ad accettati canoni del gusto nelle cose che interessano e senza badare sottilmente al livello finanziario o al grado di agio osservato da ogni dato candidato alla rispettabilità; ma le regole del gusto in base alle quali si fa l’assegnazione sono costantemente sotto la sorveglianza della legge dell’agiatezza vistosa, e sono difatti continuamente soggette a cambiamento e a revisione per portarle a una più stretta conformità con le esigenze di quest’agiatezza. Cosicché mentre il fondamento prossimo della discriminazione può essere di altro genere, il principio interiore e la prova costante della buona educazione è la richiesta di una sostanziale e manifesta perdita di tempo. Ci può essere nella portata di questo principio una serie abbastanza considerevole di variazioni nei particolari, ma si tratta di variazioni di forma e d’espressione, non di sostanza. Gran parte della cortesia nelle relazioni d’ogni giorno è naturalmente un’espressione diretta di considerazione e di gentile benevolenza, e questo elemento della condotta non ha nessun bisogno per la maggior parte di essere riportato a un fondamento basico di rispettabilità per spiegare o la sua presenza o l’approvazione con cui è riguardato; ma la stessa cosa non è vera per il codice delle belle maniere. Queste ultime sono espressioni di casta. È naturalmente abbastanza chiaro, per chiunque si preoccupi di osservarlo, che la nostra condotta verso i servi o altri inferiori dipendenti finanziariamente è

il comportamento di un membro superiore in una relazione di casta, benché la sua manifestazione sia spesso modificata e raddolcita rispetto all’espressione originaria di duro dominio. Similmente il nostro comportamento verso superiori, e in gran parte verso eguali, esprime un atteggiamento, reso più o meno convenzionale, di sottomissione. Guardate la dominatrice presenza del signore o della signora bennati, che tanto testimonia della loro padronanza e indipendenza da circostanze economiche e che nello stesso tempo fa appello con forza così persuasiva al nostro senso di ciò che è giusto e grazioso. È in questa altissima classe agiata che non ha superiori e che ha pochi pari, che il decoro trova la sua più piena e matura espressione; ed è pure questa classe superiore che dà al decoro quella formulazione decisiva che serve come regola di condotta per le classi inferiori. E anche qui il codice è ovviamente un codice di casta e rivela chiarissimamente la sua incompatibilità con ogni lavoro volgarmente produttivo. Una sicurezza divina e un’imperiosa compiacenza, propria di uno abituato a pretendere sottomissione e a non preoccuparsi per il domani, è il diritto di nascita e il criterio del nobiluomo alla sua acme; e nell’opinione popolare è ancora di più, poiché questo comportamento è accettato come un attributo intrinseco di valore superiore, di fronte al quale l’uomo comune di bassi natali è pago di chinarsi e servire. Come è stato detto in un capitolo precedente, c’è ragione di credere che l’istituzione della proprietà sia cominciata con la proprietà delle persone^ principalmente delle donne. Gli stimoli ad acquistare tale proprietà sono stati evidentemente: 1) una tendenza al dominio e alla costrizione; 2) l’utilità di queste persone come prova del coraggio del loro proprietario; 3) l’utilità dei loro servizi. Il servizio prestato dalle persone occupa un posto peculiare nello sviluppo economico. Durante lo stadio dell’industria quasi pacifica, e specialmente durante il primitivo sviluppo industriale entro i limiti generali di questo stadio, l’utilità dei servizi personali sembra essere comunemente il motivo dominante per l’acquisto di una proprietà di persone. I servi sono valutati in base ai loro servizi. Ma la supremazia di questo motivo non è dovuta a un declino nell’importanza assoluta degli altri due vantaggi insiti nei servi. Gli è piuttosto che le mutate circostanze di vita accentuano l’utilità dei servi per quel primo scopo. Donne e schiavi sono altamente quotati, sia come segno di ricchezza che come strumenti per accumulare ricchezza. Insieme al bestiame, se la tribù è di quelle dedite alla pastorizia, essi sono la forma usuale d’investimento a profitto. A tal punto le schiave possono dare un carattere alla

vita economica nella cultura quasi pacifica, che la donna diventa perfino un’unità di scambio fra genti che si trovino in questo stadio culturale — per esempio, ai tempi di Omero. Dove così stanno le cose, è fuori questione che la base del sistema industriale è la riduzione a capo di bestiame e che le donne sono tutte quante schiave. Il grande rapporto umano che tutto assorbe, in tale sistema, è quello esistente fra padrone e servo. La prova di ricchezza riconosciuta valida è il possesso di molte donne, e ben presto anche di altri schiavi occupati a curare la persona del loro signore e a produrre per lui dei beni. Comincia ora una divisione del lavoro, in cui il servizio e la cura della persona del padrone diviene l’ufficio speciale di una parte dei servi, mentre quelli che sono interamente occupati in lavori industriali veri e propri vengono sempre più allontanati da ogni relazione immediata con la persona del proprietario. Nello stesso tempo quei servi il cui ufficio è il servizio personale, incluse le faccende domestiche, vengono a poco a poco esentati dall’industria produttiva coltivata per guadagno. Questo processo di progressiva esenzione dalle comuni occupazioni industriali comincerà di regola con l’esenzione della moglie o della prima moglie. Quando poi la comunità è giunta ad abitudini di vita organizzata, il ratto di mogli appartenenti a tribù nemiche diventa impraticabile come fonte abituale di rifornimento. Dove questo progresso culturale è stato compiuto, la prima moglie è ordinariamente di sangue nobile, e il fatto che così si affretta la sua esenzione dalle mansioni volgari. Il modo con cui il concetto di sangue nobile ha origine, così come il posto ch’esso occupa nello sviluppo del matrimonio, non può venir discusso qui. Per lo scopo che c’interessa, basterà dire che sangue nobile è sangue nobilitato da un prolungato contatto con ricchezza accumulata o prerogative ininterrotte. La donna con tali antecedenti è preferita in sposa, sia per l’alleanza che ne deriva con il suo potente parentado, sia a causa del valore più alto che si sente inerire a un sangue associato con tanti beni e tanta potenza. Ella sarà ancora proprietà del marito, com’era proprietà del padre prima di venire comprata, ma è nel contempo del sangue nobile del padre; e di qui deriva un’incongruenza morale a occuparsi delle degradanti mansioni delle serve sue compagne. Per quanto completamente possa essere soggetta al suo signore e per inferiore che sia ai membri di sesso maschile del ceto sociale in cui la sua nascita l’ha collocata, il principio che la nobiltà si può trasmettere agirà nel senso di elevarla sopra lo schiavo comune; non appena poi questo principio abbia acquistato valore di

prescrizione, esso la investirà in qualche misura di quella prerogativa di agiatezza che è il principale segno di nobiltà. Favorita da questo principio della nobiltà tramandabile, l’esenzione della moglie guadagna in ampiezza, se la ricchezza del suo padrone lo permette, fino a comprendere l’esenzione dai servizi degradanti così come da ogni mestiere. Man mano che progredisce lo sviluppo tecnico e la proprietà si accumula in relativamente poche mani, cresce il livello di ricchezza convenzionale delle classi superiori. La medesima tendenza all’esenzione da un mestiere, e con il passare del tempo dalle faccende domestiche servili, si affermerà per quanto riguarda le altre mogli, se ve ne sono, e così pure per quanto concerne gli altri servi che curano da vicino la persona del loro signore. L’esenzione viene tanto più tardiva quanto più remoto è il rapporto in cui il servo sta rispetto alla persona del padrone. Se la situazione finanziaria del padrone lo permette, lo sviluppo di una classe particolare di servi personali o del corpo è pure favorito dall’eccezionale importanza che si annette a cotesto servizio personale. La persona del padrone, essendo l’incarnazione del valore e dell’onore, è della massima importanza. Sia per la sua rispettabile posizione in mezzo alla comunità che per il rispetto di sé, è cosa di gran momento che egli abbia pronti ai suoi cenni lacchè capaci e specializzati, le cui cure non vengano distratte dal loro principale incarico da nessun’altra occupazione. Questi domestici specializzati sono più adatti a far bella mostra che ad adempiere abitualmente ai servizi. In quanto non siano assunti semplicemente per esibizione, essi compensano il loro padrone principalmente dando sfogo alla sua libidine di dominio. È vero, la cura del ménage continuamente in aumento può richiedere più lavoro; ma poiché questo ménage è generalmente accresciuto perché serva come strumento di reputazione piuttosto che come comodità, tale esigenza non è di gran peso. Tutte queste specie di utilità sono meglio fornite da un maggior numero di servi più altamente specializzati. Deriva perciò una differenziazione e una moltiplicazione costantemente crescente di servi domestici e del corpo, con una loro graduale concomitante esenzione dal lavoro produttivo. Poiché servono come segno della possibilità di spendere, l’ufficio di tali domestici tende di regola a comprendere sempre meno doveri e il loro servizio tende alla fine a divenire nominale. Ciò è vero specialmente per quei servi che badano più immediatamente e da vicino al loro padrone. Cosicché la loro utilità viene in gran parte a consistere nella loro evidente esenzione dal lavoro produttivo e nella prova che tale esenzione offre della potenza e della ricchezza del padrone.

Quando si siano fatti progressi notevoli nell’impiego di uno speciale corpo di domestici per la rappresentazione di una siffatta vistosa agiatezza, alle donne cominciano a preferirsi gli uomini, per mansioni che mettono spiccatamente in vista. Gli uomini, particolarmente quelli sani e di bella presenza, così come dovrebbero essere i lacchè e gli altri, fanno naturalmente miglior figura e costano più cari delle donne. Essi sono più adatti a questo scopo, dal momento che stanno a dimostrare un maggiore spreco di tempo e di energie umane. Di qui nasce che nell’economia della classe agiata l’industriosa donna di casa dei primi tempi patriarcali, con il suo seguito di domestiche laboriosissime, cede adesso il posto alla signora e al lacchè. In tutti i gradi e i ranghi della vita e ad ogni stadio dello sviluppo economico, l’agiatezza della signora e del lacchè differisce dall’agiatezza del nobiluomo di diritto, nel fatto che è un’occupazione di carattere evidentemente laborioso. Essa assume in larga misura la forma di un’accurata attenzione al servizio del padrone, o al mantenimento e all’elaborazione dei beni della casa, cosicché si tratta di agiatezza solo nel senso che poco o punto lavoro produttivo è esercitato da questa classe, non nel senso che ogni apparenza di lavoro sia da loro evitata. I doveri osservati dalla signora, o dai servi domestici, sono spesso abbastanza difficili, e sono anche frequentemente diretti a fini che vengono considerati estremamente necessari al benessere di tutta quanta la casa. Fino a che questi servizi portano al benessere fisico o al comodo del padrone o del resto della famiglia, essi sono da ritenersi lavoro produttivo. Soltanto i residui lasciati dopo la sottrazione di questo effettivo lavoro vanno riguardati come una manifestazione di agiatezza. Gran parte però dei servizi considerati come cura della casa nella vita quotidiana moderna e molti dei ce comodi» richiesti dall’uomo civile per un’esistenza confortevole hanno carattere cerimoniale. Essi perciò sono da classificarsi propriamente come una manifestazione di agiatezza nel senso in cui il termine è qui usato. Essi possono essere, ciò nonostante, assolutamente necessari dal punto di vista di un’esistenza rispettabile; possono persino essere richiesti per il benessere personale, per quanto possano avere carattere principalmente o del tutto cerimoniale. Ma fino a che partecipano di questo carattere, essi sono indispensabili e richiesti, poiché ci si è insegnato a ricercarli, pena la sconvenienza o indegnità cerimoniale. Noi ci sentiamo a disagio quando mancano, ma non perché la loro assenza ci faccia direttamente star male fisicamente; né un gusto non educato a discriminare fra ciò che per convenzione è buono e ciò che è cattivo si offenderebbe per la loro mancanza.

Sin dove ciò è vero, il lavoro speso in questi servizi va considerato come agiatezza; e quando altri che non sia il capo dell’organismo economicamente libero e autonomo vi attende, essi vanno classificati come agiatezza derivata. L’agiatezza derivata rappresentata dalle massaie e dai domestici, nella categoria delle cure familiari, può sovente diventare mera sfacchinata, specie laddove la lotta per la rispettabilità sia dura e tenace. Questo è spesso il caso nella vita moderna. Dove ciò accade, il servizio domestico che comprende i doveri di questa categoria di servitori potrebbe venire congruamente indicato come uno sforzo sciupato, piuttosto che come agiatezza derivata. Ma quest’ultimo termine ha il vantaggio di indicare l’origine di questi uffici domestici, come pure di suggerire nettamente il fondamento economico sostanziale della loro utilità; poiché queste occupazioni sono principalmente utili come metodo per procacciare stima finanziaria al padrone o alla famiglia sulla base del fatto che una data quantità di tempo e di sforzo è in misura notevole spesa in quella bisogna. In tal modo dunque nasce una classe agiata sussidiaria o derivata, il cui ufficio è la rappresentazione di un’agiatezza derivata a vantaggio della rispettabilità della classe agiata principale o legittima. Questa classe agiata supplementare è distinta dalla classe agiata vera e propria da un tratto caratteristico del suo modo di vivere abituale. L’agiatezza della classe dei padroni è, almeno all’apparenza, una concessione alla tendenza di scansare la fatica e si presume che intensifichi il benessere e la pienezza di vita del padrone; l’agiatezza invece della classe servile esente dal lavoro produttivo è in qualche modo una rappresentazione a loro estorta e non è normalmente o principalmente diretta al loro proprio benessere. L’agiatezza del servitore non è un’agiatezza veramente sua. Finché egli è servo nel senso pieno, e non nello stesso tempo membro di un rango inferiore della classe agiata vera e propria, la sua agiatezza è normalmente considerata un servizio di carattere particolare, diretto a favorire la pienezza di vita del padrone. Il segno di tale rapporto di sottomissione è ovviamente riconoscibile nel contegno e nel tenore di vita del servo. Ciò che spesso è pure vero per quanto concerne la moglie, nel prolungato stadio economico durante il quale essa è ancora principalmente una serva — vale a dire, per tutto il tempo che resta in vigore la famiglia con un maschio alla testa. Per soddisfare alle esigenze del modello di vita della classe agiata, il servo deve dimostrare non solo un’abitudine alla sottomissione, ma anche gli effetti di un addestramento e di una pratica particolare della sottomissione. Il servo o la moglie non solo devono

adempiere a certi uffici e mostrare una predisposizione a servire, ma è del tutto indispensabile che essi dimostrino di aver acquistato una certa facilità nella tattica del servire — una pronta conformità alle regole di una effettiva e appariscente sottomissione. Ancor oggi è questa attitudine e questa abilità acquisita nella manifestazione formale del rapporto servile che costituisce il principale elemento utile nei nostri servi altamente remunerati, e insieme uno dei principali ornamenti della moglie bennata. Il primo requisito di un buon servo è che egli conosca bene il suo posto. Non basta che egli sappia come provocare certi risultati meccanici desiderati; egli deve soprattutto sapere come ottenere questi risultati nella forma dovuta. Si potrebbe dire che il servizio domestico è una funzione spirituale piuttosto che meccanica. Gradualmente si sviluppa un elaborato sistema di buone maniere, che regola specificatamente il modo con cui questa agiatezza derivata della classe dei servi va rappresentata. Un’infrazione a queste regole di etichetta è deprecabile, non tanto perché stia a dimostrare una deficienza in fatto di capacità macchinale, oppure perché riveli l’assenza di un temperamento e un’attitudine servili, ma perché, in ultima analisi, mostra l’assenza di un addestramento particolare. Un addestramento particolare nel servizio personale costa tempo e sferzo, e dove si trova naturalmente in alto grado ne deriva che il servo che lo possiede non è stato abitualmente occupato in nessun lavoro produttivo. Esso è una prova evidente di agiatezza derivata che si estende assai lontano nel passato. Cosicché il servizio competente è utile, non soltanto perché accarezza il gusto istintivo del padrone per l’abilità finissima e consumata e la sua tendenza alla totale padronanza sopra quelli le cui vite sono subordinate alla sua, ma anche perché mette in mostra un consumo di servizio umano assai più grande di quello che sarebbe testimoniato dalla semplice agiatezza vistosa di un servo incompetente. È un brutto affare se il coppiere o il lacchè di un nobiluomo adempie ai suoi doveri intorno alla tavola o alla carrozza del padrone in un modo così alieno dall’etichetta da far pensare che la sua occupazione abituale sia quella di arare i campi o pascolare le pecore. Un tale servizio fatto alla carlona implicherebbe incapacità da parte del padrone a procurarsi il servizio di servi a bella posta istruiti; vale a dire, implicherebbe incapacità a pagare per il consumo di tempo, energia e istruzione richiesti a fare un servo abile per servizi speciali con un preciso codice di etichetta. Se il servizio prestato dal servo denuncia una deficienza di mezzi da parte del padrone, esso viene meno al suo scopo sostanziale: poiché la principale utilità dei servi è la prova che essi offrono

della capacità padronale di spendere. Si potrebbe intendere che ciò che è stato detto or ora significhi che lo svantaggio di un servo dappoco stia nel far pensare direttamente all’insolvibilità o all’utilità. Tale non è naturalmente il caso. La relazione è molto meno immediata. Ciò che accade qui è ciò che accade generalmente. Tutto ciò che per qualunque motivo ci piace all’inizio, tosto arriva a sedurci come cosa grata in se stessa; viene a valere nelle nostre abitudini di pensiero come sostanzialmente giusto. Ma perché una norma specifica di condotta possa mantenersi in auge, essa deve continuare ad avere l’appoggio o almeno non essere incompatibile con l’abito o l’attitudine, che costituisce la regola del suo sviluppo. Il bisogno di agiatezza derivata, o spese notevoli di servizio, è l’incentivo dominante per cui si tengono servi. Fermo restando questo, si può stabilire senza troppe discussioni che ogni distacco dall’uso accettato tale da far pensare ad un minore tirocinio di servizio diverrebbe ben presto intollerabile. L’esigenza di una costosa agiatezza derivata agisce indirettamente, selettivamente, guidando la formazione del nostro gusto — del nostro senso di ciò che è giusto in queste cose — e così estirpa ogni insufficienza incompatibile rifiutandosi di approvarla. Come s’innalza il criterio di ricchezza riconosciuto dal consenso comune, il possesso e l’esibizione dei servi quale mezzo per mostrarsi dispendiosi vanno soggetti a un raffinamento. Il possesso e il mantenimento di schiavi impiegati nella produzione di beni stanno a dimostrare ricchezza e coraggio, ma il mantenimento di servi che non producono nulla dimostra una ricchezza e una posizione ancora più alta. Sotto questo principio ha origine una classe di servi, quanto più numerosa tanto meglio, il cui unico ufficio è badare fatuamente alla persona del loro proprietario e mettere così in evidenza la sua possibilità d’impiegare improduttivamente molta gente. Allora sopravviene una divisione del lavoro fra i servi o i dipendenti la cui vita trascorre nel mantenere l’onore del nobiluomo agiato. Cosicché, mentre una parte della servitù produce per lui dei beni, un’altra parte, generalmente capeggiata dalla moglie, o dalla favorita, vive per lui in vistosa agiatezza; facendo con ciò vedere che egli può sostenere grandi spese senza tuttavia intaccare le sue grandi ricchezze. Questo schizzo un poco idealizzato e diagrammatico dello sviluppo e della natura del servizio domestico viene quasi a coincidere con la verità rispetto a quello stadio culturale che è qui stato chiamato la stadio «quasi-pacifico» dell’industria. In questo stadio per la prima volta il servizio personale diventa un’istituzione economica, ed è in questo stadio che esso occupa il posto più

ampio nel modello di vita della comunità. Nello sviluppo culturale, lo stadio quasi-pacifico segue lo stadio di rapina vero e proprio, essendo le due fasi della vita barbarica successive. Il suo tratto caratteristico è un’osservanza formale della pace e dell’ordine, mentre in esso la vita va ancora troppo soggetta alla coercizione e all’antagonismo di classe per potersi chiamare pacifica nel senso pieno della parola. Per parecchi scopi, e da un punto di vista diverso da quello economico, potrebbe altrettanto bene chiamarsi lo stadio di casta. Il metodo delle relazioni umane durante questo stadio e l’atteggiamento spirituale degli uomini a questo livello di civiltà è ben sintetizzato in quel termine. Però, quale termine descrittivo per caratterizzare i metodi dell’industria prevalenti, come per significare la tendenza dello sviluppo industriale a questo punto dell’evoluzione economica, il termine «quasi pacifico» sembra da preferirsi. Per quanto concerne le società della civiltà occidentale, questa fase dello sviluppo economico appartiene probabilmente al passato, eccetto che per una frazione numericamente piccola benché assai in vista della comunità in cui le abitudini di pensiero proprie della civiltà barbarica non hanno subito che una disintegrazione relativamente lieve. Il servizio personale è ancora un elemento di grande importanza economica, particolarmente per quanto concerne la distribuzione e il consumo dei beni; ma la sua importanza relativa anche in questa direzione è indubbiamente minore di quella che era una volta. Il migliore sviluppo di questa agiatezza derivata è nel passato piuttosto che nel presente; e la sua espressione migliore nel presente è rintracciabile nel sistema di vita della classe agiata superiore. A questa classe la civiltà moderna deve molto per la conservazione delle tradizioni, degli usi e delle abitudini di pensiero che appartengono a un piano culturale più arcaico, per quanto riguarda la loro più ampia accettazione e il loro sviluppo più effettivo. Nelle moderne società industriali le invenzioni meccaniche capaci di promuovere il benessere e il tenore della vita di ogni giorno sono assai sviluppate. Tanto che i servi del corpo, o addirittura i domestici di ogni genere, in pochi casi sarebbero presentemente impiegati da qualcuno, salvo in base a una regola di rispettabilità tramandata dalla tradizione dell’uso antico. La sola eccezione sarebbero i servi adibiti alla cura delle persone degli infermi e dei mentecatti. Però questi servi cadono propriamente nella categoria degli infermieri specializzati piuttosto che in quella dei servi domestici, e sono per questo un’eccezione più apparente che reale alla regola. Per esempio, la ragione prossima per assumere servi nella famiglia

discretamente benestante di oggidì è (apparentemente) che i membri della famiglia non riescono senza loro disturbo a far fronte al lavoro richiesto da un tale moderno organismo. E il motivo di questa loro incapacità è che 1) essi hanno troppi «doveri sociali», e 2) che il lavoro da farsi è troppo pesante e che ce n’è troppo. Queste due ragioni si possono riesporre come segue: 1) Secondo un codice convenzionale della buona creanza, il tempo e lo sforzo dei membri di una tale famiglia vanno ostentatamente spesi nella rappresentazione di una vistosa agiatezza, come visite, corse, club, circoli di cucito, sport, istituzioni di carità e altre funzioni sociali del genere. Quelle persone, il tempo e l’energia delle quali vengono impiegati in queste mansioni, confessano privatamente che tutte queste pratiche, così come l’eventuale attenzione al vestire e a ogni altro consumo vistoso, sono assai fastidiose ma del tutto inevitabili. 2) Data l’esigenza di un vistoso consumo di beni, l’apparato della vita è diventato così elaborato e complesso in fatto di abitazioni, mobili, bric-à-brac, vestiti e cibi, che i consumatori di tali cose non possono smaltirle nel modo richiesto senza aiuto. Il contatto personale con le persone salariate, il cui aiuto è necessario per soddisfare alle ordinarie richieste della convenienza, è generalmente sgradito a quelli di casa, ma tuttavia la loro presenza è sopportata e compensata per poter affidare loro una parte nel difficile consumo di questi beni familiari. La presenza di servi in casa, e in grado eminente della categoria speciale dei servi del corpo, è una concessione del benessere fisico all’esigenza morale della liberalità finanziaria. La più ampia manifestazione di agiatezza derivata nella vita moderna consiste nei cosiddetti doveri domestici. Questi doveri stanno rapidamente diventando una specie di servizio reso non tanto per il vantaggio personale del capo della casa quanto per la rispettabilità della casa stessa concepita come un’unità organica — un gruppo di cui la donna è membro su un piede di evidente parità. Non appena la famiglia per la quale essi vengono adempiuti si allontana dalla sua base arcaica del matrimonio-proprietà, questi doveri domestici tendono naturalmente ad uscire dalla categoria dell’agiatezza derivata nel senso originario; tranne in quanto essi vengano compiuti da domestici salariati. Vale a dire, poiché l’agiatezza derivata è possibile solo su una base di casta o di servizio pagato, la scomparsa della relazione di casta dal consorzio umano in qualsiasi punto porta con sé la scomparsa dell’agiatezza derivata per tutto ciò che concerne questa parte della vita. Ma bisogna aggiungere, per determinare questa restrizione, che per tutto il tempo che la famiglia sussiste, sia pure con un comando diviso, questa sorta di lavoro non

produttivo fatto in vista della rispettabilità del casato va ancora considerato come agiatezza derivata, quantunque in un senso lievemente diverso. Si tratta adesso di agiatezza spesa per il casato nel suo insieme quasi fosse una persona, invece che, come prima, per il proprietario capo della famiglia. 1. GIOVENALE, VIII, 83.

CAPITOLO IV. IL CONSUMO VISTOSO In ciò che è stato detto dell’evoluzione della classe agiata secondaria e della sua differenziazione dall’insieme generale delle classi lavoratrici, si è menzionata un’ulteriore divisione del lavoro, quella fra diverse classi di servi. Una parte della classe dei servi, principalmente quelle persone la cui occupazione è agiatezza derivata, vengono a sobbarcarsi una nuova serie sussidiaria di doveri, il consumo dei beni derivato. La forma più ovvia in cui s’incontra tale consumo si vede nelle livree indossate e negli spaziosi quartieri abitati dai servi. Altra forma di agiatezza derivata, raramente meno evidente o meno effettiva e di gran lunga prevalente, è il consumo di cibo, vestiti, abitazioni e mobilio da parte della signora e del resto del gruppo familiare. Però già in un momento dell’evoluzione economica assai precedente alla nascita della signora, un consumo specializzato di beni come prova di solidità finanziaria aveva cominciato a operare in un sistema più o meno elaborato. L’inizio di una differenziazione nel consumo precede persino la comparsa di qualsiasi cosa che possa ragionevolmente definirsi solidità finanziaria. È possibile rintracciarlo risalendo alla fase iniziale della civiltà di rapina, e c’è persino il sospetto che, a questo riguardo, un’incipiente differenziazione esistesse prima dell’inizio della vita predatrice. Tale primitivissima differenziazione nel consumo dei beni è simile alla differenziazione posteriore, che ci è così intimamente familiare, in ciò che essa ha in gran parte un carattere cerimoniale, ma contrariamente alla seconda essa non si fonda su una differenza di ricchezza accumulata. L’utilità del consumo come segno di ricchezza è da considerarsi uno sviluppo derivato. È l’adattamento a un nuovo scopo, in seguito a un processo selettivo, di una distinzione che esisteva già prima e che era ben radicata nelle abitudini mentali degli uomini. Nelle prime fasi della civiltà di rapina la sola differenziazione economica è una profonda distinzione fra un’onorata classe superiore costituita dagli uomini capaci e un’ignobile classe inferiore di donne operaie. In armonia con il modello ideale di vita in vigore a quel tempo, tocca agli uomini consumare quello che le donne producono. Quel consumo che tocca alle donne è

puramente casuale per l’opera loro; è un mezzo di continuare il lavoro, non un consumo diretto al benessere e alla pienezza di vita. Il consumo improduttivo di beni è onorevole in primo luogo come segno di coraggio e come requisito di umana dignità; in secondo luogo esso diventa sostanzialmente onorevole in se stesso, specie il consumo delle cose più desiderabili. Il consumo di generi di cibo prelibati e spesso anche di articoli di abbigliamento rari diventa tabù per le donne e i bambini; e se c’è una classe ignobile (servile), il tabù vale anche per costoro. Con un ulteriore progresso della civiltà questo tabù può cambiarsi in un semplice costume più o meno rigoroso; ma qualunque sia la base teorica cella distinzione che si mantiene, sia essa un tabù oppure una meno rigorosa tradizione, le caratteristiche del modello convenzionale del consumo non cambiano facilmente. Quando è raggiunto lo stadio quasi pacifico dell’industria, con la sua istituzione fondamentale degli schiavi-oggetto, il principio generale, più o meno rigorosamente applicato, è che la vile classe industriosa deve consumare soltanto ciò che può occorrere al suo sostentamento. È nella natura delle cose che generi di lusso e comodità di vita appartengano alla classe agiata. In regime di tabù, certi cibi e più specialmente certe bevande sono rigorosamente riservati all’uso della classe superiore. La differenziazione convenzionale della dieta si vede meglio nell’uso delle bevande inebrianti e dei narcotici. Se questi generi di consumo costano cari, sono tenuti per nobili e onorifici. Perciò le classi inferiori, specie le donne, praticano una forzosa continenza rispetto a tali eccitanti, salvo nei paesi in cui si possono avere a un prezzo molto basso. Dai tempi antichi giù per tutta la durata del regime patriarcale è stata mansione delle donne preparare e servire questi generi di lusso, ed è stato il privilegio degli uomini nobili e bennati consumarli. L’ubriachezza e le altre conseguenze patologiche del libero uso di eccitanti tendono perciò a loro volta a diventare onorifiche, essendo segno, in un secondo tempo, della casta superiore di coloro che possono permettersi il festino. Le infermità derivate da quest’abuso fra alcuni popoli sono quasi riconosciute come attributi virili. È persino avvenuto che il nome di alcune indisposizioni del corpo che nascevano da queste cause sia passato nel linguaggio quotidiano come sinonimo di «nobile» oppure «bennato». Soltanto in uno stadio di civiltà relativamente antico i sintomi dei vizi costosi vengono convenzionalmente accettati come segni di una condizione superiore, e tendono così a diventare virtù e a meritare la deferenza della comunità; ma la rispettabilità connessa con certi vizi costosi conserva così a lungo la sua forza da ridurre considerevolmente la disapprovazione che toccherebbe agli uomini

della classe ricca o nobile per qualsiasi loro eccessiva indulgenza. La medesima distinzione antagonistica aggiunge forza alla generale disapprovazione di ogni abuso di questo genere da parte di donne, minorenni o inferiori. Questa tradizionale distinzione antagonistica non ha perso la sua forza neppure fra i popoli più progrediti d’oggidì. Dove l’esempio stabilito dalla classe comoda mantiene la sua forza categorica nel regolare le convenzioni, si può osservare che le donne praticano ancora in misura notevole la medesima continenza tradizionale rispetto agli eccitanti. Questa spiegazione della maggiore continenza praticata dalle donne delle classi rispettabili nell’usare eccitanti può sembrare una sottigliezza eccessiva a spese del senso comune. Ma vi sono dei fatti alla comoda portata di chiunque si dia la pena di conoscerli, i quali confermano che la maggiore continenza delle donne è in parte dovuta all’imperativo di un’etichetta; e questa etichetta è, in via generale, rigorosissima là dove la tradizione patriarcale — la tradizione per cui la donna è un oggetto — ha conservato il suo massimo peso. In un senso che ha molto perduto di portata e di rigore, ma che ciò nondimeno oggi ancora non ha perduto il suo significato, questa tradizione dice che la donna, essendo un oggetto, dovrebbe consumare solo ciò che è necessario al suo sostentamento — eccezion fatta per ciò che il suo più largo consumo giova al benessere e alla buona reputazione del padrone. Il consumo di generi di lusso, nel senso vero, è un consumo diretto al benessere del consumatore stesso, ed è perciò un segno di signoria. Un tale consumo fatto da altri può aver luogo soltanto per tolleranza. In comunità, nelle quali le abitudini mentali della gente sono state profondamente influenzate dalla tradizione patriarcale, noi possiamo pertanto cercare la sopravvivenza del tabù sui generi di lusso almeno nei limiti di una deprecazione convenzionale del loro uso da parte della classe schiava e dipendente. Ciò è più particolarmente vero per quanto concerne alcuni generi di lusso, l’uso dei quali da parte della classe serva causerebbe una sensibile sottrazione al benessere o al piacere dei loro padroni, o che sono creduti di dubbia legittimità per altri motivi. Nell’opinione della grande classe media conservatrice della civiltà occidentale, l’uso di questi diversi eccitanti è soggetto, se non a entrambe, almeno a una di queste obiezioni; ed è un fatto, troppo significativo per essere omesso, che precisamente fra queste classi medie della società tedesca, con il loro senso, che sopravvive gagliardo, delle proprietà patriarcali, le donne sono nella più gran parte soggette a uno specifico tabù per i narcotici e le bevande alcooliche. Con molte restrizioni — con sempre maggiori restrizioni man mano che la

tradizione patriarcale s’indeboliva — si è pensato che fosse giusta la regola in base alla quale le donne devono consumare soltanto a beneficio dei padroni. Si presenta naturalmente l’obiezione che la spesa per l’abbigliamento delle donne e gli ornamenti della casa è un’ovvia eccezione a questa regola; ma apparirà chiaro in seguito che questa eccezione è molto più ovvia che sostanziale. Durante i primi stadi dello sviluppo economico, il consumo illimitato dei beni, specialmente di quelli più squisiti — idealmente, ogni consumo che ecceda il minimo necessario alla sussistenza — tocca naturalmente alla classe agiata. Questa restrizione tende a scomparire, almeno formalmente, dopo che lo stadio pacifico successivo è stato raggiunto, con la proprietà privata dei beni e un sistema industriale basato sul lavoro salariato o sulla piccola economia domestica. Ma durante il primo stadio quasi pacifico, quando tante delle tradizioni, attraverso cui l’istituto di una classe agiata influirà sulla vita economica dei tempi posteriori, stanno prendendo forma e consistenza, questo principio ha la forza di una legge convenzionale. Esso servì come norma a cui il consumo si sforzò di attenersi, e ogni scarto apprezzabile da esso va considerato forma aberrante, che presto o tardi sarà eliminata nel corso ulteriore della evoluzione. Pertanto il quasi pacifico gentiluomo agiato non soltanto consuma dei mezzi di vita oltre il minimo richiesto per il sostentamento e l’efficienza fisica, ma il suo consumo si va ancora specializzando per ciò che riguarda la qualità dei beni consumati. Egli consuma liberamente e quanto di meglio esiste in fatto di cibi, bevande, narcotici, alloggio, servizi, ornamenti, abiti, armi ed equipaggio, divertimenti, amuleti, e idoli o divinità. Nel processo di graduale miglioramento che avviene nei generi del suo consumo, il principio motore e lo scopo prossimo dell’innovazione è senza dubbio la maggiore efficienza dei prodotti migliorati e più elaborati per il conforto e il benessere personali. Ma non è quello l’unico scopo del loro consumo. Il canone della rispettabilità è lì pronto e s’impadronisce di quelle innovazioni che, secondo il suo criterio, potranno sopravvivere. Poiché il consumo di questi beni più eccellenti è un segno di ricchezza, esso diventa onorifico; al contrario, l’incapacità di consumare nella dovuta quantità e qualità diviene un segno d’inferiorità e di demerito. Lo sviluppo di questa discriminazione formalistica per quanto concerne l’eccellenza qualitativa del mangiare, bere, ecc. influenza ben presto non solo il modo di vivere, ma anche l’educazione e l’attività intellettuale del gentiluomo agiato. Egli non è più semplicemente il maschio vittorioso,

aggressivo — l’uomo pieno di forza, di risorse e di coraggio. Per evitare di apparire ridicolo egli deve pure coltivare i suoi gusti, poiché adesso tocca a lui distinguere con un po’ di grazia il nobile e l’ignobile fra i beni di consumo. Egli diventa un conoscitore in fatto di cibi onorifici, in diverso grado meritorii, in fatto di virili bevande e ninnoli, di architettura e di vestiti eleganti, di armi, giochi, ballerine e narcotici. L’educazione della facoltà estetica richiede tempo e applicazione, e le esigenze pertanto che in tale senso vengono a pesare sul gentiluomo tendono a cambiarne la vita comoda in una più o meno difficile applicazione allo studio di come vivere in modo confacente ad una vita di agiatezza. Strettamente connessa con l’esigenza che il gentiluomo deve consumare beni liberamente e del genere più squisito, c’è l’esigenza ch’egli deve saperli consumare in modo conveniente. La sua vita comoda va trascorsa nella forma dovuta. Di qui nascono le buone maniere nel modo descritto in un capitolo precedente. Maniere e modi di vivere gentili sono punti di conformità alla regola dell’agiatezza e del consumo vistosi. Il consumo vistoso di beni ricercati è un mezzo di rispettabilità per il gentiluomo agiato. Via via che la ricchezza gli si accumula nelle mani, egli non riuscirà da solo, con questo metodo, per quanto si sforzi, a mettere sufficientemente in mostra la sua opulenza. Si ricorre perciò all’aiuto di amici e competitori con l’espediente di offrire regali di valore e feste e trattenimenti dispendiosi. I regali e i trattenimenti ebbero probabilmente un’origine diversa da quella della semplice ostentazione, essi però acquistarono assai per tempo la loro utilità a questo scopo e hanno mantenuto tale carattere fino ad oggi; cosicché la loro utilità sotto questo riguardo è ora da un pezzo la base sostanziale su cui poggiano queste usanze. I trattenimenti costosi, quali il potlatch1 o il ballo, sono particolarmente adatti a questo scopo. Il competitore con cui chi offre il trattenimento desidera istituire un confronto con questo sistema lo si fa servire da strumento per il fine. Egli consuma per conto del suo ospite e intanto è testimone del consumo di quella sovrabbondanza di beni che l’ospite non potrebbe consumare da solo, ed è pure fatto testimone della compitezza cerimoniale di quest’ultimo. Nel dare dispendiosi trattenimenti sono naturalmente presenti anche altri motivi, di natura più geniale. Il costume delle riunioni festive ebbe probabilmente origine da motivi d’allegria e di religione; tali motivi sono pure presenti nella evoluzione posteriore, ma non continuano ad essere gli unici. Le feste e i trattenimenti della moderna classe agiata possono continuare in piccola misura a servire il bisogno religioso e in misura maggiore i bisogni

dello svago e dell’allegria, ma essi servono anche a uno scopo di vanità; e non lo servono meno efficacemente se anche hanno un plausibile motivo non antagonistico in queste più confessabili ragioni. Ma l’effetto economico di queste amenità sociali non è perciò diminuito, sia nel consumo derivato che nell’esibizione di costose e difficili iniziative cerimoniali. Man mano che la ricchezza si accumula, la classe agiata si sviluppa ulteriormente per funzione e struttura, e qui nasce una differenziazione nel suo seno. Si forma un sistema più o meno elaborato di rango e di gradi. Questa differenziazione è promossa dall’ereditarietà della ricchezza e dalla conseguente ereditarietà della nobiltà. Con l’ereditarietà della nobiltà è connessa l’ereditarietà dell’agiatezza obbligatoria; e si può ereditare un grado di nobiltà sufficiente a richiedere una vita agiata senza la ricchezza necessaria a mantenere un’agiatezza dignitosa. Si può trasmettere sangue nobile senza beni sufficienti a permettere un onorifico consumo liberale. Di qui nasce una classe di gentiluomini bisognosi, che abbiamo già menzionato. Questi ambigui gentiluomini agiati cadono in un sistema di gradazioni gerarchiche. Coloro che, per nascita o per ricchezza o per entrambe, si trovano presso i gradi più elevati o eccelsi della classe agiata ricca, distanziano quelli di bassi natali e i più deboli finanziariamente. Questi signori agiati dei gradi inferiori o marginali, specialmente i bisognosi, si legano attraverso un sistema di dipendenza o fedeltà ai grandi; così facendo essi guadagnano dal protettore un aumento di stima oppure dei mezzi con cui condurre una vita comoda. Essi diventano i suoi cortigiani o vassalli, i suoi servi; e poiché vengono nutriti e spesati dal protettore essi sono gli indici del suo rango e i consumatori secondari della sua ricchezza superflua. Molti di questi gentiluomini agiati sottomessi hanno nello stesso tempo minore importanza propria; cosicché alcuni di loro non si possono quasi affatto, altri soltanto in parte, considerare consumatori derivati. Tutti quelli tra loro, comunque, che fanno i vassalli o i tirapiedi del protettore si possono considerare come consumatori derivati senza restrizioni. Molti di essi poi, e molti anche dell’altra aristocrazia di grado inferiore, legano a loro volta alla propria persona un gruppo più o meno grande di consumatori derivati nelle persone delle mogli, dei figli, dei servi, dei domestici, ecc. In tutto questo modello graduato di agiatezza e di consumo derivati la regola è che tali mansioni devono essere adempiute in modo o in circostanze o con insegne tali da segnalare chiaramente il padrone da cui nascono l’agiatezza e il consumo, e cui spetta pertanto di diritto il risultante aumento

di stima. Il consumo e l’agiatezza rappresentati da queste persone per il loro padrone o protettore costituiscono un investimento da parte sua in vista di un aumento di reputazione. Per quanto concerne le feste e le liberalità ciò è abbastanza ovvio, e l’attribuzione di stima all’ospite o protettore ha luogo immediatamente in questo caso per via della normale notorietà. Dove l’agiatezza e il consumo sono rappresentati indirettamente da cortigiani e vassalli, l’attribuzione della stima che ne deriva al protettore è effettuata in base al fatto che essi dimorano presso la sua persona in modo che a tutti è chiaro da quale fonte essi attingono. Man mano che il gruppo la cui reputazione va assicurata in tal modo diventa più numeroso, si richiedono mezzi più potenti per indicare l’attribuzione del merito per l’agiatezza sfoggiata e a questo fine diventano ci moda uniformi, distintivi e livree. Il portare divise o livree implica un grado considerevole di dipendenza e si può perfino affermare che sia un segno di servitù, reale o apparente. Coloro che portano divise e livree si possono all’ingrosso dividere in due categorie: quella libera e quella servile, oppure la nobile e la non nobile. I servizi cui essi attendono si possono similmente dividere in nobili e non nobili. Naturalmente la distinzione non è strettamente osservata in pratica; il meno avvilente dei servizi inferiori e la meno onorifica delle funzioni nobili s’incontrano non di rado nella stessa persona. Ma la distinzione generale non va per questo trascurata. Ciò che può aggiungere qualche perplessità è il fatto che questa distinzione fondamentale fra nobile e non nobile, che poggia sulla natura del servizio prestato ostensibilmente, è attraversata da una distinzione secondaria fra onorifico e umiliante che si fonda sul rango della persona cui si presta il servizio o di cui si porta la livrea. Così, quelle mansioni che sono di diritto l’impiego vero e proprio della classe agiata sono nobili; e tali sono il governo, la guerra, la caccia, la cura delle armi e degli arnesi e simili — in breve, quelle che si possono considerare ostensibilmente occupazioni di rapina. D’altra parte, quelle occupazioni che toccano propriamente alla classe lavoratrice sono ignobili; così come l’artigianato o altro lavoro produttivo, i servizi ordinari e simili. Però un servizio ordinario prestato a una persona di grado altissimo può diventare una mansione assai onorifica; come per esempio la mansione di Damigella d’onore o di Dama di compagnia della Regina, o di Palafreniere del Re o di Guardiano dei suoi cani. I due uffici menzionati per ultimi suggeriscono un principio abbastanza generale. Ogni qualvolta, come in questi casi, il basso servizio in questione ha da fare direttamente con le prime occupazioni della classe agiata, guerra o caccia, esso acquista facilmente di

riflesso un carattere onorifico. In tal modo si può annettere un grande onore a una mansione, che per natura propria apparterrebbe alla specie inferiore. Nell’ulteriore evoluzione dell’industria pacifica l’uso d’impiegare un corpo di oziosi armati in uniforme a poco a poco si perde. Il consumo secondario da parte di dipendenti che portano le insegne del protettore, o padrone, si riduce a un corpo di servi in livrea. Tanto più quindi la livrea viene a essere segno di servitù o piuttosto di servilità. Un qualche carattere onorifico sempre si annetteva alla livrea del cortigiano armato, ma questo carattere onorifico vien meno quando la livrea diventa il segno esclusivo del servo. La livrea diventa odiosa a quasi tutti quelli cui si richiede di portarla. Noi siamo ancora così poco lontani da uno stato di effettiva schiavitù da essere ancora assai sensibili al sospetto di una attribuzione di servilità. Questa antipatia si manifesta perfino nel caso delle livree o uniformi che certe corporazioni prescrivono ai loro impiegati come divisa. Nel nostro paese arriva anche a gettare discredito — in maniera vaga e leggera — su quegli impieghi governativi, militari e civili, che richiedono di portare una livrea o una uniforme. Con la scomparsa della servitù, il numero dei consumatori derivati legati a ogni gentiluomo tende complessivamente a diminuire. Naturalmente la stessa cosa è vera, e forse in un più alto grado, per il numero dei dipendenti che sfoggiano per suo conto un’agiatezza secondaria. In linea generale, benché non completamente né costantemente, questi due gruppi coincidono. Il servo al quale per primo furono assegnati questi doveri fu la moglie, o la prima moglie; e, come c’era da aspettarsi, nell’ulteriore sviluppo dell’istituzione, quando il numero delle persone da cui questi doveri sono abitualmente sbrigati a poco a poco diminuisce, la moglie resta per ultima. Nei più alti gradi della società una gran quantità di ambedue questi generi di servizio è richiesta; e qui la moglie è ancora naturalmente assistita nel lavoro da una squadra più o meno numerosa di servi. Ma a mano a mano che noi discendiamo per la scala sociale, raggiungiamo il punto in cui i doveri dell’agio e del consumo derivati vengono devoluti alla sola moglie. Nelle società della civiltà occidentale, questo punto si trova presentemente fra la piccola borghesia. E qui s’incontra una curiosa inversione. È un fatto comunemente osservato che in questa piccola borghesia non esiste nessuna pretesa di agio da parte del capofamiglia. Per forza di circostanze l’agio è caduto in disuso. Ma la moglie piccolo-borghese continua a occuparsi dell’agiatezza secondaria, per il buon nome della casa e del suo padrone. Discendendo per la scala sociale di

ogni moderna società industriale, il fatto principale — il consumo vistoso del capofamiglia — scompare a un punto relativamente alto. Il capofamiglia di classe media è stato ridotto dalle circostanze economiche a darsi da fare per guadagnare da vivere con occupazioni che sovente hanno molto in comune con le occupazioni industriali, come nel caso dell’ordinario commerciante d’oggidì. Ma il fatto che ne deriva — l’agio e il consumo secondari prestati dalla moglie e l’ausiliaria rappresentazione di agio secondario dei servi — resta in voga come convenzione che le esigenze della rispettabilità non permettono di trascurare. È uno spettacolo per nulla insolito quello di un uomo che lavora con la massima assiduità affinché sua moglie possa rappresentare per lui nella forma dovuta quel grado di agiatezza secondaria che il senso comune dell’epoca richiede. L’agio espresso dalla moglie in tali casi non è naturalmente una semplice manifestazione di ozio o di indolenza. Esso si trova quasi invariabilmente mascherato sotto qualche forma di lavoro o di doveri domestici o divertimenti di società, che, analizzati, dimostrano di servire a poco o nient’altro che mettere in evidenza come essa non si occupi né abbia bisogno di occuparsi di alcunché di lucrativo o di reale utilità. Come è già stato osservato sull’argomento delle buone maniere, la maggior parte delle abituali cure domestiche a cui la moglie piccolo-borghese dedica il suo tempo e la sua energia è di questo genere. Non che i frutti delle sue cure alle faccende di casa, di natura decorativa e igienica, non piacciano al senso di uomini allevati nella decenza piccolo-borghese; ma il gusto a cui questi effetti della nettezza e dell’ornamentazione casalinghe fanno appello è un gusto che è stato formato sotto la guida selettiva di una regola di convenienza che richiede proprio queste prove di prodigo sforzo. Gli effetti sono per noi piacevoli principalmente perché ci è stato insegnato a trovarli piacevoli. Entra in questi doveri domestici una gran cura per una riuscita combinazione di forma e di colore e per altri scopi che vanno considerati come estetici nel senso vero e proprio del termine; e non si nega che effetti di un qualche valore estetico siano stati talvolta raggiunti. Ma tutto ciò su cui qui si insiste è che, per quanto concerne queste amenità della vita, gli sforzi della moglie sono ispirati da tradizioni, che vennero formate dalla legge di un vistosamente prodigo spreco di tempo e sostanza. Se la bellezza o il benessere sono raggiunti — ed è una circostanza più o meno fortuita che lo siano — essi devono essere raggiunti attraverso mezzi e metodi che si raccomandano alla grande legge economica dello sforzo superfluo. La parte più stimabile, «presentabile», delle

suppellettili casalinghe borghesi sono, da una parte, mezzi di consumo vistoso, e dall’altra un apparato per mettere in mostra l’agiatezza derivata espressa dalla moglie. L’esigenza di un consumo derivato per opera della moglie si mantiene in vigore in un punto della scala finanziaria anche più basso che l’esigenza dell’agiatezza derivata. In un punto al di sotto del quale non è più possibile osservare che una piccola pretesa di sforzo superfluo, nettezza cerimoniale e simili, e nel quale non c’è di sicure nessuna cosciente velleità di agiatezza ostensibile, la convenienza vuole ancora che la moglie consumi vistosamente dei beni per l’onore della casa e del suo capo. Cosicché, come estremo prodotto dell’evoluzione di un arcaico istituto, la moglie, che all’inizio era la serva e l’oggetto dell’uomo, sia in fatto che in teoria — la produttrice di beni che lui consumava —è diventata la consumatrice cerimoniale dei beni che lui produce. Essa, però, rimane ancora inequivocabilmente una sua proprietà in teoria; poiché rappresentare abitualmente agiatezza e consumo derivati è il segno permanente del servo non libero. Questo consumo derivato praticato dalle famiglie delle classi medie e inferiori non può essere ritenuto espressione diretta del modello di vita della classe agiata, poiché la famiglia di questo livello finanziario non trova posto nella classe agiata. Gli è piuttosto che il modello di vita della classe agiata trova qui una espressione di secondo grado. La classe agiata si trova alla testa della struttura sociale in fatto di rispettabilità; e per questo il suo modo di vivere e i suoi criteri di valutazione dànno il canone di rispettabilità per la comunità. L’osservanza di questi criteri, con una qualche approssimazione, diventa un dovere per tutte le classi più basse nella scala sociale. Nella moderna comunità civile le linee di separazione fra le classi sociali sono diventate imprecise e mobili, e dovunque ciò avviene il canone di rispettabilità imposto dalle classi superiori estende la sua influenza costrittiva senza trovare resistenze attraverso la struttura sociale fino agli strati più bassi. Il risultato è che i membri di ogni strato accettano come loro ideale di onorabilità il modello di vita in auge nello strato immediatamente superiore e impiegano le loro energie nel vivere secondo quest’ideale. Pena la perdita del loro buon nome e del rispetto di sé in caso d’incapacità, essi devono conformarsi al codice accettato, almeno in apparenza. La base su cui si fonda in ultimo la buona reputazione in ogni società industriale altamente organizzata è la potenza finanziaria; e i mezzi per dimostrare la potenza finanziaria e guadagnarsi così o conservare un buon

nome sono l’agiatezza e un consumo vistoso di beni. Di conseguenza, ambedue questi metodi sono in auge fin dove è possibile; e negli strati inferiori in cui i due metodi sono usati, tutt’e due le mansioni sono in gran parte assegnate alla moglie e ai figli. Più giù ancora, dove ogni grado di agiatezza, persino apparente, è diventato impraticabile per la moglie, rimane il consumo vistoso di beni e la moglie e i bambini lo praticano. Il capofamiglia pure può fare qualcosa in questo senso e, di regola, lo fa effettivamente; ma scendendo ancora più in basso nei gradi della indigenza — ai margini dei bassifondi — l’uomo, e ora anche i bambini, virtualmente cessano di consumare dei beni di valore per le apparenze e la donna resta virtualmente l’unica esponente dell’onorabilità finanziaria della casa. Nessuna classe sociale, neppure la più miserabile, rinuncia ad ogni tradizionale consumo vistoso. Alle ultime voci di questa categoria di consumo non si rinuncia se non sotto la stretta della più cruda necessità. Molto squallore e malessere sarà sopportato prima che l’ultimo ninnolo o l’ultima pretesa di onorabilità finanziaria sia messa da parte. Non c’è classe né paese che abbiano ceduto così abiettamente alle strettezze del bisogno fisico da negare a se stessi ogni soddisfazione di questo bisogno superiore o spirituale. Nel precedente esame dello sviluppo dell’agiatezza e del consumo vistosi appare chiaro che l’utilità dell’una e dell’altro ai fini cella rispettabilità consiste nell’elemento di sciupìo che è comune a entrambi. In un caso è sciupìo di tempo e di energia, nell’altro sciupìo di beni. Sono entrambi sistemi per ostentare il possesso di ricchezza, e tutt’e due sono accettati convenzionalmente come equivalenti. La scelta fra essi è semplicemente un problema di utilità pubblicitaria, tranne per quanto essa può venire influenzata da altri criteri di convenienza, derivati da fonte diversa. In base alla utilità si può dare la preferenza all’uno o all’altro nei diversi stadi dello sviluppo economico. Il problema è quale dei due metodi toccherà più effettivamente le persone le cui convinzioni si desidera influenzare. L’uso ha risposto a questa domanda in diversi modi secondo diverse circostanze. Per tutto il tempo che la comunità o il gruppo sociale è piccolo e compatto abbastanza per essere effettivamente toccato dalla sola notorietà ordinaria — vale a dire per tutto il tempo che l’ambiente umano al quale l’individuo deve adattarsi per via della rispettabilità è compreso nella sfera delle sue personali conoscenze e delle chiacchiere dei vicini — per tutto questo tempo l’un metodo è all’incirca tanto effettivo quanto l’altro. Entrambi serviranno quindi quasi altrettanto bene durante i primi stadi dello sviluppo sociale. Ma quando

la differenziazione è andata più in là e diventa necessario toccare un più vasto ambiente umano, il consumo comincia a superare l’agiatezza quale strumento ordinario di onorabilità. Ciò vale specialmente durante lo stadio economico più tardo, pacifico. I mezzi di comunicazione e la mobilità della gente espongono adesso l’individuo all’esame di molte persone che non dispongono di altro mezzo per giudicare della sua rispettabilità che lo sfoggio di beni (e forse di educazione) che egli è capace di fare mentre è sotto la loro osservazione diretta. L’organizzazione moderna dell’industria opera nella stessa direzione anche per un’altra strada. Le esigenze del moderno sistema industriale spesso giustappongono l’individuo e le famiglie e tra essi c’è scarso contatto che non sia quello della giustapposizione. I nostri vicini, parlando da un punto di vista meccanico, spesso non sono socialmente i nostri vicini e non sono neppure conoscenti; eppure la loro buona opinione passeggera ci è sommamente utile. Il solo mezzo attuabile per convincere questi freddi osservatori della nostra vita quotidiana che siamo potenti, è lo sfoggio instancabile della nostra capacità di spendere. Nella società moderna c’è anche una più frequente partecipazione a grandi riunioni di gente cui la nostra vita quotidiana è sconosciuta; in luoghi come chiese, teatri, ritrovi, alberghi, parchi, negozi e simili. Per convincere questi osservatori momentanei e conservare sotto il loro esame il nostro autocompiacimento, dobbiamo poter firmare la nostra potenza finanziaria in caratteri che anche colui che ha fretta possa leggere. È perciò evidente che l’attuale direzione dello sviluppo è di aumentare l’utilità del consumo vistoso rispetto all’agiatezza. Vale pure la pena di avvertire che l’utilità del consumo come mezzo di reputazione, così come l’insistere su di esso come elemento di onorabilità, tocca l’apice in quelle parti della società in cui il contatto umano dell’individuo è più vasto, e più grande è la mobilità della popolazione. Il consumo vistoso inghiotte una parte del reddito relativamente maggiore per la popolazione urbana che per quella rurale, e l’esigenza è anche più imperativa. Il risultato è che, per mantenere un’apparenza decente, i primi vivono abitualmente in strettezze più che i secondi. Così avviene per esempio che con un’eguale entrata il contadino americano con moglie e figlie vestono notoriamente meno alla moda, così come usano maniere meno urbane, che la famiglia dell’artigiano cittadino. Non è che la popolazione della città sia per natura gran che più desiderosa della speciale compiacenza che nasce da un consumo vistoso, né che la gente di campagna abbia meno riguardo per

l’onorabilità finanziaria. Però l’impulso a questo genere di sfoggio, così come la sua passeggera efficacia, sono più risoluti in città. A questo metodo si fa perciò più prontamente ricorso, e nella lotta per superarsi a vicenda la popolazione cittadina spinge il suo normale livello di consumo vistoso a un grado superiore, con il risultato che in questo senso si richiede in città una spesa relativamente più grande per indicare un dato grado di onorabilità finanziaria. La conformità a questo convenzionale livello superiore diventa obbligatoria. Classe per classe il livello di onorabilità è più alto, e questo obbligo di onorevole apparenza va osservato, pena la perdita del proprio rango. Il consumo diventa un elemento più pesante nel tenore di vita della città che non in quello della campagna. Fra la popolazione campagnola il suo posto è in una certa misura tenuto dai risparmi e dai conforti domestici abbastanza conosciuti attraverso le chiacchiere del vicinato da servire al consimile fine generale della reputazione finanziaria. Queste comodità domestiche e l’agiatezza, cui ci si abbandona — dove beninteso ci si possa abbandonare — sono pure naturalmente in gran parte da classificarsi sotto la voce del consumo vistoso; e lo stesso si dica dei risparmi. L’ammontare più esiguo dei risparmi messi da parte dalla categoria degli artigiani è senza dubbio dovuto in qualche misura al fatto che nel caso dell’artigiano i risparmi sono un mezzo meno efficace di pubblicità, dato il suo ambiente, che non i risparmi di coloro che vivono nelle fattorie o nei piccoli villaggi. Fra questi ultimi gli affari, specialmente le condizioni finanziarie, di ciascuno sono note a tutti gli altri. Considerato in se stesso — visto a occhio e croce — quest’altro impulso al quale sono esposte le classi urbane degli artigiani e degli operai non può seriamente far diminuire l’ammontare dei risparmi; ma nella sua azione cumulativa, attraverso l’aumento del livello della spesa onorevole, il suo effetto contrario al risparmio non può riuscire che rilevante. Un esempio calzante del modo con cui questo canone di rispettabilità produce i suoi effetti si vede nell’uso di bere liquori, di «offrire» e fumare in luoghi pubblici che è proprio dei lavoratori e degli artigiani delle cittadine di provincia e della bassa borghesia urbana in genere. Si possono citare gli operai tipografi come una categoria nella quale questa forma di consumo vistoso è molto in auge e porta con sé certe ben note conseguenze che vengono sovente deprecate. Le abitudini peculiari della categoria a questo proposito si ascrivono comunemente a una specie di non ben definita deficienza morale che sarebbe sua prerogativa oppure a un influsso moralmente deleterio che la

detta occupazione si suppone eserciti in qualche imperscrutabile modo sugli animi in essa impiegati. I dati della situazione in cui si trovano nelle varie tipografie quelli che lavorano nella sala di composizione e di stampa si possono riassumere come segue. L’abilità acquistata in qualsiasi tipografia o città può essere messa facilmente a profitto in quasi ogni altra tipografia o città; vale a dire, è scarsa l’inerzia dovuta a uno speciale addestramento. Inoltre il lavoro richiede un’intelligenza e una cultura superiori alla media e pertanto gli uomini impiegati in esso sono di regola più pronti di molti altri a trarre profitto da ogni leggera variazione nella richiesta di manodopera da un luogo all’altro. Pure scarsa è di conseguenza l’inerzia dovuta al sentimento familiare. Nello stesso tempo i salari sono abbastanza alti per rendere relativamente facile lo spostarsi da luogo a luogo. Il risultato è una grande mobilità dei lavoratori occupati nella stampa; forse più grande di quella di ogni altra ben definita e considerevole categoria di operai. Questi uomini si legano continuamente a nuovi gruppi di conoscenze con cui le relazioni stabilite sono passeggere o effimere, ma di cui la buona opinione ha nondimeno valore per il momento. La tendenza umana all’ostentazione, rafforzata da sentimenti di cameratismo, li induce a spendere liberamente in quelle direzioni che possono soddisfare meglio questi bisogni. Qui come altrove il costume diventa prescrittivo non appena è in auge e viene assorbito nel tipo accreditato di onorabilità. La tappa successiva consiste nel fare di questo tipo di onorabilità il punto di partenza per un nuovo passo avanti nella stessa direzione — poiché non c’è alcun merito nella semplice fredda conformità a un genere di scialo che è osservato come cosa naturale da chiunque si trovi nel mestiere. La maggior prevalenza dello spreco fra gli stampatori che fra la media degli operai deve di conseguenza attribuirsi, almeno in parte, alla maggior comodità di spostamento e al carattere più passeggero delle conoscenze e dei contatti umani di questo mestiere. Ma il motivo fondamentale di questa forte esigenza di spreco non è altro in ultima analisi che quella medesima tendenza a dar prova di potenza e di buona educazione finanziaria che rende il proprietario campagnole francese parco e frugale e spinge il milionario americano a fondare collegi, ospedali e musei. Se il canone del consumo vistoso non fosse in misura considerevole compensato da altri tratti della natura umana ad esso estranei, qualunque risparmio sarebbe logicamente impossibile per una popolazione nella posizione in cui si trovano attualmente le categorie cittadine degli artigiani e degli operai, per quanto alti possano

essere i loro salari e le loro entrate. Vi sono però altri criteri di reputazione e altre regole di condotta, più o meno imperative, accanto alla ricchezza e al suo sfoggio — e alcuni di questi accentuano oppure restringono la grande fondamentale regola dello spreco vistoso. Con il semplice criterio dell’efficacia pubblicitaria no: ci aspetteremmo di trovare l’agiatezza e il consumo vistoso dividersi all’inizio il campo dell’emulazione finanziaria abbastanza equamente fra loro. Ci si potrebbe aspettare che l’agiatezza perda a poco a poco terreno e tenda a cadere in disuso, man mano che lo sviluppo economico procede e la comunità si allarga; mentre il consumo vistoso dovrebbe guadagnare sempre maggior importanza, sia in assoluto che relativamente, finché non abbia assorbito ogni prodotto utilizzabile, nulla risparmiando oltre ai mezzi di sussistenza. Ma il corso attuale delia evoluzione è stato un poco diverso da questo modello ideale. Nella civiltà quasi pacifica l’agiatezza teneva il primo posto in partenza e giunse a occupare una posizione molto superiore a quella del prodigo consumo dei beni, sia come indizio diretto di ricchezza che come elemento del criterio dell’onorabilità. Ma da quel tempo il consumo ha guadagnato terreno fino a tenere indiscutibilmente, oggi, la supremazia, benché sia ancora ben lontano dall’assorbire tutta la produzione che eccede il minimo di sussistenza. La primitiva ascesa dell’agiatezza come mezzo di rispettabilità si può far risalire all’antica distinzione fra occupazioni nobili e non nobili. L’agiatezza è onorevole e diventa obbligatoria in parte perché mostra che si è esenti da lavori ignobili. L’antica differenziazione fra classi nobili e non nobili si basa su una distinzione antagonistica fra mansioni onorifiche o degradanti; e questa distinzione tradizionale diventa una norma obbligatoria di onorabilità durante i primi tempi dello stadio quasi pacifico. La sua ascesa è favorita dal fatto che l’agiatezza è sempre altrettanto efficace, come prova di ricchezza, quanto il consumo. Difatti, è tanto efficace negli ambienti umani relativamente piccoli e stabili a cui l’individuo è esposto in quello stadio culturale che, valendosi dell’arcaica tradizione che depreca ogni lavoro produttivo, dà origine a una numerosa classe comoda spiantata e tende persino a limitare la produzione industriale della comunità al minimo di sussistenza. Si evita questa estrema inibizione dell’industria perché gli schiavi, lavorando sotto uno stimolo più rigoroso di quello della rispettabilità, sono costretti a dare un prodotto che eccede il minimo di sussistenza della classe lavoratrice. Il susseguente relativo declino dell’agiatezza vistosa come criterio di stima è dovuto in parte a una crescente efficacia relativa del consumo come segno di ricchezza; in parte però

lo si può far risalire a un’altra forza, estranea e in certo senso antagonista all’uso del consumo vistoso. Questo fattore estraneo è l’istinto dell’efficienza. Diverse circostanze permettendolo, quest’istinto induce gli uomini a guardare con favore all’efficienza produttiva e a tutto ciò che è utile per l’uomo. Esso li induce a deprecare ogni sciupìo di sostanze o di energie. L’istinto dell’efficienza è presente in tutti gli uomini, e si rivela perfino in circostanze molto avverse. Cosicché, per quanto prodiga possa essere in realtà una data spesa, essa deve almeno avere qualche plausibile scusa in vista di uno scopo apparente. Il modo con cui, in circostanze speciali, l’istinto diventa gusto per la bella gesta e distinzione antagonistica fra classe nobile e non nobile è stato indicato in un capitolo precedente. In quanto si trova in conflitto con la legge dello spreco vistoso, l’istinto dell’efficienza trova espressione non tanto insistendo sull’utilità vera e propria quanto in un costante senso dell’odiosità e della impossibilità estetica di ciò che è chiaramente futile. Avendo la natura di un’affezione istintiva, la sua guida interessa principalmente e immediatamente le violazioni ovvie ed evidenti delle sue esigenze. È soltanto in un secondo tempo, e con forza meno costrittiva, che esso si estende a quelle sostanziali violazioni delle sue esigenze che vengono valutate solo riflettendo. Finché ogni lavoro continua a essere fatto esclusivamente o normalmente da schiavi, la bassezza di ogni sforzo produttivo è troppo costantemente e negativamente chiara a ciascuno, per permettere all’istinto dell’efficienza di avere un notevole effetto nei confronti dei vantaggi dell’industria; ma allorché lo stadio quasi pacifico (con schiavitù e regime di casta) diventa lo stadio pacifico dell’industria (con lavoro salariato e pagamento in denaro) l’istinto scende in ballo con maggior efficacia. Esso allora comincia a foggiare la mentalità degli uomini su ciò che è meritorio, e si rivela almeno come una regola ausiliaria della compiacenza di sé. A parte ogni estranea considerazione, quelle persone (adulte) che non hanno nessuna inclinazione a raggiungere un qualche scopo e che non si sentono per se stesse mosse a creare qualche oggetto o fatto o rapporto a vantaggio dell’uomo non sono più che una trascurabile minoranza oggidì. La tendenza può in gran parte essere sopraffatta dallo stimolo più immediatamente coercitivo a un’onorevole agiatezza e al ripudio di ogni indecorosa utilità, e può perciò manifestarsi in una semplice finta; come per esempio nei «doveri sociali» e in lavori da mezzo artista o da semi erudito, nella cura e nella decorazione della casa, nell’appartenenza a circoli di cucito o per la riforma del vestire, nella

competenza in fatto di abbigliamento, gioco di carte, canottaggio, golf e altri sport. Ma il fatto che esso possa sotto la pressione delle circostanze finire in sciocchezze non depone contro la presenza dell’istinto più di quanto la realtà dell’istinto di covare sia messa in forse dalla possibilità di indurre una gallina a covare delle uova di porcellana. Questo moderno inquieto bisogno di una qualche forma di attività diretta a un fine, che non sia nello stesso tempo indecorosamente produttiva di guadagno individuale o collettivo, indica una diversità di atteggiamento fra la classe agiata moderna e quella dello stadio semipacifico. Nello stadio precedente, già si disse, il predominante istituto della schiavitù e delle caste agiva irresistibilmente nel senso di ostacolare ogni sforzo diretto a fini diversi da quelli ingenuamente rapaci. Era ancora possibile trovare un abituale sfogo all’inclinazione ad agire, dandosi ad aggressioni o repressioni violente contro gruppi ostili o contro le classi inferiori all’interno del gruppo; e ciò serviva ad allentare la pressione e a travasare l’energia della classe agiata senza far ricorso a impieghi d’immediata o persino evidente utilità. La pratica della caccia serviva pure in parte allo stesso scopo. Allorché la comunità si sviluppò in una società industriale pacifica e quando la più completa occupazione della terra ebbe ridotto le occasioni di cacciare ad un residuo trascurabile, si lasciò che la pressione dell’energia in cerca di un impiego trovasse sfogo in qualche altra direzione. Anche l’ignominia connessa a ogni sforzo utile cominciò a entrare in fase meno acuta con la scomparsa del lavoro forzato; e l’istinto dell’efficienza cominciò ad affermarsi con maggior tenacia e continuità. La linea di minor resistenza è in parte cambiata, e l’energia che dapprima trovava uno sbocco nell’attività ladronesca adesso s’incanala in parte verso qualche scopo evidentemente utile. Evidentemente l’agiatezza senza scopo è diventata deprecabile, specie in mezzo a quella gran parte della classe agiata le cui origini plebee la mettono in disaccordo con la tradizione dell’otium cum dignitate. Però quel canone di rispettabilità che proibisce ogni impiego che tenga della natura dello sforzo produttivo è tuttora operante, e non permetterà altro che la voga più fuggevole a un impiego che sia fondamentalmente utile o produttivo. La conseguenza è che si è operato un cambiamento nel consumo vistoso praticato dalla classe agiata; non tanto nella sostanza quanto nella forma. Una riconciliazione fra le due opposte esigenze è ottenuta ricorrendo a una finta. Si sviluppano numerose e intricate norme d’educazione nonché doveri sociali di carattere cerimoniale; si fondano molte organizzazioni, con speciosi obiettivi di miglioramento incorporati nel loro titolo e stile ufficiali;

c’è molto via vai e una gran quantità di chiacchiere: tutto perché i parlatori non possano aver l’occasione di riflettere su quello che è l’effettivo valore economico del loro agitarsi. E insieme con la finta di un impiego proficuo, e anzi intrecciato inestricabilmente alla sua composizione, c’è di solito se non sempre uno sforzo utile più o meno apprezzabile diretto a uno scopo serio. Nella sfera più ristretta dell’agiatezza derivata un simile cambiamento è avvenuto. Invece di trascorrere semplicemente il suo tempo in evidente pigrizia, come nei giorni migliori del regime patriarcale, la moglie dello stadio pacifico progredito si applica con assiduità alle cure della famiglia. I tratti salienti di questa evoluzione sono già stati indicati. In tutta quanta l’evoluzione del consumo vistoso, sia di beni che di servizi o di vita umana, è chiaro il sottinteso che per aumentare effettivamente la buona fama del consumatore esso dev’essere un consumo di cose superflue. Per essere onorevole dev’essere uno spreco. Nessun merito deriverebbe dal consumo del puro necessario, salvo per il confronto con il miserabile che manca persino del minimo di sussistenza; e nessun modello di consumo verrebbe da un tale confronto se non un livello di onorabilità assai prosaico e senza attrattive. Sarebbe ancora possibile un tenore di vita che ammettesse un confronto antagonistico sotto rispetti diversi da quello dell’opulenza, come per esempio un confronto in diverse direzioni nella manifestazione della forza morale, fisica, intellettuale o estetica. Confronti in tutte queste direzioni sono di moda oggidì, e il confronto fatto sotto questi rispetti è di solito così inestricabilmente legato con il paragone finanziario da riuscire di rado distinguibile da quest’ultimo. Ciò è vero specialmente per quanto riguarda la valutazione corrente delle espressioni di potenza e vigore intellettuale o estetico; cosicché noi sovente giudichiamo estetica o intellettuale una differenza che in sostanza è soltanto finanziaria. L’uso del termine «sciupìo» è sotto un certo aspetto poco felice. Come viene usato nel linguaggio d’ogni giorno, il termine ha un sottinteso di biasimo. Qui viene usato in mancanza di un termine migliore, che possa adeguatamente significare la medesima serie di motivi e di fenomeni, e non è da assumersi in senso odioso, come se implicasse uno spreco illegittimo di prodotti o di vita umani. Dal punto di vista della teoria economica la perdita in questione è né più né meno legittima di ogni altra perdita. Qui viene chiamata «sciupìo» perché questa perdita non serve alla vita umana, o al benessere degli uomini nel loro complesso, non perché sia sciupìo o sforzo malamente indirizzato oppure perdita in quanto appare al consumatore

individuale che lo sceglie. Se lo sceglie, ciò decide la questione dell’utilità relativa per lui, in confronto con altre forme di consumo che non sarebbero deprecate a cagione del loro sciupìo. Qualunque forma di dispendio il consumatore scelga, o qualsiasi scopo egli persegua nel far la scelta, essa è per lui utile in virtù della sua preferenza. Considerato dal punto di vista del consumatore individuale, il problema dello spreco non sorge nel campo della teoria economica vera e propria. L’uso della parola «sciupìo» come termine tecnico non implica perciò nessuna condanna dei motivi o dei fini perseguiti dal consumatore in base a questa regola dello spreco vistoso. Per altri motivi però vale la pena di notare che il termine «sciupìo» nel linguaggio della vita d’ogni giorno implica condanna. Tale sottinteso del senso comune è di per sé un’eco dell’istinto dell’efficienza. La riprovazione popolare dello scialo arriva a dire che per essere in pace con se stesso l’uomo comune dev’essere capace di vedere in ogni sforzo e piacere umano un aumento di vita e di benessere in generale. Per incontrare un’approvazione senza restrizioni, un fatto economico deve mettersi alla prova dell’utilità impersonale: l’utilità considerata dal punto di vista del genericamente umano. Il vantaggio di un individuo confrontato con un altro, con cui sia in relazione o in competizione, non soddisfa la coscienza economica, e pertanto il dispendio per concorrenza non ha l’approvazione di questa coscienza. Rigorosamente parlando, niente dovrebbe essere compreso nella categoria dello sciupìo vistoso all’infuori del dispendio cui si va incontro per motivi di confronto finanziario antagonistico. Ma per inserire in questa categoria un dato elemento o voce non è necessario che debba essere riconosciuto come spreco in questo senso dalla persona che incorre nella spesa. Accade spesso che un elemento del tenore di vita che cominciò con l’essere un vero sciupìo finisca con il diventare nel pensiero del consumatore una necessità di vita; e può in tal modo diventare tanto indispensabile quanto ogni altra voce della spesa abituale del consumatore. Come voci che talvolta vengono a cadere in questa categoria, e valgono perciò come esempi del modo con cui questo principio è applicato, si possono citare i tappeti e le tappezzerie, i servizi da tavola in argento, i cappelli duri, la biancheria inamidata e vari altri articoli di gioielleria e di vestiario. La necessità di questi oggetti dopo che si sono formate l’abitudine e l’etichetta conta tuttavia assai poco nella classificazione delle spese come sciupìo o non sciupìo, nel significato tecnico della parola. Il criterio cui ogni spesa dev’essere sottoposta per tentare di decidere questo punto è il problema se essa serva direttamente a far progredire la vita umana

nel suo complesso — se favorisca il processo vitale inteso impersonalmente. Poiché questa è la base per giudicare dell’istinto d’efficienza, e questo istinto è la suprema corte di cassazione in ogni questione di verità o di giusta proporzione economica. È un problema secondo il giudizio dato da uno spassionato senso comune. Il problema non è perciò se, nelle attuali circostanze di abitudine individuale e di costume sociale, una data spesa conduca al piacere o alla pace interiore del consumatore; ma se, a parte i gusti acquisiti e le regole della consuetudine e dell’onorabilità convenzionale, ne risulti un netto aumento di benessere e di pienezza di vita. La spesa abituale va classificata nella categoria dello sciupìo finché il costume su cui si fonda si può far risalire all’abitudine d’istituire un confronto finanziario antagonistico, finché si concepisce che esso non sarebbe diventato abituale e prescrittivo senza l’appoggio di questo principio della rispettabilità finanziaria e del relativo successo economico. Ovviamente non è necessario che un dato oggetto debba essere esclusivamente uno spreco per entrare nella categoria dello sciupìo vistoso. Un articolo può essere e utile e dispendioso, e la sua utilità per il consumatore esser dovuta all’uso e allo spreco nelle più varie proporzioni. I beni che si possono consumare e persino i beni produttivi mostrano generalmente i due elementi combinati, come quelli che costituiscono la loro utilità; benché poi, in linea di massima, l’elemento dello spreco tenda a predominare nei generi di consumo, mentre è vero il contrario per i generi designati all’uso produttivo. Persino in oggetti che a prima vista sembrano servire soltanto alla pura ostentazione, è sempre possibile scoprire la presenza di qualche scopo vantaggioso; e d’altra parte anche in speciali macchinari e in strumenti escogitati per qualche particolare procedimento industriale, come nei più rozzi ritrovati dell’industria umana, a un esame attento diventano generalmente evidenti le tracce dello sciupìo vistoso, o almeno dell’abitudine dell’ostentazione. Sarebbe azzardato affermare che uno scopo utile manchi all’utilità di un oggetto o di un servizio, benché il suo primo scopo e il suo elemento principale sia chiaramente lo sciupìo vistoso; e sarebbe soltanto un po’ meno azzardato affermare di qualunque prodotto soprattutto utile che l’elemento dello sciupìo non sia per niente implicato nel suo valore, prossimo o remoto. 1. Usanza degli indiani della costa americana del nord-ovest d’intrattenere con banchetti e regali allo scopo di primeggiare. Veblen ricava questa notizia da uno studio antropologico sugli indiani della Columbia britannica di Franz Boas, suo collega a Chicago, pubblicato nel 1895. Boas tra l’altro applica nell’opera il principio vebleniano dello sciupìo vistoso, già esposto nel saggio The Economie Theory of

Woman’s Dress, sul «Popular Science Monthly» del novembre 1894.

CAPITOLO V. IL LIVELLO FINANZIARIO DI VITA Per la maggioranza della gente di una società moderna il motivo immediato della spesa eccedente quanto è richiesto per il benessere fisico non è tanto uno sforzo cosciente per eccellere nella dispendiosità del consumo visibile, quanto un desiderio di vivere secondo un criterio di onorabilità convenzionale in fatto di quantità e qualità di beni. Questo desiderio non è rigidamente diretto in base a un criterio costante, secondo il quale si debba vivere e oltre il quale non ci sia stimolo a spingersi. Il criterio è variabile; e in particolare si può estendere indefinitamente, se soltanto si concede il tempo per assuefarsi a un aumento della possibilità finanziaria, e per acquistare facilità nella nuova e più vasta portata della spesa che segue un tale aumento. È molto più difficile abbandonare una certa portata di spesa una volta adottatala, di quanto non sia estendere la portata solita in corrispondenza di un aumento di ricchezza. Molte voci della spesa abituale si dimostrano, se analizzate, quasi puramente dispendiose, e perciò soltanto sono onorifiche, ma dopo che esse siano state incorporate nella graduatoria del consumo onorevole, e siano così divenute parte integrante del proprio modello di vita, è tanto difficile rinunciarvi quanto è difficile rinunciare a molti generi, che servono direttamente al benessere fisico o che possono addirittura essere necessari alla vita e alla salute. Vale a dire, la spesa onorifica vistosamente prodiga, che conferisce benessere spirituale, può diventare più indispensabile che gran parte di quelle spese che servono unicamente alle esigenze «inferiori» del benessere fisico o del puro sostentamento. Tutti sanno che è altrettanto difficile retrocedere da un «alto» tenore di vita quanto abbassare dell’altro un tenore di vita già relativamente basso; benché nel primo caso la difficoltà sia morale, mentre nel secondo essa possa implicare una sottrazione materiale ai piaceri fisici della vita. Mentre però la retrocessione è difficile, un nuovo aumento di spesa vistosa è relativamente facile; difatti essa ha luogo come cosa naturale. Nei pochi casi in cui si verifica, un mancato accrescimento del proprio consumo visibile, quando ci siano i mezzi per un accrescimento, richiede secondo la mentalità

popolare una spiegazione, e indegni moventi di spilorceria vengono imputati a coloro che mancano sotto questo aspetto. Una pronta risposta allo stimolo è d’altronde considerata l’effetto normale. Ciò fa pensare che il criterio di spesa che comunemente guida i nostri sforzi non sia l’ordinaria spesa media, già raggiunta, ma un consumo ideale che si trova sempre un po’ oltre la nostra capacità — o che per arrivarci richiede qualche sforzo. Il motivo è l’emulazione: lo stimolo derivato da un confronto antagonistico che ci spinge a superare quelli con i quali usiamo classificarci. Sostanzialmente la stessa cosa si dice nella proverbiale sentenza che ogni classe invidia ed emula la classe immediatamente superiore nella scala sociale, mentre di rado si paragona con quelli che stanno al di sotto oppure con coloro che sono molto più avanti. Vale a dire, in altre parole: il nostro criterio di onorabilità in fatto di spese, come in altri scopi dell’emulazione, è stabilito in base alle consuetudini di coloro che ci sono immediatamente superiori in fatto di rispettabilità; finché in tal modo, specialmente in una società in cui le distinzioni di classe siano qualcosa di vago, tutte le regole di rispettabilità e di convenienza e tutti i criteri di consumo si fanno risalire attraverso impercettibili gradazioni alle usanze e alle abitudini mentali della classe più alta socialmente e finanziariamente: la classe agiata ricca. Tocca a questa classe stabilire in sintesi generale quale modello di vita la società deve accettare come conveniente e onorifico; ed è suo ufficio mostrare con il precetto e l’esempio questo modello di salvezza sociale nella sua forma più alta, ideale. Ma la classe agiata superiore può esercitare questo ufficio quasi sacerdotale soltanto sotto alcune limitazioni materiali. La classe non può fare a suo arbitrio un’improvvisa rivoluzione o capovolgimento delle abitudini mentali popolari rispetto a qualunque di queste esigenze d’etichetta. Ogni mutamento richiede tempo per penetrare nella massa e cambiare l’atteggiamento abituale della gente; e in particolare richiede tempo per cambiare le abitudini di quelle classi che sono socialmente più lontane dal centro propulsore. Il processo è più lento là dove la popolazione si sposta meno facilmente o dove gli intervalli fra le varie classi sono più grandi e più bruschi. Se però si dà il tempo, la portata dell’arbitrio della classe agiata per quanto concerne questioni di forma e di dettaglio nel sistema di vita della comunità è molto ampia; mentre invece per quanto riguarda i princìpi fondamentali della rispettabilità, i mutamenti che essa può operare cadono in uno stretto margine di tolleranza. Il suo esempio e precetto hanno vigore di legge per tutte le classi inferiori; ma nel definire i precetti che si dànno per

governare la forma e il metodo della rispettabilità — nel determinare gli usi e l’atteggiamento spirituale delle classi inferiori — questa prescrizione autoritaria opera continuamente sotto la guida selettiva del canone dello spreco vistoso, temperato in diverso grado dall’istinto dell’efficienza. A queste regole si deve aggiungere un altro principio fondamentale della natura umana — l’istinto di rapina — che in fatto di generalità e di contenuto psicologico si trova in mezzo ai due or ora citati. L’effetto di quest’ultimo nel determinare il modello di vita accettato deve ancora esser discusso. Il canone della rispettabilità deve dunque adattarsi alle circostanze economiche, alle tradizioni, e al grado di maturità spirituale della particolare classe, il cui modello di vita esso deve dirigere. Va specialmente notato che quantunque grande la sua autorità e per quanto fedele alle fondamentali esigenze di rispettabilità fosse al suo inizio, una specifica osservanza formale non può in nessuna circostanza mantenersi in forza se, con il passar del tempo oppure nella trasmissione a una classe finanziariamente inferiore, risulta contraria al fondamento basilare dell’onorabilità fra popoli civili, e cioè l’applicabilità in vista di un confronto antagonistico nel successo finanziario. È evidente che tali canoni del dispendio contano assai nello stabilire il livello di vita per una comunità e per una classe. Non è meno evidente che il livello di vita prevalente in un’epoca o a una data altitudine sociale conterà a sua volta assai sulle forme che il dispendio onorifico assumerà e sul grado con il quale questo «superiore» bisogno dominerà il consumo di un popolo. Sotto questo aspetto il controllo esercitato dal livello di vita accettato ha principalmente carattere negativo; esso agisce quasi unicamente per prevenire delle retrocessioni da un grado di dispendio vistoso divenuto abituale. Un livello di vita tiene della natura dell’abitudine. Esso è una graduatoria e un metodo abituale per rispondere a determinati stimoli. La difficoltà di retrocedere da un livello abituale è la difficoltà di vincere un’abitudine una volta che si sia formata. La relativa facilità con cui un progresso di livello si stabilisce significa che il processo vitale è un processo di attività dispiegantesi, e che esso si spiegherà prontamente in una nuova direzione ogniqualvolta e ovunque la resistenza all’espressione di sé diminuisca. Quando però l’abitudine di esprimersi secondo questa data linea di minor resistenza si sia una volta formata, lo sfogo cercherà il suo abituale sbocco anche se nell’ambiente sarà avvenuto un cambiamento per cui la resistenza esterna si sia notevolmente accresciuta. Quell’aumentata facilità d’espressione in un data direzione che si chiama abitudine può bilanciare un notevole aumento

della resistenza offerta dalle circostanze esterne allo sviluppo della vita nella direzione data. Come fra le diverse abitudini o i modi e le direzioni abituali dell’espressione che contribuiscono a formare il livello di vita di un individuo, c’è una notevole differenza in fatto di persistenza in circostanze avverse e del grado d’intensità con cui lo sfogo cerca una direzione. Ciò significa, nel linguaggio della teoria economica corrente, che mentre gli uomini sono riluttanti a diminuire le loro spese in qualunque direzione, essi sono più riluttanti a diminuirle in alcune direzioni che in altre; cosicché mentre qualunque spesa abituale è tralasciata con riluttanza, ve ne sono alcune che sono tralasciate con una riluttanza relativamente estrema. I generi o le forme di consumo ai quali il consumatore tiene con la massima tenacia sono comunemente le cosidette necessità di vita o il minimo di sussistenza. Il minimo di sussistenza non è naturalmente una razione rigidamente stabilita di beni, definiti e invariabili in qualità e quantità; ma per il nostro scopo si può intendere che comprenda un certo complesso, più o meno definito, di beni di consumo necessari per la conservazione della vita. Questo minimo, si può supporre, è ordinariamente mollato per ultimo nel caso di una progressiva riduzione delle spese. Vale a dire die, in linea di massima, le più antiche e le più radicate fra le abitudini che governano la vita dell’individuo — quelle abitudini che toccano la sua esistenza come organismo — sono le più persistenti e categoriche. Al di sopra di queste vengono le esigenze superiori — abitudini individuali o razziali formatesi più tardi — in una graduatoria un po’ irregolare e per niente invariabile. Alcune di queste esigenze superiori, come per esempio l’uso abituale di certi eccitanti, o il bisogno di salvezza (nel senso escatologico) o della buona reputazione, possono in certi casi avere la precedenza sulle necessità inferiori o più elementari. In generale, quanto più lunga è l’assuefazione, più consolidata l’abitudine, e con maggior approssimazione coincidente con le precedenti forme abituali del processo vitale, con tanto maggiore insistenza si affermerà l’abitudine data. L’abitudine sarà più forte se le caratteristiche particolari della natura umana che la sua azione interessa, o le particolari attitudini che in essa trovano esercizio, sono caratteristiche o attitudini già largamente e profondamente interessate nel processo vitale o intimamente legate con lo sviluppo storico della vita del particolare ceppo sociale. I vari gradi di facilità con cu: diverse abitudini si formano nelle diverse persone, così come i vari gradi di riluttanza con cui diverse abitudini si troncano, significano che la formazione di abitudini specifiche non è

semplicemente questione di durata d’assuefazione. Attitudini ereditarie e caratteristiche del temperamento contano tanto quanto la durata d’assuefazione nel decidere quale serie d’abitudini avrà la supremazia sul modello di vita di un individuo. E il tipo prevalente delle attitudini trasmesse, o in altre parole il tipo di temperamento appartenente all’elemento etnico dominante di una comunità, arriverà al punto di decidere quale sarà la portata e la forma di espressione del processo di vita abituale della comunità. Quanto grandemente possano contare nella formazione rapida e definitiva delle abitudini degli individui le idiosincrasie di attitudini tramandate, è illustrato dalla facilità estrema con cui si forma talvolta un’abitudine prepotente all’alcoolismo; oppure dalla consimile facilità e dalla parimente inevitabile formazione di un abito delle pratiche devote, nel caso di persone dotate di un’attitudine speciale in questa direzione. Quasi la stessa cosa significa quella facilità peculiare di assuefazione a un ambiente umano specifico, che si chiama amor romantico. Gli uomini differiscono rispetto alle attitudini loro trasmesse, oppure rispetto alla relativa facilità con cui dispiegano le loro attività di vita in direzioni particolari; e le abitudini che coincidono oppure procedono di pari passo con una specifica e relativamente forte attitudine e facilità di espressione diventano di gran peso per il benessere dell’uomo. La parte sostenuta da quest’elemento dell’attitudine nel determinare la relativa tenacia delle diverse abitudini che costituiscono il livello di vita serve a spiegare la riluttanza estrema con cui gli uomini tralasciano una spesa abituale, che faccia parte del consumo vistoso. Le attitudini o le propensioni a cui un’abitudine di questo genere dev’essere riferita come al suo fondamento sono quelle attitudini il cui esercizio è compreso nell’emulazione; e la propensione all’emulazione — al confronto antagonistico — è di vecchia data e una onnipresente caratteristica della natura umana. È facilmente destata a vigorosa attività in ogni forma nuova, e si afferma con grande insistenza sotto ogni forma nella quale abbia una volta trovato espressione abituale. Una volta che l’individuo si è formato l’abitudine di cercare un’espressione in un dato campo del dispendio onorifico — quando una data categoria di stimoli sono giunti a trovare abitualmente corrispondenza in un’attività di un genere o di un senso determinati sotto la guida di queste vive e profonde propensioni all’emulazione — è con riluttanza estrema che una simile spesa abituale verrà tralasciata. E d’altra parte, ogni qualvolta un accrescimento di potenza finanziaria mette un individuo in stato di sviluppare il suo processo vitale su

un terreno più vasto e di più ampia portata, le antiche tendenze della razza si faranno sentire nello stabilire la direzione che il nuovo sviluppo di vita sta per prendere. E quelle tendenze, che sono già attivamente in campo sotto qualche forma affine di espressione, che sono aiutate dalle marcate suggestioni offerte da un modello di vita corrente e accreditato e per l’esercizio delle quali i mezzi e le occasioni materiali sono prontamente disponibili — quelle specialmente avranno molto da dire nel dare la forma e il senso in cui il nuovo incremento del complesso di forza dell’individuo si affermerà. Ciò significa in parole povere che in una società in cui il consumo vistoso è un elemento del sistema di vita, un aumento della capacità dell’individuo a pagare assumerà la forma di una spesa in qualche campo ben accreditato dei consumo vistoso. Eccezion fatta per l’istinto di autoconservazione, la tendenza all’emulazione è probabilmente il più forte e il più vivo e persistente fra i motivi economici veri e propri. In una società industriale questa tendenza all’emulazione si esprime nell’emulazione finanziaria; e, per tutto quanto riguarda le attuali società della civiltà occidentale, ciò equivale virtualmente a dire che si esprime in qualche forma di spreco vistoso. Il bisogno dello spreco vistoso, perciò, è pronto ad assorbire ogni incremento dell’efficienza industriale o produttiva della comunità, dopo che si sia provveduto alle più elementari necessità fisiche. Là dove non ne consegue questo risultato, nelle attuali condizioni, la ragione della differenza va comunemente ricercata in un ritmo troppo rapido di arricchimento dell’individuo perché l’abitudine del dispendio si mantenga alla pari; oppure può darsi che l’individuo in questione differisca il consumo vistoso a una data posteriore — ordinariamente, per rendere maggiore l’effetto spettacolare del dispendio complessivo che si ripropone. Man mano che l’incremento dell’efficienza industriale rende possibile procurarsi i mezzi di vita con minor lavoro, le energie dei membri laboriosi della comunità sono indirizzate a realizzare maggiori programmi di spese vistose, piuttosto che riposarsi in un più comodo tran-tran. Lo sforzo non è alleviato man mano che l’efficienza industriale cresce e rende possibile uno sforzo minore, ma l’incremento della produzione è rivolto abitualmente a soddisfare questo bisogno, che si può espandere all’infinito, secondo il modo che comunemente nella teoria economica si attribuisce alle esigenze superiori o spirituali. È principalmente in grazia della presenza di questo elemento nel livello di vita che J. S. Mill ha potuto dire che «fino ad oggi è cosa discutibile se tutte le invenzioni meccaniche fatte hanno alleviato la fatica giornaliera di un essere umano».

Il livello di dispendio accettato nella comunità o nella classe a cui una persona appartiene determina in gran parte quello che sarà il livello di vita di ciascuno. Esso fa ciò direttamente raccomandandosi, come cosa giusta e buona, al senso comune della persona in questione, proponendole abitualmente da contemplare e assimilare il modello di vita da cui dipende; ma agisce pure indirettamente attraverso l’insistenza della gente sulla conformità alla graduatoria del dispendio accettata come a una questione d’onore, sotto pena di ostracismo e di infamia. Accettare e praticare il livello di vita che è in auge è piacevole e insieme utile, generalmente al punto di riuscire indispensabile al benessere personale e al successo nella vita. Il livello di vita di una classe, per ciò che concerne l’elemento dello spreco vistoso, è comunemente tanto alto quanto la capacità di guadagno della classe consente — con una continua tendenza a salire di più. L’effetto sulle attività serie consiste perciò nel dirigerle con una grande linearità di propositi alla maggiore acquisizione di ricchezza possibile, e ad evitare il lavoro che non dia profitto finanziario. Nello stesso tempo l’effetto sul consumo consiste nel concentrarlo sui generi che siano più visibili agli osservatori di cui si cerca la buona opinione; mentre invece le inclinazioni e le attitudini il cui esercizio non implica un dispendio onorifico di tempo e denaro tendono a cadere in abbandono attraverso il disuso. Attraverso questa discriminazione a favore del consumo evidente si è arrivati al risultato che la vita domestica della maggior parte delle classi è relativamente meschina a paragone dell’éclat di quella parte patente della loro vita che si svolge sotto gli occhi della gente. Come seconda conseguenza della medesima discriminazione, la gente nasconde abitualmente agli occhi del pubblico la sua vita privata. Per tutto ciò che riguarda quella parte del loro dispendio che può senza biasimo essere fatta in segreto, essi evitano ogni contatto con i vicini. Di qui l’esclusività della gente, per quel che riguarda la vita domestica, in moltissime società industrialmente sviluppate; e di qui, per derivazione più remota, l’abitudine di riservatezza e di segreto che è una caratteristica così rilevante del codice d’etichetta delle classi migliori di tutte le società. Il basso livello delle nascite nelle classi su cui pesano con grande urgenza i requisiti di un dispendio onorevole si può parimente riportare alle esigenze di un livello di vita fondato sullo spreco vistoso. Il consumo vistoso e il conseguente incremento di spese richiesto per mantenere decentemente un bambino è assai considerevole e agisce come un preventivo potente. È certamente il più efficace dei controlli prudenziali di Malthus1.

L’effetto di questo fattore del livello di vita, per quel che riguarda le economie nelle voci meno note del consumo che concernono il benessere e il sostentamento fisico, come pure per lo scarso numero o l’assenza di bambini, si vede forse soprattutto fra le classi dedicate alla cultura e all’erudizione. A causa di una presunta superiorità e rarità delle doti e delle conoscenze che caratterizzano la loro vita, queste classi assurgono per convenzione a un grado sociale più alto di quello che il loro grado finanziario giustificherebbe. Il grado del dispendio onorevole è fissato nel loro caso all’altezza corrispondente e di conseguenza lascia a disposizione degli altri scopi della vita un margine straordinariamente ristretto. Per forza di circostanze, il loro proprio senso abituale di ciò che è buono e giusto in queste cose, così come le pretese della società in fatto di onorabilità finanziaria fra le persone dotte, sono troppo alti, misurati sul grado prevalente della ricchezza e della capacità di lucro della classe in questione, in relazione a quelle non colte, di cui essi sono nominalmente gli eguali nella graduatoria sociale. In una società moderna in cui non c’è nessun monopolio sacerdotale di queste occupazioni, le persone dedite a ricerche di studio sono inevitabilmente messe a contatto con classi che sono a loro superiori finanziariamente. L’alto livello di onorabilità finanziaria in vigore fra queste classi superiori è trasmesso alle classi dotte con un lieve alleggerimento del suo rigore; e come conseguenza non c’è nessuna classe della comunità che spenda una maggior proporzione della sua sostanza in spreco vistoso.

1. Si riferisce con evidente ironia alle restrizioni sulla riproduzione propugnate da Thomas Malthus quale unico rimedio al pericolo che l’incremento demografico superi quello dei mezzi di sussistenza (Saggio sul principio di popolazione, 1798).

CAPITOLO VI. I CANONI FINANZIARI DEL GUSTO È già stato più di una volta ripetuto l’avvertimento che se pure la norma che regola il consumo è in gran parte l’esigenza dello sciupìo vistoso, non si deve intendere che il motivo per cui il consumatore in un dato caso agisce sia questo principio nella sua forma schietta e semplice. Ordinariamente il suo motivo è un desiderio di conformarsi all’usanza stabilita, di evitare voci e commenti sfavorevoli, di vivere secondo le regole accettate di onorabilità quanto alla qualità, quantità e grado dei beni consumati così come nell’impiego decoroso del tempo e delle energie. Nei casi comuni questo senso dell’usanza prescrittiva è presente fra i motivi del consumatore ed esercita una costrizione diretta, specialmente per quanto riguarda il consumo che si svolge sotto gli occhi della gente. Però un elemento considerevole di dispendio obbligatorio si può pure osservarlo in consumi che non vengono apprezzabilmente conosciuti da terzi; come, per esempio, articoli di biancheria intima, certi generi commestibili, utensili di cucina, e altri oggetti domestici destinati all’utilità piuttosto che alla mostra. In tutti questi articoli utili un esame attento scoprirà alcune caratteristiche, che aumentano il prezzo e rincarano il valore commerciale degli oggetti in questione, ma non ne accrescono in proporzione l’utilità per gli scopi materiali ai quali soltanto essi debbono ostensibilmente servire. Sotto la guida selettiva della legge dello sciupìo vistoso si sviluppa un codice di regole di consumo accreditate, l’effetto del quale è di mantenere il consumatore a un certo livello di dispendio e di spreco nel consumo dei suoi beni e nel suo impiego del tempo e dell’energia. Tale sviluppo dell’usanza prescrittiva ha un effetto immediato sulla vita economica, ma ha pure sotto altri riguardi un effetto indiretto e più remoto sulla condotta. Gli abiti mentali rispetto all’espressione di vita in una data direzione influenzano inevitabilmente l’abituale opinione di ciò che nella vita è buono e giusto anche in altre direzioni. Nel complesso organico delle abitudini mentali che formano la sostanza della vita cosciente di un individuo l’interesse economico non si trova isolato e distinto da tutti gli altri interessi. Qualcosa, per esempio, si è

già detto intorno alla sua relazione con le regole della rispettabilità. Il principio dello sciupìo vistoso dirige la formazione delle abitudini mentali rispetto a ciò che è onesto e stimabile nella vita e nei beni. Così facendo, questo principio interferirà con altre norme di condotta che non hanno molto a che fare con il codice dell’onore finanziario, che però, direttamente o incidentalmente, hanno un significato economico di qualche importanza. Il canone dello sciupìo onorifico può così, immediatamente o remotamente, influenzare il senso del dovere, il senso della bellezza, il senso dell’utilità, il senso della convenienza devota o ritualistica e il senso scientifico della verità. Non è indispensabile entrare qui in una discussione dei punti particolari in cui, o della particolare maniera con cui, il canone del dispendio onorifico si incrocia abitualmente con le norme della condotta morale. L’argomento è di quelli che sono stati ampiamente studiati e illustrati da coloro il cui ufficio consiste nel vagliare e castigare certe deviazioni dal codice morale accettato. Nelle società moderne, in cui la principale caratteristica economica e legale della vita è l’istituto della proprietà privata, uno dei tratti salienti del codice morale è il carattere sacro della proprietà. Non c’è bisogno d’insistere né di dare esempi per accreditare la proposizione che all’abito di ritenere inviolata la proprietà si incrocia l’altro abito di cercare ricchezze per amore della buona reputazione che il consumo vistoso di queste procura. La maggior parte dei delitti contro la proprietà, specialmente quelli di considerevole portata, cadono in questa classe. È pure cosa comunemente risaputa e proverbiale che nei furti che fruttano al reo un grande incremento di ricchezza, questi ordinariamente non incorre nell’estremo castigo e nell’estrema vergogna con cui il reato andrebbe punito, in base al puro e semplice codice morale. Il ladro e lo scroccone che con il suo delitto abbia guadagnato una grande ricchezza ha maggiori possibilità di sfuggire alla rigorosa sanzione della legge che non il ladruncolo, e una certa reputazione gli proviene dal suo arricchimento e dalla capacità di spendere in modo decoroso le sostanze irregolarmente acquistate. Una liberale spesa del suo bottino fa particolarmente grande appello alle persone che abbiano un senso squisito delle convenienze, e mitiga assai il senso di bruttura morale che accompagna il suo reato. Si può anche osservare — e ciò tocca più da vicino P argomento — che noi tutti siamo propensi a perdonare un reato contro la proprietà nel caso di un uomo il cui movente sia di provvedere i mezzi di un «decente» tenore di vita alla moglie e ai bambini. Se poi si aggiunge che la moglie venne «allevata nel seno della ricchezza»,

questa è accolta come un’ulteriore circostanza attenuante. Vale a dire, noi siamo inclini a perdonare un tale reato laddove il suo scopo sia quello, onorifico, di mettere in grado la moglie del reo di praticare per lui un tale vistoso consumo di tempo e denaro quale è richiesto dal criterio dell’onorabilità finanziaria. In un caso del genere l’abitudine di approvare il grado abituale di dispendio vistoso interferisce con l’abitudine di deprecare le violazioni della proprietà, al punto di lasciar perfino incerto talvolta il giudizio di lode o di biasimo. Ciò vale specialmente qualora il reato implichi un considerevole elemento di rapina o pirateria. Questo argomento non ha bisogno di essere qui approfondito; ma non sarà fuori posto rilevare che tutto quel notevole corpo di norme morali che si raccoglie intorno al concetto di una proprietà inviolabile è esso stesso un precipitato psicologico del tradizionale carattere meritorio della ricchezza. E si dovrebbe aggiungere che questa ricchezza, che è ritenuta sacra, ha valore principalmente per amore della buona reputazione che si consegue attraverso il suo consumo vistoso. L’influenza dell’onorabilità finanziaria sullo spirito scientifico o sulla ricerca della verità sarà trattata specificatamente in un capitolo a parte. Così pure, per quanto riguarda il senso delle devozioni o dei riti e della giusta proporzione in questo rapporto, non c’è bisogno di aprire qui una discussione. Quest’argomento verrà accennato in un capitolo successivo. Di più, quest’usanza della spesa onorifica ha molta importanza nel formare i gusti popolari su che cosa sia giusto e meritorio nelle cose sacre, e possiamo perciò sottolineare l’influenza del principio dello sciupìo vistoso sopra alcune delle più comuni pratiche e concezioni devote. Ovviamente il canone dello sciupìo vistoso è responsabile per gran parte di ciò che si può chiamare il consumo devoto; come, ad esempio, il consumo di edifici sacri, paramenti, e altri beni della medesima specie. Persino in quei culti moderni, alle cui divinità si attribuisce una predilezione per i templi non costruiti dall’uomo, i sacri edifici e gli altri strumenti sono costruiti e decorati con qualche intento di raggiungere un grado onorevole di spreco. E basta una piccola dose di capacità d’osservazione o d’introspezione — l’una o l’altra può servire — per assicurarci che la costosa magnificenza del luogo dell’adorazione ha un notevole effetto edificante e commovente sulla disposizione di spirito del fedele. Il senso d’abietta vergogna, con cui ogni segno di povertà e di squallore nel luogo sacro colpisce gli osservatori, corrobora la nostra tesi. Ogni strumento della pratica devota dev’essere finanziariamente irreprensibile.

Questo requisito è categorico, qualunque tolleranza si possa ammettere poi in fatto d’estetica o d’altra utilità. Può anche cadere a proposito avvertire che in tutte le comunità, specialmente nelle zone dove il livello dell’onorabilità finanziaria per le abitazioni non è alto, la chiesa locale è più ornata, più vistosamente costosa nella sua architettura e decorazione che non le case d’abitazione dei parrocchiani. Ciò vale per quasi tutti i culti e le sette religiose, sia cristiani che pagani, ma vale in grado speciale per i culti più antichi e più maturi. Nello stesso tempo la chiesa contribuisce poco o nulla al benessere fisico dei membri. Invero, il sacro edificio non soltanto non serve al benessere fisico dei membri se non in grado minimo in confronto alle assai più umili case d’abitazione, ma tutti ritengono che una sensibilità giusta e illuminata del vero, del bello e del buono esige che in ogni spesa per il santuario qualunque cosa possa servire al benessere dei fedeli debba vistosamente mancare. Se qualche elemento confortevole è tollerato nell’arredamento del luogo sacro, dovrà essere per lo meno scrupolosamente nascosto e mascherato sotto un’appariscente austerità. Nelle più quotate case di culto recenti, in cui non si risparmia nessuna spesa, il principio dell’austerità arriva al punto di fare degli accessori un mezzo per mortificare la carne, specialmente in apparenza. Poche sono le persone di gusti delicati in materia di consumo devoto alle quali questo disagio austeramente dispendioso non appaia intrinsecamente giusto e buono. Il consumo devoto è della natura del consumo derivato. Questo canone dell’austerità devota si fonda sulla rispettabilità finanziaria del consumo vistosamente dispendioso, sostenuto dal principio che il consumo derivato non deve, evidentemente, produrre benessere per il consumatore subalterno. Il luogo santo e i suoi accessori hanno qualcosa di quest’austerità in tutti i culti nei quali non si concepisce che il santo o la divinità cui il tempio è dedicato sia presente e usi personalmente della proprietà per soddisfare i gusti sfarzosi a lui attribuiti. Il carattere degli ornamenti sacri è un poco diverso sotto questo aspetto in quei culti in cui le abitudini di vita attribuite alla divinità si avvicinano di più a quelle di un potentato patriarcale terreno, in cui si pensa che la divinità usi personalmente quei beni consumabili. Nell’ultimo caso il tempio e i suoi accessori assumono maggiormente l’aspetto proprio dei beni destinati al consumo vistoso di un signore o proprietario temporale. D’altra parte, dove il sacro corredo è usato semplicemente per il servizio delle divinità, vale a dire dove viene consumato per conto suo dai suoi servi, qui le sacre proprietà assumono il carattere proprio dei beni destinati soltanto al

consumo derivato. Nell’ultimo caso, il luogo santo e il sacro corredo sono così congegnati da non favorire il benessere o la pienezza di vita del consumatore subalterno, né dànno in nessun modo l’impressione che lo scopo del loro consumo sia il benessere del consumatore. Poiché lo scopo del consumo derivato è di accrescere non la pienezza di vita del consumatore, bensì la reputazione finanziaria del padrone a vantaggio del quale ha luogo il consumo. Per questo i paramenti sacerdotali sono notoriamente costosi, ornati e scomodi; e nei culti in cui non si concepisce che il sacerdote ministro della divinità la serva in qualità di compartecipe, essi hanno un carattere austero, scomodissimo. E ciò si pensa sia giusto. Non è soltanto nello stabilire un criterio devoto di dispendio onorevole che il principio dello sciupìo entra nel dominio dei canoni dell’utilità rituale. Esso tocca i modi così come i mezzi, e riguarda tanto l’agiatezza quanto il consumo derivato. La condotta sacerdotale nella sua perfezione è staccata, pacata, incurante e incontaminata dalle suggestioni del piacere dei sensi. Ciò vale, naturalmente in gradi diversi, per i diversi culti e le diverse sette religiose; ma nella vita sacerdotale di tutti i culti antropomorfici sono visibili i segni di un consumo di tempo, derivato. Il medesimo diffuso canone di agiatezza derivata è pure presente in modo visibile nei particolari esteriori delle pratiche devote e ha bisogno soltanto di essere sottolineato per diventare chiaro a tutti gli osservatori. Ogni rituale ha una tendenza notevole a ridursi a una recitazione di formule. Questo sviluppo della formula si può con la massima facilità osservarlo nei culti più maturi, che dispongono nel contempo di una vita e di una condotta sacerdotali più austere, ornate e severe; però lo si può anche avvertire nelle forme e nei metodi di culto delle sette più recenti e più fresche, i cui gusti in fatto di preti, paramenti e templi sono meno rigorosi. La condotta del servizio (il termine «servizio» ha una connotazione significativa per il nostro problema) diventa più indifferente man mano che il culto avanza in età e consistenza, e questa degenerazione è assai gradita al gusto devoto corretto. E a ragione, poiché l’indifferenza di condotta viene a dire precisamente che il padrone per cui il servizio si fa è esaltato oltre il volgare bisogno di un servizio veramente proficuo. I suoi ministri non gli recano vantaggio e c’è nella loro inutilità per il padrone un sottinteso onorifico. Non c’è bisogno di sottolineare a questo punto la stretta analogia tra l’ufficio sacerdotale e quello del lacchè. Riesce gradito al nostro senso di ciò che in tali cose nell’un caso o nell’altro è

conveniente il riconoscere nell’ovvia indifferenza del servizio ch’esso viene eseguito soltanto pro forma. Non dev’esserci nell’esecuzione dell’ufficio sacerdotale nessuna esibizione di agilità o di destrezza, tale da far pensare che il lavoro potrebbe venir eseguito sul serio. In tutto ciò vi è naturalmente un ovvio sottinteso per quanto riguarda il temperamento, i gusti, le tendenze, e le abitudini di vita attribuite alla divinità da fedeli che vivono nella tradizione di questi canoni finanziari di onorabilità. Permeando le abitudini mentali degli uomini, il principio dello sciupìo vistoso ha colorito le nozioni che i fedeli nutrono della divinità e del rapporto che ha con essa il soggetto umano. Naturalmente è nei culti più puri che questa profusione di bellezza finanziaria è più appariscente, essa è però visibile dovunque. Tutti i popoli, a qualsiasi stadio di cultura o grado di civiltà, tendono a contrabbandare un certo bagaglio di informazioni autentiche riguardanti la personalità e le dimore abituali delle loro divinità. Chiamando così in aiuto la fantasia per arricchire e riempire il quadro dell’aspetto e tenore di vita della loro divinità, essi le attribuiscono caratteristiche tali da soddisfare il proprio ideale dell’uomo degno. E nella ricerca di una comunione con la divinità le vie e i mezzi di approccio vengono quanto è possibile assimilati al divino ideale, che è nella mente degli uomini del tempo. Si sente che alla presenza divina si può giungere con la migliore buona grazia e il migliore effetto, seguendo certi metodi accettati e accompagnandosi con certe materiali circostanze che nell’opinione popolare sono particolarmente consone alla natura divina. Questi ornamenti adatti a tali esigenze di comunione e questa condotta ideale grata al popolo sono naturalmente in gran parte foggiati dal sentimento popolare di ciò che è intrinsecamente degno e bello nel portamento e nell’ambiente dell’uomo in tutte le grandi occasioni. Sarebbe a questo proposito illegittimo tentare un’analisi della condotta religiosa attribuendo tutti gli indizi della presenza di un criterio finanziario di rispettabilità direttamente e temerariamente alla sottesa norma dell’emulazione finanziaria. Così sarebbe pure illegittimo ascrivere alla divinità, come è popolarmente concepita, un geloso riguardo per la sua posizione finanziaria e l’abitudine di evitare e condannare situazioni e ambienti miserevoli semplicemente perché siano al di sotto del criterio della rispettabilità finanziaria. Eppure, fatta ogni riserva, appare pur sempre chiaro che direttamente o indirettamente i canoni della rispettabilità finanziaria influenzano materialmente le nozioni che noi abbiamo degli attributi divini, come pure le

nostre nozioni di quelle che sono le circostanze e le maniere giuste e convenienti di comunicare con il divino. Si sente che la divinità deve avere un abito di vita particolarmente sereno e comodo. E ogni qual volta la sua abitazione locale è raffigurata con immagini poetiche, per edificazione o in aiuto alla pia immaginazione, il devoto poeta mette naturalmente innanzi alla fantasia dei suoi uditori un trono con i segni dell’opulenza e del potere a profusione, e lo circonda di gran numero di servitori. Nel tipo comune di tali rappresentazioni delle dimore celesti, la mansione di questo corpo di servitori è un’agiatezza derivata, essendo il loro tempo e i loro sforzi in gran parte spesi in una ricelebrazione industrialmente improduttiva delle caratteristiche e gesta meritorie della divinità; mentre lo sfondo della scena è tutto splendente di metalli preziosi e delle varietà più costose di gioie. È soltanto nelle espressioni più crasse della fantasia devota che questa intrusione dei canoni finanziari negli ideali religiosi tocca un estremo simile. Un caso estremo s’incontra nell’immaginazione devota della popolazione negra del Sud. I loro poeti non riescono ad abbassarsi a qualcosa di più a buon mercato dell’oro; cosicché in questo caso l’insistenza sulla bellezza finanziaria dà un allarmante effetto di giallo, tale che riuscirebbe insopportabile a un gusto più sobrio. Ancora, non c’è probabilmente nessun culto in cui gli ideali del merito finanziario non siano stati invocati a supplemento di quegli ideali di competenza cerimoniale, che guidano il pensiero degli uomini su ciò che è giusto in fatto di arredi sacri. Allo stesso modo si sente — e secondo il sentimento si agisce — che i sacerdoti ministri della divinità non devono occuparsi in lavori industrialmente produttivi; che nessun genere di lavoro — qualunque occupazione di tangibile utilità umana — deve eseguirsi alla presenza divina, o dentro il recinto del luogo sacro; che chiunque viene alla presenza divina deve presentarsi purificato da tutte le profane caratteristiche industriali nel contegno e nella persona, e vestito con abiti più costosi di quelli usuali; che nei giorni considerati festivi in onore della divinità o in vista della comunione con essa nessun lavoro di umana utilità deve essere fatto da nessuno. Anche i più remoti dipendenti laici devono manifestare un’agiatezza derivata per un giorno la settimana. In tutte queste affermazioni del senso spontaneo di ciò che è bello e buono nella pratica devota e nei rapporti con la divinità, la presenza effettiva dei canoni di rispettabilità finanziaria è abbastanza evidente, sia che questi canoni abbiano avuto il loro effetto sul pensiero religioso immediatamente o in un

secondo tempo. Questi canoni di rispettabilità hanno avuto un effetto consimile, ma più profondo e più specificamente determinabile, sul senso popolare della bellezza o dell’utilità dei beni consumabili. Le esigenze dell’onorabilità finanziaria hanno in misura notevolissima influenzato il senso della bellezza o dell’utilità degli articoli di uso o di bellezza. Ci sono articoli preferiti per l’uso perché vistosamente dispendiosi; si pensa che in parte essi riescano utili nella proporzione in cui sono dispendiosi e poco adatti al loro uso evidente. L’utilità degli articoli valutati per la bellezza dipende strettamente dalla loro costosità. Un esempio domestico ci darà un’idea di questa dipendenza. Un cucchiaio d’argento, di un valore commerciale sui dieci o venti dollari, non è generalmente più utile — nel primo senso della parola — di un cucchiaio del medesimo materiale fatto a macchina. Può darsi persino che non sia più utile di un cucchiaio fatto a macchina con qualche metallo «vile» come l’alluminio, il valore del quale non può essere superiore a dieci-venti centesimi. Il primo dei due utensili è in realtà un’invenzione comunemente meno efficace per il suo scopo evidente che non il secondo. Si può naturalmente subito obiettare che, prospettando così la cosa, s’ignora uno dei vantaggi principali, se non il principale, del cucchiaio più prezioso; il cucchiaio lavorato a mano soddisfa il nostro gusto, il nostro senso estetico, mentre quello fatto a macchina con metallo vile non ha nessun utile ufficio tranne una bruta utilità. I fatti stanno indubbiamente come l’obiezione li stabilisce, ma dopo averci pensato bene sarà evidente che l’obiezione è insomma più plausibile che conclusiva. Risulta dunque che: 1) mentre dei diversi materiali con cui si sono fabbricati i due cucchiai ognuno è bello e utile allo scopo per il quale è usato, la materia del cucchiaio lavorato a mano ha un valore un centinaio di volte maggiore di quella del metallo meno prezioso senza superare quest’ultimo in modo particolare per la bellezza intrinseca di grana o di colore, e senz’essere notabilmente superiore in fatto di utilità meccanica; 2) se poi un attento esame dovesse rivelare che il cucchiaio che si suppone lavorato a mano è in realtà soltanto l’imitazione abilissima di un articolo fatto a mano, un’imitazione però tanto abile da dare la medesima impressione quanto alla linea e alla superficie salvo che all’esame minuto di un occhio espertissimo, l’utilità dell’articolo, compresa la soddisfazione che chi l’usa trae dalla sua contemplazione come oggetto di bellezza, scemerebbe immediatamente di un ottanta o novanta per cento o anche più; 3) se, per un osservatore attento, i due cucchiai sono tanto identici all’apparenza che soltanto il peso minore tradisce l’articolo spurio,

quest’identità di forma e di colore non accrescerà affatto il valore del cucchiaio fatto a macchina né concorrerà in misura notevole a soddisfare il «senso estetico» di chi lo contempli usandolo, finché il cucchiaio meno prezioso non sarà una novità, e fin quando sarà possibile acquistarlo a un prezzo nominale. Il caso dei cucchiai è tipico. La maggior soddisfazione, che deriva dall’uso e dalla contemplazione di prodotti costosi ritenuti belli, è ordinariamente in gran parte una soddisfazione del nostro gusto della dispendiosità, mascherato sotto il nome della bellezza. Il nostro maggiore apprezzamento dell’articolo più prezioso è un apprezzamento del suo superiore carattere onorifico, assai più sovente che non un semplice apprezzamento della sua bellezza. L’esigenza di sciupìo vistoso non è coscientemente presente in linea di massima nei nostri canoni del gusto, ma è ciò nonostante presente come norma costrittiva che foggia e sostiene con la selezione il nostro senso di ciò che è bello, e dirige la nostra discriminazione rispetto a ciò che può essere legittimamente approvato come bello e ciò che non può. È a questo punto, in cui s’incontrano e si fondono il bello e l’onorifico, che nel caso concreto è assai difficile una discriminazione fra utilità e sciupìo. Avviene sovente che un articolo il quale serve allo scopo onorifico dello sciupìo vistoso sia nel contempo un oggetto bello, e la medesima applicazione di lavoro alla quale esso deve la sua utilità per il primo scopo può giungere, e sovente giunge, a conferirgli bellezza di forma e di colore. Il problema è reso più complesso dal fatto che molti oggetti quali, per esempio, le pietre e i metalli preziosi e alcune altre materie usate per ornare e decorare, devono la loro utilità come articoli di sciupìo vistoso a una precedente utilità come oggetti di bellezza. L’oro, per esempio, possiede un alto grado di bellezza sensibile; moltissime se non tutte le opere c’arte altamente pregiate sono intrinsecamente belle, per quanto spesso discutibili; lo stesso vale di certe stoffe usate per abiti, di alcuni paesaggi, e di molte altre cose in misura minore. Eccezion fatta per questa bellezza intrinseca ch’essi posseggono, quasi mai questi oggetti sarebbero stati ambiti come lo sono o sarebbero diventati monopolio di lusso per coloro che li posseggono e ne fanno uso. L’utilità però di queste cose per il possessore generalmente è meno dovuta alla loro bellezza intrinseca che all’onore conferito dal loro possesso e dal loro consumo oppure all’onta ch’esse scongiurano. A parte la loro utilità sotto altri aspetti, questi oggetti sono belli e hanno un’utilità in quanto tali; essi hanno per questo un valore se posson essere

appropriati e monopolizzati; sono perciò ambiti come proprietà di valore, e il loro godimento esclusivo soddisfa il senso di superiorità finanziaria del possessore, nello stesso tempo che la loro contemplazione soddisfa il suo senso della bellezza. Ma la loro bellezza, nel senso primo della parola, è l’occasione piuttosto che il motivo dell’esclusivo possesso, o del loro valore commerciale. «Grande com’è la bellezza sensibile delle gemme, la loro rarità e il loro prezzo aggiungono ad esse una speciale distinzione, quale non avrebbero mai se costassero di meno». C’è difatti nei casi comuni di questo genere un incentivo relativamente scarso al possesso e all’uso esclusivi di queste cose belle, salvo in base al loro carattere onorifico come articoli di sciupìo vistoso. La massima parte degli oggetti di questa categoria, con la parziale eccezione degli articoli di lusso personale, servirebbero egualmente bene a tutti gli scopi che non siano quello onorifico, posseduti o no che fossero da chi li ammira; e anche per ciò che riguarda le cose personali si deve aggiungere che il loro scopo principale è di conferire éclat alla persona di colui che le porta (o le possiede), attraverso il confronto con altre persone che siano costrette a farne a meno. L’utilità estetica degli oggetti belli non è accresciuta di molto né universalmente dal possesso. Il principio generale che tutta questa discussione ci consente è che un oggetto di valore, per far appello al nostro senso della bellezza, deve conformarsi alle esigenze sia della bellezza che del dispendio. Ma ciò non è tutto. Oltre a ciò, il canone del dispendio influenza anche i nostri gusti in modo tale da fondere inestricabilmente nella nostra valutazione i segni della dispendiosità con le caratteristiche belle dell’oggetto, e catalogare l’effetto risultante come un apprezzamento della sua bellezza. I segni della dispendiosità in un articolo costoso giungono a passare per tratti belli. Essi seducono perché segni di costosità onorifica, e il piacere che offrono per questo motivo si fonde con quello offerto dalla bella forma e dal bel colore dell’oggetto; sicché noi sovente diciamo che un articolo di vestiario, per esempio, è «bellissimo» quando un’analisi del suo valore estetico ci consentirebbe al massimo di dichiarare ch’esso è finanziariamente onorifico. Questa fusione e confusione degli elementi del dispendio e della bellezza trova, forse, i suoi migliori esempi negli articoli di vestiario e di arredamento domestico. Il codice della rispettabilità in fatto di abiti stabilisce quali fogge, colori, stoffe ed effetti generali siano secondo la stagione convenienti; e scostarsi dal codice riesce un’offesa al nostro gusto, più o meno come fosse uno scostarsi dalla verità estetica. L’approvazione con cui osserviamo un

abbigliamento alla moda non va assolutamente considerata una mera ostentazione. Noi troviamo subito piacevoli, e per la massima parte in tutta sincerità, le cose che sono in voga. Stoffe ruvide e combinazioni di colori violente, per esempio, ci offendono nelle epoche in cui siano di moda tessuti morbidi e lucidi e colori neutri. Un cappellino fantasia secondo il modello di quest’anno fa oggi appello alla nostra sensibilità molto più fortemente che un consimile cappellino dell’anno scorso; benché, qualora vengano considerati con la prospettiva di un quarto di secolo, sia difficilissimo, io penso, aggiudicare la palma della bellezza intrinseca all’uno piuttosto che all’altro di questi modelli. Così pure si può rilevare che, semplicemente considerata nel suo fisico contrasto con la forma umana, la grande lucentezza di un cilindro o di una scarpa di vernice non ha una bellezza intrinseca maggiore della consimile lucentezza di una manica lisa; eppure è fuori discussione che tutta la gente ben educata (nelle società civili dell’Occidente) vede istintivamente e naturalmente nel primo un fenomeno di straordinaria bellezza e rifugge dall’altro come offensivo per ogni senso sotto cui cada. È cosa estremamente incerta se sarebbe possibile indurre qualcuno a portare un articolo come la tuba in uso nella società civile, tranne che per qualche urgente ragione fondata su motivi diversi da quelli estetici. Con un’ulteriore assuefazione a percepire, da un punto di vista valutativo, i segni della dispendiosità dei beni, e con l’identificazione abituale di bellezza e rispettabilità, succede che un oggetto bello che non sia costoso non viene stimato bello. È avvenuto in questo modo, per esempio, che alcuni bellissimi fiori passano convenzionalmente per brutte erbacce, e altri fiori che possono coltivarsi con relativa facilità sono accettati e ammirati dagli strati inferiori della borghesia, che non possono permettersi lussi più costosi, ma queste varietà sono respinte come volgari da coloro che sono meglio in grado di comprare fiori cari e sono educati a un superiore repertorio di bellezza finanziaria in fatto di prodotti floreali; mentre ancora altre specie di fiori, di non maggior bellezza intrinseca di questi, sono coltivati con grande dispendio e suscitano molta ammirazione da parte di amatori i cui gusti si sono sviluppati sotto la guida critica di un ambiente raffinato. La stessa oscillazione da una classe sociale all’altra in fatto di gusto si può pure riscontrare in molti altri generi di consumo, come per esempio il mobilio, le case, i parchi e i giardini. Questa diversità di pareri su ciò che è bello in queste varie categorie di beni non è una diversità nella norma in base alla quale opera il semplice senso del bello. Non è una differenza costituzionale di

doti dal punto di vista estetico, ma piuttosto una differenza dal punto di vista del codice della rispettabilità, il quale specifica quali oggetti cadano propriamente nell’àmbito del consumo onorifico per la classe cui appartiene il critico. È una differenza nelle tradizioni di convenienza rispetto ai generi di cose che si possono consumare come oggetti artistici e belli, senza che al consumatore ne derivi una diminuzione. Con una certa tolleranza per le oscillazioni da ascriversi ad altri motivi, queste tradizioni sono più o meno rigidamente stabilite dal livello di vita finanziario della classe. La vita quotidiana offre molti esempi curiosi del modo con cui il codice della bellezza finanziaria per gli oggetti d’uso varia da classe a classe, così come del modo con cui il senso convenzionale della bellezza si discosta nei suoi giudizi dal senso naturale per le esigenze della reputazione finanziaria. Un fatto del genere è il prato o il manto erboso o parco ben tosato, che piace tanto naturalmente al gusto dei popoli occidentali. Sembra specialmente che esso faccia appello ai gusti delle classi benestanti di quelle società in cui l’elemento dolicocefalo biondo predomina in misura notevole. Il prato possiede indiscutibilmente un elemento di bellezza sensoriale, semplicemente come oggetto di percezione, e come tale esso fa senza dubbio appello abbastanza direttamente all’occhio di quasi tutte le razze e classi; ma è forse indiscutibilmente più bello all’occhio del dolicocefalo biondo che alla massima parte delle altre specie di uomini. L’apprezzamento di questo tappeto verde, più vivo in questo elemento etnico che negli altri della popolazione, si accompagna con certe altre caratteristiche del temperamento del dolicocefalo, che indicano come questo elemento razziale sia stato una volta per molto tempo un popolo di pastori che abitavano una regione a clima umido. Il prato rasato è bello agli occhi di gente la cui tendenza ereditaria è di provare piacere nel contemplare un pascolo o una regione da pascolo ben preparati. Ai fini estetici il prato è un pascolo da mucche; e oggi in alcuni casi — in cui la dispendiosità delle circostanze concomitanti escluda ogni accusa di spilorceria — l’idillio del dolicocefalo biondo viene ristabilito introducendo una vacca in un prato o in un terreno cintato qualunque. In tali casi la vacca di cui si fa uso è generalmente di razza assai costosa. Il volgare sospetto del guadagno, che è pressoché inseparabile dalla mucca, è un’obiezione permanente contro l’uso di quest’animale come elemento decorativo. Cosicché in tutti i casi, eccetto quelli in cui l’ambiente dispendioso rende impossibile questo sospetto, l’uso della mucca come oggetto di gusto dev’essere evitato. Nei casi in cui la voglia di vedere qualche animale completare il quadro del

pascolo è troppo forte per venire eliminato, il posto della vacca viene spesso assegnato a qualche sostituto più o meno inadeguato, come un daino, un’antilope o qualche simile bestia esotica. Questi sostituti, benché all’occhio di pastore dell’uomo occidentale meno belli della vacca, sono in casi del genere preferiti a causa della loro inutilità, o costosità maggiore, e della loro conseguente reputazione. Essi non sono una fonte di lucro volgare, né si può sospettare che lo siano. I parchi pubblici sono naturalmente della stessa categoria dei prati; essi pure, nel loro fior fiore, sono imitazioni del pascolo. Un parco del genere prospera naturalmente se serve da pascolo, e il bestiame sparso sull’erba è esso medesimo un’aggiunta non indifferente alla sua bellezza, cosa che non occorre sottolineare con chiunque abbia visto una volta un pascolo ben tenuto» Vale però la pena di osservare, come espressione dell’elemento finanziario del gusto popolare, che raramente si fa ricorso a un tal sistema di manutenzione per i terreni pubblici. Il meglio di quanto vien fatto da operai specializzati sotto la guida di un abile imprenditore è l’imitazione più o meno fedele di un pascolo, ma il risultato è invariabilmente un poco al di sotto dell’effetto artistico se il parco servisse davvero da pascolo. Tuttavia all’opinione media della gente una mandria ispira così direttamente l’idea del guadagno e dell’utilità che la sua presenza nel luogo di pubblico svago sarebbe insopportabilmente volgare. Questo metodo di tenere i terreni è relativamente poco caro, quindi poco onorevole. Un’altra caratteristica dei terreni pubblici rientra in questo discorso. C’è una minuziosa esibizione di dispendio accoppiata con un’apparenza di semplicità e di cruda utilità. Anche i terreni privati mostrano la medesima fisionomia dovunque essi siano affidati o appartengano a persone i cui gusti si siano formati sotto le abitudini di vita della classe media, o setto le tradizioni della classe superiore di una data non posteriore all’infanzia della presente generazione. I terreni conformi ai gusti colti della classe superiore più recente non mostrano questi tratti in misura così spiccata. La ragione di questa differenza di gusti fra la generazione passata e quella entrante è nella situazione economica che va mutando. Una simile differenza si può percepire sotto altri aspetti, così come negli ideali riconosciuti dei parchi di piacere. Nel nostro paese come in moltissimi altri, fino a cinquant’anni fa solo una parte minima della popolazione era in possesso di una ricchezza tale da dispensarla dalla parsimonia. A causa dei mezzi imperfetti di comunicazione, queste poche persone erano disperse e fuori di ogni effettivo contatto reciproco. Non

c’era quindi nessuna base per lo sviluppo di un gusto che non tenesse conto della spesa. La rivolta della gente bennata contro la parsimonia volgare era irresistibile. Dovunque il senso genuino della bellezza si mostrasse sporadicamente nell’approvazione di ambienti poco costosi o parsimoniosi esso mancava di quella «approvazione sociale» che solo un gruppo notevole di persone che la pensano allo stesso modo può dare. Non c’era pertanto nella classe superiore nessuna efficace opinione che trascurasse i segni di una possibile parsimonia nella manutenzione dei terreni; e nella fisionomia dei parchi non c’era di conseguenza nessuna divergenza notevole fra l’ideale della classe agiata e degli strati inferiori della borghesia. Entrambe le classi formavano egualmente i loro ideali con il terrore del disonore finanziario davanti agli occhi. Oggidì comincia a far capolino una divergenza fra questi ideali. Gli strati della classe agiata, vissuti continuamente esenti dal lavoro e dalle preoccupazioni finanziarie per una generazione o più, sono adesso abbastanza numerosi per formare e sostenere un’opinione in fatto di gusto. L’accresciuta mobilità dei suoi membri ha pure accresciuto la facilità con cui all’interno della classe si può arrivare a un’«approvazione sociale». Nel seno di questa classe scelta l’esenzione dalla parsimonia è una cosa tanto comune che ha perduto molta della sua utilità come base dell’onorabilità finanziaria. Per questo i canoni del gusto della classe agiata più recente non insistono troppo su una esagerata dimostrazione di dispendio e su una esclusione rigorosa della parsimonia. Fa così la sua comparsa a questi livelli sociali e intellettuali superiori una predilezione per il rustico e il «naturale» nei parchi e nei giardini. Questa predilezione è in gran parte una manifestazione dell’istinto dell’efficienza; e dà alla luce i suoi risultati con diversi gradi di consistenza. Di rado essi sono del tutto naturali e a volte hanno un’aria non molto dissimile da quella finta rusticità che è stata sopra ricordata. Un debole per i ritrovi grossolanamente utili, che facciano irresistibilmente pensare a un uso immediato ed economico, è presente persino nei gusti della classe media; ma qui esso è tenuto bene a freno sotto il dominio incrollabile del canone della futilità onorevole. Di conseguenza, esso si esprime in svariati metodi e mezzi che fingono l’utilità — in ritrovati come le siepi rustiche, i ponti, le pergole, i padiglioni, e simili decorazioni. Un esempio di quest’ affettazione di utilità, in quanto si stacca forse maggiormente dai primissimi spunti del senso della bellezza economica, è offerto dalla chiudenda e dal graticcio rustici in ferro battuto, o dal viale sinuoso tracciato su un terreno

piano. La classe agiata scelta ha già superato l’uso di queste varianti pseudo-utili della bellezza finanziaria, almeno in alcuni punti. Ma il gusto dei più recenti neofiti della classe agiata vera e propria e delle classi medie e inferiori richiede ancora una bellezza finanziaria come supplemento della bellezza estetica, persino in quegli oggetti che sono ammirati principalmente per la bellezza che ad essi appartiene come dote naturale. Il gusto popolare a questo proposito è da vedersi nella prevalente alta stima dei lavori di giardinaggio artistico e nella convenzionale aiuolatura dei parchi. Forse l’esempio più felice che si possa avere di questo predominio della bellezza finanziaria sulla bellezza estetica nei gusti borghesi è la ricostruzione dei terreni prima occupati dall’Esposizione della Columbia1. Si ha la prova evidente che l’esigenza della spesa onorevole è tuttora viva e vigorosa persino là dove si evita ogni sfarzo apertamente prodigo. Gli effetti artistici effettivamente ottenuti in quest’opera di ricostruzione divergono notevolmente dall’effetto a cui lo stesso fondo avrebbe dato luogo in mani non guidate dai canoni finanziari del gusto. E anche la classe migliore della popolazione cittadina guarda progredire i lavori con un’approvazione senza riserve, la quale fa pensare che in questo caso ci sia poca o punta discordanza fra i gusti delle classi superiore, inferiore o media della città. Il senso della bellezza nella popolazione di questa città rappresentativa dell’avanzata civiltà finanziaria è geloso di ogni infrazione al suo grande principio culturale dello sciupìo vistoso. L’amore per la natura, forse esso stesso preso a prestito dal codice del gusto di qualche classe superiore, si manifesta talvolta in forme inaspettate sotto la guida di questo canone della bellezza finanziaria e conduce a risultati che a un osservatore superficiale possono sembrare assurdi. La pratica assai in voga di piantare alberi nelle superfici non alberate del nostro paese, per esempio, è stata introdotta come mezzo di dispendio onorifico nei luoghi molto boscosi, di modo che non è affatto strano per un villaggio o un fattore della regione boscosa diboscare il terreno delle sue piante indigene e ripiantare immediatamente intorno al cortile o lungo le strade alberelli di qualche varietà forestiera. In tal modo un bosco di querce, olmi, faggi, noci, arbusti e betulle viene abbattuto per dar posto ad alberelli di acero dolce, pioppi, e salici. L’idea è che il risparmio derivato dal lasciar stare gli alberi indigeni diminuirebbe la dignità di cui va invece investito un articolo diretto a servire un fine onorifico e decorativo.

Una consimile diffusa ispirazione del gusto a criteri di reputazione finanziaria è visibile nei criteri di bellezza dominanti in fatto di animali. Si è già parlato della parte che questo canone del gusto ha avuto nell’assegnare il suo posto nella graduatoria estetica popolare alla vacca. Qualcosa al medesimo effetto vale per gli altri animali domestici, finché beninteso essi siano in qualche misura industrialmente utili alla comunità — per esempio, pollame, suini, bovini, pecore, capre, cavalli da tiro. Essi sono della natura dei beni produttivi, e servono a uno scopo utile, sovente lucroso; per questo non si parla a loro proposito di bellezza. Diverso è il caso trattandosi di quegli animali domestici che non servono ordinariamente a nessuno scopo industriale, come i piccioni, i pappagalli e altri uccelli da gabbia, i gatti, i cani e i cavalli da corsa. Questi sono generalmente articoli di consumo vistoso, e quindi onorifici per natura loro: si può legittimamente reputarli belli. Sono una categoria convenzionalmente ammirata dalla massa delle classi superiori, mentre le classi finanziariamente inferiori — e quella scelta minoranza della classe agiata in mezzo alla quale è in parte superato il rigoroso canone che esclude la parsimonia — trovano della bellezza nell’una e nell’altra categoria, senza tracciare fra il bello e il brutto una decisa linea di demarcazione finanziaria. Nel caso di quegli animali domestici che sono onorifici e sono reputati belli, c’è una base di merito sussidiaria della quale bisogna parlare. A parte gli uccelli, che appartengono alla categoria onorifica degli animali domestici e che devono il loro posto nella categoria unicamente al loro carattere non lucroso, gli animali che meritano un’attenzione particolare sono i gatti, i cani e i cavalli da corsa. Il gatto è meno onorevole degli altri due citati, perché è meno costoso; può perfino servire a uno scopo utile. Nello stesso tempo il temperamento del gatto non lo rende adatto allo scopo onorifico. Esso vive con l’uomo su una base di parità, non sa nulla di quella relazione di casta che è il fondamento antico di tutte le distinzioni di valore, onore e reputazione, e non si presta facilmente a un confronto antagonistico fra il suo padrone e i suoi vicini. Si verifica un’eccezione a quest’ultima regola nel caso di prodotti rari e strani come il gatto d’Angora, che possiedono un po’ di valore onorifico a causa della costosità ed hanno perciò per motivi finanziari qualche pretesa speciale alla bellezza. Il cane ha dei punti di vantaggio in fatto d’inutilità, come pure per doti speciali di temperamento. Se n’è spesso parlato come dell’amico dell’uomo per antonomasia, e la sua intelligenza e fedeltà sono stimate. Tutto ciò significa

che il cane è il servo dell’uomo e che ha come caratteristica una completa sottomissione e una prontezza di schiavo nell’indovinare l’umore del padrone. Insieme con queste doti, che lo rendono assai adatto al rapporto di casta — e che vanno riguardate per il presente scopo come doti utili — il cane ha certe caratteristiche che sono di un valore estetico più equivoco. Esso è il più sporco degli animali domestici quanto al suo corpo e il più sozzo quanto alle abitudini. Per questo assume verso il padrone un atteggiamento servile, adulatorio, ma sempre disposto ad attaccare e danneggiare chiunque altro. Il cane, quindi, si raccomanda al nostro favore offrendo buon gioco alla nostra tendenza a comandare, e poiché esso è anche un articolo di spesa e generalmente non serve a nessuno scopo industriale, tiene sicuramente un posto nel rispetto degli uomini come oggetto di buona reputazione. Il cane è nello stesso tempo collegato nella nostra immaginazione con la caccia — occupazione decorosa ed espressione del tanto stimato impulso di rapina. Con questo punto di vantaggio, qualsiasi bellezza di forma e di movimento e qualunque lodevole caratteristica mentale esso possa avere sono convenzionalmente riconosciute e magnificate. E persino quelle varietà canine prodotte con grottesche deformazioni dall’allevatore vengono in buona fede stimate belle da molti. Queste specie di cani, e lo stesso è vero di altri animali di lusso, sono distribuiti e graduati quanto al valore estetico quasi in proporzione al grado di grottescheria e all’instabilità della forma che la deformità assume nel caso dato. Per lo scopo che c’interessa, questa diversa utilità basata sulla grottescheria e sull’instabilità di struttura si può ridurre nei termini di una maggior rarità e quindi di una maggiore spesa. Il valore commerciale delle mostruosità canine, quali la maggior parte dei tipi favoriti sia per uomini che per donne, si basa sul loro alto costo di produzione, e il loro valore agli occhi dei proprietari consiste principalmente nella loro utilità quali generi di consumo vistoso. Indirettamente, riflettendo sulla loro costosità onorifica, si attribuisce ad essi un valore sociale; e così, grazie a una facile sostituzione di parole e di idee, essi riescono ammirati e stimati come belli. Poiché nessuna delle cure prestate a questi animali è minimamente utile o lucrosa, essa è anche onorevole; e poiché la consuetudine di prestar loro attenzioni non è di conseguenza deprecata, essa può diventare un attaccamento abituale assai tenace e di carattere straordinariamente benevolo. Cosicché nell’affetto portato a questi animali favoriti il canone del dispendio è più o meno lontanamente presente come regola che guida e forma il sentimento e la selezione del suo oggetto. La stessa cosa vale, come diremo,

per l’affetto rivolto a persone; benché il modo con cui la regola agisce in questo caso sia un poco diverso. Il caso del bel cavallo è molto simile a quello del cane. Esso è in totale costoso o dispendioso e inutile ai fini dell’industria. Quel tanto di utilità produttiva che può avere, in quanto favorisca il benessere della comunità o renda più comoda agli uomini la vita, assume la forma di esibizioni di forza e di agilità di movimenti che soddisfano il senso estetico della gente. Questa è naturalmente un’utilità sostanziale. Il cavallo non è dotato di attitudine spirituale alla sottomissione servile nella stessa misura del cane; esso però contribuisce efficacemente all’istinto del suo padrone di ridurre le forze «animate» dell’ambiente a proprio uso e discrezione e far così risaltare attraverso di esse la sua individualità dominante. Il bel cavallo è almeno potenzialmente un cavallo da corsa, di gran classe o meno; ed è come tale che esso riesce particolarmente utile al padrone. L’utilità del bel cavallo consiste in gran parte nella sua efficienza come mezzo di emulazione; possedere un cavallo che superi in velocità quello del vicino soddisfa il senso di competizione e di dominio del padrone. Poiché questa utilità non è lucrosa, ma invece nel complesso abbastanza dispendiosa, e in modo vistosissimo, essa è onorifica, e perciò conferisce al bel cavallo una presuntiva forte posizione di rispettabilità. Inoltre, il cavallo da corsa vero e proprio ha pure un’utilità parimenti non industriale bensì onorifica come strumento di scommesse. Il bel cavallo è quindi esteticamente fortunato, in quanto il canone della buona reputazione finanziaria giustifica un libero apprezzamento di qualunque bellezza o utilità esso possa avere. Le sue pretese hanno il favore del principio dello sciupìo vistoso, e l’appoggio della ladronesca tendenza al dominio e all’emulazione. Il cavallo è d’altronde un bell’animale, benché il cavallo da corsa non lo sia in grado speciale per il gusto semplice di quelle persone che non appartengono né alla categoria degli amatori delle corse né alla categoria il cui senso della bellezza è coartato dal freno morale del giudizio dell’amatore di cavalli. A questo gusto naturale il cavallo più bello sembra quell’esemplare che abbia subito un’alterazione meno radicale che non il cavallo da corsa sotto il processo selettivo dell’allevatore. Eppure, quando uno scrittore o un oratore — specialmente di quelli la cui eloquenza è zeppa di luoghi comuni — ha bisogno di un esempio di grazia e di utilità animale, per uso retorico, egli ricorre abitualmente al cavallo; e generalmente lascia intendere nel corso della tirata che ciò che ha in mente è il cavallo da corsa. Occorre notare che nell’apprezzamento graduato delle varie specie di

cavalli e di cani, quale s’incontra fra gente di gusti anche modestamente coltivati in queste cose, si può pure distinguere un’altra e più diretta linea d’influenza dei canoni di rispettabilità della classe agiata. Nel nostro paese, per esempio, i gusti della classe agiata sono in qualche misura formati in base agli usi e alle abitudini che prevalgono, o che si pensa che prevalgano, fra la classe agiata della Gran Bretagna. Per i cani ciò è vero in misura minore che per i cavalli. Per i cavalli, più particolarmente per i cavalli da sella — che nel loro fior fiore servono semplicemente allo scopo dello sfarzo costoso — vale in via generale il principio che un cavallo è più bello quanto più è inglese, poiché la classe agiata inglese, in fatto di consuetudini onorevoli, è la più alta classe agiata del nostro paese, e dà quindi l’esempio alle classi inferiori. Questa ridicola imitazione nei sistemi di osservare la bellezza e di formare giudizi di gusto non finisce necessariamente in una predilezione spuria o in qualche misura ipocrita o affettata. La predilezione è un giudizio di gusto altrettanto serio e sostanziale quando è fondata su questa base che quando si fonda su qualunque altra; la differenza è che questo gusto è un gusto per ciò che è corretto dal punto di vista della rispettabilità, non per ciò che è vero dal punto di vista estetico. Bisogna poi rilevare che l’imitazione va più in là del semplice senso della bellezza cavallina. Essa comprende finimenti e modo di cavalcare, sicché la posizione corretta o anche bella dal punto di vista della rispettabilità è decisa anch’essa dalle consuetudini inglesi, così come l’andatura del cavallo. Al fine di mostrare quanto fortuite possono essere talvolta le circostanze che decidono ciò che sarà decoroso e ciò che non lo sarà in base al canone finanziario della bellezza, si può osservare che questa posizione inglese, e l’andatura particolarmente malagevole che ha reso necessaria questa scomoda posizione, sono una sopravvivenza del tempo in cui le strade inglesi erano così cattive, motose e fangose, da essere virtualmente impraticabili a un cavallo che marciasse a un’andatura più agevole; cosicché una persona di gusti ippici raffinati oggi monta un cavallo corpulento di coda mozzicata in una posizione scomoda e a un’andatura malagevole, perché le strade inglesi durante gran parte del secolo passato erano impraticabili a un cavallo che marciasse a un’andatura più naturale, a un animale fatto per muoversi a suo agio per l’aperta e solida campagna, dov’esso è indigeno. Non è soltanto rispetto ai beni consumabili — compresi gli animali domestici — che i canoni del gusto sono stati influenzati dai canoni della rispettabilità finanziaria. Qualcosa del genere può dirsi della bellezza delle

persone. Allo scopo di evitare qualunque possibile pretesto di controversia, non daremo importanza in questo caso a preferenze popolari come quella per il portamento dignitoso (agiato) e per la bella presenza, che in base a una diffusa tradizione si accompagnano all’opulenza degli uomini maturi. Queste caratteristiche sono in certa misura accettate come elementi della bellezza personale. Vi sono però d’altra parte elementi della bellezza femminile che entrano in questa categoria e hanno un carattere così concreto e specifico da permettere un apprezzamento particolareggiato. È più o meno la regola che nelle società giunte allo stadio di sviluppo economico in cui le donne sono stimate dalla classe superiore in base alla loro utilità, l’ideale della bellezza femminile sia una donna robusta e ben piantata. Il fondamento dell’apprezzamento è il fisico, mentre la conformazione del viso è solo d’importanza secondaria. Un noto esempio di quest’ideale dei primi tempi della civiltà di rapina sono le fanciulle dei poemi omerici. Quest’ideale subisce un cambiamento nella evoluzione successiva, allorché, nel modello convenzionale, l’ufficio della moglie della classe superiore viene a essere semplicemente un’agiatezza derivata. L’ideale comprende allora le caratteristiche che si suppone derivino oppure s’accompagnino con una vita di agiatezza imposta continuamente. L’ideale accettato in queste circostanze si può ricavare da descrizioni di donne belle fatte da poeti e da scrittori dei tempi cavallereschi. Nel modello convenzionale di quei giorni le signore di gran classe si concepivano sotto tutela perpetua, e scrupolosamente esenti da ogni lavoro utile. Il risultante ideale cavalleresco o romantico della bellezza tien conto principalmente del viso e indugia sulla sua delicatezza e sulla delicatezza delle mani e dei piedi, sulla figura snella e specialmente sulla vita sottile. Nelle rappresentazioni pittoriche delle donne di quel tempo, e nei moderni imitatori romantici del modo di pensare e di sentire cavalleresco, la cintola è ristretta a un punto che implica una debolezza estrema. Il medesimo ideale vige tuttora in mezzo a una parte notevole della popolazione delle società industriali moderne; bisogna però osservare che esso mantiene più tenacemente il suo fascino su quelle società moderne che sono meno progredite quanto allo sviluppo economico e civile e che tradiscono le sopravvivenze più notevoli del regime di casta e di rapina. Vale a dire, l’ideale cavalleresco è meglio conservato in quelle società ancora esistenti che sono sostanzialmente meno moderne: Sopravvivenze di questo ideale sentimentale o romantico s’incontrano spesso nei gusti delle classi benestanti dei paesi continentali.

Nelle società moderne che hanno raggiunto i gradi più alti dello sviluppo industriale la classe agiata superiore ha accumulato tanta ricchezza da porre le sue donne al di sopra di ogni attribuzione di lavoro volgarmente produttivo. Qui la condizione delle donne come consumatrici derivate comincia a perdere terreno nei gusti della massa del popolo; e di conseguenza l’ideale della bellezza femminile ritorna dal tipo delicato, diafano, pericolosamente gracile, alla donna del tipo arcaico, la quale non rinnega le sue mani né i suoi piedi e neppure gli altri grossolani caratteri fisici della sua persona. Nel corso dello sviluppo economico fra i popoli della civiltà occidentale l’ideale della bellezza è passato dalla donna fisicamente prestante alla signora, e sta cominciando a tornare di nuovo alla donna; e tutto ciò in obbedienza alle mutevoli condizioni dell’emulazione finanziaria. Le esigenze dell’emulazione una volta richiedevano schiavi vigorosi; in un secondo tempo richiesero uno sfoggio vistoso di agiatezza derivata e quindi un’evidente inettitudine al lavoro; ma ora la situazione comincia ad andar oltre questa ultima esigenza, poiché, data la maggior efficienza dell’industria moderna, l’agiatezza delle donne è possibile a un grado così basso della graduatoria della rispettabilità che non può più servire come segno definitivo del più alto grado finanziario. A parte quest’influsso generale esercitato sull’ideale della bellezza femminile dalla regola dello sciupìo vistoso, ci sono uno o due particolari che meritano una menzione specifica perché mostrano come si possa esercitare una fortissima pressione sul senso estetico degli uomini a proposito delle donne. È già stato rilevato che, negli stadi dell’evoluzione economica in cui l’agiatezza vistosa è molto quotata come strumento di buona reputazione, l’ideale esige mani e piedi piccoli e delicati nonché la vita sottile. Queste caratteristiche, insieme con gli altri relativi difetti di struttura che a loro generalmente si accompagnano, servono a mostrare che la persona in tali condizioni non può sopportare impieghi utili e dev’essere perciò mantenuta inattiva dal suo padrone. Essa non dà profitto e anzi costa, ed è di conseguenza preziosa come segno di potenza finanziaria. Ne deriva che in questo stadio culturale le donne si preoccupano di alterare i loro corpi, in modo da conformarsi più da vicino alle esigenze dello smaliziato gusto del tempo; e sotto l’influenza del canone dell’onorabilità finanziaria gli uomini trovano attraenti le caratteristiche patologiche artificialmente provocate, che ne derivano. Così per esempio la vita sottile, che ha avuto così grande e lunga voga nelle società della civiltà occidentale, e così pure i piedi atrofizzati delle cinesi. Ambedue queste mutilazioni sono indiscutibilmente ripugnanti alla

sensibilità schietta. È necessario assuefarsi per riconciliarsi con esse. Ma non c’è ragione di discuterne il fascino su quegli uomini nel cui modello di vita esse figurano come qualità onorifiche sanzionate dalle esigenze della rispettabilità finanziaria. Esse sono voci della bellezza finanziaria e culturale che sono arrivate a servire come elementi dell’ideale della femminilità. Il legame qui segnalato fra il valore estetico e il valore finanziario antagonistico non è naturalmente presente nella consapevolezza di chi giudica. In quanto una persona, nel formulare un giudizio di gusto, riflette e pensa che l’oggetto da giudicarsi è dispendioso e rispettabile, e che per questo può legittimamente essere stimato bello, in tanto il giudizio non è bona fide un giudizio di gusto e non forma oggetto di considerazione sotto questo aspetto. Il legame sul quale qui si è insistito fra la rispettabilità e la percepita bellezza di certi oggetti consiste nell’effetto che la rispettabilità produce sulle abitudini mentali di chi giudica. Questi è abituato a formulare giudizi di valore di vario genere — economico, morale, estetico o di rispettabilità — intorno agli oggetti con i quali ha a che fare, e la sua tendenza a lodare un dato oggetto per un diverso motivo intaccherà la qualità del suo apprezzamento dell’oggetto quando gli accada di giudicarlo dal punto di vista estetico. Ciò è più particolarmente vero per quanto concerne il giudizio in base a motivi così strettamente affini al motivo estetico quanto quello della rispettabilità. I giudizi dal punto di vista estetico e da quello della reputazione non sono tenuti separati quanto si vorrebbe. Può specialmente sorgere confusione fra queste due specie di giudizio perché il valore degli oggetti quanto alla reputazione non è abitualmente distinto nel discorso mediante l’uso di un qualche termine descrittivo particolare. Ne consegue che i termini usati comunemente per designare categorie o elementi di bellezza vengono applicati a questo innominato elemento del merito finanziario e ne deriva per facile conseguenza la corrispondente confusione d’idee. Le esigenze della rispettabilità si uniscono in tal modo nella mentalità popolare con le esigenze del sentimento della bellezza, e la bellezza non accompagnata dai segni accreditati della buona reputazione non viene accettata. Però le esigenze della rispettabilità finanziaria e quelle della bellezza nel senso primitivo non coincidono affatto in modo apprezzabile. L’eliminazione dal nostro ambiente di quanto è finanziariamente disdicevole mette capo perciò a una più o meno drastica eliminazione di quella serie notevole di elementi di bellezza, che non siano conformi all’esigenza finanziaria. Le regole fondamentali del gusto sono assai antiche, probabilmente

precedono di molto l’avvento delle istituzioni finanziarie che noi ora discutiamo. Di conseguenza, grazie al passato adattamento selettivo delle abitudini mentali dell’uomo, accade che le esigenze della bellezza pura e semplice siano in massima parte ottimamente soddisfatte con mezzi e ritrovati pochissimo costosi, i quali suggeriscono in maniera diretta e l’ufficio che devono adempiere e il metodo di servire allo scopo. Può cadere a proposito un richiamo alla posizione attuale della psicologia. Sembra che la bellezza della forma sia un problema di facilità di appercezione. Forse la proposizione potrebbe benissimo estendersi. Se si astrae dall’associazione, suggestione ed «espressione» classificate come elementi della bellezza, allora la bellezza in un oggetto percepito significa che la mente dispiega prontamente la sua attività percettiva nelle direzioni che l’oggetto in questione offre. Le direzioni però in cui l’attività prontamente si dispiega o si esplica sono le direzioni a cui in seguito a lunga e rigorosa assuefazione la mente è più propensa. Per quanto concerne gli elementi essenziali della bellezza, questa assuefazione è un’assuefazione così antica e stretta da aver provocato non solo una tendenza verso la forma percettiva in questione, bensì pure un adattamento di struttura e di funzione fisiologiche. Per quanto l’interesse economico entra nella costituzione della bellezza, esso vi entra come un’ispirazione o un’espressione di adeguamento a uno scopo, un elemento chiaramente utile al processo vitale. Quest’espressione di facilità economica o di economica utilità di un oggetto — ciò che può denominarsi la bellezza economica dell’oggetto — è benissimo servita dall’evidenza chiara e netta ch’esso ha un ufficio e un’efficienza ai fini materiali della vita. Su questa base, fra gli oggetti d’uso l’articolo semplice e disadorno è esteticamente il migliore. Ma poiché il canone finanziario della rispettabilità sdegna gli articoli destinati al consumo individuale meno costosi, la soddisfazione del nostro desiderio di cose belle dev’essere ricercata attraverso il compromesso. I canoni della bellezza vanno elusi per mezzo di espedienti che testimonieranno di una spesa onorevolmente prodiga, e intanto soddisferanno le esigenze del nostro senso critico del bello e dell’utile, o almeno quelle di qualche abitudine che si sia sostituita a quel sentimento. Un siffatto senso ausiliario del gusto è il senso della novità; e questo è favorito nella sua opera di sostituzione dalla curiosità con cui gli uomini guardano le invenzioni ingegnose e complicate. Di qui nasce che gran parte degli oggetti dichiarati belli, e che passano per tali, mostrano una notevole abilità di disegno e son fatti a bella posta per confondere l’osservatore — per

impressionarlo con impossibili suggestioni e allusioni all’improbabile — nello stesso tempo che testimoniano di uno spreco di lavoro, in eccedenza a quanto darebbe loro la massima efficienza per l’evidente scopo economico che hanno. Questo si può mostrare con un esempio preso fuori della cerchia dei nostri abiti e contatti quotidiani, e perciò fuori delle nostre prevenzioni. Oggetti siffatti sono i bei mantelli di piume delle Hawaii, oppure i famosi manici scolpiti delle mannaie cerimoniali di alcune isole polinesiane. Questi sono innegabilmente belli, sia nel senso che offrono una piacevole composizione di forma, linee e colore, sia nel senso che rivelano grande abilità e destrezza di disegno e di fattura. Nello stesso tempo questi arnesi sono chiaramente poco idonei a servire a qualsiasi altro scopo di natura economica. Non sempre però l’evoluzione delle invenzioni ingegnose e complicate sotto la guida dei canone del prodigo sforzo dà alla luce un così felice risultato. Il risultato è assai spesso una soppressione virtualmente completa di tutti gli elementi che reggerebbero all’esame come espressioni di bellezza o d’utilità, e la loro sostituzione con prove di sprecata destrezza e laboriosità, favorite da una marchiana inettitudine; al punto che molti degli oggetti di cui noi ci circondiamo nella vita quotidiana, e persino molti articoli del vestiario e della toeletta d’ogni giorno, diventano tali che senza l’ingiunzione di una tradizione prescrittiva non ci sogneremmo di tollerarli. Esempi di questa sostituzione di abilità e di spesa in luogo della bellezza e dell’utilità sono da vedersi per esempio nell’architettura domestica, nell’arte o decorazione domestica, in diversi articoli di abbigliar mento, specialmente femminile e sacerdotale. Il canone della bellezza esige l’espressione del generico. La «novità» dovuta all’esigenza dello sciupìo vistoso si incrocia con questo canone della bellezza, in quanto essa dando una fisionomia ai nostri oggetti di gusto produce una congerie d’idiosincrasie; e le idiosincrasie sono, per lo più, sotto la guida selettiva del canone del dispendio. Quest’adattamento selettivo di progetti indirizzati allo sciupìo vistoso, e la sostituzione della bellezza estetica con la bellezza finanziaria, è stato particolarmente effettivo nello sviluppo dell’architettura. Sarebbe estremamente difficile trovare una moderna residenza o un edificio pubblico che possano aspirare a qualcosa di più che riuscire relativamente inoffensivi agli occhi di chiunque intenda dissociare gli elementi della bellezza da quelli delio sciupìo onorifico. L’infinita varietà delle facciate offerta dalla miglior categoria di edifici e di case d’alloggio delle nostre città è un’infinita varietà di acrobazie architettoniche e di suggerimenti della bruttezza dispendiosa.

Considerate come oggetti di bellezza, le pareti morte ai fianchi e sul retro di queste costruzioni, lasciate intatte dalle mani degli artisti, sono generalmente il meglio dell’edificio. Ciò che è stato detto intorno all’influenza della legge dello sciupìo vistoso sui canoni del gusto varrà, con un leggero mutamento di termini, per la sua influenza sulle nostre nozioni dell’utilità dei beni a fini diversi da quello estetico. I beni vengono prodotti e consumati come mezzo per un più intenso sviluppo della vita umana; e la loro utilità consiste, in primo luogo, nella loro efficienza come mezzo a questo fine. Il fine è, in primo luogo, la pienezza di vita dell’individuo, preso in senso assoluto. Ma la tendenza umana all’emulazione ha fatto del consumo dei beni uno strumento di confronto antagonistico, e ha perciò investito i beni consumabili di una utilità secondaria quale segno di una relativa capacità di spendere. Quest’uso indiretto o secondario dei beni consumabili conferisce un carattere onorifico al consumo, e quindi anche ai beni che meglio servono a questo scopo emulativo del consumo. Il consumo di beni costosi è meritorio, e i beni che contengono un elemento di costo notevolmente superiore a quello che conferisce loro l’idoneità al loro evidente scopo meccanico sono onorifici. Pertanto nei beni i segni di costosità superflua sono segni di valore — di alta efficienza per lo scopo antagonistico indiretto, che va raggiunto mediante il loro consumo; e al contrario, i beni sono degradanti, e perciò senza attrattiva, se si dimostrano troppo ligi allo scopo meccanico, a cui si mira, e non comprendono un margine di dispendiosità su cui basare un lusinghiero confronto antagonistico. Quest’utilità indiretta conferisce molto del loro valore alle «migliori» qualità di beni. Per fare appello al sentimento educato dell’utilità, un articolo deve contenere un poco di questa utilità indiretta. Mentre gli uomini possono aver cominciato con il disapprovare un tenore di vita economo perché esso stava a indicare incapacità di spendere molto, e quindi un mancato successo finanziario, essi finiscono per cadere nell’abitudine di disapprovare le cose a buon prezzo come se fossero intrinsecamente disonorevoli o indegne perché sono a buon mercato. Con l’andare del tempo, ogni successiva generazione ha ricevuto dalla precedente questa tradizione della spesa meritoria, ed ha a sua volta ulteriormente elaborato e radicato il canone tradizionale della rispettabilità finanziaria del consumo; finché abbiamo finalmente raggiunto un grado tale di convinzione dell’indegnità di ciò che è a buon mercato, che non abbiamo più nessun ritegno a formulare la massima «Cheap and nasty» (brutto e a buon mercato).

Così profondamente ci si è radicata nel pensiero quest’abitudine di approvare le cose care e disapprovare quelle a buon prezzo, che noi istintivamente insistiamo perché almeno un po’ di prodiga dispendiosità caratterizzi il nostro consumo, perfino nel caso di beni che vengono consumati del tutto privatamente e senza la minima preoccupazione di sfoggio. Noi tutti ci sentiamo, sinceramente e senza sospetto, confortati e innalzati se possiamo, sia pure nell’intimità di casa nostra, consumare il pasto quotidiano con l’aiuto di posate d’argento lavorate a mano e di ceramica dipinta a mano (spesso di dubbio valore artistico) imbandita su una preziosa tovaglia. Qualunque retrocessione dal tenor di vita che siamo abituati a stimar degno a questo proposito ci riesce una grave violazione della nostra umana dignità. Così pure, da una dozzina d’anni le candele sono durante il pranzo una sorgente di luce più piacevole di qualunque altra. La luce di candela è adesso più dolce, meno affaticante per occhi bennati, che il petrolio, il gas o la luce elettrica. La stessa cosa non avrebbe potuto dirsi trent’anni fa, quando le candele erano, o da poco erano state, la meno costosa sorgente di luce domestica. E neppure oggi le candele danno una luce adatta o accettabile ad altre illuminazioni che non siano quelle di cerimonia. Un saggio politico che ancora vive ha sintetizzato il succo di tutto ciò nel detto: «Vestito dappoco fa uomo dappoco» e non c’è forse nessuno che non senta la forza persuasiva di questa massima. L’abitudine di cercare nei beni i segni della costosità superflua, e di esigere che tutti i beni offrano qualche utilità di specie indiretta o antagonistica, porta a un cambiamento nei criteri con cui viene misurata Futilità dei beni. L’elemento onorifico e l’elemento dell’efficienza nuda e cruda non sono tenuti separati nell’apprezzamento da parte del consumatore, e tutti e due formano insieme l’indiscriminata utilità complessiva dei beni. Sotto il tipo di utilità che ne deriva, nessun articolo sarà accettato in forza della sola sufficienza materiale. Per la completa e piena accettabilità da parte del consumatore, esso deve anche mostrare l’elemento onorifico. Ne deriva che i produttori di articoli di consumo dirigono i loro sforzi verso la produzione di beni che possano soddisfare quest’esigenza dell’elemento onorifico. Essi fanno ciò con tanto maggiore alacrità ed efficacia, in quanto sono essi stessi sotto l’influenza del medesimo criterio di valore, e proverebbero un sincero dispiacere alla vista di beni che mancassero della debita rifinitura onorifica. Di qui nasce che non vi sono oggidì beni in commercio i quali non contengano in grado maggiore o minore l’elemento onorifico. Un consumatore che, come Diogene, insistesse

nell’eliminazione di tutti gli elementi onorifici e dispendiosi dal suo consumo, sarebbe sul mercato moderno impossibilitato a sopperire alle sue più ordinarie necessità. Invero, perfino se costui si risolvesse a sopperire direttamente alle sue necessità con i suoi sforzi, troverebbe difficile se non impossibile spogliarsi delle abitudini mentali correnti a questo proposito; cosicché raramente potrebbe provvedersi delle cose necessarie alla vita d’un giorno senza immettere istintivamente e di straforo nel suo prodotto alcunché di questo onorifico, quasi decorativo elemento di lavoro superfluo. È noto che scegliendo sul mercato al minuto i beni utili, i compratori sono guidati più dalla rifinitura e manifattura dei beni che da una qualsiasi traccia di utilità vera e propria, I beni per essere venduti devono contenere un’apprezzabile somma di lavoro speso per dar loro i segni di un’onorevole dispendiosità, in aggiunta a ciò che li rende adatti per l’uso materiale al quale servono. Quest’abitudine di fare dell’ovvia costosità un canone di utilità concorre naturalmente ad aumentare il costo complessivo degli articoli di consumo. Essa ci mette in guardia contro i prezzi miti, identificando in qualche misura il merito con il costo. C’è ordinariamente uno sforzo continuo da parte del consumatore per ottenere beni dell’utilità richiesta al prezzo più vantaggioso possibile; però la convenzionale esigenza della costosità evidente, quale garanzia e componente dell’utilità dei beni, lo porta a rigettare perché meschini quelli che non tradiscano un notevole elemento di sciupìo vistoso. Si deve aggiungere che gran parte di quelle caratteristiche dei beni consumabili che figurano nella mentalità popolare come segni di utilità, e alle quali si è fatto qui riferimento come a elementi di sciupìo vistoso, si raccomandano al consumatore anche per motivi diversi da quello della sola dispendiosità. Esse dànno generalmente testimonianza di manifattura efficiente e capace, anche se non contribuiscono alla sostanziale utilità dei beni; ed è senza dubbio per questa ragione che un segno particolare d’idoneità onorifica prima viene di moda e in seguito conserva la sua posizione come un normale elemento costitutivo del valore di un articolo. Uno sfoggio di efficiente abilità piace semplicemente come tale, anche qualora il suo esito più lontano, e lì per lì non considerato, sia futile. C’è una soddisfazione del sentimento artistico nella contemplazione di un bel lavoro competente. Ma bisogna anche aggiungere che nessuna simile prova di abilità, o di adattamento geniale ed efficace dei mezzi al fine, incontrerà alla lunga l’approvazione dei moderni consumatori inciviliti senza avere la sanzione del canone dello sciupìo vistoso.

La posizione qui assunta è felicemente appoggiata dal posto assegnato nell’economia di consumo agli oggetti fatti a macchina. Il nòcciolo della differenza materiale fra i beni fatti a macchina e quelli fatti a mano che servono agli stessi scopi è generalmente che i primi servono più adeguatamente al loro principale scopo. Essi sono un prodotto più perfetto — mostrano un più perfetto adattamento del mezzo al fine. Ciò non li salva dalla disistima e dal deprezzamento, poiché essi non sono all’altezza del criterio dello sciupìo onorifico. Il lavoro a mano è un sistema di produzione più costoso; perciò i beni prodotti con questo sistema sono più idonei allo scopo della rispettabilità finanziaria; per questo, i segni del lavoro a mano vengono ad essere onorifici, e i beni che mostrano questi segni sono reputati più desiderabili che i beni corrispondenti fatti a macchina. Generalmente, se non sempre, i segni onorifici del lavoro a mano sono certe imperfezioni e irregolarità nell’articolo le quali svelano dove l’operaio ha sbagliato nell’eseguire il disegno. Il motivo della superiorità dei beni lavorati a mano è perciò un certo margine di rozzezza. Questo margine non dev’essere né tanto largo da mostrare una grossolana incompetenza, poiché ciò sarebbe segno di basso costo, né tanto stretto da far pensare alla precisione ideale raggiunta solo con la macchina, perché anche questo sarebbe segno di basso costo. L’apprezzamento di quei segni di onorifica rozzezza, ai quali i beni lavorati a mano devono il loro valore e la loro attrattiva superiore agli occhi della gente bennata, è una questione di discriminazione sottile. Esso richiede un’iniziazione e la formazione di abitudini mentali rispetto a ciò che può chiamarsi la fisionomia dei beni. I beni di uso quotidiano fatti a macchina sono spesso ammirati e preferiti precisamente in grazia della loro estrema perfezione dalle persone volgari e incolte che non dànno il peso dovuto alle norme del consumo signorile. L’inferiorità cerimoniale dei prodotti fatti a macchina viene a mostrare che l’abilità e l’efficienza perfette racchiuse in ogni costosa innovazione per la rifinitura delle merci non sono di per sé sufficienti ad assicurare loro accoglienza e favore permanenti. L’innovazione deve avere l’appoggio dello sciupìo vistoso. Qualsiasi caratteristica della fisionomia dei beni, per quanto piacevole in se stessa e per quanto possa essere accetta al gusto del lavoro ben fatto, non sarà tollerata se si dimostra contraria a questa norma della rispettabilità finanziaria. L’inferiorità e l’improprietà cerimoniale dei beni consumabili dovuta alla «volgarità» o, in altri termini, al loro basso costo di produzione, è stata presa molto sul serio da parecchie persone. L’obiezione contro i prodotti della

macchina è sovente formulata come un’obiezione contro la volgarità di tali beni. Ciò che è ordinario è alla portata (finanziaria) di molti. Il suo consumo non è perciò onorifico, poiché non serve allo scopo di un favorevole confronto antagonistico con altri consumatori. Per questo il consumo, o anche soltanto la vista di tali beni, suscita l’immagine degli strati più bassi della vita umana, e la loro contemplazione induce un senso profondo di bassezza che a una persona sensibile riesce estremamente disgustoso e deprimente. In persone i cui gusti si affermino imperiosamente e che non abbiano il dono, l’abitudine o l’incentivo a distinguere fra i motivi dei loro svariati giudizi di gusto, le deliberazioni del senso dell’onorifico si uniscono a quelle del senso della bellezza e del senso dell’idoneità — nel modo di cui s’è già parlato; la complessa valutazione che ne deriva serve come un giudizio sulla bellezza dell’oggetto o sulla sua idoneità, secondo che la tendenza o l’interesse di colui che giudica lo porti a considerare l’oggetto sotto l’uno o sotto l’altro di questi aspetti. Ne deriva non di rado che i segni del basso prezzo o della volgarità vengono accolti come segni definitivi d’imperfezione artistica, e su questa base si costruisce un codice o lista di convenzioni estetiche da una parte e di estetici orrori dall’altra, come guida in questioni di gusto. Come è già stato sottolineato, i generi di consumo quotidiano a buon mercato, e perciò indecorosi, nelle moderne società industriali sono generalmente fatti a macchina; il tratto comune della fisionomia dei beni fatti a macchina, confrontati con l’articolo lavorato a mano, è la loro maggior perfezione quanto all’efficienza e la maggior precisione nell’esecuzione dei particolari. Di qui nasce che le evidenti imperfezioni dei beni lavorati a mano, essendo onorifiche, sono stimate segni di superiorità in fatto di bellezza, o di idoneità, o di entrambe. Di qui è sorta quell’esaltazione del difettoso, di cui John Ruskin e William Morris2 erano ai tempi loro così accesi propagandisti; e per questo motivo la loro propaganda per la rozzezza e lo spreco è stata raccolta e continuata finora. E di qui pure la propaganda per un ritorno all’artigianato e all’industria casalinga. Tutto il lavoro e le speculazioni di questa gente che rientrano nella caratterizzazione qui data sarebbero stati impossibili in un’epoca in cui i beni evidentemente più perfetti non fossero quelli più a buon mercato. È naturalmente solo per quanto riguarda il valore economico di questa scuola estetica che qui si vuole o si può dire qualcosa. Quanto scriviamo non va inteso come un deprezzamento ma anzitutto come una definizione dell’effetto del suo insegnamento sul consumo e sulla produzione di beni

consumabili. Il modo in cui la tendenza di questo sviluppo del gusto si è manifestata nella produzione è forse meglio illustrato dalla manifattura di libri, cui Morris si dedicò durante gli ultimi anni della sua vita; ma ciò che vale per l’opera della Kelmscott Press3 in grado eminente, vale in misura di poco minore quando si applichi alle più recenti edizioni artistiche di libri in generale — per quanto riguarda la stampa, la carta, l’illustrazione, la rilegatura e il lavoro di rilegatura. La pretesa di eccellenza avanzata dai più recenti prodotti dell’industria libraria si basa in parte sul grado della loro somiglianza con le rozzezze dei tempi in cui quest’industria era una lotta incerta contro materiali refrattari, condotta con strumenti insufficienti. Questi prodotti, poiché richiedono lavoro a mano, sono più costosi; essi sono anche meno convenienti per l’uso che non i libri stampati in vista della sola utilità; testimoniano pertanto la possibilità da parte del compratore di spendere liberamente, e insieme la possibilità di sprecare tempo ed energie. È per questo motivo che gli editori d’oggidì stanno ritornando al «vecchio stile» e ad altri stili tipografici più o meno antiquati: essi sono meno leggibili e dànno alla pagina un’apparenza più rozza che non lo stile «moderno». Persino un periodico scientifico, che non ha evidentemente altro scopo fuorché la presentazione più efficace delle questioni di cui s’interessa la sua scienza, indulgerà alle esigenze di questa bellezza finanziaria tanto da pubblicare le sue ricerche in caratteri vecchio-stile su carta a mano e con margini non rifilati. Ma quei libri che non sono evidentemente interessati soltanto alla presentazione efficace del loro contenuto vanno naturalmente più lontano ancora. In questo caso abbiamo dei caratteri un poco più rustici, stampati su carta a mano dagli orli frastagliati, con margini eccessivi e fogli intonsi, con rilegature di un’affettata rozzezza e studiata rusticità. La Kelmscott Press portò la cosa all’assurdo — giudicando dal punto di vista dell’utilità pura e semplice — pubblicando libri per uso moderno, scritti con la vecchia ortografia, stampati in caratteri gotici e rilegati in pergamena flessibile con legacci. Altro tratto caratteristico, che stabilisce il significato economico delle edizioni artistiche, è che questi libri più eleganti sono stampati, nei casi migliori, a tiratura limitata. Una tiratura limitata è effettivamente una garanzia — un po’ cruda, è vero — che questo libro è raro e perciò costoso e conferisce al suo compratore una distinzione finanziaria. La particolare attrattiva di questi prodotti librari sul compratore di gusti raffinati non sta naturalmente in un cosciente, ingenuo riconoscimento della loro costosità e superiore rozzezza. Qui, come nel caso parallelo della

superiorità degli articoli lavorati a mano sui prodotti della macchina, il motivo cosciente della preferenza è un’eccellenza intrinseca attribuita all’articolo più costoso e più goffo. Si direbbe che il pregio superiore attribuito a un libro che imiti i prodotti di procedimenti tipografici antichi e fuori uso sia principalmente una maggior utilità sotto l’aspetto estetico; ma non è raro trovare qualche distinto bibliofilo il quale insiste nell’affermare che il prodotto più rozzo è anche più utile come veicolo della parola stampata. Per quanto concerne il superiore valore estetico del libro decadente, ci sono possibilità che l’ostinazione del bibliofilo abbia qualche fondamento. Il libro viene disegnato unicamente mirando alla sua bellezza, e il risultato è in genere un certo successo da parte del disegnatore. Ciò su cui s’insiste, comunque, è che il criterio di gusto sotto cui il disegnatore lavora è un canone formato con la guida della legge dello sciupìo vistoso e che questa legge agisce selettivamente eliminando ogni criterio che non sia conforme alle sue esigenze. Vale a dire che, mentre il libro decadente può essere bello, i limiti entro cui il disegnatore può lavorare sono fissati da esigenze di carattere non estetico. Il prodotto, se è bello, deve anche essere nello stesso tempo costoso e adattarsi male al suo uso evidente. Comunque, questo perentorio criterio di gusto non è, nel caso del disegnatore, interamente foggiato dalla legge dello sciupìo nella sua prima versione; il criterio si forma in parte secondo quella secondaria espressione del temperamento di rapina, la venerazione per le cose antiche e fuori uso, che in uno dei suoi particolari sviluppi si chiama classicismo. Nella teoria estetica sarebbe estremamente difficile, se non praticamente impossibile, tracciare una linea tra il canone del classicismo — o stima per l’arcaico — e il canone della bellezza. Ai fini estetici di rado è necessario fare una tale distinzione. Non è nemmeno necessario ch’essa esista. Per una teoria del gusto l’espressione di un ideale accettato di arcaismo, su qualsiasi base possa essere stato accettato, è forse giustamente stimata un elemento di bellezza; non occorre discuterne la legittimità. Ma per il nostro fine — allo scopo di stabilire quali motivi economici sono presenti nei canoni di gusto accettati e qual è la loro portata per la distribuzione e il consumo dei beni — la distinzione non è altrettanto fuori questione. La posizione dei prodotti a macchina nel modello civile del consumo serve a indicare quale relazione sussista fra il canone dello sciupìo vistoso e il codice delle convenienze quanto al consumo. Né in questioni d’arte e di gusto vero e proprio, né per quanto concerne l’opinione corrente dell’utilità dei beni, questo canone opera come principio d’innovazione o d’iniziativa. Esso non

entra nel futuro come principio creativo che produca innovazioni e aggiunga nuovi generi di consumo e nuovi elementi di costo. Il principio in questione è in certo senso una legge negativa piuttosto che positiva. È un principio regolatore più che creatore. Molto raramente esso inizia o dà origine direttamente a qualche uso o costume. La sua azione è solamente selettiva. Lo sciupìo vistoso non offre direttamente motivo di variazione e di sviluppo, ma la conformità alle sue esigenze è una condizione perché le innovazioni fattibili con altri fondamenti sopravvivano. In qualsiasi modo nascano i costumi, gli usi e i sistemi di spendere, essi sono tutti soggetti all’azione selettiva di questa norma di rispettabilità; e il grado con cui si conformano alle sue esigenze è una prova della loro idoneità a sopravvivere nella competizione conaltri usi e costumi del genere. Coetcris paribus, sotto questa legge l’uso o il sistema più chiaramente dispendioso ha miglior probabilità di sopravvivere. La legge dello sciupìo vistoso non spiega l’origine delle variazioni, ma soltanto la persistenza di forme adatte a sopravvivere setto il suo dominio. Essa opera nel senso di conservare ciò che è idoneo, non di dare origine a ciò che è accettabile. Il suo ufficio è di provare tutte le cose e di promuovere ciò che serve al suo scopo. 1. L’esposizione mondiale del 1893, tenuta a Chicago nel quarto centenario della scoperta dell’America. Gli edifici erano improntati al più pacchiano stile pseudo classico. 2. John Ruskin (1819-1900), critico d’arte e letterato inglese. William Morris (1834-1896), poeta, scrittore e pittore inglese. Il primo fu dopo il 1840 quasi il dittatore del panorama artistico vittoriano, specie nella pittura e nell’architettura. Li accomunava il disgusto per la civiltà industriale avanzante e per il conformismo dei suoi prodotti, in nome di un aristocratico «rispetto per la Natura» e del ritorno all’artigianato inteso in senso anti macchinistico. Veblen si interessò all’opera di Ruskin sotto l’influenza della sua prima moglie, Ellen Rolfe. 3. La Kelmscott Press fu fondata appunto di William Morris, propugnatore del valore autonomo dell’oggetto artigianale. Veblen, recatosi in Inghilterra nel 1896 proprio per conoscere Morris, verso il quale nutriva una profonda ammirazione sin da quando, in gioventù, ne aveva studiato le opere ispirate alle antiche saghe islandesi come la Laxdacla Saga, rimase alquanto deluso nel trovarlo tutto dedito alla stampa con metodi artigianali.

CAPITOLO VII. L’ABBIGLIAMENTO COME ESPRESSIONE DELLA CIVILTÀ FINANZIARIA Sarebbe opportuno, a mo’ d’esempio, mostrare particolareggiatamente come i princìpi economici fin qui esposti si applicano ai fatti quotidiani in qualcuno dei campi della vita. A questo scopo nessun genere di consumo offre un esempio più calzante che la spesa per il vestiario. La regola dello sciupìo vistoso trova speciale espressione nell’abbigliamento, benché gli altri affini princìpi del buon nome finanziario s’esprimano anch’essi negli stessi articoli. Per mettere in evidenza la propria posizione finanziaria giovano altri metodi, e altri metodi sono di moda sempre e dovunque; ma ciò che si spende nell’abbigliamento ha sulla maggior parte degli altri metodi questo vantaggio, che il nostro vestiario è sempre in evidenza e indica al primo colpo d’occhio la nostra posizione finanziaria a tutti gli osservatori. È altresì vero che un’evidente spesa di sfoggio si vede più chiaramente, ed è forse più universalmente praticata nel campo del vestire, che in qualunque altro campo. Nessuno trova difficoltà a riconoscere il luogo comune che la maggior parte della spesa sostenuta da tutte le classi per vestirsi è sostenuta per amor di un’apparenza rispettabile piuttosto che per la protezione della persona. E probabilmente in nessun’altra occasione la povertà è tanto profondamente sentita come quando noi veniamo meno al criterio stabilito dalla società a proposito del vestire. Vale per gli abiti in misura anche maggiore che per la maggior parte dei generi di consumo, che la gente è disposta a sobbarcarsi a un grado notevolissimo di privazioni in fatto di comodi e di necessità pur di mostrare quel che sembra un certo grado sufficiente di spreco superfluo; cosicché non è per niente straordinario che certa gente, in un clima rigido, vada in giro poco coperta pur di apparire ben vestita. E il valore commerciale degli articoli usati per vestirsi in una società moderna è calcolato più in base alla loro eleganza e rispettabilità che non al servizio materiale ch’essi rendono nel rivestire la persona che li porta. Il bisogno del vestire è un bisogno eminentemente «superiore» e spirituale. Questo bisogno spirituale del vestire non è completamente e neppure in

primo luogo una semplice tendenza a fare sfoggio di spesa. La legge dello sciupìo vistoso dirige il consumo in fatto di abiti, come di altre cose, da una certa distanza, influendo sui criteri del gusto e della convenienza. Nei casi ordinari il motivo cosciente di chi indossa o acquista abiti vistosamente costosi è il bisogno di uniformarsi alle usanze stabilite, e di vivere secondo il tenore accreditato del gusto e della rispettabilità. Non è soltanto che uno debba esser guidato dal codice delle convenienze nel vestirsi, per evitare l’umiliazione che viene dalla fama e dai commenti sfavorevoli; benché questo motivo di per sé conti assai; ma accanto a ciò il bisogno di spendere è talmente radicato nelle nostre abitudini mentali in fatto di vestiario che qualunque altro abito fuorché quello dispendioso è per noi istintivamente detestabile. Senza riflettere né analizzare, noi sentiamo che ciò che costa poco vale poco. «Vestito dappoco fa uomo dappoco». La sentenza «brutto e a buon mercato» è riconosciuta vera anche più rigorosamente in fatto d’abiti che per altri generi di consumo. Per ragioni sia di gusto che d’utilità, un articolo di vestiario poco costoso passa, in base alla massima «brutto e a buon mercato», per scadente. Noi troviamo belle, come utili, le cose in proporzione di quanto esse costano. Con poche e irrilevanti eccezioni, noi tutti troviamo che un prezioso capo di vestiario lavorato a mano è assai preferibile, in fatto di bellezza e di utilità, a una sua imitazione meno costosa, per quanto abilmente possa l’articolo spurio imitare il prezioso originale; e ciò che offende la nostra sensibilità nell’articolo spurio non è ch’esso sia inferiore in un qualche modo, quanto alla forma o al colore o, addirittura, all’effetto visivo. L’oggetto criticato può essere un’imitazione così fedele da sfidare anche il più rigoroso esame; eppure non appena viene scoperta la contraffazione, il suo valore estetico, e insieme il suo valore commerciale, declinano precipitosamente. Non solo, ma si può affermare, senza correre il rischio di essere smentiti, che il valore estetico di un abito contraffatto e scoperto declina pressoché nella stessa proporzione in cui la contraffazione è più a buon mercato dell’originale. Esso perde la sua casta estetica perché scade a un grado finanziario più basso. Ma la funzione del vestiario come segno di capacità a spendere non finisce semplicemente mostrando che chi indossa consuma beni di valore in eccedenza a quanto si richiede per il benessere fisico. Il semplice sciupìo vistoso dei beni è, fin dove arriva, efficace e soddisfacente; è un ottimo segno prima facie di successo finanziario, e quindi di dignità sociale. Ma il vestiario ha delle possibilità più sottili e più vaste che non questa rozza e immediata dimostrazione di un avvenuto consumo dispendioso. Se poi, oltre a far vedere

che chi indossa può consumare liberamente e senza economie, si può anche dimostrare nello stesso tempo che lui o lei non sono nella necessità di guadagnarsi da vivere, l’evidenza della dignità sociale è considerevolmente accresciuta. I nostri abiti, pertanto, per servire effettivamente al loro scopo, non dovrebbero soltanto essere costosi, ma dovrebbero pure dichiarare a tutti gli osservatori che chi li porta non si occupa di nessun genere di lavoro produttivo. Nel processo di evoluzione per cui il nostro sistema d’abbigliamento è stato elaborato nel suo presente perfetto adattamento allo scopo, questo genere ausiliario di evidenza ha ricevuto l’attenzione dovuta. Un esame particolareggiato di ciò che passa nell’opinione popolare per vestiario elegante farà vedere ch’esso è studiato in modo da dar in tutto l’impressione che chi lo porta non fa abitualmente sforzi lucrosi. Va da sé che nessun vestiario si può considerare elegante, e neppure decente, se mostra, con macchie o ragnature, tracce di lavoro manuale da parte di chi lo indossa. L’effetto piacevole degli abiti puliti e immacolati è principalmente, se non del tutto, dovuto al fatto che essi danno l’impressione dell’agiatezza, dell’esenzione da ogni personale contatto con procedimenti industriali di qualunque genere. Gran parte del fascino che riveste la scarpa di vernice, la tovaglia candida, il cilindro lucido e la canna da passeggio, che tanto favoriscono la nativa dignità del gentiluomo, deriva dal loro effettivo sottintendere che chi li porta non può in tale arnese metter mano a nessun lavoro direttamente e immediatamente utile all’uomo. Gli abiti eleganti servono al loro scopo di eleganza, non solo per il fatto che sono costosi, ma anche perché sono le insegne dell’agiatezza. Essi non soltanto fanno vedere che chi li porta è capace di consumare un valore relativamente grande, ma svelano nel contempo ch’egli consuma senza produrre. L’abbigliamento delle donne va anche più lontano di quello degli uomini nel dimostrare l’astensione da ogni occupazione produttiva. Non c’è bisogno di prove per appoggiare la generalizzazione che i più eleganti stili di cappellini sono fatti per rendere impossibile il lavoro anche più della tuba maschile. La scarpetta della donna aggiunge il cosiddetto tacco francese all’evidenza di forzata agiatezza offerta dalla sua vernice; poiché questo tacco alto rende naturalmente assai difficile anche il più semplice e necessario lavoro manuale. Lo stesso vale in misura anche maggiore per la gonna e gli altri capi che caratterizzano la toeletta femminile. La ragione sostanziale del nostro tenace attaccamento alla gonna è proprio questa: essa è costosa e imbarazza di continuo colei che la porta e la rende incapace di ogni attività utile. La stessa

cosa vale per l’abitudine femminile di portare i capelli eccessivamente lunghi. Ma l’abbigliamento della donna non soltanto va oltre a quello dell’uomo moderno, per il modo in cui comprova l’esenzione dal lavoro; esso aggiunge inoltre un tratto speciale e altamente caratteristico, che differisce da ogni altro abitualmente praticato dagli uomini. Questa caratteristica è la serie di ritrovati di cui il busto è l’esempio tipico. Nella teoria economica, il busto è sostanzialmente una mutilazione, sopportata allo scopo di ridurre la vitalità della paziente e renderla in modo patente e duraturo inidonea al lavoro. Il busto, è vero, diminuisce le attrattive personali di colei che lo porta, ma la perdita subita a questo proposito è controbilanciata dal guadagno in fatto di reputazione, che deriva dal suo evidente aumento di gracilità e costosità. Si può sicuramente stabilire che la femminilità del vestiario della donna si risolve sostanzialmente nell’impedimento più efficace a ogni attività fisica utile. Questa differenza fra il modo di vestire maschile e quello femminile è qui semplicemente sottolineata come un tratto caratteristico. Ne discuteremo i motivi più innanzi. Noi dunque abbiamo, finora, come grande norma direttiva nel vestire, il largo principio dello sciupìo vistoso. Ausiliario di questo principio, e quasi suo corollario, abbiamo come seconda regola il principio dell’agiatezza vistosa. Nell’ideazione degli abiti, questa regola si esprime escogitando vari aggeggi che fanno vedere che colui il quale li porta non si occupa né può, fin dove è possibile mostrarlo, occuparsi in lavori produttivi. Oltre a questi due princìpi ce n’è un terzo di una forza poco meno costrittiva, che verrà in mente a chiunque rifletta un poco seriamente sull’argomento. Gli abiti non solo devono essere vistosamente dispendiosi e scomodi, devono essere nello stesso tempo aggiornati. Nessuna spiegazione soddisfacente è stata finora offerta del fenomeno del cambiamento delle mode. L’esigenza imperativa di vestire secondo l’ultima maniera accreditata, così come il fatto che questa moda autorizzata cambi continuamente da stagione a stagione, è abbastanza familiare a ognuno, ma la teoria di questo flusso e di questo cambiamento non è mai stata elaborata. Naturalmente possiamo dire, con perfetta coerenza e sincerità, che questo principio della novità è un altro corollario della legge dello sciupìo vistoso. Ovviamente, se ogni vestito può servire solo per breve tempo, e se nessun vestito della stagione passata è ancora portato e usato durante la presente, la spesa superflua se ne accresce grandemente. Ciò va bene fin dove vale, ma è soltanto negativo. Tutto ciò che questa considerazione ci autorizza a dire è che la regola dello sciupìo vistoso esercita

un controllo vigilante su tutto il vestiario, sicché ogni cambiamento di moda deve uniformarsi all’esigenza della dispendiosità. Ma essa lascia senza risposta il problema relativo alla ragione di fare e accettare un cambiamento nella moda predominante, e neppure riesce a spiegare perché la conformità a una data moda sia tanto imperiosamente necessaria come noi sappiamo che è. Per trovare un principio creativo capace di servire come movente all’invenzione e innovazione delle mode, dovremo tornare al primitivo movente non economico, da cui ebbe origine l’abbigliamento, il movente della decorazione. Senza addentrarci in una discussione esauriente sul come e perché questo movente si affermi sotto il controllo della legge della dispendiosità, si può sicuramente stabilire che ogni successiva innovazione delle mode è uno sforzo per raggiungere qualche forma di sfoggio che riesca meglio accetta al nostro senso della linea, e del colore o dell’efficacia, che non quella ch’essa soppianta. Le mode che cambiano sono l’espressione di un’incessante ricerca di qualcosa che si raccomandi al nostro senso estetico; siccome però ogni innovazione è soggetta all’azione selettiva della regola dello sciupìo vistoso, la gamma entro cui l’innovazione può prendere posto, è un po’ ristretta. L’innovazione non solo dev’essere più bella, o forse più spesso meno sgradevole, di quella che soppianta, ma deve anche essere all’altezza del livello di dispendiosità accettato. Sembrerebbe a prima vista che il risultato di questa continua lotta per raggiungere il bello nel campo dell’abbigliamento dovrebbe essere un graduale avvicinamento alla perfezione artistica. Noi potremmo naturalmente aspettarci che le mode mostrassero una spiccata tendenza nella direzione di uno o di più tipi di abbigliamento eminentemente convenienti alla forma umana; e potremmo persino pensare di avere una solida ragione per sperare che oggi, dopo tutta l’abilità e lo sforzo spesi negli abiti in questi molti anni, le mode dovrebbero avere raggiunto una relativa perfezione e stabilità, assai simile a un ideale artistico valevole per sempre. Ma non è questo il caso. Sarebbe difatti molto arrischiato affermare che le mode d’oggidì sono intrinsecamente più convenienti di quelle di dieci anni fa, oppure di quelle di venti o cinquanta o cent’anni or sono. D’altra parte, l’affermazione che le mode in voga duemila anni fa fossero più convenienti celle più elaborate e accurate escogitazioni d’oggigiorno trova tutti consenzienti. Pertanto la spiegazione delle mode data or ora non è esauriente, e noi dobbiamo addentrarci di più. Si sa benissimo che alcune mode e tipi di vestiario relativamente stabili sono stati elaborati in diverse parti del monco;

come, per esempio, fra i Giapponesi, i Cinesi e altre nazioni orientali; così fra i Greci, i Romani e altri antichi popoli del Levante; così pure, in epoche più recenti, fra i contadini di quasi tutte le campagne d’Europa. Questi costumi nazionali o popolari nella maggior parte dei casi sono giudicati da critici competenti più convenienti, più artistici, delle instabili mode dell’ abbigliamento civile moderno. Nello stesso tempo essi sono pure, almeno di solito, meno evidentemente dispendiosi; vale a dire, elementi diversi da quello di uno sfoggio di spesa emergono più evidenti dalla loro struttura. Questi costumi relativamente stabili sono generalmente localizzati in modo abbastanza definito e ristretto, e variano da luogo a luogo per gradazioni leggere e sistematiche. In ogni caso sono stati elaborati da popoli o da classi che sono più poveri di noi e appartengono specialmente a regioni e località ed epoche in cui la popolazione, o almeno la classe a cui appartiene il costume in questione, è relativamente omogenea, stabile e immobile. Vale a dire, i costumi stabili che sopportano la prova del tempo e della prospettiva sono elaborati in circostanze nelle quali la regola dello sciupìo vistoso si afferma meno perentoriamente che nelle grandi città civili moderne, la cui popolazione relativamente mobile e ricca detta oggi legge in fatto di moda. I paesi e le classi che hanno così elaborato costumi stabili e artistici si sono trovati in una situazione tale che l’emulazione finanziaria in mezzo a loro ha assunto la direzione di una gara in fatto di vistosa agiatezza piuttosto che di vistoso consumo di beni. Cosicché resterà vero in linea di massima che le mode sono meno stabili e meno convenienti in quelle società in cui il principio di un vistoso sciupìo di beni si afferma più perentorio, come fra noi. Tutto ciò indica un antagonismo fra dispendiosità e abbigliamento artistico. Al fatto pratico, la regola dello sciupìo vistoso è incompatibile con l’esigenza che il vestito dovrebbe essere bello o conveniente. E quest’antagonismo offre una spiegazione di quell’incessante cambiamento della moda del quale né il canone della dispendiosità né quello della bellezza riescono da soli a dar ragione. Il criterio della rispettabilità esige che gli abiti mettano in mostra spese superflue; ma ogni sciupìo offende il gusto originario. È già stata indicata la legge psicologica per cui tutti gli uomini — e le donne forse anche più — rifuggono dallo spreco inutile, sia di energie che di spesa, così come una volta si diceva che la Natura aborre dal vuoto. Però il principio dello sciupìo vistoso richiede una spesa ovviamente superflua; e la vistosa dispendiosità del vestito che ne deriva è perciò intrinsecamente brutta. Di qui noi troviamo che, in

tutte le innovazioni in fatto di vestiario, ogni particolare aggiunte o modificato si sforza di evitare una condanna istantanea mostrando qualche scopo evidente, nello stesso tempo che l’esigenza dello sciupìo vistoso impedisce all’utilità di queste innovazioni di diventare qualcosa di più che una semplice pretesa. Anche nei suoi voli più audaci la moda raramente o mai tralascia di fingere una qualche parvenza d’utilità. Comunque, l’apparente utilità dei particolari alla moda è sempre un pretesto così trasparente e la loro sostanziale futilità si offre così patentemente alla nostra attenzione, da diventare insopportabile, e allora ci rifugiamo in una moda nuova. Ma la nuova moda deve conformarsi all’esigenza della dispendiosità e dell’inutilità rispettabili. La sua futilità diventa adesso tanto odiosa quanto quella della moda che l’ha preceduta; e l’unico rimedio che la legge dello spreco ci consente è di cercare sollievo in qualche nuova escogitazione, egualmente futile ed instabile. Di qui la bruttezza essenziale e l’incessante mutevolezza dell’abbigliamento alla moda. Spiegato così il fenomeno delle mode che mutano, resta adesso da adattare la nostra spiegazione ai fatti quotidiani. Tra questi fatti c’è la nota simpatia che tutti proviamo per le mode che sono in voga in una determinata epoca. Una nuova moda viene in voga e resta in auge per una stagione e, almeno per tutto il tempo che è una novità, la gente trova di regola la nuova moda attraente. La moda dominante è considerata bella. Ciò è dovuto in parte al sollievo ch’essa offre essendo diversa da quella che usava prima, in parte al fatto che è rispettabile. Com’è stato indicato nell’ultimo capitolo, il canone della rispettabilità forma in parte i nostri gusti, cosicché sotto la sua guida qualunque cosa sarà accettata come conveniente fino a che non verrà meno la sua novità o finché la garanzia di rispettabilità sarà trasferita a un modello nuovo e recente, che serva al medesimo scopo generale. Che l’asserita bellezza o «eleganza» delle mode in voga in una data epoca sia spuria e passeggera soltanto, è attestato dal fatto che nessuna delle molte mutevoli mode può sopportare la prova del tempo. Viste nella prospettiva di una mezza dozzina d’anni o più, le nostre mode migliori ci colpiscono come grottesche, se non insopportabili. Il nostro attaccamento effimero a ciò che per caso è più recente si fonda su motivi diversi da quelli estetici, e dura soltanto finché il nostro senso estetico interno abbia avuto il tempo di affermarsi e rigettare l’ultima stomachevole trovata. Il processo di sviluppo di una nausea estetica impiega un tempo più o meno lungo, la lunghezza del tempo richiesto in un dato caso essendo

inversamente proporzionale al grado d’intrinseca odiosità della moda in questione. Questa relazione temporale fra l’odiosità e l’instabilità delle mode dà motivo per inferire che quanto più rapidamente le mode si succedono e si soppiantano a vicenda, tanto più offendono il gusto vergine. Si presume perciò che quanto più le società, specialmente le classi ricche delle società, si sviluppano in fatto di ricchezza, di mobilità e di portata dei loro contatti, tanto più categoricamente la legge dello sciupìo vistoso si affermerà nelle questioni di vestiario, tanto più il sentimento della bellezza tenderà a cadere in disuso o sarà sopraffatto dal canone della rispettabilità finanziaria, tanto più rapidamente le mode muteranno e si cambieranno, e tanto più grottesche e insopportabili saranno le diverse mode che verranno successivamente in voga. Resta almeno un punto da discutere in questa teoria dell’abbigliamento. La massima parte di ciò che è stato detto si applica all’abbigliamento degli uomini come a quello delle donne; benché nei tempi moderni valga in quasi tutti i punti con maggior aderenza per le donne. Ma in un punto il vestiario delle donne differisce sostanzialmente da quello degli uomini. Nel vestito della donna c’è un’insistenza chiaramente maggiore su quelle caratteristiche che attestano l’esenzione o l’inidoneità di chi li porta per ogni occupazione volgarmente produttiva. Questa caratteristica dell’abbigliamento femminile è interessante non solo come completamento della teoria degli abiti, ma anche come conferma di ciò che è già stato detto sulla condizione economica delle donne, sia nel passato che nel presente. Come si è già visto nella discussione sulla condizione della donna nei capitoli sull’agiatezza e sul consumo derivati, nel corso dello sviluppo economico la mansione della donna è diventata quella di consumatrice subalterna per conto del capo della casa; e il suo abbigliamento è pensato in vista di questo scopo. Ne è venuto che un lavoro apertamente produttivo è per le donne rispettabili una menomazione particolare, e si devono perciò avere cure speciali nell’ideare gli abiti femminili, per imprimere nell’osservatore il fatto (spesso addirittura una finzione) che chi li indossa non si occupa né può abitualmente occuparsi in un lavoro utile. La decenza esige che le donne rispettabili si astengano con maggior rigore da ogni sforzo utile e che facciano maggior mostra di agiatezza che non gli uomini delle medesime classi sociali. Ci urta tremendamente i nervi lo spettacolo di una nobildonna costretta a guadagnarsi da vivere lavorando. Non è la «sfera della donna». La sfera della donna è dentro la casa; che lei deve «abbellire» e di cui dev’essere il «principale ornamento». Non si parla comunemente del capo maschio della

casa come del suo ornamento. Questa caratteristica, insieme con l’altro fatto che la rispettabilità esige un’attenzione più continua allo sfoggio costoso negli abiti e negli altri ornamenti delle donne, viene ad appoggiare il pensiero già implicito in ciò che s’è detto prima. In grazia della sua derivazione eh. un passato patriarcale, il nostro sistema sociale fa consistere essenzialmente la funzione della donna nel mettere in evidenza la capacità di spendere della sua casa. In armonia con il moderno modello di vita civile, il buon nome della casa alla quale lei appartiene dovrebbe essere cura particolare della donna; e il sistema di spese onorifiche e di vistosa agiatezza con cui questo buon nome è principalmente sostenuto, è perciò la sfera della donna. Nel modello ideale, quale tende a realizzarsi nella vita delle classi finanziariamente superiori, quest’attenzione allo sciupìo vistoso di energie e di sostanze dovrebbe essere normalmente l’unica funzione economica della donna. Nello stadio dello sviluppo economico in cui le donne erano ancora in senso pieno la proprietà degli uomini, l’esibizione di consumo e agiatezza vistosi venne a far parte dei servizi da loro richiesti. Poiché le donne non erano padrone di se stesse, l’evidente agiatezza e dispendiosità da parte loro ridondava alla buona fama del padrone piuttosto che alla loro propria; e perciò quanto più costose e più patentemente disoccupate sono le donne della casa, tanto più utile ed efficace sarà la loro vita ai fini della rispettabilità della casa o del suo capo. Al punto che le donne non soltanto sono state richieste di testimoniare una vita agiata, ma persino di rendersi inette a ogni attività lucrosa. È qui che l’abbigliamento degli uomini riesce inferiore a quello delle donne, e c’è il suo motivo. Lo sciupìo e il consumo vistosi sono stimabili perché segno di potenza finanziaria; la potenza finanziaria è stimabile e onorifica perché, in ultima analisi, denota successo e forza superiore; e quindi la prova di spreco e di agiatezza offerta da un individuo a nome proprio non può concretamente assumere una forma, o esser portata a un punto, tale da denotare inettitudine o scomodità notevole da parte sua; poiché l’esibizione in questo caso mostrerebbe non forza superiore, ma inferiorità, e tradirebbe così il suo scopo. Pertanto, dovunque la spesa superflua e lo sfoggio di astensione dal lavoro sono di regola, o in media, condotti al punto di mostrare un disagio patente o una menomazione fisica volontariamente provocata, là si trae immediatamente la conseguenza che la donna in questione non fa questa spesa superflua né si sobbarca a questa menomazione per un proprio guadagno personale in fatto di reputazione finanziaria, ma per conto di

qualcun altro, con cui ella si trovi in rapporto di dipendenza economica, rapporto che, nella teoria economica, deve ridursi in ultima analisi a un rapporto di servo a padrone. Applichiamo questo concetto generale all’abbigliamento delle donne e poniamo la cosa in termini concreti: il tacco alto, la gonna, il cappellino niente pratico, il busto e la generale indifferenza per il disagio, che è una chiara caratteristica dell’abbigliamento di tutte le donne civili, sono altrettanti segni che nel moderno sistema di vita civile la donna è ancora, in teoria, la dipendente economica dell’uomo — che, forse in un senso altamente idealizzato, ella è ancora il suo oggetto. La semplicissima ragione di tutta questa vistosa agiatezza e questa toeletta da parte delle donne sta nel fatto che esse sono serve alle quali, nella differenziazione delle funzioni economiche, è stato affidato l’incarico di mettere in evidenza la capacità di spendere del loro padrone. C’è una notevole somiglianza sotto questi aspetti fra l’abbigliamento delle donne e quello dei servi domestici, specialmente dei servi in livrea. In entrambi c’è un’esibizione assai studiata di spesa superflua, e in tutt’e due i casi c’è pure una notevole negligenza per il benessere fisico del paziente. Ma l’abbigliamento della signora va più lontano nella sua studiata insistenza sull’oziosità, se non sulla menomazione fisica, di quanto non faccia quello del domestico. E ciò è in carattere; poiché in teoria, secondo il modello ideale della civiltà finanziaria, la signora della casa è la prima serva della famiglia. A parte i servi, comunemente riconosciuti come tali, c’è almeno un’altra categoria di persone il cui arnese li rende simili alla categoria dei servi e mostra molte delle caratteristiche che concorrono a fare la femminilità degli abiti della donna. Questa è la classe sacerdotale. I paramenti sacerdotali mostrano, in forma accentuata, tutte le caratteristiche che ci sono apparse prova di una condizione e di una vita servili. In modo anche più impressionante degli abiti quotidiani del sacerdote, i paramenti propriamente detti sono ornati, grotteschi, malagevoli, e, almeno alla vista, scomodi fino a far star male. Un sacerdote deve astenersi dai lavori lucrosi e, quando sia davanti agli occhi del pubblico, assumere un contegno impassibilmente desolato, proprio al modo di un domestico perfetto. La faccia sbarbata del sacerdote è un altro fattore del medesimo effetto. Questa somiglianza della classe sacerdotale alla classe dei servi personali, quanto alla condotta e all’abbigliamento, è dovuta alla somiglianza delle due classi per quanto riguarda la funzione economica. Nella teoria economica, il sacerdote è un

servo personale, presumibilmente al servizio della persona della divinità di cui porta la livrea. La sua livrea è di carattere assai dispendioso, come dev’essere infatti per mostrare in modo conveniente la dignità del suo gran signore; ma è fatta in modo da far vedere che il portarla contribuisce poco o niente al benessere fisico di chi l’indossa, poiché essa è un articolo di consumo derivato, e la reputazione che viene dal suo uso è da attribuirsi al padrone assente, non al servo. La linea di distinzione fra i vestiti delle donne, dei sacerdoti e dei servi da una parte, e quelli degli uomini dall’altra, non è sempre rigorosamente osservata in pratica, ma di rado si contesterà ch’essa sia sempre presente in modo più o meno definito nelle abitudini mentali del popolo. Ci sono pure naturalmente degli uomini liberi, e non pochi di loro, i quali, nel loro cieco zelo per una toeletta impeccabilmente rispettabile, trasgrediscono la linea teorica fra il vestiario dell’uomo e della donna, fino al punto di acconciarsi in un arnese che è chiaramente destinato a tormentare la mortai spoglia; ognuno però riconosce senza indugio che un tale abbigliamento per uomini è un’infrazione alla regola. Noi siamo soliti dire che un tale vestiario è «effeminato», e si sente talvolta osservare che il tale o il tal altro gentiluomo squisitamente attillato è ben vestito come un lacchè. Alcune evidenti discrepanze entro questa teoria dell’abbigliamento meritano un esame più particolareggiato, specialmente perché rivelano una tendenza, più o meno chiara, della più recente e matura evoluzione degli abiti. La voga del busto offre un’evidente eccezione alla regola di cui è stata qui citata come esempio. Un esame più attento, comunque, mostrerà che questa apparente eccezione è in realtà una verifica della regola, per cui la voga di un dato elemento o tratto del vestiario si fonda sulla sua utilità come segno del livello finanziario. Si sa bene che nelle società industrialmente più progredite il busto è usato solo entro certi strati sociali ben definiti. Le donne delle classi più povere, specialmente della popolazione rurale, abitualmente non lo usano, fuorché come lusso festivo. In queste classi le donne hanno da lavorare duramente, e a loro giova poco in vista di una pretesa di agiatezza tormentarsi così le carni nella vita d’ogni giorno. L’uso domenicale del busto è dovuto all’imitazione del canone di rispettabilità di una classe superiore. Al di sopra di questo basso livello d’indigenza e di lavoro manuale, il busto fino a una generazione o due fa era quasi indispensabile alla posizione socialmente irreprensibile di tutte le donne, incluse le più ricche e le più rispettabili. Questa regola tenne per tutto il tempo in cui non esisteva ancora nessuna

classe numerosa di gente abbastanza ricca da essere al di sopra dell’accusa di dover lavorare e nello stesso tempo abbastanza numerosa per formare un corpo sociale autosufficiente e isolato, la cui massa offrisse un fondamento per particolari regole di condotta, appoggiate dall’opinione corrente nel suo interno. Ma adesso si è sviluppata una classe agiata abbastanza numerosa e in possesso di ricchezze tali che qualunque accusa della necessità di lavorare sarebbe una meschina e innocua calunnia; e il busto è perciò in gran parte caduto in disuso nel seno di questa classe. Le eccezioni a questa regola di esenzione dal busto sono più apparenti che reali. Esse sono le classi ricche dei paesi con una struttura industriale inferiore — prossima al tipo arcaico, quasi-industriale — insieme con le reclute più recenti delle classi ricche nelle società industriali più progredite. Queste ultime non hanno ancora avuto il tempo di liberarsi dai canoni del gusto e della rispettabilità plebei, derivati dalla loro primitiva posizione finanziaria inferiore. Tale sopravvivenza del busto non è infrequente in mezzo alle classi sociali superiori di quelle città americane, per esempio, che si sono arricchite recentemente e rapidamente. Usando il vocabolo come termine tecnico, senza odiosi sottintesi, si può dire che il busto persiste in gran parte durante il periodo in cui si è snob — l’intervallo d’incertezza e transizione da un livello inferiore ai livelli superiori della civiltà finanziaria. Vale a dire, in tutti i paesi che hanno ereditato il busto, esso continua a essere usato dovunque e finché esso serva al suo scopo come segno di agiatezza onorifica, attestando l’inettitudine fisica di chi lo porta. La medesima regola si applica naturalmente ad altre mutilazioni e trovate per menomare le diverse capacità dell’individuo. Qualcosa di simile dovrebbe valere per diversi articoli del consumo vistoso, e difatti qualcosa del genere pare che valga per certe caratteristiche dell’abbigliamento, specialmente se tali caratteristiche implicano una notevole scomodità o un’apparenza di scomodità. Durante i cent’anni passati si può notare una tendenza, specialmente nello sviluppo degli abiti maschili, a smettere sistemi di spesa e uso di simboli di agiatezza artatamente fastidiosi, che possono al loro tempo aver servito a un certo fine, ma la continuazione dei quali in mezzo alle classi superiori sarebbe oggi un’opera supererogatoria; come, per esempio, l’uso delle parrucche incipriate e dei merletti d’oro, e l’uso di radersi sempre. C’è stata negli ultimi anni nella buona società qualche leggera recrudescenza del viso glabro, ma questa è probabilmente un’imitazione passeggera e inconsulta della moda imposta ai domestici, e ci si può tranquillamente attendere ch’essa finisca come le parrucche incipriate dei

nostri nonni. Questi segni, e altri che ad essi somigliano quanto alla schiettezza con cui indicano a tutti gli osservatori l’inutilità abituale di quelle persone che se ne servono, sono stati sostituiti da altri metodi più delicati per esprimere lo stesso fatto; metodi che non sono meno evidenti all’occhio clinico di quel circolo scelto, più ristretto, la cui buona opinione è principalmente ricercata. Il primo e più rozzo sistema di pubblicità si mantenne per tutto il tempo in cui il pubblico a cui l’esibitore doveva fare appello comprese numerosi strati della comunità non educati a notare le lievi differenze nei segni di agio e di ricchezza. Il metodo di pubblicità va soggetto a un raffinamento allorché si è sviluppata una classe ricca abbastanza numerosa che abbia l’agio di diventare abile a interpretare i segni più sottili della spesa. Il vestito «sgargiante» diventa offensivo per la gente di gusto, poiché implica un desiderio «illecito» di raggiungere e impressionare le sensibilità non educate del volgo. Per l’individuo di educazione superiore è soltanto la stima più onorifica accordata dal senso raffinato dei membri della sua propria classe elevata che ha un senso. Dacché la classe agiata ricca è diventata così numerosa, oppure il contatto dell’individuo della classe agiata con i suoi colleghi così ampio da formare un ambiente umano sufficiente allo scopo onorifico, nasce una tendenza a escludere gli elementi inferiori della popolazione dal modello, anche come spettatori di cui l’applauso o il biasimo contino qualcosa. Il risultato di tutto ciò è un raffinamento dei metodi, un ricorso a escogitazioni più sottili, e una spiritualizzazione del sistema del simbolismo in fatto di abiti. E via via che la classe agiata superiore dà il tono in tutte le questioni di onorabilità, il risultato anche per il resto della società è un miglioramento graduale del modello dell’abbigliamento. Man mano che la comunità progredisce in ricchezza e civiltà, la capacità di spendere è messa in evidenza attraverso mezzi che richiedono nell’osservatore una discriminazione sempre più fine. Questa più fine discriminazione fra i mezzi di pubblicità è di fatto essa stessa un elemento assai importante della civiltà finanziaria superiore.

CAPITOLO VIII. L’ESENZIONE INDUSTRIALE E IL CONSERVATORISMO La vita dell’uomo in società, proprio come la vita delle altre specie, è una lotta per l’esistenza e perciò un processo di adattamento selettivo. L’evoluzione della struttura sociale è stata un processo di selezione naturale delle istituzioni. Il progresso che si è fatto e si sta facendo nelle istituzioni umane e nell’umano carattere si può ascrivere sicuramente a una selezione naturale delle abitudini mentali più idonee a un processo di forzato adattamento degli individui a un ambiente che è progressivamente mutato con il crescere della società e con le mutevoli istituzioni sotto cui gli uomini sono vissuti. Le istituzioni non sono soltanto esse stesse il risultato di un processo selettivo e di adattamento che forma i tipi dominanti e prevalenti dell’atteggiamento e delle disposizioni spirituali; esse sono nello stesso tempo metodi speciali di vita e di umani rapporti e sono perciò a loro volta fattori efficienti di selezione. Cosicché le istituzioni mutevoli operano a loro volta per un’ulteriore selezione d’individui dotati del temperamento più idoneo e per un ulteriore adattamento del temperamento e delle abitudini individuali all’ambiente mutevole, attraverso la formazione di istituzioni nuove. Le forze che hanno determinato lo sviluppo della vita umana e della struttura sociale sono senza dubbio essenzialmente riducibili in termini di tessuto vivente e di ambiente materiale; ma per ora, al nostro scopo, queste forze si possono benissimo stabilire nei termini di un ambiente, in parte umano, in parte non umano, e di un soggetto umano con una costituzione fisica e intellettuale più o meno definita. Preso nel complesso o nella media, questo soggetto umano è più o meno variabile; principalmente senza dubbio secondo una regola di conservazione selettiva delle variazioni favorevoli. La selezione di variazioni favorevoli è forse in gran parte una conservazione selettiva di tipi etnici. Nella storia di una comunità, la cui popolazione sia composta di una mistura di diversi elementi etnici, l’uno o l’altro dei diversi tipi di fisico e di temperamento persistenti e relativamente stabili arriva in un dato momento alla supremazia. La situazione, che comprende le istituzioni vigenti in una data epoca, favorirà il sopravvivere e la supremazia di un tipo

di carattere a preferenza di un altro; e il tipo d’uomo così scelto per continuare e ulteriormente elaborare le istituzioni tramandate dal passato plasmerà queste istituzioni in gran parte a propria somiglianza. Ma a parte la selezione fra i tipi di carattere e di abitudini mentali relativamente stabili, avviene senza dubbio simultaneamente, entro la categoria generale delle disposizioni caratteristica del tipo o dei tipi etnici dominanti, un continuo processo di adattamento selettivo delle abitudini mentali. Ci può essere un cambiamento nel carattere fondamentale di una popolazione attraverso la selezione fra tipi relativamente stabili; ma c’è pure un cambiamento dovuto a un adattamento particolare nella categoria del tipo e alla selezione fra le speciali vedute abituali che riguardano una data relazione sociale o un gruppo di relazioni. Per il presente scopo, comunque, il problema della natura del processo di adattamento — se sia principalmente una selezione fra tipi di temperamento e di carattere stabili, o anzitutto un adattamento delle abitudini mentali degli uomini alle circostanze che cambiano — è meno importante del fatto che, attraverso un metodo o l’altro, le istituzioni cambiano e si sviluppano. Le istituzioni devono cambiare con le mutevoli circostanze, poiché esse sono della natura di un metodo abituale per rispondere agli stimoli che queste circostanze mutevoli offrono. Lo sviluppo di queste istituzioni è lo sviluppo della società. Le istituzioni sono in sostanza abitudini mentali che hanno la prevalenza rispetto a particolari relazioni e funzioni dell’individuo e della comunità, e il sistema di vita formato dall’aggregato delle istituzioni in vigore in un’epoca determinata o a un dato punto dello sviluppo in una società può essere dal lato psicologico sicuramente definito come un atteggiamento spirituale o una teoria della vita che hanno la prevalenza. Per quel che riguarda i suoi tratti generici, questo atteggiamento spirituale o teoria della vita si può in ultima analisi ridurre a un tipo prevalente di carattere. La situazione di oggi forma le istituzioni di domani attraverso un processo selettivo e coercitivo, agendo sull’abituale giudizio degli uomini sulle cose, e modificando così oppure fortificando un punto di vista o un atteggiamento mentale tramandato dal passato. Le istituzioni — vale a dire le abitudini mentali — sotto la guida delle quali gli uomini vivono, si ricevono in tal modo da un’epoca più lontana; più o meno remotamente lontana, ma in ogni modo esse sono state elaborate e ricevute dal passato. Le istituzioni sono prodotti del processo passato, sono adatte a circostanze passate, e non sono per questo mai pienamente in armonia con le esigenze del presente. Nella natura del caso, questo processo di adattamento selettivo non può mai tener dietro alla

situazione via via mutevole, in cui la comunità si trova in una data epoca; poiché l’ambiente, la situazione, le esigenze di vita che operano l’adattamento e fanno la selezione cambiano da un giorno all’altro; e ogni successiva situazione della comunità tende a sua volta a cadere in disuso non appena si è stabilita. Quando si è fatto un passo nella evoluzione, questo passo medesimo costituisce un cambiamento della situazione che richiede un nuovo adattamento; esso diventa il punto di partenza per un altro passo nell’adattarsi, e così all’infinito. Va quindi notato, benché possa parere una banale verità, che le istituzioni odierne — il sistema di vita presentemente accettato — non si confanno interamente alla situazione di oggidì. Nello stesso tempo, le attuali abitudini mentali degli uomini tendono a durare indefinitamente, salvo in quanto le circostanze introducono cambiamenti. Queste istituzioni che sono state in tal modo tramandate; queste abitudini mentali, punti di vista, atteggiamenti e disposizioni della mente, o che so io, sono perciò essi stessi un fattore conservatore. Questo è il fattore dell’inerzia sociale, dell’inerzia psicologica, del conservatorismo. La struttura sociale cambia, si sviluppa, si adatta a una mutata situazione soltanto attraverso un cambiamento nelle abitudini mentali delle varie classi della società; in ultima analisi, attraverso un cambiamento nelle abitudini mentali degli individui che compongono la comunità. L’evoluzione della società è sostanzialmente un processo di adattamento mentale da parte degli individui sotto l’influenza di circostanze che non possono più a lungo sopportare abitudini mentali formate sotto e secondo un diverso sistema di circostanze del passato. Per lo scopo immediato non è necessariamente un problema di molta importanza se questo processo di adattamento sia un processo di selezione e sopravvivenza di persistenti tipi etnici o un processo di adattamento individuale e un’eredità di tratti acquisiti. Il progresso sociale, specialmente se considerato dal punto di vista della teoria economica, consiste in un continuato, progressivo accostamento a un «equilibrio di relazioni interiori con relazioni esterne» approssimativamente esatto; questo equilibrio però non è mai definitivamente stabilito; poiché le «relazioni esterne» sono soggette a un cambiamento continuo come conseguenza del progressivo cambiamento in atto «nelle relazioni interne». Ma il grado di approssimazione può essere più o meno grande, poiché dipende dalla facilità con cui un equilibrio è raggiunto. Un riequilibrio delle abitudini mentali degli uomini per conformarsi alle esigenze di una mutata situazione si

fa in ogni caso tardivamente e con riluttanza, e soltanto sotto l’imposizione esercitata da una situazione che abbia reso impossibile i modi di vedere accreditati. Il riequilibrio delle istituzioni e dei modi di vedere abituali con un ambiente mutato è fatto in rispondenza a una pressione dall’esterno; è della natura di una rispondenza a uno stimolo. La libertà e la facilità di riequilibrio, vale a dire la capacità di sviluppo della struttura sociale, dipendono perciò in gran parte dal grado di libertà con cui la situazione in una data epoca agisce sui membri individuali della comunità — dal grado di esposizione dei membri individuali alla forza costrittiva dell’ambiente. Se una parte o una classe della società è per qualche aspetto essenziale al riparo dall’azione dell’ambiente, questa parte della comunità, o questa classe, adatterà con maggior ritardo i suoi modi di vedere e il suo sistema di vita alla mutata situazione generale; tenderà in questo modo a ritardare il processo della trasformazione sociale. La classe agiata ricca è, rispetto alle forze economiche che operano per il cambiamento e il riequilibrio, in una siffatta posizione protetta. E si può dire che le forze le quali operano per un riequilibrio delle istituzioni, specialmente nel caso di una società industriale moderna, in ultima analisi sono quasi interamente di natura economica. Una società può essere considerata come un meccanismo industriale o economico, la struttura del quale è formata da quelle che si chiamano le sue istituzioni economiche. Queste istituzioni sono sistemi abituali per condurre innanzi il processo vitale della comunità, a contatto con l’ambiente materiale in cui essa vive. Allorché determinati metodi di sviluppare l’attività umana in questo dato ambiente sono stati in tal modo elaborati, la vita della comunità si esprime con una certa facilità in queste direzioni abituali. La comunità farà uso delle forze dell’ambiente per gli scopi della sua vita, secondo metodi imparati nel passato e incorporati in queste istituzioni. Man mano però che la popolazione cresce, e man mano che aumentano il sapere e la perizia degli uomini nel dirigere le forze della natura, gli abituali metodi di rapporto fra i membri del gruppo e il sistema abituale di condurre innanzi il processo vitale del gruppo come un tutto non dànno più il medesimo risultato di prima; né le condizioni di vita che ne derivano sono distribuite e proporzionate fra i vari membri nello stesso modo o con il medesimo effetto. Se il modello secondo il quale il processo vitale del gruppo veniva condotto nelle condizioni primitive dava approssimativamente il più alto risultato raggiungibile — date le circostanze — in fatto di efficienza o di facilità di questo processo vitale, allora il medesimo modello di vita immutato non darà il più alto risultato

raggiungibile a questo riguardo sotto le condizioni mutate. Nelle mutate condizioni di popolazione, abilità e sapere, i vantaggi della vita com’è vissuta secondo il modello tradizionale non possono essere inferiori a quelli delle condizioni primitive; ma c’è sempre la possibilità che siano minori di quello che potrebbero essere se il modello fosse mutato per accordarsi alle mutate condizioni. Il gruppo è formato d’individui, e la vita del gruppo è la vita degli individui vissuta con una diversità almeno apparente. Il modello di vita accettato del gruppo è il consenso di vedute da parte del complesso di questi individui riguardo a quel che è giusto, buono, vantaggioso, e bello nei confronti della vita umana. Nella redistribuzione delle condizioni di vita prodotta dal mutato modo di trattare con l’ambiente, il risultato non è un equo cambiamento nelle comodità della vita in tutto il gruppo. Le mutate condizioni possono accrescere le comodità di vita per il gruppo come un tutto, ma la redistribuzione avrà generalmente come risultato una diminuzione delle comodità o della pienezza di vita per alcuni membri del gruppo. Un progresso quanto ai metodi tecnici, alla popolazione e all’organizzazione industriale richiederà che almeno alcuni dei membri della comunità cambino le loro abitudini di vita, se debbono dedicarsi con facilità e risultato ai mutati sistemi industriali, e così facendo essi saranno incapaci di vivere secondo le nozioni ricevute riguardo a quelle che sono le abitudini belle e giuste. Chiunque sia richiesto di cambiare le sue abitudini di vita e le sue relazioni abituali con i colleghi sentirà la discrepanza fra il metodo di vita a lui richiesto dalle nuove esigenze e il sistema di vita tradizionale, al quale è avvezzo. Sono gli individui posti in questa posizione che sentono il più vivo incentivo a rifare il modello ricevuto e sono più facilmente disposti ad accettare nuovi criteri; ed è attraverso il bisogno dei mezzi per vivere che gli uomini vengono posti in una tale posizione. La pressione esercitata dall’ambiente sul gruppo, e operante per un riequilibrio del sistema di vita del gruppo, influisce sui membri sotto forma di esigenze finanziarie; e si deve a questo fatto — che le forze esterne sono in gran parte tradotte in forma di esigenze finanziarie od economiche — si deve a questo fatto se noi possiamo dire che le forze che contano per un riequilibrio delle istituzioni in una società industriale moderna sono soprattutto forze economiche; o, meglio specificando, ch’esse assumono la forma di una pressione finanziaria. Un tale riequilibrio qual è qui considerato è sostanzialmente un cambiamento dei modi di vedere degli uomini riguardo a ciò che è buono e giusto, e il mezzo

attraverso cui nell’opinione degli uomini si opera un cambiamento su ciò che è buono e giusto è in gran parte la pressione delle esigenze finanziarie. Un cambiamento nei modi di vedere degli uomini riguardo a ciò che è buono e giusto nella vita umana avviene nel migliore dei casi molto adagio. Ciò vale specialmente per ogni mutamento nella direzione di quello che si chiama progresso; cioè, nella direzione divergente dalla posizione arcaica — dalla posizione che a ogni stadio dell’evoluzione sociale si può considerare il punto di partenza. La retrocessione, il riaccostarsi a un punto di vista cui la razza sia stata a lungo avvezza in passato, è più facile. Ciò vale specialmente nel caso in cui l’allontanamento da questo punto del passato non sia stato dovuto principalmente alla sostituzione di un tipo etnico il cui temperamento fosse estraneo al punto di vista primitivo. Lo stadio culturale immediatamente precedente al nostro nella storia della civiltà occidentale è quello che abbiamo chiamato lo stadio quasi pacifico. In questo stadio quasi pacifico la legge della casta è la nota dominante nel modello di vita. Non c’è nessun bisogno di sottolineare come gli uomini d’oggi siano propensi a ritornare all’atteggiamento spirituale di padronanza e di sottomissione personale che caratterizza quello stadio. Si può dire piuttosto ch’esso è tenuto in relativo disuso dalle esigenze economiche odierne, più che non sia stato definitivamente sostituito da un’abitudine mentale che vada pienamente d’accordo con queste esigenze sviluppatesi più tardi. Sembra che gli stadi predatorio e quasi pacifico dell’evoluzione economica siano stati di lunga durata nella storia di tutti i principali elementi etnici che concorrono a formare le popolazioni della civiltà occidentale. Il temperamento e le tendenze proprie a quegli stadi culturali hanno perciò raggiunto una tale persistenza da rendere un rapido ritorno alle autentiche caratteristiche della corrispondente costituzione psicologica inevitabile nel caso di una classe o comunità che vada immune dall’azione di quelle forze che operano per il mantenimento delle abitudini mentali sviluppatesi più tardi. È cosa comunemente nota che quando individui, o anche gruppi notevoli di uomini, vengano segregati da una civiltà industriale superiore ed esposti a un ambiente culturale meno avanzato o a una situazione economica di carattere più primitivo, dànno presto segni di regressione verso i tratti spirituali che caratterizzano il tipo predatorio; e sembra probabile che il tipo dell’europeo dolico-biondo abbia una maggior facilità per tale regressione alla barbarie che non gli altri elementi etnici con cui questo tipo è associato nella civiltà occidentale. Esempi di una tale regressione su scala ristretta abbondano

nella storia recente dell’emigrazione e della colonizzazione. Se non fosse il timore di offendere quel patriottismo sciovinistico che è un tratto così caratteristico della civiltà predatoria e la presenza del quale è spesso il segno più impressionante di regressione nelle società moderne, il caso delle colonie americane potrebbe citarsi come esempio di tale regressione su scala straordinariamente vasta, benché questa regressione non sia andata molto a fondo. La classe agiata è in gran parte al riparo dall’influenza di quelle esigenze economiche che prevalgono in ogni moderna società industriale altamente organizzata. Le esigenze della lotta per i mezzi di sussistenza sono meno pressanti per questa classe che per qualsiasi altra; e come conseguenza di questa posizione privilegiata, noi dobbiamo aspettarci di trovarla una delle classi sociali meno aperte alle esigenze che la situazione pone di un ulteriore sviluppo di istituzioni e di un riequilibrio a una situazione industriale mutata. La classe agiata è la classe conservatrice. Le esigenze della generale situazione economica non incidono liberamente o direttamente sui membri di questa classe. Ad essi non si richiede, pena la rovina, di cambiare le loro abitudini di vita e i loro modi di vedere teorici secondo le esigenze di una mutata tecnica industriale, poiché essi non sono in senso pieno una parte organica della società industriale. Per questo tali esigenze, nei membri di questa classe, non creano prontamente quel grado di disagio verso l’ordine esistente, che solo può condurre qualunque gruppo di uomini ad abbandonare i suoi modi di vedere e le sue maniere di vita divenute abituali. L’ufficio della classe agiata nell’evoluzione sociale è di rallentare il movimento e di conservare ciò che è fuori moda. Questa proposizione non è per niente nuova; essa è da tempo uno dei luoghi comuni dell’opinione popolare. La generale convinzione che la classe ricca sia per natura conservatrice è stata accolta dalla gente senza lo speciale appoggio di un punto di vista teorico su ciò che concerne il posto e la relazione di quella classe nella evoluzione culturale. Quando si offre una spiegazione di questo conservatorismo di classe, generalmente si ricorre all’accusa che la classe ricca combatte l’innovazione perché ha un interesse costituito, inconfessabile, nel mantenere le condizioni attuali. La spiegazione da noi data non attribuisce nessun motivo inconfessabile. L’opposizione della classe a ogni cambiamento nel modello culturale è istintiva, e non si fonda essenzialmente su un calcolo interessato di vantaggi materiali; è una ripugnanza istintiva a ogni deviazione dal modo accettato di fare e giudicare le cose — una ripugnanza comune a tutti gli

uomini e che si vince soltanto sotto la pressione delle circostanze. Ogni cambiamento delle abitudini di vita e di pensiero ci è fastidioso. La differenza a questo riguardo fra la parte ricca e quella comune del genere umano si trova non tanto nel motivo che porta al conservatorismo quanto nel grado di esposizione alle forze economiche che premono per un cambiamento. I membri della classe ricca non cedono all’esigenza di novità tanto presto quanto gli altri, perché essi non sono costretti a farlo. Questo conservatorismo della classe ricca è un tratto così ovvio che si è persino arrivati a considerarlo segno di rispettabilità. Siccome il conservatorismo è una caratteristica della parte della comunità più ricca e perciò più rispettabile, ha acquistato un certo valore onorifico o decorativo. È diventato prescrittivo al punto che l’adesione ai punti di vista conservatori è compresa come cosa naturale nelle nostre nozioni della rispettabilità; ed incombe come un obbligo su chiunque intenda condurre una vita irreprensibile in fatto di reputazione sociale. Il conservatorismo, essendo una caratteristica della classe superiore, è decoroso; e al contrario, l’innovazione, essendo un fenomeno della classe inferiore, è volgare. Il primo e meno riflesso elemento di quella ripugnanza e disapprovazione istintiva, con cui noi respingiamo tutti gli innovatori sociali, è questo senso dell’essenziale volgarità della cosa. Cosicché perfino nei casi in cui si riconoscono i meriti sostanziali della causa per cui l’innovatore combatte — come può facilmente accadere se i mali cui egli cerca di rimediare sono abbastanza remoti quanto al tempo e allo spazio o al contatto personale — anche allora non si può non essere sensibili al fatto che l’innovatore è una persona con cui è per lo meno disgustoso venire associati, e dal cui contatto sociale ci si deve guardare. L’innovazione è cattiva forma. Il fatto che usanze, azioni e modi di vedere della classe agiata benestante acquistino il carattere di un canone di condotta obbligatorio per il resto della società aggiunge importanza e ampiezza all’influenza conservatrice di quella classe. Esso rende doveroso per tutte le persone rispettabili di seguirne la guida. Di modo che, grazie alla sua alta posizione quale incarnazione della buona forma, la classe più ricca viene a esercitare sulla evoluzione sociale un’influenza ritardatrice molto più profonda di quella che la semplice forza numerica della classe le consentirebbe. Il suo esempio prescrittivo concorre a irrigidire assai la resistenza di tutte le altre classi contro ogni innovazione, e a fissare le simpatie umane sulle buone istituzioni tramandate da una generazione passata.

C’è un secondo modo in cui l’influenza della classe agiata agisce nella medesima direzione, per quanto concerne l’impedimento all’adozione di un modello convenzionale di vita più in armonia con le esigenze del tempo. Questo secondo metodo di guida della classe non va di rigore messo nella medesima categoria dell’istintivo conservatorismo e avversione a nuovi modi di pensare di cui si è parlato; ma se ne può tuttavia trattar qui, poiché ha almeno questo di comune con l’abito mentale conservatore, ch’esso concorre a ritardare l’innovazione e lo sviluppo della struttura sociale. Il codice delle convenienze, convenzioni e usanze in voga in una data epoca e fra un dato popolo ha più o meno il carattere di un tutto organico; cosicché un notevole cambiamento in un punto qualsiasi del sistema implica un cambiamento o riequilibrio anche in altri punti, se non una riorganizzazione su tutta la linea. Quando si operi un cambiamento che tocca immediatamente soltanto una piccola parte del modello, il conseguente sconcerto nella struttura delle convenzioni può essere trascurabile; ma pure in tal caso si può con certezza affermare che qualche sconcerto del modello generale, più o meno profondo, ne seguirà. D’altra parte, quando una tentata riforma implica la soppressione o il totale rifacimento di un’istituzione di primaria importanza nel modello convenzionale, si sente subito che ne deriverebbe uno sconcerto grave di tutto il sistema; si sente che un riequilibrio della struttura secondo la nuova forma assunta da uno dei suoi elementi principali sarebbe un fastidioso e doloroso, se non addirittura discutibile, processo. Per rendersi conto delle difficoltà che un tale radicale cambiamento in qualsiasi aspetto del sistema di vita convenzionale implicherebbe,, basta suggerire la soppressione della famiglia monogamica, o del sistema agnatizio della consanguineità, o della proprietà privata o della fede in Dio, in qualunque paese della civiltà occidentale; oppure supporre la soppressione del culto degli antenati in Cina o del sistema delle caste in India o della schiavitù in Africa, o l’equiparazione dei sessi nei paesi maomettani. Non c’è bisogno di nessuna prova per mostrare che in ognuno di questi casi lo sconcerto nella struttura generale delle convenzioni sarebbe notevolissimo. Per mandare a effetto una simile innovazione occorrerebbe un mutamento assai vasto delle abitudini mentali degli uomini anche in punti diversi da quello immediatamente in questione. L’avversione a un’innovazione del genere si riduce al rifiuto d’un modello di vita essenzialmente estraneo. La ripugnanza sentita dalla gente per bene a ogni proposta di allontanarsi dai metodi di vita accettati è un fatto comune di esperienza quotidiana. Non è

infrequente sentire quelle persone che dispensano ammonizioni e consigli salutari alla comunità, esprimersi energicamente sugli incalcolabili effetti perniciosi di cui la comunità soffrirebbe da cambiamenti così relativamente insignificanti come l’abbandono della Chiesa anglicana a se stessa, un’accresciuta facilità di divorziare, l’adozione del voto femminile, la proibizione della preparazione e della vendita delle bevande eccitanti, l’abolizione o la restrizione del diritto di eredità, ecc. Ognuna di queste innovazioni, ci si dice, «scuoterebbe la struttura sociale alla base», «ridurrebbe la società a un caos», «sovvertirebbe i fondamenti della morale», «renderebbe la vita impossibile», «rovinerebbe l’ordine della natura», ecc. Questi vari modi di dire sono senza dubbio iperbolici; ma nello stesso tempo, come ogni esagerazione, sono indice di un senso vivo della gravità delle conseguenze che essi intendono descrivere. Si sente che l’effetto di queste e simili innovazioni nello sconvolgere il modello di vita accettato appare assai più grave che il semplice mutamento di una voce isolata nella serie delle sistemazioni collettive. Ciò che vale così ovviamente per le innovazioni di primaria importanza, vale in grado minore per i cambiamenti di una minore importanza immediata. L’avversione per il cambiamento è in gran parte avversione per il disturbo di fare il riequilibrio che ogni cambiamento rende necessario; e questa solidarietà del sistema delle istituzioni di una data civiltà o di un dato popolo fortifica la resistenza istintiva a ogni mutamento nelle abitudini mentali degli uomini, persino in cose che, prese a sé, sono di minore importanza. Una conseguenza di questa accresciuta riluttanza, dovuta alla solidarietà delle istituzioni umane, è che ogni innovazione richiede per l’indispensabile riequilibrio un dispendio d’energia nervosa maggiore di quello che sarebbe altrimenti il caso. Non è soltanto che un cambiamento delle abitudini mentali stabilite riesca disgustoso. Il processo di riequilibrio della teoria della vita accettata implica un grado di sforzo mentale — uno sforzo più o meno protratto e laborioso per trovare e mantenere la propria condotta nelle mutate circostanze. Questo processo richiede un certo dispendio d’energia e presuppone così, per la sua riuscita, un certo soprappiù d’energia oltre a quella assorbita nella lotta quotidiana per la sussistenza. Ne consegue che il progresso è ostacolato dalla denutrizione e dall’eccessivo disagio fisico non meno efficacemente che da una vita così comoda da escludere la scontentezza togliendole ogni occasione. I miserabili, tutte quelle persone le cui energie sono interamente assorbite dalla lotta per il sostentamento quotidiano, sono

conservatori perché non possono fare lo sforzo di pensare al posdomani; così come i ricchissimi sono conservatori perché hanno poche occasioni d’essere disgustati della situazione odierna. Da questa proposizione deriva che l’istituzione di una classe agiata concorre a rendere conservatrici le classi inferiori, togliendo loro fin dove è possibile i mezzi di sussistenza e riducendo così il loro consumo, e conseguentemente la loro energia utile, a un punto tale da renderle incapaci dello sforzo richiesto per apprendere e adottare nuove abitudini mentali. L’accumulo della ricchezza alla sommità della scala finanziaria implica una privazione al gradino più basso. È un luogo comune che, dovunque si verifichi, un grado notevole di privazione negli strati popolari è un serio ostacolo a ogni innovazione. Questo diretto effetto inibitorio dell’ineguale distribuzione della ricchezza è favorito da un effetto indiretto che tende al medesimo risultato. Come si è già visto, l’esempio obbligatorio dato dalla classe superiore fissando i canoni della rispettabilità incoraggia la pratica del consumo vistoso. La prevalenza del consumo vistoso come uno dei principali elementi del criterio di rispettabilità in tutte le classi non si può naturalmente farla risalire soltanto all’esempio della classe agiata ricca, ma questa senza dubbio ne incoraggia l’uso e la richiesta. Le esigenze della convenienza a questo proposito sono molto notevoli e imperative; cosicché persino in mezzo a classi la cui posizione finanziaria è abbastanza forte per ammettere un consumo di beni notevolmente superiore al minimo di sussistenza, il soprappiù rimasto dopo che sono stati appagati i bisogni fisici più impellenti è destinato non di rado allo scopo di una vistosa rispettabilità, piuttosto che ad accrescere il benessere e la pienezza di vita fisici. Inoltre, anche il soprappiù disponibile d’energia tende a venire speso nell’acquisto di beni per il consumo o l’accumulo vistoso. Il risultato è che le esigenze della rispettabilità finanziaria tendono 1) a non lasciare che un esiguo minimo di sussistenza utile a un consumo che non sia vistoso e 2) ad assorbire ogni soprappiù d’energia che si renda disponibile dopo che si è provveduto alle mere necessità fisiche della vita. Il corollario del tutto è un rafforzamento della generale attitudine conservatrice della comunità. L’istituzione di una classe agiata ostacola l’evoluzione culturale immediatamente 1) mediante l’inerzia propria alla classe stessa, 2) attraverso i suoi esempi prescrittivi di sciupìo vistoso e di conservatorismo e 3) indirettamente attraverso quel sistema di diseguale distribuzione della ricchezza e del sostentamento su di cui l’istituzione medesima si fonda.

A ciò si deve aggiungere che la classe agiata ha pure un interesse materiale a lasciare le cose come sono. Nelle circostanze prevalenti in una data epoca questa classe è in una posizione privilegiata e ha da temere che ogni discostarsi dall’ordine esistente operi a detrimento suo, piuttosto che il contrario. L’atteggiamento della classe, in quanto semplicemente influenzata dal suo interesse, è perciò di lasciare che le cose discrete se ne stiano come sono. Questo motivo interessato interviene a completare la forte tendenza istintiva della classe e a renderla in tal modo anche più consistentemente conservatrice di quanto sarebbe altrimenti. Tutto ciò, naturalmente, non vuol essere né un elogio né una condanna dell’ufficio della classe agiata quale esponente e veicolo del conservatorismo o della regressione nella struttura sociale. L’inibizione da essa esercitata può essere salutare o no. Se sia l’uno o l’altro in un caso determinato, è piuttosto una questione di casistica che di teoria generale. Ci può esser del vero nel parere (da un punto di vista politico) così sovente espresso dai difensori dell’elemento conservatore, che senza una sostanziale e consistente resistenza all’innovazione, quale le classi conservatrici benestanti esercitano, le innovazioni e gli esperimenti sociali precipiterebbero la comunità in situazioni insopportabili e impossibili, l’unico risultato delle quali sarebbe lo scontento e una disastrosa reazione. Tutto ciò, comunque, è fuori dal presente discorso. Ma a parte ogni condanna, e a parte il problema se un ostacolo del genere contro le innovazioni scervellate sia veramente indispensabile, è nella natura delle cose che la classe agiata concorra in modo conseguente a ritardare quel riequilibrio dell’ambiente che si chiama progresso o sviluppo sociale. L’atteggiamento caratteristico della classe si può sintetizzare nella massima «Tutto ciò che è, è bene»; laddove la legge della selezione naturale, applicata alle istituzioni umane, dà l’assioma «Tutto ciò che è, è male». Non che le istituzioni di oggi siano del tutto sbagliate rispetto agli scopi della vita odierna, ma esse, sempre e nella natura delle cose, sono sbagliate in parte. Esse sono il risultato di un equilibrio più o meno inadeguato dei metodi di vita con una situazione che ebbe la prevalenza in qualche momento dello sviluppo passato; e sono perciò sbagliate per qualcosa di più che non l’intervallo che separa la situazione presente da quella del passato. «Bene» e «male» sono naturalmente usati qui senza implicare nessuna riflessione su ciò che dovrebbe o non dovrebbe essere. Essi sono applicati semplicemente dal punto di vista (moralmente neutro) dell’evoluzione, e stanno a indicare compatibilità o incompatibilità con l’effettivo processo evoluzionistico. L’istituzione di una

classe agiata, per via dell’interesse e dell’istinto di classe e dell’insegnamento e dell’esempio prescrittivo, opera per la perpetuazione dell’esistente squilibrio delle istituzioni e favorisce persino la regressione a un sistema di vita un po’ più arcaico; un sistema che sarebbe ancora più lontano dall’equilibrio con le esigenze della vita nella situazione attuale che non l’invecchiato modello accreditato trasmessoci dal vicino passato. Ma dopo tutto ciò che si è detto a proposito della conservazione delle care usanze antiche, resta vero che le istituzioni cambiano e si sviluppano. C’è uno sviluppo cumulativo di usanze e di abitudini mentali; un adattamento selettivo delle convenzioni e dei metodi di vita. Qualcosa si potrebbe dire sulla funzione di guida, oltre che di remora, esercitata dalla classe agiata su questo sviluppo; qui però poco si può dire del suo rapporto con lo sviluppo istituzionale, salvo per quanto riguarda le istituzioni che sono in primo luogo e immediatamente di natura economica. Queste istituzioni — la struttura economica — possono essere grosso modo distinte in due classi o categorie, secondo che servano all’uno o all’altro dei due scopi divergenti della vita economica. Per usare la terminologia classica, sono istituzioni di acquisto o di produzione; o per tornare ai termini già usati in un caso diverso nei capitoli precedenti, esse sono istituzioni finanziarie o industriali; o in altri termini ancora, sono istituzioni che servono all’interesse economico antagonistico o non antagonistico. La prima categoria ha a che fare con il «commercio», la seconda con l’industria, prendendo quest’ultima parola nel senso meccanico. Quelle della seconda categoria non sono sovente riconosciute come istituzioni, in gran parte perché esse non riguardano immediatamente la classe dirigente e per questo sono raramente soggetto di legislazione e di una convenzione deliberata. Quando si presta loro attenzione, esse sono comunemente avvicinate dal lato finanziario o commerciale; questo essendo il lato o la fase della vita economica che occupa in modo speciale le deliberazioni degli uomini del nostro tempo, particolarmente le deliberazioni degli uomini delle classi superiori. Queste classi hanno ben poco d’altro che un interesse commerciale nelle cose economiche, e nello stesso tempo tocca specialmente a loro prendere decisioni sugli affari della comunità. La relazione della classe agiata (cioè proprietaria non industriale) con il processo economico è una relazione finanziaria — una relazione di acquisizione, non di produzione; di sfruttamento, non di utilità. Indirettamente il loro ufficio economico può essere, si capisce, della più alta importanza per il processo economico della vita; e qui non si vuole per niente

deprezzare la funzione economica della classe proprietaria o dei capitani d’industria. Si vuole semplicemente sottolineare qual è la natura della relazione di queste classi con il processo industriale e le istituzioni economiche. Il loro ufficio è di carattere parassitario, e il loro interesse è di rivolgere a proprio uso e consumo tutta la sostanza che possono e conservare quanto han già sotto mano. Le convenzioni del mondo commerciale si sono sviluppate sotto la guida selettiva di questo principio di rapina o parassitismo. Sono convenzioni della proprietà; derivazioni, più o meno remote, dell’antica civiltà di rapina. Ma queste istituzioni finanziarie non sono totalmente adatte alla situazione odierna, poiché si sono sviluppate in una situazione passata alquanto diversa dalla presente. Perciò neppure quanto a efficacia dal punto di vista finanziario esse riescono utili come potrebbero. La mutata vita industriale richiede mutati metodi di acquisizione; e le classi finanziarie hanno qualche interesse a sistemare le istituzioni finanziarie in modo tale da dar loro la migliore efficienza per l’acquisizione di un profitto privato che sia compatibile con la continuazione del processo industriale da cui questo profitto scaturisce. Per questo c’è una tendenza più o meno consistente a che la classe agiata diriga lo sviluppo istituzionale, in risposta ai fini finanziari che informano la vita economica di questa classe. L’effetto dell’interesse e dell’abito mentale finanziari sullo sviluppo delle istituzioni si vede in quei decreti e in quelle convenzioni che operano per la sicurezza della proprietà, l’obbligatorietà dei contratti, la facilità delle operazioni finanziarie, gli interessi consolidati. Di tal sorta sono i cambiamenti riguardanti la bancarotta e la curatela, la responsabilità limitata, le operazioni di banca e la circolazione, le leghe di lavoratori o di impiegati, i trust e i monopoli. Questo genere di attrezzatura istituzionale è d’immediata conseguenza soltanto per le classi possidenti, e proporzionatamente alla loro proprietà; vale a dire nella misura in cui esse appartengono alla classe agiata. Indirettamente però queste convenzioni della vita commerciale sono della più grave portata per il processo industriale e per la vita della comunità. E per questo, nei dirigere lo sviluppo istituzionale sotto questo aspetto, le classi finanziarie servono uno scopo della più alta importanza per la comunità, non soltanto conservando il sistema sociale accettato, ma anche foggiando il processo industriale vero e proprio. Il fine immediato di questa struttura finanziaria istituzionale e del suo miglioramento è la maggior facilità di pacifico e metodico sfruttamento; ma i suoi effetti più lontani vanno ben oltre quest’obiettivo immediato. Non

soltanto la maggior facilità di condurre il commercio permette che l’industria, e la vita extraindustriale, continuino con minori turbamenti; ma la risultante eliminazione dei disturbi e delle complicazioni che richiedono l’esercizio di una sottile discriminazione negli affari quotidiani concorre a rendere superflua la classe finanziaria stessa. Non appena le operazioni finanziarie si riducono a una routine, il capitano d’industria cessa d’essere necessario. Quest’epilogo, non c’è bisogno di dirlo, è ancora nell’indefinito futuro. I miglioramenti operati a favore dell’interesse finanziario nelle istituzioni moderne tendono, in un altro campo, a sostituire la società anonima «priva d’anima» al capitano d’industria e così essi concorrono anche a dispensare la classe agiata dalla grande funzione della proprietà. Indirettamente, perciò, la tendenza impressa allo sviluppo delle istituzioni economiche dall’influenza della classe agiata è di grandissimo momento per l’industria.

CAPITOLO IX. LA CONSERVAZIONE DELLE CARATTERISTICHE ARCAICHE L’istituzione di una classe agiata ha effetto non soltanto sulla struttura sociale ma anche sul carattere individuale dei membri di una società. Non appena una data tendenza o un dato punto di viste è riuscito a farsi accettare come criterio o norma di vita obbligatoria, reagirà sul carattere dei membri della società che l’ha accettato come norma. Esso formerà in parte le loro abitudini mentali ed eserciterà una sorveglianza selettiva sullo sviluppo delle attitudini e delle inclinazioni. Questo effetto è operato in parte da un adattamento coercitivo, frutto di educazione, delle abitudini di tutti gli individui, in parte da un’eliminazione selettiva degli individui e dei filoni di sviluppo inadatti. Quel materiale umano che non si presta ai metodi di vita, imposti dal modello accettato, viene represso o addirittura eliminato. I princìpi dell’emulazione finanziaria e dell’esenzione industriale sono stati in tal modo trasformati in canoni di vita, e sono diventati fattori coercitivi di una certa importanza nella situazione a cui gli uomini devono adattarsi. Questi due larghi princìpi dello sciupìo vistoso e dell’esenzione industriale influiscono sull’evoluzione culturale dirigendo le abitudini mentali degli uomini, controllando così lo sviluppo delle istituzioni, mantenendo selettivamente nel modello della classe agiata alcuni tratti della natura umana che contribuiscono a facilitare la vita, e controllando in tal modo il carattere effettivo della comunità. La tendenza immediata dell’istituzione di una classe agiata nel formare il carattere umano si esercita nel senso di una sopravvivenza e regressione spirituale. Il suo effetto sul carattere di una comunità è della natura di un arrestato sviluppo spirituale. Specialmente nella civiltà più tarda, l’istituzione ha nel complesso una tendenza conservatrice. Questa proposizione è sufficientemente familiare nella sostanza, ma può a molti sembrare una novità nella sua presente applicazione. Per questo una rassegna sommaria dei suoi fondamenti logici non sarà fuori luogo; pur correndo il rischio di qualche noiosa ripetizione e di esprimere luoghi comuni. L’evoluzione sociale è un processo di adattamento selettivo del temperamento e delle abitudini mentali sotto l’influenza delle circostanze

della vita associata. L’adattamento delle abitudini mentali è lo sviluppo delle istituzioni. Ma insieme con lo sviluppo delle istituzioni è venuto un cambiamento di carattere più sostanziale. Non soltanto le abitudini degli uomini sono cambiate con le mutevoli esigenze della situazione, ma queste esigenze hanno pure portato un cambiamento correlativo nella natura umana. Il materiale umano della società stessa cambia con le mutate condizioni di vita. I più recenti etnologi ritengono che questa variazione della natura umana sia un processo di selezione fra alcuni tipi o elementi etnici relativamente stabili e persistenti. Gli uomini tendono a regredire o uniformarsi, più o meno strettamente, a un tipo o all’altro della natura umana che nelle loro caratteristiche principali sia stato fissato in conformità approssimativa a una situazione del passato, diversa dalla situazione odierna. Ci sono nelle popolazioni della civiltà occidentale parecchi di questi tipi etnici relativamente stabili. Questi tipi etnici sopravvivono oggi nel retaggio della razza, non come forme rigide e invariabili, ognuna di un singolo modello preciso e specifico, ma sotto forma ci un numero maggiore o minore di varianti. Qualche variazione dei tipi etnici è scaturita dal protratto processo selettivo, al quale i diversi tipi e i loro ibridi sono stati sottoposti durante lo sviluppo storico e preistorico della civiltà. Questa variazione necessaria dei tipi stessi, dovuta a un processo selettivo di considerevole durata e di tendenza consistente, non è stata abbastanza rilevata dagli scrittori che hanno discusso della sopravvivenza etnica. Qui c’interessano le due principali varianti divergenti della natura umana, derivate da quest’adattamento selettivo, relativamente recente, dei tipi etnici compresi nella civiltà occidentale; il punto interessante essendo il probabile effetto della situazione odierna nel promuovere una variazione secondo l’una o l’altra di queste due linee. La posizione etnologica si può compendiare brevemente; e per omettere ogni particolare eccetto i più indispensabili, la lista dei tipi e delle varianti e il modello della reversione e della sopravvivenza sono qui presentati con una semplicità e schematicità diagrammatiche che non sarebbero ammissibili per nessun altro scopo. L’uomo delle nostre società industriali tende a uniformarsi all’uno o all’altro di tre tipi etnici principali: il dolicocefalo-biondo, il brachicefalo-bruno e il mediterraneo (trascuriamo gli elementi della nostra civiltà minori e marginali). Ma nel seno di ognuno di questi tipi etnici principali la reversione tende all’una o all’altra di almeno due principali direzioni di variazioni; la variante pacifica o pre-predatoria e la variante

predatoria. La prima di queste due varianti caratteristiche è più prossima al tipo generico in ogni caso, essendo la rappresentante reversionale del tipo, quale questo fu nello stadio più primitivo di vita associata di cui restino tracce probanti, sia archeologiche che psicologiche. Si ritiene che questa variante rappresenti gli antenati dell’attuale uomo civile, nella fase di vita pacifica e selvaggia che precedette la civiltà di rapina, il regime di casta e lo sviluppo dell’emulazione finanziaria. La seconda variante, quella predatoria, appare la sopravvivenza di una più recente modificazione dei tipi etnici principali e dei loro ibridi; di questi tipi, secondo che furono modificati, principalmente mediante un adattamento selettivo, sotto la disciplina condizionante della civiltà predatoria e della più recente civiltà emulativa dello stadio quasi pacifico o civiltà finanziaria vera e propria. Nelle leggi riconosciute dell’ereditarietà può darsi una sopravvivenza da una fase passata più o meno remota. Nel caso ordinario, medio e normale, se il tipo è cambiato, i tratti del tipo vengono trasmessi più o meno com’essi erano nel passato prossimo, che si può chiamare il presente ereditario. Per il nostro scopo questo presente ereditario è rappresentato dalla più recente civiltà predatoria e da quella quasi pacifica. È alla variante della natura umana caratteristica di questa recente civiltà di rapina o di quasi rapina — ereditariamente ancora esistente — che il moderno uomo civile tende a uniformarsi nella generalità dei casi. Questa proposizione richiede una riserva per quanto concerne i discendenti delle classi servili o oppresse delle epoche barbariche, ma la riserva necessaria non è probabilmente così grande come potrebbe sembrare a prima vista. Considerando la popolazione come un tutto questa variante predatoria, emulativa, non sembra aver raggiunto un alto grado di consistenza o di stabilità. Vale a dire, la natura umana ereditata dall’uomo occidentale moderno non è gran che uniforme rispetto alla portata o alla relativa forza delle varie attitudini e tendenze che concorrono a formarla. L’uomo del presente ereditario è leggermente arcaico se giudicato rispetto agli scopi delle più recenti esigenze della vita associata. E il tipo verso cui l’uomo moderno tende principalmente a regredire sotto la legge della variazione è una natura umana un poco più arcaica. D’altra parte, a giudicare dai tratti reversionali che appaiono in individui aberranti dal carattere predatorio prevalente, sembra che la variante pre-predatoria abbia una maggiore stabilità e simmetria nella distribuzione o forza relativa degli elementi del suo carattere. Questa divergenza della natura umana ereditata, fra una variante più

primitiva e una più recente del tipo etnico al quale l’individuo tende a crescere conforme, è attraversata e oscurata da una simile divergenza fra i due o tre tipi etnici principali che vengono a formare i popoli occidentali. Si pensa che gli individui di queste società siano, virtualmente in ogni caso, un ibrido degli elementi etnici prevalenti combinati nelle più diverse proporzioni, con il risultato che essi tendono a tener dietro all’uno o all’altro dei tipi etnici componenti. Questi tipi etnici differiscono quanto al temperamento in un modo un po’ simile alla differenza fra le varianti predatoria e pre-predatoria; rivelando il tipo dolico-biondo più caratteristiche del temperamento predatorio — almeno più disposizioni violente — che non il tipo brachicefalobruno, e specialmente che quello mediterraneo. Perciò allorché lo sviluppo delle istituzioni o del sentimento effettivo di una data comunità svela una divergenza dalla natura umana predatoria, è impossibile dire con certezza se una tale divergenza indica un ritorno alla variante pre-predatoria. Può essere dovuto a un crescente dominio dell’uno o dell’altro degli elementi etnici «inferiori» della popolazione. Inoltre, benché la prova non sia così conclusiva come si potrebbe desiderare, ci sono indicazioni che la variazione nel temperamento effettivo delle società moderne non è totalmente dovuta a una selezione fra tipi etnici stabili. Sembra che sia in buona parte una selezione fra la variante predatoria e quella pacifica dei diversi tipi. Questa concezione dell’evoluzione umana contemporanea non è indispensabile alla discussione. Le conclusioni generali raggiunte mediante l’uso di questi concetti di adattamento selettivo rimarrebbero sostanzialmente vere se lasciassimo cadere i termini e i concetti più antichi, darwiniani e spenceriani. Nel nostro caso, possiamo ammettere una certa larghezza nell’uso dei termini. La parola «tipo» è usata indeterminatamente, per denotare variazioni di temperamento che gli etnologi forse stimerebbero soltanto ordinarie varianti del tipo piuttosto che tipi etnici distinti. Ovunque una più sottile discriminazione appaia essenziale all’argomento, dal contesto apparirà lo sforzo di fare questa più sottile discriminazione. I tipi etnici odierni, dunque, sono varianti dei tipi razziali primitivi. Essi hanno sofferto qualche modificazione e raggiunto un certo grado di stabilità nella loro forma modificata, sotto la disciplina condizionante della civiltà barbarica. L’uomo del presente ereditario è la variante barbarica, servile o aristocratica, degli elementi etnici che lo costituiscono. Però questa variante barbarica non ha raggiunto il grado più alto di omogeneità o di stabilità. La civiltà barbarica — gli stadi culturali predatori e quasi pacifici — benché di

grande durata assoluta, non è stata né protratta né invariata abbastanza quanto a carattere da produrre un tipo gran che fisso. Variazioni rispetto alla natura umana barbarica s’incontrano con una certa frequenza, e questi casi di variazione stanno diventando più osservabili oggi, perché le condizioni della vita moderna non agiscono più continuatamente nel senso di reprimere il discostarsi dal modello barbarico. Il temperamento di rapina non si presta a tutti i fini della vita moderna, non, in particolare, all’industria moderna. I casi di deviazione dalla natura umana del presente ereditario hanno assai frequentemente il carattere di ritorni a una variante anteriore del tipo. Questa variante anteriore è rappresentata dal temperamento che caratterizza la fase primitiva dello stato selvaggio pacifico. Le circostanze di vita e gli scopi dello sforzo che ebbero la prevalenza prima dell’avvento della civiltà barbarica foggiarono la natura umana e la fissarono per quanto concerne alcuni tratti fondamentali. Ed è a queste antiche, generiche caratteristiche che gli uomini moderni sono propensi a tener dietro nel caso di variazione dalla natura umana del presente ereditario. Pare che le condizioni in cui vissero gli uomini, negli stadi più primitivi della vita associata che si può chiamare propriamente umana, siano state di genere pacifico; e sembra che il carattere -— il temperamento e l’atteggiamento spirituale — degli uomini in tali condizioni o ambiente e istituzioni primitive sia stato pacifico e non aggressivo, per non dire indolente. Ai nostri fini immediati si può accettare che questo pacifico stadio culturale segni la fase iniziale dello sviluppo sociale. Per quanto concerne il presente argomento, sembra che la caratteristica spirituale dominante in questa presunta fase iniziale della civiltà sia stato un senso incosciente e non formulato di solidarietà di gruppo, che si esprimeva in gran parte in una compiacente, ma per nulla tenace, simpatia verso ogni comodità della vita umana e in una ripugnanza contro ogni temuta inibizione o futilità. Attraverso la sua onnipresenza nelle abitudini mentali del selvaggio non ancora predatore, questo senso diffuso ma tranquillo del genericamente utile sembra che abbia esercitato una notevole influenza costrittiva sulla sua vita e sul modo del suo contatto abituale con gli altri membri del gruppo. Le tracce di questa pacifica fase iniziale e indifferenziata della civiltà paiono dubbie e incerte se noi guardiamo puramente a quella prova categorica della sua esistenza che le usanze e le opinioni in voga nel suo presente storico ci offrono, in comunità sia civili che rozze; ma una prova meno incerta si può trovare nelle sopravvivenze psicologiche come tratti persistenti e universali del carattere umano. Questi tratti sopravvivono forse in grado speciale fra

quegli elementi etnici, che durante la civiltà di rapina erano compressi nello sfondo. Tratti che convenivano alle abitudini di vita primitive divennero allora relativamente inutili nella lotta individuale per l’esistenza. E quegli elementi della popolazione oppure quei gruppi etnici, che erano per temperamento meno tagliati alla vita di rapina, furono repressi e cacciati in secondo piano. Nel passaggio alla civiltà di rapina il carattere della lotta per l’esistenza si mutò in parte da lotta del gruppo contro un ambiente non umano in lotta contro un ambiente umano. Questo cambiamento fu accompagnato da un crescente antagonismo e consapevolezza di antagonismo fra i membri individuali del gruppo. Le condizioni del successo nell’interno del gruppo, così come le condizioni di sopravvivenza del gruppo, in parte cambiarono; e gradualmente mutò l’atteggiamento spirituale dominante, che introdusse nel modello di vita accettato una diversa serie di attitudini e di tendenze in posizione di legittima supremazia. Fra questi tratti arcaici che sono da riguardarsi come sopravvivenze della fase culturale pacifica, c’è quell’istinto della solidarietà di razza che noi chiamiamo coscienza, che comprende il senso della veridicità e dell’equità, e l’istinto dell’efficienza, nella sua espressione pura e semplice, non antagonistica. Sotto la guida della scienza biologica e psicologica recente, la natura umana dovrà essere formulata in termini di abitudine; e nella formulazione è evidente che questo è in breve il solo posto e fondamento che si possa assegnare a questi tratti. Queste abitudini di vita hanno un carattere troppo universale per essere ascritte all’influenza di una disciplina tarda o breve. La facilità con cui vengono temporaneamente sopraffatte dalle esigenze particolari della vita recente e moderna attesta che queste abitudini sono gli effetti superstiti di una disciplina di antichissima data, dagli insegnamenti della quale gli uomini sono stati sovente costretti ad allontanarsi nelle mutate circostanze di un’epoca più recente; e il modo quasi universale con cui esse si affermano, ogni qualvolta la pressione delle esigenze particolari si alleggerisce, attesta che il processo per cui i tratti vennero fissati e incorporati nella composizione spirituale del tipo dev’essere durato un tempo relativamente assai lungo e senza gravi interruzioni. Che questo fosse un processo di assuefazione nel vecchio senso della parola oppure un processo di adattamento selettivo della razza, non interessa il nostro problema. Il carattere e le esigenze della vita sotto quel regime di casta e di lotta individuale e di classe, che occupa tutto l’intervallo dall’inizio della civiltà predatoria al presente, attestano che i tratti del temperamento qui in

discussione non possono essere sorti né essersi stabilizzati durante quell’intervallo. È assai probabile che questi tratti risalgano a un metodo di vita più antico, e che nell’intervallo della civiltà predatoria e quasi pacifica siano sopravvissuti in una condizione d’incipiente, o almeno imminente, desuetudine, piuttosto che siano stati prodotti e stabiliti da questa civiltà più recente. Essi appaiono caratteristiche ereditarie della razza, e tali che hanno resistito a dispetto delle mutate esigenze di successo negli stadi culturali di rapina e in quello finanziario più recente. Sembra che afa Diano resistito grazie alla tenacia di trasmissione che appartiene a un tratto ereditario il quale sia presente in qualche grado in ogni membro della specie e perciò si fondi su una base sicura di continuità di razza. Ma tale caratteristica razziale non è presto eliminata, neppure sotto un processo di selezione così severo e protratto come quello a cui i tratti di cui qui si parla vennero assoggettati durante gli stadi predatori e quasi pacifici. Questi tratti pacifici sono in gran parte estranei ai metodi e allo spirito della vita barbarica. La caratteristica saliente della civiltà barbarica è un’emulazione e un antagonismo incessanti fra le classi e fra gli individui. Questa disciplina emulativa favorisce quegli individui e quei filoni che posseggono tratti selvaggi pacifici in misura relativamente scarsa. Essa tende perciò a eliminare questi tratti e, a quanto pare, nelle popolazioni che le sono state soggette li ha indeboliti considerevolmente. Persino là dove per la non conformità al tipo di temperamento barbarico non vige la pena capitale, si riscontra almeno una repressione più o meno energica degli individui e dei filoni non conformi. Dove la vita sia essenzialmente una lotta fra individui nell’interno del gruppo, l’esser dotato degli antichi tratti pacifici in misura notevole ostacolerebbe un individuo nella lotta per l’esistenza. In ogni fase culturale conosciuta, diversa o posteriore alla presunta fase iniziale di cui si parla, le doti di buon carattere, equità e simpatia per tutti non favoriscono notevolmente la vita dell’individuo. Il loro possesso può servire a proteggere l’individuo dai maltrattamenti di una maggioranza che esige un minimo di questi ingredienti nel suo ideale dell’uomo normale; ma a parte questo effetto indiretto e negativo, l’individuo in regime di competizione se la cava meglio quanto meno è fornito di quelle doti. Si può dire che, entro certi limiti, la libertà degli scrupoli, dalla simpatia, dall’onestà e dal rispetto per la vita favorisca il successo dell’individuo nella civiltà finanziaria. Gli uomini di tutti i tempi che hanno ottenuto grandi successi sono stati generalmente di questo tipo; eccetto quelli il cui successo non è stato ottenuto in termini né di

ricchezza né di potenza. È solamente entro limiti molto stretti, e anche qui soltanto in senso Pickwickiano1, che l’onestà è la miglior politica. Considerato dal punto di vista della vita nelle moderne condizioni civili di un’illuminata società del mondo occidentale, il selvaggio primitivo, prepredatorio, di cui abbiamo cercato di delineare il carattere, non era una cosa riuscita. Anche per gli scopi di quella ipotetica civiltà, a cui il suo tipo umano deve quel tanto di stabilità che possiede — anche in vista dei fini del gruppo selvaggio pacifico — quest’uomo primitivo ha altrettanti e tanto vistosi difetti economici quante virtù — come dovrebbe essere chiaro a chiunque non si lasci influenzare da un’indulgenza nata da simpatia. Tutt’al più egli è un «buon’a nulla in gamba». Le deficienze di questo presunto tipo primitivo sono debolezza, inefficienza, mancanza d’iniziativa e d’abilità, e un’amabilità indolente e arrendevole, insieme con un senso animistico vivo, ma inconseguente. Con questi tratti ve ne sono altri che hanno un certo valore per il processo della vita collettiva nel senso che favoriscono la facilità della vita nel gruppo. Questi tratti sono veridicità, tranquillità, buona volontà, e un interesse per gli uomini e le cose non emulativo, non antagonistico. Con l’avvento dello stadio della vita predatoria avviene un cambiamento nelle esigenze del tipo umano fortunato. Le abitudini di vita degli uomini devono adattarsi alle nuove esigenze in un nuovo sistema di rapporti umani. Il medesimo spiegamento d’energia che prima aveva trovato espressione nei tratti della vita selvaggia sopra descritti, deve ora trovare espressione in una nuova linea d’azione, in un nuovo gruppo di reazioni abituali a stimoli mutati. I metodi che, considerati in termini di facilità di vita, nelle primitive condizioni rispondevano discretamente, non riescono più adeguati alle nuove. La situazione di prima era caratterizzata da una relativa mancanza d’antagonismo o differenziazione d’interessi, quella più recente da un’emulazione continuamente in aumento quanto all’intensità e in contrazione quanto alla portata. I tratti che caratterizzano gli stadi culturali di rapina e i seguenti, o che contrassegnano i tipi d’uomini più adatti a sopravvivere nel regime di casta, sono (nella loro principale espressione) la ferocia, l’egoismo, la stretta solidarietà di gruppo e la slealtà — il libero ricorso alla violenza e alla frode. Sotto la disciplina severa e protratta del regime di competizione, la selezione dei tipi etnici ha contribuito a dare una supremazia alquanto pronunciata a queste doti del carattere, favorendo la sopravvivenza di quegli elementi etnici che sotto questi aspetti sono più riccamente dotati. Nel

contempo le abitudini cella razza acquisite prima e più generiche non hanno mai tralasciato di avere una qualche utilità ai fini della vita collettiva e non sono mai cadute del tutto in abbandono. Può darsi che valga la pena di osservare che il tipo dell’europeo dolicobiondo deve molta della sua influenza dominatrice e della sua posizione centrale nella recente civiltà al fatto di possedere in grado eccezionale le caratteristiche dell’uomo di rapina. Questi tratti spirituali, insieme con una buona dose di energia fisica — essa stessa probabilmente prodotto di una selezione fra gruppi e fra discendenti —, concorrono a portare un eleménto etnico nella posizione di classe agiata o padronale, specie nelle prime fasi dello sviluppo dell’istituzione di una classe agiata. Ciò non significa che l’identico corredo di attitudini in un individuo gli assicurerebbe un segnalato successo personale. Sotto il regime della competizione, le condizioni del successo di un individuo non sono necessariamente identiche a quelle di una classe. Il successo di una classe o di un partito presuppone un forte elemento di solidarietà o fedeltà a un capo o adesione a un dogma; laddove l’individuo in gara può raggiungere meglio i suoi scopi se combina l’energia, l’iniziativa, l’egoismo e l’astuzia del barbaro con la mancanza di fedeltà o di solidarietà del selvaggio. Si può notare di passaggio che gli uomini i quali hanno ottenuto un successo brillante (napoleonico) in base a un totale egoismo e mancanza di scrupoli, hanno in linea di massima mostrato più delle caratteristiche fisiche del brachicefalo bruno che non del dolico-biondo. Comunque, la maggior parte degli individui discretamente fortunati nel campo egoistico personale sembra appartenere, quanto al fisico, a quest’ultimo elemento etnico. Il temperamento introdotto dall’abitudine di vita predatoria favorisce in regime di emulazione la sopravvivenza e la pienezza di vita dell’individuo; nello stesso tempo favorisce la sopravvivenza e il successo del gruppo se la vita del gruppo come collettività è pure prevalentemente una vita di ostile competizione con altri gruppi. Però l’evoluzione della vita economica nelle società industrialmente più mature ha cominciato ora a prendere una piega tale che l’interesse della comunità non coincide più con gli interessi emulativi dell’individuo. Nella loro capacità cumulativa, queste progredite società industriali cessano di essere in competizione per i mezzi di vita e per il diritto all’esistenza — salvo in quanto le tendenze predatorie delle loro classi dirigenti alimentano la tradizione di guerra e di rapina. Queste società non sono più ostili l’una all’altra per forza di circostanze, eccezion fatta per le circostanze di tradizione e di temperamento. I loro interessi materiali — a parte, forse, gli

interessi della reputazione collettiva — non sono più incompatibili, ma il successo di qualunque delle società favorisce indiscutibilmente la pienezza di vita di ogni altra società del gruppo, per il presente e per un incalcolabile tempo a venire. Nessuna di esse ha più un materiale interesse nel sopraffarne un’altra. La stessa cosa non è altrettanto vera per quel che riguarda gli individui e le loro relazioni vicendevoli. Gli interessi collettivi di una società moderna si accentrano nell’efficienza industriale. L’individuo è utile ai fini della comunità suppergiù in proporzione al suo rendimento negli impieghi produttivi, cosidetti volgarmente. Questo interesse collettivo è ottimamente servito dall’onestà, dalla diligenza, dall’amor di pace, dalla buona volontà, dalla mancanza d’egoismo e da un senso e riconoscimento abituali del nesso causale, senza misture di credenze animistiche e senza un senso di dipendenza da interventi soprannaturali nel corso degli eventi. Non c’è molto da dire sulla bellezza, eccellenza morale o dignità e rispettabilità generali di una natura umana così prosaica quale questi tratti implicano; e non c’è motivo di grande entusiasmo per il tenore di vita collettivo che risulterebbe dalla prevalenza di queste caratteristiche in maggioranza assoluta. Ma ciò è fuori argomento. La riuscita di una società industriale moderna è molto bene assicurata dove concorrono queste caratteristiche, e la si raggiunge nel grado in cui il materiale umano è caratterizzato dal loro possesso. La loro presenza è in parte richiesta per raggiungere un passabile equilibrio con le circostanze della situazione industriale moderna. Il meccanismo della società industriale moderna, complesso, esteso, essenzialmente pacifico e altamente organizzato, rende al massimo quando queste caratteristiche, o la maggioranza di esse, siano presenti nel più alto grado praticabile. Queste caratteristiche sono molto meno presenti nell’uomo del tipo predatorio di quanto sia utile ai fini della vita collettiva moderna. D’altra parte, l’interesse immediato dell’individuo in regime di competizione è ottimamente servito dagli intrighi astuti e dal maneggio senza scrupoli. Le caratteristiche prima citate come utili agli interessi della comunità in linea di massima non sono utili all’individuo. La presenza di tali attitudini nel suo bagaglio ne storna le energie verso scopi diversi da quelli del profitto finanziario; e anche nella sua ricerca di profitto esse lo guidano a cercarlo attraverso le vie indirette e inefficaci dell’industria, piuttosto che mediante la carriera libera e sicura della pratica spregiudicata. Le attitudini industriali sono un ostacolo considerevole per l’individuo. Sotto il regime di emulazione i

membri di una società industriale moderna sono rivali, ognuno dei quali raggiungerà meglio il suo profitto individuale e immediato se, attraverso una eccezionale mancanza di scrupoli, è capace di sopraffare e colpire freddamente i colleghi che gli vengano a tiro. È già stato osservato che le istituzioni economiche moderne si suddividono grosso modo in due distinte categorie — quella finanziaria e quella industriale. Lo stesso vale per gli impieghi. Cadono nella prima categoria gli impieghi che abbiano a che fare con la proprietà o l’acquisizione; nella seconda, quelli che hanno a che fare con la manifattura o la produzione. Come si trovò parlando dello sviluppo delle istituzioni, lo stesso avviene rispetto agli impieghi. Gli interessi economici della classe agiata si trovano negli impieghi finanziari; quelli della classe lavoratrice in ambedue le categorie di occupazioni, ma specialmente in quella industriale. L’accesso alla classe agiata si trova negli impieghi finanziari. Queste due categorie d’impieghi differiscono materialmente rispetto alle attitudini richieste per ognuna; e l’abilità che esse conferiscono segue del pari due linee divergenti. La disciplina degli impieghi finanziari concorre a conservare e a coltivare alcune attitudini e lo spirito predatorio. Essa fa entrambe queste cose educando quegli individui e quelle classi che sono occupati in questi impieghi, e selettivamente reprimendo ed eliminando quegli individui e quei filoni di sviluppo non idonei sotto questo aspetto. In quanto le abitudini mentali degli uomini sono formate dall’ antagonistico processo di acquisizione e conservazione; in quanto le loro funzioni economiche sono comprese nel possesso di ricchezza concepita in termini di valore di scambio, la sua amministrazione e finanziamento attraverso un mutamento di valori; in tanto la loro esperienza di vita economica favorisce il sopravvivere e l’accentuarsi del temperamento e delle abitudini mentali predatorie. Nel moderno sistema pacifico è naturalmente la serie pacifica delle abitudini e delle attitudini predatorie che viene soprattutto incoraggiata da una vita d’acquisizione. Vale a dire, gli impieghi finanziari rientrano in linea generale in quel genere di attività che si chiama frode, piuttosto che in quello che appartiene al metodo più arcaico della conquista violenta. Questi impieghi finanziari, tendenti a conservare il temperamento di rapina, sono gli impieghi che hanno a che fare con la proprietà — la funzione immediata della classe agiata vera e propria — e con le funzioni ausiliarie che interessano l’acquisizione e l’accumulazione. Essi comprendono quella classe di persone e quella serie di doveri che nel processo economico hanno a che

fare con la proprietà delle imprese impegnate nella competizione industriale; specie quelle funzioni fondamentali del movimento economico che sono classificate come operazioni di finanziamento. A queste si possono aggiungere la maggior parte delle occupazioni commerciali. Nel loro migliore e più chiaro sviluppo questi doveri formano l’ufficio economico del «capitano d’industria». Il capitano d’industria è un uomo astuto piuttosto che ingegnoso, e la sua capitaneria è piuttosto finanziaria che industriale. L’amministrazione dell’industria, com’egli l’esercita, è comunemente di tipo tollerante. I particolari, meccanicamente importanti, della produzione e dell’organizzazione industriale sono affidati a dipendenti di una piega mentale meno «pratica» — uomini dotati di abilità maggiore per il lavoro che per l’amministrazione. Per quanto concerne la loro tendenza a plasmare la natura umana attraverso l’educazione e la selezione, la serie ordinaria degli impieghi non economici è da classificarsi con gli impieghi finanziari. Tali sono gli impieghi politici, militari ed ecclesiastici. Gli impieghi finanziari hanno anche la sanzione della rispettabilità in un grado assai superiore che non gli impieghi industriali. In tal modo, i criteri di buona reputazione della classe agiata vengono a sostenere il prestigio di quelle attitudini che servono allo scopo antagonistico; e perciò il modello di vita decorosa della classe agiata favorisce anche il sopravvivere e l’attecchire delle caratteristiche di rapina. Gli impieghi si ordinano in una gradazione gerarchica di rispettabilità. Quelli che hanno a che fare immediatamente con la proprietà su larga scala sono i più onorevoli tra gli impieghi economici veri e propri. Subito dopo, in fatto di onorabilità, vengono quegli impieghi che sono immediatamente al servizio della proprietà e della finanza: quali le banche e la legge. Anche gli impieghi di banca dànno l’impressione di grande ricchezza, e questo fatto si può senza dubbio considerare una parte del prestigio connesso con il commercio. La professione della legge non implica grande ricchezza, ma poiché nessuna traccia di utilità, eccetto che per uno scopo di competizione, si connette al lavoro dell’avvocato, questo occupa un alto grado nel modello convenzionale. L’avvocato si occupa esclusivamente dei particolari della frode predatoria, sia nel fare che nel vanificare cavilli, e il successo nella professione è perciò accettato come il segno di una ricca dote di quell’astuzia barbarica, che ha sempre strappato agli uomini rispetto e timore. Le attività commerciali sono solo per metà rispettabili, a meno che implichino una grande ricchezza e un’utilità scarsa. Esse occupano un grado alto o basso, secondo che servano i bisogni superiori o gli inferiori; cosicché il commercio

al minuto dei generi di prima necessità discende al livello dell’artigianato e del lavoro in fabbrica. Naturalmente il lavoro manuale, o anche il lavoro di direzione dei procedimenti meccanici, è quanto mai precario in fatto di rispettabilità. Una precisazione è necessaria quanto alla disciplina imposta dagli impieghi finanziari. Man mano che il raggio dell’impresa industriale diventa più vasto, la direzione finanziaria viene ad assumere sempre meno il carattere di cavillo e di astuta competizione in particolare. Vale a dire, per una sempre crescente proporzione di persone che. vengono a contatto con questa fase della vita economica, gli affari si riducono a una routine in cui c’è minor incentivo a sopraffare o sfruttare un competitore. La conseguente esenzione dalle abitudini di rapina si estende principalmente ai dipendenti impiegati negli affari. Ciò non riguarda beninteso le mansioni del proprietario e dell’amministratore. Il caso è diverso per quel che riguarda quegli individui o quelle classi che si occupano immediatamente della tecnica e dei lavori manuali della produzione. La loro vita quotidiana non è nella stessa misura un corso di assuefazione ai motivi e agli intrighi emulativi e antagonistici del settore finanziario dell’industria. Essi sono fermamente tenuti a seguire e a coordinare i fatti e i nessi meccanici e a valutarli utilizzandoli ai fini della vita umana. Per quanto interessa questa parte della popolazione, l’azione educativa e selettiva del processo industriale con cui essi sono a contatto immediato agisce nel senso di adattare le loro abitudini mentali agli scopi non antagonistici della vita collettiva. Per essi perciò le attitudini e le tendenze propriamente predatorie, tramandate per eredità e tradizione dal passato barbarico della razza, invecchiano presto. Perciò l’azione educativa della vita economica della comunità non è di un genere uniforme attraverso tutte le sue manifestazioni. Il gruppo delle attività economiche che s’interessano immediatamente della competizione finanziaria ha la tendenza a conservare alcune caratteristiche di rapina; mentre le occupazioni industriali che hanno immediatamente a che fare con la produzione dei beni mostrano in genere la tendenza contraria. Ma rispetto a quest’ultima categoria d’impieghi è da notare in particolare che le persone in essi occupate s’interessano quasi tutte in qualche misura d’affari di competizione finanziaria (come, per esempio, la competizione di salari e stipendi, l’acquisto di beni di consumo, ecc.). Perciò la distinzione che qui si fa tra categorie d’impieghi non è per niente una netta distinzione fra categorie di

persone. Gli impieghi della classe agiata nell’industria moderna sono tali da mantenere in vita parecchie abitudini e attitudini di ra pina. In quanto i membri di queste classi prendono parte al processo industriale, la pratica tende a conservare in loro il temperamento barbarico. C’è però qualcosa da dire in contrario. Individui collocati in modo da essere esenti dallo sforzo possono sopravvivere e tramandare le loro caratteristiche anche se siano notevolmente diverse dalla media della specie per composizione sia fisica che spirituale. Le possibilità di una sopravvivenza e trasmissione di caratteristiche ataviche sono maggiori in quelle classi che sono meglio protette dall’insulto delle circostanze. La classe agiata è in certa misura al riparo dall’insulto della situazione industriale, e dovrebbe pertanto dare una percentuale straordinariamente alta di regressioni al temperamento pacifico c selvaggio. Dovrebbe esser possibile a questi individui aberranti o atavistici spiegare la loro attività secondo metodi pre-predatori, senza subire una repressione o eliminazione così pronta come negli strati inferiori della vita. Qualcosa del genere sembra che si verifichi nella realtà. C’è per esempio una notevole percentuale delle classi superiori che per inclinazione si occupa di opere filantropiche, e c’è nella classe una gran massa di sentimento che tende ad appoggiare gli sforzi per le riforme e il progresso. E inoltre gran parte di questo sforzo filantropico e riformatore reca i segni di quell’amabile «destrezza» e incoerenza che è la caratteristica del selvaggio primitivo. Ma può tuttavia essere incerto se questi fatti siano prova di una più alta percentuale di regressioni negli strati superiori che in quelli inferiori. Anche se le medesime inclinazioni fossero presenti nelle classi bisognose, non troverebbero con tanta facilità espressione; poiché queste classi mancano dei mezzi, del tempo e dell’energia per seguire le loro propensioni in questo campo. L’evidenza immediata dei fatti non si può senz’altro accettare. Ad ulteriore limitazione va rilevato che la classe agiata odierna recluta i suoi membri fra quelli che hanno avuto un successo finanziario e che perciò sono presumibilmente dotati di un bagaglio di caratteristiche predatorie superiore al normale. Si entra nella classe agiata attraverso gli impieghi finanziari, e questi impieghi, mediante la selezione e l’adattamento, promuovono l’ammissione ai ranghi superiori soltanto di quegli esemplari che siano finanziariamente idonei a sopravvivere sotto il sistema predatorio. E non appena in questi ranghi superiori si dà un caso di regressione alla natura umana non predatoria, questo di regola viene sradicato e ricacciato nei ranghi

finanziariamente inferiori. Per conservare il suo posto nella classe, una stirpe deve possedere un temperamento finanziario; altrimenti la sua fortuna verrebbe dissipata ed essa scadrebbe presto dal suo rango. Esempi di questo genere sono abbastanza frequenti. Il complesso della classe agiata è alimentato da un continuo processo selettivo, per cui gli individui e le stirpi eminentemente idonei a una competizione finanziaria aggressiva vengono separati dalle classi inferiori. Per raggiungere i ranghi superiori l’aspirante deve avere non solo un buon corredo medio di tutte le attitudini finanziarie, ma deve inoltre possedere queste doti in grado così eminente da superare le gravissime difficoltà che gli sbarrano la strada. Salvo casi accidentali, i nouveaux arrivés sono un corpo scelto. Questo processo di ammissione selettiva non s’è naturalmente mai interrotto, da quando cominciò il sistema dell’emulazione finanziaria — che è quasi quanto dire, da quando vige l’istituzione di una classe agiata. Ma il criterio preciso di selezione non è sempre stato il medesimo, e perciò il processo selettivo non ha dato sempre i medesimi risultati. Nel primitivo stadio barbarico o di rapina propriamente detto, la prova d’idoneità era il coraggio, nel senso vergine della parola. Per ottenere l’accesso alla classe, il candidato doveva essere dotato di senso della solidarietà, di ferocia, solidità, mancanza di scrupoli e tenacia di propositi. Queste le qualità che contavano per accumulare e continuare a detenere la ricchezza. La base economica della classe agiata, allora come in seguito, era il possesso della ricchezza; ma i metodi per accumularla e le doti richieste per conservarla sono in parte cambiati dai primi giorni della civiltà di rapina. Come conseguenza del processo selettivo le caratteristiche dominanti della primitiva classe agiata barbarica erano l’aggressione temeraria, un vivo senso di casta, e un libero ricorso alla frode. I membri della classe mantenevano il loro posto con il coraggio personale. Nella civiltà barbarica posteriore la società raggiunse metodi stabili di acquisizione e di possesso sotto il regime di casta quasi pacifico. La semplice aggressione e l’aperta violenza cedettero il posto in gran parte a cavilli e intrighi d’astuzia, quali ottimi sistemi d’accumulare ricchezze. Una diversa gamma di attitudini e di tendenze dovette allora tramandarsi nella classe agiata. La capacità d’aggredire e la forza correlativa, insieme con un senso di casta spietatamente vivo, figuravano sempre tra le caratteristiche più splendide della classe. Queste sono rimaste nelle nostre tradizioni come le tipiche «virtù aristocratiche». Ma ad esse s’univa un crescente bagaglio di

meno indiscrete virtù finanziarie; quali la previdenza, la prudenza e l’intrigo. Con il passare del tempo e l’avvicinarsi dello stadio pacifico moderno della civiltà finanziaria, quest’ultima categoria di attitudini e di abitudini guadagnò in relativa efficacia ai fini finanziari, e ha avuto un peso relativamente maggiore nel processo selettivo per cui si ottiene l’ammissione e si mantiene il posto nella classe agiata. Il criterio di selezione è cambiato al punto che le attitudini che adesso rendono idonei all’ammissione nella classe sono le sole attitudini finanziarie. Ciò che resta delle caratteristiche barbariche di rapina è la tenacia di proposito o fermezza di scopi che distingueva il barbaro predone vittorioso dal pacifico selvaggio ch’egli soppiantò. Ma non si può dire che questo tratto distingua in modo caratteristico l’uomo di classe superiore che ha avuto successo finanziario dalle masse delle classi industriali. L’educazione e la selezione a cui queste ultime sono esposte nella vita industriale moderna dànno a questa caratteristica un peso del pari decisivo. La tenacia di propositi si può dire piuttosto che distingua entrambe queste classi da due altre: il buono a nulla e il delinquente di classe inferiore. In fatto di doti naturali il finanziere si paragona al delinquente, al modo stesso con cui l’industriale si paragona al dipendente inetto e bonario. Il finanziere ideale è simile al delinquente ideale in quanto volge senza scrupoli persone e cose ai suoi fini, e trascura spregiudicatamente i sentimenti e i desideri degli altri nonché gli effetti più remoti delle sue azioni; ma se ne differenzia in quanto possiede un senso più vivo del suo rango e lavora con più consistenza e lungimiranza a un fine più lontano. L’affinità dei due tipi di temperamento si svela ulteriormente in una tendenza al «gioco» e alla scommessa e nel gusto di un’emulazione senza scopo. Il finanziere ideale rivela pure una curiosa affinità con il delinquente in una delle variazioni concomitanti della natura umana predatoria. Il delinquente ha di regola abitudini mentali superstiziose; egli crede ciecamente nella fortuna, negli incantesimi, nella divinazione e nel destino, nei presagi e nei riti sciamanistici. Dove le circostanze siano favorevoli, questa tendenza può esprimersi in un certo fervore di devozione servile e in una puntigliosa osservanza di pratiche devote; può forse meglio definirsi come ritualismo che come religione. A questo punto il temperamento del delinquente è più affine alle classi agiate e finanziarie che all’industriale o alla classe dei dipendenti inetti. La vita in una moderna società industriale o, in altre parole, la vita nella civiltà finanziaria, contribuisce attraverso un processo di selezione a

sviluppare e conservare un certo numero di attitudini e di tendenze. La tendenza attuale di questo processo selettivo non è semplicemente una regressione a un tipo etnico dato e immutabile. Essa tende piuttosto a una modificazione della natura umana, differente sotto certi aspetti da ogni altro tipo o variante tramandati dal passato. L’obiettivo dell’evoluzione non è unico. Il temperamento che l’evoluzione concorre a stabilire come normale differisce da qualsiasi variante arcaica della natura umana nella sua maggiore fermezza di propositi — maggiore unicità di fini e maggiore costanza nello sforzo. Fin dove interessa la teoria economica, il fine obiettivo del processo selettivo è, in complesso, unico, benché vi siano minori tendenze di notevole importanza, che divergono da questa linea di sviluppo. Ma, a parte questa tendenza generale, la linea di sviluppo non è unica. Per quanto riguarda la teoria economica, sotto altri aspetti lo sviluppo si muove su due linee divergenti. Per quanto concerne la conservazione selettiva di capacità o attitudini negli individui, queste due linee si possono denominare la finanziaria e l’industriale. Per quanto concerne la conservazione delle tendenze, dell’attitudine spirituale o dello spirito, le due linee si possono chiamare l’egoistica o antagonistica e l’economica o non antagonistica. Per quanto concerne la tendenza intellettuale o conoscitiva delle due direzioni di sviluppo, la prima si può definire il punto di partenza personale dello sforzo, della relazione qualitativa, (fella casta o dignità, la seconda come il punto di partenza impersonale del nesso, della relazione quantitativa, dell’efficienza meccanica o utilità. Gli impieghi finanziari fanno entrare in azione specialmente la prima di queste due categorie di attitudini e di tendenze, e contribuiscono selettivamente a conservarla nella popolazione. Gli impieghi industriali, d’altra parte, esercitano principalmente quelle della seconda categoria, e contribuiscono a conservarle. Un’analisi psicologica esauriente mostrerà che ognuna di queste due categorie di tendenze e di attitudini non è che la multiforme espressione di una data piega del temperamento. Grazie all’unità o all’unicità dell’individuo le attitudini, lo spirito e gli interessi compresi nella categoria citata per prima, si raggruppano insieme come espressioni di una data variante della natura umana. Lo stesso vale per la seconda categoria. Entrambe si possono concepire come direzioni alternative della vita umana, in modo che un dato individuo propende più o meno fermamente verso l’una o verso l’altra. La tendenza della vita finanziaria, in linea generale, è quella di conservare il temperamento barbarico, sostituendo però la frode e la prudenza o l’abilità amministrativa a quella predilezione per la violenza fisica che

caratterizza i barbari antichi. Questa sostituzione dell’intrigo alla devastazione ha luogo soltanto in misura incerta. Entro gli impieghi finanziari l’azione selettiva va con una certa continuità in questa direzione, ma la disciplina della vita finanziaria, a parte la competizione per il profitto, non opera sempre allo stesso effetto. La disciplina della vita moderna nel consumo del tempo e dei beni non concorre chiaramente a eliminare le virtù aristocratiche o a incoraggiare quelle borghesi. Il modello convenzionale del vivere onorevole richiede un esercizio notevole delle caratteristiche barbariche. Alcuni particolari di questo modello tradizionale di vita, concernenti questo punto, sono stati notati in capitoli precedenti trattando dell’agiatezza, e altri particolari ne daremo in successivi capitoli. Da quanto è stato detto, appare che la vita della classe agiata e il suo sistema di vita dovrebbero favorire la conservazione del temperamento barbarico; specialmente della variante quasi pacifica o borghese, ma in parte anche della variante predatoria. Perciò, in mancanza di fattori perturbatori, dovrebbe essere possibile tracciare una differenza di temperamento fra le classi sociali. Le virtù aristocratiche e quelle borghesi — vale a dire, le caratteristiche distruttive e finanziarie — si dovrebbero trovare principalmente fra le classi superiori, e le virtù industriali — vale a dire, le caratteristiche pacifiche — principalmente in mezzo alle classi dedite all’industria meccanica. In linea generale e di massima ciò è vero, ma il criterio non è applicato così prontamente né conclusivamente quanto si vorrebbe. Ci sono parecchie ragioni plausibili per questa parziale deficienza. Tutte le classi sono in certa misura impegnate nella lotta finanziaria, e in tutte le classi il possesso delle caratteristiche finanziarie conta ai fini del successo e della sopravvivenza individuale. Dovunque la civiltà finanziaria prevalga, il processo selettivo per cui si formano le abitudini mentali degli uomini e attraverso il quale si decide la sopravvivenza dei ceppi rivali procede strettamente sulla base dell’idoneità all’acquisizione. Di conseguenza, se non fosse per il fatto che l’efficienza finanziaria è del tutto incompatibile con l’efficienza industriale, l’azione selettiva di tutte le occupazioni tenderebbe alla supremazia assoluta del temperamento finanziario. Il risultato sarebbe la fondazione di ciò che è noto come 1’«uomo economico», come il tipo definitivo e normale della natura umana. Ma 1’«uomo economico», il cui solo interesse è l’egoismo e la cui unica caratteristica umana è la prudenza, è inutile ai fini dell’industria moderna. L’industria moderna richiede un interesse impersonale, non antagonistico,

nell’opera in corso. Senza di ciò gli elaborati processi industriali sarebbero impossibili e addirittura non sarebbero neppure stati concepiti. Questo interesse nel lavoro differenzia l’operaio dal criminale da un lato e dal capitano d’industria dall’altro. Poiché il lavoro dev’essere fatto perché la vita collettiva continui, ne viene una selezione ristretta che entro un certo numero di occupazioni favorisce l’attitudine spirituale per il lavoro. Si deve tuttavia ammettere che, persino nelle occupazioni industriali, l’eliminazione selettiva delle caratteristiche finanziarie è un processo incerto, e che c’è pertanto una notevole sopravvivenza di temperamento barbarico anche in queste occupazioni. Sotto questo aspetto non c’è presentemente nessuna distinzione sicura fra il carattere della classe agiata e il carattere della gente comune. Tutto il problema di una distinzione di classe rispetto alla formazione spirituale è pure imbrogliato dalla presenza, in tutte le classi sociali, di abiti di vita acquisiti che simulano perfettamente caratteristiche ereditarie e nello stesso tempo concorrono a sviluppare nell’intero corpo sociale le caratteristiche che essi simulano. Queste abitudini acquisite, o tratti di caratteri assunti, sono comunemente di genere aristocratico. La posizione prescrittiva della classe agiata come modello di rispettabilità ha imposto alle classi inferiori molti tratti della sua teoria della vita, con il risultato che sempre e dappertutto si continua più o meno insistentemente a coltivare queste caratteristiche aristocratiche. Anche per tale motivo, queste caratteristiche hanno maggiore possibilità di sopravvivere in mezzo alla gente di quanto sarebbe il caso se non fosse per la prescrizione e l’esempio della classe agiata. Ricorderemo la classe dei servitori domestici come un canale, e di quelli importanti, attraverso cui continua questa trasfusione di concezioni aristocratiche, e per conseguenza di tratti di carattere più o meno arcaici. Costoro hanno formato, a contatto con la classe padronale, le loro nozioni di ciò che è buono e bello, e riportando i preconcetti così acquisiti in mezzo ai loro pari plebei disseminano nella comunità gli ideali superiori senza quella perdita di tempo di cui altrimenti la diffusione soffrirebbe. L’adagio «Quale il padrone, tale il servo» significa, per la rapida accettazione popolare di molti elementi della civiltà della classe superiore, assai più di quanto si crede. C’è inoltre un’altra serie di fatti che vanno a diminuire le differenze delle classi per quel che riguarda la sopravvivenza delle virtù finanziarie. La lotta finanziaria produce una vasta classe denutrita. Questa denutrizione consiste in una deficienza delle cose necessarie alla vita o a un dispendio rispettabile. In entrambi i casi il risultato è un aggravamento della lotta per la conquista dei

mezzi con cui soddisfare i bisogni quotidiani, sia i bisogni fisici che quelli superiori. Questo sforzo di affermarsi contro le difficoltà assorbe tutta l’energia dell’individuo; egli tende a soddisfare unicamente i suoi fini antagonistici e diventa sempre più sordidamente egoistico. Le caratteristiche industriali tendono in tal modo ad essere abbandonate per disuso. Indirettamente, perciò, imponendo un modello di rispettabilità finanziaria e sottraendo quanti mezzi di vita è possibile alle classi inferiori, l’istituzione di una classe agiata contribuisce a conservare in mezzo alla gente le caratteristiche finanziarie. Il risultato è un’assimilazione delle classi inferiori al tipo di natura umana che appartiene in primo luogo soltanto alle classi superiori. Appare quindi chiaro che non c’è nessuna profonda differenza quanto a temperamento fra le classi superiori e inferiori; ma appare anche che la mancanza di una tale differenza è in gran parte dovuta all’esempio prescrittivo della classe agiata e all’accettazione popolare di quei larghi princìpi di sciupìo vistoso e di emulazione finanziaria sui quali si fonda l’istituzione di una classe agiata. Quest’istituzione concorre ad abbassare l’efficienza industriale della comunità e a ritardare l’adattamento della natura umana alle esigenze della vita industriale moderna. Essa influisce sull’effettivo o prevalente tipo di natura umana in una direzione conservatrice: 1) mediante la trasmissione diretta di caratteristiche arcaiche, attraverso l’eredità nel seno della classe e dovunque il suo sangue si trasmetta fuori della classe, 2) conservando e fortificando le tradizioni del regime arcaico e aumentando in tal modo le possibilità di sopravvivenza delle caratteristiche barbariche anche fuori del raggio di trasfusione del sangue della classe agiata. Ma poco o nulla è stato fatto per raccogliere o coordinare dati particolarmente importanti per il problema della sopravvivenza o dell’eliminazione di caratteristiche nelle popolazioni moderne. Poco di tangibile si può perciò offrire a conforto della tesi qui assunta, oltre una rassegna discorsiva di quei fatti quotidiani che ci si presentano. Tale rassegna difficilmente può evitare di riuscire piatta e noiosa, ma con tutto ciò sembra necessaria alla completezza dell’argomento, anche nel magro compendio cui è qui costretta. Possiamo quindi giustamente chiedere una certa indulgenza per i capitoli successivi, che offriranno una rassegna frammentaria di questo genere. 1. Vale a dire in senso meramente tecnico, o speculativo astratto. L’aggettivo è stato messo in voga dai «Documenti postumi del circolo Pickwick» di Charles Dickens (1836-37).

CAPITOLO X. MODERNE SOPRAVVIVENZE DELLA VIRTÙ DEL CORAGGIO La classe agiata vive della società industriale piuttosto che in essa. Le sue relazioni con l’industria sono di carattere finanziario piuttosto che industriale. Si accede alla classe esercitando le attitudini finanziarie: attitudini d’acquisizione piuttosto che d’utilità. C’è perciò un continuo, accurato vaglio selettivo del materiale umano che forma la classe agiata, e questa selezione procede in base all’idoneità per le mansioni finanziarie. Però il sistema di vita della classe è in gran parte un retaggio del passato, e incorpora molte abitudini e ideali del precedente periodo barbarico. Questo sistema di vita arcaico e barbarico s’impone anche agli strati inferiori, più o meno assolutamente. A sua volta il modello di vita, di convenzioni, concorre selettivamente e mediante l’educazione a formare il materiale umano, e la sua azione tende principalmente a conservare caratteristiche, abitudini e ideali che appartengono all’epoca barbarica primitiva: l’epoca del coraggio e della vita di rapina. L’espressione più chiara e immediata di quella natura umana arcaica che caratterizza l’uomo nello stadio di rapina, è la particolare tendenza al combattimento. Nei casi in cui l’attività predatoria è collettiva, questa tendenza la si chiama spesso spirito marziale o, più tardi, patriottismo. Non c’è bisogno d’insistere per trovare consensi all’affermazione che nei paesi dell’Europa civile la classe agiata ereditaria è fornita di questo spirito marziale molto più delle classi medie. Difatti, per la classe agiata questa distinzione è un fatto d’onore, e, senza dubbio, giustificato. La guerra è onorifica, e il coraggio bellicoso è eminentemente onorifico agli occhi della generalità degli uomini; e quest’ammirazione del coraggio bellicoso è di per sé la miglior garanzia di un temperamento predatorio in chi ammira la guerra. L’entusiasmo per la guerra, e il temperamento predatorio di cui esso è indice, prevalgono in larghissima misura fra le classi superiori, specialmente fra la classe agiata ereditaria. Inoltre, l’evidente occupazione seria della classe superiore è quella del governo, che quanto all’origine e al suo sviluppo è pure un’occupazione predatoria.

La sola classe che potrebbe veramente contendere alla classe agiata ereditaria l’onore di una disposizione mentale abitualmente bellicosa è quella dei delinquenti di classe inferiore. In tempi ordinari, la maggioranza delle classi industriali è relativamente apatica in fatto d’interessi guerreschi. Allorché non venga eccitata, questa massa di gente comune, che costituisce la forza effettiva della società industriale, è piuttosto contraria a ogni combattimento che non sia difensivo; in realtà, essa risponde con un certo ritardo anche alle provocazioni che richiamano un atteggiamento di difesa. Nelle società più civili, o piuttosto nelle società che hanno raggiunto uno sviluppo industriale progredito, si può dire che lo spirito dell’aggressione bellicosa cade in disuso tra la gente comune. Ciò non esclude che vi sia nelle classi industriali un numero rilevante d’individui nei quali lo spirito marziale si afferma chiaramente. E nemmeno esclude che la massa della gente possa per un certo tempo venire accesa di ardore marziale sotto lo stimolo di qualche particolare provocazione, come si vede oggi in atto in più d’un paese d’Europa e occasionalmente in America. Però, eccezion fatta per tali ragioni di esaltazione passeggera, e per quegli individui che siano dotati di un temperamento arcaico del tipo predatorio, insieme con il complesso d’individui delle classi superiori e inferiori similmente dotati, l’inerzia della massa di una moderna società civile sotto questo aspetto è probabilmente tanto grande che renderebbe la guerra impossibile, salvo contro un’invasione vera e propria. Le abitudini e le attitudini degli uomini ordinari favoriscono uno spiegamento d’attività in altre direzioni, meno pittoresche di quella bellica. Questa differenza di classe in fatto di temperamento può esser dovuta in parte a una differenza del retaggio delle caratteristiche acquisite nelle varie classi, ma sembra pure, in parte, corrispondere a una differenza di derivazione etnica. La differenza di classe è a questo proposito visibilmente minore in quei paesi la cui popolazione dal punto di vista etnico è relativamente omogenea, che nei paesi in cui ci sia una più marcata divergenza fra gli elementi etnici che costituiscono le varie classi della società. Al medesimo proposito si può rilevare che gli acquisti più recenti della classe agiata in questi ultimi paesi mostrano in linea generale uno spirito marziale minore che i rappresentanti contemporanei dell’aristocrazia di vecchio stampo. Questi nouveaux arrivés sono di recente usciti dalla massa comune della popolazione e devono la loro entrata nella classe agiata all’esercizio di caratteristiche e di tendenze che non si possono considerare coraggio nel senso antico.

A parte l’attività bellicosa vera e propria, anche l’istituto del duello è un’espressione della stessa maggior prontezza al combattimento; e il duello è un’istituzione della classe agiata. Il duello è in sostanza un ricorso più o meno deliberato al combattimento come decisione finale di una divergenza d’opinione. Nelle società civili esso prevale come fenomeno ordinario soltanto dove ci sia una classe agiata ereditaria, e quasi esclusivamente in mezzo a questa classe. Le eccezioni sono: 1) gli ufficiali militari e di marina — che sono di regola membri della classe agiata e nello stesso tempo particolarmente educati alle abitudini mentali di rapina — e 2) i delinquenti di classe inferiore — che per ereditarietà o educazione o per l’una e l’altra hanno disposizioni e abitudini parimenti di rapina. Soltanto il gentiluomo bennato e il teppista fanno normalmente ricorso alle botte come a ciò che appiana tutte le diversità di opinione. L’uomo ordinario combatterà di regola soltanto quando un’eccessiva irritazione momentanea o un’esilarazione alcoolica concorrano a inibire le più complesse reazioni abituali agli stimoli provocatori. Egli torna allora alle forme più semplici, meno differenziate, dell’istinto di autoaffermazione; vale a dire egli torna temporaneamente e senza riflettere a un abito mentale arcaico. L’istituzione del duello, come modo di decidere dispute e gravi questioni di precedenza, trapassa nel combattimento privato obbligatorio, quale obbligazione sociale per serbare una buona reputazione. Ne abbiamo un particolare esempio in quella strana sopravvivenza di bellicosità cavalleresca che è il duello universitario tedesco. Nella classe agiata inferiore o spuria dei delinquenti c’è in tutti i paesi un’obbligazione sociale simile benché meno formale, che spinge il teppista ad affermare la sua virilità in un combattimento non provocato con i suoi colleghi. E diffondendosi in tutti i gradi della società, un’usanza consimile prevale fra i ragazzi della comunità. Il ragazzo di regola sa esattamente come, di giorno in giorno, lui e i compagni si classifichino per relativa capacità di combattimento; e nella comunità dei ragazzi non c’è ordinariamente nessuna base sicura di rispettabilità per uno il quale, eccezionalmente, non voglia o non possa lottare su sfida. Tutto ciò si applica specialmente a ragazzi al di sopra di un certo limite un po’ vago di maturità. Il temperamento del fanciullo non corrisponde generalmente a questa descrizione durante l’infanzia e gli anni di stretta tutela, quand’egli cerca ancora abitualmente il contatto con la madre a ogni svolta della sua vita quotidiana. Durante questo primo periodo c’è poco spirito aggressivo e una scarsa tendenza all’antagonismo. Il passaggio da quest’umore

pacifico alla predace e nei casi estremi perversa cattiveria del ragazzo è graduale, e si compie con maggior compiutezza, comprendendo un maggior numero di attitudini dell’individuo, in alcuni casi piuttosto che in altri. Nel precedente stadio di sviluppo il fanciullo, sia ragazzo o ragazza, mostra minore iniziativa e auto-affermazione aggressiva nonché minore inclinazione a isolare se stesso e i suoi interessi dal gruppo domestico in cui vive, e mostra una maggiore sensibilità ai rimproveri, mastra timidezza, pudore e bisogno di un contatto umano amichevole. Nei casi ordinari questo temperamento primitivo trapassa, attraverso un abbandono graduale ma abbastanza rapido delle caratteristiche infantili, nel temperamento del ragazzo vero e proprio; benché si diano anche casi in cui le caratteristiche predatorie nella vita del ragazzo non emergono affatto, o al più non emergono che in misura incerta e trascurabile. Nelle ragazze il passaggio allo stadio di rapina raramente si compie così completamente come nei ragazzi; e in una percentuale relativamente alta di casi non comincia nemmeno. In casi del genere il passaggio dall’infanzia all’adolescenza e alla maturità è un processo graduale e ininterrotto di spostamento d’interesse dagli scopi o attitudini infantili agli scopi, alle funzioni e alle relazioni della vita adulta. Fra le ragazze l’intervallo di rapina prevale assai meno; e nei casi in cui lo s’incontri, l’atteggiamento predatorio e separatista è comunemente meno accentuato. Nel fanciullo l’intervallo di rapina è ordinariamente abbastanza ben marcato e dura per qualche tempo, ma finisce di regola (se finisce) con il raggiungimento della maturità. Quest’ultima affermazione può richiedere un’importante limitazione. Non sono per niente rari i casi in cui il passaggio dal temperamento infantile a quello adulto non si compie, o si compie solo parzialmente — intendendo per temperamento «adulto» il temperamento medio di quei membri della vita industriale moderna che hanno qualche utilità ai fini del processo della vita collettiva e che perciò si può dire costituiscano la media effettiva della società industriale. La composizione etnica delle popolazioni europee è varia. In alcuni casi anche le classi inferiori sono in gran parte formate dal bellicoso dolico-biondo, mentre in altri casi quest’elemento etnico si trova principalmente fra la classe agiata ereditaria. Sembra che l’abitudine al combattimento prevalga in misura minore tra i ragazzi non dolico-biondi della classe lavoratrice che non tra i ragazzi delle classi superiori o tra quelli delle popolazioni citate per prime. Se questa generalizzazione quanto al temperamento dei ragazzi della

classe lavoratrice risultasse esatta da un esame più approfondito e più vasto del problema, aggiungerebbe vigore alla tesi che il temperamento bellicoso è in grado notevole una caratteristica razziale; sembra che esso entri più largamente nella composizione del dominante tipo etnico della classe superiore —il dolico-biondo — dei paesi europei che non nel tipo d’uomo subordinato, di classe inferiore, che si pensa costituisca la massa della popolazione delle medesime comunità. Può sembrare che il caso del ragazzo non interessi seriamente il problema della relativa riserva di coraggio di cui le varie classi sociali sono dotate; ma ha almeno qualche valore in quanto concorre a mostrare che quest’impulso al combattimento appartiene a un temperamento più arcaico di quello posseduto dal medio uomo adulto delle classi industriali. In questa, come in molte altre caratteristiche della vita infantile, il fanciullo riproduce, temporaneamente e in miniatura, alcune delle fasi primitive dello sviluppo dell’adulto. In base a quest’interpretazione, la predilezione del ragazzo per le belle gesta e l’isolamento dei suoi interessi è da prendersi come una regressione passeggera alla natura umana secondo la primitiva civiltà barbarica: la civiltà di rapina vera e propria. Sotto questo aspetto, come sotto molti altri, il carattere della classe agiata e della categoria dei delinquenti mostra nella vita adulta una persistenza di tratti che sono normali per l’infanzia e la giovinezza e che sono parimente normali o abituali per gli stadi primitivi di civiltà. A meno che la differenza si possa interamente riportare a una differenza fondamentale fra tipi etnici stabili, le caratteristiche che distinguono dalla folla comune il delinquente vantatore e l’orgoglioso gentiluomo della classe agiata sono, in parte, segni di un arresto dello sviluppo spirituale. Esse denotano una fase immatura, confrontate con lo stadio di sviluppo raggiunto dalla media degli adulti nella società industriale moderna. E apparirà chiaro che la formazione spirituale puerile di questi rappresentanti degli strati sociali superiori e infimi si mostra anche attraverso la presenza di caratteristiche arcaiche diverse da questa tendenza alla gesta feroce e all’isolamento. Come per non lasciar dubbi intorno all’essenziale immaturità del temperamento combattivo noi troviamo, a fare da ponte sull’intervallo fra la legittima adolescenza e la virilità adulta, i futili e scherzosi ma più o meno sistematici ed elaborati tumulti, di moda fra gli scolari d’età poco più avanzata. Nei casi ordinari questi tumulti non vanno oltre gli anni dell’adolescenza. Essi ricorrono con frequenza e portata decrescenti man mano che la giovinezza si cambia in vita adulta, e così riproducono in linea di

massima, nella vita dell’individuo, le tappe successive attraverso cui il gruppo è passato dall’abito di vita predatorio a un altro più stabile. In un notevole numero di casi lo sviluppo spirituale dell’individuo s’arresta prima ch’egli esca da quella fase puerile; in questi casi il temperamento combattivo persiste per tutta la vita. Perciò quegli individui che nello sviluppo spirituale raggiungono finalmente lo stadio di uomo, passano di solito attraverso una temporanea fase arcaica, che corrisponde al livello spirituale permanente degli uomini guerrieri e sportivi. Naturalmente individui diversi raggiungeranno una maturità e una sobrietà spirituale di grado diverso; e quelli che cadono al di sotto della media restano come non dissolto residuo di umana rozzezza nella società industriale moderna e come sconfitta di quel processo selettivo di adattamento che opera per una superiore efficienza industriale e per la pienezza della vita collettiva. Questo arresto dello sviluppo spirituale si può esprimere non solo in una diretta partecipazione degli adulti alle gesta feroci della gioventù, ma anche indirettamente aiutando e incoraggiando disordini di questo genere da parte di persone più giovani. Esso perciò promuove la formazione di abiti di ferocia che possono persistere nella vita della generazione crescente, e ritardare così un movimento verso la costituzione di un più pacifico effettivo spirito nella comunità. Se una persona dotata di tale tendenza alle belle gesta si trova nella posizione di guidare lo sviluppo delle abitudini dei membri adolescenti della comunità, l’influenza ch’essa esercita per la conservazione e il ritorno al coraggio può essere considerevolissima. Tale è il significato, per esempio, della paterna cura dedicata ultimamente da molti sacerdoti e da altri pilastri della società alle «brigate dei ragazzi» o a simili organizzazioni pseudomilitari. La stessa cosa vale per l’incoraggiamento dato allo sviluppo dello «spirito di corpo», dell’atletica e simili, negli istituti superiori di cultura. Queste manifestazioni del temperamento di rapina vanno tutte classificate nella categoria delle gesta. Esse sono in parte espressioni semplici e irriflesse di un’attitudine alla ferocia emulativa, in parte attività deliberatamente intraprese in vista di guadagnare fama di coraggio. Gli sport di tutti i generi hanno lo stesso carattere generale, che comprende il pugilato, la corrida, l’atletica, la caccia, la pesca, il canottaggio e i giochi di destrezza. Non è necessario che l’efficienza fisica distruttiva vi regni. Gli sport sfumano dal fondamento del combattimento ostile, attraverso la destrezza, in astuzia e intrigo, senza che sia possibile tracciare in qualche punto una linea divisoria. Ci si dedica agli sport per via di una costituzione spirituale arcaica — una tendenza emulativa predatoria in grado altissimo. Una forte disposizione per

le gesta avventurose e per infliggere danni si accentua particolarmente in quegl’impieghi che nel linguaggio comune si chiamano specificamente sportivi. È forse più vero, o almeno più evidente, per quel che riguarda gli sport che non per le altre espressioni dell’emulazione predatoria di cui si è parlato, che il temperamento che vi dispone gli uomini è essenzialmente un temperamento fanciullesco. L’applicazione agli sport, perciò, segna in grado particolare un arresto nello sviluppo della natura morale dell’uomo. Questa speciale infantilità diventa subito evidente negli uomini dediti a sport, quando si tenga conto del largo elemento di ostentazione che c’è in ogni attività sportiva. Gli sport dividono questo carattere di ostentazione con i giochi e le bravate a cui i ragazzi, specialmente i maschi, sono abitualmente propensi. L’ostentazione non entra allo stesso modo in tutti gli sport, ma è presente in tutti in misura notevolissima. A quanto pare, è presente in maggior misura nelle gare propriamente sportive e atletiche che non nei giochi di destrezza di carattere più sedentario; benché questa regola possa non applicarsi con troppa uniformità. Si può notare, per esempio, che anche uomini assai tranquilli e gravi che vanno a caccia tendono a portarsi dietro una quantità d’armi e d’arnesi per convincer se stessi della serietà dell’impresa. Questi cacciatori sono pure propensi a un piglio istrionico e sussiegoso e a una studiata esagerazione dei movimenti, sia furtivi che d’assalto, che fanno parte delle loro gesta. Parimenti negli sport atletici non manca mai una buona dose di affettazione e d’evidente vanagloriosa mistificazione: caratteristiche che denotano la natura istrionica di queste attività. In tutto questo il richiamo all’ostentazione infantile è abbastanza evidente. Tra l’altro, il gergo degli atleti è in gran parte composto di locuzioni estremamente sanguinarie, tolte a prestito dalla terminologia di guerra. Eccetto là dove sia adottato come mezzo indispensabile di comunicazione segreta, l’uso di un gergo speciale in qualsivoglia attività va probabilmente inteso come segno che quest’attività è sostanzialmente un’ostentazione. Un’altra caratteristica, in cui gli sport differiscono dal duello e da simili violenze, è il fatto ch’essi ammettono altri motivi oltre gli impulsi del bel gesto e della ferocia. In un caso dato c’è probabilmente poco o punto altro motivo, ma il fatto che spesso si accampino ragioni diverse per abbandonarsi agli sport viene a dire che ci sono talvolta motivi diversi in qualità di ausiliari. Gli sportivi — cacciatori e pescatori — hanno dal più al meno l’abitudine d’invocare l’amore alla natura, il bisogno di ricreazione e simili, come

incentivi al loro passatempo favorito, Senza dubbio questi motivi ci sono sovente e costituiscono in parte l’attrattiva della vita dello sportivo; ma non possono esser questi i principali. Questi bisogni evidenti si potrebbero più presto e pienamente soddisfare senza accompagnarli con il sistematico sforzo di toglier la vita a quelle creature che formano una parte essenziale di quella «natura» tanto amata dallo sportivo. È, difatti, l’effetto più notevole dell’attività sportiva quello di mantenere la natura in uno stato di desolazione cronica sopprimendo tutti gli esseri vivi che è dato sopprimere. Tuttavia, lo sportivo ha ragione di affermare che secondo le attuali convenzioni il suo bisogno di ricreazione e di contatto con la natura non può meglio soddisfarsi che con il sistema da lui adottato. Certi canoni di buona educazione vennero imposti in passato dall’esempio prescrittivo di una classe agiata di rapina e conservati con gran fatica dagli usi degli ultimi rappresentanti di quella classe; e questi canoni non permetteranno mai, senza biasimo, di cercare il contatto con la natura con altri mezzi. Gli sport, che furono un’onorevole occupazione tramandata dalla civiltà di rapina come la più alta forma di spasso quotidiano, sono ormai la sola forma di attività all’aperto che abbia la piena sanzione del decoro. Fra gli stimoli immediati della caccia e della pesca può quindi esserci il bisogno di ricreazione e di vita all’aperto. Ma la causa remota che impone necessariamente di cercare tali obiettivi valendosi di una sistematica carneficina è una prescrizione che non può venir violata, se non a rischio di ma-lafama e quindi di offesa al proprio rispetto di sé. Il caso di altri generi di sport ha con questo una certa somiglianza. Fra di essi, i giochi atletici sono l’esempio migliore. Anche qui naturalmente vigono le usanze prescritte rispetto a quali forme di attività, di esercizio e di ricreazione siano consentite in base al codice del vivere onorato. Quelli che si applicano agli sport atletici, o che li ammirano, hanno la pretesa che essi offrano il mezzo più idoneo di ricreazione e di «cultura fisica». Un’usanza prescrittiva dà fondamento alla pretesa. I canoni del vivere onorato escludono dal modello di vita della classe agiata tutte le attività che non possano venir classificate come agiatezza vistosa. E di conseguenza essi tendono a escluderle anche dal modello di vita della società in generale. Però l’esercizio fisico senza scopo è insopportabilmente noioso e disgustoso. Com’è stato in altra occasione rilevato in un caso del genere, si fa allora ricorso a una forma di attività che dovrebbe almeno offrire il plausibile pretesto di uno scopo, anche se l’obiettivo fissato sia soltanto un’ostentazione. Gli sport soddisfano queste

esigenze di futilità sostanziale insieme con la plausibile finzione di uno scopo. Oltre a ciò, essi dànno campo all’emulazione e sono attraenti anche per questo. Per riuscire decorosa, un’occupazione deve uniformarsi al canone dello sciupìo onorevole della classe agiata; nello stesso tempo ogni attività, per essere accettata come espressione di vita abituale, anche se soltanto parziale, deve uniformarsi al canone genericamente umano dell’efficienza in vista di qualche utile scopo obiettivo. Il canone della classe agiata esige una futilità rigorosa e totale; l’istinto dell’efficienza esige un’azione diretta a uno scopo. Il canone del decoro della classe agiata agisce lento e in profondità, mediante un’eliminazione selettiva dal modello di vita accreditato di ogni sorta di azione sostanzialmente utile o avente uno scopo; l’istinto dell’efficienza agisce impulsivamente e può essere soddisfatto, in via provvisoria, con uno scopo prossimo. È soltanto allorché la conoscenza dell’ulteriore futilità di una data linea di condotta entra nel complesso riflessivo della consapevolezza come elemento essenzialmente estraneo alla tendenza del processo vitale, che si opera il suo effetto inquietante e frastornante sulla consapevolezza dell’agente. Le abitudini mentali dell’individuo formano un complesso organico, la tendenza del quale è necessariamente nella direzione dell’utilità al processo vitale. Quando si cerca di assimilare futilità e sciupìo sistematico, quali scopi di vita, in questo complesso organico, sopravviene immediatamente una revulsione. Però questa revulsione dell’organismo si può evitarla, se si riesce a restringere l’attenzione allo scopo prossimo e irriflesso dell’esercizio di destrezza o d’emulazione. Gli sport — caccia, pesca, giochi atletici e simili — esercitano la destrezza e la ferocia e l’astuzia emulative, caratteristiche della vita di rapina. Finché l’individuo non sia che scarsamente dotato di riflessione o di un senso della tendenza futura delle sue azioni — finché la sua sia sostanzialmente una vita d’ingenua azione impulsiva — fin allora gli scopi immediati e irriflessivi degli sport, come espressione di dominio, soddisferanno moderatamente il suo istinto dell’efficienza. Questo è particolarmente vero se i suoi impulsi dominanti sono le tendenze irriflessive all’emulazione proprie del temperamento di rapina. Nello stesso tempo i canoni del decoro gli raccomanderanno gli sport quali espressioni di una vita finanziariamente irreprensibile. È venendo incontro a queste due esigenze di ulteriore dispendiosità e di uno scopo prossimo, che una data occupazione mantiene il suo posto come modo tradizionale e abituale di ricreazione decorosa. Gli sport sono, quinci, il mezzo di ricreazione più idoneo nelle attuali circostanze, nel senso che altre forme di ricreazione e di esercizio sono

moralmente impossibili a persone di buona educazione e di gusti delicati. Però quei membri della buona società, che difendono i giochi atletici, generalmente giustificano davanti a sé e ai vicini il loro atteggiamento a questo riguardo in base al motivo che questi giochi servono come un impagabile mezzo di sviluppo. Essi non soltanto migliorano il fisico del concorrente, ma si aggiunge di regola che promuovono anche uno spirito virile, sia nei partecipanti alle gare che negli spettatori. Il foot-ball1 è il gioco che probabilmente verrà in mente per primo a tutti quanti quando si sollevi il problema dell’utilità dei giochi atletici, giacché oggi è questa la sorta di gara più discussa da quelli che militano pro o contro i giochi come mezzo di redenzione fisica o morale. Questo tipico sport atletico può pertanto servire a illustrare l’influenza dell’atletica sullo sviluppo del carattere e del fisico del competitore. È stato detto, non a sproposito, che la relazione fra il football e la cultura fisica è quasi identica a quella fra il combattimento dei tori e l’agricoltura. L’idoneità a queste istituzioni di svago richiede un’educazione e un allenamento scrupolosi. Il materiale usato, sia bruto che umano, è sottoposto a una disciplina e a una selezione attenta, per assicurare e accentuare certe attitudini e tendenze che sono caratteristiche dello staro ferino, e che tendono nello stato addomesticato a cadere in disuso. Ciò non vuol dire che nell’uno o nell’altro caso il risultato sia una riabilitazione completa e consistente dell’abito mentale e fisico ferino o barbarico. Il risultato è piuttosto un ritorno unilaterale alla barbarie o alla fera? natura — una riabilitazione e accentuazione di quelle caratteristiche ferine che provocano i danni e le desolazioni, senza un corrispondente sviluppo delle caratteristiche che servirebbero all’autoconservazione e alla pienezza di vita dell’individuo in ambiente ferino. La cultura spesa nel gioco del foot-ball dà un prodotto di destrezza e ferocia esotiche. È una riabilitazione del temperamento barbarico primitivo, insieme con la soppressione di quei particolari di temperamento che, considerati dal punto di vista delle esigenze sociali ed economiche, riscattano il carattere selvaggio. Il vigore fisico procurato con l’allenamento ai giochi atletici — in quanto si possa dire che l’allenamento ha questo effetto— è utile sia all’individuo che alla collettività in ciò che, coeteris paribus, esso conduce all’idoneità economica. Le caratteristiche spirituali che s’accompagnano con gli sport atletici sono del pari utili economicamente all’individuo, in quanto contraddistinte dagli interessi della collettività. Ciò vale per ogni società dove queste caratteristiche siano in una certa misura presenti nella popolazione. La

competizione moderna è in gran parte un processo di autoaffermazione sulla base di queste caratteristiche della natura umana predatoria. Nella forma sofisticata con cui esse entrano nella moderna emulazione pacifica, il possesso di queste caratteristiche in qualche misura è quasi una necessità di vita per l’uomo civile. Mentre però esse sono indispensabili all’individuo in competizione, non sono direttamente utili alla comunità. Per quanto riguarda l’utilità dell’individuo agli scopi della vita collettiva, l’efficienza emulativa è utile tutt’al più soltanto indirettamente. La ferocia e la destrezza non sono utili alla comunità che nelle sue relazioni ostili con altre comunità; e sono utili all’individuo soltanto perché c’è una proporzione troppo vasta delle medesime caratteristiche attivamente presenti nell’ambiente umano a cui è esposto. Un individuo che entri nella lotta di competizione senza la dovuta riserva di queste caratteristiche si trova in svantaggio, quasi come un torello senza corna in un branco di bovini con corna. L’avere e il coltivare caratteristiche di rapina può naturalmente esser cosa desiderabile per motivi diversi da quelli economici. C’è una spiccata predilezione estetica o etica per le attitudini barbariche, e le caratteristiche in questione servono così efficacemente a questa predilezione che la loro utilità dal punto di vista estetico o etico controbilancia probabilmente ogni inidoneità economica che esse possano conferire. Ma per lo scopo presente ciò è fuori argomento. Nulla perciò qui si dice quanto alla desiderabilità o all’utilità degli sport in genere, o quanto al loro valore per motivi diversi da quelli economici. Secondo l’opinione della gente, molto vi è di ammirevole nel tipo di maschio prodotto dalla vita sportiva. Vi è la fiducia in se stessi e il cameratismo, come si dice usando alquanto liberamente questi termini. Da un diverso punto di vista le qualità comunemente così definite potrebbero essere chiamate truculenza e omertà. Il motivo della generale approvazione e ammirazione di queste maschie qualità, come pure del termine «maschie», è lo stesso della loro utilità per l’individuo. I membri della comunità, e specialmente quella classe della società che fa legge riguardo ai canoni di gusto, sono abbastanza forniti di questo complesso di tendenze da farne sentire la mancanza in altri come una deficienza e farne invece straordinariamente apprezzare il possesso come attributo di merito superiore. Le caratteristiche dell’uomo di rapina non sono affatto cadute in disuso in mezzo alla generalità della gente d’oggidì. Esse sono presenti e possono sempre richiamarsi in forte rilievo mediante un appello ai sentimenti in cui

s’esprimono — a meno che quest’appello si opponga alle attività specifiche, che costituiscono le nostre occupazioni abituali e comprendono la serie generale dei nostri interessi quotidiani. La popolazione ordinaria di una società industriale è emancipata da queste tendenze dannose da un punto di vista economico soltanto nel senso che, attraverso un abbandono parziale e temporaneo, esse sono ricadute nel sostrato dei motivi subcoscienti. Con vari gradi di potenza nei diversi individui, esse conservano la capacità di conformare all’aggressione le azioni e i sentimenti degli uomini, ogniqualvolta uno stimolo d’intensità maggiore dell’ordinario intervenga a richiamarle. E si affermano violentemente in ogni caso in cui nessuna occupazione estranea alla civiltà di rapina abbia usurpato gli interessi e i sentimenti ordinari dell’individuo. Questo è il caso della classe agiata e di alcune parti della popolazione che sono subordinate a quella classe. Di qui la facilità con cui le nuove reclute della classe agiata si danno agli sport; e di qui il rapido sviluppo degli sport e del sentimento sportivo in una società industriale dove si sia accumulata abbastanza ricchezza da esentare una parte notevole della popolazione dal lavoro. Un fatto semplice e familiare può servire a mostrare che l’impulso di rapina non ha la stessa prevalenza in tutte le classi. Considerata semplicemente come un tratto della vita modesta, l’abitudine di portare un bastone da passeggio può al più sembrare un particolare di nessun conto; ma l’usanza ha un significato per il punto in questione. Le classi fra le quali l’abitudine maggiormente prevale — le classi con cui nell’opinione della gente è associato il bastone da passeggio — sono gli uomini della classe agiata propriamente detta, gli sportivi e i delinquenti di bassa risma. A questi si potrebbero forse aggiungere gli uomini occupati negli impieghi finanziari. La stessa cosa non vale per la generalità degli uomini occupati nell’industria; e si può osservare di passaggio che le donne non portano bastone eccetto che in caso di malattia, in cui esso serve a un altro scopo. Quest’usanza è naturalmente in gran parte un fatto d’eleganza; ma a sua volta la base delle usanze eleganti sono le tendenze della classe che detta legge in materia d’eleganza. Il bastone da passeggio serve ad annunciare che le mani di chi lo porta sono altrimenti impiegate che in lavori utili, e connota perciò un segno d’agiatezza. Ma è anche un’arma, e per questo soddisfa un vivo bisogno dell’uomo barbarico. Il maneggio di un mezzo di difesa così tangibile e primitivo è molto piacevole per chiunque sia dotato di una dose anche modesta di ferocia.

Le esigenze del linguaggio rendono impossibile evitare l’apparenza di un’implicita disapprovazione delle attitudini, tendenze ed espressioni di vita qui discusse. Comunque, qui non si vuole lodare né deprecare nessuna di queste fasi del carattere umano o del processo vitale. I vari elementi della natura umana dominante sono considerati dal punto di vista della teoria economica, e le caratteristiche discusse sono valutate e distribuite con riguardo alla loro influenza economica immediata sulla facilità del processo della vita collettiva. Vale a dire, questi fenomeni sono qui considerati dal punto di vista economico e valutati rispetto alla loro azione diretta di favoreggiamento o di ostacolo a un più perfetto equilibrio della collettività umana con l’ambiente e con la struttura istituzionale richiesta dalla situazione economica della collettività nel presente e nell’immediato futuro. A questi scopi le caratteristiche tramandate dalla civiltà di rapina sono meno idonee di quel che potrebbero. Benché anche in questo caso non si debba trascurare che l’energia aggressiva e ostinata dell’uomo di rapina è un’eredità di non scarso valore. Sul valore economico — con qualche riguardo anche al valore sociale nel senso più stretto — di queste attitudini e tendenze si propende a sorvolare senza riflettere al loro valore quale risulta da un diverso punto di vista. Contrapposte alla prosaica mediocrità del recentissimo modello di vita industriale, e giudicate secondo i criteri accreditati della moralità, e più particolarmente dell’estetica e della poesia, queste sopravvivenze di un tipo di umanità più primitivo potrebbero ricevere una valutazione assai diversa da quella qui data. Ma poiché tutte queste cose sono estranee al nostro scopo, nessuna opinione espressa a questo proposito starebbe bene. È qui ammissibile soltanto assicurarci che a questi criteri di eccellenza, estranei al nostro scopo, non si permetta d’influenzare l’apprezzamento economico che noi tacciamo di questi tratti del carattere umano o delle attività che alimentano il loro sviluppo. Ciò vale sia per quanto riguarda quelli che partecipano attivamente agli sport sia per quelli la cui esperienza sportiva consiste soltanto nell’assistere. Ciò che qui si è detto della tendenza sportiva interessa pure diverse considerazioni, che seguiranno, su quella che correntemente si chiama la vita religiosa. L’ultimo capoverso accenna incidentalmente al fatto che il linguaggio comune di rado può essere usato per discutere questa categoria di attitudini e di attività, senza connotare disapprovazione o apologia. Il fatto è significativo in quanto mostra l’attitudine abituale dell’uomo comune spassionato verso le tendenze che si esprimono negli sport e nelle gesta gloriose in genere. E questo

è forse il momento per discutere quel sottinteso di deprecazione che s’insinua in tutti gli interminabili discorsi a difesa o in lode degli sport atletici, così come di altre attività a carattere prevalentemente predatorio. Si può almeno cominciare a notare la stessa mentalità apologetica nei propagandisti di moltissime altre istituzioni tramandate dalla fase di vita barbarica. Fra queste istituzioni arcaiche che sembrano aver bisogno di difesa sono compresi, fra l’altro, tutto l’attuale sistema di distribuzione della ricchezza, insieme con le distinzioni sociali di casta che ne derivano; tutte o quasi tutte le forme di consumo che cadono nella categoria dello sciupìo vistoso; la condizione delle donne nel sistema patriarcale; e molte caratteristiche delle fedi e delle pratiche devote tradizionali, specialmente le espressioni essoteriche della fede e l’ingenua concezione delle pratiche tramandate. Ciò che va detto in questo caso sull’atteggiamento apologetico assunto nel raccomandare gli sport e il carattere sportivo si applicherà perciò mutatis mutandis alle apologie di questi altri affini elementi del nostro retaggio sociale. Si ha un’impressione — di solito vaga e inconfessata dall’apologista, ma ordinariamente percettibile nel tono del suo discorso — che questi sport, come pure tutta la serie degli impulsi e delle abitudini mentali predatori che formano il sostrato del carattere sportivo, non si raccomandino di per sé al senso comune. «Quanto agli assassini, sono gente di carattere assai dubbio». Quest’aforisma dà una valutazione del temperamento di rapina, e degli effetti disciplinari della sua aperta espressione ed esercizio, considerati dal punto visuale del moralista. Come tale, esso offre un’indicazione intorno a ciò che è il parere del buon senso di uomini maturi quanto al grado d’utilità dell’abitudine mentale di rapina ai fini della vita collettiva. Si sente che il presupposto è contro ogni attività che implichi l’assuefazione all’attitudine di rapina, e che l’onere della prova tocca a quelli che parlano in favore di questo temperamento e degli esercizi che lo rafforzano. C’è un forte complesso di sentimenti popolari a favore di distrazioni e imprese del genere in questione; c’è però nello stesso tempo nella comunità un senso diffuso che questo complesso sentimentale vada legittimato. La legittimazione richiesta è cercata ordinariamente nella dimostrazione che, benché gli sport abbiano un effetto sostanzialmente predatorio e socialmente disgregatore; benché il loro effetto prossimo tenda a una regressione verso inclinazioni che non sono industrialmente utili; tuttavia essi, indirettamente e a gran distanza — mediante un qualche processo non prontamente afferrabile di polarizzazione o forse di controirritazione — alimentano un’abitudine mentale utile agli scopi

sociali e industriali. Vale a dire, benché gli sport abbiano essenzialmente la natura della gesta antagonistica, si presuppone che per qualche misterioso lontano effetto essi diano luogo allo sviluppo di un temperamento che conduca a un lavoro non antagonistico. Di regola si tenta di dimostrare tutto ciò empiricamente; o piuttosto, si pensa che quest’è la generalizzazione empirica che dev’essere ovvia a chiunque si curi di vederla. Nel corso della dimostrazione il pericoloso principio della deduzione da causa a effetto viene abilmente evitato, fuorché per quanto riguarda la tesi che le «virtù virili» di cui sopra si parla sono favorite dagli sport. Ma poiché sono queste virtù virili che hanno bisogno (economicamente) ci legittimazione, la catena del ragionamento si spezza dove dovrebbe cominciare. Nei termini economici più generali, queste apologie sono uno sforzo per dimostrare che, a dispetto della logica della cosa, gli sport di fatto favoriscono ciò che può all’ingrosso chiamarsi l’efficienza. Finché non abbia avuto successo nel persuadere sé o altri che questo è il loro effetto, il sincero difensore degli sport non riposerà contento e generalmente, bisogna riconoscerlo, non riposa contento. La sua insoddisfazione della difesa da lui tentata degli esercizi in questione risulta ordinariamente dal suo tono truculento e dall’ardore con cui accumula grandi affermazioni a conforto della sua tesi. Ma che bisogno c’è di apologie? Se un complesso di sentimenti popolari favorevoli agli sport prevale, perché non è questo fatto una legittimazione sufficiente? La protratta disciplina di coraggio a cui la razza è stata sottoposta durante la civiltà di rapina e quella quasi pacifica ha trasmesso agli uomini d’oggi un temperamento che trova soddisfazione in queste espressioni di ferocia e di destrezza. Così, perché non accettare questi sport come espressioni legittime di una normale e sana natura umana? Quale altra norma c’è secondo cui si debba vivere se non quella data dall’insieme delle tendenze che si esprimono nei sentimenti di questa generazione, compresa l’ereditaria volontà di coraggio? L’altra norma cui si fa appello è l’istinto dell’efficienza, che è un istinto più fondamentale, di prescrizione più antica, che non la tendenza all’emulazione predatoria. Quest’ultima non è che uno sviluppo particolare dell’istinto dell’efficienza, una variante, relativamente tarda ed effimera a dispetto della sua grande antichità assoluta. L’impulso predatorio all’emulazione — o l’istinto delio sport, come si potrebbe ben chiamarlo — è essenzialmente instabile a confronto con l’istinto primordiale dell’efficienza dal quale esso si è differenziato e sviluppato. Commisurata a quest’altra norma di vita l’emulazione predatoria, e perciò la vita sportiva, ne scapita.

Il modo e la misura con cui l’istituzione di una classe agiata porta a conservare gli sport e la gesta antagonistica non possono naturalmente essere descritti in modo succinto. Dai casi già citati appare chiaro che, quanto a sentimento e a inclinazioni, la classe agiata è più favorevole a un atteggiamento e a uno spirito bellicosi che non le classi industriali. Qualcosa di simile sembra che valga per quel che riguarda gli sport. Ma è specialmente nei suoi effetti indiretti, attraverso i canoni del vivere decoroso, che l’istituzione esercita la sua influenza sul sentimento prevalente in fatto di vita sportiva. Quest’effetto indiretto va quasi inequivocabilmente nel senso di favorire una sopravvivenza delle abitudini e del temperamento di rapina; e ciò vale anche rispetto a quelle varianti della vita sportiva che il codice d’etichetta della classe agiata superiore proibisce, per esempio il pugilato, il combattimento dei galli, e altri simili volgari espressioni del temperamento sportivo. Checché la più recente lista particolareggiata delle buone maniere possa dire, i canoni accreditati della rispettabilità sanzionati dall’istituzione dicono chiaramente che l’emulazione e lo spreco fanno onore e che i loro opposti sono sconvenienti. Nella luce crepuscolare degli strati sociali inferiori, i particolari del codice non vengono colti con tutta quella facilità che si potrebbe desiderare, e questi canoni fondamentali di rispettabilità vengono perciò applicati un po’ a casaccio, facendo poco conto della portata della loro autorità o delle eccezioni che siano sanzionate in particolare. L’applicazione agli sport atletici, non soltanto nel senso della partecipazione diretta, ma anche come sentimento e sostegno morale, è, in misura più o meno notevole, una caratteristica della classe agiata; ed è una caratteristica elle quella classe ha in comune con i delinquenti di bassa risma e con quegli elementi atavici della comunità che sono dotati di una dominante tendenza alla rapina. Pochi individui fra le popolazioni dei paesi civili dell’Occidente sono così completamente privi dell’istinto di rapina da non trovare svago nell’ assistere a sport e a giochi atletici, però in mezzo agli individui degli strati medi delle classi industriali l’inclinazione agli sport non si afferma tanto da costituire quella che si può ben chiamare l’abitudine sportiva. Per queste classi gli sport sono uno svago occasionale piuttosto che una stabile caratteristica di vita. Non si può dire pertanto che questa gente comune coltivi l’inclinazione sportiva. Benché non sia caduta in disuso nella media di essi, o anche in un numero notevole di individui, tuttavia nelle comuni classi industriali la predilezione per gli sport ha piuttosto il carattere di una reminiscenza, più o meno divertente come interesse occasionale, che

non di un interesse vitale e permanente il quale conti come fattore dominante nel formare il complesso organico delle abitudini mentali in cui entra. Così come si manifesta nella vita sportiva odierna, questa tendenza può non sembrare un fattore economico di grande importanza. Presa semplicemente a sé, non conta molto nei suoi effetti diretti sull’efficienza industriale o sul consumo di un dato individuo, ma la prevalenza e lo sviluppo del tipo di natura umana di cui questa tendenza è un tratto caratteristico è un fatto di qualche importanza. Esso influisce sulla vita economica della collettività sia per quanto riguarda il grado dello sviluppo economico sia per quel che concerne il carattere dei risultati raggiunti mediante lo sviluppo. In meglio o in peggio, il fatto che gli abiti mentali della gente siano in qualche misura dominati da questo tipo di carattere non può che grandemente influire sull’ampiezza, la direzione, i criteri, e gli ideali della vita economica collettiva, come pure sul grado di equilibrio della vita collettiva con l’ambiente. Qualcosa del genere va detto intorno agli altri tratti che concorrono a formare il carattere barbarico. Ai fini di una teoria economica, queste ulteriori caratteristiche si possono considerare variazioni concomitanti di quel temperamento di rapina di cui il coraggio è un’espressione. In gran parte esse non hanno in primo luogo un carattere economico, né hanno una diretta influenza economica. Esse servono a denotare lo stadio di evoluzione economica a cui l’individuo che ne è in possesso è adattato. Esse sono perciò importanti come prove esterne del grado di adattamento del carattere, in cui sono comprese, alle esigenze economiche odierne; ma sono pure in parte importanti in quanto di per sé attitudini che contribuiscono ad aumentare oppure diminuire futilità economica dell’individuo. Quale si riscontra nella vita del barbaro, il coraggio si manifesta in due direzioni principali — la violenza e la frode. In gradi diversi queste due forme d’espressione sono del pari presenti nella guerra moderna, nelle occupazioni finanziarie, negli sport e nei giochi. Entrambi i generi di attitudini sono coltivati e rafforzati dalla vita sportiva, come pure dalle forme più serie della vita di emulazione. La strategia o la destrezza è un elemento sempre presente nei giochi, come pure nelle imprese bellicose e nella caccia. In ognuna di queste occupazioni la strategia tende a diventare finezza e cavillo. Il cavillo, la falsità, l’arroganza occupano un posto ben assicurato nel metodo di procedura di ogni gara atletica e nei giochi in generale. L’impiego abituale di un arbitro, e le minuziose regole tecniche che segnano i limiti e í particolari della frode e della superiorità strategica permesse, provano abbastanza che gli intrighi e i

tentativi fraudolenti di superare l’avversario non sono caratteristiche casuali del gioco. Secondo la natura del caso, l’assuefazione agli sport dovrebbe portare a un più pieno sviluppo dell’attitudine per la frode; e la prevalenza nella comunità di quel temperamento di rapina che inclina gli uomini agli sport denota una prevalenza dell’intrigo malizioso e dell’insensibile noncuranza per gli interessi altrui, individualmente e collettivamente intesi. Il ricorso alla frode, in qualunque modo e sotto qualsiasi legittimazione di legge o di consuetudine, è espressione di un abito mentale strettamente egoistico. Non c’è bisogno d’insistere sulla portata economica di questa caratteristica del carattere sportivo. A questo punto va osservato che la caratteristica più ovvia del contegno ostentato dagli atleti e dagli sportivi è quella di una astuzia estrema. Le doti e le imprese di Ulisse non sono seconde a quelle di Achille, sia nel sostanziale appoggio che dànno alla gara sia nello splendore ch’esse conferiscono allo sportivo astuto fra i suoi colleghi. La pantomima dell’astuzia è di regola il primo passo in quell’assimilazione allo sportivo professionista, che un giovane compie dopo essersi immatricolato in qualunque scuola rispettabile d’istruzione secondaria o superiore. E la fisionomia astuta, quale caratteristica decorativa, non cessa mai di attirare la intenta attenzione di uomini il cui serio interesse consiste nei giochi atletici, nelle corse, o in altre gare di un simile carattere emulativo. Come segno ulteriore della loro affinità spirituale, si può sottolineare che i membri della classe più bassa dei delinquenti mostrano di regola in misura notevole questa fisionomia astuta e che in linea di massima rivelano quella stessa esagerazione istrionica che è dato vedere nel giovane candidato agli onori atletici. Questo, fra l’altro, è il più evidente distintivo di quella che volgarmente si chiama «pellaccia» nei giovani aspiranti a un tristo nome. L’uomo astuto, si può notare, è di nessun valore economico per la comunità — salvo che per intrighi maliziosi nel trattare con altre comunità. La sua funzione non è a favore del processo vitale in genere. Al più, nella sua influenza economica diretta, è una trasformazione della sostanza economica della collettività in uno sviluppo estraneo al processo di vita collettivo — proprio secondo l’analogia di ciò che in medicina sarebbe chiamato un tumore benigno, con qualche tendenza a oltrepassare la linea incerta che separa gli sviluppi benigni da quelli maligni. Le due caratteristiche barbariche, la ferocia e l’astuzia, contribuiscono a formare il temperamento e l’atteggiamento spirituale di rapina. Esse sono

l’espressione di un abito mentale strettamente egoistico. Entrambe sono altamente utili al vantaggio individuale in una vita che mira al successo antagonistico. Entrambe hanno pure un alto valore estetico. Entrambe sono alimentate dalla civiltà finanziaria. Ma entrambe sono del pari inutili ai fini della vita collettiva. 1. Si tratta del rugby.

CAPITOLO XI. LA CREDENZA NELLA FORTUNA La tendenza a giocare d’azzardo è un’altra caratteristica ausiliaria del temperamento barbarico. È una variazione concomitante del carattere prevalente quasi dappertutto fra gli sportivi e gli uomini dediti ad attività bellicose ed emulative in genere. Questa caratteristica ha anche un valore economico diretto. Si riconosce che è un ostacolo alla massima efficienza industriale del complesso di una società in cui prevalga in grado notevole. Non si sa se la tendenza al gioco debba essere considerata come una caratteristica appartenente esclusivamente al tipo predatorio. Il fattore principale nell’abitudine del gioco è la credenza nella fortuna; e questa credenza si può evidentemente riportare, almeno nei suoi elementi, a uno stadio dell’evoluzione umana anteriore alla civiltà di moina. Può ben essere stato durante la civiltà di rapina che la credenza nella fortuna si è sviluppata nella forma in cui è presente nel temperamento sportivo, come l’elemento principale della tendenza al gioco. Essa deve probabilmente alla disciplina predatoria la forma specifica sotto cui la s’incontra nella civiltà moderna. Però la credenza nella fortuna è in sostanza un’abitudine di data più antica che la civiltà di rapina. È una forma della concezione animistica delle cose. Sembra che la credenza sia una caratteristica passata sostanzialmente nella civiltà barbarica da una fase anteriore, e trasformata e trasmessa attraverso quella civiltà a uno stadio posteriore dell’umano sviluppo in una forma specifica imposta dalla disciplina di rapina. Ma in ogni caso è da considerarsi come una caratteristica arcaica, ereditata da un passato più o meno remoto, più o meno incompatibile con le esigenze del processo industriale moderno e più o meno d’impedimento alla massima efficienza della vita economica collettiva del presente. Mentre la credenza nella fortuna è la base dell’abitudine al gioco, essa non è il solo elemento che entra nell’abitudine della scommessa. La scommessa sull’esito delle gare di forza e di destrezza si appoggia a un altro motivo, senza il quale la credenza nella fortuna di rado interverrebbe come caratteristica preminente della vita sportiva. Quest’altro motivo è il desiderio del previsto

vincitore o del tifoso della parte prevista vincente di elevare l’ascendente della sua parte a danno di chi perde. Non soltanto la parte più forte ottiene una vittoria più notevole, e la parte perdente subisce una sconfitta più dura e più umiliante, secondo che il guadagno e la perdita finanziaria nella scommessa siano grandi; sebbene questa di per sé sia una considerazione che ha il suo peso. Ma la scommessa è generalmente fatta allo scopo, non confessato apertamente e neppure esplicitamente riconosciuto in pectore, di accrescere la possibilità di successo del competitore su cui è fatta. Si sente che il denaro e la sollecitudine spesi a questo fine non possono andar perduti nell’esito. C’è qui una manifestazione particolare dell’istinto dell’efficienza, sostenuta da un senso anche più manifesto che la congruenza animistica delle cose deve consentire un risultato vittorioso alla parte in nome della quale la tendenza inerente negli eventi è stata propiziata e fortificata con tanta urgenza di sforzi e di movimento. Questo incentivo alla scommessa si esprime liberamente nella forma di appoggiare in qualsiasi gara il proprio favorito, ed è senz’altro una caratteristica di rapina. È quale subordinata all’impulso predatorio vero e proprio che la fiducia nella fortuna si esprime nella scommessa. Cosicché si può stabilire che fin dove la fiducia nella fortuna si esprima con delle scommesse, è da considerarsi un elemento integrante del tipo predatorio. La fiducia, nei suoi elementi, è un’abitudine arcaica che appartiene sostanzialmente alla natura umana primitiva, indifferenziata; ma allorché questa fiducia sia aiutata dall’impulso di rapina emulativo, e si differenzi così nella forma specifica dell’abitudine al gioco, essa va considerata, in questa forma specifica e meglio sviluppata, come un elemento del carattere barbarico. La credenza nella fortuna è un senso di fortuita necessità nel susseguirsi dei fenomeni. Nei suoi vari mutamenti ed espressioni, essa ha molta importanza per l’efficienza economica di ogni comunità in cui prevalga in misura notevole. Al punto che consente una più particolareggiata discussione della sua origine e contenuto e dell’influenza delle sue diverse diramazioni sulla struttura e sulle funzioni economiche, come pure una discussione sul rapporto della classe agiata con il suo sviluppo, differenziazione e persistenza. Nella forma sviluppata e completa in cui si può subito rilevarla nel barbaro della civiltà di rapina o nello sportivo delle società moderne, la credenza comprende per lo meno due elementi distinguibili — che sono da ritenersi due fasi differenti dello stesso fondamentale abito di pensiero; oppure il medesimo fattore psicologico in due fasi successive della sua evoluzione. Il fatto che questi due elementi siano fasi successive della stessa linea generale di sviluppo

della credenza non impedisce la loro coesistenza nelle abitudini mentali di un dato individuo. La forma più primitiva (o fase più arcaica) è un’incipiente credenza animistica, oppure un senso animistico delle relazioni e delle cose, che attribuisce ai fatti un carattere quasi personale. Per l’uomo arcaico nel suo ambiente tutti gli oggetti e i fatti evidenti e ovviamente in relazione hanno un’individualità quasi personale. Essi gli appaiono in possesso di volontà o piuttosto di tendenze, che entrano nel complesso delle cause e influiscono sugli eventi in modo imperscrutabile. Il senso della fortuna e delle probabilità, o della necessità fortuita, dello sportivo è un animismo inarticolato e rudimentale. Esso si applica agli oggetti e alle situazioni, sovente in modo assai vago; però è generalmente tanto definito da implicare la possibilità di propiziare, o di deludere e ingannare adulando, o turbare altrimenti, il dispiegarsi di tendenze collocate negli oggetti che costituiscono l’apparato e gli accessori di qualsiasi gioco di destrezza e di possibilità. Ci sono pochi sportivi i quali non abbiano l’abitudine di portare amuleti o talismani, ai quali si attribuisce una maggiore o minore efficacia. E non è molto minore la percentuale di quelli che istintivamente temono gli «incantesimi» dei competitori o l’apparato impegnato in ogni gara in cui abbiano scommesso o che sentono che il fatto d’aver scommesso per un dato competitore o per un dato campo rafforza e dovrebbe rafforzare questo campo; oppure ai quali la mascotte cui essi tengono significa qualcosa di più che uno scherzo. Nella sua forma semplice la credenza nella fortuna è questo senso istintivo di un’imperscrutabile tendenza teleologica negli oggetti o nelle situazioni. Gli oggetti e gli eventi tendono ad arrivare a un dato fine, sia che questo fine od obiettivo del divenire venga concepito come dato casualmente o come deliberatamente cercato. Da questo semplice animismo, la credenza trapassa per gradi impercettibili nella seconda forma derivata, o fase sopra riferita, che è una credenza più o meno articolata in un’imperscrutabile forza agente soprannaturale. La forza agente soprannaturale opera attraverso gli oggetti visibili con cui è associata, ma non s’identifica con questi oggetti in fatto d’individualità. L’uso del termine «forza agente soprannaturale» qui non implica nient’altro riguardo alla natura della forza agente che si dice soprannaturale. Questo è soltanto un ulteriore sviluppo della credenza animistica. La forza agente soprannaturale non è necessariamente concepita come un agente personale nel senso pieno, ma è una forza agente che partecipa degli attributi della personalità al punto d’influenzare alquanto arbitrariamente l’esito di ogni impresa e specialmente ogni competizione. La

diffusa credenza negli hamingia o gipta (gcefa, authna)1 che conferisce tanto colore alle saghe islandesi in specie, e alle antiche leggende popolari germaniche in genere, è un esempio di questo senso di una tendenza extra fisica nel corso degli eventi. In quest’espressione o forma della credenza la tendenza viene raramente personificata, benché le si attribuisca in varia misura un’individualità; e si pensa talvolta che questa tendenza individualizzata si adatti alle circostanze, comunemente a circostanze di carattere spirituale o soprannaturale. Un esempio ben noto e impressionante della credenza — in uno stadio avanzato di differenziazione e tale da comportare una personificazione antropomorfica dell’agente soprannaturale cui si fa appello — è offerto dall’ordalia. Qui si pensava che l’agente soprannaturale agisse su richiesta come arbitro, e determinasse l’esito della competizione in base a qualche criterio stabilito, quali l’equità o la legalità delle rispettive pretese dei competitori. Un simile senso di un’imperscrutabile ma spiritualmente necessaria tendenza degli eventi si può ancora coglierlo come oscuro elemento della costante credenza popolare, per esempio nella ben nota massima: «Tre volte armato è chi sa di essere nel giusto», massima che conserva molto del suo significato per la semplice persona media anche nelle società civili di oggi. La reminiscenza moderna della credenza negli hamingia, o nella guida di una mano nascosta, che traspare nell’accettazione di questa massima, è debole e forse incerta; e sembra in ogni caso che si fonda con altri momenti psicologici che non hanno un carattere chiaramente animistico. Per il nostro scopo non è necessario guardare più a fondo nel processo psicologico o nella linea di evoluzione etnologica attraverso cui la più recente di queste due concezioni animistiche è derivata dalla più antica. Il problema può essere della massima importanza per la demopsicologia o per la teoria dell’evoluzione delle fedi e dei culti. La stessa cosa vale per la questione più fondamentale se le due fasi siano proprio in relazione come successive nella catena di uno sviluppo. Qui si è accennato all’esistenza di questi problemi soltanto per osservare che l’interesse della discussione presente non è in quella direzione. Per quanto concerne la teoria economica, questi due elementi o fasi della credenza nella fortuna, o in una tendenza o propensione extra causale delle cose, hanno sostanzialmente il medesimo carattere. Essi hanno un significato economico come abitudini mentali che influenzano il modo abituale di vedere i fatti e i nessi con i quali l’individuo viene a contatto e che perciò influiscono sulla sua utilità verso lo scopo industriale. Perciò, a parte

ogni questione intorno alla bellezza, dignità o utilità di qualsiasi tendenza animistica, c’è posto per una discussione intorno alla sua influenza sull’utilità dell’individuo come fattore economico e specialmente come agente industriale. È già stato osservato più sopra che, in vista della massima utilità nei processi odierni del complesso industriale, l’individuo dev’essere dotato dell’attitudine e dell’abito di prontamente afferrare e mettere in relazione i fatti nei termini di un nesso causale. Sia come un tutto che nei suoi particolari, il processo industriale è un processo di causazione quantitativa. La «intelligenza» richiesta a un operaio, così come al direttore di un processo industriale, non è altro che un certo grado di facilità nel comprendere e nell’adattare fatti a un nesso causale quantitativamente determinato. Questa facilità di apprensione e adattamento è ciò che manca negli operai stupidi, e lo sviluppo di questa facilità è lo scopo della loro educazione — in quanto la loro educazione miri a favorirne l’efficienza industriale. Fin dove le attitudini ereditarie dell’individuo o la sua educazione lo predispongono a concepire fatti e sviluppi in termini diversi da quelli causali o positivi, esse abbassano la sua efficienza produttiva o utilità industriale. Questo abbassamento dell’efficienza attraverso un’inclinazione per i metodi animistici di considerare i fatti appare specialmente quando è visto nella massa — quando una data popolazione con tendenza animistica è considerata come un tutto. Gli svantaggi economici dell’animismo sono più manifesti e le sue conseguenze di portata maggiore nel sistema moderno della grande industria che in qualsiasi altro. Nelle società industriali moderne la tecnica va organizzandosi, in misura sempre crescente, in un vasto sistema di organi e di funzioni che si condizionano a vicenda; e perciò la libertà da ogni pregiudizio nella concezione causale dei fenomeni è sempre più necessaria per il buon rendimento da parte degli uomini addetti all’industria. In un sistema artigiano una superiorità di destrezza, diligenza, forza muscolare o capacità di sopportazione può compensare, in misura notevolissima, una tale tendenza delle abitudini mentali degli operai. Così avviene nella tecnica agricola del tipo tradizionale, che somiglia da vicino all’artigianato per quanto riguarda le esigenze imposte al lavoratore. In entrambi, l’operaio è lui stesso il primo motore da cui tutto dipende e le forze naturali interessate sono in gran parte concepite come agenti imperscrutabili e casuali, la cui azione è di là del controllo o della discrezione dell’operaio. Nell’opinione popolare generale ben poco del processo industriale è lasciato, in

queste forme d’industria, alla fatale azione di un nesso meccanico che debba essere compreso in termini di causazione e a cui le operazioni tecniche e i movimenti degli operai debbano adattarsi. Man mano che i metodi industriali si sviluppano, le virtù dell’artigiano contano sempre meno come compenso a un’intelligenza scarsa oppure a un’incerta comprensione del nesso di causa ed effetto. L’organizzazione industriale assume sempre più il carattere di un meccanismo, in cui è compito dell’uomo discriminare e scegliere quali forze naturali daranno effetti utili a lui. Il ruolo dell’operaio nell’industria cambia da quello di primo motore a quello di discriminazione e valutazione di nessi quantitativi e di fatti meccanici. La facoltà di una pronta comprensione e di un apprezzamento imparziale delle cause ambientali aumenta d’importanza economica relativa, e ogni elemento nel complesso delle sue abitudini mentali che introduca una tendenza diversa da questo pronto apprezzamento di uno sviluppo positivo guadagna proporzionatamente in importanza come elemento di disturbo che concorre ad abbassarne il rendimento industriale. Attraverso il suo effetto cumulativo sull’atteggiamento abituale della popolazione, anche una leggera e poco appariscente tendenza a valutare i fatti quotidiani ricorrendo a un fondamento diverso da quello della causazione quantitativa può operare un notevole abbassamento dell’efficienza industriale collettiva di una comunità. L’abito mentale animistico può riscontrarsi nella forma primitiva, indifferenziata, di una credenza animistica rudimentale, o nella fase più recente e completa in cui viga una personificazione antropomorfica della tendenza attribuita ai fatti. Il valore industriale di un senso animistico così vivo, o di un simile ricorso a una forza agente soprannaturale o alla guida di una mano nascosta, è naturalmente identico in entrambi i casi. Per ciò che riguarda il rendimento industriale dell’individuo, l’effetto è dello stesso genere in entrambi i casi, ma la misura in cui questo abito mentale ne domina o foggia il complesso celle abitudini mentali varia con il grado d’immediatezza, urgenza o di esclusività secondo cui l’individuo applica abitualmente la formula animistica o antropomorfica nel trattare con i fatti del suo ambiente. L’abito animistico concorre in tutti i casi a turbare l’apprezzamento del nesso causale; ma il senso animistico primitivo, meno riflesso, meno definito, ci si può aspettare che influisca sul processo intellettuale dell’individuo in un modo più profondo che non le forme di antropomorfismo più elevate. Dove l’abito animistico è presente nella forma semplice, la sua portata e la sua gamma di applicazione non sono definite o limitate. Esso perciò influirà tangibilmente

sul suo pensiero a ogni svolta della vita di una persona — ovunque essa abbia a che fare con i mezzi materiali di vita. Nel posteriore, più maturo sviluppo dell’animismo, dopo ch’esso sia stato definito mediante il processo di elaborazione antropomorfica, quando la sua applicazione sia stata limitata in modo consistente al remoto e all’invisibile, ne viene che una serie crescente di fatti quotidiani saranno provvisoriamente valutati senza ricorrere alla forza agente soprannaturale in cui un animismo progredito si esprime. Una forza agente soprannaturale personificata e completa non è un mezzo conveniente per trattare i casi ordinari della vita, e perciò si prende facilmente l’abitudine di spiegare molti banali e volgari avvenimenti in termini di successione causale. Si permette per incuria che la spiegazione provvisoria così raggiunta valga come definitiva per gli scopi ordinari, finché una sollecitazione e una perplessità particolari non richiamano l’individuo alla sua dichiarazione di fede. Ma allorché sorgano esigenze speciali, vale a dire quando ci sia particolarmente bisogno di un pieno e libero ricorso alla legge di causa ed effetto, allora l’individuo di regola ricorre alla forza agente soprannaturale come a un’universale soluzione, se beninteso sia in possesso di una credenza antropomorfica. La tendenza o l’agente extracausale è utilissimo come rimedio nella perplessità, ma la sua utilità è di un genere per nulla economico. È specialmente un rifugio e un motivo di conforto nei casi in cui abbia raggiunto il grado di consistenza e di specificazione che appartiene a una divinità antropomorfica. È assai raccomandabile anche per motivi diversi da quello di offrire all’individuo perplesso una via d’uscita dalla difficoltà di spiegare i fenomeni in base al nesso causale. Sarebbe poco a proposito soffermarci qui sui meriti ovvi e riconosciuti di una divinità antropomorfica, considerata dal punto di vista dell’interesse estetico, morale o spirituale, o anche considerata dal meno remoto punto di vista della condotta politica, militare o sociale. Il nostro problema tocca il meno pittoresco e meno urgente valore economico della credenza in una forza agente soprannaturale, assunta come abito mentale che influisce sul rendimento industriale del credente. E anche entro questo ristretto campo economico, l’indagine è necessariamente limitata all’influenza immediata di quest’abito mentale sul rendimento del lavoro del credente, piuttosto che estesa ai suoi più remoti effetti economici. È molto difficile delineare questi effetti più lontani. L’indagine intorno ad essi è tanto ostacolata da pregiudizi comuni per quanto concerne la misura con cui la vita è favorita dal contatto spirituale con una tale divinità, che qualsiasi tentativo

d’indagare sul loro valore economico deve riuscire per ora infruttuoso. L’effetto immediato e diretto dell’abito mentale animistico sulla mentalità del credente in genere tende ad abbassare la sua effettiva intelligenza sotto quell’aspetto per cui l’intelligenza è di particolare importanza per l’industria moderna. L’effetto segue, in misura diversa, qualunque sia il rango dell’agente o della tendenza soprannaturale. Ciò vale per quel che riguarda il senso della fortuna e della tendenza del barbaro e dello sportivo, e parimenti per la credenza in una divinità antropomorfica, qual è di regola posseduta dalla medesima classe. Ciò si deve ritener vero — benché con qual grado relativo d’inevitabilità non è facile dire — anche per i culti antropomorfici più adeguatamente sviluppati, tali da far appello all’uomo civile devoto. L’inefficienza industriale cagionata dall’adesione popolare a uno dei culti antropomorfici superiori può essere relativamente di poca entità, ma non va trascurata. E neppure questi culti superiori della civiltà occidentale rappresentano l’ultima fase di dissoluzione di questo senso umano della tendenza extracausale. Oltre ad essi, il medesimo senso animistico appare in attenuazioni dell’antropomorfismo quali il richiamo del sec. XVIII a un ordine di natura e a diritti naturali, e nel loro moderno rappresentante, il concetto evidentemente post-darwiniano di una tendenza verso il meglio nel processo dell’evoluzione. Questa spiegazione animistica dei fenomeni è una forma del falso ragionamento che i logici hanno battezzato ignava ratio. Agli scopi dell’industria o della scienza essa è uno sproposito nell’appercezione e nella valutazione dei fatti. A parte le sue dirette conseguenze tecniche, l’abito animistico ha per altri motivi un certo significato per la teoria economica, 1) È un segno del tutto attendibile della presenza, e in parte anche del grado di potenza, di certe altre caratteristiche arcaiche che l’accompagnano e che sono di un’importanza economica sostanziale; 2) le conseguenze materiali di quel codice di buone creanze devote a cui l’abito animistico dà origine nello sviluppo di un culto antropomorfico sono importanti: a) in quanto influiscono sul consumo di beni da parte della comunità e sui predominanti canoni del gusto, come s’è già fatto notare in un capitolo precedente, e b) in quanto inducono e conservano un certo abituale riconoscimento del rapporto da inferiore a superiore, e accentuano in tal modo il senso corrente di casta e di obbedienza. Per quanto riguarda l’ultimo punto b), quell’insieme di abitudini mentali che costituisce il carattere di ogni individuo è in certo senso un tutto organico. Una notevole variazione in una direzione data, in qualsiasi punto, porta con sé

come correlativo una variazione concomitante nell’espressione di vita abituale in altre direzioni o in altri gruppi di attività. Queste diverse abitudini mentali, o espressioni di vita abituali, sono tutte fasi del singolo processo vitale dell’individuo; perciò un’abitudine fermata in risposta a uno stimolo determinato influirà necessariamente sul carattere della risposta data ad altri stimoli. Una modifica della natura umana in qualsiasi tratto è una modifica della natura umana in generale. Per questo motivo, e forse anche più per motivi meno chiari che qui non è il caso di discutere, ci sono queste variazioni concomitanti fra le diverse caratteristiche della natura umana. Così, per esempio, i popoli barbarici con un sistema di vita predatorio ben sviluppato posseggono pure generalmente un abito animistico in forte prevalenza, un culto antropomorfico ben definito e un vivo senso della casta. D’altro canto, l’antropomorfismo e l’acuto senso di una tendenza animistica nelle cose materiali sono meno chiaramente presenti nella vita dei popoli che si trovano negli stadi culturali che precedono e che seguono la civiltà barbarica. Il senso della casta è altresì più debole, complessivamente, nelle comunità pacifiche. Va rilevato che una viva, ma poco specificata, credenza animistica si ritrova nella massima parte se non in tutti i popoli che vivono nello stadio di civiltà selvaggio, pre-predatorio. Il selvaggio primitivo prende il suo animismo meno sul serio che non il barbaro o il selvaggio degenerato. Con lui l’animismo finisce in fantasiosa creazione di miti, piuttosto che in superstizione coercitiva. La civiltà barbarica mostra sportività, struttura castale e antropomorfismo. Si può di regola osservare una simile concomitanza di variazioni nel temperamento individuale di uomini delle società civili odierne. Quei rappresentanti moderni del temperamento barbarico di rapina, che costituiscono l’elemento sportivo, credono generalmente nella fortuna; essi hanno per lo meno un forte senso della tendenza animistica delle cose, e per questo si dànno al gioco d’azzardo. Così si dica per quanto riguarda l’antropomorfismo di questa classe. Quelli di loro che sono tali da dare la propria adesione a un qualche credo, generalmente si dànno in braccio a un credo di antropomorfismo ingenuo e conforme; ci sono relativamente pochi sportivi che cerchino conforto spirituale nei culti meno antropomorfici, quali l’Unitarismo e l’Universalismo2. Strettamente legato a questa condizione di antropomorfismo e di coraggio è il fatto che quei culti antropomorfici concorrono a conservare, se non a iniziare, abiti mentali favorevoli a un regime di casta. A questo proposito, è del tutto impossibile dire dove finisca l’effetto disciplinatore del culto e dove

comincino le prove di una concomitanza di variazioni nelle caratteristiche ereditarie. Nel loro più alto sviluppo il temperamento di rapina, il senso della casta e il culto antropomorfico tutti insieme appartengono alla civiltà barbarica; e un certo mutuo rapporto causale sussiste fra i tre fenomeni nel modo con cui appaiono nelle comunità che si trovano a quel livello culturale. Il modo con cui si ripresentano correlati nelle abitudini e nelle attitudini degli individui e delle classi oggi, arriva a implicare una consimile relazione causale od organica fra i medesimi fenomeni psicologici considerati come caratteristiche o abitudini dell’individuo. È apparso chiaro in un punto precedente della discussione che il rapporto di casta, come caratteristica della struttura sociale, è una conseguenza dell’abito di vita predatoria. Per quanto riguarda la sua linea di derivazione, è sostanzialmente un’espressione elaborata dell’atteggiamento predatorio. D’altra parte, un culto antropomorfico è un codice di rapporti particolareggiati di casta, sovrapposto al concetto di una tendenza imperscrutabile e soprannaturale nelle cose materiali. Cosicché, per quanto riguarda i fatti esterni della sua derivazione» il culto può essere considerato come uno sviluppo dell’onnipresente senso animistico dell’uomo arcaico, definito e in parte trasformato dall’abito di vita predatoria e risultante in una forza agente soprannaturale personificata, che si ritiene dotata delle abitudini mentali che caratterizzano l’uomo della civiltà di rapina. Le caratteristiche psicologiche più evidenti, che hanno un peso immediato sulla teoria economica e di cui si deve qui di conseguenza tener conto, sono pertanto: a) come è apparso chiaro in un capitolo precedente, l’abito mentale predatorio ed emulativo qui denominato coraggio non è che la variante barbarica dell’istinto genericamente umano dell’efficienza, che ha assunto questa forma specifica sotto la guida di un abito di confronto antagonistico delle persone; b) il rapporto di casta è una formale espressione di un tale confronto antagonistico, debitamente misurata e graduata secondo una graduatoria stabilita; c) un culto antropomorfico, almeno nei giorni del suo primo vigore, è una istituzione, l’elemento caratteristico della quale è un rapporto di casta fra il soggetto umano come inferiore e la forza agente soprannaturale personificata come superiore. Con questo in mente, non ci sarebbe nessuna difficoltà nell’afferrare l’intima relazione che sussiste fra questi tre fenomeni della natura e della vita umana; la relazione equivale a un’identità in alcuni dei loro elementi sostanziali. Da una parte, il sistema di casta e l’abito di vita di rapina sono espressione dell’istinto dell’efficienza

come si configura in un costume di confronto antagonistico; dall’altra parte, il culto antropomorfico e l’abitudine delle pratiche devote sono espressione del senso animistico di una tendenza nelle cose materiali, elaborato sotto la guida di un abito generale di confronto antagonistico, sostanzialmente identico. Le due categorie — l’abito di vita emulativo e l’abito delle pratiche devote — sono perciò da ritenersi elementi complementari del tipo di natura umana barbarico e delle sue varianti barbariche moderne. Esse esprimono quasi la medesima serie di attitudini, in risposta a differenti complessi di stimoli. 1. Hamingja (alla lettera «passibile di involucro») si chiamava l’anima immortale, il fiato vitale che si tramuta di corpo in corpo, di involucro in involucro, nelle credenze dell’antico paganesimo nordico, di cui costituisce l’essenza. Essa può esser trasmessa in eredità, prendendo allora il nome di gipta, cioè dote. 2. L’Unitarismo, o Unitarianesimo, nega la trinità divina; mentre l’Universalismo propugna la salvazione ultima di tutte le anime, mediante L trionfo cel bene.

CAPITOLO XII. LE PRATICHE DEVOTE Un’esposizione ragionata di alcune situazioni della vita moderna mostrerà la relazione organica dei culti antropomorfici con la civiltà e il temperamento barbarici. Essa servirà parimenti a mostrare come la sopravvivenza e l’efficacia dei culti e la prevalenza delle loro pratiche devote sono in rapporto con l’istituto di una classe agiata e con le molle di azione che stanno alla base di questo istituto. Senza alcuna intenzione di raccomandare o deprecare le pratiche che si raccolgono sotto il nome di devote, o le caratteristiche spirituali e intellettuali di cui queste pratiche sono espressione, i fenomeni quotidiani dei correnti culti antropomorfici si possono considerare dal punto di vista dell’interesse che presentano per la teoria economica. Ciò di cui si può propriamente trattare qui sono le caratteristiche tangibili, esteriori delle pratiche devote. Il valore morale, come quello religioso, della vita di fede è fuori del campo della presente indagine. Naturalmente noi non ci occupiamo della veridicità né della bellezza delle fedi da cui i culti promanano. E neppure possiamo occuparci della loro più remota influenza economica; il soggetto è troppo impegnativo e importante per trovar posto in un abbozzo così modesto. In un capitolo precedente si è già detto qualcosa quanto all’influenza che i criteri valutativi finanziari esercitano sui processi di valutazione compiuti sulla scorta ci altri princìpi non dipendenti dall’interesse finanziario. La relazione non è del tutto unilaterale. I canoni o criteri di valutazione economica sono a loro volta influenzati da criteri valutativi extra economici. I nostri giudizi sull’influenza economica dei fatti sono in parte foggiati dalla presenza dominante di questi interessi di maggior peso. C’è un angolo visuale infatti, dal quale l’interesse economico conta soltanto come subalterno a questi superiori interessi non economici. Dobbiamo perciò pensare, per il nostro scopo, a isolare l’interesse economico o l’influenza economica di questi fenomeni dei culti antropomorfici. Si richiede un certo sforzo per liberarsi dell’angolo visuale più serio e pervenire a un apprezzamento economico di questi fatti, con il minor possibile pregiudizio dovuto a superiori interessi estranei alla teoria economica.

Nel corso della discussione sul temperamento sportivo, è apparso chiaro che il senso di una tendenza animistica delle cose e degli eventi materiali è ciò che offre allo sportivo la base spirituale della sua abitudine a scommettere. Ai fini economici il senso di questa tendenza è sostanzialmente il medesimo elemento psicologico che si esprime, con varie forme, nelle credenze animistiche e nelle fedi antropomorfiche. In quanto interessa quelle tangibili caratteristiche psicologiche di cui si occupa la teoria economica, lo spirito d’azzardo che permea l’elemento sportivo digrada per trapassi impercettibili in quella mentalità che trova soddisfazione nelle pratiche devote. Considerato dal punto di vista della teoria economica, il carattere sportivo digrada nel carattere di un religioso devoto. Dove il senso animistico dello scommettitore è aiutato da una tradizione alquanto consistente, esso giunge a una credenza più o meno articolata in una forza agente soprannaturale o iperfisica, con un certo contenuto antropomorfico. E dove ciò avviene, si può di regola rilevare una tendenza a venire a patti con la forza agente soprannaturale mediante qualche opportuno sistema di approccio e di conciliazione. Questo elemento di propiziazione e di adulazione ha molto in comune con le forme più grossolane di culto — se non quanto alla derivazione storica, almeno nell’attuale contenuto psicologico. Esso trapassa chiaramente e senza soluzione di continuità in ciò che è riconosciuto pratica e credenza superstiziosa, e rivendica così la sua affinità con i culti antropomorfici più grossolani. Il temperamento sportivo o giocatore comprende, quindi, alcuni degli elementi psicologici sostanziali che concorrono a formare un credente in certe fedi e un osservante delle pratiche devote, e il punto essenziale dell’incontro sarà la fede in una tendenza imperscrutabile o in un intervento soprannaturale nel susseguirsi degli eventi. Per la pratica del gioco d’azzardo la credenza in una forza agente soprannaturale può essere, e di solito è, formulata meno rigorosamente, specie per quel che riguarda le abitudini mentali e il modello di vita attribuiti all’agente soprannaturale; o in altre parole, per quel che riguarda il suo carattere morale e gli scopi del suo intervento. Pure, rispetto all’individualità o personalità della forza agente la cui presenza come fortuna, o caso, o magia, o mascotte egli sente e talvolta teme e cerca di sfuggire, le vedute dello sportivo sono meno specifiche, meno complete e differenziate. La base della sua attività di giocatore è in gran parte semplicemente un senso istintivo della presenza di una permeante forza extrafisica e arbitraria o di una tendenza delle cose o delle situazioni, che di rado viene riconosciuta come agente personale. Non di rado il giocatore è un credente nella fortuna, in

questo senso ingenuo, e nello stesso tempo un membro abbastanza devoto di qualche forma di credo ufficiale. Egli è particolarmente incline ad accettare del credo quanto concerne il potere imperscrutabile e le abitudini arbitrarie della divinità, che si è cattivata la sua fiducia. In tal caso egli è in possesso di due, o talvolta più di due, fasi distinguibili di animismo. Difatti, la serie completa delle fasi successive della credenza animistica la si trova ininterrotta nel corredo spirituale di qualunque comunità sportiva. Una simile catena di concetti animistici deve comprendere a un’estremità la forma più elementare di un senso istintivo della fortuna, del caso e della fortuita necessità, e all’altra la divinità antropomorfica perfettamente sviluppata, con tutti gli stadi intermedi d’integrazione. Accoppiata con queste credenze in una forza agente soprannaturale ci sarà una istintiva tendenza ad uniformare la condotta con le supposte esigenze del caso fortunato da una parte, e una sottomissione più o meno devota ai decreti imperscrutabili della divinità dall’altra. C’è a questo proposito un’affinità fra il temperamento sportivo e il temperamento dei delinquenti; e i due hanno rapporto con il temperamento che propende a un culto antropomorfico. Sia il delinquente che lo sportivo sono in media più idonei ad aderire a un credo riconosciuto, e più proclivi alle pratiche devote che la media generale della comunità. È pure degno di nota che i membri miscredenti di queste classi dimostrano una più spiccata tendenza a farsi proseliti di una qualche fede riconosciuta che non la media dei miscredenti. Questo fatto osservabile è ammesso dagli apologeti degli sport, specialmente quando esaltano gli sport atletici più ingenuamente predatori. Difatti, si tende a insistere come su una dote meritoria della vita sportiva sul fatto che gli abituali partecipanti ai giochi atletici sono in un certo grado particolarmente dediti alle pratiche devote. E si può osservare che il culto a cui gli sportivi o i delinquenti predatori aderiscono, oppure a cui di regola vengono proseliti da queste classi, non è ordinariamente una delle cosiddette fedi superiori ma un culto che ha a che fare con una divinità del tutto antropomorfica. La natura umana arcaica e predatrice non è soddisfatta dalle astruse concezioni di un’evanescente personalità che digradi nel concetto di uno sviluppo causale quantitativo, quale i credo cristiani esoterici e speculativi attribuiscono alla Causa Prima, all’Intelligenza Universale, all’Anima del Mondo o all’Aspetto Spirituale. Come esempio del culto che le abitudini mentali dell’atleta e del delinquente ricercano, si può citare quella branca della chiesa militante conosciuta sotto il nome di Esercito della Salvezza1. Questo è in parte reclutato fra i delinquenti di bassa risma, e appare

chiaro che inoltre comprende, specialmente fra i suoi funzionari, una percentuale di uomini addetti agli sport più alta della percentuale di siffatti uomini in tutta la popolazione della comunità. L’atletica universitaria ci offre un esempio calzante. Si pretende da parte degli esponenti dell’elemento devoto nella vita scolastica — e non pare ci sia motivo per contestarne la pretesa — che il materiale atletico promettente offerto da una scolaresca del nostro paese sia nello stesso tempo in maggioranza religioso; o per lo meno che sia dedito alle pratiche devote in misura maggiore della media di quegli studenti il cui interesse nell’atletica e negli altri sport collegiali è minore. Che è quanto si prevedeva su basi teoriche. Si può notare, di passaggio, che da un certo punto di vista la cosa non può non ridondare a onore della vita sportiva del college, dei giochi atletici, e di quelle persone che se ne occupano. Capita non di rado che gli sportivi del college si dedichino alla propaganda religiosa, sia per vocazione che per soprappiù; e si può osservare che quando questo càpita essi propendono per diventare propagandisti di qualcuno dei culti più antropomorfici. Nel loro insegnamento tendono soprattutto a insistere sul personale rapporto di casta che sussiste fra una divinità antropomorfica e il soggetto umano. Questa relazione intima fra l’atletica e le pratiche devote in mezzo agli universitari è un fatto abbastanza noto; ma ha una particolare caratteristica, alla quale non si è prestata attenzione benché sia sufficientemente ovvia. Lo zelo religioso che pervade gran parte dell’elemento universitario sportivo è particolarmente incline a esprimersi in una devozione senza riserve e in una sottomissione ingenua e compiacente a una Provvidenza imperscrutabile. Esso cerca perciò di preferenza di affiliarsi a qualcuna di quelle organizzazioni religiose laiche, che si occupano della diffusione delle forme essoteriche della fede, come per esempio la Young Meris Christian Association (Y.M.C.A.)2 oppure la Young Peoples Society for Christian Endeavour. Queste associazioni laiche sono organizzate per favorire la religione «pratica» e, come per rafforzare la nostra tesi e stabilire fermamente la stretta affinità fra il temperamento sportivo e l’arcaico spirito di devozione, queste organizzazioni laiche dedicano ordinariamente una parte notevole delle loro energie a promuovere competizioni atletiche e simili giochi di destrezza e d’azzardo. Si potrebbe persino affermare che a sport di questo genere si ritiene inerente una certa efficacia come strumenti di grazia. Essi sono evidentemente utili come strumenti di proselitismo e come mezzi per alimentare l’attitudine devota in

quelli già convertiti. Vale a dire, i giochi che esercitano il senso animistico e la tendenza all’emulazione aiutano a formare e conservare quell’abito mentale cui i culti più essoterici sono congeniali. Perciò nelle mani delle organizzazioni laiche queste attività sportive diventano un noviziato o un mezzo per indurre a quel più completo sviluppo della vita di casta spirituale che è privilegio dell’autentico adepto soltanto. Che l’esercizio delle tendenze animistiche emulatrici e inferiori sia sostanzialmente utile ai fini della devozione pare fuori questione, dato il fatto che il sacerdozio di molte denominazioni segue a questo proposito la guida delle organizzazioni laiche. Specialmente quelle organizzazioni ecclesiastiche, che sono più vicine alle laiche nella loro insistenza sulla religione pratica, si sono in qualche modo orientate verso l’adozione di questi o di analoghi sistemi unitamente alle pratiche devote tradizionali. Così ci sono le «brigate giovanili» e altre organizzazioni sotto la sanzione clericale, che contribuiscono a sviluppare la tendenza all’emulazione e il senso di casta nei giovani membri della congregazione. Queste organizzazioni pseudo-militari tendono a elaborare e accentuare la tendenza all’emulazione e al confronto antagonistico, e a rafforzare così la nativa facilità di discernere e approvare il rapporto di padronanza e subordinazione personale. E un credente è anzitutto una persona che sa obbedire e accettare con buona grazia un castigo. Però gli abiti mentali che queste pratiche alimentano e conservano non costituiscono che una metà della sostanza dei culti antropomorfici. L’altro elemento complementare della vita devota — l’abito mentale animistico — è sostenuto e conservato da una seconda serie di pratiche organizzate sotto la giurisdizione clericale. È questo il gruppo di giochi d’azzardo, di cui si può assumere come esemplare la pesca o lotteria di parrocchia. Come indicazione del grado di legittimità di queste pratiche in rapporto con le pratiche devote vere e proprie, è da notarsi che queste lotterie, e le altre ordinarie occasioni di giocare d’azzardo, sembrano fare appello con maggior effetto ai membri ordinari delle organizzazioni religiose che non a persone di abito mentale meno devoto. Tutto ciò sembra, da una parte, provare che il medesimo temperamento che porta la gente agli sport la porta ai culti antropomorfici, e dall’altra che l’assuefazione agli sport, forse specialmente a quelli atletici, contribuisce a sviluppare le tendenze che trovano soddisfazione nelle pratiche devote. Reciprocamente, appare chiaro altresì che l’assuefazione a queste pratiche favorisce lo sviluppo di una tendenza agli sport atletici e a tutti i giochi che

dànno occasione di manifestarsi all’abito del confronto antagonistico e dell’appello alla fortuna. In fondo la medesima serie di tendenze trova espressione in ambedue queste direzioni della vita spirituale. Quella natura umana barbarica in cui predominano l’istinto di rapina e il punto di vista animistico è normalmente incline a entrambe. L’abito mentale di rapina implica un senso rafforzato della dignità personale e della posizione rispettiva degli individui. La struttura sociale in cui l’abito di rapina è stato il fattore dominante nel foggiare le istituzioni, è una struttura basata sulla casta. La norma universale del modello di vita della società di rapina è il rapporto fra superiore e inferiore, nobile e plebeo, persone e classi dominanti e subordinate, padrone e schiavo. I culti antropomorfici derivano da quello stadio dello sviluppo industriale e sono stati foggiati dal medesimo modello di differenziazione economica — una differenziazione tra consumatore e produttore — e sono permeati dallo stesso principio predominante di padronanza e di subordinazione. I culti attribuiscono alla loro divinità le abitudini mentali rispondenti allo stadio di differenziazione economica in cui essi assunsero fisionomia. La divinità antropomorfica è concepita come puntigliosa in tutte le questioni di precedenza e tende a una affermazione di dominio e a un esercizio arbitrario del potere — a un abituale ricorso alla forza come arbitra finale. Nelle formulazioni più tarde e più mature del credo antropomorfico l’abito di dominio imputato a una divinità di terribile aspetto e di potere imperscrutabile s’addolcisce in «paternità di Dio». L’atteggiamento spirituale e le tendenze attribuite all’agente soprannaturale sono ancora quelle del regime di casta, ma ora assumono la forma patriarcale caratteristica dello stadio di civiltà quasi pacifico. Va inoltre notato che anche in questa fase avanzata del culto le pratiche in cui si esprime la devozione tendono fermamente a propiziare la divinità esaltandone la grandezza e la gloria e professando sottomissione e fedeltà. L’atto di propiziazione e di adorazione mira a tare appello a uno spirito di casta attribuito all’imperscrutabile potere che viene in tal modo ravvicinato. Le formule propiziatorie più in voga sono ancora tali da sollecitare o sottintendere un confronto antagonistico. Un leale attaccamento alla persona di una divinità antropomorfica dotata di una natura umana arcaica di questo genere implica le medesime tendenze arcaiche nel devoto. Ai fini della teoria economica, il rapporto di fedeltà, sia verso una persona fisica che extrafisica, è da considerarsi come una variante di quella sottomissione personale che costituisce una componente così grande del sistema di vita

predatorio e quasi pacifico. La concezione barbarica della divinità, come un condottiero bellicoso incline a una forma di governo autoritario, è stata di molto raddolcita attraverso le usanze meno ferine e le più sobrie abitudini di vita che caratterizzano quelle fasi culturali che si trovano fra lo stadio di rapina primitivo e il presente. Ma anche dopo questa purificazione dell’immaginazione devota, e il conseguente raddolcimento dei tratti più duri di condotta e carattere attribuiti alla divinità, resta ancora nell’opinione che la gente si fa della natura e del temperamento divini un notevole residuo della concezione barbarica. Così avviene, per esempio, che nel definire la divinità e le sue relazioni con il processo della vita umana, oratori e scrittori possono ancora fare un uso efficace di similitudini tratte dal vocabolario della guerra e del modo di vita di rapina, così come di locuzioni che sottintendono un confronto antagonistico. Metafore di tale derivazione vengono usate con buon effetto anche parlando nelle assemblee moderne meno bellicose, composte di membri delle più blande varianti della fede. Quest’uso efficace di epiteti e di termini di paragone barbarici da parte degli oratori popolari denota che la generazione moderna ha conservato un vivo apprezzamento della dignità e del merito delle virtù barbariche; e denota pure che c’è un grado di concordanza fra l’attitudine devota e l’abito mentale di rapina. È soltanto ripensandoci, semmai, che l’immaginazione devota degli adoratori moderni si rivolta contro l’attribuzione di azioni e sentimenti feroci e vendicativi all’oggetto del loro culto. È un fatto che si può comunemente osservare che, nell’opinione popolare, gli epiteti sanguinari applicati alla divinità hanno un eminente valore estetico e onorifico. Vale a dire, ciò a cui fanno pensare questi epiteti è assai accetto alla nostra sensibilità istintiva. I miei occhi hanno veduto la gloria dell’avvento del Signore. Egli sta calpestando la vendemmia dove sono i grappoli dell’ira. Egli ha scatenato il lampo fatale della sua terribile rapida spada. La sua verità cammina. Gli abiti mentali che dirigono una persona devota si muovono sul piano di un modello di vita arcaico sopravvissuto a gran parte della sua utilità per le esigenze economiche della vita collettiva odierna. In quanto l’organizzazione economica quadra con le esigenze della vita collettiva odierna, essa ha superato il regime di casta e non ha nessun uso né posto per un rapporto di sottomissione personale. Per quanto concerne l’efficienza economica della comunità, il sentimento della fedeltà personale e il generico abito mentale di

cui questo sentimento è espressione sono sopravvivenze che ingombrano il terreno e impediscono un equilibrio adeguato delle istituzioni umane con la situazione esistente. L’abito mentale che meglio si presta agli scopi di una società industriale e pacifica è quel temperamento positivo che riconosce il valore dei fatti materiali semplicemente in quanto parti opache del processo meccanico. È quella mentalità che non attribuisce istintivamente tendenze animistiche alle cose, né ricorre a un intervento soprannaturale per spiegarsi fenomeni che lasciano perplessi, né conta su di una mano invisibile per dirigere il corso degli eventi al servizio dell’uomo. Per soddisfare le esigenze dell’efficienza economica più alta nelle condizioni attuali, si deve concepire abitualmente il processo mondiale in termini d’energia e di sviluppo quantitativi e spassionati. Visto dall’angolo visuale di queste più recenti esigenze, lo spirito di devozione è, forse in tutti i casi, da considerarsi una sopravvivenza di una più antica fase della vita associata — un segno d’arresto dello sviluppo spirituale. Naturalmente resta vero che in una società dove la struttura economica sia ancora sostanzialmente un sistema di caste; dove l’atteggiamento della media delle persone sia per conseguenza conformato e adattato al rapporto di signoria e di sottomissione personali; o dove per qualsiasi altro motivo — di tradizione o d’attitudine ereditaria — la popolazione nel suo complesso sia fortemente propensa alle pratiche devote; qui l’abito mentale devoto di qualunque individuo, che non sia fuori della media della comunità, si può considerare semplicemente un particolare dell’abito di vita prevalente. Sotto questa luce, per un individuo devoto in una comunità devota non si può parlare di regressione, poiché egli è allineato con la media della comunità. Considerata però dal punto di vista della situazione industriale moderna, una devozione eccezionale — uno zelo religioso che si levi notevolmente al di sopra del grado medio di devozione della comunità — si può in tutti i casi definirla sicuramente come una caratteristica atavica. Va da sé che è ugualmente legittimo considerare questi fenomeni da un diverso punto di vista. Essi possono venir apprezzati per un diverso scopo, e la definizione qui offerta può essere capovolta. Parlando dal punto di vista dell’interesse devozionale o da quello della sensibilità devota, si può dire con la stessa evidenza che l’atteggiamento spirituale alimentato negli uomini dalla vita industriale moderna non è propizio a un libero sviluppo della vita di fede. Si potrebbe facilmente obiettare al più recente sviluppo del processo industriale che la sua disciplina tende al «materialismo», all’eliminazione della

pietà filiale. Dal punto di vista estetico Dure si potrebbe dire qualcosa di un simile tenore. Ma, per quanto tali considerazioni possano essere legittime e valide al loro scopo, esse sarebbero fuori posto in quest’indagine, che si occupa esclusivamente della valutazione di questi fenomeni da un punte di vista economico. Il grave significato economico dell’abito mentale antropomorfico e della dedizione alle pratiche devote servirà a scusarci se ci addentriamo in un argomento, parlare del quale come di un fenomeno economico m una società devota quanto la nostra non può riuscire che disgustoso. Le pratiche devote sono economicamente importanti come indice di una concomitante variazione di temperamento, la quale accompagna l’abito mentale c: rapina e denota così la presenza di caratteristiche industrialmente dannose. Esse denotano la presenza di un atteggiamento mentale che ha un certo valore economico di per sé grazie alla sua influenza sul rendimento industriale dell’individuo. Esse però hanno anche un’importanza più diretta, in quanto modificano le attività economiche della comunità, specialmente rispetto alla distribuzione e al consumo dei beni. La più ovvia influenza economica di queste pratiche si vede nel consumo devoto di beni e di servizi. Il consumo degli oggetti cerimoniali richiesti da ogni culto, come santuari, templi, chiese, paramenti, sacrifici, sacramenti, abiti da festa ecc., non serve a nessuno scopo materiale immediato. Perciò tutto quest’apparato materiale si può, senz’implicare deprecazione, definire all’ingrosso come facente parte dello sciupìo vistoso. Lo stesso vale in linea di massima per il servizio personale speso a questo proposito: l’istruzione e il servizio sacerdotali, i pellegrinaggi, le feste, i digiuni, le devozioni domestiche e così via. Nello stesso tempo le pratiche, nell’esecuzione delle quali ha luogo questo consumo, servono a diffondere e a protrarre la moda di quegli abiti mentali su cui si fonda un culto antropomorfico. Vale a dire, esse favoriscono gli abiti mentali caratteristici del regime di casta. Esse sono quanto a ciò un ostacolo all’ organizzazione industriale di massimo rendimento nelle attuali circostanze; e sono anzitutto contrarie allo sviluppo delle istituzioni economiche nella direzione richiesta dalla situazione odierna. Per il nostro scopo, gli effetti diretti così come gli indiretti di questo consumo sono come una menomazione dell’efficienza economica della comunità. Pertanto, nella scienza economica e considerato nelle sue conseguenze prossime, il consumo di beni e di energia nel servizio di una divinità antropomorfica significa un abbassamento della vitalità della comunità. Quali possano essere gli effetti

morali, indiretti, e più lontani, di questa categoria di consumo non è possibile rispondere in breve, ed è un problema che qui non può essere trattato. Sarà tuttavia opportuno rilevare il carattere economico generale del consumo devoto, in confronto con il consumo ad altri scopi. Una indicazione sulla gamma di motivi e di scopi da cui ha origine il consumo devoto dei beni aiuterà a dare un giudizio sul valore sia del consumo stesso che dell’abito mentale generale a cui esso è congeniale. C’è un parallelismo impressionante, se non piuttosto un’identità di motivo, fra il consumo diretto al servizio di una divinità antropomorfica e quello diretto al servizio di un gentiluomo agiato — un capo o patriarca — della classe sociale superiore durante la civiltà barbarica. Sia nel caso del capo che in quello della divinità abbiamo dispendiosi edifici riservati a beneficio della persona servita. Questi edifici, così come le proprietà che li completano nel servizio, non devono essere ordinari quanto al genere o al grado; essi ostentano sempre un vasto elemento di sciupìo vistoso. Si può anche osservare che gli edifici sacri sono invariabilmente di uno stile arcaico nella struttura e negli accessori. Così pure i servitori, sia del capo che della divinità, devono mostrarsi vestiti con abiti di un particolare carattere decorativo. Il tratto economico caratteristico di questo vestiario è uno sciupìo vistoso più accentuato dell’ordinario, insieme con la caratteristica secondaria — più accentuata nel caso dei servitori sacerdotali che in quello dei servitori o dei cortigiani del principe barbarico — che questo vestiario d’etichetta dev’essere sempre in un certo grado alla moda antica. Anche gli abiti indossati dai membri laici della comunità, quando vengono al solenne cospetto, devono essere più costosi del loro abbigliamento ordinario. Anche qui è ben marcato il parallelismo fra le usanze di corte e quelle di santuario. A questo proposito è richiesta una certa cerimoniale «proprietà» di abbigliamento, il cui tratto essenziale, sotto l’aspetto economico, è che i vestiti indossati in queste occasioni non devono recare la minima traccia di lavoro industriale o di abituale applicazione a fatiche che siano di utilità materiale. Tale esigenza di sciupìo vistoso e di esenzione cerimoniale da ogni traccia di lavoro si estende anche all’addobbo e in misura minore al cibo che si consuma nelle sacre solennità; vale a dire, nei giorni riservati — tabù — alla divinità o a qualche membro dei ranghi inferiori della classe agiata soprannaturale. Nella scienza economica, le solennità sacre si devono ovviamente interpretare come un periodo di agiatezza secondaria sfoggiata per la divinità o per il santo nel cui nome viene imposto il tabù e alla buona reputazione del quale si crede confacente l’astensione in questi giorni da ogni

lavoro utile. Il tratto caratteristico di tutti questi periodi di devota agiatezza secondaria è un tabù più o meno rigoroso su ogni attività utile all’uomo. Nel caso dei digiuni, la vistosa astensione da ogni occupazione lucrosa e da tutte le imprese che favoriscono (materialmente) la vita umana è ancor più accentuata dall’astinenza obbligatoria da quel consumo che contribuirebbe al benessere e alla pienezza di vita del consumatore. Si può notare, tra parentesi, che le feste profane hanno la medesima origine, secondo una derivazione di poco più antica. Esse digradano dalle feste sacre vere e proprie, attraverso una classe intermedia di semisacri genetliaci di re e di grandi che sono stati in certa misura canonizzati, alla festa deliberatamente istituita e riservata per l’incremento della fama di qualche notevole avvenimento o di qualche fatto straordinario, a cui si vuole far onore o di cui si sente necessario restaurare la reputazione. Quest’ulteriore raffinamento nell’impiego dell’agiatezza secondaria, come mezzo per accrescere la buona fama di un fenomeno e di un dato, si vede benissimo nella sua più recente applicazione. In alcune società si è riservato un giorno di agiatezza secondaria alla Festa del Lavoro. Questa pratica è destinata ad accrescere il prestigio del lavoro, mediante l’arcaico metodo predatorio di un’astensione obbligatoria da ogni utile sforzo. A questo dato del lavoro-ingenere si attribuisce la buona reputazione che alla potenza finanziaria ridonda chiaramente da ogni astensione dal lavoro. Le feste sacre, e le feste in generale, sono come un tributo imposto alla gente. Il tributo viene pagato con agiatezza secondaria, e l’effetto onorifico che ne risulta è attribuito alla persona o al fatto in onore dei quali è stata istituita la festa. Una tal decima di agiatezza derivata è un reddito per tutti i membri della classe agiata soprannaturale e riesce indispensabile alla loro buona reputazione. Un saint qu’on ne chôme pas è difatti un santo degenere. A parte questa decima di agiatezza derivata imposta ai laici, vi sono inoltre categorie speciali di persone — le varie gerarchie di preti e di ieroduli — il cui tempo è completamente dedicato a un servizio del genere. Non soltanto è dovere della classe sacerdotale l’astenersi da lavori volgari, specie in quanto siano lucrosi o si crede che contribuiscano al benessere temporale dell’umanità. Nel caso della classe sacerdotale il tabù va più in là e aggiunge una sottigliezza sotto forma di un precetto che vieta loro di ricercare guadagni mondani anche qualora fosse possibile realizzarli senza l’avvilente applicazione all’industria. Si sente che è indegno del servitore del dio, o piuttosto indegno della dignità del dio di cui è servitore, che egli debba cercare

guadagni materiali o preoccuparsi di affari temporali. «Fra tutte le cose disprezzabili, un uomo che pretende di essere un sacerdote di Dio ed è un sacerdote dei suoi piaceri e delle sue ambizioni, è la più disprezzabile». C’è una linea di discriminazione, che una sensibilità raffinata in fatto di pratiche devote trova poca difficoltà a tracciare, fra le azioni e la condotta che contribuiscono alla pienezza della vita umana, e quelle invece che contribuiscono alla buona fama della divinità antropomorfica; e, nel modello barbarico ideale, l’attività della classe sacerdotale cade tutta da quest’ultima parte della linea. Ciò che cade nella sfera dell’economia cade al disotto del livello adeguato alle occupazioni del clero nel suo splendore. Evidenti eccezioni a questa regola quali troviamo, per esempio, in alcuni ordini monastici del Medioevo (i cui membri lavoravano effettivamente a qualche scopo utile), non contraddicono alla regola. Questi ordini marginali della classe non sono un elemento sacerdotale nel senso pieno della parola. Ed è inoltre degno di nota che questi ordini dubbiamente sacerdotali, i quali autorizzavano i loro membri a guadagnarsi da vivere, caddero in discredito perché offesero il senso di convenienza delle comunità in cui vivevano. Il prete non deve por mano a un lavoro meccanicamente produttivo; egli deve però consumare molto. Ma anche per quel che riguarda il consumo, va osservato che questo deve assumere forme tali da non contribuire chiaramente al benessere e alla pienezza di vita del prete; esso deve uniformarsi alle norme che reggono il consumo derivato, come le abbiamo esposte in un capitolo precedente. Ordinariamente non si confà alla classe sacerdotale apparire ben pasciuta o buontempona. Difatti, in molti dei culti più elaborati il divieto di un consumo diverso da quello secondario arriva al punto di comandare la mortificazione della carne. E anche in quelle denominazioni moderne che sono state organizzate in base alle formulazioni più recenti del credo in una società industriale moderna, si sente che ogni leggerezza e ogni piacere ammesso nel godimento delle cose dilettevoli di questo mondo sono estranei all’autentico decoro clericale. Tutto ciò che per caso può far sospettare che questi servitori di un padrone invisibile vivano una vita non a gloria del loro padrone ma lavorando per i propri scopi, offende duramente la nostra sensibilità come qualcosa di fondamentalmente ed eternamente iniquo. Essi sono una classe di servitori, benché, servendo un padrone assai magnificato, detengano un alto posto nella gerarchia sociale per via di questo splendore riflesso. Il loro consumo è consumo derivato, e poiché, nei culti progrediti, il loro padrone non ha nessun bisogno di profitto materiale, la loro occupazione

è l’agiatezza derivata nel pieno senso. «Pertanto sia che voi mangiate o beviate, o qualsiasi altra cosa facciate, tutto fate a gloria di Dio». Si può aggiungere che in quanto i laici sono assimilati ai sacerdoti nel senso che passano per servitori della divinità, in tanto questo carattere derivato tocca pure alla vita del laico. La sfera di applicazione di questo corollario è alquanto vasta. Si applica specialmente a quei movimenti di riforma o restaurazione della vita religiosa che siano di natura austera, pietistica, ascetica — in cui si pensa che il soggetto umano riceva la vita dal suo sovrano spirituale attraverso una diretta investitura servile. Vale a dire, dove l’istituzione del sacerdozio sia in decadenza, oppure dove viga un senso straordinariamente vivo dell’immediata e operante presenza della divinità nelle faccende della vita, qui si pensa che il laico stia in immediato rapporto servile con la divinità e la sua vita è interpretata come una rappresentazione di agiatezza secondaria volta ad accrescere la reputazione del padrone. In tali casi di regressione c’è un ritorno al rapporto di sottomissione non mediato, come fatto principale dell’atteggiamento devoto. Si mette così l’accento su un’agiatezza derivata austera e desolante, e si trascura il consumo vistoso come strumento di grazia. Può dubitarsi della piena legittimità di questa caratterizzazione del modello di vita sacerdotale, per la ragione che una percentuale notevole dei sacerdoti moderni si discostano da questo modello in molti particolari. Il modello non vale per il clero di quelle sette che in parte si sono distaccate dalle credenze e dalle pratiche anticamente stabilite. Queste si occupano, almeno per mostra o tolleranza, del benessere temporale dei laici, come pure del proprio. Il loro modo di vivere, non solo nel ritiro domestico, ma spesse volte anche in pubblico, non è gran che diverso da quello di persone di mentalità secolare, sia nella sua serietà esteriore che nell’arcaismo dell’apparato. Ciò vale soprattutto per quelle sette che più si sono allontanate. A questa obiezione si deve rispondere che noi qui non abbiamo a che fare con una discrepanza teorica nella vita sacerdotale, bensì con un’imperfetta conformità al modello da parte di questa sezione del clero. Essa però non è che una rappresentanza parziale e imperfetta del sacerdozio e non va considerata come esempio autentico e adeguato del modello di vita sacerdotale. Il clero delle sette e delle conventicole si potrebbe definire come un sacerdozio di mezza casta, o sacerdozio in via di formazione o di ricostituzione. Un sacerdozio del genere può mostrare le caratteristiche dell’ufficio sacerdotale solamente confuse e deformate da motivi e tradizioni estranee, dovute alla

presenza perturbatrice di fattori diversi da quelli dell’animismo e della casta negli scopi delle organizzazioni cui appartiene questa frazione eterodossa del clero. Si può qui fare appello alla sensibilità di ogni persona dotata di un senso discriminante e raffinato delle proprietà sacerdotali, o al senso prevalente di ciò che costituisce il decoro clericale in qualunque società abituata a pensare e a far la critica su quanto un sacerdote può o non può fare senza biasimo. Anche nelle sette più secolarizzate c’è un qualche senso di una distinzione che andrebbe osservata fra il modello di vita sacerdotale e quello laico. Non c’è persona sensibile che non senta che, qualora i membri del clero di questa setta o congregazione si allontanino dalle usanze tradizionali verso un comportamento e un vestiario meno austero o meno arcaico, essi si allontanano dall’ideale del decoro sacerdotale. Non c’è probabilmente nessuna società e nessuna setta nella sfera della civiltà occidentale in cui i limiti di quanto è lecito non siano notevolmente più rigorosi per il titolare dell’ufficio sacerdotale che per il laico comune. Se il senso della convenienza sacerdotale proprio del prete non gl’impone realmente un limite, il senso prevalente delle convenienze da parte della comunità si affermerà così chiaramente da condurlo a uniformarsi ad esso oppure a dimettersi dall’ufficio. Si può aggiungere che pochi o punti membri di un clero cercherebbero apertamente per amor di lucro un aumento di stipendio; e se ciò fosse ammesso apertamente da un sacerdote, riuscirebbe disdicevole al senso della convenienza della sua stessa congregazione. Si può inoltre osservare a questo proposito che chiunque, eccetto i buffoni e gli stupidi, è istintivamente e intimamente offeso da una spiritosaggine che venga dal pulpito; e che non c’è nessuno il cui rispetto per il suo pastore non soffra per qualsiasi segno di leggerezza da parte di questi in qualunque circostanza della vita, eccetto che sia leggerezza di un genere visibilmente istrionico: un forzato allentarsi della dignità. L’eloquio proprio del santuario e dell’ufficio sacerdotale deve inoltre richiamare poco o punto la reale vita quotidiana, e non deve valersi dei termini del commercio o dell’industria moderni. Parimenti, il senso delle convenienze è subito offeso se il clero abbia l’aria di maneggiare in modo troppo particolareggiato e intimo questioni tecniche e puramente umane. Esiste un certo criterio di genericità al di sotto del quale un senso raffinato delle convenienze omiletiche non permetterà a un sacerdote educato di scendere nel trattare interessi temporali. Le cose che sono semplicemente di portata umana e secolare vanno propriamente trattate con una genericità e un

distacco tali da lasciar capire che l’oratore rappresenta un padrone il cui interesse per gli affari secolari arriva soltanto a consentirli protettivamente. Deve inoltre osservarsi che le sette e le varianti eterodosse, del cui clero stiamo trattando, si diversificano a seconda della loro conformità al modello ideale della vita sacerdotale. In linea di massima si troverà che la divergenza a questo riguardo è più grande nel caso delle sette relativamente giovani e particolarmente nel caso di quelle sette più recenti che risultino costituite principalmente di strati inferiori della borghesia. Esse mostrano generalmente un vasto miscuglio di motivi umanitari, filantropici o d’altro genere, che non si possono considerare espressioni dell’atteggiamento devoto; quali il desiderio d’imparare o di stare allegri, che sono gran parte dei reali interessi dei membri di queste organizzazioni. I movimenti settari o eterodossi sono sorti da una miscela di motivi, alcuni dei quali in contraddizione con quel senso di casta su cui si fonda l’ufficio sacerdotale. Talvolta, infatti, il motivo è stato in buona parte una regressione rispetto al sistema di casta. Dove si avvera questo caso, l’istituzione del sacerdozio si è sfasciata nel processo, almeno parzialmente. L’esponente di una tale organizzazione è all’inizio un servitore e un rappresentante dell’organizzazione, piuttosto che il membro di una particolare classe sacerdotale e il rappresentante di un padrone divino. Ed è soltanto attraverso un processo di graduale specificazione che, in generazioni successive, questo rappresentante riconquista la posizione di sacerdote, con una piena investitura di autorità sacerdotale e con il suo concomitante modo di vita austero, arcaico e rappresentativo. La stessa cosa vale per il tramonto e la restaurazione del rituale devoto dopo una siffatta regressione. L’ufficio del prete, il modello di vita sacerdotale, e il giro delle pratiche devote vengono riabilitati solo gradualmente, insensibilmente, e con mutamenti più o meno grandi nei particolari, via via che l’irriducibile senso umano della convenienza nelle cose di devozione riafferma la sua supremazia nelle questioni riguardanti l’interesse nel soprannaturale — e, si può aggiungere, quando l’organizzazione diventa più ricca e acquista così più numerosi punti di vista e abiti mentali di una classe agiata. Dopo la classe sacerdotale, e ordinata secondo una gerarchia ascendente, di regola viene una sovrumana classe agiata subalterna di santi, angeli ecc. — o dei loro equivalenti pagani. Questi salgono di grado, l’uno sull’altro, secondo un elaborato sistema di casta. Il principio di casta pervade l’intero sistema gerarchico, sia visibile che invisibile. Anche la buona fama di questi diversi ranghi della gerarchia soprannaturale richiede di regola un certo tributo di

consumo derivato e di agiatezza subalterna. Per conseguenza in molti casi essi hanno consacrato al loro servizio sottordini di servi o subalterni i quali sfoggiano per loro un’agiatezza derivata, quasi al modo che si è trovato, in un capitolo precedente, valere per la classe agiata subalterna nel sistema patriarcale. Può non vedersi, se non ci si riflette su, come queste pratiche devote e la peculiarità di temperamento che esse implicano, o come il consumo di beni e di servizi, che è compreso nel culto, stiano in relazione con la classe agiata di una società moderna, o con i motivi economici di cui questa classe è l’esponente nel sistema di vita moderno. A questo fine sarà utile una rassegna sommaria di alcuni fatti che interessano questa relazione. Appare chiaro da un passo precedente di questa trattazione che ai fini della vita collettiva odierna, specialmente per quanto concerne l’efficienza industriale della comunità, i tratti caratteristici del temperamento devoto sono un ostacolo piuttosto che un aiuto. Dovrebbe di conseguenza risultare che la vita industriale moderna tende a eliminare selettivamente questi tratti della natura umana dalla costituzione spirituale delle classi che sono immediatamente occupate nel processo industriale. Si dovrebbe poter dire, approssimativamente, che la devozione declina o tende a cadere in disuso fra i membri di quella che si può chiamare la società industriale vera e propria. Nello stesso tempo apparirebbe chiaro che questa attitudine o abito sopravvive con una forza notevolmente maggiore fra quelle classi che non intervengono immediatamente o principalmente come fattore industriale nel processo di vita della comunità. È già stato osservato che queste ultime classi, che vivono del piuttosto che nel processo industriale, cadono all’ingrosso in due categorie: 1) la classe agiata propriamente detta, che è al riparo dalla pressione economica; 2) le classi indigenti, comprendenti i delinquenti di basso rango, che sono troppo esposte alla pressione. Nel caso della prima classe, persiste un abito mentale arcaico perché nessuna pressione economica effettiva costringe questa classe a un adattamento dei suoi abiti mentali alla situazione mutata; per i secondi, la ragione del mancato equilibrio dei loro abiti mentali con le mutate esigenze dell’efficienza industriale è la denutrizione, l’assenza di quel di più d’energia che occorrerebbe per raggiungere con facilità l’equilibrio, oltre alla mancanza di ogni opportunità di acquistare e assuefarsi al punto di vista moderno. La tendenza del processo selettivo va in gran parte nella medesima direzione in entrambi i casi.

Dal punto di vista che viene inculcato dalla vita industriale moderna, i fenomeni sono abitualmente inclusi nel rapporto quantitativo del divenire meccanico. Le classi indigenti non solo non arrivano al minimo di agiatezza necessario per padroneggiare e assimilare le generalizzazioni scientifiche più recenti che questo punto di vista implica, ma esse inoltre si trovano ordinariamente in un rapporto di dipendenza o di subordinazione ai loro superiori finanziari tale da ritardarne materialmente l’emancipazione dagli abiti mentali propri del regime di casta. Il risultato è che queste classi conservano in parte quell’abito mentale generale, la cui principale espressione è un forte senso della posizione personale e del quale la devozione è una caratteristica. Nelle più antiche società della civiltà europea la classe agiata ereditaria, insieme con la massa della popolazione bisognosa, è dedita alle pratiche devote in misura notevolmente superiore che non la media della borghesia laboriosa, là dove esista una classe considerevole di quest’ultimo tipo. Però in alcuni di questi paesi, le due categorie di umanità conservatrice sopra citate comprendono virtualmente tutta la popolazione. Dove queste due classi hanno una grande preponderanza, la loro tendenza determina l’opinione popolare in misura tale da vincere ogni possibile tendenza divergente nella trascurabile classe media, e impone un atteggiamento di devozione a tutta quanta la comunità. Naturalmente, ciò non vuol dire che società o classi tali da essere eccezionalmente inclini alle pratiche devote tendano a uniformarsi in misura straordinaria ai comandamenti di quel qualunque codice di morale noi siamo soliti associare con questa o quella professione di fede. Una gran parte dell’abito mentale devoto non porta necessariamente con sé un’osservanza rigorosa dei comandamenti del Decalogo o del diritto comune. Anzi, è ormai diventato un luogo comune per gli studiosi della criminalità europea che le classi criminali e dissolute sono, semmai, più devote e più ingenuamente tali che la media della popolazione. È fra coloro che costituiscono la classe media finanziaria e il complesso dei buoni cittadini che va ricercata una relativa immunità dall’ atteggiamento devoto. Coloro che meglio apprezzano i meriti delle fedi e delle pratiche superiori muoverebbero obiezioni a tutto ciò, e direbbero che la devozione dei delinquenti di basso rango è una devozione spuria, o nel miglior dei casi superstiziosa. L’affermazione è senza dubbio pertinente e va diretta e perentoria allo scopo. Al fine però della presente indagine queste distinzioni extraeconomiche ed extrapsicologiche le dobbiamo

per forza trascurare, per quanto valide e decisive possano essere allo scopo per cui vengono fatte. Ciò che effettivamente è avvenuto rispetto all’emancipazione delle classi dall’abitudine delle pratiche devote appare dalla recentissima lamentela del clero — che le chiese stan perdendo la simpatia delle classi artigiane, e ogni influenza su di esse. Nello stesso tempo, è opinione corrente che la cosiddetta classe media stia venendo meno alla sua generosità nel sostenere la chiesa, particolarmente per quanto riguarda gli adulti maschi della classe. Questi sono fenomeni generalmente riconosciuti, e può sembrare che un semplice riferimento a questi fatti possa bastare a rinsaldare la posizione accennata. Un siffatto richiamo ai fenomeni generali della frequenza e partecipazione popolare alle congregazioni può riuscire abbastanza convincente per l’affermazione qui avanzata. Sarà tuttavia ancora opportuno tratteggiare un po’ minutamente il corso degli avvenimenti e le forze particolari che hanno operato questo cambiamento nell’atteggiamento spirituale delle più avanzate società industriali odierne. Servirà a illustrare il modo con cui le cause economiche operano per una secolarizzazione degli abiti mentali. Sotto questo aspetto la società americana dovrebbe fornire un esempio straordinariamente convincente, poiché questa società fu la meno ostacolata dalle circostanze esterne di ogni complesso industriale egualmente importante. Fatte le debite concessioni per le eccezioni e le sporadiche violazioni della regola, qui la situazione si può riassumerla attualmente assai in breve. In linea di massima, le classi che sono arretrate in efficienza economica, o intelligenza, o Tuna e l’altra cosa, sono particolarmente devote — come, per esempio, la popolazione negra del Sud, gran parte degli stranieri di classe inferiore, gran parte della popolazione rurale, specialmente nelle regioni arretrate per l’istruzione, per lo stadio di sviluppo dell’industria o rispetto al contatto industriale con il resto della comunità. Così pure quei frammenti che ancora possediamo di una classe indigena specializzata ed ereditaria o di una classe separata di criminali o dissoluti, benché fra questi ultimi l’abito mentale devoto possa più spesso assumere la forma di un’ingenua credenza animistica nella fortuna e nell’efficacia di pratiche magiche, che non di un’adesione vera e propria a una fede accreditata. D’altra parte, la categoria degli artigiani sta notoriamente allontanandosi dalle fedi antropomorfiche accreditate e da tutte le pratiche devote. Questa classe è particolarmente esposta alla caratteristica pressione intellettuale e spirituale dell’industria moderna organizzata, che esige un riconoscimento costante degli aperti fenomeni del divenire pratico e

impersonale, e un’assoluta conformità alla legge di causa ed effetto. Nello stesso tempo questa classe non è tanto denutrita o sovraccarica di lavoro da non lasciare un margine d’energia per la fatica dell’adattamento. In America il caso della classe agiata inferiore o dubbia — la cosiddetta classe media — è alquanto singolare. Differisce rispetto alla vita devota dal suo equivalente europeo, ma differisce piuttosto nella misura e nel metodo che non nella sostanza. Le chiese hanno tuttora l’appoggio finanziario della classe; benché le fedi a cui essa aderisce con la massima facilità siano relativamente povere di contenuto antropomorfico. Nello stesso tempo l’autentica congregazione borghese tende in molti casi, forse più o meno remotamente, a diventare una congregazione di donne e minorenni. C’è una notevole mancanza di fervore tra i maschi adulti della classe media, benché sopravviva fra loro in misura notevole un certo compiaciuto e rispettabile consenso per i princìpi generali della fede accreditata in cui sono nati. Essi conducono la vita quotidiana a contatto più o meno stretto con il processo industriale. Questa particolare differenziazione sessuale, che tende a delegare le pratiche devote alle donne e ai bambini, è dovuta, almeno in parte, al fatto che le donne della media borghesia sono in maggioranza una classe agiata (derivata). Lo stesso vale in misura minore per le donne delle classi artigiane più basse. Esse vivono in regime di casta tramandato da uno stadio anteriore dello sviluppo industriale, e pertanto conservano una mentalità e abiti mentali che le portano a una concezione arcaica delle cose in generale. Nello stesso tempo, esse non si trovano in un così diretto rapporto organico con il processo industriale da poter energicamente stroncare quegli abiti mentali che sono fuori uso per gli scopi industriali moderni. Vale a dire, la devozione singolare delle donne è un’espressione particolare di quel conservatorismo che le donne delle società civili devono, in gran parte, alla loro posizione economica. Per l’uomo moderno il patriarcale rapporto di casta non è per niente il tratto di vita predominante; ma per le donne invece, e specialmente per le donne della classe media superiore, confinate come sono per prescrizione e dalle circostanze economiche alla loro «sfera domestica», questo rapporto è il fattore di vita più reale e più formativo. Di qui un abito mentale favorevole alle pratiche devote e all’interpretazione dei fatti vitali in genere in termini di posizione personale. La logica e i procedimenti logici della vita domestica quotidiana della donna vengono innalzati al regno del soprannaturale, ed essa si trova a posto e contenta in una sfera di idee che per l’uomo sono in gran parte ripugnanti e stupide.

Tuttavia, neppure gli uomini di questa classe sono privi di pietà, benché non si tratti solitamente di un genere di pietà ardente o esuberante. Gli uomini della classe media superiore assumono di regola verso le pratiche devote un atteggiamento più condiscendente che gli uomini della classe artigiana. Ciò si può forse in parte spiegare dicendo che quanto vale per le donne della classe vale in misura minore anche per gli uomini. Essi sono in misura notevole una classe ben protetta; e il rapporto patriarcale di casta, che ancora persiste nella loro vita coniugale e nel loro uso abituale di servitori, può pure contribuire a conservare un abito mentale arcaico ed esercitare un’influenza ritardatrice sul processo di secolarizzazione cui i loro abiti mentali vanno incontro. I rapporti dell’americano di classe media con la comunità economica sono tuttavia generalmente molto stretti ed esigenti; benché si possa notare, di passaggio e come precisazione, che la loro attività economica spesso partecipa in parte anche del carattere patriarcale o quasi predatorio. Le occupazioni che sono stimate in questa classe, e che più contribuiscono a formarne gli abiti mentali, sono le occupazioni finanziarie, di cui si è parlato a proposito di un rapporto del genere in un capitolo precedente. C’è in abbondanza comando arbitrario e sottomissione, e non poca astuzia pratica, lontanamente affine alla frode predatoria. Tutto ciò appartiene al piano di vita del barbaro rapinatore, cui è abituale un atteggiamento di devozione. E oltre a ciò, le pratiche devote si raccomandano a questa classe anche per via dell’onorabilità. Però quest’ultimo incentivo alla pietà merita una trattazione a parte e se ne parlerà subito. Non ci sono importanti classi agiate ereditarie nella società americana, fuorché nel Sud. Questa classe agiata meridionale è dedita a pratiche devote; più che qualunque classe di una corrispondente posizione finanziaria in altre parti del paese. Si sa pure che le religioni del Sud sono di un genere più antiquato che le consimili del Nord. Corrispondente a questa più arcaica vita devota del Sud è il minore sviluppo industriale della regione. L’organizzazione industriale del Sud è adesso, e specialmente è stata fino a poco tempo fa, di carattere più primitivo di quella della società americana nel suo insieme. È più vicina all’artigianato nella scarsità e rozzezza dei suoi strumenti meccanici, e c’è un più forte elemento di padronato e di subordinazione. Si può anche osservare che, per via delle circostanze economiche proprie di questa regione, la maggior devozione della popolazione meridionale, sia bianca che nera, è in rapporto con un sistema di vita che per molti lati richiama gli stadi barbarici dello sviluppo industriale. In mezzo a questa popolazione i crimini di carattere

arcaico hanno una prevalenza relativamente maggiore e sono meno malvisti che altrove; per esempio, i duelli, le risse, le con tese, l’ubriachezza, le corse di cavalli, il combattimento di galli, il gioco d’azzardo, l’incontinenza sessuale dei maschi (lo dimostra il notevole numero di mulatti). C’è anche un senso dell’onore più vivo — espressione di spirito sportivo e derivazione della vita di rapina. Per quanto riguarda la classe più ricca del Nord, la classe agiata americana nel miglior senso della parola, è di rado possibile parlare di un atteggiamento devoto ereditario. Questa classe è di sviluppo troppo recente per aver ricevuto e possedere un abito ben formato a questo proposito, o addirittura una particolare tradizione domestica. Si può tuttavia osservare, di passaggio, che c’è in questa classe una sensibile tendenza ad aderire, almeno nominalmente e in apparenza sinceramente, a qualcuna delle religioni accreditate. Così pure nozze, funerali ed eventi onorifici del genere vengono in questa classe solennizzati in modo abbastanza uniforme con qualche particolare misura di religiosità. È impossibile dire fin dove quest’adesione a una credenza sia bona fide una regressione a un abito mentale devoto, e fin dove sia da considerarsi un caso d’imitazione protettiva assunta in vista di un’assimilazione esteriore a canoni di rispettabilità presa a prestito da ideali estranei. Una certa tendenza sostanzialmente devota sembra che vi sia, a giudicare specialmente da quel grado un po’ speciale di pratica ritualistica che è in via di sviluppo nei culti della classe superiore. Si avverte fra i credenti della classe superiore una tendenza ad affiliarsi a quei culti che mettono un accento relativamente forte sul cerimoniale e sugli elementi spettacolari del rito: e nelle chiese in cui predominano i membri di classe superiore, c’è nello stesso tempo la tendenza ad accentuare il lato ritualistico, a danno delle caratteristiche intellettuali nel servizio e nell’apparato delle pratiche devote. Ciò vale anche quando la chiesa in questione appartenga a una setta con uno sviluppo di rituale e di addobbo relativamente scarso. Questo sviluppo speciale dell’elemento ritualistico è senza dubbio dovuto in parte a una predilezione per gli spettacoli vistosamente dispendiosi, ma probabilmente denota anche qualcosa dell’atteggiamento devoto dei fedeli. Fin dove è vera, quest’ultima affermazione denota una forma relativamente arcaica dell’abito devoto. Il predominio degli effetti spettacolari nelle pratiche devote è evidente in tutte le comunità devote a uno stadio di ci viltà relativamente primitivo e con scarso sviluppo intellettuale. È particolarmente caratteristico della civiltà barbarica, dove nelle pratiche devote si fa quasi sempre un appello diretto alle emozioni

attraverso tutte le vie dei sensi. E una tendenza a ritornare a questo ingenuo sistema emozionale di richiamo è evidente nelle chiese odierne della classe superiore. Si può avvertire in misura minore nei culti che ottengono l’obbedienza della classe agiata inferiore e delle classi medie. C’è una regressione all’uso di luci colorate e di spettacoli sfarzosi, un uso più libero dei simboli, della musica orchestrale e dell’incenso, e si può persino scoprire, nei «processionali» e nei «recessionali» nonché nei volteggi di genuflessioni riccamente variati, un’incipiente regressione a un elemento così antico quale la danza sacra. Questo ritorno alle pratiche spettacolari non è limitato ai culti della classe superiore, benché esso trovi la sua esemplificazione migliore e il suo più alto sviluppo in quegli strati sociali e finanziari. Anche i culti della parte devota della classe inferiore della società, quali i Negri meridionali e gli elementi stranieri retrogradi, mostrano naturalmente una forte inclinazione al rituale, al simbolismo, e agli effetti spettacolari; come è naturale, dati gli ascendenti e il livello culturale di queste classi. Per esse la prevalenza del rituale e dell’antropomorfismo non è tanto un affare di regressione quanto la continuazione di uno sviluppo che viene dal passato. Però l’uso del rituale e di affini caratteristiche devote va pure diffondendosi in altre direzioni. Nei primi tempi della società americana le sette principali cominciarono con un rituale e un addobbo di austera semplicità; ma è chiaro per chiunque che, con l’andare del tempo, queste sette in varia misura hanno adottato molti degli elementi spettacolari cui una volta avevano rinunciato. In linea di massima, questa evoluzione è proceduta man mano con il crescere della ricchezza e dell’agiatezza di vita dei fedeli e ha raggiunto la sua espressione più completa fra le classi che sono più in alto quanto a ricchezza e onore. Le cause a cui è dovuta questa stratificazione finanziaria dello spirito di devozione sono già state segnalate in modo generico parlando delle differenze di classe quanto agli abiti mentali. Le differenze di classe per quanto concerne lo spirito di devozione non sono che l’espressione particolare di un fatto generale. La fedeltà rilassata della classe media più bassa, o quella che si può all’ingrosso chiamare la mancanza di pietà filiale in questa classe, si avverte specialmente in mezzo alle popolazioni cittadine occupate nelle industrie meccaniche. Generalmente, oggi come oggi, non si ricerca una pietà filiale irreprensibile fra quelle classi la cui occupazione si avvicina a quella dell’ingegnere e del meccanico. Queste occupazioni meccaniche sono in qualche misura un fatto moderno. Gli artigiani dei tempi andati, che servivano

uno scopo industriale simile a quello a cui serve adesso il meccanico, non erano altrettanto refrattari alla disciplina dello spirito di devozione. L’attività abituale degli uomini occupati in questi rami dell’industria è assai mutata, per quel che riguarda la disciplina intellettuale, da quando i processi industriali moderni sono diventati di moda; e la disciplina cui il meccanico è sottoposto nella sua occupazione giornaliera influisce sui metodi e sui criteri del suo pensiero anche trattandosi di argomenti che siano fuori del suo lavoro quotidiano. La dimestichezza con gli attuali processi industriali altamente organizzati e impersonali contribuisce a scompigliare gli abiti mentali animistici. L’ufficio dell’operaio sta diventando sempre più esclusivamente un esercizio di discriminazione e di controllo in un processo di sviluppi calcolati, meccanici. Finché l’individuo è il primo motore principale e tipico del processo; finché la caratteristica evidente del processo industriale è l’abilità e la forza del singolo artigiano; per tutto questo tempo l’abitudine d’interpretare i fenomeni nei termini di un motivo e di una tendenza personali non subisce dai fatti nessun colpo così notevole e consistente da condurre alla sua eliminazione. Ma nei più recenti sviluppi dei processi industriali, quando i primi motori e i congegni mediante i quali essi operano hanno un carattere non individuale, impersonale, i criteri di generalizzazione abitualmente presenti nella mente dell’operaio e il punto di vista da cui egli abitualmente concepisce i fenomeni sono un riconoscimento obbligato di uno sviluppo positivo. Il risultato, per quel che riguarda la vita di fede dell’operaio, è una tendenza allo scetticismo miscredente. Appare chiaro, quindi, che l’abito mentale devoto raggiunge il suo sviluppo migliore in una civiltà relativamente arcaica; naturalmente usando qui il termine «devoto» nel suo senso semplicemente antropologico, senza che implichi nulla, rispetto all’atteggiamento spirituale così definito, oltre il fatto di una tendenza a pratiche devote. Appare inoltre chiaro che quest’atteggiamento devoto contrassegna un tipo di natura umana più consono al modo di vita predatorio che al processo di vita più consistentemente e organicamente industriale e di più recente sviluppo nella società. È in gran parte un’espressione dell’abituale senso arcaico di casta personale — il rapporto fra padrone e servo — e si adatta perciò al modello industriale della civiltà quasi pacifica e di rapina, ma non al modello industriale del presente. Appare anche chiaro che questo abito persiste con la massima tenacia fra quelle classi delle società moderne la cui vita quotidiana è più lontana dai processi meccanici dell’industria e che sono pure le più

conservatrici per altri rispetti; mentre, per quelle classi che sono abitualmente a contatto immediato con i processi industriali moderni e i cui abiti mentali sono perciò sottoposti alla forza coercitiva delle necessità tecnologiche, quell’interpretazione animistica dei fenomeni e quel rispetto delle persone su cui si eleva la pratica devota stanno andando in decadenza. E inoltre appare chiaro — per quanto concerne la presente discussione — che l’abito di devozione in una certa misura guadagna progressivamente quanto ad ampiezza e ad elaborazione fra quelle classi delle società moderne per le quali l’opulenza e l’agiatezza toccano il grado più alto. Sotto questo come sotto altri rapporti, l’istituzione di una classe agiata contribuisce a conservare e persino a riabilitare quel tipo arcaico di natura umana e quegli elementi della civiltà arcaica che l’evoluzione tecnica della società nei suoi stadi più recenti tende a eliminare 1. Fondato in Inghilterra nel 1865 da William Booth, assunse l’attuale nome nel 1878. 2. Fondata a Londra nel 1845 da G. Williams, e diffusa ormai in larga parte del mondo.

CAPITOLO XIII. SOPRAVVIVENZE DELL’INTERESSE NON ANTAGONISTICO In proporzione crescente man mano che il tempo passa il culto antropomorfico, con il suo codice di pratiche devote, subisce una disintegrazione progressiva attraverso la pressione delle esigenze economiche e la decadenza del sistema di casta. Man mano che questa disintegrazione avanza, si trovano uniti e confusi con l’atteggiamento devoto certi altri motivi e impulsi che non sempre sono di origine antropomorfica, né si possono far risalire all’abitudine della subordinazione personale. Non tutti questi impulsi ausiliari che si fondono con l’abito di devozione nella successiva vita di pietà sono del tutto consoni all’atteggiamento devoto o alla concezione antropomorfica della catena dei fenomeni. Poiché la loro origine non è la stessa, neppure la loro azione sul modello della vita devota si sviluppa nella stessa direzione. In molti modi essi negano la norma fondamentale di subordinazione o di vita derivata a cui il codice delle pratiche devote e le istituzioni ecclesiastiche e sacerdotali si devono far risalire come alla loro base sostanziale. Attraverso la presenza di questi motivi estranei il regime sociale e industriale di casta viene a poco a poco disintegrato, e il canone della subordinazione personale perde il sostegno derivato da una tradizione ininterrotta. Abitudini e tendenze estranee invadono il campo d’azione tenuto da questo canone, e testo ne viene che le strutture ecclesiastiche e sacerdotali sono rivolte parzialmente ad altri usi, in parte estranei agli scopi del modelle della vita devota quale vigeva nell’epoca dello sviluppo più vigoroso e caratteristico del sacerdozio. Fra questi motivi estranei, che influiscono sul modello della devozione nel suo più recente sviluppo, si possono ricordare quelli della carità, del cameratismo o della socialità; oppure, in termini più generici, le diverse espressioni del senso di solidarietà e simpatia umana. Si può aggiungere che questi usi impropri della struttura ecclesiastica contribuiscono sensibilmente alla sua sopravvivenza di nome e di forma anche fra gente che sarebbe forse disposta ad abbandonarne la sostanza. Un elemento estraneo ancor più caratteristico e comprensivo, fra i motivi che hanno contribuito a mantenere

formalmente il modello di vita devota, è quel senso spregiudicato di convenienza estetica con l’ambiente, che resta come residuo del più moderno atto di culto dopo l’eliminazione del contenuto antropomorfico. Ciò ha molto servito a mantenere l’istituzione sacerdotale fondendosi con il motivo della subordinazione. Questo senso o impulso della convenienza estetica non ha un carattere eminentemente economico, ha però un notevole effetto indiretto nel formare ai fini economici l’abito mentale dell’individuo negli stadi più recenti dello sviluppo industriale; il suo effetto più sensibile a questo proposito è volto ad addolcire la spiccata tendenza egoistica che tradizionalmente risale alle fasi più antiche e più autorevoli del regime di casta. Si vede perciò che l’influenza economica di quest’impulso contrasta con quella dell’atteggiamento devoto; la prima tende a restringere, se non a eliminare, la tendenza egoistica, togliendo l’antitesi o antagonismo fra l’io e il non io; mentre la seconda, essendo espressione del senso di signoria e di servitù personali, tende ad accentuare quest’antitesi e a insistere sulla divergenza fra l’interesse egoistico e gli interessi del processo vitale genericamente umano. Questo residuo non antagonistico della vita religiosa — il senso di comunione con l’ambiente o con il processo vitale in genere — come pure l’impulso della carità o della socievolezza, concorrono in modo diffuso a formare l’abito mentale degli uomini ai fini economici. Ma l’azione di tutta questa serie di tendenze è alquanto vaga, e difficile rintracciarne gli effetti nei particolari. Sembra tuttavia chiaro che l’azione di tutta questa serie di motivi o attitudini si svolge in direzione contraria ai princìpi basilari dell’istituzione della classe agiata come li abbiamo già formulati. La base di quell’istituzione, come dei culti antropomorfici ad essa legati nello sviluppo culturale, è l’abito del confronto antagonistico; e quest’abito non si accorda con l’esercizio delle attitudini di cui ora parliamo. I canoni sostanziali del modello di vita della classe agiata sono uno sciupìo vistoso di tempo e di roba e un ritrarsi dal processo industriale; mentre le attitudini particolari qui discusse si affermano, dal lato economico, come una deprecazione dello sciupìo e della vita futile, e come un impulso a partecipare o identificarsi con il processo vitale, sia dal lato economico che in qualunque altro suo aspetto o fase. È chiaro che queste attitudini, e le abitudini di vita cui esse danno origine dove le circostanze siano favorevoli alla loro espressione o dove esse si affermino in modo predominante, contrastano con il modello di vita della classe agiata; ma non è chiaro che secondo questo modello, considerato negli stadi più recenti del suo sviluppo, la vita tenda coerentemente alla repressione

di queste attitudini o all’esenzione dagli abiti mentali in cui esse si esprimono La disciplina positiva del modello di vita della classe agiata va in tutt’altro senso. Nella sua disciplina positiva, mediante la prescrizione e l’eliminazione selettiva, il modello della classe agiata favorisce in ogni caso della vita il primato totale e onnipotente dei canoni dello sciupìo e del confronto antagonistico. Però nei suoi effetti negativi la tendenza della disciplina della classe agiata non è così chiaramente fedele ai canoni fondamentali del modello. Nel regolare l’attività umana al fine dell’onorabilità finanziaria, il canone della classe agiata insiste sul ritiro dal processo industriale. Vale a dire, esso inibisce l’attività nelle direzioni in cui compiono abitualmente i loro sforzi i membri poveri della comunità. Particolarmente nel caso delle donne, e più specialmente per quanto riguarda le donne della classe più alta e degli strati superiori della classe media in società industriali progredite, quest’inibizione arriva fino a pretendere l’abbandono di ogni sforzo emulativo nel processo di accumulazione mediante i metodi quasi-predatori dell’attività finanziaria. La civiltà della classe agiata o finanziaria, che cominciò come una variante emulativa dell’impulso all’efficienza, sta cominciando nei suoi più recenti sviluppi a neutralizzare il suo stesso fondamento, eliminando l’abito del confronto antagonistico rispetto all’efficienza o anche rispetto alla posizione finanziaria. D’altra parte il fatto che i membri della classe agiata, uomini e donne, sono in parte esenti dalla necessità di procacciarsi da vivere in una lotta in competizione con i loro simili rende possibile per loro non soltanto sopravvivere, ma anche, entro certi limiti, seguire l’inclinazione nel caso che non siano dotati delle attitudini che nella lotta di competizione assicurano il successo. Vale a dire, nel più recente e massimo sviluppo dell’istituzione i mezzi di sussistenza di questa classe non dipendono dal possesso e dall’esercizio incessante di quelle attitudini che caratterizzano l’uomo di rapina vittorioso. Perciò per gli individui non dotati di queste attitudini le possibilità di sopravvivere sono maggiori nei gradi superiori della classe agiata che non nella media generale di una popolazione, la quale viva in regime di concorrenza. In un capitolo precedente, discutendo delle condizioni per la sopravvivenza di caratteristiche arcaiche, è apparso chiaro che la posizione propria della classe agiata offre possibilità straordinariamente favorevoli per la sopravvivenza di tratti che caratterizzano i tipi di natura umana propri di uno stadio culturale sorpassato e anteriore. La classe è protetta dalla pressione

delle esigenze economiche, e in questo senso è al riparo dall’urto violento delle forze che operano per un adattamento alla situazione economica. La sopravvivenza nella classe agiata, e nel suo sistema di vita, di caratteristiche e tipi che ricordano la civiltà di rapina è già stata discussa. Questi abiti e attitudini hanno una possibilità di sopravvivere eccezionalmente favorevole sotto il regime della classe agiata. Non soltanto la sicura posizione finanziaria della classe offre una situazione favorevole per la sopravvivenza di individui che non sono dotati di tutte le attitudini richieste per riuscire utili nel processo industriale moderno; ma nello stesso tempo i suoi canoni di onorabilità comandano l’esercizio vistoso di talune attitudini di rapina. Gli impieghi in cui le attitudini di rapina trovano esercizio servono come segno di ricchezza, di alti natali, e di astensione dal processo industriale. La sopravvivenza delle caratteristiche di rapina nella civiltà della classe agiata è favorita sia negativamente, mediante l’esenzione della classe dall’industria, che positivamente, mediante la sanzione dei suoi canoni di convenienza. Rispetto alla sopravvivenza di tratti caratteristici della civiltà selvaggia pre-predatoria, il caso è alquanto diverso. La posizione sicura della classe agiata favorisce il sopravvivere anche di queste caratteristiche; però l’esercizio delle attitudini alla pace e alla benevolenza non ha la sanzione affermativa del codice delle convenienze. Certi individui dotati di un temperamento che ricorda quello della civiltà pre-predatoria hanno qualche vantaggio nel seno della classe agiata, in confronto a individui similmente dotati ma fuori della classe, per il fatto ch’essi non si trovano nella necessità finanziaria di contrariare le attitudini che servono a una vita non antagonistica; ma questi individui sono ancora sottoposti a una certa coercizione morale che li spinge a trascurare queste inclinazioni, per il fatto che il codice delle convenienze impone loro abiti di vita basati sulle attitudini di rapina. Finché rimane intatto il sistema di casta, e finché la classe agiata può darsi a generi di attività non industriale che non siano l’ammazzare il tempo in occupazioni senza scopo e dispendiose, fino allora il modello di vita onorevole della classe agiata non verrà certo violato. Il caso di un temperamento non di rapina entro la classe a questo stadio è da considerarsi un caso di regressione sporadica. Ma quei decorosi sfoghi non industriali dell’umana tendenza all’azione che il modello consente, ormai, dato l’avanzamento dello sviluppo economico, la scomparsa della selvaggina grossa, il declino della guerra, e la decadenza dell’ufficio sacerdotale, vengono meno tutti quanti. Quando ciò accade, la situazione comincia a cambiare. La vita umana deve cercare d’esprimersi in una

direzione se non può in un’altra; e se vien meno lo sfogo predatorio, si cercherà sollievo altrove. Come rilevammo sopra, l’esenzione dalla pressione finanziaria è andata più innanzi nel caso delle donne della classe agiata nelle società industriali progredite che non in quello di ogni altro gruppo di persone. Ci si può perciò aspettare che le donne dimostrino una più pronunciata regressione a un temperamento non antagonistico che non gli uomini. Ma anche fra gli uomini della classe agiata c’è un sensibile aumento quanto al numero e alla portata di attività che provengono da attitudini che non si devono considerare egoistiche, e il fine delle quali non è una distinzione antagonistica. Così, per esempio, la maggior parte degli uomini che hanno a che fare con l’industria come dirigenti finanziari di un’impresa, si sentono abbastanza interessati e orgogliosi quando il lavoro sia ben fatto e industrialmente efficiente, e ciò anche prescindendo dal profitto che può risultare da un siffatto miglioramento. Ben noti sono pure gli sforzi dei club commerciali e delle organizzazioni d’industriali in questa direzione di avanzamento non antagonistico dell’efficienza industriale. La tendenza a qualche altro scopo nella vita, che non sia quello antagonistico, è sfociata in una quantità di organizzazioni, di cui lo scopo è qualche opera di carità oppure di miglioria sociale. Queste organizzazioni hanno spesso un carattere quasi-religioso o pseudo-religioso e vi partecipano sia uomini che donne. Gli esempi si presenteranno alla mente del lettore in abbondanza, ma allo scopo di segnalare il numero delle tendenze in questione e definirle, si possono citare alcuni dei casi concreti più ovvi. Di questo genere, per esempio, sono la campagna per la temperanza e simili riforme sociali, per la riforma delle prigioni, per la diffusione dell’istruzione, per la soppressione del vizio, e per l’abolizione della guerra mediante l’arbitrato, il disarmo o altri mezzi; di questo genere sono, in parte, gli statuti universitari, le gilde di vicinato, le varie organizzazioni esemplate dalla Young Mens Christian Association e dalla Young Peoples Society for Christian Endeavour, dai circoli di cucito, dai club sociali, dai club artistici e persino dai club commerciali; di questo genere, in piccola parte, le fondazioni finanziarie d’istituti semipubblici di carità, d’istruzione o di divertimento — sia che si debbano a individui ricchi o a offerte raccolte fra persone di mezzi più modesti — quando questi istituti non abbiano beninteso carattere religioso. Naturalmente non si vuol dire che questi sforzi traggano origine interamente da motivi diversi da quelli di natura egoistica. Ciò che si può

affermare è che altri motivi sono presenti nella generalità dei casi e che il fatto che uno sforzo di questo genere prevalga nelle circostanze della vita industriale moderna, piuttosto che nel regime inviolato del principio di casta, denota la presenza nella vita moderna di un effettivo scetticismo rispetto alla piena legittimità di un modello di vita di emulazione. È cosa nota, abbastanza da essere ormai una comune spiritosaggine, il fatto che concorrono generalmente motivi estranei fra gli incentivi a questo tipo di lavoro — motivi di natura egoistica e specialmente la ricerca di una distinzione antagonistica. Ciò è tanto vero che molte opere appariscenti di disinteressato spirito pubblico vengono senza dubbio iniziate e perseguite in vista anzitutto dell’aumento di stima, o persino del profitto finanziario, dei loro promotori. Nel caso di certi gruppi considerevoli di organizzazioni e d’istituti di questo genere, il motivo antagonistico è evidentemente il motivo dominante sia per gli iniziatori dell’opera che per i suoi sostenitori. Quest’ultima osservazione vale specialmente per quelle iniziative che conferiscano distinzione al loro autore attraverso spese grandi e vistose, come, per esempio, la fondazione di un’università o di una pubblica biblioteca o di un museo; ma vale altresì, e forse egualmente, per la più comune opera di partecipazione a organizzazioni e movimenti che emanino chiaramente dalla classe superiore. Queste servono ad attestare la rispettabilità finanziaria dei loro membri, come pure a ricordar loro graditamente la casta superiore cui appartengono, sottolineando il contrasto con l’umanità inferiore dove l’opera di miglioramento deve applicarsi; come per esempio, il sistema universitario che gode adesso di una certa voga. Ma fatte tutte le detrazioni e concessioni del caso, restano pur sempre certi motivi, di carattere non emulativo. Il fatto stesso che si cerchi distinzione o una stima rispettabile mediante questo sistema è segno di un sentimento diffuso della legittimità e della presupposta presenza operante di un interesse non antagonistico né emulativo, quale fattore costitutivo degli abiti mentali delle società moderne. A tutta questa più recente attività della classe agiata che trae origine da un interesse non antagonistico e non religioso, c’è da osservare che partecipano più attivamente e più costantemente le donne che gli uomini — fuorché, naturalmente, nel caso di quelle opere che richiedono un ingente dispendio di mezzi. La posizione finanziariamente subalterna delle donne le rende incapaci di opere che esigano forti spese. Per quanto concerne la serie generica delle iniziative benefiche i membri del sacerdozio, il clero delle congregazioni meno ingenuamente devote e le sette secolarizzate si schierano con le donne. Ciò

quadra con le esigenze della teoria. Anche sotto altri rapporti economici, questo clero si trova in una posizione un po’ equivoca fra la classe delle donne e quella degli uomini occupati nelle imprese economiche. Per tradizione e per il diffuso senso della convenienza, sia il clero che le donne delle classi benestanti si trovano nella posizione di una classe agiata derivata; per entrambe le categorie il rapporto caratteristico che concorre a formare i loro abiti mentali è un rapporto di sottomissione — vale a dire, un rapporto economico concepito in termini personali. In entrambe le categorie si può quindi avvertire una tendenza particolare a interpretare i fenomeni nei termini di rapporto personale piuttosto che di sviluppo causale; ed entrambe devono astenersi, grazie ai canoni della convenienza, dai processi ritualmente impuri delle occupazioni lucrose o produttive, e ciò al punto da render loro moralmente impossibile prender parte all’odierno processo vitale dell’industria. Il risultato di questa esclusione cerimoniale dallo sforzo produttivo volgare sarà d’indirizzare una parte relativamente grande delle energie delle moderne classi femminili e sacerdotali al servizio d’interessi diversi da quello egoistico. Il codice non lascia nessun’altra direzione in cui possa esprimersi l’impulso ad agire con un fine. L’effetto di una costante inibizione sull’attività industriale lucrosa, nel caso delle donne della classe agiata, si traduce in una continua affermazione dell’impulso dell’efficienza in direzioni diverse da quella dell’attività commerciale. Com’è già stato detto, la vita quotidiana delle donne benestanti e del clero contiene un elemento di casta maggiore che la vita della media degli uomini, specialmente di quella degli uomini occupati nelle mansioni industriali vere e proprie. Di qui nasce che l’atteggiamento devoto sopravvive in migliore stato di conservazione fra queste classi che non fra la generalità degli uomini delle società moderne; e ci si può attendere che una parte notevole dell’energia, che cerca di esprimersi in un impiego non lucroso, sbocchi fra questi membri delle classi agiate derivate in pratiche devote e in opere di pietà. Donde, in parte, l’eccessiva tendenza alla devozione nelle donne, di cui si è parlato nell’ultimo capitolo. Ma è a questo punto più opportuno rilevare l’effetto di questa tendenza nel plasmare l’azione e colorare gli scopi dei movimenti e delle organizzazioni non lucrose qui discusse. Dove questo colore di devozione è presente, esso riduce l’immediato rendimento delle organizzazioni in quel qualsiasi scopo economico a cui i loro sforzi possano essere diretti. Molte organizzazioni, di carità e di miglioramento morale, dividono le loro cure fra il benessere religioso e temporale della gente i cui interessi esse mirano a

favorire. È quasi indubbio che, se esse prestassero indistintamente una cura e uno sforzo egualmente seri agli interessi temporali di questa gente, l’immediata portata economica della loro opera dovrebbe essere notevolmente superiore a quella che è. Naturalmente si potrebbe dire del pari, se questo fosse il luogo per dirlo, che il rendimento immediato di queste iniziative di risanamento devoto potrebbe essere maggiore se i motivi e le mire temporali che di regola le accompagnano non facessero impedimento. Dalla portata economica di questa categoria d’imprese non antagonistiche qualcosa bisogna defalcare, data l’intrusione degli interessi devozionali. Ma qualcosa bisogna pure defalcare in considerazione della presenza di altri motivi estranei che più o meno ampiamente contraddicono la tendenza economica di quest’espressione non antagonistica dell’istinto d’efficienza. A un’indagine più rigorosa si vede che ciò è vero al punto che, tutto sommato, può persino risultare che tutta questa categoria d’iniziative abbia un valore economico totalmente incerto — valutandolo in base alla pienezza e alla comodità di vita degli individui o delle classi al cui miglioramento l’iniziativa è diretta. Per esempio, molti degli sforzi adesso di moda e rispettabili per il miglioramento della popolazione bisognosa delle grandi città hanno in gran parte il carattere di una missione di civiltà. È con questo mezzo che si cerca di aumentare il grado di rapidità con cui dati elementi della civiltà della classe superiore vengono accettati nel modello di vita quotidiana delle classi più basse. La preoccupazione per le «residenze», ad esempio, è in parte diretta a favorire l’efficienza industriale dei poveri e insegnar loro l’utilizzazione più adeguata dei mezzi a portata; ma è diretta non meno fermamente a inculcare, con la parola e con l’esempio, certe formalità che fanno parte dei modi e delle usanze della classe superiore. A ben guardare si troverà che la sostanza economica di queste maniere è uno sciupìo vistoso di tempo e di beni. Quelle brave persone che vanno a civilizzare i poveri sono generalmente, e a ragion veduta, estremamente scrupolose e silenziosamente tenaci in fatto di decoro e di decenza. Esse sono di regola persone di vita esemplare e ostinatamente diligenti quanto al rigore cerimoniale nelle varie voci del loro consumo giornaliero» L’efficacia culturale e civilizzante di questo insegnamento di abiti mentali corretti riguardo al consumo del tempo e delle merci è difficilmente sopravalutabile, né la sua portata economica per l’individuo che acquisti questi ideali superiori e più rispettabili è scarsa. Nelle circostanze della civiltà finanziaria esistente la rispettabilità, e di conseguenza il successo, dell’individuo dipende in gran parte dal suo progresso quanto a maniere e a

metodi di consumo che denotino un abituale sciupìo di tempo e di beni. Ma per quel che riguarda l’ulteriore influenza economica di quest’educazione ai sistemi di vita più quotati, bisogna dire che l’effetto operato è in gran parte una sostituzione di metodi più costosi e meno efficienti per raggiungere gli stessi risultati materiali, in circostanze in cui il risultato materiale è il fatto di portata economica fondamentale. La propaganda della civiltà è in gran parte un’introduzione di nuovi gusti o piuttosto di un nuovo elenco di cose rispettabili, adattate al modello di vita della classe superiore secondo la formulazione che dei princìpi di casta e della rispettabilità finanziaria ha dato la classe agiata. Questo nuovo elenco di cose rispettabili è importato nel sistema di vita della classe inferiore dal codice elaborato da un elemento della popolazione la cui vita è fuori del processo industriale; e come ci si può attendere che questo elenco importato sia più consono alle esigenze di vita di queste classi dell’elenco già in voga fra esse, e in modo particolare più consono dell’elenco ch’esse medesime esprimono sotto la pressione della vita industriale moderna? Tutto ciò naturalmente non mette in discussione il fatto che le convenienze inculcate nell’elenco sostituito siano più decorose di quelle che sostituiscono. Il dubbio che si presenta è semplicemente un dubbio concernente l’utilità economica di quest’opera di rigenerazione — vale a dire, l’utilità economica in quell’immediato aspetto materiale in cui gli effetti del cambiamento si possono accertare con una certa sicurezza e considerare dal punto di vista non dell’individuo, bensì della facilità di vita della collettività. Pertanto, per una valutazione dell’utilità economica di queste iniziative di risanamento di rado si deve accettare il valore apparente della loro opera concreta, anche nel caso in cui lo scopo dell’iniziativa sia anzitutto economico e l’interesse da cui essa deriva non sia per niente egoistico o antagonistico. La riforma economica operata tiene molto della natura di un cambiamento dei metodi di sciupìo vistoso. Ma qualcosa di più bisogna dire rispetto al carattere dei motivi disinteressati e dei canoni di procedura in ogni occupazione di questa classe che è influenzata dagli abiti mentali caratteristici della civiltà finanziaria; e quest’ulteriore considerazione può condurre a una restrizione ulteriore delle conclusioni già raggiunte. Come si è visto in un capitolo precedente, i canoni di rispettabilità o convenienza della civiltà finanziaria insistono sulla futilità abituale dello sforzo come segno di una vita finanziariamente irreprensibile. Ne viene non soltanto un’abituale disistima di ogni occupazione utile, ma

anche ciò che è di peso più decisivo nel guidare l’azione di un complesso organizzato di gente che pretende una buona reputazione sociale. Vige una tradizione la quale esige che non si abbia una volgare dimestichezza con nessuno dei processi e dei particolari che hanno a che fare con le necessità materiali della vita. Si può meritoriamente mostrare un grande interesse per il benessere del volgo, mediante sottoscrizioni oppure lavorando in comitati direttivi e simili. Forse anche con maggior merito, ci si può dimostrare solleciti in generale e nei particolari per il livello culturale del volgo, valendosi di espedienti per innalzare i suoi gusti e dargli la possibilità di affinarsi spiritualmente. Però non si deve tradire una conoscenza approfondita delle circostanze materiali della vita volgare, o delle abitudini mentali delle classi del volgo, tale da dirigere efficacemente gli sforzi di queste organizzazioni a uno scopo materialmente utile. Questa riluttanza a confessare una conoscenza troppo intima delle condizioni di vita delle classi inferiori regna in gradi assai diversi nei diversi individui, ma nell’insieme in ogni organizzazione di questo genere ce n’è abbastanza da influenzare profondamente il corso della sua azione. Con la sua azione complessiva nel plasmare la consuetudine e i precedenti di ogni organizzazione siffatta, questa ripugnanza a passare per troppo intimi con la vita del volgo tende gradualmente a mettere da parte i motivi iniziali dell’iniziativa, in favore di certi princìpi direttivi di buona reputazione, che si possono in definitiva ridurre alla dignità finanziaria. Cosicché in un’organizzazione già antica l’iniziale motivo di promuovere il benessere di queste classi diventa a poco a poco soltanto un motivo appariscente, e il compito concreto dell’organizzazione tende a essere trascurato. Ciò che vale per questo aspetto quanto all’efficienza delle organizzazioni di lavoro non antagonistico vale anche per quel che riguarda il lavoro individuale che muova dagli stessi motivi; benché valga forse più particolarmente per gli individui che non per le iniziative organizzate. L’abitudine di valutare il merito mediante i criteri del dispendio prodigo e della mancanza di familiarità con la vita volgare, sia dal lato della produzione che del consumo, è necessariamente forte negli individui che aspirano a far qualcosa di pubblica utilità. E se quest’individuo dovesse dimenticare il suo rango e volgere i suoi sforzi a una volgare concretezza, il senso comune della collettività — il senso della convenienza finanziaria — rigetterebbe subito la sua opera e lo metterebbe a posto. Un esempio si vede nell’amministrazione dei lasciti affidati a individui altruisti all’unico scopo (almeno, a quanto

appare) di rendere più agevole sotto qualche particolare aspetto la vita umana. Gli scopi per i quali si fanno più sovente nel nostro tempo lasciti di questo genere sono scuole, biblioteche, ospedali e ricoveri per gli infermi o i disgraziati. In questi casi lo scopo confessato del donatore è il miglioramento della vita umana sotto il particolare aspetto che è nominato nel lascito; si troverà però come regola costante che nell’attuazione dell’iniziativa sono presenti non pochi altri motivi, spesso incompatibili con il motivo iniziale, i quali determinano l’eventuale collocazione di una buona parte dei mezzi destinati dal lascito. Certi fondi, per esempio, possono essere stati riservati per fondare un asilo di trovatelli o un ospizio per invalidi. In tali casi la spesa diretta allo sciupìo onorifico non è fenomeno tanto raro da provocare sorpresa, e nemmeno da far sorridere. Una parte notevole dei fondi viene spesa nella costruzione di un edificio rivestito di una qualche pietra esteticamente discutibile ma ricca, coperto di particolari grotteschi e stridenti, e progettato in modo da far pensare, con le mura e le torrette merlate e i portali massicci e gli accessi strategici, a certi metodi di guerra barbarici. L’interno della costruzione mostra la stessa influenza onnipresente dei canoni dello sciupìo vistoso e dell’ostentazione predatoria. Le finestre, per esempio, e per non addentrarci oltre in particolari, sono collocate in modo da colpire con il loro splendore finanziario l’osservatore casuale dall’esterno, piuttosto che servire al loro fine specifico del vantaggio e benessere dei beneficiari interni; e i particolari dell’arredamento devono uniformarsi il meglio che sia possibile a quest’esigenza estranea ma categorica della magnificenza finanziaria. Naturalmente, non si deve presumere che il donatore avrebbe trovato a ridire, o avrebbe agito diversamente se avesse avuto lui personalmente il controllo; appare chiaro in quei casi in cui vige questo controllo personale — in cui l’iniziativa è attuata mediante spesa e sovrintendenza diretta invece che per lascito — che le mire e i metodi direttivi non sono diversi a questo riguardo. E neppure ai beneficiari, o agli osservatori esterni, di cui l’agio o la vanità non sono immediatamente interessati, piacerebbe una diversa collocazione dei fondi. Che l’impresa fosse condotta direttamente in vista dell’uso più economico e redditizio dei mezzi disponibili per lo scopo iniziale e materiale della fondazione, non piacerebbe a nessuno. A tutti gli interessati, per immediato ed egoistico o soltanto contemplativo che sia il loro interesse, riesce gradito che una parte considerevole della spesa debba andare alle esigenze spirituali o superiori derivate dall’abitudine di un confronto antagonistico nell’ostentazione predatoria e nello sciupìo finanziario. Ma con

ciò si viene soltanto ad affermare che i canoni della rispettabilità finanziaria ed emulativa permeano così profondamente il senso comune della collettività da non permettere scappatoie né evasioni, neppure nel caso di un’impresa che visibilmente muova tutta quanta sulla base di un interesse non antagonistico. Può persino darsi che l’iniziativa debba il suo potere onorifico, come mezzo per alimentare la buona fama del donatore, alla supposta presenza di questo motivo non antagonistico; ciò però non impedisce all’interesse antagonistico di sovraintendere alle spese. La presenza effettiva di motivi di emulazione o antagonistici in opere non antagonistiche di questo genere può dimostrarsi ampiamente e particolareggiatamente in qualunque delle categorie d’iniziative succitate. Dove s’incontrano questi particolari onorifici, essi generalmente si truccano sotto nomi appartenenti all’interesse estetico, etico o economico. Questi motivi particolari, derivati dai criteri e dai canoni della civiltà finanziaria, concorrono sotto sotto a distogliere ogni energia non antagonistica dall’utilità concreta, e ciò senza turbare il senso di buona intenzione dell’agente o renderlo consapevole della sostanziale futilità della sua iniziativa. Il loro effetto potrebbe rintracciarsi attraverso il lungo elenco d’iniziative di risanamento non antagonistiche, che sono una caratteristica così considerevole, e specialmente così vistosa, del modello di vita pubblica dei benestanti. Ma il rapporto teorico è forse sufficientemente chiaro e può fare a meno di ulteriori chiarificazioni; tanto più che dedicheremo qualche attenzione a una di queste serie d’iniziative — le istituzioni per gli studi superiori — sotto un altro rapporto. Sembra perciò che, nella posizione protetta in cui si trova la classe agiata, si verifichi una certa regressione alla sfera degli impulsi non antagonistici che caratterizzano la civiltà selvaggia pre-predatoria. La regressione comprende sia il senso dell’efficienza che la tendenza all’ignavia e al cameratismo. Però nel sistema di vita moderno le regole di condotta basate sul merito finanziario o antagonistico ostacolano il libero esercizio di questi impulsi; e la presenza direttiva di queste regole di condotta giunge a stornare quegli sforzi che vengono fatti in base all’interesse non antagonistico, volgendoli al servizio di quell’interesse antagonistico su cui si fonda la civiltà finanziaria. I canoni della convenienza finanziaria si possono ridurre per il nostro scopo ai princìpi dello sciupìo, della futilità e della ferocia. I requisiti della convenienza sono categoricamente presenti nelle iniziative di risanamento come in altri tipi di azione, ed esercitano un controllo selettivo sui particolari dell’andamento e della direzione di ogni iniziativa. Sorvegliando e adattando il metodo in

particolare, questi canoni della convenienza arrivano a render futile ogni aspirazione o sforzo non antagonistici. Il principio della futilità, permeante, impersonale e sornione, è a portata di mano di giorno in giorno, e opera in modo da ostacolare l’espressione concreta di tutte quelle attitudini prepredatorie sopravvissute che vanno ricomprese nell’istinto dell’efficienza. La sua presenza tuttavia non impedisce la trasmissione di quelle attitudini, o l’incessante ritorno di un impulso a trovar loro una espressione. Nella evoluzione più recente e più avanzata della civiltà finanziaria l’esigenza di ritrarsi dal processo industriale, pena la riprovazione sociale, giunge al punto di comprendere l’astensione da ogni lavoro emulativo. In questo stadio avanzato la civiltà finanziaria favorisce negativamente l’affermazione delle tendenze non antagonistiche, diminuendo l’importanza conferita alla dignità delle occupazioni emulative, predatorie, o finanziarie, di fronte a quelle di carattere produttivo o industriale. Come si è detto sopra, l’esigenza di tale astensione da ogni lavoro utile per l’uomo si applica più rigorosamente alle donne della classe superiore che a qualsiasi altra classe, beninteso se il sacerdozio di certi culti non possa venir citato come eccezione, più apparente forse che reale, a questa regola. Il motivo per cui questa classe di donne è più che gli uomini del medesimo grado sociale e finanziario tenuta a condurre una vita futile, sta nel fatto ch’esse sono non soltanto una classe agiata superiore, ma anche nel contempo una classe agiata derivata. C’è nel loro caso un doppio motivo per astenersi con continuità dal lavoro utile. È stato detto bene e ripetutamente da popolari oratori e scrittori, che riflettono il senso comune delle persone intelligenti su questioni di struttura e funzione sociale, che la posizione della donna in una società è l’indice più notevole del livello di civiltà raggiunto dalla società e, si potrebbe aggiungere, da una qualsiasi data classe della società. Quest’osservazione è forse più vera per quel che riguarda lo stadio di sviluppo economico che sotto qualunque altro aspetto. Nello stesso tempo la posizione assegnata alla donna nel modello di vita accettato, in qualunque società o civiltà, esprime in gran parte tradizioni plasmate dalle condizioni di una fase di sviluppo più antica e soltanto parzialmente adattate alle condizioni economiche e di carattere e mentali esistenti, da cui le donne che vivono nella situazione economica moderna sono determinate. È già stato incidentalmente notato, nel corso della discussione sulla evoluzione delle istituzioni economiche in genere, e in specie parlando dell’agiatezza derivata e del vestiario, che la posizione delle donne nel sistema

economico moderno è più largamente e costantemente in contrasto con gli stimoli dell’istinto dell’efficienza di quanto non sia la posizione degli uomini delle medesime classi. È pure evidentemente vero che il temperamento della donna comprende una più larga parte di quell’istinto che approva la tranquillità e disapprova le cose futili. Non è perciò una circostanza casuale che le donne delle società industriali moderne dimostrino un senso più vivo del contrasto fra il sistema di vita accettato e le esigenze della situazione economica. Le varie fasi del «problema della donna» hanno messo in rilievo in forma intelligibile quanto la vita delle donne nella società moderna, e particolarmente nei circoli eleganti, sia regolata da un codice di senso comune formulato nelle condizioni economiche di una fase di evoluzione più antica. Si sente inoltre che la vita della donna, nel suo aspetto sociale, civile ed economico, è essenzialmente e generalmente una vita derivata, merito o demerito della quale va, secondo la natura delle cose, attribuito a qualche altro individuo che abbia con la donna un rapporto di proprietà o di tutela. Cosi, per esempio, ogni azione da parte della donna, che violi un precetto del codice accettato, interessa immediatamente l’onore dell’uomo cui la donna appartiene. Può esserci naturalmente qualche sospetto d’incongruenza nella mente di chiunque pronunci sulla debolezza o sulla perversità della donna un’opinione di questo genere; ma il giudizio del senso comune della collettività in queste cose risuona, in ultima analisi, senza molte esitazioni, e pochi uomini metterebbero in discussione la legittimità del loro senso di oltraggiata tutela in qualsiasi caso che potesse insorgere. D’altra parte, relativamente poco discredito va alla donna per le malefatte dell’uomo cui la sua vita è legata. Quindi il modello di vita buona e bella — vale a dire, il modello al quale siamo assuefatti — assegna alla donna una «sfera» subordinata all’attività dell’uomo; e ogni discostarsi dalle tradizioni dei suoi doveri è ritenuto poco donnesco. Se si tratta dei diritti civili o del suffragio, il nostro senso comune in questo argomento — vale a dire, la risposta logica del nostro modello di vita generale sul punto in questione — dice che la donna dovrebbe essere rappresentata nel sistema politico e di fronte alla legge non immediatamente in persona propria, ma attraverso la mediazione del capo della famiglia a cui appartiene. Non è donnesco aspirare da parte sua a una vita autonoma, egocentrica; e il nostro senso comune ci dice che la sua partecipazione diretta negli affari della società, civili o industriali, è una minaccia per quell’ordine

sociale che esprime i nostri abiti mentali come sono stati formati sotto la guida delle tradizioni della civiltà finanziaria. Per usare al contrario il linguaggio castigato ed espressivo di Elizabeth Cady Stanton1 «tutta questa smania e questa fregola di emancipare la donna dalla servitù dell’uomo eccetera, sono “balle”. Le relazioni sociali dei sessi sono stabilite per natura. Tutta la nostra civiltà — cioè, quanto vi è in essa di buono — è basata sul focolare domestico». Il «focolare domestico» è la famiglia con un maschio alla testa. Quest’opinione, espressa di regola con parole più castigate, è sulla condizione della donna l’opinione prevalente, non soltanto fra la generalità degli uomini delle società civili, ma altresì fra le donne. Le donne hanno un senso molto vivo di ciò che il modello delle convenienze esige, e mentre è vero che molte di esse si trovano a disagio sotto le particolari norme del codice, poche ve ne sono che non riconoscano che l’ordine morale esistente, necessariamente e per diritto di prescrizione divina, colloca la donna in una posizione subordinata all’uomo. In ultima analisi, in armonia con il suo senso di ciò che è buono e bello, la donna ha una vita, e in teoria così dev’essere, ch’è la brutta copia di quella maschile. Però, a dispetto di questo onnipresente senso di quello che è il posto giusto e naturale della donna, si può anche avvertire lo sviluppo incipiente di un sentimento che tende a mostrare che tutta questa sistemazione di tutela e dipendenza e quest’attribuzione di merito e di demerito è in qualche modo sbagliata. O per lo meno che, se anche può essere uno sviluppo naturale e una buona sistemazione a tempo e luogo, e nonostante il suo evidente valore estetico, tuttavia non serve adeguatamente gli scopi di vita più ordinari in una società industriale moderna. Persino quel numeroso e fondamentale complesso di donne colte della classe media e superiore, al cui senso spassionato e maturo delle convenienze tradizionali questo rapporto di casta si raccomanda come fondamentalmente ed eternamente giusto — persino costoro, conservatrici come sono, trovano generalmente a questo proposito qualche leggera discrepanza di particolari fra le cose co me sono e come dovrebbero essere. Invece, quella massa meno malleabile di donne moderne che, grazie alla giovane età, all’istruzione o al temperamento, seno in certa misura fuori contatto con le tradizioni di casta ricevute dalla civiltà barbarica, e nelle quali vige, forse, un ritorno troppo pronunciato all’impulso dell’autonomia e dell’efficienza — queste si sentono toccate da un troppo vivo disagio per stare tranquille. In questo movimento per la «Donna moderna» — come chiamano questi

sforzi ciechi e incoerenti, volti a ristabilire la posizione femminile dell’era preglaciale — si possono discernere almeno due elementi, entrambi di carattere economico. Questi due elementi o motivi sono espressi dalla duplice parola d’ordine, «Emancipazione» e «Lavoro». Si ammette che ognuna di queste parole esprime qualcosa di un diffuso senso di disagio. La prevalenza di questo sentimento è ammessa anche da persone che non vedono quale motivo reale esista di sentirsi vittime nella situazione attuale. È fra le donne delle classi benestanti, nelle società più avanzate nello sviluppo industriale, che questo senso di un’ingiustizia da correggere è più vivo e si esprime più frequentemente. Vale a dire, in altre parole, c’è un’esigenza più o meno seria di emancipazione da ogni rapporto di casta, tutela o vita derivata, e la regressione si afferma specialmente fra la categoria di donne a cui il modello di vita tramandato dal regime di casta impone più categoricamente una vita derivata, e in quelle società il cui sviluppo economico si è maggiormente allontanato dalle circostanze cui questo modello tradizionale si adatta. L’esigenza proviene da quella percentuale di donne, che i canoni della buona reputazione escludono da ogni lavoro vero e proprio, e che sono strettamente riservate a una vita di agiatezza e di consumo vistoso. Più di un critico di questo movimento della Donna moderna ha mal compreso il suo motivo. La condizione della «donna moderna» americana è stata recentemente riassunta con un certo calore da un popolare osservatore dei fenomeni sociali: «Ella viene coccolata dal marito, il più affezionato e laborioso fra i mariti di tutto il mondo… Ella è superiore al marito quanto a istruzione e quasi sotto ogni aspetto. È circondata dalle attenzioni più numerose e delicate. Tuttavia non è soddisfatta… La “donna moderna” anglosassone è il prodotto più ridicolo dei tempi nuovi ed è destinata ad essere il più triste fallimento del secolo». A parte la deprecazione — forse giustificata — contenuta nella profezia, questa altro non aggiunge se non oscurità al problema della donna. Il disagio della donna moderna è costituito proprio da quelle cose che questa tipica caratterizzazione del movimento adduce come motivi per cui essa dovrebbe sentirsi contenta. Ella è coccolata, e le si permette, anzi le si richiede, di consumare molto e in maniera vistosa — derivatamente, per il marito o altro custode naturale. Ella è esentata, o esclusa, dalle occupazioni volgarmente utili — perché sfoggi un’agiatezza derivata in vista della buona reputazione del suo naturale custode (finanziario). Queste mansioni sono i segni convenzionali del non-libero, nello stesso tempo che sono incompatibili con l’impulso umano a una seria attività. Ma la donna è

dotata della sua parte — che c’è motivo di credere sia più che la metà — dell’istinto dell’efficienza, con cui contrasta la futilità della vita o del dispendio. Ella deve dispiegare la sua attività vitale in corrispondenza con gli stimoli diretti, immediati dell’ambiente economico con cui è a contatto. Forse nella donna è più forte che nell’uomo l’impulso a vivere la propria vita a modo suo e ad entrare nel processo industriale della comunità un po’ più a fondo che non le sia permesso. Finché il posto della donna è stabilmente quello di una schiava essa, nella media dei casi, è discretamente soddisfatta della sua sorte. Non soltanto ha qualcosa di positivo e di serio da fare, ma non ha neppur tempo o pensieri da dedicare a un’affermazione ribelle di quella tendenza umana all’indipendenza che può aver ereditato. Ma anche quando lo stadio della servitù femminile universale sia passato, e un’agiatezza derivata senza rigorosa applicazione diventi l’occupazione accreditata delle donne delle classi benestanti, la forza prescrittiva del canone delle convenienze finanziarie, che esige da parte loro l’osservanza della futilità formalistica, preserverà a lungo le donne di alto sentire da ogni inclinazione sentimentale verso l’indipendenza e una «sfera di utilità». Ciò vale in modo particolare nelle prime fasi della civiltà finanziaria, quando l’agiatezza della classe agiata è ancora in gran parte un’attività di rapina, un’attiva affermazione di padronanza, in cui c’è un positivo scopo di carattere antagonistico sufficiente a farsi seriamente considerare come un impiego cui ci si può dedicare senza vergogna. Questo stato di cose è chiaramente durato fino al presente in alcune società. Esso continua a mantenersi in diversa misura per i diversi individui, variando insieme con la vivacità del senso di casta e con la debolezza dell’impulso dell’efficienza di cui l’individuo è dotato. Ma dove la struttura economica della società ha superato di tanto il sistema di vita fondato sulla casta che il rapporto di sottomissione personale non è più concepito come l’unico rapporto umano «naturale»; là l’antico abito della attività seria comincerà ad affermarsi, negli individui meno conformisti, contro le abitudini e i modi di vedere più recenti, relativamente superficiali ed effimeri, che la civiltà finanziaria e quella di rapina hanno apportato al nostro sistema di vita. Queste abitudini e questi modi di vedere cominciano a perdere la loro forza costrittiva per la comunità o per la classe in questione, non appena l’abito mentale e i modi dovuti alla disciplina predatoria e quasi pacifica cessano di andare strettamente d’accordo con lo sviluppo più recente della situazione economica. Ciò è evidente nel caso delle classi lavoratrici delle società moderne: per esse il sistema di vita della classe

agiata ha perso molta della sua forza normativa, specie per quanto riguarda l’elemento di casta. Però si verifica pure visibilmente nel caso delle classi superiori, benché non allo stesso modo. Le abitudini derivate dalla civiltà predatoria e quasi pacifica sono varianti relativamente effimere di certe tendenze e caratteristiche mentali fondamentali della razza, che essa deve al prolungato condizionamento del primitivo stadio culturale protoantropoide di vita economica pacifica e relativamente indifferenziata, vissuta a contatto con un ambiente materiale relativamente semplice e costante. Quando le abitudini sovrapposte dal metodo di vita emulativa hanno cessato di usufruire della sanzione delle esigenze economiche esistenti, comincia un processo di disintegrazione, per cui gli abiti mentali di più recente sviluppo e di carattere meno generico perdono in una certa misura terreno di fronte alle più antiche e pervasive caratteristiche spirituali della razza. Quindi, in un certo senso, il movimento della Donna moderna segna una reversione a un tipo di carattere umano più generico o a un’espressione della natura umana meno differenziata. È un tipo di natura umana che va definito come proto-antropoide e, per quanto concerne la sostanza se non la forma delle sue caratteristiche dominanti, appartiene a uno stadio culturale che si può considerare pre-umano. Naturalmente il particolare movimento o tratto evolutivo in questione partecipa di questa definizioni insieme con ogni altra evoluzione sociale posteriore, nella misura in cui questa evoluzione sociale dà segno di una regressione all’atteggiamento spirituale che caratterizza lo stadio primitivo e indifferenziato dell’evoluzione economica. Prove di una tendenza generale alla regressione dal primato dell’interesse antagonistico non mancano del tutto, benché non siano abbondanti né senz’altro convincenti. La generale decadenza del senso di casta nelle società industriali moderne è in certo modo un segno in questo senso; e il sensibile ritorno a una disapprovazione della futilità nella vita umana e di quelle attività che servono soltanto al profitto individuale a danno della collettività o a danno di altri gruppi sociali, è un segno dello stesso genere. C’è una sensibile tendenza a biasimare chiunque infligga dolore, come pure a deprecare ogni impresa predatoria, perfino là dove queste espressioni dell’interesse antagonistico non operano in modo tangibile a danno materiale della comunità o dell’individuo che le giudica. Si può anche affermare che nelle società industriali moderne il sentimento medio e spregiudicato degli uomini dice che il carattere umano ideale è un carattere che tende alla pace, al buon volere e all’efficienza

economica piuttosto che a una vita di egoismo, di violenza, di frode e di dominio. L’influenza della classe agiata non è costantemente a favore né contro la riabilitazione di questa natura umana proto-antropoide. In quanto concerne la possibilità di sopravvivenza d’individui largamente dotati di caratteristiche primitive, la posizione di sicurezza della classe favorisce i suoi membri direttamente, segregandoli dalla lotta finanziaria; però indirettamente, attraverso i canoni dello sciupio vistoso di beni e di energia, l’istituzione di una classe agiata diminuisce nell’intero complesso della popolazione la possibilità di sopravvivenza di siffatti individui. Le esigenze onorevoli dello sciupìo assorbono l’energia superflua della popolazione in una lotta antagonistica e non lasciano nessun margine per l’espressione di vita non antagonistica. Gli effetti spirituali, meno tangibili e più remoti, della norma della convenienza vanno nella medesima direzione e operano forse più efficacemente allo stesso fine. I canoni della vita rispettabile sono un’elaborazione del principio del confronto antagonistico, e di conseguenza concorrono costantemente a inibire ogni sforzo non antagonistico e a inculcare l’atteggiamento egoistico. 1. Elizabeth Cady Stanton (1815-1902), leader del movimento per l’emancipazione della donna americana, e promotrice della convenzione di Seneca Falls, N. Y., del 1848, tenuta appunto nella sua città natale.

CAPITOLO XIV. GLI STUDI SUPERIORI COME ESPRESSIONE DELLA CIVILTÀ FINANZIARIA Affinché nella generazione entrante si conservino, intorno a certi argomenti, appropriati abiti mentali, dal senso comune della collettività viene sanzionata una disciplina scolastica e incorporata nel modello di vita accettato. Le abitudini mentali che così si formano sotto la guida degli insegnanti e delle tradizioni scolastiche hanno un valore economico — un valore in quanto influiscono sull’utilità dell’individuo — non meno reale che il consimile valore economico delle abitudini mentali formate senza tale guida sotto la disciplina della vita di ogni giorno. Tutte le caratteristiche del sistema e della disciplina scolastica che si possono riportare alle predilezioni della classe agiata o alla direzione dei canoni di dignità finanziaria sono da attribuirsi a questa istituzione, e qualunque valore economico abbiano queste caratteristiche del modello culturale è l’espressione particolare di questa istituzione. Sarà quindi opportuno rilevare tutte quelle caratteristiche proprie del sistema pedagogico che si possono riportare al modello di vita della classe agiata, sia per quanto riguarda lo scopo e il metodo della disciplina che per quel che concerne l’estensione e il carattere dell’insieme delle nozioni inculcate. È negli studi veri e propri, e più particolarmente negli studi superiori, che l’influenza della classe agiata è più manifesta; e poiché il nostro scopo presente non è di fare una raccolta esauriente di dati che mostrino l’effetto della civiltà finanziaria sull’istruzione, ma piuttosto d’illustrare il metodo e la tendenza dell’influenza della classe agiata in essa, qui non tenteremo altro che una rassegna di alcuni tratti salienti degli studi superiori tale da servire a questo fine. Quanto alla derivazione e ai primi sviluppi, gli studi hanno un rapporto abbastanza stretto con le funzioni devote della comunità, specialmente con quel complesso di pratiche in cui si esprime il servizio reso alla classe agiata soprannaturale. Il servizio con cui nei culti primitivi si cerca di propiziarsi le forze agenti soprannaturali non è un impiego industrialmente lucroso del tempo e dell’energia della comunità. Va perciò in gran parte considerato come

un’agiatezza derivata, sfoggiata per le potenze soprannaturali con cui si hanno rapporti e la cui benevolenza si pensa di captare mediante il servizio e le professioni di sottomissione. Gli antichi studi consistevano in gran parte nell’acquistare conoscenza e abilità nel servire un agente soprannaturale. La cosa era quindi strettamente analoga all’addestramento richiesto per il servizio domestico di un padrone terreno. In gran parte il sapere che s’acquistava sotto l’insegnamento sacerdotale della comunità primitiva era un sapere concernente i riti e le cerimonie, vale a dire una conoscenza del modo più conveniente, efficace e propizio di accostarsi e di servire gli agenti soprannaturali. S’imparava a rendersi indispensabili a queste potenze e a mettersi così in grado di chiedere, o addirittura esigere, il loro intervento nel corso degli eventi o la loro astensione da interferenze in una data impresa. La propiziazione era il fine, e questo fine era ricercato in gran parte acquisendo facilità di sottomissione. Appare chiaro che solo gradualmente elementi diversi da quelli del servizio ineccepibile verso il padrone trovarono modo d’introdursi nel complesso della dottrina sacerdotale sciamanistica. Il sacerdote al servizio delle potenze imperscrutabili che agiscono nel mondo esterno venne a trovarsi nella posizione di mediatore fra queste potenze e la generalità degli uomini non iniziati; poiché egli era a conoscenza dell’etichetta soprannaturale che lo poteva ammettere alla presenza della divinità. E come avviene generalmente ai mediatori tra i profani e i loro padroni, siano i padroni naturali o soprannaturali, egli trovò utile avere a portata di mano il mezzo d’inculcare tangibilmente nei profani il fatto che queste imperscrutabili potenze avrebbero fatto ciò che egli avesse loro richiesto. Di qui una conoscenza di certi processi naturali che potevano essere usati a produrre effetti spettacolari, insieme a qualche gioco di prestigio, divenne immediatamente parte integrante del sapere sacerdotale. Conoscenze di questo genere passano per conoscenze dell’«inconoscibile» e devono al loro carattere arcano la loro utilità per gli scopi dei preti. È chiaro che gli studi, come istituzione, sorsero da questa fonte, e la loro differenziazione da questo ceppo natale di rituale magico e di frode sciamanistica fu lenta e noiosa, e non è completa neppure ora negli istituti di cultura più avanzati. L’elemento arcano del sapere è ancora, come fu in tutti i tempi, un elemento assai seducente ed efficace al fine d’impressionare, o anche ingannare, l’ignorante; e la posizione del sapiente nella mente dell’uomo totalmente incolto si misura in termini d’intimità con le forze occulte. Così, per esempio, come caso tipico, ancora alla metà di questo secolo i contadini

norvegesi formulavano istintivamente il loro senso della superiore erudizione di dottori di teologia quali Lutero, Melantone, Peder Dass, e addirittura di un sapiente così recente come Grundtvig1 in termini di Magia Nera. Costoro, insieme con una serie assai ampia di celebrità minori, sia viventi che defunte, venivano ritenuti maestri nelle arti magiche; e un’alta posizione nella gerarchia ecclesiastica implicava, secondo questa buona gente, una profonda familiarità con le pratiche magiche e le scienze occulte. C’è un fatto parallelo a noi più familiare, che tende similmente a dimostrare la stretta parentela, nell’opinione popolare, fra l’erudizione e l’inconoscibile; e servirà nello stesso tempo a illustrare, in uno schizzo alquanto sommario, la tendenza che la vita della classe agiata conferisce all’interesse conoscitivo. Benché la credenza non sia affatto ristretta alla classe agiata, questa classe comprende oggi un numero sproporzionatamente alto di credenti nelle scienze occulte di ogni genere e sfumatura. Coloro le cui abitudini mentali non sono foggiate dal contatto con l’industria moderna, pensano ancora che la conoscenza dell’inconoscibile sia la suprema se non l’unica vera conoscenza. La cultura, dunque, incominciò con l’essere in un certo senso un sottoprodotto della classe agiata derivata sacerdotale; e almeno fino a poco tempo fa, la cultura superiore rimase in un certo senso un sottoprodotto o una sottoccupazione delle classi sacerdotali. Man mano che aumentava il complesso delle scienze sistematiche, quasi subito sorse una distinzione, rintracciabile molto addietro nella storia della cultura, tra scienze esoteriche ed essoteriche, le prime — posto che tra le due corra una differenza sostanziale — comprendenti quelle scienze che non siano primieramente di alcun effetto economico o industriale, e le seconde comprendenti specialmente la conoscenza di procedimenti industriali e di fenomeni naturali che venissero abitualmente utilizzati per gli scopi materiali della vita. Questa linea di separazione è diventata con il tempo, almeno secondo l’opinione popolare, la linea di separazione normale tra cultura superiore e cultura inferiore. È cosa significativa, non solo come prova del suo stretto rapporto con la professione sacerdotale, ma anche come segno che gran parte della sua attività cade in quella categoria dell’agiatezza vistosa conosciuta come buone maniere e buona educazione, il fatto che la classe colta in tutte le comunità primitive sia attaccatissima alla forma, ai precedenti, alle gradazioni di rango, al rituale, ai paramenti cerimoniali, e in genere alle dotte quisquilie. C’era naturalmente da aspettarselo, e la cosa vuol significare che la cultura superiore, nella sua fase incipiente, è un’occupazione della classe agiata — più precisamente,

un’occupazione della classe agiata derivata che lavora al servizio della classe agiata soprannaturale. Ma questa predilezione per gli aggeggi della cultura indica ancora un ulteriore punto di contatto o di contiguità fra l’ufficio sacerdotale e l’ufficio del dotto. In fatto di derivazione, la cultura, come pure l’ufficio sacerdotale, è in gran parte uno sviluppo della magia simpatica; e questo apparato magico di forma e di riti, perciò, trova posto presso la classe colta della comunità primitiva come cosa naturale. Il rito e gli accessori hanno un’efficacia arcana per gli scopi magici; cosicché la loro presenza come fattore integrale nelle prime fasi dello sviluppo della magia e della scienza è una questione d’opportunità, oltre che una dimostrazione di simpatia per il simbolismo tout court. Questo senso dell’efficacia del rituale simbolico, e dell’influenza favorevole da ottenersi per mezzo di un’abile esecuzione degli accessori tradizionali dell’atto o del fine da conseguirsi, è naturalmente presente in modo più chiaro e in maggior misura nelle pratiche magiche che non nella disciplina delle scienze, siano pure occulte. Ma vi sono, immagino, poche persone dotate di un senso vivo del merito scientifico per cui gli accessori rituali della scienza siano una cosa completamente inutile. La grandissima tenacia con cui questi aggeggi rituali persistono attraverso il più recente corso della evoluzione è evidente a chiunque voglia riflettere su ciò che è stata la storia della cultura nella nostra civiltà. Oggi ancora nelle abitudini delle comunità colte si ritrovano cose quali il berretto e la cappa, le cerimonie d’immatricolazione, d’iniziazione e di laurea, il conferimento dei diplomi scolastici, dei distintivi e delle prerogative, in un modo che fa pensare a una specie di dotta successione apostolica. Il costume degli ordini sacerdotali è senza dubbio la prima fonte di tutte queste caratteristiche del rituale colto, le investiture, le iniziazioni sacramentali, la trasmissione di particolari dignità e virtù per mezzo dell’imposizione delle mani, e simili; ma la loro derivazione è rintracciabile anteriormente a questo punto, nella fonte da cui la classe sacerdotale specializzata propriamente detta le ricevette nel corso della differenziazione per cui il sacerdote venne ad essere distinto dallo stregone da un lato e dal volgare servitore di un padrone temporale dall’altro. Per quanto concerne sia la derivazione che il contenuto psicologico, queste abitudini e i concetti su cui esse si fondano appartengono nella evoluzione della cultura a uno stadio non più recente di quello del ciarlatano o dell’evocatore di pioggia. Il loro posto nelle fasi più recenti del servizio religioso, come pure nel sistema dell’istruzione superiore, è quello di una sopravvivenza da un’assai primitiva

fase animistica della evoluzione della natura umana. Questi caratteri ritualistici del sistema pedagogico d’oggi e del recente passato, possiamo dirlo con tranquillità, hanno un posto principalmente nelle istituzioni e nei gradi di cultura superiori, liberali e classici, piuttosto che nei rami del sistema inferiori, tecnologici o pratici. In quanto le posseggano, i rami inferiori e meno rispettabili del sistema pedagogico hanno evidentemente tolte a prestito queste cose dai gradi superiori, e una loro continuata persistenza nelle scuole pratiche sarebbe, senza la sanzione dell’esempio continuato dei gradi superiori e classici, altamente improbabile, a dir poco. Trattandosi di scolari e d’istituti pratici e inferiori, l’adozione e l’esercizio di queste abitudini è un caso d’imitazione dovuto al desiderio di uniformarsi per quanto possibile ai criteri della rispettabilità scolastica osservati dalle classi e dai gradi superiori che, per diritto di devoluzione, hanno legittimamente ereditato queste caratteristiche accessorie. L’analisi può portarsi senza danno un passo avanti. Le sopravvivenze e gli atavismi ritualistici sbocciano con il massimo vigore e con l’aria più aperta di spontaneità in quegli istituti di cultura che hanno a che fare principalmente con la preparazione della classe sacerdotale e della classe agiata. Perciò dovrebbe apparire, e infatti appare abbastanza chiaramente, da uno studio sui recenti sviluppi nella vita dei colleges e delle università, che dovunque le scuole fondate per l’istruzione delle classi inferiori nei rami della conoscenza immediatamente utilitaria si sviluppino in istituzioni di cultura superiore, lo sviluppo del cerimoniale ritualistico e degli aggeggi e delle «funzioni» scolastiche elaborate cammina a fianco a fianco con la transizione delle scuole suddette dal campo della semplice pratica alla sfera classica superiore. Lo scopo iniziale di queste scuole, e il compito di cui esse si sono principalmente occupate alla prima di queste due tappe della loro evoluzione, è stato quello di abilitare i giovani delle classi lavoratrici al lavoro. Sul piano classico superiore, a cui esse comunemente tendono, il loro scopo dominante diventa la preparazione dei giovani delle classi agiate e sacerdotali — o di una incipiente classe agiata — al consumo di beni materiali e immateriali, secondo un metodo e uno scopo rispettabili convenzionalmente accetti. Questo felice risultato è stato il comune destino delle scuole fondate dagli «amici del popolo» per aiutare i giovani di buona volontà, e dove questa transizione avviene in buona forma si verifica nelle scuole comunemente, se non invariabilmente, un analogo passaggio a una vita più ritualistica. Nella vita scolastica odierna, il rituale colto fiorisce meglio generalmente

in scuole il cui scopo principale sia la coltivazione delle «discipline umanistiche». Questa correlazione appare evidente, forse più chiaramente che altrove, nella storia dei colleges e delle università americane da poco sviluppate. Vi possono essere molte eccezioni alla regola, specialmente fra quelle scuole che vennero fondate dalle chiese tipicamente ritualistiche e rispettabili e che perciò partirono dal piano conservatore e classico oppure raggiunsero la posizione classica per mezzo di una scorciatoia; ma la regola generale, per quanto riguarda i colleges fondati nelle comunità americane più moderne durante il presente secolo, è stata che, finché la comunità rimase povera e finché quella classe da cui i colleges trassero i loro alunni fu dominata da abitudini d’industria e di risparmio, per tutto questo tempo le reminiscenze di stregoneria non trovarono che un’accettazione assai scarsa e precaria nel modello della vita del college. Ma non appena la ricchezza comincia ad accumularsi nella comunità in modo apprezzabile e non appena una data scuola comincia ad appoggiarsi a una scolaresca che proviene dalla classe agiata, appare subito un’insistenza sensibilmente maggiore sul rituale scolastico e sulla necessità di conformarsi alle forme antiche per quanto riguarda divise e solennità scolastiche e sociali. Così, per esempio, vi è stata una coincidenza approssimativa tra l’aumento della ricchezza nella popolazione che sostiene un qualsiasi college del Middle West e la data di accettazione — prima come tolleranza, poi come moda perentoria — dell’abito da sera per gli uomini e del décolleté per le donne, quali abiti scolastici convenienti ad occasioni di solennità colta o alle stagioni di passatempo sociale nell’ambito del college. A parte la difficoltà materiale di una ricerca così imponente, non sarebbe difficile rintracciare questa correlazione. Lo stesso vale per la moda del berretto e della toga. Il berretto e la toga sono stati adottati come insegna di cultura da molti colleges di questa regione entro gli ultimi anni; e possiamo dire con sicurezza che questo non sarebbe potuto avvenire a una data più antica o prima che la classe agiata acquistasse tale importanza nella comunità da appoggiare un forte movimento di regressione verso l’arcaismo quale fine legittimo della scuola. Questa voce particolare del rituale colto, si osserva, non soltanto si raccomanda al senso che la classe agiata possiede della convenienza delle cose, facendo appello al gusto arcaico per l’effetto spettacolare e alla predilezione per il simbolismo antico; ma nel contempo si adatta al sistema di vita della classe agiata in quanto comprende un notevole elemento di sciupìo vistoso. La

data precisa in cui avvenne il ritorno alla cappa e al berretto, come pure il fatto eh esso interesso un numero così grande di scuole press’a poco contemporaneamente, sembra dovuto in qualche misura a un’ondata di senso atavistico della conformità e della rispettabilità che ha sommerso in quel periodo il paese. Non sarà fuor di proposito notare che in fatto di tempo questa curiosa involuzione sembra coincidere con l’apogeo di una certa moda di sentimenti e tradizioni ataviche anche in altre direzioni. Sembra che l’ondata regressiva abbia ricevuto il suo impulso iniziale dagli effetti psicologicamente disgregatori della Guerra Civile. L’abitudine alla guerra conferisce a una persona abiti mentali di rapina, in cui l’omertà sostituisce in qualche misura il senso della solidarietà, e un senso di distinzione antagonistica soppianta l’impulso verso la giusta, quotidiana utilità. Come risultato dell’azione cumulativa di questi fattori, la generazione che segue un periodo di guerra è soggetta ad assistere a una riabilitazione dell’elemento di casta, sia nella sua vita sociale che nel suo modello di pratiche devote e altre forme simboliche o cerimoniali. Dall’8o al’90 e, benché meno evidente, dal’70 all’80, cominciò a salire gradualmente un’onda di sentimenti favorevoli alle abitudini affaristiche predatorie, all’insistenza sulla casta, all’antropomorfismo e al conservatorismo in genere. Le più dirette ed evidenti di queste espressioni del temperamento barbarico, quali la recrudescenza dell’illegalità e le spettacolose carriere fraudolente quasi predatorie percorse da certi «capitani d’industria», vennero in evidenza prima e visibilmente declinavano verso P80. La recrudescenza del sentimento antropomorfico sembra anch’essa aver passato lo stadio più acuto prima del ‘90. Ma il rituale colto e i suoi aggeggi, di cui qui si parla, sono un’espressione ancor più remota e recondita del senso animistico barbarico; e questi, perciò, vennero di moda e furono elaborati più lentamente e raggiunsero il loro sviluppo più efficace a una data posteriore. Vi è ragione di credere che ormai il culmine sia passato. Senza il novello impulso dato da una nuova esperienza di guerra e il sostegno che l’aumento di una classe ricca presta a tutti i riti, e specialmente a qualsiasi cerimoniale che sia dispendioso e indichi chiaramente determinate condizioni, è probabile che gli ultimi perfezionamenti e l’aumento delle insegne scolastiche e rituali cadrebbero gradualmente in declino. Ma mentre può darsi che il berretto e la cappa, e la più stretta osservanza delle proprietà scolastiche che li accompagnò, fossero introdotti su quest’ondata postbellica di regressione alla barbarie, non vi è alcun dubbio che tale involuzione ritualistica non avrebbe potuto effettuarsi

nel modello di vita del college prima che l’accumulazione della ricchezza nelle mani di una classe possidente fosse tanto progredita da permettere le fondamenta finanziarie necessarie per un movimento che portasse in fatto di cultura superiore i colleges del paese all’altezza delle esigenze della classe agiata. L’adozione del berretto e della cappa è una delle caratteristiche ataviche della vita del college moderno che più colpiscono, e nello stesso tempo prova il fatto che questi colleges sono definitivamente diventati istituzioni della classe agiata, sia nella pratica che nelle aspirazioni. Come prova ulteriore degli stretti rapporti che intercorrono fra il sistema pedagogico e il livello culturale della società, si può osservare che ultimamente si manifestò qualche tendenza a sostituire il capitano d’industria al prete, come direttore dei colleges di studi superiori. La sostituzione non è affatto completa né inequivocabile. Sono meglio accetti quei direttori che uniscono l’ufficio sacerdotale a un alto grado di efficienza finanziaria. Vi è una tendenza simile, ma meno pronunciata, ad affidare l’opera d’istruzione nella cultura superiore a uomini che abbiano doti finanziarie. L’abilità amministrativa e la capacità reclamistica contano forse più di quello che non contassero una volta, come qualifiche per la professione dell’insegnamento. Ciò vale specialmente per quelle scienze che hanno più da fare i conti con i fatti quotidiani e s’applica in particolare alle scuole di comunità economicamente a direzione unica. Questa parziale sostituzione di un’efficienza finanziaria a quella sacerdotale si accompagna con la transizione moderna dall’agiatezza vistosa al consumo vistoso, quale mezzo principale per ottenere rispettabilità. La correlazione dei due fatti è probabilmente chiara senza bisogno di elaborazione ulteriore. L’atteggiamento delle scuole e della classe colta verso l’istruzione delle donne serve a dimostrare in quale modo e in quale ampiezza la cultura si è allontanata dalla sua antica condizione di prerogativa sacerdotale e agiata, ed indica anche quale ravvicinamento è stato raggiunto dai veramente colti al punto di vista moderno, economico o industriale, positivo. Le scuole superiori e le professioni colte erano tabù per le donne fino a poco tempo fa. Queste istituzioni erano fin dall’inizio, e hanno continuato a esserlo in gran parte, dedicate all’istruzione delle classi agiata e sacerdotale. Le donne, come è già stato dimostrato altrove, appartenevano in origine alla classe servile e fino a un certo punto, specialmente per quanto riguarda la loro posizione cerimoniale o nominale, ci rimangono tuttora. Prevaleva una

forte convinzione secondo cui l’ammettere le donne ai privilegi della cultura superiore (come dire ai misteri Eleusini) avrebbe diminuito la dignità della professione colta. È perciò soltanto da pochissimo tempo, e quasi solamente nelle società industriali più avanzate, che le scuole superiori sono liberamente aperte alle donne. E anche nelle pressanti circostanze delle moderne società industriali, le università più grandi e stimate dimostrano un’estrema riluttanza a compiere il passo. Il sentimento della dignità di classe, vale a dire di casta, di una differenziazione onorifica dei sessi secondo una distinzione tra dignità intellettuale superiore e inferiore, sopravvive in forma rigorosa in queste corporazioni dell’aristocrazia del sapere. Si pensa che le donne dovrebbero come cosa più conveniente acquistare soltanto quelle cognizioni che possono classificarsi sotto l’uno o l’altro di questi due capi: i) cognizioni che conducono immediatamente a una migliore esecuzione dei servizi domestici — la sfera domestica; perfezionamenti e capacità quasi scolastici e quasi artistici, da potersi includere chiaramente nella categoria dell’agiatezza derivata. La conoscenza non è ritenuta cosa per donne, quando si tratti di una conoscenza che esprima il dispiegarsi della vita di chi impara, e il cui acquisto derivi dal suo interesse conoscitivo, senz’esser suggerito dai canoni della convenienza e senza riferimento a un padrone a conforto o buona reputazione del quale l’uso o l’esibizione della conoscenza stessa dovrebbero ridondare. Così pure ogni forma di conoscenza che sia utile come testimonianza d’agiatezza, che non sia agiatezza derivata, non può dirsi femminile. Per un apprezzamento del rapporto che questi istituti superiori di cultura hanno con la vita economica della comunità, i fenomeni passati in rassegna sono importanti come indici di un atteggiamento generale piuttosto che come fatti in se stessi di grande portata economica. Essi mostrano quale sia l’atteggia mento e la mentalità istintiva della classe colta verso il processo vitale di una società industriale. Essi servono come segno dello stadio di sviluppo, ai fini industriali, raggiunto dalla cultura superiore e dalla classe colta, e dànno così un’indicazione di quanto ci si possa onestamente aspettare da questa classe là dove il suo sapere e la sua vita influiscono più immediatamente sulla vita e sull’efficienza economica della comunità e sull’adattamento del suo sistema di vita alle esigenze del tempo. Quello che queste sopravvivenze ritualistiche stanno a indicare è una prevalenza di conservatorismo, se non di sentimento reazionario, specialmente nelle scuole superiori in cui si coltivano gli studi convenzionali. A questi sintomi di atteggiamento conservatore va aggiunta un’altra

caratteristica che si muove nella medesima direzione, ma che è però un sintomo di più notevole portata che non quest’allegra inclinazione a mode e riti frivoli. Di gran lunga la maggior parte dei colleges e università americane, per esempio, sono affiliati a qualche setta religiosa e più o meno dediti a pratiche devote. La loro supposta familiarità con i metodi e con il punto di vista scientifico dovrebbe presumibilmente liberare le facoltà di queste scuole dagli abiti mentali animistici; ma c’è ancora una percentuale notevole di esse che professano un attaccamento alle credenze e alle pratiche antropomorfiche di una civiltà anteriore. Queste professioni di zelo devoto sono in buona parte, senza dubbio, utilitarie e non impegnative, sia da parte delle scuole unitariamente intese, che da parte dei singoli membri del corpo insegnante; non può però mettersi in dubbio che dopo tutto c’è nelle scuole superiori un notevolissimo elemento di sentimento antropomorfico. Nella misura in cui ciò si verifica, va definito come l’espressione di un abito mentale animistico e arcaico. Quest’abito mentale deve necessariamente affermarsi in qualche misura nell’insegnamento impartito, e in tale misura la sua influenza nel plasmare le abitudini mentali dello studente opera a favore del conservatorismo e dell’atavismo; essa contribuisce a ostacolarne lo sviluppo nella direzione del sapere positivo, quello che meglio serve ai fini dell’industria. Gli sport universitari, che sono così di moda negli istituti di cultura oggi stimati, vanno in una simile direzione; e difatti gli sport hanno molto in comune con l’atteggiamento devoto dei colleges sia per quanto riguarda la loro base psicologica che per quanto concerne l’effetto disciplinare. Ma quest’espressione del temperamento barbarico è da attribuire principalmente al corpo studentesco, piuttosto che al carattere delle scuole come tali; salvo in quanto i colleges o gli istitutori — come talvolta avviene — aiutino e favoriscano attivamente l’incremento degli sport. La stessa cosa vale sia per i sodalizi di college come per gli sport, ma con una differenza. Questi ultimi sono principalmente espressione del semplice impulso di rapina; i primi sono più precisamente espressione di quella solidarietà ereditaria che è un tratto così importante nel carattere del barbaro predatore. Merita pure di esser rilevato che sussiste una stretta relazione tra l’attività sportiva e quella dei sodalizi scolastici. Dopo ciò che è già stato detto in un capitolo precedente sull’abitudine dello sport e del gioco, non è più necessario discutere oltre il valore economico di quest’allenamento agli sport e all’organizzazione e attività di squadre opposte.

Però tutte queste caratteristiche del modello di vita della classe colta, e degli istituti dedicati alla conservazione della cultura superiore, sono in gran parte soltanto accidentali. Esse non vanno nemmeno considerate elementi organici dell’opera professata di ricerca e d’insegnamento ch’è lo scopo evidente per cui le scuole esistono. Ma queste indicazioni sintomatiche vengono a stabilire una presunzione sul carattere del lavoro compiuto — considerato dal punto di vista economico — e sulla tendenza che il lavoro serio svolto sotto i loro auspici conferisce alla gioventù che frequenta le scuole. La ipotesi suggerita dalle considerazioni precedenti è che nell’opera loro, come pure nel cerimoniale, anche le scuole superiori assumeranno una posizione conservatrice; ma questa ipotesi dev’essere verificata con un confronto del carattere economico dell’opera effettivamente svolta, e con una rassegna degli studi la cui conservazione è affidata alle scuole superiori. A questo proposito, è cosa ben nota che gli istituti di cultura accreditati hanno tenuto, fino a poco tempo fa, una posizione conservatrice. Essi hanno assunto un atteggiamento di recriminazione verso tutte le innovazioni. In linea di massima, un nuovo punto di vista o una nuova formulazione del sapere sono stati presi in considerazione e accettati dentro le scuole soltanto dopo che queste novità s’erano affermate fuori della loro cerchia. Come eccezioni a questa regola sono da ricordarsi principalmente le innovazioni meno cospicue e le deviazioni che non influiscono in alcun modo concreto sul punto di vista o sul modello di vita convenzionali; come, per esempio, i particolari empirici delle scienze matematiche e fisiche, e le nuove lezioni e interpretazioni dei classici, specialmente quelle che hanno soltanto un’influenza filologica o letteraria. Fuorché nel campo degli «studi umanistici» in senso stretto, ed eccetto fin dove il punto di vista tradizionale degli studi umanistici è stato lasciato intatto dagli innovatori, si constata in generale che la classe colta riconosciuta e gli istituti di studi superiori hanno guardato con diffidenza ad ogni innovazione. Nuove vedute, nuovi punti di partenza nella teoria scientifica, particolarmente nuovi spunti che toccano in qualche punto la teoria dei rapporti umani, hanno trovato posto nel modello delle università tardivamente e attraverso una tolleranza riluttante, piuttosto che con un cordiale benvenuto; e gli uomini che si sono occupati con tali sforzi di allargare il campo della conoscenza umana non sono stati generalmente ben accolti dai loro dotti contemporanei. Le scuole superiori non hanno generalmente dato il loro aiuto a un serio avanzamento nei metodi e nel contenuto delle scienze prima che le innovazioni invecchiassero e perdessero parte dell’utilità, prima che

divenissero luoghi comuni del patrimonio intellettuale di una nuova generazione cresciuta e plasmatasi nel complesso di nuove conoscenze extra scolastiche e nel nuovo punto di vista. Ciò vale per il recente passato. Quanto possa valere per il presente immediato sarebbe arrischiato asserire, poiché è impossibile vedere i fatti odierni in una prospettiva tale da procurarsi un buon concetto delle loro relative proporzioni. Fin qui, nulla è stato detto della funzione mecenatesca del benestante, sulla quale abitualmente si soffermano parecchio gli scrittori e gli oratori che trattano la evoluzione della cultura e della struttura sociale. Questa funzione della classe agiata non manca di un’importante influenza sugli studi superiori e sulla diffusione del sapere e della cultura. Il modo e il grado in cui la classe favorisce la cultura attraverso un patronato di questo genere è abbastanza familiare. È stato spesso descritto in termini efficaci e appassionati da difensori la cui dimestichezza con l’argomento li rende idonei a far intendere ai loro ascoltatori il profondo significato di questo fattore culturale. Questi difensori, comunque, hanno presentato la cosa dal punto di vista dell’interesse culturale, o dell’interesse dell’onorabilità, piuttosto che da quello dell’interesse economico. Considerata dal punto di vista economico e valutata allo scopo dell’utilità industriale, questa funzione del benestante, come pure l’atteggiamento intellettuale dei membri della classe, merita qualche attenzione e vai la pena d’illustrarla. Per definire la relazione mecenatesca va rilevato che, considerata esternamente come una semplice relazione economica o industriale, essa è una relazione di casta. L’erudito sotto protezione adempie i doveri di una vita colta per conto del patrono, cui di solito una certa reputazione risulta, allo stesso modo della reputazione goduta da un padrone per conto del quale si sfoggia qualche forma di agiatezza derivata. Va inoltre osservato che, storicamente, l’aiuto agli studi o il mantenimento dell’attività erudita attraverso la relazione mecenatesca è stato in linea di massima un avanzamento nelle discipline classiche o negli studi umanistici. Questo sapere tende ad abbassare piuttosto che a elevare l’efficienza industriale della comunità. Inoltre, a proposito della partecipazione diretta dei membri della classe agiata all’avanzamento del sapere, i canoni del vivere rispettabile concorrono a spingere quest’interesse intellettuale, com’esso cerca espressione entro la classe, nel campo dell’erudizione classica e formalistica, piuttosto che in quello delle scienze che hanno qualche rapporto con la vita industriale della società. Le escursioni più frequenti da parte dei membri della classe agiata in campi

del sapere diversi da quelli classici avvengono nella giurisprudenza e nelle scienze politiche, e più particolarmente in quelle amministrative. Queste cosiddette scienze sono sostanzialmente complessi di massime pratiche di guida per la classe agiata nella sua mansione di governo, condotta su una base padronale. Perciò l’interesse con cui questa disciplina viene affrontata non è generalmente il semplice interesse intellettuale o conoscitivo. È in gran parte l’interesse pratico delle esigenze di quel rapporto di padronanza in cui si trovano i membri della classe. In linea di derivazione, l’ufficio del governo è una funzione di rapina, che appartiene completamente al modello di vita della classe agiata arcaica. È un esercizio di controllo e costrizione sulla popolazione da cui la classe trae il suo sostentamento. Questa disciplina, così come i casi pratici che le dànno un contenuto, ha perciò qualche attrattiva per la classe a parte ogni problema conoscitivo. Tutto questo vale dovunque e finché l’ufficio del governo continui, formalmente o sostanzialmente, a essere un ufficio padronale; e vale oltre questo limite, fin dove la tradizione della fase più arcaica dell’evoluzione governativa si è conservata nella vita posteriore di quelle società moderne per le quali il governo padronale da parte di una classe agiata comincia ora a decadere. Per quel campo del sapere nel quale prevale l’interesse intellettuale o conoscitivo — le scienze propriamente dette — la cosa è alquanto diversa, non soltanto per quel che concerne l’atteggiamento della classe agiata ma per quanto riguarda tutta la tendenza della civiltà finanziaria. Il sapere per amore del sapere, l’esercizio della facoltà intellettiva senz’altro scopo, dovrebbe essere perseguito, ci si aspetterebbe, da uomini che nessun interesse materiale urgente distolga da tale ricerca. La sicura posizione industriale della classe agiata dovrebbe dar libero sfogo all’interesse conoscitivo tra i suoi membri, e noi dovremmo di conseguenza avere, come molti scrittori sono convinti che abbiamo, una larghissima percentuale di eruditi, scienziati, sapienti che provengono da questa classe e ricavano il loro impulso alla ricerca e alla speculazione scientifica dalla disciplina di una vita di agiatezza. Qualche risultato del genere non manca, ma ci sono lati del sistema di vita della classe agiata, già sufficientemente descritti, che tendono a rivolgere l’interesse intellettuale di questa classe verso soggetti diversi da quel nesso causale dei fenomeni che forma il contenuto delle scienze. Le abitudini mentali che caratterizzano la vita della classe riposano sulla relazione personale di dominio e sui concetti derivati e antagonistici di onore, dignità, merito, carattere e simili. Il nesso causale che forma il soggetto della scienza non si

può vedere da questo punto di vista. E neppure si annette una buona reputazione alla conoscenza di fatti che siano volgarmente utili. Di qui appare probabile che l’interesse del confronto antagonistico rispetto al merito finanziario o ad altro merito onorifico occuperà l’attenzione della classe agiata, facendole trascurare l’interesse conoscitivo. Laddove quest’ultimo interesse si afferma, viene generalmente stornato verso campi d’indagine o di speculazione che sono onorevoli e futili, piuttosto che alla ricerca del sapere scientifico. Tale infatti fu la storia del sapere della classe agiata e di quella sacerdotale finché un notevole sistema di sapere organico non venne introdotto nella disciplina scolastica da fonte extrascolastica. Ma dacché la relazione di signoria e di sottomissione cessa di essere il fattore dominante e formativo nel processo vitale della comunità, altri tratti del processo vitale e altri punti di vista s’impongono agli studiosi. Il gentiluomo agiato di razza dovrebbe vedere il mondo, e lo vede, dal punto di vista del rapporto personale; e l’interesse conoscitivo, per quanto si afferma in lui, dovrebbe cercare di sistemare i fenomeni su questa base. Tale difatti è il caso del gentiluomo della vecchia scuola, in cui gli ideali della classe agiata vigono intatti; e tale è l’atteggiamento del suo discendente più recente, in quanto questi sia l’erede di tutto il complesso delle virtù della classe superiore. Però le vie dell’ereditarietà sono tortuose, e non ogni figlio di gentiluomo è adatto al castello. Specialmente la trasmissione degli abiti mentali che caratterizzano il padrone predatore è piuttosto precaria, nel caso di una discendenza in cui soltanto uno o due dei gradi più recenti abbiano goduto della disciplina della classe agiata. Le possibilità di trovare una forte tendenza, congenita o acquisita, all’esercizio delle attitudini conoscitive sono evidentemente migliori in quei membri della classe agiata che derivano da classi inferiori o medie — vale a dire, quelli che hanno ereditato tutte le attitudini proprie alle classi industriose, e che devono il loro posto nella classe agiata al possesso di qualità che contano più oggi di quanto contassero nei tempi in cui il modello di vita della classe agiata si formò. Però anche fuori della serie di questi recenti acquisti della classe agiata c’è un numero notevole d’individui in cui l’interesse antagonistico non è sufficientemente forte da plasmarne le vedute teoriche, e nei quali la tendenza alla teoria è abbastanza viva da spingerli alla ricerca scientifica. La cultura superiore deve in parte l’intrusione delle scienze a questi rampolli degeneri della classe agiata, caduti sotto l’influenza dominante della più recente tradizione di rapporti impersonali ed eredi di un complesso di

attitudini umane diverse in certi tratti salienti dal temperamento che è caratteristico del regime di casta. Deve però, in parte, e in grado maggiore, la presenza di quest’estranea somma di sapere scientifico anche a quei membri delle classi industriose che si sono trovati in circostanze così favorevoli da volgere l’attenzione a interessi diversi dalla ricerca del pane quotidiano e le cui abitudini ereditarie respingono il regime di casta, nel senso che il punto di vista antropomorfico e antagonistico non domina i loro procedimenti intellettuali. Di questi due gruppi che approssimativamente comprendono la forza effettiva del progresso scientifico, è l’ultimo che ha dato il massimo contributo. E rispetto a entrambi la verità sembra che essi non sono tanto la fonte quanto il veicolo, o al più lo strumento di trasformazione, mediante il quale gli abiti mentali radicati nella comunità, attraverso il contatto con il suo ambiente secondo le esigenze della vita associata moderna e delle industrie meccaniche, vengono applicati alla conoscenza teorica. La scienza, come riconoscimento organico del nesso causale nei fenomeni, sia fisici che sociali, è una caratteristica della civiltà occidentale solo dal tempo in cui il processo industriale nelle nostre società è divenuto sostanzialmente un processo d’invenzioni meccaniche in cui l’ufficio dell’uomo consiste nel discriminare e valutare le forze materiali. La scienza è fiorita quasi nello stesso grado in cui la vita industriale della società si è conformata a questo modello, e quasi nello stesso grado in cui l’interesse industriale ha dominato la vita della società. E la scienza, e specialmente la teoria scientifica, ha progredito nei diversi settori della vita e del sapere umani nella proporzione in cui ognuno di questi diversi settori è venuto successivamente a contatto più stretto con il processo industriale e l’interesse economico; o forse è più giusto dire, nella proporzione in cui ognuno di essi si è successivamente sottratto al dominio delle concezioni di relazione personale o di casta, e dei canoni di convenienza antropomorfica e di dignità onorifica che ne derivano. È soltanto allorché le esigenze della vita industriale moderna hanno rafforzato il riconoscimento del nesso causale nel contatto pratico del genere umano con l’ambiente, che gli uomini sono giunti a ordinare i fenomeni di questo ambiente, e i fatti del loro contatto con esso, in termini di nesso causale. Cosicché, mentre la cultura superiore nel suo migliore sviluppo, come fiore perfetto della scolastica e del classicismo, fu un sottoprodotto dell’ufficio sacerdotale e della vita agiata, si può dire che la scienza moderna è un sottoprodotto del processo industriale. Quindi, attraverso questi gruppi di uomini — ricercatori, eruditi, scienziati, inventori, pensatori — la massima

parte dei quali hanno compiuto la loro opera più significativa fuori dell’ambito delle scuole, le abitudini mentali avvalorate dalla vita industriale moderna hanno trovato espressione ed elaborazione coerente in un complesso di scienza teorica, che ha a che fare con il nesso causale dei fenomeni. E da questo campo di speculazione scientifica extrascolastica cambiamenti di metodo e di scopo sono stati di tanto in tanto introdotti nella disciplina scolastica. A questo proposito va osservato che c’è una differenza notevolissima quanto alla sostanza e allo scopo fra l’istruzione impartita nelle scuole inferiori e secondarie da una parte, e negli istituti superiori, dall’altra. La differenza in fatto di praticità immediata dell’informazione impartita e dell’abilità acquisita può avere qualche importanza e può meritare l’attenzione che di tanto in tanto ha ricevuto; c’è però una differenza più sostanziale nella disposizione mentale e spirituale favorita dall’una e dall’altra disciplina. Questa divergente tendenza di disciplina fra la cultura superiore e quella inferiore è degna soprattutto di rilievo per quel che riguarda l’istruzione elementare nel suo sviluppo più recente fra le società industriali progredite. Qui l’istruzione è soprattutto diretta alla competenza o destrezza, intellettuale e manuale, nelF apprendimento e nell’impiego dei fatti impersonali, nel loro rilievo causale piuttosto che onorifico. A dire il vero, secondo le tradizioni dei tempi più antichi in cui anche l’istruzione elementare era in massima parte un lusso della classe agiata, si fa ancora libero uso dell’emulazione come di uno sprone alla diligenza nelle scuole inferiori in generale; ma anche quest’uso dell’emulazione come mezzo va chiaramente declinando nei gradi inferiori delle società in cui l’istruzione elementare non sia sotto la guida della tradizione ecclesiastica o militare. Tutto ciò vale in grado particolare, e più specialmente dal lato spirituale, per quelle parti del sistema pedagogico che sono state immediatamente influenzate dai metodi e dagli ideali dei giardini d’infanzia. La tendenza particolarmente non antagonistica della disciplina dei giardini d’infanzia, e il consimile carattere che quest’influenza ha nell’istruzione elementare oltre i limiti del giardino d’infanzia vero e proprio, andrebbero messi in rapporto con quanto si è già detto sul particolare atteggiamento spirituale della donna della classe agiata nelle circostanze della situazione economica moderna. La disciplina del giardino d’infanzia fiorisce soprattutto — o più si scosta dagli antichi ideali patriarcali e pedagogici — nelle società industriali progredite, dove c’è un gruppo notevole di donne intelligenti e

oziose e dove il sistema di casta ha alquanto ridotto il suo rigore sotto l’influenza disgregatrice della vita industriale e nell’assenza di un complesso consistente di tradizioni militari ed ecclesiastiche. È da queste donne poste in favorevoli circostanze che esso trae il suo appoggio morale. Gli scopi e i metodi del giardino d’infanzia si raccomandano con particolare efficacia a queste categorie di donne, che si trovano a disagio sotto il codice finanziario della vita rispettabile. Il giardino d’infanzia, e perciò tutto quel che lo spirito del giardino d’infanzia significa nell’istruzione moderna, va considerato, insieme con il «movimento della donna moderna», come facente parte di quella ribellione contro la futilità e il confronto antagonistico che la vita della classe agiata nelle circostanze moderne impone alle donne esposte più immediatamente alla sua disciplina. In questo modo appare chiaro che qui indirettamente l’istituzione di una classe agiata favorisce di nuovo lo sviluppo di un atteggiamento non antagonistico, che alla lunga può costituire una minaccia alla stabilità dell’istituzione stessa, e persino all’istituzione della proprietà individuale su cui si fonda. Durante il recente passato hanno avuto luogo alcuni cambiamenti concreti nei programmi d’insegnamento dei colleges e delle università. Questi cambiamenti sono in linea di massima consistiti in una parziale sostituzione degli studi umanistici — quei rami di studio che si crede alimentino la «cultura» tradizionale, il carattere, i gusti e gli ideali — con quei rami più positivi che tendono all’efficienza civica e industriale. Per dirla in altre parole, quei rami del sapere che tendono all’efficienza (essenzialmente all’efficienza produttiva) hanno gradualmente guadagnato terreno contro quei rami che tendono a un maggiore consumo o a una ridotta efficienza industriale e ad un tipo di carattere adatto al regime di casta. In questo adattamento del sistema pedagogico le scuole superiori si sono trovate generalmente sulla sponda conservatrice; ogni passo che esse hanno fatto in avanti è stato in parte della natura di una concessione. Le scienze sono state introdotte nella disciplina dell’uomo colto dall’esterno, per non dire dal basso. È degno di nota che gli studi umanistici, che hanno con tanta riluttanza ceduto il passo alle scienze, sono abbastanza uniformemente adatti a plasmare il carattere dello studente in armonia con un tradizionale modello egocentrico di consumo; un modello di contemplazione e godimento del vero, del bello e del buono secondo un criterio convenzionale di convenienza e di eccellenza, il tratto saliente del quale è l’agiatezza, otium cum dignitate. In un linguaggio velato dalla loro assuefazione al punto di vista decoroso e arcaico, i difensori degli studi

umanistici hanno insistito sull’ideale racchiuso nella massima: fruges consumere nati2 Quest’atteggiamento non dovrebbe dar luogo a sorprese nel caso di scuole che sono foggiate e che si fondano su una civiltà di classe agiata. I fondamenti dichiarati in base ai quali si è cercato di mantenere, quant’era possibile, intatti i criteri e i metodi di civiltà ereditati, sono similmente caratteristici del temperamento arcaico e della teoria di vita della classe agiata. Il godimento e le tendenze derivanti dalla contemplazione abituale della vita, degli ideali, delle speculazioni e dei metodi di consumare tempo e beni di moda nella classe agiata dell’antichità classica, per esempio, sono considerati «più alti», «più nobili», «più degni», di ciò che nasce a questo proposito da una simile dimestichezza con la vita quotidiana e il sapere e le aspirazioni degli uomini ordinari di una società moderna. Quella cultura, il cui contenuto è una conoscenza pura e semplice degli uomini e delle cose moderne, è al confronto «inferiore», «bassa», «ignobile» — si sente persino applicare l’epiteto «subumana» a questa conoscenza positiva degli uomini e della vita giornaliera. La rivendicazione dei difensori degli studi umanistici appare sostanzialmente giusta. Difatti, la soddisfazione e la cultura, o l’atteggiamento spirituale o abito mentale, derivanti da una contemplazione consueta dell’antropomorfismo, della solidarietà e della autocompiacenza agiata del gentiluomo del passato, oppure derivanti da una familiarità con le superstizioni animistiche e la truculenza esuberante degli eroi omerici, per esempio, sono più legittime, da un punto di vista estetico, che i corrispondenti risultati derivanti da una conoscenza positiva delle cose e da una contemplazione dell’efficienza civica o industriosa più recente. Non è contestabile che le abitudini citate per prime sono in vantaggio quanto a dignità estetica o onorifica, e perciò quanto alla «dignità» che vale come base di giudizio nel confronto. Il contenuto dei canoni del gusto, e più particolarmente dei canoni dell’onore, è naturalmente una risultante della vita e delle circostanze passate della razza, trasmesse per eredità e tradizione alla generazione novella; e il fatto che la prolungata supremazia di un sistema di vita di rapina e d’agiatezza abbia profondamente plasmato l’abito mentale e il punto di vista nella razza in passato, è una base sufficiente per una supremazia esteticamente legittima di un tale sistema di vita su gran parte di quanto concerne questioni di gusto nel presente. Per quel che c’interessa qui, i canoni del gusto sono abitudini razziali acquisite attraverso un’assuefazione più o

meno prolungata all’approvazione o disapprovazione di quel genere di cose su cui si esprime un giudizio di gusto. Coeteris paribus, quanto più lunga e ininterrotta è l’assuefazione, tanto più legittimo è il canone di gusto in questione. Tutto questo pare che sia anche più vero per i giudizi concernenti il valore o l’onore che per quelli di gusto in generale. Però, qualunque possa essere la legittimità estetica del giudizio negativo espresso sulle moderne scienze dai difensori degli studi umanistici, e per quanto sostanziali i meriti della pretesa che l’erudizione classica è più degna e dà luogo a una cultura e a un carattere più autenticamente umani, ciò non riguarda la nostra questione. Il nostro problema è fin dove questi rami di studio, e il punto di vista che essi rappresentano nel sistema educativo, aiutano o impediscono una vita collettiva efficiente nelle circostanze industriali «odierne — fin dove essi favoriscono un più pronto adattamento alla situazione economica odierna. Il problema è economico, non estetico; e i criteri di studio della classe agiata, che trovano espressione nell’atteggiamento deprecativo delle scuole superiori verso le conoscenze positive, sono per il nostro scopo da valutarsi soltanto da questo punto di vista. A questo scopo l’uso di epiteti quali «nobile», «basso», «superiore», «inferiore», ecc. è significativo soltanto in quanto mostra l’animo e il punto di vista dei contendenti; sia che essi disputino a favore della dignità del nuovo sia del vecchio. Tutti questi epiteti sono termini di lode o di biasimo, cioè sono termini di confronto antagonistico che in ultima analisi cadono nella categoria dell’onorevole o del disonorevole; cioè appartengono all’ordine d’idee che caratterizza il modello di vita del regime delle caste; cioè, sono in sostanza un’espressione di sportività — dell’abito mentale predatorio e animistico; cioè, indicano una teoria della vita e un punto di vista arcaici, che possono convenire allo stadio di civiltà e di organizzazione economica predatorie da cui sono scaturiti, ma che sono, dal punto di vista dell’efficienza economica nel senso più lato, anacronismi nocivi. I classici, e la loro posizione di prerogativa nel sistema educativo a cui si attengono con tale appassionata predilezione gli istituti di studi superiori, servono a plasmare l’atteggiamento intellettuale e a ridurre l’efficienza economica della nuova generazione colta. Essi fanno ciò non soltanto continuando a sostenere un ideale di umanità arcaico, ma anche con la discriminazione che essi inculcano tra conoscenze onorevoli e disonorevoli. Questo risultato è conseguito in due modi: i) ispirando un’avversione abituale per ciò che è semplicemente utile, in quanto contrapposto a ciò che è

puramente onorifico negli studi, e plasmando i gusti della matricola in modo che egli giunga in buona fede a trovare soddisfazione per i suoi gusti unicamente, o quasi unicamente, in un esercizio dell’intelletto tale da non dar luogo a nessun guadagno industriale o sociale; 2) assorbendo il tempo e l’energia dello studente nell’acquistare conoscenze di nessuna utilità, salvo in quanto questo studio sia stato convenzionalmente incorporato nel complesso di dottrine richieste all’erudito, e abbia quindi influenzato la terminologia e la dizione dei rami utili del sapere. Salvo per questa difficoltà terminologica — che è essa stessa una conseguenza della moda dei classici del passato — una conoscenza delle lingue antiche, per esempio, non avrebbe nessun risultato pratico per qualunque scienziato o erudito non occupato in un lavoro di carattere specificamente linguistico. Naturalmente tutto ciò non ha nulla a che vedere con il valore culturale dei classici, né noi abbiamo la minima intenzione di deprezzare la disciplina dei classici o l’orientamento che il loro studio dà allo studente. Questo orientamento appare economicamente nocivo, ma la cosa — abbastanza nota in verità — non deve disturbare nessuno che abbia la buona ventura di trovar conforto e vigore nell’erudizione classica. Il fatto che gli studi classici concorrano a scompigliare le attitudini industriali di chi studia dovrebbe dar poca noia a coloro che stimano di poco conto l’efficienza a confronto della coltivazione dei begli ideali: lam fides et pax et honos pudorque priscus et neglecta redire virtus audet3. A causa del fatto che queste conoscenze sono diventate parte delle esigenze elementari del nostro sistema educativo, l’abilità a usare e capire alcune lingue morte dell’Europa meridionale non è soltanto cosa grata per la persona che trova l’occasione di ostentare i suoi talenti a questo proposito, ma l’evidenza di questo sapere serve nello stesso tempo a raccomandare ogni erudito al suo pubblico, sia profano che colto. Si sa comunemente che per acquistare siffatte nozioni sostanzialmente inutili occorre un certo numero di anni, e la loro assenza fa presupporre studi affrettati e insufficienti, come pure una volgare praticità che è egualmente contraria ai criteri convenzionali di genuina erudizione e forza intellettuale. Un caso analogo avviene nell’acquisto di qualsiasi articolo di consumo da parte di un compratore che non sia un giudice esperto di materiali o di lavorazione. Egli fa il suo estimo del valore dell’articolo principalmente in base alla dispendiosità appariscente della rifinitura di quelle parti e di quei

tratti decorativi che non hanno nessuna relazione immediata con l’intrinseca utilità dell’articolo; presupponendo che sussista una qualche non ben definita proporzione fra il valore sostanziale dell’articolo e la spesa per decorarlo in vista della vendita. Il presupposto che ordinariamente non possa esserci nessuna autentica erudizione dove manca una conoscenza dei classici e degli studi umanistici, porta a un vistoso sciupìo di tempo e di fatica da parte della generalità degli studenti nell’acquistare tale conoscenza. L’insistenza convenzionale su un minimo di sciupìo vistoso, come portato di ogni erudizione onorevole, ha influenzato i nostri canoni di gusto e di utilità in questioni d’erudizione in gran parte come il medesimo principio ha influenzato il nostro giudizio sull’utilità dei manufatti. È vero, dacché il consumo vistoso ha sempre più guadagnato rispetto alla vistosa agiatezza come mezzo di reputazione, che impadronirsi delle lingue morte non è più un’esigenza così imperiosa come una volta, e la sua virtù talismanica quale garanzia d’erudizione ha subito un concomitante decadimento. Mentre però questo è vero, è anche vero che: classici non hanno scapitato in valore assoluto come garanzia di rispettabilità scolastica, dacché a questo scopo è semplicemente necessario che l’erudito sia capace di mettere in mostra un qualche studio convenzionalmente riconosciuto come prova di tempo perso; e i classici si prestano con estrema facilità a questo uso. Difatti, si può ben poco dubitare che la loro utilità come segno di tempo ed energia spesi, e di qui della forza finanziaria necessaria a fornire i mezzi per questa spesa, sia ciò che assicura ai classici la loro posizione di prerogativa nel modello degli studi superiori e che porta a ritenerli i più onorifici di tutti gli studi. Essi servono gli scopi decorativi della cultura della classe agiata meglio di qualsiasi altro complesso di conoscenze, e perciò sono un efficace strumento di rispettabilità. A questo proposito, i classici non hanno avuto fino a poco tempo fa rivali. Tuttora essi non hanno rivali pericolosi sul continente europeo, ma ultimamente, dacché l’atletica dei colleges ha conquistato il suo posto riconosciuto come un campo accreditato di perfezionamento scolastico, quest’ultimo ramo di studio — ammesso che l’atletica possa classificarsi uno studio — è diventato un rivale dei classici per la supremazia nell’istruzione della classe agiata nelle scuole inglesi e americane. L’atletica ha un ovvio vantaggio sui classici per lo scopo di studio della classe agiata, poiché il successo come atleta presuppone una perdita non solo di tempo ma anche di denaro, oltre al possesso di certi tratti arcaici di carattere e di temperamento

assai poco industriali. Nelle università tedesche il posto dell’atletica e dei circoli con iniziale greca, quale occupazione studiosa della classe agiata, è in parte tenuto da una consumata e graduale arte di ubriacarsi, e da duelli formali. La classe agiata e i suoi criteri di virtù — l’arcaismo e lo sciupìo — non sono certo stati interessati a introdurre i classici nel modello degli studi superiori; ma la tenace conservazione dei classici da parte delle scuole superiori e l’alto grado di rispettabilità, che tuttora ad essi si annette, sono senza dubbio dovuti al loro conformarsi così strettamente alle esigenze dell’arcaismo e dello sciupìo. Il «classico» porta sempre questa connotazione di dispendio e di arcaismo, sia che venga usato per significare le lingue morte o le forme di pensiero e di dizione vecchie o fuori uso nella lingua viva, o per significare altri generi dell’attività o dell’apparato scolastici a cui si applica con minore proprietà. Si parla così della varietà arcaica dell’inglese come dell’inglese «classico». Il suo uso è obbligatorio in ogni conversazione e in ogni scritto su argomenti seri, e un uso disinvolto di esso conferisce dignità anche al più banale e comune oggetto di ciarle. Naturalmente la forma più recente della dizione inglese non viene mai scritta; il senso di quella convenienza agiata, che esige l’arcaismo nell’espri-mersi, è presente anche negli scriventi più illetterati o primitivi con forza sufficiente da prevenire un tale errore. D’altra parte, lo stile della dizione arcaica più alto e più convenzionale viene usato propriamente — in modo assai caratteristico — soltanto nelle comunicazioni fra una divinità antropomorfica e i suoi sudditi. A mezza strada fra questi due estremi si trova il linguaggio quotidiano della conversazione e della letteratura agiate. La dizione elegante, sia nello scrivere che nel parlare, è un efficace strumento di rispettabilità. È importante conoscere con una certa precisione quale sia il grado di arcaismo convenzionalmente richiesto nel parlare su un dato argomento. Le usanze differiscono notevolmente dal pulpito alla piazza; quest’ultima, com’è da attendersi, ammette l’uso di parole e locuzioni relativamente recenti ed efficaci, anche da parte di persone esigenti. Evitare discriminatamente i neologismi è onorifico, non soltanto perché dimostra che si è sprecato del tempo per impadronirsi delle forme d’espressione invecchiate, ma anche perché dimostra che colui che parla si è abitualmente incontrato fin dall’infanzia con persone in dimestichezza con l’idioma arcaico. Quindi ciò viene a dimostrare che i suoi antenati appartenevano alla classe agiata. Una grande purezza di espressioni è una prova congetturale di parecchie vite

successive spese in occupazioni diverse da quelle volgarmente utilitarie; benché la prova non sia affatto conclusiva su questo punto. L’esempio più calzante di futile classicismo che si possa trovare, al di fuori dell’Estremo Oriente, è l’ortografia convenzionale della lingua inglese. Un’infrazione alle regole ortografiche è estremamente fastidiosa, e discredita qualsiasi scrivente agli occhi di tutte le persone che posseggono un senso sviluppato del vero e del bello. L’ortografia inglese soddisfa tutte le richieste dei canoni di rispettabilità secondo la legge dello sciupìo vistoso. È arcaica, farraginosa, inutile; la sua acquisizione implica una grande perdita di tempo e d’energia; l’incapacità d’impadronirsene si rivela facilmente. Per questo è la prima e la più pronta prova di rispettabilità negli studi, e il conformarsi alle sue regole è indispensabile per una vita studiosa irreprensibile. A proposito di questa purezza di eloquio, come pure per altri aspetti in cui un’usanza convenzionale si fondi sui canoni dell’arcaismo e dello sciupìo, i difensori dell’usanza assumono istintivamente un atteggiamento apologetico. Si obietta, in sostanza, che un uso pedante di locuzioni vecchie e accreditate servirebbe a esprimere più adeguatamente e con maggior esattezza il pensiero di quanto non faccia l’uso spedito di forme più recenti dell’inglese parlato; laddove è cosa nota che le idee di oggi sono efficacemente espresse nel gergo di oggi. Il frasario classico ha la virtù onorifica della dignità; esso impone attenzione e rispetto in quanto è il metodo di comunicazione accreditato nel modello di vita della classe agiata, poiché induce precisamente ad attribuire esenzione dalle occupazioni industriali. Il vantaggio delle locuzioni accreditate consiste nella loro rispettabilità; esse sono rispettabili perché farraginose e fuori moda, e testimoniano perciò sciupìo di tempo ed esenzione dall’uso e dalla necessità di parlare con chiarezza ed efficacia. 1. Filippo Melantone (1497-1560), teologo tedesco seguace di Martin Lutero (14831546) e umanista. Peder Dass (1647-1708), parroco norvegese, poeta e traduttore della Bibbia. Nikolai F.S. Grundtvig (17831872), teologo e archeologo danese. 2. ORAZIO, I, 2, 27. 3. ORAZIO, Carm. Saec, vv. 57-59.

LA GERMANIA IMPERIALE E LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

PREFAZIONE Potrebbe sembrar necessario giustificare la presentazione, in un momento come questo, di uno studio così poco guerresco come il nostro sul caso della Germania imperiale e sul suo posto nella civiltà moderna. Il saggio fu concepito prima dell’inizio della guerra in corso, anche se la natura degli eventi successivi ha senza dubbio influito sul particolare orientamento dato al discorso in diversi momenti della ricerca; la quale, perciò, non si interessa né del controverso merito della contesa internazionale né della forza rispettiva e del probabile successo dell’uno o dell’altro dei belligeranti. Il suo scopo, meno polemico, è quello di una comparazione e correlazione tra il caso della Germania da una parte e quello dei popoli di lingua inglese dall’altra, considerati come direttrici distinte e alquanto divergenti della evoluzione culturale dei tempi moderni; la ricerca è basata sulle circostanze economiche, e soprattutto industriali, che hanno portato all’attuale situazione in ognuno dei due casi. Esso intende far risalire il progresso industriale e la elevata efficienza tedesca a cause naturali, senza ricorrere alla logica del destino manifesto, del nepotismo provvidenziale, del genio nazionale ed altri simili. Ritengo che si tratti del primo tentativo finora effettuato in direzione di una spiegazione, anziché di una descrizione o di una esaltazione, di questo episodio della storia economica moderna; a meno che possa essere considerato tale il Deutsche Volkswìrtschajt im XIX jahrhundert del professor Sombart1 A parte tale studio di questo periodo, ritengo che non sia stato pubblicato nulla di una qualche importanza, nel senso di una ricerca teorica di quest’epoca imperiale e dell’andamento dei suoi affari industriali, anche se molti studi accademici e manualistici hanno presentato lo svolgimento dei fatti da questo o da quel punto di vista. Naturalmente in questa sede non si intendono impartire nozioni sulla storia politica o economica di questo periodo; le nozioni storiche utilizzate come materiale per le argomentazioni sono di tipo comune, familiari per notorietà quotidiana o ricavabili da manuali standard accessibili a tutti i lettori. Di conseguenza, si è fatto a meno di ogni uso di citazioni complete di fonti ed autorità, anche se citazioni e riferimenti relativi a determinati argomenti sono stati inseriti laddove speciali circostanze parevano richiederlo.

Il ragionamento non esula dai limiti delle narrazioni storiche convenzionali, e non si basa su materiale poco noto oppure su minuzie di dettaglio. Per i lettori inglesi, invero, il capitolo sull’antico ordinamento può sembrare fondato in parte su nozioni oscure. Il discorso su tale argomento presuppone un certo grado di familiarità con l’archeologia delia regione baltica, insieme con una conoscenza assai esauriente e di prima mano di ciò che è disponibile in fatto di frammenti dell’antica letteratura islandese. Non è una materia in cui il lettore sarebbe molto aiutato da una citazione delle fonti; né una dettagliata enumerazione di documenti e di passi testuali sembra utile ad alcunché, anche nelle mani di uno specialista di questo settore dell’erudizione; ciò perché lo scopo per cui questo materiale è utilizzato in questa sede è tale che nei suoi confronti risulta adeguata solo una familiarità alquanto prolungata ed esauriente con l’intera gamma della letteratura suddetta. L’antica civiltà dei popoli germanici, e dei loro predecessori pregermanici, quale si manifesta in questi resti archeologici e letterari, è utilizzata come termine di paragone, di fronte al quale si evidenziano i tratti caratteristici dell’epoca moderna, ed anche per mostrare il punto di partenza della civiltà di questi popoli, in direzione del quale si orienta necessariamente, nel loro caso, ogni tendenza al ritorno all’antico. Può anche sembrare che si sia dedicata al caso delle società di lingua inglese una attenzione maggiore di quella che parrebbe giustificata dalla dicitura del titolo. Anche qui la necessità di un termine di paragone è stata ritenuta decisiva, oltre al fatto che, sotto l’aspetto industriale, l’attuale situazione tedesca è derivata da quella inglese, ed è un risultato del passato sviluppo delle tecniche industriali elaborate in Gran Bretagna. Una certa attenzione è stata perciò necessariamente dedicata a tale sviluppo dell’industria nel passato ed alle sue conseguenze per la società britannica. Marzo 1915. 1. Werner Sombart (1863-1941), uno dei massimi sociologi tedeschi, autore di numerose opere tra cui, oltre quella citata (Berlino, 1903), Der moderne Kapitalismus (Monaco-Lipsia, 1902, trad. ital., Torino, Utet, 1967) e Der Bourgeois (Monaco-Lipsia, 1913, trad. ital., Milano, 1950). Veblen apprezzava l’opera di Sombart con alcune riserve; Sombart a sua volta manifestò ammirazione soprattutto per la Theory of Business Enterprise (1904).

CAPITOLO I. INTRODUZIONE - POPOLI E RAZZE Fra coloro che non hanno conoscenze dettagliate in materia di etnologia si usa parlare delle diverse nazioni europee come di razze distinte. Persino documenti ufficiali e storici scrupolosi non vanno esenti da questa confusione di idee. In tale uso discorsivo, «razza» non è inteso quale preciso sinonimo di «nazione» né di ce popolo», anche se spesso sarebbe difficile ricavare dal contesto il particolare significato attribuito all’uno o all’altro di questi termini. Essi sono usati in maniera approssimativa e indicativa, ciò che in molti casi è possibile fare senza compromettere o confondere il ragionamento; cosicché potrebbe sembrare ragionevole prenderli come vengono, tenendo conto del margine di errore che ne accompagna necessariamente l’uso corrente, senza preoccuparsi di una definizione più precisa o di un uso più differenziato di quello di cui si accontentano quanti trovano adeguati questi termini, pure in tutta la loro ambiguità discorsiva. Tuttavia, anche nella ambiguità che accompagna attualmente l’uso di questi termini, e di altri virtualmente equivalenti, esiste tra essi una certa sostanziale differenza di significati impliciti, tale da creare confusione in buona parte dei ragionamenti in cui sono impiegati. Qualunque altro significato esso possa esprimere, il termine «razza» implica sempre una comunanza di caratteri ereditari nell’ambito del gruppo così designato; implica sempre che il complesso dei tratti ereditari sia sostanzialmente il medesimo per tutti gli individui compresi nel gruppo. «Razza» è un concetto biologico e, dovunque lo si applichi, esso esprime una discendenza comune del gruppo da antenati caratterizzati da un determinato tipo specifico, i cui tratti caratteristici vengono trasmessi intatti a tutti i membri del gruppo così definito. Gli altri termini usati correntemente in maniera intercambiabile con «razza», come ad esempio «nazione» o «popolo», non implicano necessariamente una simile comunanza biologica del gruppo cui sono riferiti; anche se, senza dubbio, l’idea di un’origine comune è spesso presente in modo vago nella mente di chi li usa. Nell’uso discorsivo di questi termini, quando non ci si limita ad

identificare del tutto acriticamente la distinzione tra questi diversi popoli o pretese razze con la demarcazione delle frontiere nazionali, il tratto caratteristico a cui generalmente si ricorre è la comunanza di linguaggio. Accade così che l’assuefazione ad un dato tipo di linguaggio venga ad assolvere il ruolo del contrassegno convenzionale dell’origine razziale. Una certa (virtuale) uniformità di abitudini viene intesa come denotante uniformità di patrimonio ereditario. Infatti, molti storici e pubblicisti che trattano questi problemi sono stati indotti a delle ampie generalizzazioni circa le caratteristiche ereditarie di temperamento, intelligenza e struttura fisica, laddove vi sarebbero tutt’al più i fondamenti per dei paragoni critici tra divergenti modelli di usi e costumi. Tali differenze di usi e costumi che distinguono un popolo da un altro possono naturalmente essere un fatto abbastanza importante; ma la loro portata ed il loro effetto hanno carattere completamente diverso e ben altro ruolo e influenza sullo sviluppo culturale che non le differenze di tipo razziale. Il modello delle istituzioni esistenti in una determinata società — come è dimostrato, ad esempio, dal caso della lingua — essendo di natura consuetudinaria è necessariamente instabile e soggetto a variare senza limiti con il passare del tempo, seppure ciò possa avvenire in modo conseguente; laddove invece il tipo di ogni gruppo razziale è stabile e i caratteri ereditari del patrimonio intellettuale e fisico che lo caratterizzano dipendono da una irreversibile eredità biologica, invariabile lungo l’intero corso della storia della razza. Una meticolosa distinzione tra i due concetti — degli usi e dei caratteri ereditari — sta alla base di una corretta impostazione di qualunque ricerca sul comportamento umano, mentre la confusione tra i due è responsabile di molta parte dello spirito polemico e di non poche recrimina zioni negli scritti recenti e attuali su argomenti storici, politici ed economici. E, naturalmente, quanto maggiore la carica di sciovinismo contenuta nella discussione, tanto più spettacolare e dilagante è la produzione di equivoci sistematici. Se una ricerca sul caso della Germania deve servire ai fini di una generalizzazione teorica relativa allo studio delle istituzioni umane, della loro natura e cause, è necessario distinguere tra i fattori in esame a carattere stabile e durevole e quelli variabili e, allo stesso tempo, è necessario tener conto di quali fattori siano peculiari al popolo tedesco e quali altri siano comuni ad esso ed ai suoi vicini, con i quali viene necessariamente paragonato. Si dà il caso che queste due linee di differenziazione in larga parte coincidano. Rispetto alle caratteristiche stabili dell’eredità razziale il popolo tedesco non

presenta differenze sensibili o consistenti rispetto ai popoli vicini; mentre invece nel carattere delle sue consuetudini del passato — nel suo modello culturale — come pure nei confronti delle vicissitudini di recente attraversate, il suo caso è in certa misura peculiare. È appunto nelle consuetudini mentali acquistate — usi e costumi — e nelle condizioni che di recente hanno ulteriormente plasmato questo suo complesso di usi e costumi, che tale popolo differisce da quello europeo nel suo complesso. Vista la confusione o l’ignoranza prevalenti tra gli storici e i pubblicisti che si sono occupati di questi problemi sembra necessario, anche se rischia di apparire tedioso, elencare certi fatti generalmente noti relativi al carattere razziale del popolo tedesco. Per quel che riguarda la questione della razza, riferita al popolo tedesco considerato nel suo insieme, questi fatti non sono più controversi. Esistono e senza dubbio esisteranno ancora a lungo studiosi delle questioni razziali europee impegnati a risolvere molti difficili problemi riguardanti gli spostamenti locali, la emigrazione e l’infiltrazione di elementi razziali, anche entro le frontiere della Madrepatria. Ai fini del presente lavoro, tuttavia, è quasi del tutto innecessario ricorrere ad alcuna di tali questioni di oscuro dettaglio. Anche se altri dati potrebbero rivelarsi utili, l’oggetto del nostro studio non richiede nulla di più di quei lineamenti generali del caso su cui si è già raggiunto un sicuro consenso. Solo nei limiti in cui è possibile, a mezzo di espedienti, ritenere che le frontiere linguistiche coincidano in modo accettabile con le frontiere politiche del dominio germanico, possiamo servirci del termine «popolo tedesco» come è correntemente usato negli scritti storici, polemici e patriottici, senza alcun accento di esaltazione o di svalutazione. Se dunque si applica questo termine per designare approssimativamente l’Impero con la sua popolazione di lingua tedesca — das Deutsche Volk — e si trascura nel farlo ogni divergenza d’opinione, qualsiasi definizione che faccia dell’aggregato così designato una razza distinta è insostenibile, anche dopo aver fatto tutte le debite riserve per gli elementi intrusivi della popolazione, quali gli ebrei, o i polacchi e i danesi germanizzati. Il popolo tedesco non è una razza distinta né rispetto alla popolazione non-tedesca d’Europa, né in se stesso. Da entrambi i punti di vista, la condizione di questo popolo non differisce sostanzialmente da quella di qualsiasi altra popolazione costituente un’entità nazionale europea. Questi sono fatti generalmente noti. Al pari delle popolazioni dei paesi vicini, anche la popolazione tedesca è totalmente ibrida; e l’ibrido miscuglio che la forma è composto dagli stessi

elementi razziali che entrano nella composizione della popolazione europea in generale. Il suo carattere ibrido è forse più spiccato che nel caso dei paesi situati più a Sud; tuttavia la differenza tra i tedeschi e i loro vicini meridionali non è di grado rilevante. D’altro canto, la situazione dei tedeschi è, sotto questo riguardo, virtualmente identica a quella dei popoli che risiedono immediatamente ad Est e a Ovesta. In fatto di razza la popolazione del Sud della Germania è sostanzialmente identica a quella del Nord della Francia o delle zone confinanti del Belgio; mentre, sotto lo stesso riguardo, la popolazione della Germania settentrionale ha sostanzialmente la medesima composizione di quella dell’Olanda e della Danimarca a Ovest, e di quella della Russia occidentale a Est. Considerando poi la Madrepatria nel suo insieme, la popolazione è, dal punto di vista razziale, sostanzialmente identica a quella delle Isole Britanniche. Le variazioni locali di dettaglio esistenti entro questa ampia fascia di popolazioni composite sono indubbiamente considerevoli, ma hanno fondamentalmente carattere simile nei diversi paesi e, prese nell’insieme, producono effetti corrispondenti a oriente, a occidente, o al centro. In altre parole, non v’è nel complesso sensibile differenza di razza tra gli inglesi, gli olandesi, i tedeschi e gli slavi della Grande Russia. Nelle attuali esaltazioni di meriti e distinzioni nazionali, quando si fa riferimento a una razza tedesca, germanica, o anglo-sassone pura, il contesto in cui ciò avviene manifesta immediatamente che ciò che è presente nella mente dell’esaltatore, se dev’essere ascritto a una qualche categoria biologica ben definita, è il dolicocefalo biondo. Ora si dà il caso, sfortunatamente per chi insiste in modo ossessivo sulla purezza della razza, che questo particolare ceppo razziale si ritrovi allo stato puro con minor frequenza degli altri due con i quali si è mescolato. Si può, senza tema di smentita, affermare che non esiste attualmente società, grande o piccola, che sia composta, sia pure approssimativamente, di biondi puri con la esclusione di altri elementi razziali. Si può anche tranquillamente andar oltre ed asserire che non esiste in alcun modo nella popolazione europea un individuo che genealogicamente sia di pura estrazione bionda. Né vi sono ragionevoli probabilità o prove disponibili che in alcuna parte d’Europa sia mai esistita una società di biondi puri. Considerazioni simili possono essere fatte, con un grado di sicurezza solo lievemente inferiore, per gli esemplari puri delle altre principali razze europee. La variazione dei caratteri razziali all’interno di ognuno di questi gruppi nazionali è molto sensibile, e nel caso della Germania è specialmente

accentuata tra Nord e Sud; mentre invece le differenze che concorrono a formare la linea di demarcazione tra queste nazionalità, considerate come aggregati, sono di tipo istituzionale, differenze nelle caratteristiche acquistate, non trasmissibili ereditariamente, cioè, in sostanza, differenze di usi. Da questo lato peraltro le divergenze tra le varie nazionalità possono essere ampie e hanno in genere carattere sistematico; cosicché mentre non si può citare alcuna differenza del tipo razziale, le divergenze del tipo culturale possono essere abbastanza notevoli. La composizione ibrida di questi popoli influenza il loro carattere anche sotto un altro aspetto, di grande rilevanza nello sviluppo della civiltà; e, al tempo stesso, influenza le sorti di tutti i popoli d’Europa, per lo più nello stesso modo, sebbene, forse, non con la stessa intensità. In conseguenza della loro composizione ibrida i singoli membri di queste nazionalità presentano una gamma più estesa di capacità innate e attitudini di quanto non si avrebbe nel caso di un popolo di razza purab. Cosicché ciascuno di questi popoli presenta una varietà di personalità molto più ampia di quella che si riscontrerebbe tra loro se non fossero frutto d’incrocio. Dal punto di vista fisico, per quel che riguarda i tratti misurabili e paragonabili con metodi meccanici — statura, colore, massa e proporzioni anatomiche — questa vasta gamma e complessità di varianti nell’ambito di ogni nazionalità è abbastanza evidente. Ma, altrettanto indubitabilmente, vi sono compresi anche quei caratteri (spirituali e intellettuali) che sono meno riconducibili a statistiche antropometriche, pur avendo contemporaneamente maggiore importanza per le sorti dei popoli in cui si riscontrano. Sono queste caratteristiche psicologiche — inclinazioni dello spirito e dell’intelletto, capacità, attitudini, sensibilità — che offrono la materia grezza su cui è edificato ogni determinato sistema di civiltà; e su cui seguono il loro corso l’evoluzione storica di esso e il succedersi dei suoi reciproci mutamenti. Naturalmente, è un trito luogo comune quello secondo cui nessun popolo può elaborare un modello culturale che superi o esuli dalla portata delle sue capacità; e va altrettanto da sé che una nazione la cui popolazione sia dotata di molte e varie capacità è perciò stesso più idonea a fronteggiare le esigenze che sorgono nel corso della sua storia, e si trova quindi in grado di rispondere con maggior prontezza a qualunque evenienza. In circostanze normali si riscontra un modello culturale più vasto, completo, vario e largamente equilibrato presso un popolo di questo tipo, che non in una comunità composta di individui che si riproducono in modo univoco, approssimantesi strettamente a un unico tipo specifico.

Una tale popolazione ibrida ha anche, naturalmente, i difetti connessi con le sue qualità. Le divergenze di temperamento e di inclinazioni sono ampie quanto quelle delle sue capacità e attitudini; perciò è probabile che il fermento che, da una parte, si estrinseca in una multiforme ramificazione di concrete realizzazioni, si esprima, dall’altra, in una diffusa irritazione e in opinioni, ideali e aspirazioni dissenzienti. Bene o male che sia, tale è stata la struttura congenita dei popoli occidentali e tale anche, si può rammentare, la storia della civiltà occidentale. Nello stesso tempo si può comunque tener presente che, sotto questo aspetto, per quanto riguarda la portata e il multiforme carattere del loro patrimonio innato, questi popoli occidentali sono oggi quello che erano nella età neolitica. La gamma delle varianti, singolarmente e collettivamente, è sensibilmente più ampia di quella che si sarebbe sviluppata entro qualsiasi ceppo razziale puro. Ma non è più ampia, né sensibilmente diversa tra le generazioni ibride che abitano questi paesi oggi da quella cheera un tempo tra le generazioni altrettanto ibride portatrici di questa civiltà occidentale in quell’epoca più antica. Questa eredità di vasta portata è in fin dei conti un’eredità neolitica; e, per quanto multiforme e pittorescamente vario possa sembrare nei tempi più recenti, il modello culturale dei popoli occidentali non supera in ultima analisi la sua origine neolitica. Il popolo che è rappresentante e portatore di questa forma di civiltà è, tutto sommato, naturalmente provvisto dei difetti connessi con le sue qualità, e queste sono le qualità neolitiche. a. Per un esame più dettagliato, vedi la nota supplementare I, p. 573 del testo. b. È evidente che secondo le leggi del Mendel1, che si ritengono regolare l’ereditarietà degli ibridi, i nati dall’incrocio di due (o tre) tipi specifici distinti possono presentare un numero di permutazioni approssimativamente corrispondente al numero delle combinazioni vitali possibili entro la doppia (o tripla) serie di determinanti, o «fattori», compresi nella loro doppia (o tripla) stirpe. Vale a dire che mentre i rappresentanti puri di un dato tipo specifico possono variare entro gli stretti limiti del tipo stesso, attraverso la varia accentuazione dei diversi determinanti compresi nella costituzione del tipo nel corso dello sviluppo dell’individuo filiale (zygoté), è viceversa implicito nelle premesse che l’individuo nato da un incrocio può variare non soltanto in conseguenza di queste differenze di accentuazione durante il suo sviluppo (ciò che può definirsi variazione dei caratteri inizialmente acquisiti), ma anche (in questo caso si tratta di variazione dei caratteri ereditari) in base a un numero di nuove combinazioni dei caratteri derivanti dai due (o tre) lati della sua doppia (o tripla) stirpe. Tale numero è all’incirca corrispondente al quadrato (o al cubo) del numero dei determinanti che rientrano nella struttura del tipo — escludendo le combinazioni non vitali, tanto più frequenti quanto più divergenti sono i due (o tre) tipi d’origine, ed assumendo sempre che la generazione filiale sia abbastanza numerosa da consentire margine per una così ampia varietà. Le varianti estreme, in tal caso, possono facilmente superare in qualsiasi direzione data i limiti estremi del tipo dell’uno o l’altro dei due genitori, poiché un certo fattore determinante proveniente da uno di essi può essere rafforzato o impedito (quest’ultimo caso è forse più probabile) da un determinante proveniente dall’altro ed incidente sul medesimo gruppo di tessuti. 1. Gregor Mendel (1822-1884), naturalista austriaco. Le sue tre leggi sulla ereditarietà dei caratteri si

affermavano proprio all’epoca in cui Veblen scrive.

CAPITOLO II. L’ANTICO ORDINAMENTO I. Lo stadio di civiltà e di sviluppo tecnico-produttivo cui si può far risalire la nascita dei più remoti progenitori dei popoli nordeuropei corrisponde all’era neolitica superiore — la prima fase dell’età della pietra di cui si riscontrino tracce sicure nell’Europa settentrionale. Il paleolitico europeo non rientra in questo ambito, dato che ebbe termine prima della formazione di quella popolazione ibrida dalla quale sono originati questi popoli posteriori; oltretutto mancano quasi completamente sue tracce nell’intera area in cui vissero, si mossero ed assicurarono la propria sopravvivenza queste popolazioni di razza mista. Anche per l’Europa nel suo insieme si ritiene che non vi sia stata unità culturale, e poca o nessuna continuità razziale, tra il paleolitico e il neolitico. La civiltà neolitica sarebbe sorta in modo autonomo per quanto concerne il suo corso in Europa, essendovi penetrata come civiltà estranea assieme all’intrusione della razza mediterranea, presumibilmente nella tarda era quaternaria; le prime fasi del balzo in avanti che condusse al neolitico europeo si sarebbero prodotte al di fuori dell’area europea, prima che i portatori di questa civiltà penetrassero in questo settore del mondo. Si può dire perciò che questo primo stadio del sistema di vita neolitico sia, in un certo senso, connaturato ai popoli nord-europei. Se poi questa affermazione sia valida o meno anche per la razza mediterranea, a cui si attribuisce l’importazione di questa civiltà in Europa, può rimanere una questione aperta. Non è di interesse immediato ai nostri fini. Altrettanto può dirsi della stirpe alpina, che si pensa sia di origine orientale, presumibilmente venuta dall’Asia agli albori dell’era neolitica, e che avrebbe anche essa raggiunto la fase neolitica prima di inserirsi nella situazione europea. Nessuna di queste due razze, e neppure le due insieme, così com’erano al momento del loro ingresso in Europa, possono esser ritenute le progenitrici degli europei settentrionali, nel senso di aver fornito la matrice ancestrale, sia fisica che

psichica, di quella popolazione nord-europea che in breve si moltiplica e continua a trovar mezzi di sussistenza con l’ausilio della tecnologia neolitica sulle coste dell’Europa settentrionale. Indubbiamente entrambe le razze contribuiscono alla formazione di questa discendenza; entrambe sono presenti sin dalle origini, o quasi, nella popolazione mista nord-europea, ed hanno, verosimilmente, continuato a rappresentare almeno per metà la composizione razziale di questi popoli. Ma non si può correttamente dire che la progenitura dei nord-europei abbia raggiunto una reale fisionomia, finché la stirpe dolico-bionda non si è mescolata alle altre due, dando vita a quella particolare specie ibrida che, dai tempi neolitici, ha occupato con continuità questa regione ed ha popolato le nazioni oggi esistenti nell’Europa settentrionale. La storia razziale di questi popoli è la storia di una popolazione ibrida, formata dalle tre stirpi congiuntamente, non da questa o quella separatamente; è giusto affermare, quindi, che essa non ha avuto inizio finché i tre fattori razziali richiesti per la sua costituzione non si sono congiunti. La prova selettiva della idoneità a sopravvivere nella regione climatica del Baltico e del Mare del Nord nelle condizioni neolitiche, e di mantenere quei territori contro ogni nuovo venuto, non fu affrontata separatamente dalle tre stirpi costituenti, e non fu una dimostrazione conclusiva della superiore idoneità di una delle tre, presa isolatamente. La prova, e la conclusione che si può trarre dall’esperimento, si riferisce esclusivamente alla popolazione composita della quale ognuna delle tre razze è parte integrante. Ciò è reso evidente dal fatto che, nel corso di diversi millenni di riproduzione selettiva, nessuno dei tre elementi razziali costituenti ha eliminato uno o entrambi gli altri due in qualsiasi parte della regione in questione, né si è verificato che uno dei tipi razziali abbia, in qualsiasi momento, sostituito il tipo ibrido originato dalle tre razze. Il massimo che si possa dire è che mentre per tutto questo lungo periodo la popolazione ha continuato ad essere un miscuglio ibrido, le caratteristiche del miscuglio hanno subito delle variazioni nelle diverse località, cosicché la popolazione composita è più bionda verso il settentrione e più bruna verso il meridione; allo stesso tempo, pur avendo avute uguali possibilità iniziali, il dolico-bruno (mediterraneo) è in minoranza sia nel nord che nel sud di questa particolare zona climatica, rispetto alle altre due stirpi costituenti. Per rafforzare questa tesi attraverso un confronto, si possono trarre esempi da quasi tutti i paesi situati in prossimità della regione che si affaccia sul

Baltico e sul Mare del Nord. Le popolazioni ibride di questa regione hanno ripetutamente, quasi ininterrottamente, superato i propri confini, emigrando in massa in altri paesi, e mescolandosi così attraverso incroci con gli elementi locali. Ma in nessuno dei casi in cui l’esperimento abbia avuto la durata necessaria per dare risultati conclusivi esse sono riuscite a trasformare la composizione razziale dei popoli fra i quali si sono infiltrate, ad esempio con l’effetto di soppiantare le popolazioni indigene, e di sostituire la loro propria composizione razziale a quella che trovavano al momento della loro immigrazione; almeno uno dei fattori razziali componenti gli ibridi del Nord — il dolico-biondo — è sempre scomparso in breve tempo, nella selezione naturale, da tutte le popolazioni esterne fra le quali è stato introdotto; e i compositi popoli nordici si sono così rivelati, per il loro carattere misto, inadatti a vivere al di fuori della zona del Baltico e del Mare del Nord, mentre nello stesso tempo le loro stirpi componenti si sono dimostrate inadatte a mantenere questa regione se non in unione tra loro. Di contro, nessun popolo sopravvenuto di diversa derivazione razziale, puro-sangue o misto che fosse, è mai riuscito a scacciare gli ibridi nordici da questo territorio, né con le invasioni in massa né con l’infiltrazione, sebbene anche questo esperimento sia stato tentato su notevole scala, come nel caso dell’avanzata dei finlandesi (lapponi) nel territorio baltico, in particolare sui confini nord e nord-est di questa regione che, attraverso un processo di selezione, ha dimostrato di appartenere ai popoli biondo-ibridi. Con sicurezza almeno nel caso della Finlandia, e forse an che altrove verso il Nord e l’Est, l’invasione straniera ha avuto il risultato di sopprimere la lingua della popolazione esistente, ma la composizione razziale degli abitanti, a lungo andare, è sostanzialmente ritornata quella che era prima dell’invasione finlandese, tanto che oggi non vi è differenza razziale apprezzabile tra le due sponde del Balticoa. La civiltà proto-baltica è quindi interessante in quanto rivela il grado di evoluzione della tecnica a cui in origine erano usi gli antenati di quasi tutti i popoli nord-europei, che si potrebbe, in effetti, definire congenito ad essi. Questa civiltà segue un corso pressoché regolare, per quel che le testimonianze consentono di concludere, per un lungo periodo, sufficiente a sperimentare l’idoneità dei popoli baltici ai modi di vita che essa offriva, e allo stesso tempo esposta al contatto con altri elementi od aggregati razziali esterni in modo sufficiente per dimostrare che per la loro caratteristica composizione ibrida questi popoli baltici erano più adatti di qualsiasi altro popolo concorrente alla

vita nelle condizioni tecniche, geografiche e climatiche in cui essi si trovavano. Una sommaria descrizione dei tratti caratteristici e degli avvenimenti salienti di questo periodo culturale, per quanto le testimonianze ce lo permettano, rafforzerà questa tesib In generale, l’età baltica della pietra può essere caratterizzata come una società di selvaggi relativamente progrediti, posta in una posizione piuttosto circoscritta dal punto di vista geografico, — un sistema su scala ridotta basato sulla piccola coltivazione e ben presto su un’agricoltura mista. La si può forse altrettanto bene definire come uno stadio relativamente basso di barbarie: è inutile comunque disputare sui due termini alternativi: entrambi sono indicativi e non dànno una adeguata descrizione tecnica. L’età del bronzo rientra nella stessa approssimativa definizione, con la differenza che essa è caratterizzata, nell’insieme, da un’apparenza di maggiore efficienza tecnica e da una maggiore accumulazione di ricchezze, — forse anche da un costume di vita più stabile. Durante tutto questo periodo e in tutto il loro territorio, le popolazioni neolitiche sembrano essere vissute in insediamenti aperti, di piccole dimensioni, sparsi per il territorio secondo la disponibilità di terreno coltivabile e di pascoli. Non è chiaro se questi insediamenti fossero raggruppati in villaggi o dispersi in nuclei familiari per l’aperta campagna. Ma in ogni caso si dice che non vi siano tracce di cittadine, e neanche di grossi villaggigc, come non vi sono tracce di fortificazioni né di una preferenza per i luoghi naturalmente protetti. Considerata insieme alla relativa mancanza di armi, e alla totale assenza — stando alle prove disponibili — di qualsiasi genere di armature difensive, questa dispersione di accampamenti indifesi dà forse un’impressione esagerata di un costume pacifico di vita. E pure, con ogni debita cautela e riserva per ciò che il materiale non mostra, e forse non può mostrare, è impossibile non tener conto delle prove indirette che dimostrano trattarsi di una civiltà tipicamente pacifica. Come necessaria conseguenza, alla luce delle considerazioni appena esposte, appare altresì che la popolazione dev’essere stata, nell’insieme, di temperamento pacifico. Condizioni simili continuano, e le relative prove indirette lo dimostrano con un certo grado di coerenza, non solo per tutta l’età della pietra, ma anche per la durata della successiva età del bronzo. Particolarmente per quest’ultimo periodo la distribuzione della popolazione è stata localizzata con un certo dettaglio in diverse zone, indicando che essa seguì la struttura della regione in modo tale da sfruttare i guadi e le vie terrestri più praticabili, molti dei quali sono ancora

in uso oggid.

II. SUI VANTAGGI DELL’ASSIMILAZIONE In un modo o nell’altro, è già apparso che questa civiltà dei popoli baltici dell’età della pietra e poi del bronzo attinse molti dei suoi elementi da altre zone culturali e da fasi precedenti di civiltà. Erano popoli che assimilavano costantemente, con grande facilità. Si tratta necessariamente, nei limiti in cui si può riscontrare questo uso nella età della pietra, di prestiti di elementi tecnologici, dato che la natura dei materiali che essi lavoravano era tale che ben poco, oltre gli strumenti produttivi, è giunto fino a noi; ma per quanto riguarda questi elementi tecnologici, l’imitazione ha carattere del tutto universale. Persino nell’uso della selce, come è dimostrato dalla serie di utensili caratteristici di tutto il periodo contraddistinto dai cumuli di residui organici, come del pieno neolitico e anche dell’età del bronzo, — persino nell’uso della selce sembra che essi abbiano appreso molte delle innovazioni utili da altri paesi, soprattutto del sud. I primi attrezzi del periodo dei cumuli di residui sono selci piuttosto rozzamente scheggiate, ed è chiaro che la tecnica di affilare la pietra era sconosciuta agli scandinavi dell’epoca. In epoca successiva, quando si diffonde questa innovazione, essa è accompagnata da nuove forme più pratiche, tali da suggerire che fossero state elaborate con l’ausilio di esemplari tratti dalle più progredite popolazioni neolitiche meridionali. Ma, insieme al dovuto riconoscimento di questo debito tecnologico, si deve anche ammettere che i popoli baltici portarono ben presto la tecnica della selce levigata (e scheggiata) ad una perfezione di lavorazione e di praticità meccanica mai superata, anche se può essere stata eguagliata, da qualsiasi altra civiltà neolitica. Inoltre né piante da raccolto, né animali domestici sono manifestamente presenti fin dall’inizio nei cumuli di residui. Per quanto riguarda le piante da raccolto, ciò potrebbe significare semplicemente una comprensibile mancanza di tracce e non dimostra irrefutabilmente che, per esempio, l’orzo non fosse conosciuto e utilizzato fin dall’inizio dell’insediamento baltico, benché l’assoluta mancanza di indizi non possa essere considerata del tutto insignificante. Quanto agli animali domestici, invece, l’evidenza negativa è conclusiva, e si deve tener per accertato che questi furono introdotti gradatamente parecchio tempo dopo gli inizi della civiltà baltica, e dopo che i

popoli baltici ebbero chiaramente acquisito la (ibrida) composizione etnica che li contrassegna da allora in poi. La scarsezza del materiale, non per quantità ma per varietà, permette di dire ben poco d’altro, a questo proposito, sull’età della pietra; salvo che le sole altre rilevanti tracce materiali disponibili, ossia le tombe e i tumuli, portano grosso modo agli stessi risultati, dato che si ritiene che anche l’uso di questi sia stato appreso da altre civiltà, e sviluppato in maniera autonoma su linee dettate originariamente dalle stesse usanze vigenti in altri paesi. Questa facilità di assimilazione si protrae per tutta l’età del bronzo e del ferro; gli stessi materiali e l’uso di questi due metalli sono di origine straniera. Così, mentre questa procedura si ripete attraverso le epoche e si avvicina a date storiche, con un incremento progressivo nel volume e nella varietà del materiale archeologico, le prove dell’imitazione si estendono anche a tecniche diverse da quelle produttive. Avvicinatisi agli inizi della storia, nel senso più stretto, questa assimilazione si rivela ancor più clamorosamente nelle arti figurative; al termine dell’era pagana, per esempio, l’arte scandinava mostra in ogni istante il suo debito verso la civiltà irlandese e gaelica in generale. Quanto si conosce del tardo paganesimo baltico — soprattutto scandinavo — ha la stessa insidiosa tendenza a insinuare una certa facilità per le idee nuove nel campo delle credenze soprannaturali; proprio come il progressivo mutamento delle usanze di sepoltura in tempi più remoti indica che questi popoli non disdegnavano di imparare dai loro vicini, o piuttosto che erano costituzionalmente inermi di fronte alle innovazioni dall’esterno. Nella tarda epoca pagana, per esempio, sembra che abbiano adottato, e in certa misura trasformato, varie divinità di origine straniera; e si può ricordare che l’epoca pagana ha termine con la completa accettazione di una mitologia e di un modello religioso estranei, il cui perfezionamento e adattamento alle esigenze del proprio temperamento hanno formato da allora in poi l’oggetto della più seria attenzione da parte di questi popoli. Questa diffusa e incessante tendenza ad attingere alle risorse tecnologiche ed istituzionali di altre regioni culturali non può essere definita un’imitazione fine a se stessa. Gli elementi mutuati sono sempre stati assimilati, integrati nel sistema culturale, combinati e conformati al loro scopo, tanto da portare alla ininterrotta evoluzione di un modello peculiare a questi popoli ibridi ed alle loro necessità piuttosto che alla sostituzione, da parte di un modello derivato dall’esterno, di quelli tra cui è introdotto o alla semplice giustapposizione ad essi. In altri termini, il processo di assimilazione è stato attuato in modo

assolutamente funzionale e libero. Questa propensione a mutuare dall’esterno, e la libera e spontanea efficienza con cui gli elementi imitati sono messi a frutto, rappresenta una caratteristica dell’antichità nord-europea, così come, in effetti, continua ad essere una sorta di segno distintivo di questi popoli. Essa indica probabilmente una duttilità di temperamento dei popoli dell’Europa settentrionale, ed allo stesso tempo conferisce una certa caratteristica flessibilità alla loro struttura istituzionale. Come elemento del carattere, lo si potrebbe far risalire, almeno in buona parte, alla loro origine ibrida; forse anche in parte alle particolari caratteristiche etniche delle stirpi dalle quali deriva questa popolazione ibridae. L’efficacia dell’assimilazione che in tal modo emerge dalla storia dell’evoluzione culturale baltica, come pure in modo meno evidente in altri casi di scambi culturali, solleva un interrogativo, o meglio una serie di interrogativi, che lasciano perplesso lo studioso delle istituzioni. Abbiamo appena accennato alla questione del perché un popolo assimili elementi culturali e tecnologici con maggiore facilità ed efficacia di un altro. Ma non è stata affrontata la questione principale: come mai questi elementi importati si prestano più facilmente ed efficacemente al loro uso specifico da parte dei popoli che li importano piuttosto che da parte dei popoli che ne sono gli iniziatori? Perché gli elementi culturali importati sono impiegati con maggiore efficacia che non le innovazioni proprie? o anche con maggiore efficacia che non da parte di coloro che li hanno ideati? Ovviamente sarebbe affatto vano sostenere che ciò si verifichi sempre e necessariamente, ma è altrettanto innegabile che, storicamente, le innovazioni tecniche e le creazioni di natura istituzionale hanno raggiunto in molti casi la loro piena funzionalità solo tra società e popoli diversi da quelli a cui dovevano la loro origine e il successo iniziale. Che ciò si verifichi anche una sola volta, è un fenomeno abbastanza singolare, — si potrebbe anche dire un paradosso piuttosto sorprendente. Una spiegazione, buona per quel che vale, anche se può valere solo in parte, va ricercata nelle particolari circostanze che accompagnano lo sviluppo, come pure la successiva trasmissione tramite l’assimilazione, di qualsiasi elemento del patrimonio istituzionale. Gli elementi tecnologici che influenzano lo stadio delle tecniche produttive, essendo i più concreti e i più tangibili, sono i più adatti a dimostrare questa tesi. Qualsiasi innovazione o invenzione di grandi proporzioni, tale da poter in seguito occupare un posto di primo piano fra gli elementi importati, comincia necessariamente su piccola

scala, facendosi strada fra gli usi e i costumi del popolo dal quale trae origine in via sperimentale e appena tollerata, piuttosto che attraverso una rapida accettazione ed un’adeguata comprensione dei suoi usi e conseguenze ulteriori. Tale è stato il caso, per esempio, dell’adozione delle piante da raccolto e degli inizi della coltivazione, o dell’addomesticamento degli animali utili, o dello sfruttamento dei metalli, o ancora, delle origini del sistema artigianale, o della rivoluzione industriale che portò all’industria meccanizzata. L’innovazione si fa strada nel sistema di usi e costumi al prezzo di un certo squilibramento di esso; provoca nuove abitudini, convenzioni, credenze, princìpi di condotta, in parte diretti consapevolmente alla sua utilizzazione o alla mitigazione delle sue conseguenze immediate, o a deviarne l’usufrutto a beneficio di determinati individui o classi; ma in parte si formano anche nuove mentalità dovute alle innovazioni che essa introduce nella routine della vita: direttamente nel senso che crea nuove esigenze di manipolazione, sorveglianza, presenza o ripartizione stagionale, e indirettamente nel senso che influisce sui rapporti economici tra le classi e le località, come pure sulla distribuzione e forse sull’ammontare complessivo dei beni di consumo. Nei tempi antichi, cioè all’epoca che stiamo considerando, è virtualmente scontato che ogni innovazione materiale e ogni singola risorsa di una certa entità della tecnica fosse accompagnata da un margine di idee e pratiche magiche o superstiziose. Se ne possono rinvenire delle prove in abbondanza in qualsiasi civiltà, antica o contemporanea, al livello selvaggio o barbaro; anzi, esse non sono del tutto assenti nella vita civile. Molti studiosi di etnologia, di psicologia dei gruppi etnici e di religione si sono dedicati con buoni risultati a raccogliere ed analizzare il materiale offerto dalle pratiche magiche o superstiziose, ed in gran parte dei casi sono stati in grado di far risalire queste usanze a un qualche fondamento di utilità supposta, mettendole in connessione con il vantaggioso funzionamento delle attività economiche per un aspetto o per l’altro, o con il mantenimento di condizioni che in qualche aspetto essenziale assicuravano vita e benessere. Quando l’etnologo non riesce a rintracciare questo rapporto logico fra pratica superstiziosa e esigenze ci vita e di benessere, generalmente ritiene di essere stato incapace di scoprire ciò che è racchiuso nell’oggetto della ricerca, e non che questo non comprenda nulla del genere di ciò che egli deve aspettarsi. Ma se le pratiche magiche e superstiziose, o almeno quelle che hanno effetti materiali, si devono pressoché universalmente far risalire, attraverso i canali della consuetudine, ad un

ipotetico fondamento di vantaggiosità per i fini umani, ne segue che questa regola dovrebbe essere valida, per lo meno in una certa misura, anche in senso inverso; e cioè che lo stadio dei processi tecnico-produttivi umani corrispondente a ogni civiltà è permeato di idee e pratiche magiche e superstiziose di indispensabile, ma puramente immaginaria efficacia. In molte delle civiltà inferiori, o forse piuttosto nelle civiltà inferiori meglio conosciute, la routine quotidiana di guadagnarsi l’esistenza è appesantita da un universale e penetrante sistema di tali idee e pratiche magiche e superstiziose, considerate parte integrante dei processi produttivi ai quali si mescolano. Esse rappresentano la componente astratta, supposta efficace, di ogni procedimento tecnico; o, viste in dettaglio, sono la componente psicologica che completa ed anima ogni strumento o procedimento durante la sua partecipazione alla routine produttiva. Come gli elementi tecnologici ai quali vengono associati, e simultaneamente ad essi, questi strumenti magicamente efficaci sono entrati a far parte della mentalità popolare predominante, divenendo parte integrante delle nozioni di senso comune sulla natura di tali elementi tecnologici e sul modo di utilizzarlif. Per la stessa tenden za all’interpretazione e all’analogia antropomorfica, nel corso di una svolta di poco posteriore del processo di sofisticazione, un’ampia gamma di pratiche religiose, correttamente definite tali, giunge a detenere in breve un’influenza sui processi produttivi e sull’andamento della vita economica, con una proliferazione di cerimoniali, di propiziazioni, e di divieti intesi a promuovere il favorevole andamento del lavoro da fare. Tali questioni relative al rituale magico e religioso delle combinazioni produttive ed economiche dei popoli primitivi sono sufficientemente familiari a tutti gli studiosi di etnologia; probabilmente sono oggetto di tale diffusa notorietà che non vi è alcun bisogno di insistere sul loro posto e valore in queste civiltà primitive. Se ne parla qui solo per ricordare che gli elementi tecnologici più vasti ed importanti, propri di ogni sistema produttivo primitivo, sono stati di solito accompagnati da una serie di attività superflue ritenute efficaci, sebbene meccanicamente futili. Queste forme ingenue di futilità obbligatorie sono considerate caratteristiche unicamente dei livelli culturali inferiori, ma non si dovrebbe dimenticare che concetti magici e religiosi esercitano tuttora una certa influenza inibitoria nel campo produttivo anche fra i molto illuminati popoli della cristianità. Ma, a parte queste ingenue remore istituzionali all’efficienza dei processi produttivi, che sembrano così comuni nelle civiltà inferiori, ve ne sono altre

che ottengono effetti simili e che occupano il loro posto fra i popoli più istruiti nello stesso n\odo ovvio. Queste sono in parte alquanto poco note, non essendo state oggetto di molta attenzione popolare, e in parte del tutto conosciute, avendo costituito a lungo un oggetto di ripetute predicazioni. Dal momento che questo sviluppo di remore istituzionali all’efficienza, che potremmo denominare secolari in contrapposizione con quelle magiche o religiose, è in stretto rapporto con gli sviluppi recenti dell’economia, altrettanto che con le sorti materiali dei nostri avi preistorici, sarà opportuna un’esposizione più dettagliata del loro posto nella vita economica. All’adozione di nuovi processi produttivi, si tratti di tecniche o di espedienti specifici o di trasformazioni di vasta portata nel metodo o nel procedimento, fa seguito una fioritura di usi convenzionali che governano l’utilizzazione dei nuovi sistemi. Questo vale sia che si tratti di innovazioni sviluppate originalmente sia che si tratti di miglioramenti tecnologici importati dall’esterno; in ogni caso questo sviluppo di nuove convenzioni richiede del tempo, trattandosi di un’assuefazione mediante adattamento. Un nuovo espediente, sotto forma di applicazioni materiali o di procedimenti perfezionati, si introduce nel sistema produttivo e viene adattato alle esigenze della situazione locale. Certi modi abituali di utilizzare l’elemento nuovo giungono ad essere accettati; ciò si sarebbe verificato, per esempio, con l’introduzione degli animali domestici tra un popolo vissuto in precedenza servendosi esclusivamente della coltivazione, e privo di familiarità con l’uso di tali animali in modi diversi da quelli prevalenti tra i popoli puramente dediti alla pastorizia. Così anche il graduale perfezionamento della costruzione delle navi e della navigazione, quale si ebbe tra i popoli baltici della preistoria, avrebbe portato ad una graduale trasformazione del sistema convenzionale di vita così come alla specializzazione delle occupazioni e ad una certa distinzione di classi economiche e sociali. O, ancora, nel caso di una trasformazione integrale come quella provocata dall’avvento dell’industria artigianale, dalla sua diffusione e perfezionamento, si produssero gradualmente distinzioni di classe, suddivisioni delle occupazioni, standardizzazione dei metodi e dei prodotti, insieme con la nascita dei rapporti commerciali, dei mercati stabili e delle vie degli scambi. Questi tratti convenzionali, che risultavano dai nuovi fattori di produzione e ad essi corrispondevano, continuarono in parte a basarsi sulla sola forza dell’accomodamento convenzionale dettato dal buon senso; ma in parte acquistarono anche una ulteriore stabilità assicurata dall’accordo stabilito, dal

controllo d’autorità e dalla sanzione statutaria. Nel caso del sistema artigianale, quindi, questioni quali le vie dei commerci, i sistemi di imballaggio, di trasporto e di consegna, i rapporti di credito e simili continuarono in larga misura, sebbene non completamente né per tutta la durata del sistema, ad essere regolate da mode convenzionali più che da formulazioni autoritarie; mentre, d’altro canto, la demarcazione tra mestieri e tra classi di artigiani, come pure la standardizzazione dei metodi e della produzione, nella grande maggioranza dei casi, vennero ben presto sottoposti a sorveglianza rigorosa da parte di autorità investite di poteri specifici, che agivano secondo regole accuratamente formulate. Ma, sia che questa standardizzazione e convenzionalizzazione prendano la forma definita dell’accordo e della sanzione autorevole, sia che invece vengano lasciate poggiare sulla base meno rigida degli usi e costumi acquisiti, esse hanno sempre la natura di un precipitato di consuetudini passate, e sono intese a soddisfare esigenze insorte da esperienze passate; esse obbediscono sempre in qualcosa al principio della manomorta; e assieme a tutti gli effetti salutari di stabilità e di funzionamento armonioso che si possono riconoscere a tale sistematizzazione, una delle sue conseguenze è anche che la permanenza di convenzioni del passato inevitabilmente agisce nel senso di ritardare, stornare e impedire l’adattamento alle nuove esigenze che insorgono successivamente. Convenzioni che sono in certa misura logore continuano a ingombrare il terreno. Tutto questo apparato di convenzioni e consuetudini standardizzate, sia che prenda la forma più semplice degli usi o costumi o il carattere rigido della sanzione di competenza legale e della norma di diritto comune, ha necessariamente un certo effetto ritardatario in qualsiasi stadio del processo tecnico-produttivo, e contribuisce pertanto, in una certa misura, a diminuire la efficienza netta del sistema produttivo che esso pervade. Ma questa azione ritardatrice è favorita anche dall’analogo carattere relativo all’attrezzatura materiale, nel cui uso si esplica la competenza tecnica della comunità. Anche l’attrezzatura è quella del passato, e anche essa è soggetta alla legge della manomorta. In generale, qualsiasi innovazione secondaria nei procedimenti, nell’allargamento delle risorse disponibili o nella dimensione organizzativa viene applicata, per quanto possibile, attraverso migliorie raffazzonate, e amplificando gli elementi dell’attrezzatura già disponibili; il modello già affermato degli impianti e degli strumenti è mantenuto, con concessioni alle nuove installazioni, ma con un rigore tanto più deciso verso ogni tentativo di

elevare il livello e le dimensioni delle attrezzature esistenti. Le trasformazioni così operate hanno in parte il carattere di concessioni, in una misura nell’insieme significativa; e il fatto che tali trasformazioni avvengano abitualmente in uno spirito concessivo diminuisce a tal punto la spinta verso l’innovazione, che persino le concessioni non giungono lontano quanto potrebberog È nelle fasi relativamente avanzate del processo tecnico-produttivo che Fazione ritardatrice degli usi e dei costumi, in quanto distinta dallo spreco e dalla resistenza alle innovazioni dovuti alle influenze magiche o religiose, diventa foriera di serie conseguenze. Sembra, infatti, che vi sia una specie di simmetria o di equilibrio sistematico nel modo in cui uno di questi filoni di inibizione tecnologica subentra con la stessa rapidità con cui l’altro declina. Al medesimo tempo, con la stessa rapidità con cui affermano il loro potere nell’industria le considerazioni di ordine commerciale e concernenti gli investimenti, anche l’interesse dei finanziatori viene ad esercitare un controllo inibitorio sulla efficienza tecnologica, sia per mezzo del ben noto sistema della limitazione della produzione e del mantenimento dei prezzi al massimo livello sopportabile dal mercato, — sopportabile, vale a dire, nel senso finanziario di assicurare il massimo profitto netto agli uomini d’affari interessati — e anche per mezzo della meno notoria riluttanza dei finanziatori e delle ditte a sostituire metodi e impianti obsoleti con attrezzature nuove e più efficienti. Oltre a queste semplici e immediate pieghe inibitorie entro il sistema industriale propriamente detto, vi è un fertile terreno di convenzioni e di combinazioni istituzionali introdotte come conseguenze secondarie dell’espansione dell’efficienza industriale e concertate per mantenerne il rendimento netto entro i limiti voluti, deviando le sue energie verso usi industrialmente improduttivi e la sua produzione verso consumi improduttivih. Non appena si verificano progressi sostanziali nelle tecniche industriali, le imprese subito assumono il controllo del procedimento, con la conseguenza che il profitto finanziario netto degli imprenditori che lo controllano diviene la misura dell’efficienza industriale. Ciò può risultare nell’accelerazione dei processi industriali, come comunemente osservano gli economisti. Ma può anche portare alla «disoccupazione» tutte le volte che l’impiego continuativo delle forze di lavoro interessate non conduce, o non è ritenuto condurre, al massimo profitto netto del datore di lavoro, cosa che notoriamente può verificarsi nella produzione destinata al mercato. Ne consegue, inoltre, che

l’industria è controllata e diretta in vista delle vendite, e che un intelligente dispendio di efficienza industriale si identifica, dal punto di vista degli affari, con il contributo che porta alle vendite; ciò che può significare, spesso, che la maggior quota dei costi, quando le merci arrivano al consumatore, consiste nelle spese tecnicamente sprecate della pubblicità o di altri espedienti di vendita. Il normale risultato del controllo imprenditoriale dell’industria — normale nel senso che vi si tende uniformemente ed anche che è il risultato che comunemente si consegue — è l’accumulazione di ricchezze e di reddito nelle mani di una classe. Secondo il largamente accetto principio dello «sciupìo vistoso», le ricchezze in tal modo accumulate devono essere messe in evidenza in vistosi consumi e nella palese esenzione dal lavoro. Cosicché dopo il debito, e di solito non lungo, periodo di tempo, si stabilisce un complesso modello di convenienze sociali, attinenti a questa materia del consumo vistoso, congegnato in modo da «assorbire l’eccedenza». Questo sistema di spreco vistoso è un modello di convenzioni sociali, norme di decoro e livelli di vita, il cui motivo economico sta nella spesa competitiva. Esso si risolve in un compromesso fra lo spendere immediatamente il reddito in consumi vistosi — assieme alla manifesta astensione dal lavoro produttivo — da un lato, e la spesa differita — comunemente chiamata «risparmio» — dall’altro. La spesa dilazionata può essere rinviata ad un’epoca futura nel corso della vita del risparmiatore, o ad una generazione successiva; i suoi effetti sono sostanzialmente identici in entrambi i casi. Vi è un’ulteriore restrizione da segnalare; finché i diritti di proprietà, i possessi e le congiunture dei profitti degli affari sono in qualche misura malsicuri, vengono prese misure per assicurarsi contro i rischi delle perdite e della eventuale impossibilità di mantenere le apparenze all’altezza del livello di vita accettato. Questa assicura zione prende la forma dell’accumulazione, in un modo o nell’altro, cioè della preparazione di rendite future. Al pari di altre convenzioni e regolamenti istituzionali, il modello dei consumi si basa sull’esperienza corrente, cioè dell’immediato passato e, come è stato osservato prima, è studiato in modo da assorbire la presumibile eccedenza, cioè il margine tra la produzione e il consumo produttivo. È forse superfluo preavvertire che tale modello di spreco vistoso non arriva sempre, forse neppure nella maggioranza dei casi, all’estremo limite che il commercio può consentire; ma va anche osservato che talvolta, e in effetti non di rado, esso arriva anche ad oltrepassare tale limite. Forse in tutti i casi, ma

particolarmente quando l’efficienza industriale della comunità è notevolmente alta, tanto da assicurare un cospicuo margine tra la produzione e il necessario consumo corrente, alla questione dei modi e mezzi di spesa si deve dedicare notevole attenzione; ed ecco nascere una tecnica dei consumi. Si potrà valutare quanto possa diventare grave il problema dei modi e delle forme del consumo prestigioso ove si tenga presente che nelle società, in cui le tecniche industriali moderne si sono adeguatamente affermate, il margine di produzione disponibile per il consumo superfluo supera sempre il 50% del prodotto corrente, e nei casi più fortunati supera probabilmente il 75% dell’insieme. Un margine tanto considerevole non può essere efficacemente distribuito per mezzo di impulsi casuali. Il suo opportuno assorbimento, sotto forma di spese competitive, richiede riflessione, abilità e tempo per organizzarne i modi e le forme. Non si tratta semplicemente del problema di consumare vistosamente tempo e sostanze, e basta; il senso umano delle convenienze ed il senso estetico richiedono che la spesa abbia luogo in maniera appropriata, tale da non offendere il buon gusto e da non comportare una odiosa e futile ostentazione. Ed occorre tempo ed una lunga assuefazione, oltre ad una armonizzazione selettiva dei dettagli, prima che possa essere perfezionato un sistema di prestigioso spreco standardizzato. Naturalmente richiedono tempo e sforzi specializzati anche la cura adeguata e l’aggiornamento costante di questo sistema alle condizioni correnti del gusto, della noia e della distinzione nei consumi, — come si vede, per esempio, nella tecnica delle mode. Si è anzi rivelata materia di una certa difficoltà, per non dire di grave preoccupazione, nelle società industrialmente avanzate, il mantenere il sistema dello spreco vistoso al passo con i tempi; tanto che, attorno ai consumatori opulenti veri e propri, è sorta una serie considerevole di occupazioni speciali dedicate alle esigenze tecniche delle spese di prestigio. La tecnologia dei consumi superflui è vasta e complessa e le sue conquiste si annoverano tra i monumenti dell’iniziativa e dello sforzo umano; così come la tecnologia della produzione, essa ha le sue vittorie ed i suoi eroi. Ma qualsiasi modello tecnologico costituisce un sistema più o meno equilibrato, in cui il gioco tra le parti ha un tale carattere di appoggio e di dipendenza reciproca, che ogni sostanziale aggiunta o sottrazione in qualsiasi momento comporta un certo squilibrio dell’intero sistema. Non è possibile sovrapporre improvvisamente una enorme quantità di spreco prestigioso allo standard di vita accettato di una data società — seppure questa difficoltà non abbia comunemente carattere disastroso — così come non si possono operare

riduzioni repentine in questo campo, tecnicamente denominato «il tenore morale di vita», senza difficoltà sostanziali e senza perturbare seriamente l’equilibrio psicologico della società. Per comprendere la portata di questa perturbazione nel modello del consumo superfluo basta cercare di immaginare quale costernazione susciterebbero per esempio, nella società britannica, la brusca scomparsa della Corte con le sue manifestazioni sociali e civili, oppure delle corse dei cavalli, della chiesa di stato, degli abiti da sera. Ma poiché lo sviluppo e l’accettazione di ogni sistema di spese superflue è, in ultima analisi, successivo e conseguente alla produttività eccedente del sistema industriale sul quale poggia, l’introduzione, parziale o totale, di nuove e più efficienti tecniche industriali non porta con sé, fin dall’inizio, un sistema pienamente sviluppato di consumo standardizzato; in particolare, non implica necessariamente che il modello standard di consumo venga trasmesso tale e quale nel caso in cui sia importata una nuova tecnologia industriale. Non vi è una stretta o intrinseca corrispondenza di dettagli meccanici tra la tecnologia industriale e la tecnica dello spreco vistoso; la pantofola dal tacco alto o il cappello da parata finemente lavorato, per esempio, sono altrettanto bene accetti nella Creta preistorica come nella Francia del xx secolo; e la signora cinese si fascia i piedi fino a deformarli, laddove, per dimostrare lo stesso grado di opulenza nella stessa città, la signora mancese pone attenzione nel lasciar sciolti i piedi. Tutto dipende dal fatto che, la natura umana essendo quella che è, un margine superfluo di produzione, in condizioni di proprietà privata, produce un corrispondente modello di consumi superflui. Data questa discontinuità meccanica tra un qualsiasi determinato stadio della tecnica produttiva e il modello di usi e costumi magici, religiosi, convenzionali o finanziari con il quale esso vive in una sorta di simbiosi, il trasferimento dello stadio della tecnica produttiva da una società all’altra non comporta necessariamente il trasferimento di tale suo complemento psicologico. Questo è vero soprattutto quando l’importazione si opera attraverso una frontiera culturale ben definita, nel qual caso la conseguenza necessaria è che il modello estraneo di convenzioni non viene rilevato intatto assieme al corrispondente sistema tecnologico estraneo, sia questo importato in blocco o solo parzialmente. La società o il gruppo culturale importatore possiede già un proprio complesso di idee e di pratiche nel campo della magia, della religione, delle convenienze, e di qualsiasi altra esigenza convenzionale, e l’introduzione di un complesso nuovo, o l’intrusione di elementi nuovi ed estranei nell’accreditato sistema vigente è il prodotto di un processo di

assuefazione, che richiede tempo e speciali stimoli. Tutto ciò è ancor più valido per quanto riguarda l’introduzione di elementi tecnologici isolati tratti da una civiltà estranea, in particolar modo, ovviamente, quando tali strumenti importati vengono destinati ad altri usi ed utilizzati con metodi diversi da quelli impiegati nella civiltà d’origine, — quale, per esempio, sarebbe il caso dell’acquisizione di bestiame domestico appartenente ad un popolo di pastori nomadi o semi-nomadi da parte di una società agraria sedentaria, come pare sia avvenuto nella civiltà preistorica dei popoli baltici. L’interposizione di una barriera linguistica tra le due società, esportatrice ed importatrice, renderebbe più esigua la possibilità che elementi immateriali di una civiltà vengano trasferiti assieme alle sue conoscenze tecniche. Gli elementi di efficienza produttiva importati sarebbero spogliati del loro margine di inibizioni e di spreco convenzionali e la società importatrice si troverebbe in grado di adoperarli con maggiore libertà e maggiori possibilità di una utilizzazione fino al massimo delle loro capacità, di perfezionarne l’impiego, di adattarli a nuovi usi e di sviluppare i princìpi (abitudini mentali) in essi contenuti, attraverso osservazioni sgombre da preconcetti, in ulteriori ramificazioni di proficuità tecnologica. Gli importatori sono, dal punto di vista intellettuale, in posizione di vantaggio, nel senso che il nuovo strumento giunge nelle loro mani in una forma più vicina a quella di un principio teorico, applicabile in condizioni fisiche determinate, piuttosto che a quella di un procedimento concreto applicabile entro i limiti dell’uso tradizionale, personale, magico, convenzionale; in altre parole, esso viene adottato in una certa misura senza i difetti connessi con le sue qualità. Si ha qui un altro effetto collaterale dell’assimilazione, che può non apparire di importanza primaria, ma di cui si deve pur-tuttavia tener conto. Gli elementi mutuati vengono introdotti in un sistema culturale cui sono estranei e nel cui tessuto possono essere innestati solo a prezzo di qualche turbamento, più o meno serio, dell’abituale modello di vita e del sistema accettato di conoscenze e di credenze. L’assuefazione al loro uso e la comprensione del loro funzionamento contribuiscono, per parte loro, a rendere incapaci coloro che li hanno assimilati di conservare le loro convinzioni e credenze originarie intatte e in pieno vigore. Essi sono veicoli di divergenze culturali, introducono una propensione allo scetticismo, e agiscono, per parte loro, nel senso di allentare i vincoli dell’autenticità genuina. Incidentalmente, lo sfasamento inerente a questo processo ha il suo lato sgradevole e porta con sé la sua dose di disordine e di disagio; ma si

presume che i nuovi elementi seguano il loro corso e che la società importatrice venga a patti con essi nei termini che saranno possibili; il che, del resto, era implicito nelle premesse. In alcuni esempi di tali trasmissioni di elementi tecnologici estranei o di altri elementi culturali, le condizioni in cui una composizione è stata raggiunta sono state abbastanza aspre, come, per esempio, nel caso della introduzione degli utensili in ferro e delle armi da fuoco tra gli indiani d’America o dell’analoga introduzione degli alcoolici, del cavallo e del commercio — specialmente delle pellicce —, presso lo stesso generico gruppo di popoli. Sempre a questo proposito si possono ricordare la Polinesia, l’Australia ed altri paesi nuovi alla tecnologia europea ed alle idee e concezioni europee in fatto di diritto, religione e morale. In questi casi, l’introduzione di elementi culturali estranei, ma tecnologicamente irreversibili, è stata troppo vasta per permettere all’antico ordinamento di evolversi, e lo ha mandato invece in frantumi. Un simile risultato può farsi ovviamente, in parte, risalire al fatto che questi popoli sono per indole incapaci di acquisire consuetudini mentali nuove ed estranee; forse essi non sono stati dei buoni assimilatori, o almeno sembrano non esserlo stati abbastanza. Spesso si formula sostanzialmente la stessa opinione, quando si afferma che queste sarebbero razze inferiori o «arretrate», non essendo in apparenza dotate delle caratteristiche che portano ad un facile apprendimento del moderno sistema tecnologico europeo. Sembra che le cose siano andate diversamente per i popoli della civiltà baltica, sia antica che recente. Essi sono stati dei buoni assimilatori, avendo mutuato con perseveranza e abilità, e universalmente. La prova della loro eccezionale capacità di assimilazione è l’andamento generale della storia di queste popolazioni e della loro civiltà. In linea di massima pare che non abbiano subito un regresso sproporzionato nell’indice demografico o nell’efficienza produttiva nemmeno durante le epoche in cui l’assimilazione avveniva su vasta scala, come, ad esempio, al momento della transizione al bronzo, o, più tardi, al ferro, o ancora più tardi durante il radicale passaggio dal paganesimo al cristianesimo. In ciascuno di questi casi, ovviamente, si possono riscontrare tracce di un certo serio turbamento e indebolimento, per lo meno nei due ultimi episodi; tuttavia, persino il passaggio alla fede cristiana sembra aver comportato solo una fase di declino relativamente transitoria e, in ciascuna occasione, questa regione culturale emerge dall’epoca di transizione verosimilmente più forte di prima che si verificasse l’intrusione dei nuovi elementi culturali. Come era da attendersi, l’ultimo nell’ordine, il passaggio al

cristianesimo, fu tra queste avventure d’importazione culturale la più deleteria per i costumi, dato che questa fu soprattutto e in prima istanza un’assimilazione di elementi immateriali, istituzionali, senza alcun corrispondente vantaggio tecnologico, cosicché in questo caso l’urto sul sistema di civiltà venne da fattori che non portavano con sé, in cambio dello sconvolgimento provocato, una compensazione immediata e intrinseca, come quella insita nel mutamento tecnologico che aveva accompagnato l’introduzione dei metalli. Naturalmente è pure possibile, come invero non di rado è accaduto, sopravvalutare sia l’entità che l’immediatezza del trapasso dal sistema pagano a quello cristiano nelle regioni baltiche. Ma, in ultima analisi, resta il fatto che nel corso dell’intera fase in cui ha mutuato espedienti, informazioni, istituzioni e ideali, questa civiltà non ha subito alcun collasso tale da ridurre la popolazione ad una virtuale estinzione — com’è accaduto, per esempio, in circostanze analoghe in Tasmania, in Australia e in varie parti della Polinesia e dell’America, in modo più o meno radicale — o tale da sostituire un sistema di civiltà sostanzialmente estraneo a quello predominante prima dell’arrivo delle innovazioni nella tecnologia o negli usi e costumi. Ciò non significa che non ci siano state congiunture gravi o anche allarmanti nella storia della civiltà dei popoli baltici; ma solo che queste sono passate senza quella misura di discontinuità che avrebbe comportato la sostituzione di una nuova razza (o mescolanza razziale) o di un nuovo sistema di civiltà, estraneo a quello che esisteva prima. Vi è almeno un momento critico nell’età del bronzo, in cui sembra che lo sconvolgimento delle condizioni di vita nella zona baltica sia giunto a provocare una situazione realmente precaria — tra il secondo e il terzo periodo della età del bronzo secondo la cronologia del Montelius, o tra 1’«antica» e la «tarda» età del bronzo, come si dice più comunemente; e vi sono prove che suggeriscono che si sia verificato qualcosa di simile ad una frattura in un momento posteriore della successione storica, prima dell’avvento del ferroi. Si può supporre che vi sia stato un qualche fatto di notevole portata, sotto forma di un difficile periodo d’intervallo, anche nella prima metà dell’età del ferro. Quale sia stata la natura di questi episodi che hanno un aspetto così avverso è, nel migliore dei casi, materia di ipotesi, con scarse probabilità di giungere, allo stato attuale delle scoperte archeologiche, ad una qualche conclusione degna di fede. Vi può essere stato qualcosa del genere di contatti ostili con popolazioni straniere all’esterno, o di discordie interne, o di una malattia epidemica, per esempio la

morte nera o la pestilenza che visitò Atene nel quinto secolo; o forse si è trattato semplicemente di un’interruzione dei rapporti commerciali con il Mediterraneo ed il Mar Nero, dovuta alle frequenti scorrerie o a migrazioni di popoli nei territori intermedi. Malgrado tutto, peraltro, è visibile la continuità della evoluzione culturale come pure l’efficienza di questa civiltà, nel senso biologico che la popolazione non declina seriamente o durevolmente. Quest’ultima prova è forse la più decisiva. A tal punto che la regione baltica è nota nell’antichità come una ce culla di nazioni», ancor prima che se ne sapesse molto di più da parte dei popoli civili dell’antichità e dei loro scrittori. Che poi si meritasse questo appellativo e continuasse ad esserne all’altezza lo si vede dalle inesauribili migrazioni barbariche che dal centro della regione baltica continuarono a riversarsi verso l’esterno. Quindi, in via ipotetica, si possono descrivere le caratteristiche presunte di questa civiltà, in base alla impressione che si ricava dallo studio dei suoi antichi resti e deducendole dalle condizioni di vita offerte dal paese e dalla composizione della sua popolazione. Si trattava di una civiltà su piccola scala, nel senso che le unità locali dovevano essere di non grandi proporzioni; anche se si può pensare che abbia coperto un’area relativamente estesa occupandola con una popolazione piuttosto densa. Essa stava, di solito, in comunicazione discretamente stretta con altri popoli all’esterno, anche a distanze relativamente grandi, specialmente attraverso i rapporti commerciali. Questi popoli assimilavano spontaneamente sia elementi tecnologici che altri fattori istituzionalij, e facevano inoltre uso notevolmente libero ed efficiente di tutti gli elementi d’importazione. Il sistema di istituzioni economiche, civili, domestiche e religiose che si adatta a queste particolarità doveva essere di stabilità relativamente ridotta, flessibile, permeabile, ed elementare, nel senso che questi popoli erano retti dal controllo lasciato alla discrezione del senso comune del vicinato; il continuo mutuare e la facilità con cui gli elementi d’importazione erano assimilati e messi a profitto contribuiscono molto a confermare questa conclusione. Nel complesso i suoi tratti più salienti sono una certa efficienza produttiva, in particolare nelle tecniche meccaniche, e la tendenza alla moltiplicazione del suo popolo. Al contrario, le realizzazioni nell’organizzazione politica o nel campo dell’arte e della religione sono relativamente di poco conto. È una civiltà di abilità manuale e di fecondità più che di potere dinastico, di abilità politica, di clericalismo o di realizzazioni artistiche.

III. L’ANARCHIA PAGANA Non esistono testimonianze contemporanee, o quasi contemporanee, della civiltà dei popoli baltici anteriore alla loro conversione al cristianesimo e quindi al loro ingresso nella storia della cristianità. Perciò non si dispone di prove dirette relative alle istituzioni di questa civiltà, se si eccettuano quelle che ci mostrano la situazione in retrospettiva, fornite da scrittori che, almeno in buona parte, erano di molto posteriori a tale civiltà e la consideravano quindi come una società a loro più o meno estranea. Ogni rappresentazione dello stato della civiltà baltica nei tempi preistorici, negli aspetti non materiali, dovrà quindi avere la natura di una ricostruzione basata su documenti insufficienti e su prove indirette. Ma tale è la necessità di una chiara concezione di questo stadio preistorico della società, ai fini di ogni tentativo di comprendere le tendenze a lunga scadenza e lo spirito ereditario dei popoli inglese e tedesco, in quanto originati dalla civiltà baltica, che sembra inevitabile accettare questo rischio, cercando di utilizzare al massimo le risorse disponibili a tal fine. Anche nei casi migliori, il materiale lascia molto a desiderare; ma in questo caso una ricerca sulle istituzioni umane deve riferirsi all’aforisma secondo cui «il meglio va sempre abbastanza bene», e quindi deve trarre il massimo da ciò che si può avere. Risalendo indietro attraverso la prospettiva costituita dalla civiltà tardopagana nei paesi scandinavi, si può tentare di ricostruire un profilo approssimativo e provvisorio dello stadio preistorico della società sulle rive del Baltico, sullo sfondo offerto dal materiale archeologico di questa regione. Lo scopo di un tale abbozzo sperimentale è di presentare, il più accuratamente possibile, il sistema di vita e lo stadio della tecnica, che presumibilmente più si adattano all’indole e alle capacità ereditarie dei popoli nord-europei di oggi; ai quali, in altre parole, tali popoli sono atti dalla nascita, e nei quali ricadrebbero, se le circostanze lo permettessero, in quanto loro «stato di natura»; e dai quali sono stati sviati solo per virtù della consuetudine, sotto l’impulso di un successivo stadio della tecnica richiedente un diverso modo di vita, essenzialmente estraneo alla popolazione biondo-ibrida nord-europeak. Nell’organizzazione civile, investita in ultima analisi di tutto il potere è l’assemblea popolare, composta in pratica, ma senza una rigida specificazione formale, da liberi proprietari coltivatori, includendo in questa definizione i cittadini maschi validi di elevato rango, ma senza escludere formalmente alcuna parte della popolazione libera, e forse senza neppure escludere con

assoluto rigore tutte le donnel. Quest’assemblea deliberativa esercitava i poteri legislativo, esecutivo (estremamente ridotto) e giudiziario, nei limiti in cui potevano allora essere esercitati. Il potere di polizia è minimo, se non inesistente, benché vi siano delle norme di polizia convenzionalmente stabilite; e non c’è alcuna nozione dell’«ordine regio» al di fuori delle terre possedute dal re, né di «ordine pubblico» sanzionato da una qualsiasi autorità pubblica, al di fuori del recinto dell’assemblea popolare. Ciò che emerge evidente da tutto questo tessuto comunitario è il fatto che esso si fonda sul presupposto dell’autonomia delle comunità locali, e che all’interno della comunità autosufficiente l’individuo è chiamato a provvedere da solo ai propri interessi, con l’appoggio dei suoi consanguinei ed entro limiti di tolleranza così vaghi, da condurre alla posteriore formazione di comitati di vigilanza nei casi in cui un individuo o un gruppo fossero divenuti un insopportabile fastidio per la comunità. Questo ordinamento civile si potrebbe descrivere come una anarchia temperata dal buon senso di un’assemblea deliberativa che non esercita alcun controllo coercitivo, oppure, se tale è la propria tendenza, come un governo democratico, in cui il potere esecutivo risulti vacante. Il che non implica affatto l’assenza di un ordinamento giuridico, di un’idea della legalità, o di specifiche, e perfino minuziose disposizioni di legge concernenti tutte le situazioni prevedibili in una tale società. Un tale sistema semianarchico di controllo sociale basato sull’insubordinazione può essere istituito solo sulla base di una inclinazione spontanea in suo favore — un senso etico o estetico delle sua equità; la sua realizzabilità, tuttavia, è condizionata da alcune circostanze meccaniche. Il sistema si regge sui contatti personali all’interno del gruppo, e il gruppo al quale la sua norma si applica è necessariamente limitato dalla portata di tali contatti personali e informali. Avendo la natura di un’organizzazione della comunità locale, esso non può applicarsi oltre il raggio d’azione effettivo dei rapporti di vicinato. È attuabile, dunque, soltanto fin dove, e fino a quando le indispensabili relazioni produttive non oltrepassano le possibilità di tali contatti fra vicini. Con l’avvento di ogni progresso notevole dello stadio della tecnica, tale da provocare un eccessivo aumento delle dimensioni produttive, e delle conseguenti relazioni economiche, il modello anarchico della società diventa sempre più precario. Prima o poi, la contraddizione tra ciò che è meccanicamente attuabile, o meglio inevitabile, nell’estensione della comunità produttiva da un lato, e la

massima espansione consentita al sistema anarchico del controllo fra vicini fondato su regole di buon senso dall’altro, diventa troppo grande. Così, l’antico ordinamento è ovviamente destinato a frantumarsi sotto l’urto di una trasformazione globale che implica una scala organizzativa, la quale va realmente oltre i limiti operativi di quell’indifferenziato consenso di sentimenti che condiziona l’efficienza dell’ordinamento stesso. Di conseguenza, un popolo il quale avesse dimostrato la sua elevata attitudine per tale dimensione dell’attività economica, portando avanti una civiltà di questo tipo per parecchie migliaia di anni in circostanze mutevoli, dovrebbe, presumibilmente, essere incapace di trovarsi ugualmente a suo agio nelle condizioni imposte da uno stadio della tecnica che oltrepassasse di molto questi modesti confini; esso dovrebbe quindi, in queste nuove condizioni, essere pure incapace di conseguire una misura pari a quella di equilibrio e lustro culturale, di benessere e di soddisfazione popolare, o di salutare fecondità comune. Con un progresso della tecnica tale da richiedere una più vasta attrezzatura materiale, o da permettere iniziative di maggior respiro, il detentore dei mezzi necessari viene a trovarsi in condizioni di estendere la sua iniziativa oltre i limiti entro i quali la sorveglianza del vicinato è efficace. Nell’ordinamento anarchico ciò che egli intraprende oltre questi limiti non riguarda i suoi vicini, che vivono all’interno di essi; anzi, in ogni impresa esterna egli ha l’appoggio morale del gruppo comunitario in base alla regola del «Vivi e lascia vivere», dato che è giusto ed è bene che viva bene quanto gli pare, finché il suo commercio non venga a scontrarsi frontalmente in modo disastroso con gli interessi dei suoi vicini; e in caso di necessità ha il loro appoggio attivo, entro limiti ragionevoli, fin dove li può spingere l’indole giudiziosa della solidarietà di gruppo. Il guadagno a spese di altre comunità, specialmente di comunità lontane e soprattutto di quelle considerate come straniere, non è reprensibile secondo gli standards degli usi e costumi domestici. Nello stesso tempo tali guadagni aumentano il rango dell’uomo che li compie, come succede per tutti i guadagni finanziari in una civiltà che tiene in alta considerazione la proprietà. E tutti i guadagni di un membro qualsiasi, provenienti dall’esterno, sono sentiti come guadagni della comunità, grazie all’acritico ma universale senso della solidarietà di gruppom. Il prestigio e l’aumento di potere acquisibili con simili iniziative da una parte agiscono da incentivo al loro perseguimento, e dall’altra come sanzione

al loro esercizio effettivo; finché diventa un luogo comune degli usi e costumi che la ricerca competitiva del profitto, usando tutti i mezzi a disposizione, sia un diritto inalienabile, e che il guadagno a spese di estranei sia più lodevole del servire la propria comunità. Per qualche oscuro artificio di sofisticazione psicologica, che non è spiegabile attraverso una analisi chiara né nei tempi preistorici, né in quelli storici, ma ben autenticato dall’uso antico e moderno, e che può essere ritenuto un’infermità ereditaria o un vantaggio ereditario, il senso della solidarietà di gruppo si combina con l’orgoglio del successo, con il risultato che i membri del gruppo nel complesso sono esaltati dalle realizzazioni di un qualsiasi membro di buon rango del gruppo. Questa sofisticazione sentimentale si spinge tanto oltre, che la società non solo guarda con approvazione e orgoglio al riuscito autoaccrescimento di un dato membro individuale a spese di estranei, ma promuove irriflessivamente tali imprese con sensibile detrimento di se stessa e con la certezza di non ottenere alcun profitto dall’impresa — come, per esempio, nelle eroiche prove di fedeltà. Si può dunque affermare con sicurezza che non solo i cittadini dei piccoli regni dell’antico ordinamento non avevano alcun interesse materiale ad estendere i confini del regno o ad aggiungere un secondo regno al patrimonio del loro principe, ma che al contrario era chiaramente nel loro interesse evitare un tale evento. A rigor di logica, avrebbero dovuto prendere delle misure per frustrare le ambizioni della corona; mentre in realtà fecero notevoli passi per promuovere simili progetti di accrescimento dinastico. Tale, naturalmente, è stata anche la storia delle guerre e della politica dinastica da allora in poi. Le rivendicazioni e i profitti eventuali del principe, sotto l’antico ordinamento di minuscoli regni contigui, sembrano essere stati estremamente ridotti e irregolari; ma non appena i domini regi raggiungevano una dimensione tale da sottrarre la persona del re al raggio di azione di una sorveglianza efficace, basata sui sentimenti di buon vicinato — cioè, non appena il regno oltrepassava i confini di una singola località ben delimitata — la corona si trovava in grado di usare la fedeltà di una comunità per ottenere esazioni fiscali da un’altra, e il potere regio non trovava a questo punto nessun altro ostacolo alla sua espansione ulteriore, se non il limite posto dallo stadio della tecnica produttiva. Questo limite era determinato in primo luogo dai mezzi di comunicazione disponibili, e in secondo luogo dall’efficienza produttiva della comunità dalla quale la corona ricavava provviste di uomini e mezzi da utilizzare per estendere e controllare i suoi più vasti possedimenti. La consuetudine, sancita e legalizzata dal favore regale, generò la virtù della

fedeltà; finché alla fine — la fine dell’Antico Ordinamento — la regola del «Vivi e lascia vivere» si cambiò nella regola secondo cui il re deve vivere bene come gli pare e l’uomo comune deve vivere come il re per sua grazia gli concede. La predisposizione alla solidarietà di gruppo si combinò con la propensione all’approvazione dell’ accrescimento del proprio esponente più accreditato, con l’effetto che lo spirito di rinuncia in suo favore diventò la prima virtù del nuovo ordinamento, al posto dell’insubordinazione e dello spirito di iniziativa che, insieme con la tolleranza di buon vicinato, avevano costituito i pilastri dell’edificio di quello antico. A questo punto l’evoluzione sembra aver seguito due direttrici principali, distinte, ma tutte e due più o meno dirette alla fine allo stesso risultato: a) i re locali si dettero ad allargare i loro domini detronizzando e diseredando quelle famiglie reali che ebbero la peggio nella lotta per il potere, e imponendo un regime più dispotico sulle comunità che in tal modo si fondevano in un regno più vasto; b) giovani insofferenti e uomini anziani, per i quali la crescente pressione dei monarchi era intollerabile, cercarono l’avventura in gruppi, e si conquistarono lottando una nuova posizione all’esterno, oppure perirono nel tumulto. Quelle bande di predoni che invasero e soggiogarono quella che è adesso la Madrepatria sembrano essere state di questo tipo. Occasionalmente una di queste orde, come per esempio gli Eruli, era forse condotta da qualche rampollo reale, anche se questa non era la regola generale. Ma in tutti i casi il risultato era pres-s’a poco lo stesso: l’ordinamento antico di autonomia semianarchica lasciò in breve il suo posto all’autorità irresponsabile ed alla sudditanza.

a. Cfr. per esempio, A. H. KEANE2, Man Past and Present, cap. IX. b. Vedi nota II, p. 581. c. I caratteristici mucchi di rifiuti organici (kitchen middens), così straordinariamente numerosi sul suolo danese, possono far sorgere un dubbio sull’assenza di grandi accampamenti. Ad un primo esame della questione si dette per scontato, piuttosto ingenuamente, che le proporzioni dei cumuli di rifiuti indicassero all’incirca la grandezza e la durata degli accampamenti che anticamente avevano occupato quei luoghi. Più recenti studi critici stanno, a quanto sembra, giungendo alla conclusione che, specialmente riguardo a gran parte degli accrescimenti più recenti, questi mucchi di residuati organici debbano la loro formazione in gran parte alla occupazione stagionale delle località sul litorale da parte di una popolazione i cui principali interessi e le cui abitazioni permanenti devono essere ricercate sulle terre coltivate dell’interno, mentre, naturalmente, non si esclude che questi cumuli possano allo stesso tempo testimoniare dell’esistenza di villaggi permanenti di pescatori. d. Cfr. per esempio. SOPHUS MÜLLER3, Aarböger jor nordisk Oldkyndighed, 1904, Vei og Bygd i Stenog Bronzealderen; e anche ulteriori scritti, ivi, dello stesso autore; H. A. NIELSEN, ivi, 1906, Bidrag til Danmarks forhistoriske Befolknings-särligt Stenaldersfolkets - Anthropologie, e Yderligere Bidrag, ivi, 1911.

e. Alcune altre zone culturali e altri popoli offrono, a questo proposito, paralleli istruttivi, in particolare i giapponesi, e forse anche gli antichi popoli dell’Egeo. Come i baltici, i giapponesi sono una popolazione ibrida, composta da due (o più probabilmente tre) principali filoni razziali, con l’aggiunta di due o tre fattori razziali secondari. Questa è stata, presumibilmente, la composizione della popolazione giapponese fin dalle più lontane origini di cui si abbia conoscenza, anche volendo prendere alla lettera le leggende del KoJ i Ki4 — le «Memorie di antichi fatti». Per una curiosa coincidenza, il periodo della preistoria e delia storia giapponese sembra coprire, grosso modo, un periodo di tempo corrispondente a quello dei popoli baltici; e, come nel caso di questi ultimi, così anche la storia della evoluzione culturale dei giapponesi è una storia di facile e universale assimilazione, operata con la massima efficacia e funzionalità. 1l caso del Giappone, tuttavia, suggerisce concretamente che questa intrinseca facilità ad accettare ed utilizzare elementi culturali estranei, sia in Giappone che sul Baltico, vada attribuita non tanto a tratti etnici caratteristici degli elementi costituenti questi popoli ibridi, quanto piuttosto al fatto della derivazione ibrida in sé. Essa parrebbe dovuta in gran parte alla vastissima gamma di differenziazioni esistente fra gli individui di tali popoli ibridi, almeno altrettanto che ad una presunta facilità eccezionale del genere propria di uno qualsiasi dei tipi razziali che hanno contribuito a formare la popolazione composita. Il parallelo tra i popoli giapponesi e quelli baltici, in questo senso, non può in nessun caso essere posto, attraverso una fantasiosa argomentazione etnologica, alla base di una supposta origine comune. f. Per degli esempi tratti dalle civilà inferiori conzemporanee, cfr. W. W. SKEAT1Malay Magic, forse in particolare il cap. V; per l’antichità classica, vedi JANE E. HARRISON, Prolegomena to the Study of Greek Religion, capp. III, IV. g. Un esempio significativo di obsolescenza delle attrezzature su vasta scala, in un contesto moderno, è fornito da varie delle società che formarono la United States Steel Corporation5 Gli impianti in questione erano stati installati in un periodo in cui i sistemi più moderni di produzione dell’acciaio non erano stati ancora perfezionati, e prima che le fonti più recenti e più ricche di materie prime fossero divenute disponibili, in virtù degli ultimi sistemi di trasporto; essi erano localizzati tra l’altro in vista di mercati più limitati, distribuiti secondo un piano precedente ed ora superato dai cambiamenti nel sistema ferroviario e dalla espansione di nuovi centri urbani. Era tecnicamente impossibile aggiornarli in quanto impianti industriali indipendenti, mentre era finanziariamente inattuabile il loro immediato abbandono e la loro sostituzione con attrezzature nuove, più vantaggiosamente localizzate e organizzate su una scala che potesse sfruttare pienamente le risorse ed i metodi disponibili. Il rimedio ricercato nella formazione della Steel Corporation fu un compromesso, per cui gli elementi antiquati delle attrezzature — in parte superati puramente nel senso geografico, essendosi spostata lontano la localizzazione industriale — furono gradualmente scartati e sostituiti con nuovi impianti ideati per linee di produzione specializzate; allo stesso tempo la posizione monopolistica della nuova Corporation permetteva che le trasformazioni si effettuassero ad un ritmo abbastanza lento, tale da mascherare l’operazione di sostituzione e far pagare alla comunità nel suo insieme questa temporanea minore efficienza, dovuta al graduale disuso di attrezzature e metodi superati, invece di operare l’impianto immediato e radicale su nuove basi che la mutata situazione tecnologica avrebbe richiesto. In una occasione successiva la Steel Corporation si trovava a dover affrontare serie difficoltà dovute alla obsolescenza causata da perfezionamenti dello stesso ordine generale, quando apparve che, con più moderni e perfezionati procedimenti, era possibile ricavare acciaio di prima qualità dai minerali peculiari del Sud, allo stesso costo rispetto alle risorse del Minnesota da cui tradizionalmente dipendevano le fabbriche della Corporation, e per di più acquistando speciali vantaggi di accesso a certi mercati. Sarebbe azzardato far congetture intorno alla misura in cui i successivi acquisti di carbone, ferro e calce del Sud effettuati dalla Corporation possono aver avuto un effetto ritardatorio sull’efficienza della produzione di acciaio.

h. Vedi più oltre pp. 459-470. i. Cfr., per esempio, MONTELIUS, Les temps préhistoriques en Suède et dans les autres pays Scandinaves; SOPHUS MÜLLER, Vor Oldtid, e L’Europe préhistorique. j. Nei metodi di sepoltura, motivi artistici, ecc. k. Vedere nota III. l. La limitazione del privilegio agli uomini abili alle armi, e il requisito della venuta in armi all’assemblea, quali si osservano tra le bande di predoni e le comunità guerriere di questi barbari durante e dopo la loro invasione dei paesi d’Europa di più antica civiltà, non sembrano essere stati in vigore nell’antichità della Scandinavia; sembrerebbe piuttosto che l’intera materia fosse lasciata alla libera scelta dei cittadini, sebbene vi fossero esempi almeno occasionali di divieto di portare armi alle assemblee. Sembra che gli usi fossero vari. m. Questo senso della solidarietà di gruppo è un tratto di psicologia etnica, che non si può agevolmente spiegare con un chiaro ragionamento. Ma esso deve indubbiamente esser accettato come un oscuro fattore ereditario della natura umana; e lo si può abbastanza agevolmente spiegare nella logica della selezione per la sopravvivenza, dal momento che ogni tipo razziale privo di tale propensione, o non dotato a sufficienza sotto questo aspetto, deve essere inevitabilmente scomparso nella competizione biologica con tipi detentori di questa caratteristica — nella misura in cui la continuità della vita umana è stata assicurata solo dai gruppi, almeno in quel tratto della storia dell’umanità che riguarda le razze che qui interessano. La presenza effettiva e l’efficacia acritica di tale propensione è ben riscontrabile nell’atteggiamento dei paesi moderni sulle questioni degli scambi internazionali; in cui il commercio è attuato per il profitto degli uomini d’affari immediatamente interessati, e il beneficio che si presume derivare alla comunità nel suo complesso da tali profitti di uomini di affari, che ne sono membri, non subisce alcuna verifica. 1. Augustus Henry Keane, etnologo irlandese (1833-1912). Il testo citato fu pubblicato a Cambridge nel 1899. 2. Sophus Muller (1846-1934), paletnologo danese, sostenitore dell’influenza delle civiltà mediterranee su quelle nordiche. 3. Si tratta del più antico testo letterario giapponese, una raccolta delle tradizioni nazionali e storiche fino al 628 d. C. 4. Walter William Skeat (1833-1912), filologo e etnologo inglese. Jane Ellen Harrison (1850-1928), ellenista e studiosa di archeologia inglese; i Prolegomena sono del 1903. 5. Fondata nel 1901 per iniziativa soprattutto del grande banchiere John Pierpont Morgan, che approfittò del desiderio di Andrew Carnegie di ritirarsi dagli affari, liquidando la sua enorme azienda produttrice di acciaio. Morgan la rilevò e la fuse con alcune delle sue maggiori concorrenti, dando vita alla prima colossale Corporation, con un capitale di 1.400.000.000 dollari.

CAPITOLO III. LO STATO DINASTICO Ciò che accadde ai popoli germanici nelle epoche che stanno tra il paganesimo preistorico e il periodo tardo-moderno, sia nel loro antico habitat sulle rive del Baltico, che altrove in quelle sedi di conquista e immigrazione che da allora in poi sono state definite la Madrepatria, — tutto ciò non interessa questa ricerca; così come le sorti particolari di questi popoli nell’antichità preistorica non hanno alcun interesse a questo riguardo, se non in quanto la loro narrazione possa servire a dimostrare quale sia la tendenza razziale ereditaria di questa popolazione che visse e prosperò durante quello stadio arcaico della civiltà. Il fatto che essi siano in tal modo vissuti e abbiano prosperato serve a provare che quella civiltà arcaica, e lo stadio della tecnica su cui essa si fondava, erano adatti alle loro tendenze innate. Tale tipo ereditario di natura umana, quale lo abbiamo visto nella ricostruzione di questa civiltà caratteristica dell’antichità pagana, è interessante a questo riguardo, perché si tratta della stessa natura da cui sono informati questi popoli oggi indaffarati a guadagnarsi l’esistenza nelle condizioni offerte dalla tecnologia odierna. Perciò un paragrafo sommario sotto forma di prospetto può risultare opportuno. Nel complesso tutti questi popoli nord-europei che abitano entro la regione climatica del litorale Baltico-Mare del Nord hanno caratteri razziali comuni, quale che ne sia il linguaggio o la nazionalità. Essi sono tutti di derivazione composita, una popolazione ibrida formata da tre (o più) ceppi razziali, con contingenti minori immessi sporadicamente; la composizione di questa popolazione varia solo per differenze trascurabili da ovest verso est, ed in modo sistematico da nord a sud, rispetto alla proporzione relativa secondo la quale le diverse componenti razziali entrano a far parte del miscuglio ibrido — sempre con la riserva che per i nostri fini immediati questa caratterizzazione deve essere applicata solo entro la regione climatica del Baltico e Mare del Nord. La popolazione di questi paesi, perciò, possiede l’ampia gamma di varianti individuali che è propria di un ceppo ibrido. Ma anche questa ampia differenziazione, che agisce efficacemente nel senso di

conferire una pronta adattabilità della popolazione a situazioni nuove e perfino estranee, si attua in ultima analisi entro certi ampi limiti, determinati attraverso la selezione, e non annulla la effettiva permanenza a lunga scadenza di una certa tendenza generica, flessibile ma ineliminabile, di un tipo di natura umana che vale per tutti questi popoli; i tratti caratterizzanti di questo tipo sono appunto quelli che si palesano nella civiltà arcaica che i popoli baltici elaborarono durante il periodo iniziale della loro storia etnica, in cui si assicurarono la sopravvivenza. Questo periodo di preistoria è stata la sola fase delle esperienze vitali di queste popolazioni che sia durata abbastanza a lungo, in condizioni ragionevolmente stabili, da esercitare una sorta di effetto chiaramente selettivo, e quindi da sperimentare le loro attitudini e le condizioni ad essi più adatte. Questa civiltà arcaica che si può perciò definire, dopo la prova per selezione, congenita ai nordeuropei, ha dal lato tecnologico un tipico carattere neolitico, più che ogni altra specifica denominazione; mentre dal lato delle istituzioni domestiche, sociali e civili la si può definire come una anarchia basata su convenzioni, nel senso che manca di misure formali per il controllo coercitivo, ed è disegnata su una scala abbastanza ridotta, tale da farla funzionare attraverso l’esercizio di una tollerante sorveglianza di vicinato. Una simile caratterizzazione si applica anche al culto religioso, e presumibilmente anche alle concezioni religiose che ne stanno alla base, almeno secondo le prove disponibili. Quando alla fine il sistema di governo di questa civiltà pagana cadde, dopo molte vicissitudini, il suo posto fu preso da un’organizzazione predatoria, che si evolve nel sistema feudale tra quegli emigranti guerrieri e pirateschi che si stabilirono negli altri paesi europei; mentre tra la popolazione rimasta in patria nei paesi balticoscandinavi fu quasi subito sostituito da un sistema coercitivo di governo di carattere quasi identico, costruito imitando il feudalesimo. Abbiamo dedicato particolare attenzione alla origine ibrida di questi popoli, ed al fatto che la loro composizione razziale non è variata in misura rilevante dai tempi dell’iniziale insediamento sul litorale Baltico-Mare del Nord in tempi neolitici; con la possibile riserva che l’immissione del ceppo brachicefalo-bruno nel miscuglio può aver avuto luogo dopo il primo insediamento, sebbene il suo arrivo rientri anch’esso nell’epoca neolitica. Da questa situazione della loro composizione razziale deriva il fatto che oggi non vi è sostanzialmente alcuna differenza ereditaria tra le diverse nazionalità all’interno di questa regione climatica, o tra le diverse classi sociali che formano ciascuna di queste unità nazionali.

La loro composizione ibrida conferisce anche una grandissima prontezza all’accettazione di idee nuove provenienti dall’esterno, unitamente ad un’ampia gamma di adattabilità in tutte le attività umane, sia in materie tecnologiche che nel sistema di istituzioni civili e sociali e nella circolazione di concezioni religiose e intellettuali. Contemporaneamente la medesima mutevolezza individuale dell’ibrido agisce nel senso di impedire che un qualsiasi determinato complesso o sistema di usi e costumi acquisiti raggiunga una stabilità definitiva; in tale popolazione nessun sistema di conoscenze, credenze, usi o controlli può conseguire un grado di autenticità e rigidità tale da far sì che esso si spezzi invece di piegarsi sotto l’urto di nuove esigenze insorgenti da trasformazioni della tecnica o dal contatto con una civiltà estranea; ciò almeno nei limiti in cui non è possibile congegnare alcun complesso di usi e convinzioni che possa coincidere, sia pure con un ragionevole margine di tolleranza, con le tendenze innate di tutti, o quasi tutti, gli individui compresi in tale popolazione. Per quest’ultima, in effetti, ogni sistema completo di usi e costumi, di conoscenze e credenze resta perciò necessariamente in certa misura provvisorio, basato com’è sull’accettazione (in parte a titolo di concessione) da parte di una maggioranza di individui interessati, e non su un consenso spontaneo, uniforme e senza riserve, dell’intera popolazione che da tale sistema è retta. L’accettazione assicurata a tale sistema standard da quella maggioranza effettiva è inoltre inevitabilmente, in certa notevole misura, un’accettazione ottenuta per assenso piuttosto che per libera iniziativa. Che così stiano le cose è evidente in ognuno dei mutamenti rivoluzionari che hanno interessato i popoli della cristianità durante il periodo storico; come, ad esempio, nel caso dello sviluppo del feudalesimo e di quello successivo dello stato dinastico, congiunto con il conseguente passaggio ad una base costituzionale, ove tale mutamento è stato attuato; così pure in quello della graduale accettazione e conseguente espansione del culto cristiano e della sua autorità ecclesiastica congiunte con le molte vicende episodiche di dissenso religioso, e nel loro variopinto risultato. Quest’ultima categoria, le vicende del culto religioso tra i nord-europei, offre forse la più felice illustrazione disponibile dell’operato di tale mutevolezza innata e della conseguente ascesa, dominio e decadenza dei successivi sistemi di conoscenze e credenze. Si tratta di un settore di attività umana già ovviamente di per sé pieno di asperità polemiche e di accalorate diatribe accumulate. Eppure esso si trova in posizione abbastanza marginale,

rispetto al principale filone di interessi della presente ricerca, per consentire che vi si attinga materiale illustrativo senza ingenerare calore nel ragionamento principale. Nelle iniziative riuscite nel campo della fede, come pure in quelle imprese di devozione che dopo un decorso tormentato sono giunte a fine ingloriosa, si può osservare come ogni siffatto sistema nuovo o aberrante di consuetudini mentali relative al soprannaturale inizi costantemente la propria ascesa come espressione di un certo piccolo numero di individui. Questi, si può presumere, sono stati spinti ad una mentalità propizia a tale nuova moda di pensiero da un qualche condizionamento fisico o psicologico, o ambedue, che non è conforme alle opinioni precedentemente accettate in quest’argomento. Si riconosce di solito, da parte di chiunque non sia un convertito, che tali pionieri nel campo del soprannaturale sono individui eccezionali o eccentrici, personalità particolarmente dotate, forse anche affette da idiosincrasie patologiche o soggette a influenze magiche o extranaturali; cioè, in ogni caso, varianti irregolari del comune tipo etnico, la cui anormale inclinazione innata è stata rafforzata da qualche particolare condizionamento o eccezionale esperienza, e quindi non rientra nelle consuetudini mentali correntemente accolte in tali campi. La variante del culto che ne risulta trova in breve tempo un più ampio seguito, nel caso in cui il condizionamento esercitato dalle condizioni contemporanee sia tale da influenzare le consuetudini mentali di un considerevole numero di persone con una tendenza conforme a questo nuovo indirizzo del pensiero religioso. Se poi la nuova forma di fede è così fortunata da coincidere abbastanza con la tendenza contemporanea delle abitudini quotidiane, la turba dei proseliti si moltiplica in breve, formando un movimento religioso popolare così formidabile da acquisire credibilità generale e da divenire un’espressione autentica della fede. Quid ab omnibus, quid ubique creditur, credendum est. Molti, che a rigor di logica non avrebbero filato lo stesso filo dalla loro lana nonostante ogni incitamento, si allineano così alle nuove idee religiose; e la variante può perfino giungere a soppiantare il tipo originale di culto da cui ha preso le mosse. Se, ancora, fosse così fortunato da essere perfettamente adatto al sistema di usi e costumi in questioni secolari, così come è plasmato dalle esigenze contemporanee, il nuovo culto potrebbe in questo caso divenire la sola vera fede, come tale obbligatoria per tutti quanti; ciò è particolarmente probabile se allo stesso tempo esso si presta ai fini di una classe governante che possiede o è in grado di reperire i mezzi per imporne l’osservanza. Quest’ultima

asserzione può anche esser capovolta: se la mentalità rappresentata dal nuovo culto è effettivamente il prodotto del condizionamento della contemporanea esperienza quotidiana di massa, persone fortemente ispirate dalla tendenza propria del culto sono con ogni probabilità condotte dalla acclamazione popolare a posti di responsabilità discrezionale, venendo in tal modo a combinare i suggerimenti del loro personale interesse con le proprie pie convinzioni, che li sostengono, fino a portarli alla fase matura consistente in un’infallibilità auto-evidente ed intollerante. Nell’origine e nella evoluzione di ideali consuetudinari e di convinzioni relative agli usi e costumi nel loro complesso, o ad un determinato aspetto di essi, il corso degli eventi non ha un carattere essenzialmente diverso dalle circostanze che accompagnano la nascita e la diffusione di quelle verità religiose. I mutamenti che alterano l’aspetto della vita nazionale hanno inizio in tono minore; il processo iniziale a cui si può risalire comincia di solito con qualche gesto pubblico da parte di un piccolo e ben individuato gruppo di persone, cui sono in seguito attribuite capacità di acuta osservazione e di iniziativa, nel caso in cui la mossa sia coronata da successo. Se invece il movimento non riesce ad ottenere un seguito e gli effetti che ne derivano, questi portavoce della sua propaganda vengono considerati autori di progetti fantasiosi, magari dalla mente debole. Volendo descrivere il corso di una simile vicenda per analogia, si può dire che i sintomi della nuova mentalità vengono in evidenza dapprima nell’atteggiamento di qualche individuo, che, per propensione innata ed a seguito di un grado eccezionale di esposizione ad essa, è particolarmente soggetto al suo contagio. Nella misura in cui una disposizione analoga predomina tra il resto della popolazione, ed in cui le circostanze usuali favoriscono le nuove concezioni, esse trovano in breve accoglimento nelle abitudini mentali di un numero sempre maggiore di persone, in particolare tra quelle che nel capriccioso gioco dell’eredità ibrida sono emerse come varianti innate peculiarmente atte al loro recepimento, o tra quelle indirizzate con eccezionale rigore dal condizionamento della vita nel senso di tale tendenza. Se la nuova idea riesce ad ottenere il favore di chi detiene l’autorità o è in grado di esigere la sottomissione del popolo, la sua diffusione è grandemente sostenuta dall’imitazione, e forse dall’osservanza obbligatoria, così che entro un tempo relativamente breve essa può divenire un fatto quotidiano e di senso comune. Ma rimane sempre la riserva che in una simile popolazione ibrida la stessa prevalente varietà di indole, che tanto favorisce l’infiltrazione e l’affermazione di nuove idee, ne rende al tempo

stesso altrettanto precaria la permanenza in vigore. L’argomento può essere esemplificato dall’ascesa e dal declino degli ideali guerrieri di periodo in periodo tra le nazioni moderne; anzi, piuttosto dall’ascesa e dal periodo d’imperio di tali ideali, che dal loro declino. Il declino di questi, e dell’animosità patriottica in cui trovano espressione esterna, appare provocato dal loro regresso a seguito del disuso più che da un aggressivo indottrinamento a mezzo della propaganda e di un ido neo condizionamento. La causa della pace e dell’amicizia non sembra sia servita dalla propaganda polemica, così come non lo è da assidui preparativi bellici per «mantenere la pace». C’è sempre un notevole spirito guerriero presente in queste nazioni moderne; ciò è logico, dal momento che le loro istituzioni governative hanno necessariamente carattere coercitivo e che le loro classi al potere sono animate da ambizioni dinastiche. In questa materia gli stati repubblicani imitano acriticamente quelli dinastici, in modo così efficiente da non costituire una seria eccezione alla regola. La tradizione e i precedenti storici corroborano quella mentalità, cosicché un certo fermento è sempre presente. Ma in mancanza di speciali provocazioni la gran massa della popolazione, occupata da altri interessi e priva di qualsiasi inclinazione naturale alla guerra fine a se stessa, tende ad adagiarsi senza difficoltà in abitudini mentali pacifiche, e quindi giunge a pensare usualmente alle relazioni umane, anche internazionali, in termini di pace, se non di amicizia. Individui naturalmente anomali, tuttavia, e quelli formatisi su speciali tradizioni di classe o predisposti da particolari interessi di casta, vedono con prontezza i vantaggi delle imprese militari e tengono in vita la tradizione di animosità nazionale. Patriottismo, pirateria e privilegio convergono verso un risultato comune. Ove accada che un individuo dotato di una singolare tendenza innata di questo tipo si trovi nello stesso tempo ad essere sottoposto a circostanze favorevoli allo sviluppo di una truculenta megalomania, e sia piazzato in una posizione di autorità irresponsabile e di privilegi sanzionati tale da conferire autorevolezza alle sue idiosincrasie, le sue inclinazioni possono agevolmente raccogliere consensi, divenire di moda, e, attraverso una opportuna insistenza e un’abile manipolazione, giungere ad essere così abitualmente accette in modo universale, da spingere in effetti la popolazione nel suo complesso ad una mentalità entusiasticamente bellicosa. Tale conseguenza è particolarmente probabile nel caso di un popolo le cui tradizioni storiche stiano in termini di strategia dinastica, e il cui modello

quotidiano delle istituzioni sia disegnato sulla base della coercizione, del privilegio e della fedeltà1 Solo dopo l’apertura della nuova fase, nel 1870, la Germania è giunta a prendere il suo posto nella considerazione generale come un caso singolarmente significativo, per non dire unico, di esuberante espansione. La storia del dispiegarsi della sua potenza, ovviamente, non si limita a questo breve periodo, che rientra nella memoria di persone ancora viventi; ma il punto focale, in seguito al quale la storia della nazione tedesca ha preso a divergere così notevolmente dal corso degli eventi comune all’Europa moderna, non può in ultima analisi esser fatto risalire a molto prima di quel momento. Chiunque cerchi un preciso periodo dal quale far decorrere quest’epoca della storia tedesca avrebbe delle difficoltà a scegliere qualsiasi determinato momento anteriore all’anno suddetto; tutto ciò che era accaduto prima di quella data nel senso di uno sviluppo di forze nazionali ha un significato di rilievo solo per l’influenza che esercita su ciò che è accaduto dopo di essa. Le realizzazioni manifeste, conseguite dal popolo tedesco nel corso di questo periodo storico, nei limiti in cui sono riconducibili a termini statistici, sono l’incremento della popolazione, dell’efficienza industriale, della potenza militare. Altre realizzazioni vengono vantate, forse anche di maggior rilievo a giudizio dei sostenitori, e non si intende qui svalutare o minimizzare i risultati da esso conseguiti al di fuori del campo materiale; ma la grandezza dei progressi in questi altri settori è in certa misura materia di stime e opinioni, soggette all’influenza di sentimenti di autocompiacimento o di svalutazione, mentre i successi sopracitati nel campo materiale sono indiscutibili, al di là di ogni cavillo. Giudicandolo da questi contrassegni di superiorità fisicamente misurabili, il periodo storico entro il quale si colloca questo moderno esordio del popolo tedesco dev’essere fatto risalire ad un momento alquanto anteriore alla guerra franco-prussiana. In ciascuno dei tre settori citati il progresso era già in avanzato sviluppo prima di quella data. Si può tuttavia affermare con certezza che tale inizio dell’epoca in corso ricade entro il secondo quarto del XIX secoloa; e che il motore primo tra quei fattori dello sviluppo della potenza nazionale è stata la sua aumentata efficienza industriale, piuttosto che l’uno o l’altro degli altri due. Mentre l’incremento di efficienza è stato indubbiamente condizionato dall’incremento demografico, l’iniziativa nell’ambito di questi due fattori è certamente appartenuta al primo e non ai secondo; cioè nella correlazione tra progresso industriale e popolazione il primato appartiene al

primo. Lo stesso vale, com’è ovvio, per lo sviluppo della potenza militare. Inoltre, senza dubbio, un ampio spazio tra le cause della espansione e dell’efficienza si ritiene dovuto a una saggia politica governativa e ad una oculata amministrazione; ma le opinioni hanno largo peso nella valutazione di tale politica governativa, e le opinioni in materia sono soggette a parzialità, in favore o contro. Lo sviluppo della potenza militare è stato opera inequivocabile della politica del governo, e la stessa politica ha indiscutibilmente cercato di favorire il progresso industriale; il problema che si presenta per questo secondo aspetto non riguarda le sincere intenzioni e gli sforzi del governo — o dello «stato», per usare il termine tedesco — ma solo il probabile grado di efficacia di tali buone intenzioni e sforzi; su tale punto le opinioni non coincidono, ed è quindi più opportuno lasciare la questione fuori dell’ambito della ricerca. Come ben si sa, il vero e proprio movimento per l’unità tedesca, che giunse a positiva conclusione con la successiva formazione dell’Impero, doveva la sua nascita ed il suo successo iniziale ai bisogni economici dei paesi tedeschi; oppure si può dire che sia stato provocato dall’oneroso fardello di svantaggi artificiali creati dai governi dei piccoli stati tra i quali il paese era diviso. Perciò, come misura pratica, esso ha inizio con la formazione di una Unione Doganale, designata a rimuovere alcuni degli ostacoli eretti dai particolarismi degli staterelli; e tale unità ed uniformità di politica economica nell’ambito dell’Impero, particolarmente l’assenza di restrizioni tariffarie interne, è ancor oggi uno dei principali elementi della sua forza. Perciò, il ruolo della Germania ed il suo rapporto con lo sviluppo industriale dell’Europa moderna è necessariamente il punto di partenza per ogni ricerca sulle sorti e le conquiste effettuate dal popolo tedesco nell’epoca contemporanea. A questo riguardo, le risorse naturali in essa disponibili per l’uso dell’industria moderna sono dello stesso tipo e gamma di quelle reperibili nei paesi vicini; in pratica nulla differenzia i territori tedeschi da quelli nordeuropei nel complesso, se non il fatto che le risorse del paese sono di qualità lievemente inferiore e di quantità relativamente scarsa, almeno in confronto con i più fortunati tra i paesi vicini. E ancora, sotto l’aspetto delle inclinazioni e attitudini congenite il popolo tedesco è virtualmente identico ai suoi vicini; sotto quello delle qualità ereditarie — caratteri razziali — esso è uguale alle popolazioni dei paesi confinanti, in particolare agli olandesi, belgi e britannici. Grazie alla sua origine ibrida esso è, come questi ultimi, dotato di un’ampia capacità di acquisire e mettere a frutto una vasta gamma di conoscenze

tecniche; ed è, come i suoi vicini, grazie alla stessa inclinazione ereditaria all’abilità operativa che l’anima, dedito assiduamente e con sagacia all’industria e al risparmio. Ciò che soprattutto distingue, sotto questo aspetto, il popolo tedesco dagli altri, e soprattutto dai britannici, è il fatto che i tedeschi sono nuovi a questo sistema industriale; e i tratti distintivi del caso tedesco sono in gran parte da far risalire al fatto che essi sono ancora nel periodo del noviziato. Quando il periodo contemporaneo della storia del popolo tedesco ebbe inizio, nel secondo quarto del diciannovesimo secolo, la Germania era di molto arretrata nei confronti dei suoi vicini occidentali, e specialmente dei britannici. Si tratta ovviamente di un fatto che storicamente è ormai un luogo comune; lo si può accettare con le necessarie riserve e cautele; ma resta il fatto, che sotto certi aspetti decisivi, o almeno sostanziali, la Germania era ad uno stadio anacronistico, in particolare alla luce della posizione raggiunta dai popoli di lingua inglese. Non c’è alcun intento di deprezzare i meriti della civiltà tedesca del tempo negli aspetti in cui essa eccelleva, così come non servirebbe a nulla il tentare di sottovalutarla; essa è un fatto troppo vasto nel patrimonio culturale dell’umanità per poter soffrire seriamente in seguito ad un attacco verbale. Tuttavia, quegli aspetti geniali in cui eccelleva la civiltà caratteristica della Germania — in cui, in effetti, la Germania trionfava — non rientravano in quel filone di efficienza, che contava realmente per l’attitudine alla vita sotto il sistema che stava allora prendendo forma in Europa. Può essere stata migliore o peggiore di ciò che ne prese il posto, ma in ogni caso non costituiva una componente articolata del sistema operativo; come è provato dagli sviluppi successivi, a cui contribuirono in maniera trascurabile le cognizioni accumulate dal popolo tedesco. La Germania era in arretrato nelle tecniche produttive e nelle sue istituzioni politiche, come pure in quelle caratteristiche del suo sistema di vita civile e domestica che stavano in intima correlazione, o sotto la influenza dominante, di questi fondamentali agenti del modello istituzionale. Questa è la differenza palese tra il caso del popolo tedesco e quello britannico a quel tempo, a parte le peculiarità superficiali di costume e gli elementi meramente decorativi della civiltà. Nel campo produttivo la Germania era ancora allo stadio artigianale, con tutto ciò che tale definizione implica in fatto di costrizioni istituzionali e di meticolosa standardizzazione di minuzie. Misurato sulla base del ritmo di avanzamento che aveva portato la società inglese al

punto in cui si trovava allora, il sistema industriale tedesco era circa due secoli e mezzo o tre indietro — più o meno in corrispondenza dell’epoca elisabettiana; il suo sistema politico era ancora più arcaico; e gli usi e costumi che governavano le relazioni sociali in dettaglio avevano un carattere necessariamente commisurato a tale situazione economica e politica. La caratterizzazione così proposta si applica all’organizzazione produttiva intesa come sistema di attività equilibrato e inclusivo. Essa non trascura il fatto che molti dettagli estranei si erano introdotti in questo sistema arcaico a causa degli inevitabili contatti della Germania con le più moderne società industriali dell’Europa occidentale. Ma solo con l’inizio della seconda metà del diciannovesimo secolo gli elementi estranei comin ciarono a mettere seriamente in crisi la struttura del sistema arcaico. Nel campo politico si ha un quasi analogo processo, con la eccezione che in esso un minor numero di elementi moderni si erano fatti strada d’oltre frontiera, che tali elementi non si erano inseriti con uguale inquietante sicurezza nel tessuto delle strutture politiche, e che la Germania era ancora organizzata conformemente al modello dello «stato territoriale» — un’autocrazia di dimensioni peculiarmente ridotte e particolarmente irresponsabile, che è giunta alla sua migliore maturazione solo tra i popoli germanici, e che ha tenuto duro con rimarchevole tenacia entro i limiti della Madrepatria. Lo stato territoriale, o la sua copia meno perfezionata sotto altra designazione, non è stato sconosciuto altrove nella regione nord-europea, ma si estinse per vetustà tempo addietro tra gli altri popoli nord-europei; cosicché gli stessi paesi scandinavi, che sembrerebbero esser stati predestinati dalla necessità geografica a sistemi minuscoli, avevano già abbandonato questo modello arcaico di governo dello stato e di controllo politico al tempo in cui la questione della sua sostituzione cominciò ad attrarre un (inefficace) interesse teorico in Germania. Lo stato territoriale è in effetti un aggregato territoriale, in cui la popolazione è concepita come una proprietà data in usufrutto ad un determinato principe; il concetto è evidentemente di derivazione feudale, e la mentalità che ne fa una forma praticabile di organizzazione politica è quella feudale di asservimento personale ad ‘in padrone personale. In tale sistema di governo la sottomissione, la fedeltà personale è la virtù prima, la principale condizione determinante la sua prosecuzione; mentre l’insubordinazione è il difetto capitale, incompatibile con un simile sistema coercitivo. Dal punto di vista degli interessi politici, in uno stato del genere lo spirito

di rinuncia è chiamato, mediante un eufemismo apologetico, «dovere», mentre l’insubordinazione è definita «ostinazione perversa». Il primo è la mentalità originata dalla oppressione coerente e permanente, ed è la base di un organismo politico servile, qual è lo stato territoriale; la seconda, se lasciata libera di seguire il suo corso, risulta in un’autonomia anarchica, tale quale sembra esser stata la costituzione della società tedesca nei tempi preistorici, prima che le invasioni barbariche fondassero un potere coercitivo in quella che è ora la Madrepatria. La seconda sembra coincidere con l’inclinazione naturale di questi popoli; ma il primo mantiene sul loro spirito la sicura presa che deriva da quindici secoli di sottomissione ad una imperiosa disciplina di coercizione. La mentalità del «dovere» in questi popoli non è, a quanto sembra, «natura», nel senso di inclinazione naturale; ma è la «seconda natura» per i popoli della Madrepatria, profondamente impregnati come sono dall’atteggiamento tradizionale indotto dal prolungato, conforme condizionamento. Quando si parla di queste cose nei termini correnti tra le moderne persone civili, è quasi impossibile evitare di dare l’impressione di disapprovare questo servile o sottomesso atteggiamento del «dovere»; questa difficoltà ostacola in particolare chiunque usi la lingua inglese, — il margine d’insinuazione denigratoria contenuto nelle parole e nelle frasi disponibili è notevolmente meno imbarazzante, ad esempio, nella lingua tedesca, sebbene anche in essa il comune vocabolario si presti con maggior facilità al biasimo del servilismo e del potere irresponsabile che non all’elogio di questi elementi del moderno patriottismo. Senza dubbio questo stato di cose è dovuto alla tendenza dell’evoluzione istituzionale dell’Europa occidentale nell’epoca moderna, che si è nel complesso mossa in modo alquanto coerente nella direzione di un graduale allentamento della morsa dell’autocrazia dinastica. Forse tale tendenza non tanto ha creato o iniziato lo sviluppo di una mentalità anarchica — o in altri termini non servile — quanto piuttosto ne ha tollerata la permanenza, consentendo perciò alla inclinazione anarchica congenita di questi popoli di riaffermarsi in una certa misura, grazie all’ineliminabile capacità di recupero che caratterizza tutte le inclinazioni ereditarieb. Ogni esame anche molto superficiale dello sviluppo delle istituzioni libere, o popolari, nella storia dell’Europa moderna, dovrebbe convincere chiunque se ne interessi che tale sviluppo si è verificato non perché le autorità investite del potere discrezionale non si siano preoccupate di impedirlo ovunque se ne offrisse la possibilità, ma perché circostanze condizionanti esterne non hanno

consentito loro di scoraggiarlo a sufficienza. Grazie alle strette ed agevoli comunicazioni di idee tra i popoli moderni, la propensione anarchica è giunta a contaminare, attraverso i canali dell’educazione e dei rapporti di vicinato, perfino le popolazioni suddite degli stati territoriali meglio preservati; cosicché anche in essi, all’ombra del sistema autoritario, il vocabolario contemporaneo mostra una certa debolezza per le istituzioni libere e per l’uomo privo di padrone. Perciò, malgrado le esigenze della lingua conferiscano quasi inevitabilmente una tinta di disapprovazione a ogni disamina di questa perdurante consuetudine rinunciataria del popolo della Madrepatria, non s’intende affatto qui né elogiare né criticare lo spirito di sottomissione che sta alla base di tanta parte della civiltà tedesca e delle realizzazioni tedesche. Esso è uno dei maggiori fattori che hanno partecipato alla nascita dell’epoca moderna in quel paese, e quest’ultima ed il suo «sistema» devono fondarsi sulla forza o la debolezza, quali che siano, con cui questo spirito feudale contribuisce all’esito finale. Ora, si dà il caso che questo perdurante spirito feudale di fedeltà e sottomissione sia stato manifestamente una sorgente di forza per lo stato tedesco, fino ad oggi; come pure, presumibilmente, per il sistema economico, per non parlare dei fini politici conseguiti grazie all’efficienza economica della società. Tutto ciò va riconosciuto e tenuto nel debito conto, a prescindere da ogni questione relativa ai vantaggi ultimi di una simile indole popolare sotto qualsiasi altro aspetto, o anche al suo ulteriore valore per i fini dello stato. Per tutto ciò che concerne la presente ricerca può sembrare o meno, come senza dubbio appare al giudizio di gran parte delle persone di lingua inglese, che questo spirito di alacrità sottomessa su cui si fonda il sistema prussiano di efficienza amministrativa sia al di sotto della dignità di un uomo libero; che esso sia lo spirito di un suddito, non di un cittadino; che al di fuori dei fini dinastici sia un difetto e una manchevolezza; e che alla fine le esigenze della vita civile non tollerino un simile anacronistico residuo del medievalismo, e che quindi la sua consuetudine sarà perduta. Secondo ogni apparenza odierna può anche essere vero che esso abbia un valore solamente transitorio per i fini dello stesso stato dinastico; ma tutto ciò non elimina il fatto che finora esso è stato una chiara sorgente di forza per lo stato tedesco, e presumibilmente per il popolo tedesco nel suo complesso, in quanto entità economica. Nel secondo quarto del diciannovesimo secolo ebbe inizio una complessa fase di riforma e riassetto della situazione tedesca. Questa evoluzione ha

soprattutto carattere economico, almeno all’esterno, dal momento che lo stimolo immediato alla attività pratica era fornito dalle esigenze del commercio e degli erari dei prìncipi. Molte geniali riflessioni teoriche, di tipo accademico, e molte edificanti interpretazioni popolari e sbandieramenti di ideali nazionali accompagnarono queste misure di carattere pratico, e tale agitazione degli spiriti e degli intelletti può aver avuto più o meno a che fare con le misure adottate e con la tendenza generale della politica nazionale. Non è facile dire se quest’agitazione degli spiriti debba essere considerata come una causa o come concomitante con i mutamenti concreti in corso durante questo periodo, ma sembrerebbe ragionevole ritenere parzialmente valide ambedue queste spiegazioni. È stato di moda tra gli storici di questo periodo, particolarmente tra quelli patriottici, il descrivere questo complesso movimento di forze, materiali e non, che costituisce la storia tedesca della metà centrale del secolo, come un moto dello spirito tedesco, che prendeva le mosse dall’esuberante genio nazionale della razza. Tale è la tradizione, ma essa deriva dall’epoca romantica, da cui non era pensabile che provenisse alcuna tradizione di carattere più concreto. Un esame dei dati di fatto di tale movimento storico si volge necessariamente ai fattori che possono aver contribuito a formare le abitudini mentali del tempo, e da questo punto di vista ci sono due filoni di derivazione a cui l’analisi può esser fatta risalire con sicurezza — lasciando da parte, come si usa oggi, qualsiasi agente occulto, quali il destino manifesto, il genio nazionale, la guida provvidenziale e simili. Non si intendono sottovalutare questi agenti occulti, ovviamente; ma anche ammettendo che essi e i loro simili siano le sorgenti nascoste, bisogna anche rammentare che per natura essi devono rimanere celati, e che gli agenti tangibili per mezzo dei quali questi presunti motori primi operano devono quindi esser sufficienti a compiere l’opera senza ricorrere alle fonti nascoste stesse; le quali possono aver effetto solo grazie ad una magica efficacia. Il loro rapporto con il corso degli eventi ha la natura di una efficacia occulta o magica, non causale; e secondo le moderne opinioni materialistiche in materia di ricerca scientifica, la successione causale in cui si cerca una spiegazione degli eventi dev’essere completa in tutti gli elementi concernenti la motivazione e l’esito, senza basarsi su fatti che non siano tangibili, in questioni aventi la natura di «dati». Dal punto di vista del concetto basilare moderno in favore della causa efficiente, contrapposto al postulato romantico della guida efficace, qualsiasi tentativo di stabilire una conclusione logica in termini diversi dai dati di fatto

è del tutto futile. Può essere una geniale opera inutile, e può aver valore come arte drammatica o come argomento di una predica, ma nell’ambito della ricerca scientifica simili premesse, e generalizzazioni in termini siffatti, sono nient’altro che ottoni risuonanti e un cembalo tintinnante. Ci sono due categorie di agenti manifestamente all’opera nel formare le abitudini mentali delle persone nel complesso movimento di riforma e riassetto citato sopra. Si tratta del sistema acquisito di usi e costumi, e del nuovo stadio delle tecniche produttive; e non è difficile vedere che è il secondo che conduce al riassetto, e che questo avviene necessariamente sotto la supervisione del sistema accettato di usi e costumi. Quest’ultimo è modificato per opera della nuova gamma di consuetudini prodotte dal nuovo stadio delle tecniche produttive, ma i mutamenti che avvengono negli usi e costumi hanno, qui come altrove, carattere di concessioni tardive, fatte sotto l’impulso di esigenze che chiaramente non ammettono usi sorpassati. Il complesso movimento in esame consiste in un riassetto delle attività economiche che viene incontro alle esigenze delle nuove condizioni tecniche, e nel rinnovamento del sistema acquisito di governo dei piccoli prìncipi per renderlo idoneo ad esse. I mutamenti che ne appaiono il risultato, perciò, emergono per iniziativa del nuovo progresso della tecnica, e grazie alle convenienti concessioni e ai sagaci sforzi da parte dell’autorità costituita, tesi a volgere l’efficienza appena conseguita al servizio dei suoi propri fini; la direzione consapevole è nel nostro caso nelle mani dell’organismo governativo, diretta ad un rinnovamento dello stato territoriale tale da metterlo in grado di commerciare sulla più ampia scala imposta dal nuovo stadio della tecnica, e di impiegare adeguatamente le forze che il nuovo sistema industriale pone a sua disposizione. Molto era già stato fatto durante i cento anni precedenti per trarre vantaggio dal progresso tecnico, nei limiti in cui questo contribuiva direttamente alla potenza militare del piccolo sovrano, e molto era stato fatto» in casuale coincidenza con l’estensione del controllo territoriale e dell’amministrazione fiscale, per un miglioramento dei mezzi di comunicazione e di contatto; ma il moderno sistema industriale, in quanto tale, non aveva interessato seriamente, se non come fattore esterno ed essenzialmente estraneo, il popolo tedesco, in particolare non quei domini prussiani che hanno un ruolo centrale nel rinnovamento della Germania dell’ottocento. Ma lo stadio produttivo della Germania era in ultima analisi medievale anziché moderno, ed esso continuava, perciò, a favorire nel

complesso il mantenimento dell’antico regime; in specie dal momento che quest’ultimo era saldamente fondato sugli interessi e gli ideali tradizionali delle dinastie regnanti e delle classi privilegiate. C’è un fattore collaterale che influenza dal lato tecnico l’evoluzione della civiltà tedesca prima del suo ammodernamento, e che merita di esser notato nel tentativo di rendersi conto di ciò che è accaduto nella evoluzione dell’epoca moderna. L’arte della stampa e l’uso conseguente della carta stampata erano sempre stati familiari al popolo tedesco, fin da quando quel progresso della tecnica era stato realizzato. Dagli inizi fino al diciannovesimo secolo la tecnica della stampa fu un procedimento artigianale, ben sviluppato in Germania. Ma le conseguenze istituzionali, l’effetto sugli usi e costumi dell’abitudine di consumare carta stampata non ha per questo necessariamente natura artigianale. Un libero consumo di carta stampata significa libero interscambio di idee, e perciò implica l’esporre i consumatori al contatto con idee in circolazione al di là della cerchia dei loro immediati contatti personali. Il consumo abituale della stampa ha un effetto condizionante dello stesso genere dell’assuefazione al generale livellamento delle attività economiche che è prodotto dalla meccanizzazione dell’industria; ma non c’è bisogno di aggiungere che tale effetto prodotto dall’uso della stampa non si estende molto oltre la classe di persone ad esso dedite; gli analfabeti, e le classi che fanno comunque scarso uso della stampa, non ne sono disturbate seriamente o diffusamente — quello che si può definire il travaso della letteratura a stampa non ha grande rilievo, anche se non si può negare che la diffusione tra gli analfabeti di idee convogliate dalla stampa abbia sempre un qualche peso. Di contro, il valore di condizionamento della vita sotto il regime livellatore della industria meccanizzata raggiunge l’analfabeta forse con maggiore immediatezza e intimità, e con quasi altrettanta diffusione, di quanto si verifica per le classi che leggono abitualmente. Vale la pena di osservare, proprio sotto questo aspetto, — sebbene si tratti di un’osservazione di validità generale — che nessun profondo o massiccio rivolgimento rivoluzionario dell’ordine costituito può esser realizzato, sotto qualsiasi aspetto, per mezzo della sola carta stampata, o in assenza di altri fattori di assuefazione, materialmente più impegnativi e perentori, di retti allo stesso fine generale. Così nel caso della Germania, la frazione della popolazione che era dedita alla lettura era stata a lungo in contatto con il movimento delle idee dell’Europa nel suo complesso, e aveva anzi, di quando

in quando, assunto un ruolo attivo nella formazione delle idee contemporanee; ciononostante questa stessa frazione costituiva una classe così ridotta, era così poco in contatto con le masse popolari, e manteneva le sue convinzioni intellettuali su un piano talmente «accademico» — cioè costantemente privo del sostegno della propria esperienza dei fatti consueti — che pur con le migliori intenzioni non riuscì mai a contagiare le masse popolari con i suoi ideali di un ordine nuovo, o a disturbare i titolari di cariche nel loro ufficio e nell’usufrutto dell’antico ordinamentoc. Nello stesso tempo la carta stampata è un efficientissimo veicolo per la diffusione, l’assimilazione e il livellamento di consuetudini mentali che sono per altri aspetti consone alle esigenze quotidiane dell’attività umana; e, inoltre, la consuetudine della lettura è l’ausiliaria quasi indispensabile di quella tecnologia delle macchine che ha invaso la società tedesca nel diciannovesimo secolo — in misura minore, ovviamente, a quella data (la metà del secolo) che non in seguito, ma già sufficiente per avere il suo peso sull’esito finaled. Ora, l’alfabetismo, sia nel suo più alto valore come «istruzione», sia nell’aspetto più semplice come capacità di leggere correntemente la stampa, era relativamente comune nel popolo tedesco nel momento in cui iniziò la nuova epoca; e il movimento teso a migliorare e diffondere i mezzi dell’educazione popolare aveva già assunto una forma di valore pratico, cosicché alle manchevolezze in materia era possibile porre rimedio non appena se ne manifestasse l’esigenza. Una delle più comuni calunnie contro la società tedesca soleva essere quella secondo la quale essa era troppo pesante al vertice, con una sovrabbondanza di dotti. Le censure e critiche per questo aspetto sono cessate fin dalla seconda metà del secolo, poiché la classe istruita si è dimostrata utile e la richiesta di uomini versati nelle scienze ha raggiunto appieno l’offerta. Frattanto il carattere di questa istruzione, o piuttosto la sua tendenza, è mutata al quanto, con il risultato complessivo di un pronunciato spostamento verso quei rami della conoscenza che hanno un qualche valore tecnico e commercialee. Per quanto concerne il rapporto logico tra il moderno progresso industriale e lo stato dinastico rammodernato in Germania, si può ritenere che chi ha creato questo stato, cioè il governo della dinastia Hohenzollern da Federico il Grande a Guglielmo II2 abbia utilizzato ogni perfezionamento tecnico disponibile per estendere il dominio e incrementare l’efficienza dello stato; oppure, d’altro canto, che il progresso tecnico, che condusse a maggiori dimensioni nell’industria e nel commercio, come pure a equipaggiamenti e a strategie più ampie e costose nell’arte della guerra, abbia portato anche lo

stato dinastico a riorganizzarsi su una base nuova e ampliata, comprendente una maggiore specializzazione dell’apparato amministrativo e un più dettagliato ed efficace controllo delle fonti di reddito. Ambedue i punti di vista sembrano altrettanto giusti. Gli studiosi tedeschi della questione hanno di solito adottato il primo, trascurando alquanto il valore del secondo. Dovrebbe essere evidente che il minuscolo stato territoriale caratteristico del periodo di massima voga del particolarismo tedesco, con la sua politica crepuscolare, non aveva alcuna possibilità di sopravvivenza nelle condizioni prevalenti in Europa nel diciannovesimo secolo. È altrettanto evidente che quei governanti dinastici nell’ambito del particolarismo i quali, grazie al loro intuito, a speciali esigenze e a tentativi sperimentali, fossero stati indotti a usufruire dei meccanismi di maggiori dimensioni e meccanicamente più efficienti della nuova epoca, avrebbero goduto di un vantaggio tale da differenziarli nei confronti dei loro vicini conservatori, con il risultato finale di soppiantare questi ultimi nel dominio dello stato rilevando senz’altro le loro sostanze — poiché lo stato dinastico ha necessariamente carattere concorrenziale, cioè rapace, ed è libero di utilizzare ogni mezzo che gli si presenti. È un caso di selezione per la sopravvivenza operante attraverso le manovre concorrenziali di coloro che avevano in mano l’amministrazione dell’uno e dell’altro governo. Quando lo stadio della tecnica ebbe esteso il concreto raggio d’azione dell’amministrazione civile e della strategia politica a tal punto da rendere definitivamente realizzabile un’organizzazione nazionale su vasta scala, l’antico ordinamento di minuscoli principati autosufficienti divenne insostenibile. Questo mutamento raggiunse i territori tedeschi più tardi del resto dell’Europa occidentale, e non risultò in una riorganizzazione della vita nazionale se non ad una data così tarda, che il ritardo è causa di sorpresa nonostante tutte le esplicazioni offerte dagli storici. Ma, in conseguenza di tale ritardo, l’ampiezza della riorganizzazione, quando essa venne, fu tale da lasciare alquanto incerti gli storici sul come spiegarla senza far ricorso a caratteristiche razziali attribuite ad hoc e ai magici effetti di una predilezione nepotistica da parte della provvidenza. Grazie alla abile direzione degli statisti dinastici che hanno avuto la guida del governo e il controllo dell’apparato amministrativo, l’efficienza materiale della società tedesca, in rapido incremento per l’introduzione del moderno stadio della tecnica, è stata volta con successo al servizio dello stato, in una misura neppure sfiorata negli altri paesi dell’Europa occidentale; cosicché in

effetti la società è, in relazione allo stato degli Hohenzollern, qualcosa di simile ad un possesso dinastico, come una proprietà terriera o dei beni del castello, da amministrarsi ai fini dinastici, in modo molto vicino all’amministrazione cameralistica degli affari fiscali negli stati territoriali tedeschi di un secolo fa. Questa sottomissione della società ai fini e alla direzione dinastica è stata garantita nelle grandi linee da una politica di aggressione guerresca, e nei particolari da un sistema di sorveglianza burocratica e di incessante interferenza nella vita privata dei sudditi. Non c’è bisogno di dire che non esiste fondamento sicuro per un simile sistema di sfruttamento e di controllo dinastico se non nel fedele sostegno del sentimento popolare; e che una simile situazione del sentimento popolare può esser mantenuta solo con una assuefazione incessante, un condizionamento diretto con sagacia e perseveranza a tal fine. In particolare, l’assuefazione a tal fine deve avere andamento persistente e mai indeciso per essere in grado di mantenere la fedeltà personale di una massa di sudditi esposti alla esperienza disgregatrice della vita moderna, dove l’industria meccanizzata sancisce costantemente l’impotenza della forza e del privilegio personale di fronte ai fattori inanimati e ad un procedimento meccanico di ampia portata, e dove l’universale tira e molla del sistema dei prezzi insegna continuamente che ogni uomo è custode di se stesso. È comunemente noto come tutto ciò sia stato curato dal governo prussiano con perfezione ed effetti senza precedentif. Il principale tra i fattori che hanno mantenuta intatta la fedeltà sottomessa del popolo tedesco allo stato è, ovviamente, la vittoriosa condotta delle guerre, spalleggiata dagli effetti disciplinari della preparazione bellica e dell’addestramento all’arroganza e alle ambizioni guerresche. L’attenzione deliberatamente dedicata a tali interessi è anch’essa oggetto di ampia notorietà; al punto che gli stessi portavoce del sistema la danno per ovvia e scontata, e sono quindi inclini a trascurarla. L’esperienza della guerra produce una mentalità bellicistica; e la pratica guerresca, in quanto addestramento a seguire il proprio capo e all’esecuzione di ordini arbitrari, conduce ad una mentalità di sottomissione entusiastica e di obbedienza senza discussione all’autorità. Quello che è un’organizzazione militare in guerra lo è un’organizzazione servile in pace. Il sistema è lo stesso, e la mentalità popolare richiesta per il suo riuscito funzionamento è identica in ambedue i casi. Esso raggiunge la massima efficienza, nell’un caso come nell’altro, in guerra o in pace, solo quando la consuetudine dell’autorità arbitraria e dell’obbedienza senza discussione è stata così compiutamente assimilata che la sottomissione

diviene un’aspirazione appassionata per la popolazione dei sudditi, quando l’uso della fedeltà ha raggiunto un tale grado di automaticità che l’ideale di libertà del suddito consiste nell’ottenere il permesso di obbedire agli ordini — un po’ allo stesso modo in cui i teologi interpretano la libertà dei fedeli, il cui supremo privilegio è quello di eseguire tutti i comandamenti divini. Un simile sviluppo ideale del sentimento patriottico sembra essere stato raggiunto, entro sopportabili limiti di approssimazione, nel caso tedesco, se si deve prestar fede ai suoi laudatori, che spiegano come il «dovere», nel senso indicato, combinato con la «libertà», costituisca il fine a cui aspira lo spirito tedesco. Il «dovere», naturalmente, comprende l’esercizio arbitrario del comando da parte del superiore come l’obbedienza dell’inferiore, ma tale autorità arbitraria è esercitata solo nell’ambito della debita sottomissione all’autorità più alta, fino a risalire al vertice dinastico — che, a quanto pare, a sua volta esercita solo un’autorità delegata, di cui la sua persona è investita dalla grazia divina. Il termine «stato dinastico» è qui preferito a «stato patrimoniale» non perché vi siano differenze sostanziali tra i due concetti, ma piuttosto perché i più recenti commentatori tedeschi dello stato tedesco, quale si vede all’opera durante l’epoca imperiale, sembrano nutrire un’avversione per il secondo termine, che essi intendono invece applicare allo stato territoriale del periodo pre-imperiale, per distinguerlo dallo stato riformato mediante l’adozione di una costituzione comprendente un minimo di istituzioni rappresentative e di forme parlamentari. Tuttavia la designazione «dinastico» resta applicabile; e in effetti la riforma costituzionale non ha fatto uscire lo stato tedesco dal rango delle monarchie patrimoniali. Le differenze risultanti dalla costituzione imperiale riguardano in gran parte gli aspetti formali e l’apparato amministrativo; non limitano seriamente gli effettivi poteri, i diritti e la discrezionalità della corona imperiale; ancora più lievi sono i limiti che pongono ai poteri di quella prussiana, o alle rivendicazioni dinastiche sulla suprema signoria devolute alla successione al trono prussiano. Anche sotto la costituzione si ha un governo fondato sulla sovranità della corona, non sulla discrezionalità di un organo parlamentare; in altre parole, un governo di assolutismo costituzionalmente mitigato, non di discrezionalità parlamentare temperata dalla monarchia. Nel passaggio dal particolarismo all’Impero non vi fu alcuna mossa rivoluzionaria, paragonabile al mutamento avviato nel Regno Unito dalla rivoluzione del 1688; e se una simile svolta verso una costituzione democratica deve giungere anche per lo stato tedesco, essa sta ancora nel futuro. I

mutamenti introdotti con la costituzione dell’impero, nei limiti in cui sono stati effettivi, erano quelli resi necessari dalla più ampia scala su cui la nuova giurisdizione nazionale doveva operare; e hanno delegato agli organismi parlamentari e locali solo quel minimo di giurisdizione necessario per il controllo e lo sfruttamento del territorio, delle risorse, della popolazione, del commercio e dell’industria, che sorpassava l’effettiva portata della burocrazia più elementare caratteristica del piccolo stato territoriale. La politica economica dell’epoca imperiale ha continuato ad essere del tipo «cameralistico», con gli adattamenti che la dimensione e la complessità moderna degli affari economici rendeva necessario concedere. È vero che sotto l’amministrazione di Bismarck ci fu una percettibile tendenza nella direzione di quei concetti «liberali» che inconsciamente influenzarono le azioni di tutti gli statisti europei per gran parte della seconda metà del secolo; ma questa tendenza, che appariva nella politica bismarckiana in materia di commercio, di colonie e dell’incipiente responsabilità ministeriale, non giunse mai con lui ad alcunché di conclusivo, né era andata tanto avanti da ostacolare in modo apprezzabile gli sforzi dell’imperatore successivo, diretti alla completa restaurazione della sovranità imperiale. L’autorità suprema, nella costituzione imperiale, spetta alla corona, non ad alcun organo rappresentativo, e ciò vale con riserve ancor minori per il governo prussiano che per quello imperiale; ma la Germania, sotto questo aspetto, è stata progressivamente «prussianizzata» durante l’epoca imperiale, mentre la Prussia non si è orientata verso quei regimi di autonomia democratica che reggono il resto dell’Europa del nord e centrale, almeno su basi limitate e provvisorie. La Germania imperiale non si distacca sensibilmente dal modello della Prussia sotto Federico il Grande, per quanto concerne la politica nazionale e i fini e metodi del controllo governativo, né le idee di fondo dei suoi governanti differiscono largamente da quelle diffuse tra gli speculatori dinastici di quella predatoria epoca di formazione di stati. Le differenze interessano soprattutto il meccanismo della politica e dell’amministrazione, ed il loro carattere fondamentale è dettato dall’intento di utilizzare i prodotti dell’industria e del commercio moderni al servizio degli scopi che un tempo piacquero ai pragmatisti di quell’epoca antecedente. Il fatto che tale sia la realtà non deve essere occasione di dispregio. Almeno in questa sede non si vuol sottintendere nulla del genere. Potrebbe essere uno sfavorevole stato di cose, sebbene non siano ancora emerse prove sufficienti di una simile affermazione. Lo si richiama specificatamente qui

perché è uno dei principali fattori nella situazione della Germania imperiale, considerata come una fase dell’evoluzione istituzionale nell’ambito della civiltà occidentale. Questo stadio moderno della tecnica industriale che ha condotto al rinnovamento dello stato dinastico in Germania su una scala superiore a quella possibile in tempi anteriori, questo progresso tecnico non fu prodotto in Germania ma fu mutuato, direttamente o in seconda istanza, dai popoli di lingua inglese; soprattutto, e in ultima analisi quasi integralmente, dall’Inghilterra. Si è insistito sopra sul fatto che gli usi e costumi britannici in materie diverse da quelle tecniche non furono contemporaneamente assimilati dalla società tedesca; con il risultato che la Germania presenta, in confronto all’Inghilterra, un’anomalia, nel senso che essa mostra il funzionamento dello stadio moderno della tecnica, elaborato dagli inglesi, privo della gamma caratteristica di istituzioni e princìpi che si sono sviluppati tra i popoli di lingua inglese in concomitanza con quello sviluppo della tecnica industriale. La Germania combina i risultati delle esperienze inglesi nello sviluppo della tecnica moderna con uno stadio delle altre attività umane più prossimo a quello comune in Inghilterra prima dell’avvento del moderno regime industriale; cosicché il popolo tedesco è stato messo in grado di rilevare l’eredità tecnica degli inglesi senza doverla pagare con le abitudini mentali, gli usi e costumi, introdotti nella società inglese dalle esperienze connesse con la sua realizzazione. La tecnica moderna è giunta bell’e fatta ai tedeschi, senza le conseguenze culturali che il suo sviluppo graduale e il suo uso continuativo ha comportato per i popoli le cui esperienze le dettero l’avvio e determinarono il corso dei suoi sviluppi. La posizione tedesca non è precisamente unica sotto questo aspetto; la stessa definizione vale in generale per le altre nazioni occidentalig, ma non si applica ad alcuna in una misura paragonabile. Il caso tedesco è senza precedenti tra le nazioni occidentali sia sotto l’aspetto della subitaneità, compiutezza e ampiezza del suo impadronirsi della tecnica, sia sotto quello dell’arcaicità delle sue sovrastrutture culturali al momento dell’appropriazione. Non è fuori luogo ricordare, a questo proposito, ciò che è stato detto in un capitolo precedente sui vantaggi insiti nel mutuare le tecniche anziché svilupparle autonomamente. Nel passaggio da una società all’altra gli elementi tecnici mutuati non conservano quel margine di altri elementi culturali che si sono sviluppati intorno a loro nel corso della loro evoluzione e del loro uso. I

nuovi meccanismi si rendono disponibili liberi da tutto ciò che ha sul loro uso un’influenza solo presunta o frutto di convenzioni. Ai livelli inferiori della civiltà questo margine di esigenze convenzionali o presunte, legate allo sfruttamento di determinati strumenti della tecnica, ha soprattutto il carattere di regole magiche o religiose; ma ai livelli superiori, in casi del tipo qui in esame, si tratta con maggior probabilità di convenzionalismi compenetrati nei costumi e in qualche misura nel diritto, di carattere secolare, ma spesso prossimi al carattere coattivo delle norme religiose, come, ad esempio, il requisito di un livello di vita decorosamente costoso. 1. Nelle parole che precedono è possibile individuare una vera e propria carat terizzazione ante litteram dell’avvento di Hitler. Si tenga presente che esse sono state scritte nel 1915. a. Cfr., per es., W. H. DAWSON, The Evolution of Modern Germany, cap. III; inoltre, più estesamente, VON SYBEL3, The Founding of the German Empire, vol. I; e SOMBART, Die deutsche Volkswirtschaft im XIX. fahrhundert, vol. II. 2. Heinrich von Sybel (1S17-1895), storico tedesco discepolo del Ranke, liberalnazionale e filobismarckiano. Il testo citato è del 1889-94. b. Come già suggerito in precedenza, le leggende e le altre manifestazioni del folklore germanico testimoniano della tenacia con cui questo modello arcaico, di piccole dimensioni, di autonomia comunitaria fa presa sulla mentalità del popolo tedesco. Queste leggende sono sopravvissute oscuramente nella tradizione orale tramandata attraverso generazioni di umili idealisti analfabeti, tenuti in soggezione, e certo in fedele obbedienza, sotto il potere coercitivo dello stato dinastico territoriale; ma gli ideali che esse esprimono sono ancora propri di quella vita comunitaria semi-anarchica, che non è più entrata nell’ambito delle esperienze di questo popolo, né in quello dei racconti basati su fatti accaduti, sin da molto tempo prima della fine dell’epoca pagana. Questa situazione delle leggende è ancora più degna di nota se si tiene presente che le trame hanno subito una revisione completa per tutto ciò che si riferisce al culto religioso, in cui la chiesa, la croce, il prete e il monaco si introducono con tutta l’aria di trovarsi a loro agio. Questi che potrebbero definirsi «oggetti di culto» appartengono al modello medioevale o anche moderno, mentre la vita e la struttura politica e sociale sono ancora tipicamente idealizzate secondo il modello precristiano. La conservazione di questo folklore alla buona di tipo arcaico è stata opera delle classi sottomesse. Il corrispettivo complesso delle leggende delle classi dominanti ha un’impronta diversa e più tarda, sebbene anch’esso sia arcaico se paragonato con la realtà contemporanea, dato che si volge nelle sue costruzioni ideali al modello medioevale anziché a quello moderno. c. Le agitazioni del 1848 possono servire a dimostrare il corso degli eventi sotto questo aspetto. Le idee e gli impulsi illuministici della minoranza letterata si combinarono in questa occasione con l’irritazione delle masse illetterate dovuta alle intollerabili condizioni di disagio della vita, con una transitoria sembianza di successo, e con il risultato finale che ambedue le parti del malinteso furono dichiarate colpevoli di ribellione. Sulla base dello stesso criterio, la meticolosa sorveglianza dei guardiani delle anticaglie politiche in uno stato arcaico come la Russia, per esempio, dovrebbe esser considerata come un eccesso di zelo, specie nei confronti della circolazione della letteratura sovversiva, veicolo di idee eccessivamente moderne. Nonostante ogni sforzo, la diffusione delle idee attraverso la stampa si estende poco oltre l’ambito dei lettori di essa; di questi, poi, solo una frazione è seriamente turbata da ciò che legge; e i lettori sono fortunatamente solo una trascurabile percentuale della massa. I modi di pensare estranei che si introducono per questa via senza calpestare il terreno della routine produttiva quotidiana possono sì

far svolazzare i piumati uccelli che stanno appollaiati sui rami più alti dell’albero della conoscenza, ma tutta quest’agitazione resta al di sopra delle teste della moltitudine, il cui sfruttamento ha valore per la classe al potere. Le abitudini mentali delle masse sono il prodotto della routine quotidiana, e purché la routine del sistema non sia sconvolta seriamente esse mantengono la stessa mentalità, in modo che una qualsiasi guardiana di oche le possa condurre tutte contente alle baracche dove vengono spennate. Di contro la sua sostituzione con un nuovo sistema produttivo, comportante una routine quotidiana diversamente orientata, può facilmente generare dei guai seri. Ma, giudicando l’esempio tedesco come una lezione oggettiva, la più saggia precauzione contro un fatale sconvolgimento del sistema del dominio irresponsabile consiste a quanto sembra nell’instillare l’abitudine della lettura fino a fare dell’assimilazione del nuovo ordinamento industriale una faccenda agevole, risultante in un marcato progresso dell’efficienza e delle condizioni di vita, e poi nel contemperare la coercizione con delle lusinghe ben congegnate. La preservazione dell’analfabetismo, e l’esclusione della letteratura sovversiva al fine del mantenimento dello status quo in materia religiosa può essere tutt’altra faccenda. Il turbamento contro cui occorre premunirsi ha in questo caso carattere alquanto superficiale, — un mutamento nella colorazione delle superstizioni correnti — ed è pensabile che gli insegnamenti ereticali possano generare grossi guai anche in assenza di contrasti di carattere tecnico. d. Non dovrebbe esser necessario insistere o dilungarsi oltre per ottenere il consenso alla tesi, ad esempio, che l’analfabetismo è un ostacolo serio, forse decisivo, alla attuale riorganizzazione della società (o delle società) russa, sulle linee del moderno sistema industriale; né si deve nutrire alcun dubbio sul fatto che alla maggior percentuale o alla più ampia gamma di alfabetismo tra i popoli tedeschi o di lingua inglese si debba molta della loro superiore efficienza produttiva. Sotto l’antico regime della produzione artigianale e casalinga l’analfabetismo era al confronto una mancanza insignificante, se mai era una mancanza. e. Il carattere superfluo della istruzione tedesca sotto l’antico regime è senza dubbio connesso con l’assenza di una tecnica su larga scala tale da presentare problemi di ampia portata teorica. L’organizzazione della vita sociale su linee di classe e la sua standardizzazione in termini di supposto valore, autenticità, nascita ed antecedenti ha pure contribuito alla tendenza in favore delle presunte costruzioni teoriche, e all’interesse per la dottrina delle creature e dei personaggi intrinseci, cioè metafisici, piuttosto che per la realtà dei fatti. La generale povertà delle classi, i cui modelli convenzionali di dignità non ne ammettevano l’impiego in occupazioni utili e lucrose, impedì loro di dedicarsi in modo conforme ad una vita di sport e di dissipazione standardizzata, per lo meno in misura tale e con tale diffusione da assorbire l’eccedenza delle classi rispettabili; mentre l’istruzione, essendo una forma di dissipazione alla portata di questa nobiltà molto numerosa e squattrinata, riceve una maggior dose di attenzione da parte loro, e giunse ad esser qui ritenuta con maggior sicurezza come contrassegno di nobiltà che non in Inghilterra, per esempio, e nella stessa Francia. Ma quella istruzione, che è o può essere profittevole, o che riguarda questioni strettamente connesse con la ricerca dei mezzi di sussistenza o con i modi e i mezzi della industria plebea, non può esser propriamente nobiliare, specie in una società ove l’industria ha la tipica natura plebea del lavoro manuale, e dove il lavoro manuale è per convenzione tabù per un gentiluomo. 3. Federico II, re di Prussia (1740-1786); Guglielmo II, imperatore dal 1888 al 1918. f. L’esposizione forse più concisa e pure più illuminante di questa politica economica prussiana, tipicamente perseguita da Federico il Grande, è quella del professor SCHMOLLER4, The Mercantile System (traduzione ristampata negli Economie Classics, ed. Ashley). 4. Gustav von Schmoller (1838-1917), economista, capo del gruppo cosiddetto dei «socialisti della cattedra». Veblen aveva già pubblicato una recensione sul testo di Schmolbr, Über elnige Grundfragen der Sozialpolitik und der Volkswirtschaftslehre (apparsa sul «Journal of Politicai Economy» del giugno 1898) ed un breve articolo dal titolo Gustav Schmoller’s Economics sul Quarterly Journal of Economics

del novembre 1901. g. Si applica con almeno pari rigore al caso del Giappone, che davvero è singolarmente analogo sotto questo aspetto a quello tedesco. Cfr. The Opportunity of Japan, nel «Journal of Race Development», luglio 1915.

CAPITOLO IV. IL CASO DELL’INGHILTERRA Proposta in questo modo esplicito, l’opinione secondo la quale un determinato sistema tecnologico ha un valore economico e un’incidenza culturale, su una società che lo riceve bell’e pronto, diversi dagli effetti che ha già prodotto in quella da cui proviene e in cui è giunto con effetti cumulativi alla maturità, in correlazione con altre modificazioni concomitanti nelle attività umane, — ove sia formulata come generalizzazione distinta, questa opinione può sembrare poco familiare, e forse dubbia. Ma a prescindere dal suo riconoscimento formale in quanto premessa su cui basarsi, essa detiene da tempo la posizione sicura del luogo comune. Quando un simile caso di assimilazione viene all’attenzione degli storici e degli studiosi delle civiltà, il popolo che ha adottato un sistema ad esso non familiare di strumenti di produzione è comunemente definito come «grezzo», «immaturo», «non equilibrato», «grossolano», «sottosviluppato»; mentre, d’altro canto, gli esponenti di tale società con ogni probabilità parlano di essa come «giovanile», «robusta», «incorrotta», «nel pieno della virilità». Il significato, nell’un caso e nell’altro, a parte l’aspetto emotivo dell’antagonismo, è che un popolo del genere da un lato non ha acquisito quegli elementi non materiali della civiltà, quelle mentalità in materie non produttive, che dovrebbero entrare — e che in seguito entreranno — in vigore come il necessario corrispettivo del progresso dell’efficienza tecnica; e, d’altro lato, che il popolo in possesso della appena acquisita efficienza materiale non è stato sottoposto alle abitudini e mode inibitorie e di spreco che nel corso del tempo hanno ingombrato lo stesso patrimonio tecnico tra quei popoli che ne hanno detenuto a lungo l’uso. Non c’è bisogno di disputare con l’uno o l’altro dei punti di vista. Visti come un fenomeno di assuefazione, e cioè di sviluppo degli usi e costumi, sono complementari; sono due prospettive dello stesso panorama. E la differenza tra il caso tedesco e quello britannico, e invero quello degli altri popoli europei industrialmente avanzati, è di questo genere. Il popolo tedesco ha adottato la tecnica moderna senza assimilare gli aspetti gradevoli della moderna civiltà industriale a cui questa tecnica appartiene per

diritto di nascita; ma è almeno altrettanto appropriato osservare che esso ha rilevato questo sistema tecnologico senza i difetti connessi con le sue qualità. In che cosa il caso tedesco resti al disotto del grado di esperienza e maturità civile raggiunta dai popoli di lingua inglese, o, in altre parole, che cosa abbiano evitato i tedeschi tenendosi appartati dalla corrente di civiltà materiale dell’occidente, emerge chiaramente dal confronto con la situazione del popolo inglese nel periodo di questo progresso tecnico. L’origine razziale dei due popoli è la stessa, e i loro antecedenti culturali sono identici per tutta l’antichità, fino alla tarda epoca pagana. Anche nel Medioevo le esperienze rispettive non differiscono abbastanza ampiamente da portare come risultato a civiltà notevolmente diverse. È solo a partire dalla fine dell’epoca feudale che la divergenza comincia a farsi pronunciata, ed è nell’ambito del periodo che inizia con l’era moderna, calcolata secondo la cronologia inglese, che la situazione tecnica ha assunto quei caratteri di modernità che fino ai tempi recenti hanno differenziato il sistema industriale britannico da quello tedesco. Analogamente, proprio nell’èra moderna i modelli culturali inglesi hanno preso a divergere sensibilmente, sotto altri aspetti, da quelli tedeschi. Delle differenze di dettaglio, meritevoli ovviamente di attenzione in ogni attento esame storico, emergono assai presto; e si può ben a proposito farne cenno in questa sede, dal momento che hanno un carattere molto simile alla successiva diversità tra le situazioni dei due popoli, per quanto concerne le linee generali dell’evoluzione culturale. Fin dal periodo delle Migrazioni, gli invasori delle Isole Britanniche sono stati soggetti a circostanze di carattere diverso da quelle che foggiarono le sorti dei loro consimili che invasero quella che è oggi la Madrepatria. Gli invasori pagani della Britannia si trovarono davanti una popolazione cristiana e romanizzata; ciò che significa che i popoli vinti, per tener sottomessi i quali fu in primo luogo instaurata la nuova organizzazione di governo, avevano già appreso la sottomissione e la vita pacifica sotto l’imperio della Pax romana e dei preti della Chiesa. I barbari che si insediarono in Germania, invece, hanno a quanto pare trovato una popolazione meno docile e, presumibilmente, di minor valore economico; contemporaneamente, i vari gruppi barbarici nei territori tedeschi continuarono incessantemente sia a farsi guerra tra loro, sia a mantenere rapporti ostili con l’Impero Romano e con i suoi successori. Cosicché, nonostante la situazione fosse in assoluto tumultuosa nella Britannia del periodo anglo-sassone, essa era in fondo relativamente tranquilla se paragonata con la realtà di sangue, ferimenti, rapine, schiavitù e oppressioni

che costituiva il sistema di vita nella Germania dell’età oscura. Eppure i due paesi emersero dall’esperienza dell’era feudale senza differenziarsi nel modo di vita in maniera così generale e profonda da permettere di dire che essi seguissero due direttrici divergenti di evoluzione culturale. Al momento della transizione dall’epoca medioevale a quella moderna il popolo inglese era arretrato dal punto di vista culturale nei confronti del resto dell’Europa occidentale e centrale, compresa la Germania occidentale e meridionale; ciò vale sia che quell’epoca debba esser fatta risalire alla fine del xv secolo, come ad un qualsiasi periodo precedente, e sia che il raffronto sia compiuto tra l’industria e la civiltà materiale, come in termini di conquiste non materiali dell’intelletto e dell’attività umana. Ma durante il secolo successivo la società inglese compì tali progressi che al termine di esso si trovava (forse con qualche dubbio) alla pari dei suoi vicini continentali. Il progresso britannico avvenne sia in termini assoluti che relativi, e fu dovuto ad un’accelerata progressione dell’isola e ad un rallentamento del ritmo del progresso in gran parte del territorio continentale, sebbene quest’ultimo sia più evidente sul continente durante il XVII secolo che non verso la fine del xvi. In confronto allo stato di cose esistente tra gli stati rivali del continente, la società inglese sperimentò in quest’epoca un periodo di relativo respiro, quanto ad agitazioni politiche, militari e religiose; sebbene si trattasse di un’attenuazione, non di una cessazione totale di queste ultime. Tale periodo è indubbiamente in stretta connessione con il progresso del nuovo commercio, dell’industria e dell’istruzione di quell’epoca classica, in particolare per l’aumentata sicurezza della vita che portò con sé; ed è allo stesso tempo degno di nota come il primo periodo di quella pace britannica che si è mantenuta d’allora in poi, in certi momenti senza dubbio in modo precario, ma in fondo con stabilità sufficiente da differenziare per questo aspetto le condizioni di vita offerte sull’isola da quelle comuni sul continente. Perciò, con certe riserve, le attività pacifiche hanno richiamato la maggior attenzione per tutta l’epoca moderna. Può restar dubbio se si possa o meno con altrettanta sicurezza affermare che le attività belliche e la politica dinastica e religiosa hanno attratto su di sé l’attenzione dei popoli continentali nello stesso periodo; ma, in ogni caso, il contrasto è sotto questo aspetto troppo ampio perché lo si possa ignorare, e troppo profondo per non aver avuto delle conseguenze sotto forma di una evoluzione divergente delle istituzioni e degli ideali che governano i rapporti ed i fini umani. Per i fini che qui interessano questo periodo moderno della vita inglese

può essere diviso in due fasi o stadi, contrastanti per certi aspetti; la prima fase va da una data imprecisata agli inizi del sedicesimo secolo fino all’incirca all’inizio del diciassettesimo, mentre la successiva comincia approssimativamente più avanti in quest’ultimo ed arriva al presente storico. La prima fase, naturalmente, ha la sua manifestazione più caratteristica nell’epoca elisabettiana, anche se solo in un’epoca successiva ci si rende più pienamente conto delle conseguenze culturali di questa. Il punto culminante della seconda è segnato dalla Rivoluzione Industriale, così definita per convenzione, che lascia il segno nella civiltà britannica soprattutto nel diciannovesimo secolo. I criteri e le ragioni per una siffatta suddivisione della storia britannica moderna hanno in primo luogo natura e portata tecnica o industriale. Il primo di questi due periodi costituisce il momento di massima adozione ed assimilazione delle tecniche produttive da parte inglese, e corrisponde quindi in un certo senso all’epoca imperiale tedesca; il secondo dev’essere definito, in un particolare senso, come un’epoca creativa nella vita inglese, che ha originato il sistema tecnologico attuale, caratterizzato e dominato dall’industria meccanizzata, e che finora non trova il suo corrispondente nella storia del popolo tedesco. Di conseguenza, parrebbe esservi un divario di circa tre o quattro secoli tra le esperienze vissute dalla società inglese e quelle che contribuiscono a formare l’ingegno nazionale del popolo tedesco. Se accolta senza riserve, questa tesi rappresenta senza dubbio un’esagerazione. Le necessarie riserve da fare sono ovviamente d’obbligo, ma tutt’altro che facilmente riconducibili a una precisa proposizione; in particolare sarebbe difficile presentare riserve esprimibili in termini quantitativi, di tempo o di qualsiasi altra dimensione. Per quanto concerne l’argomento qui in discussione — e cioè le contrapposte esperienze precedenti e la conseguente diversa inclinazione abituale delle due società — il divario non si riduce ricordando che mentre gli inglesi sono stati sottoposti al condizionamento della vita sotto un regime che gradualmente si modernizzava, i tedeschi accumulavano sempre nuove e più severe esperienze dell’antico ordinamento. Ancora una volta, per evitare possibili malintesi, sembra necessario preavvertire che non si intende fare alcun raffronto antagonistico nel far risaltare il contrasto tra le esperienze, e quindi le risultanti consuetudini, che sono toccate ai due popoli contrapposti. Non risulta che le une siano migliori o peggiori delle altre, a meno che non siano valutate per fini specifici, su una

base convenzionalmente concordata di merito o di convenienza; l’asserzione che si cerca di dimostrare è tutta contenuta nelle parole «qui c’è un divario». Naturalmente, dal punto di vista della moderna civiltà occidentale esistente nei paesi industriali avanzati, questo divario è valutato come uno sviluppo intellettuale arrestato da parte tedesca; ovviamente, non un’atrofia né una tara ereditabile, ma semplicemente un’inclinazione abituale discorde dagli ideali, i fini e gli umori della più recente umanità civilizzata, quali li intendono quei popoli che si sono più allontanati dal medievalismo; non un carattere della natura umana in senso sostanziale, ma solo la seconda natura dell’uso e della tradizione. Tale maggiore allontanamento dai capisaldi della mentalità medievale è stimato un bene o un male, come è ovvio, a seconda del punto di vista da cui si abbia la bontà di guardare; tutto si risolve quindi in una questione di gusto, nei cui confronti ogni discussione è inutile. Gli scrittori moderni che hanno trattato questo periodo della storia inglese in una prospettiva ampia e di spontanea genialità sono portati a considerare l’Inghilterra elisabettiana come un’epoca culturalmente autosufficiente, che derivò il suo sviluppo dalle forze vitali racchiuse nei suoi limiti storici; e questa è senz’altro una opinione adeguata a quella stagione esuberante di realizzazioni britanniche per quanto concerne le conquiste della nuova scienza, le imprese belliche e commerciali dell’epoca, e i rapidi e sicuri progressi della letteratura, purché si limiti la propria attenzione a queste opere fruttuose e al loro motivo immediato, nell’abbondante esplicazione di energie che le creò. Ma l’Inghilterra elisabettiana non è, così come non lo è la Germania imperiale, un episodio che si verificò per caso. Come l’epoca imperiale tedesca, quella elisabettiana derivò da una situazione che essa portò alle sue estreme conseguenze, da una nuova disposizione delle forze materiali che condizionavano la vita e gli sforzi della società. Ed inoltre, alla pari del corrispondente episodio tedesco, questa nuova disposizione delle forze economiche è in gran parte il frutto delle nuove conquiste della tecnica, per lo più importate dall’estero. La prima parte dell’epoca Tudor, che precedé il periodo elisabettiano vero e proprio, segnò l’inizio del movimento tendente a portare l’industria inglese alla pari dei paesi vicini del continente, che continuò per la maggior parte del regno di Elisabetta. Questo movimento si occupava soprattutto di importare procedimenti, meccanismi, lavoratori e metodi, e di adattare accortamente tutto ciò alle necessità e agli usi della società insulare. In questa operazione gli inglesi goderono dei vantaggi di cui in simili casi fruisce ogni importatore.

Essi adottarono ciò che conveniva loro e senza le restrizioni convenzionali connesse con gli elementi mutuati nei paesi d’origine. Questi elementi convenzionali erano quelli caratteristici del sistema artigianale, con i suoi regolamenti statutari e di gilda, e gli usi, le vie e i metodi prestabiliti del commercio su piccola scala che appartenevano a quel sistema. Nella lista dei nuovi acquisti una voce non trascurabile è costituita dalle costruzioni navali e dall’arte della navigazione, che gli inglesi appresero dagli olandesi. Un effetto immediato, anche se secondario, del rilancio del sistema industriale — un rilancio che è meglio espresso in termini di miglioramento ed innovazione che non di ripresa da capo — è la (virtuale) scoperta di risorse rese disponibili dalla nuova posizione assunta dalle forze produttive, e la conseguente libertà con cui queste nuove risorse furono messe a frutto. Nuove ed ampie possibilità si offrivano, in contrasto con la situazione precedente, e queste potenzialità d’iniziativa, come sempre, fungevano da stimoli all’iniziativa nei confronti della situazione degli affari; iniziativa che come sempre portò con sé i suoi effetti cumulativi di prosperità. La ricchezza disponibile aumentò di utilità sotto lo stimolo delle nuove possibilità di una sua utilizzazione profittevole; e gli uomini nelle cui mani stava il potere discrezionale in materia industriale videro davanti a sé delle possibilità che la loro fede in esse rendeva da parte loro realizzabili, con iniziative avventurose ispirate dalle stesse nuove prospettive. È la storia familiare a tutti gli studiosi della prosperità ciclica nel commercio e nell’industria — periodi di aumento, con effetti cumulativi, della fiducia, di progresso della speculazione, di elevata vivacità degli affari, d’espansione, d’inflazione, o qualsiasi altro termine scelto come antitesi di depressione — ed il principale elemento caratteristico di questo particolare periodo di prosperità sta nel fatto che esso trae origine dall’acquisizione di una nuova efficienza, dovuta a quella che era in pratica una scoperta di nuove risorse tecnologiche, secondata dall’altra concomitante scoperta per cui le risorse naturali disponibili aumentavano di valore per l’industria grazie al loro più largo uso nel nuovo sistema produttivo; un’ulteriore caratteristica sta nel progressivo procedere di questa virtuale scoperta di energie attraverso un considerevole periodo di tempo, tale che nessuna fase di stagnazione, dovuta all’esaurimento dell’impulso, subentrò a quest’epoca di prosperità e d’iniziativa per tutta la durata della generazione che per prima ricevé slancio dal suo impulso. Sotto questo aspetto il caso della Germania imperiale è parallelo, sebbene

la maggior dimensione e ritmo della sua acquisizione del nuovo sistema industriale, uniti al più rapido procedere del commercio e dell’impresa industriale moderni, hanno a tal punto abbreviato la corrispondente esperienza tedesca da compri mere entro la durata di una generazione la parabola dal primo impulso al culmine, che fa riscontro a quella che interessò gli inglesi per oltre un secolo. Questo ritmo così diverso deriva dal diverso carattere della tecnica meccanizzata a paragone del sistema artigianale e del suo commercio su piccola scala. Vi è un’altra caratteristica estranea del caso, la quale distingue anch’essa questo periodo d’iniziativa inglese da quello tedesco. Lo sviluppo del nuovo regime industriale in Germania ha avuto luogo durante un mezzo secolo di pace e di iniziativa industriale in progresso in tutte le nazioni della cristianità, fatta eccezione per perturbazioni sostanzialmente insignificanti ed effimere, cosicché le imprese tedesche furono costrette a farsi strada contro la concorrenza di altri paesi industriali che erano già in posizione di superiorità; mentre l’Inghilterra elisabettiana deteneva il vantaggio differenziale conferitole in materia dal fatto che il resto della cristianità era in quel momento coinvolto in guerre di distruzione, e quindi impegnato in una prolungata stagione d’incapacità industriale e di decadenza economica, che, per buona fortuna della società industriale inglese, si abbatté con eccezionale severità sui suoi rivali industriali e commerciali più capaci. Seguì il prolungato periodo di creazione di stati sul continente, che coinvolse l’Europa cristiana, con la parziale eccezione delle Isole Britanniche, in interminabili campagne militari e intrighi politici, portò al crollo della grande epoca delle imprese commerciali della Germania del Sud, e si chiuse in un collasso per esaurimento. Questo progressivo, quasi ininterrotto decadimento economico del mondo cristiano continentale conferì agli inglesi un tale vantaggio differenziale, sempre meglio mantenuto nel commercio e nell’industria, che, nonostante tutte le agitazioni fomentate in patria, la popolazione insulare conservò la preminenza che le peculiari circostanze del sedicesimo secolo le avevano attribuito; e così, nonostante dei rovesci di secondaria importanza — alcuni dei quali di grandi dimensioni in assoluto — si può dire che la prosperità inaugurata dall’epoca elisabettiana è continuata, con minor vigore, per i duecento anni successivi, riallacciandosi alla nuova epoca introdotta dalla Rivoluzione Industriale del diciottesimo secolo. Gran parte del merito di questo periodo di diffuso successo materiale, bisogna ammetterlo, va ascritto non tanto a favore de gli inglesi quanto a

sfavore dei loro vicini continentali. Il grande vantaggio degli inglesi stava nel loro isolamento facilmente difendibile, che li lasciava in relativa pace; e nelle ambizioni dinastiche e nel fervore patriottico e religioso degli stati continentali, che li portarono all’estremo limite del disordine economico e della decadenza industriale, lasciando così liberi gli inglesi di fare uso, in modo discutibilmente efficiente, di un’opportunità senza precedenti e irrecuperabile. Per quanto concerne i loro interessi economici ed il progresso tecnico, al periodo che va dall’avvento di Elisabetta alla fine dell’epoca napoleonica può essere, per i popoli cristiani del continente, attribuita l’intestazione: Gli anni che la locusta ha mangiato. Per gli inglesi la metà centrale dello stesso periodo è occupata da un pigro progresso per inerzia. Ma il tempo concesso agli inglesi per l’acquisizione delle conoscenze tecniche della cristianità continentale, e per il loro sfruttamento senza impedimenti, è superiore al corrispondente periodo concesso alla Germania imperiale di circa sei volte, e il ritmo indotto di utilizzazione e transizione al nuovo sistema dev’essere stato corrispondentemente moderato. Il nuovo sistema di assuefazione nelle attività materiali ha di conseguenza avuto più adeguate possibilità di produrre le sue conseguenze, sotto forma di una revisione delle abitudini mentali della società in altre materie; le istituzioni tecniche inserite nel modello di vita hanno imposto il loro condizionamento alla popolazione, la quale si abituò alla pratica della nuova situazione economica, e ne hanno indirizzato il pensiero in altri settori in armonia con la struttura mentale innata del sistema industriale. Il sistema che gli inglesi assimilarono ed elaborarono ulteriormente era quello artigianale e del commercio su piccola scala, e la struttura mentale congenita o normale per esso è quella che sostiene l’autosufficienza e la uguaglianza delle possibilità di partenzaa. Questo penetrante condizionamento delle occupazioni produttive e del modello di interessi e regolamenti incorporati nel sistema operò lentamente, con una spinta misurata ma massiccia e costante, nel senso dì instillare nel popolo inglese uno spirito di giustizia democratica e di non-intromissione, di autosufficienza e di autonomie locali; il quale giunse al culmine sul piano politico con la rivoluzione del 1688, e continuò a dirigere il corso delle opinioni durante la successiva elaborazione di un sistema di diritto comune basato sulla metafisica giusnaturalistica. Un effetto del progresso inglese nel sistema protomoderno di artigianato e autosufficienza fu perciò, tra gli altri, il crollo dell’autocrazia e la decadenza

della sorveglianza coattiva da parte di autorità autocostituitesi. A seguito della redistribuzione del potere discrezionale e dell’iniziativa in materia economica, conseguente al nuovo sistema industriale e da esso imposta, l’antico spirito di insubordinazione riprese vigore negli affari della società, portò al primo posto dell’arte di governo gli interessi materiali e l’iniziativa dell’individuo, mutò il «suddito» in un ce cittadino» e giunse quasi a ridurre lo stato ad una condizione di (innocuo disuso», facendone un ufficio per l’amministrazione della pubblica quiete e il regolamento della giustizia tra interessi privati. Questo sostanziale allontanamento dai confini dell’antico regime dinastico non ha mai portato ad un risultato compiuto, né la proliferazione del Diritto Naturale inglese si è mai perfezionata in un sistema di anarchia regolamentata, secondo il modello preistorico, anche se qualche digressione teorica in quella direzione ha fatto la sua comparsa di quando in quando. La vasta dimensione e la complicata organizzazione della industria e del commercio moderni, e l’onnipresente ombra delle contese internazionali non hanno permesso una simile eventualità. Tutto ciò ha richiesto del tempo: del tempo, perché il condizionamento del regime industriale e commerciale producesse la riassuefazione del popolo e il graduale riadeguamento delle concezioni legali e morali alle condizioni operative del nuovo modello. Il riadeguamento senza dubbio avvenne in parte in modo ben considerato, grazie ad un preciso tentativo di creare specificazioni statutarie e norme d’autorità adatte alle esigenze della industria e del commercio nuovi, e di livellare le relazioni civili e politiche in termini idonei a tali esigenze. Questi tentativi non furono del tutto coronati da successo. Essi si basavano in gran parte su concezioni ereditate dal sistema precedente, invece che su consuetudini di pensiero instillate dalla esperienza del nuovo. Questi primi tentativi delle autorità costituite di standardizzare e regolare la nuova situazione economica non ebbero né un valore pratico proporzionato né effetto permanente. Diverso discorso va fatto per le successive misure statutarie ed amministrative che ben presto originarono dalla nuova situazione, sotto forma di ciò che si potrebbe definire un precipitato psicologico delle nuove esperienze. Ed un valore sostanziale ancor maggiore va attribuito alla revisione delle prospettive in materia di interessi morali, giuridici o intellettuali, che in gran parte è entrata in vigore negli usi e costumi correnti e negli standards e canoni di valutazione contemporanei in queste materie, senza che ciò comportasse necessariamente il suo concretamente in norme

statutarie od in altre forme autentiche. Lo stesso vale per la religione, l’arte — specialmente la letteratura — la filosofia, la scienza e le norme delia correttezza e della fedeltà. Una simile evoluzione richiede del tempo. Essa consiste in una assuefazione e nella graduale rimozione delle abitudini mentali acquisite. Princìpi di questo genere, come quelli della valutazione e della condotta, non si acquisiscono o eliminano in una generazione; né si impongono bruscamente per decreto, anche se senza dubbio una loro strenua e ben congegnata applicazione d’autorità può accelerare considerevolmente il processo di assuefazione per mezzo del quale devono essere acquisiti o rimossi. Ma anche la vigilanza autoritaria meglio congegnata è relativamente impotente a promuovere lo sviluppo di libere istituzioni o di quella che si può definire la libertà di pensiero, quali caratterizzano l’evoluzione inglese durante il periodo in esame. Que ste libertà, essendo prodotte dal riemergere dell’antico spirito d’insubordinazione e d’iniziativa, non possono essere sostenute da misure di tipo coercitivo. Non è necessario in questa sede, e sarebbe anche più noioso, esporre in maniera dettagliata ciò che è accaduto al culto religioso e ai suoi concetti teologici di base, soggetti al prolungato condizionamento di quel sistema moderno di lavoro e autosufficienza. I risultati hanno variato lungo tutta la scala dell’autenticità e della devozione, salvo l’alta dignità da cui la nuova deviazione si allontanava, e il mosaico di varianti dissenzienti autonome e clamorose è tale che nessuna persona dal gusto educato alle convenienze devote vi potrebbe insistere di buon grado. La filosofia ha seguito la scia della ritirata della religione, come del resto le si addiceva, dato che la filosofia al massimo può esser l’ancella della teologia; cosicché la tipica opera filosofica inglese dell’epoca moderna è stata di orientamento scettico nel suo complesso, e fondata in gran parte sui princìpi dell’interesse proprio e della utilizzabilità per i fini dell’uomo, con premesse e precetti morali fortemente impregnati di concetti utilitaristici e pragmatici, per non dire materialistici. Lo spirito della fedeltà ha sofferto un’analoga riduzione a termini inferiori. Non che il suddito britannico dell’epoca moderna non sia stato fedele alla comunità, ed anche, all’occasione, al sovrano ed alla dinastia; ma più di una volta è stato dolorosamente dimostrato, sia all’interno dell’isola che nelle colonie più importanti — come, ad esempio, nelle tredici che formarono gli Stati Uniti, — che la fedeltà del suddito britannico al monarca regnante o alla corona è condizionata alla utilità di tale obbedienza nei confronti dei suoi

propri interessi materiali. Una fedeltà che solleva la domanda, in cambio di che cosa?, rimane molto al di sotto dell’ideale feudale e di quello spirito di abnegazione entusiastica che ha sempre costituito il fondamento di un prospero stato dinastico. La fedeltà britannica, se proprio non la si può stigmatizzare come «fedeltà quando il tempo è buono», dal punto di vista della politica dinastica non è affatto un articolo facilmente commerciabile nel suo genere. È troppo temperata dall’insubordinazione. Ancora una volta il caso inglese differisce da quello della Germania imperiale. Questa diversa disposizione nei confronti della lealtà alla dinastia, o anche allo stato, tra il popolo inglese e quello tedesco si palesa fondamentalmente come una manchevolezza da parte inglese. Gli inglesi sono manchevoli dal punto di vista del sacrificio di sé e dell’abnegazione per la causa della politica dinastica, del vantaggio della casa regnante e della sua burocrazia patrizia. In confronto con l’ingenua solidarietà patriottica del popolo tedesco, la fedeltà inglese potrebbe perfino esser definita un’insubordinazione mitigata, piuttosto che una fedeltà temperata dall’interesse proprio. Eppure si tratta più di una differenza di gradazione che di genere. Gli inglesi sembrano aver perso un qualcosa nel corso di questi secoli, che i tedeschi hanno mantenuto o anche rafforzato — qualcosa come un abbandono abituale della deferenza verso la maestà dello stato e le pretese del sovrano. C’è minore devozione nelle prospettive e negli umori abituali degli inglesi. Rimane ancora, senza dubbio, un buono e utilizzabile residuo di quella onorevole ossequiosità nella struttura mentale usuale degli inglesi; ma ha tutto l’aspetto di essere un residuo abbandonato, in un certo senso, per inavvertenza, ed anche ciò che ne rimane è soggetto ad un limite di tolleranza imposto da un ripensamento rivolto al proprio interesse. La deficienza degli inglesi, paragonati ai tedeschi sotto l’aspetto della solidarietà e sottomissione dinastica, deriva dalle divergenti evoluzioni, dovute a più di un fattore. Quando le due direttrici iniziarono a divergere, al momento della transizione dal sistema medievale a quello moderno, gli inglesi erano già meno dotati sotto questo riguardo dei loro amici del continente. Il medievalismo non si sviluppò mai altrettanto bene in Inghilterra, mentre la sua affermazione nei territori tedeschi ebbe un carattere particolarmente aspro e combattuto. Dopo l’inizio della nuova epoca, la fedeltà agli ideali dinastici e la sottomissione alle pretese del sovrano hanno perso terreno in Inghilterra, a causa delle condizioni relativamente pacifiche ivi prevalenti; nello stesso tempo questa consuetudine mentale ne ha guadagnato, anziché perduto, in

Germania, particolarmente per le forme più aspre e truculente di fedeltà alla persona del regnante, provocate dallo strenuo e continuato condizionamento, a mezzo di minuscole im prese guerresche, a cui questo popolo è stato sottopostob, — ciò è particolarmente vero per il Nord, dove la dominazione personale e l’obbedienza servile hanno sofferto in minor misura, date le condizioni meno stabili, della menomazione subita altrove a seguito dell’istituzionalizzazione dei diritti di possesso conseguiti mediante il valore militare. Ma la caratteristica più singolare della civiltà inglese dell’epoca moderna, e nello stesso tempo il più tipico elemento di distinzione tra il modello inglese e quello tedesco per tutta l’epoca moderna ed oltre fino alla metà del diciannovesimo secolo, è in fondo l’interesse predominante degli inglesi verso la realtà materiale. «Realtà», in inglese, significa esistenza materiale, sempre che e nei limiti in cui la persona che usa il termine non presti attenzione deliberatamente al suo più ampio significato; per trascuratezza più che per intenzione ostile, il concetto ha subito questo restringimento del suo significato da parte dei popoli moderni di lingua inglese. Questa tendenza materialistica nella struttura mentale inglese culmina nella «concezione meccanicistica» come è stata definita da coloro che hanno avuto occasione di tentare una più precisa definizione analitica di questa consuetudine di pensiero. La concezione meccanicistica e il relativo punto di vista hanno, ovviamente, chiara natura e portata tecnologica. Essi emergono con un approccio graduale che interessa tutto il periodo moderno: il culmine è stato raggiunto solo nel presente storico, — se è giusto dire che esso è stato già raggiunto, e non piuttosto che quello che nella nostra prospettiva attuale ci appare essere il culmine, si manifesta tale solo perché è il punto più avanzato finora raggiunto in tale direzione. Durante i pochi secoli dell’epoca moderna la spinta in tale direzione si è mantenuta con tale grado di continuità che, dal punto di vista della posizione raggiunta nelle fasi successive, la concezione meccanicistica si presenta come un fine verso il quale tende il condizionamento della vita moderna. In tutta questa tendenza della moderna vita intellettuale verso una base materialistica di valutazione e verso il ricorso ad una logica meccanicistica nella trattazione dei fenomeni, il popolo tedesco non ha avuto alcuna parte degna di nota, né ha giocato un ruolo o fornito un contributo appena apprezzabile. Una eccezione a questa opinione largamente negativa va senza dubbio concessa nei confronti dei popoli sud-germanici per la prima metà

dell’epoca moderna, ma tale eccezione vale con un vigore progressivamente minore anche durante il periodo in cui si applica; vista semplicemente di per se stessa, e non dal punto di vista del suo culmine ulteriore che non raggiunse mai, sarebbe difficilmente valutata come tale. Eccettuata questa prima fase moderna — diciamo, all’incirca, il sedicesimo e forse il diciassettesimo secolo — la tendenza intellettuale del popolo tedesco è stata diretta piuttosto ad allontanarsi dallo spirito materialistico, anche se forse in misura non pronunciata. Entro i confini generali della Madrepatria il condizionamento della vita quotidiana attraverso questi secoli ha avuto nel complesso un carattere personale, tale da imporre alla ribalta dell’attenzione abituale qualità e relazioni immateriali, e da condurre a valutazioni differenzianti l’autenticità, la dignità, la casta, la classe, i precedenti e le precedenze; essa è stata, in grado eccezionale, l’esperienza della corte, dell’accampamento militare, della burocrazia e della polizia, invece di quella dell’assemblea municipale, del mercato aperto e della pubblica via, — ancor meno è stata influenzata dall’officina meccanica e dalla grande industria. La tendenza intellettuale e i princìpi del pensiero sistematico instillati da tali esperienze non sono paralleli alla concezione meccanicistica, ma piuttosto rientrano nell’ambito di quella più elevata gamma di consuetudini di pensiero che sono definite idealistiche, spirituali, trascendentali; le quali conducono a generalizzazioni e assunzioni in categorie immateriali ed ulteriori, — trascendentali nel senso che ricercano la precisione e la definitività facendo ricorso a concetti che trascendono le reali percezioni dei sensi. Non si verifica qui un contrasto radicale tra inglesi e tedeschi, attraverso questo primo periodo formativo dell’epoca moderna, rispetto alla consuetudine che ha plasmato la vita intellettuale della cristianità. Ambedue rientrano nei confini della civiltà cristiana e nella gamma di interessi culturali che sono, almeno in linea di principio, moderni, in paragone a quelli medievali. Ma rappresentano i due termini estremi, o le estremità, entro tale complesso culturale, per quanto riguarda la vita intellettuale del mondo cristiano e, in particolare, quegli elementi della civiltà che hanno un ruolo di rilievo nella conformazione contemporanea delle istituzioni moderne. Come si è già avuto occasione di osservare, si tratta di una differenza di grado, che sta nella diversa accentuazione dell’uno o dell’altro dei diversi fattori in gioco nella vita di ambedue; ma è oiù opportuno trattare tale divario in termini di contrasto, dal momento che l’argomento della ricerca è la diversità e non l’identità tra i due.

A parte i fattori intrusivi, che hanno avuto un effetto poco più che transitorio e superficiale, e a parte il periodo iniziale dell’epoca moderna, dunque, la vita intellettuale del popolo tedesco ha preso la direzione conferitagli dai condizionamento della vita nella Madrepatria qual è stata descritta sopra. Un’attenzione relativamente scarsa, con effetti relativamente molto ridotti, è stata dedicata alle scienze della materia o alle discipline tecnologiche di tipo meccanicistico, — fino alla data in cui i risultati conseguiti dagli inglesi (e dai francesi) in tali campi cominciarono a far presa, per mezzo dei vantaggi assimilati, intorno all’inizio del diciannovesimo secolo. Il pensiero e la ricerca tedesca assunsero quello che è stato definito un carattere più profondo, nel senso che l’attenzione si volse abitualmente a elaborazioni sistematiche ulteriori e trascendentali delle conoscenze disponibili, e ad una ricerca di verità nel campo dello spirito, vale a dire in termini razionalizzati di forza personale e di coerenza intellettuale; la razionalizzazione portava l’impronta del regime di dominio e di sottomissione, di ordinata soggezione ad un modello di valori convenzionali imposto come autentico. Il culmine, come è ovvio, è la metafisica tedesca della scuola romantica, tracciata su linee di coerenza logica anziché di connessione tra causa ed effetto, che raggiunse il suo risultato ultimo nel dominio supremo, quasi panteistico, di una personalità trascendentale. Il pensiero tedesco culmina in un modello panteistico (con certe riserve) di categorie logiche e di imperativi morali; mentre la corrispondente evoluzione inglese, per quanto concerne l’argomento in questione, tende fortemente ad un modello ateistico, ed alieno da nozioni morali, di dati di fatto opachi e impersonali. Quell’opera dello spirito umano, come componente delle consuetudini tedesche, è definita «più nobile», «più profonda» — un’affermazione che non va discussa, dal momento che tale differenziazione è antagonistica e che si tratta di una questione di gusto e di prospettiva. Con tutto ciò, la tendenza caratteristica della vita intellettuale dei popoli del mondo cristiano moderno, in confronto con quelle predominanti altrove ed in altre epoche, è lo spirito rappresentato dalla concezione meccanicistica. Ciò può costituire un assai dubbio titolo di merito della cristianità moderna, ma resta il fatto che solo a questo punto quella civiltà ha sorpassato le precedenti civiltà conosciute. Si deve anche osservare che questo spirito è giunto ad una tale posizione di dominio nella moderna vita intellettuale solo grazie alla sua efficienza pratica, alla sua corrispondenza alla realtà dei fatti; come pure che sono stati soprattutto i popoli di lingua inglese ad attribuire alla concezione

meccanicistica la sua posizione dominante nella logica del pensiero moderno; il che equivale a dire che essa è un risultato dell’andamento dell’assuefazione a cui la società inglese è stata soggetta fin dall’inizio dell’epoca moderna. La concezione è chiaramente di genere tecnologico, e questo fatto caratterizza la civiltà moderna, in cui predomina, come una civiltà il cui nucleo sostanziale è lo stadio della tecnica produttiva, in modo ancor più ovvio ed immediato di quanto una tale tesi si applicherebbe a qualsiasi altra civiltà conosciuta. Ma la sua matrice tecnologica si trova nello stadio tardo-moderno della tecnica, che ha prevalso dalla Rivoluzione Industriale in poi, più che nel sistema industriale dell’epoca moderna antecedente a quel periodoc. Il modo in cui questa correlazione tra gli usi e costumi tecnologici da un lato, e i princìpi fondamentali della ricerca scientifica dall’altro si realizza nella moderna vita intellettuale, come pure la presumibile relativa sequenza di causa ed effetto sono già stati esposti altrove in un profilo che è sufficiente ai nostri finid; sarebbe inutile ripetere tutto ciò in questa sede. L’esposizione a cui ci si riferisce descrive in generale il corso dei fatti in questione, come una fase della civiltà occidentale nel suo complesso, ma non si interessa specificamente delle circostanze che hanno fatto di questa evoluzione un’opera dei popoli di lingua inglese, più che del resto dell’Europa. Cosicché resta ancora qualcosa da dire intorno alle circostanze particolari del caso inglese, che portarono a tale evoluzione nell’isola anziché altrove, e che influenzarono le modalità della sua espansione. La circostanza prima e decisiva, la causa causans delle altre circostanze aventi un’incidenza sulla situazione, è l’insularità dell’isola. Dalla posizione insulare della società inglese derivò il fatto che il sistema feudale non si stabilì e non si perfezionò altrettanto bene in Inghilterra, e che lo «stato dinastico» non si mantenne in una forma altrettanto coercitiva e funzionale né durò altrettanto, o si trascinò così a lungo, come sul continente, privo com’era in certa misura degli stimoli e delle opportunità necessarie fornite dalle ricorrenti guerre con l’estero; la situazione dell’industria, incluso il sistema artigianale, era in uno stadio arretrato al momento della transizione al regime moderno; ed il sistema artigianale, avendo avuto sull’isola vita più breve, non raggiunse mai lo stesso grado di elaborazione, specie rispetto ai regolamenti di gilda. L’intero organismo politico, civile e industriale era formato di un tessuto più allentato, e offriva quindi un ambiente più pronto ai cambiamenti e più aperto all’iniziativa individuale. È notorio che l’insubordinazione e l’affermazione individuale di sé si manifestavano nell’epoca moderna iniziale alquanto più

facilmente, con minor bisogno di incitamenti, sull’isola che non sul continente, come pure che concessioni in quella direzione da parte dell’autorità erano più consuete. Successivamente questa situazione insulare continuò ad avere effetti nello stesso senso sugli interessi della società; il fatto principale era un sistema di vita relativamente pacifico, promotore di un ulteriore, graduale indebolimento del governo personale e di un declino della vigilanza burocratica, congiunto ad una tendenza a spostare l’interesse e l’attenzione dal patriottismo militaristico e dalla politica dinastica alle attività pacifiche, ad un crescente interessamento per l’industria e il commercio al posto della guerra e della politica. L’industria che attrasse le meditazioni quotidiane dell’uomo comune era di tipo ovviamente artigianale, in Inghilterra come altrove in quell’epoca. Ma nell’assenza — assenza relativa o minore pressione — di altri, più elevati ed idealistici canoni della logica e categorie di generalizzazione l’inglese ordinario — ed essi erano in gran parte persone ordinarie, simili alle altre — meditava su qualunque cosa attraesse la sua curiosità basandosi sull’aiuto delle categorie abitualmente presenti alla sua mente e sull’uso della logica, il cui valore gli era stato insegnato dalle sue occupazioni quotidiane. Queste categorie, imposte dalla routine quotidiana consistente nel procedere con le proprie forze in un sistema basato sui mestieri artigiani, erano quelle dell’abilità manuale, e la logica che l’inglese solitamente portava con sé, grazie all’identica esperienza quotidiana, era quella del processo produttivo e del dare e avere del piccolo commercio. Per il fallimento del condizionamento appropriato al conformismo differenziato verso convenzioni di prestigio immateriale e di lustro invisibile, l’inglese aveva perso molto di quel coercitivo senso della distinzione dove non c’è alcuna differenza sensibile, che è rimasto uno degli ornamenti del suo consimile continentale. Egli si è calato, attraverso generazioni di persone comuni, in una mentalità materialistica, ed il suo materialismo ha preso forma dalle operazioni produttive che interessavano la routine della sua esistenza e dai beni sui quali si incentrava il suo interesse nella propria sussistenza, oltre che dalle meticolose cifre di pesi e misure e prezzi sulle quali si eccitava nel «tirar sul prezzo del mercato». Queste questioni, ed altre del genere, le poteva capire; la loro logica era, per ininterrotto condizionamento, di valida applicazione a qualunque cosa entrasse nell’orizzonte dei suoi interessi; e ben poche cose vi entravano se non nella guisa di dati materiali, o almeno di dati suscettibili di essere esposti in termini palpabili di pesi, di misure e di qualcosa che servisse da valutazione

del prezzo. In una simile struttura mentale, la successione degli eventi è vista come una concatenazione di dati sensibili, in cui l’azione a distanza non ha alcun posto o valore, ed in cui è vano cercare una «ragion sufficiente» che non possa esser formulata in termini percettibili di pesi e di misure. In effetti, in siffatta compagnia un’argomentazione su basi impalpabili di ragion sufficiente è meno convincente di una scommessa — quest’ultima è per lo meno suscettibile di formulazione statistica in unità monetarie standard del reame. Di contro, la logica dell’abilità manuale scorre sul saldo e percettibile terreno del contatto manuale, dell’alterazione tangibile dei materiali su cui si opera; una causa che «produce» percettibilmente un effetto tangibile è un qualcosa che rientra nell’orizzonte metafisico del più comune materialista. È su questo sfondo di mestiere, e alla fredda luce delle statistiche della contabilità commerciale, che gli scienziati della nuova epoca vedono i fenomeni che in breve tempo cominciano ad attrarre la loro curiosità ed impongono loro di trovare un’intelaiatura per rendere sistematiche le loro conoscenze. Così si verifica che quando la ricerca scientifica ha inizio nella società inglese essa cerca cause efficienti, e le trova in una forma che rievoca continuamente un’abilità manuale artigianale. Non che questa sia una scoperta nuova e non provocata degli inglesi; in tutte le precedenti esposizioni sistematiche della conoscenza sono presenti elementi analoghi; ma nei sistemi più nobili o idealistici che risalgono ai fondamenti personali della teologia, della metafisica, della magia e simili — come, ad esempio, i sistemi degli scolastici e la successiva mistica (tedesca)e e gli alchimisti dell’epoca moderna inizialef — questo principio (abitudine di pensiero) della causa efficiente in forma manuale è presente solo in modo oscuro e in buona parte inconfessato, anche se diffuso in tutta l’argomentazione. Né la nuova epoca sotto auspici inglesi rivendica il diritto di priorità in materia; questi più recenti ricercatori di cause fisiche cercano sostegni dovunque sia possibile e ne trovano in molti luoghi, perché il principio è esso stesso una delle più antiche e incorreggibili consuetudini metafisiche della razza. È solo che in questa nuova epoca sotto gli auspici degli inglesi comuni il postulato metafisico della connessione manuale tra causa ed effetto si fa strada fino ad essere alla ribalta della ricerca, e in difetto di princìpi più elevati, a seguito della loro caduta in disuso, rimane in piedi come la categoria unica e autosufficiente di sistematizzazione conclusiva nel campo della conoscenza. Gli italiani, quando fu il loro momento, quando il

mestiere e l’iniziativa privata avevano creato tra loro abitudini di ricerca materialista, e prima che la persecuzione ecclesiastica e la guerra delle fazioni riportassero quella società sotto la smorta, religiosa luce dell’ortodossia e della fedeltà, — gli italiani si erano dati alla stessa ricerca quotidiana e ne avevano ricavato delle materie prime smerciabili sullo stesso mercato; così pure i francesi, gli olandesi e i tedeschi del sud, nei momenti in cui condizioni analoghe produssero un similare orientamento dell’interesse puro in queste società. Ora, quando venne la volta degli inglesi, essi usufruirono di ciò che era stato elaborato — e che si stava ancora elaborando — altrove, anche se le circostanze decisero che la società inglese dovesse in breve assumere il ruolo di guida. In breve, per gradi impercettibili, un’ulteriore nuova fase venne iniziata, o si iniziò, quando la tecnica artigianale sorpassò i limiti dei suoi metodi caratteristici e cominciò ad allentare il tessuto delle sue peculiari abitudini mentali di mestiere. All’in-circa all’inizio del diciottesimo secolo il ricorso a espedienti tecnici comportanti procedimenti fisici estensivi e di ampia portata, «meccanismi che risparmiano manodopera», e meccanismi produttori di movimento, comincia ad assumere proporzioni tali da introdurre una sorta di scienza delle macchine nel sistema tecnologico; e poi, in breve, a inserire questo nuovo metodo di approccio verso i problemi dell’efficienza industriale tra gli elementi intrinseci dello stadio della tecnica. Questo nuovo fattore, o piuttosto questo fattore antico che comincia ora ad assumere proporzioni tali da avere un suo peso nella conformazione del sistema tecnologico e della prospettiva intellettuale da esso introdotta e ad esso subordinatag — questo fattore emerge sotto aspetti quali l’aumento della dimensione e della elaborazione meccanica del naviglio, unitamente ad un’arte della navigazione resa sistematica e basata su calcoli: il miglioramento delle grandi strade (e delle vie fluviali) e dei veicoli, con la conseguente riduzione dei modi e mezzi di comunicazione e di trasporto ad un affare reso meccanicamente sistematico; l’aumentato uso di ruote idrauliche, di mulini a vento e similari meccanismi produttori di movimento; l’estensione e la determinazione sistematica dei processi agricoli, insieme con una cura razionale e deliberata, dedicata al miglioramento delle razze degli animali domestici. Tuttavia, è solo quando il secolo è già avanzato che questa intrusione nel sistema produttivo di elementi estranei al più semplice spirito dell’artigianato vero e proprio raggiunge proporzioni tali da influenzare manifestamente lo stadio della tecnica e da far pensare che una sorta di nuova gamma di princìpi

di efficienza sia cominciando a prendere il posto dell’antica, così che la «tecnica meccanica» non sia più sicuramente sinonimo di abilità manuale. All’incirca si può dire che il primato tra gli usi mentali costituenti il sistema tecnologico sia passato dall’abilità manuale alla scienza delle macchine durante il terzo quarto del secolo, — almeno così appare nella prospettiva conferita alla materia dall’evoluzione successiva in tale direzione; può esser dubbio se qualcuno sarebbe stato d’accordo con questa affermazione partendo dal semplice punto di vista della situazione qual era in quel momento, senza esser influenzato dal successivo corso degli eventi dell’industria meccanicah. Solo grazie ad un esame retrospettivo questo periodo è stato chiamato la Rivoluzione Industriale, ed anche in questo caso la rivoluzione è stata valutata per convenzione in termini di «meccanismi risparmiatori di manodopera», come un sistema di mezzi e procedure per (facilitare e abbreviare» le operazioni manuali del lavoro artigianale. Ma, visto alla luce di ciò che ne è derivato, il carattere tecnologico della rivoluzione industriale non può essere malinteso se non intenzionalmente. La sua efficienza non è quella di un lavoro artigianale specializzato ma quella di un processo in cui sono impegnati dei fattori meccanici. Eppure al principio, o più propriamente nelle fasi iniziali dell’epoca dell’industria meccanizzata, i concetti di base con cui gli ideatori e i progettisti dei nuovi meccanismi intraprendevano la loro opera erano di tipo nettamente artigianale. Nelle prime progettazioni di macchine il loro fine consapevole era di riprodurre con mezzi meccanici le operazioni manuali artigianali su una scala, un ambito o un ritmo accresciuti. Ciò non vale, come è ovvio, in settori come le costruzioni navali, la navigazione, l’ingegneria delle costruzioni stradali o l’allevamento di bestiame; ma questi, mentre trovano oggi il loro posto nel più ampio sistema della tecnologia meccanica vista ex post facto, e rientrano manifestamente nel campo delle concezioni meccanicistiche, non erano a quel tempo concepiti come ramificazioni della tecnologia dell’epoca delle macchine. Le innovazioni tecnologiche che per prime, e per lungo tempo da sole, si imposero all’attenzione come tali e in quanto differenziavano il nuovo dall’antico, erano gli strumenti definiti come macchine nel senso più stretto, — la progettazione di tali nuove apparecchiature fu dapprima ispirata da concetti di base artigianali, e solo gradualmente, impercettibilmente, gli inventori e i progettisti si liberarono dalle concezioni personalizzate dei processi industriali e giunsero a risolvere i loro problemi meccanici nella logica dei fattori e procedimenti meccanici operanti nel caso, anziché in quella

delle operazioni manuali che questi procedimenti avevano rimpiazzato. Come sempre, l’assuefazione richiese del tempo; e fu a quanto pare necessaria la scomparsa della generazione che era stata la protagonista attiva del decisivo ingresso nel mondo dei processi meccanici, prima che la logica della concezione meccanicistica potesse insediarsi saldamente almeno nei modi abituali di pensiero degli uomini che si occupavano dei dettagli concreti del procedimento meccanico. Le norme e le categorie della scienza, secondo le quali il contemporaneo complesso delle conoscenze doveva essere reso sistematico, essendo di più remota derivazione dalle esperienze della vita quotidiana, subirono la trasformazione con maggior ritardo rispetto ai concetti di base dei tecnologi; ma, derivando anch’esse dalla stessa routine quotidiana, la trasformazione le avrebbe raggiunte necessariamente, se solo tale routine quotidiana avesse conservato il suo carattere in modo ab bastanza uniforme e durevole perché il suo condizionamento avesse effetti conclusivi. Così si osserva che gli uomini di una o due generazioni susseguenti alla Rivoluzione Industriale, dediti alla ricerca scientifica, continuavano a concepire le loro sistematizzazioni ancora in termini di cause efficienti, aventi un aspetto molto simile a delle astrazioni dal caso del tipico artigiano che ha a che fare con una certa quantità di materiali grezzi e che li trasforma in un prodotto finito, — e vi è inoltre più di un’allusione di passaggio agli antichi ordinamenti di gilda nell’irrefrenabile concepimento di Leggi Naturali atte a dirigere la sequenza di causa ed effetto, nelle meditazioni teoriche di quelle prime generazioni di ricercatori scientificii. Ma lentamente, in modo inarrestabile e senza responsabilità di alcuno, la concezione meccanicistica che costituisce il nucleo intellettuale efficiente della moderna tecnica industriale ha insinuato la sua logica nel campo della conoscenza in generale; in prima istanza, com’è ovvio, in quello della scienza della materia, ma in breve tempo anche tra quegli spiriti indagatori che meditano su cose più elevate. Praticamente nella stessa misura e con lo stesso grado di generalità con cui la tecnologia delle macchine ha rimpiazzato il lavoro manuale e sviata l’attenzione dalle preoccupazioni di osservanze rituali e di regole coercitive, così pure la concezione meccanicistica ha soppiantato i concetti basilari del collegio della divinità e di quello dell’araldica nella logica delle teorie scientifiche. Sempre con l’ovvia riserva che la seconda evoluzione è conseguente e condizionata dalla prima, e perciò si muove nella stessa direzione con marcato ritardo. In tutta questa analisi del caso inglese si è assunto con una libertà

ingiustificata che lo stadio della tecnica abbia operato senza ostacoli verso una completa assuefazione in termini materialistici e meccanicistici; e che abbia in tal modo prodotto uno spirito pressoché universale di autosufficienza, e di logica meccanicistica, senza alcun residuo di deferenza verso le convenzioni autenticate dall’antico regime di privilegio, e senza alcun riguardo verso le persone. La realtà è chiaramente diversa, com’è ovvio, ma in confronto a ciò che è capitato al popolo tedesco nello stesso periodo storico le caratteristiche salienti della civiltà distintamente britannica, e anzi della civiltà di tutti i paesi industriali avanzati, sono state tutto considerato di quel tipo. Ma in tutte queste società, forse non ultimo il caso britannico, sono sopravvissuti dei residui del passato assai sostanziali, a dir poco, del modello di usi e costumi che precede l’avvento della tecnologia delle macchine e che non discende da essa né è della sua stessa specie. Chiesa, stato e nobiltà sono ancora presenti con forza effettiva; ma non è necessario qui analizzare più da vicino il ruolo di questi fattori nella moderna vita britannica, almeno nei limiti in cui la storia è ancora scritta, per antica tradizione, nei termini offerti da queste categorie di antichità trasmessa, e la quotidiana notorietà fornisce ogni necessario richiamo e riferimento alla loro parte nel risultato. Il loro ruolo nell’evoluzione della civiltà è stato fondamentalmente di tipo conservatore. D’altra parte si è sviluppato dallo stesso nuovo regime industriale, in parte come diretta conseguenza del suo carattere tecnologico, e in una parte maggiore attraverso usi e costumi condizionati dalla sua efficienza produttiva, un ampio margine di usanze, convenzioni, diritti acquisiti, canoni di equità e di correttezza, che non sono parte del nuovo stadio della tecnica, ma che tutto sommato non possono esser facilmente separati da esso o dal suo sfruttamento da parte della società di cui è opera. Per buona parte queste convenzioni e canoni hanno l’effetto di impedimenti al funzionamento del sistema industriale, o di diminuzioni della sua efficienza netta. Nel caso inglese, come nel resto d’Europa, da tempo immemorabile i diritti di proprietà hanno ricevuto la sanzione del diritto e del costume; e in Inghilterra questi diritti sono stati meno indeboliti che nel resto d’Europa dal fatto che lo stato si sia arrogato un diritto superiore di sfruttamento. Negli anni del sistema artigianale, così come, in modo anche più pronunziato, dopo l’avvento dell’industria meccanizzata, l’industria è stata amministrata su una base finanziaria e al fine del profitto finanziario. Ma con il progresso dell’efficienza produttiva e l’aumen tata dimensione delle operazioni e dei rapporti di mercato, l’impresa economica che ebbe inizio sotto la forma di un

«piccolo commercio» e servì da ancella alla produzione artigianale, è divenuta nel corso del tempo la padrona del sistema industriale, proprietaria dell’attrezzatura industriale, e in potenza unica beneficiaria dell’efficienza tecnica della società, dotata di piena discrezionalità nel dirigere le operazioni produttive per i suoi propri fini di lucro. Così che le conoscenze e la competenza tecnica conseguite dalla società nel corso dell’epoca moderna servono in primo luogo, per diritto di proprietà, al profitto finanziario degli uomini d’affari al comando, e solo in seconda istanza contribuiscono al benessere del popolo. Questo stato di cose, naturalmente, non è peculiare al caso inglese, se non per la più completa misura e garanzia di discrezionalità che è conferita giuridicamente e consuetudinalmente ai proprietari, e per la relativamente vasta e permanente efficienza industriale della società inglese, che ha offerto tempo e spazio per uno sviluppo di conseguenze sussidiarie più ampio in questo paese che altrove. Queste conseguenze sussidiarie dell’amministrazione del sistema produttivo inglese diretta al profitto privato rientrano in due categorie generali: quelle che interessano l’industria (produzione) e quelle che interessano il consumo della produzione; le prime obbediscono al principio della concorrenza, le seconde a quello dello sciupio vistoso — altrimenti detto il tenore di vita. Un terzo fattore, l’inerzia degli usi e costumi, entra in gioco per influenzare poderosamente ambedue queste categorie, per lo più nel senso di rafforzarle, e nello stesso tempo ha di per sé seri effetti sull’efficienza del sistema produttivo, — particolarmente nel senso di ostacolare l’iniziativa e di ritardare le innovazioni nei mezzi e nelle procedure industriali. In tutte queste diverse direzioni vi è una sorta di espansione sistematica, che è condizionata dalle possibilità offerte dalla situazione e che richiede del tempo così per produrre risultati maturi come per l’abbandono delle usanze in questione nel caso che un simile indirizzo dovesse divenire opportuno ed urgente. Gli effetti produttivi delia direzione degli affari, o meglio quelli che si possono definire i suoi effetti «organici» sul sistema industriale, non sono tutti dannosi all’efficienza produttiva, anche se quasi tutti quelli che necessitano di tempo e di assue fazione per un adeguato sviluppo hanno tale natura. Essi sono ben noti, in modo generico; anzi sono materia di notorietà quotidiana, ma sono pure legati così intimamente con gli immemorabili diritti di proprietà e con il sistema dei prezzi da essere — forse giustamente — accettati come cosa ovvia, come un elemento naturale della situazione economica. Il più ovvio è forse il sistematico operare in contrasto reciproco, dovuto alla concorrenza di

mercato, in cui lo scopo di ogni contendente è di accaparrarsi il profitto, e forse di servire incidentalmente il benessere materiale della comunità. In determinate, e non rare, circostanze questa situazione può avere tali sviluppi che il profitto finanziario degli uomini d’affari al comando è perseguito più efficacemente con strumenti che sono di detrimento al benessere materiale della comunità — come, per esempio, l’uso delle sostanze adulteranti e di surrogati non genuini, quali il panno ricalato dagli stracci, la produzione e vendita di panacee e bevande non salutari, di abitazioni, strade, veicoli, e apparecchi per uso domestico pericolosi e insalubri, l’impiego di macchinario pericoloso, di elementi e procedimenti velenosi nell’industria, e simili. Questi discutibili strumenti di profitto sono con il passar del tempo integrati in modo più completo e penetrante nel modello industriale e commerciale; in tali faccende si impiega grande ingegnosità e molte industrie affaristiche arrivano con il passar del tempo ad avere un preciso interesse alla conservazione ed alla negligente tolleranza di questi «abusi», come talvolta vengono definiti. Vengono subito dopo in ordine di notorietà, se non di importanza, i frequenti periodi di inattività, di disoccupazione o semi-occupazione degli impianti e delle forze di lavoro, dovuti alle esigenze di mercato. Queste difficoltà sono accresciute dall’espansione della società industriale e dei suoi rapporti di mercato in un vasto e complesso sistema in cui predomina una larghissima dimensione di interdipendenza delle diverse parti e dei diversi fattori, dovuta, in ultima analisi, alla specializzazione e suddivisione dei procedimenti industriali secondo le regole della tecnologia meccanica, ed al fatto più immediato e decisivo che le diverse industrie sono dirette allo scopo del profitto privato in termini di prezzi. La disoccupazione di questo tipo è sempre dovuta a considerazioni di prezzo. Da simili considera zioni concorrenziali di prezzo, e di profitto in termini di prezzo, è derivato il fatto che gli interessi del datore di lavoro non coincidono con quelli dei lavoratori. Questa divergenza di interessi è stata negata con loquacità, e senza dubbio un qualche credito va attribuito a una simile loquacità. La realtà dei fatti è tuttavia ben nota; da un lato, i lavoratori non hanno alcun ardente interesse nell’efficienza del lavoro compiuto, quanto piuttosto in ciò che ne possono ricavare in cambio in termini di prezzo; dall’altro il datore di lavoro ha tutt’altro che un interesse umanitario — che si dice essere affatto secondario — nel benessere o anche nel mantenimento dell’efficienza dei lavoratori. Dal che derivano da una parte direttive sindacali restrittive, scioperi, serrate, e analoghe perturbazioni del processo produttivo, e dall’altra uno sfruttamento

della materia grezza umana dell’industria che in certi casi ha assunto aspetti e indirizzi assolutamente vessatori, sotto forma di eccesso di lavoro, di salari insufficienti, di condizioni rischiose e contrarie alla salute, e così via. Nel caso inglese, specificamente, questi «abusi» si sono notoriamente spinti lontano, hanno richiesto, come pure è ben noto, del tempo per svilupparsi appieno, e richiederanno tempo e sforzi per la loro correzione. Perciò, per prendere un esempio dalla moltitudine, e solo per esemplificare spassionatamente il funzionamento del principio concorrenziale nell’impiego dei lavoratori subordinati, è dimostrato a sufficienza che durante i circa cento anni iniziali del nuovo regime industriale in Inghilterra le condizioni di lavoro, di paga e di mezzi di sussistenza erano concorrenziali a tal punto da produrre una considerevole popolazione di lavoratori «depauperati», abbastanza danneggiati nel fisico da trasmettere le loro debilitazioni alla prole, così da lasciarla idonea in modo dubbio a qualsiasi uso efficiente, «fino alla terza e alla quarta generazione»j. Connessa con il sistema concorrenziale della direzione affaristica è la moderna iniziativa nelle tecniche di vendita. L’espansione dei metodi di vendita procede storicamente in correlazione con quella della direzione d’affari; invero nell’evoluzione tardo-moderna e in quei settori imprenditoriali che entrano in largo contatto con il mercato, e tali sono gran parte delle imprese industriali su basi affaristiche, le tecniche di vendita sono destinatarie della metà o più dello sforzo e dei capitali spesi da una qualsiasi determinata azienda commerciale. Il costo delle tecniche di vendita, compresa la pubblicità e similari avventure di evidenziazione, ammonterà non di rado ad assai più della metà del prezzo della merce al consumatore, raggiungendo in certi casi i tre quarti, i nove decimi, o perfino il cento per cento meno una frazione trascurabile. Quanto più ampia, complessa e ricca di capitali (cioè diretta con sufficienti mezzi, su una dimensione tale da render possibile l’opportuna specializzazione delle funzioni entro l’azienda data), in breve quanto più perfezionata in senso moderno diviene la situazione degli affari, tanto maggiore è la proporzione delle spese aggregate che nel complesso spetta alle tecniche di vendita. La spesa per i metodi di vendita è uno spreco quasi assoluto, se valutata in termini di utilità al benessere materiale della società nel suo complesso. Sarebbe azzardato congetturare fino a che punto sia completamente sprecata, ma la detrazione da rare per quelle tecniche di vendita che servono a fini complessivamente utili è in ogni caso di entità trascurabile. Eppure le tecniche

concorrenziali di vendita e gli altri espedienti strategici della concorrenza commerciale hanno la stessa natura della direzione affaristica dell’industria, e i limiti alla loro espansione sono definiti solo da ciò che i traffici consentono — accordando loro del tempo per una più matura evoluzione in queste direzione. Ciò che i traffici consentono è, in ultima analisi, questione del numero di persone e dell’entità dell’investimento di capitali che possono esser mantenuti, a livelli cosiddetti di «sussistenza» di salari e profitti, con il margine esistente tra il minimo necessario per la sussistenza degli uomini e degli impianti impiegati nell’industria produttiva e il valore del prodotto totale della stessa industria. Dato un livello di sussistenza dei profitti sul valore capitalizzabile degli impiantì e un salario di sussistenza per i lavoratori occupati, nulla se non il tempo necessario per il riassetto osta a che le tecniche di vendita assorbano tutto ciò che rimane. Ma il riassetto necessario richiede del tempo, e poiché il modello tecnologico, e di conseguenza le attrezzature materiali, sono in continuo mutamento, e il volume e la distribuzione della popolazione che deve servire da mercato per la produzione smerciabile sono anch’essi mutevoli, solo in paesi d’industrializzazione relativamente antica l’iniziativa e gli investimenti nelle tecniche di vendita possono esser portati, con un grado tollerabile di approssimazione, al limite di ciò che i traffici consentono; ed anche in questi casi, perfino in una società altamente commercializzata come il Regno Unito, l’iniziativa nei metodi di vendita non è mai finora pervenuta a tale limite, anche se colà è giunta senza dubbio notevolmente più vicina ad esso che in qualsiasi altro dei paesi, d’industrializzazione più recente, che oggi rientrano nell’ambito della tecnologia meccanica. Il contrasto con la situazione dei nuovi venuti tedeschi è abbastanza evidente. La «svalutazione per obsolescenza» è una voce di una certa importanza nella contabilità della moderna società per azioni, ed anche una fonte di irritazione e perplessità per gli uomini di affari che hanno a che fare con impianti industriali. La sua prima, più semplice manifestazione è riscontrabile nella sostituzione concorrenziale di un’ apparecchiatura o procedimento con un altro più vantaggioso. Le disamine di tale svalutazione spesso non vanno oltre questo punto nell’analisi dell’obsolescenza, sebbene i casi più interessanti, e anche i più inquietanti e disastrosi, si trovino più oltre e derivino da cause di più ampia portata che non i dettagli dei ritrovati meccanici. L’obsolescenza dei dettagli, mediante innovazioni tecnologiche che modificano il vantaggio differenziale goduto da un’azienda nei confronti dei

suoi concorrenti nello stesso settore industriale, non ha di solito effetti dannosi sull’industria nel suo complesso o sull’efficienza o il benessere della società in generale; la svalutazione è solo concorrenziale e ha il solo effetto di una diminuzione dei profitti finanziari di un’azienda a paragone di un’altra. La società in generale, o il particolare settore industriale, ne guadagna in efficienza grazie all’innovazione. Ma lo stesso non vale nei casi di quella che si può definire obsolescenza «sistematica», che può derivare da un mutamento di circostanze dovuto all’espansione della società industriale (o anche alla sua decadenza) o a mutamenti nel lavoro da compiere oppure nella distribuzione della popolazione da occupare o di quella destinataria dei prodottik. L’obsolescenza di questo tipo è una questione di espansione ed è sempre in corso in ogni società in cui lo stadio della tecnica stia subendo mutamenti di grado notevole; tanto più a lungo è durata l’espansione della situazione tecnologica, tanto più inevitabile è la svalutazione. Un sistema industriale che, come quello inglese, è da lungo tempo impegnato in perfezionamenti, ampliamenti, innovazioni e specializzazioni, si è affidato in passato, più di una volta e sotto più di un aspetto, a quelli che erano in quel momento una adeguata dimensione delle attrezzature e un consono inventario di procedimenti e di regolazioni dei tempi. In parte per la sua stessa espansione, e ad opera delle innovazioni tecniche concepite per ampliarne la dimensione o elevarne il ritmo della produzione o del funzionamento, le correlazioni acquisite nell’industria e negli affari, e così pure le attrezzature prestabilite, sono rese superate. Eppure non è affatto facile trovare un rimedio; in particolare è difficile trovarne uno che si dimostri valido in termini di affari per una comunità di uomini d’affari conservatori, detentori di un interesse finanziario nella prosecuzione del funzionamento del sistema acquisito, e che (di solito) non sono comunque dotati di molto acume in questioni di tecnologia. Ne consegue logicamente che finché l’obsolescenza in questione non origina alcun marcato vantaggio differenziale per uno, o per un gruppo di questi uomini d’affari nei confronti delle aziende concorrenti, nessuna contromisura viene ricercata. Contromisure adeguate mediante innovazioni di dettaglio non sono sempre applicabili; anzi, nelle più serie congiunture del genere sono virtualmente impossibili, nel senso che è obiettivamente necessario che le nuove partite di attrezzature siano conformi alle specificazioni già in vigore per le vecchie. Così, per esempio, è ben noto il fatto che le ferrovie della Gran Bretagna, come quelle di altri paesi, sono costruite con uno scartamento troppo ridotto,

ma, sebbene questo caso di «svalutazione per obsolescenza» sia conosciuto da tempo, esso non è stato oggetto di alcuna considerazione, neppure nel senso speculativo più geniale, come difetto rimediabile. Allo stesso riguardo osservatori americani, e di recente anche tedeschi, sono stati molto colpiti dagli assurdi vagoncini a coda corta usati nel traffico merci britannico, i quali erano sufficienti a suo tempo, prima che il traffico ferroviario americano e tedesco raggiungessero un minimo di funzionalità, ma che hanno nella migliore delle ipotesi l’aspetto di uno scherzo se paragonati con le esigenze odierne. Eppure il rimedio non è una semplice questione di buon senso; le installazioni delle stazioni d’arrivo, le rotaie, gli scambi per lo smistamento, e tutti i mezzi e le procedure per spostare i carichi su questo che è il più antico e completo sistema ferroviario sono tutti fatti su misura per il vagone a coda corta. Così, ancora, le massicciate e il materiale rotabile, come anche le macchine, sono costruiti in modo sostanzialmente idoneo per smaltire quel traffico che era richiesto al momento in cui entrarono per la prima volta in servizio, e non è facile un riadattamento pezzo per pezzo alle esigenze successive. È forse vero che dal punto di vista della società in generale e del suo interesse materiale, le attrezzature e l’organizzazione antiquata dovrebbero essere profittevolmente scartate — «mandate all’ammasso», secondo l’espressione colloquiale — e sostituite integralmente da apparecchiature più recenti; ma tali questioni sono decise necessariamente dalla discrezionalità degli uomini d’affari, e l’intera faccenda ha un valore diverso se vista alla luce dell’interesse finanziario concorrenziale degli uomini d’affari al comando. Quest’esempio del sistema ferroviario britannico e delle sue particolari deficienze è tipico dell’attrezzatura e dell’organizzazione industriale britannica nel loro complesso, sebbene forse l’obsolescenza non sia per lo più né così ovvia né di tale gravità in molti altri settori. Città, linee ferroviarie, fabbriche, porti, abitazioni furono collocati e costruiti in modo da venir incontro alle esigenze di uno stadio della tecnica che è oggi in certa misura obsoleto, e sono perciò, tutte insieme e singolarmente, «irrilevanti, non competenti e non pertinenti» nella stessa misura in cui il modello tecnologico si è allontanato da quello che era quando questi accessori furono installatil. Sono stati tutti migliorati, «perfezionati», adattati per esser all’altezza delle mutate esigenze in qualche modo passabile; ma il significato principale di questo lavorio di miglioramento, adattamento e restauro sotto questo riguardo sta nel fatto che esso dimostra una fatale riluttanza o incapacità di superare questa

onnipervasiva svalutazione per obsolescenzam. Tutto ciò non significa che i britannici abbiano peccato contro i canoni della tecnologia: ma solo che stanno pagando l’ammenda per il fatto di essere stati posti nel ruolo-guida e quindi di aver indicato la strada. Nello stesso tempo non si deve immaginare che questo ruolo-guida non abbia prodotto altro che sofferenze e penalità. Le deficienze di questa situazione industriale britannica sono visibili soprattutto per contrasto con quella che essa potrebbe essere, se non fosse per l’effetto frenante, di manomorta, delle realizzazioni passate, e da ultimo per l’ulteriore contrasto con i risultati conseguiti dal nuovo venuto, il popolo tedesco, utilizzando l’erudizione tecnologica inglese. Così com’è il bagaglio tecnico accumulato, sia materiale che non, sotto forma sia di strumenti meccanici disponibili sia di conoscenze tecniche che hanno impregnato la popolazione e che sono disponibili per l’uso, è tutto sommato di valore molto considerevole; anche se l’esempio dei tedeschi dovrebbe render chiaro che sono le seconde, cioè il bagaglio immateriale, che hanno nel complesso importanza primaria, e non l’accumulazione nelle proprie mani dei «mezzi di produzione». Questi «mezzi di produzione» costano solo del lavoro; il bagaglio immateriale della competenza tecnologica ha il prezzo dell’esperienza di un’intera epoca. Non s’intende, com’è ovvio, che tutto questo valga per ciò che è correntemente definito come capitale accumulato, cioè investito nell’industria. Quest’ultimo ha un significato relativamente ridotto per la società in generale. Il capitale in questo senso, il capitale d’affari, nella sua totalità non significa quasi altro che una pseudo-somma di titoli di proprietà differenziati sullo sfruttamento delle attrezzature industriali, materiali e non. Indubbiamente si verifica per i britannici, così come per qualsiasi altro paese commercialmente progredito, che il totale dei capitali reso pubblico dalle statistiche ufficiali sorpassa di gran lunga il complessivo valore di mercato dei beni materiali di cui si presume, quale ultima risorsa contabile, che quei «valori cartacei» costituiscano un titolo di proprietà. Tale è necessariamente la situazione di ogni paese che faccia largo uso del credito e delle società organizzate su base azionaria nella condotta degli affari. Il condizionamento dell’industria meccanizzata, se visto solo nella sua incidenza diretta, ha un certo carattere impersonale e presumibilmente non conduce alla stabilità o all’allargamento del governo personale. Esso inculca il dovuto apprezzamento impersonale, e in questo senso imparziale, della portata dei processi meccanici, anziché la subordinazione agli ordini discrezionali di

un superiore personale. Per quanto concerne le relazioni tra la massa dei lavoratori e gli elementi tecnologici con i quali il loro lavoro li mette in contatto, la mentalità instillata dall’assuefazione ai moderni metodi industriali dovrebbe favorire una tendenza individualistica nelle relazioni sociali e una insofferenza del governo autoritario; e tale sembra essere stato nel complesso il genuino effetto del tirocinio imposto dalla moderna vita industriale fino ad un periodo relativamente recente. Ma non appena entra largamente in vigore il controllo finanziario dell’industria, che diviene il fattore principale nell’organizzazione e nella direzione degli affari industriali, la discrezionalità perso naie ritorna ad occupare una posizione preminente. L’autorità della proprietà, imposta mediante la pressione del danaro, assume un carattere coercitivo che diviene sempre più esteso e inevitabile con l’ampliamento delle dimensioni dell’industria e degli investimenti. Nelle più recenti situazioni di grandi dimensioni quest’autorità padronale ha la tendenza, tipica della tirannia irresponsabile, a mantenere duramente le distanze, mentre non ha alcuno dei tratti geniali che possono mitigare anche un dispotismo spietato. La subordinazione che essa impone ha un carattere torvo, tutt’altro che entusiastico, e che tende sempre più ad una infedeltà piena di rancore via via che il sistema di controllo affaristico diviene più esteso e si fissa su linee più rigide. Così nel caso inglese l’alienazione tra le due classi, i lavoratori e i loro padroni, è quasi completa per tutto ciò che concerne la conduzione del sistema industriale. Il risultato è in ultima analisi un condizionamento ad una subordinazione di un certo tipo, ad una azione concertata e ad una solidarietà su linee classiste. E tale addestramento all’azione concertata ed alla comunità di interessi e di convinzioni lascia il popolo ancor più soggetto al controllo di massa, e maggiormente suscettibile di essere indirizzato in massa in un senso o nell’altro in appoggio di un’autorità nazionale e dell’ accrescimento di coloro nel cui interesse è esercitata l’autorità costituita. In Inghilterra il senso di solidarietà nazionale, e l’appoggio a politiche nazionali che non hanno alcun valore materiale per il cittadino comune, sono stati manifestamente in miglior stato di ripristino negli ultimi due o tre decenni che non in precedenza, quando le società del tipo azionario da un lato e le organizzazioni sindacali dall’altro avevano appena cominciato a portare il contributo del loro condizionamento per foggiare i sentimenti popolari. Appare da questo esempio inglese che le abitudini mentali introdotte dal condizionamento di una determinata situazione economica non sono

necessariamente tali da condurre al miglior funzionamento del sistema in vigore, o da corrispondere allo interesse materiale della società che dall’uso di tale sistema ricava l’esistenza; in altre parole, i princìpi e canoni di condotta che emergono dal funzionamento di qualsiasi dato sistema di mezzi e procedure, di qualsiasi dato modello di vita, non sono tali da con tribuire necessariamente all’efficienza del sistema stesso o alla prosperità della popolazione. Tutto ciò è questione di coincidenze fortuite, come alcune superficiali considerazioni sulla natura dell’assuefazione dimostrano agevolmente. C’è, in ogni tempo, una sorta di possibilità, che è nella maggior parte dei casi una ipotesi molto razionale, che i princìpi (abitudini mentali) inculcati, diciamo, dalla vita sotto un determinato stadio della tecnica, siano alquanto in contrasto con le condizioni di vita rese possibili da quest’ultimo, — fatta eccezione solo per quelle abitudini mentali che hanno natura tecnologica, le quali fanno parte dello stadio stesso della tecnica. Un’ampia eccezione a questa tesi si registra laddove il modello tecnologico, e quello concomitante che regola le altre attività umane, si sono dimostrati idonei a quel determinato popolo mediante la prova selettiva fornita dal loro prosperare nelle condizioni culturali della prima fase della storia di tale popolo, quando questo assicurò la propria sopravvivenza in quanto specifico tipo umano. Nei confronti del popolo britannico, come degli altri della regione Baltico-Mare del Nord, ciò significherebbe che l’evoluzione degli usi (princìpi, istituzioni) provocata dalla vita moderna ha presumibilmente carattere avverso, salva la misura in cui il suo indirizzo tende verso un ripristino del modello culturale prevalente nel Nord Europa in epoca neolitica; e sembrerebbe che essa sia tanto più avversa, nel complesso, quanto più diverge da tale indirizzo. Insieme all’evoluzione degli usi e costumi regolanti il sistema produttivo, con i loro concetti di base, interessi consolidati e con un’attrezzatura industriale oggi di carattere alquanto arcaico, ha proceduto in parallelo un’evoluzione di usi e costumi di consumo, con usanze, standards, prevenzioni che non sono meno stabilite e autoritarie delle convenzioni regolanti l’industria e gli affari. Queste convenzioni di consumo possono esser classificate insieme sotto la voce livello di vita, come di solito si usa nella terminologia degli economisti; sebbene nel suo uso tecnico il termine non si riferisca ad un livello di benessere fisico, così come potrebbe far credere il suo significato etimologico. Esso esprime piuttosto il livello di consumi, quale che sia la base su cui i consumi sono stati livellati, e comprende di solito voci che

non han no alcun rapporto, o almeno alcun rapporto intenzionale, con il benessere fisico del consumatore. Una grossa proporzione, forse la maggior parte di ciò che viene compreso nel livello di vita di ogni classe, sia essa ricca o povera, rientra sotto la categoria teorica dello sciupio vistoson, che include il consumo di tempo e di energie come pure di sostanze. Secondo un ben noto frammento della saggezza proverbiale, può esser perdonata la mancanza di moralità ma non quella delle buone creanze. I canoni di correttezza, cioè di conformità alle convenzioni, sono come le leggi dei Medi e dei Persiani — non si piegano, e non ammettono circostanze attenuanti. Com’è spesso accaduto nei casi di codici semplici e rigidi, la penalità per il trasgressore è la messa al bando, che può comprendere o meno, come un dovere incombente a tutta la gens de bien, la persecuzione e la estirpazione del contravventore. Di solito, per il normale andamento delle piacevolezze di vicinato nell’ambito della comunità, la risultante lista di ostracismi si evolve in una stratificazione sociale, in cui i singoli trovano il loro posto grazie ad una «consapevolezza di genere» che li porta al contatto e alla cooperazione con le persone di analoghe abitudini in fatto di educazione e di analogo livello in fatto di spese correnti, come pure grazie alla esclusione dai livelli di agiatezza a cui essi non appartengono. Il risultato complessivo non consiste in nulla di più grave di un predominio dell’irritazione e dell’invidia tra le classi e dell’emulazione e denigrazione tra gli individui. Nel caso in cui il divario tra gli usi e costumi relativi al consumo di tempo e di sostanze, e ai connessi dettagli delle maniere e dell’educazione, sia considerevole e consistente, e divida due società culturalmente distinte, il risultato è una situazione di estraneità tra le due, che può in seguito a lievi provocazioni raggiungere tale tensione da provocare omicidi e cercar rifugio in ostilità internazionali. L’animosità patriottica si basa di solito su questo fondamento sentimentale di convenzionalismi offesi ed offensivi. I più abili statisti dinastici e i più sagaci strateghi del patriottismo commerciale non sarebbero capaci di produrre una situazione di massacri internazionali tra le persone civili se non fosse per l’animosità quasi-virtuosa che deriva da siffatte divergenze di «civiltà». Ora, si dà il caso che quest’evoluzione di usi e costumi nei confronti di ciò che è ritenuto decoroso e lodevole nel consumo di tempo e di beni, e nel contegno e nelle osservanze che vanno debitamente incluse nel rituale di tale consumo, abbia prodotto effetti chiaramente diversi nella società britannica ed anche nelle società di lingua inglese in generale rispetto a quello che è stato il

relativo effetto contemporaneo tra i popoli continentali; particolarmente diversi da quelli prodotti sul popolo tedesco che ha, per questo aspetto come per tanti altri, conservato in misura maggiore virtù convenzionali inculcate da una fase più arcaica della civiltà materiale. Di qui una divergenza di «civiltà» che è divenuta inconciliabile. Ma ciò che è di interesse più immediato in questa sede è l’influenza di questa evoluzione degli usi e costumi di consumo sulla efficienza industriale netta della società inglese. È comunemente noto il fatto che il livello di vita è, ed è stato a lungo, più elevato nel Regno Unito, e specialmente in Inghilterra, che nella generalità dei paesi continentali, e questo livello si è accresciuto, con qualche ovvia interruzione, per tutta l’epoca moderna e in modo più notevole dopo la Rivoluzione Industriale. Questo progresso nelle esigenze correnti della vita ha interessato tutte le classi e le condizioni sociali, ma ha avuto il maggior effetto relativo sui livelli più alti di agiatezza. E siccome, in tali questioni di necessità convenzionali, l’esempio delle classi superiori guida in gran parte l’evoluzione degli usi e costumi di quelle più umili, il codice di vita (in relazione al reddito) retta e onesta dei benestanti viene a rivestire un significato di grande rilievo per le sorti della società in generale. All’inizio, quando l’Inghilterra cominciò ad assorbire l’eccedenza e dette l’avvio a quella politica economica insulare che ha creato la situazione industriale moderna, la scala inglese del prestigio fondato sul reddito era alquanto al di sotto del livello continentale. Anche negli anni elisabettiani di prosperità e di spavalderia i leaders della moda inglese seguivano modelli continentali, ed anzi li seguivano ad una tale distanza che coloro che più si avvicinavano ai livelli continentali di dispendiosità e di splendore erano comunemente disprezzati come scialacquatori effeminatio’. Che fossero scialacquatori, nel senso tecnico del termine, è un’affermazione che ovviamente non si presta a correzioni o a modifiche, — dato che quello è proprio il loro posto e la loro funzione nell’economia della natura; e torna a loro merito, in quanto gentiluomini, che abbiano con tanta efficienza adempiuto al «ruolo in cui Dio li aveva posti nella vita». Dal punto di vista collettivo della civiltà nazionale, il gentiluomo è un articolo di virtù1 il cui valore sta nella sua perfetta manifattura e nella sua conformità ai canoni di un gusto raffinato. Che un gentiluomo costituisca poi una faccenda dilapidatoria, è la sostanza del fatto; quale sia la misura dello spreco connessa con il gentiluomo tipo o standard, innalzato a simbolo dello sciupio prestigioso in una qualsiasi determinata civiltà, è in effetti questione di quanto ampio sia il

margine che il modello corrente di produzione e distribuzione consacra al consumo vistosamente sprecato. La formazione del perfetto gentiluomo (e della perfetta gentildonna) in qualsiasi dato caso richiede del tempo. Come istituzione, il perfetto gentiluomo (o gentildonna) è una complessa questione di usanze, distinzioni, gusti ricercati, elaborati sotto la generica sovrintendenza del principio (abitudine mentale) dello sciupio vistoso, su uno sfondo di giudizi critici che ammettono solo l’uso più economico dei materiali impiegati. A questo riguardo, tale criterio di economicità esige che il consumo vistosamente sprecato del gentiluomo non debba condurre in alcun modo, incidentalmente o attraverso qualche fessura, al benessere fisico o al profitto finanziario di chiunque altro. Giudicando sulla base di questi contrassegni di eccellenza, bisogna ammettere senza discussioni che il prodotto-tipo della civiltà finanziaria in Inghilterra, sotto la forma del gentiluomo (e della gentildonna) è il migliore che l’imperfezione umana possa consentire. Il volume della produzione di esso è pure all’altezza di una equa previsione; invero, e ciò va da sé, esso è il massimo che i traffici consentano, perché la società inglese si è sviluppata lentamente e sistematicamente fino alla più alta e sostanziale maturità che sia stata raggiunta dalla civiltà finanziaria entro i confini del mondo cristiano. Gli altri popoli di lingua inglese hanno operato bene, ma hanno ricevuto la loro eredità troppo tardi per aver già da ora risolto lo spinoso problema di come liberarsi del margine superfluo di beni e di energie senza lasciar residui materialmente utilizzabili. Come in tanti altri campi, i loro massimi sforzi sono diretti alla conservazione e all’incremento dell’efficienza delle istituzioni trasmesse loro dalla supremazia britannica in tali settori. Non appena il grande élan della juventus mundi elisabettiana ebbe avviato gli inglesi sulla strada dell’egemonia economica, la prodigalità dei benestanti inglesi cominciò ad attrarre l’attenzione dei critici continentali. Gli inglesi presero a viaggiare — un’usanza costosa —; ed è stata accettata per convenzione, d’allora in poi, la critica dei viaggiatori inglesi, secondo la quale essi sono singolarmente dilapidatori nelle loro spesep. Queste critiche da parte di osservatori continentali contengono di solito una nota d’invidia, sebbene il loro aspetto più importuno sia il carattere antieconomico di questa lista delle spese britanniche — antieconomico secondo i criteri di economicità applicabili in materia, e già indicati sopra. Senza dubbio, gli inglesi oggi sono alla testa del mondo cristiano sia per la mole della loro nobiltà sia per il suo costo pro

capite. Questo costo deriva dal margine di produzione, e ne riduce di altrettanto il margine netto. Le cifre che rappresentano il costo netto corrente della nobiltà britannica nel suo complesso possono esser tratte con una certa sicurezza dagli elenchi dei redditi; i redditi imponibili possono tranquillamente esser compresi sotto la dicitura sciupio vistoso netto fino al punto in cui non sono esenti per legge, — qualsiasi possibile errore derivante da questa stima è almeno compensato dai casi di spesa dilapidatoria dello stesso tipo tratti da altre fonti, quali, ad esempio, le spese di funzionamento del traffico passeggeri su ferrovia e a mezzo di navi a vapore, degli alberghi, dei vari luoghi di divertimento, eccetera. Gli sports sono stati una risorsa sostanziale nella graduale maturazione di questo modello britannico di spreco vistoso. E gli sports hanno il vantaggio di offrire uno sfogo elegantemente innocente ad energie che altrimenti non potrebbero essere agevolmente distolte da qualche utile funzione. Lo sport non può essere integrato nel sistema di vita quotidiana, sulla scala e con le circostanze che ne accompagnano la pratica nel Regno Unito, se non a prezzo di un lungo e persistente ammaestramento del gusto popolare; non è possibile ottenerlo con una mossa repentina. È assolutamente inimmaginabile che un qualsiasi cittadino maschio adulto si possa appassionare di propria iniziativa alle elaborate futilità della caccia o delle corse di cavalli britanniche, ad esempio, oppure ad un tour de force di assoluta vanità quale il polo, o la scalata delle montagne, o le spedizioni di caccia grossa. L’affievolimento del senso delle proporzioni che è espresso dalla predilezione per questa serie di infantili finzioni non può esser conseguito in una sola generazione; esso ha bisogno di tutta l’autenticità che la tradizione può conferirgli, e inoltre si deve iniziare ad inculcarlo nella generazione successiva fin dall’infanzia, proseguendo poi lungo tutto l’arco del sistema educativo. Né esso sarebbe tollerato dal sentimento popolare se questo non fosse stato gradualmente piegato alle stesse tendenze da una lenta assuefazioneq. Eppure l’assuefazione ha operato a tal punto, che non solo la società nel suo complesso tollera queste cose, ma anzi tutte queste futilità superflue sono state inserite, nel corso del tempo, nel concetto britannico di ciò che è giusto, opportuno e necessario per la vita civiler. Tutto ciò, e altre cose simili, possono formare una materia buona per una dissertazione predicatoria, ma il loro valore sotto tale aspetto non interessa in questa sede. Ciò che rileva ai nostri fini è invece l’influenza di queste usanze dilapidatone, da cui essa è ormai intrisa, sull’efficienza industriale netta della

società britannica, cioè sul vantaggio netto che la società nel suo complesso ricava dallo sfruttamento di tale stadio moderno della tecnica che le è toccato in sorte di dare alla luce. Per un’ulteriore esemplificazione — ad evitare che la componente sportiva sia lasciata in isolamento apparente come aspetto singolo e disgiunto — si può menzionare il consumo sperperatorio che incombe per usanza ai ricchi britannici in materia di abitazioni e istituzioni domestiche. Un gentiluomo di apprezzabile agiatezza deve possedere più di un’abitazione, residenza, o qualunque termine meglio si applichi ad una costruzione di cui il solo occupante dichiarato non può utilizzare che una frazione trascurabile. Quante residenze, in città e in campagna, siano d’obbligo per un qualsiasi determinato gentiluomo, ad un qualunque dato livello stimato di agiatezza, non può ovviamente esser affermato in termini stabiliti; si può dire solo che in generale ne deve possedere più di quante ne possa convenientemente utilizzare, anche solo in apparenza, e tante e tanto ampie quante si può permettere di mantenere. L’effetto economico manifesto di questo sistema è di mantenere un corpo di servitori e custodi per ogni istituzione al di fuori di qualsiasi utile impiego, e nello stesso tempo di impedire alla persona comune di utilizzare le terre annesse ad ogni istituzione, le quali devono essere le più estese possibili, — vale a dire che la pratica serve a ridurre di altrettanto la superficie netta disponibile dell’isola. Non è necessario citare ulteriori dettagli delle istituzioni domestiche e della routine cerimoniale che si impone alle persone di rango nobiliare in questa società. La notorietà comune ne fornisce abbastanza per convalidare l’affermazione secondo cui, a causa degli usi e costumi, molto si è speso nella categoria delle necessità convenzionali, e che il margine tra la complessiva capacità produttiva e l’eccedenza netta disponibile si è di conseguenza ristretto in modo assai considerevole; come pure l’ulteriore affermazione secondo cui anche se, o quando, le esigenze di una situazione concorrenziale dovessero richiedere a questa società la massima utilizzazione delle sue forze disponibili, l’elevazione dell’efficienza effettiva della società quasi al livello di quella teorica sarebbe una questione di tempo, di sforzi e di incertezzes. Questo spreco standardizzato per convenzione da parte di dilapidatori convenzionalmente accreditati è già di per sé un inconveniente abbastanza importante, ma le sue conseguenze indirette, quali l’orientamento conferito ai gusti popolari e la diffusione di analoghe usanze per imitazione, sono senza dubbio di ancor più grave rilievo. Come si è osservato sopra, il livello di vita

della società inglese in generale è più elevato di quello dei paesi continentali, e nel complesso ha continuato a progredire per tutta l’epoca moderna. Questo livello più elevato è in parte un livello superiore di benessere fisico; di frequente se ne parla in termini che implicano che esso abbia integralmente tale carattere. Ma episodi del tipo delle istituzioni caritatevoli per la nutrizione dei cani appena menzionate sollevano verosimilmente un dubbio. Un esame accurato delle piccole frivolezze e delle goffe dissipazioni delle classi lavoratrici britanniche al fine di valutarne il peso economico costituirebbe però una sgarbata vessazione. Taluni fatti di gusto non discutibile possono, tuttavia, esser citati per stabilire un paragone tra i costumi britannici e quelli continentali relativi all’efficienza industriale della società in generale. Per esempio il lavoro nei campi è divenuto indecente, per non dire immorale, per le donne inglesi; laddove nei paesi del continente, e forse particolarmente in Germania, le donne lavorano nei campi senza alcuna restrizione morale del genere. Non è una questione di fatica fisica, dal momento che il lavoro nei campi non è più sgradevole, ed anzi indubbiamente più sano, del lavoro al chiuso; come è confermato dai suoi effetti manifesti. La popolazione nord-europea è per eredità un popolo non meno abituato alla vita all’aperto di qualsiasi altro, forse più di molti altri, e le donne sono interessate da tale eredità altrettanto che gli uomini. Varie motivazioni vengono avanzate in favore dell’«esenzione» delle donne dal lavoro all’aperto. Nella misura in cui queste motivazioni sono idonee a superare un esame critico, esse risultano esser considerazioni di decenza convenzionale; sembrano cioè avere il carattere di un’imitazione d’impulso di quella esenzione delle donne benestanti da ogni lavoro utile, che costituisce una delle principali debolezze del codice sociale inglese e una delle sue massime esemplificazioni del principio dello sciupio vistoso. Il peso economico di queste esenzioni prestigiose è notevole, sia nel senso che diminuiscono direttamente le forze produttive disponibili, sia nel senso che riducono indirettamente l’efficienza abbassando la vitalità della porzione di popolazione per cui vale la regola. L’inconveniente va fatto risalire all’efficienza produttiva della società, che è da tempo abbastanza elevata da consentire lo spreco, o per lo meno da consentirlo a quegli ambienti superiori della classe quasi agiata dove quelle esenzioni sembrano aver trovato la sede iniziale. In una società ove le distinzioni e le esenzioni di classe si basano principalmente su fondamenti di reddito, le convenzioni dilapidatone si diffondono con grande facilità per tutto il complesso della popolazione, in

forza dell’imitazione emulativa delle usanze della classe superiore da parte delle classi di reddito inferiore; cosicché un’esenzione di quel genere, che è un agevole mezzo di distinzione tra i benestanti, si fa strada in breve tra gli indigenti come un necessario contrassegno di una vita dignitosa. Così anche nel consumo dei beni molte cose, che un tempo erano ritenute superflue, sono diventate necessarie al decoro, e queste convenienze, per esempio, di vestiario e di apparato domestico sono divenute necessità quotidiane e integrate nel tenore di vita, non meno dei requisiti di benessere fisico. È evidente che si riscontra una maggior quantità di queste spese d’obbligo per convenienze fisicamente superflue, e di solito esteticamente spiacevoli, tra le classi lavoratrici del Regno Unito che sul continente, e più di quante se ne siano registrate sull’isola a una qualsiasi data anterioret. Perciò, infine, come ultima illustrazione dello sviluppo di insidiose inibizioni prodotte dalla crescente efficienza del sistema industriale moderno, la passione per l’uno o l’altro tipo di sport, e la prevalenza di interessi e valori di tipo sportivo si è estesa dal livello della nobiltà fino a quello delle masse popolari, finché questa categoria di dissipazioni è divenuta quasi l’unico campo di interessi comuni su cui gli uomini che lavorano s’incontrano o hanno delle opinioni. Si può affermare con sicurezza che metà del volume di carta stampata pubblicato ogni giorno per il consumo popolare è dedicata agli sports; una classificazione, che mirasse a includere tutte le ramificazioni degli interessi sportivi, darebbe probabilmente una stima alquanto maggiore di tale percentuale. Il puro e semplice, diretto spreco di tempo e di sostanze che questa universale dedizione agli sports e la loro adorazione comportano non deve forse necessariamente suscitare l’apprensione di alcuno. Quel tanto di dissipazione non può in alcun caso superare il minimo salutare; anche se persone che prediligono le dissipazioni artistiche e culturali possono essere indotte a deprecare l’attaccamento a dissipazioni di natura così rozza e abbrutente. Ciò che qui rileva maggiormente, tuttavia, è il fatto che questa prevalenza degli interessi emulativi e antagonistici degli sportivi ha un effetto avverso sull’indole del popolo dal punto di vista dell’industria, indirizzandola verso una tendenza abituale a dozzinali prove emulative di abilità, e allontanandola da quella pronta capacità di discernimento dei dati di fatto che costituisce il fondamento intellettuale della moderna competenza tecnologica. Non importa tanto che questa universale diffusione nel popolo britannico di prevalenti interessi sportivi porti a sprecare i prodotti e le energie del sistema industriale, quanto piuttosto il fatto che essa corrompa le fonti da cui

l’efficienza del sistema industriale deve originare. La sua grave importanza come mezzo di distruzione sta nel fatto che essa brucia la candela ad ambedue le estremità. Si deve di nuovo osservare che la nascita e il saldo impianto di una simile pervasiva e ostinata tendenza abituale richiede del tempo, e che anche per liberarsene sarebbero necessari tempo, sforzi ed esperienza.

a. Cfr. WERNER SOMBART, Der moderne Kapitalismus2, vol. I, capp. V, VI, VII; Der Bourgeois, «Einleitung», cap. II; W. J. ASHLEY3, English Economie History and Theory, vol. II, cap. VI; ed altri autori citati da questi ultimi. 1. La prima edizione del celebre testo del Sombart è del 1902-08, e Veblen ne recensì i primi due volumi sul «Journal o£ Politicai Economy» del marzo 1903. Sulla stessa rivista, nel numero del giugno 1897, era apparsa una sua recensione di un precedente saggio sombartiano, Sozialismus und soziale Bewegung im 19. Jahrhundert. Der Bourgeois è del 1913. 2. William James Ashley (1860-1927) economista inglese fautore della politica doganale imperiale. b. I secoli hanno innalzato ad alto rilievo le elementari qualità teutoniche dell’odio, della bramosia, del coraggio e della devozione», H. O. TAYLOR, The Medioeval Mind. c. Quella che potrebbe apparire un’eccessiva insistenza sul primato dei popoli di lingua inglese in materia di iniziativa e di guida creativa nelle scienze esatte non ignora l’opera di scienziati appartenenti ad altre nazionalità e con altre affinità linguistiche. Non si tratta di una questione di affinità nazionali o linguistiche, ed ancor meno di razza. Ciò che il ragionamento vuol significare è solo che tale guida nelle scienze esatte, in particolare in quelle della materia, è strettamente legata allo stadio della tecnica — ed ai connessi princìpi istituzionali — tra i popoli occidentali; e che la peculiare distribuzione geografica del progresso tecnico moderno ha portato ad una espansione più libera e ad una maturità più piena, nell’isola più che non altrove, della tendenza meccanicistica che sta alla base della scienza moderna; specie durante il tardo diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo. Nello stesso tempo, e soprattutto a causa dell’uso della stampa, la civiltà dei paesi occidentali ha avuto un carattere cosmopolita per tutta l’epoca moderna; e la porzione — una porzione di grande importanza — dello sviluppo scientifico dovuta a specialisti italiani, olandesi, tedeschi del sud, ed anche scandinavi, e peculiarmente e specialmente ai francesi, non deve essere sottovalutata in confronto alla parte degli inglesi (vedi pp. 502-505). Questi ultimi entrarono in gran parte per primi in questo campo, così cerne hanno d’altro canto giocato un ruolo minore nel progresso durante il periodo del suo più perfezionato ammodernamento, dovuto ai più raffinati insegnamenti meccanicistici. In tutto ciò, come in ogni altro aspetto relativo all’apice dell’espansione della civiltà occidentale, la società francese, com’è naturale, spicca come un’evidente eccezione ad ogni definizione generica che si adatti ai popoli del continente nel complesso. Il fatto che i francesi abbiano continuato ad occupare, per tutto il corso della civiltà moderna, una posizione di egemonia, non disturba l’analisi tentata sopra, che è più immediatamente orientata verso il divario tra il caso inglese e quello tedesco, considerati come tipi estremi della civiltà contemporanea tra i popoli residenti entro l’area climatica del litorale Baltico-Mare del Nord. d. Cfr. The Instinct of Workmanship and the State of the Industriai Arts, capp. VI e VII4. 3. Pubblicato nel 1914.

e. Cfr., per esempio, JAKOB BOEHME5, The Signature of All Things. f. Cfr. ROBERT BOYLE6, The Sceptical Chymist. 4. Jakob Boehme (1575-1624), mistico tedesco, autore di scritti mistico-teologici che influirono sul Romanticismo tedesco. 5. Robert Boyle (1627-1691), fisico e chimico inglese, famoso per la legge che porta il suo nome.

g. La nuova componente del modello tecnologico introdotta dall’aumentato ricorso a mezzi meccanici ha un suo peso, in quanto fattore che contribuisce sostanzialmente alla situazione complessiva, solo se si eleva oltre una certa «soglia» di estensione o intensità proporzionale, relativa al concerto di componenti che hanno influenza nello stesso campo. Ciò vale in particolare nei confronti dei diversi fattori di assuefazione in un qualsiasi determinato caso; quelli che sono presenti in misura relativamente ridotta possono facilmente divenire trascurabili. La situazione è analoga a quella che si verifica nella terapeutica, dove un narcotico somministrato in quantità inferiore alla c dose minima» non ha alcun effetto — a meno che, nel caso di certi narcotici peculiari sotto questo aspetto, la persistente reiterazione della dose minima possa con il tempo produrre un effetto cumulativo. È opportuno osservare come anche la terapeutica sia materia di assuefazione. h. Adam Smith7, per esempio, non rimarcò la cosa, nonostante che il suo interesse predominante per

le questioni economiche dipendenti dalla efficienza del processo produttivo lo avesse logicamente posto in una situazione di particolare vantaggio sotto questo aspetto. 6. Veblen ha pubblicato una recensione del testo fondamentale di Adam Smith, An Inquiry trito the Nature and Causes of the Wealth of Nations (1776) sul «Journal of Politicai Economy» del dicembre 1904. i. Invero, se non fosse per timore di arrecare disturbo, si potrebbero trovare rimasugli di una concezione da regolamento di gilda delle leggi naturali nell’opera di scienziati tuttora viventi, forse in particolare nelle scienze che sono più lontane dal dominio della tecnica e che quindi vengono meno in contatto con la logica della ingegneria meccanica, come, per esempio, l’economia. j. «Depauperato» è usato qui in senso tecnico, senza alcuna implicazione intenzionale di elogio o di biasimo per la direzione affaristica che ha condotto alla formazione di una generazione di inglesi «depauperati». Si tratta di un fatto di un certo rilievo, che influenza il mantenimento dell’efficienza del sistema industriale, specie quando questo è posto in rapporto concorrenziale con il sistema di un’altra società che non ha subito una prolungata esperienza del tipo che genera una popolazione lavoratrice depauperata. È una popolazione o una generazione «depauperata» di qualsiasi genere, quella che è stata soggetta a condizioni di vita tanto diverse da quelle che si sono dimostrate, attraverso la selezione, normali al tipo specifico, da impedirne la crescita, squilibrarne le proporzioni antropometriche dello scheletro o il funzionamento delle viscere, ed affievolirne le funzioni vitali oltre i limiti di un recupero entro la generazione soggetta a tali avverse condizioni di clima, di igiene, di nutrizione o di fatica. Una simile variante depauperata del tipo specifico è ereditabile, in effetti, finché le condizioni a cui è dovuta permangono, e per un incerto periodo o numero di generazioni dopo il ritorno a condizioni normali. Per i fini di questo studio essa equivale ad una variante transitoria della specie, dovuta a condizioni «avverse», e non concerne la questione della permanenza del tipo razziale di cui si è parlato in precedenza. Varianti dello stesso carattere negativo o malsano possono senza dubbio risultare da una variazione avversa o malsana delle condizioni di vita, nel senso di iper-nutrizione, di eccessiva protezione dagli elementi, o di eccessiva indulgenza ai sensi e di insufficiente impiego delle facoltà, quali emergono di quando in quando tra le classi ricche e privilegiate, come per esempio i reali, i nobili e i ricchi ereditari. Anche se l’etimologia non permette che le varianti negative dovute ad eccessi di questo tipo siano definite «depauperate», non sembra esistere alcun altro termine sanzionato dall’uso tecnico. In effetti, queste conseguenze della troppa indulgenza tra le classi privilegiate portano a risultati molti simili a quelli conseguiti con la sottonutrizione e l’eccesso di lavoro tra gli indigenti. Si può anche notare che i due tipi di varianti negative si trovano comunemente insieme nella stessa società, dato che le condizioni che producono l’una di solito generano anche l’altra. L’Inghilterra, per esempio, ha avuto la sua quota di ambedue, come prodotto secondario dell’epoca di affari e di industria, di pace e prosperità, generata dal progresso tecnologico dell’epoca moderna. k. I Cinque Portis8 offrono un esempio storico di tale svalutazione per obsolescenza «sistematica» dovuta all’espansione del sistema industriale e a mutamenti nella distribuzione della popolazione:

mentre la Roman Road in Inghilterra dimostra come un’analoga obsolescenza possa derivare dalla decadenza o dal declino dello stadio della tecnica9.

7. I Cinque Portis erano situati sulla costa della Manica (Hastings, Romney,Hythe, Dover e Sandwich) e come tali erano un tempo gli approdi fondamentali perle comunicazioni con la Francia e il continente, titolari di particolari diritti e privilegi. 8. Il sistema stradale romano in Britannia, assai razionala e funzionale, che faceva pernio su Londra, centro commerciale di grande importanza, fu lasciato in abbandono con il decadere dei commerci dopo le invasioni degli Anglo-sassoni e degli luti nel IV-VI secolo. l. Anche in un settore industriale di base e specificamente britannico quale l’industria siderurgica, osservatori di altri paesi — per esempio, te deschi, svedesi o americani — hanno avuto di recente occasione di censurare seriamente e sarcasticamente ì minuscoli forni fusori, frutto di incompetenza, gli antiquati accessori per spostare i materiali, le superate attrezzature per sprecare manodopera e combustibile. m. Un contrasto interessante con questo stato di cose nell’industria affaristica può riscontrarsi nella marina britannica, dove quasi ogni componente dell’attrezzatura, come pure la massima parte dell’organizzazione sistematica, della direzione del personale, e della strategia sono divenuti obsoleti nella decade trascorsa. Ci sono molti compromessi e molte improvvisazioni negli sforzi diretti a riportare l’istituzione marinara ad un livello soddisfacente di efficienza secondo gli standards tecnologici contemporanei, ma la misura del ritardo che di conseguenza viene tollerata è, in ultima analisi, assolutamente insignificante se paragonata con ciò che passa per sufficiente nelle questioni interessanti l’industria britannica. L’efficienza industriale della società è di importanza primaria, l’istituzione marinara di secondaria, o qualcosa di meno; ma gli affari industriali sono condotti sulla base delle motivazioni dell’iniziativa affaristica concorrenziale. n. Per un’esposizione più dettagliata di questo principio e del suo posto nella vita moderna, vedi La Teoria della classe agiata, specialmente i capp. II-VII e XII. o. Cfr., per esempio, la descrizione di Harrison10 della Elizabethan England, dove molti acidi discorsi sono dedicati a quei rampolli della nobiltà inglese che si sforzavano di raggiungere le perfezioni esotiche dell’Italia. 9. In italiano nel testo. 10. William Harrison (1534-1593), studioso dell’antichità e topografo inglese del-P epoca elisabettiana, assai conservatore e misoneista. p. Da ultimo superati, forse messi nell’ombra, dai loro seguaci americani. q. Cfr. GRAHAM WALLAS, The Great Society11 forse particolarmente i capp. III e V. 11. Graham Wallas (1858-1952), sociologo inglese. Il libro citato da Veblen è del 1914. Wallas, professore alia London School of Economics, polemizzò in seguito con Veblen, deprecando il tono ironico da lui usato contro gli inglesi, in una altrimenti favorevole recensione del presente volume apparsa sul «Quarterly Journal of Economics». Wallas fu poi collega di Veblen alla New School for Social Research, nel 1919. r. Nella perturbazione della vita britannica causata dalla guerra con la Germania, per esempio, sono state formate delle associazioni per la cura dei cani i cui proprietari erano stati arruolati nell’esercito, in modo da mantenerli senza menomazioni fino al ritorno dei loro proprietari. Giornali britannici di carattere estremamente serio hanno stampato consigli e ammonimenti di gravità tipicamente britannica sui migliori modi di promuovere questa necessaria opera di mantenimento dei cani. Non si può evitare l’impressione che tutta quest’agitazione intorno all’opportuna manutenzione dell’equipaggiamento sportivo dei soldati non sia un prodotto di balordaggine eccentrica, ma piuttosto una illustrazione del predominio che l’abitudine può arrivare ad esercitare sul senso comune. s. Ovviamente, questa spesa dilapidatoria non è ritenuta tale dagli scialacquatori, né tale nella

considerazione popolare è stimata la sistematica deviazione di ricchezze verso quei canali da parte degli strateghi della finanza. Quella che può esser definita la teoria economica del volgo al riguardo emerge assai chiaramente dalle seguenti dichiarazioni categoriche, le quali possono esser riferite in modo più o meno veritiero, ma che sono nondimeno fedeli alla realtà: «“Le fondamenta della nostra società reale si basano sul danaro, e solo chi lavora raggiunge il benessere. Prendi i Carnegie e i Frick12, per esempio”, continuò la signorina Morgan. “Hanno enormi ricchezze, che sono state ammucchiate con un lavoro prodigioso. Coloro che lavorano reggono le sorti del mondo delle relazioni sociali come di quello degli affari… La società e le sue ramificazioni dipendono per la loro esistenza dalle spese in danaro. Chi ha il danaro necessario da spendere nei ricevimenti e nelle funzioni sociali che procurano ogni anno lavoro a migliaia di commercianti? I ricchi. Forse che il mondo degli affari potrebbe sopravvivere per un solo minuto con il danaro posto in circolazione dalle migliaia di persone che compongono l’elemento lavorativo? No di certo. Gli affari sono tenuti in vita dalle migliaia di dollari spesi dall’alta società. È una faccenda che gli statistici farebbero bene a studiare ”». 12. Andrew Carnegie (1835-1919), figlio di un tessitore scozzese, emigrato in America. Partendo come semplice operaio, si dedicò nel 1865 all’industria siderurgica, arrivando nel 1873 a fondare un vero impero industriale, che sfruttava spietatamente una manodopera costituita soprattutto di emigranti europei, in condizioni di lavoro indescrivibili. Nel 1901, Carnegie liquidò la sua azienda (che si fuse nella United States Steel Corporation) e si ritirò nel suo castello in Scozia, desideroso di lasciare gran parte della sua fortuna a fondazioni filantropiche che portavano il suo nome. Il prezzo di vendita fu 400 milioni di dollari. Henry C. Frick (1849-1919), magnate del carbone; socio di Carnegie, fondò anch’egli un’immensa fortuna. t. Adam Smith osserva, per esempio, che ai suoi tempi le scarpe erano diventate un articolo di decoro quotidiano, compreso nel livello di vita come una voce di spesa necessaria tra le classi lavoratrici inglesi, sebbene i loro consimili scozzesi non si fossero resi conto a quel tempo della necessità di proteggere con quei mezzi la loro buona reputazione. L’esempio è valido perché è tipico, e il paragone vale con lo stesso vigore oggi tra l’isola e il continente; anche se questo elemento particolare delle scarpe si presta ad un’obiezione plausibile, nel senso che la tecnologia moderna ha, incidentalmente, fatto delle scarpe una sorta di necessità fisica — un mutamento posteriore invero all’epoca di Adam Smith. Metalli, vetro, muratura, vasellame, lastricati di pietra e di cemento, e simili sostanze refrattarie sono così universalmente diffuse nella vita moderna che il piede umano non protetto è in posizione di svantaggio. La necessità che ne risulta di una protezione dura e pesante per i piedi, tra parentesi, è un caso tipico di inconveniente sistematico che questo stadio della tecnica si porta con sé come detrazione inevitabile dalla sua efficienza lorda.

CAPITOLO V. LA GERMANIA IMPERIALE Come avvenne per il periodo elisabettiano in Inghilterra, così non si può dire che l’epoca imperiale in Germania sia cominciata improvvisamente, ad una qualche data specifica. Si potrebbe ragionevolmente datarne gli inizi dalla formazione della Zollverein, o dalla Confederazione della Germania del Nord, o dall’ascesa al trono di Guglielmo I (e di Bismarck) o dall’incoronazione di Versailles1; in ogni caso, una data successiva non sarebbe accettabile. Gli inizi vanno ricercati anteriormente alla prima di queste date, specialmente se si tenta di rintracciare questi esordi nella situazione materiale dei popoli germanici, anziché nella loro storia diplomatica. Ma in ogni caso tale fase moderna della storia della Germania è successiva all’epoca napoleonica. Solo dopo quella data, infatti, la moderna situazione industriale e commerciale comincia a influenzare seriamente le condizioni delle popolazioni tedesche; ed anche allora, il processo attraverso cui il paese si inserisce nel nuovo sistema industriale e commerciale, al punto da avvertire le esigenze della nuova situazione economica, avviene solo per gradi. Le nuove condizioni produssero effetti manifesti dapprima nelle zone occidentali, e, presumibilmente mediante i commerci e i miglioramenti nei sistemi di trasporto, il contatto con i paesi più progrediti dell’occidente dette l’avvio a movimenti di adattamento al nuovo stato di cose. Quando la Germania entra in tal modo nel complesso dell’Europa industriale e commerciale del diciannovesimo secolo, ciò avviene sotto l’egida dello stato prussiano, non sotto quella dei popoli della Germania del Sud o dell’Austria; la guida della Prussia riveste carattere interamente politico, ed è diretta a scopi politici. Il contributo della Prussia si limitò ad una forza politica (bellicista) e a delle ambizioni politiche. Gli elementi culturali tedeschi, che non fossero quelli militaristi e politici, vennero dai paesi situati più a sud e a occidente; tuttavia il contributo prussiano fu di grande importanza. Ovviamente il fatto che lo stato prussiano sia giunto all’egemonia nell’epoca imperiale non è dovuto al caso né ad un ripensamento della provvidenza. Non di rado gli storici tedeschi, e i profani, si sono accontentati

di attribuire la funzione egemone della Prussia alla saggezza e alle altre virtù politiche degli Ho-henzollern, dal Grande Elettore2, attraverso Federico il Grande, fino al regnante attuale; proprio come, dal canto loro, coloro che propendono per un’interpretazione romantica della storia si sono pure accontentati di identificare in Bismarck la causa fondamentale della successiva formazione dell’impero, secondo quei criteri di realizzabilità su cui si è articolata la sua grande storia. Non vi è dubbio che le caratteristiche personali di queste grandi figure storiche abbiano avuto un rilevante peso nella formazione degli eventi e che l’attuale stato della nazione tedesca debba molto della sua particolare fisionomia all’opera di questi grandi uomini. Il che, tuttavia, non significa precisamente che i popoli tedeschi siano stati come cera nelle loro mani; né ne deriva necessariamente che i risultati sarebbero stati sostanzialmente diversi, sotto qualche aspetto essenziale, ove si supponga la mancanza di questi grandi personaggi dalla storia degli ultimi due secoli. Probabilmente, in loro assenza, al loro ruolo avrebbero adempiuto delle opportune controfigure, con tale verosimiglianza che nessuno, se non un pubblico di storici estremamente critici, sarebbe stato in grado di rilevare un tratto o un gesto falso. La grandezza di queste figure storiche consiste nella loro straordinaria idoneità al ruolo che fu attribuito a ciascuno singolarmente neh’evolversi degli eventi. Così elevata e infallibile è la misura di questa idoneità di ciascuno al suo ruolo, che. si pone inevitabile la domanda: non fu forse il ruolo a creare il personaggio, ricavandolo da comune materiale plasmabile, anziché il personaggio a creare il ruolo? Ciò tanto più se si considera che i personaggi in questione si sono dimostrati del tutto ordinari in situazioni diverse da quelle strettamente connesse con la trama del dramma storico in cui hanno recitato la loro parte, e che la congiuntura degli eventi avrebbe difficilmente tollerato una diversa linea di condotta nel caso in cui i protagonisti fossero stati dei tipi affatto comuni anche in quegli aspetti in cui eccellevano. È vero che in questa serie di statisti prussiani scorre una certa tipica malafede incallita che, in molte altre situazioni, avrebbe potuto esser considerata, a buon diritto, come segno di una statura eccezionale; ma in tal caso, l’incondizionata e cordiale approvazione da parte sua di questa caratteristica dei suoi statisti tipici induce a ritenere che la società prussiana sarebbe stata in grado, in qualsiasi momento, di soddisfare qualunque richiesta di statisti eminenti, appunto, in tale qualità. In un certo senso questo sembra essere anche un tratto comune agli ambienti da cui questi statisti

provenivano e a cui attingevano. Si è quindi indotti a credere che tale carattere distintivo della politica prussiana sia frutto di abitudine e quindi una caratteristica della civiltà prussiana piuttosto che una peculiare deviazione, verificantesi sporadicamente in rare varianti estreme di quel popolo. Sarebbe probabilmente eccessivo affermare che la provvista di statisti bismarckiani e di sovrani Hohenzollern ricavabile dalla popolazione Junker della Pomerania e della Prussia sia semplicemente un caso particolare della legge demografica malthusiana; tuttavia, nello stesso tempo, è difficile considerare questa ipotesi come un’esagerazione imperdonabile. Alla diplomazia e all’ amministrazione prussiana non è finora mai mancata materia prima di questo tipo e, contemporaneamente, le inclinazioni abituali rappresentate da questi personaggi, che gli eventi storici hanno elevato ad una posizione di preminenza, sono precisamente quelle che ci si può aspettare dalle circostanze di cui questi personaggi sono creature. La Prussia giunse ad assumere l’egemonia dell’Impero non perché i suoi statisti fossero quelli che erano, ma piuttosto perché per lunga tradizione e abitudine la società prussiana, o almeno la sua classe dirigente, avevano proprio l’indole messa in evidenza da questi statisti; non perché questi personaggi fossero delle eccezioni, ma proprio perché non lo erano. La particolare idoneità ed efficienza della Prussia per il suo ruolo di stato sovrano dell’impero le fu conferita dalle precedenti esperienze del popolo prussiano, sia nella vita politica che in quella sociale, le quali, formandone il sostrato, resero possibile la carriera politica dello stato prussiano. Può essersi trattato soprattutto di una differenza di gradazione, ma v’era tuttavia tra il Nord prussiano e il Sud e l’Ovest tedesco una differenza sufficiente per permettere di stabilire che né l’Austria, né la Baviera sarebbero diventate gli artefici, gli arbitri e i modelli della Germania nell’epoca imperiale. Più di un difensore ben intenzionato del popolo germanico, dopo le pene e l’odio sconfinato che si sono riversati su quella società, si è affannato a ricordare che la Prussia non è la Germania e che in particolare lo spirito tedesco del sud, nelle sedi tradizionali della tipica civiltà germanica, è di tipo assai diverso e molto più gradevole di quello che anima la società degli ]un\ers del Nord. Questi tedeschi del Sud e dell’Ovest, dall’Austria fino ai confini dei Paesi Bassi all’altra estremità, avrebbero a detta dei difensori dimostrato nei tempi tardo-moderni, in particolare nel diciannovesimo secolo, una tendenza a vivere e lasciar vivere; oppure, dal punto di vista dei più elevati livelli abituali dell’efficienza prussiana, non sarebbero stati altro che un mucchio di

smidollati. Ai fini della creazione di uno stato imperiale sul modello dinastico il destino non aveva altra scelta entro i confini della Madrepatria. Se, d’altro canto, si fosse trattato soltanto di una questione di egemonia commerciale, secondo direttive di pace e di prosperità, è altrettanto sicuro che a salire alla ribalta sarebbero stati il Sud e l’Ovest. Tuttavia un’indagine teorica su una simile irrealizzabile ipotesi può aver unicamente un interesse specula tivo. Dato che la Prussia faceva parte della brigata, una Madrepatria tedesca unita da vincoli di solidarietà diversi da quelli del ferro e del sangue e animata da ideali diversi da quelli dinastici era irrealizzabile fin dal principio. Sebbene il regno di Prussia nel diciannovesimo secolo si estendesse assai oltre i territori del Brandenburgo, delle Prussie e della Fomerania, questi, tuttavia, continuarono ad essere il nucleo essenziale dello stato dinastico degli Hohenzoilern. Anche se molte delle risorse materiali dello stato provenivano dai suoi possedimenti di più recente acquisto e di maggior valore economico ad ovest e a sud, lo spirito dinastico della Prussia e dei suoi statisti, come pure il suo personale amministrativo di grado più elevato, erano quelli dei territori situati sul litorale baltico. Fondandosi sul potere prussiano, gli ideali prussiani giunsero a permeare in larga misura gli altri territori periferici e popoli del regno, mentre le regioni prussiano-baltiche, che avevano un tempo costituito il patrimonio originario della corona prussiana e il fondamento materiale del suo potere politico, continuarono ad essere il centro di diffusione della peculiare variante prussiana della civiltà germanica. Nel complesso la Prussia era formata allora, come del resto è stata formata d’allora in poi, dalle antiche regioni del litorale baltico, con sempre più estese ramificazioni territoriali verso il Sud e l’Ovest; ramificazioni che erano in effetti territori sottomessi e sussidiari, utili agli scopi della dinastia, ma membri tributari anziché a pieno diritto del risultante stato dinastico; i quali sono riusciti solo per gradi, e in misura incerta, a superare la loro condizione di figliastri e ciò, si può forse aggiungere, solo nella misura in cui sono stati gradatamente educati a condividere lo spirito dinastico dello stato prussiano. Nel complesso il processo di assimilazione è stato marcatamente unilaterale, così che questi acquisti periferici del regno hanno in larga misura assorbito la fisionomia prussiana e non viceversa. Analogo discorso vale, per parte loro, nei confronti degli altri stati tedeschi, a partire dal periodo della loro fusione in un impero sotto l’egemonia della Prussia. La matrice culturale della società prussiana diventa, quindi, una questione

di interesse immediato ai fini di ogni ricerca sull’opera da essa svolta per reintegrare la Madrepatria. L’Alma nach-de-Gotha3, albero genealogico ufficiale della casa regnante e delle famiglie dell’aristocrazia, non ha, ovviamente, alcun particolare interesse a questo proposito; queste faccende sono tut-t’al più bollicine nella schiuma che indica la direzione della corrente. Le cose stanno altrimenti per la matrice culturale della società, in conseguenza della quale la casa regnante e le famiglie più potenti sono messe in grado di regnare e di dirigere nella particolare maniera praticata colà. Il fatto che il Re Imperatore governi per grazia divina piuttosto che per volontà dei suoi sudditi non lo si deve ad alcuna idiosincrasia del sovrano, né tanto meno deriva da una tara ereditaria che renda presumibilmente incapaci i tedeschi di esercitare la propria discrezionalità in tali campi. Come tanti altri tratti caratteristici dello stato prussiano-germanico, questo deriva dalla peculiare direzione presa dalle abitudini cui il popolo tedesco, e specialmente le comunità che risiedono lungo le coste del Nord e dell’Est, sono state assoggettate nel recente passato storico. Applicando il termine nel suo senso più lato, la Prussia come area culturale comprende i territori di lingua tedesca del Htorale baltico, dalla frontiera russa fino all’incirca ai dintorni di Lu-becca o forse fino a Kiela, estendendosi irregolarmente nell’entroterra fino a includere tutti i territori che risentirono degli effetti dell’occupazione dell’Ordine Teutonico. Questa striscia di territorio, specialmente ad est della regione dell’Oder, è il più giovane tra i territori tedeschi; vale a dire che è stata l’ultima parte della Madrepatria ad essere assoggettata al cristianesimo e al potere germanico. Fu rimodellata sull’esempio della cristianità feudale in un’epoca posteriore a tutte le altre, posteriore di qualcosa come sei o otto secoli ai paesi più istruiti del Sud. Il soggiogamento dei popoli Wends, Lituani ed Estoni da parte dell’Ordine Teutonico nel tredicesimo secolo, e la loro conversione forzata al cristianesimo, è l’ultimo grande episodio della colonizzazione predatoria della Madrepatria da parte di invasori di lingua tedesca, e anche qui le conseguenze immediate dell’invasione e dell’insediamento ebbero più o meno lo stesso carattere che altrove. Ne seguì un prolungato periodo di sfruttamento spietato, di terrore, di disordini, rappresaglie, schiavitù, e quindi una graduale assuefazione ad una sottomissione stabile, ad un governo personale irresponsabile e a sistemi di repressione incruenta. L’incursione sopraggiunse quando il sistema feudale aveva raggiunto l’ultimo stadio del suo sviluppo come organizzazione bellica; e, dato che le

condizioni essenzialmente predatorie in tal modo instaurate nei territori riscattati dal paganesimo si prestavano ad uno sfruttamento continuato, basato sulla rapina, anche lo spirito feudale si mantenne vivo più a lungo e in assai migliore stato di conservazione in questa regione periferica che altrove in Europa. Non appena l’assuefazione ad una condizione servile ebbe generato nella popolazione soggetta uno spirito abbastanza stabile di sottomissione nei confronti dei loro nobili padronib, tale da consentire che le forze della comunità fossero rivolte ai fini dell’aggressione esterna, questi paesi, o meglio il gruppo dei proprietari terrieri feudali investiti dell’usufrutto delle terre e della loro popolazione, fecero il loro ingresso nel concerto politico europeo al servizio delle ambizioni dinastiche degli Hohenzollern. Mantenendo lo spirito predatorio e la servile sottomissione della tradizione feudale intatti e imbevuti della tendenza ai raggiri e alla sfrontatezza derivante da uno stanziamento predatorio, questa casta si dimostrò, fin dal principio, uno strumento altamente efficiente di aggressione per fini dinastici. E dal momento che questa carriera di aggressioni dinastiche non è mai venuta al suo termine ed ha raramente subito interruzioni prolungate, dai suoi inizi in poi, l’esperienza della vita quotidiana ha conservato in perfetto stato la gamma di mentalità che caratterizzavano questi popoli al momento del loro primo affacciarsi sulla scena europea. Essi rappresentano il residuo meglio conser vato del Medioevo in Europa, di mole sufficiente e con a disposizione risorse materiali che bastano a renderli formidabili nella politica internazionale. Al momento della sua prima comparsa su questa scena e con intensità gradualmente minore per un lungo periodo successivo, questa società di proprietari terrieri e di loro seguaci dimostrò un importuno spirito d’insubordinazione nei confronti dell’autorità dei suoi signori feudali; e, a dire il vero, qualcosa di questa volubilità si riscontra ancor oggi nell’appoggio che i proprietari terrieri accordano alla corona, — un appoggio sempre subordinato a condizioni, e concesso solo nei limiti in cui la classe dei proprietari sia persuasa di avere nella corona un coerente paladino dei propri particolari interessi materiali. Se infatti essi costituiscono il rifugio e la forza indispensabile agli statisti dinastici, sono però anche difficili ed esigenti. Con il passar del tempo, il costante condizionamento a perseguire gli ideali dinastici, a realizzare il destino imperiale dello stato sovrano e a rafforzare i poteri della corona, — tutta questa conforme esperienza ha notevolmente ridotto il particolarismo capriccioso degli Junkers, ponendo per lo più al primo posto tra i loro affetti una fedeltà sentimentale verso lo stato. Un analogo tipo

di condizionamento ha ovviamente conferito lo stesso generico orientamento al popolo in complesso, sia nei territori prussiani che nell’Impero. L’ingresso della Prussia nell’Europa moderna fu una faccenda assai diversa, in tutti i suoi aspetti, dalle sorti dell’Inghilterra elisabettiana come dagli avvenimenti successivi della vita nazionale inglese. La Prussia vi entrò con caratteri culturali che non si distaccavano da un militarismo medievale basato su un sistema feudale di servitù della gleba, aprendosi a forza la strada come potenza politica di importanza sempre crescente, in mezzo a un agglomerato di vicini piccoli e debolmente in lite tra di loro. La nuova nazione era circondata da ogni lato da rivali gelosi e privi di scrupoli, con i quali inevitabilmente, e anche per le sue tendenze, veniva costantemente in contatto, in un’incessante contesa a base di raggiri e di rapine; situazione, questa, che implicava la conversione permanente di tutte le risorse disponibili a scopi politici e militari, promuovendo lo sviluppo di un’autocra zia centralizzata e irresponsabile, quale più si conviene al perseguimento delle guerre dinastiche. Circa nello stesso periodo l’Inghilterra per parte sua si ritirò, o piuttosto fu costretta dalle circostanze a ritirarsi, dal concerto delle nazioni, restando confinata nella sua isola in una pace forzata, senza alcuna ragionevole possibilità di attuare una politica nazionale aggressiva e non consentendo allo stato dinastico alcuna probabilità di una lunga esistenza. Cosicché, mentre gli Hohenzollern estendevano i loro domini e aumentavano il loro potere con le guerre e la diplomazia, gli Stuart accondiscendevano con riluttanza ad una rinunzia definitiva, e lo stato dinastico veniva sostituito da un ordinamento, in cui la monarchia cessava d’esser altro che una pia tradizione e un decorativo conto spese. Nel primo caso una classe feudale di proprietari terrieri ha continuato, malgrado le avverse circostanze economiche, ad esercitare un peso decisivo nella politica nazionale e a controllare l’apparato amministrativo; nel secondo, invece, i baroni e l’aristocrazia feudale, dopo una ben combattuta battaglia per la pace, furono soppiantati dagli esponenti del mondo finanziario, i cui interessi imponevano pace, industriosità e un ritorno, con riserve, alla regola del Vivi e lascia vivere. Ciò non significa che il sentimento popolare inglese e le ambizioni della collettività si siano completamente ridotte al livello del quietismo redditizio implicito in questa descrizione, né che la Germania prussianizzata non concepisca altro scopo nella vita oltre il potere dello stato e la sottomissione del suddito; tuttavia il contrasto in tal modo indicato tra le due concezioni

rimane valido, pur con le dovute riserve. Con le opportune riserve, si può affermare che nel pensiero del cittadino britannico il Regno Unito è concepito come una «comunità», mentre nelle meditazioni del suddito tedesco (prussiano) la Madrepatria è uno «stato». Per il comune cittadino inglese è altrettanto difficile, o quasi, comprendere che cosa il tedesco intenda per «stato», quanto per quest’ultimo afferrare il concetto inglese di «common-wealth». Gli inglesi conservano ancora nel loro vocabolario contemporaneo la parola «stato», perché una volta possedevano il concetto che essa serve ad esprimere; ma quando non lo confondono, nell’uso corrente, con la nozione di «comunità» adope randolo comunemente come sinonimo di «nazione», essi lo usano per designare un’estesa zona di territorio. D’altro canto i tedeschi, non avendo mai avuto occasione di servirsi di un concetto come quello espresso dal termine «commonwealth», non hanno alcuna parola corrispondente nel loro vocabolario. Lo stato è una questione non facile da spiegare in inglese. Non è l’area territoriale, non la popolazione, non il complesso dei cittadini o sudditi, non l’insieme dei beni e dei traffici, non la pubblica amministrazione, non il governo, non la corona, né il sovrano; eppure, in un certo senso, è tutte queste cose insieme, o meglio, tutte queste sono organi dello stato. In un certo autorevole senso, lo stato è un’entità personale, con diritti e doveri preminenti e precedenti a quelli dei sudditi, siano questi ultimi considerati sia singolarmente che collettivamente, sia nel particolare che nel complesso o nella media. Il cittadino è un suddito dello stato. Nell’ambito di una comunità, come nel Regno Unito, il cittadino è, nei senso rituale del rango araldico, un suddito del re, — quale die sia il significato di questa espressione — ma tale rapporto di sudditanza è un rapporto personale, un rapporto di rango reciproco tra due persone. I termini del rapporto sono necessariamente delle entità personali, che vi rientrano soltanto in virtù del loro carattere di persone. «Lo stato è il popolo legalmente unito come potere sovrano». Così afferma un’autorità in questo campo; ma aggiunge anche: «Lo stato è, in prima istanza, potere capace di autocon-servarsi: esso non si identifica con la totalità della popolazione in sé — il popolo non è in tutto amalgamato con esso; lo stato, tuttavia, tutela e comprende ogni aspetto della vita del popolo, regolandola dall’esterno in ogni direzione. Per principio, esso non chiede il parere del popolo, ma ne richiede l’obbedienza». La stessa autorevole persona prosegue: «Lo stato è potere, ed è solo lo stato realmente potente quello che corrisponde alla nostra idea». Potrebbe forse esorbitare dall’ambito della

nostra ricerca il seguire più oltre l’autore citato e trovare che, in questo contesto, «potere» significa «potenza militare». È evidente che un governo basato sul consenso dei governati non è uno stato. La sovranità non ha sede nel popolo ma nello stato. L’incapacità di capire questo enigma è forse il più esecrabile tratto di irrazionalità che nell’opinione dei tedeschi intelligenti macchi i popoli di lingua inglese.

Thorstein Veblen a quarantasette anni. L’ideale tedesco dell’arte della politica è, di conseguenza, quello di far convergere tutte le risorse della nazione ai fini della potenza militare; esattamente come l’ideale inglese è, per contra, quello di limitare la potenza militare al minimo indispensabile al mantenimento della pace. Quest’entità personale — in inglese si sarebbe tentati di dire semi-personale — rappresentata forse dal sovrano come sua incarnazione, è un concetto e un ideale che pare abbia fatto difetto nei popoli di lingua inglese, essendo stato estraneo agli orizzonti della loro visione culturale materialistica ed economica; essi sembrano averlo perduto nell’abbando-nare la prospettiva intellettuale peculiare allo spirito medievale. Espresso nei termini dell’evoluzione culturale inglese, il concetto parrebbe un arcaismo, una nozione atrofizzata dal disuso, riesu-mabile solo nel caso in cui alla nazione britannica dovesse toccare la fortuna di cadere sotto la dominazione personale di un principe autocratico, formando in tal modo uno stato dinastico modellato sulla formula preservata nella vigente costituzione prussiana. Il ruolo svolto da questa concezione dello stato nella rinascita della Germania è così notevole, e la differenza che essa ha creato tra il modello

tedesco di una vita retta e onesta e quelli predominanti altrove, presso le altre ramificazioni della civiltà nord-europea contemporanea, è così caratteristica e ricca di conseguenze da meritare un esame più dettagliato, sia per quel che riguarda i suoi contenuti logici e sentimentali, sia per la sua origine e i suoi effetti sulle sorti materiali della razza. Quanto al suo contenuto sentimentale, con riferimento cioè alle inclinazioni originarie che trovano espressione in questo concetto di stato, la componente fondamentale è senz’altro l’antico senso della solidarietà di gruppo, esteso fino a comprendere una nazione concepita solo in astratto, in sostituzione dell’originario gruppo di vicinato, conosciuto attraverso i contatti personali e il comune pettegolezzo. La stessa solidarietà di gruppo la si osserva all’opera alquanto scopertamente nelle piccole comunità delle civiltà inferiori, nell’orgoglio campanilistico e nei vincoli di solidarietà di vicinato e dei piccoli villaggi, di circoli e congregazioni, tra gli elementi più ingenui e semplici dei popoli civili.Essa è stata a suo tempo interpretata dai filosofi utilitaristi come un previsto risultato del ricorso alla cooperazione da parte del concreto interesse personale, — una spiegazione senza dubbio inadeguata, se non infondata, di un’inclinazione che di frequente risulta opporsi alle direttive dell’interesse personale. Sembrerebbe piuttosto trattarsi di una tendenza originaria e ineliminabile della razza. La razionalità di questa tesi è avvalorata dal fatto che gli uomini sono sempre vissuti in gruppi e che la continuità di esistenza della razza è stata assicurata solo nell’ambito e per mezzo della vita di gruppo. Il fatto che degli individui intraprendenti abbiano, di quando in quando, fatto leva su questo sentimento di solidarietà ai fini del loro interesse personale, non conferma in alcun modo l’idea che esso derivi dall’interesse personale; se mai proprio il contrario. Tuttavia, per quanto geloso e compiaciuto di sé possa dimostrarsi questo senso di solidarietà quando le circostanze lo portano a manifestarsi sotto la forma di confronti e rivalità antagonistiche, l’identificazione di questa tendenza connaturata non ci conduce, di per sé, a superare il concetto di una comunità o di un «commonwealth». Mancano ancora gli elementi della personalità e dell’esercizio del potere, che sono essenziali al concetto di stato in quanto distinto da quello di comunità. Ciò risulta ancor più evidente ove si tenga presente che lo stato può esercitare — ed anzi, forse comunemente esercita in effetti — il suo potere ed imporre la sua iniziativa indipendentemente, al di là o perfino in contrasto con qualsiasi consenso da parte della società. La tendenza alla solidarietà è un fatto senza dubbio

essenziale, ma si tratta di una solidarietà sottomessa ad un’iniziativa estranea, non necessariamente aliena dallo spontaneo consenso del gruppo, ma altresì non necessariamente coincidente o affine alle finalità della vita su cui si indirizza il consenso della società. Nel caso ideale, — e il caso della Prussia si avvicina palesemente a questo ideale — il consenso della società coincide, almeno in discreta misura, con l’orientamento dell’iniziativa statale; il fatto che questo si verifichi è una fortunata circostanza e un elemento di potenza per lo stato, che dipende, peraltro, più da una coincidenza che da un’organica necessità. Dove, come nel caso della Prussia, il consenso popolare viene a identificarsi con le direttive dell’iniziativa e dell’esercizio del potere dello stato, si dà il caso di solito che questa felice conclusione è conseguita grazie al fatto che la società accetta come proprie le finalità dello stato; una società, di regola, priva anche della consapevolezza di quelle stesse finalità dello stato che le permetterebbe di valutarle e di poter giudicare ciò che ha accettato o a cui ha assentito. In altre parole, la fusione tra il consenso degli interessi della società e le ambizioni dello stato è una concrezione basata sulla sottomissione o sulla rinuncia, per mezzo della quale la società si presta volontariamente ed anche con entusiasmo a farsi strumento della realizzazione delle superiori finalità proprie dello stato. Con grande uniformità, ogni volta che un concetto dello stato quale entità superiore a carattere personale — o semi-personale —• prevale e agisce come ideale operativo, lo stato è concepito nella forma di istituzione monarchica; — quella appunto che si è definita in questa sede come «stato dinastico». Si tratta, come nel caso della Prussia, di una monarchia autocratica, che è considerata l’unica realizzazione pratica o incarnazione di questo ideale delle stato; una monarchia dinastica assoluta, forse «costituzionale» per concessione, ma al bisogno sovrana e dispotica. Lo stato è personalizzato nella figura del sovrano; e tale sovrano o dinastia non fonda il suo diritto al potere sulla sopportazione o sulla buona volontà, non deriva la sua autorità da un dono della comunità. Se così fosse, infatti, egli sarebbe semplicemente il portavoce e il servitore amministrativo delia società, mentre lo stato scomparirebbe in un commonwealth intrecciato con compromessi strumentali tra i diversi interessi coesistenti nella società. Appare dubbio se sia possibile formulare questa concezione operativa dello stato, in termini concreti, come qualcosa di diverso o di più limitato di una monarchia dinastica, assoluta almeno in teoria. Riportiamoci ancora una volta alla preistoria europea, per proiettare quella

fioca luce che essa consente sugli elementi della natura umana che emergono da questa concezione contemporanea dello stato; nelle piccole comunità, forse regni, dirette sulla base della solidarietà di vicinato e governate in modo alquanto anarchico in forza del consenso tra vicini, — in questi gruppi semianarchici della remota antichità baltica l’intesa che di solito rendeva possibile la vita di gruppo sembra essere stata, in effetti, la regola del Vivi e lascia vivere. Oltre al loro sistema di governo anarchico, esiste un solo fatto istituzionale che può essere attribuito con sicurezza, o meglio inevitabilmente, a queste società dell’Antico Ordinamento, sulla base delle prove trasmesse: cioè la proprietà privata. Le prove dell’esistenza del diritto di proprietà in tale regime arcaico si avvicinano tuttavia tanto agli inizi della civiltà nordeuropea, — come, di solito, si verifica anche altrove — che non resta molto da congetturare su un periodo ancor più remoto. In questo primo periodo possono esservi stati anche dei re — le prove tuttavia non sono conclusive, — ma è difficile che esistesse uno stato; del resto si ammetterà facilmente che uno stato anarchico sarebbe una contraddizione in termini. Come risulta da altri passi della presente ricercac, questo stadio di civiltà, su cui le prove archeologiche gettano luce assai fioca, è sanzionato dalla legge naturale, in quanto fu messo alla prova e accettato come vitale da una serie di generazioni più lunga di quelle vissute dopo la sua scomparsa. Una sovrastruttura istituzionale così tenue come quella di cui essa testimonia dovrebbe costituire un’espressione fedele di una tendenza innata nei popoli in questione, e quindi può anche esser considerata una genuina indicazione degli indefettibili valori morali da essi condivisi. Tra queste istituzioni provate dal tempo è il diritto di proprietà, cioè il godimento sicuro di ciò che il detentore abbia acquisito ed ottenuto, rispettando le regole del gioco adottate per comune consenso. A partire da un qualche remoto momento dell’evoluzione culturale, presumibilmente anch’esso nella remota antichità, si è considerata la trasmissione ereditaria come un sistema legittimo di subentrare in tale godimento. Tutto ciò è visto con favore ancor oggi dal buon senso dell’uomo comune. Successivamente, quando questi popoli entrarono in contatto con gli stranieri mediante scorrerie e conquiste, si arrivò ad includere tra i beni che il singolo poteva conseguire, acquisire e trasmettere per eredità anche il bottino e il dominio su un popolo suddito che la sua fortuna e la sua iniziativa gli avessero attribuito, — tutto ciò sempre sottoposto alle regole del gioco concepite e approvate dalla società dal cui consenso egli dipen deva. Da questi

esordi predatori, legittimati per convenzione e cristallizzati dagli usi e costumi, derivò in breve il regime feudale; da cui, a sua volta, per l’ulteriore azione del principio anarchico che postula lo sfruttamento di tutto ciò che si ottenga o acquisti osservando le regole del gioco, si originò lo stato dinastico. Il principio del godimento per diritto di proprietà, che un tempo si applicava ad una società soggetta (originariamente di stranieri), nello stato dinastico si estende fino a comprendere lo sfruttamento di una società che, per consuetudine, è giunta ad identificarsi con i suoi padroni e ad accettare pubblicamente una condizione di integrale servitù. L’antico principio di proprietà ha subito, attraverso la sua evoluzione storica, una svolta nel senso di conferire il godimento della società nel suo complesso al capo dinastico. E finché la situazione complessiva continua ad essere impregnata di ambizioni e cavilli dinastici, di modo che l’alternativa offerta ad una società sarebbe in effetti la scelta tra l’asservimento alla sua dinastia nazionale o ad una straniera, fino ad allora lo stato dinastico rimane in vigore, sostenuto com’è dal senso della solidarietà di gruppo, e senza violare il principio del «vivi e lascia vivere» in misura superiore a quella in cui lo viola l’unica alternativa visibile al suo dominio, — e cioè l’asservimento ad un altro potere, della stessa indole, ma straniero. Nell’ambiente prussiano le condizioni della vita nazionale hanno favorito la conservazione di questo potere dinastico, mentre in Inghilterra, data la sua situazione nell’epoca moderna, la concezione dinastica si è disgregata sotto l’urto devastatore della innata tendenza dell’uomo comune a Vivere e lasciar vivere. L’assiomaticità e la bellezza di un regime di sfruttamento dinastico non sono apprezzate ove manchi un appropriato sfondo di guerre e di rapine. Si osserva infatti che gli esaltatori di questo regime protestano abitualmente contro ogni proposta di eliminare o attenuare questo sfondo. Ora si dà il caso che, forse come fatto imprevisto facente parte dell’evoluzione storica, dovuto forse a una recrudescenza dell’antica inclinazione anarchica, nei tempi moderni la tendenza delle opinioni si pieghi nella direzione del Vivere e lasciar vivere, e disapprovi ogni struttura istituzionale di carattere palesemente servile. Ciò è peculiarmente vero per le società, — come la Fran eia, i paesi di lingua inglese, l’Olanda e i paesi scandinavi, — che sono state più intimamente impegnate nei più recenti progressi scientifici e tecnologici. Ora, o perché se l’è arrogata, o per la piega presa dal più ragionevole buon senso, questo stesso gruppo di nazioni industriali è al tempo stesso giunto ad esser considerato la guida dei popoli

civili, per quel che riguarda il modello delle istituzioni civili e politiche. Esiste infatti, inserito nel complesso del senso comune contemporaneo, un principio base apparentemente ben considerato, o in ogni caso ben accetto, secondo il quale la schiavitù, la servitù ed ogni consimile soggezione alla volontà di un irresponsabile padrone personale sono assurdità morali ed estetiche nell’ambito dell’umanità civilizzata; e una siffatta sottomissione personale è un relitto di barbarie feudale, che scompare in modo irrecuperabile dalle usanze e dagli ideali di qualunque popolo non appena esso emerge al livello della moderna vita civile. Questa modernità ci vedute deve presumibilmente la sua nascita e la sua diffusione allo sviluppo dell’opinione pubblica tra i popoli industriali più progrediti, e alla sua corrispondenza al modello di pacifica operosità a cui questi popoli sono abituati; essa si è però imposta anche, a forza di esempi, agli ultimi venuti tra i popoli cristiani, almeno nei limiti di un’imbarazzata accettazione formale. La convinzione che la servitù sia un fatto vergognoso è così universalmente diffusa nelle masse che, anche nei casi in cui lo stato dinastico rimane ancora intatto nei suoi effetti pratici e non è ancora giunto ad esser sentito come una sgradevole o intollerabile oppressione, è tuttavia controproducente mostrarne apertamente il carattere di organizzazione servile, basata sull’asservimento alla persona del capo dinastico. Ove sia espressa in tali nudi termini di sfruttamento e sottomissione, la funzione dell’istituzione dinastica risulta analoga a quella del verme solitario; e il rapporto tra il verme solitario ed il suo ospite non è cosa facile da abbellire a parole, o da avvalorare in modo così convincente da assicurarne l’affettuoso mantenimento sulla base di decorosi usi e costumi. Tuttavia pensandoci bene si può, salvando le apparenze, conservare la sostanza. L’istituzione dinastica può esser sublimata in una collettività personalizzata, il «popolo legalmente unito quale potere sovrano». Nel fatto che la società in tal modo agi sca collettivamente non vi è alcun tratto sgradevole di soggezione servile ad un irresponsabile padrone personale. Questo è ciò che dovrebbe intendersi per «commonwealth». Una comunità così costituita, però, non è uno stato, somiglia piuttosto ad una società anonima. La sua personalità deve divenire qualcosa di più di una figura retorica. Se effettivamente una comunità di questo tipo deve costituire un potere, — per poter esercitare quella «volontà di potere» di cui si sente parlare, — l’utilizzazione della forza collettiva deve esser conferita ad un singolo rappresentante, munito di discrezionalità assoluta; e l’efficienza e la stabilità

d’iniziativa e di decisione richieste si ottengono solo ove questo capo personale sia investito di un’autorità suprema, e solo nella misura in cui la sua giurisdizione si fondi su una carica indipendente dal flusso e riflusso del sentire volgare. Lo stato deve trovare «un domicilio localizzato e un nome» nella persona di un principe dinastico, cui deve esser conferita l’investitura dell’usufrutto illimitato dei poteri della società. In tal modo lo stato dinastico viene in realtà ripristinato in modo inalterato e non mitigato. È proprio una sorta di analoga costruzione teorica di una collettività personalizzata quella che viene sbandierata nelle illustrazioni offerte dai sostenitori dello stato prussiano e dei suoi elevati destini. Al tempo stesso, tuttavia, è difficile evincerne che i sentimenti patriottici del suddito prussiano si concentrino in effetti su qualcosa di più oscuro della dinastìa personale degli Hohen-zollern e delle personali ambizioni del suo capo. A questa fedeltà di tipo feudale si accompagna un senso entusiastico di solidarietà nazionale e una compiaciuta convinzione del superiore valore delle opinioni e degli usi correnti nella Madrepatria, — la «Civiltà» della Germania; tutto questo, però, non è parte integrante del concetto di stato. Lo stato dinastico, naturalmente, è un elemento importante della «Civiltà» di questo popolo; così come il suo ripudio è caratteristica integrante del modello di civiltà accettato dai popoli di lingua inglese. Invero vi sono poche altre, se non punte, incolmabili divergenze tra la visione del mondo tedesca e quella inglese oltre alla contrapposizione tra l’ideale dello stato dinastico da una parte e il concetto base dell’autonomia popolare dall’altra. Le palesi differenze di principio in altri aspetti risultano in genere esser derivati o ramifica zioni di queste opinioni inconciliabili sul problema del governo personale. La differenza che ne risulta tra inglesi e tedeschi, rispetto alla libertà personale e alla subordinazione, è più una questione di «principio» che non di condotta pratica; anche se non può esser seriamente messo in dubbio, essendo stato dimostrato dall’esperienza, che il sentimento popolare britannico, o dei popoli di lingua inglese, è in ogni caso disposto a subire provocazioni assai minori prima di far ricorso di comune accordo all’insubordinazione. Il margine di tollerenza, in questo campo, è palesemente assai più ristretto nel caso inglese. Il che non significa affatto, tuttavia, che il punto di equilibrio raggiunto da ciascuno dei due popoli nella loro quotidiana condotta degli affari e nel loro atteggiamento pratico nei confronti delle autorità costituite sia largamente diverso; anche se l’uno, infatti, può riuscire a raggiungere il suo equilibrio delle transazioni operative attraverso una attenuazione a titolo

concessivo degli impulsi all’insubordinazione, l’altro, per parte sua, ottiene risultati pratici pressoché analoghi con una mitigazione strumentale delle pretese di tutela e fedeltà assolute. In linea di principio i popoli di lingua inglese sono democratici, anzi anarchicamente democratici; ma per ragioni di buon senso e di convenienza, rafforzate da un diffuso rispetto per le persone, — ciò che è a volte, irriguardosa-mente, chiamato servilismo — l’effettivo grado di libertà goduto dall’individuo, tenuto conto delle restrizioni imposte dalle leggi e dal costume, è solo moderatamente superiore a quello che tocca al suddito tedesco, il cui punto di partenza, in fatto di regole di condotta, parrebbe esser lo stesso servilismo, reso più dignitoso da un’aureola metafisica e mitigato dalle convenienze del comune buon senso. «Servilismo» ha un suono odioso a orecchie moderne, ma sfortunatamente non è disponibile alcun altro termine ugualmente preciso per definire la stessa gamma di sentimenti senza spiacevoli implicazioni; è una lacuna del vocabolario contemporaneo. Come è di moda nella moderna cristianità, sia i tedeschi che i popoli di lingua inglese hanno un’alta opinione della libertà personale, ma pare che nella concezione tedesca questa libertà sia quella di dare ordini e di obbedirli liberamente, mentre nella concezione inglese essa consiste piuttosto in un’esen zione dagli ordini, — una consuetudine mentale alquanto anarchica. Proprio il potere dinastico dello stato prussiano, basato su una tradizione sanzionata di fedeltà personale in ultima istanza illimitata, rappresentò il fattore culturale di maggior peso introdotto nell’epoca imperiale da parte tedesca. È per lo meno pensabile che, con l’andar del tempo, la disgregazione provocata dall’urto prolungato con il condizionamento esercitato dalle moderne abitudini industriali avrebbe condotto questo stato dinastico e la sua organizzazione coercitiva quasi allo stesso stadio di decadenza che un tempo toccò alla sua più debole e piccola copia, nell’Inghilterra elisabettiana. Ma il tempo, nel caso della Prussia, non ha avuto alcuna possibilità di trascorrere. L’Inghilterra elisabettiana, con le sue ambiziose mire imperialistiche, era esposta alla lenta corrosione della pace e dell’isolamento, mentre gli interessi comuni convergevano sempre più verso le tecniche produttive e le sorti del commercio; eppure ci vollero cento anni e più per spodestare la politica dinastica e per eliminare quella imperialistica, — nei limiti in cui questi elementi dell’antico regime possono dirsi scomparsi, — ed altri duecento per raggiungere il punto più avanzato lungo la direttrice del governo liberale e degli ideali di pace successivamente raggiunto dalla società inglese.

1. Lo Zollverein, unione doganale tra quasi tutti gli stati tedeschi ad eccezione dell’Austria e dello Hannover, è del 1834; Guglielmo 1, reggente dal 1858, diviene re di Prussia nel 1861, mentre Bismarck diviene primo ministro l’anno successivo; la confederazione della Germania del Nord, sotto l’egemonia prussiana, fu fondata nel 1866, subito dopo la vittoria nella guerra con l’Austria; l’incoronazione di Guglielmo I a imperatore di Germania avvenne nel gennaio 1871 a Versailles, al termine della guerra francoprussiana. 2. Federico Guglielmo, elettore del Brandeburgo e duca di Prussia (1640-1688), iniziatore dell’ascesa della dinastia. a. Cfr., MEITZEN4, Siedelung und Agrarwesen, vol. II, pp. 36-40 e Atlas, «Uebersichtskarte». 3. Annuario genealogico delk nobiltà europea, pubblicato a Gotha dall’editore Perthes dal 1763 al 1943. 4. August Meitzen (1822-1910). studioso tedesco di economia e storia agraria, che fu tra l’altro maestro di Max Weber. Il testo citato fu pubblicato a Berlino nel 1895. Veblen se ne servì per i corsi tenuti all’università di Chicago intorno al 1900. b. A tale obbedienza feudale contribuì parecchio il mutamento di fede religiosa. Grazie alla sua conversione al cristianesimo, infatti, il popolino soggetto acquistò in breve un senso di solidarietà verso i suoi padroni cristiani. c. Vedi nota III, p.590.

CAPITOLO VI. LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE IN GERMANIA La politica economica perseguita dagli statisti tedeschi al tempo in cui inizia la nuova epoca industriale, – diciamo nel secondo quarto del diciannovesimo secolo, – è ancora di tipo cameralistico. Questo vale per tutti gli stati germanici, incluse Prussia, Austria ed il resto, anche se, qua e là, vari seguaci tedeschi di Adam Smith avevano segnato deviazioni secondarie e passeggere dalla cerchia delle tradizioni cameralistiche. In effetti, in base alla costituzione politica ed alle tradizioni assolutiste e militariste dei principati tedeschi, non sarebbe stato possibile perseguire una politica diversa da quella cameralisticaa. Rispetto all’industria e al commercio, la situazione economica entrava in una nuova fase e di conseguenza gli statisti della Madrepatria intrapresero una campagna di politica economica diretta ad ottenere il massimo da quanto il nuovo sistema industriale e commerciale aveva da offrire. Nel corso della nuova campagna gli ideali politici rimangono gli stessi di sempre, ma i nuovi mezzi e procedure di cui si deve tener conto alterano inevitabilmente il profilo della politica da perseguire, pur senza farla deflettere dall’antica finalità cameralistica consistente nello sfruttare al massimo le risorse della nazione a vantaggio dei fini dinastici dello stato. La storia economica della nuova epoca potrebbe benissimo esser scritta come storia della politica economica dello stato prussiano e dell’Impero prussianizzato. Non si tratterebbe, peraltro, proprio della storia politica della Germania imperiale, pur non perdendo essa mai di vista la funzione e le implicazioni politiche dei fenomeni dell’industria e del commercio che ne rappresenterebbero l’oggetto. Sarebbe piuttosto un resoconto delle fortune materiali di una grande nazione industriale e commerciale, i cui interessi industriali e commerciali sono stati sottoposti alla supervisione di interessi accentrati su scopi estranei a quelli propriamente industriali e commerciali, su fini, cioè, che tra scendono il benessere materiale della società, e anzi le sorti stesse della società, sotto tutti gli aspetti. Questo non implica necessariamente, almeno per quanto si può supporre, il perseguimento di una politica economica avversa al benessere materiale della società, – anzi, rientra nelle

convinzioni di questi politici che gli interessi materiali della società siano meglio tutelati da una politica che miri al successo dello stato, come suo fine ultimo. Ne deriva però necessariamente che questi interessi materiali vengono concepiti come sottoposti a subordinazioni e restrizioni, in modo da prestarsi meglio all’usufrutto dello stato. Non si intende, ovviamente, affrontare in questa sede una simile storia, ma solo richiamare alla memoria le speciali circostanze che hanno accompagnato lo svolgimento della storia di quest’epoca, indicando in qual modo queste particolari circostanze abbiano influito sull’esito. In pace e in guerra, cioè sia in termini di problema economico che di politica internazionale, la moderna tecnologia non ammette l’esistenza ci staterelli sul tipo dei principati tedeschi, anche secondo la struttura da essi assunta dopo la perturbazione napoleonica. La tecnologia e la comunità degli affari, a profitto della quale vive e si muove il moderno stadio della tecnica produttiva, ha carattere impersonale e cosmopolita. Le idiosincrasìe personali, i caratteri locali e le frontiere nazionali sono più controproducenti che altro, per tutto ciò che interessa la vita del commercio e dell’industria nei tempi moderni. Così evidente è l’effetto inibitorio delle restrizioni, sia su una base di privilegi personali o di classe, sia su una di separazione nazionale, che persino gli uomini politici dei principati germanici, per cui la separazione sembra esser stato l’unico scopo dell’esistenza, furono con riluttanza indotti a rendersi conto della vanità di cercare di vivere quali comunità industrialmente e commercialmente separate per mezzo e nell’ambito del moderno sistema economico. A titolo di concessione, con molte riserve, e con tardivi provvedimenti, gli stati che ricavavano i loro mezzi materiali di vita dall’industriosità del popolo tedesco si riunirono dapprima nell’Unione Doganale, poco tempo dopo nella Confederazione della Germania del Nord e finalmente nell’Impero. I buoni risultati di questa mossa, nel senso del potenziamento dell’efficienza e quindi della prosperità materiale, sono abbastanza noti e già messi in evidenza con sufficiente pubblicità ed elogi da molti scrittori competenti in queste materie. Il punto più significativo della riforma così operata è la rimozione delle frontiere tariffarie e di altri interstizi di ostacolo al commercio e alle comunicazioni. Questa promozione del commercio e dell’industria da parte degli uomini politici ebbe carattere quasi completamente negativo e concessivo, in quanto si basò sull’abolizione delle restrizioni imposte in precedenza; lo stesso vale, del resto, anche per la politica imperiale relativa all’industria e al commercio

fino a una data inoltrata dell’amministrazione di Bismarck. I buoni risultati si possono far risalire all’abolizione degli ostacoli; il che induce a pensare che un ulteriore perseguimento della stessa politica, come per esempio la totale abolizione della frontiera rispetto ai regolamenti economici di ogni genere, avrebbe ottenuto analoghi buoni effetti nel potenziare l’efficienza dell’industria germanica. Il mantenimento della frontiera, e il ritorno, di poco successivo, ad una politica più vicina a quella mercantilistica in fatto di tariffe e simili era un espediente politico, un espediente diretto al bene dello stato più che a quello della società industriale. La semplice promozione della prosperità materiale della comunità, senza tener conto dei vantaggi dinastici dello stato germanico, avrebbe senza dubbio imposto in pratica l’abolizione della frontiera e di tutte le discriminazioni tra affari e industrie tedeschi e non tedeschi; proprio come la medesima considerazione imponeva l’abolizione delle frontiere e delle discriminazioni dello stesso tipo all’interno dell’Impero. Il vantaggio che il popolo tedesco ne avrebbe tratto, sotto l’aspetto puramente materiale, sarebbe stato simile a quello ottenuto abolendo le analoghe restrizioni all’interno del paese, e il guadagno derivante da una concepibile abolizione della frontiera imperiale sarebbe probabilmente stato proporzionalmente maggiore, data la maggiore importanza di questa frontiera rispetto a quelle particolari che aveva sostituito. Tuttavia la frontiera imperiale, in quanto sistema di ostacolo al commercio, era lo strumento fondamentale per fare dell’Impero una comunità economica autosufficiente e quindi un complesso equilibrato da impiegarsi nella strategia della politica internazionale. È vero che il paese, se non si fosse mantenuta in piedi una barriera quale la frontiera imperiale, sarebbe stato in migliori condizioni quanto a prosperità materiale ed a ritmo di progresso economico; tuttavia il risultato immediato sarebbe stata una specializzazione dell’industria e un intreccio di rapporti commerciali tali da porre la società in una posizione di dipendenza da paesi stranieri, per una parte importante e indispensabile dei suoi normali consumi; dal che sarebbe derivato che l’Impero, in caso di guerra, sarebbe stato relativamente vulnerabile, e al tempo stesso la società, il popolo, sarebbero stati assai più riluttanti ad entrare in guerra. In altre parole, una tale direttiva non si sarebbe in alcun modo accordata con la strategia della politica dinastica, almeno come la concepivano gli statisti della scuola di Federico il Grande. Per questa ragione, la linea politica effettivamente perseguita in rapporto al problema è stata una politica di ragionevoli restrizioni e di pressioni, tali da permettere di realizzare un compromesso tra il libero

sviluppo dell’efficienza industriale e quello di una società industriale autonoma, le cui forze potessero essere interamente convogliate verso una data finalità politica (bellicista), e che fosse in grado di assumere, senza la minima esitazione, un atteggiamento ostile verso altri paesi. Nelle fasi successive del suo sviluppo, quando gli ideali bellicisti vennero maggiormente alla ribalta, la linea governativa mirò ancor più a mettere il paese in una posizione difendibile, tramite la creazione di una società industriale autonoma. Il principale metodo d’interferenza e di regolamentazione degli affari industriali si è esercitato attraverso una tariffa protettiva, che al pari di altre regolamentazioni tariffarie ha avuto, naturalmente, un effetto quasi del tutto inibitorio. A parte ciò, l’opera direttiva più importante degli uomini politici in questo campo ha riguardato la costruzione di ferrovie, soprattutto in vista della strategia militare, e insieme il sovvenzionamento e la supervisione delle costruzioni navali destinate anch’esse in gran parte a scopi militari. Con tutto ciò, il fatto più sostanziale resta pur sempre la tariffa. Indagare quali sarebbero state le sorti della nuova epoca industriale in assenza della frontiera imperiale e delle sue dogane è, ovviamente, un quesito teorico, cui non si può rispondere con un minimo grado di sicurezza; potrebbe invece esser interessante fornire un’indicazione degli inconve nienti cui la tariffa ha cercato di ovviare, in quanto ciò illustra il carattere degli eventi da cui la politica statale ha preservato la situazione industriale tedesca. Com’è ben noto, la Madrepatria non è affatto particolarmente dotata di risorse naturali del tipo che conta nell’industria moderna. Quanto alle risorse minerali, la Germania ha un deciso vantaggio per la sola produzione della potassa. I giacimenti di ferro e carbone sono abbastanza ricchi, ma, in fatto di qualità, posizione e abbondanza, non possono in ogni caso esser considerati più che di seconda categoria. A parte questo, la Germania non occupa neppure il secondo posto per alcuna delle risorse naturali da cui attinge l’industria moderna. Le foreste e la pesca non sono proprio trascurabili, ma nemmeno di grande importanza; la terra coltivabile, nei limiti in cui ce n’è, varia da buona a cattiva, ma comunque non ce n’è a sufficienza per sostentare l’intera popolazione o quasi, a meno di non costringere l’attività produttiva a spostarsi, in qualche modo alquanto drastico, da altri settori alla coltivazione intensiva, – più intensiva di quel che si considererebbe un buon affare in regime di libero scambio dei prodotti agricoli. Le attrezzature marittime, i porti, le vie d’acqua naturali vanno anch’essi qualificati come inadeguati rispetto ad altri paesi commerciali. L’unico patrimonio di gran peso, in fatto di

risorse naturali, è rappresentato da una laboriosa, sana e intelligente popolazione. Da questo punto di vista la Germania stava, tutto sommato, agli esordi della nuova epoca meglio di qualunque altro dei paesi vicini, ad eccezione della Francia e di piccole nazioni sul tipo del Belgio. Nella verosimile ipotesi che la nuova fase del commercio e dell’industria fosse stata lasciata senza una regolamentazione a fini statalistici da parte dell’autorità statale, si può ragionevolmente supporre che il profilo della situazione che ne sarebbe risultata non avrebbe coinciso neppure approssimativamente con l’effettivo corso degli avvenimenti. In primo luogo, o meglio, quale ammissione preliminare, si può notare che l’efficienza complessiva netta della società industriale, al pari del suo indice di incremento dell’efficienza e del conseguente volume della produzione, sarebbero stati senza dubbio notevolmente superiori – a meno di un intervento della Provvidenza, – e che la distri buzione di questo incremento tra la popolazione sarebbe stata presumibilmente alquanto più equa. La produzione agricola, con particolare riguardo alla produzione della carne e dei latticini, sarebbe stata relativamente inferiore, forse assolutamente inferiore, e quindi ne sarebbe notevolmente aumentata l’importazione. Il fenomeno sarebbe stato accompagnato da una percettibile diminuzione del costo dei generi di prima necessità e da una migliore alimentazione delle classi produttive, che avrebbero a loro volta senz’altro provocato un rialzo nell’indice di incremento demografico, insieme con un leggero allungamento della vita media ed una maggiore efficienza prò capite. Un’ulteriore conseguenza immediata del calo della produzione agricola nazionale sarebbe consistita nell’incremento delle importazioni di derrate alimentari d’oltremare; che sarebbe a sua volta sboccato in un’espansione dell’industria navale, provocando presumibilmente una lieve ma continua emigrazione, legata agli scambi commerciali e allo sviluppo dell’agricoltura nei paesi di provenienza di queste importazioni. Anzi, qualcosa di simile è già visibile in relazione ai commerci d’oltremare con l’America del Nord e del Sud. In forza dell’ulteriore impulso conferito dall’espansione dei commerci d’oltremare risultante da un regime di libero scambio, l’appena percettibile emigrazione tedesca avrebbe potuto presumibilmente realizzare un’effettiva colonizzazione di più d’uno di questi paesi. Da come si sono realmente svolti i fatti, si ricava l’impressione che l’emigrazione tedesca sia rimasta appena al disotto della massa e della consistenza necessaria a creare nel Brasile, nell’Argentina e negli Stati Uniti delle vere e proprie colonie tedescheb.

In un regime di libero scambio, inoltre, sia il carbone che il ferro della Germania sarebbero stati utilizzati, ma in proporzione minore di quanto non sia stato fatto in realtà. Rispetto ad oggi si sarebbe importata una quantità assai maggiore di questi materiali, il che avrebbe logicamente rappresentato un volume assoluto notevolmente superiore alle attuali importazioni. Di conseguenza le industrie che trasformano i materiali grezzi o semilavorati in prodotti finiti e commerciabili avrebbero subito un incremento corrispondente, e la loro espansione avrebbe comportato l’ulteriore estensione e perfezionamento del sistema dei trasporti, sia interni che marittimi, per fronteggiare l’aumentato volume di traffico. Con tutta probabilità, l’industria tedesca avrebbe fatto progressi nella produzione dei prodotti finiti, legandosi di conseguenza in misura superiore all’attuale a estesi e indispensabili rapporti commerciali. Il che, incidentalmente, avrebbe reso la rottura della pace, da parte della Germania o con la Germania, pressoché impossibile, dato che la dipendenza del popolo tedesco dai mercati esteri avrebbe implicato in tal caso come contropartita un’analoga dipendenza dal mercato tedesco delle altre parti interessate ai traffici. La situazione che ne sarebbe risultata sul mercato generale delle merci avrebbe probabilmente avuto dei punti in comune con quella di recente venuta alla ribalta con il commercio tedesco-americano di materie coloranti da una parte e di cotone dall’altra. Come altra conseguenza secondaria di un certo rilievo, sarebbe venuta a mancare ogni plausibile giustificazione per un’organizzazione militare e navale esorbitante rispetto al fine di mantenere una pace che non si intendeva rompere. Esistono tuttavia alcune considerazioni sussidiarie e conseguenze secondarie, alcune delle quali verranno alla luce più avanti nella discussione, di carattere troppo teorico per poterle enumerare dettagliatamente in questa sede. Nel corso assunto in realtà dagli eventi della nuova epoca la frontiera nazionale è sempre stata un fattore importante, anzi sotto molti aspetti uno dei più determinanti. Il modo più significativo ed ovvio in cui la questione della frontiera entra in campo nelle prime fasi dell’epoca imperiale è la relativa libertà nell’ambito di questo ampliato territorio nazionale – un virtuale libero scambio in una zona relativamente estesa di territorio. Sotto il governo di Bismarck, inoltre, si verificò un visibile spostamento nella direzione se non proprio di un assoluto libero scambio nei rapporti internazionali, forse almeno di una maggior libertà, un po’ al modo inglese. Questa linea governativa, mai molto accentuata nella pratica, cadde tacitamente in prescrizione in seguito al ritiro dello statista. Invece il nuovo

spirito di una più ampia e militaristica Weltpoliti condusse la politica economica dell’impero sempre più verso una posizione di autosufficienza da raggiungersi attraverso la estromissione degli altri, contribuendo così incidentalmente ad alimentare l’eterogeneità di sentimenti ed interessi tra il popolo tedesco ed i suoi vicini. La politica commerciale perseguita sotto il regnante attuale ha avuto una parte sostanziale nel crescente antagonismo tra la Germania e le altre nazioni industriali, forse non meno considerevole di quella avuta dalla crescente ostentazione di militarismo dello stesso periodo. Questa politica commerciale ha avuto un carattere singolarmente mercantilista, mirando all’ideale illusorio di un commercio a senso unico basato sulle esportazioni. Un aspetto secondario di questa politica commerciale, rafforzato inoltre da visioni di grandezza imperialistica, fu la politica coloniale dell’Impero successiva alle dimissioni di Bismarck. Si sperava, tramite l’acquisto di colonie, di poter attingere le materie prime per l’industria in larga parte, e forse in ultima analisi esclusivamente, dai territori dipendenti; rendendo in tal modo l’Impero indipendente dalle nazioni straniere per il rifornimento dei materiali necessari alle industrie, mentre al tempo stesso le colonie avrebbero offerto un mercato per i prodotti finiti. Lo scopo era quello di creare uno stato imperiale autarchico dal punto di vista industriale. Questo trafficare in imprese coloniali rappresenta uno dei capitoli meno lusinghieri e profittevoli della politica imperiale, dato che gli statisti dinastici della Madrepatria furono incapaci di assimilare la lezione appresa in materia dagli inglesi – cioè che una colonia non può servire da dominio dinastico e contemporaneamente farsi strada come società industriale, partecipe del commercio mondiale. Le colonie tedesche, quindi, sono state dipendenze dell’Impero, invece che ramificazioni della società industriale tedesca, secondo il modello inglese. Nei limiti in cui la comunità economica tedesca ha effettivamente lasciato germogliare simili ramificazioni, queste si sono insinuate senza troppi sforzi preordinati nel tessuto commerciale e industriale di territori non soggetti al governo germanico. Quanto si è detto sopra sembrerebbe implicare che il successo materiale del popolo tedesco durante l’epoca imperiale sia stato conseguito non per impulso dello stato imperiale, ma suo malgrado. In questa opinione v’è qualcosa di vero, ma senza dubbio molto va attribuito all’altro lato della medaglia. Quanto più da vicino e minuziosamente si esaminano i rapporti tra il governo imperiale e gli interessi economici del paese, tanto più evidente

diventa il carattere di intralcio della sua politica e sempre più oscuri ed ambigui appaiono i benefici che comunemente si sostiene esso abbia apportato in ogni suo tentativo di regolare, guidare e promuovere gli interessi materiali del paese. Ciononostante esiste un sostanziale complesso di guadagni economici, sussidiari ma nondimeno importanti, che si possono attribuire a favore di una meno nota influenza delle politiche imperiali sul benessere materiale del paese, così come si spera che risulti chiaro da quanto segue. In molti resoconti contemporanei delle realizzazioni economiche della Germania nel corso dell’epoca imperiale si è data molta importanza alla posizione di svantaggio con la quale il popolo tedesco entrò nel concerto delle società industriali nel diciannovesimo secolo. Dato che varie ricostruzioni degli avvenimenti in questione hanno già reso abbastanza notorio questo svantaggio, che è senza dubbio piuttosto notevole, non è necessario rammentare questo aspetto del problema. La posizione di inferiorità è costituita dalle numerose difficoltà che assediano il nuovo venuto, il quale si accinga al lavoro con mezzi insufficienti e scarsa esperienzac Si pensa, in genere, che la maggior difficoltà da superare sia la mancanza di capitale, intendendo con tale termine i fondi disponibili per l’investimento. Nel caso della Germania questi fondi non erano proprio mancanti, ma non era d’altro canto nemmeno facile ottenerli in abbondanza e a condizioni favorevoli. Mancava anche l’abitudine agli investimenti nelle imprese industriali, anche se tale abitudine sembra esser stata acquistata prontamente; come pure sembra che si reperissero facilmente gli organismi bancari necessari, non appena la situazione degli affari richiese un ricorso più esteso all’uso del credito offerto da istituzioni di questo tipod. Invece la mancanza di esperienza e di cognizioni in materia industriale, e la presenza di costumi e diritti legali che ostacolano il libero impiego delle procedure e dei mezzi di recente scoperti rappresenta una difficoltà di tipo più arduo e più ostinato. Nel caso della Germania esistevano appunto difficoltà di questo tipo, quindi il ritardo che si nota nella prima metà del secolo va attribuito in gran parte agli impedimenti legali e consuetudinari di cui il popolo tedesco stava liberandosi per gradi, tra l’epoca napoleonica e la data di costituzione dell’Impero. Nello stesso periodo di tempo si stavano pure raccogliendo le informazioni necessarie, più per acquisto attraverso l’imitazione delle fonti britanniche che non attraverso noiose esperienze. Era possibile acquisire la competenza tecnologica necessaria con facilità assai maggiore di quella con cui gli inglesi avevano acquisito la

corrispondente competenza tecnologica importandola dal continente, all’epoca dei Tudor. Nel precedente inglese non si era trattato semplicemente di mutuare ed assimilare delle cognizioni teoriche e degli schiarimenti pratici sulle tecniche produttive che si volevano adottare, ma di ottenere che gli operai impiegati acquistassero insieme l’assuefazione personale al lavoro e l’abilità manuale per svolgerlo; ed è questo un problema che richiede non solo cognizioni specifiche, ma anche un lungo e continuato tirocinio per un gran numero di individui, – l’apprendistato, com’è ben noto, era solito durare dai cinque ai sette anni, senza che con questo il tirocinio dell’operaio fosse finito. Nel sistema artigianale il metodo preferito per introdurre in un paese nuove tecniche produttive era quello di importare operai già addestrati, ed uno dei migliori servizi resi alla società inglese dalle guerre tra i prìncipi del continente fu appunto quello di spingere gli operai specializzati a rifugiarsi in Inghilterra. La tecnologia meccanica mutuata dai tedeschi nel diciannovesimo secolo rappresenta un problema diverso, per quanto concerne la capacità e l’attenzione che essa esige dalla società in cui viene introdotta. Si tratta in primo luogo di un problema di cognizioni teoriche, sostenute da quel tanto di chiarimenti pratici sulle sue condizioni di funzionamento che potevano esser necessari all’installazione delle attrezzature meccaniche. In tutto questo non v’è gran che di oscuro, astruso o difficile, ad eccezione di quelle dettagliate elaborazioni delle applicazioni tecnologiche dei princìpi teorici che richiedono l’attenzione di esperti specialisti. L’industria meccanizzata si fonda su alcuni schemi di larga portata, semplici in se stessi e di larga applicazione nei procedimenti particolari, così da richiedere la supervisione e il controllo di relativamente pochi esperti. Gli operai che vi sono impiegati non hanno bisogno di solito di un particolare addestramento in corrispondenza al tipo di lavoro svolto. Lo speciale addestramento richiesto per svolgere la funzione di operaio meccanico nel normale processo dell’industria meccanizzata è assai inferiore al tirocinio corrispondente richiesto ad un operaio di uguali compiti nel sistema artigianale. I requisiti necessari per formare delle forze di lavoro più che dignitose nell’industria meccanizzata non vanno al di là di un’informazione generica e di un’abilità manuale, unite ad una certa, relativamente ricotta, assuefazione speciale ai processi particolari connessi con la data occupazione meccanicae. Per poter apprezzare il carattere e la dimensione delle realizzazioni tedesche e il ritmo del loro progresso è necessario esaminare la natura di ciò

che essi hanno assimilato in questo stadio moderno della tecnica. Le premesse e la logica della tecnologia celle macchine non sono tali da presentare in se stesse serie difficoltà; anzi la loro assimilazione, almeno nelle grandi linee, è una faccenda abbastanza semplice. Complessivamente, in tutti i suoi elementi, essa non richiede profonde o occulte doti di acume, né la perspicacia dell’accorta sapienza o dell’astuzia, nessuna grande prova di fede o di visione poetica e neppure sforzi d’immaginazione o di contemplazione ascetica. È, invero, la più banale tra le realizzazioni del genere umano, le cui basi e la cui logica risultano palesi, fin dal primo contatto, anche per la più angusta delle intelligenze. Buona parte di essa, quel tanto che costituisce il fondamento e il punto di partenza dell’intera costruzione, è inevitabilmente e indispensabilmente familiare all’uomo comune in ogni suo più normale rapporto con i più comuni oggetti inanimati che lo circondano. Il suo punto di partenza, la sua portata e il suo metodo possono riassumersi nella frase «dato di fatto». La realizzazione, tale da segnare un’epoca, delle menti dei tecnologi inglesi e degli altri che prepararono la Rivoluzione Industriale, sviluppandone in seguito le conseguenze nella tecnologia e nelle scienze della materia, non consiste tanto nel fatto che essi realizzarono un metodo nuovo di penetrazione nella natura e nel funzionamento degli oggetti materiali, quanto nel fatto che essi furono indotti dalle circostanze a dimenticare molto di quel che si conosceva prima; grazie all’atrofizzarsi della tendenza abituale ad attribuire qualità e caratteri antropomorfici agli oggetti visibili, essi furono in grado di interpretare gli stessi oggetti in termini di dati di fatto. Varie circostanze, tra cui fondamentale sembra esser stata la decadenza del governo personale conseguente a quella dell’intraprendenza dinastica, indebolirono l’inveterata abitudine trasmessa dal passato di interpretare i fenomeni materiali in termini occulti, magici, semipersonali o spirituali. L’abituale attribuzione di poteri e di correlazioni spirituali tra i fatti materiali era caduta in disuso nell’isola prima e più radicalmente che non sul continente, e i più curiosi dei suoi abitanti acquisirono con maggior prontezza dei loro vicini continentali la prosaica abitudine di valutare i fatti esterni in base al loro valore nominale, quali opachi dati di fatto, interpretando pertanto essi e i loro moti per mezzo di una percezione sensoriale relativamente non sofisticata, aliena da ripensamenti metafisici o con un trascurabile residuo di essif. Nei loro elementi costitutivi, quindi, le premesse e la logica della tecnologia meccanizzata esistono nella mente di ogni uomo, anche se spesso

possono esser soffocate da una crosta praticamente impermeabile di abitudini mentali di tipo diverso ed estraneo. Il che tuttavia non significa che chiunque o qualunque società sia senz’altro pronta, alla sola condizione che nessuno interferisca con le sue meditazioni, a far scaturire dalla sua coscienza interiore la tecnologia operativa dell’industria meccanizzata. Infatti, anche una volta date le premesse e il discernimento logico necessari, rimane pur sempre un vasto campo di cognizioni empiriche e concrete da percorrere, al fine di trarre risultati pratici dalle premesse, e ciò è fattibile solo al prezzo di un’ampia e lunga esperienza e sperimentazione; perché i dettagli di queste cognizioni hanno la natura «opaca» di ogni informazione empirica, e in particolare fisica, che si può ottenere solo attraverso lo stretto canale della percezione sensoriale. Anche quando, e nei Imiti in cui si sia liberati dalla sovrapposizione di concetti base estranei, rimane ancora la necessità di acquisire questo contenuto materiale lentamente e gradualmente, attraverso tentativi ed errori. Fu proprio questo lento processo di scoperta degli opachi dati di fatto che costituiscono il materiale della scienza tecnologica ad occupare molte generazioni d’inglesi, prima che i tedeschi si impadronissero anche di una minima parte di esso. L’acquisto iniziale di queste cognizioni materiali è, di necessità, un lento processo di tentativi ed errori; ma esse possono peraltro esser mantenute e trasmesse in forma chiara e definita, e la loro acquisizione mediante trasferimento non comporta fatica né incertezze. Da questa realtà di fatto deriva che per assimilare gli elementi funzionali di questa tecnologia, una volta presili in considerazione, non è necessario sopportare grandi difficoltà né impiegare lunghi periodi di tempo. Tutto ciò che è necessario per una sufficiente comprensione e un impiego intelligente degli strumenti e dei processi dell’industria meccanizzata consiste in qualcosa di così poco astruso come un certo complesso d’informazioni concrete circa il comportamento fisico di alcuni oggetti materiali in condizioni date. I dettagli sono, tutto sommato, naturalmente piuttosto numerosi e complessi, e nessuno può sperare di impadronirsi dell’intera gamma di informazioni che il funzionamento del sistema nel suo insieme comporta; il sistema però è, in ultima analisi, la più concreta organizzazione delle conoscenze che esista. Come tale, può essere adottato con estrema facilità da qualunque società che si trovi in circostanze per altri aspetti idonee all’impiego degli strumenti e dei processi meccanici che esso offre. Il popolo tedesco era, per doti naturali, fornito del tipo e della misura di intelligenza necessari, trovandosi in questo rispetto esattamente sullo stesso

piano della società inglese e delle altre che avevano dato vita allo stadio moderno della tecnica. Esso disponeva inoltre, nelle classi colte, di tutta la preparazione intellettuale necessaria per una rapida assimilazione di esso e, nelle classi lavoratrici, di una forza abbastanza ben addestrata di operai; cosicché il ritmo con cui poteva raggiungere la competenza nella nuova industria dipendeva semplicemente dalla rapidità consentita e dai limiti posti al suo impiego dalle circostanze. Di conseguenza il ritmo d’introduzione e d’espansione dell’industria venne a dipendere in molta parte dall’intraprendenza di quanti detenevano il potere discrezionale nelle questioni di affari, come dire che dipendeva dall’incentivo economico e dalla loro capacità di prefigurarsi le possibilità offerte dalla nuova industria. In tali questioni la società tedesca era in posizione particolarmente favorevole. Le classi in condizione di approfittare delle nuove imprese erano tradizionalmente abituate, sotto il precedente regime, a ricavare profitti relativamente bassi da simili iniziative produttive, e quindi una percentuale fissa di remunerazione aveva maggior richiamo per loro che non per una società affaristica abituata a redditi superiori; le risorse naturali da impiegare, essendo state relativamente poco sfruttate, si potevano ottenere a costi relativamente bassi, mentre era disponibile una provvista di operai competenti per salari molto ragionevoli; e l’ultimo, ma non il minor fattore, era la rottura con la precedente tradizionale situazione industriale e commerciale, che aveva lasciato le aziende tedesche più libere dall’ingombro delle restrizioni convenzionali e di un’attrezzatura e di un’organizzazione ormai superata, a differenza di quanto era avvenuto per i corrispondenti fattori di ritardo in ciascuno dei paesi contemporanei di lingua inglese. Quest’ultima voce nell’elenco dei punti in favore della Germania dovrebbe risultare abbastanza evidente se messa in confronto con la situazione ormai ammuffita dell’industria e del commercio nell’Inghilterra contemporanea, - di cui si è già parlato in un passaggio precedente. Essa potrebbe invece risultare meno evidente, forse meno pertinente, e perfino discutibile, per quel che riguarda la società americana, - il più avanzato tra i paesi periferici di lingua inglese. Naturalmente gli americani, la cui visione delle cose sia un po’ annebbiata da sentimenti patriottici, respingeranno una simile diffamazione del loro tanto vantato spirito di intraprendenza negli affari, ma si può fare affidamento su un esame spassionato dei fatti pertinenti per la convalida dell’affermazione così come stag. I capitani d’industria tedeschi che assunsero la direzione discrezionale

nella nuova epoca ebbero la fortuna di non provenire dall’educazione scolastica di una cittadina basata sulle vendite al dettaglio, la speculazione sulle aree e gli intrighi politici condotti secondo la regola dell’«accaparramento, spartizione e silenzio». Essi si sottoposero alla prova selettiva dell’idoneità mediante la condotta aggressiva dell’impresa industriale, non grazie al proprio successo come accaparratori conservatori in una distribuzione di spoglie finanziarie. Dal momento poi che al tempo stesso gli impianti industriali del paese, – salvo in verità trascurabili eccezioni locali – non dipendevano in linea di principio da strade e localizzazioni antiquate, i detentori del potere discrezionale erano liberi di scegliere avendo di mira soltanto la funzionalità meccanica delle varie localizzazioni per gli scopi dell’industria. Non avendo attrezzature obsolescenti né rapporti commerciali ormai superati che complicassero le cose, erano anche liberi di adottare i procedimenti della nuova industria nella loro forma migliore e più efficiente, anziché accontentarsi di compromessi tra le migliori attrezzature conosciute e quelle che erano state ritenute le migliori qualche anno o qualche decennio prima. Così pure nel caso del finanziamento delle nuove iniziative: dato che lo scopo non era tanto quello di guadagnar qualcosa senza dar nulla in cambio a mezzo d’imbrogli finanziari, quanto quello di trovare i mezzi economici necessari per le attrezzature e il capitale d’esercizio per la produzione di beni e servizi commerciabili, la procedura era relativamente semplice, senza che fosse praticamente necessario ricorrere ai mezzi clandestini e tortuosi dello squattrinato promotore di società, che mira a produrre titoli commerciabili di società per azioni1 Non che i promotori di società non fossero apparsi nella società tedesca nei giorni in cui erano in vista i miliardi francesi; ma in ultima analisi resta relativamente poco spreco o dissipazione di mezzi da segnare in perdita sul conto tedesco, a seguito di astute manovre finanziarie congegnate per sottrarre capitali all’industria a vantaggio degli strateghi dei sotterfugi conservatori. Questi avventurieri tedeschi nel campo degli affari, essendo capitani d’industria più che della finanza, erano inoltre liberi di scegliere i loro soci e i loro collaboratori tenendo più conto del loro acume industriale che della loro astuzia nel tendere agguati ai piccoli capitali in circolazione nella comunità. Quanto poi alla possibilità di scegliere tra uomini adatti, uomini dotati di capacità di lavoro, non immeschiniti in una vita politica d’angolo di strada, e dotati inoltre di sufficiente livello d’istruzione e di interesse per nuove prospettive industriali, – anche di questi non ne mancavano, dato che la

società tedesca era ben fornita di uomini istruiti, felici di trovare un qualche impiego convenzionalmente irreprensibile. Per mancanza di mezzi adatti a più drastiche forme di dissipazione, lo studio era stato per molto tempo una fondamentale risorsa dei giovani che avevano tempo ed energia da spendere. Dato quindi che le ordinarie professioni commerciali erano per convenzione un po’ al di sotto della dignità di un gentiluomo, al pari del resto del comune lavoro manuale, e dato inoltre che le professioni rispettabili quali la pubblica amministrazione, il clero e l’istruzione universitaria erano già affollate al punto da remunerare al minimo di sussistenza, questa provvista di giovani preparati rifluì prontamente nel nuovo canale aperto, che offriva una possibilità di lavoro relativamente lucrativa, palesemente vantaggiosa e non sicuramente disdicevole. Non appena questo afflusso di giovani si indirizzò verso l’industria, esso servì immediatamente da legittimazione di se stesso, assicurò una certa misura di giustificazione in termini di reddito a coloro che seguivano con successo la nuova carriera, e la sua stessa popolarità servì da sola a renderla di moda. I dirigenti responsabili e gli impiegati di queste industrie, essendo uomini provenienti dalle scuole invece che dal negozio di provincia o dallo studio di qualche piccolo leguleio, non erano incapaci di rendersi conto del complesso di cognizioni teoriche e tecniche indispensabili ad una condotta efficiente dell’industria moderna. Fu così che la società industriale tedesca fu attratta sicuramente e irresistibilmente sotto il governo degli esperti di tecnologia, così come, più o meno intorno allo stesso periodo, quella americana veniva attirata sotto il potere degli strateghi della finanza. I subalterni poi, al pari dei capi discrezionali delle diverse imprese industriali, erano abituati ad un tenore di vita relativamente frugale e a redditi relativamente modesti, dal momento che l’intera società tedesca si trovava per tradizione in una situazione di persistente scarsità di liquidi, con una mentalità piuttosto parsimoniosa. Le detrazioni dagli introiti lordi destinate ai salari e alle normali prebende per il personale dirigente erano di conseguenza piccole, se paragonate alla pratica corrente nelle più anziane società industriali o anche a quella che è gradualmente divenuta la pratica nella Madrepatria, in seguito ad una serie di anni prosperi. Lo stesso vale per la manodopera disponibile, numerosa quantitativamente e di buon livello qualitativo dal punto di vista sia fisico che intellettuale, che presentava inoltre il vantaggio di una grande arrendevolezza nei confronti dell’autorità ed era ben ammaestrata ad un tenore di vita poveramente frugale

– a buon mercato, capace e abbondante. Questa manodopera inoltre non era composta in alcuna misura apprezzabile da una popolazione «depauperata» del tipo congenitamente inservibile, – sottosviluppata, anemica, raggrinzita e incurvata – che si ammassa in così gran numero nelle città industriali inglesi, quale risultato dei primi cento anni di concorrenza negli affari di questa nazione, sotto il regime dell’industria meccanizzata. Sotto taluni riguardi anche quest’ultimo aspetto è sensibilmente mutato rispetto agli inizi; il tenore di vita è progredito, anche se non fino ad eguagliare quello dei paesi di lingua inglese; mentre al tempo stesso gli operai sono diventati in certa misura intrattabili e scontenti, ma non nello stesso modo caparbio con cui hanno messo a dura prova la pazienza e assottigliato i profitti dei capitalisti-datori di lavoro in quegli altri paesi. In passato in Germania le tradizioni della classe operaia, e invero anche quelle della classe media, hanno alquanto favorito il vantaggioso impiego delle donne nel lavoro manuale, e questa usanza tradizionale si mantiene ancor oggi in buono stato di conservazione; anche in questo caso, tuttavia, si avvertono sintomi almeno di una tendenza verso lo stesso atteggiamento generale che postula un’esenzione o esclusione delle donne, per ragioni di prestigio convenzionale, dagli impieghi manuali e in particolare dal lavoro manuale all’aperto. La società tedesca, peraltro, non ha dovuto finora subire una grave perdita da questa fonte di indebolimento; le donne tedesche, per esempio, continuano tuttora a lavorare nei campi e non hanno ancora acquistato una presunta inferiorità fisica, così come del resto non sembrano soffrire in misura proporzionalmente accresciuta delle malattie dell’ozio. È forse inutile ricordare che tutto questo, naturalmente, non si applica alle donne benestanti, che sono di salute non meno (convenzionalmente) cagionevole di quanto esigano le migliori costumanze. Sembra che agli inizi e durante gran parte della successiva, meno sofisticata fase dell’epoca industriale sia i dirigenti che la massa degli operai abbiano nutrito un vivo interesse per ogni genere di problema industriale, e specialmente tecnologico; conseguenza di questo ingenuo atteggiamento verso il loro lavoro era che essi non provavano alcuna imperiosa necessità di svago sistematico, quali gli sports, le leghe clandestine, i giornali a sensazione, l’ubriachezza, le campagne politiche, i dissensi religiosi e simili. Sempre per la stessa ragione, e cioè per la relativa assenza della noia, non si avvertiva la medesima esigenza di ferie e vacanze occasionali, che si verifica nelle più mature società industriali, dove gli interessi produttivi e l’informazione

tecnologica, per la lunga familiarità e la fastidiosità convenzionale, sanno di stantio al gusto degli uomini; e sulle stesse basi, le ore di lavoro potevano essere profittevolmente più lunghe, fino al limite in cui il lavoro non perdeva completamente il suo richiamo per la curiosità degli uomini e la sua attrattiva quale dimostrazione di esperta maestria. Svaghi e dissipazioni estranei agli interessi della giornata lavorativa non sono gran che necessari per mantenere gli uomini di buon umore e prevenire agitazioni nervose, finché la loro occupazione quotidiana continua ad attrarne la curiosità e di conseguenza l’interessata attenzione; e la perdita dell’appetito per le informazioni e le riflessioni su un argomento che fa presa così direttamente sulla curiosità degli uomini, quale il campo della scienza applicata definito tecnologia meccanica, è in gran parte dovuta alla moda e richiede, quindi, di essere propagata per imitazione e sostenuta tramite l’introduzione di qualche soddisfacente interesse sostitutivo; il che richiede tempo. Tuttavia, dato il carattere della situazione, si trova prima o poi un surrogato. Ogni società che viva mediante l’industria commercializzata rientra necessariamente, per tutto ciò che concerne i suoi canoni di decenza, sotto la sovrana giurisdizione del sistema dei prezzi; ammesso anche che si faccia un’eccezione parziale e temporanea a favore di un sistema gerarchico, religioso o militare basato sul grado, tale eccezione tuttavia resta solo parziale e probabilmente transitoria, né contesta del resto, nel punto in questione, il giudizio del sistema dei prezzi. E il sistema dei prezzi decide senz’ambagi che nessun interesse né alcuna mentalità abituale di natura così scopertamente vantaggiosa ed economica, quale l’attaccamento sentimentale all’abilità operativa, possono continuare oltre a godere di una buona reputazione in una società dedita agli ideali del denaro, dato che questo contrasta con il semplice principio dello spreco vistoso. È solo questione del tempo necessario a scoprire ciò, e a trovare ed elaborare in forma stabile un sostituto adeguato e non nocivo a quel principio. La risorsa più comune è un qualche tipo di sport, qualche tipo di dissipazione costosa e inutile al tempo stesso, che riesca a dare una plausibile impressione di «far qualcosa» in modo da non lasciar l’istinto dell’efficienza istantaneamente nauseato dalla sua futilità. Abbiamo notato in un precedente passo come in Inghilterra l’attaccamento agli sports, seppure per lo più non attraverso la pratica diretta di essi, rappresenti un’abitudine inveterata che permea la società in una misura francamente incredibile per qualunque tedesco che non abbia esperienza della vita quotidiana inglese. Questo attaccamento risale ad un’epoca anteriore

all’avvento dell’industria meccanizzata, anche se esso è oggigiorno, più che in qualunque momento anteriore, un’istituzione universale. Solo per gradi esso è giunto al suo apice e alla sua ubiquità attuale, pur avendo per molto tempo costituito una seria fonte di riduzione dell’efficienza industriale inglese, sia in quanto implica un futile impiego di tempo e di sostanze, sia perché occupa abitualmente la mente degli uomini con problemi meno che inutili per gli scopi dell’industria. Esso, tuttavia, è completamente incrostato di prestigio, dato che, pur essendo assolutamente inutile, al tempo stesso fa mostra abbastanza plausibile di successi ed è caratterizzato da un comportamento signorile al massimo grado. Nel corso della loro breve esperienza sotto il sovrano sistema dei prezzi, anche i tedeschi si sono aperti la strada con i gomiti nella cerchia dei doveri sportivi, in modo incerto e maldestro; tuttavia anche in questo settore, come nella loro compenetrata parsimonia, hanno ancora molto da imparare prima di poter aspirare a schierarsi tra i più raffinati popoli della civiltà finanziaria. Almeno nella sua fase attuale, che il popolo tedesco ha ricevuto in eredità, il moderno stadio della tecnica è legato alla sua amministrazione attraverso metodi affaristici e da parte di uomini d’affari. Questo significa che molto presto, in ogni società che adotti questo sistema tecnologico, gli interessi finanziari si impadroniscono del sistema industriale e lo dirigono all’unica finalità del profitto economico degli uomini d’affari. Mentre agli inizi la direzione economica appare almeno al servizio dell’iniziativa industriale, il risultato inevitabile è un capovolgimento del rapporto; l’industria, cioè, diventa uno strumento d’affari, venendo a rappresentare in ultima analisi, ai fini della direzione effettiva, un fatto casuale al servizio della strategia finanziaria. La strategia finanziaria mira ad ottenere il massimo profitto netto possibile per gli strateghi, che può coincidere o meno con un metodo direzionale in grado di assicurare il massimo incremento netto dei beni materiali o dell’efficienza produttiva della comunità. Nelle prime fasi dell’evoluzione tedesca il legame tra il profitto degli uomini d’affari e la produzione dei beni commerciabili era alquanto semplice e diretto, – tenuto conto delle necessarie eccezioni anche in tal caso. Tuttavia, con il passar del tempo e con l’evolversi della situazione verso una fase più matura, come quella prevalente nei paesi di lingua inglese dove il finanziamento delle aziende industriali è diventato un settore distinto di traffici, questo legame diventa meno diretto e consistente, fino a divenire affatto remoto e assolutamente dubbio. In tale situazione un

rallentamento o un arresto dell’industria può facilmente esser provocato da una direzione conservatrice delle società finanziarie, nel tentativo di conservare i propri capitali investiti, – capitali calcolati in unità monetarie –, ma con l’effetto di arrestare o ridurre altresì la produzione di beni materiali per la comunità, – beni calcolati in pesi e misure, – lasciando così, con l’andar del tempo, la comunità di giorno in giorno più povera. Esperienze di questo tipo si sono naturalmente verificate nella Germania imperiale quale necessario complemento di una direzione affaristica dell’industria; tuttavia, specialmente durante le prime fasi, quando la Germania stava adottando il sistema industriale moderno, esperienze di questo genere erano relativamente meno accentuate, dato che gli uomini d’affari erano occupati a soddisfare e organizzare le crescenti esigenze di attrezzature industriali, ritenendo che i loro guadagni dovessero derivare dall’incremento della produzione commerciabile. In rapporto a questi problemi un fattore di particolare importanza era rappresentato dall’ampio margine in base al quale era in grado di procedere l’industria tedesca, un margine tra un prezzo equo su un mercato facile da una parte, e un basso costo e limitate forniture dall’altra. Tale era la situazione nelle prime fasi dell’evoluzione e tale ha continuato ad essere, ma con un ritmo irrimediabilmente decrescente, man mano che l’industria tedesca si avvicinava alle condizioni di costo e di mercato prevalenti tra i rivali in commercio. Il margine si è ristretto, diventando precario e soggetto a dubbi e fluttuazioni, in parte perché la concorrenza ha invaso i mercati facili, in parte perché i costi di fabbrica e di vendita sono andati aumentando, in parte, infine, perché sono aumentate le spese di finanziamento. Uno degli elementi del declino del mercato dei prodotti industriali è rappresentato dalla caduta della domanda interna di maggiori attrezzature. Non si è trattato evidentemente di una caduta nell’entità assoluta delle richieste di nuovi impianti e servizi, se si considerano anche elementi concomitanti come nuove abitazioni o accessori domestici per la popolazione industriale e simili; infatti, in cifre assolute, tale domanda non mostra alcuna diminuzione, tuttavia, in rapporto alla produzione totale dell’industria tedesca in date precedenti e posteriori, non sarebbe difficile dimostrare che questo settore del mercato interno ha subito una contrazione. È altresì un dato di fatto che lo sviluppo effettivo del mercato estero non ha mantenuto il passo con l’aumento delle capacità produttive. Questo problema è di dominio pubblico ed ha ricevuto premurosa attenzione sia da

parte degli statisti tedeschi che dei vari comitati per il commercio. Esso è, anzi, una delle motivazioni addotte per la politica coloniale adottata nella seconda metà dell’amministrazione di Bismarck, e perseguita in seguito con maggior decisione da parte dei suoi successori. Può apparire singolare, a chiunque abbia familiarità con la realtà di fatto in materia, che un simile programma coloniale sia stato intrapreso seriamente con un simile fine, ma è anche impossibile non dar credito alcuno alle solenni asserzioni di questi uomini secondo cui la ricerca di mercati è stata uno degli incentivi principali della politica coloniale. È corretto presumere che nessuno, e tanto meno degli uomini così solennemente autocompiaciuti quali gli statisti prussiani, si sentirebbe di rivendicare una siffatta sciocchezza senza ritenersi destinato al ridicolo. L’aumento dei costì di produzione, iniziato in piccole proporzioni non molto dopo gli esordi della nuova epoca, ha rappresentato invece una difficoltà più sostanziale e più ostinata, accresciutasi con il crescere dell’industria tedesca, che d’allora in poi ha progredito con effetti cumulativi, – così come, del resto, dovrà necessariamente progredire ancora, nell’ulteriore evolversi della situazione, finché gli stessi fattori si manterranno attivi. In certa piccola parte questo aumento dei costì di produzione è di carattere artificioso, nei limiti in cui è effetto della capitalizzazione più che del dispendio fisico delle risorse e del deterioramento fisico; ma è nondimeno effettivo, dato che la capitalizzazione in questione diviene parte integrante delle condizioni sulla cui base è condotto il finanziamento delle iniziative industriali. In Germania come altrove le risorse naturali, al pari dei vantaggi differenziali di localizzazione, dei benefici differenziali di esenzione legale, dei sussidi e dei monopoli protetti dalle tariffe, sono stati entro certi limiti convertite in capitali fondandosi sui guadagni presumibilmente derivabili da queste voci utili in attivo. Ed essendo così convertite in capitali sono state prese come base per la stima delle aziende, e quindi per le concessioni di credito, venendo a figurare tra i capitali aventi diritto al tasso standard di remunerazione; ciò è più particolarmente vero ove voci attive di tal genere sono state introdotte nella capitalizzazione delle società per azioni, divenendo la base di spese fisse da pagarsi sugli introiti lordi. Questo processo di capitalizzazione dei vantaggi differenziali entro la comunità, con il relativo fardello delle spese fisse, è andato avanti gradualmente e con effetti cumulativi. Questa è una conseguenza inevitabile, o piuttosto concomitante, della direzione affaristica dell’industria, particolarmente quando si fa un

impiego estensivo del credito e della capitalizzazione nelle società per azioni; ed essa si espande necessariamente con il passar del tempo e lo sviluppo del sistema capitalistico. Contemporaneamente, e inevitabilmente trattandosi di un fatto intrinseco all’espansione del sistema industriale, i vantaggi differenziali di localizzazione e simili hanno parzialmente cominciato a svalutarsi per obsolescenza, e non hanno più un valore così elevato, derivante dalla capacità di retribuzione che era loro attribuita nel corso del processo di capitalizzazione. Nasce, in tal modo, uno sfavorevole divario tra le spese fisse che queste voci comportano o che quella determinata azienda riporta sulla scorta del possesso di quelle voci attive, e gli introiti derivanti da tale possesso. Questa obsolescenza, come abbiamo precedentemente notato, non ha necessariamente carattere di deterioramento fisico o anche di rimpiazzo da parte di più perfezionati meccanismi tecnologici; ma deriva semplicemente dal fatto che il sistema industriale nel complesso ne ha in certa misura superato l’impiego, per un mutamento di dimensioni, uno spostamento dei centri e delle vie della produzione, del trasporto e dello smercio, un trasferimento di altri organismi industriali collegati, un cambiamento nei requisiti standard e nelle richieste stagionali di lavoro e simili fatti che sono, in gran parte, al di fuori del controllo degli interessi affaristici in questione, e quindi irrimediabili. Queste varie cause di divario tra la capitalizzazione accettata e l’effettiva capacità di introito non mancano di aver il loro effetto, comparendo inevitabilmente in concomitanza con l’espansione, il mutamento e il riassetto di ogni società industriale governata da considerazioni finanziarie; e crescendo complessivamente di volume con il passar del tempo. Così, se la società industriale tedesca ha avuto la sua modesta parte di questi fenomeni concomitanti della moderna impresa industriale, è evidentemente destinata a subirne in futuro molti altri dello stesso tipo. Un’ulteriore difficoltà di altro genere, che finisce per produrre più o meno gli stessi effetti generali, deriva dal fatto che la espansione dell’industria supera le provviste di materie prime ricavabili dalle risorse naturali più vicine e più accessibili. Il che rende necessario ricorrere a fonti di rifornimento sempre più lontane e sempre più difficili, cosa che contribuisce a far aumentare i costi, sia che si debba attingere a risorse entro i confini nazionali o al di fuori di essi. Si risponde, e non v’è ragione di nutrire dubbi in proposito, che l’aumento del costo unitario delle materie prime è probabilmente almeno del tutto compensato dall'aumentata economicità della

produzione, resa possibile appunto dalla più vasta dimensione industriale che ha comportato il ricorso a risorse meno accessibili. Rimane tuttavia il fatto che la superiore efficienza della più vasta scala e portata del sistema industriale soffre nondimeno di questa riduzione, quale che ne sia il peso. In effetti questa era una delle difficoltà previste, a cui gli statisti dell’Impero, per qualche curiosa tortuosità della logica, si erano indotti a credere di poter porre rimedio tramite l’acquisto di colonie! Più serio di entrambi questi inconvenienti inerenti all’espansione del sistema ed ugualmente irreversibile è l’aumento dei costi di produzione dovuto all’aumento del tenore di vita, – forse più esattamente all’aumento del livello di spesa. Questo implica ulteriori guai, poiché, trattandosi di un aumento del costo del mantenimento delle classi lavoratrici, comporta un fardello di scontento e di irritazione, con gli ostacoli e i rallentamenti del funzionamento dell’industria inseparabili dai «conflitti del lavoro». Su questo punto anche l’epoca industriale tedesca è stata travagliata dalle sue difficoltà, cominciando nei primi tempi con trascurabili defalcazioni dal margine utile tra i prezzi di vendita e i costi, aumentando per gradi impercettibili, fino a diventare in pratica, nel corso di trenta o quarant’anni, un terribile problema. In Germania come altrove lo scontento degli operai originato dall’aumento del livello dei consumi si è parzialmente fuso con lo scontento delle classi soggette in quanto tali nei confronti dell’esercizio di un’autorità irresponsabile conferito alle classi padronali e privilegiate sia in virtù di privilegi consuetudinari e legalizzati sotto la forma di un governo aristocratico e autocratico, sia in base ai diritti di proprietà esercitati dagli stessi possessori. Questa fusione non è mai stata completa, anche se al tempo stesso non è sempre possibile distinguere tra le due componenti in ogni caso concreto. Le autorità hanno affrontato in modo molto efficace questa difficoltà che assale l’industria di tutti i paesi commercialmente progrediti, sia con concessioni e palliativi, sia con misure repressive; in questo modo la società industriale tedesca ha sofferto meno di quanto potrebbe sembrare appropriato in seguito a perturbazioni, impacci e attriti di tale origine. Eppure è evidente che, malgrado tutte le astute manovre degli uomini politici e degli organismi pubblici interessati, le richieste delle classi lavoratrici sono di recente salite ad un grado sconveniente, così da diventare quasi una minaccia per gli affari tedeschi, mettendo in pericolo il margine sul quale devono esser pagati i «profitti vivi» sui capitali investiti. Rappresenta inoltre un problema preoccupante per le autorità dello stato il fatto che tutto questo delinea

l’eventualità che il margine disponibile possa in tal modo divenire in futuro troppo ristretto per mantenere su una base confacente l’organizzazione politica e militare dello stato. Per quest’ultimo aspetto l’incremento del tenore di vita presenta un problema politico singolarmente fastidioso. Ad esempio nessuna infedeltà viene nutrita né è imputabile agli operai che chiedono una più larga partecipazione agli utili dell’industria, cosicché non si possono indirizzare appelli al loro sentimento patriottico con la massima grazia e con ragionevoli speranze di aver successo; anzi, per mantenere il fedele attaccamento di questa classe è necessario piuttosto convincerla che lo stato appoggia le richieste che essa avanza in buona fede e con convinzione. D’altro canto appelli consimili rivolti ai capitalisti-datori di lavoro sarebbero almeno altrettanto vani, dato che questi sono mossi soprattutto dal fine dell’interesse personale – altrimenti non sarebbero capitalisti-datori di lavoro – e sono inoltre avviluppati in una ragnatela di aperture di crediti, obblighi societari e spese fisse che lasciano loro ben poca scelta, salva l’alternativa di sottrarsi successivamente alla pressione trasferendo altrove i loro affari. In nessuno di questi riguardi, tuttavia, si può dire che la situazione abbia raggiunto una fase critica, anche se di recente una simile eventualità non è apparsa del tutto remota. Dato però che di tutto questo si sono occupati gli statisti imperiali e prussiani e che, in ultima analisi, si tratta di problemi loro più che di chiunque altro, ci pare più opportuno rimandare la nostra indagine su questo tema al momento di riesaminare la politica dello stato relativa a tali questioni. Ma l’aumento del tenore di vita interessa i ricchi e i benestanti così come coloro che lavorano con le proprie mani, e le esigenze convenzionali dei primi non sono meno pressanti di quelle dei secondi, anche se si situano su un piano assai più remoto dal minimo necessario alla sussistenza fisica. Il tenore di vita è in ogni caso soprattutto un livello di spese di prestigio, definito anche «vita decorosa», quindi il danno sofferto nel restare al di sotto di un tal tenore di vita decorosa è di natura psichica – nei limiti in cui le esigenze psicologiche di «decoro» non vengano soddisfatte a spese del benessere fisico, così da scaricare l’urto delle privazioni su quest’ultimo, facendo apparire che esiste un’effettiva abituale privazione, concernente le primarie necessità fisiche dell’esistenza. Questo è quanto succede comunemente, tuttavia, e nella misura in cui avviene è avvertito dalle vittime della privazione come una privazione fisica, il che la rende perciò ancor meno soggetta a correzioni o rettifiche facendo appello alla ragione o al sentimento.

Una scala standardizzata di spese decorose diviene vincolante tra i ricchi e benestanti così come tra i poveri; e, per ragioni su cui non è possibile dilungarsi in questa sedeh la scala delle spese che viene ad esser standardizzata ed accettata come fondamento del decoro in ogni classe o società è determinata più o meno dalla quantità di consumo sperperatorio che il reddito abituale della classe o società è in grado di consentire. Si tratta di un’altra applicazione del principio del «ciò che i traffici consentono». L’adattamento di questa scala convenzionale di sciupio vistoso ai limiti di tolleranza del reddito abituale è opera di un’assuefazione, che in quanto tale richiede tempo e un’attenta elaborazione. Ma non appena, o meglio nei limiti in cui un livello stabilito di spese decorose viene inserito nel tessuto delle abitudini quotidiane, esso prende posto nel novero delle necessità e viene considerato un fatto positivo e irreversibile. La società tedesca, con le sue tradizioni di frugalità tramandate dai giorni della parsimonia forzata, ha finora compiuto in questo senso solo progressi moderati. Non che i più prodigali nel suo ambito non siano abbastanza spendaccioni, ma la media non ha ancora veramente imparato a sperperare grossi redditi con la disinvolta efficienza che contrassegna il gentiluomo che ha ereditato la sua ricchezza, e ha goduto del beneficio di un’esperienza durata tutta la vita in una società di spreconi. Forse è ancora possibile affermare con sicurezza che un gentiluomo inglese del miglior stampo costa, tutto sommato, parecchie volte di più di un gentiluomo tedesco di posizione convenzionalmente uguale. Tuttavia i tedeschi ricchi e benestanti stanno assorbendo l’eccedenza con l’efficienza e la rapidità che ci si poteva ragionevolmente aspettare da loro. È opportuno tener presente che, essendo etnicamente identici ai loro compari inglesi, non si fanno certo lasciare indietro in questo aspetto del progresso culturale, solo che gliene sia data l’opportunità e un ragionevole lasso di tempo. Ovviamente non c’è alcuna intenzione in questa sede di censurare questo decoroso spreco di tempo e di sostanze. Esso è uno dei fenomeni che accompagnano necessariamente il sistema dei prezzi, e uno dei punti in cui la Germania imperiale non ha ancora raggiunto la parità con le nazioni industriali più mature. Tuttavia la società tedesca si sta muovendo con tanta efficacia in questa direzione che, salvo incidenti – il che rappresenta proprio nella congiuntura attuale una non piccola riserva – è possibile che il margine disponibile tra la produzione industriale e il consumo corrente sia destinato a sparire in breve tempo. Ad ostacolarne la sparizione attraverso tale canale potrebbe servire il continuo passaggio di fortune da un gruppo di uomini di

affari ad un altro e il continuo potenziamento della produttività industriale grazie al costante progresso della tecnica. a. In Germania gli economisti patriottici di quella generazione (metà dell’Ottocento), e i pubblicisti che ne riflettono le opinioni, parlando del tipo di politica da loro proposta, preferiscono la denominazione di «Economia Nazionale» a quella di Cameralismo. Vale forse la pena di notare, per inciso, che gli economisti dichiarati dell’epoca si preoccupavano soprattutto di formulazioni di politica più che di indagini teoriche a carattere distaccato. Le loro proteste contro il sistema di economia politica offerto calla scuola dei teorici inglesi (Classica) si appuntano soprattutto sull’argomento che la guida pratica offerta dalle formulazioni classiche non è di alcuna utilità, e non porta in realtà alcun particolare contributo alla costruzione di una potenza nazionale; e «nazionale», in questo contesto, sta a indicare uno stato dinastico organizzato per la difesa e l’offesa, e geloso tutore delle proprie frontiere. La differenza tra i tipici Cameralisti del Settecento e gli economisti «Nazionalisti» o Storici dell’Ottocento non sta tanto nei princìpi e nelle finalità quanto nella più ampia gamma di procedure e di mezzi che questi ultimi teorici debbono necessariamente prendere in considerazione, volendosi occupare delle fondamenta e dell’agenda economica dello stato. Dato che lo stadio del commercio e dell’industria era visibilmente cambiato rispetto all’epoca precedente, la politica economica più produttiva ai fini della potenza materiale dello stato avrebbe dovuto avere necessariamente una portata più vasta di quella che era parsa adeguata alla situazione precedente. Delle semplici misure di sfruttamento fiscale non erano più adeguate alla migliore utilizzazione di una società caratterizzata da estesi rapporti commerciali e da un sistema industriale capitalistico. Resta tuttavia vero che gli interessi materiali dello stato continuano ad occupare il primo posto nella scienza economica tedesca dell’Ottocento, e che in tutte le esposizioni sistematiche vengono dati alle considerazioni fiscali un peso e una preminenza quali non hanno mai goduto presso gli inglesi. La Scienza delle Finanze ha continuato a formare il più robusto filone delle teorie economiche tedesche, e da questa premessa deriva coerentemente che gli interessi dello stato sono fondamentali; mentre per gli inglesi, particolarmente quelli della Scuola Classica, è vero il contrario. b. Simili colonie tedesche avrebbero avuto ovviamente scarso o nullo valore per la dinastia; a meno che, verosimilmente, esse non avessero potuto raggiungere dimensioni tali e una tale misura di fedeltà alla corona da spingerle ad una secessione dal governo nazionale, sotto i cui auspici si fossero formate, e ad una volontaria affiliazione nel ruolo di colonie dell’Impero. Un tale evento appare scarsamente verosimile, dato che il costo economico della fedeltà all’Impero è notoriamente alto, mentre i suoi vantaggi economici sono alquanto dubbi. D’altro canto, neppure l’alacrità con cui i sudditi tedeschi che si stabiliscono all’estero cercano rifugio sotto qualche altra bandiera, – si sarebbe tentati di dire sotto qualunque altra bandiera – che non sia quella tedesca, induce affatto a pensare che una tale colonia si porrebbe volontariamente sotto la pesante mano dello stato imperiale. c. Anche un osservatore della competenza del professor Sombart (Die Deutsche Volkswirtschaft im XIX. Jahrhundert, vol. II), vede ed espone questo aspetto del problema un po’ a scapito dei vantaggi conferiti dalla stessa situazione. Egli riflette così nell’insieme l’opinione comune, che offre fertile terreno all’ammirazione (senza dubbio meritata) per le realizzazioni tedesche, come pure per un certo autocompiacimento e per una stima «razziale» da parte degli esponenti del germanesimo. Cfr., per esempio, Evolution of Modem Germany, di W. H. DAWSON, che gode del privilegio di essere stato trascritto alquanto per esteso (senza citarne l’autore e quindi con un’incondizionata approvazione) da un personaggio eminente del Servizio Diplomatico Imperiale; così pure, per esempio, The Cause and Extent of the Recent Industriai Progress of Germany, di E. D. HOWARD. Tra tutti gli studi sulla moderna fase economica della Germania l’indagine di Sombart, sopra citata, è senza dubbio la più utile per lo studioso di questo periodo. d. Qualunque esame storico di un’epoca industriale o commerciale basta a dimostrare come l’impianto di un’adeguata organizzazione bancaria, e di altri consimili organismi di finanziamento, rientrino tra le componenti della situazione che si possono dar per scontate. Essi attirano rilevante

attenzione pubblica ed esercitano ampia discrezionalità nei casi singoli, riuscendo in tal modo comunemente a tener desta l’attenzione, in particolare quella delle persone facilmente impressionabili dalle statistiche commerciali, e vengono così a godere di un’alta stima quali protagonisti dell’espansione industriale. e. Molto è stato detto, in genere in tono acrimonioso, sulla natura estremamente meccanicistica, monotona e stupida del ruolo svolto dal comune operaio nell’industria meccanizzata. Non di rado queste invettive riflettono un certo grado di ignoranza da parte di chi parla, e non vi è dubbio che l’invettiva arrivi spesso a sfiorare i limiti della esagerazione tollerabile. Fatte, però, tutte le debite concessioni alla esagerazione rimane ancora, da questo punto di vista, il fatto di una fondamentale differenza tra l’artigianato e l’industria meccanizzata, come appunto si è affermato sopra. f. Cfr. The Instinct of Workmanship, capp. II, III, VI, e VII. g. Vedi nota IV, p.617. 1. Veblen ha sempre presente il caso dello scandalo della St. Paul, Minnesota and Manitoba Company. Durante un procedimento giudiziario intentato dal liquidatore davanti ai tribunali del Minnesota, risultò che i promotori (guidati dal famoso James J. Hill) avevano impegnato i soli fondi necessari per stampare i titoli, ricavandone profitti smisurati grazie ai prestiti pubblici lanciati per la costruzione delle linee ferroviarie (1874). h. Cfr. La teoria della classe agiata, capp. II-VI.

CAPITOLO VII. LA POLITICA ECONOMICA DELLO STATO IMPERIALE In perfetto accordo con le tradizioni cameraliste e con la linea politica perseguita con un così ragguardevole successo dalla lunga successione degli statisti prussiani, il governo degli Hohen-zollern nella Germania imperiale ha posto coerentemente le esigenze dello stato, o della dinastia, a supremo oggetto della sua cura. Ha guidato la politica economica dell’Impero con saggezza lungimirante e con una determinazione scevra da compromessi; si trattava però di una saggezza dinastica e quindi di una politica sostanzialmente mercantilista, o perfino cameralista. Una politica dinastica aggressiva è necessariamente diretta al successo militare, e la politica imperiale ha conformemente fatto della potenza bellica la sua preoccupazione fondamentale. Lo stato, nel senso di potenza bellica coercitiva, è considerato l’interesse primario della società, al quale tutti gli altri si debbono piegare, nei precisi limiti in cui possono essere utilizzati per i fini dello stato. Altri interessi, diversi da quelli politico-militari, sono positivi e legittimi nei limiti in cui giovano o al massimo in cui non sono in alcuna misura dannosi a questo fine permanente degli sforzi. Coerentemente, la politica economica è stata diretta all’unico fine di incrementare ed economizzare le risorse dello stato inteso come potenza militare. È vero che questa politica è stata costantemente accompagnata da professioni di incrollabile determinazione a mantenere la pace ad ogni costo. È ovviamente impossibile, o forse inutile, tentar d’indovinare fino a che punto queste dichiarazioni appartenessero alla specie dei luoghi comuni della diplomazia. Si interpretano forse meglio, se un’interpretazione è necessaria, alla luce della politica prussiana relativa alle questioni di pace e guerra dai suoi inizi ai tempi del Grande Elettore fino ad oggi. Questa linea politica militaristica è definita «prussiana» dai critici dell’impero. E tale è, senza dubbio, dato che si svolge senza soluzione di continuità dalla prima fase dell’aggressione prussiana fino all’epoca imperiale. Tale era anche l’opinione che di essa nutrivano gli uomini degli stati minori,

particolarmente della Germania del Sud, nei primi tempi dell’Impero e in quelli immediatamente precedenti la sua formazione. E tale è forse ancora l’opinione clandestina di molti pacifici cittadini degli stati caduti sotto l’egemonia prussiana tardivamente e con riluttanza; tuttavia non è possibile per uno straniero discernere con sicurezza se così stiano le cose o meno. Da questo punto di vista lo spirito prussiano è stato apparentemente così ben infuso nel popolo tedesco in generale, che nessuna obiezione all’affermazione di una «Germania unita» appare sostenibile oggi: e la Germania è unita propria sull’ideale prussiano dello stato. Tuttavia, anche se lo stato imperiale e la sua politica sono di lignaggio prussiano, è facile sopravvalutare questo fatto. Va ricordato che se pure i sudditi degli stati della Germania del Sud, e in particolare un largo strato delle classi colte, erano sfavorevoli al governo prussiano e ai fini prussiani, la popolazione di questi stati, ivi incluse le classi colte, è passata nonostante tutto con una certa facilità sotto l’egemonia prussiana, accettando l’impostazione dei fini politici prussiani. A dire il vero gli stati non prussiani non avevano altro a disposizione, in fatto di sentimenti pubblici e di aspirazioni nazionali, se non una forma diluita della stessa tendenza. Le loro precedenti esperienze avevano seguito più o meno le stesse direttrici generali, salvo una certa mancanza di successo che aveva accompagnato la politica dei loro prìncipi. Erano in effetti stati dinastici di natura pressoché analoga, ma disegnati su una scala minuscola condannata all’impotenza; e dal momento che non esisteva alcuna tendenza abituale di natura diversa, nessuna inclinazione che contrastasse attivamente l'inculcazione della gamma di aspirazioni prussiane, l’assimilazione degli insegnamenti prussiani ne seguì con grande facilità. Non avendo alcuna positiva tradizione propria e nessuna impostazione istituzionale innata, che avrebbero dovuto infrangere per adottare il punto di vista e la disciplina prussiana, il cambiamento significava ben poco per i tedeschi del Sud se non, sostanzialmente, una dose maggiore delle cose alle quali erano già abituati. Non era, per esempio, come imporre il sistema prussiano ad un popolo di lingua inglese, dotato di innate nozioni di autonomia popolare e di iniziativa privata. Il perseguimento di questa politica statale ha avuto conseguenze molteplici e di larga portata per le sorti economiche della Madrepatria e del suo popolo, alcune delle quali abbastanza note tramite la ripetuta pubblicazione da parte di numerosi e variamente competenti sostenitori. Le grandi imprese della politica imperiale nel promuovere il progresso materiale del paese sono tra i

fatti più noti della storia contemporanea. Sarebbe quindi inutile a questo punto esaminare gli elementi della situazione, tanto più essendo già emerso in un precedente momento della ricerca come queste grandi imprese di promozione abbiano avuto soprattutto carattere negativo. Appare, invero, assai probabile che una Germania unita senza un sovrapposto stato imperiale – se una cosa del genere fosse concepibile – avrebbe raggiunto una misura di prosperità almeno altrettanto notevole. Il sistema economico del paese è stato sottoposto al controllo ogni volta che questo fosse ritenuto utile per raggiungere lo scopo voluto, cioè quello e solo quello di potenziare la capacità bellica dello stato. Il sistema ferroviario fu tracciato in base a direttive strategiche sotto la supervisione dello stato, mentre alcune delle strade costruite dallo stato lo furono senz’alcuna prospettiva di ricompensare il loro costo con pacifici traffici. Sempre per gli stessi scopi si era sovvenzionata e adattata la marina mercantile a scopi navali, nella costruzione, nelle attrezzature e nell’equipaggio. La legislazione tariffaria è stata predisposta in modo tale da distribuire e specializzare l’industria del paese per farne un’organizzazione produttiva autarchica ai fini delle esigenze militari e delle altre necessità della società in tempo di guerra, con il risultato incidentale di rendere la nazione libera e pronta ad entrare in guerra con brevissimo preavviso. La stessa legislazione tariffaria è divenuta uno strumento per favorire gli agrari, soprattutto i cosiddetti funders, il cui appoggio, ottenibile solo mediante concessioni ai loro particolari interessi economici, è ne cessano al governo per i suoi preparativi bellicosi. L’appoggio permanente dello stesso elemento bellicista è stato pure conciliato e sostanzialmente rafforzato, evitando a bella posta di adempiere alle norme costituzionali che prevedevano una periodica redistribuzione dei distretti parlamentari. La formazione di collegi elettorali artificiosi1 che ne deriva rappresenta un esempio scandaloso di corrotta politica dei partiti, così come i corrispondenti abusi che una volta sostenevano il potere dei proprietari terrieri inglesi nel parlamento britannico, nella fase più acuta della corruzione parlamentare in quel paese. Del pari ogni sviluppo di sentimenti popolari ostili all’imperialismo e all’oppressione è stato accuratamente sfrondato e represso tramite la drastica applicazione dei poteri polizieschi e il libero ricorso ad eccessi giuridici. D’altro canto si è mirato ad un’analoga soppressione o più propriamente subornazione dell’opinione popolare a mezzo di una legislazione di classe dichiaratamente intesa a favorire le classi lavoratrici con pensioni,

assicurazioni sulla vecchiaia, l’inabilità al lavoro eccetera. Inoltre l’organizzazione educativa, le scuole di ogni grado e tipo, come del resto la stampa periodica, sono state censurate, sovvenzionate, coartate in ogni settore e con efficacia, in modo da svolgere fino in fondo un’incessante propaganda di «germanesimo», cioè di aggressiva fedeltà alla politica dinastica dell’Impero. Quanto s’è detto nell’insieme attribuisce il più alto merito agli statisti imperiali e ai loro agenti per un lavoro ammirevolmente completo e per l’univoca dedizione al dovere, – una univocità non ostacolata da alcuna considerazione di diritto, equità o umanità – in effetti basata sui princìpi della legge marziale. Tutta la precedente descrizione del sistema imperiale porta con sé una nota di biasimo, perché molti dei particolari necessariamente impliciti nell’effettiva esecuzione integrale di un’opera così sistematica della «volontà di potenza», quale hanno compiuta gli statisti imperiali, sono censurabili agli occhi degli uomini d’oggi, nel cui modello di vita retta e onesta non trovano più posto elementi di questo genere. Il funzionamento della politica dinastica comporta inevitabilmente dei sacrifici per l’uno o per l’altro, dato che non è sempre possibile ad un politico dotato di senso pratico rispettare scrupolosamente le minute particolarità del costume e del gusto convenzionale nel manipolare il grezzo materiale umano che dev’esser plasmato per i suoi diversi impieghi. Il sistema ha insomma i difetti connessi con le sue qualità, e tra le sue qualità non si annoverano l’amabilità, la tolleranza e la franchezza. Uno stato dinastico non può galleggiare sul latte dell’umana bontà. Né d’altro canto l’equità o il valore estetico di quest’avventura imperialistica interessano la presente ricerca, che si occupa invece delle condizioni e dei limiti del suo successo. Chiunque affronti una simile ricerca si trova necessariamente davanti il quesito relativo a quale sia il fine di questi sforzi. Con un’incisiva figura retorica questo fine perseguito è stato definito «un posto al sole» per la Germania. La figura retorica parrebbe intesa a suggerire l’idea che ciò che si vuole sia un’equa possibilità per lo sviluppo vitale del popolo della Madrepatria. Il che, tuttavia, non significa evidentemente soltanto un’equa possibilità di benessere materiale per il popolo tedesco, inteso come aggregato di individui. Infatti non esiste alcun particolare fardello o ostacolo che gravi sugli individui, impedendo loro come singoli e come collettività di seguire personalmente le proprie inclinazioni naturali e di ricavare il massimo dalle loro possibilità ed attitudini, se non lo stato imperiale. Invero non è

assolutamente discutibile il fatto che l’uomo comune non ha proprio nulla da guadagnare sotto l’aspetto materiale dal successo dello stato imperiale. Esiste anche la scusa, espressa in buona fede e normalmente ammessa in buona fede, secondo cui la popolazione tedesca in aumento ha bisogno di terre dove questo aumento possa stanziarsi, secondo cui cioè la popolazione germanica si moltiplica sulla faccia della terra, e abbisogna quindi della sua quota parte di faccia della terra sulla quale moltiplicarsi. La faccia della terra però è notoriamente accessibile a qualunque simile moltiplicazione fuori dalle frontiere tedesche, esattamente come lo sarebbe se queste si estendessero fino ad abbracciare ogni territorio esterno. Dal punto di vista pratico si tratterebbe di un problema di trasporti e delle condizioni di vita offerte dai territori che si hanno di mira: e i trasporti non sarebbero affatto facilitati da un allargamento della frontiera germanica, mentre le condizioni di vita dei nuovi insediamenti non sarebbero per nulla più facili sotto un governo tedesco che sotto quelli attualmente esistenti nelle stesse località. Al contrario, l’esperienza par dimostrare in modo pressoché inequivocabile che il dominio tedesco rappresenta un bel fardello economico e che, in fatto di semplice economia privata, un uomo vive in genere più comodamente sotto praticamente ogni altro regime governativo nell’ambito del mondo civile. L’esazione fiscale sotto il governo imperiale è relativamente pesante, per non dire esorbitante; il grado d’interferenza esercitato di regola dallo stato sugli affari privati supera quello predominante altrove, ed è, a dire il vero, tollerabile solo in virtù di una lunga e integrale assuefazione. È infatti indiscutibile che, dal punto di vista economico, quell’eccesso di popolazione (previsto o prevedibile) della Madrepatria sarebbe più felice di attraversare la frontiera che non di portarsela appresso. Si potrebbe notare, a questo proposito, che le colonie tedesche non hanno finora attratto sostanzialmente nessun immigrante o colono tedesco, a parte i pubblici funzionari e gli uomini d’affari impegnati in imprese di sfruttamento; né, del resto, hanno attratto immigranti di qualunque altra nazionalità alla ricerca di un posto al sole sotto germanici auspici. I tedeschi che cercavano di migliorare le loro condizioni con l’emigrazione hanno continuato a scappare dall’Impero. Considerazioni più o meno dello stesso genere si applicano anche a parecchi altri aspetti, oltre a quello delle comodità materiali e delle possibilità offerte ai singoli emigranti. Non si può negare che l’emigrazione oltre le frontiere nazionali presenti degli inconvenienti; allo stato attuale delle cose,

tuttavia, è almeno assai probabile che nell’insieme la somma netta di questi inconvenienti debba gravare altrettanto, nel presente e nel futuro prevedibile, sugli immigranti diretti nelle colonie tedesche come su coloro che si recano altrove. È ovviamente una difficoltà trovarsi in una comunità dove si parla un’altra lingua, tuttavia la situazione non è più grave né più minacciosa per i coloni tedeschi in una delle maggiori colonie inglesi, o in altri simili paesi aperti all’immigrazione in cui si sono già stabiliti forti insediamenti di lingua tedesca, di quanto lo sia per coloro che vanno a stabilirsi nelle colonie dell’Impero. È prevedibile anzi che con il passar del tempo le generazioni successive di questi emigranti tedeschi adottino la lingua e gli altri costumi del paese d’adozione, senza che questo, quando accade, venga sentito come una privazione. Questi emigranti, con il loro naturale incremento, saranno perduti, è vero, per il mondo ci lingua tedesca, ma questo è un altro problema ed interessa un altro settore. Una difficoltà più grave e più immediata incontrata da coloro che si stanziano in un paese straniero è invece la loro mancanza di familiarità con le leggi del paese. Questo è un grave problema per la prima generazione, ma non lo è più quasi affatto per la seconda. A prescindere da questo, non si può praticamente dire che questi emigranti abbiano nulla da perdere, rispetto all’emigrazione verso una colonia tedesca, se non la perdita sentimentale rappresentata dal passaggio dei loro legami di fedeltà da un organismo nazionale ad un altro; questo passo, del resto, è facoltativo, senz’altro motivo di scelta che la propria inclinazione personale. Qualunque analoga enunciazione di vantaggi o svantaggi personali collegati all’emigrazione in un paese straniero, contrapposta all’emigrazione in una colonia della Madrepatria, risulta estremamente poco convincente; al pari, del resto, di ogni enumerazione dei benefici individuali ricavabili dall’organizzazione dell’Impero e della sua politica. Nell’insieme, infatti, tutto ciò suona falso e appare irrilevante, proprio come le severe smentite mediante le quali i diplomatici hanno l’abitudine di mascherare l’argomento centrale dei loro negoziati. La cosa, infatti, è futile quanto la verbosità di un difensore della pace. Questi non sono problemi d’importanza decisiva, seppur si può dire che abbiano un qualche sensibile peso tra i motivi che inducono gli uomini all’entusiastica conservazione di un organismo come l’Impero o a far sacrifici materiali per la Madrepatria. Il patriottismo, o la fedeltà, è un’inquadratura mentale, fondata su un’adesione sentimentale a certe aspirazioni idealistiche. Queste aspirazioni, è vero, in genere non reggerebbero ad un’analisi, ma per il loro fine particolare

rappresentano comunque delle valide e utili risorse. L’uomo comune non ha alcun interesse razionale al perdurante successo dell’organizzazione di governo sotto cui vive, se non nel caso in cui la caduta di questa possa gettarlo sotto il dominio di un altro governo che lo tratterebbe con durezza ancor maggiore. L’Impero, tuttavia, non può più offrire alcuna scusa plausibile su queste basi, dato che la paura della dominazione turca in Europa è ormai sparita. Eppure l’uomo comune, nella Madrepatria, è senza dubbio fedele alla sua organizzazione statuale quanto qualunque suddito europeo, e con ogni probabilità è assai più patriota dei sudditi della maggior parte degli altri stati europei, come è dimostrato dagli oneri economici e dalla sorveglianza coattiva cui il popolo tedesco si è sottomesso senza lagnarsi seriamente nel corso dell’epoca imperiale. Non è facile credere che una qualsiasi popolazione di pari intelligenza si sarebbe prestata con una simile pazienza, per non dire entusiasmo, ad un’impresa costosa e inutile quanto la politica imperiale. Ma questa, sia sotto il profilo economico che in rapporto alle condizioni di vita in ogni altro aspetto, non è una questione di guadagni o di perdite. Per il popolo, per l’uomo comune, si tratta di lavorare insieme disinteressatamente alla realizzazione di un ideale accettato acriticamente in quanto risultato dell’assuefazione; per i dirigenti, per l’istituto dinastico e per i suoi servitori, invece, si tratta di stabilire l’uso da farsi di questo disinteressato spirito di dedizione dell’uomo comune. Va tenuto presente, tuttavia, che per i sostenitori di questa impresa, presi singolarmente e tutti insieme, – ad eccezione forse dell’istituzione imperiale e della classe al potere, – l’opera cui si dedicano non ha carattere egoistico; né per gli uni né per gli altri il profitto finanziario, o comunque un guadagno materiale, rappresenta il fine ultimodell’impresa. Si tratta di qualcosa che non è possibile definire sordido, a meno che così si possa chiamare uno sterile auto-accrescimento della dinastia. Sebbene ogni critico severo della politica imperiale possa agevolmente e plausibilmente interpretarla come un’impresa di auto-accrescimento da parte dell’istituzione dinastica – alla superficie le apparenze sembrano confermare in modo assai convincente tale ipotesi – va notato tuttavia che tale motivazione non viene riconosciuta da coloro che esercitano il potere discrezionale in materia; né, al tempo stesso, c’è alcuna ragione di credere che sia questo il fine principale e consapevolmente accettato dal popolo tedesco nel dare il suo appoggio a quella linea politica. L’accrescimento dinastico è senza dubbio presente tra le aspirazioni su cui converge il sentimento popolare, ma vi sono anche molte altre cose. Può forse servire a ben poco, ma

non è comunque dannoso in alcun modo, tentare un’analisi della natura di queste «molte altre cose» comprese nel fardello di aspirazioni patriottiche portato dal popolo tedesco, che lo induce a prestarsi alla politica dell’Impero. Il fine ultimo di tutti gli sforzi, dichiarato più spesso e con maggior convinzione, è la conservazione e la propagazione della civiltà germanica. La civiltà è ovviamente un patrimonio immateriale, una categoria assai ampia il cui contenuto, seppure possa non essere del tutto chiaro nella mente di coloro che se ne servono, è tuttavia definito in misura sufficiente per poter essere applicato in modo del tutto intelligibile. Un’enumerazione delle caratteristiche di civiltà, incluse nel termine nella sua accezione colloquiale, potrebbe difficilmente sperare di risultare accettabile per tutti o di rendere giustizia al concetto di civiltà in senso lato – che, essendo un problema psicologico, non si presta a formulazioni statistiche. Alcune caratteristiche fondamentali della questione possono però essere formulate in termini obiettivi e impersonali. La civiltà, qualunque civiltà determinata, è un sistema equilibrato di abitudini, essenzialmente di abitudini mentali. Tra le abitudini generalmente predominanti nella Madrepatria, per esempio, quella più a portata di mano è la lingua. In alcune altre comunità culturali o nazionali il culto religioso correntemente accettato dovrebbe occupare il primo posto tra le caratteristiche tangibili che concorrono a formarne la particolare civiltà. Ciò varrebbe, per esempio, nel caso della Turchia, o forse della Spagna, o forse anche della Russia; tuttavia non in quello della Germania, dove non si riconosce, né lo si potrebbe, un particolare culto religioso. Sotto l’aspetto della lingua, il problema non sta nel volerne conservare l’attuale forma ad uso della generazione attuale dei sudditi tedeschi, quanto nel mantenerla per le generazioni future, estendendone l’uso a successive generazioni di popoli che non hanno ora l’abitudine di usarla. Pare che questo sia un problema umanitario, capace di influire sul benessere futuro del genere umano. Si tratterebbe presumibilmente, per dir ne una, della questione della vantaggiosità della lingua germanica, in contrapposto ad un’altra, – per esempio quella inglese, – ai fini degli aspetti della vita quotidiana, incluse scienza e letteratura. A questo proposito sembra in realtà che non vi sia molto da dire in favore o contro la convenienza di conservare o di estendere l’uso di questa lingua. I suoi meriti non vanno sottovalutati, ma appare estremamente dubbio che valga la pena, sotto il profilo dell’utilità generale, di fare degli sforzi per conservarne o estenderne l’usoa. C’è poco da scegliere, per esempio, tra inglese e tedesco, come veicoli di

comunicazione della scienza, e forse nel complesso il tedesco è la più difficile delle due lingue. Quanto al patrimonio letterario conservato nell’una o nell’altra, molto peso avrebbero nella scelta le predilezioni personali, anche se l’inglese ha il vantaggio di essere stato impiegato da una più lunga serie di autori, nel corso di un’esperienza culturale più estesa e più variata. Qualunque estraneo respingerebbe presumibilmente l’idea di un vantaggio culturale ricavabile tramite la sostituzione, in questo momento, del tedesco all’inglese; e non è improbabile che la sentenza di una corte imparziale darebbe più o meno lo stesso risultato se il paragone venisse fatto con il francese. E se il problema in esame non consiste in una sostituzione, non v’è alcun problema. La civiltà che si propugna comprende inoltre elementi tangibili quali la tecnologia e le scienze esatte. Queste sono componenti della civiltà occidentale in senso lato, non caratteristiche individuali della civiltà tedesca in contrapposto alle altre nazioni civili, e meno che mai, ovviamente, in contrapposto a quella britannica. Per una casualità storica la società britannica è sempre stata inequivocabilmente alla testa del progresso in questo settore fino a una data che rientra nella memoria di persone ancora viventi, – a chi spetti oggi il primato sarebbe un inutile argomento di discussione, dato che la mancanza di prospettiva non permetterebbe una valutazione spassionata e che i sentimenti sciovinistici non consentirebbero alcun accordo. Il fatto che il primato nella tecnologia e nel campo affine delle scienze esatte sia appartenuto agli inglesi è, come abbiamo notato, una casualità storica, che quindi non ha di per sé alcun particolare rilievo per il problema in esame. Ma tale situazione ha una sua importanza nel senso che mette fuori questione l’intero problema. In fatto di razza, e quindi di capacità e di attitudini innate per quest’opera particolare della civiltà occidentale, non vi è alcuna differenza accertabile tra tedeschi e inglesi. Nelle condizioni moderne, inoltre, le frontiere nazionali o linguistiche non rappresentano una barriera alla diffusione del sapere scientifico e tecnologico; d’altro canto la cristianità in senso lato ha un interesse puramente sportivo rispetto all’appartenenza nazionale dei suoi scienziati o tecnologi, alla sola condizione che il sistema di governo di ogni data nazione non sia tale da ostacolare la ricerca della conoscenza seguendo quelle direttrici. Ora, si dà il caso che il sistema di governo in queste due nazioni messe a confronto sia notevolmente differente, e cioè, per fare un esempio, quello tedesco è in misura notevole il più arbitrario e burocratico tra i due. Tale differenza dovrebbe indurre ad attendersi che la ricerca scientifica e

tecnologica, condotta sotto gli auspici dell’uno, assuma in una certa misura ambito e metodo diversi, portando a risultati differenti rispetto a quelli prevedibili sotto gli auspici dell’altro. A priori, ne consegue presumibilmente che l’attuale lavoro scientifico e tecnologico dovrebbe assumere sotto il condizionamento tedesco una maggiore «perfezione», nel senso di una meticolosa attenzione ai particolari e di un diligente lavoro di routine, con risultati più notevoli per elaborazione e serietà che non per brillanti e vaste innovazioni nel campo dei concetti generali necessariamente utilizzati in questo lavoro. Laddove invece, in una certa misura – e solo in una certa misura, dato che la differenza determinante tra i due sistemi di civiltà è solo una questione di gradazione, – il contrario dovrebbe valere per i paesi di lingua inglese e presumibilmente, in modo ancor più accentuato, per i francesi. Tale invero sembra esser anche il relativo svolgimento dei fatti, anche se è sempre pensabile che la probabilità anteriore di un simile risultato possa predisporre a vedere i relativi f atti in una luce tale da convalidare appunto quella probabilità anteriore. Può anche darsi, naturalmente, che il primato permanente della Francia e dei paesi anglosassoni nelle concezioni più vaste e creative, in linea teorica, della scienza e della tecnologia sia di natura transitoria, e che gli specialisti tedeschi possano tra breve assumere il ruolo di guida, quando la loro società abbia avuto il tempo e le possibilità per una matura assimilazione di quell’abitudine mentale impersonale e empiricamente concreta che costituisce necessariamente la base di ogni lavoro creativo in questo campo. Nel frattempo i due paesi, in base appunto alle loro differenze, dovrebbero presumibilmente continuare a svolgere un lavoro reciprocamente complementare, proprio come nel recente passato. Sembrerebbe infatti che la civiltà germanica non abbia nulla di originale da offrire in questo campo, dato che tutto quello che i tedeschi possiedono è stato così di recente mutuato da fonti inglesi (e francesi), che nessun sensibile vantaggio potrebbe esser conseguito mediante un processo che lo sostituisse alle sue stesse fonti. Resta, tuttavia, da tener conto delle conquiste e del patrimonio accumulato dai tedeschi nel campo della filosofia, la cui diffusione libera, o anche obbligatoria, viene ritenuta come un fondamentale beneficio culturale per l’umanità. Nei limiti in cui il termine «filosofia» non è inteso nel senso colloquiale di una stima personale del valore da annettersi alle varie istituzioni e agli avvenimenti della vita, esso dev’esser applicato in questo contesto per designare la visione morale e metafisica racchiusa in quel complesso culturale.

Anche qui, come nei precedenti aspetti, la differenza tra le società vicine è necessariamente una differenza di assuefazione e non di qualità razziali o ereditarie, dato che da quest’ultimo punto di vista differenze non ve ne sono. In fatto di assuefazione, e delle relative tendenze abituali capaci di conferire al pensiero filosofico un ambito e un metodo caratteristici, la particolare fisionomia del caso tedesco deve quindi considerarsi un precipitato della peculiare esperienza che ad esso può esser stata apportata dalle circostanze storiche, prima che cominciasse ad adottare seriamente la tecnologia moderna e la logica della scienza moderna. Non vi è una sorgente o un punto di partenza diverso o posteriore per una filosofia distintamente germanica; chiamare «tedesco» qualunque sistema filosofico di altra origine sarebbe un’inesattezza, ed ogni tentativo di conservarlo come pietra miliare o fondamento della civiltà tedesca sarebbe di conseguenza uno sforzo sprecato. I meriti di tale eredità del popolo tedesco, in fatto d’intrinseca verità e bellezza, non possono ovviamente esser oggetto di indagine in questa sede, dato che in ultima analisi si tratta di una questione di gusto sulla quale non può esservi discussione. È invece più appropriato ricordare che dal momento che questo caratteristico precipitato filosofico delle esperienze storiche della società tedesca, che fa la sua comparsa nel diciottesimo secolo e raggiunge il suo apice maturo nel diciannovesimo, è espressione filosofica dello spirito romantico, esso risulta vitale solo entro le frontiere spirituali del Romanticismo; cioè, fin dal momento e nei limiti in cui il popolo tedesco ha effettuato il passaggio dal Romanticismo alla logica e all’intuizione empirica tipici della moderna tecnologia e scienza applicata, la filosofia caratteristica del passato tedesco diventa anch’essa un fenomeno dell’epoca passata. Può continuare a vivere e a guidare ed ispirare la vita e il pensiero della società solo a condizione che questa ritorni alle condizioni di vita che hanno dato origine e forza a quella filosofia, come dire solo a condizione che la nazione germanica retroceda dal suo attuale progresso nel moderno stadio della tecnica, scartando gli elementi del moderno modello istituzionale che ha finora accettato. Ma con una simile regressione nella direzione del modello di vita feudale e medioevale, se mai fosse concepibile, verrebbe a cadere anche il problema in questione; infatti una simile regressione implicherebbe un ritorno alle ridotte e inette dimensioni dell’epoca pre-capitalistica e preimperiale della Germania. La filosofia tipicamente tedesca è singolarmente inefficace ai fini della scienza moderna, e peculiarmente incapace di ricollegarsi o di gettar luce su

alcuno dei problemi di cui si occupa la moderna ricerca scientifica. È una filosofia idealistica, cioè, nel punto del suo massimo avvicinamento al campo dei fatti concreti, è una costruzione teorica in termini di ragion sufficiente, anziché di causa efficiente, in termini di luminosa valutazione personale più che di opachi dati di fatto. Non è possibile metter in dubbio le sue alte qualità e il suo grande valore estetico; è un monumento di quanto vi era di meglio nella vita tedesca nei giorni antecedenti al diluvio tecnologico, che non trova, tuttavia, alcuna applicazione nel sistema di pensiero nel cui ambito vivono e si muovono la scienza e la tecnologia moderna. Residui di essa fluttuano ancora nell’atmosfera del mondo accademico tedesco ed è anche vero che, all’ombra del feudalizzante stato prussiano, si sono fatti recentemente degli sforzi, ben consigliati o meno ma comunque ben intenzionati, per riabilitarlab. Ciò, peraltro, va correttamente considerato come indicativo del grado di reversione implicito nella politica imperiale e del grado di ribellione suscitato dal condizionamento della vita sotto il suo sistema istituzionale, anziché come riprova della vitalità del sistema filosofico nelle moderne condizioni di vita. Consimili residui anacronistici dell’antico regime possono riscontrarsi in vigore in certa misura anche altrove, come del resto anche altrove è rintracciabile una corrispondente reviviscenza atavica del gusto per le speculazioni filosofiche; peraltro, a parte le aspirazioni francamente medioevali proprie della mentalità teologica dei figli della chiesa, tali ricadute sono assai più evidenti nella Germania imperiale, forse in particolare nella Germania prussiana, che non tra i dotti della cristianità in generale. Ci si perdoni ancora una volta la tediosa precauzione di sottolineare che tutto questo non implica affatto lode o biasimo per le predilezioni filosofiche trasmesse dal passato pre-meccanicistico che uomini, istruiti con metodi istituzionali trasmessi fino nel presente sotto l’egida dello stato dinastico, mirano a riabilitare nel presente meccanicistico. E nemmeno s’intende implicare che un simile tentativo di riabilitare una logica ed una visione delle cose, che una volta si riconnettevano al condizionamento della vita quotidiana sotto quelle istituzioni passate, sia necessariamente uno sforzo vano. Quel che invece si vuol sottintendere è che una riabilitazione effettiva della filosofia romantica è condizionata alla riabilitazione del modello istituzionale e tecnologico del periodo romantico – forse un po’ a somiglianza della situazione dei tempi in cui il Sacro Romano Impero era affidato ad un curatore. È nella migliore delle ipotesi estremamente dubbio se il sistema

dinastico dell’Impero e il suo modello istituzionale potrebbero giovarsi di una conservazione e di un ritorno alla filosofia romantica, sia pure nella forma del periodo immediatamente pre-darwiniano della dottrina tedesca. Anzi, andando oltre, si potrebbe dire che, a meno che il condizionamento del sistema imperiale non abbia qualche effetto del genere sull’atteggiamento intellettuale predominante dei suoi sudditi, anch’esso cadrà in decadenza sotto l’urto delle stesse forze di assuefazione che hanno concorso a rendere futile la filosofia romantica agli occhi dell’uomo moderno. A proposito della civiltà germanica, presa singolarmente, rimane da parlare proprio del modello istituzionale a cui ci si è ora riferiti, cioè sostanzialmente del sistema amministrativo dell’Impero. Nei limiti in cui il modello tedesco è distinto e individuale, così da porsi in contrasto con i corrispondenti usi e costumi di altri paesi europei e da contrassegnare un aspetto della vita tedesca, esso rappresenta attualmente una forma caratteristica di compromesso tra l’autocrazia irresponsabile dello stato medievale e l’autonomia dell’autogoverno popolare. Generica mente parlando, il sistema tedesco differisce da quello di altri paesi moderni per avere un carattere un po’ più coercitivo, comportando una maggior misura di autorità ed una minore di autogoverno popolare. Nel caso dell’Inghilterra, per esempio, – e cioè delle popolazioni di lingua inglese, – il compromesso rappresentato dal modello istituzionale accettato, e più o meno popolarmente accettabile, rappresenta un ritorno abbastanza accentuato all’autonomia anarchica di vicinato che costituiva l’ordinamento preistorico della società presso i popoli nord-europei, com’è emerso in alcuni passi precedenti della ricerca. Non che il vantato «autogoverno» degli «anglosassoni» si avvicini pericolosamente all’anarchia neolitica, o anche al governo semi-anarchico dei minuscoli regni del tardo paganesimo scandinavo; ma vi è certo più vicino del compromesso tedesco, in quasi tutti i punti in cui ne differisce; esso appare, ai sostenitori del sistema tedesco di repressione mitigata, come un discutibile giocare a tira e molla con l’anarchia, un albergare la «licenza» sotto l’insegna della «libertà». Il ritorno verso l’arcaico governo semi-anarchico ha fatto relativamente poca strada nel sistema tedesco, in corrispondenza con la relativamente breve e scarsa esposizione della popolazione tedesca all’urto disgregatore dello stadio meccanicistico della tecnica, – disgregatore rispetto alle abitudini di soggezione e di asservimento al potere personale che caratterizzano lo stato dinastico e costituiscono lo spirito della fedeltà personale.

Anche in questo caso è vano discutere i meriti intrinseci dei due contrapposti modelli istituzionali. Appare evidente che la semi-autonomia alla quale i popoli di lingua inglese rivolgono la loro predilezione si avvicina di più alla matrice istituzionale del moderno stadio della tecnica; ma ciò equivale a dire solo che essa è più prossima al risultato incontrollato delle abitudini mentali favorite dalla moderna scienza e tecnologia, e non che è per questo un sistema di vita più adatto all’uomo civile, anche quando la sua vita viene resa possibile per mezzo di tale scienza e tecnologia. Appare parimenti evidente che, dopo un’esperienza più prolungata dell’industria moderna, la predilezione popolare delle popolazioni di lingua tedesca dovrebbe orientarsi sempre più nel suo modello istituzionale, per effetto dell’assuefazione, verso un’analoga autonomia popolare. Tuttavia, anche se può esser in vista un tale mutamento della base psicologica, rimane valido il fatto che un tale cambiaménto sarebbe oggi avverso, per non dire disastroso, per il popolo tedesco. L’attuale sistema imperiale di repressione mitigata e di direzione burocratica è apparentemente accettabile per il popolo tedesco ed apparentemente ottiene buoni risultati, anche se si può presumere che non funzionerebbe se imposto ad un popolo con un diverso passato storico recente. Il suo ottimo funzionamento nella Madrepatria potrebbe attribuirsi in parte al fatto che il popolo è emerso così di recente da uno stato di incondizionata fedeltà feudale e soggezione, che perfino la tenue e dubbia mitigazione del governo personale irresponsabile rappresentata dal sistema burocratico prussiano è sentita come un sollievo e un privilegio; essa è «libertà» in confronto con le condizioni ancor vive nella tradizione e, in certa misura, nel perdurante atteggiamento abituale dei sudditi, anche se potrebbe sembrare «schiavitù» ad un altro popolo con una diversa esperienza tradizionale e una diversa inclinazione abituale. Questo sistema burocratico di direzione e di controllo ha il merito di una grande efficienza e di esser manifestamente giovevole agli scopi che è destinato a servire; scopi che incontrano, nel complesso, la cordiale approvazione dei sudditi dell’Impero. Il fatto che sia così straordinariamente efficiente e riuscito è non di rado attribuito dai suoi sostenitori al grado singolarmente elevato d’onestà, sobrietà, intelligenza ed energia che si considera innato nel carattere tedesco – cioè il suo riuscito funzionamento viene attribuito alla presenza di certi caratteri ereditari nel popolo tedesco. Ma dal momento che non v’è alcuna differenza razziale, e cioè ereditaria, tra il popolo della Madrepatria e i suoi vicini sia a est che a ovest, questa

spiegazione viene a cadere e la curiosità riporta all’interrogativo: per quale ragione il sistema prussiano-imperiale di direzione e controllo burocratico è più efficiente e libero dagli abusi che non, per esempio, la burocrazia un po’ stantia dell’Austria, e la massiccia ragnatela di corruzione ufficiale che ha, fino a poco tempo addietro, mandato avanti il governo amministrativo della Russia, o, ancora, il sistema turco che sono strutturalmente della stessa specie, e che sono colloquialmente definiti «inqualificabili»? Dato che una spiegazione in termini di caratteristiche razziali ereditarie non può servire se non per una edificazione predicatoria, l’unico modo per analizzare il caso consiste nel far ricorso alle particolarità dell’assuefazione. In questo rispetto il modello prussiano-imperiale occupa un posto singolare, per diversi aspetti, di cui si possono richiamare all’attenzione i principali. Tra le peculiarità della situazione che giovano all’efficienza e all’integrità, il primo posto spetta al suo carattere recente; esso non ha ancora avuto il tempo d’invecchiare e maturarsi in una conveniente routine di prebende e di sinecure. Si dice che esistano segni secondo cui un’evoluzione in tal senso non mancherebbe del tutto, ma in genere si ammette che almeno ciò che oggi si chiama colloquialmente «corruzione» è relativamente assente; laddove nelle istituzioni più mature dello stesso genere, per esempio nel caso turco o persiano, la corruzione» sembra essere il nòcciolo strutturale del sistema e la molla primaria del suo funzionamento. Le tradizioni del popolo tedesco, ivi inclusi i pubblici funzionari, sono tradizioni di frugalità e parsimonia, del tutto necessarie del resto, che sono poi rafforzate in questo contesto da una tradizionale fedeltà al servizio di un padrone con il quale il pubblico funzionario sta in un rapporto di servizio personale. I miglioramenti nelle condizioni economiche dei pubblici funzionari statali realizzati dai generosi stipendi del servizio, in contrasto con la penuria del passato, non s: sono ancora trasformati in condizioni diffusamente inadeguate, diventando così il punto di partenza dello scontento e di più alte aspirazioni di reddito. Al tempo stesso compensi immateriali quali il rango, le decorazioni e la regale benevolenza hanno più valore in una società nutrita a lungo di distinzioni di rango e che non ha ancora raggiunto una adeguata valutazione degli standards commerciali. Questo e altri prodotti incidentali dell’immaturità possono venire superati. Analoghe considerazioni possono applicarsi all’attuale efficienza di questo sistema burocratico. Apparentemente è inevitabile che un tale sistema raggiunga gradualmente una certa conformità di procedura, un vincolante

tessuto di routine e di precedenti. Finché la routine è ancora in fase di adattamento alle esigenze in vista delle quali viene elaborata, essa ha l’effetto di un ritardo o impaccio assai lieve, se non nullo, sul lavoro da fare. Essa rimane flessibile per tutto il tempo in cui è impegnata a stabilire dei precedenti, ma non appena e nei limiti in cui i precedenti siano stati stabiliti e nella misura in cui le esigenze cambino gradualmente carattere, così da esser soddisfatte meno bene da una routine fondata su precedenti già prestabiliti, il sistema burocratico funzionante in base a questa routine diventa, in misura corrispondente, inelastico e inibitorio; in tal modo la quantità di movimenti sprecati e di energie disperse aumenta, insieme all’ampliarsi del margine delle gratifiche e delle sinecure. Nel migliore dei casi si possono ovviamente fare solo delle congetture su quale ritmo di avanzamento e quale misura finale di questa senescenza siano da ricercarsi nella burocrazia prussiano-imperiale; tuttavia, la sua estrema mole, estensione ed elaborazione sembrano suggerire come assai probabile un risultato del genere e di misura assai considerevole, dal momento che l’attuale stato di cose lascia ben poco della vita tedesca fuori della portata del sistema burocratico, offrendo così poco spazio a qualsiasi combinazione di forze che potrebbe, presumibilmente, ritardarne la completa decrepitezzac. A questo punto, quindi, l’aspirazione dei tedeschi patrioti ad estendere i benefici del sistema imperiale all’umanità nel suo complesso nelle sue future generazioni è, nel migliore dei casi, una discutibile teoria. Da un parte, infatti, se il sistema di direzione burocratica mantiene il suo dominio, esso è destinato secondo ogni umana probabilità a cambiare di carattere in modo alquanto sensibile nella direzione che hanno seguito altre amministrazioni burocratiche di tipo autocratico; mentre se d’altra parte le moderne abitudini mentali, quali si manifestano nella più recente scienza e tecnologia, sfociando in una sconfessione popolare delle istituzioni autocratiche e dinastiche com’è accaduto ai paesi che hanno preceduto la Germania sulla via del progresso industriale, portassero di conseguenza alla disgregazione dei fondamenti di questa burocrazia, i benefici apportati dalla sua estensione sarebbero, nel migliore dei casi, assolutamente effimeri. A parte un’ambizione feudale, patriottica in senso ingenuo e semplice, tendente ad ampliare il dominio dinastico dello stato imperiale quale potenza regnante, sembra che in una politica imperiale aggressiva non vi possano essere molti aspetti tali da accattivarsi seriamente il favore del popolo tedesco. Non esiste sostanziale fondamento per delle aspirazioni a propagare o

conservare la civiltà germanica in quanto distinta; ed anche postulando che qualcosa possa esser fatto in favore della sua diffusione all’estero, le possibilità che una tale diffusione produca un effetto sostanziale o durevole sembrerebbero troppo scarse. Come società civile la Madrepatria è, in questo momento, in una fase altamente instabile e transitoria. La sua popolazione si trova nella posizione singolarmente sfavorevole – sfavorevole nei suoi attuali aspetti immediati – di esser uscita da una condizione di civiltà antiquata così di recente da non aver potuto in effetti dimenticare quello che era necessario dimenticare; mentre, al tempo stesso, non è stata in contatto con gli aspetti del mondo moderno abbastanza a lungo o abbastanza intimamente per aver pienamente assimilato gli elementi caratteristicamente moderni della civiltà occidentale. Questo non significa che essa non sia in grado, nell’attuale momento di transizione, di cavarsela nel miglior modo possibile in ogni e qualsiasi settore che possa presumibilmente valerne la pena; significa però che non è in grado di assumersi, con la benché minima possibilità di successo, nel bene o nel male, un rapporto di tutela nei confronti di qualunque altra società. Pur essendo fisicamente, tecnologicamente, politicamente e socialmente compresi entro le frontiere della moderna cristianità, i tedeschi sono pure, in qualche aspetto ineliminabile e soprattutto in quello industriale, dei nuovi venuti il cui sistema di vita non è ancora stato rielaborato sull’immagine di quella civiltà alla quale si vanno accostando in forza di un’inevitabile assuefazione, – inevitabile salvo una ritirata precipitosa verso la fase più arcaica della civiltà occidentale dalla quale sono appena sfuggiti. Forse non è ancora troppo tardi. Forse sono ancora in grado di effettuare una tale ritirata ricorrendo ad una reazione così drastica nelle loro istituzioni civili e politiche da compensare, neutralizzare in breve e finalmente disperdere gli effetti risultanti dall’assuefazione ai processi ed ai mezzi dell’industria moderna e delle scienze esatte. Esiste, ovviamente, la lezione oggettiva della Turchia, che insegna che c’è sempre un’altra strada e che non bisogna sottovalutare l’efficienza culturale di una tenace adesione ad istituzioni arcaiche, di fronte ad ogni eventualità. 1. Nel testo gerrymander, vocabolo tipico del gergo politico americano, derivato dalla fusione delle parole Gerry e salamander (salamandra); quest’ultima si riferisce alla curiosa forma di un collegio elettorale frutto delle manipolazioni di Elbridgs Gerry, corrotto governatore del Massachusetts all’epoca di Jefferson. a. Pur riconoscendo che si tratta necessariamente di una questione di predilezione sentimentale, in cui gli argomenti pratici in senso late possono aver influenza puramente secondaria, un estraneo, per cui l’inglese non sia la lingua madre e a cui, al tempo stesso, non sia sconosciuto il tedesco, può forse

confessare senza presunzione la sua totale incapacità di veder utilità alcuna nella sostituzione del tedesco all’inglese, in uno qualunque degli usi del linguaggio. b. Tale dev’essere la valutazione dell’orientamento vitalistico e neokantiano delle più recenti speculazioni filosofiche tedesche e del «ritorno a Goethe», di cui si è parlato con tanto sentimento. Questo tentativo di rifarsi al passato può forse interpretarsi meglio come un mero movimento di reazione, ma può anche esser assunto come riprova dell’efficienza di quel condizionamento alla valutazione personalistica e alla differenziazione tra gerarchie di potenze e virtù occulte costantemente esercitato dal potere personale coercitivo e dal governo dei suoi rappresentanti. Cfr., per esempio, HENRI LICHTENBERGER2, Germany and Its Evolution in Modern Times, vol. III, cap. V; ALIOTTA, The Idealistic Reaction against Science3, forse specialmente la parte I, sez. I, cap. II, la sez. II, capp. II e III e la «Conclusione». Qualsiasi osservatore attento nota una caratteristica divergenza in questo rispetto tra le speculazioni filosofiche anglo-americane e quelle tedesche. Mentre le prime ricorrono in prevalenza a concezioni semi-soggettive sul tipo del Pragmatismo, le seconde inclinano a rifugiarsi in concezione mistiche di un vitalismo supersoggettivo o preternaturale, un Sollen e un Ueber-Ich trascendenti. 2. Henri Lichtenberger, germanista francese (i864-1941), docente alla Sorbona. 3. Antonio Aliotta (n. 1881). Filosofo «sperimentalista», docente a Napoli. Il testo citato fu pubblicato a Palermo nel 1912. c. È vero che l’attuale congiuntura (aprile 1915) potrebbe aver tali sviluppi che delle riflessioni circa il futuro del sistema burocratico imperiale potrebbero rivestire un interesse poco più che speculativo.

CAPITOLO VIII. IL VANTAGGIO NETTO Nel corso del capitolo precedente è risultato che qualunque progetto teso a trasfondere gli elementi caratteristici della civiltà tedesca contemporanea all’estero, tra le altre nazioni della cristianità, sarebbe vano, poiché, per quanto intrinsecamente desiderabile possa essere, ciò che la Madrepatria ha da offrire in questo senso è superato nei suoi elementi e quindi privo di contatto con le abitudini mentali proprie di società di civiltà più matura, come, ad esempio, l’inglese o la francese. La principale caratteristica che distingue la civiltà tedesca è una postuma aderenza a certe abitudini di pensiero medioevali o semi-medioevali le cui equivalenti risalgono, nell’esperienza di queste altre nazioni, ad un periodo di molto anteriore all’attuale presente storico. Partendo dalle stesse premesse, si è concluso che qualunque tentativo di mantener fermo il nucleo principale della tipica civiltà germanica allo statu quo entro i confini della Madrepatria sarebbe analogamente vano, trattandosi di un modello di civiltà superato e privo di contatto con la propria realtà, in quanto in parte arcaico e in parte completamente nuovo. Tutto questo non influisce naturalmente sui meriti intrinseci di questo complesso di civiltà né sulla questione della sua desiderabilità; inoltre s’intende solo, com’è ovvio, descrivere i fatti relativi e l’effettiva realizzabilità di un tale ipotetico tentativo, e non esporre la serie dei convincimenti correnti su questo tema tra i fedeli sudditi germanici. Vista in tal modo nel suo contesto storico e alla luce delle circostanze che l’hanno formata e che continueranno a determinarne in futuro l’esistenza storica – considerata cioè geneticamente, – questa varietà della civiltà occidentale è, evidentemente, una fase eccezionalmente instabile, transitoria e in un certo senso immatura. Tenendo insieme, più che combinando, alcuni elementi arcaici – come, per esempio, la sua tradizionale inclinazione per la metafisica romantica e la fedeltà feudale, – accanto ad alcune tra le più recenti ramificazioni della scienza meccanicistica e ad un’applicazione senza limiti dell’industria meccanizzata, essa manca necessariamente nella sua logica e nel suo orientamento di quel grado di omogeneità che caratterizzerebbe un

complesso culturale più maturo. La risultante mancanza di equilibrio non va considerata forse una debolezza, poiché favorisce la mobilità e l’accelerazione dei mutamenti, ma è anche una chiara attestazione del fatto che l’esistente congerie di elementi culturali non costituisce un composto stabile. Questo naturalmente non è il giudizio dei sostenitori di questa civiltà, nella cui valutazione essa si pone necessariamente come una finalità, dato che è tutta una loro creatura. E non v’è dubbio che essi siano, da uomini sani e benevoli quali sono, sinceramente preoccupati di beneficare l’umanità in generale estendendola al mondo civile. Anzi, nel loro punto di vista, come si può ampiamente constatare, si tengono in gran conto la stabilità, l’equilibrio, la ponderatezza e la «profondità» del carattere nazionale sul quale si ritiene impiantata questa civiltà. Senza dubbio, una certa inclinazione per la profondità e la ponderatezza occupa un posto importante tra le abitudini di quanti la coltivano. Ma nulla può esser più profondamente e meticolosamente ponderato dei passi misurati dell’uomo che non sa più dove stia andando, malgrado sia in cammino. Ora, per realizzare questo benevolo disegno di estendere il dominio della civiltà della Madrepatria, è indispensabile che lo stato prussiano-imperiale estenda il suo dominio, tanto più in quanto il postulato primario della fede che muove questi suoi esponenti sostiene che lo stato è la prima necessità di ogni società colta. Dato quindi che lo state prussiano-imperiale è in posizione centrale e intrinseca rispetto al modello di civiltà germanico, ne consegue che questo stato sarà necessariamente il motore primo e il fine supremo della rigenerazione dell’umanità da effettuarsi in tal modo. Chi vuol conseguire uno scopo, deve venire a patti con i mezzi. È accaduto così che le più elevate sorti dell’umanità vengano concepite come indissolubilmente legate al supremo dominio dello stato prussiano-imperiale, che, a sua volta, si identifica in concreto con la sovranità della dinastia degli Hohenzollern. Tutto questo semplifica grandemente il piano per la salvezza della civiltà, e al tempo stesso mette d’accordo il distinto richiamo del dovere umano con lo sportivo slancio del sentimento patriottico. È pur vero che l’impostazione del ragionamento attraverso il quale si giunge a una tal patriottica conclusione potrebbe in effetti esser l’inverso di quella qui addotta. L’impulso iniziale e il punto di partenza potrebbe, in effetti, risiedere nel sentimento patriottico, dal quale l’analisi può poi risalire ai più profondi princìpi del dovere umano e dei nobili intenti, che vengono così ad autenticare e santificare lo zelo sportivo del fanatico patriota. Tuttavia

si usa comunemente giustificare la politica da perseguire sulla base di princìpi morali come quelli indicati, piuttosto che come una manifestazione impulsiva di patriottismo sportivo. In entrambi i casi, il risultato è lo stesso: una dedizione ammirevolmente univoca al dominio dello stato imperiale. Si è già detto qualcosa della politica economica perseguita dal governo imperiale. Questa politica è stata molto lodata per i benefici apportati al popolo tedesco. Senza dubbio molti degli encomi rappresentano un acritico elogio del successo; e passi precedenti della ricerca hanno dato ragioni di ritenere che tale successo industriale sia stato dovuto in parte a circostanze estranee allo stato o alla sua politica. Ciò malgrado, fatte tutte le debite concessioni alle circostanze accidentali, rimane senza dubbio una buona parte da ascrivere al merito della politica governativa. Un attento esame critico metterà probabilmente in rilievo le opere meritorie di omissione e di liberazione da vincoli da attribuire all’Impero, ma la politica imperiale non è affatto priva di meriti anche nel settore dei provvedimenti attivi. La politica economica dell’Impero, benché abbia costantemente mirato alla potenza militare, non ha mantenuto lo stesso carattere lungo tutto il suo corso. Nel primo periodo, l’amministrazione di Bismarck, lo scopo parve essere la sicurezza militare piuttosto che l’espansione imperiale; dall’avvento del regnante attuale, invece, in modo nettamente coerente, lo scopo è stato quest’ultimo. Tuttavia durante tutta l’epoca imperiale le fortune materiali della nazione sono state costantemente favorite e conservate in vista del fine ultimo, la potenza militare. A questo scopo si è cercato di rendere la Madrepatria, fino all’estremo limite realizzabile, una società industriale autarchica – politica questa che non ammette altro sbocco e che, incidentalmente ma inevitabilmente, abbassa l’efficienza industriale della nazione. Una politica diretta a rendere una nazione industrialmente autarchica o autosufficiente si basa necessariamente su misure inibitorie. Solo ostacolando la libera ramificazione del sistema industriale oltre le frontiere nazionali si può raggiungere una tale autosufficienza. Una società industriale autarchica è quella la cui industria attinge le sue materie prime unicamente dalle risorse naturali comprese entro le frontiere nazionali, la cui popolazione trae il suo sostentamento dal suolo del paese e che importa solo il superfluo o, al massimo, articoli di consumo di cui si può facilmente fare a meno. D’altra parte lo stadio moderno della tecnica produttiva è tracciato su scala internazionale, nel senso che produce il risultato migliore, cioè maggiormente

produttivo, attraverso il libero impiego di materiali ricavati da diverse fonti, vicine e lontane, e attraverso una libera specializzazione locale dell’industria tale da consentire che le forniture di ogni dato tipo di beni, lavorati o semilavorati, siano prodotte ovunque esistano le migliori attrezzature per la loro produzione. Questo è il maggior servizio dei moderni mezzi di trasporto e comunicazione. Delle esemplificazioni su questo punto sembrerebbero inutili, eppure uno o due esempi illustrativi tratti dalla situazione tedesca potrebbero non esser fuori posto. Per esempio, è evidente che l’industria tedesca trarrebbe vantaggio da una dipendenza da risorse estere per il necessario rifornimento di rame e petrolio grezzo, come di metalli preziosi, ed è quasi altrettanto evidente che la società industriale nel suo complesso, distinta dai singoli interessi particolari, profitterebbe del libero accesso alle riserve estere di ferro, carbone e legname. Con i moderni mezzi di trasporto l’economicità di un tale libero accesso è abbastanza chiara. Così, è parimenti evidente che il popolo tedesco può ottenere a minor costo il rifornimento necessario di frutta, cereali, carne e pesce, anziché dal suolo della Madrepatria, importandone buona parte dall’estero in cambio di prodotti lavorati. È solo mettendo degli ostacoli sul loro cammino oppure – ciò che produce gli stessi risultati – offrendo speciali incentivi a particolari interessi, che si può impedire alle ramificazioni del sistema industriale di estendersi oltre le frontiere nazionali. Il che equivale a dire che questo scopo può essere raggiunto soltanto impedendo alla società industriale di trarre pieno profitto dal moderno stadio della tecnica produttiva, abbassandone così l’efficienza industriale sotto il livello che conseguirebbe in assenza di una tale remora. Questa, naturalmente, è una cosa che tutti sanno. Nel caso della Germania come in altri, il principale strumento di questa ostruzionistica politica nazionalista è stata la tariffa doganale nazionale. I risultati ottenuti sono, ovviamente, rimasti molto al di sotto della desiderata autosufficienza della nazione germanica. Non è stato possibile annullare fino a quel punto gli effetti della tecnologia moderna. Senza dubbio i tentativi imperiali di creare una potenza bellica autarchica nella Madrepatria hanno materialmente diminuito l’efficienza industriale netta della società tedesca. Tuttavia, gli effetti del controllo e delle proibizioni esercitati in vista di questo scopo non sono stati in fondo così seri, né lo spreco netto comportato dagli armamenti e dai preparativi bellici è stato così grave, quanto tenderebbero a dimostrare i meri calcoli statistici prima facie della

situazione. Gli effetti dell’amministrazione governativa non si esauriscono nella prima incidenza immediata delle misure adottate; in effetti vi è compreso qualcosa di simile alla «ripercussione» di cui tengono conto le teorie fiscali. Il più ovvio tra tali effetti secondari, secondo l’analogia della «ripercussione», dovrebbe essere l’effetto a cui mirava il sistema tariffario imperiale. Esso ha deviato l’industria verso canali meno produttivi, ma ha anche ottenuto in gran parte l’effetto propostosi, rendendo la nazione autosufficiente sotto l’aspetto materiale, e ha alimentato un rafforzato atteggiamento di rancore nazionale contro le nazionalità straniere; ciò che forma un utile patrimonio per i propositi imperiali. Inoltre ha avuto l’ulteriore effetto desiderato di conservare il fedele attaccamento degli agrari, mantenendoli nella loro posizione di predominio. Tutti questi sono fatti ovvi e notori. Meno ovvie sono talune conseguenze e circostanze secondarie dovute alla politica bellicista dell’Impero, In alcuni passi precedenti della ricerca si è prestata attenzione all’aumento cumulativo delle spese superflue, definite eufemisticamente come aumento del tenore di vita, nella società inglese dei tempi moderni. Imposto da un senso di decoro convenzionale, questo spreco vistoso è stato istituzionalizzato, assumendo quindi il carattere di una necessità morale. È stato anche notato che il popolo tedesco, entrando nel moderno mondo industriale mezzo secolo fa, portò con sé relativamente pochi aspetti di questo tipo di convenzioni, poiché era stato addestrato ad una scuola di parsimoniosa frugalità sotto il precedente regime di scarsità di mezzi e di principesca rapacità. Ora, l’imperiale detrazione dalle risorse disponibili sul mercato, pur non colpendo direttamente e formalmente queste spese superflue, ha in fondo contribuito a ridurre il margine di eccedenza disponibile per questo spreco vistoso; in tal modo ha in parte, ed entro quei limiti, semplicemente devoluto allo spreco bellico quei mezzi che sarebbero finiti altrimenti in un tenore di vita vistosamente dilapidatorio da parte di chi li avesse percepiti. Si può giustamente affermare, nell’ambito di una visione complessiva, che la risultante detrazione dal reddito nazionale per le spese militari non è costata nulla al paese, nella misura in cui ha rappresentato una riduzione delle spese per lo spreco vistoso. Si può forse dar per scontato il fatto che non è possibile compensare completamente il costo dell’organizzazione militare con la rinunzia ad un futile spreco privato; ma è altrettanto ovvio che, nelle particolari circostanze concernenti la vita del popolo tedesco nel corso di questo periodo, si sia ottenuto un effetto di compensazione molto considerevole.

Eppure, benché le spese belliche abbiano senza dubbio superato nel complesso l’ammontare che si può ragionevolmente concedere allo spreco vistoso al servizio della raffinatezza, e benché il depauperamento rappresentato dalle necessità militari e imperiali abbia senza dubbio ridotto e ritardato lo sviluppo di un tenore di vita fondato sullo spreco, pure uno sviluppo in questo senso non è affatto mancato completamente. Non è possibile negare alle convenienze, – soprattutto economiche ed emulative – le loro giuste rivendicazioni, e il popolo tedesco ha compiuto, dopo tutto, sforzi notevoli per portare il suo standard di spese decorose al livello di quello dei suoi vicini. Il margine di produzione disponibile rispetto al consumo (convenzionalmente) necessario è stato senza dubbio notevolmente ristretto in questo modo. Eppure, nei limiti in cui la politica delle spese militari ha ridotto lo spreco convenzionalmente necessario, essa non solo non ha impoverito la società (almeno direttamente), ma ha messo il paese in grado di sopportare assai meglio qualunque improvvisa pressione esercitata su di esso dalle imprese belliche nel caso di vere e proprie ostilità. Vi è un altro aspetto dello stesso problema generale che si presenta mettendo in contrasto il caso inglese con quello tedesco. Distinguibile da essa, ma inestricabilmente intrecciata nella vasta ragnatela del tenore di vita basato sullo spreco prestigioso nel Regno Unito è la dedizione agli sport. Considerata semplicemente come aspetto dello sciupio vistoso – il che significa, in termini statistici, approssimativamente il cento per cento – la coltivazione degli sports conta semplicemente come un’inutile dispersione di tempo e denaro, ovviamente; tuttavia essa ha anche il valore di un mezzo fondamentale per distogliere le energie e l’attenzione, e quindi la competenza acquisita e l’ulteriore assuefazione di un vasto settore della società, verso un canale di dissipazione assolutamente sterile da un punto di vista economico, attraverso il quale il tempo, l’utilità e gli effetti pratici di questa frazione della popolazione defluiscono da scopi utili verso la produzione di una modica quantità di imbrogli. Al momento del passaggio all’epoca moderna in Germania il paese non era affatto dotato di un completo assortimento di tali raffinate e virili dissipazioni, e ciò che esso portava con sé come equivalente autonomamente sviluppato fu in gran parte buttato a mare durante il trasbordo, così che era rimasto un certo margine di energia, intelligenza e presunzione virile libero di venir assorbito da quegli eventuali interessi decorosi che si fossero presentati. Un simile sfogo decoroso e vistoso di grande effetto per il sangue sportivo

della Madrepatria fu trovato appunto arruolando l’elemento più influenzabile delle classi oziose nel servizio militare, senza alcuna perdita visibile per la società e con grande vantaggio invece per i preparativi bellici dello stato. Tutto questo ha, in una certa misura, ostacolato il libero sviluppo dello spirito sportivo in Germania, e senza dubbio ha anche contribuito materialmente allo sviluppo di un aggressivo spirito guerriero. Le vaste e impegnative esigenze del servizio militare universale, applicato a tutta la popolazione, hanno avuto un effetto alquanto simile sull’uomo comune, stornandone l’interesse dalla finzione degli sport a quella della guerra; né è del tutto certo che la perdita derivante all’industria da tale causa, indiscutibilmente considerevole, non sia stata del tutto compensata dalla maggiore docilità delle classi lavoratrici risultante dalla loro esperienza di sorveglianza e soggezione nell’esercito. Un’organizzazione militare è necessariamente un’organizzazione servile, e la disciplina dell’obbedienza servile non manca mai di avere i suoi effettia Concorre al medesimo effetto, operando in armonioso concerto con la disciplina servile dell’esercito, la politica governativa di tutela delle classi lavoratrici, sotto forma di assistenza ospedaliera, di provvedimenti assicurativi, pensionistici e simili. In questo caso, ancora una volta, non v’è palese perdita economica, forse persino un manifesto vantaggio economico, dato che essa compensa alcuni degli effetti sfavorevoli di un’affaristica ricerca di profitto da parte dei capitalisti-datori di lavoro, dotati di scarsa considerazione per il benessere a lunga scadenza della società. Non è facile congetturare quali saranno le conseguenze ultime di questa politica di tutela, ma tra queste dovrebbe trovarsi una dipendenza ancor più passiva dell’uomo comune dall’autorità direttiva del governo e del suo apparato burocratico, insieme ad un allentamento dello spirito d’iniziativa e di autonomia, e allo sviluppo di una certa fedeltà partigiana verso la casa regnante. Esperienze e condizionamenti passati, va notato, predispongono i lavoratori tedeschi a questa tutela e ai suoi effetti. Come è ben noto, anche se non sempre lo si ammette, nella situazione dell’industria su vasta scala diretta a fini affaristici i lavoratori poveri sono indifesi finché agiscono individualmente, e non si è trovato ancora rimedio efficace a questa impotenza individuale in alcuna forma di azione collettiva autodiretta. Il valore economico e la convenienza politica della tutela della corona ne risultano ancor più evidenti, e si può di conseguenza prevedere che le ulteriori conseguenze di questa tutela possano essere di altrettanto maggiore portata. Tali conseguenze ulteriori, tuttavia,

sono da ricercarsi soprattutto tra gli effetti dell’abitudine e quindi riguardano ancora fondamentalmente il futuro. Si osserva, quindi, che sia negli antecedenti culturali che nelle circostanze attuali esistono svariati fattori di considerevole portata tipici della situazione tedesca, che convergono verso un risultato diverso da quelli a cui sono finora pervenuti i popoli di lingua inglese, in seguito all’adozione della moderna tecnica produttiva, – diverso, invero, e in misura molto notevole, anche da quello che si può prefigurare per i popoli di lingua inglese nel prevedibile futuro, sulla base di qualsiasi ragionamento spassionato. La Germania ha conservato da un recente e arretrato passato uno stato di tipo dinastico, insieme ad un modello di istituzioni particolari e ad una mentalità popolare adatti ad un controllo coercitivo, centralizzato e irresponsabile e al perseguimento del dominio dinastico. Era del tutto inevitabile che la Madrepatria unita cadesse sotto l’egemonia del più aggressivo e irresponsabile – sostanzialmente del più arcaico – tra i diversi stati che si erano fusi con la sua formazione; ed è altrettanto ovvio che lo spirito dinastico dello stato prussiano abbia permeato il resto dei popoli confederati, al punto che il complesso è assai più vicino oggi all’orientamento psicologico dello stato prussiano militarista di cent’anni fa, di quanto lo sia mai stato dopo l’inizio del movimento per l’unificazione della Germania nel diciannovesimo secolo. Allo stesso tempo, la società tedesca unita assorbì dai suoi vicini (industrialmente) più progrediti lo stadio più recente e altamente efficiente della tecnica, – del tutto discordante dal suo modello istituzionale ma altamente produttivo, e capace pertanto di offrire un largo margine a disposizione per i fini dello stato dinastico. Essendo stata adottata bell’e pronta nel minor tempo possibile, questa nuova tecnologia non portò con sé praticamente nessuno dei suoi intrinseci inconvenienti, quali lo spreco convenzionale, le usanze e attrezzature obsolescenti, o l’animosità di classe; inoltre, poiché è stata messa pienamente in funzione in un lasso di tempo di una brevità senza precedenti, nessuno di questi inconvenienti o svantaggi ha ancora avuto il tempo di assumere dimensioni minacciose. In parte a causa della stessa brevità senza precedenti del periodo di assimilazione e impianto, e in parte a causa del quasi intatto carattere medioevale del modello istituzionale sul quale si è innestata la nuova tecnologia, essa ha avuto finora scarsi effetti nel senso d’introdurre tra il popolo tedesco nuove abitudini di pensiero riguardo ai problemi istituzionali,

quali hanno formato il corrispettivo psicologico del suo graduale sviluppo tra i popoli di lingua inglese. Tali conseguenze istituzionali, derivanti da un’assuefazione quotidiana ad un qualsiasi dato stadio della tecnica, subentrano necessariamente in modo lento e graduale, sviluppandosi solo nel corso di generazioni. Nel caso inglese, come si è dimostrato in alcuni passi precedenti, lo sviluppo di istituzioni popolari e di ideali d’autonomia ed iniziativa, quali si possono osservare nei tempi moderni, non ha affatto conferito all’autonomia popolare una posizione di incondizionato predominio in alcuno dei problemi di rilevanza collettiva della vita. Vi sono molti residui del precedente regime feudale e dinastico, come ad esempio la corona, la nobiltà con la sua Camera dei Lords e la chiesa di stato; sebbene questi residui superstiti siano in una situazione chiaramente indebolita ed abbiano un aspetto alquanto incongruo ed anacronistico nel contesto moderno. La «lettera morta» e la «finzione legale», occupano un largo posto nelle concezioni inglesi, e questi fili arcaici del tessuto istituzionale vanno in gran parte visti in quella luce. Contemporaneamente, mentre i moderni concetti istituzionali di autonomia popolare hanno usurpato il dominio una volta detenuto dal feudalismo e dallo stato, si è anche sviluppata, entro il sistema e parallelamente a tale evoluzione, una nuova gamma di concezioni consuetudinarie e di usanze che limitano grandemente la supremazia de facto delle istituzioni popolari nel commonwealth britannico. Ogni società di lingua inglese è un commonwealth, anziché uno stato; tuttavia nessuna di esse, nonostante tutto, è una comunità di uomini liberi, uguali e non stratificati; i loro cittadini non sono «uomini senza padrone» se non di fronte alla legge. I divari nei livelli di reddito si sono accresciuti trovando un sicuro inserimento nel sistema istituzionale, proprio quando queste società moderne si son rifatte agli antichi ideali d’insubordinazione personale che formano la sostanza delle loro libere istituzioni. Dei seri divari nei redditi costituiscono un problema non previsto nell’antica inclinazione ereditaria, che fece una volta dei piccoli gruppi anarchici della civiltà baltica un efficace strumento di controllo sociale, e che si sta ora riaffermando nello scontento democratico. Anche se i diritti di proprietà non apportano alcun disturbo de jure al modello democratico, le loro conseguenze de facto sono abbastanza gravi, cosicché diventa dubbio se un libero ma povero operaio in una moderna società industriale stia affatto meglio, in quanto a condizioni materiali, del lavoratore tenuto in asservimento sotto il feudalesimo. La

situazione dei paesi di lingua inglese è diventata invero così grave e preoccupante, sotto l’aspetto del controllo de facto delle sorti materiali della società da parte dei detentori di grandi fortune, che si ritiene che nessuno, tranne un impudente «pessimista», sia capace di richiamare l’attenzione su una così dolorosa difficoltà, alla quale non si può scoprire alcun rimedio. Eppure, anche se l’attuale amministrazione degli affari può essere esercitata dai balivi dei ricchi e dei benestanti, e soprattutto nel loro interesse, rimane vero che secondo il sentimento popolare la sovranità spetta collettivamente all’uomo comune; ed è difficile dubitare che, qualora fosse sottoposto ad una prova sufficientemente aspra, questo sentimento popolare non affermerebbe caparbiamente il suo supremo dominio. Per parziale e incompleto che si sia dimostrato questo spostamento verso l’autonomia popolare delle nazioni di lingua inglese, esso ha richiesto alcuni secoli d’esperienza per portare la società, partendo da una posizione paragonabile a quella occupata dalla Germania al momento della fondazione dell’Impero, fino al compromesso in vigore tra questi popoli oggi. Questo sviluppo di istituzioni libere e dell’insubordinazione, così com’è, sembra in parte derivare, apparentemente, dal positivo condizionamento delle abitudini mentali meccanicistiche introdotte dalle tecniche produttive moderne, ma in parte rappresenta anche una riaffermazione delle ereditarie inclinazioni anarchiche di questa popolazione, in assenza di condizioni convenientemente rigorose dirette ad imporre un sistema di coercizione e fedeltà. Il risultato netto può esser considerato un vantaggio o una perdita, secondo come si è inclini a vederlo. Tuttavia è un risultato del funzionamento del moderno sistema industriale, e se dev’esser considerato una debolezza, deve altresì esser accettato come un elemento concomitante del sistema che, essendo composto della stessa sostanza di questo sistema tecnologico, è a lunga scadenza inscindibile da esso. Nel caso della Germania, è proprio questa «lunga scadenza» che ancora manca, e che deve necessariamente esser ancor più lunga a causa della cura con cui lo stato imperiale cerca di prevenire un tale evento. Nel frattempo lo stato imperiale è giunto all’utilizzo di questo stadio della tecnica senza l’intralcio delle sue conseguenze istituzionali a lunga scadenza. Portando con sé una tradizionale inclinazione di fedeltà romantica, infuso di recente di patriottismo militaristico grazie a varie guerre vittoriose, e irritabilmente conscio della potenza nazionale insita nell’appena acquisita efficienza economica, lo spirito feudale della popolazione ha finora subito una scarsa, se

non nulla, attenuazione dalla sua breve esperienza di società industriale. Sostenuto dalla sua antica tradizione di prodezze militari e di aggressione dinastica lo stato prussiano imperiale ha fedelmente incoraggiato questo spirito militaristico, coltivando nella popolazione la disposizione alla solidarietà nel valore. Di qui un pronunciato ritardo dell’evoluzione verso l’autonomia popolare che sarebbe dovuta seguire all’assuefazione alla logica meccanicistica della tecnologia moderna e dell’organizzazione industriale. In quest’opera di ritardare il nuovo e conservare l’antico lo stato imperiale è stato fortemente favorito dall’aver trovato a portata di mano un numeroso e servizievole complesso di uomini, inutili agli scopi industriali in forza d’incapacità convenzionali e d’indole, che sono entrati con passione nella carriera del valore aperta loro dalle iniziative belliche dell’Impero, e si sono conformati con entusiasmo allo spirito di quella politica, – dato che proprio quello era l’orientamento delle tradizioni da cui essi provenivano nel recente passato. E invero questo contingente di specialisti del valore militare è stato così vasto, così decisamente orientato, così ben trincerato entro gli usi e costumi della Madrepatria, che persino con un grado assai moderato di appoggio morale da parte delle autorità costituite, forse persino su un piano di tolleranza, – se un tal piano fosse concepibile sotto gl’imperiali auspici – la loro organizzazione in un corpo specializzato di condottieri ne sarebbe stata la conseguenza ovvia; del resto la presenza di un tal corpo di militari di professione, pervasi da uno sconsiderato entusiasmo per le imprese militari, avrebbe di per sé avuto l’effetto di potenziare lo spirito bellicoso all’estero, nella società in generale, e di suscitare uno stabile impulso di sentimenti tesi verso l’apice bellico. Il normale destino degli organismi militari e delle organizzazioni marziali di classe è stato quello di cadere in breve in un certo stato di decadenza morale per cui il grado, la routine, le prebende e la smodata dissipazione arrivano ad attrarre la massima attenzione degli specialisti della guerra. Come altri prodotti degli usi e costumi, questa maturazione dell’organizzazione militare richiede tempo, e il corpo degli specialisti militari sotto imperiali auspici non ha ancora avuto il tempo di perfezionare il manifesto destino che attende sotto questo aspetto le organizzazioni militari, anche se si può ammettere che delle «irregolarità» del tipo ora accennato non siano affatto mancate del tutto; la corrosione degli usi e costumi militari, in fatto di routine, subordinazione, arroganza, indolenza e dissipazione è forse già abbastanza avanzata da rendere questo corpo di uomini scelti inadatto ai doveri della vita

civile sotto ogni governo che non sia autocratico; sebbene probabilmente non abbiano subito alcun danno degno di nota riguardo alla loro utilizzabilità per la guerra e per il suo patrocinio. Sempre a questo proposito viene credibilmente riferito, anche se non ufficialmente confermato, che l'altamente efficiente sistema scolastico dell’Impero, forse specialmente della Prussia, è diventato sotto gli auspici imperiali un veicolo di propaganda dello stesso patriottismo del valore che pervade il corpo degli ufficiali. Si sa che qualcosa di simile vale per le università prussiane. Naturalmente molto si può fare per dare un orientamento del genere alla futura generazione, tramite un ben diretto indottrinamento durante il periodo della vita scolastica, che si presta ad impressioni profonde. V’è poi da includere un altro elemento in ogni resoconto delle speciali circostanze che concorrono a formare la Germania imperiale e a plasmare il destino. Tra i vantaggi acquisiti dallo stato imperiale, e certamente non il minore se si deve giudicare sulla base della premurosa attenzione dedicatavi, è l’uso della tecnologia moderna per gli equipaggiamenti e le strategie militari. Si è già notato che la rete ferroviaria, al pari della marina mercantile e della sua attrezzatura portuale, sono stati sviluppati sotto controllo, in vista della loro utilizzabilità in guerra; in parte, questo sistema di trasporti è stato confessatamente progettato e costruito per uso strategico, in parte con particolari caratteristiche e con sovvenzioni designate a farne un’arma ausiliaria. Non v’è bisogno di discutere l’importanza, nella strategia moderna, di un sistema di trasporti organizzato in modo confacente allo scopo; né va sottovalutata la sua influenza sullo spirito degli statisti, a disposizione dei quali viene mantenuto un fattore così efficiente di attrezzatura bellica, e della popolazione in genereb Ma, oltre a questo, e senza dubbio di più grave portata, vi è il diretto servizio reso dalla moderna tecnologia e scienza applicata all’arte della guerra. Dal momento in cui la tecnologia moderna è caduta nelle mani dei tedeschi, essi hanno assunto il ruolo guida nell’applicazione di queste cognizioni tecnologiche a quella che potrebbe definirsi la tecnica industriale della guerra, con zelo e con effetti per lo meno non minori della loro utilizzazione nelle attività della pace. Nella «pace armata» dell’Europa, la Germania imperiale ha costantemente mirato ad esser la più pesantemente armata e la più preparata ad ogni eventuale rottura della pace. Questi preparativi, si è dichiarato abitualmente, sono stati fatti in vista del mantenimento della pace. Forse è

possibile annettere un qualche peso a queste dichiarazioni: sono state fatte da politici della scuola di Federico il Grande. Lo svolgimento effettivo dei fatti vuole però che, per tutti i quarantaquattro anni di durata della sua storia fino ad oggi, e più particolarmente nel più recente quarto di secolo, la preparazione ad una guerra su larga scala sia proseguita senza soste, ad un ritmo costantemente accelerato, sia se misurata in termini di grandezza assoluta che in termini di spesa pro capite della popolazione o di percentuali di reddito corrente o di beni accumulati, o infine se paragonata agli sforzi corrispondenti degli stati vicini. La spinta verso una fatalità bellica è stata facilitata da conseguenze accessorie che sembrerebbero, almeno nella loro immediata incidenza, non avere alcuna influenza del genere. Così, per esempio, il grande successo negli affari e nell’industria ha infuso nei comuni sudditi germanici un grado di fiducia e di auto-compiacimento che ai loro vicini fa l’impressione di presunzione e millanteria. La natura umana essendo quella che è, è inevitabile che dei sudditi germanici debbano prendersi così a cuore i successi germanici e che debbano assumere una sorta di atteggiamento arrogante verso altre nazionalità; ed in modo altrettanto comprensibile, ne consegue che quanti vengono in contatto con questa molto naturale dispotica spavalderia la trovino insopportabile. Tutto questo genera una risentita animosità, tale da metter su un piano di precarietà tutte le relazioni internazionali. Così, in forza di circostanze che non era possibile controllare, e che, bisogna ammetterlo, non si è cercato di controllare, è accaduto che il successo economico ha fruttato al popolo tedesco un’abbondanza di malevolenza; non priva d’invidia, ma ciononostante malevolenza bella e buona. Vale forse la pena di notare che si riscontra un qualcosa di un consimile senso di estraniazione nell’atteggiamento dei popoli del continente verso gl’inglesi degli spavaldi tempi elisabettiani e di quelli successivi. In quel caso, tuttavia, l’animosità che ne risulta sembra non aver raggiunto un punto di così alta tensione e, del resto, la posizione insulare dell’Inghilterra servì comunque ad impedire che ogni animosità del genere divenisse una minaccia alla pubblica quiete. La consapevolezza di questa pervasiva malevolenza ha senza dubbio contribuito apprezzabilmente alla solidarietà patriottica del valore del popolo germanico su cui si basa la politica bellicistica del governo imperiale, contribuendo in tal modo ad accelerare lo spostamento delle forze materiali e intellettuali dell’Impero verso una posizione strategica incompatibile con sbocchi diversi da quello bellico.

Gli ultimi eventi hanno assunto una piega tale da porre fine alle discussioni circa le possibilità di pace o guerra implicite nella condotta degli affari tedeschi. Ed ogni sforzo per attribuire, trasferire o distribuire le responsabilità dello stato di guerra in cui è caduta l’Europa sarebbe di poca o nulla utilitàc. Eppure, non è forse del tutto fuori luogo esaminare più a fondo le circostanze, distinte dalle ragioni diplomatiche, che hanno portato gli eventi a questo apice. Si può dire con sicurezza che lo scoppio della guerra è stato una scossa violenta per tutti, ma non è stata una sorpresa per nessuno tranne che per i diplomatici, e per loro è stata solo una sorpresa diplomatica. Insieme alla violenta emozione vi fu anche un percettibile senso di sollievo, come dopo un lungo periodo d’incertezza. Si può anche affermare tranquillamente che non era necessario desiderare formalmente la guerra per portarla a realizzazione, bastava prendersi cura di porre in atto preparativi così completi da render la guerra inevitabile. Si dice che il governo imperiale non abbia desiderato la guerra, ma la frase non è formulata nel senso che il governo imperiale prevedesse, a lunga scadenza, di evitare questa guerra. Si è ammesso tacitamente – l’aperta conferma viene smentita ufficialmente – che la congiuntura delle circostanze ha reso inevitabile il ricorso alla guerra, ed è particolarmente per la Germania che la guerra è stata così riconosciuta come inevitabile. Se nel concerto delle nazioni non ci fosse stata alcuna Germania imperiale, forse a lungo andare i risultati non sarebbero stati sostanzialmente diversi per ciò che riguarda le successive sorti dell’Europa in fatto di pace e guerra; includendo la Germania, tuttavia, non v’è stata occasione di dubitare che, in qualunque momento fosse scoppiata questa probabile guerra, la Germania sarebbe stata il focolaio di perturbazione, sulla difensiva o all’offensiva. A questo proposito il caso della Germania è di particolare interesse per la sua influenza sull’associazione delle circostanze. Nel caso della Germania la circostanza decisiva è quella incisivamente riassunta in una frase come la necessità per la Germania di «un posto al sole». Il significato della frase è sufficientemente chiaro, ed essendo correntemente accettato come abbastanza convincente, non v’è alcun bisogno di discuterne. È bene, tuttavia, ricordare il fatto banale e ovvio che questa necessità è una necessità dello stato imperiale, mentre la popolazione della Germania – gli abitanti, individualmente o collettivamente – non hanno alcun interesse materiale verso questa ricerca di un posto al sole, se si eccettua l’interesse sentimentale dovuto a quella solidarietà del valore a cui abbiamo accennato

prima. È una necessità di patriottismo sportivo; e non è immaginabile che le sorti materiali dell’uomo comune possano beneficiare nella benché minima misura del riuscito compimento di questa ricerca. La ricerca del dominio è connaturata allo stato dinastico; tale è, infatti, il succo della sua natura. Lo stato imperiale ha avuto, come si è descritto sopra, una certa situazione di cui prendersi cura e di cui far uso. La società industriale a sua disposizione è andata incrementando la sua efficienza e quindi la sua utilizzabilità quale base materiale per la politica imperiale; tuttavia quest’incremento o almeno il ritmo di accelerazione di quest’incremento si è andato leggermente abbassando negli ultimi anni. Il tasso d’incremento demografico è pure declinato, indicando tra l’altro un poco proficuo aumento del tenore di vita delle classi inferiori, – in se stessa una detrazione, di crescente importanza, dal valore della produzione netta dell’industria a disposizione dei fini (politici) imperiali. L’analogo consumo dilapidatorio delle classi ricche e benestanti ha seguito nel frattempo la stessa sfavorevole curva crescente, – sfavorevole in quanto contribuisce a restringere il margine d’eccedenza disponibile per i fini imperiali. Malgrado la parziale repressione e addomesticamento degli aderenti socialisti, anche lo scontento delle classi inferiori è andato crescendo negli ultimi anni, e in particolare, si dice, nel passato immediatamente recente. Questi non sono elementi di debolezza attuale, forse, ma di una debolezza minaccio sa in seguito. Anche se il coefficiente di movimento in queste diverse direttrici è ancora di segno positivo, considerato in ciascuna singolarmente esso declina gradualmente e con effetti cumulativi. Di per sé questi cambiamenti sfavorevoli, o piuttosto sfavorevoli in prospettiva, non hanno almeno finora portato alcun indebolimento positivo o assoluto dei fondamenti materiali dello stato imperiale. Tuttavia la guerra e la politica dinastica sono imprese emulative, competitive; e nelle imprese competitive la forza è una grandezza relativa e non assoluta. Se la Madrepatria è andata guadagnando terreno in potenza materiale, i suoi concorrenti nella politica mondiale hanno fatto altrettanto; e negli ultimi tempi questi concorrenti hanno progredito nel complesso ad un ritmo cumulativamente accelerato. Altri paesi europei, per esempio la Francia, l’Italia, la Russia ed altre nazioni minori e periferiche hanno fatto anch’esse considerevoli passi avanti nell’utilizzazione della stessa tecnologia meccanica inglese a cui la Germania imperiale deve il suo posto dominante nel mondo industriale. E seppure

nessuna di queste possa aver compiuto o sia prevedibilmente in grado di compiere in futuro progressi della stessa portata assoluta di quelli fatti di recente dalla Germania, essi hanno, tuttavia, già cominciato a restringere il vantaggio della Germania in campo industriale. Le loro maggiori risorse, la loro più comoda ubicazione, la loro maggior massa complessiva ne rendono abbastanza temibile la concorrenza, anche senza la stessa efficienza pro capite. Così, per esempio, si può esser sicuri che la Russia, a causa della sua grande massa e delle sue illimitate risorse, arriverà anche con un minor coefficiente di progresso a sopravanzare in breve la Germania in fatto di potenza industriale complessiva, e quindi presumibilmente in fatto di capacità bellica. E la Russia, di recente, è andata compiendo inquietanti progressi nell’industria moderna. In rapporto alla situazione complessiva, quindi, la Germania ha recentemente guadagnato terreno, ammesso che lo abbia fatto, soltanto a un ritmo ridotto. Si può forse affermare con sicurezza che, in questo senso relativo, l’Impero ha recentemente cominciato a perder terreno. Ed è anche possibile che gli statisti dell’Impero siano giunti ad accorgersi di questo fatto o che abbiano comunque cominciato a preoccuparsi di una qualche sfavorevole eventualità del genere. L’ipotesi più valida di un attento osservatore esterno, non indebitamente influenzato dai clamorosi elogi delle realizzazioni tedesche, sarebbe probabilmente quella secondo la quale la data in cui la Germania ha cessato di guadagnar terreno nell’industria e nel commercio, in rapporto alla situazione complessiva, risale a circa una mezza dozzina d’anni fa. Al tempo stesso, peraltro, questa data non segna alcun brusco mutamento nel corso degli eventi e non ha alcun significato catastrofico. Finora, quindi, per quel che riguarda le condizioni materiali formanti il sostrato della politica imperiale di dominio, sembrerebbe che queste si trovassero nella congiuntura più propizia per essere utilizzate dall’Impero ad un certo punto, diciamo, entro gli ultimi cinque anni. D’altro canto, per quel che riguarda i fattori che hanno contribuito direttamente all’attuale ricorso alle armi, i preparativi militari e navali del governo imperiale sono proseguiti per tutto questo tempo a ritmo accelerato. In termini assoluti, non v’è da dubitarne, gli equipaggiamenti e il personale sono aumentati in modo assai considerevole e al tempo stesso sono divenuti più efficienti pro capite anno per anno. Ma anche in questo caso è dubbio se quest’incremento assoluto di potenza bellica debba esser ritenuto con sicurezza un effettivo aumento di potenza bellica relativa, in rapporto alla situazione europea nel suo complesso. Anche le altre nazioni europee, specialmente in questi ultimi anni, hanno

compiuto progressi e anch’esse a ritmo accelerato; e sembrerebbe che, se pure il coefficiente d’aumento sia stato più basso, il risultante massiccio aumento globale di potenziale bellico delle nazioni con le quali la Germania imperiale ha dovuto fare i conti sia stato tale da far pendere, in questi ultimi anni, la bilancia dei vantaggi netti differenziali leggermente a sfavore del punteggio dell’Impero. Questo stato di cose, di conseguenza, ha messo l’Impero sulla difensiva. Tale in ogni caso è l’interpretazione dei fatti apertamente dichiarata da parte degli statisti imperiali. La teoria tedesca di un’offesa difensiva è abbastanza ben nota. Ha costituito il ritornello di voluminose spiegazioni diplomatiche relative a certi fatti recenti. Nella situazione in cui era lo stato imperiale, con vasti piani di dominio in parte confessati e in parte oggetto di generale notorietà, e intenzionato a riparare ai torti imputabili a chi ostacolava i suoi legittimi movimenti, la strategia dell’offesa difensiva doveva richiedere uno spiegamento di tutte le forze disponibili nella fase di questo sopravanzamento di vantaggi differenziali in cui la potenza complessiva dell’Impero fosse al suo apice, in rapporto al totale delle forze con le quali doveva fare i conti nei propri dintorni. Senza dubbio tali questioni hanno attratto la premurosa attenzione degli uomini di stato; ma questi sono stati sudditi (e sovrani) patriot:, ed essendo essi più vicini al loro proprio lavoro di preparazione che non a cuello dei loro futuri nemici, malgrado ogni immaginabile efficacia dello spionaggio, sembra che abbiano indebitamente sottovalutato i progressi di recente compiuti da questi ultimi, o forse piuttosto che abbiano alquanto sopravalutato i propri elementi di forza; con il risultato che l’offesa difensiva è stata a quanto pare rimandata oltre la data più propizia. Si potrebbero citare alcuni aspetti concreti di questo vasto piano di dominio e di strategia imperiale che hanno portato a quell’inopportuno ritardo. Sembrerebbe così che il recente ritmo sia di recupero che di nuova espansione da parte della Russia sia stato inesplicabilmente sottovalutato dagli uomini politici dell’Impero, sia in campo economico che per quel che riguarda l’equipaggiamento e l’organizzazione militare. Non si può dire lo stesso per il caso della Francia né del Regno Unito; anche se nel caso di quest’ultimo sembra esservi stato qualche notevole e, per la causa imperiale, sfortunato divario tra l’appoggio effettivo assicurato dalle colonie inglesi e la stima fattane dagli statisti tedeschi. Sembra che anche stati minori coinvolti nell’attuale conflitto si siano dimostrati forti e preparati in modo sconcertante.

D’altro canto i possedimenti coloniali dell’Impero non si trovavano in quegli anni in una posizione sicuramente difendibile ed apparentemente non si era ritenuto possibile garantire loro la necessaria sicurezza circondandoli con le difese diplomatiche indispensabili. Era giusto che vi fosse una certa riluttanza nel rischiare la perdita di queste colonie, quando una dilazione poteva aumentare concretamente le possibilità di conservarle intatte, sia mediante garanzie diplomatiche che con difese militari. Nel ca so particolare, il mantenimento dell’occupazione di Kiao Chao1, per esempio, poteva esser reso ragionevolmente sicuro concedendole un periodo di tempo idoneo a completarne le difese. Analogamente vi era l’ottimistico, forse eccessivamente ottimistico, progetto di impadronirsi della Turchia, in Asia, o più specificamente della pianura mesopotamico-caldea e del diritto di accesso al Golfo Persico, unito alla rinascita della potenza ottomana, come stato dipendente sotto la sovranità imperiale. Quest’ultima può ben esser stata la più seducente motivazione per procrastinare eccessivamente l’esecuzione di quell’offesa difensiva a cui lo stato è stato votato dalla sua politica di dominazione. Vi era molto da guadagnare in quel caso, sia come sbocco per il commercio imperiale che come disponibilità di popolazione e diretto aumento di forza militare, se solo il processo necessario avesse potuto compiersi entro i limiti di tempo imposti dal minaccioso sviluppo di quelle altre nazioni. Qualunque prudente calcolo della convergenza degli eventi avrebbe dimostrato con ragionevole chiarezza che il tempo richiesto per questo progetto avrebbe eccessivamente posposto il giorno della resa dei conti. L’errore di calcolo, in questo punto, sembra esser consistito soprattutto in una sopravalutazione di ciò che era possibile fare dell’organizzazione turca per condurla ad un adeguato livello di utilizzabilità, entro il breve lasso di tempo disponibile. In ogni modo sembrerebbe che l’offesa difensiva sia stata rimandata oltre la data in cui la forza militare dell’Impero era al suo apice, in rapporto alla situazione generale. Una volta ancora, naturalmente, è inutile riflettere su ciò che avrebbe potuto essere. Può esser più a proposito indagare sul valore e le conseguenze effettive di questa digressione prussiano-imperiale, nei suoi influssi sulla civiltà del mondo cristiano. Il perseguimento della politica imperiale ha condotto la cristianità ad una guerra senza precedenti, – un esito che tutti gli uomini, sinceramente o no, deprecano. Anche il più benevolo dei giudizi possibili considererà necessariamente l’attuale guerra come un episodio sfavorevole; forse un giorno essa sarà considerata tale anche nella prospettiva

della storia. Nel frattempo non bisogna perder di vista il fatto che vi si è entrati in un certo senso deliberatamente, con cognizione di causa e con le migliori intenzioni da entrambe le parti. Ciò è particolarmente vero per gli statisti prussiano-imperiali e la loro strategia dell’offesa difensiva, benché la bona fides del partito opposto sia forse più chiaramente evidente di fronte ai risultati. Non si può quindi accentrare l’interesse sulla questione delle lodi o delle accuse. Né lo scopo della contesa, secondo luna e l’altra parte, può attrarre una prolungata attenzione, dato che, da un lato, esso sembra esser stato per entrambe le parti abbastanza meritorio agli occhi dei detentori del potere discrezionale, e che, dall’altro, la contesa seguirà il suo corso fino a giungere a risultati per lo più identici, portando sostanzialmente alle stesse conseguenze, quale che ne sia stato lo scopo. È una chiara e facile generalizzazione quella secondo cui gli effetti più importanti e durevoli del conflitto saranno di natura immateriale, nel senso di tendenze e sentimenti influenzanti la visuale psicologica e intellettuale dei popoli, portando in tal modo l’ulteriore effetto di una revisione più o meno approfondita dell’attuale modello istituzionale. Fino ad oggi i progressi più caratteristici compiuti da questa civiltà sono stati resi possibili dalla pace e dall’industriosità, – intendendo per «progressi» tutto ciò che ha condotto ad un avanzamento nella direzione della più recente situazione civile tra i popoli tipicamente occidentali, in contrasto con il modello di civiltà del loro stesso passato barbarico nell’Età Oscura e nel Medioevo. Dalla generalità degli uomini civili questo progresso sarà considerato, nel complesso, un miglioramento rispetto a ciò che ha rimpiazzato. Questa valutazione, peraltro, è una questione di gusti e di opinioni, in cui l’assuefazione espressa nel modello di civiltà moderna viene in se stessa presa come criterio base del giudizio; e non potrebbe, quindi, esser accettata come definitiva in alcuna discussione sui meriti intrinseci di questa civiltà, in confronto a qualsiasi altra. Essa è utile comunque per dimostrare come l’attuale opinione prevalente, nei limiti in cui ve n’è una, sostenga che il passaggio dal medievalismo al regime moderno sia nel complesso da considerarsi un progresso, e come di conseguenza questo significato del termine sia l’unico accettato nell’uso corrente in questo campo. Questo regime moderno, come ogni altro modello di civiltà, viene prima o poi dominato da una certa solidarietà sistematica, dovuta al fatto che esso è pervaso da una certa logica e prospettiva, una serie di concezioni abituali aventi tra loro un certo grado di coerenza, una «filosofia», come sarebbe stata

chiamata una volta. Quanto alle eccezioni, le digressioni, le deviazioni e gli ingombri discordanti trasmessi da usanze più antiche grazie alla tradizione, o provenienti da direttrici secondarie di interessi o di costrizioni – tutto ciò può difficilmente esser considerato accidentale o trascurabile, ma ha anzi grande peso in qualunque determinato modello di civiltà, particolarmente in uno la cui portata sia vasta e i cambiamenti rapidi e di vario genere. Eppure la società portatrice di questo modello e soggetta al suo condizionamento è costituita da individui, ciascuno dei quali rappresenta un agente singolo ed è quindi indirizzato nel complesso da ogni assuefazione cui sia esposto; ne consegue perciò che, proprio nei limiti in cui è possibile considerare ogni determinato complesso culturale come un modello distinto, questo sarà caratterizzato da una sola mentalità generalmente diffusa – in nessun caso universalmente predominante, ma prevalente in modo così estensivo ed accentuato da esser efficace in linea di massima. Laddove e nella misura in cui questa solidarietà di abitudini non prevale, si conviene normalmente che la situazione culturale manca di omogeneità, considerandola una civiltà ibrida, una fase instabile o transitoria, eccetera. Per quel che riguarda la civiltà della cristianità moderna, a questo proposito, ciò che la contraddistingue pervasivamente e dinamicamente dalle sue fasi più antiche e dalle altre civiltà con le quali viene messa a confronto è un certo carattere di concretezza empirica, che si palesa nell’ambito istituzionale, per esempio, in un ripudio pressoché universalmente dichiarato – spesso abbastanza futile in pratica – di qualunque discriminazione o privilegio personale; e in modo più inequivocabile nel settore della conoscenza in una concezione impersonale, meccanica, delle realtà e degli eventi oggettivi. Quindi l’abitudine mentale più caratteristica che pervade questa civiltà moderna, in maggiore o minor misura, è quella che è stata definita, nei termini più semplici finora impiegati, la concezione meccanicisticad’. La sua elaborazione pratica forma la tecnologia meccanica, di cui le scienze esatte sono il precipitato e il contrapposto intellettuale. Associata a queste in modo tale da dedurne una correlazione del tipo causa ed effetto è la tendenza moderna verso istituzioni libere e popolarie. La coercizione, il dominio personale, l’autoumiliazione, la soggezione, la fedeltà, il sospetto, la duplicità, la malevolenza, – tutte queste cose non si accordano con la concezione meccanicistica. Qualunque esperienza umana che porti a questa gamma di abitudini mentali contribuisce, nella stessa misura, a ritardare e vanificare la tendenza della civiltà verso la concretezza empirica;

mentre qualunque modello o tipo di controllo che parta da queste premesse non può incorporare in modo duraturo la gamma di concetti e convinzioni che costituiscono il moderno complesso delle conoscenze teoriche e i princìpi del diritto comune. Il dominio personale è essenzialmente incongruo rispetto al’a logica e alla prospettiva della civiltà moderna ed è quindi sistematicamente incompatibile con il suo predominio. L’esperienza della guerra è un’esperienza di potere personale, di spoliazione, di fedeltà, di odio, di subordinazione e duplicità. Perciò, quale che possa essere il bilancio nominale dei profitti e delle perdite rispetto a quelle che si chiamano «le sorti della guerra», le conseguenze genuine saranno più o meno le stesse; queste conseguenze non possono che aver la natura di un ritardo della civiltà occidentale, sotto quegli aspetti che la definiscono appunto come occidentale e moderna. La diversione militaristico-dinastica di cui lo stato imperiale è stato protagonista è presumibilmente di natura transitoria, anche se non ci si deve affatto aspettare che sia effimera. Il sistema prussiano-imperiale può esser assunto come forma-tipo ed incarnazione della reazione contro la corrente della civiltà moderna; anche se quello stato non deve per questo esser considerato il solo difensore del medievalismo tra le nazioni, né del resto un suo difensore pienamente convinto. A lungo andare, nei confronti dell’assuefazione a lunga scadenza imposta dal suo condizionamento, il sistema è necessariamente nemico della scienza e della tecnologia moderna, come pure del moderno sistema d’istituzioni libere e popolari, nella misura in cui è incompatibile con lo spirito meccanicistico che sta alla base di queste abitudini mentali; non necessariamente ostile quanto ai sentimenti che animano i suoi uomini politici e i suoi sostenitori nel loro atteggiamento verso queste pietre miliari della civiltà occidentale, esso è tuttavia ostile per la tendenza e la forma della mentalità che inculca. Ciononostante il sistema imperiale di dominio, di statalismo e imprese militari si fonda necessariamente sulla moderna scienza e tecnologia meccanicistica, sia per le sue basi economiche e attrezzature materiali che per il suo apparato amministrativo e la strategia necessaria a farlo funzionare. Per questo rispetto, naturalmente, esso si trova nella stessa situazione di altri stati moderni. Le necessità materiali del moderno stato militarista sono soddisfatte soltanto dal massimo sfruttamento di tale tecnologia; tuttavia il condizionamento connesso con una pratica abbastanza aperta della tecnologia meccanica disgrega inevitabilmente le fondamenta istituzionali di questo sistema di dominio personale che contribuisce a formare e a far funzionare

uno stato dinastico. Si può dunque affermare che lo stato imperiale non può tirar avanti senza l’industria meccanizzata, ed anche che, a lungo andare, esso non può sopravvivere insieme ad essa; dal momento che a lunga scadenza questo sistema industriale mina le fondamenta dello stato. Insomma, ciò per cui lo stato prussiano-imperiale sta in effetti lottando, con la sua difesa offensiva del dominio germanico, è una sorta di proroga a favore del governo personale. Tuttavia la situazione presenta la singolarità per cui, sia che lo stato imperiale vinca o perda nella contesa per l’egemonia, il movimento di reazione culturale per conto del quale sostanzialmente esso sta lottando è in posizione tale da trarre vantaggio, almeno nel senso di un sostanziale, seppure presumibilmente temporaneo, indebolimento e arresto della civiltà occidentale in senso lato. Mentre queste e le consimili conseguenze non materiali dell’impresa bellica – le sue conseguenze culturali nel senso convenzionale del termine – sono senza dubbio gli effetti più sostanziali e di maggior portata, il costo materiale e i corollari economici del conflitto in cui è culminato questo concerto di intraprendenza dinastica sono anch’essi di non piccolo momento. Si suole, senza dubbio molto giustamente, specie da parte dei sostenitori della pace, parlare con eloquenza dello spreco di vite e di ricchezze connesso con le operazioni belliche e dar molto peso al conseguente impoverimento dei paesi in guerra. Dando per scontato tutto ciò di cui tengono normalmente conto i fautori della pace in questo campo, rimane da aggiungere e sottrarre quelle ulteriori voci che un esame attento e spassionato riuscirà necessariamente a inserire nel bilancio. Quanto alla distruzione dei beni, è stato notato come fatto degno di nota da parte di molti attenti scrittori che i paesi invasi e devastati da forze armate nei tempi moderni recuperano la loro prosperità materiale in un tempo sorprendentemente breve2, -– sorprendente, cioè, per gli storici che registrano i fatti senza molto riflettere sulla concatenazione delle circostanze che portano a questo rapido recupero. La loro capacità di sorprendersi a questo proposito è in certa misura aiutata dalla teoria economica standard che dà molta importanza ai «beni di produzione» come strumenti produttivi. L’attrezzatura materiale, in un tal caso di devastazione, subisce un grave danneggiamento, il che è sempre un inconveniente; il patrimonio immateriale delle capacità tecnologiche, invece, – io stadio della tecnica considerato come sistema di abitudini di pensiero, – ne soffre un danno relativamente lieve, purché il periodo delle ostilità non si sia protratto oltre ragionevoli previsioni;

quanto poi al danno che esso potrebbe aver subito nel senso di una perdita di personale specialmente qualificato, a questo è relativamente facile porre rimedio nell’attuale sistema tecnologico. Quest’attrezzatura immateriale è di gran lunga lo strumento produttivo più importante della situazione, anche se. è vero che gli economisti non hanno l’abitudine di tenerla in gran conto, dato che non è per lo più suscettibile di esser tradotta in termini di prezzo e non compare quindi negli inventari statistici dei beni complessivamente disoonibili. D’altra parte, in stabili condizioni di pace e di prosperità generale, una larga percentuale – in genere qualcosa di più del cinquanta per cento – dei consumi abituali e convenzionalmente necessari della popolazione consiste, come è già stato notato prima, in articoli il cui uso è necessario solo per convenzione, e il cui consumo può esser interrotto senza privazioni fisiche e senz’abbassare la capacità produttiva della popolazione. In tempi difficili, come in un periodo successivo alla devastazione bellica, è probabile che le convenzioni che regolano il consumo necessario dei beni decorosamente superflui siano seriamente scoraggiate, cosicché questo consumo «improduttivo» viene per quel periodo grandemente ridotto. Al tempo stesso, e per analoghi motivi, cade un poco in disuso l’abitudine convenzionalmente decorosa di evitare il lavoro produttivo in base a tabù sacri o profani. Di minor importanza, ma della stessa portata generale, è la più lieve necessità e la minor attenzione dedicata agli sports e a simili dissipazioni in tali periodi difficili per la collettività, quando l’attenzione di ciascuno è occupata da qualcosa di più interessante. Il «segreto» di questo fenomeno di recupero sarebbe dunque che, in queste circostanze, la produzione netta della società sale quasi fino al livello della sua capacità produttiva lorda, o almeno vi si avvicina assai di più che non nei tranquilli giorni della pace. Pur non essendovi necessariamente alcuna intenzione, quindi, di minimizzare le devastazioni della guerra, risulta anche come sia facile sopravalutare la gravità delle distruzioni materiali che questa comporta. Non vanno neppure trascurati gli effetti economici della finanza di guerra. Le guerre moderne, come ad esempio quella attuale, sono largamente condotte sulla base del credito. Ovviamente le tasse, e le consimili imposte, obbligatorie e volontarie, fanno la loro parte e anch’esse rappresentano di per sé interessanti soggetti d’indagine; tuttavia le tasse di guerra hanno più o meno lo stesso carattere ed incidenza delle tasse destinate ad esser consumate dallo stato in tempo di pace, ed una ricerca delle loro particolarità in questa sede ci

porterebbe troppo fuori strada. I prestiti di guerra, e tutta la categoria delle aperture di credito a cui appartengono sono, invece, elementi così vasti ed importanti di queste situazioni da meritare una speciale attenzione. La somma delle tasse di guerra, più i prestiti ed altre obbligazioni lanciate in occasione della guerra, può esser assunta come indicazione approssimativa dei mezzi complessivi consumati nel perseguimento dell’impresa, senza includere lo spreco incidentale dovuto alla devastazione di un tipo o di un altro. Questo, pur essendo un fatto di per sé abbastanza notevole, è una cosa che tutti sanno e costituisce materia per l’eloquenza dei sostenitori della pace. Non ha invece attratto un’analoga misura di attenzione un effetto secondario di queste transazioni fiscali. I prestiti di guerra e le obbligazioni circolanti, che sono in breve consolidate, effettuano una redistribuzione della ricchezza che può forse non esser di ampie proporzioni se calcolata in percentuali rispetto ai titoli emessi, ma che ha molto peso nell’ammontare complessivo e nella lunga scadenza a causa della grande massa di queste obbligazioni e del loro carattere presumibilmente perpetuo. La richiesta di prestiti di guerra fa avanzare invariabilmente la scadenza degli interessi dei titoli di questo tipo, il che porta immediatamente ad una rivalutazione delle obbligazioni a reddito fisso circolanti, a un tasso di capitalizzazione inferiore. A parte le perturbazioni nel commercio e nei mercati connesse con la guerra, il capitale è in effetti remunerato sulla base di un tasso d’interesse più altof Aumenta anche la massa delle obbligazioni, probabilmente per un ammontare non di molto inferiore al totale delle obbligazioni di guerra emesseg. Contemporaneamente né l’ammontare complessivo dei beni disponibili per le nazioni della cristianità né quello delle loro capacità produttive stanno aumentando ad un ritmo paragonabile, ammesso che in tali campi non vi sia piuttosto una diminuzione che un aumento. I nuovi diritti sul reddito totale istituiti in tal modo da quest’emissione di titoli e la garanzia legale, costituita dall’ammontare dei beni disponibili e rappresentata da questi documenti, costituisce in effetti un passaggio di proprietà, a vantaggio dei detentori di queste azioni, di un interesse indiviso sui beni della società ammontante approssimativamente al valore nominale complessivo dei titoli emessi. In questa misura l’usufrutto della capacità produttiva di questi paesi passa ai detentori dei titoli. E dato che quest’impresa non crea né beni né capacità produttive, ne dovrebbe conseguire che la proprietà dell’ammontare globale dei beni esistenti, comprese le risorse produttive di tutti i tipi, valutabili in termini di capitale, personali e impersonali, sarà in effetti redistribuita nella misura indicata da

queste considerazioni. Sarebbe tuttavia arrischiato valutare fin d’ora in che misura questi diritti recentemente attribuiti possano, alla fine, rimaner al di sotto del totale dei beni disponibili o dell’usufrutto complessivo della capacità produttiva delle nazioni occidentali. Incidentalmente, questo vasto trasferimento di proprietà suscita anche un interessante problema relativo alla spettanza del potere discrezionale di condurre gli affari di queste nazioni su queste nuove basi finanziarie, e per conto di chi. La perdita di vite connessa con l’impresa è senza dubbio una faccenda più grave della perdita di beni, e più interessante anche a prescindere da ogni considerazione umanitaria circa i caratteri più duri e vergognosi della campagna di guerra. Vi sono però talune circostanze (economicamente) allevianti che non vanno trascurate, sempre a questo proposito. Probabilmente la perdita più importante per ciò che riguarda il personale coinvolto nelle operazioni di guerra è la perdita di morale, dell’inquadratura mentale utile per le occupazioni pacifiche, dovuta alla disciplina del servizio militare, alla connessa dissipazione e alle «irregolarità», all’esposizione alle vicissitudini di un’attività consistente in quelli che nella vita privata sarebbero chiamati incendio doloso, tradimento, assassinio, furto, e tutto il resto che i dieci comandamenti proibiscono. Questi sono inconvenienti che inevitabilmente imbarazzano il personale e inevitabilmente ne abbassano l’utilizzabilità produttivah. Lo stesso vale per le infermità fisiche dovute alle malattie e ai disagi. Ma per questo aspetto, come per molti altri, vi è un margine tra lordo e netto; anche se qui il margine può non esser così ampio come nella questione dell’attrezzatura industriale di cui si è parlato sopra. Per quel che riguarda la mortalità effettiva causata da una tale guerra, la perdita di personale economicamente utile non è affatto perfettamente equivalente alla perdita complessiva di vite umane. Anche sotto un sistema di coscrizione e di servizio militare universale, una certa misura di auto-selezione si attua nella formazione di una forza navale o militare. Gli individui, le cui tendenze congenite li rendono adatti ad un’occupazione militare anziché industriale, vengono in ultima analisi attratti nel servizio militare in una misura alquanto più ampia; e, nella lieve misura in cui questo processo selettivo è efficace nell’attrarre gli uomini nel servizio, lo è anche per quel che riguarda la mortalità nel servizio. Quanto ai soldati semplici, la mortalità ha probabilmente scarso effetto selettivo, particolarmente in un sistema di coscrizione universale. Le cose vanno diversamente per quel che riguarda gli

ufficiali, specialmente quando provengono per auto-selezione soprattutto dalle classi benestanti, come accade, per esempio, nel caso della Germania e dell’Inghilterra. Costoro sono presumibilmente uomini particolarmente adatti alle imprese belliche e per ciò stesso presumibilmente inadatti alle attività pacifiche. E inoltre, comunque stiano le cose rispetto alla congenita idoneità alla guerra, si deve notare che gli ufficiali sono in genere dei gentiluomini, nei diversi significati che la parola esprime; e i gentiluomini, in genere, non hanno alcun valore produttivo. Invero, anzi, per quel che concerne l’efficienza produttiva netta della società hanno un valore considerevolmente meno che nullo, dato che sono consumatori tipicamente improduttivi. Quindi la mortalità tra gli ufficiali può esser considerata, dal punto di vista economico, un netto guadagno; dato poi che essi sono in media dei consumatori altamente efficienti, la loro dipartita dovrebbe aver il valore di un sollievo economico per la società in genere, con un peso alquanto superiore ad una mera valutazione pro capite. Tra le persone ansiose di attribuire alla guerra molte cattive conseguenze non è insolito ritenere che la mortalità bellica porti un permanente detrimento alla popolazione distruggendo «il meglio» della popolazione maschile e lasciando per selezione gli inferiori, i delinquenti e i minorati a continuare la schiatta. Non si deve negare che in questa sensazionale asserzione ci sia una piccola parte di verità, ma le necessarie riserve bastano quasi a vanificarla. «I migliori», quali sono intesi in quest’affermazione, sono i migliori ai fini bellici, non necessariamente per ogni altro scopo. E del resto secondo le norme mendeliane sull’ereditarietà la discendenza di quelli che si possono definire i rappresentanti «depauperati» di questa razza ibrida dovrebbero fornire, nel corso di circa due o tre generazioni, gli stessi risultati della discendenza dai migliori esemplari. Si può forse reperire un qualche leggero e transitorio abbassamento della media dovuto a questa causa; ma lo stato attuale della popolazione europea in fatto di vigore fisico e delle altre qualità virili dovrebbe esser abbastanza rassicurante a questo proposito, per ciò che riguarda gli effetti a lunga scadenza della mortalità bellica. Queste popolazioni sono state soggette ad un’estirpazione selettiva degli uomini adatti al consumo bellico fin da quando iniziarono le invasioni barbariche, e non vi è la benché minima prova di un più basso livello di attitudine media delle loro caratteristiche virili oggi, rispetto ad ogni periodo precedente. a. Così, il servizio militare universale si è dimostrato il correttivo più efficace finora impiegato contro la propaganda socialista e consimili movimenti di scontento e di insubordinazione; la disciplina del servilismo, o dslla servitù, imposta nel servizio militare va probabilmente ritenuta il fattore

principale che ha provocato il definitivo crollo del socialismo in Germania, – definitivo, cioè, per il presente e il prevedibile futuro, e sotto tu iti gli aspetti tranne il nome, il cerimoniale e gli uffici. La concomitante propaganda bellicista e la smodata magniloquenza dinastica hanno avuto la loro parte in questo crollo, ma è molto dubbio se il movimento socialista tedesco avrebbe potuto oggi cadere nel suo stato attuale di «innocuo disuso», se non fosse stato per il positivo tirocinio alla soggezione all’autorità personale introdotto dal servizio militare universale3.

1. socialdemocratici tedeschi non si opposero alla politica bellicista del governo imperiale, giungendo fino a votare i crediti di guerra, approvati all’unanimità dal Reichstag il 4 agosto 1914. Questo atteggiamento fu influenzato anche dal favore con cui essi consideravano una guerra contro la Russia, arcinemico del movimento socialista; fu così riesumato il programma di Lassalle, postulante l’alleanza con il militarismo prussiano contro il liberalismo capitalista. Il voto del Reichstag (in cui anche la minoranza contraria, facente capo a Haase e Karl Liebknecht, votò a favore per disciplina di partito) venne a coronare lo spostamento a destra del partito iniziato nel 1906. che ne paralizzò ogni autonomia legandolo al carro della politica imperiale; e ciò nonostante la sua forza apparente, che gli derivava dall’essere il movimento socialista numericamente più forte e meglio organizzato, con oltre un milione d’iscritti nel 1914. Il giudizio di Veblen rimane del resto valido anche per quanto concerne l’esperienza governativa del partito nell’immediato dopoguerra. b. «Vi è, nel possesso di una forza superiore, qualcosa di estremamente pericoloso, in senso morale, per il suo possessore. Messo in contatto con l’uomo semi-civilizzato, l’europeo, con le sue doti naturali e la sua forza effettiva così smisuratamente superiori, lo considera poco al di sopra di una bestia, e parimenti nato per il suo servizio. Egli sente di avere un diritto naturale, per così dire, alla sua obbedienza, e che quest’obbedienza dev’esser misurata non dalle forze del barbaro, ma dal volere del suo conquistatore. La resistenza diventa un delitto, da lavarsi solo con il sangue della vittima. La storia di tali atrocità non si limita agli spagnoli». PRESCOTT4, Conquest of Peru, vol. IV. Una simile perdita di prospettiva morale, basata su un senso di potenza, sembra verificarsi parimenti sia se il più forte è superiore anche in altri rispetti, sia se non lo è, forse anzi in modo più accentuato nel secondo caso. Gli Unni e i turchi la manifestano nei loro rapporti con gli europei romanizzati, proprio come i Figli d’Israele la mostrano nei contatti con i Canaaniti e i Filistei e come appare anche nello spirito dei Galli, Goti, Visigoti e Vandali ai loro tempi. Così, anche, a loro modo, lo spavaldo «avventuriero gentiluomo» elisabettiano, il conquistador spagnolo e lo statista prussiano-imperiale. È l’atteggiamento morale del bracconiere verso gli animali da pelliccia. Non si mantiene la parola data agli animali da pelliccia. 2. William Hicling Prescott (177Ó-1859), storico americano dedito soprattutto a studi sulla storia della Spagna. Il testo citato fu pubblicato a Philadelphia. c. Molto si è detto e poco si è realizzato con le recriminazioni diplomatiche attraverso le quali si è tentato di ripartire la responsabilità5. Tutti i partecipanti a questo scambio di accuse negano ogni loro intenzione di provocare la guerra; e sono i tedeschi a negare nel modo più verboso. La ragione di questo diniego è la sua intrinseca necessità. Non c’è niente di male nel riconoscere l’assoluta malafede di tutti i partecipanti alla controversia. Il fatto che l’entità della prevaricazione tedesca sia la più grande lo si deve un poco ad una circostanza fortuita, dovuta alla maggiore urgenza delle loro necessità diplomatiche. Con le stesse possibilità e la stessa provocazione è dubbio se la diplomazia inglese non avrebbe fatto proprio altrettanto, e non v’è dubbio che i russi avrebbero fatto di meglio. 3. Riferimento alle battute iniziali della famosa Kriegsckuldfrage. 4. La concessione tedesca presso Tsingtao, nello Shantung cinese; attaccata da inglesi e giapponesi nel settembre 1914, si arrese nel novembre successivo. Essa risaliva solo fi 1897-1898. d. Cfr. JACQUES LOEB6,The Mechanistic Conception of Life. e. La diffusione nelle società moderne di questa concezione meccanicistica e di tendenze ostili ai privilegi e ad un governo personale deve, naturalmente, esser considerata un prodotto dell’assuefazione

e d’inclinazioni acquisite, non come un turbamento o una deviazione dalle fondamentali predisposizioni istintive della natura umana. Eppure è forse più esatto interpretare l’assuefazione, che conduce a questo orientamento meccanicistico e concretamente empirico della civiltà occidentale, come una disciplinata obsolescenza di elementi abituali derivati dal passato recente e non più imposti dalle circostanze attuali, piuttosto che come una nuova mentalità appena acquisita ed imposta coercitivamente su una natura umana a cui è sostanzialmente estranea. Si tratta probabilmente di un fatto di svestizione e di sbarazzamento, almeno altrettanto che del conferimento o dell’inculcazione di nuove capacità. In assenza, o in seguito ad una ridotta pressione da parte di una disciplina orientata verso la soggezione e l’umiliazione personale, o l’interpretazione dei fatti e delle relazioni oggettive in termini personalizzati di forze magiche o occulte, si può supporre che le facoltà umane riaffermino, in un certo senso atavicamente, la loro innata tendenza alla concretezza empirica in entrambe queste direzioni affini. Con la caduta in disuso, resa necessaria dalla tecnologia meccanica, dei poteri presunti e delle qualità occulte nella concezione della realtà oggettiva, si verifica nel modello istituzionale la parallela caduta in disuso delle analoghe attribuzioni abituali di fondamenti occulti al privilegio, all’autorità e all’asservimento. 5. Jacques Loeb (1859-1924), fisiologo tedesco emigrato negli Stati Uniti, esponente appunto dell’indirizzo meccanicista. Collega di Veblen a Chicago sin dal 1892, ne mutuò l’uso del termine instinct of workmanship. Il testo citato apparve a Chicago nel 1912. 6. Anche in questo caso Veblen prefigura la rapida ripresa economica tedesca del primo dopoguerra, che fu fonte di generale sorpresa e di preoccupazione. f. Vedi nota V, p. 625. g. È stato calcolato, con presumibile cura e buona fede, che il costo corrente della guerra in corso, per il solo Regno Unito, ammonti a circa sette milioni e mezzo di dollari al giorno. Si può triplicare tale somma, per rappresentare senza esagerazione l’ammontare complessivo corrente del costo della guerra per i belligeranti. Questo non comprende le spese affrontate a questo riguardo dai paesi neutrali o le obbligazioni emesse da loro. Non si sbaglia di molto, forse, ipotizzando che il volume dei prestiti accesi aumenti al ritmo indicato; dal momento che i prestiti fatti ai neutrali in funzione delle spese di guerra compensano probabilmente tutte le spese affrontate dai belligeranti che non siano coperte dai prestiti. h. Una simile esperienza di violenze irresponsabili e di sventure irrimediabili, quale è prodotta dalla guerra, ha altresì l’effetto d’indurre uomini (e donne) ad essa esposti a far ricorso a soccorsi magici e soprannaturali – la vanità dei quali è solo conosciuta e non provata. Con malcelato giubilo il clero sta già segnalando una recrudescenza di superstizione religiosa tra le truppe impegnate da entrambe le parti nell’attuale campagna; e analoghe prove del fatto che al senso comune si sta sostituendo un sentimento convulso si possono riscontrare tra gli sfortunati lasciati a casa, la cui dedizione a pratiche devote sembra esser grandemente aumentata. Più o meno della stessa portata, per una qualche sorta di inversione o ripercussione, è anche il notevole aumento della massa di profanazioni con cui, come si riporta in modo degno di fede, gli increduli dichiarati cercano di sfuggire al loro senso di impotenza e di colpa senza rimedio7. 7. Il risveglio religioso assunse aspetti assai notevoli soprattutto negli ultimi anni della grande guerra.

NOTE SUPPLEMENTARI

I (CAPITOLO I, p. 358). Limitando l’attenzione alla regione immediatamente interessata, e accettando il modello delle razze europee proposto dal signor Ripleya e dall’ampio consenso degli antropologi, a nome dei quali il signor Ripley parla, appare che i popoli europei sono formati da tre principali ceppi razziali – il mediterraneo (dolico-bruno), Palpino (brachicefalo-bruno) e il nordico (dolicobiondo) – trascurando i fattori minori, alcuni dei quali possono aver localmente considerevole importanzab. In un profilo schematico, e per quanto concerne il popolo germanico, questi tre ceppi razziali risultano distribuiti in tre ampie fasce sovrapponentesi, che tendono approssimativamente a conformarsi ai paralleli della latitudine, in modo che l’area di massima frequenza della razza mediterranea si trova lungo le coste del Mediterraneo, quella della razza alpina attraversa l’Europa centrale, la dolico-bion-da si trova soprattutto nel nord, e più in particolare nella regione costiera del Baltico e Mare del Nord. Ma in questa distribuzione geografica delle razze nessuna delle tre occupa alcuna di queste tre zone escludendo le altre due; ciò è particolarmente vero per la regione occupata dal popolo germanico e dai suoi vicini immediati. Anche se ciascuna razza è più forte entro la zona indicata come di massima frequenza, essa risulta diffusa anche nelle altre due, con maggiore scarsità quanto più ci si allontana da quella che si può definire la sua zona di residenza. Dei tre ceppi, si può affermare con sicurezza che il dolico-biondo è il più strettamente confinato alla regione della sua latitudine, e insieme palesemente limitato in modo alquanto approssimativo alla regione del litorale – assegnando al termine «litorale» un senso largo e comprensivo. Ne consegue che il popolo germanico è composto principalmente dalle due

razze che si accentrano sulle latitudini centrali e settentrionali d’Europa – l’alpina e la nordica –-, ma senza escludere affatto la terza – mediterranea –, la quale entra nel miscuglio ibrido risultante con tale notevole forza da non poter essere equamente stimata un fattore trascurabile o secondario, seppur sia presente in modo meno pervasivo e in minor volume delle altre due. Ciascuno dei tre ceppi è dunque diffuso come componente della popolazione ibrida in tutta l’area germanica, così come nei territori occupati dagli altri popoli cui i germanici sono più di frequente paragonati o opposti; e non esiste classe o condizione umana né località, in Germania e nei paesi vicini, che non contenga un miscuglio delle razze; il miscuglio etnico però varia da luogo a luogo rispetto alla sua composizione media in modo tale che, per esempio, il dolico-biondo risulta in proporzione decrescente via via che ci si allontana dalla regione litoranea del Baltico e Mare del Nord, e praticamente scompare sulle coste del Mediterraneo. IBRUNI, perciò, sono preponderanti al sud, mentre il ceppo biondo è più forte al nord dove, come per esempio sul litorale baltico, in determinate località può comprendere fino a metà della popolazione. Si può osservare tra parentesi che esiste una sorta d’inclinazione assai diffusa a sopravalutare la prevalenza del ceppo biondo nella regione della Germania del Nord-Scandinavia. Come si è osservato sopra, seppure questi diversi ceppi razziali siano diffusi nel complesso per tutta la lunghezza e la larghezza dell’Europa, la diffusione di ciascuno tende contemporaneamente a seguire i paralleli della latitudine, in modo approssimativo è vero, ma sempre alquanto conforme. Ciò vale più decisamente per il dolico-biondo che per ciascuno degli altri due, così come questo ceppo non si diffonde facilmente o in modo permanente in zone molto lontane dalla costa, o fuori dalla regione climatica costiera. Ne deriva che la distribuzione geografica del miscuglio etnico caratteristico del po polo germanico assume la conformazione di una regione vagamente oblunga o rettangolare, delimitata a ovest dell’Atlantico e ad est, con una frontiera molto meno definita, dai limiti dell’estensione orientale dell’area climatica del Mare del Nord. Questa regione si trova all’incirca entro i meridiani di io° W e 30° E di Greenwich. I suoi confini settentrionali e meridionali sono molto meno facili da definire, dato che dipendono in larga misura dalla configurazione della superficie del territorio e dall’estensione dell’area climatica del BalticoMar del Nord. In modo assai generico essa è delimitata a sud e a sud-est dai rilievi che formano lo spartiacque tra il Mare del Nord e il Mediterraneo. A nord la frontiera (assai irregolare) può esser determinata dalla stessa

dipendenza climatica. Si osserva che la delimitazione ha un carattere essenzialmente climatico e che il fattore centrale e dominante in tale area climatica è il litorale del Baltico-Mar del Nord, con caratteri meteorologici freddi, umidi e uniformi. La regione in questione si trova (approssimativamente) tra i paralleli di 48° e 60° di latitudine nord, sebbene i suoi confini non coincidano affatto con essi. Il ruolo che il clima costiero gioca nel determinare i limiti di questa regione antropologica è così importante che essa potrebbe anche esser indicata in un profilo schematico come l’area coperta dalla portata di un raggio vettore misurante circa i2°-i5° di latitudine e facente pernio nei pressi di Christiania [Oslo] o Stoccolma; in tal caso tale portata comprenderebbe le Isole Britanniche a ovest e Pietrogrado ad est. Entro quest’ampia regione la composizione etnica della popolazione risulta variare meno nel senso della sua lunghezza, lungo qualsiasi parallelo determinato, che nel senso della sua larghezza in qualsiasi sezione. Un’eccezione a tale generica affermazione si ritrova forse in territorio russo, dove una sezione mostrerebbe probabilmente variazioni sistematiche relativamente scarse; mentre essa è ben esemplificata dal territorio germanico, dove le differenze nella composizione razziale sono molto maggiori tra nord e sud che tra est e ovest. C’è sempre qualche lieve, ovvia possibilità che, attraverso una selezione naturale protratta a lungo tra tale popolazione ibrida, in condizioni locali fortemente favorevoli a uno dei tipi etnici nei confronti dei suoi rivali, un cosiddetto «filone puro» si possa esser stabilito, – in effetti di razza pura sotto l’aspetto dell’eredità, ma non della genealogiac. Potrebbe non esser irrazionale ricercare simili risultati episodici di generazione selettiva, per esempio, tra i biondi della Finlandia, o tra i brachicefalo-bruni delle Alpi o del Tirolo, o anche tra i dolico-bruni della Sicilia e Sardegna. L’irrilevanza di ogni analogo episodico ce filone puro» nei confronti della questione della purezza della razza in qualsiasi nazione europea è abbastanza evidente. Per ragioni evidenti a tutti gli studiosi della distribuzione etnica in Europa, la possibilità di una simile elaborazione per selezione di un filone puro è poi molto minore per il ceppo biondo che per le altre due razze principali. La tolleranza climatica di questo tipo umano è molto più ristretta di quella di ambedue i tipi bruni, e estremamente più ristretta di quella del brachicefalo bruno. Mentre il biondo non sopravvive per molte generazioni, neppure in una forma ibrida diluita, nell’habitat speciale dell’alpino, quest’ultimo ha presumibilmente pochissimo o nessuno svantaggio nei confronti de! biondo

nell’habitat del Mar del Nord, che è il solo in cui il tipo biondo si può mantenere in permanenza. Da tale vitalità del tipo alpino in variabili condizioni climatiche e topografiche deriva che mentre il biondo tende immediatamente a sparire tra le popolazioni brune situate a sud, il bruno non mostra alcuna tendenza a scomparire tra i biondi del nord. Così si è verificato che non esiste presumibilmente alcuna comunità, di sicuro non nell’ambito dell’Impero Germanico o delle Isole Britanniche, che possa con certezza esser ritenuta bionda per oltre la metà. Ciò che si può dire in questo campo è che, nel complesso, la popolazione ibrida della Germania, o delle Isole Britanniche, è più bionda verso il nord e più bruna verso il sud, ma collettivamente gli elementi bruni sono senza dubbio di gran lunga più numerosi dei biondi in ambedue i paesi. Prima di abbandonare questa questione delle razze europee e della loro ibrida progenie può essere appropriata un’ulteriore considerazione, relativa alla stabilità dei tipi nazionali. Le teorie sull’eredità attualmente in vigore presso la generalità dei biologi ritengono che il tipo di qualsiasi specie determinata sia invariabile per tutta la durata della vita della specie. Cosicché secondo questa regola della stabilità dei tipi specifici nessun mutamento effettivo e trasmissibile per eredità può introdursi finché dura la razza (specie). Non sono esclusi mutamenti transitori, frutto di adattamento – varianti «ecologiche» – ma essi sono solo effimeri, hanno caratteri tali da non alterare in permanenza il complesso dei tratti ereditari che contrassegnano il tipo. Finora gli antropologi e gli etnologi non si sono riconciliati con questa teoria biologica; sebbene abbiano da tempo l’abitudine di presupporre tacitamente una simile stabilità di tipi razziali umani, quando le loro ricerche vertono sull’identità della razza lungo intervalli di tempo e di spazio essi infrangono (tacitamente e automaticamente), questa regola in ogni indagine sull’ascesa e l’origine di qualsiasi determinata razza. Gli storici non si sono preoccupati, com’è del tutto naturale, di concetti biologici di carattere così astruso. Senza dubbio questo stato di cose al riguardo è dovuto al fatto che i biologi stessi sono giunti a rendersi conto della portata e dell’influenza di questo concetto dei tipi invariabili solo negli ultimi quindici anni, dopo che gli esperimenti di Mendel sugli ibridi sono stati resi noti e che si è cominciato a valutare la loro portata sull’ereditarietà e le varianti. Le leggi dell’ereditarietà che si dimostrano valide per gli animali in senso lato lo sono necessariamente anche per l’umanità; e ove si accolga ciò che è comunemente accettato in materia dai biologi, ne consegue che i diversi ceppi

razziali componenti i popoli europei odierni sono quelli che erano all’inizio. Sin da quando ebbero origine questi tipi umani esistenti nell’Europa oggi – in epoca quaternaria, o forse terziaria – il complesso dei caratteri ereditari che essi erano in grado di trasmettere ai loro discendenti non è mutato, né in meglio né in peggio. Perciò nessun miglioramento o deterioramento ereditario (eccettuate le effimere fluttuazioni citate sopra) ha avuto luogo in alcuna delle razze europee dal tempo del loro primo insediamento, presumibilmente nell’epoca neolitica; in fatto di doti congenite la popolazione del mondo cristiano di oggi è quindi una fedele riproduzione dei suoi antenati dell’età della pietra. Si può dedicare qui una certa lieve attenzione particolare al caso del ceppo dolico-biondo, della sua origine ed eredità, soprattutto come opportuno esempio illustrativo della situazione che questa teoria biologica della stabilità determina per ogni data razza umana in fatto di tratti ereditari. Tale razza non ha vissuto, per quanto se ne sa, fuori d’Europa (salvo che per escursioni transitorie), né invero in modo permanente fuori dell’ambito climatico della regione del Baltico-Mar del Nord; né si sa che abbia mai vissuto isolata da altre razze, dato che le prove archeologiche tendono uniformemente a dimostrare che le società in cui si sono trovati i biondi erano popolazioni miste. Non è neppure nota, con un minimo di certezza, la sua presenza in Europa prima della tarda epoca quaternaria – forse non fino alla fine, o quasi, dell’ultimo periodo di glaciazione. Nella cronologia archeologica ciò equivale all’epoca neolitica. Questa situazione delle testimonianze archeologiche, in congiunzione con la regola biologica secondo cui i tipi specifici sono stabili e perciò possono nascere solo dalla repentina mutazione di tipi precedentemente esistenti, conferisce un valore almeno ipotetico all’opinione secondo cui questo tipo umano ebbe origine in Europa, presumibilmente in epoca tardo-quaternaria (neolitica), attraverso la mutazione di qualche ceppo umano (neolitico) abitante a quel tempo la regioned. Poco – secondo alcuni, nulla – è conosciuto per osservazione diretta intorno alla nascita di un nuovo tipo o ceppo specifico per mutazione da un altro ceppo originario. La teoria è sostenuta in base ad una non evitabile deduzione da prove fornite soprattutto dall’osservazione del ritorno al tipo originale tra gli ibridi, che assume una direzione tale da portar con sé il presupposto necessario della stabilità dei tipi specifici. Ma anche rigettando la teoria della mutazione come metodo per spiegare la presenza del dolico-

biondo in Europa, l’accettazione dell’asserzione della stabilità dei tipi specifici – e tale posizione appare inattaccabile – lascia praticamente intatto il valore del ragionamento, altrettanto che se la teoria della mutazione fosse accettata. Questo ragionamento, dunque, porta alla conclusione (a) che poiché questo tipo umano fa la sua comparsa in Europa nell’epoca neolitica iniziale e sopravvive come elemento di duratura e crescente importanza nella popolazione neolitica, esso, o meglio la sua discendenza ibrida prodotta dal reincrocio con il suo tipo originario o associato, dev’essere stato assai idoneo per doti naturali alle condizioni di vita offerte a quell’epoca. La sua posteriore e permanente limitazione entro i confini dell’habitat peculiare costituito dal litorale baltico è un’ulteriore dimostrazione dell’elevata idoneità di questo tipo (o dei suoi ibridi) alle condizioni di vita, climatiche ed altre, offerte da questa regione. Quali fossero queste condizioni, e il modo in cui questo popolo neolitico vi fece fronte e ne trasse vantaggio, sta divenendo abbastanza notorio grazie alle testimonianze archeologiche della vita neolitica sul litorale baltico. Il modo singolarmente riuscito con cui il popolo biondo (ibrido) assicurò la propria sopravvivenza e si moltiplicò nelle condizioni date dimostra ulteriormente, sebbene in modo meno conclusivo, che il tipo e la sua gamma ordinaria di derivazioni ibride erano peculiarmente atti al sistema di vita adottato nell’assicurarsi la sopravvivenza, e quindi presumibilmente meno idonei a qualsiasi altro sistema di vita largamente diverso. Le prove tratte da altre specie animali sembrano nel complesso dimostrare in modo assai coerente che ciascuna specie è meno adatta a sopravvivere in condizioni molto diverse da quelle che si possono definire ad essa naturali. La maggioranza delle specie soffre di ogni radicale cambiamento d’ambiente, molte fino al punto di estinguersi. Questa tesi, applicata specificamente a questo tipo umano, significa che la civiltà neolitica è congenita al biondo-ibrido europeo e che esso attecchisce nelle condizioni (assai diverse) della vita civile solo mediante la sopportazione e un assiduo tirocinio. Al riguardo è suggestivo il parallelo offerto dagli animali domestici, particolarmente da quelli ammaestrati, in confronto con le stesse specie allo stato selvatico. Lo stato di natura, o stato selvaggio, del biondo (ibrido) europeo sarebbe la civiltà neolitica europea, e non alcunché di più primitivo o di più recente. (b) Situato com’era il ceppo biondo nell’epoca europea antica in una regione occupata da una popolazione mista, esso può essere sopravvissuto fino dall’inizio solo attraverso incroci con l’altra razza o razze con cui era combinato. La tesi viene rafforzata e meglio definita se il biondo è

riconosciuto come un tipo mutante, sorto in Europa come si è proposto sopra. le tal caso il ceppo sorto per mutazione nasce in una società formata dal ceppo che gli ha dato vita, e non ha alcuna possibilità di riprodursi se non attraverso reincroci con quest’ultimo. Qualche riflessione sulla distribuzione conosciuta delle razze, vicine e lontane, lascerebbe pochi dubbi sul fatto che quanto affermato qui nel caso particolare del dolico-biondo si applica con più o meno perentorietà a quello d’ogni altra razza, in Europa o altrove; e in ogni caso l’accettazione della teoria della mutazione, ed il conseguente preciso riconoscimento della stabilità dei tipi etnici, rafforza ancora la tesi e definisce con maggior precisione il concetto di «razza» distinto da quello di «popolo». (c) Ciò che si è verificato nell’addomesticamento degli animali e nel loro adattamento, attraverso la riproduzione selettiva, ai loro speciali compiti ed alle particolari condizioni della vita addomesticata, suggerisce un ragionamento il cui senso parrebbe applicabile alle diverse nazionalità europee, e specificamente al popolo germanico. Gli animali domestici sono di solito ritenuti di derivazione in gran parte ibrida. La riproduzione selettiva protratta per lunghi periodi di tempo è stata diretta a certi fini ben definiti, e cioè alla produzione in ciascun caso di una certa gamma ben definita di tratti ereditari, con il risultato di far sorgere talune razze artificiali, che presentano in ciascun caso un qualche carattere razziale abbastanza ben definito. Queste razze artificiali di derivazione ibrida sono piuttosto stabili - cioè si riproducono in modo approssimativamente fedele – finché sono oggetti) della vigilanza selettiva e del grado di isolamento che ha loro conferito quel tipo caratteristico. Di recente, mediante una selezione severa e intelligente, si è dimostrato possibile far sorgere nuovi tipi razziali di tipo artificiale entro una serie relativamente breve di generazioni. Ma questi tipi così sorti per riproduzione selettiva sono stabili solo in senso provvisorio. Quando tali razze artificiali sfuggono all’addomesticamento, essi ritornano verso l’uno o l’altro dei loro tipi ancestrali (come, per esempio, nel caso del mustang – o broncho. o cayuse – di derivazione ispano-araba, che allo stato selvatico sembra aver compiuto considerevoli passi nella direzione del tipo dell’Equus przevalskii)1 o in breve scompaiono (come per esempio accade di solito al pollo domestico sfuggito all’addomesticamento) con o senza la perdita concomitante dei loro tratti caratteristici. Proseguendo nell’analogia offerta dagli animali domestici si potrebbe sostenere che ogni determinato modello o sistema culturale, come per esempio quello tedesco più recente, operando con un effetto conformemente selettivo

su un popolo ibrido, deve con il passar del tempo far sorgere un tipo nazionale ereditario, secondo l’analogia delle diverse specie o razze di animali domestici. Tale razza nazionale sarebbe di tipo provvisoriamente stabile, in un modo e in una misura paragonabile alla stabilità dei caratteri tipici reperiti nelle razze animali artificiali, come ad esempio nelle varie specie di polli e di oche. Le diverse nazioni o popoli d’Europa sarebbero giustamente considerati, da questo punto di vista, come razze ibride riprodottesi per selezione in un tipo mediamente, ma effettivamente uniforme - uniforme rispetto alle caratteristiche rese necessarie dal modello culturale – che permane finché le condizioni selettive da cui è sorto restano valide. Diverse considerazioni vengono a invalidare questo ragionamento, applicato a qualsiasi nazione europea, e più in particolare nei confronti del popolo della Germania. L’uomo è un animale a lenta riproduzione, dato che per convenzione una generazione viene valutata in trent’anni; il periodo di tempo necessario per effettuare la definizione di un tipo ibrido quale quello considerato sarebbe perciò assai notevole, anche se la riproduzione selettiva del tipo fosse eseguita con il più severo controllo immaginabile e con la determinazione più intelligente e incrollabile. Ma la relativa azione selettiva non ha carattere più severo di un vantaggio differenziale relativamente vago e multiforme in favore di quegli individui che si conformano con eccezionale facilità a un dato tradizionale sistema di vita, di opinioni ed ideali. Allo stesso tempo il sistema d’istituzioni che si suppone operi tale adattamento selettivo è impegnato in un irrefrenabile processo di mutamento, tale da mutare in modo incessante le condizioni di vita, e quindi da variare progressivamente d’altrettanto le basi della riproduzione selettiva. Questi mutamenti della situazione culturale hanno proceduto ad un ritmo manifestamente accelerato nei tempi moderni, particolarmente riguardo ai fattori tecnologici che interessano direttamente le condizioni materiali di vita, cioè proprio quelle che hanno necessariamente il più severo e immediato effetto selettivo sulla popolazione. Solo nelle condizioni (presumibilmente) stabili o in lento mutamento dell’epoca preistorica questo popolo poteva in modo concepibile esser esposto a forze di selezione abbastanza attive attraverso una serie di generazioni sufficiente a far nascere un tipo ibrido sorto per selezione della specie in esame; anche supponendo che tale tipo nazionale fosse stato ottenuto nell’epoca preistorica, in ogni caso esso dev’esser andato in pezzi nel successivo tumulto delle invasioni barbariche e nelle epoche agitate che hanno

costituito la storia posteriore dei popoli sul Baltico e il Mar del Nord. È anche notorio il fatto che gli immigrati di pura estrazione tedesca, slava o britannica che si insediano in America, o in qualsiasi altra colonia nordeuropea, perdono i loro tratti nazionali caratteristici entro due o tre generazioni; in altri termini, non appena sopravvivono alle opinioni, pregiudizi, abitudini e ideali portati dalla patria; il che dimostra che nessuna di queste nazionalità, o altre che si possono citare, ha elaborato un tipo ibrido nazionale. Anche se il problema viene affrontato dal punto di vista dell’attuale osservazione quotidiana, o da quello della storia etnica europea, il risultato appare lo stesso: non vi sono differenze ereditarie, per esempio, tra i popoli britannici, i tedeschi e gli slavi – come quelli della Grande Russia – considerati nel loro complesso; ciascuno presenta al proprio interno variazioni più ampie della differenza media tra un popolo e l’altro. II (CAPITOLO II, p. 366). In ogni ricerca del genere è necessario far ricorso soprattutto alle fonti scandinave, principalmente alle testimonianze danesi e all’opera degli archeologi danesi. Non che la civiltà in questione possa essere considerata danese per qualche aspetto fondamentale, in confronto alle altre nazionalità dell’Europa settentrionale. Anzi l’intera fase iniziale, o successione di fasi, della civiltà risale così indietro nel passato, al di là degli inizi di una nazionalità danese, che qualsiasi delimitazione territoriale siffatta sarebbe priva di significato, così come ogni tentativo di differenziare tra le origini danesi e quelle di altri popoli baltici di quell’antica epoca. La precedenza attribuita necessariamente alle antichità e agli archeologi danesi, anche nei confronti di quelli degli altri paesi scandinavi, è in certo mode un fatto accidentale. Le circostanze geografiche decisero che quelle che sono oggi le zone costiere danesi divenissero l’area centrale di questa regione culturale; anche se sarebbe forse altrettanto corrispondente alla realtà e più chiaro affermare che la civiltà baltica si accentrò sugli stretti di queste coste scandinave, delle quali una gran parte rientra negli attuali territori danesi. I resti della civiltà protobaltica si ritrovano con maggior abbondanza in Danimarca, ma la Svezia del sud-ovest è quasi altrettanto importante in materia; e l’opera degli studiosi svedesi in questo campo può difficilmente dirsi seconda a quella dei danesi, e

per certo seconda a nessun’altra. C’è una seconda ragione che spinge a volgersi di preferenza all’opera dei danesi e dei loro amici in Svezia e Norvegia. Essi furono i primi in questo settore archeologico e l’hanno curato con la massima diligenza – oltre ad aver avuto il più ampio ed immediato accesso ai materiali. Allo stesso tempo, in parte senza dubbio perché si sono occupati così a lungo ed intimamente di questo studio, essi hanno anche la fortuna di aver conseguito una capacità di valutazione e un intuito più sobrio ed automatico che non molti dei loro vicini che hanno svolto un utile lavoro nello stesso campo. Forse la tendenza allo sciovinismo non si è persa del tutto tra questi studiosi scandinavi, ma almeno ha cessato di dominare le loro ricerche, d’improntare le loro premesse e di colorare le loro conclusioni nella misura in cui ciò avveniva molto tempo fa quando la prima generazione di essi iniziò l’opera; non si può in verità dir lo stesso, per lo meno non con la stessa sicurezza, per i loro vicini, il cui lavoro ha in ogni caso carattere più superficiale ed è più diffusamente contrassegnato dalle magagne che derivano dalla foga giovanile. Ci furono diverse circostanze materiali che condussero questi territori, o questi specchi d’acqua scandinavi alla loro posizione centrale nella regione culturale proto-baltica; gli stretti fornivano un’abbondante provvista di cibo ed insieme un facile mezzo di movimenti e di comunicazioni; i territori danesi, in particolare, fornivano una provvista abbondante ed accessibile di selce della migliore qualità – la materia prima indispensabile per gli arnesi della tecnologia neolitica; e le foreste assicuravano un’eccellente e copiosa provvista di legname, mentre il suolo – in prevalenza sabbioso con abbastanza terra marnosa – era fertile e facile da coltivare; tutto ciò portò rapidamente ed agevolmente la popolazione ad una densità tale da utilizzare nel modo più efficiente le risorse disponibili mediante lo stadio della tecnica produttiva in suo possesso. Poco dopo, nel corso dell’età della pietra, a questa combinazione di vantaggi si aggiunse la scoperta delle provviste d’ambra sulle spiagge dello Jutland e del loro valore commerciale, che contribuì ulteriormente a mantenere alle regioni danesi la posizione centrale già assunta. Con il grado di sicurezza che un materiale di questo tipo può consentire, le prove disponibili dimostrano che la civiltà che si sviluppò intorno agli specchi d’acqua scandinavi seguì un corso assai regolare, con un ritmo di progresso moderato e non fluttuante in modo notevole, per un lungo periodo di tempo; lungo anche se misurato in generazioni, ed approssimantesi abbastanza ad un carattere invariante per esercitare un’azione selettiva alquanto coerente e

presumibilmente decisiva sulla popolazione mista che si procacciava l’esistenza sotto la sua egida. L’età baltica della pietra presenta una successione di mutamenti in questioni tecnologiche ed altre, ma si tratta in ultima analisi dei mutamenti consentiti dalle circostanze entro l’ambito relativamente ristretto di una tecnologia neolitica; e i cambiamenti che si verificano sono distribuiti in un periodo che senza dubbio sorpassa di molte volte quello trascorso dopo la sua finee. L’età del bronzo è di durata inferiore, e la sua fine è ritenuta cadere tra P800 e il 300 a. C. da parte degli studiosi scandinavi. Montelius propende per il 500 a. C. Mutamenti e perturbazioni sono più evidenti nelle testimonianze dell’età del bronzo; ma i suoi mille o più anni possono difficilmente esser considerati paragonabili con un analogo periodo dì tempo trascorso dopo che i popoli baltici entrarono nella storia, in fatto d’innovazioni di vasta portata e di mutevoli fortune di questi popoli. L’età preistorica del ferro mostra una situazione ancor meno stabile, sia nello stadio della tecnica che nelle condizioni di vita in senso lato. Nell’ampiezza e nella frequenza dei mutamenti che hanno interessato i popoli baltici, invero, l’età del ferro è alquanto indicativa della turbolenta situazione dell’Europa occidentale dopo l’inizio delle invasioni barbariche. L’età della pietra, perciò, ed in modo meno convincente quella del bronzo, sono gli unici periodi nel corso della loro storia che presentino una situazione tecnologica di sufficiente stabilità e durata per esercitare un’azione decisamente selettiva sui popoli ibridi nordeuropei, mettendone alla prova l’attitudine ereditaria a vivere e prosperare in modo duraturo sotto la sua egida. Questa popolazione dovrebbe quindi esser naturalmente idonea in modo preminente a sbrigare le proprie attività con i mezzi e le procedure poste a sua disposizione dall’età della pietra e secondo il modello di vita risultante dall’uso di tali mezzi in quell’ambiente particolare. Le prove dirette disponibili dell’età della pietra hanno necessariamente un carattere del tutto materiale, e perciò testimoniano direttamente solo delle condizioni materiali e dello stadio della tecnica produttiva; qualcosa dello stato delle istituzioni, ma non molto, è anche presentato in via indiretta, attraverso prove accessorie. Si conosce così che questa regione scandinava (danese-svedese) era provvista di abbondanti foreste, di ricche zone di pesca, ivi compresi i crostacei, di una buona quantità di cacciagione, con un clima uniformef In aggiunta, come già osservato sopra, essa offriva un suolo fertile e una agevole provvista di eccellenti selci, la materia degli arnesi primari

dell’età della pietrag. Il paese è tracciato su piccola scala, nel senso che è tagliato in strisce e a pezzetti di terra e specchi d’acqua, così da opporre un ostacolo insuperabile al controllo coercitivo di vasti territori da parte di una qualsiasi organizzazione produttiva o autorità di tipo governativo avente a propria disposizione i soli mezzi e procedimenti consentiti dalla tecnologia neolitica. Eppure è un tratto di territorio che comprende relativamente poche aree deserte, e quelle che vi sono non risultano abbastanza accidentate per interporre serie barriere alle comunicazioni; lo stesso si può dire per gli specchi d’acqua della regione, che la tagliano in pezzetti, ma offrono contemporaneamente un conveniente mezzo di rapporti commerciali. Lo spezzettamento e la diversificazione si spinge abbastanza avanti da impedire efficacemente il controllo a largo raggio senza ostacolare diffusi rapporti commerciali, con i mezzi materiali a disposizione dei popoli baltici; si può dire che, dato quello stadio della tecnica, la natura del paese facilitò l’immunità da ogni inopportuna e penosa coercizione, mentre impedì l’effettivo perseguimento e la penetrazione di una pressione economica tale da sostenere un vasto potere politico o una ricca classe oziosah. Dal carattere diversificato del paese e delle sue risorse deriva la particolare natura del suo sistema produttivo. Durante la maggior parte dell’età della pietra, e in modo più accentuato durante il periodo del suo pieno sviluppo, esso sembra esser stato un paese ad agricoltura mista, con una buona dose di pesca e caccia come mezzi accessori di sussistenza. Eccettuato un periodo iniziale di durata indefinita, anche se forse assai considerevole, non si può affermare che caccia e pesca fossero la principale risorsa; e vi è modo di dubitare seriamente che queste attività fossero davvero più importanti dell’agricoltura perfino fin quasi dall’inizio dell’età danese della pietra. L’agricoltura mista utilizza le piante da raccolto – soprattutto cereali, per quanto se ne sa, – che hanno d’allora in poi continuato ad alimentare l’Europa; il primo fu l’orzo, e gli altri cereali seguirono in breve. La sua dotazione di animali domestici è anch’essa la gamma consueta del bestiame europeo; il numero delle specie usate aumentò gradualmente con il passare del tempo. Come tratto caratteristico del suo sistema produttivo, esso è un popolo che lavora soprattutto il legno; il lavoro in pietra era relativamente assente – a parte gli arnesi in pietra – ed anche il vasellame era meno in evidenza, sia in quantità che in qualità, di quanto potrebbero aspettarsi studiosi poco familiari con le condizioni climatiche locali e la provvista locale di materie prime. Nel

complesso l’articolo più caratteristico e frequente tra gli antichi oggetti dell’età della pietra è l’ascia del carpentiere – una lama di selce levigata di forma e dimensione che richiamano la lama d’acciaio del moderno boscaiolo. Seguono quest’ascia, per numero e qualità di lavorazione, gli scalpelli per lavorare il legno, di varie forme per diversi usi. Le armi, sia per la caccia che per la guerra, sono notevolmente più scarse, anche se la cura e la lavorazione impiegata in esse sono spesso tra le migliori in assoluto che l’abilità manuale dell’età della pietra abbia messo in luce. Si può osservare, tra parentesi, che vi sono prove che qualche tipo di macchinario, forse di tipo automatico, era in uso per la fabbricazione degli arnesi in selce nei giorni migliori dell’industria della selce levigata; e così pure sembra esservi stata una qualche forma di produzione per il mercato. Nel descrivere quest’agricoltura mista dell’età della pietra si deve osservare come tutte le piante da raccolto e gli animali domestici utilizzati siano specie introdotte da fuori dell’Europa, per quanto le prove stanno a testimoniare. È sempre possibile, per quanto non sia provato, che sia stato usato qualche tipo di cavolo o di rapa, o qualche derivato domestico del broccolo; così che quel tanto di addomesticamento di piante originarie del luogo potrebbe (in modo problematico) essere attribuito alla civiltà baltica. A parte tale possibilità, i popoli baltici importarono chiaramente tutto il complesso di piante da raccolto di cui la loro agricoltura faceva uso. Lo stesso vale per il loro bestiame: è un patrimonio importato, proveniente presumibilmente dall’Asia, con la dubbia eccezione di una razza di bovini selvatici nord-europei che può esser stata innestata per incrocio sulla razza dei bovini importati. Allo stesso riguardo vai forse la pena di notare che non si può affatto affermare con certezza che qualche altro elemento della loro tecnologia sia d’origine locale; la spinta iniziale in ogni strumento ed espediente impiegato in questa civiltà sembra esser venuta dall’esterno.. Per quanto concerne lo stadio della tecnica produttiva, questo popolo traeva dall’esterno tutti gli elementi di cui si serviva, e la stessa affermazione si applica con elevato grado di generalità ad elementi diversi da quelli tecnologici. La spiegazione di questo stato di cose può essere ovviamente quella secondo cui tutte le grandi realizzazioni ed invenzioni dell’iniziativa tecnologica utilizzabili in tale campo erano già state effettuate prima del loro tempo; ma questa è in fondo una caratteristica della situazione, che deve esser integrata con l’ulteriore precisazione che seppure i popoli baltici importavano con facilità, essi facevano però uso efficace di ciò che mutuavano, ed

elaboravano gli elementi mutuati fino alla loro piena efficienza, in modo da venire incontro alle loro proprie esigenze a modo loro. Così pure – sebbene queste siano solo prove negative, e anzi di valore particolarmente neutrale – non c’è nulla che stia a testimoniare di un sistema di suddivisione catastale, quale ci si deve aspettare ove un qualcosa di simile ad un «interesse fondiario» controlli la produzione agricola, più in particolare dove l’agricoltura sia condotta con un qualche tipo di dipendenza servile o di lavoro di schiavi. Ma l’indicazione negativa non va trascurata, se vista in connessione con l’analoga assenza di un frazionamento simmetrico nella distribuzione della terra coltivata anche a una data molto posteriore in tale area centrale della civiltà baltica; essa risalta in contrasto con ciò che si verifica in tutti i territori periferici della Madrepatria, che vennero occupati con la forza con il passare del tempo, ed organizzati secondo un sistema di dipendenza servile, come per esempio le zone al di là del confine dello Holstein e del Frieslandi La meticolosa sud divisione catastale delle terre coltivate assume forme diverse nelle diverse località, ma ovunque si verifica essa è ritenuta un contrassegno di dipendenza servile, elaborato in nome d’un controllo costrittivo della produzione agricola ed a beneficio di una qualche forma di «interesse fondiario». Essa si verifica in quelle parti del territorio germanico nel suo complesso che sono presumibilmente state acquistale con l’invasione e mantenute per diritte di conquista; mentre è virtualmente sconosciuta, come residuo dell’antichità, nelle regioni intorno agli stretti scandinavi. Non si è inteso sottintendere, in quanto detto sopra, che non vi fossero differenze classiste di ricchezza o di rilievo sociale nella società danese dell’età della pietra; e ancor meno vi sono elementi per ritenere che vi predominasse una qualsiasi forma di organizzazione comunistica. Né la situazione dell’organizzazione sociale in epoche successive e meglio conosciute, né le prove indirette fornite dagli antichi oggetti dell’età della pietra giustificano una simile ipotesi. Così, per esempio, le principali, quasi uniche strutture sopravvissute di questo periodo sono taluni sepolcri (tombe a cumulo, dolmen, tombe a camera) numerosi, distribuiti in estensione, ed elaborati, ma in ultima analisi troppo pochi per esser serviti cerne luoghi ordinari di sepoltura per le persone comuni, e insieme troppo costosi per esser stati alla portata di tutti. Essi costituiscono un articolo di consumo mortuario dilapidatorio che l’uomo comune non avrebbe potuto permettersi. Per quanto abbondanti siano questi sepolcri nella regione, il numero e la capacità di essi si restringono a

proporzioni assai modeste, se paragonati con la massa di arnesi ed accessori che servirono ai bisogni della popolazione vivente. Dal lato immateriale delle attività umane questa civiltà non appare dunque offrire alcunché di dimensioni degne di nota, in fatto di potere e di politica. Non ci sono elementi per ipotizzare vasti o potenti organismi politici o civili, né un elaborato apparato di governo. Le indicazioni maggiori in fatto di controllo pubblico si indirizzano verso una rilassata organizzazione di vicinato, forse secondo criteri simili a quella dell’autogoverno locale nel primo periodo (A.D.900-1100) della repubblica islandese. È onestamente inevitabile la conclusione che l’intraprendenza bellica (predatoria) di qualsiasi genere non è parte integrante del sistema. Quanto alla vita religiosa, vi sono meno tracce di essa, o forse piuttosto di idee e pratiche superstiziose, nell’età della pietra di quanto ci si potrebbe aspettare; o se le tracce esistono, esse devono aver un carattere così inverosimile da esser sfuggite all’attenzione. Si trovano invero pochi articoli che sono interpretati come «oggetti di culto» – statuette, amuleti e simili; ma il tutto è di entità così lieve e di carattere apparentemente così insignificante, da risultare estremamente deludente per le persone interessate negli antichi oggetti religiosi. I sepolcri e gli oggetti seppelliti con i morti forniscono le tracce più sostanziali e più particolareggiate che si abbiano di una fede nel soprannaturale; ma anche questi offrono poco. Anche quanto a oggetti d’arte queste antichità sono povere. C’è qualche piccola cosa in fatto di vasellame decorato, rozzo sia come concezione che come esecuzione, e pochi altri articoli che mostrano un timido accenno di impulso estetico; ma qui come nel campo religioso rimane valida l’osservazione che le tracce disponibili scarseggiano in modo sorprendente, e quelle che ci sono risultano appena sufficienti per concluderne un’estrema povertà in ambedue gli aspetti. C’è però una certa grossa riserva da fare in ogni ragionamento intorno ai materiali disponibili in questo campo delle arti figurative – una riserva che si applica forse altrettanto bene alla questione delle pratiche religiose. Come già indicato sopra, il popolo baltico era in modo eminente dedito alla lavorazione del legno; da ciò dovrebbe derivare che la sua arte decorativa, e i suoi oggetti di culto, furono presumibilmente realizzati in legno, e sono quindi spariti con la scomparsa del materiale deperibile con cui l’opera fu realizzata. Questa riserva acquista anzi un peso assai notevole grazie a ciò che si conosce degli oggetti di culto e dell’arte decorativa dei paesi scandinavi del periodo successivo, nelle epoche tardo-pagana e protostorica. Quest’ultimo

periodo è anch’esso soprattutto un’epoca di lavori in legno, e gli esempi di gran lunga più caratteristici e abbondanti dell’arte decorativa scandinava sono in legno a colori, seguiti in ordine d’importanza dai lavori in tessuti di lana, che soffrono allo stesso modo della deperibilità del materiale. Perciò la testimonianza del materiale disponibile non va accolta senza riserve come indicativa dello stadio delle arti figurative nell’antichità, né essa mostra necessariamente in modo adeguato quale possa esser stata la gamma e la natura degli attrezzi impiegati al servizio della religione o delle credenze superstiziose. Ovviamente, bisogna mantenere un’analoga riserva nel giudicare gli accessori produttivi e gli oggetti d’uso quotidiano, e quindi in ogni valutazione dello stadio della tecnica di questa civiltà preistorica; i materiali principali erano legno, pelli e lana. Ma gli arnesi in selce, che sono stati conservati, essendo quelli fondamentali – in quanto arnesi dei fabbricanti di utensili – offrono un criterio di giudizio conveniente, anche se imperfetto, della natura e dell’efficienza della tecnologia dell’età della pietra. Con il passar del tempo, quando il bronzo viene a soppiantare o a integrare la selce nella tecnologia baltica, l’apparente povertà di questa civiltà nel campo dell’arte viene alleviata in modo considerevole; in minor misura, lo stesso vale per gli accessori destinati ad usi religiosi o magici. Le migliori opere decorative in bronzo sono state raramente superate, sia per la loro raffinata sensibilità estetica che per la perfezione dell’esecuzione, da un qualsiasi popolo che si sia trovato ad un livello quasi analogo di civiltà. Questa definizione si applica senza riserve alla migliore arte decorativa dell’età baltica del bronzo, e si deve osservare che tale migliore produzione di opere in bronzo appartiene alla prima metà dell’età del bronzo. Non si può parlare con analogo rispetto dei miseri tentativi d’arte descrittiva compiuti nello stesso generico periodo della preistoria. Quest’ultima è meschina e frivola in una maniera quasi incredibile, se vista congiuntamente alle opere puramente decorative dello stesso periodo; essa è all’incirca allo stesso livello della peggiore produzione contemporanea d’arte commerciale etrusca, a cui assomiglia palesemente e da cui sembra aver tratto buona parte della sua ispirazione. I rapporti commerciali dell’epoca con la costa adriatica rendono probabile una simile affiliazione della produzione artistica baltica, e le forme, lo stile e i manierismi importati possono servire a dimostrare come ebbe luogo l’affiliazione. Ma tali considerazioni relative ai rapporti con i centri commerciali dell’Italia settentrionale e dell’estremità superiore dell’Adriatico non offrono

alcuna spiegazione plausibile dei lavori decorativi in bronzo, altamente caratteristici, particolarmente quelli della prima età del bronzo, che presentano uno stile distinto, e sono artisticamente superiori alle migliori opere importate dal Mediterraneo. Non rimane che l’ipotesi alternativa, secondo cui queste antiche opere decorative in bronzo sarebbero derivate dall’analoga arte decorativa in legno e colori trasmessa dall’età della pietra; cosicché la vita artistica dell’età della selce potrebbe forse esser meglio valutata alla luce riflessa dalla produzione del periodo successivo, che offrì per la prima volta agli artisti baltici un materiale su cui le loro opere potevano esser durature. III (CAPITOLO II, p. 388). Ciò che si è detto sopra (p. 387) circa l’estrema scarsità, per non dire la totale assenza, di contemporanee prove documentarie dello stadio della società nella preistoria nord-europea non ignora l'esistenza o il valore dei classici scrittori contemporanei in materia di antichità germanica. Questi antichi scrittori sono stati così completamente utilizzati ed esaurientemente esaminati da molti studiosi capaci, che tutto quello che essi hanno da dire è già entrato nel normale patrimonio d’informazioni in materia, e può perciò senz’altro esser dato per scontato come sfondo costante su cui si proietta inevitabilmente ogni descrizione delle antichità germaniche. I dubbi relativi al valore di queste fonti classiche non concernono la loro veridicità e importanza sostanziale, ma piuttosto la questione dei loro limiti intrinseci. Ciò ch’essi hanno da offrire ha nei casi migliori il carattere di uno schizzo frammentario, e il migliore di essi – Tacito – è un Tendenzschrift, un resoconto razionalizzato in modo conforme alle opinioni prevalenti a quell’epoca tra gli studiosi latini sulle condizioni sociali primitive, e tracciato avendo di mira l’istruzione e l’edificazione del suo pubblico romano. È peraltro più appropriato, perché costituisce un inconveniente più sostanziale per i fini del presente lavoro, notare che il suo resoconto, come gli altri, è tratto dall’osservazione e da informatori di quelle comunità germaniche che notoriamente avevano errato a lungo e lontano dalle loro sedi ancestrali, che erano ancora impegnate in un movimento di massa – un’«emigrazione barbarica» – in parte allo scopo di far bottino, in parte per impadronirsi di utili territori, o che infine si erano insediate (per lo meno provvisoriamente) come classe di padroni su una popolazione soggetta già prima stanziatasi nella regione. I popoli che questi resoconti descrivono

sono le generazioni successive, in uno stadio di riorganizzazione più o meno matura, dei gruppi di avventurieri che avevano lasciato il loro habitat iniziale per imprese predatorie; ed essi presentano nella migliore delle ipotesi un’immagine della situazione della società da cui provengono all’incirca altrettanto veritiera di quella degl’incursori vichinghi del decimo secolo. Ovviamente, rimane il fatto che essi si portarono dietro le idee fondamentali acquisite in patria; ma è altrettanto evidente che le circostanze in cui erano vissuti dopo averla abbandonata avevano assai contribuito a plasmare le loro abitudini mentali e gli usi e costumi correnti tra essi nell’epoca in cui vennero sotto osservazione; come pure che quanto più a lungo e più lontano essi erravano, tanto maggiori erano i mutamenti che ne risultavano nelle loro abitudini di vita e di pensiero, influenzate dalle esperienze sotto cieli stranieri. In altre parole, essi riflettono fedelmente la civiltà baltica dei loro antenati più o meno nella stessa misura in cui i mongoli o i mancesi in Cina, o i Mogol in India, riproducevano le civiltà delle steppe da cui provenivano; o in cui l'amministrazione residente dell’East India Company2 riproduceva le istituzioni britanniche e dava una lezione oggettiva della civiltà britannica; o infine, nella migliore delle ipotesi, così come i Quarantanovisti della California3 proiettavano un’immagine fedele della società americana. Perciò, potendosi presumere che le fonti classiche siano abbastanza conosciute per diffusa notorietà, e poiché esse sono nel migliore dei casi insufficienti ed offrono solo elementi per una remota inferenza circa lo stadio della società dalla quale erano un tempo provenuti i popoli germanici a cui esse fanno riferimento, – per queste ragioni nessun ulteriore uso verrà fatto in questa sede di tali documenti standard, a parte una generica tenuta in considerazione delle loro indicazioni, in particolare evitando ciò che essi escludono. Una seconda serie di materiali documentari, di cui sono tipici i diversi codici delle «Leggi Barbariche», è soggetta alle stesse restrizionij In misura minore, ed anzi in ultima analisi nella minore tra tutti, i residui letterari dei popoli barbarici stessi sono soggetti a obiezioni di senso analogo; ed essendo le migliori prove disponibili, sia quanto ad immediatezza della testimonianza che quanto alla loro relativa abbondanza, bisogna far soprattutto ricorso proprio a questo tipo di materiale nell’intento di formulare un’ipotesi di lavoro circa le caratteristiche della società nella preistoria baltica, – il suo sistema produttivo, la sua organizzazione sociale, la sua vita politica, i suoi princìpi di equità, le sue convenzioni, credenze e ideali prescrittivi. Per quello che si può definire un caso storico fortuito si verifica che la parte più

considerevole di questo materiale, sia per il volume che per il carattere della sua testimonianza, si riferisce ai popoli scandinavi; e si dà il caso inoltre che nell’ambito scandinavo il più utile in tutti i suoi aspetti sia il materiale fornito dalla letteratura islandese. Per quanto concerne la presente ricerca il materiale islandese si riferisce soprattutto alla preistoria norvegese, sebbene esso rifletta, da una distanza lievemente superiore, anche le condizioni della società negli altri paesi scandinavi, e in modo più remoto l’andamento degli eventi e delle istituzioni della regione del Baltico-Mar del Nord in senso lato. La più valida giustificazione possibile per l’utilizzazione di questo materiale si basa sul fatto che esso è il migliore che sia possibile ottenere, e non che sia tutto ciò che si potrebbe desiderare. È chiaro agli studiosi che hanno familiarità con i fatti in questione che ogni altro materiale documentario è pienamente comprensibile solo nella luce proiettata dai resoconti islandesi, e che queste altre fonti sono utili più come appendici e correttivi secondari che come fonti primarie d’informazione e come basi di partenza indipendenti per deduzioni sicure. I paesi scandinavi godono, per questo aspetto, di un vantaggio differenziale nei confronti del resto del mondo germanico, consistente nel fatto che la storia li ha raggiunti nel loro stadio preistorico. Queste società erano gli ultimi residui del mondo germanico pagano, rimaste in piedi intatte in una misura assai superiore a quella che si può citare per tutte le altre al momento del loro ingresso nella storia europea. Essi hanno anche il secondo vantaggio, non meno importante, di racchiudere virtualmente l’unica zona entro la regione culturale del Baltico-Mar del Nord che non fosse stata, al momento del suo ingresso nella storia, disturbata dall’invasione da parte di civiltà estranee, né acquistata per conquista e riorganizzata per saccheggio da parte dell’area baltica centrale. Tutte le incursioni barbariche – Völkerwanderungen – che erano di natura germanica si diramarono da quest’ampio centro, mentre nulla del genere penetrò nell’iperborea «culla delle nazioni». Essi racchiudono, in altre parole, l’area di origine iniziale della civiltà baltica e del miscuglio razziale nordeuropeo, e rimangono l’ultimo modello operante del paganesimo baltico. Questi titoli preferenziali accampati dal materiale scandinavo non vanno ovviamente riconosciuti senz’attenuazione. In primo luogo vi è l’obiezione che i documenti si riferiscono soprattutto alla Norvegia – senza dubbio il meno significativo dei tre paesi scandinavi nei confronti della civiltà baltica preistorica. Ma, accettando le cose così come stanno, si deve ammettere che le testimonianze del paganesimo norvegese, con le loro digressioni e riflessioni

sullo stato della società nei paesi vicini, sono in ultima analisi il più significativo complesso esistente di materiale. La situazione norvegese alla fine dell’epoca pagana non costituisce certo una riproduzione fedele della preistoria bal tica in senso lato, dal momento che la Norvegia era al confronto esile, povera e periferica, ma fatte le debite riserve essa offre delle informazioni non ottenibili altrimenti. Inoltre i resoconti islandesi non sono contemporanei; essi furono vergati da studiosi cristiani che vissero circa un paio di secoli dopo la fine ufficiale dell’epoca pagana, e in condizioni notevolmente diverse da quelle prevalenti in Norvegia nell’epoca tardopagana. Per attenuare l’obiezione si deve dire che, anche se il paganesimo si chiude convenzionalmente con la fine del decimo secolo, è pur facile sopravvalutare l’entità e la subitaneità del passaggio alla nuova fede in questo periferico angolo del mondo cristiano; cioè che la sepoltura dello spirito pagano nella popolazione scandinava non coincide affatto con la data convenzionale delle sue esequie. Per di più, la letteratura in questione è abbastanza voluminosa per correggere in larga misura i suoi propri inconvenienti di dettàglio, facendo ricorso all’accordo tra le sue testimonianze complessive; tanto più che non v’è in queste antiche narrazioni alcuna sensibile tendenza alla critica o alla giustificazione rispetto agli eventi e alle situazioni descritte; lo spirito complessivo è, con notevole semplicità, quello dell’arte del narratore di novelle. Le saghe sono per questo aspetto, come per molti altri, sullo stesso piano delle storie di Erodoto. Una difficoltà più seria circa il materiale islandese è che esso fa riferimento diretto non alla situazione corrente, sia pure in Norvegia, nel cuore e all’apice della preistoria pagana, ma invece a quella dell’ultimo periodo della preistoria, in cui il sistema pagano era impegnato in tutto quel moto di cambiamenti che in breve portò l’epoca alla sua fine. Esso offre un resoconto di come il sistema pagano giunse alla sua fine, anziché della sua posizione attraverso la lunga estensione della storia della sua esistenza. Il periodo di preistoria che declina nella fine dell’epoca pagana nell’undicesimo secolo è definito l’epoca vichinga, caratterizzato com’è dallo sviluppo dell’intraprendenza piratesca organizzata; convenzionalmente lo si fa iniziare con gli ultimi anni dell’ottavo secolo, anche se si sa che le imprese piratesche risalgono ancor più addietro nei paesi scandinavi, costituendo invero, evidentemente, una realtà da tempo stabilita e in floride condizioni fin da quell’epoca. Anzi le radici di tale evoluzione risalgono molto addietrok. Al punto che quanto più si studia la questione, tanto meno sembrano esservi

motivi per tracciare una linea di tipo saldo e netto che differenzi le incursioni piratesche dalle incursioni per via di terra dei predoni, che sono conosciute con il nome più garbato di «migrazioni di popoli»; seguendo le quali fino alla loro origine si risalirebbe assai addietro nella preistorial. Pure le imprese vichinghe devono in ultima analisi esser riconosciute come specificamente caratteristiche delle fasi finali dell’epoca pagana, sia che la durata ad esse attribuita per convenzione, di circa ducentocinquanta anni, sia accettata come di entità sufficiente, sia che sia loro assegnato un periodo di tempo all’incirca doppio comprendente sia la loro nascita che lo sviluppo più maturo. Esse rappresentano un fattore caratteristico del sistema di vita tardopagano, e la loro presenza esige una spiegazione relativa alle loro cause anteriori e ai loro effetti sullo stadio della società a quel tempo. Nei lineamenti, le conseguenze economiche e sociali immediate dell’inserimento di un’istituzione quale la pirateria nel modello di usi e costumi dovrebbero esser del tutto chiare: ne dovrebbe risultare un rafforzamento dello spirito guerriero; una diminuzione della sicurezza della proprietà e dell’attività produttiva, della vita e delle membram; un aumento del numero degli schiavi e presumibilmente dei loro stenti, insieme ad un calo del loro prezzo, – dato che il commercio degli schiavi era uno dei sostegni principali dei traffici vichinghi; una conseguente più acuta percezione e insistenza sulle distinzioni di classe. Tra le cause della sua nascita solo una può esser citata con piena sicurezza; ossia un miglioramento della tecnica delle costruzioni navali e della navigazione, tale da render realizzabili i grandi viaggi per mare con forze sufficienti e con un rischio abbastanza ridotto di incidenti in mare. È inoltre una condizione necessaria, anche se meno palese, preliminare a una siffatta evoluzione, quella che postula l’esistenza di una sorta d’eccedenza nella popolazione e il possesso da parte dell’industria del paese d’una capacità produttiva sufficiente per consentire gli assai considerevoli investimenti in equipaggiamenti e in provviste necessari per tali imprese, – una spesa in cambio della quale non si ricavava alcun equivalente sostanziale dai traffici, oltre alla manodopera di schiavi importata. A parte gli schiavi, ciò che veniva portato in patria dalle incursioni sembra esser consistito quasi interamente in oggetti superflui, gioielli e metalli preziosi; ed anche dando la valutazione più generosa di queste «importazioni», non vi è alcuna possibilità che esse abbiano, in media, pareggiato il costo del loro acquisto. Tenendo presente la notevole preponderanza delle incursioni reciproche,

sia tra diverse bande di pirati che tra diverse comunità entro i paesi scandinavi, è indubbiamente corrispondente alla realtà affermare che nella media tutto ciò che era speso in questi traffici vichinghi, in equipaggiamenti, provviste e personale, va segnato in totale perdita. Cioè, economicamente parlando, essi costituiscono un pretto impoverimento delle risorse e delle capacità produttive delle comunità interessate; il che porta a concludere, tra l’altro, che esse dovevano esser in una posizione tale, in fatto d’efficienza produttiva, da potersi permettere questo spreco sistematico senza seriamente indebolirsi attraverso i secoli per cui durò. Che poi non vi fosse alcun serio declino della capacità produttiva del paese durante quest’epoca è messo in evidenza, per esempio, dal fatto che le imprese vichinghe stesse continuarono a progredire ininterrottamente, nel volume e nel carattere degli equipaggiamenti, fino al periodo del loro crollo agli inizi dell’undicesimo secolo. Ora, è proprio la vita scandinava della cosiddetta epoca vichinga che è immediatamente riflessa nel materiale islandese, e ciò che viene riflesso in fatto di usi, costumi e idee istituzionali di base non rappresenta la tranquilla situazione preistorica dell’antichità più remota, bensì quella civiltà preistorica così come sta dopo che lo stadio arcaico della società ha subito quella misura di mutamento, quale che sia, che la nascita della pirateria può star ad indicare, o che può esser stata prodotta da essa stessa o dalle cause che l’hanno fatta nascere. Perciò un qualche breve cenno al ruolo occupato dai traffici vichinghi negli interessi della comunità e al modo in cui questi si inserivano nella sua vita quotidiana può servire a dimostrare approssimativamente quale misura d’appesantimento e d’attenuazione sia necessaria al riguardo nel far uso del materiale disponibile. I traffici vichinghi, così come appaiono tipicamente nelle loro più semplici fasi iniziali, sono imprese di giovani avventurosi, di solito figli di contadini agiati, che hanno a propria disposizione i mezzi per equipaggiare simili spedizioni; anche se occorre notare che talvolta nell’equipaggiamento di una ciurma vichinga è implicato un qualcosa di simile ad un’apertura di credito. L’equipaggio può esser formato da volontari che riuniscono i propri mezzi, o da quei giovani signori di campagna dei cui mezzi s’è detto, insieme con braccianti agricoli nullatenenti e giovani disponibili delle vicinanze. L’organizzazione dell’equipaggio è (di solito) di carattere democratico, dato che gli ufficiali vengono scelti dai membri della ciurma per la crociera; anche se la scelta, che in teoria sembra esser stata del

tutto libera, di solito cade sui signori dotati di mezzi o d’esperienza tra di loro. Essi, si potrebbe dire, «firmano le clausole» della crociera – clausole di carattere alquanto duro, e presumibilmente ben stabilite per convenzione in una forma tradizionale. Come s’è già osservato sopra, lo scopo è la pirateria, nell’interpretazione più larga del termine; la spedizione può comprendere una sola o diverse navi, e può durare (più comunemente) per una sola stagione, o per due o più. Quando la crociera è compiuta i pirati tornano in patria, di solito all’inizio dell’inverno, mettono al riparo le loro navi e le altre attrezzature, si disperdono e rientrano nelle loro diverse località ed occupazioni di prima nelle vicinanze, anche se di solito non senza un certo aumento di prestigio e di peso nella comunità dovuto al fascino delle grandi gesta ed ai guadagni finanziari che possono aver fatto. Tale è il tipo più semplice e forse più arcaico, in caso di esito positivo. Era inoltre in un certo modo previsto che i giovani che partivano all’avventura e avevano successo avrebbero continuato questo lavoro piratesco per diverse stagioni, prima di porre dimora definitivamente tra i loro vicini. Tuttavia, questo è solo il tipo più semplice. C’erano anche vichinghi che seguivano tale occupazione come professione permanente ed unica attività e che invecchiavano nel mestiere; e c’erano anche imprenditori affaristi che organizzavano imprese piratesche di natura più vasta e durevole, con equipaggi salariati e considerevoli investimenti nelle attrezzature, – con una suggestiva somiglianza con la tradizionale industria baleniera della Nuova Inghilterra. Con il passar del tempo, in particolare in un periodo del decimo secolo già avanzato, si instaurò un’organizzazione di carattere più permanente e affaristico e furono formate delle coalizioni di bande piratesche, simili, ma in ogni caso molto più numerose, alle analoghe coalizioni dei bucanieri lungo le rotte caraibiche degli spagnoli. Pure, sebbene le organizzazioni permanenti e le coalizioni d’affari della tarda epoca vichinga fossero innegabilmente un fattore di grande rilievo nella situazione sociale, fino ad elevarsi al rango del potere politicon, rimane vero che sono in fondo le più semplici, si potrebbe quasi dire le casalinghe, imprese piratesche quelle che continuavano a improntare di sé lo stadio della società e delle attività umane riflesse nelle saghe. I fondamenti economici di quest’antica società erano l’agricoltura (coltivazione mista) e l’industria familiare del tipo artigianale, con la pesca come fonte sussidiaria di mezzi di sussistenza, e la caccia come fonte saltuaria. Ovunque si svolge un commercio girovago, per lo più di generi necessari come il ferro e il sale, insieme a generi di lusso come il frumento, il miele e le spezie,

e agli articoli decorativi superflui; e nel periodo successivo vi sono le imprese vichinghe. Per quanto concerne le esportazioni mediante il commercio girovago, gli articoli principali nei tempi tardo-pagani sembrano esser state le pellicce e le pelli, e ad una data anteriore soprattutto l’ambra, la lana o i tessuti di lana, e forse il pesce secco. Il commercio non ha importanza primaria per la comunità, che è autosufficiente in tutti gli aspetti essenziali. L’unità economica è la fattoria, con la sua popolazione di solito in numero definito solo in modo approssimativo, ma variante comunque da una singola famiglia di dimensioni medie fino a un aggregato di forse un paio di centinaia. La fattoria tipica è di dimensioni relativamente ampie e con vaste attrezzature, sufficiente a soddisfare le proprie esigenze in quasi tutti i settori produttivi necessari; ma sembra esservi stato anche un considerevole numero di fattorie periferiche semi-dipendenti, in parte in libera proprietà, in parte condotte secondo qualche forma di possesso consuetudinario che variava in modo assai considerevole da un caso all’altro. Tutte le classi e gli uomini d’ogni condizione prendevano parte al lavoro, non essendovi a quel che sembra alcuna classe agiata esente dal lavoro manuale – a meno che si possa fare un’eccezione (parziale e dubbia) in favore dei reali e dei più prominenti e ricchi membri della nobiltà terriera. Sia uomini che donne prendevano parte al lavoro nei campi, e la perizia in qualche tipo di attività produttiva era richiesta a tutte le persone stimate. La società si articola ir. un sistema di classi sociali, basato sulla ricchezza e la nascita; ciascuna delle quali conferisce un rango nella società, e nessuna delle quali può esser a lungo sufficiente da sola. Al fonde vi sono gli schiavi, che secondo la tradizione sembrano aver formato una classe nella società fin dalla remota antichità, anche se può esser difficile capire come potesse esservi stato un notevole numero di schiavi presenti prima della nascita della pirateria. Il loro numero sembra esser stato considerevole, sebbene sia del tutto chiaro che non formavano la classe più numerosa fra gli abitanti. Questi schiavi erano effetti personali dei loro padroni, in piena proprietà, sebbene il sistema di schiavitù appaia nel complesso non aver assunto forme estremamente aspre, a causa probabilmente della relativa difficoltà di controllare una popolazione di schiavi che non differivano né nell’aspetto fisico né nella lingua dai padroni, in un paese dove le zone desertiche e gli insediamenti dispersi offrivano favorevoli possibilità di fuga. Al di sopra della classe degli schiavi, vi è la classe (probabilmente) più numerosa dei fittavoli e coloni semi-liberi e la classe dei lavoratori dipendenti. E ancora al di sopra di

questi, quella che può esser definita la massa composta dalla popolazione degli agricoltori liberi proprietari (boeridr)4 grandi e piccoli; questa sembra esser stata la più numerosa tra le diverse classi sociali, e forma indiscutibilmente il grosso della comunità considerata come società civile. Distinte dalla popolazione degli agricoltori liberi proprietari nella considerazione popolare, ma non altrettanto chiaramente distinte nell’importanza e nel rango sia economico che civile sono le persone di nascita nobile e di buona famiglia (jarl e hersir)5. Il posto e l’importanza di queste ultime nel tessuto sociale non sono chiari, ma la loro presenza è indubbia ed appare come un elemento tipico di tale tessuto. In effetti sembra che fossero, in modo tipico, agricoltori agiati e persone influenti sul luogo; possono anche aver goduto, grazie alla sopportazione convenzionale, di certi mal definiti privilegi ed immunità. Qualcosa di analogo si può dire per i re, che formano una classe distinta in questo modello sociale. Quella reale è probabilmente (ma non aldilà d’ogni dubbio) la meno numerosa tra queste classi, così com’è in modo inequivocabile la prima per rangoo. Si osservi che nulla è detto qui di un’organizzazione tribale o di clan; la ragione è che non vi è alcuna traccia di un simile sistema nei documenti originali, e non vi è alcuna parola nell’antica lingua che possa esser interpretata, sforzandola in misura moderata, in modo da esprimere il concetto di tribù o di clan. L’attribuzione di un sistema tribale, come fatto ovvio, ai popoli germanici, è il frutto di una razionalizzazione da parte degli studiosi che si sono occupati della questione servendosi della guida degli antichi studiosi latini, i quali parlavano in questi termini perché il concetto della organizzazione tribale era un fatto ovvio e familiare ad essi per l’esperienza in patria. D’altra parte la «parentela» è un elemento essenziale della situazione. L’individuo è responsabile verso e per i suoi parenti; ma questa parentela è una categoria vaga, e non vi sono limiti definiti al grado di consanguineità fino a cui essa s’estende, sia nel ramo maschile che in quello femminile, per legami di nascita o di matrimonio; anche se, in modo generico e a parità d’altre condizioni, gli obblighi della parentela si spingono (forse) più lontano e vincolano più strettamente dal lato paterno che da quello materno, e nel complesso i legami di sangue hanno maggior valore di quelli di matrimonio. A parte la loro maggior estensione e valore vincolante, i legami di parentela producono in modo sorprendente quasi gli stessi effetti nel paganesimo scandinavo e tra i moderni popoli scandinavi o di lingua inglese, I diritti e doveri del «parente prossimo» sono senza dubbio più pesanti e più

specifici per definizione giuridica nel paganesimo scandinavo, in particolare nel caso di morte violenta, che non nella Gran Bretagna e nella Scandinavia moderne, ma anche oggi la differenza è nel grado anziché nel principio. Vi è quel tanto di regime patriarcale che può esser espresso dall’uso dei patronimici come indicazione legalmente ammissibile delle persone, e da una malsicura tutela delle donne, – quest’ultima è giuridicamente rigorosa, in apparenza, ma non compiutamente efficace, dal momento che è spesso contestata dalle donne e non di rado cade in disuso. Sarebbe pure possibile convincersi con facilità, sulla base di tenui prove dirette, che la tutela delle donne fu un’innovazione relativamente tarda, forse un aspetto di diritto civile importato dai paesi feudali del sud o da quelli romanizzati dell’est. Ma l’uso dei patronimici non mostra alcuno dei caratteri di un’istituzione improvvisata. I matronimici non sono usati, se non come nomignoli, e i cognomi, in senso feudale o moderno, sono ovviamente sconosciuti. Laddove un sistema tribale o un qualcosa di simile ad un regime patriarcale assai maturo non fanno parte delle istituzioni civili né delle antichità giuridiche di tale civiltà, la monarchia sembra invece esser intrinseca al sistema. Essa è un fatto ovvio, ma il ruolo e il peso del re nella vita della società non è facile da definire. Nel processo di consolidamento in entità di maggiori dimensioni che si svolse durante l’epoca vichinga i re, alla cui iniziativa e ai cui intrighi si deve la realizzazione della fusione in regni più vasti, si arrogarono molti ed ampi poteri, ad imitazione delle prerogative e delle prebende godute dai regnanti feudali dei più vasti paesi dell’Europa meridionale e centrale; e la funzione di re assunse in tal modo buona parte della dignità e dell’aspetto guerresco che sono tipici del feudalesimo. Ma la monarchia tramandata negli usi e costumi dalle epoche preistoriche precedenti è evidentemente un’istituzione di minor rilievo concreto, sebbene sia, a quanto pare, un elemento indispensabile del tessuto sociale. Questi regnanti del tipo antico, che si delineano in modo confuso sullo sfondo preistorico, fanno pensare al re di Yvetot. Il re è il primo gentiluomo del reame; tanto si può affermare con sicurezza e rimane valido senza bisogno d’ulteriori esplicazioni o limitazioni. Ma a parte questo la situazione del regnante è in uno stato oscuro. La corona ha presumibilmente poca o nessuna autorità legislativa e nessun potere di polizia, a parte quello che la forza personale del re e i suoi mezzi privati possono permettergli di arrogarsi in modo transitorio; e non è chiaro se egli abbia alcuna rendita fissa, a parte quella derivante dalle sue private proprietà agricole, che possiede a quanto pare con lo stesso titolo e gli

stessi annessi e connessi della proprietà di un qualsiasi libero proprietario. Forse l’unica parvenza di potere civile o politico che gli può esser attribuita con sicurezza – a parte casi eccezionali di personalità imperiose – è il suo presumibile comando in tempi di guerra, difensiva od offensiva. Tuttavia c’è almeno un altro aspetto in quelle che si possono chiamare le prerogative reali. Il re sembra esser in una sorta di relazione sacerdotale o semi-sacerdotale con le solennità nazionali del paganesimo, in occasioni quali per esempio la convocazione dell’assemblea popolare e la connessa consacrazione alla pace del suo recinto. In queste occasioni egli viene in evidenza in un certo modo come cappellano dell’assemblea, e forse come suo presidente. E i diversi riferimenti al re e alla sua opera hanno in comune una certa indicazione di una simile natura semi-sacra o semi-sacerdotale anche in altri rispetti. Questa connessione tra la funzione regale e il culto pagano è un problema abbastanza oscuro, che non ha beneficiato della debita attenzione da parte degli studiosi delle antichità scandinave. E nessun chiarimento del problema può esser ricercato al di fuori del paganesimo scandinavo, poiché le orde erranti di emigranti predoni impegnate nelle invasioni barbariche non avevano re, salvo quelli autonominatisi, cioè i condottieri insediati per fini guerreschi e predatori e non investiti del carattere sacro conferito dalla nascita alla successione regale. La dignità regale, si può aggiungere, sembra esser stata più o meno elettiva, per scelta popolare, il che spesso ha equivalso, com’è ovvio, a un semplice consenso tollerante; ma secondo usi e costumi rigorosi la scelta è limitata a persone di discendenza regale, con una predisposizione a favore dei parenti più prossimi in linea maschile, e una presunzione approssimativa in favore del figlio maggiore. In questo passato più indistinto, da cui son derivate le tradizioni della monarchia pagana che caratterizzano le leggende di un’epoca successiva, si scorge poco del potere regio ma una maggior misura della presenza regale. Le prove dirette relative alle dimensioni e alla costituzione dei regni preistorici provengono quasi per intero dalla Norvegia, dato che essa è l’unico dei paesi baltici in cui il processo di consolidamenti e di aggressioni monarchiche non s’era seriamente realizzato prima degl’inizi della storia registrata negli annaE. Anche per quanto concerne la Norvegia, sapere quanti e quanto vasti fossero questi regni prima che la situazione preistorica venisse turbata è quasi del tutto questione di congetture; ma si può con certezza far risalire il loro numero a diverse dozzine. I loro confini erano tracciati sui contorni topografici; in modo che ovunque un’a rea relativamente vasta del paese

rientrava facilmente in un unico sistema di rapporti di vicinato, il reame che ne risultava aveva dimensioni alquanto considerevoli; nel caso inverso il reame poteva comprendere un’area davvero assai ristretta. Si ricava l’impressione che il regno più comune poteva variare in estensione da quella di una parrocchia a quella di una contea o giù di lì. La tradizione dice, per esempio, che un tempo c’erano un totale di cinque regni nella vallata di Valdres, partendo dall’estremità della vallata fino a Naes sull’estremità del lago Spirilen, D’altro canto, sembra che per tradizione il Ringerike sia stato un unico regno; così come, per esempio, pare che nel nono secolo l’Hòrdaland, il Rogaland, l’Agdir e il So-gnefiord6 fossero un regno ciascuno; laddove invece si dice che Harald Fairhair7 abbia avuto a che fare con qualcosa come sei od otto re nell’attuale Trondhjemp. Per quanto concerne quella che può esser definita la gamma delle istituzioni domestiche in tale regime preistorico, esse non sembrano esser state altrettanto rudimentali e fuori scala con la realtà moderna come il sistema civile e politico. Tra tali istituzioni il possesso della proprietà fondiaria e gli annessi e connessi della proprietà sono scrupolosamente regolati e di fondamentale importanza più d’ogni altra, – a meno che si propenda per dar la precedenza agli alquanto meno precisati ma irrevocabili diritti di parentela. La proprietà è detenuta come privato possesso, con un interesse convenzionalmente effettivo ma mal specificato alla reversione da parte dei parenti. Questo vale, presumibilmente senza riserve, per i diritti reali come per quelli personali. Una distinzione di principio tra diritti reali e personali non sembra esser stata contemplata, sebbene sia evidente che il diritto (del tipo del diritto comune) fu elaborato con particolare attenzione per tutti i suoi aspetti relativi ai diritti di proprietàq. La proprietà veniva trasmessa per eredità in modo molto simile all’uso moderno in quzi paesi dove non vi è né fidecommesso né primogenitura; i figli illegittimi (una categoria da tener presente in questo caso) non avevano presumibilmente – almeno alla fine dell’epoca pagana – alcun diritto, salvo in caso d’assenza di prole legittima, sebbene sembra che essi abbiano avuto una sorta di effettivo diritto convenzionale. Le disposizioni matrimoniali hanno un aspetto altrettanto moderno, eccettuato il fatto che la poligamia e il concubinato sembrano aver fatto parte del sistema, – sebbene si ricavi l’impressione che la libertà consentita al riguardo non fosse pienamente utilizzata. La separazione era agevole, per scuse assai lievi, ed ugualmente possibile per ambedue i contraenti. La tutela

dei figli si attua anch’essa in modo assai prossimo ai metodi moderni, secondo il modello ora predominante nei paesi in cui i genitori esercitano un minimo di freno, e dove nessuna costrizione è esercitata molto oltre l’età della pubertà; le ragazze sono tenute sotto tutela alquanto più stretta dei ragazzi, ed a quanto pare fino ad un’età più avanzata. In caso di separazione dei genitori, i figli in tenera età vanno a quanto pare con altrettanta frequenza con la madre che con il padre. Questa sembra esser stata, in via generale, la pratica; nella teoria giuridica pare esser esistita una concezione predominante della tutela di donne e figli da parte del maschio capofamiglia, ma essa non si è affermata in modo riuscito nella pratica. Si può aggiungere che, sebbene il matrimonio avesse le sue formalità e il suo cerimoniale, non vi sono prove che esso avesse un significato religioso o altrimenti rituale; va piuttosto descritto come un semplice contratto civile divenuto rituale. La fede e la vita religiosa della tarda epoca pagana hanno ricevuto molta attenzione da parte degli studiosi dell’antichità, e le opinioni correnti tra i più versati in materia, particolarmente nel settore della mitologia, hanno avuto la fortuna di conseguire una considerevole notorietà. Si deve notare che al riguardo le antichità germaniche forniscono molte più informazioni su se stesse che non quelle degli altri paesi vicini. Se così stanno le cose, lo si deve soprattutto all’opera di un solo uomo, aiutato dal precedente lavoro svolto nello stesso campo dal suo immediato predecessore tra i letierati islandesi. Se non fosse per l’Edda di Snorri8 e per i poemi della più antica, o «poetica» Edda a cui egli attinse, la mitologia dei popoli germanici sarebbe difficilmente meglio conosciuta oggi di quella dei Druidi; e forse ancor meno se ne saprebbe se mancassero anche gli occasionali riferimenti alle pratiche religiose nelle saghe più antiche. Ogni altra informazione, da fonti germaniche, inglesi o classiche, non ha alcuna consistenza se non in quanto forma un gruppo intorno al resoconto di Snorri. Ora, il Gylfaginning, il Bragaroedur e lo Skάlds9aparmάl10 di Snorri sono letteratura gaia, opera di un artista dotato di un senso shakespeariano del ridicolo, e gli dèi Asa11 escono dalle sue mani in quella che è forse un’edizione eccessivamente umanizzata. In ogni caso, quali che possano esser state le loro figure leggendarie prima della sua opera, quando escono dalle sue mani sono personaggi di non grande statura, se considerati come divinitàr. I passi mitologici dell’Edda più antica hanno un aspetto più serio degli aneddoti di Snorri, e i riferimenti di passaggio nelle saghe più antiche ai riti ed alle

pratiche occasionali di natura religiosa o magica lasciano un’impressione di tenebrosa superstizione maggiore di quella trasmessa da qualsiasi scritto di Snorri. Ma, tutto sommato, resta il fatto che Snorri è l’unico, principale e indispensabile informatore, e che i suoi aneddoti devono esser ritenuti, con l’aggiunta di quella maggiore serietà che può sembrar necessaria, come l’unico complesso consistente di informazioni esistenti in questo campo. Le altre fonti stanno in rapporto a Snorri proprio come note marginali e glosse. Dunque, a parte una certa gaiezza, che si avvicina alla volubilità, da parte di Snorri, e a parte la manifesta influenza esercitata dal sistema olimpico greco sulla sua gradazione su diversi piani degli dèi e delle dee Asa, la sua descrizione di costoro, del loro sistema di vita e dei loro rapporti con l’umanità reca l’impronta di un ragguaglio veritiero. Tra questi dèi nordici non v’è alcuna figura di autocrate divino, assoluto, augusto, austero e distaccato, il cui volere è legge fondamentale e il cui piacere forma il bene e il male. Ciò che depone a favore della veridicità di questo resoconto è l’immancabile coincidenza del modello divino con quello umano. È un modello in cui uno scaltro e allegro anziano recita il ruolo di un tipico minuscolo re, quale s’incontra anche nei racconti popolari nordici; e in cui diversi membri della società degli dèi perseguono ciascuno il proprio distinto interesse secondo l’impulso delle proprie diverse propensioni, nell’ambito della misura conveniente d’intrighi e di sotterfugi che era a quel tempo ritenuta consentita, o dignitosa, per uomini di quell’età, e che caratterizza pure i racconti popolari. Il contenuto teologico di questo modello di divinità è così tenue, che sono stati necessari molto lavorio e ancor più forzature per soddisfare almeno le aspirazioni dei più moderati tra i ricercatori di verità nascoste in questo sottobosco soprannaturale. Dal momento che non si ricava, né dal resoconto di Snorri né da fuori di esso, alcunché di sostanziale in fatto di descrizioni, o anche di definizioni, del culto delle pratiche religiose, degli attributi rituali o sacri che devono aver assicurato alla fede negli Asa il suo effetto pratico, sembra esservi ben poco su cui basarsi nel tentativo di ricostruire un sistema di culto. Qualcosa emerge qua e là, nei riferimenti ai sacrifici che sembrano aver contraddistinto sia periodi stagionali che speciali occasioni – culminando in rari ma presumibilmente autentici casi di sacrifici umani – come pure nei riferimenti allo hóf12 (tempio o recinto sacro) e alle sacre immagini. La divinità che in tal modo si rendeva propizia sembra per lo più esser stata Frey13, una divinità agricola di cui occorreva cattivarsi il favore per i raccolti e per il benessere

materiale in senso lato. Pare che Frey (o Frigg) sia stata una divinità d’antica data, potendosi con una certa sicurezza farla risalire all’età del bronzos. I più notevoli residui materiali del culto pagano sembrano i ben noti e assai caratteristici portali scolpiti che si trovano ancora in uso nelle superstiti chiese risalenti ai primissimi secoli cristiani, – pregevoli anche come monumenti dell’opera artistica tardo-pagana in legno scolpito. Fatta eccezione per gli esemplari minori, posteriori e nel complesso di qualità inferiore, questi portali non presentano alcun simbolismo cristiano; e il loro stile uniforme a grandi distanze dimostra che sono il prodotto di usi e costumi prolungati, richiedenti un tempo maggiore di quello che può forse esser loro accordato nell’ambito del primo periodo cristiano. Il principale motivo simbolico di queste opere è il drago della leggenda nordica, appoggiato da forme minori di rettili e sostenuto da una forma convenzionalizzata di albero. Sia per la loro presenza universale sia per l’eccellenza e la grande dimensione dell’opera questi residui materiali sembrano testimoniare di un culto conforme, largamente diffuso e sistematico, assai più di quello che i residui letterari stanno per proprio conto ad indicare. Pure, quale che possa esser stata la portata e la consistenza sistematica del culto, non vi sono tracce, letterarie od altre, di un clero, – a parte l’adempimento, abbastanza evidente, di funzioni sacerdotali, o almeno rituali, da parte dei nobili locali, le cui principali funzioni sembrano esser state di carattere civile. Il godi14 islandese è ciò che di più prossimo ad un prete si presenta, e il divario tra un clero nel senso accettato del termine e questi signori-agricoltori custodi degli oggetti sacri è abbastanza ovvio. Una classe sacerdotale e un’organizzazione ecclesiastica appaiono ambedue mancanti, anche se talune delle funzioni e dei corredi necessari per esse risultano disponibili. La vita religiosa sembra aver raggiunto una misura di sistematicità e aver trovato espressione, almeno per un certo considerevole periodo verso la fine dell’epoca pagana, in un culto che comprende pratiche abbastanza uniformi per una regione relativamente vasta, oltrepassando di molto i confini nazionali; ma tale culto e le sue pratiche non sembrano aver insieme realizzato alcuna organizzazione gerarchica degna di nota né alcuna larga misura di autorità coercitiva. Vi sono tracce di costrizione, come nelle sanzioni penali per i blasfemi (godgjd), e di diritti e prebende ecclesiastiche, come nel caso dell’imposizione volontaria di decime per sostenere il santuario locale; ma nel quadro complessivo l’impressione che si ricava della vita religiosa è pressoché analoga a quella fornita dall’organizzazione civile, – che si può meglio

definire come un’anarchia resa sistematica per convenzione e regolata dal senso comune. Un siffatto sistema di organizzazione sociale, sia nel campo spirituale che in quello temporale, è applicabile solo entro i limiti territoriali raggiunti dalla portata abituale dei contatti di vicinato, – un contatto abbastanza stretto e vigilante da assicurare una certa (effettiva) solidarietà dei sentimenti di vicinato per tutti gli aspetti relativi alle condizioni di vita del gruppo; e il controllo esercitato da tale sorveglianza di vicinato si svolge entro un margine assai ampio di tolleranza. Qualsiasi uniformità di usi e costumi su una più ampia estensione di territorio, o nella regione nel complesso, mediante la quale una civiltà effettivamente omogenea giunga a predominare su quelle varie posizioni autonome della società, si può basare alla lunga solo su una sostanziale somiglianza di circostanze materiali e d’indole, su un analogo stadio della tecnica produttiva, su liberi rapporti commerciali e su una (conseguente) omogeneità di linguat. La sopravvivenza dell’Antico Ordinamento sotto la pressione delle mutate condizioni della tecnica potrebbe esser aiutata da certe particolari caratteristiche della situazione. Come si è osservato sopra, i popoli baltici di solito importavano nuove idee tecnologiche e nuovi elementi d’arte decorativa, che adoperavano con una libertà tale da far concludere che questi elementi mutuati portavano con sé nel trapasso poco o nulla cel margine di convenzionalismi, convenzioni magiche e tabù che di solito sono loro annessi presso i popoli nel cui seno sono sorti o hanno subito un’evoluzione prolungata. Dal fatto che essi mutuavano liberamente tutte le cose che potevano lasciare residui materiali atti a testimoniare della loro presenza, si potrebbe arguire che abbiano assimilato con una certa facilità anche elementi non materiali, tali da lasciar un residuo solo nell’ordito del tessuto istituzionale delle generazioni successiveu. Una siffatta persistente assimilazione ha un effetto diretto nel senso di scoraggiare la formazione di convenzioni rigide o la riconduzione dei dettagli istituzionali ad un’autenticità ultrarigorosa. D’altra parte l’assimilazione implica rapporti commerciali continui ed abbastanza amichevoli con altre aree culturali, ed insieme mette in evidenza quello che si può definire un atteggiamento ricettivo verso usanze ed idee straniere. Il risultato netto di tali rapporti dovrebbe consistere in una maggior flessibilità anziché autenticità del sistema di vita risultante, cosicché l’adattamento alle nuove esigenze dovrebbe esser possibile con una riluttanza relativamente lieve, o con una relativamente piccola lesione dei princìpi accreditati di vita retta e onesta. Entro certi limiti, relativamente ampi, il

sistema si piegherebbe anziché spezzarsi. Inoltre quei mutamenti che giovano a una più ampia portata ed organizzazione delle forze produttive portano anche, di solito, ad un più vasto contatto umano effettivo; perciò, come conseguenza del progresso tecnologico, la portata effettiva della solidarietà di vicinato viene alquanto incrementata e il sistema di controllo anarchico di vicinato diviene atto a coprire una popolazione più ampia. Lo stesso effetto viene ottenuto da un’aumentata densità della popolazione, dovuta alla stessa serie di mutamenti. Ne consegue che l’accresciuta dimensione e portata della tecnica produttiva, che opera nel senso della distruzione dell’Antico Ordinamento, in certa misura porta con sé il proprio antidoto. È però evidente che l’aumentata vitalità così conferita all’antico ordinamento istituzionale è destinata ad esser oltrepassata dai mutamenti tecnologici che la condizionano, dato che il progresso tecnologico ha la natura di una assuefazione cumulativa, mentre la realizzabilità del controllo anarchico di vicinato dipende da caratteri congeniti della natura umana che non mutano, e il cui canale di funzionamento deve pur sempre rimanere il contatto personale attraverso i sensi, per quanto questo possa esser favorito in un modo o nell’altro con espedienti meccanici. Per analogia si potrebbe dire che un sistema anarchico funziona per mezzo del lavoro manuale e che il suo ambito non può superare il raggio d’azione manuale delle persone in esso impegnate, con quel ridotto equipaggiamento di strumenti che si pensa possano accrescere la portata del contatto manuale; laddove invece la tecnica produttiva ha il carattere di un processo meccanico che può oltrepassare indefinitamente la portata manuale dell’operaio angolo. Il fatto sostanziale nel primo sono la forza personale e l’indole dell’individuo singolo; nella seconda è l’interrelazione impersonale dei procedimenti meccanici. Perciò, l’Antico Ordinamento cominciò a disgregarsi, e in breve si frantumò, non appena lo stadio della tecnica spinse il raggio d’azione dell’iniziativa individuale oltre la portata del controllo esercitato da un consenso indifferenziato di sentimenti di buon vicinato. L’aspetto particolare in cui il progresso industriale sradicò definitivamente e in modo decisivo le condizioni necessarie all’Antico Ordinamento nei paesi baltici sembra esser stato la tecnica della navigazione; anche se gli eccessivi perfezionamenti negli altri mezzi di comunicazione, come per esempio le strade e i veicoli su ruote, possono aver contribuito concretamente alla sua decadenza e sostituzione in Danimarca e in Svezia, e forse pure nei paesi più a sui Le condizioni che

resero possibile la coercizione dinastica resero altresì impossibile l’autonomia locale. Non che il risultante sistema coercitivo si dimostrasse particolarmente conveniente, se non nel senso che nessun altro poteva competere con esso una volta che le condizioni tecnologiche avessero oltrepassato il punte di rottura dell’Antico Ordinamento. Anzi, la situazione che subentrò con il trionfo dello stato e della chiesa nei paesi scandinavi, per esempio, e particolarmente in Norvegia, non può che esser definita assurda e sgradevole. Ma il progresso tecnologico aveva passato il punto oltre il quale l’Antico Ordinamento cessava di esser vitale; e non era possibile ritirarsi su una linea di difesa così arretrata da spodestare il nuovo ordinamento, una volta che si era impadronito dei poteri della società, in favore dell’antico. Il detto vale per i sistemi istituzionali come per le persone accampanti diritti: Beati possidentes. Con il passar del tempo, in un processo che sembra aver occupato parecchie migliaia d’anni di progresso lento ma quasi ininterrotto, la loro eccessiva efficienza nella tecnica meccanica spinse i popoli nordeuropei fuori dallo stadio di civiltà rispondente alle loro inclinazioni naturali. E sin da quando passarono in tal modo il limite tecnologico di tolleranza di quel modello arcaico di usi e costumi, essi si sono volti indietro senza soste alla ricerca di un qualche compromesso operativo, che consentisse al loro ideale di «autogoverno locale» grazie al senso comune del buon vicinato di sopravvivere, in qualche modo, all’ombra del potere coercitivo su larga scala che l’ha distrutto. Ora, si dà il caso che l’insubordinazione sia il principio vitale dello scomparso sistema di autogoverno locale, ma anche il peccato capitale contro lo Spirito Santo della coercizione dinastica. Perciò il compromesso non è stato trovato, né si è riscontrato che funzioni; eppure l’ideale dell’insubordinazione, del Vivi e lascia vivere, è compenetrato troppo vicino all’osso nell’ibrido nord-europeo perché quest’ultimo possa fissarsi in una condizione di salutare soddisfazione senza averlo realizzato. Com’è risultato sopra, e come si è discusso più per esteso in un passo precedente, il sistema semi-anarchico del controllo di vicinato – 1’«autonomia locale autogovernantesi» – può reggersi e funzionare solo nel caso in cui la popolazione che è portatrice di tale modello di civiltà sia caratterizzata da un tipo di natura umana adatta al sistema di vita stesso. Un successo di breve durata può arridere ad ogni modello istituzionale, anche non particolarmente idoneo alle inclinazioni etiche del popolo, particolarmente ove esso sia favorito da condizioni materiali propizie e da un vantaggioso stadio della tecnica; ma quando vi è un ampio divario tra le inclinazioni naturali del

popolo e il sistema di controllo e le abitudini di vita instillate dall’ambiente naturale e dall’organizzazione produttiva, non si può contare su una duratura continuità di benessere popolare, e la storia di tale civiltà o di tale società sarà contrassegnata da disastrose perturbazioni e da crolli ricorrenti. Per converso, ove l’ambiente naturale e lo stadio corrente della tecnica siano tali da consentire all’umanità di vivere solo in quei termini, come si verifica per tutte le lunghe epoche preistoriche nella regione baltica, l’unico tipo di natura umana che possa garantire la propria sopravvivenza è del genere idoneo al governo di vicinato mediante il comune consenso. Perciò la popolazione nord-europea è adatta a questo sistema di vita per tendenza ereditaria. Non che questa debba necessariamente esser considerata una caratteristica dei soli popoli ibridi nord-europei. Le condizioni di vita in epoca preistorica – nei giorni dell’eliminazione selettiva dei tipi non idonei – devono aver avuto di solito più o meno lo stesso carattere altrove, sotto questo aspetto; e la stessa tendenza naturale è manifesta, con intensità più o meno effettiva, tra molti dei popoli delle civiltà inferiori, in particolare tra i popoli pacifici e sedentari, come gli Indiani Pueblo e gli Eschimesi. Ma questi ultimi non interessano in modo immediato la presente ricerca, e non è necessario in questa sede fare raffronti ai riguardo tra i popoli della civiltà baltica e qualsiasi altro. Per tutto ciò che concerne il presente ragionamento, lo spirito anarchico potrebbe anche denotare una tendenza generica della razza umana nel suo complesso. Per quanto riguarda le relazioni tra uomo e uomo, e tra l’individuo e il suo gruppo sociale, l’etica anarchica è formulata nel detto familiare: Vivi e lascia vivere. Il merito peculiare dell’anarchia arcaica – un merito almeno agli occhi dei nord-europei – è stato proprio quello di consentire all’uomo comune di vivere come gli pare, entro il margine della tolleranza del vicinato; inoltre è inserita in tale sistema concreto, come condizione necessaria del suo funzionamento, la norma secondo cui l’uomo comune dev’esser dotato, per inclinazione naturale, di una forte tendenza a lasciare il suo vicino libero di vivere come gli pare, entro lo stesso margine di tolleranza. Questo è l’ideale della «giustizia» secondo la concezione anarchica, – definita anche, mediante eufemismi e compromessi, cerne la concezione individualistica e democraticav. Questi sono i due fuochi intellettuali intorno ai quali rotea l’orbita della vita retta e onesta; e finché quest’orbita mantiene il suo equilibrio essa soddisfa alle esigenze di giustizia, proprio perché tale è l’inclinazione etica congenita all’uomo, determinata per selezione nei giorni arcaici in cui i tipi esistenti di

natura umana si garantirono la sopravvivenza. Il fatto che un uomo debba vivere come gli pare significa che può fare il suo lavoro a modo sue, fino al limite dello spirito d’iniziativa e delle capacità che possiede – sempre con la riserva che non trasgredisca al margine di tolleranza radicato nel buon senso etico dei suoi vicini. I confini del margine di tolleranza sembrano fissati dalla valutazione corrente di ciò che è vantaggioso al bene comune da una parte e di ciò che è svantaggioso dall’altra; così che, nei limiti in cui si tratta di un problema di tolleranza, le singolarità individuali sono lasciate libere finché la loro influenza sul bene comune è neutra. La disutilità fissa e persistente è moralmente detestabile, in breve diviene colpevole e ricade quindi sotto l’intervento correttivo del senso comune, non appena si accresce fino a un eccesso tale da spingere il vicinato ad agire. Evidentemente, quello che è stato definito 1’«istinto dell’efficienza» contribuisce per larga parte a quest’inclinazione morale, in particolare rispetto al limite di tolleranza; l’insuccesso economico è strettamente connesso con l’intolleranza, che in seguito spinge la società a misure concertate per reprimere una colpevole quantità soverchia di perversità. È evidente che i torti individuali subito da questo e da quello nella comunità contribuiscono assai anch’essi ad affrettare la condanna, da parte del senso comune, di ogni siffatto eccessow. Diverse cause contribuirono alla decadenza e al successivo crollo di quest’antico ordinamento, ma esse possono esser tutte quante fatte risalire al fondamento comune dell’eccessivo progresso della tecnica produttiva, – eccessivo, ovviamente, solo nel senso che era incompatibile con gli assetti operativi che erano stati adeguati sotto l’Antico Ordinamentox. Come si è notato in un passo precedente, le testimonianze archeologiche indicano la presenza della proprietà e di differenze di ricchezza fin dal periodo iniziale dell’età della pietra, e le tracce di tale divario divengono sempre più accentuate d’allora in poi. Un divario del genere stabilisce una disparità tra i membri del gruppo, cosicché il detto Vivi e lascia vivere non esprime più un’uguale, od equa, possibilità per tutti nell’uso delle risorse naturali del gruppo o nell’utilizzazione dello stadio della tecnica. I beni accumulati conferiscono un vantaggio differenziale al proprietario, così che, con lo stesso grado di libertà dei suoi vicini e con la capacità addizionale assicuratagli dai suoi «mezzi», egli è in grado di trarne vantaggio più dell’ordinario; il che significa, di converso, che l’uomo comune è soggetto a un corrispondente svantaggio differenziale nei confronti del suo vicino ricco, sia nell’uso delle

risorse naturali che nello sfruttamento delle cognizioni tecniche della società. Perciò l’accumulazione di beni in mano ai privati opera, fin dall’inizio, in contrasto con il principio del Vivi e lascia vivere; finché al ricco è consentito di vivere come gli pare e di fare quel che vuole con il suo, in pieno accordo con il principio, l’uomo comune con mezzi inferiori ha possibilità meno che eque di vivere come gli pare e di fare quel che vuole con il suoy. Eppure l’accumulazione di ricchezze e il conseguente esercizio del potere possono spingersi fino a un certo punto rimanendo sempre soggetti al controllo da parte del sentimento di vicinato, e possono andar ancora oltre senza sfuggire effettivamente ad ogni siffatto controllo o abbattere totalmente l’ordinamento socialez. Secondo la regola anarchica del Vivi e lascia vivere l’istituto della proprietà s’inserisce agevolmente nel tessuto di usi e costumi. Se occorre ricercarne una spiegazione metafisica, la si reperisce facilmente nella forma in cui la espresse John Locke in quell’epoca moderna, in cui il diritto contrattuale riprende una posizione centrale nel sistema di diritto civile. Il suo fondamento psicologico non è difficile da rintracciare, sia calla parte del proprietario che detiene la proprietà, sia da quella dei suoi vicini che lo sostengono nel possesso e nel godimento di essa. Finché l’intera faccenda segue il suo corso entro la portata effettiva della sorveglianza di vicinato nessuna seria difficoltà insorge da tale pratica, che si raccomanda a ciascuno come conveniente per i suoi propri fini. Nel frattempo essa si evolve in un’usanza stabilita, riceve una formulazione definita da parte degli usi e costumi quanto all’ambito e agli annessi e connessi, e diviene uno dei punti fermi di sostegno del sistema legale, -– un antico diritto, sanzionato dall’usanza ininterrotta da tempo immemorabile. IV (CAPITOLO VI, p. 505). Non rientra in questa ricerca l’offrire una valutazione delle imprese affaristiche americane o dei modi d’utilizzazione delle risorse e delle opportunità del paese da parte degli uomini d’affari americani. Ma certe considerazioni relative possono contribuire in qualcosa al raffronto intrapreso tra il caso inglese e quello tedesco per tale aspetto. Nei discorsi pubblici si dà gran risalto alle illimitate possibilità di questo paese, e all’assoluta libertà, arditezza e assiduità dei suoi intraprendenti

capitani d’industria. È vero che questi panegirici provengono nella maggior parte dei casi e nel modo più loquace da parte di membri della categoria stessa, ma in fondo essi sono un elemento integrante della fede popolare, tanto che ogni loro messa in discussione diviene un’eresia ingrata, se non abominevole. Perciò è molto più appropriato esporre le particolarità della situazione che non aggiungere inutili conferme solenni al coro. Non è necessario addivenire ad alcun ridimensionamento sotto l’aspetto delle illimitate opportunità offerte in America alle profittevoli iniziative affaristiche. Nella cerchia dei paesi industriali si può ben riconoscere che le risorse materiali del paese non hanno l’eguale; e la sua popolazione lavoratrice dev’esser pure stimata di qualità ineccepibile. Ma se si accettano queste premesse il risultato, in fatto di industrie, dovrebbe logicamente esser di un tipo senza precedenti, anziché di seconda qualità. Nei confronti della comunità degli affari l’America è il paese dell’uomo fattosi da sé; tale è stata senza riserve la situazione reale nel breve passato in cui le attuali tradizioni affaristiche hanno assunto quel tanto di consistenza che hanno, e tale è ancor oggi la situazione per quanto concerne non meno dei nove decimi del volume dei traffici o del personale. Sebbene non si pongano alla leggera mani empie su questo palladio che protegge la repubblica, sembra inevitabile a questo punto indagare un poco sull’attuale processo di produzione di quest’uomo fattosi da sé, e quindi sul suo peso nella situazione imprenditoriale della comunità degli affari. La materia prima di cui è fatto è sostanzialmente la stessa che forma il politicante americano, e le tecniche di produzione impiegate ed utilizzabili sono in gran parte identiche in ambedue i casi. Così come gran parte degli americani di nascita, egli viene dalla campagna, nel senso che di solito è nato fuori dai confini di una qualsiasi comunità propriamente urbana; ma per lo più ha lasciato nell’infanzia la fattoria per la cittadina di provincia. È proprio dalle cittadine di provincia, e dalle cosiddette città minori, che ha origine il numero di gran lunga maggiore di uomini d’affari americani; e gran parte di essi, anzi, trascorre la vita successiva e indirizza i suoi sforzi nello stesso ambiente. Il successo in quest’ambiente diviene la prova dell’idoneità a fare affari, oppure a divenire i detentori fiduciari della discrezionalità negli affari al di fuori o al di là di tale ambiente. Salva una minoranza, che si va dileguando, sono queste situazioni da città di provincia che decidono per selezione se un determinato candidato all’impresa affaristica fatta da sé sia idoneo a sopravvivere. Perciò la maggior parte di coloro che controllano gli

affari, e quindi l’industria del paese, sono quelli che hanno dimostrato la loro attitudine alla sopravvivenza nelle condizioni imposte dalla cittadina di provincia, o dalla città minore, che è un paese troppo cresciuto. La città provinciale americana e anche la città minore, per parte sua, è un’istituzione peculiare15 troppo poco presa in considerazione dagli osservatori stranieri. È una comunità affaristica; cioè vive per e grazie ai traffici d’affari, soprattutto di tipo mercantile. Spesso è definita un centro o un sotto-centro per la distribuzione delle merci alla popolazione della campagna, e per la ricezione e trasmissione dei prodotti agricoli; ma si tratta di una definizione mediante l’enumerazione dei meri fatti meccanici. La ragione del suo essere è il profitto ricavabile facendo affari in quel particolare luogo. Il nucleo della sua popolazione sono gli uomini d’affari locali, i cui interessi ne formano la politica municipale e ne controllano l’amministrazione comunale. Questi uomini d’affari locali sono banchieri del luogo, commercianti di molte specie e dimensioni, agenti immobiliari, avvocati ed ecclesiastici locali. Nella cittadina tipica tutti costoro partecipano in qualche modo alla politica municipale, che è diretta come una specie di prolungamento pubblico o palese di quell’organizzazione, privata o nascosta, d’interessi locali che vigila sul profitto economico combinato degli uomini d’affari del luogo. È un mezzo per ricompensare i servizievoli politicanti locali con salari e prebende, specialmente le seconde, e per salvaguardare la locale comunità d’affari contro gli intrusi e contro ogni tattica elusiva da parte della popolazione della campagna, che funge da organismo ospitante quest’escrescenza affaristica. Quest’iniziativa politico-finanziaria nel governo e nelle prebende municipali è un esempio di azione combinata anziché di azione collettiva, dato che ciascuno dei partecipanti palesi o occulti, preso separatamente, vi prende parte come stratega o agente diplomatico in favore del suo proprio interesse economico. Si apprezza meglio il carattere della cittadina di provincia considerandola dal punto di vista relativo alla sua origine. Essa è un prodotto e un’illustrazione tipica del sistema immobiliare americano. Al principio è situata e «sviluppata» come impresa speculativa sui valori delle aree; cioè consiste in un tentativo affaristico di guadagnar qualcosa senza dar nulla in cambio, ricavando il massimo possibile dall’aumento del valore delle aree dovuto all’incremento demografico ed alla colonizzazione e coltivazione dell’adiacente regione agricola. Non perde mai (almeno fin ad oggi) il suo carattere di speculazione sulle aree. Gli uomini d’affari che s’incaricano dei

traffici locali in fatto di mercanzie, di cause legali, di funzioni ecclesiastiche e simili di solito cominciano con una qualche partecipazione in questa speculazione sulle aree. Essa fornisce un legame comune e un comune fondamento di interesse economico, che di solito si camuffa sotto il titolo di municipalismo, amore del pubblico bene, orgoglio civico e simili. La finzione dell’amore del pubblico bene è sostenuta con tale coerenza che gran parte di questi uomini giungono in breve a prestar fede alle loro stesse dichiarazioni al riguardo. L’interesse economico nel valore delle aree locali comporta un interesse verso la costante espansione della cittadina; perciò ogni credibile falsa rappresentazione del volume cittadino dei traffici commerciali, della popolazione, della comunità agricola tributaria, o delle risorse naturali, è ritenuta giovevole al bene comune. Ed ogni membro della comunità affaristica è ritenuto un cittadino meritevole di ricompensa in proporzione alla sua capacità di servire l’interesse economico combinato dei «cittadini influenti». La cittadina di provincia americana, considerata come istituzione e come veicolo di condizionamento culturale, è in primo luogo un prodotto del diciannovesimo secolo, e si è sviluppata fino alla massima efficienza in quella regione settentrionale-centrale che fu inserita effettivamente nella repubblica durante i tre quarti posteriori del secolo, e più in particolare nel periodo di grande immigrazione dall’Europa settentrionale. Essa è debitrice di gran parte del suo carattere a quella immigrazione. Gli immigranti si stanziarono in tale distesa di territori come coltivatori della terra, mentre contemporaneamente la popolazione americana dell’est si sparpagliava nelle cittadine della stessa regione; con il risultato che gl’immigranti stranieri compirono il lavoro necessario per riscattare quella distesa di terre fertili, e i nativi del paese fecero affari nelle cittadine16. Questi affari avevano in prevalenza carattere accaparratori©, essendo realizzati da uomini familiari con il diritto comune del paese e diretti a guadagnar qualcosa senza dar nulla in cambio, a spese degli immigranti stranieri che non avevano familiarità con il diritto comune. Essendo questi, nell’opinione dei loro padroni, degli estranei nel paese, agl’immigranti stranieri non si riteneva competere alcun diritto ad esser oggetto di riguardo, oltre a quello che leggi che essi non conoscevano avrebbero loro garantito formalmente, nel caso in cui la faccenda fosse stata sottoposta al giudizio legale. I giudizi presuntivi formulati dagli onesti uomini d’affari erano in ogni occasione a favore del loro proprio vantaggio finanziario, lasciando che qualsiasi dubbio fosse risolto dall’eventuale causa che poteva esser intentata

dagli immigranti stranieri, – i quali, si poteva esserne sicuri, si sarebbero con grande uniformità fatti il massimo scrupolo c’evitare qualsiasi processo in un sistema legale con cui non avevano alcuna familiarità, davanti a magistrati locali (uomini d’affari) in cui non avevano alcuna ragione di riporre fiducia, in una lingua che non capivano. Perciò, in questa situazione, il diritto civile divenne in larga misura lettera morta, salvi i casi in cui era utile al vantaggio economico degli uomini d’affari della cittadina di provincia; ma la legalità formale in tal modo annessa al conseguente sistema di astuta rapina servì a renderlo moralmente ineccepibile agli occhi dei beneficiari e a conferirgli la meritoria apparenza del successo negli affari. A causa di ciò le frontiere morali tra raggiro e successo negli affari sono successivamente cadute alquanto in disuso nell’etica del mondo degli affari americano, particolarmente nella società affaristica delle cittadine di provincia, che è stata esposta in modo speciale a tale devastazione della moralità americana da parte degli immigranti stranieri. Il numero degli uomini fattisi da sé che è risultato da questi traffici è stato tuttavia assai considerevole; tanto da conferire invero ancor oggi un carattere tipico alla comunità americana degli affari nel suo complesso, nonostante l’aumento del contingente, specialmente dei più giovani, attinto da altre fonti e da diversi antefatti. Di conseguenza vi è diffusa nella società una quantità sufficiente di tale mentalità da cittadina di provincia, per conformare in modo selettivo qualsiasi recluta, proveniente da altri ambienti d’origine, agli ideali provinciali relativi a quale sia l’idonea indole conservatrice che un uomo deve possedere perché gli si possa affidare la conduzione degli affari. L’uomo che ha successo in tale stato di cose riesce perché è adatto per doti native o per tirocinio alla realtà di meschini intrighi e di futili sottigliezze. Per sopravvivere, nel senso affaristico del termine, deve dimostrarsi un membro servizievole della corporazione dei diplomatici municipali che coltivano pazientemente l’occasione di guadagnar qualcosa senza dar nulla in cambio; e può entrare in questa corporazione di attendenti del profitto nato morto solo mediante un tirocinio che ne provi l’idoneità. Per esser accetto dev’esser fidato, conciliante, conservatore, riservato, paziente ed accaparratore. Le qualità che producono tale risultato e che caratterizzano la corporazione degli uomini d’affari fattisi da sé sono la cupidigia, la prudenza, l’abilità nei sotterfugi – la maggiore di queste, quella che più d’ogni altra dà un tono alla vita affaristica, è la prudenza. Infine, indispensabile tra le qualità che ispirano la fiducia dei soci, senza la quale nessuno può divenire uomo d’affari, è

l’indole conservatrice. I mezzi e le procedure dirette alla produzione dell’uomo fattosi da sé nel mondo americano degli affari hanno questo carattere, e il prodotto ha le qualità che possono risultare prevedibilmente da tali mezzi e procedure, operanti con grande uniformità per mezzo del tirocinio e della selezione. Non ne consegue affatto che gli uomini d’affari creati in questo modo, o la comunità degli affari composta di questo materiale scelto e accuratamente maturato, manchino di una sorta di spirito d’iniziativa; ma si tratta di un’iniziativa sotto forma di strategia del profitto, consistente nel guadagnare qualcosa senza dar nulla in cambio mediante lo scaltro maneggio dei valori in danaro. È un’iniziativa del tipo che evita l’innovazione. Le intraprese in progetti e strumenti industriali nuovi, non sperimentati e standardizzati, sono estranee e scomunicate per la prudente e conservatrice comunità degli affari. È solo dopo che tali deviazioni hanno dimostrato la loro convenienza in termini di profitto, nonostante l’astuta incredulità della comunità degli affari, che esse vengono adottate come fonte d’introito. Ma questa comunità affaristica dimostra poi un elevato grado d’efficienza nell’accaparrarsi prontamente il profitto ricavabile dalle innovazioni industriali che hanno dimostrato la loro convenienza nonostante l’incredulità degli uomini d’affari, o nello sfruttamento delle risorse che notoriamente si prestano ai metodi standard di manipolazione finanziaria. L’America è la terra delle possibilità illimitate, si crede, sia per risorse materiali che per ingegno inventivo. Ma è anche un notorio luogo comune il fatto che le invenzioni meccaniche, che in un certo senso hanno fatto dell’America quella che è nel settore industriale, non solo non sono opera degli uomini d’affari – costoro sono astuti e conservatori strateghi del profitto, senza intuito né attitudini in problemi tecnici – ma anzi sono state realizzate senza il loro appoggio. Vale la pena di notare che il metodo delle cittadine di provincia nella selezione e nel tirocinio degli uomini d’affari della comunità, nel momento stesso in cui opera la sua scelta sulla base dell’astuzia, della cautela e della cupidigia, mediante le stesse prove rigetta i candidati dotati d’intuito tecnico o d’una aggressiva curiosità in materia d’innovazioni industriali. Connessa con questa più alta offerta selettiva per l’astuzia finanziaria e l’immobilismo vi è la ben nota inefficienza della direzione affaristica dell’industria americana, – ben nota tra le persone competenti a parlare in materia, anche se non vi si dà credito tra gli uomini d’affari nel loro complesso, i quali di solito mancano

perfino di quella misura d’acume tecnico necessaria per valutare la perdita di reddito insita nella loro stessa astuta cattiva amministrazione. Gli «specialisti del rendimento» non esitano ad affermare che l’amministrazione dell’industria da parte degli uomini d’affari ha avuto il risultato di un uso dilapidatorio delle attrezzature e della manodopera impiegate, che talvolta si eleva fino a cifre del tutto incredibili per il comune profano. Questo spreco può esser maggiore o minore, ma è comunque un risultato sistematico dell’amministrazione delle imprese industriali da parte dell’uomo d’affari fattosi da sé. Inoltre la critica degli specialisti dell’efficienza non tiene alcun conto dello spreco rappresentato dalla pura e semplice disoccupazione o fermata dei lavoratori e degli impianti, dovute alla strategia del profitto di quegli stessi uomini d’affari, nonostante che questo tipo di spreco sorpassi senza dubbio di parecchie volte quello causato dall’amministrazione incompetente quando l’impianto lavora. Bisogna sempre far posto ad eccezioni e a situazioni particolari in ogni generalizzazione così vasta, e non si deve credere che l’ampia ipotesi appena esposta per definire l’uomo d’affari americano si applichi senza tali riserve. Ma, pur accordando tutte le riserve desiderate resta questa poco lusinghiera realtà di fatto, notoria e di portata generale: l’America possiede risorse materiali senza pari e una popolazione lavoratrice per nulla inferiore a qualsiasi altra ai fini della produzione industriale diretta dalla tecnologia meccanica; gli uomini d’affari americani hanno avuto mano libera ed un minimo di oneri in fatto di tasse o altre esazioni fiscali governative (la tassazione americana, com’è ben noto, colpisce soprattutto la popolazione agricola ed altre classi non impegnate negli affari, e comunque non è estremamente pesante); eppure le realizzazioni americane in questo campo sono state notoriamente meno vistose e meno sostanziali, nell’ambito dello stesso periodo, per esempio, di quelle della Germania dal momento della formazione dell’Impero. In nessun altro luogo gli uomini d’affari hanno goduto di una discrezionalità così vasta e completa, o sono stati favoriti fino allo stesso punto dalle norme governative – per la ragione che in nessun altro luogo hanno controllato la formazione e l’applicazione delle leggi in una misura lontanamente paragonabile; ed in nessun altro luogo sono rimasti al di sotto delle loro possibilità per un margine altrettanto ampio. È vero che si parla tanto dell’ardimento e dell’inventiva americana nell’iniziativa affaristica; e vi è qualcosa di vero in questa vanteria, nei limiti in cui «iniziativa affaristica» è intesa come sinonimo di «intrigo redditizio»,

altrimenti chiamato finanza. Ma se essa dev’esser intesa in un qualsiasi senso più sostanziale, è utile solo come dimostrazione del fatto che gli uomini amano lusingarsi dell’attribuzione di virtù che non possiedono. L’uomo fattosi da sé nella cittadina di provincia non è l’unico tipo che si riscontri nella comunità americana degli affari, né la sua mentalità provinciale di raggiri conservatori esaurisce l’intera portata e il metodo degli affari in quella comunità; ma questa è di gran lunga la specie più numerosa di uomini d’affari al suo interno, e lo è stata per tradizione tanto a lungo e in modo conforme che usanze, relazioni e ideali d’affari in questa società sono stati convenzionalizzati secondo le sue direttive; perciò, grazie alle convenzioni, in buona parte concretamente espresse nelle leggi, e grazie all’analoga mentalità diffusa in un’effettiva maggioranza della generazione vivente, si verifica che questi raggiri conservatori da città di provincia sono accettati come il prototipo della sicura e valida iniziativa d’affari. Di conseguenza anche la più grande finanza e i maggiori finanzieri americani mostrano ancora i segni caratteristici dell’origine provinciale, – ciò non significa che gli individui che hanno in mano le sorti industriali del paese siano singolarmente passati attraverso la città di provincia nel corso dell’ascesa alle successive posizioni di responsabilità, ma solo che le concezioni autentiche dei metodi affaristici e la mentalità, a cui tutti gli uomini d’affari sicuri e validi devono conformarsi, hanno tale origine, e che perciò la comunità affaristica in senso lato conduce gli affari solo su tali fondamenti, Il mondo americano degli affari ha carattere eminentemente finanziario, e i traffici dei finanzieri si svolgono nell’ambito del circuito chiuso della strategia sul mercato dei capitali, mentre ogni effetto sull’industria dell’amministrazione finanziaria ha solo carattere incidentale. Gli incentivi decisivi sono quelli del mercato azionario, non quelli della produzione di merci, e la discrezionalità ultima spetta al banchiere che investe i capitali, non al gruppo dirigente degli ingegneri o al direttore dell’impianto. La direzione discrezionale degli affari è in effetti passata nelle mani delle società finanziarie, il cui unico rapporto dichiarato con le aziende industriali è quello di sottoscrittori del capitale. Questi finanzieri esercitano il potere discrezionale, ma non hanno alcuna responsabilità per la conduzione delle industrie che da esso dipendono. È ben noto oggi, anche se di solito non se ne parla molto, che il cosiddetto «movimento dei trusts «degli ultimi anni del secolo e di quelli successivi ebbe inizio come un’iniziativa da parte di taluni grandi finanzieri rivolta ad

assicurarsi «premi extra-dividendo» e similari profitti mediante la liquidazione e la combinazione di alcune società per azioni industriali e ferroviarie le quali, in qualche caso, erano state gettate mediante manovre in difficoltà finanziarie tali da richiedere un rimedio eccezionale. In gran parte, anzi nella maggior parte, queste aziende industriali cesi organizzate sono rimaste in una situazione di dipendenza dalle società finanziarie, al servizio dei loro traffici finanziari. Questa transazione ha destato poca sorpresa e nessuna censura; la ragione è che in questa società essa è del tutto tipica e normale. Si può notare per questo aspetto, tra parentesi, anche per illustrare fino a che punto questa strategia su vasta scala per l’accaparramento dei «profitti rastrellati» sia divenuta una cosa ovvia, il fatto che il capo di una delle maggiori tra queste società bancarie per investimenti, che nello stesso tempo detiene probabilmente il più vasto potere discrezionale nel controllo delle aziende industriali americane, ha di recente dichiarato pubblicamente che a suo parere i direttori di quelle aziende non possono esser considerati propriamente responsabili delle condizioni di lavoro negli impianti di esse, dato che i direttori sono soltanto degli agenti finanziari e non hanno alcun rapporto diretto con il funzionamento degli impianti dell’azienda. Circa alla stessa data e allo stesso riguardo un altro, esponente di quello che è forse il secondo massimo complesso finanziario, ha con severa ponderazione esposta l’opinione secondo cui la direzione di questi stessi impianti dev’esser lasciata in modo imparziale alla discrezionalità di quei medesimi direttori, senz’alcuna sorveglianza da parte dei pubblici poteri e con piena autorità. V (CAPITOLO VIII, p. 569). Può esser opportuno indicare in modo più particolareggiato come questi grossi prestiti ed elevati tassi d’interesse operino nella situazione industriale e nella redistribuzione della proprietà. I risultati immediati sono duplici: il tasso generale di sconto aumenta, ed una larga massa di capitali è posta a disposizione dei governi debitori. All’aumento del tasso d’interesse (per esempio, dal 4% al 6%) fa seguito immediatamente un abbassamento di corrispondente entità del valore di mercato dei titoli in precedenza in circolazione; diminuiscono analogamente gli altri valori sul mercato, sebbene gran parte degli impianti industriali riacquisti valore entro brevissimo tempo,

a causa degli effetti secondari del trasferimento di capitali comportato dai prestiti. L’effetto immediato (e transitorio) dei prestiti consiste nel ritirare capitali dal mercato generale obbligazionario, lasciando a corto la comunità degli affari in fatto di capitali correntemente impiegati nel finanziamento industriale e come «capitali d’esercizio» da parte delle aziende industriali; di qui un’accentuata depressione, quale prima conseguenza, che è acutizzata dalla prevalente miope timidezza degli uomini d’affari. I prestiti di guerra, tuttavia, non hanno diminuito la massa di capitali contemporaneamente disponibili; al contrario, questa massa è stata senza dubbio ingrossata dall’operazione, nei limiti in cui i nuovi incentivi offerti hanno condotto ad uno sforzo supplementare da parte dei potenziali scrittori; le società finanziarie possono «negoziare sulla base di garanzie più esili» sotto l’impulso di un tasso di sconto in aumento e d’una ineccepibile garanzia offerta dai governi. I capitali rastrellati sono in breve gettati sul mercato delle merci sotto forma di domanda dei prodotti che devono servire, direttamente o indirettamente, alla prosecuzione della guerra; il che rafforza la domanda ed eleva i prezzi di tali beni, e procura attività alle industrie che forniscono questi beni o le materie prime sussidiarie necessarie allo scopo. Gli altri settori industriali non ne sono presumibilmente interessati sul momento, e quindi cadono in una depressione più duratura. Il prezzo di mercato degli impianti industriali (e delle azioni ordinarie) delle industrie che godono in tal modo di un periodo di prosperità dovuto alla domanda bellica aumenta, con ogni probabilità, per corrispondere a questi aumentati introiti. Anche in questo caso incentivi particolarmente stimolanti e un mercato assicurato per la produzione inducono a «fare affari sulla base di garanzie più esili» di quelle consuete in tempi normali. Ne risulta, in effetti, una massiccia apertura di crediti, tale da occupare in buona parte il posto dei capitali rastrellati alla comunità degli affari dai prestiti di guerra; e poiché questi capitali di guerra ritornano ora alla comunità affaristica sotto forma di pagamenti per la produzione di beni, il mercato dei capitali (Kapitds-markt) riacquista la sua liquidità; ma poiché il traffico dei prestiti di guerra prosegue inevitabilmente per tutta la durata delle ostilità, né il tasso di sconto né i prezzi correnti per i beni richiesti hanno alcuna probabilità di ritornare al livello prebellico finché queste condizioni permangono. Si può quindi riassumere la situazione di fatto risultante alla fine del periodo bellico, per quanto concerne l’aspetto immediatamente in esame. Gli uomini d’affari interessati alle industrie soggette alla domanda bellica si

saranno avvantaggiati, mentre gli altri settori industriali avranno subito perdite, anche se in misura proporzionalmente inferiore; la proprietà dell’industria (impianti ed azioni) sarà stata remunerata sulla base di minori garanzie e di un tasso più elevato di dividendi, con un valore stimato complessivo probabilmente superiore a quello posseduto da equivalenti attrezzature prima della guerra; l’effettivo ammontare del capitale investito in obbligazioni sul mercato (in gran parte consolidate e quindi irrevocabili) da parte della comunità industriale non sarà presumibilmente minore di quanto fosse prima del lancio dei prestiti di guerra; a tale capitale obbligazionario devono esser aggiunti i titoli di stato emessi a copertura dei prestiti di guerra, che sono, in effetti anche se non formalmente,un ulteriore immobilizzo obbligazionario dei capitali della comunità, e gli interessi sui quali costituiscono una «spesa fissa» sul reddito della comunità e quindi una detrazione dalla sua capacità redditiera. Questa detrazione può concepibilmente elevarsi fino al 100% del reddito netto; anzi, può sorpassare tale limite. Risulta chiaro, quindi, che salvo imprevisti mutamenti nella situazione industriale, questo periodo di prosperità bellica dovrebbe esser seguito da una liquidazione, al fine di ricondurre l’ammontare complessivo del capitale obbligazionario ad una tollerabile correlazione con la capacità redditiera, e di determinare la risultante titolarità dei redditi netti17 a. W. Z. RIPLEY18The Races of Europe. b. Un risultato sostanzialmente analogo si ottiene, per quanto concerne il nostro problema, se si adotta il modello proposto da Deniker19 (The Races of Man), con la differenza che il ragionamento includerebbe in tal caso cinque o sei principali ceppi razziali componenti la popolazione europea nel suo complesso. (Cfr. C. O. E. ARBO, Den blonde Brachycephal og dens sandsynlige Udbredningsfelt, Christiania Vid. Selsk. Forh., 1906). Neppure le particolari considerazioni proposte dal modello di Sergi20

(The Mediterranean Race) influenzano il nostro problema in modo tale da disturbare i lineamenti dell’argomentazione basaia sulla descrizione del Ripley dei caratteri razziali dei popoli europei contemporanei. 1. William Z. Ripley, antropologo ed economista americano. 2. Joseph Deniker (1852-1918), antropologo francese. Il testo citato è del 1900. 3. Giuseppe Sergi (1841-1936), antropologo, docente a Roma. c. «Filone puro» è mutuato dall’uso che ne fa il professor W. Johannsen21 (cfr. Elemente der exakten Erblichkeitslehre, IX. Vorlesung, special mente p. 133), ma si tenga presente che il termine non è usato qui nello stesso esatto senso che questi gli attribuisce. 4. William L. Johannsen (1857-1927), botanico danese, studioso dei problemi della variabilità e della genetica. d. Cfr. The Mutation Theory and the Blond Race, «The Journal of Race Development», aprile 191322. 5. Sullo stesso tema, Veblen pubblicò anche il saggio The Blond Race and the Aryan Culture, apparso sull’«University of Missouri Bulletin, Science Series», voi. II, n. 3, aprile 1913. Ambedue questi saggi

costituivano la rielaborazione di uno scritto presentato alla Carnegie Institution di Washington nel 1910. 6. Il nome deriva dall’esploratore russo Nikolaj M. Przevalskij (1839-1888), autore di diverse ricerche nell’Asia centrale. e. Sulla base della cronologia proposta da Montelius, che va ritenuto assai prudente in materia, l’età danese della pietra dev’esser durata dalla fine dell’epoca quaternaria – l’ultima ritirata della calotta glaciale nordeuropea – fino a circa il 1700 a. C. Quale sia l’entità di questo periodo in termini di secoli è un problema per i geologi, ma a quanto pare nessuna teoria attualmente accreditata tra i versati nella materia la stima in meno di diecimila anni per l’età scandinava della pietra nel suo complesso, accordando almeno tremila anni per il suo periodo di pieno sviluppo. Cfr. O. MONTELIUS, Les temps préhistoriques en Suède; SOPHUS MÜLLER, Vor Oldtid; A. PENCK e Ed. BRÜCKNER23, Die Alpen im Eiszeitalter, vol. III Schluss, cap. II, Chronologie des Eiszeitalters in den Alpen; ancora SOPHUS MÜLLER, Aarhöger for Nordisk Oldkyndighed, 1909, Bronzealderens Begyndelse og äldre Udvikling i Danmark, efter de nyeste Fund. 7. Albrecht Penck (1858-1945), geografo tedesco. Il testo sulle Alpi nell’età glaciale fu pubblicato a Lipsia nel 1901-09. Eduard Brückner (1862-1927), suo allievo e collaboratore. f. In tutto ciò vi è una suggestiva rassomiglianza con la regione americana della Costa di NordOvest. g. À causa della sua particolare formazione geologica la Danimarca, e in modo meno accentuato la Svezia di sud-ovest, fu fortunata più di tutti gli altri paesi europei per la sua ampia, eccellente e facilmente accessibile provvista di selce. Le isole danesi e buona parte della penisola hanno in superficie il carattere di una morena di grandi dimensioni, abbandonata attraverso l’orlo meridionale della depressione baltica dall’azione dei ghiacci, che scavarono quella depressione lasciando una barriera di tipo morenico, composta di sedimenti non cretosi, di depositi d’argilla, sabbia, suolo marnoso e in particolare di noduli resistenti di selce, derivati dalle crete gessose. Le formazioni sottostanti sono anch’esse in gran parte cretacee. La selce si ritrova perciò in proporzioni straordinariamente ampie, in confronto alle zone in cui la si trova solo a dimora nei giacimenti cretosi, come per esempio sulle dune inglesi. h. Sotto questo aspetto vi è un notevole parallelismo tra le regioni baltica ed egea; ma lo spezzettamento è più aspro nell’Egeo, le barriere dei territori deserti sono più montagnose e scoraggianti per i viaggi e i traffici, e gli specchi d’acqua sono più aperti e difficili per una navigazione primitiva; né alcun luogo della regione egea detiene una posizione di vantaggio differenziale nelle risorse e nella collocazione simile a quella che si ritrova sulle coste danesi (con la parziale e dubbia eccezione di Melos s dei suoi depositi da ossidiana). Le conseguenze, in epoca antica, sono anche parallele nel senso che i popoli di ambedue le regioni sono frammentati in piccole comunità, indipendenti ma in stretta comunicazione e presentanti caratteri comuni nelle attività umane. Pur con tutto ciò la regione egea, presentando dei contorni naturali più netti e difficili da superare, mostra anche un’organizzazione più chiusa e coercitiva dei suoi popoli antichi in comunità nettamente definite e differenziate che scelgono posizioni difendibili e prendono precauzioni contro la costrizione dall’esterno. D’altra parte la situazione baltica è in contrasto con quelle vaste regioni continentali dell’Oriente, come ad esempio le steppe asiatiche e le basse pianure mesopotamicc-caldee, dove vaste distese di terra utilizzabile si sono prestate all’organizzazione immediata di un’attività pastorale, o in taluni luoghi anche agricola, su larga scala, con conseguenti ampi raggruppamenti di popolazione, larghi divari nella distribuzione della ricchezza, e un controllo governativo stretto e spesso costrittivo. i. Cfr. MEITZEN, Siedelung usd Agrarwesen, vol. II, parte XI, e le pagine corrispondenti dell’Atlante. In questa sede si fa riferimento al Meitzen solo per i dati di fatto; le sue deduzioni non coincidono affatto con la presente argomentazione. j. Ai nostri fini sono più interessanti le diverse raccolte di leggi scandinave, la Grágás24 forse più d’ogni altra, sebbene anche in questa siano in evidenza le influenze posteriori e cristiane. Nel seguito si

fa riferimento a questi testi, con i riconoscimenti che appaiono dovuti. 8. L’East India Company, fondata con privilegio di Elisabetta I nel 1600, deteneva il monopolio del commercio con le «Indie Orientali». Dopo il crollo dell’Impero dei Mogol, nel ‘700, essa si dette ad una politica di annessioni territoriali senza scrupoli e di fortunate campagne militari. Il monopolio fu abolito nel 1813, e la titolarità delle vastissime conquiste fu assunta de jure dalla corona britannica solo nel 1858. 9. I Forty-niners erano cercatori di fortuna, riversatisi con ogni mezzo in California dopo la scoperta dell’oro nel 1849, l’anno dopo la fine della guerra con il Messico e l’annessione del territorio. 10. Codice di leggi norvegesi, compilato durante il regno di Magnus il Buono (1035-1047). k. Cfr. per esempio ALEXANDER BUGGE, Norges Historie, voi. I, parte II, specialmente sez. IX. l. Seppure le cause che portarono alle migrazioni dei popoli, le inva-sioni barbariche per via di terra, possano esser state sostanzialmente ana-loghe a quelle che determinarono la nascita delle incursioni vichinghe, lareazione provocata da quest’ultime sulle abitudini e le idee quotidiane del-la popolazione rimasta in patria dev’esser stata alquanto largamente diversa. I saccheggiatori che partivano per via di terra non facevano ritorno, nonriportavano nulla in patria, e non avevano alcun peso sull’ulteriore corsodegli eventi; mentre i pirati di solito ritornavano in patria per l’inverno– in massima parte e soprattutto per la parte iniziale del periodo – e viriportavano schiavi e articoli superflui di consumo prestigioso, mantene-vano il loro posto di cittadini di buon rango, e finivano per stanziarvisistabilmente come contadini e capifamiglia. Il contrasto non è, ovviamente, così netto come apparirebbe da ciò. Molti dei pirati restavano via, si stan-ziavano all’estero, nei vari centri della pirateria o come coloni in qualchepaese straniero; e d’altra parte vi sono sufficienti prove che le comunica-zioni tra il litorale baltico e i paesi dell’Europa meridionale e centrale fu-rono libere e continue durante tutto il periodo delle migrazioni, così chemolti degli emigranti, o i loro discendenti, hanno fatto ritorno di quandoin quando, mentre la società originaria si è mantenuta in contatto, in modopiù o meno perfetto, con queste orde erranti per un certo periodo dopola loro partenza. Nel complesso però il contrasto tra le due forme d’incursione in territori stranieri è troppo sostanziale per esser ignorato. m. Si può osservare, come elemento secondario di questo particolare aspetto, che la pratica dello hólmgang25 fa di solito il suo ingresso nelle saghe in connessione con i vichinghi ed i loro traffici. 11. Usanza del duello, singolare o collettivo, come mezzo di risoluzione delle controversie tra guerrieri. n. Come si osserva, ad esempio, nella Jómsvikinga Saga26. 12. La saga (racconto) è un genere letterario che fiorì in Islanda tra il xn e il xv secolo; esso tratta materiale leggendario e storico norvegese e islandese che abbraccia tutto l’alto Medioevo. 13. Letteralmente «federati». Ambedue i nomi paterno e materno di Veblen erano stati appunto boendr, godendo come tali cel diritto di portare il nome della fattoria posseduta. 14. Jarl è l’equivalente di conte, e hersir di capo della comunità o anche i barone (corrispondente all’inglese squire). o. La più antica descrizione nota delle distinzioni di classe nel paganesimo scandinavo – il Rigsthula27 – elenca quattro classi sociali: schiavi, popolo comune, ceto nobile e reali, e sembra ritenere che queste distinzioni di classe si basino su differenze razziali, eccezion fatta per le ultime due, – i reali, sembra, derivando dalla razza dei nobili. Allo stesso tempo, l’antico teorico sembra anche intendere che esse si susseguano per anzianità nell’ordine citato, la razza o classe degli schiavi essendo la più antica e quella dei re la più recente. Un secondo aspetto su cui il poema si sofferma – un aspetto non usualmente portato alla ribalta dai commentatori – è il dono di conoscenze occulte e magiche intrinsecamente appartenente al re, e che serve presumibilmente come solo tratto distintivo che differenzia la razza dei re da quella dei nobili. 15. Il Rigsthula o Rigsmál, cioè «canto di Rigr», è uno dei 31 canti dell’Edda Antica (v. nota a p. 606); esso narra le origini divine delle classi sociali.

16. La tradizione della monarchia pagana è sopravvissuta in un singolare stato di conservazione nei racconti popolari della regione; essa è meglio conservata tra i norvegesi e gli svedesi, com’era prevedibile, ma lascia la sua impronta anche sui racconti popolari di zone più lontane, ovunque vengano in evidenza le leggende germaniche. Il re, le sue situazioni familiari ed istituzioni domestiche ricevono frequente attenzione in questi racconti, così come in quelli consimili – o in molti casi uguali – narrati in parecchi luoghi diversi per tutta la lunghezza e l’ampiezza del continente eurasiano. Ma i regnanti tradizionali hanno nel mondo occidentale un carattere diverso che non altrove, così che nella stessa novella, com’è raccontata per esempio nel Punjab o sull’Eufrate e in Scandinavia, lo stesso personaggio regale recita la sua parte in Oriente come un augusto monarca che regna con poteri dispotici su vasti domini, mentre sul litorale baltico egli viene ridotto ad un signore di campagna, alquanto simpatico ma ostinato, i cui domini hanno un’estensione tale che le campane nuziali, che squillano nella conclusione della novella, possono esser udite «attraverso sette regni». p. Nella realtà pratica, i popoli che raccontano e che ascoltano questi racconti in Occidente non hanno fatto, in epoca storica, alcuna consimile esperienza di regni o di un potere regale di dimensioni così minuscole e di stile così casalingo. Essi in realtà hanno riveduto l’antica tradizione alla luce della propria esperienza storica in aspetti come le campane della chiesa e il clero, che sono entrati nella struttura dei racconti ad una data successiva alla scomparsa dell’ultimo dei minuscoli regni; così pure per le armi da fuoco e altre innovazioni tecniche posteriori, come ad esempio i comignoli, che hanno trovato un facile inserimento in questo folklore di reminiscenze. Queste cose sono divenute ovvie a tal punto che non aiutano né ostacolano il procedere del racconto, mentre invece la minuscola monarchia e la dimensione casalinga della vita in cui essa si inserisce sono affondate in modo così ineliminabile nel sentimento popolare relativo a ciò che è retto, giusto e normale, che tutto ciò rimane senza discussione lo stato di cose ideale, nonostante la sua totale scomparsa dalle esperienze popolari ad una data ancor più remota. I racconti popolari portano con sé il suggerimento, da prendersi per quel che può valere, che questo modello di società di vicinato su piccola scala, semianarchica, è l’unico che resista alla prova a lunga scadenza dei sentimenti popolari tra questi popoli – l’unico, in effetti, a cui essi tendono per inclinazione naturale e in cui vedono istintivamente la terra promessa dei desideri affettivi e il dominio della soddisfazione della loro specie. Tutto ciò che può esser ulteriormente riflesso in fatto d’ideali o di reminiscenze a lungo termine in questi racconti, in cui si parla in modo compiaciuto e naturale della trasmissione della carica regale attraverso il ramo femminile al fortunato giovane che sposa la principessa – a quella serie d’ipotesi non è forse necessario prestar attenzione. Ciò che Karl Pearson28 ha da dire in tale campo, per esempio (The Chances of Death, saggi su «Hans in Luck», «Woman as Witch» ecc.) può esser interessante e significativo, anche se il ragionamento non è accettato come conclusivo per le deduzioni alquanto radicali che propone. 17. La vallata di Valdres - dove era nato, nell’omonima fattoria, il padre di Veblen -è una delle vallate adiacenti al fiordo di Oslo, ed alla sua imboccatura si trovava il Ringerike; quest’ultimo regno, insieme a quelli di Hòrdaland (nella regione di Bergen, come il Sognefiord) e di Agdir (ali”estremità meridionale della Norvegia, l’attuale regione di Kristiansand) furono teatro delle prime gesta dell’eroe leggendario (e pluri-centenario) Starkad. Il Rogaland è oggi la regione di Stavanger, e Trondheim si trova nella Norvegia centrale. 18. Harald I Hàrfagr, re di Norvegia (860-933), vincitore delia battaglia di Hafrsfjòrdhr (872 o 884 circa) contro i norvegesi occidentali, che pose fine ad una guerra durata quindici anni e fondò un unxo potere regio in Norvegia. 19. Karl Pearson (1857-1936), statistico, antropologo e psicologo inglese, fanatico sostenitore delle teorie darwiniane. q. Un concetto come la detenzione comunistica della proprietà sia in terre che in effetti personali non rientra nell’orizzonte giuridico di questi popoli, e un’organicità quale P«impronta» di una tradizione dottrinaria è estranea a quel modello pratico come lo è il moderno mercato azionario.

La teoria convenzionalmente accettata sull’antica società germanica è stata fino a tempi recenti notevolmente diversa da quella qui proposta; né tale teoria precedente è stata finora abbandonata ufficialmente dagli storici e dagli studiosi della preistoria: essa sembra venir meno per disuso anziché mediante una confutazione, sebbene alcuni dei più ponderosi e ambiziosi studi recenti sull’antichità germanica siano stati condotti partendo dal suo punto di vista e presupponendone le premesse. Tra le più importanti e utili di queste opere recenti, di cui molte hanno valore sostanziale, si possono menzionare come esempi: MATTHAEUS MUCH, Die Heimat der Indogermanen; HERMAN HIRT29. Die Indogermanen (2 voll.); RICHARD HILDEBRAND, Recht und Sitte auf deti verschiedenen wirtschaftlichen Kuliurstufen (vol. I); e la grande opera di AUGUST MEITZEN, Sie-delung und Agrarwesen der Westgermanen und Ostgermanen, ecc. che presenta un volume straordinario di materiale ben ordinato, ugualmente utilizzabile sia che i presupposti dell’autore siano accettati o meno. L’abbandono, o piuttosto la decadenza di questa anteriore teoria dell’antichità nord-europea sembra dovuta all’abbandono del punto di vista romantico nell’interpretazione storica, e alla sua sostituzione con una concezione economica e genetica. Questo moto di sostituzione ha avuto minor effetto tra gli studiosi tedeschi che altrove; e quindi la teoria precedente è ancora utilizzata dagli storici ed etnologi tedeschi in modo alquanto più diffuso che altrove. 20. Hermann Hirt (1865-1936), linguista tedesco, studioso di sanscrito e di glottologia indoeuropea. Il testo citato fu pubblicate» a Strasburgo nel 1905-07. 21. Snorri Sturluson (1178-1241), storico e poeta islandese, L’Edda è un’opera in prosa composta intorno al 1223-1231. L’Edda Antica, attribuita al prete di Oddi Saemundr inn Frodhi Sigfusson il Saggio (1056-1133), è composta d: 31 o 34 canti, alcuni dei quali riguardano eroi comuni anche all’epica anglosassone e tedesca. L’epoca a cui si riferiscono risale ai IV-VI secclo. Essa fu considerata la fonte a cui attinse Snorri, ed è probabilmente il frutto del lavoro di molti autori, vissuti tra F800 ed il 1250 in Islanda. r. Traduttori e commentatori hanno di solito affrontato l’opera di Snorri con la mente preparata alle solennità, non priva di pietà filiale ed esaltazione teologica. Le interpretazioni a cui in tal modo si perviene hanno presentato un altrettanto ampio eccesso di grandezza e divinità degli dèi Asa quanto le ipsissima verta di Snorri possono contenere un eccesso di spacconate e di natura umana smidollata. 22. Tre delle quattro parti dell’Edda: Gylfaginning, o allucinazione di Gylfi, una breve rassegna di antica mitologia; Bragaroedur, cioè altri racconti mitici di Bragi; Skáldskaparmál, un trattato di poetica skaldica (la poesia di corte fiorita in Norvegia nei secoli IX-XII). 23. Gli Asi (da Aesir, esseri) erano i figli di Odhinn (il Wòdan sudgermanico), re del Vainoli e creatore degli uomini. I più importanti sono Thor, Baldr, Freyr, Freyja e Tyr. s. Cfr. per esempio SOPHUS BUGGE30, Fri eco, Frigg und Priapos, Christiania Videnskabsselskabs Forhandlinger, 1904. Per la più recente teoria convenzionale relativa a tale culto e credo pagano, così come predominano nella tarda epoca preistorica, e alla luce degli attuali studi e ricerche nei paesi scandinavi, vedi ALEX. BUGGE, Nor-ges Historie, voi. I parte I, sez. V, in cui i caratteri di questo paganesimo emergono grandemente rilassati da quello stato austero ed inflessibile di beatitudine che li riveste in Schrader31 e

nei suoi contemporanei, in particolare tra gli studiosi tedeschi. La teoria esposta o l’interpretazione fornita dal Dr. Bugge è una revisione conservatrice e riverente dell’opinione tradizionale, ma beneficia degli studi più recenti e più basati sui dati di fatto, e della convalida di studiosi scandinavi che si interessano di questo materiale oggi. 24. Alla lettera «casa degli dèi». 25. Freyr, figlio di Njòrdr, dio della fecondità e della prosperità. Frigg è invece il nome della moglie di Odhinn, protettrice delle puerpere. I nomi Frey («signore»), Fricco («amante»), Frigg (la terra madre) e Priapo (dio asiatico) sembrano derivare da una comune radice indo-europea, cioè prij («amore»).

26. Elseus Sophus Bugge, filologo norvegese (1833-1907), studioso della mitologia nordica. 27. Otto Schrader (1855-1919), autore d: The Prehistoric Antiquities of the Aryan Peoples, pubblicato in traduzione inglese a Londra nel 1890. Etnologo tedesco e studioso dell’antichità indoeuropea. 28. Letteralmente «ministro del sacrificio»: il capo di una famiglia o di un villaggio che presiede al sacrificio, con funzioni sciamaniche o semi-sacerdotali e limitati doveri secolari. t. Ciò che si è detto qui sull’Antico Ordinamento sul litorale baltico attinge alle testimonianze provenienti da tale regione e si applica solo alla sua civiltà. Non s’intende però asserire, con ciò, che questa civiltà differisca ampiamente da quella predominante in altri luoghi e tra altri popoli ad un analogo livello generale di civiltà; ma solo che questi altri casi non interessano in modo immediato l’oggetto della ricerca. In effetti, si osserva che le civiltà approssimativamente classificate come selvagge più elevate o barbariche inferiori presentano assai spesso caratteri istituzionali quasi uguali a quelli qui indicati. La stessa rilassata organizzazione sociale, semi-anarchica e non coercitiva, emerge in modo ovvio, per esempio, tra gli Eschimesi, particolarmente tra quelli orientali e centrali, che sono in forza delle circostanze più abitualmente pacifici dei loro parenti occidentali; ed ancora, in una certa misura e con delle differenze, tra gli Indiani della Còsta Nordoccidentale, o tra gl’Indiani Pueblo, e vi sono analoghe somiglianze e reminiscenze riscontrabili qua e là in Indonesia e in Polinesia. Tutto ciò dimostra che questo Antico Ordinamento della civiltà nord-europea non è né anormale, o eccezionale, né di carattere precario; e che a maggior ragione si deve ricercare una recrudescenza del suo sottostante atteggiamento mentale nei casi in cui le circostanze correnti favoriscono o consentono un ritorno a condizioni pacifiche. u. Alcune testimonianze in tal senso si osservano tra gli dèi importati dall’estero facenti parte della mitologia Asa, come pure nelle mutevoli mode di sepoltura. v. In tempi storici l’atteggiamento etico che sta alla base di questo principio di giustizia si è riaffermato di quando in quando, con notevole capacità di recupero, nell’evoluzione del diritto comune e delle cosiddette libere istituzioni. Esso rappresenta il succo dei giudizi morali espressi dal sistema giusnaturalistico, ed è il fondamento della scuola etica utilitaristica, da Bentham a Spencer. L’ubiquità e la persistenza di tale propensione morale non è per nulla un fatto di recente scoperta, com’è ovvio. È precisamente k manifesta universalità e persistenza di esso che fa di questo carattere umano – o forse debolezza umana – una premessa di valore inestimabile per ogni ricerca sulla realizzabilità e la convenienza di un qualsiasi determinato sistema di controllo o di ogni progettata serie d’iniziative collettive. w. È caratteristico di questo sistema arcaico di giustizia il fatto che nessuna autorità pubblica né alcuna azione giuridicamente concertata viene normalmente chiamata a riparare ai torti. La sentenza del tribunale non impone alcuna pena; essa si limita a fornire la debita sanzione legale alla rappresaglia. x. Cfr. GRAHAM WALLAS, The Great Society, specialmente cap. I; inoltre H. C. ADAMS32, Economics and Jurisprudence; Discorso Presidenziale, Am. Econ. Assoc, 1896, specialmente sez. IL 29. Henry Carter Adams, economista conservatore, congedato nel 1886 dall’università di Cornell perché in un suo scritto sul problema della manodopera era apparso sostenere una tesi non abbastanza contraria ai sindacati ed agli scioperi. Nel 1896 venne eletto alla presidenza dell’American Economie Association, l’associazione di economisti fondata nel 1886 da Richard T. Ely e John Bates Clark (ambedue già insegnanti di Veblen). y. Tutto ciò, ovviamente, non implica alcuna critica o screditamento dell’istituto della proprietà privata in senso lato, per quanto concerne sia la sua sostenibilità su basi etiche che la sua convenienza su basi economiche. Il possesso con piena discrezionalità nell’uso della proprietà appare, per rispondenza logica e per la prova pratica fornita dagli usi e costumi, come un effetto intrinseco della regola del Vivi e lascia vivere; è solo nelle sue conseguenze che esso viene a conflitto con la regola, e tali conseguenze sembrano esser entrate sul serio in gioco solo gradualmente e nel corso dell’evoluzione delle istituzioni. z. La storia della repubblica islandese dimostra come l’accumulazione di ricchezze fu in se stessa

sufficiente a porre fine all’Antico Ordinamento. La repubblica non ebbe mai un organo amministrativo o esecutivo, e si sviluppò mediante il cauto adattamento e perfezionamento di un sistema di autonomie di vicinato. Essa risultava da un aggregato di insediamenti creati, in gran parte, da rifugiati provenienti dalla Norvegia, che si erano sottratti all’aumentata pressione, per loro intollerabile, dello stato coercitivo organizzato da Harald Fairhair e dai suoi successori immediati, e modellato sull’esempio dei principati feudali situati più a sud – sulla base del principio del dovere anziché di quello del diritto. Questa repubblica «anarchica» sembra aver adempiuto al suo scopo in modo sopportabile fin dall’inizio, ma con sempre maggiori difficoltà, stenti e svantaggi, via via che ricchezze e potere si accumulavano progressivamente nelle mani di poche famiglie, e venivano quindi amministrati in quantità considerevoli secondo regole anarchiche da capi di fazioni in concorrenza tra loro, – nel più recente linguaggio colloquiale li si chiamerebbe «capi-banda» – che brandivano le forze della comunità ai loro propri fini; finché venne il crollo, alla fine di un prolungato periodo di incursioni interne, illegalità, guerre civili e assassini, facenti parte dei tentativi di questi magnati di viver ciascuno come gli pareva33. 30. La perdita «dell’indipendenza politica islandese (e il connesso declino della sua grande fioritura letteraria) risale al 1262-64, quando il re norvegese Haakon Haakonson ottenne dai feudatari discordi il riconoscimento della sua sovranità. 31. Sul tema, vedi anche il saggio The Country Town, apparso su «Freeman» dell’li e 18 luglio 1923. 32. Il paragrafo che segue risente fortemente delle esperienze personali dell’autore, figlio di emigranti norvegesi ed educato nella tradizionale diffidenza dei liberi proprietari di quel paese verse la borghesia cittadina. Commercianti, giudici, sceriffi, sacerdoti, agenti delle tesse e legulei erano considerati alla stregua di altrettanti parassiti da parte dei piccoli proprietari terrieri, che si consideravano l’unica vera classe di nobili origini e il pilastro della società. Questa concezione non poteva che uscir confermata e rafforzata dalle esperienze americane degl’immigranti, esposti ad ogni raggiro e sopruso. 33. È facile riscontrare qui una prefigurazione della depressione che colpì tutte le potenze coinvolte nel conflitto nel periodo dell’immediato dopoguerra.

RICERCA SULLA NATURA DELLA PACE E LE CONDIZIONI DELLA SUA PERPETUAZIONE

PREFAZIONE Sono passati 122 anni da quando Kant scrisse il saggio Zum ewigen Frieden1. Da allora sono accadute molte cose, benché tra queste non vi sia la pace in cui egli, dubbiosamente, sperava. Tuttavia ne sono accadute molte altre che il grande filosofo critico, e non meno critico osservatore degli eventi umani, avrebbe visto con interesse. Kant considerava la ricerca di una pace durevole più un intrinseco dovere umano che un’impresa ricca di promesse. Malgrado ciò, in tutta la sua analisi delle premesse e delle condizioni per realizzarla si scopre una tenace fiducia nella possibilità di stabilire, alla fine, un regime di pace; non tanto come frutto consapevole della saggezza umana, ma come opera della natura creatrice delle cose. Natura daedala rerum. Ogni lettore attento del memorabile saggio di Kant si accorgerà che il titolo del nostro libro è una traduzione esplicativa del titolo kantiano. In tal caso speriamo che questo non venga considerato un’indebita presunzione o un’arbitraria tendenza a ripercorrere la strada seguita da altri. Nella sostanza, lo scopo e l’àmbito di un’indagine obiettiva su questi problemi sono rimasti quelli che erano ai tempi di Kant, che egli ha in gran parte realizzati, cioè una conoscenza sistematica dei fatti reali. Del resto, non si può fare a meno della guida luminosa di Kant in ciò che riguarda i modi e i mezzi della conoscenza sistematica, ogni qualvolta siano in discussione delle realtà umane. Tuttavia, molte cose sono cambiate dalla data del saggio kantiano, tra l’altro è cambiato il modo di impostare una ricerca e di darle una formulazione sistematica. La Natura daedala rerum non è più padrona di procedere per la sua strada, senza render pubblici i modi ed i mezzi del suo operato. Quindi noi intendiamo, appunto, impostare il problema in modo più ampio, sfruttando un campo d’indagine che, al tempo di Kant, faceva ancora parte dell’avvenire. La ricerca di una pace duratura è oggi – non meno che in passato – un supremo ed intrinseco dovere umano, il cui adempimento definitivo non pare oggi affatto più vicino. Peraltro, il problema del suo perseguimento e le condizioni ad esso necessarie sono adesso molto diverse e su questo, appunto, vuole basarsi la nostra indagine. Quali condizioni permetterebbero di stabilire

e mantenere la pace mondiale? Quali sono gli elementi, se pure esistono, della situazione attuale che spingono palesemente verso una realizzazione di queste condizioni necessarie entro un futuro calcolabile? Quali sarebbero le conseguenze prevedibili di questa pace mondiale, in un prossimo futuro? Cercheremo di dare una risposta a questi interrogativi, esaminando non tanto ciò che sarebbe doveroso fare per conseguire lo scopo desiderato, quanto i fattori noti del comportamento umano che l’esperienza ci mostra informare la condotta delle nazioni, in simili contingenze. Febbraio 19172. 1. Pubblicato nel 1795. 2. Sul tema della pace Veblen ha scritto anche un memorandum, dal titolo Suggestions Touching the Working Program of an Inquiry into the Prospective Terms of Peace, sottoposto nel dicembre 1917 ad un comitato di studio istituito dal colonnello House, consigliere del Presidente Wilson, di cui era segretario Walter Lippmann (pubblicato su «Politicai Science Quarterly» nel giugno 1932); e due editoriali apparsi su «The Dial» nel 1919 (Immanuel Kant on Perpetuai Peace del 3 maggio e Peace del 17 maggio).

CAPITOLO I. INTRODUZIONE: SULLO STATO E I SUOI RAPPORTI CON LA PACE E LA GUERRA Molti uomini riflessivi, saturi di saggezza mondana, considerano una verità inoppugnabile che la guerra faccia parte dell’ordine naturale delle cose. La lotta e lo spargimento di sangue sarebbero indispensabili ai rapporti umani e favorirebbero anche lo sviluppo e la diffusione delle virtù virili. Così la migliore gioventù, nel periodo dell’adolescenza e della prima maturità, condivide comunemente quest’intuizione profonda ed è pronta ad esaltare generosamente le virtù guerresche, con l’appoggio entusiastico di tutte le donne in età da marito e di maturità non eccessiva. Le madri, invece, sono in genere incapaci di capire l’utilità di tutto questo, che pare loro uno spreco di vite umane, acquistate a caro prezzo e che assolutamente nulla viene a compensare. Gli uomini più anziani, prematuramente o meno, tendono ad assumere un atteggiamento altrettanto negativo, forse perché in loro si è affievolito lo spirito eroico o forse perché hanno superato l’attaccamento passionale a certi valori dello spirito. Ci sono poi, molti, animati da spirito didascalico, che mettono a frutto le loro migliori qualità per mostrare le ben note atrocità e la futilità della guerra. Anzi, non di rado questi fautori della pace dedicano a quest’opera di esortazione le loro energie non altrimenti impiegate, senza stipendi o sussidi. In genere sono d’accordo che la definizione corrente della natura della guerra –la formula del generale Sherman1 –è sostanzialmente esatta. Però bisogna ammettere che tutte queste assiomatiche esortazioni non modificano affatto il corso degli eventi o l’atteggiamento popolare verso le imprese belliche. In verità, non esiste massa di chiacchiere più incontrovertibile ed al tempo stesso meno convincente delle affermazioni dei fautori della pace, pagati o meno. Che «la guerra sia più sanguinosa della pace», lo si può ammettere senza difficoltà, ma anche senza conseguenze. Dunque, diciamo pure che, fino ad oggi, gli sforzi dei pacifisti per fondare una pace durevole non hanno dato nessun risultato concreto tranne –naturalmente –il fatto che i pacifisti stipendiati hanno ricevuto il loro bravo sussidio. Perciò alla fine, dopo aver

frugato nei meandri della loro immaginazione, capaci difensori della pace, la cui loquacità non si era mai trovata a corto di risorse, si sono ridotti a chiedere: «E adesso cosa ci resta da dire?». Quindi, date le circostanze, ci sembra giusto indagare sulla natura di questa pace intorno alla quale gravitano tante opinioni e discussioni. Nel peggiore dei casi, la nostra indagine non sarà più gratuita o futile delle controversie che l’hanno creata. Premettiamo però che non sono in discussione i meriti intrinsechi della pace mondiale, contrapposti a quelli della guerra. Questo problema rientra nella sfera dell’opinione preconcetta e non ha significato per la nostra analisi se non come oggetto d’indagine. Ci occuperemo piuttosto della natura, delle cause e delle conseguenze del preconcetto favorevole alla pace e delle circostanze che sostengono quello opposto, che è favorevole alla guerra. In senso lato, ogni violazione della pace, oggigiorno, è un atto ufficiale, che può esser compiuto solo su iniziativa dell’organizzazione governativa, lo stato. Le autorità nazionali possono, naturalmente, esser spinte ad un tal passo dalla pressione di un sentimento popolare bellicoso. Tale, per esempio, si presume sia stato il caso dell’attacco degli Stati Uniti alla Spagna, durante l’amministrazione McKinley2 Tuttavia, man mano che si vengono a conoscere con maggior esattezza i retroscena di quell’episodio, appare chiaro che il bellicoso sentimento popolare, di fronte al quale il governo cedette, era stato diligentemente «mobilitato», in vista, appunto, di questo cedimento e di questa violazione. Analogamente nel caso della guerra boera3, l’iniziativa fu presa con la sanzione di uno spirito popolare bellicoso che, ancora una volta, venne alla luce in seguito ad un controllo e ad una manipolazione molto abili. Nel caso della guerra che è attualmente in corso in Europa, si può dire lo stesso, –per esempio –della Germania; dove lo stato, al momento di scatenare l’offensiva, godeva del pieno appoggio del sentimento popolare, anzi pareva addirittura che avesse precipitato la guerra in risposta all’urgenza dell’aspirazione popolare. Ma, ancora una volta, è fin troppo noto che il sentimento popolare era stato a lungo e diligentemente blandito e «mobilitato» per questo scopo, mantenendo il popolo spiritualmente all’erta per questo evento. Analoghe considerazioni sono meno evidenti per il Regno Unito e forse anche per gli altri alleati. Pare che le cose si siano svolte così anche per tutte le maggiori guerre degli ultimi cento anni –quelle che si possono chiamare le guerre «pubbliche» dell’età moderna, per contrasto con le guerre «private» o amministrative,

combattute di tanto in tanto dalle grandi potenze ai quattro angoli della terra contro dei poveri barbari, nel corso della routine burocratica. I fatti dimostrano altresì che, seppure ogni violazione della pace si verifica solo su iniziativa ed a discrezione del governo o statoa, per scatenare una guerra è sempre necessario blandire e infine mobilitare il sentimento popolare che fa da sostegno a qualunque impresa bellica. Fomentare opportunamente una disposizione bellicosa è indispensabile per procurarsi e conservarsi i mezzi adeguati per infrangere la pace e per perseguire con diligenza l’impresa, una volta cominciata. Lo spirito di patriottismo militante che può esser utilmente mobilitato a sostegno di un’impresa bellica è stato quindi la condizione essenziale per l’ingresso di ogni popolo nel moderno concerto delle nazioni. Il concerto delle nazioni è un concerto di potenze, ed è scio in quanto potenza che una nazione occupa un posto nel concerto; e potenza in questo contesto significa, in definitiva, potenza bellica. Un popolo come quello cinese, sprovvisto di uno spirito patriottico adeguato, entra nel concerto delle nazioni non come potenza, ma come pomo della discordia. I cinesi non mancano delle qualità che producono efficienza e benessere in tempo di pace, ma sembrano, in effetti, privi di quella «solidarietà del valore», in virtù della quale dovrebbero preferire di essere (collettivamente) temibili, piuttosto che (individualmente) fortunati e giusti; le nazioni civili moderne, dal canto loro, non sono disposte a tollerare un vicino che si appella alla loro considerazione solo in nome della pace in terra e cella buona volontà tra gli uomini. Quindi la Cina non è stata finora una nazione utilizzabile, dal punto di vista della guerra, se non in quanto una qualche potenza straniera sia riuscita ad usarne le risorse per i propri scopi bellici; tali per esempio sono state le varie dinastie straniere, che di tanto in tanto si sono impadronite del paese, mantenendo il potere con lo sfruttamento delle sue forze pacifiche. Di questa natura era l’impero Manchu, nel passato recente4, e lo stesso, evidentemente, si propongono di fare i giapponesi con il prevedibile sfruttamento del paese e della sua massa popolare. Nel frattempo, pare che i cinesi siano incorreggibilmente pacifici e non abbiano nessuna voglia di combattere in modo organizzato, anche se messi con le spalle al muro da un’aggressione gratuita, come sta accadendo adesso. Un popolo del genere è davvero eccezionale. In senso lato nessuna delle nazioni civili, ad eccezione della Cina, ha un simile temperamento, ammesso che si possa parlare della Cina come di una nazione. La guerra moderna usa le tecniche industriali in modo così ampio e diretto

ed ha bisogno, per esser concotta con successo, di un rifornimento così costante e imponente di servizi civili e di prodotti industriali, che un popolo inoffensivo e laborioso come quello cinese potrebbe senz’altro esser utilizzato con grande profitto da qualunque potenza aggressiva che riesca ad impadronirsi delle sue forze lavoratrici. Solo un governo straniero potrebbe sfruttare una massa così inoffensiva e poco patriottica, trasformandone l’efficienza produttiva in uno strumento bellico e di dominio imperiale. Ma nessun governo straniero, basato sul sostegno di una popolazione di tradizione ed educazione democratica, e che rispetti degli ideali di giustizia nelle questioni nazionali, potrebbe, ragionevolmente, assumersi questo compito. Soltanto una potenza straniera, non inceppata da scrupoli e riserve e sostenuta da un suo popolino servile, imbevuto di inconcusso lealismo verso i propri padroni e dotato di un adeguato temperamento aggressivo come, ad esempio, il Giappone imperiale o la Germania imperiale, potrebbe addossarsi il compito di creare un impero, sfruttando materiali non destinati alla guerra. Tuttavia, per le ordinarie imprese nazionali può bastare anche meno. Qualsiasi massa popolare, imbevuta al punto giusto di patriottismo, e mediante un’abile manipolazione, potrà servire agli scopi di una guerra, pur non avendo normalmente un temperamento bellicoso. Se ben diretto, il sentimento patriottico comune può essere prontamente mobilitato a vantaggio di un’avventura di guerra da qualunque gruppo di uomini politici, abbastanza avveduti e con le idee chiare; cosa di cui esistono numerosi esempi. Tutti i popoli della cristianità possiedono un senso alquanto sveglio della nazionalità e, per tradizione e costume, tutti i governi nazionali della cristianità sono organizzazioni bellicistiche, almeno in senso difensivo. Del resto la distinzione tra difesa e offesa, negli intrighi internazionali, è puramente tecnica e non offre grandi difficoltà. Nessuna di queste nazioni ha un temperamento così incorreggibilmente pacifico da far sperare, in tempi normali, in una pace stabile. La pace voluta dallo stato o fondata sul potere discrezionale dello stato somiglia necessariamente ad un armistizio, cui si può porre fine arbitrariamente e con breve preavviso. Viene mantenuta solo a certe condizioni, stipulate per convenzione espressa o prescritte dal costume, sempre con la riserva –tacita o esplicita –che si farà ricorso alle armi, nel caso in cui gli «interessi nazionali» e le formalità dell’etichetta internazionale vengano violati da un gesto o da una trasgressione compiuta da un qualunque governo rivale o dai suoi sudditi. Quanto più nazionalista un governo o la sua

popolazione sottomessa, tanto più pronta sarà la reazione ad ogni occasione di far sfoggio di prodezza. La forma più pacifica di politica governativa di cui la cristianità abbia esperienza è una politica di «vigile attesa», sempre attenta al presentarsi di qualsivoglia occasione di risentimento nazionale; infatti la mancanza più imperdonabile e vergognosa al proprio dovere da parte di un governo civile sarebbe la sua eventuale insensibilità all’appello di una «guerra giusta». Per un governo moderno, quale lo conosciamo, la stabilità della pace è affidata, nel migliore dei casi, al precetto «parla con calma e porta un grosso bastone»5 Ma il destino della pace è poi più precario di quanto l’aforisma sembrerebbe indicare, in quanto, all’atto pratico, «il grosso bastone» è un ostacolo al parlar con calma. Evidentemente –alla luce della storia recente –se si deve mantenere la pace, si dovrà farlo senza tener conto delle direttive del governo e malgrado lo stato, più che per i suoi buoni uffici. Nella migliore delle ipotesi lo stato, il governo, è uno strumento per fare ia pace, non per conservarla. Chi si interessa alla natura e all’origine delle istituzioni governative e degli organismi politici in Europa –in qualsiasi aspetto salvo quello formale – dovrebbe poter soddisfare la sua curiosità consultando coloro che si dicono studiosi di scienza politica. Questo ramo della scienza si occupa, con competenza e profitto, della genealogia autentica delle istituzioni, facendo uso di tutti gli strumenti d: documentazione appropriati. La scienza politica infatti è, dopo tutto, una branca della giurisprudenza teorica che si occupa di compiere un’analisi formalmente esatta dei poteri legalmente riconosciuti. Le circostanze materiali da cui un giorno le istituzioni hanno avuto origine e le esigenze che, successivamente, ne hanno determinato e indirizzato lo sviluppo e l’evoluzione, come l’influenza esercitata de facto dal modello istituzionale sul benessere materiale o sulle fortune culturali di una data società, benché in qualche modo imparentati con le ricerche della teoria politica, non fanno però parte integrante dei suoi fondamenti, della sequenza logica delle sue indagini o delle sue conclusioni teoriche. Questo vale, naturalmente, anche per il sistema di abitudini di pensiero, per quella forma mentale corrente, che fa da sostrato ad ogni modello istituzionale e senza il cui appoggio permanente un sistema istituzionale o politico non sarebbe valido, ma diventerebbe una specie di finzione legale. Se questi non sono problemi privi d’importanza per lo studioso di scienza politica, rimangono però sostanzialmente estranei alla struttura della teoria politica; cioè quando si presenta quest’ordine di problemi non ci si può aspettare dagli specialisti del campo altro contributo che un

occasionale obiter dictum. Non vi è alcuna presunzione villana, perciò, nell’accettare senza obiezioni i teoremi generali della teoria politica corrente, e nel superarne le formule ormai acquisite per esaminare le basi reali da cui gli organismi politici hanno preso forma e le circostanze materiali e spirituali che ne condizionano costantemente il funzionamento e gli effetti. In tutta la cristianità i governi e il potere di cui sono investiti discendono in linea diretta dalla struttura feudale del Medio Evo, che, a sua volta, è di origine predatoria ed a carattere irresponsabileb. Pressoché in tutti i casi, ma più particolarmente fra le nazioni considerate tipicamente moderne, le istituzioni esistenti hanno subito grandi mutamenti rispetto al modello medioevale, adattandosi alle esigenze successive o introducendo innovazioni, più o meno rivoluzionarie. Il loro grado di modernità –grosso modo –può essere rappresentato (convenzionalmente) dalla misura in cui si sono distaccate dal modello medioevale. Nei casi in cui le inevitabili concessioni sono state fatte cercando, abilmente, di conservare l’autonomia e l’irresponsabilità del governo o «stato», e là dove l’orientamento del sentimento nazionale ha favorito quest’opera di conservazione, come, per esempio, nel caso dell’Austria, della Spagna o della Prussia, la forma moderna è quella che si può definire uno stato dinastico. Dove invece l’orientamento del sentimento nazionale si è notevolmente distaccato dall’antico caposaldo della fedeltà ed abnegazione, ed ha imposto alcune innovazioni rivoluzionarie, come nel caso della Francia o dei popoli di lingua inglese, la forma moderna di governo è (apparentemente) un commonwealth democratico di cittadini uguali tra loro. Tuttavia, questa contrapposizione è una contrapposizione di varianti divergenti più che di opposti. Queste due forme tipo possono esser assunte come i limiti estremi entro i quali variano le istituzioni politiche del mondo modernoc. La differenza effettiva tra queste due forme di governo, messe teoricamente a contrasto, è senza dubbio abbastanza grave e, sotto molti aspetti, importante, ma, in fondo, non ci interessa discuterne a lungo in questa sede. Infatti il contrasto è maggiore quando si tratta del loro influsso sulle fortune della comunità, che non nelle questioni di pace e di guerra, di cui appunto intendiamo occuparci. Comunque tutte le istituzioni moderne hanno in comune, anche se non nello stesso stato di conservazione ed efficacia, alcune caratteristiche primarie dell’antico regime. Tutte, per esempio, sono investite di certi attributi di «sovranità». In ogni caso il cittadino –ad un più attento esame –appare ancora, in una certa misura, come un «suddito» dello

stato e si presuppone invariabilmente che egli, per un verso o per l’altro, abbia dei «doveri» verso l’autorità costituita. Tutti i governi civili hanno concetti come tradimento, sedizione e simili, e tutti i buoni cittadini non soltanto ne sono soddisfatti, ma insistono chiaramente sui doveri del cittadino a questo proposito. L’inclinazione alla fedeltà non è questione su cui sia consentito discutere. Questa inclinazione alla fedeltà o «dovere civico» –che ricorda ancora molto l’obbedienza feudale –autorizza, a buon diritto, il governo a controllare e a dirigere coercitivamente le azioni del cittadino, o suddito, nella sfera che viene così ad essere inclusa tra i suoi doveri; e inoltre a sfruttarne autoritariamente le capacità per gli scopi che rientrano nell’àmbito dei poteri discrezionali governativi come, per esempio, la difesa comune. Questi diritti e poteri spettano ancora al governo, anche se giunto al più alto punto di sviluppo democratico, rispetto allo stadio di tutela e sfruttamento padronale che caratterizzava il vecchio stato patrimoniale, e che tuttora caratterizza i meglio conservati tra i suoi derivali moderni. Questi poteri discrezionali sono così connaturati alle istituzioni politiche, e così radicata è la tendenza popolare a considerarli un fatto evidente e una necessità assiomatica, che si sono mantenuti immutati anche come attributi dei governi democratici la cui origine risale, appunto, ad una rottura rivoluzionaria con il vecchio ordinamento. A molti, tutto ciò sembrerà una pedante ripetizione di luoghi comuni, come se valesse la pena di osservare che i governi esistenti sono investiti degli indispensabili attributi di governo. Tuttavia la storia registra un esempio –e non del tutto isolato –che contrasta con questa regola assiomatica, regola che si considera un’ovvia espressione di buon senso; un esempio che può servire a dimostrare come questi caratteristici e incensurabili poteri conferiti a tutti i governi attuali vadano in definitiva ritenuti tipici di una particolare specie di governo e non di qualsivoglia istituzione politica, in senso lato. Questi poteri rispondono ad una tendenza acquisita, non ad un carattere innato della natura umana; sono questione di abitudine, non di ereditarietà. L’esempio storico è la cosiddetta Repubblica o Commonwealth d’Islanda, esistita dal decimo al tredicesimo secolo. Il caso è considerato dagli storici una sensazionale anomalia, poiché i poteri primari del governo non erano affatto accordati alle sue autorità costituite. È opportuno, per controbattere il consueto preconcetto degli studiosi di storia, osservare come gli antichi che fondarono la Repubblica per l’amministrazione degli interessi comuni non abbiano mai pensato d’includere questi poteri nella sfera delle competenze del

governo, neppure quel tanto che bastava a respingerne l’idea. Questa singolarità –come la considererebbero i politici e gli studiosi moderni –non rappresentava affatto una novità nella costruzione dello stato, dal punto di vista dei fondatori della Repubblica. Non avevano alcuna nozione di simili poteri, doveri e responsabilità se non come elementi malsani di un sistema ignoto ed estraneo di oppressione irresponsabile, che Harald Fairhair6 cercava d’imporre loro e che essi si fecero immediata e suprema premura di evitare. Non crearono neppure alcun organismo collettivo o congiunto preposto alla difesa comune, anzi, non sembra che uria tale idea fosse venuta loro in mente. Nulla sembra indicare, nella storia di questa istituzione, che i creatori del Commonwealth d’Islanda ritenessero minimamente necessario o persino realizzabile un governo autoritario, quale avrebbe richiesto un’organizzazione concertata per la difesa comune. La sottomissione ad un’autorità personale o ad un’autorità ufficiale, per quanto blanda, non era contemplata nella loro tradizionale esperienza di cittadini; ed era necessariamente sugli elementi inseriti nell’esperienza tradizionale che si doveva edificare la nuova struttura. Il nuovo commonpjealth doveva sorgere sulla base della tradizione e del costume ereditati, il cui modello discendeva da condizioni pre-feudali, e non aveva quindi subito la disciplina di coercizione che il regime feudale aveva imposto al resto d’Europa, inculcandola nei popoli della cristianità come «uso immemorabile» e come «seconda natura». Il conseguente carattere del Commonwealth islandese è abbastanza singolare, se confrontato con il commonwealth inglese del diciassettesimo secolo o con le posteriori repubbliche francese e americana, usciti tutti quanti da una lunga esperienza di feudalesimo e statalismo, in cui la difesa comune –di frequente all’offensiva –con tutto l’indispensabile apparato repressivo e con la sua fedeltà sottomessa, finiva con l’assumere il ruolo fondamentale nella struttura civile. A conclusione della storia del commonwealth islandese si può aggiungere che quella repubblica di liberi cittadini cadde alla fine nell’indisciplina, nell’abuso sistematico e nei disordini prodotti dall’accumulazione della ricchezza, per morire, infine, di finzioni legali e di formalità costituzionali, dopo una breve esperienza nelle mani di abili ed ambiziosi politicanti, in contatto con un governo straniero ispirato al sistema coercitivo. Il vaso di coccio si dimostrò troppo fragile per i vasi di ferro, provando così la sua inadeguatezza a sopravvivere nel mondo delle nazioni cristiane, così come oggi i cinesi sono in balia della rapacità difensiva delle potenze.

E la clemenza che offrimmo loro fu quella di affondarli nel mare lungo la costa dell’Alta Barberia. È una certezza assiomatica che la creazione di un commonwealth sul modello della Repubblica d’Islanda, privo di un’autorità coercitiva, alieno dal prender provvedimenti per la difesa comune e da un senso di subordinazione e di responsabilità collettiva tra i cittadini, sarebbe fuori discussione, nelle circostanze attuali della politica e degli scambi internazionali. Un commonwealth del genere non sarebbe realizzabile, con le dimensioni e al ritmo imposti dalla situazione attuale del commercio e dell’industria, neppure prescindendo dalle gelosie e dalle ambizioni internazionali, ove si vogliano mantenere più o meno inalterati i sacri diritti della proprietà. Ciò malgrado, nel corso dell’epoca moderna nell’Europa occidentale continua ad affiorare una certa tendenza del sentimento popolare e persino qualche tentativo deliberato di realizzare un’organizzazione politica così inoffensiva ed inerme; in particolare durante il diciottesimo e la prima metà del diciannovesimo secolo, specialmente tra i popoli di lingua inglese e, con qualche differenza, tra i francesi, mentre è più discutibile nel caso dell’Olanda e dei paesi scandinavi. Questa tendenza è nota alla storia con il nome di movimento liberale, razionalista, umanitario o individualista. I suoi ideali, nel loro insieme, vengono definiti come sistema dei diritti naturali, e la sua idea della compagine statale è stata ben definita dai suoi detrattori come lo stato di polizia o lo stato guardiano notturno. I passi compiuti in questa direzione, o meglio l’infiltrazione di queste idee tra gli ideali nazionali, vanno senza dubbio considerati come un nuovo orientamento verso la pace e l’amicizia; anche se è chiaro che il nuovo movimento di pensiero, creato da questo indirizzo sentimentale, non ha mai ottenuto dei veri risultati e non si è mai realizzato pienamente in un efficace assetto funzionale. In pratica è servito a sminuire e affievolire le ambizioni nazionali e le iniziative dinastiche, più che a dare im pulso ad un’opera creativa ponendo le basi di sovrastrutture istituzionali adatti ai suoi fini specifici; in pratica, cioè, ha ottenuto semplicemente una incipiente mitigazione degli abusi. Sia il massimo sviluppo che il declino di questo movimento sono compresi nell’ambito del diciannovesimo secolo. Cronologicamente, la decadenza di quest’amabile indirizzo del laissez faire nella politica nazionale coincide con il periodo dei grandi progressi della tecnologia dei trasporti e delle comunicazioni, nel diciannovesimo secolo.

Forse, in una prospettiva più ampia, si potrebbe dire che le ambizioni e le animosità nazionali avevano, nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, subito un certo declino, a causa della diffusione di una predilezione sentimentale per la libertà naturale; mentre, in seguito, questa decadenza delle aspirazioni virili fu arrestata e corretta, con l’aiuto dei progressi tecnologici che permisero l’esercizio di un controllo più stretto e più coercitivo su aree più vaste, consentendo, al tempo stesso, ad un complesso più massiccio di mezzi bellici di colpire con maggiore efficacia ed a maggiore distanza. L’intera parabola del sorgere e del declinare del laissez faire nella storia moderna, più che la nascita di un ideale nuovo e più umano dei rapporti internazionali, rappresenta, forse, un indebolimento del nazionalismo, temporaneamente trascurato. Questo almeno sostengono i fautori di un’aggressiva vita nazionale e dell’arbitrato dell’antagonismo sportivo negli affari umani. In questa luce, il recente risveglio di aspirazioni militanti e, insieme, l’impegno accurato e diligente nel creare dei controlli e degli armamenti formidabili, quale si è verificato nella seconda parte del diciannovesimo secolo, sarebbe appunto la resurrezione di scopi ed ideali più antichi caduti, in un certo senso, nell’oblio negli stagnanti giorni del Liberalismo. Molto vi è da dire, in favore di quest’ultima tesi; anzi molto è stato detto, in suo favore, soprattutto dai portavoce della politica imperialista. Nella storia l’inclinazione verso la libertà naturale è stata associata, –in modo più esteso e profondo –con i popoli di lingua inglese, ma non perché quest’amabile tendenza sia una caratteristica razziale particolare di questi popoli, e neppure perché l’intero arco del suo sorgere e declinare si svolga entro i loro confini linguistici. I francesi e gli olandesi, infatti, hanno dato il loro contributo, e, in tempi meno recenti, anche gli italiani hanno offerto l’impulso del sentimento e della speculazione intellettuale a quest’ammirevole inclinazione della fede e delle aspirazioni. Tuttavia, per una coincidenza storica, proprio nel periodo in cui questa tendenza del pensiero ha fatto storia ed ha lasciato la sua impronta sul modello istituzionale della civiltà occidentale, il suo centro di gravità e di diffusione è venuto a trovarsi nell’ambito delle società di lingua inglese. In grazia di quello che potrebbe definirsi per ora un incidente storico, si dà il caso che la fioritura delle idee di libertà naturale coincidesse con il periodo in cui i popoli di lingua inglese (che ne erano particolarmente influenzati), si trovassero relativamente al sicuro da controversie internazionali, in forza della loro inaccessibilità. Il loro senso di solidarietà e di valore nazionale fu messo così poco alla prova che c’era qualche rischio che la loro animosità patriottica

decadesse, per mancanza di esercizio, senza contare che erano occupali da altre cose. I rapporti pacifici nel diciottesimo e diciannovesimo secolo erano rispetto al passato relativamente facili, attivi e a vasto raggio, mentre rapporti di guerra, di proporzioni tali da costituire una vera minaccia per qualsiasi grande nazione, erano quasi fuori discussione per i popoli di lingua inglese. In queste particolari società i mezzi di aggressione disponibili erano palesemente e volutamente sproporzionali rispetto a quelli di difesa. Analogamente i mezzi di controllo o di coercizione interna o internazionale forniti dal contemporaneo stadio della tecnica erano meno adeguati dei mezzi per i pacifici scambi; i sistemi di trasporto e comunicazione erano, in quel particolare momento del loro sviluppo, più adatti ai traffici pacifici che ad una strategia bellica a vasto raggio o al controllo e alia repressione di vaste zone. Ma il progresso costante dei mezzi di comunicazione durante il diciannovesimo secolo finì per capovolgere la situazione, vanificando con rapidità la quarantena geografica che aveva protetto queste società inclini a vivere per proprio conto. La crescente velocità e precisione dei trasporti sul mare, grazie all’introduzione del vapore, con le concomitanti maggiori dimensioni delle unità marinare, contribuirono a neutralizzare la pacifica barriera del mare e delle intemperie. Le ferrovie, sempre più utilizzabili a scopi strategici, insieme al telegrafo, permisero un coordinamento a grande distanza dei movimenti, senza contare l’aumento, in numero e densità, della popolazione. I perfezionamenti nella tecnologia delle armi e degli armamenti portarono alle stesse conseguenze, di rendere cioè la pace di qualsiasi comunità sempre più precaria, dal momento che la nuova tecnologia rendeva sempre più rapido l’equipaggiamento e la mobilitazione. Il nuovo stadio delle tecniche industriali applicato alla guerra aumentò l’importanza della tempestività nel difendersi, ma operò in modo particolare a vantaggio dell’offesa, mettendo fuori moda la strategia fabiana e dando origine alla dottrina dell’offesa difensiva. A poco a poco divenne evidente che –sempre a causa del continuo progresso delle tecniche industriali applicate alla strategia –nessun angolo della terra, neppure con l’aiuto di qualche modesta misura difensiva, era più al sicuro da eventuali attacchi di un aggressore organizzato ed audace semplicemente in virtù della distanza e delle difficoltà naturali. La paura di un’aggressione venne dunque a prender definitivamente il posto della buona volontà internazionale, diventando il motivo conduttore della politica, man mano che lo stadio delle tecniche industriali continuava a far pendere la

bilancia a favore dell’aggressore. Tutto questo servì grandemente a rafforzare il potere di quegli uomini politici che, per interesse o temperamento, erano inclini ad avventure imperialistiche. Da allora ogni armamento è stato, per convenzione, considerato difensivo e tutti i politici hanno affermato che la difesa comune era la loro preoccupazione suprema. Ufficialmente, tutti gli armamenti sono stati creati per mantenere la pace; ecco quanto rimane della tendenza pacifista. Durante quest’ultima fase della civiltà moderna la pretesa paura di un’aggressione è servita da scusa e forse da incentivo agli armamenti nazionali; analizzando la situazione, nel corso dello stesso periodo, si deve far risalire il primo anello di questa catena di paure alla Prussia, quale presunto o effettivo centro di perturbazione e inquietudine. Senza dubbio la corsa agli armamenti da parte della Prussia ha accelerato il ritmo tra le nazioni della cristianità, anche se la politica prussiana si è ammantata con cura del decoroso pretesto della necessità di provvedere alla difesa nazionale e dell’incessante sollecitudine per la oace internazionale, riassunto poi nella scaltra formula dell’«offesa difensiva». È tipico di quest’epoca di pace armata l’aver sempre evitato di ammettere, come un’imperdonabile violazione del decoro diplomatico, che in tutti i preparativi su vasta scala per infrangere la pace vi fosse alcunché di diverso da uno scopo difensivo. È pure tipico di quest’epoca l’aumento incessante degli armamenti oltre ogni misura raggiunta in passato, e il fatto che tutti hanno sempre saputo che lo sbocco inevitabile di questo presunto armamento difensivo doveva essere, alla fine, una guerra senza precedenti e di una ferocia senza pari. Non sarebbe caritatevole, o altrimenti utile, richiamare l’attenzione sulla luce che le circostanze gettano sulla perspicacia collettiva o sulla buona fede degli uomini politici responsabili di tutto questo. Non è possibile attribuire simili conseguenze solo a stupidità o inettitudine; ma nemmeno dimostrare come la loro grande astuzia politica abbia minimamente attenuato il tragico epilogo della questione. È fin troppo noto agli osservatori degli avvenimenti pubblici che i presunti preparativi bellici difensivi sono stati, in effetti, preparativi per infrangere la pace, a cui –e questo compendia la saggezza politica degli ultimi cinquantanni –si è cercato di rimediare creando armamenti ancora più pesanti, pur rendendosi pienamente conto che questi avrebbero condotto infallibilmente ad una guerra più spietata e più disastrosa. La Prussia, e in seguito la Germania prussianizzata, si è messa in risalto assumendo una funzione di guida e accelerando il ritmo di questa

preparazione competitiva, definita «stato di preparazione» alla guerra in tempo di pace; che ciò sia avvenuto sembra in buona parte una circostanza casuale. L’intraprendente politica di forza e di frode a cui quel paese deve il suo ingresso nel concerto delle nazioni fa parte della storia recente, così recente, in verità, che la nazione germanica non ha ancora avuto tempo di esaurirla e di farla dimenticare; lo stato imperiale è quindi afflitto da un senso di disagio collettivo e di suscettibilità, e da una radicata reputazione di malafede. I politici dell’Impero, dunque, si sono trovati a vivere nell’attesa che venissero loro resi i torti non dimenticati, scoprendo eoa l’impossibilità di dar credito alle intenzioni pacifiche professate dalle potenze vicine, e di render credibili, a loro volta, le proprie loquaci affermazioni di pace e d’amicizia. È avvenuto così, che per una fortuita congiuntura di circostanze in pratica irrilevanti la Prussia e l’Impero siano stati spinti in testa alla corsa dei preparativi di guerra, affrettando senza sosta una rottura della pace che non potevano, in realtà, permettersi. Anche nella migliore delle ipotesi, c’è da dubitare che gli eventi sarebbero stati sostanzialmente diversi, senza la provocazione specifica ad una preparazione competitiva rappresentata dall’atteggiamento tedesco; è certo però che il ritmo di marcia verso un apice bellico è stato affrettato dalla politica di preparazione anticipata che la dinastia prussiana si è vista costretta a intraprendere. Per concludere, le particolari circostanze –disagio all’interno, biasimo e discredito all’estero – hanno indotto lo stato imperiale ad adottare la linea di un’offesa difensiva, ad afferrare, insomma, la guerra per i capelli e a far rappresaglie su presunti nemici per ipotetiche offese. In ogni caso, nel corso dell’ultimo secolo, i progressi dei trasporti e delle comunicazioni e della tecnologia specifica della guerra, unite ai più efficaci strumenti per inculcare nella popolazione le dottrine del nazionalismo militante, hanno finito, nelle mani di uomini politici patriottici, per mettere la pace europea su un piano estremamente precario, tale da provocare un incremento materiale dei mezzi per la difesa nazionale; il che a sua volta ha portato inevitabilmente ad un armamento competitivo, rafforzando la sfiducia e l’animosità internazionale, destinate alla fine a sfociare nelle ostilità. Ammettiamo pure che la scusa di una preparazione difensiva avanzata dai politici, prussiani ed altri, per giustificare la corsa agli armamenti, sia –e vi sono ragioni di crederlo –un sotterfugio diplomatico; anche se si tratta di evidente malafede, la necessità di addurre una simile scusa per coprire disegni più sinistri dimostra di per sé che un’impresa a carattere dichiaratamente

predatorio non ottiene più l’indispensabile approvazione popolare. Anche se l’atteggiamento recente del popolo tedesco può sembrare un’eccezione alla regola, ricordiamo che l’eccezione è stata soltanto temporanea e che subito dopo l’ammissione di avere intenzioni predatorie fu ritirata in fretta e fu ria, al profilarsi dell’avversità. Anche coloro che si pronunciano con più disinvoltura a favore della guerra e dei suoi meriti, considerandola una necessaria palestra delle virtù virili, sono costretti dal sentimento dominante a deprecarne la necessità. Eppure si sa che, una volta affrontata un’impresa bellica al punto da precipitare la nazione nelle ostilità, questa avrà il sostegno cordiale del sentimento popolare, anche se si tratta chiaramente di una guerra aggressiva. Anzi, una volta che le ostilità siano state portate abbastanza avanti dagli uomini politici interessati, si può contare, fiduciosamente, sull’appoggio del sentimento patriottico della nazione verso l’impresa, indipendentemente dai suoi meriti. Anche se è necessario considerare il sentimento nazionale come un ovvio fatto incidentale, si deve in questo caso ricordare che ogni lotta nazionale otterrà senz’altro l’approvazione morale della comunità. Si troveranno, naturalmente, qua e là, dei dissenzienti che non si lasciano facilmente influenzare dall’opinione dominante; ma, in linea generale, una lotta del genere finirà per sembrare senz’altro giusta agli occhi di coloro che vi sono stati coinvolti. Vale la pena di notare un corollario di questo teorema: ogni uomo politico che riesca a trascinare il suo paese in una guerra, per quanto scellerata, diventa un eroe popolare ed è reputato uno statista saggio e giusto, almeno temporaneamente. Forse non è necessario né possibile illustrare graziosamente la nostra idea con degli esempi; infatti la maggior parte degli eroi popolari e degli statisti accreditati appartiene a questa categoria. Dalla stessa proposizione generale discende anche un altro corollario, che ha più direttamente a che vedere con il problema in questione. Se i valori etici in gioco in un dato conflitto internazionale hanno sostanzialmente carattere di ripensamento e accessorio, non è necessario tenerne conto per capire o spiegare un determinato scoppio di ostilità. Tuttavia, l’indignazione morale da ambo le parti deve esser data per scontata, in quanto costituisce, per uno statista, la premessa e il mezzo indispensabile per condurre l’impresa a termine e farla navigare fino ad una conclusione onorevole. È un precipitato di animosità partigiana che ispira ambo le parti e le tiene strette al loro dovere di autosacrificio e di devastazione e che, nella migliore delle ipotesi, servirà

soprattutto come cappa di dignità che scusi eventuali eccessi eccezionalmente feroci nella condotta delle ostilità. Ogni impresa bellica che voglia avere qualche speranza di successo deve aver la sanzione morale della società o di una effettiva maggioranza della società. Di conseguenza mobilitare questa forza a favore dell’avventura a cui egli mira diventa la prima preoccupazione dello statista guerrafondaio. Due sono le categorie di motivazioni principali con cui è possibile sollecitare, a scopi di guerra, le forze spirituali di una nazione cristiana: i) la conservazione o l’incremento degli interessi materiali della comunità, reali o fittizi; 2) la rivendicazione dell’onore nazionale; a questi bisognerebbe forse aggiungere il progresso e la continuità della «civiltà» della nazione, cioè dei suoi modelli abituali di usi e costumi. È un bel problema capire se, all’atto pratico, l’aspirazione a perpetuare la civiltà nazionale sia sostanzialmente da distinguersi dalla rivendicazione dell’onore nazionale. Forse la «salvaguardia della civiltà nazionale» giustifica meglio un’aggressione gratuita e nasconde meglio incidentali atrocità, in quanto i nemici della civiltà nazionale saranno concepiti, necessariamente, come una genìa inferiore e ottusa, al di sotto del livello della normale dignità umana. Gli interessi materiali, in difesa dei quali le nazioni moderne sono solite prender le armi, sono in genere di natura fittizia, poiché il loro valore netto per la società, in senso lato, è puramente immaginario. Tali sono, ad esempio, il commercio nazionale o l’ampliamento del territorio nazionale. Questi ed altri simili possono servire alle ambizioni bellicose o dinastiche dei padroni della nazione o favorire anche gli interessi di alcuni dirigenti e in particolare di talune aziende o di alcuni affaristi, che si attendono qualche piccolo vantaggio dall’intervento degli uomini al potere; per l’uomo comune invece non significano altro che un aumento delle spese di governo e un probabile rialzo del costo della vita. Che il commercio della nazione debba svolgersi per mezzo di navi appartenenti ai suoi cittadini o registrate nei suoi porti deve avere, senza dubbio, un qualche valore sentimentale per la media dei cittadini, dal momento che i politici in malafede trovano che vale sempre la pena di fare appello a quest’inclinazione sciovinistica. Però è chiaro che non ha vera importanza per nessuno in quanto a vantaggi materiali, tranne che per il padrone della nave; né d’altro canto per gli stessi proprietari ha alcun rilievo economico la bandiera sotto la quale navigano i loro investimenti, se non nei limiti in cui il governo in questione offra loro –sempre a spese dei concittadini

–qualche particolare facilitazione. Lo stesso vale per il domicilio e la nazionalità dell’uomo d’affari che compra-vende le importazioni e le esportazioni del paese. L’uomo comune non ha, chiaramente, il minimo interesse materiale per la nazionalità o il luogo di residenza di coloro che svolgono questo traffico; i fatti però sembrano dimostrare che, in qualche suo modo involuto, l’uomo medio arriva a persuadersi che questo rappresenti per lui, in effetti, una misteriosa differenza; cosicché, in genere, egli è disposto a pagare di persona per sussidiare –con tariffe protettive ed altro –gli uomini d’affari suoi connazionali. L’unico vantaggio materiale di una simile politica commerciale preferenziale si ha in caso di ostilità internazionali, perché allora le navi ed i mercanti appartenenti alla nazione favoriscono la rapidità della mobilitazione. In questo modo, anche se il loro valore rimane sempre contingente e dubbio, essi possono, secondo le loro possibilità, contribuire a rompere le relazioni pacifiche con altri paesi. Gli espedienti preferenziali di politica economica valgono dunque realmente solo per scopi di guerra, vale a dire per le ambizioni dinastiche di statisti guerrafondai; ma anche in questo caso ce da dubitare che siano convenienti. Sono una fonte di rivalità nazionalistiche e all’occasione, quando queste rivalità sfociano, infine, nelle ostilità, possono diventare un contributo per la strategia militare. Ecco, pressappoco, come stanno le cose nella politica commerciale di una nazione: su richiesta di uomini d’affari che sperano di guadagnarci e con il cordiale appoggio del sentimento popolare, le autorità costituite favoriscono diligentemente l’incremento dei traffici marittimi e del commercio, sotto l’egida della potenza nazionale. Al tempo stesso spendono denaro ed energie diplomatiche nel tentativo di ampliare le possibilità offerte dal mercato internazionale a favore degli affaristi del loro paese, mirando –sempre con l’appoggio sentimentale dell’uomo comune ed a sue spese –a misure preferenziali vantaggiose. Per proteggere gli interessi commerciali e le proprietà dei suoi cittadini all’estero una nazione mantiene rappresentanze navali, militari, consolari e diplomatiche, a spese pubbliche. Il guadagno netto ricavabile dagli interessi e dagli investimenti all’estero, in circostanze favorevoli, non pareggerà mai il costo dell’apparato governativo creato per favorirli e proteggerli. I guadagni vanno agli azionisti e agli affaristi impegnati in queste iniziative, mentre le spese relative sono pagate, pressoché integralmente, dall’uomo comune, che non ne ricava alcun vantaggio. In genere, per esempio, quello che una tariffa protettiva o una legge preferenziale

di navigazione viene a costare all’uomo comune è del tutto sproporzionato al guadagno dell’uomo d’affari, a beneficio del quale egli si assume questo onere. A parte gli uomini d’affari, sempre favoriti, la sola classe che si avvantaggia da questo stato di cose è quella dei burocrati, che disbrigano le attività governative traendone stipendi e prebende il cui costo viene sottratto all’uomo medio che non è partecipe di nulla, se non del pagamento delle spese. L’uomo medio è orgoglioso e felice di portare questo peso a beneficio dei suoi vicini più ricchi, e fa tutto questo con la singolare convinzione di profittarne, in qualche modo misterioso. Tutto ciò è incredibile, ma è cosa di tutti i giorni. Se accade che questi interessi affaristici o investimenti all’estero siano messi a repentaglio da una perturbazione qualunque, le autorità nazionali si preoccupano, immediatamente, di usare tutti i mezzi a disposizione al fine di mantenere intatti i lucrosi traffici degli uomini d’affari, a spese dell’uomo comune. Se poi una simile funesta situazione giunge a tali sinistri eccessi da implicare una vera perdita per gli affari o comportare, altrimenti, un torto tangibile, diventa una questione di onore nazionale; e, a questo punto, dal momento che l’onore nazionale non ha prezzo, non è più necessario rispettare la proporzione tra i guadagni materiali in gioco e il costo del rimedio o della rappresaglia. La motivazione, in questo caso, si sposta dal terreno dell’interesse materiale al terreno spirituale dei sentimenti morali. In questo caso ad «onore» va dato, naturalmente, il senso eufemistico proprio del code duello, che presiede alle «questioni d’onore»; esso non comporta, cioè, alcuna connotazione di onestà, veridicità, equità, liberalità, o altruismo. Ovviamente, l’onore nazionale è, per sua natura, un bene intangibile e immateriale; è una questione di prestigio; è un concetto sportivo, il che non significa che sia meno efficace, come casus belli, dei beni materiali della comunità; al contrario «chi ruba il mio denaro, ruba una cosa spregevole»… Anzi, per l’esattezza, qualunque danno materiale deve di solito esser convertito in termini di capitale spirituale, prima di poter essere efficacemente utilizzato come incentivo per la guerra. Anche per un popolo mirante solo al proprio interesse, come la società americana, l’esperienza o la storia dimostrano che un’offesa all’onore nazionale provoca un risentimento più profondo e senza riserve di una semplice infrazione ai diritti della persona o della proprietà. Questo è stato di recente messo in evidenza dalle manovre dei vari belligeranti europei, miranti a far inclinare la neutralità americana al servizio dell’uno o dell’altro. Entrambe le parti hanno cercato di allettare e di intimidire, ma mentre l’una

ha fatto ricorso alla sfrontatezza ricorrendo, in modo ampio ed ostentato, a minacce e violenze contro le persone e le proprietà, l’altra ha mantenuto, costantemente, un atteggiamento di deferenza verso l’orgoglio nazionale americano, pur essendo impegnata in una continua violazione dei diritti commerciali americani. In tal modo la diplomazia degli uni, contrapposta alla non insuperabile astuzia dell’altra parte, si è condannata all’insuccesso e alla perdita del vantaggio strategico. Gli statisti di questa potenza belligerante europea sono stati così sconsiderati da adottare una linea d’intimidazione cumulativa nelle intenzioni, con crimini e minacce, man mano più gravi, contro la proprietà e la persona di cittadini americani. Queste manovre tendevano ad esercitare una pressione sull’attaccamento al denaro degli americani, senza però spingere il terrorismo ad un punto tale da suscitare un’intollerabile impressione di oltraggio. Ma l’esperimento è servito a dimostrare che il punto di rottura dell’indignazione popolare si raggiunge prima che il terrorismo diventi un problema serio di prudenza economica. L’onore nazionale che si considera indispensabile alla vita è una sostanza altamente immateriale, dal momento che non solo è fisicamente intangibile ma non è traducibile in termini di denaro, come avviene per i comuni beni immateriali. È vero che, quando il danno da cui insorge la questione dell’onore nazionale è un contrasto economico, l’onore nazionale non può esser sod disfatto senza un compenso pecuniario; ma non ci vorrà molto a convincere ogni persona di buon senso che, anche in un simile frangente, l’onore nazionale offeso è infinitamente e indefinibilmente superiore a quanto può registrare il libro di un contabile. Si tratta di un bene di grande valore, o almeno al possesso del quale si attribuisce un grande valore, ma è di natura metafisica e non fisica e pare che non abbia alcuno scopo materiale o altrimenti utile se non quello di fornire –qualora venga leso –un valido motivo di lamentela. Quest’onore nazionale può esser offeso in diversi modi, offrendo così una fruttuosa ragione di lagnanza, anche a prescindere da offese contro le persone o le proprietà degli uomini di affari di una data nazione; per esempio per negligenza o dispregio delle formalità convenzionali che regolano i rapporti diplomatici, per dispregio o insulto alla bandiera o alle persone di dignitari nazionali, specialmente quelli che hanno solo una funzione decorativa, o alle divise indossate da costoro, oppure non osservando il rituale prescritto nelle parate dell’onore nazionale, in determinate occasioni. Se debitamente violato, l’onore nazionale può esser debitamente reintegrato con analoghi mezzi

immateriali: per esempio recitando un’appropriata formula verbale, usando formalmente una data quantità di munizioni in segno di saluto, c abbassando una bandiera e simili… Procedimento che non può avere, naturalmente, che un’efficacia magica. In breve, l’onore nazionale si muove nel regno della magia e sfiora i confini della religione. Più esattamente, nella serie dei doveri spettanti alla difesa nazionale, le offese o i contrasti da cui bisogna difendersi o che bisogna riparare facendo ricorso alle armi hanno uno spiccato carattere cerimoniale. Quali che siano le circostanze materiali di un’offesa da giudicare e riparare, quando si scende in campo aperto, ricorrendo all’arbitrato delle armi, ciò che viene ad assumere un rilievo d’importanza decisiva per l’azione è il valore spirituale dell’offesa, in quanto, appunto, bisogna fare appello alla sensibilità dell’uomo della strada su cui ricadono le spese dell’avventura. In questi casi l’uomo comune si rivela in genere incapace di capire, senza l’intervento di qualcuno, come un atto ostile implichi un’infrazione sacrilega all’onore nazionale. In simili frangenti egli avrà difficoltà a raggiungere il punto massimo d’indignazione morale necessario a metter in moto la rappresaglia bellica, almeno finché gli abili interpreti del codice non intervengano a spiegare e a certificare la natura della trasgressione. Ma una volta che la lesione all’onore nazionale sia stata accertata, valutata e debitamente esibita dalle persone il cui ruolo nell’economia della nazione è quello di occuparsi di questo genere di cose, l’uomo comune non avrà difficoltà a risentirsi dell’affronto di cui egli, in forza dell’interpretazione, è rimasto vittima. 1. Il generale William T. Sherman (1820-1891), uno dei maggiori protagonisti della guerra di secessione di parte nordista, famoso per la sua spietata applicazione della tecnica della «terra bruciata». Nel 1864, dopo la distruzione di Atlanta, egli dichiarò: «Se qualcuno protesta contro la mia barbarie e la mia crudeltà, io risponderò che la guerra è l’Inferno! Se vogliono la pace, smettano di far la guerra». a. Una nazione moderna costituisce uno stato soltanto in rapporto o agli effetti della questione della pace o della guerra internazionale. 2. William McKinley (1843-1901). Presidente degli Stati Uniti dal marzo 1897 al settembre 1901. La guerra alla Spagna durò dal maggio al luglio 1898, e portò alla conquista di Cuba, di Portorico e delle Filippine. 3. La guerra boera si svolse nel 1899-1902. 4. La dinastia mancese (o Ts’ing) regnò dal 1644 al 1912. 5. La famosa formula coniata da Theodore Roosevelt, Presidente degli Stati Uniti dal settembre 1901 al marzo 1909. b. Ci asteniamo dal fare in questa sede un’eccezione dubbia e parziale per i paesi scandinavi e per la Svizzera. c. Cfr. per esempio EDUARD MEYER, England: its political organisation and development, cap. II7. ‘

6. Veblen aveva pubblicato una recensione del Meyer, con il titolo Another German Apologist, su «The Dial» del 19 aprile 1917. Eduard Meyer (1855-1930), storico tedesco, poi rettore dell’università di

Berlino. 7. Harald I Hàrfagr, re e unificatore della Norvegia sotto il suo prxre dispotico (860-933). La repubblica islandese fu appunto fondata da esuli norvegesi insofferenti del suo dispotismo; l’isola era stata scoperta e colonizzata incorno all’876,

CAPITOLO II. SULLA NATURA E GLI USI DEL PATRIOTTISMO Il patriottismo può esser definito un senso di solidarietà partigiana nei confronti del prestigio. Un esperto di psicologia, o forse di scienza politica, sentirebbe il bisogno di dire qualcosa di più preciso e di più approfondito, per fare un’analisi più esauriente di questa facoltà umana. Qui, tuttavia, non ci proponiamo di offrire una definizione, ma solo di identificare e descrivere il concetto che, grosso modo, sta alla base dell’uso colloquiale di questo termine, nei limiti richiesti da uno studio sulla funzione del patriottismo nella vita dei popoli moderni, in particolare nelle questioni di pace o di guerra. Anche cercando di purificare questo concetto da ogni elemento spurio o secondario, vi rimarrà sempre il fattore irriducibile dell’interesse comune per il prestigio collettivo. Questo è il nucleo fondamentale, intorno al quale gravitano molti e diversi interessi secondari e in assenza del quale gli altri ideali ed aspirazioni non riuscirebbero, da soli o nell’insieme, a rappresentare un vero simbolo e presidio dello spirito patriottico. Anche se, sotto un’altra luce o in un’altra situazione, uno qualunque di questi interessi, ideali, aspirazioni e beatitudini, può facilmente apparire più nobile, più saggio e forse più urgente del prestigio nazionale, quando entra in scena l’amor di patria, tutte le altre necessità della vita umana – la gloria di Dio e il bene dell’uomo – diventano, al paragone, solo sciocchezze di secondaria importanza. Sarebbe un ben tiepido patriota chi lasciasse che «la vita, la libertà e la ricerca della felicità» offu schino il problema e si frappongano cavanti alla questione più importante. Si dice che una volta ci fossero molti spiriti intrepidi e intraprendenti, raggruppati insieme lungo la rotta caraibica degli spagnoli per conseguire questi scopi, proprio come ai nostri giorni un ancor maggior numero di uomini, non meno decisi, combatte per la sua propria «vita, libertà, e ricerca della felicità», secondo propri criteri, sui mercati del denaro del mondo moderno; malgrado le loro ammirevoli qualità e gli splendidi successi, però, la loro appassionata ricerca di tali piacevolezze non ha dato a questi Avventurieri Gentiluomini il diritto di aspirare al titolo di patrioti. Il poeta

dice: Lottate per gli altari e i focolari! Lottate per le verdi tombe dei vostri padri! Dio e terra natia! Ma, ancora una volta, scorrendo con ponderazione la lista dei desiderata espressi nel volo poetico, ci renderemo conto che nessuno di essi è essenziale al punto che il suo abbandono possa pregiudicare il richiamo del dovere patriottico. In ultima istanza, quando lo spirito patriottico non può più contare che su se stesso, non è la riflessione sui meriti di tutte queste cose buone e belle in natura a dargli lo slancio verso il sacrificio estremo, è qualcosa di infinitamente più futile e infinitamente più urgente; basta soltanto – come avviene quasi sempre – che l’uomo sia imbevuto del giusto minimo di fanatismo patriottico. Le virtù che permangono irriducibili nel modello mentale del patriota non sono la fede, la speranza o la carità, in particolare non la carità, che una volta è stata nobilmente definita come la maggiore di esse. Forse, alla luce della ragione, come direbbe il dottor Kat-zenberger, l’amor di patria è la più futile cosa al mondo; ma, nel bene o nel male, la luce della ragione non ha nulla a che vedere con questo problema, non più dei «fiori che sbocciano a primavera». Evidentemente lo spirito patriottico è uno spirito d’emulazione, emulazione integrata con il senso della solidarietà. Appartiene alla categoria dello spirito sportivo più che a quella dell’efficienza nel lavoro. Ora, ogni impresa sportiva mira ad un successo antagonistico, che comporta necessariamente, in primo luo go, la disfatta e l’umiliazione di un rivale, a prescindere da ogni altra meta secondaria. Vuole ottenere un vantaggio differenziale contro un avversario; analogamente lo spirito competitivo che passa in genere, se non sempre, sotto il nome di patriottismo, cerca di ottenere questo vantaggio differenziale, danneggiando il competitore più che aumentando il benessere del proprio paese. Per l’esattezza il benessere non è affatto contemplato, se non come puntello per l’edificio del prestigio nazionale. Anzi il sentimento patriottico non raggiunge mai il culmine più alto dell’abbandono entusiastico, se non quando è incentrato su un’impresa di malevolenza concertata. Il patriottismo è di natura litigiosa e trova la sua piena espressione solo nello sfogo della guerra; il suo appello supremo ed ultimo sta nella morte, nel danno, nel disagio e nella distruzione dell’avversario. Con questo non vogliamo dire che lo spirito patriottico non è disposto a

tollerare altri sentimenti su questioni di pubblico interesse, ma solo che non ne ammette alcuno che contrasti con il richiamo del prestigio nazionale. Il patriota, al pari degli altri uomini, può essere mosso da molte diverse considerazioni oltre a quelle del prestìgio nazionale; considerazioni tra le più ammirevoli e ragionevoli o tra le più sciocche e maliziose, comprese nella gamma delle umane debolezze. Può esser benissimo un filantropo animato dalla più profonda sollecitudine per il bene comune, uno spirito religioso guidato in ogni sua azione dal costante timor di Dio, un artista, un dotto, uno scienziato, uno scialacquatore amante della dissipazione profana (sia negli dums che ai più alti livelli della raffinatezza), o impegnato in una rapace ricerca di guadagno, in qualità di uomo d’affari entro i limiti della legge, o di criminale fuori di essa, oppure può impiegare le sue energie migliori per favorire l’interesse della sua classe, a spese della nazione in generale. Tutto ciò è inteso come ovvio ed è una questione a parte. Ma se è un vero patriota dimenticherà tutti gli altri interessi non appena l’appello del dovere patriottico lo raggiungerà, per arruolarlo nella causa del prestigio nazionale. Nulla osta, anzi, che un cattivo cittadino sia un buon patriota; ma questo, viceversa, non implica che chi è un buon cittadino per altri aspetti, non possa essere un patriota molto mediocre. Molte e varie inclinazioni possono coincidere e confondersi con gli impulsi del patriottismo, rafforzandone l’energia propulsiva. Di norma, gli individui patriottici cercano di giustificare le loro tendenze con qualche scopo ragionevole di carattere estraneo, che ritengono di servire seguendo l’appello del prestigio nazionale. Per esempio, pensano di favorire il miglioramento e la diffusione della civiltà in genere o di una fede religiosa ipoteticamente degna di stima, di liberare in prospettiva l’umanità dalla servitù a dei padroni malvagi o a delle istituzioni superate; o, ancora, di contribuire alla pace e al benessere materiale degli uomini, nei confini della nazione o, imparzialmente, in tutto il mondo civile. In sostanza non v’è cosa desiderabile al mondo che un gruppo di patrioti non pensi di poter realizzare tramite il successo delle proprie particolari aspirazioni patriottiche. Il punto su cui non riescono ad accordarsi è quale sia la particolare egemonia nazionale, alla quale è connessa la realizzazione di questi mirabili propositi. Naturalmente gli ideali, le esigenze e gli scopi inseriti nel discorso patriottico, per prestare il colore della razionalità alle aspirazioni patriottiche, saranno tali da esser accettati e comunemente considerati autentici e legittimi da quel popolo ai cui occhi quella data impresa di guerra deve trovare favore.

Così, per esempio presso i seguaci dell’Islam, ferventi e pronti a tutto, lo statista patriottico (cioè l’uomo politico che decide di utilizzare il fervore patriottico popolare) farà appello, come ultima risorsa, alle esigenze e alle ingiunzioni della fede. Analogamente, lo statista prussiano teso alle imprese dinastiche si appellerà in nome della dinastia, della civiltà e dell’efficienza o, nella peggiore delle ipotesi, giustificherà dignitosamente l’apertura delle ostilità con la scusa del pericolo mortale e della legittima difesa. Tra i popoli di lingua inglese il modo migliore è dimostrare che la via della gloria patria coincide con la giustizia uguale per tutti, sotto l’egida di libere istituzioni; inoltre per una società intensamente commercializzata, come sono in genere quelle di lingua inglese, la prospettiva di benefici materiali a mezzo del commercio si presterà a fornire una giustificazione plausibile per un’impresa che miri al potenziamento del prestigio nazionale. Tuttavia, una promessa – quale che essa sia – di guadagno – d’ordine materiale o immateriale – non convincerà completamente il cittadino medio moderno e neppure i cittadini moderni più imbevuti di spirito nazionalistico. In genere, pur prescindendo dal notevole contingente di cittadini moralmente manchevoli, la cui presenza è scontata in ogni popolazione ibrida, il giudizio popolare, nel valutare i meriti e la convenienza di un’iniziativa o di una linea politica, non può approvarla completamente finché non le si dia un’impostazione morale, tale da farla quadrare con i dettami di una condotta giusta ed onesta. Solo a questa condizione potrà effettivamente identificarsi con le aspirazioni patriottiche. Per dare il massimo effetto pratico al fervore patriottico che anima ogni nazione moderna e metterlo così a frutto nel modo migliore, è necessario far apparire che le esigenze della giustizia sono coinvolte nel problema. Un rapido esame degli eventi storici moderni tra i popoli civili dimostra che non è possibile mobilitare in modo concertato e durevole lo spirito nazionale, senza chiamare all’appello le convinzioni morali della comunità. L’uomo comune dev’esser persuaso di star dalla parte della ragione. «Tre volte è armato chi sa d’aver ragione». Spesso le ragioni di questa convinzione possono essere abbastanza di maniera, ma la convinzione è indispensabile. La sanzione morale prescritta si può ottenere in vari modi e, tutto sommato, non è questione troppo difficile da sistemare. Nel caso più semplice e non infrequente può trattarsi di ottenere un trattamento equo per il commercio e gli investimenti economici tra cittadini o sudditi delle diverse nazioni rivali; la politica cinese della «Porta aperta»1 offre di questo un

esempio abbastanza sordido. Oppure può esser il desiderio antagonistico di aver parte nelle risorse materiali del mondo, «un posto al sole» come dice una frase pittoresca, oppure «la libertà dei mari» secondo un’altra formula ugualmente vaga ed antagonistica per fare appello all’equità internazionale. Queste richieste, che sono avanzate con l’aria di reclamare eque possibilità per il cittadino comune e pacifico, non hanno – è evidente – alcuna influenza reale sulle fortune dell’uomo medio, in tempo di pace, ed hanno significato per la nazione solo come entità combattente; a prescindere dal loro valore di prestigio, vale la pena di combattere per queste cose solo in quanto rappresentano un possibile strumento di lotta. In modo simile, si può fare appello alla sensibilità morale in nome della legittima difesa, in base al principio del «Vivi e lascia vivere», oppure far leva sul dovere, sia pure meno vincolante, di tutelare l’integrità nazionale di un vicino più debole, come estensione dello stesso principio di giustizia del «Vivi e lascia vivere». In un modo o nell’altro, comunque, è necessario pervenire alla certezza che gli stimoli dell’ambizione patriottica hanno la sanzione della necessità morale. Ciò non significa che la politica nazionale intrapresa con l’appoggio del sentimento popolare debba esser giusta ed equa, se vista spassionatamente dal di fuori, ma solo – e questa è tutta un’altra questione – che deve sembrar giusta ed equa all’influenzabile popolazione, le cui convinzioni morali sono indispensabili per realizzarla. Nessuna impresa patriottica viene in realtà affrontata, semplicemente o essenzialmente, sulle basi morali addotte per giustificarla, ma tali mutevoli pretesti devono esser presentati come alibi o attenuanti e devono esser accetti alla fede popolare. Non che l’uomo comune non sia di per sé abbastanza patriota, ma è un patriota frenato da un senso inquieto e travagliato del giusto e dell’onesto, per cui ogni azione concertata che faccia leva sul sentimento dell’uomo comune deve fare i conti con questa tendenza morale. Tuttavia il senso morale può esser abbastanza facilmente tacitato con un poco di giustizia, qualora l’inclinazione patriottica della gente sia già spiccata o rafforzata da un adeguato appello agli interessi egoistici. Nei casi in cui il fervore nazionale raggiunge l’eccitazione, anche assai tenui considerazioni attenuanti di diritto e di giustizia che, in circostanze normali, non reggerebbero ad un esame più attento, possono servire da giustificazione morale per qualunque folle impresa cui possa spingere la brama di prestigio nazionale. Quanto più esaltato è il fervore nazionale, tanto più tenue e trita potrà essere la sanzione morale prescritta. Di recente, mediante l’esaltazione cumulativa, sono stati raggiunti

risultati molto notevoli in materia. Evidentemente il patriottismo è uno spirito particolaristico di alienazione ed animosità tra gruppi di persone messe a confronto, che si nutre di paragoni antagonistici e genera reciproco impaccio e gelosia tra le nazioni. Spesso arriva al punto di ostacolare i rapporti e impedire gli scambi che gioverebbero palesemente al benessere materiale e culturale comune; mentre non di rado, anzi di norma, sfocia in una competizione dannosa. Tutto ciò si verifica nel mondo della civiltà moderna nonostante che il suo sistema di vita abbia notoriamente un carattere cosmopolita, sia per esigenze culturali che per struttura economica. La civiltà moderna è costruita su una scala troppo vasta, ha un carattere troppo complesso e multiforme, richiede la cooperazione di troppi e vari settori di ricerca, di esperienza e d’intuizione per accettare di esser prigioniera dei confini nazionali, se non a prezzo di mutilazioni e di ritardi intollerabili. La scienza e la cultura – orgoglio particolare della cristianità civile – sono non soltanto internazionali, ma omogeneamente cosmopolite. Di conseguenza da questo punto di vista non vi sono in effetti frontiere nazionali, se non quando, naturalmente, nelle fasi di intossicazione patriottica (come quella creata dalla guerra attuale) persino gli studiosi e gli scienziati sono temporaneamente travolti dal loro fervore patriottico. Ma in verità – e malgrado tutti gli sforzi contrari dell’oscurantismo e delle gelosie nazionali – è certo che la civiltà moderna è la civiltà della cristianità, nel senso più ampio, e non la civiltà dell’una o dell’altra nazione, considerata singolarmente, nell’àmbito del mondo cristiano. Solo in quanto partecipa e contribuisce alla civiltà occidentale in senso lato, ogni singola nazione può pretendere di esser considerata civile; ogni variante caratteristica di «colore locale» in fatto d’ideali, gusti e convenzioni non ha un autentico valore culturale, ma solo il significato di un particolare senza importanza, una sorta di energia sprecata che serve solo ad un estraneamento temporaneo. Analogamente lo stadio attuale delle tecniche industriali ha oggi carattere cosmopolita per la sua vastità e specializzazione, perché impiega necessariamente risorse diversificate, per il clima e per l’uso delle materie prime. Nessuna delle nazioni europee, per esempio, è in grado di far funzionare la sua industria con i mezzi tecnologici moderni senza attingere continuamente mate riali al di fuori dei confini nazionali. Nell’industria l’isolamento, l’esclusione dal mercato mondiale, significherebbero un’intollerabile perdita d’efficienza, tanto più accentuata quanto più un dato

paese ha adottato in pieno i sistemi industriali moderni. L’esclusione dalle fonti estere di rifornimento danneggerebbe seriamente più o meno tutti, impedendo loro di sfruttare i mezzi tecnologici; un’esclusione parziale, ottenuta con il sistema di tariffe protettive o inibitorie, diminuendo inevitabilmente l’efficienza di ciascuno, finirebbe per diminuire il benessere complessivo. Per il sistema culturale e tecnologico del mondo moderno lo spirito patriottico è come polvere negli occhi e sabbia negli ingranaggi; ovunque esso venga in contatto con le sorti dell’umanità contemporanea produce soltanto oscurantismo, sfiducia e ritardo. Eppure è eternamente presente nelle decisioni politiche e negli affetti dell’uomo comune, e non cessa di ottenere il rispetto di tutti come attributo primario della virilità e come requisito essenziale del buon cittadino. Non è esagerato affermare che a nessun’altra considerazione è consentito di sminuire le pretese dell’amor di patria e che questo amore può servire da giustificazione a qualunque peccato. Quando l’antico filosofo2 definì l’uomo «animale politico» egli intendeva proprio questo ed oggi la vecchia massima è più valida che mai. Lo spirito patriottico è nettamente in contrasto con la vita moderna, ma la prova dei fatti dimostra che le necessità della vita si piegano di fronte a quelle del patriottismo, ed ogni voce che dissenta da questo ordine di cose è una voce che grida nel deserto. Per chiunque sia incline a moralizzare sulle singolari incongruenze della vita umana, questa situazione sarà occasione di molte e fruttuose speculazioni. Lo spirito patriottico pare un carattere stabile della natura umana, un’eredità antica che perdura intatta, da tempo immemorabile, secondo la legge mendeliana sulla stabilità dei tipi razziali. È arcaico, non eliminabile – almeno non in modo permanente – e non può, sembra, esser modificato dalla riflessione, dall’istruzione, dall’esperienza, o dalla riproduzione selettiva. Dall’inizio della storia e, presumibilmente, per un periodo incalcolabile del passato preistorico, le stragi patriottiche hanno estirpato da ogni generazione la frazione più patriottica, con il risultato finale che il livello dell’ardore patriottico appare, oggi, più alto che mai. Al tempo stesso, con l’incremento della popolazione, della civiltà e delle tecniche industriali, il patriottismo è diventato ancor più nocivo pur essendo – secondo ogni verosimiglianza – onnipresente, potente e stimato come sempre. Il predominio costante di questo spirito arcaico tra i popoli moderni, insieme al fatto che è universalmente posto tra le più alte virtù, indurrebbe a pensare che si tratti di un carattere in sé ereditario, più affine ad una tendenza

impulsiva innata che ad un portato dell’abitudine; non si tratterebbe, insomma, di qualcosa che si può imparare e disimparare. Di generazione in generazione, la fedeltà patriottica può spostarsi da una nazione all’altra, ma, comunque, il fenomeno irrazionale rimane. Questo porterebbe anche a concludere che non si sia verificato alcun mutamento sensibile nel patrimonio ereditario della razza, almeno da questo punto di vista (nel periodo storicamente documentato o comunque deducibile, cioè aiù o meno dal primo Neolitico in Europa), malgrado vi siano state grandi possibilità di cambiamenti radicali nella popolazione europea, attraverso incroci, infiltrazioni, e spostamenti dei molteplici gruppi etnici che la compongono. Quindi, dopo una breve riflessione, si deve dedurre che, presumibilmente, questo carattere della natura umana deve esser stato utile ai popoli dei tempi più antichi, ad un livello di primitività ed infima barbarie; quando, cioè, i gruppi ancestrali della popolazione europea riuscirono per la prima volta a sopravvivere e dimostrarono la loro capacità di popolare quella parte della terra. Tale almeno è l’opinione diffusa, così diffusa da passare per un fatto ovvio e, come tale, da sfuggire di solito ad un esame più attento. Eppure non si tratta di una conseguenza necessaria, come una riflessione più accurata può dimostrare. Tutti i popoli europei hanno lo stesso atteggiamento a questo proposito, quale che sia il loro passato storico e quali che siano le diverse esperienze che, presumibilmente, ne hanno plasmato il temperamento. L’orgoglio e l’animosità patriottica delle diverse nazioni e località non variano di molto anche quando si ritiene che la composizione razziale della popolazione sia molto dissimile, come ad esempio tra i popoli della costa baltica e quelli del Mediterraneo. In fatto di spirito patriottico, sembra che ci siano maggiori variazioni di temperamento tra singoli individui, all’interno di una stessa comunità, che fra la media di una e la media dell’altra. Ma anche le differenze del carattere individuale che si riscontrano sulla questione del patriottismo sono, dopo tutto, sorprendentemente poco accentuate in rapporto alla vasta gamma di varianti individuali che la popolazione europea sembrerebbe offrire. I popoli d’Europa – singolarmente e nell’insieme – sono ibridi, composti dagli stessi elementi razziali, ma mescolati in proporzioni diverse. A qualunque latitudine – nel senso climatico più che in quello geometrico – la composizione razziale della popolazione dell’Europa occidentale è più o meno la stessa e cioè – all’atto pratico – identica, benché sempre di struttura ibrida. Nel senso della longitudine, invece, sempre considerando il clima, la

composizione razziale, pur rimanendo nell’ambito dello stesso modello ibrido, varierà progressivamente, alterando la proporzione in cui i diversi elementi razziali sono presenti in ogni singolo caso. Peraltro una notevole differenza di composizione razziale non coincide mai con una frontiera nazionale o linguistica, ed in fatto di mentalità patriottica i popoli europei si equivalgono, sia che il confronto venga fatto nel senso della latitudine che in quello della longitudine; gli abitanti di ogni singolo territorio nazionale o di ogni singola località hanno un atteggiamento sorprendentemente omogeneo quanto a spirito patriottico. L’ereditarietà in una qualunque di queste comunità di ibridi apparirà, ad un esame superficiale, più o meno regolata dal caso. In fatto di ereditarietà, nel mondo cristiano, non vi sono sensibili differenze tra le classi, per posizione sociale o censo; ma le variazioni – apparentemente casuali – sono vaste e onnipresenti tra i singoli individui di questa massa. Anzi è un dato di fatto, facile da verificare, che le varianti individuali, all’interno di questo ceppo ibrido, superano di gran lunga le differenze estreme riscontrabili tra i molteplici tipi razziali confluiti nel gruppo ibrido. È il caso del popolo europeo. Gli abitanti, come è prevedibile, variano notevolmente tra di loro nei caratteri fisici e mentali, al punto che sarebbe logico aspettarsi che anche le variazioni individuali in fatto di spirito patriottico fossero altrettanto profonde, superando di gran lunga le differenze, se ve ne sono, tra i singoli gruppi razziali fusi nella popolazione europea. Da questo punto di vista pare che vi sia qualche differenza apprezzabile tra individui, ma le varianti singole sono sporadiche rispetto alla media o alla norma e non sembrano dipendere da fattori di classe, professione, status o censo; né pare che si trasmettano conformemente di padre in figlio. A conti fatti, si torna ad affermare che le variazioni dello spirito patriottico sono saltuarie e senza importanza e non smentiscono la regola generale per cui gli abitanti dell’Europa e delle colonie europee sono nel complesso piuttosto saturi di patriottismo, in modo costantemente uniforme al di là delle differenze di tempo, di luogo e di circostanze. In effetti è estremamente azzardato affermare che vi sia uno scarto sensibile nell’intensità del sentimento patriottico normale persino tra due esemplari tra loro assai diversi di questa popolazione ibrida, anche quando la differenza nei tratti fisici visibili è molto pronunciata. In breve, sembra ragionevole concludere che, nell’insieme, i vari gruppi razziali confluiti nelle attuali popolazioni del mondo cristiano sono tutti ugualmente dotati di spirito patriottico, il quale pare esser un carattere

onnipresente, almeno tra le razze e i popoli della cristianità. Quindi, poiché fin dall’inizio nessun gruppo razziale o popolazione ibrida si è dimostrata più dotata di un’altra per quanto riguarda il patriottismo, non ci dovrebbe esser nessuna ragione perché alcune debbano sopravvivere ed altre esser eliminate nella selezione. Il predominio indisturbato e stabile di questa caratteristica tra le popolazioni europee antiche e moderne non consente di giudicarne l’utilità o disutilità relativa, nel corso dei vari stadi culturali e tecnologici; ma certo non si è dimostrata ancora abbastanza nociva da portare alla estinzione degli europei per mano gli uni dagli altria In precedenza abbiamo parlato della mentalità patriottica come se si trattasse di un carattere ereditario, alla stregua di un carattere unitario mendeliano. Certo il nostro non è un esame adeguato del problema, ma in questa sede non c’è bisogno di un’analisi più approfondita. Tuttavia per far tacere le obiezioni senza venir meno ai nostri impegni, possiamo notare che lo spirito patriottico risulta più affine ad una «mentalità» che ad un carattere unitario mendeliano. È composto cioè della concatenazione di varie tendenze impulsive (presumibilmente ereditarie); sia la concatenazione che le particolari modalità e l’ampiezza della reazione sono un prodotto dell’assuefazione, cioè degli usi e costumi sanciti dalla convenzione. Il che, dunque, significa semplicemente che l’atteggiamento che forma il necessario sostrato della mentalità patriottica è ereditario e che gli usi ed i costumi relativi sono abbastanza conformi da ottenere dei risultati più o meno uniformi. Si può aggiungere che nella concatenazione ora citata sembrano rientrare, di solito, l’attaccamento sentimentale a luoghi e costumi noto come amore per il proprio paese, o, nella sua forma più acuta, come nostalgia; inoltre, un antagonistico autocompiacimento unito ad un’inclinazione gregaria che estende alla collettività il confronto antagonistico e infine spesso, se non sempre, una tendenza all’abnegazione, all’auto-umiliazione, al servilismo (o comunque lo si voglia chiamare) che induce il soggetto ad accettare e servire in modo irragionevole e senza discussione un ideale obbligatorio imposto dal costume o da un’autorità abituale. Dovremmo così concludere, per il momento, che nella situazione attuale lo spirito patriottico è un fattore assolutamente negativo del patrimonio spirituale dei popoli, con sicurezza riguardo alle condizioni materiali di vita e, presumibilmente, riguardo agli interessi culturali; per quel che concerne il passato più remoto, invece, non c’è alcun fondamento certo per distinguerne la possibile utilità o la disutilità. Comunque, trova sempre credito la prudente

stima secondo la quale, dal momento che questo carattere spirituale non ha ancora condotto all’estinzione della razza, così anche in futuro si limiterà a produrre una certa quantità di disgrazie senza neppure arrestare o ritardare sensibilmente l’aumento della popolazione. Tutto ciò, è ovvio, va preso per quel che vale; non va considerato un modo di riprovare minimamente le nobili qualità che ispirano il cittadino patriottico. Nei suoi effetti economici, biologici e culturali, il patriottismo pare un elemento funesto della natura umana, ma questo, naturalmente, non compromette la sua eccellenza morale, il suo valore estetico o l’essenzialità della sua presenza per una vita degna di questo nome; anzi, da questo punto di vista, si merita tutte le lodi e le esaltazioni di cui è oggetto. In realtà, per quel che ci riguarda, il suo ben noto valore morale ed estetico e la riprovazione che accompagna ogni manchevolezza in tale aspetto significano soltanto che l’amor di patria incontra l’approvazione senza riserve degli uomini, poiché questi ne sono tutti più o meno contagiati. Esso testimonia della presenza universale, intima e inestirpabile di questo attributo nella natura umana, tanto più che continua instancabilmente ad esser tenuto nella più alta stima, malgrado che un minimo di riflessione potrebbe chiarire alla più povera delle intelligenze quanto sia nocivo. Come domandare una prova di maggior nobiltà morale e di fedeltà più profonda di questo elogio senza riserve per una virtù che produce invariabilmente danno e disagio? Dev’esser profondo e indefettibile l’impulso virtuoso che induce gli uomini a fare inarrestabilmente il bene perché ne nasca il male: «Anche se Egli mi uccide, io avrò fiducia in Lui». Alla luce – una luce incerta e vacillante – delle prove archeologiche e con l’aiuto di prove indirette tratte da esempi analoghi o paralleli, osservabili presso delle società che vivono attualmente ad un livello di civiltà paragonabile, si può tentare, più o meno fiduciosamente, di ricostruire i costumi di vita tra i primi europei, del primo periodo neolitico ed oltreb. Ci si può fare così una qualche idea della funzione svolta dal patriottismo agli inizi, quando, se non la razza, almeno le istituzioni erano giovani ed il temperamento originario di questi popoli veniva messo alla prova, rivelandosi atto a sopravvivere, attraverso le lunghe e lente età della pietra e del bronzo. A questo proposito è noto che dai primi tempi neolitici non c’è stato alcun mutamento notevole nella composizione razziale dei popoli europei, e, di conseguenza, nessun mutamento notevole nella loro struttura spirituale e mentale. Cosicché, per quel che riguarda le componenti spirituali dell’amor di

patria, gli europei di oggi dovrebbero esser sostanzialmente identici agli europei di quegli antichi tempi. Lo stesso può dirsi degli altri fattori di temperamento di cui si è parlato come di caratteristiche stabili e che tuttora condizionano la vita di questi popoli, nelle mutate circostanze dell’età moderna. La differenza tra l’Europa preistorica e quella attuale si risolve in sostanza in una differenza nello sviluppo delle tecniche industriali, insieme ai mutamenti istituzionali determinati dal progresso di queste. Le abitudini e le esigenze di vita dei popoli sono profondamente cambiate ma, per temperamento e capacità, i popoli che vivono oggi sotto l’egida del nuovo stadio tecnologico sono quelli che erano prima. Notiamo però che il fatto di aver superato con successo le lunghe età della preistoria grazie all’impiego delle loro doti mentali e spirituali non significa per ciò stesso che essi siano in grado di affrontare le esigenze di questa età posteriore e profondamente diversa; né del resto si può presupporre che l’aver essi stessi elaborato la civiltà e la tecnologia moderna implichi che questa sia necessariamente adatta ai loro scopi o che favorisca il loro successo biologico. La sola lezione obiettiva della società urbana contemporanea – con le sue infinite esigenze di igiene, polizia, educazione obbligatoria, attività di beneficienza – insieme alle molte altre incongruenze della vita moderna, dovrebbero render cauto chi sia troppo incline a credere che, dal momento che gli uomini moderni le hanno create, queste debbano esser le condizioni di vita più adatte all’umanità di oggi. Agli inizi, cioè agli inizi dell’Europa, gli uomini vivevano in gruppi piccoli e uniti. Il controllo all’interno della comunità era rigoroso, e la necessità di subordinare i vantaggi e le preferenze individuali al bene comune era imposta al gruppo dalle esigenze della situazione, sotto pena di estinzione per tutti. Le condizioni e gli usi dei villaggi eschimesi attualmente esistenti possono servire da esempio e da conferma alla nostra tesi. La solidarietà di sentimenti, che è presupposto della solidarietà nell’azione, è una condizione primaria di sopravvivenza per un gruppo razziale che viva nelle condizioni ambientali dei primi europei. Allora, l’indispensabile senso di solidarietà riguardava non soltanto né in modo più imperativo il prestigio collettivo del gruppo quanto gli interessi materiali comuni, tendendo a creare uno spirito di collaborazione e di dipendenza reciproca. Un sentimento geloso del prestigio collettivo tende a rafforzare più che a indebolire questo spirito, almeno finché l’interesse divergente di qualche membro del gruppo non cerchi di volgere a proprio esclusivo vantaggio il sentimento comune.

Un tale stato di cose dev’esser durato relativamente a lungo, abbastanza a lungo da dimostrare che quei popoli erano adatti a quel tipo di vita, più a lungo senza dubbio del periodo trascorso dall’inizio della storia. Gli interessi particolari – familiari e personali – dovevano esser presenti e attivi in quei giorni remoti, ma finché il gruppo era abbastanza ristretto da permettere un intenso rapporto di vicinato in ogni sua parte, anche nel corso della routine del lavoro quotidiano, essendo al tempo stesso troppo piccolo e debole per consentire anche la minima dissipazione delle sue energie collettive in favore di profitti, egoistici che avrebbero contraddetto allo scopo primario della sopravvivenza generale, il senso dell’interesse e del destino comune riuscirono a tenere a freno le ambizioni particolaristiche. Se le cose fossero andate altrimenti la storia di questo gruppo avrebbe avuto fine ed un altro tipo di uomo, più adatto alla situazione, avrebbe preso il posto lasciato vacante. In seguito ad un notevole progresso delle tecniche industriali, la portata delle attività divenne più ampia ed il gruppo più numeroso ed esteso. Cominciò ad allargarsi anche il margine tra produzione e sussistenza, per far posto alle ambizioni personali ed ai profitti individuali. Attraverso questo processo di espansione e di aumentata efficienza produttiva il controllo esercitato dalla sorveglianza del vicinato, per mezzo del sentimento del bene comune contrapposto agli interessi egoistici degli individui e dei sotto-gruppi, si indebolì gradatamente fino a cadere, per mancanza di esercizio, quasi in abbandono. Si risvegliava ed incitava ad azioni concertate soltanto in circostanze eccezionali che interessavano le sorti del gruppo nel suo insieme, o nel caso si fosse persuasi che l’interesse collettivo era messo a repentaglio da qualche sopruso subito dall’esterno da uno dei membri. Si riteneva che per lo meno il prestigio del gruppo avrebbe sofferto della sconfitta o delle molestie arrecate ad uno dei membri da qualche straniero. Quindi sotto l’impulso dell’antico senso di solidarietà di gruppo, se i singoli membri della comunità ricevevano danni o vantaggi materiali dai loro rapporti con gli stranieri, questi venivano considerati senz’altro come danni o vantaggi materiali per tutta la comunità da parte di uomini il cui senso dell’interesse comunitario era acuito da una gelosa disposizione a tutelare il prestigio collettivo della comunità. Con il continuo progresso delle tecniche industriali, le circostanze condizionanti la vita subirono un mutamento progressivo, cosicché l’interesse materiale collettivo del gruppo venne a coincidere sempre meno con le fortune materiali di ogni singolo membro, finché – con il passar del tempo – non vi fu più in effetti, in tempi normali, alcuna vera comunità di interessi, tale da

indurre i singoli a collaborare alla sussistenza di tutti. Con l’entrata in vigore del diritto di proprietà, man mano che il possesso della proprietà e la ricerca dei mezzi di sussistenza secondo le regole della proprietà sono giunti a governare le relazioni economiche umane, questi rapporti cessarono di appartenere alla sfera dell’interesse collettivo indiviso per entrare nel dominio degli interessi privati. Con il concretarsi dell’istituto della proprietà, gli interessi materiali hanno cessato di seguire le direttive della solidarietà di gruppo, e soltanto o quasi esclusivamente nel caso eccezionale della difesa da un’aggressione predatoria esterna i membri del gruppo hanno un interesse materiale in comune. Con il perfezionarsi delle tecniche, l’organizzazione industriale ha assunto proporzioni più vaste con un maggior grado di specializzazione, approfondendo il divario tra gli interessi e le sorti dei singoli; al tempo stesso i rapporti a più vasto raggio sono diventati più facili, aumentando le proporzioni numeriche dei gruppi; il che, a sua volta, permette di mobilitare forze più numerose, pronte ed efficaci per difendere o affermare le esigenze collettive. Ne consegue però, pare almeno nel caso dell’Europa, che l’accumulazione dei beni e il diritto alla proprietà hanno assunto progressivamente il ruolo fondamentale tra gli interessi materiali dei popoli, mentre il senso di una comunità di utili è impercettibilmente caduto in secondo piano, e in breve è in pratica decaduto, salvo quale eventuale rimedio in extremis’per la difesa comune. I diritti di proprietà hanno detronizzato gli interessi comunitari, ed antagonistiche distinzioni tra persone, sotto-gruppi e classi hanno sostituito, nella vita quotidiana, la comunità del prestigio. Le distinzioni tra persone o classi contrapposte si basano sempre più, direttamente o indirettamente, su confronti antagonistici delle possibilità economiche, anziché sull’appartenenza del singolo al gruppo nel suo insieme. Così, con il progresso delle tecniche industriali, è nato un nuovo tipo di differenziazione sempre più radicale ed efficace, dando vita a una redistribuzione tracciata su linee che non hanno nulla a che vedere con le frontiere che dividono una comunità dall’altra a scopo di emulazione patriottica. Per i nostri fini questa redistribuzione obbedisce a due categorie fondamentali* distinte ma in un certo senso correlate: ricchezza e miseria, padrone e servo, ovvero autorità e obbedienza. In breve, gli interessi materiali della popolazione si dividono fra il gruppo di coloro che possiedono e dànno ordini, da una parte, e quelli che lavorano e obbediscono, dall’altra. Nessuna di queste categorie contrapposte è direttamente interessata alla conservazione della comunità patriottica, o almeno non lo è in modo tale da

indursi a spender tempo e denaro in favore dell’organizzazione politica (patriottica) nel cui ambito essa vive. Un certo gruppo o una certa classe è indotta a sopportare la sua parte di spesa in un’impresa collettiva solo se – presumibilmente – può aspettarsene una quota di guadagno più che proporzionata. Soltanto se il suo interesse particolare o il suo senso del prestigio è rafforzato dall’orgoglio patriottico, si può supporre che essa s’impegni in un’impresa patriottica senza garanzie di ricavarne un profitto più che proporzionato; e la comunità politica rimane un’impresa collettiva soltanto nei riflessi patriottici. Vale a dire, più genericamente, che lo sviluppo dei diritti di proprietà e di altri privilegi e prerogative vincolanti del genere ha eliminato gli altri interessi comunitari, fino al punto che il prestigio collettivo rimane virtualmente il solo interesse comune, capace di unire il sentimento del gruppo in un vincolo di solidarietà. L’organizzazione politica può offrire dei vantaggi all’uno o all’altro di questi gruppi o classi interessate nell’àmbito della comunità, ma solo all’uno o all’altro, non a ciascuno congiuntamente e collettivamente. Infatti i profitti di una certa impresa congiunta da parte della comunità nel suo complesso non pa reggiano mai il suo costo, in quanto ogni impresa collettiva che miri al guadagno usa sempre degli accorgimenti inibitori che riducono l’efficienza complessiva dei paesi interessati, nel tentativo di favorire economicamente l’uno a scapito dell’altro. Per esempio, una tariffa protettiva è palesemente una congiura a danno del commercio, che si propone di favorire i congiurati, ostacolando i loro concorrenti. Il costo complessivo dell’impresa per la comunità nel suo complesso, dati i ritardi che produce, è sempre superiore ai guadagni che arreca ai suoi eventuali beneficiari. Nel parlare in tal modo degli scopi per cui può esser utilizzato il fervore patriottico dell’uomo comune, non intendiamo affatto sottovalutarne il valore intrinseco di carattere illuminato e generoso della natura umana. Senza dubbio lo si apprezza meglio come qualità spirituale che abbellisce e nobilita e conferisce all’uomo la sua piena statura virile, se si mettono da parte altre considerazioni. Così, possiamo ammettere tranquillamente che lo spirito patriottico è una mentalità lodevolissima e dotata di un valore estetico mai abbastanza esaltato neppure nei più alti voli della licenza poetica. Ma la sua utilità per la società moderna – a parte il suo aspetto decorativo – e in particolare la sua utilità per le esigenze attuali dell’uomo medio, nella società moderna, è tutt’altra questione. Riconoscerne la generosità spirituale non permette di rispondere all’altra domanda su come e con quali conseguenze

questo sentimento possa esser usato a proprio vantaggio da chiunque sia in grado di sfruttare le forze che esso sprigiona. Nelle nazioni cristiane esiste ancora, tutto sommato, una decisa predilezione per l’antico e autentico tipo di prestigio nazionale che è associato al valore militare. La gloria militare è, appunto, la prima cosa che viene in mente tra i popoli civili, quando si parla di grandezza nazionale. Inoltre, per coloro che hanno meglio conservato il combattivo ideale dell’onore, l’orgoglio patriottico coincide, in genere, con il prestigio del sovrano, assumendo così la forma di una fedeltà personale verso un padrone, associata e integrata con una mentalità servile. Ma anche la pace ha le sue vittorie, non meno celebri di quelle in guerra, si dice. Così la brava gente pacifica d’umore patriottico ha cercato di trarre il meglio dalla sua misera situazione, trovando soddisfazione in vittorie di natura pacifica. Tutte le nazioni, così, guardano con compiacimento alla loro particolare civiltà – il complesso organizzato di abitudini di pensiero e di condotta che regola la loro vita – come se avesse, in qualche modo, maggior valore di quella corrispondente dei loro vicini. Il caso della civiltà germanica è venuto di recente alla ribalta per questa ragione. Sebbene le altre nazioni non abbiano commesso l’ingenuità di dichiarare come professione di fede il fatto che il loro particolare sistema di vita è senz’altro raccomandabile, anzi l’unico adatto a sopravvivere, non è assurdo affermare che anche queste altre nutrono – in segreto – la stessa consapevolezza di unicità. Una virtù consapevole del genere è – entro certi limiti – un ottimo terreno per una montatura patriottica, anche se – di regola – si limita ad un atteggiamento difensivo. Ma, di tanto in tanto, – come nel caso della recente esaltazione tedesca – i fenomeni di usi e costumi nazionali possono arrivare a ottenere un tal grado di ammirazione popolare, da incitare ad una campagna d’aggressione o di proselitismo. In tutto ciò non v’è nulla di egoistico o di rapace. L’uomo medio che si presta a potenziare aggressivamente la civiltà nazionale non ha nulla da guadagnare in senso materiale dalla maggior fama che ricade sul suo sovrano, la sua lingua, l’arte o la scienza dei suoi compatrioti, il suo regime alimentare o il suo Dio. Non ci sono motivi ignobili in tutto ciò. Questi beni spirituali, fonte di autocompiacimento, vanno considerati come segni di nobile patriottismo, senza secondi fini. Queste aspirazioni ed entusiasmi verrebbero forse giudicati donchisciotteschi da uomini il cui orizzonte è circoscritto al proprio interesse; ma esse rappresentano anche la sostanza delle aspirazioni che servono a fomentare quelle impetuose animosità patriottiche oggetto di

universale ammirazione. Gli uomini fanno oggetto di confronti antagonistici anche dei fattori di grandezza fisica, come la superficie del proprio paese, il numero degli abitanti, la grandezza delle città, la disponibilità di risorse naturali, il reddito collettivo e quello prò capite, la marina mercantile e li commercio estero. Come ragioni di compiacimento antagonistico, gli elementi di grandezza fisica o i traffici finanziari non sono né peggiori né migliori di attributi immateriali come la maestà del sovrano o la perfezione della lingua. Sono questioni che riguardano l’uomo medio solo per una coincidenza di domicilio e l’unico rapporto che egli abbia con queste cose è un interesse immaginario per la loro imponenza. In pratica, non vi ha contribuito e non ne deriva altro merito o vantaggio che un’esaltazione patriottica. Egli trae motivo di orgoglio da queste cose in modo antagonistico e non vi è ragione che non lo faccia, proprio come non vi è ragione che lo faccia, a parte che l’uomo medio è così fatto che misteriosamente si inorgoglisce di cose che non lo riguardano. Nelle condizioni attuali, dei vari gruppi o classi di persone viventi entro le frontiere politiche, i cui interessi particolari sono sistematicamente in contrasto con quelli generali della comunità, quella più palesemente nemica di tutti gli altri e delle sorti dell’uomo medio quanto a motivi ed interessi sostanziali, è la classe dei padroni, dei signori, delle autorità, o comunque si voglia chiamare la categoria di persone la cui occupazione caratteristica è quella di dare ordini ed esigere deferenza. Questa classe comprende le autorità civili e militari e ogni tipo di aristocrazia autorevole e privilegiata. In sostanza, l’interesse di queste classi per il benessere comune è simile all’interesse del parassita per la salute del suo ospite; un interesse piuttosto fondamentale, è vero, ma per nulla simile ad una vera comunanza di interessi. Ogni guadagno della comunità serve materialmente le esigenze di questo gruppo di personaggi solo nella misura in cui può offrire loro maggiori possibilità ed occasioni di effettuare quella che è stata di recente definita colloquialmente una «frode». Naturalmente non si deve parlare di questi personaggi mancando loro di rispetto o con la più piccola sfumatura di scortesia. Sono tutti uomini dabbene, anzi offrono il modello convenzionale della dignità umana e delle azioni degne di lode, presso di loro si trova la «fonte dell’onore». Il punto della questione è che i loro interessi materiali, o altrimenti egoistici, sono tali da esser favoriti dal benessere materiale della comunità e in particolare dall’espansione delle istituzioni politiche, ma solo a condizione che l’aumento di benessere e di potere avvenga senza comportare un costo corrispondente

per questa classe. Al tempo stesso la classe dei potenti è in un certo senso un organo specializzato nel prestigio, il cui valore e la cui posizione, sia agli occhi della comunità che ai loro propri, è soprattutto un «valore di prestigio» e una posizione basata sul prestigio. Quindi, poiché il prestigio proiettato sulle loro persone è un’ombra del presunto valore collettivo della comunità, il loro interesse particolare per il prestigio collettivo è singolarmente vigile e insistente. Certo però questi personaggi non possono, con le loro sostanze o con le loro iniziative, contribuire al prestigio collettivo nella stessa misura in cui vi debbono necessariamente attingere per sostenere il loro. Sarebbe, in altre parole, un assurdo chiedere alie attuali classi dirigenti – dinastie, nobiltà, esercito e diplomazia – in una qualunque nazione europea, di tutelare, per esempio, la loro attuale dignità, e ottenere la deferenza che viene loro comunemente accordata, ricorrendo al proprio potere o impegnando le proprie sostanze, senza sfruttare la comunità di cui sono l’organo di dignità. Senza sfruttare quello della comunità non potrebbero, da sole, creare o mantenere il prestigio di cui attualmente godono. Ma una tale possibilità non rientra nell’àmbito del problema. Stando così le cose, quindi, il primo pensiero di questi personaggi è procurarsi e conservarsi il diritto di sfruttare adeguatamente le risorse materiali e la buona volontà di una popolazione abbastanza grande e industriosa. La buona volontà, d’obbligo in questo caso, è chiamata fedeltà, e questi personaggi che commerciano in prestigio riescono a conservarla grazie ad una sovrapposizione d’idee, per cui l’onore nazionale viene a confondersi, nella considerazione popolare, con il prestigio dei personaggi che lo hanno in custodia. Ma i potentati e le istituzioni civili e militari, su cui si regge il valore di prestigio, verranno inevitabilmente a confronti antagonistici con ai tri della loro specie e, – come accade invariabilmente nei confronti antagonistici – le esigenze emulative di tutti i concorrenti al prestigio diventeranno «estensibili all’infinito», come dicono gli economisti. Ciascuno di loro può avere improvvisamente bisogno di un ulteriore aumento di prestigio e quindi di un incremento delle risorse di uomini e di mezzi materiali, indispensabili per affermare e potenziare l’onore nazionale. È vero che la coscienza del fatto che il loro prestigio è, in un certo senso, condizionato dalle circostanze materiali e dall’immaginazione popolare del paese non piace a molti degli apostoli dell’onore nazionale. Sarebbero più inclini a pensare che questo valore di prestìgio sia piuttosto un attributo singolare, unico e intrinseco delle loro persone. Ma ovviamente questa distinta

serie di magnati, notabili, re e mandarini, la cui distinzione si basa semplicemente su un’intelligenza leggermente inferiore alla media e su un aspetto fisico moderatamente scrofoloso, non potrebbe conservarsi a lungo la fervida deferenza che considera dovuta. Un tale ritratto della maestà sarebbe tristemente fuori posto. Non c’è molta convinzione, né molta dignità, nel dichiarare semplicemente: «Siamo qui perché, siamo qui perché, siamo qui perché siamo qui», anche quando la filastrocca è debitamente accompagnata dal beneficio retorico di una «sovranità per grazia di Dio». I personaggi investiti di questa dignità hanno bisogno dell’appoggio di una popolazione decisa e patriottica, che in genere non hanno grandi difficoltà a procacciarsi. Del resto il loro valore di prestigio è in effetti proporzionale al volume di risorse materiali e di credulità patriottica a cui si può attingere per la sua affermazione. È vero che attìngono il necessario appoggio sentimentale e finanziario giustificandolo con grandi affermazioni di una sua utilità al bene comune, che vengono facilmente, anzi fervidamente, accettate e soddisfatte benché l’ipotetico beneficio sia difficilmente visibile se non alla luce gloriosa proiettata dalla fiaccola ardente del patriottismo. Quando è di natura materiale, il beneficio che le autorità costituite si impegnano ad offrire alla comunità o, in altre parole, ad assicurare all’uomo medio, può esser di due tipi: difesa contro un’aggressione esterna e incentivo ai guadagni materiali della comunità. Si deve presumere che le stesse autorità costituite credano, più o meno implicitamente, di servire in tal modo le necessità dell’uomo medio, come affermano. La difesa comune è una questione abbastanza seria che merita, senza dubbio, i migliori sentimenti e sforzi del cittadino; ma, a questo punto, non è più il caso di considerarla un servigio che le autorità costituite renderebbero al cittadino. Ogni organizzazione governativa nazionale è utile da questo punto di vista soltanto perché si contrappone ad un’altra all’esterno; cosicché – a guardar bene – si tratta sempre di una competizione patriottica tra le aspirazioni di diverse nazioni, capeggiate da diversi governi; in tal modo il servigio reso dalle autorità costituite nel loro complesso prende, tutto sommato, l’aspetto di un rimedio per dei mali da esse stesse creati. È invariabilmente una difesa contro l’aggressione preordinata di altri patrioti. In senso lato, la difesa di una data

nazione diventa un dettaglio della lotta concorrenziale tra nazioni rivali animate da un comune spirito patriottico e guidate da autorità create a questo scopo. Non esisterebbero delle vere aggressioni internazionali senza una solida base di devozione patriottica e senza la guida di un governo ambizioso. La difesa comune, dunque, va considerata un rimedio per i mali originati dallo spirito patriottico che anima il genere umano e che viene utilizzato da un’autorità discrezionale. Quindi, facendo il bilancio dell’utilità e disutilità dello spirito patriottico e del suo impiego da parte delle autorità costituite, la si può considerare, al massimo, un modo di attenuare alcuni dei disordini creati dall’esistenza di governi nazionali fondati sulla fedeltà patriottica. Se si vuole però dar conto delle imprese nazionali moderne, la difesa collettiva non è una voce priva di significato, perché è la scusa comune e determinante degli statisti dinastici e degli aspiranti condottieri, ed è lo schermo al cui riparo si mettono abitualmente in moto gli eventi per le potenziali ostilità. Pare che i preparativi di difesa debbano sfociare immancabilmente nelle ostilità. Con maggiore o minore bona fides gli statisti ed i guerrieri si fanno campioni della causa della difesa comune e l’uomo medio si presta con entusiasmo all’impresa, travisata in questo modo. Man mano che l’attrezzatura difensiva cresce e diventa formidabile, aumenta smisuratamente il numero delle cose che una nazione patriottica considera come diritti da difendere, finché con il sovrapporsi delle rivendicazioni difensive tra le nazioni rivali la distinzione tra difesa ed offesa scompare, salvo che nell’immaginazione tendenziosa dei patrioti rivali. Ci asterremo dal fare a questo punto delle riflessioni sull’attuale campagna americana all’insegna dello «stato di preparazione» che, a parte il livello d’isterismo, non sembra moko diversa dall’analogo processo di autointossicazione delle nazioni europee, che è esploso nella situazione presente dell’Europa. Dovrebbe esser risolutivo per ogni osservatore nel pieno possesso delle sue facoltà il rammentare che tutte le nazioni civili dell’Europa belligerante sono convinte di esser impegnate in una guerra difensiva. Si presume che la «pace con onore»3 sia l’aspirazione di tutti i cittadini di buon senso. In tal modo il prestigio nazionale viene primo ed ultimo tra gli interessi nazionali da difendere ed al cui servizio l’uomo medio mette le sue sostanze e i suoi affetti, sotto l’egida del valore nazionale. Le autorità costituite sono indubbiamente sincere e convinte nello sforzo di promuovere e difendere l’onore nazionale, specialmente quando il loro potere si basa su una

forma di vassallaggio feudale. Infatti il prestigio nazionale, in questo caso, si identifica con il prestigio del suo capo come, del resto, la sovranità nazionale coincide con la sua persona. Difendendo o promuovendo il prestigio nazionale il sovrano dinastico o l’autocrate, insieme agli altri privilegiati che lo assistono e che da lui dipendono, non fa altro che occuparsi del proprio interesse. Il suo è un potere fondato sul prestigio, la cui stabilità dipende dalla costanza della fantasia popolare che investe la sua persona del prestigio nazionale, facendone custode lui stesso e la sua schiera di notabili e di dignitari. Tuttavia gli statisti, i potentati, i notabili, i re e i mandarini tengono costantemente a sottolineare che l’insegna del valore nazionale, posta nelle loro mani, difende anche molti interessi di natura più concreta e più tangibile. Ma anche questi altri e più tangibili interessi della comunità hanno un valore diretto e personale per la dinastia e la sua gerarchia di subalterni privilegiati, in quanto, appunto, il prestigio dinastico cresce e si conserva solo facendo uso delle forze materiali della nazione. Quindi l'interesse delle autorità costituite per il benessere materiale della nazione è profondo e attento, pur essendo, evidentemente, un interesse particolare e soggetto a speciali e rigide limitazioni. Il bene comune, in senso materiale, interessa lo statista dinastico solo come mezzo per fini dinastici, cioè solo in quanto può servire a conseguire scopi quali «il regno, il potere e la gloria», come dice la formula sacra usata in altro contesto. Cioè, il benessere materiale della nazione serve a sviluppare il potere dinastico, sempre che alla prosperità economica non sia consentito di espandersi in modo tale da far sfuggire la comunità al controllo dello statista dinastico. Il benessere nazionale è accetto solo se conduce al successo politico, che, in ultima analisi, è sempre una questione di vittoria in guerra. Le limitazioni che queste considerazioni impongono alla politica economica del governo mirano a fare della nazione una comunità economicamente autarchica, tale, insomma, da essere autosufficiente almeno in caso di necessità, e in tutti i campi che hanno un rapporto diretto con l’efficienza bellica. È ovvio che nella situazione attuale, e volendo usare la tecnologia moderna, nessuna comunità può essere completamente autosufficiente, se non ricorrendo a misure repressive così drastiche, da ridurne in modo intollerabile l’efficienza globale. Questo vale anche per nazioni che, come la Russia o gli Stati Uniti, hanno un territorio molto esteso e risorse assai ampie e varie, ma si applica, a maggior ragione, ad unità territoriali più piccole e meno ricche di

risorse. I popoli che vivono in condizioni moderne, servendosi delle industrie moderne, utilizzano materiali e prodotti che possono procurarsi vantaggiosamente da ogni angolo del globo, fuori del loro particolare àmbito, almeno finché è loro consentito l’accesso alle fonti estere di rifornimento; quindi ogni limitazione arbitraria della libertà di scambio rende più dure le condizioni di vita e abbassa di altrettanto il livello di efficienza dell’intera comunità. L’autarchia nazionale si raggiunge solo a prezzo di un certo isolamento economico che, se implica un certo impoverimento e una diminuzione d’efficienza, prepara meglio la nazione alla guerra, almeno nei limiti consentiti appunto dalla riduzione della sua efficienza. Quindi il meglio che lo statista dinastico può fare in materia è uno scaltro compromesso, che renda il paese abbastanza autonomo in caso di necessità, comportante un certo isolamento economico, senza però ridurre l’efficienza nazionale ad un livello tale da danneggiarne le forze produttive in misura tale da non poter esser compensata dalla maggior preparazione alla guerra così conseguita. In definitiva, questa politica d’isolamento e di autosufficienza mira necessariamente ad una misura d’inibizione tale da produrre i mezzi di guerra nel modo più semplice ed efficace, cioè la massima quantità d’efficienza bellica ottenibile moltiplicando l’efficienza netta della nazione per la sua rapidità nel correre alle armi. Bisogna considerare, inoltre, un fattore secondario di questo problema tattico e cioè che l’umore patriottico della nazione è sempre, più o meno, influenzato da una politica economica del genere. Quanto maggiore è l’isolamento effettivo e la discriminazione messa in atto dalla politica nazionale, tanto più il sentimento popolare reagirà nel senso dell’animosità nazionale e dell’autosufficienza spirituale, il che può esser di grande appoggio ai fini di un’impresa di guerra. Evidentemente lo statista dinastico che promuovesse il benessere nazionale, prescindendo dalla sua utilità per la guerra, andrebbe contro il suo stesso interesse. In effetti, si avvierebbe a mantener fede alle sue consuete dichiarazioni sulla pace internazionale, invece di professarle soltanto, come gli impongono le esigenze convenzionali della sua impresa nazionalistica; insomma, sarebbe veramente functus officio. Al servizio di quest’opera di repressione e di autosufficienza nazionale, l’uomo politico imperialista dispone di due grandi strumenti amministrativi: la tariffa protettiva e la sovvenzione commerciale. Non sempre si può distinguere bene tra le due cose, dato che ciascuna, poi, si dirama in un

groviglio variegato di dettagli, ma i princìpi che le ispirano sono, dopo tutto, chiari e coerenti. La prima è una specie di complotto per impedire il commercio, reprimendolo; l’altra ottiene lo stesso effetto, sussidiando i monopoli. Entrambe agiscono nel senso di bloccare l’iniziativa industriale in settori prestabiliti, aumentando artificialmente i costi ci produzione per determinati individui o gruppi di produttori e imponendo alla comunità delle spese sproporzionate. Incidentalmente, entrambi questi sistemi inibitori danneggiano, seppure in misura minore, il resto del mondo industriale. Tutto ciò è fin troppo noto agli economisti e – a lume di ragione – dovrebbe esser chiaro ad ogni persona intelligente, ma i verbosi dinieghi degli interessati e l’ingenua credulità con cui i cittadini patrioti sono disposti ad accettare i sofismi addotti a difesa di questi provvedimenti inibitori ci ha deciso a ricordare questi luoghi comuni della scienza economica. Questa credulità si basa non su una debolezza dell’intelligenza ma sull’esuberanza del sentimento; anche se c’è ragione di credere che le sue manifestazioni più accentuate – per esempio l’alta tariffa protettiva – possano esser ottenute solo in forza di una formidabile collaborazione dei due fattori. Lo spirito patriottico è il sentimento antagonistico del prestigio collettivo, incline, di conseguenza, ad attribuire un’apparenza di merito e di convenienza a qualsiasi provvedimento che, sia pure speciosamente, prometta di aumentare la potenza o il prestigio nazionale. Cosicché quando gli statisti propongono una politica di controlli e di relativo isolamento, sostenendo che rafforzerà economicamente la nazione, rendendola autosufficiente, e pronta per ogni avventura di guerra, il cittadino patriota vedrà le misure proposte attraverso l’alone roseo delle aspirazioni nazionali; si farà dunque convincere dal desiderio di credere che tutto ciò che è capace di creare un formidabile fronte di battaglia nazionale contribuirà anche al bene comune. Al tempo stesso si sostiene, più o meno a ragione, che tutti questi complotti nazionali per reprimere il commercio infliggano più o meno danno alle nazioni rivali, con cui i rapporti economici vengono ridotti. E, poiché l’amor di patria è un sentimento antagonistico, il cittadino patriottico trova conforto nella promessa del danno altrui ed è ancor più incline a riconoscere ogni sorta di meriti a proposte di questo genere. Qualunque comunità, imbevuta di uno spirito patriottico vivace, è sempre pronta ad accettare ogni circostanza, avvenimento o transazione che possa esser usato come mezzo di distinzione antagonistica o antagonistica discriminazione contro l’umanità al di fuori dei confini nazionali come sostanzialmente vantaggioso per la comunità, anche se il

minimo esame obiettivo non vi troverebbe altro fine accertabile che il desiderio antagonistico di danneggiare. Analogamente tutto ciò che può apparire un aumento di potenza o di valore della nazione, rispetto alle altre rivali, viene sicuramente considerato un elemento di prestigio, una distinzione antagonistica che va ad alimentare l’orgoglio collettivo; anzi la credulità patriottica sarà disposta a trovargli tutti i meriti possibili. Per esempio, non è concepibile che una patente idiozia come la tariffa protettiva ottenga l’approvazione di una società di normale intelligenza, senza l’appoggio di qualche sofi sma sciovinistico. A loro volta, le varie dinastie europee sono un esempio limite, e quindi ancor più convincente, della stessa fallacia logica. Queste famiglie e personaggi sono i grandi ed autentici depositari del prestigio nazionale e quindi i loro sudditi presumono, senza riflettere, che debbano essere utili anche da altri punti di vista, benché il cadere in un così stupefacente errore concettuale possa sembrare una risibile manifestazione di credulità a chiunque sia estraneo al problema. Ma i popoli moderni ragionano con gli stessi criteri nel settore degli scambi commerciali e delle esportazioni; anzi, su questo punto, la loro infatuazione è così radicata e dogmatica, che se ne esige l’accettazione anche da parte di un perfetto estraneo, pena l’esser considerato pericoloso o insano di mente. Inoltre le dimensioni del territorio nazionale, il numero degli abitanti o la ricchezza delle risorse nazionali sono e forse sono sempre state materia di esultanza patriottica oltre ad esser illusoriamente ritenute importanti per il benessere materiale dell’uomo medio, benché ormai sia evidente che, data la struttura della proprietà del mondo moderno, tali cose non hanno importanza alcuna per l’uomo comune, se non come titoli di prestigio per stimolarne l’orgoglio civico. L’unica circostanza in cui questi e gli altri beni nazionali verrebbero ad assumere il significato di una proprietà comune e collettiva, si verificherebbe nel caso di una guerra portata a tali estremi da abrogare sommariamente i diritti di proprietà consolidati per volgerli a fini bellici. Ma finché i diritti di proprietà hanno vigore, l’uomo comune, che non è proprietario di questi beni, non ricava alcun vantaggio dalla loro appartenenza al dominio nazionale; anzi, per la verità, egli deve in un certo senso garantirne, a sue spese, il possesso ai legittimi proprietari. Perseguendo «il regno, il potere e la gloria» e sfruttando le risorse della nazione, con la sanzione dello spirito nazionale, le autorità costituite si assumono anche la responsabilità della custodia di svariati altri interessi materiali che si presume riguardino il bene comune; per esempio la sicurezza

– all’interno e all’estero – delle persone e delle proprietà, nei rapporti con gli stranieri, la sicurezza degli investimenti e del commercio, la tutela dei cittadini di fronte alla legge nei paesi stranieri e – principalmente e in modo universale – l’incremento del commercio nazionale con l’estero, in particolare delle esportazioni, a condizioni vantaggiose per i connazionali. Su quest’ultimo punto sogliono soffermarsi coloro che propugnano l’espansione della potenza nazionale come un vantaggio vitale per il singolo cittadino. Gli altri argomenti sopra elencati, come è evidente, non hanno pressoché alcuna importanza materiale per lui. L’uomo comune – e cioè più del 99% della nazione – non ha rapporti con l’estero, come capitalista, commerciante, missionario o viaggiatore, e non ha alcuna occasione di rischiare la sua persona o le sue proprietà in circostanze tali da sollevare minimamente la questione del valore o del prestigio nazionale. In genere non aspira neppure a commerciare con l’estero a condizioni giuste o meno, a investire capitali in paesi stranieri, a sfruttare concessioni o a prendere ordinazioni con pagamento alla consegna e non ha, di regola, neppure quel minimo di contatto con l’estero che deriva dall’acquisto di titoli stranieri. In pratica la sola occasione in cui entra in contatto con il mondo d’oltre frontiera è quando, e se, come emigrante, lascia il suo paese, cessando così di godere della protezione delle autorità nazionali. L’uomo medio tende a starsene a casa sua e viene a contatto con l’estero e con gli stranieri, fuori dai confini nazionali, solo di rado e di seconda o terza mano, nell’acquisto occasionale di prodotti esteri o con la vendita di beni che potranno finire sui mercati esteri quando egli li avrà già perduti di vista. Fanno eccezione alla regola le nazioni troppo piccole per contenere la normale attività commerciale dei loro abitanti, i cui cittadini – pur non avendo potenza o prestigio nazionale a cui appellarsi, in caso di necessità – sembrano, ciò malgrado, godere individualmente di una posizione fortunata nei loro rapporti quotidiani con l’estero, al pari dei cittadini delle grandi potenze che invece sono riccamente fornite in fatto di valore e di prestigio. Salvo eccezioni del tutto trascurabili, questi fatti interessano le necessità e la sensibilità dell’uomo comune solo per il tramite dell’onore nazionale, che può essere leso dalle offese subite dai compatrioti all’estero o esser restaurato e potenziato dai successi dei medesimi; ma in genere egli non ha nessuna prova della loro esistenza e nessuna parte nei loro traffici se non in quanto si assume, in via derivata, vaghi e remoti motivi di ver gogna o di vanagloria, sempre in forza del fatto, assolutamente casuale, che essi sono

(imperscrutabilmente) suoi compatrioti. Questi beni immateriali, fonte di prestigio derivato, non vanno naturalmente sottovalutati, né bisogna trascurare o minimizzare il fatto che essi fanno parte del; «reddito psichico» complessivo del cittadino medio, quale che ne sia il valore reale; questo tuttavia ci riporta evidentemente alla categoria immateriale del valore di prestìgio, che stavamo mettendo da parte nella speranza di poter prendere in considerazione l’interesse materiale del singolo per le imprese nazionali, verso le quali convergono le aspirazioni patriottiche. A simili questioni, dunque, l’uomo medio s’interessa solo se hanno un valore di prestigio; ma – innegabilmente – toccano la sua sensibilità e lo spingono all’azione e persino a gestì di audacia e di abnegazione. Ingiurie e maltrattamenti verso i compatrioti all’estero, anche se meritatissime, – come capita non di rado – suscitano un risentimento di tale veemenza da tornare ad onore dell’uomo medio, oltre che a grande vantaggio degli uomini politici patriottici, che trovano in queste offese la migliore e più fidata materia prima per creare difficoltà internazionali. Il fatto che l’uomo medio reagisca allo stimolo delle vicende, materialmente irrilevanti, che riguardano, nel bene o nel male, le sorti di suoi compatrioti che egli conosce solo per sentito dire, testimonia naturalmente delle sue alte qualità virili; ciò, tuttavia, è lungi dal dimostrare che gli slanci di patriottismo siano importanti per la sua esistenza o economicamente utili alla società in cui vive. Questo va a sua lode e fa di lui un cittadino desiderabile, nel senso che si lascia opportunamente trascinare dagli incitamenti dell’emulazione patriottica; ma dobbiamo ammettere – sia pure a malincuore – che questo tratto impulsivo dell’indignazione o vanagloria derivata, se non è materialmente vantaggioso per lui, non ha neppure, il minimo valore economico per la collettività. Anzi, il contrario. Del resto l’uomo comune non ricava vantaggi materiali nemmeno dai successi della nazione in materia, anche se tende a credere che tornino tutti a suo beneficio. Sembrerebbe che il senso innato dell’interesse comunitario, ottenebrato e travolto da un geloso e suscettibile orgoglio di patria, lo induca a prestar fede acritica mente a questa inclinazione; la sua convinzione nasce da un preconcetto più che da una percezione. Tuttavia si continua a credere, di norma, che l’espansione del volume del commercio estero (soprattutto delle esportazioni) sia il fondamentale e massimo vantaggio materiale ricavabile da un grande dispiegamento di gesta patriottiche e dall’ampliamento territoriale della nazione. «Il commercio segue la bandiera». Si presume che nuovi commerci e nuovi profitti vadano a

beneficio collettivo dei cittadini. Questo vanno dicendo i politici sagaci e questo, irragionevolmente, crede anche l’uomo medio. Se poi l’affermare il valore e il prestigio nazionale favorisca veramente il commercio, nelle importazioni o nelle esportazioni, rimane da discutere, visto che non ci sono prove che ottenga davvero alcun simile risultato. Ciò che invece è fuori discussione è che tale espansione del commercio non favorisce affatto il privato cittadino che non si occupa d’importazioni o esportazioni; e, in particolare, non gli offre certo vantaggi proporzionali al costo di ogni tentativo d’incrementare i commerci aumentando la potenza della nazione e ampliandone il territorio. I guadagni non vanno al singolo ma ai commercianti che vi hanno investito i loro capitali, mentre per il privato cittadino non ha alcuna importanza il fatto che coloro i quali guadagnano con il commercio nazionale siano suoi compatrioti o menoc. Le tesi pacifiste rivolte a dimostrare l’inconsistenza economica delle ambizioni nazionalistiche, dopo aver messo in evidenza con la massima verbosità possibile che all’ambizione nazionale e a tutte le sue opere si attagliano benissimo i versetti della litania che parlano di fuoco, diluvio e pestilenza, sono solite por fine all’arringa a questo punto; ma una tendenza ereditaria della natura umana non si lascia sgominare da argomenti che ne indicano degli inconvenienti, e così lo spirito patriottico rimane ancora un elemento con cui bisogna fare i conti, più che esorcizzarlo. Abbiamo già notato che – con il passar del tempo – l’evoluzione tecnologica e l’istinto della proprietà hanno portato tali trasformazioni, che il sistema attuale dell’industria e degli affari non si svolge più sul piano nazionale e non tiene più conto delle frontiere, se non in quanto la politica e la legislazione nazionale arbitrariamente e parzialmente glielo impongono. Questa regolamentazione a scopo politico è, salvo eccezioni del tutto trascurabili, nociva al buon funzionamento del sistema industriale nelle condizioni moderne, ed è quindi dannosa per gli interessi materiali del cittadino. Ma le cose stanno diversamente per gli interessi dei commercianti. Il commercio si basa sulla concorrenza ed è nell’interesse delle varie categorie di commercianti l’ampliare i propri mercati, escludendone i concorrenti. Se la concorrenza è l’anima del commercio, il monopolio è necessariamente il fine ultimo di ogni commerciante. Quindi lo stato è utile ai commercianti nei limiti in cui li protegge – completamente o in parte – dalla concorrenza dei commercianti di altre nazioni, o nei limiti in cui incoraggia – all’interno ed all'esterno – le loro iniziative con sovvenzioni o altri privilegi, a danno dei

loro concorrenti. Il guadagno che deriva ai commercianti da ogni misura governativa preferenziale o discriminatoria contro quelli di altre nazionalità è, in definitiva, una forma di guadagno privato. I loro compatrioti non ne partecipano affatto, dal momento che non è prevista alcuna divisione degli utili. Per il cittadino medio non ha importanza trattare con i commercianti del proprio o di altri paesi, dato che sia gli uni che gli altri mireranno a comprare a buon mercato e vendere a caro prezzo e gli faranno pagare «tutto ciò che il mercato consente». Non gli interessa neppure se i guadagni di questo commercio andranno a degli stranieri d ai suoi compatrioti; infatti sono comunque fuori dalla sua portata e ugualmente lontani da ogni traccia di compartecipazione da parte sua. Poiché si tratta di proprietà privata, secondo la legge e il costume moderno, egli non vi ha alcun diritto, sia che la frontiera nazionale divida o non divida il suo domicilio da quello del proprietario. Ogni uomo normale conosce e agisce sulla base di questi concetti, senza dubbi o esitazioni, nei suoi affari quotidiani. Non troverebbe neppur lontanamente divertente la proposta che il suo vicino debba condividere i suoi profitti negli affari, per la semplice ragione che è un compatriota. Ma quando la questione è presentata come un problema di politica nazionale e abbellita con appelli al suo amor di patria, il cittadino normale si rivela di norma abbastanza ingenuo da accettare il sofisma per buono. Il suo senso arcaico della solidarietà di gruppo lo indurrà ancora a favorire a proprie spese i compatrioti, accettando l’imposizione di regolamenti commerciali onerosi per il loro privato vantaggio, ostacolando l’attività degli operatori stranieri. A questa ingegnosa politica di autolesionismo contribuisce in larga misura l’orgoglio patriottico dei cittadini, persuasi di vedervi un aumento della potenza e del prestigio della loro nazione e, insieme, un danno per le nazioni rivali. V’è ragione di dubitare che una politica autolesionista, come quella messa in atto oggi con le discriminazioni verso il commercio internazionale, potrebbe insinuarsi nella legislazione di un paese civile, se l’intelligenza popolare non fosse così annebbiata dall’animosità patriottica, al punto da considerare l’eventuale danno dei vicini come un proprio vantaggio. Apparentemente dunque l’inclinazione patriottica dei popoli moderni è utile soprattutto ad una classe ristretta di persone dedite al commercio con l’estero o ad affari in concorrenza con l’industria straniera; è utile al loro guadagno privato, dando una sanzione effettiva a limitazioni del commercio internazionale che non sarebbero tollerate all’interno del territorio nazionale; così facendo ottiene anche l’effetto secondario e più funesto di creare motivi

di rivalità tra le nazioni, sollevando pretese ed ambizioni inconciliabili che, pur non avendo alcun valore materiale, provocano ulteriori discordie internazionali e, alla fine, la rottura della pace. Come tutto ciò si accordi con i piani dei politici militaristi e in seguito influenzi la libertà e le sorti personali dell’uomo medio, è un problema vasto e intricato, anche se abbastanza chiaro, del quale abbiamo già parlato e forse in modo già abbastanza esauriente.

1. Il principio della «porta aperta» fu sancito nel 1900: esso ratificava la spartizione della Cina in zone d’influenza delle maggiori potenze (Russia, Germania, Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone), le quali si impegnavano a non imporre dazio, diritti portuali e ferroviari nelle rispettive zone d’influenza. Fu il risultato della iniziativa anglo-americana, patrocinata soprattutto dal Segretario di Srato John Hay, dopo la repressione della rivolta dei Boxers; esso avvantaggiava infatti gli interessi commerciali inglesi ed americani. 2. ARISTOTELE, La politica. a. Per una più approfondita discussione del problema, cfr. La Germania Imperiale e la Rivoluzione Industriale, cap. I e note supplementari I e II b. Cfr. La Germania Imperiale e la Rivoluzione Industriale, come sopra. 3. La formula wilsoniana del 1916. c. Tutto questo, che dovrebbe esser già di per sé evidente, è stato ripetutamente dimostrato nei discorsi di vari sostenitori della pace, per esempio il signor Angeli4. 4. Sir Norman Angeli, autore del libro La grande illusione (1910), in cui dimostrava l’illusorietà dei vantaggi che una nazione ricaverebbe dalla vittoria in guerra. Giornalista inglese (n. 1874) e laborista, ottenne nel 1933 il premio Nobel per la pace.

CAPITOLO III. SULLE CONDIZIONI DI UNA PACE DURATURA Le considerazioni esposte nei capitoli precedenti hanno messo in luce il fatto che lo spirito patriottico dei popoli moderni è fonte costante di lotta tra le nazioni; se non fosse per il patriottismo, una rottura della pace fra i popoli moderni sarebbe difficile. Fin qui ci si troverà d’accordo; del resto, fa parte ormai del buon senso corrente che entrambe le partì in un’avventura di guerra dei nostri tempi sono destinate a perdere, dal punto di vista materiale, quali che siano i guadagni nominali, cioè politici che l’una o l’altra possa ottenere. Risulta pure dalle considerazioni già fatte che lo spirito patriottico predomina ovunque, presso tutti i popoli civili, e che pervade, più o meno nella stessa universale misura, le varie nazioni; né abbondano le indicazioni che questa funesta inclinazione vada indebolendosi con il passar del tempo o con il continuo progresso della tecnica. Le uniche nazioni civili abitualmente pacifiche sono quelle troppo deboli o poste in una situazione tale da escluderle da ogni speranza di trarre profitto dalla lotta. Se l’arroganza vanagloriosa è forse maggiore tra le nazioni più arretrate e rozze, non vuol dire che i popoli all’avanguardia del mondo civile siano meno saturi di autocompiacimento nazionale. Dovendo mantenere la pace, dunque, si è costretti a farla mantenere da popoli composti, interamente, di patrioti; il che è quasi una contraddizione in termini. Il patriottismo è utile per infrangere la pace, non per conservarla. Incoraggia le pretese nazionali, le gelosie e la sfiducia internazionale, tenendo la guerra sempre in prospettiva, come pretesto per il bene della nazione o come soluzione in caso di necessità. In genere non c’è una linea di demarcazione molto netta tra queste due necessità opposte che spingono un popolo patriottico a tener sempre presente la possibilità di ricorrere alle armi. Di conseguenza, calcolare le probabilità della pace equivale a valutare le forze che si presume possano mantenere temporaneamente una nazione patriottica su un piede di precario equilibrio di pace. Come abbiamo appena osservato, tra i popoli civili si può contare per questo solo sulle nazioni troppo deboli o altrimenti escluse per la loro posizione dalla speranza di vantaggi

nazionali. Del resto, questo vale solo per quanto concerne l’aggressione, non la difesa nazionale, e nella misura in cui non vengano trascinate collettivamente nel conflitto dai loro vicini più esperti. Persino i più deboli e insignificanti ritengono un sacro impegno prender le armi in difesa delle proprie pretese nazionali; e tutti nutrono delle pretese nazionali. In alcuni casi estremi, che può sembrar malevolo specificare, non è facile trovare delle ragioni valide per il mantenimento di un certo governo nazionale, se non quella di rivendicare talune pretese nazionali che cadrebbero silenziosamente in mancanza, appunto, di un tale governo impegnato a rivendicarle. Queste regole generali non valgono per le grandi nazioni che si sogliono indicare come potenze; questi popoli decidono da sé dei problemi nazionali, e dunque la questione della pace o della guerra è, nelle grandi linee, questione di pace o di guerra tra le potenze. Non sono così numerose da poterle classificare in gruppi distinti, eppure differiscono abbastanza da poter esser equamente poste in due categorie diverse, se non opposte: quelle che tendono a passare all’offensiva spontaneamente e quelle che combattono, se provocate. Del primo gruppo fanno parte, tipicamente, la Germania e il Giappone; del secondo la Francia e la Gran Bretagna e con qualche riserva la Repubblica Americana. In un’analisi sommaria bisognerà lasciar da parte la Russia, come caso dubbio, per ragioni che riprenderemo più tardi; infatti il futuro della Russia non si può calcolare sulla base del suo passato. Non ci soffermeremo sulla Spagna e l’Italia che sono, nella migliore delle ipotesi, delle dubbie potenze; più che altro, delle ausiliarie in attesa dell’occasione propizia. Quanto all’Austria – checché si intenda con questo nome – va, da questo punto di vista, inclusa nella voce Germania. Nel dividere le nazioni in due gruppi contrastanti, non intendiamo fare alcun confronto antagonistico; non è un contrasto di meriti, di demeriti o di prestigio. La Germania imperiale e il Giappone imperiale sono – allo stato attuale delle cose – inclini, in effetti, a turbare la pace per rafforzare il loro dominio. In senso lato, come molti uomini politici tedeschi solevano professare negli anni precedenti alla grande guerra, è forse ragionevole dire – proprio come essi avevano l’abitudine di dire – che le potenze imperiali si comportano in modo altrettanto onesto e leale nella loro campagna d’aggressione, che le altre potenze nel difendersi dalla loro aggressione. Si è fatto appello all’equità internazionale per giustificare le loro pretese ad un aumento di territorio. Pare almeno che gli statisti imperiali si siano persuasi in questo senso, dopo matura riflessione, dimostrandosi poi molto preoccupati di

persuadere gli altri della giustizia delle loro imperiali pretese a qualcosa di più del legalmente consentito. Questi sagaci, per non dire astuti personaggi, non si sono semplicemente convinti di questo, ma se ne sono imbevuti a tal punto che la Germania – per esempio –è giunta ad ammettere eccezioni o riduzioni delle sue rivendicazioni solo quando e nella misura in cui la campagna di giusta aggressione, così iniziata, si è rivelata irrealizzabile, date le vicende della guerra. Chi fosse portato alla casistica, allo studio dei casi di coscienza, potrebbe tentar di sostenere che il senso dell’imperiale necessità di auto-accrescimento sia divenuto così pressante da giustificare o, almeno, da condonare il fatto di spodestare con la forza dei paesi più deboli. Questo potrebbe diventare – come, in realtà, è accaduto – un problema di casistica abbastanza intricato sui puntigli dell’onore nazionale e su un’equa divisione tra le potenze rivali dei mezzi materiali di dominio. Analogamente, nella vita privata, può diventare una controversa questione di giustizia, se il desiderio di un cleptomane non possa talvolta raggiungere una tale intollerabile intensità, da giustificare il fatto che egli allunghi le mani su qualunque oggetto di valore alla sua portata per alleviare il tormento del desiderio insoddisfatto. Nella vita privata il tentativo di accrescere se stessi a spese del prossimo non viene in genere riprovato se è fatto su scala abbastanza vasta o sfruttando con abilità la flessibilità della legge o la connivenza dei suoi rappresentanti. In campo internazionale, non vi è legge così inflessibile che non si adatti convenientemente a circostanze particolari. Ed in mancanza di una legge, la necessità di una giustificazione formale farà – necessariamente – appello a criteri di giustizia non codificati, con i risultati che si sono visti. Ma tutto questo, naturalmente, è di pertinenza dei diplomatici. Esaminare le presunte giustificazioni della politica divisata da queste due nazioni imperialiste significa rimanere nell’ambito del gergo diplomatico, ed ha solo un interesse speculativo; con la giustizia non ha nulla a che vedere. Accettando la situazione per quella che è, è evidente che la pace potrà avere solo il significato limitato di un armistizio, fino al giorno in cui imprese nazionalistiche di questo genere saranno possibili e continueranno ad esistere questi governi nazionali o altri dello stesso tipo. Prendendo – come è necessario – le dichiarazioni di pace dei loro portavoce con uno sconto del cento per cento, e considerando le prove circostanziali del caso, è più che evidente che per lo meno le due potenze imperiali manovreranno coerentemente ai fini della superiorità militare, finché la pace sarà in grado di

resistere, e infrangeranno la pace, non appena la strategia imperialista sembrerà richiederlo. Nei confronti di questo problema, negli ultimi anni, sia nei rapporti diplomatici che negli scambi informali si è finta una amabile e retta sollecitudine, e poiché la finzione è all’ordine del giorno nei rapporti diplomatici, è giusto e decoroso – naturalmente – che non si possano riconoscere apertamente dei fatti inconfessati contrastanti con questa serie di finzioni nell’àmbito delle relazioni diplomatiche. Tuttavia, un’indagine disinteressata sulla natura della pace e le condizioni per mantenerla deve opportunamente accantonare i pretesti diplomatici e guardare ai fattori che condizionano la situazione, più che alle dichiarazioni formali create per mascherarla. Al primo posto tra le circostanze notevoli della situazione attuale sono i disegni imperialisti della Germania e del Giappone. Questi due organismi nazionali sono molto simili tra loro, al punto che, almeno per cominciare, si potranno applicare ad entrambi le stesse considerazioni. Si potrebbero dire le stesse cose, o quasi, di più d’una tra le altre potenze o semi-potenze del mondo moderno; tuttavia ciò non elimina il fatto che queste due debbono considerarsi senz’altro il prototipo di un governo nazionalista e cioè il più perfetto esempio esistente del cosiddetto stato dinastico. Se non come eventuale correttivo di disordini o scontenti interni, nessuno dei due stati «desidera» la guerra, ma entrambi sono inclini a dominare e, poiché non si può dominare se non a prezzo di un conflitto, entrambi, in effetti, sono incorreggibilmente portati verso la guerra. Nessuna considerazione di equità, di umanità, di decoro, di verità, e nemmeno il bene comune, potrà impedire loro di perseguire il potere. Per l’ambizione di entrambe, e per la natura dello stato dinastico, il dominio imperiale non ha prezzo e quindi nessun prezzo è troppo alto, purché il successo finale arrida all’impresa. Tutto questo è ben noto a chi abbia la minima competenza dei fatti. A chi nutra un vivo pregiudizio sentimentale prò o contro una o entrambe queste nazioni, prò o contro il tipo d’iniziative imperialistiche di tutte e due, può sembrare che quanto è stato detto su di loro e sui loro rapporti con la pace mondiale sia alquanto tendenzioso e implichi una sorta di biasimo e riprovazione. Ciò non è nelle nostre intenzioni, anche se è impossibile evitarne l’apparenza. La nostra indagine esige un’analisi obiettiva ed esplicita della natura dei fatti rilevanti; ed ogni semplice esame dei fatti porta con sé,

inevitabilmente, uno strascico d’implicazioni del genere, poiché il linguaggio stesso si presta alla loro riprovazione. Il nostro scopo, tuttavia, non è questa inflessione di ap provazione o disapprovazione; i fatti vanno visti impersonalmente, per quello che valgono e per la loro influenza sulle probabilità di pace o di guerra, non per il loro valore sentimentale, alla stregua di elementi di comportamento giudicabili secondo la loro bontà o convenienza. Visto cesi senza pregiudizi, sempre che sia possibile, l’orientamento imperialista delle due potenze è l’elemento fondamentale che influenza le probabilità di pace, che condiziona i termini ci qualunque programma pacifico. Evidentemente la presenza delle due potenze imperiali rende precario ogni trattato di pace, a prescindere dal fatto che una sola di esse o entrambe lo sottoscrivano. Nessun impegno è capace di vincolare uno statista dinastico, qualora si riveli sfavorevole all’espansione della di nastia. Si ripropone, quindi, la domanda: com’è possibile mantenere la pace nell’ambito delle ambizioni giapponesi o tedesche ? Ovviamente ci sono due possibilità, nessuna delle quali sembra promettere una facile via d’uscita dal labirinto in cui la loro presenza mette la pace mondiale: sottomissione al loro dominio o eliminazione delle due potenze. Entrambe le possibilità aprono una prospettiva abbastanza scoraggiante, eppure è impossibile trovare una più promettente via intermedia di conciliazione e di compromesso amichevole, che sia realizzabile ed efficace. Le varie nazioni attualmente impegnate nella guerra con la maggiore di queste potenze imperiali si aggrappano al proposito di annientarla, come all’unica soluzione che meriti una qualche speranza. La potenza imperiale in difficoltà fa segni di pace e di buona volontà. Quanti sono favorevoli – quale che ne sia la nazionalità – a dei negoziati di pace che lascino intatti questi stati, mirano, in realtà, ad avviare le cose verso la sottomissione finale alla supremazia degli stati imperiali. In questo contesto, un compromesso amichevole e un trattato di pace permanente offrirebbero alla dinastia il tempo di recuperare le forze e riorganizzarsi, in vista di una nuova ondata di avventure dinastiche. Infatti, nessun trattato riesce a vincolare il politico dinastico e nessuna considerazione, se non il perseguimento del dominio imperiale, riesce ad attrarne l’attenzione. Non abbiamo naturalmente intenzione di biasimare l’univoca determinazione che lo statista dinastico mostra di solito; né intendiamo considerarla, da parte sua, una prova di disonestà morale. Si tratta piuttosto della risultante di un peculiare atteggiamento o inclinazione morale, abituale

in questi politici ed in certa misura anche nei loro compatrioti, e che fa parte integrante della mentalità imperiale. Poiché portare al suo apogeo il dominio imperiale è il fine supremo ed onnipresente di ogni sforzo, questo non solo solleva i suoi devoti dall’osservanza di ogni altro dovere minore in contrasto con le sue esigenze, ma impone altresì l’obbligo morale di sfruttare al massimo ogni eventuale opportunità d’inganni o di sotterfugi che possa essere utile. In breve, lo statista dinastico vive sotto l’egida di una morale superiore, che lo pone al servizio dell’ambizione del suo paese o, per l’esattezza, al servizio personale del suo padrone dinastico, al quale è suo doveroso privilegio dedicare lealmente tutte le sue capacità di violenza e di frode. Le persone di mentalità democratica, che non si lasciano attrarre dall’idea della dedizione verso un padrone personale, possono trovare qualche difficoltà ad apprezzare la forza e l’austerità morale di questo spirito di dedizione ad un ideale di espansione dinastica, e a comprendere che questa esigenza suprema possa mettere da parte ogni scrupolo di rettitudine e di sincerità personale, come se si trattasse di pretesti meschini per sottrarsi al dovere. A coloro tra questi dubbiosi che conservano ancora qualche traccia della loro fede religiosa un simile atteggiamento può, forse, esser reso comprensibile ricordando l’analogo abbandono di sé proprio della devozione religiosa. Ricordiamo, del resto, che gli studiosi laici di questi problemi ritengono che l’auto-umiliazione e l’abbandono senza riserve ai voleri ed alla guida della divinità – grazia e gloria primaria del vero credente – siano soltanto, quanto a origine e a derivazione, una sublimazione o un’imitazione dell’altra umiliazione doverosa, rappresentata dalla fedeltà ad un padrone temporale. La divinità è indicata comunemente come il Re Celeste, sotto il cui dominio nessun peccatore ha diritti che Egli debba rispettare, più o meno come il suddito di uno stato dinastico non ha diritti che lo stato sia tenuto a rispettare. Anzi, tutti i governi dinastici che ricercano il regno, il potere e la gloria sono circondati da un’aura di divinità ed è una questione oziosa cercar di capire dove finiscono gli scopi dinastici e cominciano le esigenze divine; tra le due cose, infatti, v’è una specie di compenetrazionea. Il Kaiser regna per grazia di Dio e solo a Dio deve render conto, e forse nemmeno a Lui. Le cose vanno ancor meglio in Giappone, dove l’Imperatore discende in linea diretta dalla divinità suprema Amaterazu (o mi Kami)1 e dove, di conseguenza, non v’è distinzione tra autorità divina e temporale. All’illimitata autenticità del governo autocratico corrisponde l’illimitata devozione dei sudditi e l’asservimento dei funzionari della corona ai fini

dinastici. L’identificazione dell’autorità dinastica con l’ordine divino è meno integrale nel caso della Germania, ma tutti gli osservatori testimoniano che è abbastanza spinta anche in quel caso. Richiamiamo alla memoria questo stato di cose per spiegare come i politici delle potenze imperiali debbano, data la situazione, sottrarsi senza esser biasimati alle abituali restrizioni di quei princìpi di moralità comune, rappresentati dal decalogo. Non che il suddito, o meglio il servo di uno stato dinastico non possa nella vita privata esser retto, veritiero e umano; semplicemente, non deve metter in pratica queste virtù in modo o in misura tale da diminuire la sua utilità per le mire dinastiche. Di fronte alle esigenze dell’impresa dinastica, questi problemi egoisticamente individuali d’integrità e d’umanità non hanno alcun peso. Queste considerazioni, forse, non taciteranno tutti i dubbi sull’adeguatezza morale dei motivi che decidono i politici dinastici alle loro aggressioni con la forza e la frode; tuttavia – evidentemente – finché gli statisti conserveranno una simile mentalità, e finché il sentimento popolare in questi paesi continuerà a dar loro un appoggio efficace ai fini imperialistici, non sarà possibile conservare durevolmente la pace, entro la portata delle ambizioni imperiali. Qualsiasi trattato di pace sarebbe, in pratica, un armistizio, denunciabile ad arbitrio e destinato a servire da periodo di riorganizzazione per affrontare l’occasione differita, mentre per le nazioni pacifiste sarebbe, invece, una pausa e un periodo di preparazione, in vista della sottomissione al governo imperiale. I fautori di un trattato negoziato di pace perpetua affermano che le classi popolari delle potenze imperiali comprenderebbero rapidamente la futilità e l’inutilità di un’impresa dinastica, solo che si portassero a loro conoscenza i fatti fondamentali; e che, così, le potenze sarebbero costrette a mantenere la pace, in mancanza dell’appoggio popolare ai loro progetti di guerra. Questi ottimisti ritengono che quel che bisogna fare è informare convenientemente i cittadini di queste nazioni aggressive, mostrando loro che non devono affatto temere l’aggressione o l’oppressione da parte dei loro più pacifici vicini; al che il loro animo combattivo cederebbe il passo ad una mentalità ragionevole e illuminata. Il ragionamento si basa – implicitamente o esplicitamente – sull’ipotesi che i popoli, i quali si sono prestati con tanto entusiasmo all’attuale guerra, abbiano, fondamentalmente, la stessa composizione razziale e la stessa natura umana dei loro pacifici vicini, i quali sarebbero felicissimi di mantenere la pace, dietro delle ragionevoli garanzie di sicurezza. Se solo si offrisse – si pensa – ai popoli interessati una buona occasione di

comprendersi, si raggiungerebbe rapidamente un’intesa, almeno quel tanto da originare una ragionevole disposizione a sottoporre i problemi controversi ad un esame intelligente e ad un giusto arbitrato. I progetti per un trattato di pace negoziata che includano gli stati dinastici hanno qualche probabilità di successo solo se questo ragionamento, o un altro simile, è pertinente e decisivo. Il ragionamento a sua volta è valido solo se sono valide le premesse e se giungerà alla conclusione desiderata. Quindi, prima di accettare per buono un progetto di questo tipo, sarà opportuno esaminare più dettagliatamente le sue premesse. Cominciando dalla questione dell’omogeneità di razza e di patrimonio ereditario delle varie nazioni, gli etnologi, – i competenti della materia – sono pronti ad affermare che l’omogeneità delle popolazioni europee è anche maggiore di quanto sostengono molti fautori della pace. Nelle grandi linee – procedendo da ovest a est – non vi sono in pratica differenze razziali tra queste nazioni belligeranti, ed anche le differenze razziali progressive che si riscontrano sempre, procedendo da nord a sud, non coincidono mai con una frontiera nazionale o linguistica; inoltre una divisione politica tra nazioni non si basa mai né dipende da una differenza di razza o di patrimonio ereditario. Per concludere, possiamo aggiungere che entro queste nazioni nessuna divisione in classi – tra nobiltà e popolo, patrizi e plebei, ignoranti e istruiti, innocenti e malvagi – contrassegna o si fonda, benché minimamente, su diversità di razza e di patrimonio genetico. In fatto di omogeneità razziale, nulla smentisce la nostra tesi. Se il secondo postulato su cui i partigiani della pace negoziata fondano le loro speranze fosse anch’esso accettato, non sarebbero necessarie preoccupazioni sulla realizzabilità del progetto. Questo piano fa assegnamento sull’informazione, la persuasione e la riflessione per dominare le animosità e le gelosie nazionali, almeno in misura tale di ricondurle alla ragione. Il problema essenziale è quindi stabilire fino a che punto le masse sarebbero accessibili a questo tipo di persuasione; per il momento si trovano, notoriamente, in uno stato di ossequiosa fedeltà alla dinastia, di cieca devozione alle sorti della Madrepatria e di odio illimitato verso i suoi nemici; e in questo, tranne il livello dell’esaltazione, non c’è nulla di nuovo. Lo stato d’animo, come si ricorderà, c’era già, pronto a rispondere all’appello, e l’esaltazione è sopravvenuta con la violenza di un’esplosione al primo contatto con uno stimolo adeguato. Il popolo tedesco, nel suo complesso, doveva trovarsi in uno stato di equilibrio così precario da reagire immediatamente,

con un entusiasmo di abnegazione patriottica senza precedenti, al primo incitamento alla strage, proprio come se la nazione fosse stata tenuta sotto ipnosi. Basta ricordare l’ondata di roboante retorica che si scatenò ovunque, all’inizio, quando II Giorno parve albeggiare. Una mentalità popolare di questo tipo non è un episodio transitorio, non si crea in un attimo e non si può eliminare con un po’ di salutare buon senso. Una nazione capace di muoversi in massa e di concerto con una tale alacrità deve esser stata predisposta ad una simile eventualità da tempo, anche se ciò non si può attribuire ad un carattere razziale tipico che differenzia il popolo tedesco dalle nazioni vicine, incapaci di una simile compatta risposta all’appello del patriottismo. Le nazioni confinanti sono razzialmente identiche al popolo tedesco, ma non si abbandonano alla guerra con lo stesso slancio. Tuttavia, si tratta pur sempre di una caratteristica nazionale che non si può acquistare o perdere con una breve riflessione. Anzi, la differenza è proprio qui: è una caratteristica nazionale e non razziale; non è la natura, ma è una seconda natura. Pe rò un carattere nazionale, se non è ereditario nel senso corrente del termine, ha lo stesso aspetto o la stessa misura di persistenza ereditaria propria delle istituzioni, degli usi, delle convenzioni e delle credenze nazionali che distinguono una data nazione dai suoi vicini. In questo senso l’appassionato amor di patria può considerarsi un’eredità collettiva del popolo tedesco, sullo stesso piano e con la stessa stabilità di cui gode presso di loro l’istituzione della monarchia autocratica, o di una nobiltà privilegiata. È la contropartita istituzionale di questi governi; ha carattere istituzionale, proprio come il senso della solidarietà nazionale e della devozione patriottica lo hanno per le nazioni vicine, con le quali la nazione germanica viene a paragonarsi. Un’istituzione è il prodotto di un’evoluzione storica ed ha la stabilità e la continuità ereditaria che le vengono dalle circostanze in cui si è sviluppata. Ogni istituzione è un prodotto dell’abitudine, o – meglio – è un complesso di abitudini mentali relative ad una certa Enea di condotta, che arriva ad affermarsi in modo così diffuso e uniforme in una società da entrare a far parte del senso comune. Un carattere istituzionale è prodotto dell’uso, non della riflessione o di una scelta cosciente; ha ottenuto una sua auto-legittimazione, e appartiene, di conseguenza, al modello dei valori accreditati in quanto intrinsecamente buono e giusto, non certo come un abile espediente adottato ad interim. Offre una norma di vita, correlata con una quantità di altre norme, con le quali costituisce un sistema equilibrato di mezzi e di fini, che regolano la condotta

umana: di conseguenza nessuna delle regole può essere materialmente messa in forse, eliminata, o sminuita senza arrecare serio pregiudizio all’equilibrio del sistema di cui è parte integrante. Ciascuna particolare norma di condotta e di propensione abituale conserva la sua importanza e la sua funzione in forza dell’abitudine individuale che è, a sua volta, in armonia con l’abitudine generale a cui una data società è soggetta. Dunque, quanto più rigorosa, estesa, inflessibile e duratura Y abitudine a cui deve la sua entrata in vigore un certo principio istituzionale, tanto più intimamente e definitivamente esso sarà integrato nel senso comune della collettività e minori saranno le possibilità di metterne in dubbio la necessità intrinseca o di correggerne e mitigarne la forza, qualora le circostanze cambiassero in modo tale da dimostrare la non convenienza della sua conservazione. Lo si potrebbe sminuire non con una scelta consapevole, ma attraverso un graduale disuso. Non che la riflessione o un consiglio saggio siano completamente inutili, ma le manifestazioni dell’intelligenza contano relativamente poco, in confronto alla forza dell’abitudine imposta dalle circostanze condizionanti in un certo contesto; inoltre i saggi consigli e le buone risoluzioni possono modificare una tendenza istituzionale avversa solo mediante un’abitudine idonea e con la rapidità consentita dalle circostanze che presiedono alla formazione delle abitudini. Modificare l’orientamento affermato del senso comune di una comunità è comunque un’opera assai lenta; e proprio la solidarietà nazionale, e in particolare la cieca lealtà verso il sovrano e la dinastia, sono un dato di fatto e una necessità di senso comune per il popolo tedesco. Non è necessario ricordare che i giapponesi, che abbiamo abbinato alla Germania, si trovano nella stessa situazione, anzi in maggior misura. Va certo al di là delle nostre intenzioni dire che i tedeschi avrebbero bisogno, per disimparare il loro eccessivo sciovinismo, il loro servilismo verso l’autorità gratuita, il loro zelante asservimento alle ambizioni dinastiche dei loro padroni, di una lezione altrettanto dura e lunga quanto quella che, nel corso della storia, ha determinato in loro queste abitudini. Tuttavia è ragionevole prevedere che ci debba essere una certa proporzione tra quel che è costato loro – in tempo ed esperienza – acquistare la forma mentale attuale e quello che costerebbe loro perderla. Bisogna vedere quanto tempo e quanta severa disciplina sarebbero necessari per sostituire l’attuale modello di valori e di convinzioni di senso comune in vigore nella Madrepatria abbastanza da eliminare l’elaborata ideologia di servilismo, di fedeltà e di aggressività nazionale. Dalla soluzione di questo problema sembrano dipendere le

probabilità di successo di qualsivoglia trattato di pace, di cui faccia parte la Germania, sulla base di ciò che si definisce una «pace onorevole». Lo spirito nazionalistico, o meglio dinastico e bellicoso, di questo popolo, ha la stessa natura delle sue istituzioni sociali e politiche. Senza il sostrato del sentimento popolare, non potrebbero durare né il governo nazionale, né l’ordine sociale su cui questo si fonda e attraverso cui agisce. E, d’altra parte, mantenendosi intatto un simile sentimento nazionale, non potrebbe affermarsi, appunto, che un simile ordinamento dinastico spietato e un sistema legislativo basato sulla sottomissione generale ad un’autorità personale. Sia il sentimento popolare che il correlativo sistema coercitivo delle leggi hanno origine storica. Ambedue sono stati imparati, acquisiti, e non sono necessariamente connaturati al popolo tedesco. Risalgono entrambi alla ferrea, lunga e rigorosa disciplina di comando e sottomissione durata – quasi senza interruzione – nel corso dei secoli passati dalla prima invasione predatoria dell’attuale Madrepatria da parte dei Teutoni. Infatti, anticamente, tutto il paese che ora è la «Madrepatria» fu sottomesso da bande d’invasori che lo tennero all’insegna della forza, con la sola, trascurabile, eccezione dello Holstein e di una piccola parte di territorio adiacente a quella provincia a sud e a sud-ovest. Fin dall’epoca in cui le popolazioni di queste regioni furono assoggettate dalle invasioni barbariche dei Germani e ridotte in schiavitù, per fondersi in séguito con i loro padroni stranieri, lo stesso tipo di legge e di ordine sorto dalla conquista barbarica ha continuato – salvo qualche lieve e intermittente mitigazione dei suoi rigori – a regolare la vita di quei popoli. Paragonate con i primordi e con le atrocità vergognose delle Età Oscure e del periodo preistorico dell’occupazione germanica, le fasi più tarde di questo sistema di legge e di ordine repressivo nella Madrepatria possono sembrare umane, se non addirittura miti. Ma, in confronto alla mitigazione che lo stesso ordinamento ha subito altrove nell’Europa occidentale, esso ha conservato, attraverso tutto il periodo storico, un grado notevole di prepotenza e di servilismo, che si deve ai suoi inizi barbarici e predatori. Gli stadi iniziali dell’occupazione germanica della Madrepatria sono piuttosto oscuri e si perdono nelle nebbie di un’antichità anteriore alla scrittura, senza contare che la malaugurata vanità dei patriottici studiosi tedeschi ha circonfuso quasi ogni indagine storica di abbondante oscurantismo. Vi sono, tuttavia, alcuni elementi salienti – nella storia e nella preistoria – troppo importanti o troppo noti per essere accantonati o nascosti, che sono sufficienti a illustrare lo svolgimento delle vicende dei popoli

tedeschi; quelle, cioè, che hanno dato forma alle loro istituzioni civili e politiche e la cui disciplina ha plasmato la mentalità dei tedeschi, conservandone lo spirito di fedeltà nella forma in cui, oggi, fa da sostegno allo stato dinastico. Tra le favole più seducenti che formano il sostrato convenzionale della storia tedesca è la leggenda accademica di una libera società agricola di villaggio, formata di uomini liberi e uguali. È superfluo dire che una tale società non ebbe mai parte alcuna nelle remote esperienze preistoriche, al tempo in cui il popolo germanico, o le sue classi privilegiate, si stanziarono nel territorio della Madrepatria; dimostrarlo ci porterebbe troppo lontano. Comunque gli studiosi di questi problemi sanno benissimo che nessuna società di uomini Uberi ed uguali è mai esistita ai primordi della Germania, cioè alle prime esperienze della Madrepatria sotto la dominazione germanica. Le scarne ed ambigue osservazioni di Tacito sullo stato dell’economia domestica e civile tra gli abitanti della Germania non hanno più alcun rilievo, soprattutto date le prove storiche ed archeologiche disponibili. I resti preistorici e le vaghe testimonianze storiche dell’antichità indicano, senza possibilità di dubbio, che quando gli immigranti germanici penetrarono nei territori della Madrepatria, essi vi si stabilirono come invasori, o meglio come predoni, assoggettando le popolazioni già esistenti. La storia dichiara, con altrettanta chiarezza, che quando la Madrepatria entrò per la prima volta nella sua luce, essa offriva uno spettacolo buio e sanguinoso di lotte ed intrighi tumultuosi, dove prìncipi e princi-potti, capitani di ventura, predoni e ciarlatani sfruttavano una plebaglia ignominiosamente sordida e servile, in un’interminabile sarabanda d’incursioni, tradimenti, assassini! e sopraffazioni reciproche. Le storie trasmesseci di quegli antichi tempi, prese alla lettera, indurrebbero a credere che la gente comune, la cui laboriosità sostentava questa sovrastruttura di sordida prepotenza, abbia potuto sopravvivere solo per sbaglio. Ma la storia di quei tempi, aureolata com’è dalla licenza poetica e piena di devozione per l’ammirevole classe dei padroni – ammirevole ai loro occhi, a quelli dei loro cronisti, e senza dubbio anche gli occhi del popolino assoggettato – esalta le nobili imprese e fortune di questi personaggi in vista, a scapito delle oscure vicissitudini di vita e fortuna del materiale umano grezzo, a spese del quale la classe padronale compiva le sue mirabili imprese, continuando la lugubre giostra dell’ingordigia e dei delitti per assicurarsene lo sfruttamento.

Della storia più recente – che copre, diciamo, gli ultimi mille anni, non v’è bisogno di parlare a lungo. Salvo transeunti, episodiche interruzioni, è per la Madrepatria una continuazione alla stregua degli inizi, con la graduale creazione di un sistema di dominio e sottomissione più stabile, dove le imprese dei prìncipi assumevano sempre maggiori dimensioni, sostenute da una massa di popolo sempre più utile e devota. In tutta la fase storica più recente, la situazione della Madrepatria non è affatto isolata, né particolarmente diversa dal resto dell’Europa occidentale, se non per grado di intensità. Rientra, anzi nel processo storico generale che ha segnato il Medioevo e l’età moderna, ma si differenzia dalla maggioranza per un andamento più tardivo e per un attaccamento più tenace a quelle che si potrebbero definire le caratteristiche più infauste del medioevalismo. L’avvicinamento ad un modello istituzionale moderno e alle concezioni moderne della vita e dei valori umani è stato lento e finora incompleto, rispetto alle società che hanno percorso più strada – in bene o in male – verso la modernità. Nella Madrepatria, l’abitudine all’obbedienza e ad un rapporto personale di subordinazione, in cui la fedeltà e la servitù venivano imposte da una disciplina rigorosa e prolungata, si è protratta a lungo, mitigandosi solo di poco e tardivamente. Legge e ordine, nella Madrepatria, hanno continuato a significare indiscussa obbedienza ad un signore personale ed assoluta dedizione alle ambizioni personali del padrone. E poiché la libertà, nel senso di un’iniziativa discrezionale da parte del singolo, non rientra nel quadro di un tale sistema di dipendenza dall’autorità e dalla sorveglianza personale, la libera iniziativa è – a qualunque livello – «licenza» agli occhi di uomini educati in questo àmbito; mentre la «libertà», in quanto distinta dalla «licenza», non significa iniziativa e auto-decisione, ma – semmai – ampia possibilità di azione al servizio di un padrone. Quindi l’indignazione popolare non si ribella e non rifiuta alcuna misura di restrizione della sua «libertà» delegata, finché il padrone, a cui il servizio è dovuto, può garantirne la convenienza ai suoi scopi. La lunga esperienza e la disciplina istituzionale da cui è nata l’attuale situazione tedesca può esser schematizzata come segue: all’inizio una ridda di conquiste, rapine, asservimenti e lotte tra bande rivali di saccheggiatori ed i loro capitani, che lentamente, anzi impercettibilmente, si è trasformata in uno sfruttamento stabile e convenzionalizzato, salvo ripetute interruzioni dovute a nuove incursioni ed a nuove coalizioni di rapaci condottieri. Da tutto questo nacque, con il passar del tempo, un regime feudale in cui la fedeltà personale e la servitù ai signori di piccolo calibro era il solo legame di solidarietà

universalmente riconosciuto. In séguito ad ulteriori e inarrestabili discordie ed intrighi tra i signori feudali piccoli e grandi, la popolazione fu divisa in gruppi più numerosi, nelle mani di signori feudali più potenti, ed il legame di fedeltà e di servitù venne ad abbracciare – in modo relativamente più stabile ed uniforme – più vaste zone del territorio, inclusi gli abitanti. Con il sorgere degli stati, in contrasto con la più ristretta ed effimera fedeltà verso la ancora raggiungibile persona di un principe vittorioso, nacque la fedeltà verso una dinastia; intanto la relativa stabilità delle frontiere territoriali dei dominii favorì una recrudescenza dell’antica inclinazione sentimentale per la solidarietà di gruppo; per cui i limiti territoriali ufficiali del dominio dinastico servivano a delimitare il gruppo che sentiva così di appartenere ad una comunità sotto un’unica legge e di avere una specie d’interesse comune per quel che riguardava la gloria e la fortuna. Per dirla in modo più corrente e più suggestivo, con il potere dinastico nacque il senso della nazionalità. Il senso dell’interesse comune, detto nazionalità, venne così a rafforzare la fedeltà verso la dinastia, fondendosi con questa e creando un radicato attaccamento allo stato, basato sia sul sentimento dell’interesse comune che sull’obbligo dell’obbedienza al capo dinastico. Il senso di solidarietà nazionale, l’omaggio e la servitù feudale si sono unite per condurre questo popolo al culmine dell’esaltazione patriottica, che rappresenta la meta suprema; e non si può proprio dire che il popolo tedesco non l’abbia raggiunta. I giapponesi non sono proprio allo stesso stadio: essi hanno, prima di tutto, l’aria di sudditi dell’imperatore, e solo in maniera rudimentale quella di una nazione. Del popolo tedesco si può dire tranquillamente che ha contemperato a tal punto un intatto omaggio feudale verso un padrone personale con un senso enormemente sviluppato della solidarietà nazionale, da non indebolire minimamente il duplice legame che lo pone a servizio dello stato dinastico. La Germania, in altre parole, è in un certo senso arretrata rispetto alle nazioni europee più avanzate nel loro sviluppo istituzionale, o meglio nella loro evoluzione istituzionale. Certo, il ritardo del popolo tedesco nei confronti dello spirito nazionalistico non è affatto una debolezza o un inconveniente ai fini del prestigio nazionale, meta ultima di ogni sforzo patriottico. Anzi, da questo punto di vista l’incapacità di distinguere tra le ambizioni degli statisti dinastici e gli interessi della comunità è veramente un vantaggio straordinario, che i loro rivali politicamente più maturi hanno perso, per atrofia del dogma dinastico dell’obbedienza. Costoro, di cui i francesi ed i popoli di lingua inglese rappresentano la maggioranza e possono considerarsi l’esempio tipico,

hanno, almeno in parte, avuto una storia differente. La disciplina dell’esperienza ha lasciato nella loro organizzazione istituzionale diversi residui di abitudini mentali, che sono servite di base alle loro successive scelte di valore. Non che il divario tra questi due rami della civiltà occidentale sia profondo o molto accentuato; è più una differenza di grado che ci qualità; uno dei due gruppi, cioè, ha subito un ritardo nello sviluppo spirituale di certe abitudini di pensiero, particolarmente diffuse e determinanti in taluni settori. Quindi ogni tentativo di definire in modo netto e convincente la differenza di spirito nazionale non può che apparire esagerato e tendenzioso. Comunque, non ci si può ovviamente aspettare che il contrasto venga compreso da un genuino figlio della Germania, dato che il problema è estraneo alla sua prospettiva. Non si tratta di una vera divergenza, ma piuttosto di una fase differenziata di maturità culturale, dovuta ad una diversa accelerazione nella successione delle fasi istituzionali che i popoli d’Europa hanno attraversato, singolarmente e collettivamente, sotto l’impulso delle circostanze. Dal momento dell’uscita dall’Età Oscura in poi il destino degli europei che la sorte aveva fatto vivere entro la Madrepatria è stato diverso, nel senso che gli altri popoli hanno oggi percorso più strada rispetto al punto di partenza, conservando minori tracce della mentalità arcaica – cioè una percentuale minore dell’eredità barbarica, senza per questo perderla del tutto, anzi mantenendone, forse, la maggior parte. I fatti si sono svolti in modo tale che costoro, in particolare i francesi ed i popoli di lingua inglese, si sono lasciati alle spalle ed hanno in parte dimenticata la fase istituzionale che la Germania imperiale sta vivendo attualmente. I francesi – e intendiamo il popolo francese – in parte perché sono entrati in lizza con un vantaggio molto notevole, senza mai rimanere indietro fino a trovarsi alla pari rispetto ai loro vicini d’oltre Reno, in quella fase della civiltà europea da cui i popoli della Madrepatria emersero tardivamente nell’età feudale. Quindi lo storico che voglia spiegare il palese ruolo preminente che il popolo francese detiene tuttora, con tanta ostinazione, nel progresso della civiltà europea, deve tener conto del fatto importante che esso ha dovuto compiere un percorso più breve, correndo, per dirla in linguaggio sportivo, dalla parte interna della curva. È partito da un livello base più elevato. Tra i vantaggi toccati, in un certo senso immeritatamente, al popolo francese, è l’aver mantenuto ininterrottamente dai tempi romani, e

forse pre-romani, il concetto di una società umana con interessi collettivi e reciproci, a prescindere da ogni dipendenza forzata da un signore feudale. I francesi, quindi, sono diventati una nazione con relativa facilità non appena le circostanze lo hanno permesso, e sono oggi la più antica «nazione» d’Europa. Da molto tempo erano pronti, e dotati al punto giusto del senso dell’unità nazionale e del sentimento di patria, per effettuare il passaggio dallo stato dinastico ad una comunità nazionale non appena se ne fosse presentata l’occasione, cioè non appena lo stato dinastico, con un opportuno insieme di debolezza e di vessazione, avesse oltrepassato il limite di sopportazione, oltraggiando il senso di dignità nazionale del popolo. Il caso dei tedeschi, con il loro recente atteggiamento verso i capricci dinastici, può offrirci un termine di paragone. Questi ultimi sembrano tuttora incapaci di distinguere tra il disonore nazionale e le ambizioni dinastiche. Con un processo diverso, più affine alla storia dei popoli tedeschi, i popoli di lingua inglese hanno raggiunto più o meno lo stesso stadio dei francesi, compiendo anche loro il trapasso dallo stato dinastico alla comunità nazionale. Gli inglesi hanno cominciato tardi, ma nel loro caso la disciplina della servitù e dell’autorità personale assoluta è stata relativamente breve ed inefficace, almeno in confronto a quanto hanno dovuto sopportare e imparare, in analoghe circostanze, i loro cugini tedeschi. Cosicché gli inglesi non hanno mai imparato veramente a memoria la lezione dell’obbedienza dinastica, almeno non il popolo, checché si dica delle classi privilegiate, i signori, i cui interessi stavano dalla parte del privilegio e dell’autorità irresponsabile. In questo caso, come in quello della Francia, furono le abitudini mentali dell’uomo medio e non quelle della classe dei gentiluomini a fare della decadenza dello stato dinastico un fatto inevitabile ed agevole, per quanto agevole può esser una faccenda di questa mole. Sono passati, oggi, circa due secoli e mezzo da quando – nella società di lingua inglese – la mentalità nazionale ha subito questo mutamento radicale. Forse non è giusto dire che proprio questo lasso di tempo, o addirittura questo periodo più un ulteriore lasso di tempo, contrassegnano l’arretratezza dell’àmbito mentale tedesco in questo campo, ma, d’altro canto, non è facile trovar fondamento per un giudizio diverso e più moderato. Il futuro, naturalmente, non va misurato nei termini del passato, ed il ritmo del nostro presente e del futuro calcolabile è per molti aspetti assai diverso da quello del passato storico, anche recente. D’altra parte, però, l’abitudine richiede sempre tempo, in particolare quando deve attecchire in

una nazione popolosa e determinare l’eradicazione di un complesso sistema istituzionale e della visione della vita di un popolo. La Germania è ancora uno stato dinastico, cioè il suo governo è in effetti un’autocrazia irresponsabile, che si è nominata da sé e detiene l’usufrutto della nazione per mezzo di un’organizzazione burocratica adeguata, mentre il popolo è pieno di abnegazione e di devozione, come dimostra il fatto che sostiene con entusiasmo un governo del genere. Per concludere, l’aspirare al dominio è nella natura dello stato dinastico, anzi è proprio la sua essenza; un governo dinastico, che goda dell’usufrutto illimitato di risorse come quelle messe a sua disposizione dalla fedeltà feudale del popolo tedesco, non ha alcuna probabilità di mantenere la pace, se non nei termini di una resa incondizionata da parte di tutti gli interessati. Nessun impegno solenne e nessuna pia risoluzione possono resistere ad una fatalità culturale di quest’imponenza. Questa spiegazione della genesi del nazionalismo tedesco e del suo stato attuale apparirà naturalmente tendenziosa a chiunque abbia un’alta opinione di tutti gli aspetti della civiltà tedesca e che, al tempo stesso, abbia cari gli ideali di pace e di libertà. Anzi costui potrebbe, con qualche debita severità, esser spinto ad accusarci di aver montato una diatriba malevola e partigiana più o meno ingegnosa. Ma può pensare una cosa simile solo chi nel problema da noi dibattuto veda un tema di distinzioni antagonistiche tra lo spirito tedesco, da una parte, e la mentalità dei popoli vicini, dall’altra. Al limite, all’obiettore capzioso può apparire una critica anche la nostra descrizione dei traffici politici svoltisi in passato nel territorio della Madrepatria. Questo non invalida, però, la corrispondenza al vero della nostra analisi e lo scopo per cui abbiamo cercai» di esaminare un argomento così ingrato. È un peccato che i fatti da noi descritti non possano essere apprezzati nella loro intrinseca necessità, perché turbano la sensibilità di alcune tra le persone più emotive e irriflessive che attribuiscono loro un valore sentimentale. Noi, comunque, non intendiamo offendere nessuno, né fare confronti antagonistici. Ma anche se il nostro scopo ultimo fosse un confronto antagonistico, bisognerebbe subito ammettere che il bilancio netto in favore degli altri – per esempio i francesi o i popoli di lingua inglese – non è poi così positivo, come sembra implicare un esame sommario della situazione tedesca. Ai fini delle probabilità di una pace legata agli umori delle nazionalità contraenti, non è affatto detto che, qualora essa dipendesse soltanto dallo spirito pacifico di quanti si sono lasciati alle spalle lo stato dinastico, un trattato di pace potrebbe

durare a tempo indeterminato. Anche costoro non sono ancora usciti dalle selve. Forse non hanno le stesse doti di truculenza gratuita e irresponsabile dei loro cugini germanici – almeno non allo stesso, allarmante livello – ma anche loro, come abbiamo già detto, se provocati, sono pronti a combattere. Sono patriottici fino ad un certo punto, e cioè al punto che ogni cosa che interessa palesemente il prestigio nazionale si trasforma rapidamente in un casus belli. Però, il temperamento popolare rimane pur sempre di tipo difensivo, soggetto – forse – ad entusiasmi difensivi non necessari, ma che in genere dispone a lasciar correre, a vivere e lasciar vivere. È proprio questa la differenza decisiva tra i popoli i cui affetti patriottici si accentrano sulle fortune di una comunità impersonale e quelli che vi sovrappongono una fervente ammirazione per l’autorità dinastica. Questi ultimi sono destinati a rompere la pace, alla prima occasione favorevole. Il contrasto può esser messo in risalto, anche se non con tutta la chiarezza desiderabile, dalla reazione del popolo inglese durante la guerra boera, da una parte, e dalla popolarità della guerra franco-prussiana presso i tedeschi, dall’altra2 Entrambe erano guerre di aggressione ed entrambe, sostanzialmente, non provocate. Diplomaticamente parlando (e come avrebbe potuto esser altrimenti?) c’era provocazione sufficiente in ambedue i casi, è ovvio. Ma in realtà erano entrambe più o meno gratuite, sia quanto a provocazioni reali che a incentivi materiali. In tutti e due i casi la guerra avrebbe potuto esser evitata senza danno materiale per la comunità e senza sensibili lesioni per l’onore nazionale. Entrambe le guerre furono «manipolate» con pretesti spudoratamente fabbricati ad hoc dalle parti interessate; nel primo caso da una consorteria di statisti dinastici, e, dall’altro, da una combutta di avventurieri del commercio e di politicanti imperialisti. In nessuno dei due casi il popolo aveva nulla da perdere o da guadagnare nella disputa, almeno finché non entrò in gioco il prestigio nazionale. Eppure sia la società tedesca che quella inglese si accollarono questo peso e combatterono la guerra fino alla vittoria, a tutto vantaggio delle parti interessate che avevano fatto precipitare la controversia. Il popolo inglese nel suo insieme, è vero, se ne accollò la responsabilità; ma questo è tutto quel che si può dire dell’approvazione popolare verso questa guerra, che gli statisti hanno d’allora in poi considerato una delle imprese più proficue che abbiano impegnato le forze del reame. L’uomo comune tende ancora a nascondere il suo disagio morale per questa guerra vittoriosa dietro una lunga serie di circostanze attenuanti. L’equivalente di tutto ciò, nel caso della Germania, è un’esplosione

di dedizione patriottica e un ammirevole spirito di sacrificio altruistico in favore del prestigio dinastico, un’ebbrezza di fanfare patriottiche culminanti nella trionfale incoronazione di Versailles. Neppure il calmo ripensamento dei quarantasei anni trascorsi ha potuto gettare la minima ombra di dubbio sulla gloriosa memoria di quell’orgia patriottica. Tale è la differenza di mentalità tra i cittadini patriottici di una società moderna, da un lato, ed i fedeli sudditi di uno stato dinastico, dall’altro. È inutile discutere i meriti intrinseci dell’una o dell’altra. Spassionatamente, e tenendosi fuori dalla mischia, non si sa se preferire, per equilibrio e dignità virile, il pigro e vergognoso complice di un sordido crimine nazionale, o il patriota esaltato che si fa una gloria di servire da strumento ad una cricca di politicanti senza scrupoli, protesi solo al potere per il potere. Ma il problema non sta nei meriti relativi o nelle doti virili dei due gruppi di patrioti messi a confronto; entrambi hanno senza dubbio – almeno così dicono – virilità da vendere. Il punto della questione è sapere, semplicemente e obiettivamente, come sia possibile utilizzarli, insieme o separatamente, per mantenere stabile la pace mondiale in un regime di vigile neutralità. Evidentemente la mentalità tedesca non consente neutralità; la ricerca del potere non è compatibile con la neutralità e, sostanzialmente, il nocciolo della vita nazionale tedesca è pur sempre la ricerca del potere, sotto la tutela della dinastia. Come possa conciliarsi con lo spirito della società britannica, quale si è ripetutamente manifestato nelle relazioni internazionali, è difficile dire. Si potrebbe forse realizzare, dato che il loro abituale atteggiamento è orientato verso la neutralità, una pace di popoli non impegnati sulla base dello spirito nazionale dominante tra i francesi ed i popoli di lingua inglese, e nelle nazioni minori affacciate sul Mare del Nord, almeno considerando la situazione nel suo insieme, e pur tenendo conto della presenza di una minoranza bellicosa anche in tutti questi paesi. Costoro sono favorevoli alla pace, ma si tratta pur sempre di una «pace con onore», il che significa – in parole povere – pace senza sminuire il prestigio nazionale. Ora, il prestigio nazionale – come abbiamo già detto – è una merce assai peculiare, ragion per cui una pace da mantenersi sulla base di una tutela gelosa dell’onore nazionale ha molte probabilità di esser alquanto precaria. Se e quando si ha l’impressione che l’onore richieda un aumento di potenza nazionale, la situazione della pace diventa immediatamente critica. Inoltre, quanto maggiore è il numero e la diversità delle pretese e degli interessi che si presumono legati all’onore della nazione, tanto più instabile sarà, di

conseguenza, la situazione che ne deriva. Per concludere quest’elenco di considerazioni, diremo che un trattato di pace basato sulla neutralità può esser possibile o meno, in assenza di stati dinastici come la Germania ed il Giappone, mentre non ha alcuna possibilità di sopravvivere, presupponendo l’esistenza di questi governi nazionalisti. Nessuno è più pronto e più loquace nel protestare contro la falsità di una simile discriminazione – tra le nazioni democratiche e quelle dinastiche del mondo moderno – dei portavoce delle potenze dinastiche. Nessuno più di loro è generoso di dichiarazioni di pace universale e di fraternità cattolica; del resto, in nessun altro luogo ce n’è un bisogno più urgente; non parliamo – se non altro per amor di carità – di quelle ufficiali e «ispirate», ma ci sono state, nella storia recente, molte dichiarazioni di questo genere, pronunciate in tutta sincerità da portavoce degni di fede, tedeschi e forse giapponesi. Tra parentesi, non intendiamo riferirci alle convinzioni ed ai propositi espressi dalla Germania negli ultimi due anni (dicembre 1916). Senza mettere in dubbio l’attendibilità di quanti giurano sulla natura mite e pacifica del sentimento nazionale tedesco, è pur sempre opportuno ricordare lo svolgimento dei fatti della vita nazionale tedesca nell’attuale momento storico, e la posizione di questi portavoce nella società tedesca. La nazione tedesca ha una struttura sociale molto particolare. Per quel che interessa la nostra indagine, è composta di tre elementi costitutivi distinti o, meglio, categorie e condizioni umane. La massa popolare rappresenta, naturalmente, la categoria principale, e, in ultima analisi, è sempre il fattore fondamentale e determinante. Secondo, per importanza come per numero e attività, è il personale di controllo – la classe dirigente, l’amministrazione, la comunità ufficiale, la gerarchia dei funzionari civili e politici – o comunque la si voglia chiamare; questa categoria comprende la sovrastruttura piramidale di privilegio e di controllo di cui il sovrano rappresenta l’apice e che, in regime dinastico, detiene effettivamente l’usufrutto delle masse popolari. Queste due classi o condizioni sociali, di cui una comanda e l’altra obbedisce, costituiscono le strutture portanti della nazione e incarnano insieme la vita nazionale, concretandone le attività e gli scopi. In posizione intermedia, anzi, affiancata alle due in corrispondenza del punto di unione, esiste una terza categoria, la cui vita si articola in qualche misura con quella delle altre due, pur svolgendosi in modo semi-indipendente. Questa categoria, più ristretta, ma più visibile ed in particolare più udibile, è composta dagli «intellettuali», come li definisce un termine recente e fors’anche volgare.

Sono costoro, soprattutto, che mantengono i rapporti con il mondo esterno e che, al tempo stesso, sono i detentori di ciò che accademicamente si chiama pensiero. Sono in contatto e comunicazione intellettuale con il mondo in un rapporto di dare e avere, e pensano e parlano di quei concetti, che, nel mondo, vanno sotto il nome di studi umanistici. La loro categoria è abbastanza numerosa per costituire una comunità intellettuale, anzi una comunità di proporzioni notevoli – almeno in assoluto – anche se poi il loro numero è invece minimo in rapporto alla popolazione. I loro contatti con la classe superiore sono abbastanza stretti, trattandosi di rendere un servizio, da una parte, e di esercitare un controllo dall’altra. Con la massa popolare la comunione è abbastanza limitata, dato che gli scambi, in questo caso, non sono né vasti né profondi. Per essere più esatti, esistono dei limiti di moderazione ben precisi, suggeriti e imposti dalla convenienza dinastica, in ogni funzione d’indottrinamento o di guida intellettuale che questa classe potrebbe esercitare nei confronti della popolazione. La categoria degli intellettuali è abbastanza vasta per vivere per proprio conto, senza attingere alla vita spirituale della società, ed è dotata di qualità intellettuali abbastanza solide per alimentare il suo particolare modello di convenzioni e di verità. Non c’è bisogno di parlare dell’opera e della funzione altamente meritoria svolta dagli intellettuali nel-l’àmbito della cultura tedesca; basti dire che sono i portavoce ufficiali della nazione tedesca, in tutti gli scambi normali con il resto dell’Europa civile. Gli intellettuali hanno parlato con sincerità e convinzione della condizione spirituale del popolo tedesco, ma per quanto concerne la questione del carattere del nazionalismo tedesco hanno mantenuto un contatto più stretto, per affinità e mentalità, con la vita spirituale dell’Europa civile, che non con i movimenti spirituali delle masse tedesche. E la loro analisi dei concetti proposti alla loro attenzione da oltre le frontiere nazionali è stata condotta – sempre per quel che riguarda i problemi che stiamo trattando – secondo i princìpi dinastici tipici delia Germania e facendo uso, come materiale concreto d’indagine, della logica e dei meccanismi esecutivi accessibili alla loro osservazione immediata. A dire il vero, in fondo gli unici dati capaci di entrare veramente nel loro campo di osservazione, in modo abbastanza approfondito da dare corpo e definizione ai teoremi un po’ astratti sulle finalità della cultura e le concezioni nazionali venute loro dall’esterno, sono soltanto i modi e i mezzi dell’organizzazione dinastica tedesca. In breve, hanno preso a prestito queste formulazioni teoriche dall’estero, senza l’apparato funzionale concreto

in cui esse sono inserite nel loro contesto abituale, e si sono trovati quindi ad adattare questi prestiti teorici ai soli termini concreti di cui abbiano conoscenza diretta e convincente. Che ciò avvenga è quasi inevitabile, tanto più che questi intellettuali, per quanto possano essere in spirito cittadini della repubblica cosmopolita del sapere e dell’intelligenza, sono dopo tutto – in propria persona – in modo stabile e diretto sudditi cello stato dinastico tedesco; cosicché tutte le loro particolareggiate riflessioni sulle finalità ed i metodi della vita, nei suoi aspetti civili e politici, subiscono inevitabilmente gli effetti del condizionamento costante dell’esperienza quotidiana sotto il sistema dinastico. Così, in definitiva, mentre hanno adottato, così come li hanno compresi, i concetti che regolano la vita civile di altre nazioni più mature, hanno assimilato e sviluppato questi teoremi della vita civile nei termini e nella logica propri di un sistema di controllo repressivo, a loro noto in base all’esperienza quotidiana che rappresenta il solo punto di riferimento empirico a loro disposizione. L’apice di sviluppo e il centro d’irradiazione della civiltà moderna., per quel che riguarda gli ideali e la logica della vita civile (i momenti di questa civiltà diversi da tale aspetto civile non interessano la nostra indagine), si trovano fuori della Germania, in un contesto estraneo al modello istituzionale tedesco. Tuttavia queste finalità e questa logica sono così connaturate alle tendenze dell’umanità moderna che gli intellettuali tedeschi, nel far propria e nell’arricchire l’eredità intellettuale del mondo moderno hanno adottato, inevitabilmente, anche i concetti d’iniziativa civile e di libero autogoverno che informano la logica della vita in una società di uomini uguali. Le hanno assorbite, assimilandole, come meglio permetteva la loro esperienza. Ma l’esperienza quotidiana e le sue esigenze sono dure da vincere; così che, nel processo di assimilazione di questi canoni di vita estranei, a subire adattamenti e revisioni sono stati i teoremi presi a prestito sui diritti e i doveri civili, e non il sistema concreto di mezzi e fini, nel cui àmbito tali princìpi devono esser applicati. È inevitabile che così sia, dal momento che la premessa essenziale dell’ordine e della legge in Germania è lo stato dinastico, mentre la premessa essenziale di un sistema moderno di vita civile è, appunto, l’assenza di questo organismo. Quindi, lo sviluppo e l’elaborazione dei princìpi moderni di libertà civile – e questa elaborazione ha assunto dimensioni grandiose – nelle mani degli intellettuali tedeschi è costantemente finita in disquisizioni pickwickiane, che ricordano le peregrinazioni di un’anima in pena. Con una serietà di cui non si può dubitare, e con sforzi instancabili, hanno cercato di

dar corpo a questi princìpi moderni in termini compatibili con le istituzioni della Madrepatria, o da esse forniti, e si sono dati molta pena nell’esaltare con magniloquenza lo spirito germanico di libertà, destinato a raggiungere il suo culmine supremo e perfetto nella vita di un popolo libero. Ma in ogni caso, e in ogni momento, sono rimasti ben lontani dall’enunciare o dal tentare di metter in pratica il ben noto principio dell’auto-governo popolare; tutt’al più si sono orientati verso un’attenuazione concessiva o strumentale del principio opposto dell’autorità personale. Là dove forme di autogoverno o di autodecisione individuale sono state concesse sotto il regime imperiale, queste si sono rivelate delle imitazioni, fornite di qualche abile dispositivo per bloccarle o inibirle, a discrezione di un’autorità irresponsabile. Non bisogna dubitare né dell’intelligenza né della buona fede degli intellettuali tedeschi. Il fatto che la descrizione – necessariamente vaga e circonlocutoria – delle istituzioni civiche e della libertà popolare che hanno così spesso e così diffusamente propagata sia stata usata come comodo velo della politica dinastica, non deve tornare a loro discredito. Circostanze superiori alla loro volontà, che plasmavano le loro stesse abitudini di pensiero, hanno loro impedito di apprendere o di formulare questi princìpi per loro estranei in modo concreto, con i particolari istituzionali e con la logica straniera di cui non avevano esperienza diretta. A qualcuno l’idea di una solidarietà culturale nell’àmbito della nazione, e della conseguente estraneità culturale tra nazioni diverse, dovuta a differenti abitudini di vita e di pensiero imposte da due diversi sistemi istituzionali, può sembrare strana e poco convincente. A tal fine, pare utile ricordare che il sistema istituzionale di ogni data società, e in particolare di una società che viva sotto un regime autoctono e provato dal tempo, è sempre un sistema equilibrato di parti interdipendenti e reciprocamente concordi, in cui i princìpi di legge e di ordine fanno parte di una struttura organica. In un sistema istituzionale, per esempio nell’organizzazione dell’Impero tedesco, c’è una certa coerenza logica, conforme a se stessa, e capace di esercitare un condizionamento efficace su tutta la società. In tal modo si riesce a imporre una certa tendenza o inclinazione alle abitudini di vita predominanti, e una analoga alle abitudini di pensiero prevalenti nella società; in effetti, è la presenza di un modello comune di usi e costumi, e di conseguenza di un modo di ragionare e di pensare comune, che costituisce l’intrinseco vincolo di solidarietà di una nazione e che, in ultima analisi, la distingue da un’altra. È altrettanto chiaro che un’altra società, sottoposta ad un sistema

istituzionale sostanzialmente differente o opposto, sarà esposta ad un condizionamento quotidiano suscettibile di produrre effetti diversi e forse opposti, e che quest’altra società subirà, del pari, una disciplina tipicamente diversa e possiederà una visione comune delle cose generalmente diversa. Quando un contrasto istituzionale di questo genere è a tal punto profondo e sostanziale, da equivalere ad una vera e propria divergenza (come si può senz’altro dire della differenza tra la Germania imperiale e i suoi simili da una parte, e le nazioni di lingua inglese, dal l’altra), la diversità delle idee correnti può rendere rapidamente due popoli reciprocamente inintelligibili sulle questioni istituzionali interessate dalla divergenza. È il caso del popolo tedesco, compresi gli intellettuali, e dei popoli contro cui i suoi preconcetti sui destini nazionali lo hanno schierato. Le molte vivaci espressioni di costernazione, orrore e incredulità emesse dalla comunità degli intellettuali nel corso degli ultimi due anni di dolore e di errori testimoniano a sufficienza della pressione rigorosa che i pregiudizi germanici e la loro logica esercitano sugli intellettuali, non meno che sulle masse incolte. Di converso, naturalmente, è quasi altrettanto impossibile per chi è cresciuto in un regime di istituzioni democratiche comprendere l’opinione, riguardo agli interessi e alle finalità nazionali, di un normale patriota tedesco; anche se, forse, non del tutto, appunto perché in questo caso la pressione degli uà e costumi e dell’indottrinamento non è stata altrettanto rigorosa e coerente. Ma certo esiste, da parte loro, un’incapacità logica abbastanza evidente di capire ed apprezzare la necessità suprema della potenza nazionale, cioè dinastica, che spinge all’azione tutti i patrioti tedeschi, proprio come i patrioti, dal canto lorc, sono incapaci di considerare gli interessi nazionali in un’altra luce che non quella dell’autorità dinastica. Attenendosi semplicemente all’evidenza dei fatti, un estraneo potrebbe facilmente incorrere nell’errore di credere che, quando la grande avventura della guerra si è spalancata cavanti a loro, e quando lo shock degli sforzi frustrati ne ha rivelato l’esasperante futilità, gli intellettuali della Madrepatria si siano distinti, sopra tutte le altre classi e condizioni, per l’esuberanza del loro abbandono patriottico; ciò sarebbe di sicuro quasi completamente erroneo; in sostanza, gli intellettuali non hanno raggiunto un livello di esaltazione molto alto, solo che, essendo avvezzi all’uso del linguaggio, sono stati in grado di esprimere con grande facilità le loro emozioni. Non v’è invece ragione di credere che la plebe si sia dimostrata altrettanto inferiore alla sua mentalità dominante.

Tornando alle attività dello stato imperiale dinastico e alle forze che esso impegna, è evidente che gli intellettuali sono dei soprannumerari, eccetto quando servono come strumento ci pubblicità e d’indottrinamento nelle mani delle autorità discrezionali. I fattori attivi, nel nostro caso, sono l’organizzazione dinastica che controlla, dirige e premia, e la popolazione, lo sfruttamento delle cui sostanze permette ai traffici del potere e degli emolumenti dinastici di funzionare. Questi due, sull’antica base della fedeltà feudale, vanno ottimamente d’accordo. Sinora non v’è ragione di credere che il vincolo arcaico che lega il popolo alle ambizioni dinastiche si sia allentato in modo sensibile. L’eventualità che la Germania dinastica viva in pace con il mondo è affidata alla possibilità che il popolo tedesco disimpari la sua deferenza e fedeltà abituale verso la dinastia. Poiché acquisirla è stata opera di una lunga abitudine, potrebbe decadere solo con l’esperienza almeno altrettanto prolungata di un regime di usi e costumi diversi o opposti. Nella situazione attuale della Madrepatria non mancherebbero gli elementi di un condizionamento sistematico in opposizione al sentimento di patria; per esempio, la disciplina del sistema industriale moderno tende a contrastarlo; ma questa ed altre ipotetiche forze, che potrebbero eventualmente cooperare, hanno bisogno di molto tempo per produrre dei mutamenti decisivi nella mentalità attuale della patriottica società tedesca. Durante il periodo necessario a determinare questo mutamento nel temperamento nazionale, la pace del mondo sarebbe subordinata all’impossibilità dello stato dinastico di violarla. Così le probabilità di successo di una lega pacifica, su base neutrale, sarebbero inversamente proporzionali alle forze della Germania imperiale; mentre su di essa si potrebbe fare sicuro assegnamento solo presupponendo la virtuale eliminazione dello stato imperiale in quanto potenza nazionale. Se la graduale obsolescenza dello spirito di fedeltà militaristica del popolo tedesco, per disuso attraverso un regime di pace, industria, autogoverno e libero scambio può esser in effetti il fattore capace di porre fine all’imperialismo dinastico, le possibilità di pace dipenderanno dalla misura in cui un simile regime di autodecisione può esser realizzato e dal periodo di tempo necessario a produrre, per disuso, questa obsolescenza. Ovviamente stabilire un regime efficace di autogoverno, su basi pacifiche, sarebbe in ogni caso molto difficile per un popolo reso così singolarmente incapace di autogoverno dalla sua esperienza passata, e, sempre per la stessa ragione, il periodo di tempo necessario per raggiungere risultati degni di nota sarebbe

piuttosto lungo. Ciò premesso, ovviamente, il progetto per mantenere la pace tra le nazioni, con un’alleanza tra i paesi neutrali, basata su un compromesso con un aspirante stato dinastico, si risolve nella seconda delle alternative di cui sopra; cioè una pace di neutralità che presuppone l’eliminazione della Germania come potenza bellica e insieme l’eliminazione di qualunque mezzo atto a creare una formidabile coalizione. Senonché, supponendo la Germania imperiale annientata o pacificata, rimarrebbe ancora il Giappone a cui si applicano, tali e quali, tutte le considerazioni valide per la Germania; però, almeno finora, i politicanti dinastici del Giappone non hanno avuto a disposizione risorse altrettanto massicce di popolazione, di industria e di materie prime. a. «Per noi lo stato è il più indispensabile e il più alto requisito della nostra esistenza terrena… ogni sforzo individuale»., dev’esser subordinato senza riserve a questo nobile scopo… Lo stato… infine, ha un valore estremamente superiore alla somma di tutti gli individui compresi nella sua giurisdizione». «Questo concetto dello stato, che è parte della nostra vita come il sangue delle nostre vene, non si trova in alcun luogo nella Costituzione inglese ed è completamente estraneo al pensiero inglese ed anche a quello americano». EDUARD MEYER, England, its Politicai Organisation and Development and the War against Germany, tradotto da H. S. White, Boston, 1916, pp. 30-31. 1. La dea dei sole, progenitrice appunto della dinastia imperiale. 2. La guerra boera è del 1899-1902. Quella franco-prussiana del 1870-1871.

CAPITOLO IV. PACE SENZA ONORE Si ripropone quindi la scelta tra le due alternative già esposte: pace per sottomissione all’autorità del governo dinastico tedesco (e al Giappone) o pace mediante l’eliminazione delle potenze aggressive. La prima alternativa non è certo molto attraente, ma non per questo possiamo accantonarla. Non c’è bisogno di dire che ripugna ai sentimenti patriottici dei popoli prescelti per la sottomissione all’Impero tedesco, ma, se si riesce a ricondurre a ragione quest’impulsiva reazione patriottica, rimane pur sempre qualche elemento a favore di questo progetto di pacifica sottomissione, o, almeno, in sua difesa. Se si tiene a mente che la necessità ultima di questa sottomissione sta nel suo essere una condizione essenziale per la stabilità della pace – finché una o entrambe queste potenze rimangono intatte – ci si accorgerà che non è affatto superfluo considerare obiettivamente i meriti di questo regime di pace. Per nessuna delle due potenze, infatti, esiste una conclusione dei propri sforzi, se non nella supremazia assoluta. Inoltre potrebbe esser fonte di chiarimenti e di ponderazione il ricordare che gli intellettuali tedeschi, i quali certamente hanno riflettuto sul problema più a lungo e spassionatamente di tutti gli altri, hanno fatto grandi lodi dei meriti del progetto di sottomissione universale al governo dinastico tedesco. Senza dubbio hanno considerato la questione a lungo e con diligenza, per capire quale fosse a lume di ragione l’interesse dei popoli manifestamente destinati a subire la tutela della corona imperiale, e indubbiamente allora (due anni fa) parlavano saggiamente ed in piena coscienza. Le dichiarazioni solenni della comunità degli intellettuali, in quella stagione di disinvolta esaltazione e di candide ammissioni, sono certo da considerare il risultato di riflessioni approfondite su quale fosse il miglior partito da adottare, non come compromesso forzato con circostanze avverse, ma come soluzione salutare da perseguire liberamente, avendo per unico fine il bene di tutti gli interessati. Gli scettici, è vero, si sono indotti a parlare con poco riguardo delle molte dichiarazioni di questo tenore provenienti dalla comunità degli intellettuali (per esempio dei sermoni laici del professor Ostwald1 che risalgono a

quell’epoca), ma un osservatore obiettivo non può negare che queste, unite al considerevole volume di dichiarazioni similari da parte di altri uomini insigni per sapere e notevoli per benevolenza di sentimenti, vanno accettate come fedeli espressioni di una convinzione profonda e di uno spirito consapevolmente generoso. Parlando dei vantaggi ricavabili dall’essere assoggettati al governo imperiale tedesco, gli intellettuali non riproducono certo le tendenze del patriottismo volgare della massa dei compatrioti, ma piuttosto ci offrono i frutti del loro spirito più sensibile e della loro riflessione più matura, come persone in grado di osservare gli affari e gli interessi umani in una prospettiva più ampia. Questa, senza dubbio, sarebbe la loro opinione in materia. Per farci un’opinione giusta e moderata di cosa intendano gli intellettuali tedeschi con il regime di tutela e sottomissione che essi propugnano – e che, si può aggiungere, i politici imperiali sottoscrivono – osserviamo l’esempio analogo del protettorato americano sulle Filippine2. Nel caso delle Filippine c’è ovviamente la differenza che il governo americano è in fondo responsabile, sia pure in ultima analisi e in modo alquanto casuale, verso un’opinione pubblica di tendenze democratiche, mentre il governo imperiale non deve render conto a nessuno, se non a Dio, concepito, a sua volta, un po’ come un socio silenzioso o un azionista di minoranza dell’impresa dinastica. Non dimentichiamo, però, che ogni ipotetico sopruso che i popoli vassalli potrebbero aspettarsi da parte della dinastia tedesca verrebbe necessariamente temperato da considerazioni utilitarie, come vogliono le esigenze dell’usufrutto. Il governo imperiale si è sempre dimostrato saggio – invero più saggio che amabile – ma saggio, almeno nelle intenzioni, nel servirsi dei popoli soggetti. È vero, però, che una certa accentuata avidità da parte del governo imperiale, mirante ad ottenere il massimo utile nel minimo tempo ed al minimo costo dalle popolazioni soggette, per esempio in Slesia, in Polonia, nello Schleswig-Holstein, in Alsazia-Lorena o nei suoi possedimenti dell’Africa e dell’Oceania, ha talora condotto a pratiche assai dubbie sul piano umanitario e controproducenti, in quanto oltre i «limiti consentiti dal mercato», anche dal punto di vista economico. Tuttavia non dimentichiamo – ed è cosa di una certa importanza – che, nei limiti della tradizione statalista predatoria che gli è propria, il governo imperiale si è fatto sempre guidare da un’attenzione singolarmente intensa per il suo interesse materiale. Nei casi in cui questo criterio ha dato frutti meno abbondanti di quelli ragionevolmente consentiti dalle circostanze, lo si è dovuto più ad un eccesso di cupidigia che al

suo opposto. Le prove indirette dimostrano che il governo imperiale tende ad amministrare gli affari dei suoi soggetti tenendo presente unicamente il proprio vantaggio materiale, senza per questo abbandonarsi, a lungo andare, ad eccessi sconsiderati. Naturalmente, in molti episodi recenti si sono registrati eccessi, atrocità e ruberie, dovuti alle umane debolezze dei suoi agenti o dei suoi funzionari, che sono destinati a ripetersi; ma questi episodi hanno carattere sporadico e rappresentano, nella routine accreditata, più l’eccezione che la regola. Gli eccessi di crudeltà che hanno caratterizzato l’attuale politica tedesca in Belgio o i sistemi usati dal Giappone imperiale in Corea3, durante la recente «benevola assimilazione» di quel po polo nella sfera dell’imperiale sfruttamento, non sono del tutto indicativi della sorte che attenderebbe un popolo assoggettato, nel caso di un’occupazione permanente e di lunga durata. Agli inizi, in entrambi i casi, il regime del terrore era dettato dal saggio desiderio – secondo l’arte della guerra illustrata nei manuali – di economizzare gli sforzi per ridurre la popolazione vinta in uno stato di abietta intimidazione; mentre più di recente gli abusi alquanto perversi del governo d’occupazione, decorosamente coperti da elocubrazioni diplomatiche sulla benevolenza e la legalità, sono stati dettati dalla convenienza militare, in particolare dalla necessità di lavoro coatto e dal desiderio di ridurre la popolazione del territorio occupato. Analogamente i procedimenti «condotti personalmente» per mezzo dei Turchi contro gli Armeni si spiegano meglio come uno sforzo di ridurre numericamente in anticipo una popolazione indesiderabile, senza incorrere in qualche critica non necessaria. Tutto questo però ci dà un’idea falsa di ciò che sarebbe la politica imperiale in una situazione stabilizzata e in assenza d’insubordinazione. A titolo di confronto, la dominazione ottomana sulle popolazioni dei dominii turchi offre un esempio più chiaro e istruttivo di quelle che sarebbero le caratteristiche specifiche dell’eventuale protettorato imperiale sulle nazioni. La protezione ottomana è presentata oggi dai suoi apologeti in termini sostanzialmente identici al futuro prospettato dagli speranzosi patrioti tedeschi, nei primi mesi della guerra attuale. Ma, come avviene spesso in questi casi, le dichiarazioni ufficiali devono esser intese in senso diplomatico, cioè puramente formale. È fin troppo evidente che l’amministrazione ottomana ha sempre e sconsideratamente superato i limiti stessi della convenienza economica, probabilmente in gran parte per mancanza di

controllo da parte degli organi centrali sui propri rappresentanti o sugli organi periferici. Non avendo rispettato o imposto le semplici regole dell’economia nella sua utilizzazione dei popoli soggetti, il governo ottomano si ritrova oggi ad aver fatto bancarotta. Si avvicinano di più all’eventuale dominazione tedesca i metodi del governo giapponese in Corea, in Manciuria4 o in Cina, anch’essi debitamente coperti dal decoroso schermo dei pretesti diplomatici, la cui natura ed i cui scopi sono però abbastanza chiari, da tutti i punti di vista salvo la nomenclatura. È probabile tuttavia che anche questo usufrutto e questa tutela siano meno umani e accomodanti di quanto una saggia amministrazione delle risorse economiche suggerirebbe ad un eventuale dominio germanico sulle nazioni occidentali. La differenza essenziale tra le due situazioni è questa: mentre il Giappone è sovrapopolato – il che induce un governo saggio a cercare altre terre da occupare, mentre le sue ambizioni imperiali lo costringono a rimuovere buona parte della popolazione dei territori occupati – la Madrepatria tedesca, al contrario, è notoriamente (anche se ciò contrasta con le dichiarazioni diplomatiche al riguardo) sotto-popolata e con tutta probabilità continuerà ad esserlo, sempre che l’industria continui a svilupparsi nella stessa direzione di oggi e che nulla modifichi radicalmente il tasso di natalità tedesco. Quindi, dato che il governo imperiale non ha alcun bisogno di nuove terre per la sua popolazione, non troverà probabilmente alcun incentivo ad adottare misure dirette a spopolare parzialmente i territori soggetti. Il caso del Belgio e delle misure intese a ridurne la popolazione potrebbero suscitare qualche dubbio, che però è probabilmente infondato; il fatto è che, una volta stabilito che il territorio non poteva esser occupato in modo stabile, si è ritenuto opportuno arricchire la Madrepatria di tutti i beni asportabili e utilizzare tutta la mano d’opera belga al servizio della guerra. Si è trattato, a quel che pare, di un provvedimento di guerra, inteso a far uso delle risorse del nemico per la sua sconfitta. Invece in condizioni di occupazione o dominazione stabile un simile spopolamento comporterebbe una perdita economica, ragion per cui ogni amministrazione saggia sarà incline a conservare gli abitanti dei territori occupati, senza diminuirne il numero e menomarne l’utilità. In definitiva, il progetto dell’usufrutto imperiale dovrebbe aver carattere riguardoso, se non proprio umano, sempre postulando che la necessaria sottomissione e ubbidienza («legge e ordine») si possa imporre con un sistema repressivo così umano da non ridurre il numero degli abitanti o da non

fiaccarne le energie fisiche. È ragionevole prefigurare in questo modo il carattere della progettata tutela e sfruttamento imperiale delle nazioni della cristianità. L’attuazione del progetto tedesco dovrebbe quindi esser assai diversa dalla politica che il governo giapponese, per le sue ambizioni imperialistiche, è stato costretto a seguire nell’occuparsi della vita e dei destini dei popoli recentemente o attualmente assoggettati. Per comprendere meglio e più concretamente come sarebbe ragionevole prefigurare la vita sub pace germanica, osserviamo alcuni esempi tipici di questa pace mediante la rinuncia, tra certi popoli contemporanei. Al primo posto della lista troviamo forse l’India, con le sue molte e varie popolazioni, sottoposte al protettorato britannico ma non – dicono gli apologeti inglesi – allo sfruttamento britannico. In questo caso, il margine di tolleranza è abbastanza largo, ma ha dei limiti ben precisi. L’India è voluta e mantenuta non per pagare tributi o imposte al tesoro imperiale e neppure per dei privilegi esclusivi o preferenze commerciali, ma soprattutto come riserva per offrire impieghi ed emolumenti ufficiali a gentiluomini inglesi, non altrimenti occupati o sistemati; e, secondariamente, per proteggere dei lucrosi investimenti britannici, cioè investimenti di piccoli e grandi capitalisti inglesi. Le attuali dichiarazioni inglesi a proposito dell’occupazione dell’India, accompagnate talvolta da giustificazioni fatte con la coscienza sporca, sostengono che il popolo indiano non soffre alcuna privazione, dato che l’organizzazione amministrativa non è più pesante o più costosa di quanto lo sarebbe necessariamente un qualunque loro governo, di competenza pari o inferiore. Rimane tuttavia il fatto che l’India offre alla classe dei gentiluomini inglesi un reddito molto necessario e ragguardevole, sotto forma di stipendi ufficiali e pensioni, di cui l’aristocrazia inglese non potrebbe assolutamente fare a meno. Entro questi limiti, è ben comprensibile che l’usufrutto inglese dell’India non pesi in modo eccezionale sul popolo indiano in genere, per quanto oneroso possa essere talvolta, per le classi che aspirerebbero ad impadronirsene qualora il dominio inglese potesse esser rimosso. La situazione è evidentemente assai differente dalla progettata dominazione tedesca sui paesi vicini dell’Europa. Rende meglio l’idea una qualunque delle nazioni soggette al dominio turco in tempi recenti, anche se si tratta, ancora una volta, di un esempio approssimativo. Dal punto di vista pratico dell’usufrutto dinastico, il governo turco è stato notevolmente inefficiente; proprio il contrario dell’eventuale corrispondente sistema tedesco, che secondo ogni previsione presenterà un

grado eccezionale di efficienza in materia. La sua inefficienza ha avuto un duplice effetto, che non dovrebbe verificarsi nel caso tedesco. A causa degli abusi amministrativi, miranti al profitto personale di funzionari irresponsabili, i popoli soggetti hanno sofferto di un progressivo esaurimento e impoverimento, mentre l’autorità centrale – il governo dinastico – si indeboliva di pari passo, diventando sempre più impotente a controllare i suoi funzionari. In secondo luogo questi agenti irresponsabili, smaniosi di guadagni personali e mossi da personali animosità, hanno costantemente spinto i loro provvedimenti di estorsione oltre limiti ragionevoli, cioè oltre i limiti conformi ad un ben congegnato piano di sfruttamento permanente. Sotto gli auspici della Germania imperiale tutto ciò sarebbe organizzato diversamente e più razionalmente. Una delle nazioni cadute sotto il dominio turco – e sotto la pace turca – offre un esempio significativo di un problema secondario che sorge in relazione a qualunque progetto di pace per sottomissione. Di recente il popolo armeno è caduto in parte sotto il dominio della Russia, esponendosi così al regime di sfruttamento burocratico russo. La differenza tra l’Armenia russa e quella turca è istruttiva. Stando ai soli resoconti credibili, cioè a quelli non ufficiali, le condizioni sono sensibilmente più tollerabili nell’Armenia russa. Persone bene informate riferiscono che la causa di questa più mite, o meno estrema, condotta degli affari sotto gli amministratori russi è il tasso selettivo di mortalità tra di loro; cioè un funzionario locale che superi costantemente un certo non ben definito limite di sopportazione, viene rimosso da ciò che si definisce, in altre circostanze, una morte immatura. A questo non è stato trovato alcun rimedio adeguato, nella pur vasta gamma di misure coercitive che la burocrazia russa si concede abitualmente. I turchi, d’altro canto, meno dissuasi da considerazioni di convenienza a lunga scadenza e forse meno influenzati dall’opinione esterna su questioni umanitarie, hanno risolto il problema sterminando sistematicamente qualunque villaggio dove si verifichi una morte illegale. Siamo inclini a pensare che, su questo punto, i sistemi della Germania imperiale sarebbero più simili a quelli russi che a quelli turchi, anche se le circostanze più recenti gettano qualche sinistro dubbio sulla ragionevolezza di una tale aspettativa. È chiaro, tuttavia, che il rimedio trovato dai turchi per questa forma d’insubordinazione è un modo troppo dilapidatorio di mantenere la pace. Evidentemente per il governo, per il Comando Supremo, lo sterminio di un villaggio, con tutta la sua popolazione, è una perdita più sostanziale

dell’immaturo decesso di uno dei suoi agenti amministrativi, tanto più che un tale decesso si verifica, in genere, solo in conseguenza di eccessi così efferati da esser per forza imperdonabilmente controproducenti anche per l’autorità centrale. Resta da domandarsi come un correttivo di questo genere potrebbe applicarsi con qualche speranza, in caso di necessità, sotto l’eventuale usufrutto imperiale della Germania. Si può, credo, dire senza offesa che non v’è abisso di depravazione che la burocrazia russa non possa abitualmente raggiungere; ma questa organizzazione si vede costretta, dopo tutto, ad una certa circospezione ed a porre dei limiti alle scorribande individuali oltre i limiti del decoro e dell’umanità, non appena questi eccessi rischino di danneggiare l’interesse comune dell’organizzazione. Al di là di un certo limite di tolleranza ogni eccesso di crudeltà, commesso da uno qualunque dei suoi membri, danneggia finanziariamente tutti gli altri, e inoltre, malgrado tutto, la burocrazia è in un certo senso soggetta al giudizio popolare, all’interno ed all’estero. Questo non vale per l’organizzazione ufficiale turca; la differenza si può attribuire, come si è già detto, ad uno spirito meno previdente, ma anche ad una tradizione diversa, forse derivata dalla mancanza di previdenza e dal conseguente sviluppo di una politica del «terrore»; a ciò si aggiunge la caratteristica differenza di convinzioni religiose, che opera nello stesso senso. I seguaci dell’Islam sembrano in linea di massima prendere alla lettera i dogmi della loro fede – servile, intollerante e fanatica – mentre la classe ufficiale russa pare, nel complesso, aver superato le superstiziose credenze a cui pro forma tributa un’osservanza di comodo. Così, nella peggiore delle ipotesi, quando un turco si ritrova alla fine ridotto a far ricorso alle estreme consolazioni della fede che tutto raddrizza, ha l’as soluta certezza di esser dalla parte della ragione contro i miscredenti, mentre nel caso analogo il burocrate russo sa soltanto di aver torto. Il momento supremo è un argomento meno conclusivo per colui che non lo percepisce come tale. Anche in questo caso, però, è difficile capire a quale delle due situazioni si avvicini di più lo spirito tedesco. Tutto sommato, il più illuminante è il caso della Cina. In linea di massima, il popolo cinese – ed in particolare gli abitanti delle pianure costiere – ha vissuto a lungo in un regime di pace fondato sulla non-resistenza. La pace è stata violata provvisoriamente di tanto in tanto, e non sono mancati i disordini locali, ma nel complesso la situazione è stata tranquilla, sulla base di un’acquiescente non-resistenza. Tuttavia la sottomissione non è stata integrale, senza riserve, ma caratterizzata dalla continua presenza del

sabotaggio, che ha inceppato e ritardato l’amministrazione della legge e dell’ordine, facilitando in misura notevole l’irresponsabilità e la corruzione ufficiale; insomma, per la Cina si può senz’altro parlare di una pace di nonresistenza, screziata dal sabotaggio e dal delitto. Di questo tipo era il tardo regime Manche, e non v’è ragione di aspettarsi in Cina risultati sostanzialmente diversi dall’invasione giapponese ora in atto5. La natura di quest’incursione giapponese dovrebbe ormai esser chiara; è un’impresa politica secondo i criteri di Machiavelli, Mettermeli e Bismarck. Ovviamente le frottole conciliatorie propalate dal servizio diplomatico e dagli altri apologeti vanno prese al consueto tasso di sconto del cento per cento. La grande produzione attuale di queste frottole può esser indice della vastità dei disegni che le frottole intendono coprire. Il popolo cinese ha sperimentato più a lungo di qualunque altro una paoe di questo tipo e quindi il suo caso dovrebbe esser il più istruttivo. Non che l’eventuale pace europea, fondata sulla non-resistenza, debba esser necessariamente del tutto simile alla situazione cinese, tuttavia è ragionevole pensare che i fatti, almeno nelle grandi linee, si svolgerebbero in modo analogo. La tradizione ed il temperamento consueto dell’Europa, sommati agli effetti dell’industrializzazione moderna, non consentono di fare il paragone punto per punto; tuttavia, fatte le dovute riserve, l’esperienza cinese di pace nella sottomissione a padroni stranieri offre l’esempio più significativo di come un regime di questo genere sia realizzabile e con quali metodi, effetti pratici e culturali sui destini del popolo soggetto e sui suoi padroni. Ora, in via preliminare, possiamo dire che la storia dell’esistenza del popolo cinese e della sua civiltà è, nel suo insieme, la più imponente realizzazione che il genere umano possa vantare, mentre la storia dei suoi successivi dominatori stranieri è una serie ininterrotta di episodi incredibilmente vergognosi, cominciati sempre nella potenza e nella vanagloria più sfrenata e precipitati, attraverso il malgoverno, lo spreco e la corruzione, verso una fine ingloriosa nell’impotenza e nell’abiezione. I progressi nella civiltà, nell’industria e nelle arti sono sempre stati realizzati dai cinesi ridotti in servitù, ed i padroni stranieri non vi hanno contribuito se non con il malgoverno, lo spreco, la corruzione e il decadimento. Eppure a lungo andare, malgrado tutti questi inconvenienti e la cattiva amministrazione, i cinesi hanno mantenuto il loro posto, compiendo reali progressi in quelle opere a cui gli uomini guardano con affetto e stima, quando giungono a realizzare il vero valore delle cose. È impossibile contare quante dinastie di

barbari dominatori siano salite a recitare il loro effimero ruolo di vanagloriose disturbataci, per poi cadere nella vergogna e nella confusione, congedate invariabilmente dal verdetto «che liberazione!». A prima vista può sembrare un singolare complesso di circostanze, ma non è un caso che i cinesi abbiano, nell’intero corso della loro storia, conservato il possesso delle terre cinesi; sono vissuti e si sono moltiplicati, continuando ad occupare la regione, mentre i loro successivi padroni stranieri andavano e venivano. Cosicché oggi, malgrado le conquiste straniere e ciò che si potrebbe chiamare una serie di sconfitte, il popolo continua ad esser cinese, mantenendo ininterrotto di generazione in generazione e attraverso tutte le epoche storiche il proprio lignaggio e il filone della civiltà nazionale. Sotto il profilo biologico, il piano cinese di non-resistenza si è dimostrato un vero successo. Altrettanto, o quasi, si può dire del popolo armeno, che ha conservato il suo montuoso paese, nella buona e nella cattiva sorte, senza diminuire gravemente o in modo duraturo di numero, e senza cadere visibilmente nella barbarie, mentre le successive, sconnesse dinastie dei suoi conquistatori andavano e venivano, non lasciando di sé altro che un cattivo ricordo. «Morale della favola»: la cura diligente per la crescita dei raccolti e dei bambini è il metodo migliore e più sicuro per conservare un popolo e la sua civiltà, anche nelle condizioni più avverse, dato che, alla fine, la morte e un ignominioso sterminio attendono inesorabilmente ogni «razza dominatrice». Fino ad oggi la regola non è stata smentita, forse perché è fondata sui caratteri ereditari della natura umana, a cui non si sfugge. Per il suo successo biologico a lunga scadenza e per l’integrale continuità della civiltà di un popolo una pace di nonresistenza, sotto buoni o cattivi auspici, è più desiderabile della dominazione imperiale. Ma i popoli moderni non vivono solo per queste cose; diremmo, anzi, che gli europei civili non le considerano affatto abbastanza importanti per giustificare la loro esistenza. Hanno assoluto bisogno di vivere liberamente la loro vita a modo loro, o meglio di vivere entro quei canoni convenzionali che hanno adottato per abitudine; o almeno pensano che questo tipo di libertà sia essenziale per una vita degna di questo nome. Vogliono, inoltre, esser protetti da interferenze arbitrarie sui loro mezzi di sussistenza e controllare liberamente i loro interessi finanziari, senza contare che desiderano partecipare discrezionalmente all’amministrazione dei loro interessi collettivi, sia come nazione che come gruppo numericamente limitato. In breve, vogliono la

libertà personale, economica e politica, senza impedimenti o controlli imposti dall’esterno, sempre mantenendo condizioni economiche favorevoli per sé e per i propri figli; senza contare che, ultimo per ordine ma non per importanza, sono in genere nel loro intimo dei patrioti ispirati da un intransigente bisogno di prestigio nazionale. Ed è proprio a questo complesso di popoli, con questa mentalità, che i pacifisti propongono in effetti (sotto la forma di un patto di neutralità che includa le potenze guerrafondaie) di sottomettersi nel futuro ad una dinastia straniera. Dato l’orientamento del sentimento popolare in queste nazioni, pare poco verosimile che la proposta venga accettata. Eppure, se l’ostinazione che oggi induce l’opinione popolare di questi paesi a respingere ogni proposta del genere cedesse un po’ alla riflessione e ad un esame spassionato, non è detto che questa non sarebbe la miglior via d’uscita da una situazione critica. Per rendere impotenti ed eliminare le potenze bellicose di cui si teme la supremazia, e persino per rimandare il giorno della resa, bisogna pagare un prezzo piuttosto alto. In realtà, si dovrebbe accettare di discutere l’alternativa e considerarne con la dovuta attenzione i meriti che, parlandone con serenità, troverebbero – presumibilmente – credito. Questo è in buona parte colpa dei pacifisti fautori di una lega per la pace, i quali hanno trascurato o rifiutato di riconoscere le conseguenze ultime del loro programma, cosicché pare che non sappiano di che parlano oppure evitino di parlare di ciò che sanno. Certo la difficoltà più seria che si incontra nel proporre una pace fondata sull’assoggettamento senza resistenza ad una dinastia straniera – «pace ad ogni costo» – è evidentemente una difficoltà di ordine psicologico. Checché si dica del popolo cinese, questa sottomissione ripugna ai sentimenti dei popoli occidentali; il che si deve a sua volta al predominio, tra gli uomini civili nella società moderna, di alcuni preconcetti consuetudinari o caratteri, tendenze e umori acquisiti, che sono un po’ come delle idee fisse. Che una vita in un certo senso ragionevolmente soddisfacente e utile sia possibile sotto un regime del genere prospettato, è dimostrato dal caso della Cina. Ma la tolleranza dei cinesi per un tale regime dimostra che essi hanno meno preconcetti in contraddizione con le esigenze della vita in tali condizioni. È noto, cioè, – e presumibilmente si deve convenirne – che il popolo cinese ha un senso della nazionalità molto debole e che, quindi, il suo patriottismo è di entità quasi trascurabile. Ad un estraneo questa potrebbe apparire un’inveterata debolezza, che ha permesso a vari e disparati stranieri ambiziosi di dominarlo con successo. Ma a questa debolezza si deve se questa gente è stata costretta ad

apprendere la via della sottomissione ed ha avuto così la fortuna di sopravvivere a tutti quanti i suoi padroni stranieri, occupando la terra e salvaguardando l’integrità incontaminata della sua antica civiltà. Nei capitoli precedenti abbiamo già fatto qualche osservazione sulla natura e sugli usi dell’amor di patria, che è tenuto in così gran conto tra le nazioni occidentali. Riprendiamo due o tre punti della discussione che tornano ora a proposito. Lo spirito patriottico, o il vincolo del nazionalismo, hanno la natura di un’abitudine, anche ammettendo che l’umanità possieda una tendenza innata in questo senso. A maggior ragione è questione di abitudine – si potrebbe dire di abitudine casuale – la particolare nazione a cui un dato individuo si lega emotivamente (diventando così un cittadino patriottico), una volta raggiunta la cosiddetta «età della ragione». L’analogia con la conchiglia pettine può non esser convincente, ma può servire a spiegare, almeno, il ruolo svolto dall’abitudine nell’attaccamento ad una data nazione. La conchiglia pettine giovane, superata la fase vitale natatoria ed il periodo di attaccamento al corpo di una carpa o di un altro pesce consimile, scende sul fondo e si attacca mollemente al luogo di esistenza a cui è pervenuta; dopodiché rimane fedelmente ancorata al suo particolare pezzetto di melma o sabbia, nel bene e nel male. Per la Provvidenza, in un certo senso è un caso dove la nostra conchiglia trova la sua dimora per riposarvi le piante dei piedi, ma resta il fatto che è «sua propria, la sua terra natale» ecc. È nella natura di un mollusco attaccarsi mollemente al fondo dove trova da vivere; se così non facesse non sarebbe un «leale e onesto mollusco»; tuttavia il particolare punto per il quale concepisce questo attaccamento non ha un’importanza essenziale, almeno così dicono. Ammettiamo pure – come paiono credere o sapere gli uomini dabbene – che ogni uomo intelligente, o almeno normalmente intelligente, debba avere necessariamente un temperamento patriottico e mantenere un vincolo di fedeltà verso una qualche nazione che, in genere, s’identifica proprio con quella in cui vive: anche se è sempre possibile che un individuo sia straniero in una data regione e debba quindi rendere omaggio patriottico ad un’altra nazione che le convenzioni, nel suo caso particolare, gli hanno assegnato come la sua vera patria. In questo caso evidentemente non vale più l’analogia con la conchiglia pettine. Il patriota è attaccato alla sua nazione, non solo per il fatto casuale del domicilio, ma per le convenzioni legali e di costume che lo assegnano a questo o a quell’organismo nazionale, secondo certi princìpi consuetudinari.

Neppure la semplice cittadinanza legale può decidere della questione – o, almeno, non in modo determinante, – come dimostra il caso dei sudditi cinesi sotto la dominazione Manchu o giapponese; o, più palesemente, il caso del cittadino americano «naturalizzato» che dà formalmente la sua fedeltà al paese in cui preferisce vivere, pur indirizzando i suoi affetti patriottici alla patria spirituale alla cui sorte non ha che un interesse di non-residente. In certi casi, può addirittura succedere che il particolare vincolo nazionale che lega i sentimenti, cioè il vero attaccamento patriottico di un dato individuo, si riveli – ad un esame più attento – non quello della residenza o della formale fedeltà legale né quello di presunte origini o genealogie, ma solo il riflesso di certe animosità nazionali. Le quali, a loro volta, possono rivelarsi di natura soltanto presuntiva, come dimostra il caso di un particolare gruppo di cittadini americani naturalizzati che si sono identificati sentimentalmente con le sorti di una potenza straniera, per la semplice ma sufficiente ragione che, su un piano convenzionale, essi nutrono ostilità verso un’altra potenza, ugualmente straniera6. Evidentemente, nell’attaccamento e nella fedeltà alla patria vi sono molte sofisticazioni, se non addirittura finzioni convenzionali. Se è ingiusto dire che è tutta una sofisticazione, è pur certo che la scelta particolare e gli effetti concreti della passione nazionalistica sono in molta parte frutto di una manipolazione ideologica, per giunta molto spesso casuale. Si arriva a credere comunemente che uno nasca in una determinata nazione, o in un certo regime dinastico, per offrire i propri servigi e la propria devozione ad un dato sovrano, scelto dal caso. Eppure all’occasione si può, senza biasimo e senza eccessiva vergogna, offrire ad altri la propria adesione. Gli uomini civili non accettano che si venga meno ai propri doveri verso una data nazione o dinastia, senza addossarsi degli obblighi altrettanto inutili e complicati da qualche altra parte; ma cambiare di dinastia o di nazione non è del tutto onorevole, anche se non è neppure precisamente disonorevole. In questo caso, l’obiezione è di ordine morale, non economico o intellettuale, e comunque non fisico, dato che il rapporto in questione non è di ordine fisico. Risulta aver carattere morale nello stesso senso in cui si definiscono morali le convenienze convenzionali; vale a dire che si tratta di conformarsi alle aspettative codificate come convenienze convenzionali vigenti. Alla pari di buona parte del codice convenzionale di comportamento, il sentimento patriottico gode della sanzione del decoro standardizzato, e le sue manifestazioni estrinseche sono prescritte giuridicamente. Tutto ciò serve a dimostrare che si tratta di

una questione che viene presa molto sul serio. Eppure si sa che dei gruppi umani numerosi – per non parlare di individui isolati – possono all’occasione trasferire altrove i loro sentimenti di fedeltà, ottenendo ottimi risultati e senza pregiudicare sensibilmente il loro buon nome o il loro rispetto di sé. Nell’ultimo mezzo secolo, molteplici passaggi si sono verificati in Germania, quando, per esempio, gli abitanti dell’Hannover, della Sassonia e persino dell’Holstein, senza contare i sudditi di minuscoli principati i cui nomi sono stati dimenticati nella confusione, sono divenuti in blocco sudditi buoni e fedeli dell’Impero e della dinastia imperiale, buoni e fedeli senza riserve, com’è ampiamente dimostrato. Analogamente, più o meno nello stesso periodo, gli abitanti degli stati americani del sud ripudiarono la lcro fedeltà all’Unione, per offrire la stessa fedeltà al loro nuovo paese7; senonche. quando il nuovo governo venne loro a mancare sotto i piedi, tornarono con altrettanta convinzione all’obbedienza originaria. Non si può dubitare che in ognuna di queste scelte, liberamente compiute, questi cittadini siano stati mossi da un incontestabile spirito di onore patriottico. Chi conosce ì fatti deve ammettere senza discussione che sarebbe una perversione, se non un capovolgimento dei fatti, considerare la loro odierna devozione patriottica per l’Unione inferiore a quella di ogni altra zona del paese, o di ogni altra classe o condizione sociale. Ma non basta, su questo sentimento sublimato della solidarietà di gruppo che si chiama nazionalismo c’è ancora molto, e forse di peggio, da scoprire. Una nazione, naturalmente, è grande, anzi quanto più è grande tanto meglio, almeno così si crede; così grande, peraltro, che come gruppo o collettività sociale non ha una vera omogeneità nei fatti e negli interessi materiali; del resto i singoli cittadini patriottici non conoscono che una trascurabile frazione dell’intera popolazione, del territorio, dell’industria e della vita quotidiana, se non per remoto e improbabile sentito dire. L’unico punto sul quale esiste un’identità di vedute (costruttiva) è il sentimento nazionale, che diventa più forte e più fiducioso ad ogni aumento della massa e del volume collettivi. È certo, per esempio, che se i popoli dei Dominions inglesi dell’America del Nord decidessero di aggregarsi all’Unione, tutti i settori e le classi sociali – salvo coloro il cui interesse per la tariffa protettiva potrebbe venire a soffrirne – darebbero senz’altro loro il benvenuto, come è certo che la nazionalità americana integrerebbe il nuovo e più grande territorio, con la stessa prontezza di quello vecchio: altrettanto può dirsi delle altre colonie nate sotto auspici britannici. Non vi sono ragioni valide di porre dei limiti all’espansione

nazionale ammissibile. Questo tuttavia rientra in pieno nelle possibilità del futuro prevedibile; per realizzarlo bisognerebbe eliminare alcune strutture istituzionali superate o inutili – ad esempio i residui di una monarchia decaduta e gli interessi consolidati, protetti dalla legge, di alcune imprese economiche e di talune classi al potere. Non è facile segnare dei limiti a quello che si potrebbe fare in questo campo, se non ci fosse l’impaccio dei burocrati imbroglioni, degli aspiranti a certe cariche, di sovrani, preti, e degli interessi monopolistici che vegetano all’ombra dei rancori nazionali e delle restrizioni commerciali. Tutti i popoli neutrali minori, che si affacciano sul Mare del Nord, potrebbero con sicurezza entrare a far parte di questa nazionalità composita, in assenza, o con la dovuta indifferenza per quelle classi, famiglie o individui il cui guadagno finanziario o antagonistico dipende o è favorito dalla divisione attuale. Il progetto di una lega difensiva tra i popoli neutrali è proprio l’abbozzo di una solidarietà di questo tipo. Il suo scopo è la tutela della pace e della libertà comune, che sono poi anche il proposito dichiarato e la giustificazione di tutte le nazioni moderne che, superata la fase delle ambizioni dinastiche, con le sue imprese di dominio per amor del dominio, sono giunte allo stadio di nazioni neutrali; o, meglio, tale è il fine ultimo e la garanzia di esistenza e di potere delle nazioni moderne, nei limiti in cui hanno superato e ripudiato ambizioni di tipo dinastico o semi-dinastico, per assumere la funzione di commonwealth intrinsecamente neutrali. Solo per la difesa comune (o in difesa di analoghe condizioni di vita per i loro simili in altri luoghi), i cittadini di queste libere comunità riescono a nutrire o a dimostrare senza vergogna uno spirito di solidarietà patriottica. Soltanto sollecitando l’onore nazionale – un’idea sopravvissuta dal passato dinastico – in modo specioso e sofistico si possono trascinare queste comunità a fare qualcosa di più che difendere semplicemente la propria libertà o la libertà di popoli ad esse affini per mentalità, nella misura in cui non siano tuttora imbevute della mentalità dinastica e delle animosità sciovinistiche che hanno formalmente ripudiate, ripudiando i princìpi feudali dello stato dinastico. L’idea di «nazione», priva del vincolo di fedeltà dinastica è dopo tutto un’idea di ripiego, una fase intermedia ed episodica nella sequenza; in senso stretto, la fedeltà nazionale è un espediente, di modo che, mancando la necessità della difesa comune, questo ideale patriottico perde l’appoggio popolare e, con il passare delle generazioni, cade lentamente in disuso come

una singolarità arcaica. La pressione di un pericolo esterno è necessaria per mantenere vigile e accanito lo spirito patriottico, nei casi in cui la pressione interna, creata dall’usufrutto dinastico teso verso il potere, sia venuta meno. Con l’espansione dei confini nazionali e l’affievolirsi costante del pericolo di violazioni gratuite dell’esterno, il tradizionale regime di animosità internazionali diventa un fattore di secondo piano e lo spirito nazionalistico si avvia gradatamente all’obsolescenza per disuso. In altre parole la nazione, in quanto comunità democratica, essendo un’organizzazione partigiana di natura difensiva, man mano che la coesione nazionale si rinsalda e la sicurezza cosmopolita prende il posto del particolarismo si trova ad essere functa officio rispetto ai vincoli patriottici del nazionalismo. La sparizione, per disuso, di una virtù così piacevole come l’amor di patria può sembrare assolutamente disgustosa; i gusti non si discutono, ma sono sostanzialmente una creazione dell’abitudine. A parte il nome inquietante della cosa, oggi ben poco si oppone all’instaurarsi di un ordine cosmopolita nei rapporti umani al posto delle fedeltà nazionali, se non fosse per certi interessi costituiti nelle cariche nazionali e verso le discriminazioni internazionali, e per quei popoli la cui vita nazionale è ancora strettamente legata all’ambizione dinastica. Abbiamo già definito lo spirito patriottico un senso di solidarietà partigiana in rapporto al prestigio e ci siamo soffermati abbastanza per spiegare questa definizione e mostrarne le implicazioni. Eliminate tutte le occasioni di partigianeria sulla questione del bene comune e mettendo d’accordo coloro le cui discordie vengono oggi incoraggiate, sparirebbe anche ogni legittimo pretesto ed incentivo per esaltarsi all’idea di un prestigio nazionalistico ed antagonistico; del resto non v’è prestigio che non sia antagonistico, dato che questa è la sua intima natura. Solo una persona di sensibilità patriottica preternaturale potrebbe esaltarsi all’idea del prestigio nazionale di una società di nazioni formata, per esempio, dalla Francia e dai popoli di lingua inglese, che insieme alle altre società europee neutrali e pacifiste (politicamente abbastanza mature per aver rinnegato le ambizioni dinastiche di dominio) potrebbe includere, forse, anche il popolo cinese. Anzi una coalizione del genere è oggi tutt’altro che impossibile, e se si realizzasse, anche sotto la forma iniziale ci una lega difensiva di paesi neutrali, si prospetterebbe anche la decadenza del nazionalismo e dell’onore nazionale che occupano oggi tanto posto nel repertorio retorico. Ciò non implica affatto che l’amor di patria o degli usi e costumi della

propria terra e della propria gente debbano affievolirsi o spegnersi. Lo stimolo della nostalgia sarebbe più vivo che mai; anzi, probabilmente in un (ipotetico) regime di sicurezza incondizionata l’attaccamento al proprio habitat ed al proprio ambiente sociale si farebbe più intenso di quel che consente, oggi, la precarietà delle occasioni di vita tranquilla. La nostalgia, però, non è un malumore bellicoso, non induce a molestare gratuitamente i vicini pacifici, non suggerisce alla gente imprese guerresche per conquistarsi un inutile dominio all’estero. Se gli uomini, per patriottismo, sacrificano la loro vita ed i loro beni, è malgrado la nostalgia e non a causa di essa. Questa lunga digressione si proponeva di dimostrare che il patriottismo – del tipo aggressivo che cerca soddisfazione con l’infliggere danno e disagio agli altri popoli – non fa parte del l’essenza della vita umana, ma ha, invece, la natura di un’abitudine instillata dalle circostanze passate e tramandata al presente dalla tradizione e dalle strutture istituzionali. Gli uomini quindi possono liberarsene senza menomazioni, o meglio esserne liberati in grazia di circostanze che imprimano un moto opposto al flusso dell’abitudine. In apparenza il mutamento di abitudini necessario per far decadere lo spirito nazionalistico e aggressivo dovrebbe – almeno nelle grandi linee – essere di carattere negativo. Cioè, più che imporre con la forza l’abbandono del temperamento bellicoso, bisognerebbe abituarsi alla pace ed alla sicurezza incondizionata, in altre parole, alla mancanza di provocazioni. Il temperamento bellicoso, in quanto fenomeno collettivo, è un carattere acquisito ma destinato a scomparire con il tempo, una volta venute meno le condizioni che lo hanno creato; non è possibile, peraltro, che il patriottismo sparisca di colpo o con rapidità in quanto, appunto per tradizione e per lungo indottrinamento, è così strettamente intrecciato al tessuto istituzionale, al gusto e alla morale comune, che farlo decadere veramente implica la rimozione o la trasformazione radicale di tutta la gamma delle istituzioni e delle idee popolari ereditate. Modificare le istituzioni, poi, in quanto queste sono prodotto dell’abitudine, richiede tempo. Tuttavia, dato che non si tratta più di acquistare un’abitudine impiantandola come fatto di costume permanente, bensì di dimenticare una cosa appresa in passato, il tempo e l’esperienza necessari al compiersi di questo processo non equivalgono necessariamente – per durata e rigore della disciplina – al tempo necessario per ottenere il risultato opposto. Peraltro, se il modo più logico per liberare gli uomini dallo spirito nazionalistico acquisito è far cadere in disuso il condizionamento mentale che

lo ha creato, anche un drastico condizionamento positivo, orientato nel senso contrario, potrebbe esser tut-t’altro che inutile allo scopo. Il caso della Cina è eloquente; i cinesi non sono semplicemente e naturalmente non-patriottici, hanno anche un forte spirito di infedeltà verso i loro padroni stranieri. Ciò non toglie che, malgrado siano disposti a difendere i loro interessi comuni, essi siano poco patriottici in senso stretto; lo spirito nazionalistico fa poca presa su di loro. È probabile che la relativa mancanza di patriottismo sia da attribuirsi in buona parte – più che al disuso e alla neutralizzazione della disciplina che ha creato un nazionalismo militante nelle nazioni cristiane – all’influenza positiva della dura repressione di qualsiasi ambizione di questo tipo, esercitata dal governo autocratico dei loro padroni stranieri. La pace sulla base della sottomissione e della non-resistenza alle imposizioni normali ed alle leggi delle autorità imperiali è subordinata al fatto che le nazioni destinate a sottomettersi siano disposte a dimenticare virtualmente il loro orgoglio nazionale. La condizione essenziale per realizzare il progetto di pace universale su queste basi è un’eliminazione o decadenza di questa propensione, in misura sufficiente, anche se non necessariamente totale. Quale sia la misura in cui i popoli da dominare potranno conservare la mentalità originaria, senza per questo compromettere la riuscita del piano, dipende in gran parte dalla clemenza o dal rigore adottate dall’autorità superiore per imporre il proprio potere. Un piano di pace su queste basi, se non esula del tutto dalla sfera della realizzabilità, rimane evidentemente piuttosto problematico, a causa di quella condizione necessaria. I fautori di una pace negoziata devono ricordare e render noto che la conseguenza secondaria della loro proposta è la resa incondizionata, e cioè un regime di non-resistenza. Quello di cui si dubita è, appunto, che i popoli occidentali possiedano oggi o possano acquistare, in futuro, una mentalità e un atteggiamento abbastanza tolleranti e indifferenti sulla questione dell’orgoglio nazionale, che permetta loro di sottomettersi – più o meno – ad un governo imperiale straniero. Se si potesse superare, conciliare o eliminare in qualche misura la difficoltà spirituale rappresentata dall’orgoglio nazionale predominante, ancora piuttosto radicato, per futile che possa sembrare ad una sobria riflessione, e dall’insubordinazione particolaristica, il progetto di sottomettersi pacificamente ad un’autorità straniera ed arbitraria diventerebbe realizzabile, e si potrebbero porre le basi per metterlo in pratica attraverso il progetto della pace negoziata.

È dimostrato, considerando obiettivamente quest’eventuale regime, che i popoli soggetti non hanno ragione di temere danni o perdite, dal punto di vista materiale; anche se ad un esame su perficiale può sembrare che un regime straniero debba portare con sé dei gravi carichi, fiscali o simili. Guardando meglio, tuttavia, è facile rendersi conto che non è possibile aggravare di molto gli oneri economici già imposti al popolo dai vari governi nazionali. Per giunta, l’eventuale dominio imperiale dovrebbe esser molto esteso e dotato di poteri molto ampi. Il suo precedente storico più vicino, naturalmente, è l’Impero Romano, all’epoca degli Antonini, e l’esempio più vicino alla progettata pace tedesca è la Pace Romana, nei suoi giorni di maggiore stabilità. Vi sono tutte le ragioni di credere che il dominio imperiale dovrebbe abbracciare la totalità dei territori, anzi l’impresa non prevede altro limite che l’egemonia assoluta. Dunque una volta eliminato ogni pericolo esterno i provvedimenti per la difesa comune dovrebbero esser assai inferiori agli sforzi difensivi complessivi delle singole nazioni, che mirano ciascuna a proteggere gelosamente e separatamente la propria integrità nazionale. Anzi, paragonate all’onere degli armamenti competitivi a cui i popoli europei sono abituati, le necessità militari sotto il nuovo regime sarebbero trascurabili, anche considerando l’impegno ben più imperativo e pesante di mantenere con la forza la pace all’interno. I cittadini dei paesi assoggettati entrerebbero nella composizione di questo piccolo contingente armato solo in proporzione minima, prima di tutto perché non ce ne sarebbe bisogno, e poi perché non ci si potrebbe aspettare da loro, se non una vera slealtà, neppure una fedeltà assoluta verso la dinastia. Da questo punto di vista il progetto è altamente raccomandabile sotto l’aspetto economico, sia per gli obblighi economici che comporta, sia perché evita la seccatura personale del servizio militare. Si presume, però, che l’onere del governo imperiale e della sua burocrazia – cioè il costo del mantenimento e dei restauri dell’organizzazione dinastica e del suo apparato di controllo – sarebbe a carico dei popoli soggetti. Ma anche in questo caso un governo centralizzato permetterebbe probabilmente un’economia sostanziale, alleggerendo, nel complesso, gli oneri economici gravanti sui sudditi. Certo le spese fisse generali non sarebbero ridotte all’osso; un’organizzazione politica, con il suo personale amministrativo, la sua «lista civile» e le sue classi privilegiate, non può fondarsi su un regime parsimonioso. Non v’è ragione di aspettarsi molta discrezione dalle esigenze

personali della dinastia o della sottostante gerarchia di gentiluomini. Inoltre, in questo caso, vanno messi in bilancio dei contributi, più o meno notevoli ed onerosi, per conservare e potenziare quella civiltà di cui si sono tessuti così alti encomi. Non dimentichiamo che il modello per eccellenza di questi encomi è l’Atene di Pericle, e sappiamo quale uso fece l’Atene di Pericle dei fondi della Lega, e l’origine e la destinazione di quei fondi in surplus. Da tutto questo, appunto, nacquero le opere dell’Acropoli e molta parte della vita intellettuale ed artistica che convergeva e si irradiava dal centro della civiltà ateniese. Il panorama di Denkmäler8 che si spalanca davanti ad una fantasia sbrigliata è tale da esaltare l’animo di ogni essere umanoa. Sovvenzionare così la civiltà sarebbe senza dubbio costoso, ma gli uomini responsabili che hanno dedicato riflessioni profonde ai presumibili vantaggi che essa trarrebbe dal dominio imperiale non sembrano nutrire alcun dubbio che ne valga la pena. Chi volesse sopravvalutare i presumibili costi e le perdite finanziarie, sarebbe senz’altro in grado di scovare varie e disparate voci di minor importanza da aggiungere a questo breve elenco di categorie generali nel capitolo spese; ma tali voci supplementari, che non rientrano a pieno diritto in quei capitoli generali, sarebbero in ultima analisi d’importanza secondaria, sia complessivamente che nei particolari, e non influenzerebbero in modo considerevole il bilancio dei profitti e delle perdite finanziarie ai fini della valutazione del progettato regime imperiale. Appare evidente come vi siano scarsi motivi per ritenere che la sua introduzione comporterebbe una diminuzione o un aumento netto degli oneri finanziari. Esiste naturalmente il capitolo, non ben definito e difficilmente definibile, delle spese che vanno sotto la voce generale della nobiltà, della dignità, della distinzione, della magnificenza, o comunque si voglia indicare quel consumo di beni e servizi che serve a mantenere alto il prestigio della corte ed a tener sotto controllo l’aristocrazia. Dal punto di vista dell’incidenza finanziaria questo tipo di spesa (necessaria) appartiene al genere dello spreco vistoso, dotato di un’inquietante flessibilità che si è costretti ad affrontare. La domanda di consumi di questo tipo, come direbbero gli economisti, è «estensibile all’infinito» come, del resto, dimostrano ampiamente vari esempi storici di splendore cortigiano e di magnificenza mondana. Esiste una tendenza costante a migliorare questo «tenore di vita» convenzionale fino al limite consentito dai mezzi a disposizione, anche se le esigenze delle convenzioni non arrivano in genere fino al punto di assorbire tutte le risorse disponibili. Talvolta – come sotto l’ancien régime e forse nella Roma imperiale – lo standard di vita è giunto ad

esser così sontuoso da superare le disponibilità correnti, impoverendo il resto della comunità. Non è il caso, adesso, di addentrarci in un’analisi delle circostanze che presiedono alla flessibilità dello standard convenzionale di vita e di magnificenza finanziaria. La considereremo una voce, indefinita ma considerevole, tra gli oneri che l’eventuale dominazione imperiale imporrebbe ai popoli soggetti. Valutare esattamente il costo della corte imperiale, della nobiltà e della burocrazia, sarebbe difficile; eppure, con tutta probabilità, questo grande apparato potrebbe sfoggiare una dignità ed una magnificenza adeguate con una spesa complessiva relativamente minore di quella affrontata, per gli stessi scopi, dalle varie nazioni che agiscono singolarmente, intralciandosi a vicenda. Tuttavia, sarebbe errato pensare che per la produzione di decoro, con le sue spese sontuose devolute al superfluo, valgano le stesse considerazioni economiche fatte per gli armamenti difensivi. Se la creazione di un organismo nazionale collettivo (comprendente in pratica tutte le nazioni rivali) ridurrebbe sensibilmente la necessità di armamenti difensivi, fino a farne un’entità trascurabile, non per questo diminuirebbe di pari passo la necessità di consumare beni superflui e decorativi, a maggior gloria e prestigio del governo centrale. Quest’esigenza di decoro e di magnificenza è in parte soltanto, e forse in piccola parte, di carattere difensivo. Per la maggior parte, invece, il movente di questo spreco vistoso, nella politica imperiale e nella vita privata alla moda, è la vanità personale; o, volendo usare maggiore rispetto, sono dei particolari criteri di comportamento, che prendono il nome di vanità personale, quando li si incontra in mezzo agli uomini che stanno al disotto del livello imperiale. Se questa forma di «avviamento», creato facendosi pubblicità, si limitasse a dei motivi del tutto personali, la sua incidenza economica non avrebbe probabilmente grande importanza. Si ritorna necessariamente al principio ora enunciato, secondo cui il consumo di beni superflui è estensibile all’infinito, con il risultato che è impossibile calcolare l’eventuale ammontare di questa voce del capitolo spese del bilancio imperiale e, di conseguenza, gli oneri economici che imporrebbe ai suoi sudditi. Finora abbiamo discusso l’incidenza finanziaria del progettato dominio imperiale in rapporto alla società nel suo insieme, senza fare distinzioni tra gli interessi contrastanti delle diverse classi e condizioni sociali che compongono una società moderna. Il problema che stiamo dibattendo riguarda la distribuzione degli oneri economici e, quindi, gli interessi economici delle

diverse e distinte classi e categorie. In tutte le nazioni moderne, ora al bivio tra la pace per sottomissione o una dubbia e malinconica alternativa, per legge e per convenzione gli uomini sono tutti inviolabilmente uguali di fronte alla legge; di fronte alla legge sono uomini liberi e uguali, che peraltro, secondo gli imparziali verdetti della legge, sono uguali anche nel fatto di considerare sacri ed inviolabili i doveri e gli obblighi economici. Questa parità economica costituisce in pratica una parità impersonale tra grandezze finanziarie; perciò sotto il profilo economico i cittadini delle nazioni progredite non sono uguali tra loro, e nemmeno liberi; infatti, all’ombra impersonale della legge, una potenza economica più grande sarà sempre in grado di dominarne una più piccola. Le distinzioni di classe, tranne le distinzioni di censo, sono sparite. Ma tutte le società moderne sono costituite di classi economiche, divise, nei casi marginali, solo da impercettibili sfumature, ma dopotutto identificabili in due gruppi ben distinti: quelli che hanno di più e quelli che hanno di meno. Gli statistici si sono dati molta pena per dimostrare che una minoranza numericamente molto piccola dei cittadini delle nazioni moderne possiede tutta la ricchezza del paese, salvo una percentuale relativamente minima. Così, per esempio, in un paese come l’America, meno del dieci per cento degli abitanti possiede un po’ più del novanta per cento della ricchezza del paese. Quindi, non è esagerato dire che la sua popolazione è formata da due classi: quelli che possiedono la ricchezza del paese e quelli che non la possiedono. A stretto rigore, davanti alla legge quest’affermazione non è valida, ma dal punto di vista pratico rende abbastanza bene l’idea. La seconda classe, che ha un interesse puramente immaginario per i destini economici della nazione, è la categoria di cui spesso si parla come dell’uomo comune. Per l’altra categoria, formata da coloro che possiedono, non si è ritenuto necessario né desiderabile trovare una definizione corrispondente. Riconoscere esplicitamente questa divisione in classi e condizioni contrastanti e dotate di conseguenza di interessi economici almeno potenzialmente contrastanti non implica affatto approvazione o disapprovazione della realtà di fatto. Rendersi conto di questo fatto è necessario per poter condurre un’analisi ragionata delle possibili divergenze sistematiche interne tra gli interessi materiali dei vari individui, sotto l’eventuale governo imperiale. In sostanza si tratta di una distinzione tra coloro che hanno e coloro che non hanno, e sappiamo bene che nell’eventualità di una perdita economica l’uomo che non ha nulla da perdere

è in posizione ben diversa da quello che ha qualcosa da perdere. Potrà sembrare irriverente, e forse privo della cortesia che si deve al proprio eventuale signore assoluto, dire con il poeta, Cantabit vacuus corani latrone viator9. Ma la questione non è così semplice. Il quadro che abbiamo presentato sarebbe pertinente solo nel caso in cui l’incursione economica in questione equivalesse al semplice sequestro della ricchezza esistente, mentre lo scopo dell’Impero non è un saccheggio passeggero, bensì uno sfruttamento permanente. Quando entrano in gioco le condizioni di vita e di sopravvivenza a lungo termine, il problema cambia e si complica. Il cittadino che non ha niente, o che, comunque, non ha fonti capitalizzabili di reddito non guadagnato, ha, tuttavia, degli interessi economici, in quanto deve guadagnarsi la vita giorno per giorno; quindi è vulnerabile finanziariamente, nel senso che i suoi mezzi di sussistenza possono esser sottoposti con la massima facilità a vari balzelli, in base a metodi vari e lungamente sperimentati. Anzi l’uomo comune, che dipende per vivere dal suo guadagno quotidiano, è in una posizione assai più precaria di coloro che hanno qualcosa al sole per i momenti difficili, sotto forma di una rendita capitalizzata. Non si sa però se la sua situazione sia precaria al punto da esporlo ad un notevole aumento di difficoltà materiali o alla perdita di qualunque piacevolezza della vita nella stessa misura del suo vicino agiato. In realtà c’è da dubitare che l’uomo comune abbia veramente molto da temere quanto a disagio e perdita di benessere materiale dal progettato regime di tutela imperiale. Presumibilmente, si troverebbe in una situazione precaria sotto l’autorità arbitraria e irresponsabile di un padrone straniero, che agirebbe per il tramite di una classe padronale straniera. Quello di cui si dubita è appunto se l’uomo comune sia destinato a trovarsi in una situazione più precaria, esposto ad un trattamento più duro e ad un tenore di vita più miserabile di quello che già subisce nei suoi rapporti economici con i suoi compatrioti benestanti, nell’àmbito del sistema attuale di legge ed ordine. Secondo l’odierno regime di legge ed ordine, secondo gli equi princìpi dei diritti naturali, l’uomo senza mezzi economici non ha diritti economici che il suo ricco padrone sia tenuto a rispettare. È probabile che questa sia stata una conseguenza involontaria, e certo imprevista, del passaggio dal feudalesimo, con i suoi diritti e le sue immunità vincolanti, al sistema della libertà individuale e dei diritti dell’uomo; ma, come sempre quando avvengono dei mutamenti radicali nel sistema istituzionale, le conseguenze impreviste

arrivano insieme a quelle intenzionali. Nel periodo storico in cui l’Europa occidentale stava raccogliendo le esperienze da cui è nato il consueto sistema odierno di legge ed ordine, il diritto di proprietà e di libero scambio era complemento e salvaguardia dell’iniziativa individuale e dell’uguaglianza sociale, per cui appunto lottavano i partigiani di un’epoca nuova. Se le cose non stanno più così oggi, lo si deve in gran parte a delle trasformazioni in campo economico che si sono verificate da quel momento in poi e che, allora, non erano forse prevedibili. In tutta buona fede, salvo alcune trascurabili riserve, le sorti materiali dell’uomo civile moderno – e molto altro ancora – sono state messe su un piano puramente finanziario, senza alcuna protezione, salvo gli inalienabili diritti di autonomia e libera iniziativa finanziaria; e questo in un ambiente dove, in pratica, tutti i mezzi indispensabili di autonomia e libera iniziativa economica sono appunto nelle mani di quella ristretta categoria di proprietari, di cui sopra. Una minoranza numerica, inferiore al dieci per cento della popolazione, rappresenta una maggioranza finanziaria determinante – più del novanta per cento della ricchezza – sotto l’egida di un sistema di legge ed ordine che si impernia sul diritto inalienabile dei padroni a disporre di questi mezzi, come meglio conviene al loro profitto; senza però, naturalmente, ricorrere alla forza illegalmente o alla frode. Tuttavia, in caso di necessità, vi sono ampie possibilità di ricorrere legalmente alla violenza o alla frode protetta dalla legge. Naturalmente gli espedienti che abbiamo definito forza e frode, autorizzati dalla legge in difesa dei diritti economici e dei profitti finanziari, non sono violenza e frode de jure ma solo de facto. Sono una prova ulteriore e ben nota di come le conseguenze posteriori di certi criteri istituzionali e di certi princìpi convenzio-nalizzati (abitudini di pensiero) possano, con il passar del tempo, diventare assolutamente contraddittorie rispetto ai fini che avevano fatto adottare queste istituzioni e avevano fatto affermare e standardizzare queste norme abituali di condotta. Per il momento, tuttavia, sono «fondamentalmente ed eternamente giusti e buoni». Trattandosi di una maggioranza finanziaria – diciamo di una maggioranza del capitale azionario – della nazione, è altrettanto fondamentalmente ed eternamente giusto e buono che gli interessi economici dei padroni dei mezzi materiali di vita regolino incontrastati tutte le questioni di politica collettiva che hanno rapporto con le fortune materiali della società nel suo complesso. Salvo un leggero e intermittente mormorio di scontento, la situazione gode anche dell’appoggio cordiale del sentimento popolare nelle nazioni

democratiche moderne. Basta solo ricordare l’importanza suprema che si attribuisce, in genere, alla tutela e all’espansione del commercio nazionale (a vantaggio degli azionisti) o al mantenimento di una tariffa protettiva (a vantag gio di determinati interessi affaristici protetti); o, ancora, la scrupolosa attenzione con cui un organo di pubblici funzionari quale l’lnterstate Commerce Commission10 difende le legittime pretese delle compagnie ferroviarie che aspirano ad una «ragionevole» percentuale di guadagno sul valore capitalizzato della capacità redditiva presunta della loro proprietà. Ancora una volta, tenuto conto dell’insolita libertà con cui, nel nostro caso, è necessario parlare di queste delicate questioni, riteniamo opportuno smentire che da parte nostra ci sia la minima intenzione di criticare i meriti delle strutture costituite, in quanto dettagli di politica comune. Ci occupiamo della legge e dell’ordine attualmente in vigore soltanto per fare un confronto tra la sorte dell’uomo comune sotto il regime attuale e quella che lo aspetterebbe, presumibilmente, sotto l’eventuale regime di tutela imperiale, destinato ad affermarsi appunto qualora le nazioni si arrendessero al dominio imperiale. Nei paesi democratici la politica è guidata, in primo luogo, da considerazioni di convenienza affaristica, e il governo, al pari del potere legislativo, è nelle mani di uomini d’affari scelti esplicitamente in base ai loro princìpi ed alla loro abilità negli affari. In queste società non esiste potere capace di soverchiare le esigenze degli affari; e il sentimento popolare, dal canto suo, non appoggerebbe un’autorità che tentasse di contrastare queste esigenze o di limitare il commercio o di scoraggiare la ricerca del profitto. Un’apparente eccezione alla regola si ha in tempo di guerra, quando le necessità militari possono sopraffare le esigenze normali degli affari; ma l’eccezione è in gran parte apparente, in quanto le operazioni di guerra sono intraprese, in tutto o in parte, per proteggere o espandere gli scambi commerciali. Da quando si sono affermate le istituzioni democratiche, la vigilanza e il controllo della nazione sul commercio hanno sem pre avuto il carattere d’interferenze sugli scambi e gli investimenti a favore della comunità mercantile nazionale nel suo complesso, come i regolamenti portuali e marittimi e il servizio consolare; o, come nel caso delle tariffe protettive e dei sussidi, a favore di determinati gruppi o classi di aziende. In tutta l’amministrazione nazionale degli affari economici secondo i princìpi democratici moderni, l’uomo comune entra solo come materia prima degli

scambi commerciali, come consumatore o come lavoratore. Egli è uno degli agenti dell’industria, per mezzo del quale l’uomo d’affari che lo impiega si provvede di beni per il mercato, o un’unità della domanda di consumo che forma questo mercato, del quale l’uomo d’affari ha bisogno per vendere i suoi prodotti e «realizzare» sui suoi investimenti. Naturalmente, stando ai princìpi dell’ordinamento democratico, egli è libero di prestarsi o meno, sia come lavoratore che come consumatore o come piccolo produttore che si incarica di fornire materiali o servizi, alle condizioni imposte dal grosso capitale, abbastanza importante per poter dettare tali condizioni. Cioè, egli de jure è libero di prendere o lasciare, ma de facto, salvo rarissime eccezioni, è libero soltanto di prendere, dato che l’unica alternativa è l’obsolescenza per disuso, per non usare un termine più sgradevole per una spiacevole eventualità. Il principio in base al quale il sistema affaristico, operante in obbedienza alle esigenze decisive del cosiddetto «grande capitale», determina la vita dell’uomo comune che lavora e compra, è quello di «far pagare il prezzo più alto che il mercato può consentire»11, cioè di fissare i termini della compravendita ad una cifra tale da ottenere il massimo utile netto per le aziende che hanno in mano il potere. Quindi il potere non. appartiene che alle aziende inserite nel sistema del «grande capitale» o che dispongono di risorse sufficienti per essere dei membri agguerriti del sistema. Ai fini degli interessi materiali dell’uomo comune, è perfettamente indifferente che questi gruppi finanziari agiscano separatamente o per collusione e intesa tra di loro, nel dettare le condizioni della vita economica della società; ciò che conta è sempre il massimo profitto; ed a questo criterio ci si conforma, per quanto consente l’umana debolezza dei potenti capitani d’industria, sia che lo scopo si ottenga con una gara di offerte competitive sia per consultazione collusiva. Il quadro generale delle condizioni materiali di vita dell’uomo comune sotto il regime del grande capitale, che ora abbiamo presentato, può sembrare esagerato ed arbitrario. Vale dunque la pena di fare delle precisazioni, soprattutto perché non si pensi che abbiamo trascurato qualche elemento concreto della situazione. Il «sistema» dei grandi affari, che agisce tramite la grande industria, ma più propriamente attraverso il commercio affaristico su vasta scala ed a grande portata, avvolge nelle sue maglie e, in un certo senso, condiziona l’intera società, con tutti i suoi abitanti. Rimane tuttavia, sinora, una frazione non trascurabile degli abitanti, per esempio le comunità agricole periferiche «arretrate», che non sono strettamente legate al ben ordinato sistema degli affari e non dipendono necessariamente dal mercato. Si può dire

che costoro godono di una certa indipendenza, perché hanno rinunciato, nei limiti del possibile, ai vantaggi offerti dalla specializzazione industriale moderna. Ci sono poi i piccoli commerci interstiziali che seguono ancora i metodi dell’artigianato e che, in un certo senso, sfuggono tuttora in parte alle maglie del sistema. Ci sono poi varie altre piccole cose di cui si dovrebbe tener conto in un esame esauriente, ma in sostanza si riducono a delle spigolature e a dei residui senza importanza, che non possono modificare, sostanzialmente, la proposizione generale che abbiamo enunciato. Inoltre, in lungo e in largo nella comunità degli affari, c’è una certa percentuale d’incompetenza o d’inefficienza dirigenziale, almeno postulando che tutto il sistema, nel suo complesso, possa funzionare perfettamente. Questo può dipendere da qualche mancanza di attenzione, qua e là, oppure dalla strategia degli affari che può indurre certe aziende ad un atteggiamento di ce vigile attesa», nella speranza di cogliere il rivale di sorpresa, oppure da qualche malinteso tra i potenti uomini d’affari che proteggono in modo eccessivo i segreti commerciali o le informazioni anticipate, o forse anche – il che è scusabile – dalla mancanza di una perfetta fiducia reciproca tra gli interessati nella buona fede e nella buona volontà gli uni degli altri. Il sistema è, dopo tutto, basato sulla competizione, nel senso che ognuno dei capitani d’industria lavora per il suo proprio guadagno, che sia in cooperazione con i suoi colleghi o meno. «Un uomo onesto sta in guardia». Come in altre società cospiratorie a fini di lucro, i confederati sono pronti a rompere le file quando si arriva alla resa dei conti. Nel sistema ci sono delle debolezze intrinseche, che ne compromettono il perfetto funzionamento. Proprio questo gli impedisce di realizzare in pieno il principio di sfruttare al massimo le possibilità del mercato e proprio per questo il suo peso e la sua pressione sull’uomo comune non giungono all’ultima goccia, forse neppure alla penultima. Ma si tratta pur sempre di una questione di approssimazione alla realtà concreta, che non invalida la proposizione teorica che abbiamo già formulato. Vale la pena di notare che, se un’autorità esterna controllasse il sistema economico in modo vigile e imparziale, avendo di mira solo i risultati complessivi anziché i profitti individuali differenziati, essa sarebbe probabilmente in grado di correggere alcuni difetti che sorgono, invece, sotto la spinta sregolata di incentivi di vario tipo. D’altro canto ricordiamo che se, qualche volta, l’amministrazione degli affari non sfrutta proprio a fondo tutte le possibilità del mercato, accade tuttavia più spesso che le sfrutti in modo eccessivo. Questo vale

particolarmente per il trattamento riservato ai lavoratori dipendenti e, forse con conseguenze altrettanto gravi, nell’eccessivo uso di sofisticazioni e adulterazioni, o nel tener conto con troppa parsimonia delle esigenze di sicurezza, di salute o di comodità dei clienti, per esempio di quanti viaggiano per ferrovia, sull’acqua o sulle linee tramviarie. Si ha qui un divario tra la convenienza affaristica ai fini del profitto di un dato uomo d’affari, da un lato, e la pubblica utilità, dall’altro. L’interesse degli imprenditori per i servizi che si impegnano a fornire è immediato e mira, tutt’al più, ad un guadagno immediato, mentre l’interesse della collettività per il pubblico servizio posto sotto il controllo dell’imprenditore è durevole ed a lunga scadenza. Per l’uomo d’affari, l’incentivo è rappresentato dall’utile netto che ne può derivare, cioè, in sostanza da condizioni di vendita vantaggiose; mentre l’uomo comune, che com pone la comunità, ha interesse soltanto per i servizi e per gli effetti duraturi che questi traffici possono dare. L’uomo d’affari non ha in genere alcun interesse, o almeno non se ne lascia influenzare, per le conseguenze ulteriori delle transazioni in cui è immediatamente impegnato. Questo è particolarmente valido nell’ambito del commercio su vasta scala alimentato dall’industria su vasta scala, diretto secondo i metodi della moderna finanza azionaria. Questo sistema ha chiaramente ristretto i limiti di tempo in cui un dato azionista conserva un effettivo interesse per quella certa iniziativa economica collettiva in cui può, ad un certo momento, aver investito il suo denaro. In altre parole, la pratica abituale dell’espediente finanziario di organizzare le imprese mercantili e industriali sulla base di azioni commerciabili, con la pressoché totale esenzione dalla responsabilità e da un attaccamento personale duraturo nei confronti delle imprese economiche collettive, ha fatto sì che gli azionisti e i dirigenti abbiano un interesse puramente temporaneo nell’impresa. Il lasso di tempo in cui l’imprenditore è (finanziariamente) responsabile del buon funzionamento di una determinata impresa, e che un tempo si considerava essenziale per un’amministrazione saggia ed oculata in grado di mantenere l’avviamento dell’azienda, si è in media così accorciato da diventare praticamente inoperante. In linea di massima, pare inevitabile che gli interessi economici della comunità e quelli degli uomini d’affari divergano sempre più, in forza di circostanze istituzionali che non si possono controllare, senza violare immediatamente il sistema dei diritti personali su cui si fonda la costituzione della società democratica moderna. Che le società moderne si trovino in un

labirinto, per aver adottato il «semplice ed ovvio sistema della libertà naturale», è dimostrato, in modo ampio e convincente, dai cosiddetti «problemi del lavoro» e, in modo più recondito ma non meno convincente, dalla sorte del singolo lavoratore, nell’ambito di questo moderno sistema. Il costo di produzione di un operaio moderno è andato costantemente aumentando con il progresso dell’industrializzazione. Il periodo di preparazione, educazione e tirocinio necessario per ottenere un operaio specializzato si è allungato, mentre il periodo di piena efficienza lavorativa è diminuito, nelle industrie che impiegano i delicati ed impegnativi procedimenti della tecnologia moderna. Il fatto che il periodo della vita lavorativa di un operaio si sia abbreviato si deve al prolungarsi del periodo necessario alia sua preparazione; inoltre questi processi richiedono un uso così pieno delle forze del lavoratore che persino l’inizio della vecchiaia può diventare un serio inconveniente, e in molte occupazioni un inconveniente decisivo; per di più l’eccesso di lavoro provoca un invecchiamento precoce e quindi abbrevia la vita lavorativa. L’accelerazione del ritmo del lavoro («organizzazione scientifica» ?)12 abbrevierà in modo eccessivo il periodo lavorativo della vita, consumando la mano d’opera con una maggior velocità ed una pressione più intensa; quindi, dato il ritmo più rapido di deterioramento, essa porterà in breve ad un consumo anti-economico della mano d’opera della comunità con un reddito inferiore al reddito netto per unità di manodopera o per unità di costo di produzione della suddetta manodopera. Date le premesse, gli incentivi dell’uomo d’affari e gli interessi economici della comunità nel suo insieme – per non parlare dell’interesse egoistico del singolo lavoratore – sono sistematicamente in contrasto. Il costo di produzione degli operai non ricade sull’azienda che li impiega, o almeno non in modo tale da far apparire che quella determinata azienda o quel certo imprenditore hanno un interesse diretto per il consumo più economico della manodopera impiegata tra il proprio personale. Si può fare una parziale eccezione nel caso in cui i processi usati richiedano uno speciale tirocinio, che si può ottenere soltanto attraverso la pratica di lavoro nel particolare impianto industriale in questione. Nei limiti in cui questo tirocinio, che si compie soltanto lavorando in quella determinata azienda, è parte essenziale della preparazione dell’operaio per quello specifico lavoro, l’imprenditore partecipa e si interessa al costo di produzione dell’operaio utilizzato, ed ha quindi un interesse finanziario nell’uso economico dei suoi dipendenti; che in genere si manifesta

con l’adozione di speciali precauzioni perché l’operaio non si licenzi determinando una perdita economica, dal momento che si dovrebbe sostituirlo con qualcuno che non ha ancora compiuto lo speciale tirocinio del caso. Questa riserva, tuttavia, interessa evidentemente solo una piccola percentuale della manodopera complessiva consumata dall’industria, sotto la direzione della finanza. Quindi, a parte questi esempi del tutto eccezionali, in cui si deve tener conto di una situazione particolare, è anche comprensibile che visto come vanno le cose l’uomo d’affari cerchi di utilizzare al massimo la manodopera di cui dispone nelle persone dei suoi dipendenti, e non al ritmo che sarebbe più economico per la comunità nel suo insieme (dato il costo della loro eventuale sostituzione), né secondo il criterio che soddisferebbe meglio i gusti o le condizioni di vita del singolo lavoratore, ma in modo da ottenere per sé il massimo utile netto. C’è un esempio illustrativo, anzi illustre, di questo astuto e fruttuoso modo di consumare la manodopera, condotto in modo sistematico e con effetti costantemente vantaggiosi in una delle maggiori industrie di base del paese. In questa tipica, benché eccezionalmente fortunata e lucrativa impresa, la parola d’ordine della direzione era di assumere soltanto operai specializzati, in ogni settore specifico di lavoro, di procurarsi questi operai scelti e di trattenerli offrendo salari leggermente superiori alla media, di sfruttare il lavoro di questo complesso selezionato al massimo ritmo e pressione possibili, per poi licenziarli al primo segno d’invecchiamento o d’indebolimento delle energie. Le regole della gestione prevedevano anche che l’impresa non si assumesse alcuna responsabilità per la sorte successiva degli operai licenziati in fatto di pensioni, assicurazioni e simili. L’azienda ebbe grande successo e lautissimi guadagni, anche superiori alla media, pure piuttosto alta, delle altre aziende dello stesso settore. Da essa nacque una delle più grandi ed illustri fortune che siano state accumulate nel secolo scorso; una fortuna che ha prodotto uno dei più notevoli e graziosi tra i molti notevoli filantropi di questa generazione, mai stanchi di far del bene13; ma che tuttavia, grazie a questo abile sfruttamento della manodopera, si trova nella singolare situazione, malgrado i suoi asseriti instancabili sforzi, di non poter portare i suoi continui esborsi al servizio dell’umanità ad eguagliare la cifra del suo reddito attuale. Questo è uno dei casi più meritori registrati negli annali della finanza moderna, che, mentre serve a esemplificare convenientemente molte altre, e magari più conseguenti, verità realizzate dalla marcia della democrazia trionfante, serve altresì a dimostrare i vantaggi dello

sfruttare astutamente a fondo la manodopera, tenendo d’occhio unicamente il proprio utile netto espresso in denaro. In questo aspetto dell’articolazione del sistema economico moderno, un’autorità estranea abbastanza spietata e non ostacolata da un’attenzione esclusiva per gli interessi economici degli imprenditori potrebbe presumibilmente imporre con successo un consumo più economico della manodopera del paese. Non è una questione su cui sia piacevole soffermarsi, ma non può nuocere, per una volta, far notare che i vari governi democratici, come sono organizzati e amministrati oggigiorno, operano nei limiti del possibile uniformemente in modo da avvantaggiare una sola classe; sono controllati e amministrati in favore di quegli elementi della popolazione che – da questo punto di vista – formano una sola e compatta classe, la classe che vive di reddito più che di lavoro. La si può chiamare a piacere la classe degli interessi finanziari, o del capitale, o dei gentiluomini; tanto, non cambia molto. La ragione per cui parliamo di questo gruppo, il cui posto nell’economia degli affari umani è quello di consumare, di possedere o di perseguire un margine di utile, è semplicemente per fare un confronto tra questo gruppo composito e l’uomo comune, il cui numero assomma al novanta per cento o più dell’intera comunità, mentre, come classe, non può contare che su meno di un decimo della ricchezza capitalizzata e in proporzione ancora minore entra nella composizione delle autorità discrezionali della nazione, il governo, nazionale o locale, i tribunali, i procuratori, i funzionari statali, diplomatici, consolari, militari e navali. Questo lo si potrebbe, volendo, chiamare un governo di gentiluomini, ma per gentiluomo si intende qualcuno che vive del reddito dei suoi investimenti e che, senza questa fonte di proventi liberi e cioè non guadagnati, diventerebbe un gentiluomo decaduto. Volendo andare ancora oltre, nel senso dei fatti concreti, c’è chi definisce le istituzioni attuali «capitalistiche», ma questo termine non è appropriato, in quanto non tiene conto dei fattore umano, mentre le istituzioni, come i governi e le loro strutture funzionali, non sono che i modi e i mezzi abituali del comportamento umano; perciò «capitalistico» diventa sinonimo di governo «degli uomini d’affari», se viene definito in base agli incentivi che lo muovono e alle persone che lo rappresentano. È un’organizzazione che si propone di soddisfare le esigenze delle imprese d’affari (cioè finanziarie) ed è composta di uomini d’affari e di gentiluomini, che è poi la stessa cosa, dato che un gentiluomo è solo un uomo d’affari della seconda generazione o di una successiva. Se non

fosse una cosa antipatica da dire, in un certo senso un gentiluomo, da questo punto di vista, è solo un uomo d’affari andato a male. In senso lato, e considerando la faccenda superficialmente, in base all’utile o alla perdita economica che comporta, è del tutto privo di importanza per l’uomo comune che i suoi affari collettivi siano nelle mani di uomini d’affari suoi connazionali, e dei gentiluomini loro discendenti, preoccupati soltanto di accelerare il ritmo e di aumentare i guadagni e le spese concorrenziali, da una parte, oppure in quelle di una gerarchia di funzionari stranieri, altrettanto distaccata dagli interessi della comunità, e mirante a sfruttarne le forze produttive in favore del dominio imperiale. Ancora una volta, ripetiamo che non è possibile metter in dubbio la buona fede o le intenzioni generose di questo governo di gentiluomini; intendiamo semplicemente parlare degli effetti pratici della politica da loro adottata, senza dubbio con le migliori intenzioni e con giusto compiacimento. Accade in effetti, dato come vanno oggi le cose nell’industria e nel commercio del mondo civile, che, per un qualche involontario ma universale caso fortuito, la gestione degli affari secondo i princìpi della finanza sia nettamente in contrasto con gli interessi dell’uomo comune. È necessario trovare ogni sorta di prove per render convincente una descrizione così poco simpatica del sacro nucleo della moderna organizzazione democratica. Quindi è desiderabile una certa indulgenza, prima di affrontare il séguito di questo spiacevole resoconto dell’inettitudine connaturata a questo modello istituzionale di vita civile, che riguarda il cosiddetto sabotaggio capitalistico. La parola «sabotaggio» si usa per designare un ritardo volontario, un’interruzione o un tipo di ostruzionismo attuato nell’industria per mezzo di misure pacifiche e, in genere, legali. In questo caso il termine non intende affatto denotare o insinuare il ricorso ad espedienti o procedimenti legalmente dubbi, o di discutibile legittimità. Il sabotaggio inteso in questo senso, in quanto non prevede il ricorso alla forza o alla frode, è un espediente necessario e indispensabile della gestione affaristica fondata sui princìpi elementari e intangibili del diritto di proprietà; cioè l’uomo d’affari, al pari di ogni altro proprietario, ha il diritto di usare o di non usare liberamente della sua proprietà a seconda della sua convenienza. Decidere autonomamente di non usare ciò che possiede, in un certo modo ed in un certo momento, rientra senz’altro nella sfera della sua legittima e impeccabile discrezionalità, secondo i diritti di proprietà universalmente accettati e difesi dalle nazioni moderne. Nel caso particolare della nazione

americana, il suo diritto è tutelato dalla norma costituzionale la quale prevede che egli non può esser espropriato senza un previo procedimento legale. Quando la sua proprietà consiste in impianti o materiali industriali, mezzi di trasporto, o partite di beni di consumo in attesa di distribuzione, allora la sua decisione di non usare la sua proprietà o di limitarne l’uso al di sotto del pieno impiego a cui sarebbe destinata diventa, salvo poche eccezioni senza importanza, sabotaggio. Così facendo, egli ostacola, ritarda o limita le forze industriali della nazione. È un fatto acquisito e assolutamente necessario per la condotta degli affari, che ogni uomo d’affari in possesso di poteri decisionali debba esser libero di stipulare o di non stipulare un affare in un determinato caso, di limitare o di frenare, senza riserve, gli impianti che egli controlla; anzi, la direzione e la strategia degli affari non dispongono di altri sistemi per realizzare il loro scopo, cosicché, in ultima analisi, il talento per gli affari si riduce ad un uso giudizioso del sabotaggio. Nelle condizioni moderne del commercio su vasta scala, l’uomo d’affari esercita il suo potere nei confronti dell’industria autorizzando, limitando o arrestando d’autorità il funzionamento dell’industria, poiché appunto dall’uso più o meno sapiente di questo potere dipendono gli utili della sua azienda. Se egli esercitasse la sua autorità solo per ottenere la massima produzione di beni e servizi, o per usare nel modo più economico le risorse e la manodopera della comunità, senza pensare alle conseguenze finanziarie, si tratterebbe di strategia industriale e non di sabotaggio. Ma la gestione degli affari è impostata sul criterio dell’utile finanziario e non si propone di raggiungere il massimo livello di produttività o l’impiego più economico delle risorse. Il volume e l’utilità della produzione sono integralmente subordinati al massimo utile netto espresso in denaro che sono in grado di offrire date le circostanze. L’uso anti-economico degli impianti, del lavoro e delle risorse è necessariamente un fatto di tutti i giorni, come del resto la duplicazione degli impianti e dei procedimenti attuata dalle aziende rivali e lo spreco di tutte le risorse che non comportano spese da parte di una data azienda. Tra gli economisti e i pubblicisti è un dogma tradizionale che la libera concorrenza dovrebbe senza fallo portare la produttività industriale al suo massimo sviluppo possibile, servendo al tempo stesso, nel modo più scrupoloso e vigile, tutte le esigenze materiali della società. Potremmo illustrare nei particolari le ragioni del fallimento di questa rassicurante aspettativa, in particolare nei confronti della attuale gestione affaristica, se fosse necessario per corroborare quanto abbiamo già detto. Ma una

descrizione sommaria dei tipi più diffusi e degli effetti del sabotaggio, quale viene sistematicamente applicato nella gestione finanziaria dell’industria, potrà servire allo scopo con minor spreco di parole e di pazienza. Si nota di solito, e non è insolito dover deplorare, la duplicazione degli impianti e dei macchinari in molti settori dell’industria, dovuta ad una gestione concorrenziale, come nelle fabbriche che producono gli stessi prodotti, nelle linee ferroviarie o marittime parallele o comunque concorrenziali, nella vendita al dettaglio, ed anche, in una certa misura, nel commercio all’ingrosso. Il risultato naturalmente è il sabotaggio, nel senso che tutti questi dispositivi, materiali e operai non vengono usati a vantaggio della comunità, donde, in primo luogo, un inevitabile aumento del costo dei beni e dei servizi forniti. La ragione di tutto questo è la competizione per ottenere il massimo utile. Che questo sia uno stato di cose infelice viene riconosciuto da tutti, ma nessuno si sofferma troppo su questo rimpianto, dal momen to che tutti sono convinti che, date le circostanze, non vi è soluzione possibile, se non a prezzo di una ancora peggiore. Dal momento che il sistema concorrenziale è stato provato e trovato buono – almeno così si pretende – si pensa che debba esser accettato con i difetti insiti nelle sue qualità. Si suppone che le sue caratteristiche siano buone e accettabili per l’uomo moderno, i cui gusti sono stati livellati nell’àmbito di questo sistema, e che quindi solo con riluttanza e a titolo di tardiva concessione esso rinuncerebbe al modello della «libertà naturale», in cui s’inquadra il sistema competitivo della gestione industriale dilapidatoria attraverso la moltiplicazione di macchinari semi-inutili e di lavoro futile. L’uomo comune, alla peggio, consola se stesso ed il suo vicino riflettendo saggiamente che «Sarebbe potuta andar peggio». Gli imprenditori, dal canto loro, hanno cominciato a rendersi conto di questo spreco sistematico dovuto alla duplicazione e all’incompetenza e si sono consultati sui modi d’intercettare lo spreco per utilizzarlo a proprio profitto. Come soluzione, gli imprenditori si avviano a fondere insieme le aziende concorrenti ed a creare un controllo monopolistico. All’uomo comune, con i suoi concetti basilari sulla «repressione del commercio», il rimedio proposto sembra peggiore del male. Il guaio non sta tanto nel fatto che il monopolio non può correggere la cattiva gestione degli affari dovuta alla concorrenza sui mercati, quanto nel fatto che presumibilmente la comunità soffrirà, oltre ai disagi e agli oneri del regime di concorrenza e di sabotaggio, anche degli ulteriori inconvenienti e imposizioni

del monopolio finanziario, che – e su questo punto sono tutti d’accordo – sfrutterà i suoi vantaggi senza pietà, fedele al principio affaristico di ottenere il massimo utile consentito dal mercato. Nel mondo industriale c’è anche un altro fenomeno singolare, e cioè che poco meno della metà del macchinario industriale giace sistematicamente inoperoso per quasi una metà del tempo, oppure lavora a metà della sua capacità produttiva, per la metà del tempo, non a causa della concorrenza tra le varie industrie, ma perché le condizioni dell’industria non ne consentono il pieno ritmo produttivo; infatti la quantità di prodotti che si otterrebbe se il macchinario lavorasse in modo continuativo secondo le sue piene capacità non potrebbe vendersi a prezzo remunerativo. Di tanto in tanto, anzi, per la stessa ragione qualche stabilimento chiude i battenti nei momenti di fiacca. Se questo stato di cose è singolare in rapporto all’interesse materiale della comunità, non è certo nuovo e non si può davvero rimproverare ai capitani d’industria di arrestare il processo dell’industria e di lasciare inoperoso il macchinario industriale. Come è noto, le esigenze degli affari non possono tollerare che la produzione soddisfi, date le circostanze, le esigenze della comunità, benché – come tutti sanno – i momenti di fiacca, quando la produzione è sconsigliabile dal punto di vista della convenienza economica, sono in genere momenti di privazione diffusa, «tempi difficili» per la comunità in cui la mancanza di rifornimenti è duramente sentita. Non che i capitani d’industria siano colpevoli quando mancano o rifiutano di soddisfare i bisogni della comunità, ma piuttosto sono impotenti a dominare le esigenze degli affari. Non possono fornire i prodotti se non ad un certo prezzo, anzi ad un prezzo remunerativo, che aggiunga qualcosa ai capitali da loro investiti nelle varie imprese. Finché le esigenze dei prezzi e del profitto continueranno a dominare la situazione, non vi sarà modo di evitare l’inerzia forzata delle energie produttive del paese. Forse non è fuori luogo notare, per inciso, che le alte capacità produttive delle tecniche industriali, rappresentate ih concreto dagli impianti e dai processi industriali (così sistematicamente e volutamente ritardati o arrestati in base ai dettami del capitale), sono, al tempo stesso, l’orgoglio dell’uomo civile e la più tangibile realizzazione del mondo civile. Una stima prudente di questo solo tipo di sabotaggio capitalistico vi fa risalire una riduzione di almeno il venticinque per cento della normale capacità produttiva della comunità, calcolata in media e per un periodo adeguato. Riflettendo meglio, inoltre, ci si rende conto che, un anno dopo

l’altro, la forzata inattività degli impianti e del personale abbassa la produzione effettiva dell’industria del paese di quasi il cinquanta per cento delle sue normali capacità a pieno impiego. Molti troveranno eccessiva la nostra affermazione, ma riflettendo meglio sui fatti di pubblico dominio finiranno per persuadersi che non è poi tanto sproporzionata. Tuttavia il punto della questione non sta nelle percentuali precise o approssimative di questo arresto o ritardo, nella parziale neutralizzazione dei progressi dell’industria moderna; è piuttosto il fatto che – come è noto – un tale arresto si verifica sistematicamente e di proposito, in ottemperanza alle leggi della finanza, e che non è possibile porvi rimedio senza modificare anche gli articoli fondamentali della fede democratica, su cui si basano necessariamente gli uomini d’affari. Qualunque correttivo efficace spezzerebbe la struttura della legge e dell’ordine democratico, poiché dovrebbe contrastare gli inalienabili diritti di uomini che sono nati liberi e uguali e possono prendere o lasciare in qualsivoglia congiuntura economica. Nello stesso tempo, è evidente che – al giorno d’oggi – questa sfavorevole discrepanza tra capacità produttiva e produzione effettiva potrebbe esser rapidamente corretta, almeno in buona parte, da un’autorità abbastanza energica, che assumesse il controllo delle forze industriali del paese senza preoccuparsi dei profitti o delle perdite finanziarie. Un’autorità capace di impadronirsi del controllo e di dirigere la gestione dell’industria in vista della massima produttività (valutata in concreto, invece che in base al margine tra prezzi di vendita e costi di produzione) potrebbe ottenere con rapidità un incremento dell’effettiva capacità produttiva; ma ciò è realizzabile solo violando l’ordinamento democratico in cui è inserita l’organizzazione finanziaria. I vari oelligeranti europei stanno dimostrando che ciò è possibile e che il sabotaggio industriale può esser messo da parte con misure abbastanza eroiche. Nello stesso tempo stanno dimostrando di rendersi conto e di essersi sempre resi conto che la gestione dell’industria su basi capitalistiche è incapace di offrire la produzione massima di beni e servizi, incapace a tal punto, anzi, da non poter esser tollerata in un periodo di bisogno disperato, quando la nazione ha urgenza d’impiegare in pieno tutte le sue energie produttive, il suo macchinario e la sua manodopera, senza badare alle pretese finanziarie degli individui. Ora, il progettato dominio imperiale è un potere capace di modificare la situazione in modo tale da influire, in caso di necessità, sull’organizzazione democratica nel cui àmbito gli uomini d’affari dirigono l’industria del paese in

contrasto con gli interessi della comunità e cioè dell’uomo comune. È un potere straniero, per il quale la continuità del guadagno degli uomini d’affari della nazione è un problema secondario, addirittura trascurabile qualora risultasse che le mire di profitto individuale della gestione affaristica ostacolano lo sfruttamento delle forze produttive della nazione soggetta da parte dell’Impero. È difficile trovare dei motivi d’interesse per cui un governo imperiale potrebbe tollerare che l’industria delle nazioni soggette continui ad esser gestita sulla base di princìpi affaristici, e cioè in vista del massimo utile finanziario per i suoi dirigenti. Del resto l’esperienza recente insegna che il governo imperiale, nell’am-ministrare il suo usufrutto, non si lascia fermare da riguardi eccessivi o scomodi per gli interessi costituiti. È ragionevole supporre, senza malizia e con obiettività, che nel suo usufrutto dei paesi sottomessi lo stato imperiale avrebbe cura di non conservare alcun metodo di gestione industriale sistematicamente e gratuitamente antieconomico, almeno dal suo punto di vista. Tra l’altro bisogna ricordare che una massa soddisfatta, ben nutrica, e non indecentemente supersfruttata è un valido appoggio in questi casi. Analogamente e per contrasto un numeroso, ricco, e prodigo gruppo di gentiluomini, tenuto in grande stima dalla gente comune, non avrebbe grande valore per puntellare l’usufrutto di un potere straniero, anzi ne avrebbe forse uno negativo. Un’amministrazione saggia dovrebbe proporsi di indebolirlo, più che il contrario. Su questo punto l’interesse materiale dell’uomo comune sembrerebbe coincidere con quello dell’istituto imperiale. Tuttavia, i suoi preconcetti sulla saggezza e l’azione benefica dei suoi gentiluomini gli impedirebbero probabilmente di vedere il problema in tale luce ragionevole. È verosimile che, sotto la sorveglianza suprema di un potere straniero, guidato puramente dal suo proprio interesse nel servirsi del paese e della sua popolazione, i privilegi e le discriminazioni di classe diminuirebbero fortemente, se non sparirebbero addirittura. Rimane però un dubbio, in quanto l’istituzione straniera di cui si discute il dominio è essa stessa fondata sulle prerogative e sulle discriminazioni di classe e quindi, con tutta probabilità, porterebbe con sé nel sorvegliare le nazioni sottomesse una certa inclinazione verso i privilegi di classe. L’adozione di un criterio classista come strumento di controllo e di sfruttamento porterebbe alle stesse conseguenze. Forse, quest’ultima considerazione è la più importante, in quanto lo stato imperiale conosce bene, per antica abitudine, il modo di controllare per mezzo di un sistema di classe e di privilegio, anzi non conosce che quello. Un simile

governo, che governa senza il parere effettivo o almeno il consenso formale dei governati, dovrà necessariamente fondare la sua autorità sulle classi interessate, abbastanza forti e legate da interessi abbastanza consistenti per sostenere efficacemente l’imperiale organizzazione in tutte le sue imprese ed avventure. Ma quest’ordine privilegiato, che dovrebbe condividere l’usufrutto e le responsabilità dinastiche nella buona e nella cattiva sorte, ha una struttura feudale più di quanto non somigli ad una moderna comunità affaristica che opera con gli investimenti e con le astuzie finanziarie. Perciò sarebbe ancora possibile che le discriminazioni di censo tra le classi sparissero sotto questo protettorato straniero, soprattutto le misure di discriminazione intese a favorire una classe o un gruppo d’interessi a spese delle altre, per esempio le tariffe protettive, le concessioni monopolistiche e le immunità, l’intercettazione di particolari settori di risorse materiali e simili. Il carattere di questa politica economica non è difficile da prefigurare, se si riesce a concepire i popoli sottomessi come una proprietà vincolata della successione dinastica. Dunque, lo stato imperiale con tutta probabilità si impadronirà di queste nuove e maggiori risorse senza riserve, un po’ come di una proprietà che dev’esser abilmente amministrata in vista unicamente del proprio utile, tanto più che si è sempre comportato così verso i popoli e i territori del cui usufrutto già gode. Soltanto che, date le circostanze, potrà applicare in modo più libero ed astuto i princìpi di sfruttamento che sono alla base dell’antica civiltà della Madrepatria. Quest’esame, eccessivamente lungo e peraltro incompleto, dei presunti vantaggi materiali che migliorerebbero la situazione dell’uomo medio in un regime di pace per sottomissione incondizionata ad una dinastia straniera, pare voler concludere che questa prospettiva sarebbe positiva e non il contrario, o, almeno, che avrebbe i suoi compensi, anche se non si tratta di una cosa desiderabile. Ciò vale in particolare per chi sia incline a dare un’alta valutazione ai vantaggi culturali connessi con tale regime. Ma soprattutto, una politica di sottomissione passiva al progettato ordine nuovo sembra conveniente in vista del costo estremamente elevato, per non dire proibitivo, di opporvi resistenza, e persino di ritardarne la piena realizzazione. 1. Wilhelm Ostwald (1853-1932), chimico tedesco e docente a Lipsia; premio Nobel per la chimica nel 1909, direttore di una collezione di classici della scienza. 2. Le Filippine furono acquistate dagli Stati Uniti con la vittoria nella guerra contro la Spagna (1898). L’anno successivo ebbe inizio una rivolta contro i nuovi occupanti, guidata da Emilio Aguinaldo, che continue fino al 1902, anno in cui entrò in vigore una legge organica che assicurava una certa misura di autogoverno ai filippini.

3. Si riferisce all’occupazione tedesca del Belgio durante la prima guerra mondiale ed a quella giapponese della Corea successiva alla guerra russo-giapponese (1904-1905). 4. Occupata nel 1894 e Poi sgomberata; riconquistata, limitatamente alla penisola del Kwantung, nel 1905. 5. Nel 1914-15: i giapponesi si impadronirono della concessione tedesca di Tsing-tao e presentarono una serie di richieste ultimative al governo repubblicano cinese. Questa non era che una tappa del processo iniziato con la guerra cino-giapponese del 1894 e proseguito con l’espansione nipponica in Corea e in Manciuria. 6. Allusione agli irlandesi emigrati negli Stati Uniti, filotedeschi in odio all’Inghilterra. 7. La Confederazione del Sud (febbraio 1861-aprile 1865). a. Denk ’mal14! 8. Monumenti [in tedesco nei testo]. 9. Pensa un po’! [in tedesco nel testo]. Ironico gioco di parole tra Denkmal (monumento) e denk’mal (voce verbale). 10. GIOVENALE, X, 22. 11. L’Interstate Commerce Commission (I.C.C.) è un organismo del governo federale americano, istituito nel 1887 per la regolamentazione del commercio tra gli stati dell’Unione, con competenza soprattutto in materia tariffaria e di trasporti, proprio nell’intento di reprimere gli incredibili abusi perpetrati in materia di tariffe da parte delle compagnie ferroviarie monopolistiche. La legge che la istituiva rimase a lungo lettera morta, poiché la commissione aveva scarsi poteri. 12. Il motto è attribuito al commodoro Cornelius Vanderbilt, magnate delle ferrovie: «fate pagare il massimo consentito dal mercato, e il pubblico vada all’inferno». È un po’ l’emblema della politica dei prezzi condotta dalle compagnie ferroviarie negli anni della grande espansione. 13. Evidente accenno alla terminologia di Frederick Winslow Taylor (1856-1915). Il suo Princìpi di organizzazione scientifica fu pubblicato a New York nel 1911. 14. Si tratta di A. Carnegie, zfr. nota i a pag. 466. Fu appunto lui a parlare di «marcia della democrazia trionfante» in una serie di articoli pubblicati nel 1886.

CAPITOLO V. PACE E NEUTRALITÀ La scelta dell’uomo comune, sul piano degli interessi materiali concreti, potrebbe apparire più o meno scontata, se egli fosse disposto saggiamente e lucidamente a tener conto soltanto dei vantaggi statisticamente evidenti della questione. Comunque è presumibile che egli non abbia nulla da perdere in senso materiale: anzi rispetto agli agi materiali e alla sicurezza della vita e delle membra, gli potrebbe derivare qualche leggero vantaggio dall’eliminazione, almeno parziale, dell’esigenza finanziaria, considerata come unico vincolo e criterio usuale in materia economica. Ma l’uomo non vive di solo pane. Ciò è evidente quando si vadano ad esaminare i moventi delle azioni della massa, che di solito non formula le proprie aspirazioni e convinzioni in forma documentaria ampia e grammaticalmente corretta, e nella quale perciò gli impulsi non sono mascherati o travisati dall’illusoria concretezza del linguaggio convenzionale. In particolare, per la massa vale il principio generale, anche se non riconosciuto, che i mezzi materiali di vita sono, dopo tutto, soltanto mezzi e che quando si deve decidere del loro valore ultimo ci si accorge che né questi mezzi né la vita da essi condizionata possono servire come criterio decisivo; ma che tali mezzi materiali hanno sempre come punto di riferimento ultimo il perseguimento di qualche finalità ulteriore e immateriale. L’evidenza delle testimonianze e delle circostanze non è ancora sufficiente, ma vistele nella giusta prospettiva e considerati in particolare i moventi dell’azione collettiva come si presentano in qualunque massiccio movimento delle masse umane, rimane in fondo poco margine per contestare che gli unici beni che si impongono come indefettibilmente degni sono quelli dello spirito umano. Nelle società moderne questi ideali, aspirazioni, finalità, scopi non hanno affatto carattere uniforme e omogeneo e ancor meno lo hanno nel mondo civile, o nella multiforme varietà di classi e di condizioni sociali. Ma sono così diffusi e frequenti che qualunque analisi del comportamento umano deve partire dalla premessa fondamentale che essi sono di natura spirituale e immateriale.

Però è opportuno rilevare che la definizione dei moventi ultimi dell’azione come essenzialmente indipendenti dai fattori di benessere materiale dev’esser intesa in senso stretto. Vale per il comportamento delle masse; mentre è necessario fare qualche riserva perché valga in pieno anche per le classi nel cui modello di vita il benessere materiale ha effetti più sensibili. Ma poiché la questione riguarda il comportamento e i motivi del comportamento della massa, il caso dei più ricchi può esser tranquillamente messo da parte. Il problema da risolvere riguarda il comportamento dell’uomo comune, considerato nella massa, di fronte alle perplessità a cui lo hanno condotto le circostanze. Infatti il problema del comportamento futuro di questi popoli moderni è in ultima analisi il problema di ciò che farà l’uomo comune, considerato nella massa, di propria iniziativa o per forza di persuasione. I privilegiati potranno guidarlo, persuaderlo, blandirlo, ingannarlo, sacrificarlo; e ciò perché fra le tante peculiari forme di preconcetto che affliggono l’uomo comune vi è il convincimento che i suoi superiori siano in qualche modo migliori di lui, più accorti e più benefici. Ma, con o senza la guida e la persuasione delle classi superiori, sia la strada da scegliere che la tenacia e l’energia necessarie a seguirla sono condizionate dalla mentalità della massa. La natura e l’espressione concreta delle aspirazioni ideali che muovono la massa costituiscono materia d’inveterati pregiudizi; e le abitudini mentali variano da un popolo all’altro in rapporto alle diverse esperienze alle quali sono stati esposti. Fra le nazioni dell’Occidente il prestigio nazionale ha assunto il valore di un fine ultimo, più importante forse di tutto ciò che si può desiderar di possedere o raggiungere fra i beni di questo mondo. E nell’opinione di quelle nazioni che hanno meglio conservato le abitudini mentali frutto di una lunga esperienza di soggezione feudale, la devozione verso il sovrano o la dinastia costituisce tuttora il nucleo del sistema di civiltà, nel quale sentimento e azione convergono. È noto che sia fra i popoli democratici del passato, sia nell’uso e nel costume dei sudditi degli attuali stati dinastici – per esempio il Giappone e la Germania – gli uomini hanno coraggiosamente messo a repentaglio e perduto la propria vita in nome del prestigio del sovrano o addirittura per salvare la sua vita; laddove, naturalmente, anche una riflessione breve e confusa avrebbe rivelato come, dal punto di vista dell’utilità materiale pura e semplice, la morte del sovrano fosse del tutto irrilevante se paragonata alla perdita di un lavoratore valido. Il sovrano potrà esser in ogni caso sostituito, con qualche prospettiva di vantaggio pubblico; o, in mancanza di questo, bisogna sottolineare il fatto che

una reggenza o un interregno costituiscono, senza dubbio, un periodo di amministrazione relativamente economica. Inoltre l’entusiasmo religioso e la diffusione della propaganda religiosa possono servire lo stesso scopo generale degli ideali secolari e, con molta probabilità, altrettanto bene. Può accadere che certi «princìpi» di libertà personale, di autonomia creativa e di valida vita intellettuale possano diventare gli idoli del popolo che per essi sarà pronto a mettere a repentaglio le proprie sorti materiali; dove ciò è accaduto, come fra i popoli democratici della cristianità, è evidente che questi uomini tenaci sono disposti a lottare, non egoisticamente per poter vivere tranquilli alla luce di quegli alti princìpi, bensì impersonalmente, per il diritto umano che grazie a quei princìpi appartiene a tutta l’umanità e in particolare alle generazioni presenti e future. L’uomo comune persegue questi ed altri consimili fini astratti con una passione così inveterata che, se provocato, non si farà scrupolo alcuno pur di ottenere il suo scopo; per essi l’uomo comune è disposto a sacrificare la propria vita, almeno così si dice. È probabile che in tutto ciò vi sia una certa dose di affettazione retorica, ma in fondo ci sono prove di un attaccamento tenace dell’uomo comune a queste aspirazioni ideali, a questi idoli dello spirito umano, tale da poter dire che egli è, in genere, disposto a superare, per perseguire dei beni immateriali che andranno a vantaggio di qualcun altro, ostacoli maggiori che non per un qualche suo fine personale, come gli agi materiali o la gloria. Per questi fini l’uomo comune, nella cristianità democratica, se provocato, è disposto a morire. Mentre nella Cina pagana l’uomo comune, paziente e forse più lungimirante, è disposto a vivere per questi idoli, frutto di una inveterata immaginazione, a prezzo di contìnue offese e maltrattamenti. Le idee convenzionali dei cinesi sul vero valore delle cose differiscono da quelle occidentali in quanto non si possono realizzare che attraverso la continuità della vita. In Cina la responsabilità dell’uomo comune verso la causa dell’umanità ha un carattere così intimamente personale, che questi può farvi fronte solo cercando tenacemente di conservare il proprio posto nel succedersi delle generazioni; mentre dal turbinoso passato dei popoli della cristianità è derivato il preconcetto che il dovere dell’uomo verso l’umanità è simile ad un debito, che può esser cancellato con procedimenti fallimentari; cosicché l’uomo che muore inutilmente, combattendo per la causa, avrà con la propria morte implicitamente saldato il conto. Evidentemente se in queste nazioni moderne che dovrebbero finire sotto la

tutela del governo imperiale l’uomo comune potesse sostituire la propria mentalità con quello che è il suo corrispettivo cinese, ci sarebbero buone speranze che i consigli pacifici abbiano la meglio e che la cristianità possa godere di un regime di pace, sottomettendosi alla tutela imperiale. Ma ci sarà sempre da fare i conti con la caparbietà e l’insubordinazione di queste nazioni e con l’antica abitudine di ribelle solidarietà nazionale in difesa del prestigio nazionale, abitudine che fra questi popoli è più urgente di un generico sentimento di solidarietà verso l’umanità o di un ulteriore progresso della civiltà che possa derivare dalla continua pratica delle virtù della pazienza e della diligenza, in circostanze sgradevoli. La concezione occidentale della virilità è delineata spesso in termini negativi, al punto che ogni volta che viene in discussione il problema delle virtù virili l’essenziale, anzi il minimo indispensabile per una vita onorevole, viene di solito formulato in termini negativi, di divieto. Questa impressione è senza dubbio ingannevole, qualora la si accetti prescindendo dal postulato, universalmente accettato, sulla base del quale si formulano i requisiti negativi. Tutto questo si deve in buona parte a ciò che potrebbe definirsi una casualità storica. I requisiti irrinunciabili della virilità moderna sono il rifiuto assoluto di ubbidire ad una autorità estranea, l’esenzione da imposizioni e sottomissioni, in breve l’insubordinazione. Ma in effetti tale insubordinazione è poi soltanto il rifiuto di sottomettersi a un governo irresponsabile o autocratico. In senso positivo, essa significherebbe libertà dal controllo e dall’obbedienza verso qualunque autorità, che non sia fondata sull’espresso consenso dei governati. Formulata fedelmente e ridotta al minimo concreto irriducibile, questa è la sostanza ultima dei valori cui né la vergogna né l’onore possono permettere all’uomo civile moderno di rinunciare. Egli non acconsentirà mai a sottoscrivere un provvedimento che miri ad abrogare questo minimo di libera iniziativa e di autonomia, che riguardi le condizioni future di vita del suo popolo o le sorti di quegli stranieri che hanno le sue stesse idee su questo punto e che non sono in grado di far fronte alla violazione di questi diritti umani dall’esterno. Come è stato appena rilevato, la forma negativa che questi requisiti spesso assumono si deve ad una casualità storica, in quanto i popoli moderni sono pervenuti al loro pregiatissimo sistema di libertà naturale dopo esser usciti da un sistema precedente di positivo controllo dell’autonomia e della libera iniziativa; sistema che in effetti si richiamava molto da vicino alla giurisdizione imperiale che ancora predomina negli stati dinastici,, per

esempio la Germania e il Giappone, il cui ipotetico dominio è attualmente motivo di apprensione e di avversione. La fiduciosa affermazione del suo più illuminato portavoce secondo cui, una volta eliminati i controlli positivi, «il semplice e ovvio sistema della libertà naturale si affermerà spontaneamente», dimostra con quanta ingenuità la formulazione negativa abbia guadagnato consensi e al tempo stesso quanto l’aspirazione alla libera iniziativa sia intrinseca al nuovo ordine. Nelle società moderne l’uomo comune rivela un temperamento irritabile quando si attacca apertamente il suo retaggio di libertà civili. Può darsi che egli non sia molto accorto nella scelta delle libertà da difendere e a cui rinunciare, ma ai fini di qualunque piano di pace bisogna tener sempre conto di questo residuo refrattario, non disposto al negoziato o al compromesso. Ora, sempre per un accidente storico, questi residui prin cìpi di libertà civile hanno finito per fondersi e mescolarsi con un ostinato preconcetto d’integrità e prestigio nazionale; cosicché agli occhi dell’uomo comune, non uso ad escursioni analitiche, ogni violazione dell’integrità nazionale o qualunque diminuzione del prestigio nazionale appare un’insopportabile violazione della sua libertà personale e di quei princìpi di umanità che costituiscono gli articoli categorici del credo secolare della cristianità. Può esser evidente che l’interesse reale dell’uomo comune per l’integrità nazionale è scarso e ambiguo e che, stando al buon senso, il prestigio nazionale ha per lui un valore men che neutro. Ma queste considerazioni sostanzialmente pertinenti non costituiscono il nocciolo della questione, dal momento che i suoi pregiudizi in materia sono altrimenti orientati e fatti di un tessuto troppo solido e resistente per subire qualche seria alterazione, nel lasso di tempo che possiamo ipotecare. Le possibilità di giungere rapidamente alla pace mondiale su un piano di resa incondizionata al progettato dominio imperiale appaiono piuttosto scarse, tenuto conto della caparbietà dimostrata dai popoli moderni ovunque i loro pregiudizi sulla giustizia e l’onestà della vita appaiono minacciati. Per lo stesso motivo è altamente dubbia la convenienza di eventuali negoziati ed impegni diplomatici che preparino il terreno per un’impresa del genere. C’è anche da dubitare che sia sufficiente un certo lasso di tempo per ricondurre questi popoli moderni ad una mentalità più ragionevole e pratica; affinché capiscano, insomma, di aver interesse a questa soluzione o almeno si liberino dei loro attuali ostinati e forse infondati pregiudizi nei confronti di un regime autocratico del tipo accennato. Ma questa speranza sembra, almeno per il momento, illusoria. Ancor più oscuro è voler stabilire cosa si potrà fare in

questo senso in avvenire; comunque, i dati che abbiamo oggi a disposizione non sembrano promettere qualcosa di sostanzialmente diverso per il prossimo futuro. Quanto al futuro immediato, quello, diciamo, compreso nell’arco di vita della prossima generazione, è improbabile che le condizioni spirituali dei popoli partecipi di questo stato d’incertezza internazionale subiscano un mutamento così radicale da smentire quanto si può affermare oggi sulla base delle attuali circostanze. I pregiudizi sono il prodotto di un’abitudine che incide su un’inclinazione specifica del temperamento. Nei casi in cui i pregiudizi hanno assunto una forma istituzionalizzata e hanno finito per convenzionalizzarsi e divenire comunemente accettati, innestandosi nel tessuto del buon senso popolare, essi sono necessariamente frutto di una profonda e lunga assuefazione che va ad incidere su un’inclinazione popolare così diffusa da potersi definire congenita. Una tendenza ereditaria, in un gruppo etnico, non subisce mutamenti finché i caratteri razziali del gruppo rimangono più o meno inalterati; un’abitudine mentale convenzionalizzata e inveterata può mutare solo lentamente, di solito con il passaggio di almeno una generazione, e solo in virtù dell’ammaestramento di una esperienza sufficientemente profonda e minuziosa. In ogni caso, per quanto riguarda i fattori spirituali che fanno e disfanno le fortune dei popoli, è probabile che la situazione attuale non muti carattere nel corso di una notte o di un cambiamento di stagione. Al tempo stesso questo patrimonio spirituale, partecipando della natura dell’abitudine, è costretto anche a mutar carattere, in maniera più o meno radicale ma continua, mediante impercettibili spostamenti di posizione, ogni volta che le condizioni di vita e quindi il tirocinio dell’esperienza subiscono un qualche mutamento sostanziale. In tal modo, l’interesse immediato si sposta sulla probabile intensità e sul carattere dei cambiamenti previsti, in ragione del continuo mutare delle circostanze in cui vivono i popoli moderni, al cui condizionamento essi sono inevitabilmente esposti. La situazione attuale costituisce una base di discussione sufficientemente solida per il presente e per l’immediato futuro; ma le probabilità che le premesse costituite dalla situazione odierna rimangano valide diminuiscono man mano che ci si allontana nel tempo. Gli effetti di tutto ciò sono, naturalmente, duplici. L’assuefazione progressiva e cumulativa sotto mutevoli circostanze interessa sia i popoli democratici, le cui fortune sono in pericolo, sia gli stati dinastici ai quali toccherà di condurre a termine la progettata impresa di dominio.

Il caso dei due formidabili stati dinastici, i cui nomi sono stati abbinati nelle pagine precedenti, è torse di interesse ancor più immediato nella situazione attuale. Oggi come oggi, e nella misura in cui tale stato di cose si protrarrà, la posizione di questi stati non è affatto equivoca. Le due istituzioni dinastiche ricercano il dominio e in verità non cercano nient’altro, salvo che incidentalmente, e comunque sempre in funzione dello scopo più importante. Come è stato rilevato in precedenza, la ricerca del dominio è una componente essenziale della natura di uno stato dinastico, almeno nei limiti in cui esso è conforme al modello. Ma uno stato dinastico, come ogni altra società umana permanente e istituzionalizzata, attinge appoggio e forza dalla mentalità della società sottostante, dall’uomo della massa, con i suoi pregiudizi e i suoi ideali sul valore delle cose. Senza un’idonea base spirituale di questo tipo, uno stato dinastico uscirebbe dalla categoria delle potenze formidabili per entrare in quella del dispotismo precario. È verosimile che in tutti e due gli stati in questione il governo dinastico e la sua guardia del corpo di funzionari e di gentiluomini perseverino nella fede che ora li anima, finché un inquieto mutamento nei sentimenti della popolazione sottomessa non li induca a cambiare giudiziosamente la propria posizione. Come in genere le classi dirigenti, essi sono di temperamento conservatore e tali continueranno ad essere. Inoltre non sono gran che esposti al tirocinio dell’esperienza, che provoca mutamenti e adattamenti nelle abitudini di vita e, quindi, nelle abitudini mentali corrispondenti. Quando si verifica un impegnativo e vasto cambiamento delle condizioni di vita, è sempre l’uomo comune che ne risente gli effetti. In un certo senso egli è esposto alle forze generatrici di mutamenti e adattamenti, contrariamente a quanto avviene ai suoi superiori. E per quanto lenta e riluttante possa esser la sua reazione a questo condizionamento che cancella i pregiudizi antiquati, tuttavia è sempre dalla massa dell’umanità ordinaria che nascono i movimenti di malcontento e di protesta che, all’occorrenza, possono portare a un riassetto dell’edificio istituzionale, o a un notevole mutamento della linea politica perseguita sotto la guida dei suoi superiori. La massa ordinaria dell’umanità, sia detto per inciso, non è naturalmente un corpo omogeneo. Uomini non comuni per qualità native d’intelligenza, di sensibilità o di forza personale appaiono, proporzionalmente, con altrettanta frequenza fra la massa comune che tra le classi superiori. Infatti in tutte le nazioni della cristianità, data la loro totale ibridazione la gamma, la frequenza e l’ampiezza delle variazioni del patrimonio ereditario sono identiche per tutte

le classi. La differenziazione di classe è una questione d’abitudine e di convenzione e, diversamente dai suoi superiori, l’uomo comune è comune solo dal punto di vista numerico ed a motivo delle condizioni più generali e più severe alle quali è esposto. È più difficile per lui disfarsi del tirocinio dell’esperienza e, al tempo stesso, egli è maggiormente schiavo di tutto un complesso di pregiudizi e di quelli tra i loro mutamenti che sono conformi alle tendenze in atto in una massa umana più numerosa. Tuttavia il condizionamento che influenza la sensibilità di questa massa ordinaria modella anche l’atteggiamento spirituale e il temperamento della società, definendo in tal modo ciò che può e ciò che non può esser eventualmente intrapreso dai leaders. Cosicché, in un certo senso, gli stati dinastici sono alla mercé del sentimento popolare di cui sono creature, esposti ad indesiderati cambiamenti di direzione e di rendimento dei loro sforzi, dipendenti da mutamenti dell’indole popolare sulla quale essi hanno soltanto un controllo parziale e, in effetti, superficiale. Le istituzioni dinastiche hanno esercitato, già nel passato, una funzione di guida energica e di controllo relativamente profondo sul carattere del popolo, allo scopo di servirsene nel corso dell’impresa dinastica. E molto è stato palesemente conseguito in quella direzione, forse soprattutto per mezzo della disciplina militare di subordinazione all’autorità personale, e anche con un rigoroso controllo dell’educazione popolare, mirante a consolidare i pregiudizi ereditati dal regime precedente e al tempo stesso ad escludere ogni innovazione di carattere sovversivo. Tuttavia, malgrado tutti gli sforzi ben congegnati e astutamente manovrati dell’organismo imperiale tedesco in questa direzione, vi sono segni di un oscuro e crescente disagio, per non dire malcontento, fra la massa sottomessa. Anzi osservatori frettolosi, e forse prevenuti, sono giunti alla conclusione che uno dei fattori principali che hanno contribuito allo scoppio dell’attuale guerra sia stato il bisogno di un rimedio eroico per correggere quest’infausto sviamento sentimentale. Oggi il governo dell’attuale monarca ha fatto per il popolo tedesco tutto il possibile (umanamente parlando), nel senso di uno sforzo inteso a mantenere il vecchio ordinamento e a vincolare la fantasia popolare ai vecchi ideali feudali di leale servigio. Ma i popoli dell’Impero sono già presi nelle maglie ci quell’ordine nuovo che stanno ora tentando di rompere con la forza delle armi. Questi popoli sono legati inestricabilmente al mondo civile della cristianità. E nell’ambito della civiltà occidentale i popoli ai quali toccò di guidare la fuga dall’Egitto del feudalesimo hanno finito, in modo del tutto

naturale, per assurgere al ruolo di guida in tutte le più importanti manifestazioni di vita civile. Oggi, entro i confini della cristianità, nel bene o nel male, qualunque abitudine o regola abituale di condotta che sia visibilmente inferiore ai precedenti stabiliti da questi pionieri della civiltà è da ritenersi inferiore al prescritto livello di civiltà comune. Non adottare o non metter in pratica questi espedienti istituzionali ormai collaudati, sui quali i popoli all’avanguardia hanno lasciato il loro marchio di autenticazione, è oggi considerato un errore e un beneficio perduto; e un popolo a cui venga negato il beneficio di questi strumenti moderni di vita civile è afflitto da un senso di risentimento verso i propri governanti. Inoltre gli articoli di struttura istituzionale resi di moda dagli autentici pionieri della civiltà hanno finito per esser un obbligo, una specie di formalità indispensabile al decoro di un governo; cosicché nessuno stato nazionale, che aspiri ad una certa dignità agli occhi del mondo civile, può più permettersi di farne a meno. Le forme, almeno, devono esser rispettate; donde le istituzioni «rappresentative» o pseudo-rappresentative degli stati dinastici. Gli stati dinastici, fra gli altri, hanno seguito i dettami della moda civilizzata cedendo in una certa misura alle sollecitazioni più o meno intelligenti dei loro sudditi o dei portavoce di questi, e dando vita a un dispositivo istituzionale di tipo moderno, sebbene più nella forma che nella sostanza. Tuttavia con il tempo è probabile che anche la semplice adozione delle forme possa esser efficace, qualora l’evolversi delle circostanze operasse nel senso giusto. Tale è stata, nel complesso, l’esperienza dei popoli che hanno già seguito questo metodo di progresso politico. Valga come esempio lo sviluppo dei poteri discrezionali dei rappresentanti parlamentari, nei casi in cui l’evoluzione ha avuto maggior durata e sviluppo. Questi esempi non sono inutili, in quanto offrono un’indicazione di ciò che potrebbe verificarsi sotto i governi imperiali della Germania e del Giappone. È vero che fino ad oggi, malgrado le molte imitazioni di poteri decisionali delegate agli istituti parlamentari, questi, per quel che si riferisce ai problemi più gravi portati a loro conoscenza, hanno avuto solo una (limitata) facoltà di parola. È vero che attualmente, su provvedimenti decisivi o importanti, il potere del parlamento non va oltre un rispettoso Ja wohl!1; ma anche Ja wohl è qualcosa, e non si può dire a che cosa potrebbe portare a lunga scadenza. Si ha il vago timore che questo ja wohl possa un giorno o l’altro trasformarsi in una forma usualmente indispensabile di autenticazione, cosicché il rifiutarla (Behüt es Gott!)2 potrebbe addirittura diventare un veto decisivo per dei provvedimenti

esplicitamente disdegnati. Anzi, per maggior precisione, è probabile che le formalità di un governo rappresentativo e libero facciano sì che la sostanza di tali «libere istituzioni» arrivi effettivamente a dirigere gli affari pubblici, qualora emerga che le esperienze quotidiane di questi popoli tendono ad abitudini d’insubordinazione più che in passato. Ci sono anzi elementi per dire che persino nell’Impero il tirocinio dell’esperienza quotidiana sta già allontanandosi dalla linea che un tempo addestrava i sudditi tedeschi alla più leale e stoica sottomissione alle ambizioni dinastiche. Beninteso, nel momento attuale, sotto l’impeto distruttivo delle atrocità della guerra e del clamore patriottico, lo spirito quotidiano d’insubordinazione e di esame critico è del tutto scomparso. Nel corso dell’attuale regno sono apparse ripetutamente tracce di un’incipiente insubordinazione, sufficienti a provocare, da parte dell’istituto dinastico, numerose e accorte misure protettive sia con la strategia politica sia con dei controlli arbitrari. Trascurando le numerose differenze secondarie d’opinioni e di pareri manifestatesi fra i tedeschi durante questo importante regno, la situazione politica s’è mossa sotto l’impulso di tre fattori d’ordine materiale e sentimentale, tendenti a divergere tra loro: a) la dinastia (insieme agli agrari, di cui la dinastia è in un certo senso parte); b) gli uomini d’affari, o gli interessi commerciali (compresi gli azionisti); c) gli operai dell’industria. Certo è più facile sopravvalutarla che non indicare con buona approssimazione quale sia stata la natura e soprattutto il grado d’alienazione di sentimenti e di consapevole divergenza d’interessi tra questi diversi fattori. Non che, in nessun caso, la fedeltà alla corona abbia vacillato; ma poiché la corona è legata, per origini, tradizione, interessi e identità spirituale al partito degli agrari, la situazione è stata tale che avrebbe assunto inevitabilmente un carattere di malcontento verso l’istituto dinastico, nell’ipotesi non assurda che fosse venuto meno quel forte residuo di sentimento di lealtà dinastica che in Germania anima ancora gli uomini di ogni classe e condizione. Analogamente, sarebbe esagerato dire che la corona ha una posizione precaria all’apice di un triangolo politico, nel quale gli altri due angoli sono occupati da questi due elementi del sistema politico, divisi e potenzialmente recalcitranti, separati dall’antipatia di classe e da interessi finanziari contrastanti e tenuti a freno dalle discordie interne. Ma qualcosa del genere si sarebbe verificato in simili condizioni di tensione in qualunque società in cui il moderno spirito d’insubordinazione si fosse affermato in misura abbastanza ampia. Le moderne classi commerciali e lavoratrici, elementi di incipiente

disturbo dell’economia dinastica, sono entrambe creature della nuova era e contrastano sistematicamente con la tradizionale fedeltà dinastica, dati i loro interessi finanziari e il tirocinio dell’esperienza a cui il loro lavoro quotidiano li sottopone. Sono sostanzialmente le stesse due classi o gruppi venuti alla ribalta nella modernizzazione della società britannica, con la graduale separazione degli interessi e di conseguenza con una solidarietà di sentimenti e un antagonismo di classe. Ma con la differenza che, nel caso degli inglesi, i mutamenti si sono verificati con un ritmo abbastanza lento da permettere un ragionevole grado di assuefazione alle mutate condizioni economiche, mentre nel caso della Germania l’avvento di condizioni economiche moderne è avvenuto con ritmo così precipitoso che ha trasferito la mentalità medievale virtualmente intatta in un’èra come questa, caratterizzata dall’alta finanza e dalla meccanizzazione. In Germania le classi commerciali e industriali sono state chiamate a recitare la propria parte senza aver avuto il tempo di mandare a memoria le battute. Il caso dei popoli di lingua inglese, che hanno superato questa esperienza in modo più coerente di qualunque altro popolo, insegna che, a lungo andare, e persistendo le moderne condizioni economiche, l’una o Fai tra o entrambe queste creature dell’era moderna finiranno per aver la meglio, esautorando l’istituto dinastico; sebbene nel caso degli inglesi non si sia ancora visto l’esito e non vi siano elementi per stabilire quale dei due avrà la fortuna di sopravvivere conquistando l’egemonia. Nel frattempo la possibilità che il governo imperiale ottenga o meno il dominio assoluto dipende dal lasso di tempo necessario perché il tirocinio dell’esperienza nelle moderne condizioni si evolva, grazie allo sviluppo di abitudini mentali moderne, in forme istituzionali così moderne (cioè civili) e in princìpi d’insubordinazione personale così saldi da esautorare qualunque istituto dinastico. Durante il periodo di tempo ipoteticamente necessario a far decadere lo spirito dinastico presso il popolo tedesco, sottoposto al tirocinio della vita secondo i metodi del commercio e dell’industria moderna, nessun trattato di pace sarà possibile, a meno di eliminare l’istituto imperiale in quanto eventuale potenza aggressiva. Tutto ciò si applica naturalmente al caso del Giappone, con la differenza che se il popolo giapponese è più arretrato, esso costituisce però un’entità più piccola, meno temibile, più esposta a forze esterne, il cui medievalismo è di un modello più arcaico e quindi più precario. Naturalmente non è possibile stabilire quanto tempo ci vorrà per giungere allo scadimento dello spirito dinastico nel popolo dell’Impero. I dati della

situazione non permettono di azzardare un calcolo circa il ritmo d’evoluzione, ma la natura di alcuni elementi autorizza a pensare che un certo movimento in questa direzione è comunque inevitabile, con l’aiuto della Provvidenza. In primo luogo però i popoli dell’Impero ed i loro alleati, al pari dei loro nemici nella grande guerra, usciranno necessariamente dalla loro esperienza bellica con una mentalità più patriottica e vendicativa di quella che avevano all’inizio di questa avventura. La guerra genera malanimo. La guerra dev’esser considerata, in se stessa, un passo indietro. Gran parte di coloro che sopravviveranno si porteranno dietro per tutta la vita un’insanabile disposizione alla guerra. E sarà proprio quest’inclinazione a ritardare in misura corrispondente lo scadimento dello spirito dinastico o, se si vuole, il sorgere della tolleranza e dell’obiettività nel sentimento nazionale. È presumibile che dal canto suo lo stato imperiale, o quello che ne rimane, faccia tutto quanto è in suo potere per conservare con ogni mezzo lo spirito popolare di lealtà e di animosità nazionale; dal momento che l’istituto imperiale poggia precisamente sulla animosità nazionale. Quale portata avrà quest’opera ritardatrice si può giudicare, almeno vagamente, in base all’operato decisamente reazionario del regnante attuale. C’è caso inoltre, poiché c’è sempre il caso dell’umana follia, che i popoli vicini si adopreranno, singolarmente o tutti insieme, per limitare o proibire le relazioni commerciali tra l’Impero e i suoi nemici della guerra attuale, fomentando in tal modo l’animosità internazionale e contribuendo, in modo diretto, alla preparazione economica della guerra, sia da parte loro che dell’Impero. Ciò costituisce anche, e in misura notevole, un fattore incognito sul quale non è possibile anticipare neppure una ragionevole previsione. Tutti questi sono elementi reazionari, fattori di ritardo che tendono a perpetuare l’attuale situazione internazionale di animosità, di sfiducia, d’inganno, di rivalità commerciali, di armamenti competitivi e infine di guerra. Per neutralizzare questi fattori di conservatorismo si può contare esclusivamente sul lento, discontinuo ed essenzialmente insidioso lavorio dell’assuefazione che tende a render desueti i pregiudizi comuni, in parte sostituendoli con qualcosa di nuovo, ma più efficacemente facendoli cadere in disuso e quindi scomparire. Bisogna ammettere che si può fare ben poco di positivo per instaurare un regime di pace e di buona volontà. Gli sforzi dei pacifisti dovrebbero esser sufficienti a convincere ogni osservatore spassionato della sostanziale inutilità di sforzi creativi in tal senso. Certo molto può esser fatto mediante misure precauzionali, soprattutto di carattere negativo, specie

eliminando le fonti di infezione e (forse) sterilizzando l’apparato della vita nazionale in modo tale che, in pratica, non conservi animosità e interessi discordanti con le condizioni di pace e non contribuisca alla loro diffusione e sviluppo. Necessariamente, vi sono poche speranze o prospettive che qualche istituto nazionale contribuisca materialmente o in modo diretto a spegnere i sentimenti e le ambizioni aggressive. Questi istituti, infatti, sono creati apposta per fare la guerra poiché conservano intatte le gelosie nazionali, e si sa che la loro funzione accettata è quella di preparare le eventuali ostilità, sia difensive che offensive. Solo il timore di eventuali ostilità può tenere in piedi un governo nazionale; altrimenti cadrebbero in disuso, proprio come è accaduto agli istituti dinastici, fra i popoli che hanno perduto (in buona parte) lo spirito di aggressione dinastica. Le moderne occupazioni industriali, la moderna tecnologia e la moderna scienza empirica che tocca così da presso i confini della tecnologia, operano tutte in direzione opposta ai preconcetti tradizionali del nazionalismo, e ancor più sono in contrasto con i preconcetti dinastici che si incentrano sul dominio imperiale. Lo stesso dicasi, con una certa differenza, dei sistemi, dei mezzi e della routine dell’impresa commerciale così come si svolgono nelle società commercializzate di oggi. L’azione di questi fattori consegue questo effetto non mediante un antagonismo deliberato e distruttivo, ma quasi interamente mediante una sistematica, anche se involontaria e casuale, negligenza di quei valori, formule, verità e motivi di discriminazione e di condanna che costituiscono le realtà operanti dello spirito nazionale e dell’ambizione dinastica. I concetti operativi di questo nuovo ordine essenzialmente meccanicistico d’interessi umani non contrastano necessariamente con quelli del vecchio ordine, che era essenzialmente l’ordine dei personaggi e delle personalità. Le due cose sono tra loro incommensurabili e incompatibili solo nel senso e nella misura implicita nella situazione. Nessuna provocazione o gioco di prestigio potrà render accettabili le verità più profonde e meritorie della politica dinastica per la logica del sistema di conoscenza e di valutazione su cui si basa la tecnologia meccanicistica. Nell’àmbito della moderna industria e scienza meccanicistica anche i valori e le verità più profonde dell’ordinamento dinastico sono semplicemente «incompetenti, irrilevanti e non pertinenti». Di conseguenza non c’è attrito o frizione necessaria e inevitabile fra i due sistemi di conoscenza o le due mentalità che caratterizzano le due opposte ere

di civiltà. Cioè un dato individuo – chiamiamolo l’uomo comune – non può prender in considerazione entrambi questi incommensurabili sistemi di logica e di giudizio, allo stesso tempo o riguardo allo stesso problema; tanto più che le sue ore di veglia e la sua energia mentale sono interamente occupate dalle categorie di uno di questi sistemi di conoscenza, teoria e applicazione e che quindi egli sarà costretto a trascurare l’altro, perdendovi competenza e interesse con il passar del tempo. L’uomo che dalle proprie occupazioni giornaliere e da un’attenzione ci tutta la vita è vincolato alla gamma di abitudini mentali valide per la tecnologia meccanicistica, perderà di vista le virtù spirituali del prestigio nazionale e del primato dinastico, «perché queste sono sciocchezze per lui; né può egli conoscerle, perché si percepiscono attraverso lo spirito». Ciò non vuol dire che gli adepti del moderno sistema meccanicistico di conoscenza non possano esser anche degli ottimi patrioti e dei servitori devoti della dinastia. L’ingenuo e nel complesso spontaneo rigurgito di avidità dinastica che i più eminenti scienziati della Madrepatria hanno sciorinato davanti agli occhi stupefatti dei loro colleghi dei paesi neutrali durante i primi mesi di guerra, dovrebbe esser sufficiente ad ammonire che i pregiudizi arcaici non s’involano in fretta e furia dalla finestra non appena le abitudini mentali dell’ordine meccanicistico entrano dalla porta. Tuttavia, il passar del tempo con un processo impercettibile ma pervasivo, il logorio del disuso abituale, la pratica quotidiana di altri modi e mezzi di conoscenza e di persuasione del tutto estranei ad essa faranno uscire la fedeltà dinastica (con i suoi simili, appartenenti al regno della religione e della magia) dal campo dell’attenzione, relegandola insensibilmente tra le virtù perdute. Ciò varrà in modo particolare per l’uomo ordinario, che vive, come è normale, nella massa e nel presente e le cui ore di veglia sono alquanto pienamente occupate da ciò che ha da fare. L’istituto imperiale potrà forse scendere a patti con gli interessi commerciali per sollecitare il loro appoggio in favore dell’impresa dinastica, dal momento che evidentemente si può sempre dar loro ad intendere che un ampliamento del dominio imperiale porterà ad un aumento corrispondente delle possibilità commerciali. Questo è certamente un errore, ma generalmente è accettato per vero dalle parti interessate, e serve al suo scopo proprio come se fosse vero. Inoltre in questo, come in altri casi in cui si cercano nuovi e più ampi mercati, le spese non vengono affatto pagate dai presunti beneficiari commerciali. Il che riconduce la questione al principio che più sta a cuore agli uomini d’affari: quello di ottenere qualcosa in cambio di niente. Non sarà

altrettanto facile conservare la lealtà degli affetti dell’uomo comune verso l’impresa dinastica, quando in lui comincerà a venir meno l’antica fede nel dominio dinastico e quando finirà per accorgersi di non avere, sia individualmente che collettivamente, il minimo interesse materiale alla difesa della Madrepatria, né tanto meno ad un’ulteriore espansione del dominio imperiale. Ma, confrontato al periodo di tempo necessario alla preparazione di una nuova impresa, è ancora ben lontano il tempo in cui questo processo di disillusione e di scadimento degli ideali assumerà proporzioni tali che il sentimento popolare non costituisca più un appoggio sicuro per la progettata impresa imperiale. L’assuefazione richiede tempo, soprattutto un’assuefazione capace di sconvolgere la disposizione abituale di un grande popolo verso i suoi pregiudizi più cari. Ciò richiederà un considerevole lasso di tempo, anche nel caso di una massa popolare come quella tedesca, aperta alle nuove abitudini mentali in virtù della lieve percentuale di analfabetismo, del grandissimo numero di individui occupati in moderne industrie che esigono continuamente un certo grado di intelligente intuizione degli elementi meccanicistici, della densità di popolazione, dei mezzi adeguati di comunicazione e infine della misura in cui l’intera popolazione è presa nelle maglie dei processi meccanici standardizzati che condizionano ogni aspetto della vita quotidiana. Dal punto di vista dello sviluppo tecnologico e del grado di esposizione al tirocinio della vita industriale nessun’altra nazione, che abbia all’inarca lo stesso numero di abitanti, si trova in uña posizione altrettanto idonea per acquisire rapidamente lo spirito dell’epoca moderna. Ma al tempo stesso nessun altro popolo, numericamente paragonabile a quello tedesco, si trova a dover disimparare una massa di pregiudizi arcaici così solida e imponente. Quella che ci si avvicina di più, naturalmente, è la nazione giapponese. In tutto questo non ce la minima intenzione di screditare i tedeschi. Quanto a caratteristiche razziali non c’è differenza alcuna fra costoro e i loro vicini. E non c’è motivo di dubitare delle loro buone intenzioni. Anzi si può tranquillamente affer mare che non v’è popolo che sia consapevolmente meglio intenzionato dei figli della Madrepatria. Il punto è che, a causa dei loro arcaici preconcetti su ciò che è giusto e meritorio, le loro migliori intenzioni, quando si diffondono nel mondo civile di oggi, irradiano malevolenza senza colpa alcuna da parte loro. E nemmeno vogliamo insinuare che il loro ritmo di avvicinamento al livello occidentale di maturità istituzionale sarà eccessivamente lento o riluttante, non appena i fatti della vita moderna

cominceranno a dare forma alle loro abitudini mentali. Ma poiché la natura umana – e la seconda natura umana – è quella che è sempre stata, il ritmo di avvicinamento del popolo tedesco ad un atteggiamento abbastanza neutrale sulle questioni di aggressività e di animosità internazionale sarà di necessità abbastanza lento, e permetterà di rinnovare i preparativi per uno sforzo ancora più temibile e inesorabile da parte dello stato imperiale. Quel che rende temibile oltre ogni misura lo stato imperiale è la semplicissima ma anche gravissima combinazione di circostanze, per cui il popolo tedesco ha acquisito l’uso delle moderne tecniche industriali, al più alto stadio d’efficienza, mantenendo al tempo stesso inalterata la fanatica lealtà della barbarie feudalea. Fino a che, e nella misura in cui questa coalizione di forze resiste, non ci sarà alcuna prospettiva di pace, a meno di eliminare la Germania come potenza perturbatrice della pace. Può sembrare ingiusto riferirsi continuamente all’istituto imperiale tedesco come al solo disturbatore potenziale della pace europea. La ragione per cui applichiamo unicamente all’impero questa antagonistica distinzione, di merito o di demerito che dir si voglia, è che i fatti depongono in questo senso. Naturalmente c’è altro materiale umano, e una massa non piccola nell’insieme, che ha le stesse caratteristiche ed è utile agli stessi scopi delle risorse e della mano d’opera dell’Impero. Ma quest’altro materiale può esser considerato un efficace mezzo di disturbo solo nella misura in cui anch’esso si stringe intorno alla dinastia imperiale e marcia sotto le sue bandiere. In tal modo, quando si parla dell’istituto imperiale come del solo nemico della pace europea, questi elementi esterni sono dati per scontati, proprio allo stesso modo in cui, parlando di un grande santo di Dio, se ne accetta per vera l’aureola. Così la questione ritorna all’alternativa: pace attraverso una resa e sottomissione incondizionata, o pace per eliminazione della Germania imperiale (e del Giappone). In effetti, non sembra esserci via di mezzo. L’antiquato piano stile diciannovesimo secolo, basato su un armamento difensivo competitivo e un equilibrio di potenze, è stato sperimentato senza successo ancora ai primi del ventesimo secolo. Questo piano costituisce un surrogato (Ersatz) della pace; ma anche come tale è diventato inattuabile. Lo stadio moderno, o piuttosto lo stadio attuale delle tecniche industriali non lo tollera. La tecnologia militare ha dato la palma all’offensiva, in particolare all’offensiva predisposta in anticipo con mezzi adatti e uomini preparati, questi ultimi maturati attraverso un addestramento rigoroso e continuo,

l’unico che possa farne degli specialisti nell’utilizzazione, per fini bellici, degli idonei mezzi forniti dalla tecnologia moderna. Contemporaneamente, e grazie a questo stesso progresso tecnologico, un’offensiva accortamente predisposta è in grado di colpire con efficacia qualunque nazione, indipendentemente dalla distanza o da altri ostacoli naturali. L’era degli armamenti difensivi e dell’equilibrio diplomatico, come surrogati della pace, s’è chiusa definitivamente con l’industrializzazione moderna. Delle due alternative cui si è accennato la prima, cioè la pace ottenuta mediante la sottomissione ad una dinastia straniera, non è una soluzione realizzabile, come è apparso dalla nostra trattazione. Le nazioni moderne non sono spiritualmente mature per una simile alternativa. È persino dubbio se esse abbiano raggiunto almeno quel grado di equilibrio nazionale o di neutralità che consentirebbe loro di vivere in pace reciproca, dopo l’eliminazione delle potenze imperiali. Anche in mancanza di una provocazione dall’esterno, sarebbe rischioso fare affidamento su di loro per il mantenimento della pace. Il loro interesse per la pace non va oltre quel che è implicito nella formula pace con onore; la quale, di certo, non prevede una pace di non-resistenza e lascia in un certo senso nel vago la distinzione tra guerra di offesa e guerra di difesa. Il prestigio nazionale costituisce ancora un patrimonio vivo nell’animo di questi popoli, e il limite di tolleranza per l’animosità patriottica sembra assai più facile da raggiungere di quanto la formula sopra citata farebbe supporre. Questi popoli combattono se provocati, ma anche le più acute previsioni non possono dire di quale entità debba essere una provocazione per turbare la serenità degli sportivi popoli moderni. Tuttavia, si va sempre più avvalorando l’opinione che se i popoli moderni, ad esempio quello francese o quelli di lingua inglese, fossero lasciati liberi di agire, manterrebbero la pace tra di loro a tempo indeterminato, salvo imprevisti. L’esperienza insegna che la guerra, su scala moderata e come interesse secondario, ad esempio la guerra ispano-americana per l’America o quella boera per l’Inghilterra, non è affatto incompatibile con un certo spirito di neutralità che questi popoli hanno acquisito finora. Ma queste guerre, malgrado le dimensioni che assunsero rapidamente, erano a carattere episodico: l’una soprattutto una proiezione dello spirito sportivo, che attrasse solo l’attenzione degli elementi più sportivi, l’altra manovrata da certi interessi commerciali, miranti senza pietà a ottenere qualcosa in cambio di niente. Entrambi gli episodi finirono per diventare abbastanza seri, sia per

l’influenza immediata, che per le loro conseguenze. Ma né l’uno né l’altro riscossero l’appoggio spontaneo e cordiale dell’intera società. Su entrambi gli episodi aleggia un’aria di impostura, e l’atteggiamento popolare sembra più incline a perdonare che a inorgoglirsi di questi faits accomplis. Dei due episodi l’uno fu il risultato di una bravata sportiva, nutrita di esuberanza giovanile, fomentata a scopi mercenari da precisi interessi commerciali e da politicanti alla ricerca di posti e attizzata da una stampa falsa, mirante ad aumentare la propria circolazione3; l’altro fu montato da uomini d’affari interessati, sostenuti da politicanti, secondati dalla stampa e tollerati dalla società, per la maggior parte preda di un malinteso e ferita nel proprio orgoglio4. I pareri possono esser molto contrastanti circa le probabilità di pace in una società di nazioni in cui episodi di tal genere e dimensioni sono stati più che tollerati, nel recente passato. Ma in questi stessi paesi si tende a pensare, invece, che lo spirito popolare messo in evidenza da queste e da analoghe circostanze nel recente passato stia ad indicare, piuttosto, che la pace è consapevolmente desiderata ed ha probabilità di essere mantenuta, salvo imprevisti. In genere le misure necessarie a perpetuare la pace sono semplici ed ovvie; e sono in gran parte di carattere negativo, frutto dell’omissione e del disuso. Nelle condizioni moderne, ed escludendo un’aggressione dall’esterno, la pace si conserva evitando d’infrangerla. La pace non si rompe da sé, se mancano quegli organismi nazionali organizzati unicamente in vista di avventure militari. Una politica di pace è ovviamente una politica di astensione dall’offesa e dalle occasioni di recar disturbo. II mantenimento della pace tra le nazioni pacifiche postula necessariamente la neutralizzazione di tutti i rapporti umani che di solito generano controversie internazionali. E, al fine di garantire una ragionevole prospettiva di pace duratura, è indispensabile neutralizzare questi rapporti, nella misura consentita dalla presunzione patriottica e dalla credulità di questi popoli. Queste due affermazioni non sono affatto identiche. Anzi lo scarto fra i diritti e le pretese nazionali di cui si potrebbe fare a meno convantaggio e quelle a cui la massa dei patrioti moderni potrebbeesser indotta a rinunciare è, con molta probabilità, molto maggiore di quanto qualsiasi ottimista vorrebbe credere. Anche una breve riflessione dovrebbe esser sufficiente a dimostrare che la maggior parte, anzi praticamente tutti gli interessi materiali e le esigenze che ora condizionano la politica delle nazioni e che costituiscono motivi di disaccordo tra di loro, potrebbero essere neutralizzati o abbandonati

rapidamente, senza conseguenze negative per nessuno dei popoli interessati. La maggior parte degli interessi materiali ai quali i vari organismi nazionali montano la guardia e verso i quali avanzano pretese sono, quanto ad origine storica, retaggio della politica principesca del così detto periodo «mercantilista». E hanno conforme carattere d’interferenze ingiustificate e di discriminazioni fra i cittadini di un dato stato e gli stranieri. Fatta eccezione (con qualche riserva) per l’Inghilterra, dove è opinione generale che la politica mercantilista sia stata adottata direttamente a beneficio degli interessi commerciali, l’origine di queste misure è da ricercarsi negli sforzi della corona e dei suoi rappresentanti per consolidare le finanze del principe, onde garantirgli una posizione di vantaggio nelle imprese militari. Simili misure sono adottate unicamente allo scopo di prepararsi alla guerra. Di conseguenza, ad esempio, le tariffe protettive ed altre discriminazioni analoghe nei traffici sono tuttora invocate come mezzo indispensabile per rendere una nazione autosufficiente, indipendente e autonoma, insomma preparata in caso di ostilità. Una nazione, in tempo di pace, non sta affatto meglio per il fatto di esser autosufficiente. L’esperienza dimostra che nessuna nazione può esser industrialmente autosufficiente, se non rinunciando ad alcuni dei vantaggi economici derivati dalla specializzazione dell’industria che lo stadio moderno delle tecniche industriali impone. In tempo di pace una simile limitazione del commercio con il mondo esterno non produrrà beneficio alcuno per l’incera società o per una classe o settore della società, eccettuati quegli interessi commerciali che traggono profitto dalla discriminazione; il che avviene, invariabilmente, a spese dei compatrioti. Le misure discriminatorie nel commercio, sia d’importazione che di esportazione o di semplice nolo, applicate apertamente dalle autorità nazionali, non sono più giovevoli di quelle messe in atto clandestinamente e illegalmente da una congiura privata mirante a limitare il commercio ad un gruppo d’imprese commerciali interessate. Finora su questo punto all’uomo ordinario è stato difficile liberarsi di una inveterata illusione ereditata dal passato e inculcata da politicanti interessati in base alla quale, in qualche modo misterioso, egli crede di guadagnare limitando le sue stesse possibilità. Invece la neutralizzazione del commercio internazionale e l’abrogazione di ogni discriminazione commerciale costituisce un principio di elementare saggezza al fine di conservare la pace. Il risultato principale di questa politica neutrale sarebbe costituito da rapporti

commerciali più vasti e più strettamente interdipendenti, abbinati ad un grado maggiore di specializzazione e di reciproca dipendenza dell’industria tra i vari paesi interessati. Ciò equivarrebbe, in termini di buoni rapporti internazionali, ad una minore disposizione alle avventure militari. Un tempo una delle tesi favorite dai sostenitori del libero scambio voleva che lo sviluppo dei rapporti commerciali internazionali, mediante una politica di libero scambio, avrebbe contribuito molto a stabilire uno spirito di reciproca comprensione e di tolleranza fra le nazioni. A prescindere dalla sua validità, questa tesi ha suscitato molti dubbi e non ci sono prove sufficienti a suo favore. Ma ciò che è più importante è il fatto tangibile che questa specializzazione dell’industria, e la conseguente interdipendenza industriale, renderebbero tutti i partecipanti meno capaci – spiritualmente e materialmente – d’interrompere i rapporti amichevoli. Cosicché, in tempo di pace e salvo la prospettiva di eventuali ostilità, se tutto il naviglio mercantile fosse registrato indiscriminatamente sotto bandiere neutrali e navigasse sotto bandiera neutrale, essendo responsabile, quindi, verso le leggi dei paesi toccati con i quali si mantengono rapporti commerciali, ciò non comporterebbe perdita alcuna, e presumibilmente scarsi guadagni finanziari, per qualunque paese, località, città o classe. Per i produttori, gli spedizionieri, i commercianti e i consumatori non ha importanza alcuna a quale nazione appartiene il mezzo che trasporta i loro prodotti, se non quando abbiano vigore delle leggi a carattere artificiosamente discriminatorio. In tempo di pace, il naviglio mercantile internazionale è già così vicino alla neutralità salvo che nel nome, che basterebbe trascurare le discriminazioni vessatorie ancora vigenti per mettere tutto su un piano di pacifica neutralità. Se, nel caso di eventuali ostilità, nessuna nazione potesse reclamare la fedeltà e quindi l’usufrutto delle unità del traffico marittimo a motivo del domicilio dei proprietari o del porto d’iscrizione, ciò costituirebbe un ulteriore inconveniente per eventuali iniziative militari ed eleverebbe in proporzione i limiti di tolleranza. Allo stesso tempo, nel caso di ostilità, il naviglio battente bandiera neutrale e non soggetto ad alcun impegno nazionale godrebbe delle immunità che valgono ancora per il traffico neutrale. È vero però che, di recente, la neutralità non ha offerto un’eccessiva protezione. Cumulativamente, la pratica effettiva e le esigenze di un commercio marittimo ampio, vario, mutevole e diffuso hanno portato con il tempo la marina mercantile ad una posizione molto vicina alla neutralità. La marina

mercantile, per quanto riguarda pressoché tutti gli aspetti della normale routine commerciale e della responsabilità legale, è soggetta in ogni caso senza riserve alla giurisdizione dei tribunali locali. Certamente sussistono ancora formalità e riserve, per cui problemi originati da incidenti nel commercio marittimo costituiscono il tema di consultazioni e compromessi internazionali, che in effetti però non sono tali da giustificare l’esistenza di un apparato nazionale specializzato per i casi che non si possano risolvere in base alla consuetudine. Poiché il costume tende visibilmente a neutralizzare il commercio marittimo, le transazioni commerciali internazionali e tutte queste attività in genere, ciò induce a pensare che si potrebbe fare lo stesso per i diritti personali e finanziari dei cittadini che viaggiano all’estero o vi risiedono. La neutralizzazione della cittadinanza costituirebbe, naturalmente, il passo estremo o, secondo il nostro punto di vista, il punto di arrivo nel processo di rinuncia alle pretese nazionali. Considerata la posizione effettiva del cittadino ordinario nei suoi rapporti ordinari, soprattutto tra i popoli di lingua inglese, un passo simile non è poi così radicale come un individuo di sentimenti patriottici potrebbe immaginare con apprensione in un primo momento. Per dare un esempio, l’acquisizione della cittadinanza non ha costituito un onere grave per i cittadini della repubblica americana e non ha arrecato alcun danno alla società o ai singoli in particolare. La naturalizzazione è stata facile, e malgrado l’estrema semplicità delle condizioni non ci si è data molta pena per ottenerla. Molti stranieri rispettosi della legge si sono stabiliti nel nostro paese senza scapito o senza diventarne cittadini, senza per questo soffrirne o guadagnarne minimamente. Spesso, negli stranieri immigrati lo stimolo decisivo all’acquisto della cittadinanza è stato, ed è, il desiderio di liberarsi del loro diritto di cittadinanza nel paese d’origine. Non che il privilegio e la dignità della cittadinanza, nel nostro o in qualunque altro paese, debba tenersi in poco conto. Ma, piuttosto, nelle condizioni civili moderne e in mezzo a un popolo guidato da sentimenti di umanità e di equità, lo straniero non è vittima di soprusi né è trattato in modo sprezzante, per il solo fatto di essere straniero. Certo che di recente i politicanti alla ricerca di una raison d’être, fomentando un nazionalismo più acceso, hanno creato ulteriori difficoltà alla causa della naturalizzazione. Eppure, a conti fatti, a questo proposito non si può dire lo stesso del cittadino medio americano in quanto tale. Lo stesso vale per i popoli di lingua inglese, salvo qualche insignificante eccezione di colore locale. La neutralizzazione definitiva della cittadinanza, nell'ambito dei paesi di lingua

inglese, incresperebbe appena la superficie delle cose così come sono – in tempo di pace. Tutto ciò non tocca il punto dolente e sacro della concezione comune della cittadinanza, con i suoi diritti e le sue responsabilità. È solo in caso di ostilità che le responsabilità dei cittadini in patria vengono in primo piano e che i diritti del cittadino all’estero entrano in questione come possibile focolaio di malcontento patriottico, in cerca di rappresaglie militari. Se, come fu una volta suggerito con voce quasi impercettibile da uno statista dalle idee chiare, il governo nazionale si rifiutasse di mettere in pericolo la pubblica quiete per la salvaguardia della persona e della proprietà dei cittadini che si recano in partes in-fidelium per i propri interessi privati, e di conseguenza li abbandonasse alla giurisdizione incontrollata delle autorità dei paesi nei quali si sono intromessi, in molti casi questi individui potrebbero esser esposti a situazioni difficili, anche se quasi esclusivamente nei territori che sono temporaneamente o permanentemente fuori dei confini della legge e dell’ordine moderno. A questo proposito è forse opportuno rilevare come il ripetersi di situazioni di questo genere, con il relativo rischio di complicazioni nazionali, diverrebbe senza dubbio meno frequente, se si sconfessasse la responsabilità permanente della nazione in difesa del benessere dei cittadini che espatriano per perseguire il proprio interesse o divertimento. Al tempo stesso è sempre opportuno ricordare che per la società in generale la deplorevole situazione degli espatriati in difficoltà non comporta nessun vantaggio o svantaggio, in senso materiale, e che la fortuna personale o finanziaria di un dato individuo in terra straniera non ha alcun diritto speciale alla simpatia o all’assistenza dei suoi compatrioti, se non per la circostanza fortuita del suo esser un compatriota. Di conseguenza, neutralizzando definitivamente la cittadinanza di coloro che espatriano, la simpatia che ora un po’ ottusamente è limitata a questi casi, per motivi che senza offesa potrebbero definirsi oscuri, si estenderebbe, con un criterio forse più umano e imparziale, ai propri simili in difficoltà, indipendentemente dalla loro nascita o naturalizzazione. Tuttavia a questo proposito è più appropriato rilevare che, una volta neutralizzata la cittadinanza fra i paesi neutrali qui contemplati, verrebbe certo meno un’altra causa di gelosia internazionale e di sfiducia. Né è facile intravedere la possibilità di perdite materiali conseguenti ad un simile provvedimento, Dal punto di vista materiale nessun individuo sarebbe in condizioni peggiori, tranne forse l’emigrante in cerca di fortuna, che mira a

pescar tranquillamente nel torbido, a spese dei suoi compatrioti. Ma quanto ai vantaggi immateriali, il caso è ben diverso. Tutta l’impalcatura di molti preziosi sentimenti crollerebbe e iì mondo della poesia e del fasto, in particolare la poesia e il fasto più vistosi e venali, si impoverirebbe di colpo. L’uomo senza patria perderebbe allora la sua attrattiva patetica o, comunque, la perderebbe in gran parte. In ogni caso è sempre possibile che l’esaltazione sentimentale e il compiacimento patriottico non ne perdano affatto d’importanza in un secondo tempo, anche se qualcosa andrebbe certo perduta e non si sa bene come si potrebbe sostituirla. Un parallelo storico potrà chiarire il punto. Affrancandosi gradatamente dall’omaggio alla dinastia e dal servizio cavalleresco dell’età monarchica, i popoli che sono usciti da quell’epoca e dalla sua atmosfera spirituale hanno perso gran parte della magnanimità consapevole e della convinzione del suo valore che un tempo caratterizzavano quell’ordine di cose e che tuttora caratterizzano l’abitudine mentale dominante nei paesi retti ancora dall’arcaico principio di signoria e di servigio dinastico. Tuttavia non bisogna dimenticare che i popoli che in tal modo si sono liberati di questo principio arcaico sembrano ben lieti di questa mutata atmosfera spirituale e per di più convinti, almeno in genere, che il cambiamento abbia recato loro un sensibile aumento di dignità umana e di tolleranza verso il prossimo, tale da compensare qualunque perdita dal lato eroico e agonistico della vita, Tale è la forza moderatrice dell’abitudine. Mentre d’altro canto i cittadini dei sopravvissuti stati dinastici, a cui dobbiamo contìnuamente richiamarci, i quali non sono ancora usciti dal regno dell’eroismo, non sono capaci di vedere in questo se non una vera e propria perdita e una vertiginosa decadenza dello spirito; quel minimo di tolleranza e di equità indispensabile alla vita in una comunità di uomini liberi e uguali è considerato da questi robusti stomachi come un rilassamento della fibra morale e del carattere. Ciò che si intende con l’espressione provvisoria «neutralizzazione della cittadinanza» costituisce un ulteriore passo avanti lungo la stessa linea di evoluzione seguita dai popoli moderni nel corso dei mutamenti istituzionali che hanno conferito loro l’attuale carattere di commonwealth indipendenti, in contrasto con gli stati dinastici dell’ordinamento medievale. Le prospettive future, che costituirebbero un ulteriore distacco dai capisaldi medievali, vanno viste alla luce degli sviluppi più recenti in questa direzione, soprattutto in relazione ai meriti morali ed estetici di un tale mutamento istituzionale. Dal punto di vista dei valori e dei giudizi spirituali l’ultimo passo compiuto da

questi popoli assume un valore singolare ma significativo: i popoli che, sia pure con andatura incerta, sono passati dall’arcaica concezione istituzionale di fedeltà, di sfruttamento dinastico e di coercizione al sistema più moderno della comunità di uguali, sono convinti, fino al punto del martirio, che un ritorno al vecchio ordinamento sia moralmente impossibile, oltre che insopportabilmente vergognoso e sgradevole; mentre i popoli facenti parte della frazione retrograda della razza, che non hanno sperimentato questo ordine nuovo, sono ugualmente convinti che tutto questo è incompatibile con una vita onorevole. Ma dei gusti non si discute. È evidente che questi popoli retrogradi non passeranno alla fase più avanzata della comunità di uguali per una scelta aprioristica ma solo grazie al tirocinio dell’esperienza che dovrebbe condurli insensibilmente verso la mentalità dalla quale, per semplice generalizzazione della pratica quotidiana, scaturisce l’ideale di un commonwealth di uguali. Nel frattempo, non avendo ancora sperimentato quella fase di sentimenti e di opinioni in materia di diritti e di immunità civili che è ora vissuta dai loro vicini istituzionalmente più maturi, i sudditi della Germania, ad esempio, malgrado le inten zioni più lodevoli e gli sforzi migliori, privi come sono di questa esperienza, non sono in grado di comprendere né le ragioni dell’opposizione ai loro ben intenzionati progetti di dominio, né la futilità di cercar di convertire i loro fratelli maggiori ad accettare obbligatoriamente i loro criteri di valore. Con il tempo e l’esperienza, questa frazione retrograda della cristianità potrà forse acquisire le stesse prospettive in fatto di usanze e ideali nazionali che la prolungata assuefazione ha inculcato nei popoli più moderni. Così pure, con il tempo, con l’esperienza e con l’aiuto delle circostanze, un ulteriore allontanamento dalle discriminazioni e dalla coercizione medievale, cioè il passaggio al sistema meno spettacolare della neutralizzazione, potrà risultare altrettanto giusto, buono e bello come il commonwealth democratico per i popoli di lingua inglese o lo stato imperiale degli Hohenzollern agli occhi dei sudditi tedeschi; in effetti i gusti non si discutono. In questo abbozzo di quella che potrebbe chiamarsi pace per negligenza c’è ben poco di nuovo e nessuna innovazione costruttiva. È piuttosto difficile che la mentalità giuridica, a cui spetta in genere l’iniziativa, si avvii in questa direzione o cerchi comunque una soluzione in questo senso. Cosicché non è il caso di meravigliarsi se i numerosi progetti di pacificazione si basano tutti su delle complicate ed ingegnose clausole procedurali piuttosto che su quei più

semplici espedienti che la forza delle circostanze, priva di spirito giuridico, ha impiegato sinora nel caso dei cambiamenti istituzionali. Lo spirito giuridico che informa di sé le odierne deliberazioni in materia di pace si esprime in esaurienti specificazioni o in meticolose delimitazioni, e tende quindi a controbilanciare il peso degli espedienti superflui facendo ricorso ad ulteriori eccessi regolamentari. Questa caratteristica dello spirito giuridico non è un difetto grave e le qualità ad esso inerenti sono determinanti in qualunque progetto d’ingegneria costruttiva sul piano giuridico e politico. Ma è meno opportuna, anzi controproducente, nella situazione attuale in cui i popoli, nella loro ricerca della pace, sono ostacolati soprattutto dal peso di un apparato istituzionale sopravvissuto alla sua funzione. L’evoluzione delle circostanze condizionanti è destinata a render inadeguate anche le buone istituzioni, e allora non si tratta più di ripristinarle ma di sradicarle. Per giungere in qualche modo ad una sicura conclusione negativa, diremo che non è necessario sostituire un’istituzione che il tempo abbia reso nociva. La monarchia francese dell’ancien régime, l’Inquisizione spagnola, le leggi sul grano e i «borghi corrotti» in Inghilterra, i pirati di Barberia, la dominazione turca in Armenia, la corona britannica, la dinastia imperiale tedesca, l’equilibrio delle potenze in Europa, la dottrina Monroe potrebbero esser esempi pratici di soluzioni istituzionali nocive, desuete o che si avviano ad esserlo5. In un certo senso, almeno nel senso e nella misura della loro sopravvivenza selettiva, questi vari elementi di sovrastruttura istituzionale e molti altri simili sono stati forse un tempo adatti allo scopo, nei giorni della loro origine e della loro crescita vigorosa; o, almeno, sono venuti incontro a qualche necessità urgente. Ma anche se mai hanno avuto un posto e un ruolo nell’economia dell’uomo, questi elementi sono poi divenuti inadeguati e nocivi sotto l’incalzare delle mutate circostanze, e il problema non è come rimpiazzarli con altri aventi la stessa funzione una volta che la loro sia venuta meno. Chi perde un porro sulla punta del naso non si rivolge all’ufficio Ersatz6 per farselo opportunamente sostituire. Ebbene, dal punto di vista dell’utilità pratica per la nazione in genere e in particolare per tutte le finalità che non siano quelle militari, offensive o difensive, una larga parte, se non tutto, l’apparato internazionale di diritti, pretese, discriminazioni, trattati e clausole rientra in quest’ultima categoria, Naturalmente la dignità nazionale e il formalismo diplomatico così come i consimili strumenti ed accessori dell’onore nazionale hanno tutti il loro valore

di prestigio, ed è improbabile che si possa disfarsene disinvoltamente. In realtà, per quanto interessati possano essere ad una pace duratura, è dubbio che i patriottici popoli moderni rinuncino a una minima parte di queste appendici della gelosia nazionale, anche quando il conservarle comporti un’imminente rottura della pace. È evidente che la certezza della pace sarà direttamente proporzionale alla misura in cui la discriminazione e il prestigio nazionale si esauriranno, fino ad esser dimenticati. La neutralizzazione di tali interessi in sospeso fra le nazioni pacifiche dovrebbe condurre a una relativa coalizione fra di loro. In effetti esse sono ora separate da misure precauzionali volte ad impedire che questi popoli addivengano ad una base comune di usi e costumi. Tuttavia il grado di combinazione non sarebbe certo eccessivo né potrebbe diventare gravoso, poiché si baserebbe sulla convenienza, l’inclinazione e l’oblio delle divergenze create artificialmente. Non è detto che le più importanti istituzioni della vita moderna, che regolano nei dettagli la condotta dell’uomo, debbano risentirne sia in meglio che in peggio. Tuttavia anche una cosa del genere sarebbe verosimile. La natura, la portata e la forza prescrittiva di questa eventuale coalizione, ottenuta mediante la neutralizzazione, potranno forse esser meglio apprezzate alla luce di ciò che è già accaduto, senza alcun disegno o imposizione, in quei settori dell’interesse umano dove le frontiere nazionali non interpongano barriere, o almeno non delle barriere decisive, per motivi d’indifferenza o per impotenza. La moda dell’abbigliamento, dell’apparato e del decoro, ad esempio, si sviluppano con una certa uniformità in queste nazioni moderne, e anzi con un certo grado di forza prescrittiva. Certo in tutto questo non c’è nulla di obbligatorio in senso stretto; né il grado di conformità è estremo o uniforme. Ma è facile concludere che possono far parte di questa coalizione cosmopolita caratterizzata dagli stessi usi solo quelle società che si muovono per stimoli propri e solo in quanto rivelino un bisogno effettivo di conformarsi in questo campo. Certo un osservatore imparziale, se ne esiste uno, sarebbe forse colpito dal grado di accurata conformità a dei canoni di condotta che è spesso difficile accertare con la precisione che le circostanze richiedono. È fuor di dubbio, o quasi, che la conformità sotto la giurisdizione della moda, e nel settore collegato del decoro, è obbligatoria in una misura che non trova riscontro nell’intero sistema di usi e costumi, malgrado la deliberata non interferenza delle autorità. Trattandosi però di un argomento su cui le prove sono finora estremamente scarse, è segno di discrezione il non formarsi

un’opinione fissa. Assai più promettenti e significativi sembrano essere il contatto e il collegamento fra le nazioni moderne rispetto alla scienza e alla cultura e nelle arti industriali o estetiche. Il colore locale e l’orgoglio, con vari altri fattori che fanno da stimolo particolare o da inibizione, possono modificare l’andamento delle cose, offuscando e intralciando la reciproca comorensione oltre che il progresso e la collaborazione nelle questioni di gusto e di intelletto. Tuttavia da questo punto di vista non è errato considerare i popoli della cristianità come un’unica società. Per questi popoli le arti e le scienze, nei loro dementi, e in certa misura anche nei loro effetti pratici, sono una specie di capitale sociale. È vero che questi interessi e queste conquiste della razza non sono sempre coltivati con la stessa assiduità o con effetto identico, ma è anche vero che nessun ostacolo efficace potrebbe esser frapposto con profitto o sarebbe tollerato a lungo andare in questo settore, in cui gli uomini hanno avuto occasione di imparare che una collaborazione senza riserve è più utile di una discriminazione di parte. È improbabile che neutralizzando tutte le rivendicazioni nazionali in sospeso si arriverebbe ad indurre i popoli democratici ad un’azione concertata nel senso di un piano di pace. Sia i francesi che i popoli di lingua inglese sono troppo sensibili agli interessi e al prestigio nazionale per dare ascolto a un piano del genere, anche se i loro capi più ascoltati se ne facessero paladini. Essi sono abituati a pensare in termini di nazionalità e, proprio in questo periodo, sono esposti all’inconveniente di un riacutizzarsi dell’orgoglio nazionale. La difesa ci questo piano non rientra naturalmente nei limiti della presente ricerca, la quale si limita alle condizioni odierne della ricerca della pace, a tutte le ulteriori condizioni necessarie a preservarla e ai probabili effetti della pace sulle fortune di questi popoli, una volta che la pace fosse raggiunta e conservata effettivamente, È ragionevole chiedersi se la spinta delle circostanze, nel presente e nell’immediato futuro, possa contribuire ad una progressiva neutralizzazione del carattere cui si è accennato sopra e quin di alla perpetuazione di quella pace che dovrà subentrare all’attuale guerra. Rimane altresì un problema aperto e interessante il sapere se la spinta in quella direzione, se esiste, sia sufficientemente rapida e massiccia da non esser sopraffatta e soverchiata dall’azione di quei fattori che originano i dissensi e le imprese militari. Una risposta categorica a questi interrogativi sarebbe frutto di vaticinio o di sfrontatezza, e quanto ad utilità l’uno varrebbe l’altra. Ma ai fini di una

pace durevole che origini da eventi già in corso di svolgimento vi sono alcune condizioni necessarie, e certe precise eventualità che dipendono da fatti correnti, come lo stadio attuale delle tecniche industriali e del sentimento popolare, insieme alla congiuntura di circostanze nelle quali questi fattori opereranno. In precedenza s’è parlato dello stadio delle tecniche industriali in rapporto alla pace e alla violazione di questa. Esso è tale che, se preparato accuratamente, un attacco lanciato da una qualunque delle potenze di prima grandezza al momento opportuno raggiungerebbe, devastandolo, qualunque paese abitabile della terra. Questo è più che evidente e forma il presupposto di tutte le proposte e i piani di pace attuali, come del resto del rifiuto delle nazioni attualmente sulla difensiva di aprire negoziati per una «pace non definitiva». Si tratta di una situazione che non si ammette apertamente, ma che tutti conoscono. Cosicché tutti i progetti di pace, per avere un séguito, debbono tener conto di questo fatto e debbono dimostrarsi capaci di sventare qualunque offensiva. Ovunque si lavori alla ricerca della pace, in modo inarticolato o forse inadeguato, sebbene con certezza e apprensione crescenti, questo stato di cose sta diventando anche un articolo di ce conoscenza e credenza» popolare. Esso ha già avuto un effetto visibile nell’allentare l’esclusivismo delle nazionalità e nel volgere l’attenzione dei popoli pacifici al problema dei possibili mezzi e modi di cooperazione internazionale, in caso di necessità. Ma, almeno sinora, non ha granché ridotto lo spirito guerresco fra queste nazioni, né ha, almeno fino ad oggi, diminuito la tensione del loro orgoglio nazionale, anzi tutt’altro. L’incipiente percezione della fatalità, intrinseca allo stadio moderno delle tecniche industriali, influenza l’umore popolare nei vari paesi a seconda della posizione che ciascuno occupa o che ritiene di occupare. Fra le nazioni belligeranti la paura di ciò ha stimolato il bisogno di un’azione concertata come pure di sforzi per il rafforzamento della difesa nazionale. Ma la disposizione del sentimento e delle idee di una nazione in tempo di guerra non costituisce indicazione sicura di quello che avverrà dopo il ritorno della pace. Il popolo americano, la maggiore e la più direttamente interessata fra le nazioni neutrali, dovrebbe offrire prove più significative dei mutamenti dell’atteggiamento popolare, man mano che si convincerà del fatto che il vantaggio sta ormai in un’offensiva risoluta e ben predisposta e che le precauzioni della diplomazia e le possibili misure di armamento difensivo non offrono più nessuna garanzia di sicurezza, sempre posto che ci sia una

qualsiasi potenza nazionale mossa da progetti di dominio imperiale. Soltanto a poco a poco il popolo americano e i suoi rappresentanti hanno preso coscienza della loro posizione attuale nel mondo moderno, e finora solo in modo imperfetto. La loro prima reazione allo stimolo è stata un’ostentazione di autosufficienza patriottica e un tentativo di porre la difesa nazionale sul piede di guerra in modo da respingere ogni aggressione. Gli elementi della popolazione che non hanno del tutto compresa la gravità della situazione e che sono al tempo stesso interessati commercialmente agli armamenti o alle promozioni militari non hanno ancora superato quest’atteggiamento di magniloquenza e risolutezza; né ci sono segni finora che siano più lungimiranti, anche se si insinua con insistenza che essi sono consapevoli della difficoltà pratica di persuadere un popolo pacifico ad iniziare una adeguata preparazione preventiva di equipaggiamenti e di mano d’opera specializzata per un simile piano di autodifesa autosufficiente. Ma soprattutto fra coloro che, grazie al temperamento o all’intuito o alla mancanza d’interesse finanziario o arrivistico, hanno meno fiducia in un richiamo al valore della nazione, si va facendo strada la netta convinzione che i soli preparativi militari, lo «stato di preparazione», attuati dalla Repubblica isolatamente, servano a ben poco. A favore di questa tesi vi sono almeno due tipi di argomenti, o di convinzioni: la predisposizione di una difesa militare con relativo equipaggiamento e uomini addestrati sarà un provvedimento di dubbia efficacia anche se portato al limite di tolleranza, che sarà in ogni caso raggiunto assai presto in ogni nazione democratica. Esiste poi anche la speranza di poter evitare i preparativi militari, almeno in quella misura limite, mediante un efficace accomodamento con quelle nazioni che si trovino in condizioni analoghe. Finora il risultato più tangibile di questi piani pacifici per mantenere la pace, o per la difesa comune, è un progetto di lega tra le nazioni neutrali, che si prefigge di conservare la pace mediante il rispetto di norme specifiche di polizia internazionale o imponendo l’arbitrato nelle dispute internazionali. È molto dubbio se e quanto il sentimento popolare si accordi con questi provvedimenti precauzionali. Tuttavia è evidente che il sentimento e l’apprensione popolare sono stati influenzati profondamente dagli avvenimenti degli ultimi due anni, e il conseguente mutamento, già visibile nel sentimento generale in materia di difesa nazionale, autorizza a pensare che ci si debba aspettare altri decisivi cambiamenti nello stesso campo, in un ragionevole periodo di tempo.

Nel caso del popolo americano l’equilibrio di un’opinione pubblica efficace finora è piuttosto dubbio, ma anche abbastanza instabile. La prima reazione è stata un dispiego d’emozione patriottica e di autoaffermazione nazionale. Le dichiarazioni successive e forse più deliberate contengono una più chiara nota d’apprensione e una minor dose di caparbio e irriflessivo orgoglio nazionale. È forse prematuro attendersi un vero e proprio cambiamento di base verso una posizione più neutrale, o meno esclusivamente nazionale, circa i problemi della difesa comune. Il governo nazionale si è mosso a ritmo accelerato nel senso non dell’isolamento nazionale e dell’autosufficienza, basata su di un dispositivo militare abbastanza formidabile da conservare o infrangere la pace a volontà, come quello che propugnano i politicanti più truculenti e irresponsabili, ma piuttosto nel senso di moderare o limitare ogni pretesa nazionale che non sia d’indubbia rilevanza materiale e di ricercare un’intesa comune e un’azione concertata con quelle nazionalità i cui interessi pratici in materia di pace e di guerra coincidono con quelli americani. Il governo è divenuto visibilmente più pacifista nel corso della sua impegnativa esperienza, pacifista in modo più risoluto o addirittura più aggressivo. Ma in tutta questa strategia di pace l’aspetto più importante, in un certo senso, è stato non più il man tenimento di un equilibrio dinamico fra i belligeranti e la conservazione quotidiana della pace, bensì il conseguimento di una pace definitiva alla fine delle ostilità, con tutte le condizioni necessarie a mantenerla successivamente. Questo, in effetti, è un problema ben diverso dal preservare la neutralità e i rapporti amichevoli con dei belligeranti importuni, ed è immaginabile, se non probabile, che possa comportare la rottura cautelativa della pace e l’entrata in guerra per arrivare ad una soluzione definitiva. Nella fase attuale, attribuire al governo un atteggiamento aggressivo alla ricerca di una pace duratura, che potrebbe definirsi una politica di offesa difensiva, significherebbe voler forzare il significato delle cose; ma non si offenderà la sensibiltà di alcuno dicendo che una politica di questo genere, che comporta lo schierarsi in guerra e la rinuncia all’isolamento nazionale, è certo oggi meno lontana dalle intenzioni del governo di quanto sia mai stata in precedenza. Con questo atteggiamento pacifico sempre più urgente, di vasta portata e inquieto, si ha l’impressione che il governo sia il portavoce dell’uomo comune, piuttosto che degli interessi particolari o delle classi privilegiate e, alla luce dei risultati, tale sembra esser il significato delle recenti elezioni7. Da quel punto di vista ciò è tanto più significativo poiché, alla fine, toccherà proprio

all’uomo comune giudicare la convenienza di una stabile linea politica e accollarsene l’onere materiale. Forse è azzardato dire che in un paese democratico un governo eletto dal popolo debba riflettere, approssimativamente, i mutamenti effettivi del sentimento e dell’inclinazione popolare. Sarebbe avventato soprattutto per chi esamini la cosa dal punto di vista di una nazione non democratica e, di conseguenza, sia incline ad accorgersi delle oscillazioni superficiali dell’eccitazione e del clamore mutevole. Ma coloro che vivono entro i confini della società democratica sanno che qualunque governo, in un paese dove la stabilità e il potere di un partito si reggono sul voto popolare, è un’organizzazione politica mossa dall’opportunità politica, nel senso deteriore dell’espressione. Una situazione politica di questo tipo ha i difetti insiti nelle sue qualità, come è stato bene e spesso dimostrato dai suoi critici, ma anche i meriti intrinseci ai suoi difetti. In una democrazia di tipo moderno, ogni titolare di un’alta carica è inevitabilmente in un certo senso un politico; e al tempo stesso un politico è in un certo senso un demagogo. Deve cedere alle tendenze popolari o alle idee e alle esigenze della maggioranza effettiva da cui dipende. E, se pure può furtivamente influenzarne l’opinione, dando l’impressione di rifletterla e di rispettarla, tuttavia non può farlo apertamente. Il potere dichiarato, quale si è messo in scena di tanto in tanto nel nostro paese, si è rivelato fittizio e nulla più. Se un politico deve esser abile, un uomo di stato dev’essere qualcosa di più. Egli deve prevedere con precisione ogni svolta degli avvenimenti e delle opinioni; e, nel cogliere al volo gli eventi futuri, egli potrà guidare e condizionare a suo piacimento il corso delle idee e dei sentimenti. Ma, allo stesso tempo, è obbligato a seguire la direzione a lunga scadenza della corrente quale viene determinata dalla mentalità dell’uomo ordinario. Tale lungimiranza ed elasticità è necessaria per sopravvivere, ma la flessibilità delle convinzioni non è di per sé sufficiente. E ciò è stato dimostrato. Solo gli uomini politici di secondo piano, certo i più numerosi e i più duraturi, riescono a conservare il proprio posto negli interstizi dell’organizzazione di partito e a vivere del mestiere della politica di partito senza arrischiare intuizioni e previsioni. Da ciò risulta che l’orientamento e la reazione sentimentale del popolo, sotto lo stimolo degli avvenimenti correnti, si riflette in modo più fedele e più rapido nei governi di breve durata di una democrazia che non negli istituti governativi stabili e formalmente irresponsabili del vecchio ordinamento. Vale anche la pena di rilevare che i

governi democratici sono in una posizione meno vantaggiosa per guidare il sentimento popolare e adattarlo ai loro fini particolari. Ora si dà il caso che mai, nell’ultimo mezzo secolo, il corso degli eventi si sia mosso con tale celerità e con conseguenze così gravi per il bene comune e le prospettive della vita nazionale come durante l’attuale governo. L’apparente concordanza della politica governativa con il sentimento popolare potrebbe indurre a valutare assai positivamente la condotta del governo nei rapporti internazionali e nei provvedimenti nazionali che influen zano i rapporti internazionali, in quanto rappresentativa del sentimento e della riflessione della società, dal momento che, in forma più o meno organizzata, in pratica la società riflette sui problemi di gravità e di urgenza tali da imporsi all’attenzione dell’uomo comune. Il corso degli avvenimenti internazionali ha imposto al governo due serie di considerazioni. C’è stata un’apprensione crescente, che negli ultimi mesi si è trasformata in una vera e propria persuasione, che la Repubblica sia destinata ad esser ridotta a stato vassallo dell’Impero dinastico, ora impegnato con i suoi avversari europei. Ma dire che la Repubblica è destinata ad esser assoggettata non significa che da parte dell’istituto imperiale sia stata presa su questo punto una decisione definitiva; e ancor meno che una risoluzione in tal senso, specificante i modi e i mezzi, sia stata stilata in forma di documento e depositata negli archivi imperiali per futura consultazione. Si intende solo sostenere, è necessario precisarlo, che il corso degli eventi fa prevedere che la sottomissione della Repubblica americana avrà luogo quanto prima, a condizione che l’attuale avventura imperiale si concluda nel modo auspicato; anche se non è detto che questa particolare impresa debba proprio esser la prossima grande avventura di dominio da intraprendere quando la situazione ritornerà propizia. Quest’ultimo punto dipenderà da un complesso di circostanze, prime fra tutte le esigenze di dominio imperiale che informano la politica dell’alleato naturale e necessario dell’Impero in Estremo Oriente8. Tutto questo è presente con sempre maggior urgenza nelle deliberazioni quotidiane del governo americano. Ciò naturalmente non entra esplicitamente nelle discussioni ufficiali e forse neppure in quelle riservate; non siamo a questo punto. Ma in un esame scientifico di questi fenomeni, per comprendere il corso attuale delle cose in questo campo, non è male parlar chiaro. Inoltre vi è un analogo senso d’apprensione, che va più lentamente e con riluttanza mutandosi in convinzione radicata, secondo il quale la società americana non è in grado di risolvere il proprio problema da sola. Il passar dei

mesi sul teatro di guerra rafforza sempre più questa apprensione, aggravata dalla constatazione sempre più evidente che la situazione della società americana in questa circostanza è la stessa dei paesi democratici dell’Europa e delle altre colonie europee. Questo non significa, almeno per il momento, che nell’apprensione patriottica dell’uomo comune, o del governo che parla per lui, le risorse del paese siano ritenute inadeguate a fronteggiare le evenienze che potrebbero presentarsi, sia in fatto di capacità industriale che di mano d’opera, se dette risorse fossero utilizzate a questo scopo con la stessa unilateralità e gli stessi drastici criteri che caratterizzano l’azione di un governo nazionalista mosso solo da considerazioni di dominio imperiale. Il dubbio riguarda soprattutto l’elevatezza del costo, almeno nei settori in cui è possibile calcolarlo. Dubbio che viene rafforzato, dopo brevissima riflessione e dietro suggerimento dell’esperienza, dalla constatazione che non è possibile convincere una democrazia a vivere sul piede di guerra a tempo indeterminato al solo scopo di esser pronta ad ogni evenienza, per spiacevole che questa possa essere. In effetti una società democratica è mossa da altri interessi, e la difesa comune è una considerazione secondaria, non un interesse primario, se non nel caso eccezionale di una società così esposta alla minaccia immediata d’invasione da attribuire un peso determinante alla difesa comune nelle sue abitudini mentali quotidiane. Questo non è il caso della Repubblica americana. Basta riflettere un po’ per rendersi conto che questo popolo non è disposto, in tempo di pace, a fare il massimo sforzo per preparare la guerra. Si potrà convincerlo a fare molto di più di quanto non sia abituato a fare, e politicanti avventati potranno impegnarlo assai più di quanto la gente in generale desidererebbe, ma a conti fatti e calcolando il limite della tolleranza popolare sarebbe arrischiato attendersi un risultato superiore al cinquanta per cento delle capacità del paese. In particolare la pazienza del popolo si ribellerebbe al lungo addestramento militare indispensabile per porre il paese in un’adeguata posizione di difesa contro un’offensiva improvvisa e ben organizzata. Le cose vanno altrimenti in uno stato dinastico, per il quale tutti gli altri interessi sono necessariamente secondari e vengono presi in considerazione solo in quanto contribuiscono a preparare la nazione a delle imprese militari. L’America, al tempo stesso, si trova in una posizione di maggior pericolo, posta come è fra i due mari al di là dei quali, su entrambe le sponde, sorgono le due potenze imperiali, il cui ruolo nella moderna economia delle nazioni è quello di disturbare la pace, in una insaziabile ricerca di dominio. Dati, i

recenti sviluppi delle tecniche industriali, questa posizione non è più difendibile con l’isolamento, e dunque il criterio dell’isolazionismo che finora ha guidato la politica nazionale è in via di superamento; il problema riguarda il modo di rinunciarvi, più che la rinuncia in se stessa. Potrebbe risolversi in un’alleanza difensiva con altre nazioni minacciate dagli stessi pericoli, o in una inutile lotta per l’indipendenza; in ogni caso la scelta non va oltre questa alternativa. Si dirà, naturalmente, che nel futuro l’America sarà in grado come nel passato di difendere se stessa e la sua dottrina Monroe. Ma questo punto di vista, sostenuto vigorosamente da uomini riflessivi e da politicanti in cerca di vantaggi di partito, trascura il fatto che la moderna tecnologia ha definitivamente fatto pendere la bilancia a favore dell’offensiva, e che i mari non possono più considerarsi ostacoli insormontabili. Da questo punto di vista, ciò che era abbastanza vero quindici anni fa è dubbio oggi, e tutto lascia prevedere che sarà senza valore fra quindici anni. Gli altri popoli di temperamento neutrale possono aver estremo bisogno dell’aiuto dell’America nei loro sforzi per preservare la pace, ma il bisogno di cooperazione è ancora più estremo da parte dell’America, poiché la Repubblica si avvia ad una situazione assai più precaria di tutti gli altri popoli. L’America è, almeno potenzialmente, la più democratica delle grandi potenze, ed è afflitta da tutte le debolezze di una società democratica di fronte alla guerra. Per di più l’America è anche attualmente, e forse in un futuro calcolabile, la più potente delle grandi potenze per disponibilità di risorse potenziali, sebbene non per capacità effettiva di combattimento; e la partecipazione senza riserve dell’America ad una lega neutrale sarebbe quindi decisiva sia agli scopi della lega che della sua efficienza operativa; in particolare se la neutralizzazione degli interessi fra i membri della lega arrivasse a rendere non conveniente l’abbandono della lega per adottare una politica indipendente. L’istituzione di una lega neutrale, con una neutralizzazione degli interessi nazionali tale da garantire un’azione concertata in caso di pericolo, eviterebbe all’America la necessità di armarsi o quella di aumentare gli armamenti. La forza della Repubblica si basa sulle sue enormi e varie risorse e sull’ineguagliata capacità industriale della popolazione, una capacità oggi seriamente ostacolata da interessi e metodi commerciali nocivi che agiscono sotto la copertura della discriminazione nazionale, ma che riacquisterebbe l’originale vigore una volta che queste discriminazioni nazionali fossero corrette o abrogate dalla neutralizzazione delle pretese nazionali. In Europa, i

popoli di vocazione neutrale si sono visti costretti ad apprendere l’arte della guerra moderna e a munirsi dei necessari equipaggiamenti, sufficienti a far fronte alle esigenze connesse con il mantenimento della pace per un congruo periodo di tempo a condizione che la pace che concluderà l’attuale guerra poggi su basi così «conclusive» da costituire qualcosa di più che un periodo di recupero per la potenza bellicosa sulle cui smanie di dominio s’impernia tutto il problema. L’aumento degli armamenti americani non sarà necessario se saranno offerte idonee «garanzie sostanziali» di una ragionevole tranquillità da parte di questa potenza imperiale. In questo caso un aumento degli armamenti significherebbe soltanto un’inutile duplicazione d’impianti e di uomini già disponibili e sufficienti a soddisfare le esigenze. Per far fronte alle eventualità contemplate all’atto della formazione, questa lega dovrebbe esser neutralizzata al punto che tutte le pretese nazionali relative cadrebbero in virtuale disuso, cosicché tutte le necessarie risorse a disposizione delle nazioni federate, in caso di necessità, sarebbero poste automaticamente e senza perdita di tempo sotto il controllo delle autorità nominate dalla lega. Vale a dire che gli interessi e le rivendicazioni nazionali lascerebbero il posto ad un controllo collettivo sufficiente a garantire un’azione immediata e concertata. Di fronte a tale lega neutrale, il Giappone imperiale da solo non avrebbe alcuna seria possibilità di sottrarsi alla sua influenza né potrebbe nutrire eccessive speranze di perseguire la sua ricerca di dominio. Può anche darsi che l’istituto imperiale nipponico sia indotto con mezzi pacifici a lasciare che i suoi innocui vicini vivano la loro vita secondo le proprie inclinazioni. Forse è stato proprio il timore di una simile eventualità a spingere la rapacità dell’Impero insulare alle precipitose indecenze degli ultimi due anni. 1. Va bene! 2. Che Dio ne guardi! a. Per un’ampia discussione su questo punto vedi La Germania imperiale e la rivoluzione industriale, in particolare i capp. V e VI. 3. Riferimento alla campagna bellicista condotta nel 1898 dalla catena di giornali a sensazione di proprietà di William Randolph Hearst, che contribuì non poco ad influenzare l’opinione pubblica americana. 4. La guerra contro i coloni boeri fu il frutto di una lunga serie di errori da parte inglese, e del timore che la Repubblica boera cadesse sotto l’influenza germanica; oltre che delle umilianti sccnitte inferte agli inglesi nel 1881 e 1895-96. 5. Le corn laws erano leggi protezionistiche, istituite nel 1815 in difesa dei produttori britannici di grano, con l’effetto di impedirne l’importazione e di tenere artificialmente alto il prezzo del pane. Furono abrogate nel 1846 dal governo Peel. I rotten boroughs erano collegi elettorali di campagna, che consentivano ai proprietari terrieri di controllare le maggioranze alla Camera dei Comuni a danno della

borghesia cittadina. Il sistema elettorale fu mutato con il Reform Bill del governo di Lord Grey (1832). La Monroe Doctrine, proclamata dal Presidente James Monroe nel 1823, postulava la non-ingerenza delle potenze europee nell’emisfero americano; essa ha costituito un caposaldo della politica estera americana fino ai nostri giorni. 6. Surrogati. 7. Le elezioni presidenziali del novembre 1916, conclusesi con la riconferma del Presidente Wbodrow Wilson, che godeva allora di un certo favore da parte di Veblen. 8. Una nuova, profetica previsione della futura alleanza tedesco-giapponese, conclusa vent’anni dopo. Si veda sullo stesso tema anche la lettera a «New Republic», dal titolo The Japanese Lose Hopes for Germany, pubblicata il 30 giugno 1917.

CAPITOLO VI. ELIMINAZIONE DEI NON IDONEI A questa data (gennaio 1917) è prematuro avanzare ipotesi sul tipo di lega alla quale le nazioni pacifiste dovrebbero partecipare per tutelare la pace. Ma le circostanze che incoraggiano questa linea di condotta e ne condizionano l’eventuale sviluppo sono già entrate in gioco e non sono più ignote a chi si lascia guidare più dai fatti che dalle proprie inclinazioni. Anzi, è addirittura possibile rilevare la pressione delle circostanze condizionanti e calcolare la linea di minor resistenza, pur lasciando necessariamente un certo margine di errore per i fattori temporali ignoti e per altri imprevisti. Il tempo è un elemento essenziale della situazione, al punto che cose che due anni fa sarebbero state liquidate come fantasticherie prive di consistenza sono divenute ai nostri giorni oggetto di serie riflessioni e in futuro potranno assumere un’urgenza suprema. Per apprezzare e fare l’abitudine ad ogni innovazione di qualche importanza occorre tempo, specialmente quando, come nel nostro caso, l’innovazione proviene da un’evoluzione del sentimento pubblico. Date le premesse sembra che oggi non ci sia molto tempo a disposizione; bisogna notare, però, che gli avvenimenti si susseguono con una rapidità senza precedenti e premono sulle convinzioni popolari con una forza e una vastità senza pari. Ci auguriamo che una spiegazione delie circostanze che determinano l’azione secondo queste linee non risulti troppo noiosa e che tentar di definire quale sia la linea di minor resistenza non sembri troppo presuntuoso. Nel nostro caso il fatto fondamentale è costituito da un diffuso bisogno di sicurezza contro l’aggressione della Germania imperiale e delle potenze sue alleate, insieme ad una crescente preoccupazione per l’eventuale comportamento del Giappone imperiale, tutto proteso verso un identico ideale di dominio. Esiste anche una certa preoccupazione, sia pure meno dichiarata, per le intenzioni della Russia imperiale, che rappresentano un fattore oscuro e indefinibile che, però, mette in risalto la drammaticità della situazione determinata dalle ambizioni dinastiche degli altri due stati imperiali. Inoltre le nazioni pacifiche, soprattutto le più importanti, come quelle di lingua francese

e di lingua inglese, vanno convincendosi che nessuna di loro può più provvedere, da sola, alla propria sicurezza, anche facendo il massimo sforzo per raggiungere quello che recentemente è stato definito «stato di preparazione»; al tempo stesso queste nazioni, non avendo nulla da guadagnare, sono riluttanti a impegnare tutte le loro forze in preparativi militari. Quindi ci si limita a ventilare la possibilità di una lega di popoli pacifici, una lega per il rispetto della pace come viene chiamata attualmente, o almeno, in modo meno ambizioso, una lega che riesca ad imporre l’arbitrato. Rimane insoluto il problema se questa lega debba includere le due o tre potenze imperiali le cui intenzioni pacifiche sono, eufemisticamente parlando, dubbie. Questo è il profilo del progetto e delle sue condizioni. Cercheremo di definire meglio questo profilo per valutarne le finalità e prevedere le modifiche che le circostanze condizionanti imporranno al momento di metterlo in atto. Quanto al pericolo di aggressione, abbiamo già detto, anche a costo di ripeterci, che non è possibile che le due potenze imperiali rinuncino a perseguire la supremazia mediante la guerra, poiché in qualità appunto di stati dinastici non hanno altro scopo che questo; come del resto stanno a dimostrare le numerose dichiarazioni della Germania negli ultimi anni, siano esse di fonte ufficiale, semiufficiale, ispirata o del tutto spontanea. Il concetto di «fede nel futuro della nazione» non è traducibile che in questi termini; la dinastia imperiale non ha altra base su cui sostenersi e non può abbandonare la partita almeno finché è in grado di raccogliere le forze per effettuare una potente diversione che le assicuri qualche dominio mediante la conquista, la minaccia, o la frode. I popoli pacifici si vanno rendendo conto di questo in modo forse impreciso e frammentario ma certo definitivo, e con sempre maggior chiarezza e fiducia con il passar del tempo. E ciò perché ci si è convinti che nessun impegno è capace di vincolare minimamente lo stato dinastico, salvo una forza che lo imponga materialmente dall’esterno. Per questa ragione la diplomazia ha avanzato la richiesta di «garanzie sostanziali». Ogni aumento delle risorse di tali potenze equivale ad un aumento senza riserve dei mezzi e modi per minacciare la pace. Nel novero delle nazioni pacifiche, due sono indispensabili alla riuscita del progetto: gli Stati Uniti e il Regno Unito; i primi portano al proprio seguito, praticamente senza eccezioni o discussioni, le altre repubbliche americane, nessuna delle quali può in pratica entrarvi o rimanerne fuori se non insieme e

d’intesa con gli Stati Uniti. Altrettanto vale per il Regno Unito nei confronti delle colonie britanniche. È evidente che senza questi due gruppi il progetto resterebbe lettera morta. La Francia, il Belgio, l’Olanda e i paesi scandinavi vanno considerati anch’essi elementi di forza, sia pure non indispensabili. Con tutta probabilità anche le altre nazioni dell’Europa occidentale aderirebbero alla lega, anche se la loro adesione non sarebbe determinante per l’opera e le sorti della lega stessa. In un certo senso, quindi, queste nazioni possono esser trascurate nell’esame delle circostanze che dovrebbero informare la lega, le sue finalità e i suoi limiti. Gli stati balcanici in senso lato, almeno quelli che stanno all’ombra dell’insegna del doppio gioco1, rappresentano delle entità trascurabili ai fini dell’organizzazione della lega, delle sue risorse, e delle concessioni che i membri più importanti dovrebbero farsi tra loro. La Russia poi costituisce un fattore così poco chiaro, in particolare per quel che concerne il suo ruolo e le sue possibilità in campo industriale, culturale e politico in un prossimo futuro, che sul suo comportamento si possono avanzare soltanto delle ipotesi. Le cattive intenzioni del governo burocratico-imperiale non vanno messe in questione più delle buone intenzioni delle popolazioni soggette della Russia. La Cina dovrà far parte della lega, soprattutto per evitare che il suo imperiale vicino, in mancanza di un’insormontabile interferenza dall’esterno, sfrutti le magnifiche risorse di questo paese per i suoi fini particolari; e quando si tratta di neutralità e sicurezza sulla Cina si può sempre contare, A questo punto sorge il problema delle potenze imperiali, le cui avventure dinastiche la lega è destinata ad arginare. Pensandoci bene, se la lega deve realizzare, almeno in buona misura, i suoi scopi, anche tali potenze dovranno entrare a farne parte o comunque dovranno ammettere la sua giurisdizione. Una lega pacifica che non comprenda queste potenze, o non estenda ad esse e alla loro condotta la propria giurisdizione e il proprio controllo, si ridurrebbe ad una coalizione di nazioni scissa in due gruppi opposti, l’uno in posizione di difesa contro le macchinazioni militari dell’altro, ed entrambe intente ad accattivarsi il favore delle potenze minori, le cui tradizioni e le cui aspirazioni mirano attualmente ad ampliare il territorio (dinastico) nazionale mediante l’intrigo politico. Si ridurrebbe, insomma, ad un’espressione più complessa e più accentuata di quell’equilibrio di potenze che s’è visto fallire in Europa, con le più corrotte e instabili minuscole monarchie dell’Europa orientale investite del pieno diritto di voto; senza contare che si arriverebbe di nuovo ad un sistema di armamenti competitivi simile a quello che si è già rivelato

fallimentare2. In altre parole, una lega pacifica così concepita sarebbe in pratica un ritorno allo statu quo ante, di carattere però ancor più scopertamente provvisorio e con dei contrasti ancora più accentuati. In effetti non farebbe altro che riproporre proprio quella situazione che la lega dovrebbe impedire. È evidente quindi che un’eventuale lega dovrebbe includere tutti, almeno per quel che riguarda la sua giurisdizione ed i suoi poteri di controllo. Torneremo tra breve su questo punto. La lega deve proporsi come scopo la pace e la sicurezza, quelle che in linguaggio patriottico sono definite come pace e sicurezza «nazionali». Ciò implica che le nazioni pacifiche facenti parte della lega dovranno disporre di forze soverchianti, tali da fare della sicurezza una questione d’ordinaria amministrazione, al fine d’imporre in modo adeguato la pace. I fautori più miti di questo progetto tendono a credere che esso servirà semplicemente a creare un senso di solidarietà reciproca fra le nazioni neutrali, le quali cercheranno di regolare amichevolmente i propri rapporti in uno spirito di pace e di buona volontà, ma le loro previsioni peccano di ottimismo, perché trascurano il fatto che la Germania imperiale (e il Giappone imperiale) si inseriscono in quest’atmosfera di distensione come un selvaggio ubriaco armato di mitragliatrice; senza contare che i due imperi si coalizzeranno fatalmente alla prima occasione, indipendentemente dalle risorse ausiliarie e dagli aiuti esterni su cui potranno fare affidamento, alla sola condizione che si offra una ragionevole opportunità per nuove imprese. In altri termini, la lega dovrà esser in grado d’imporre il rispetto della pace mediante una forza soverchiante, prevenendo qualunque mossa che minacci la sicurezza delle nazioni pacifiche. Due sono i modi per raggiungere questo fine. Se gli stati dinastici saranno lasciati liberi di agire, toccherà alle nazioni associate metter in campo un’organizzazione militare permanente, atta a prevenire il ricorso alle armi; donde armamento competitivo e regime militare universale. Oppure, gli stati dinastici potranno esser associati e sottoposti a controlli e restrizioni tali da equivalere in pratica al loro disarmo; e questo permetterebbe il disarmo virtuale delle nazioni confederate. La prima soluzione non presenta alcun vantaggio, se non l’impossibilità di trovare una soluzione meno sgradevole nelle circostanze attuali; vale a dire che è improbabile che le nazioni pacifiche riescano a convincere gli stati dinastici ad accettare un disarmo controllato, se non ricorrendo alla forza. Ed è proprio questo il punto su cui s’impernia oggi la continuazione delle ostilità in Europa. In termini diplomatici i portavoce

della Germania imperiale affermano di non poter accettare (o, come preferiscono, concedere) alcuna condizione che non salvaguardi pienamente il futuro della Madrepatria; e dal canto loro, con un analogo linguaggio diplomatico, i portavoce dell’Intesa insistono sul principio che il militarismo prussiano dev’esser definitivamente eliminato; il che, in parole povere, significa decidere se al governo imperiale deve o non deve esser tolta ogni possibilità di prendere ancora una volta una iniziativa militare del genere, quando abbia avuto il tempo di riprendersi. Gli uomini di stato dinastici e in genere i comuni sudditi del governo imperiale sono impegnati con tutte le loro forze ad assicurarsi buone possibilità di un recupero per intraprendere un tentativo più sagace di assicurarsi quel dominio che l’avventura attuale minaccia di negare loro; quelli dell’Intesa, dal canto loro, non desiderano affatto ricominciare e sono convinti che una simile eventualità possa esser evitata solo mediante il collasso del potere imperiale, e impedendo inoltre scrupolosamente che esso possa risollevarsi in futuro. Nessuna lega pacifica riuscirà ad ottenere più di un semplice armistizio, senza il crollo definitivo del potere imperiale. Presupponendo questo crollo la lega potrà amministrare i propri affari in modo più economico, sia per mezzo di una riduzione globale degli armamenti sia con il sistema più costoso e fastidioso dello «stato di preparazione». Ma ridurre sensibilmente gli armamenti delle nazioni neutrali comporta il disarmo degli stati dinastici, il che, a sua volta, richiederebbe un controllo sugli affari degli stati dinastici così minuzioso e così autoritario che finirebbe per ridurre i loro governi alla condizione effettiva di funzionari amministrativi locali. Questo, naturalmente, creerebbe delle complicazioni che renderebbero necessario un riassestamento di tutto il sistema. Ridurre sensibilmente gli armamenti comporterebbe la virtuale, se non addirittura formale abolizione della monarchia, dal momento che la monarchia non ha altra funzione che la guerra e l’intrigo internazionale; o, almeno,, comporterebbe l’abrogazione virtuale dei suoi poteri, in modo tale da ridurla alla stessa condizione di faine antis e che caratterizza ora la corona britannica. È evidente che ciò equivale ad interferire profondamente negli affari e negli assetti interni della Germania, in un modo non ammissibile in base al principio democratico che ogni popolo dev’esser lasciato libero di seguire le proprie inclinazioni e i propri intendimenti negli affari interni. Eppure questa interferenza è indispensabile per mantenere la pace, volendo servirsi di un sistema che non sia quello della vigilanza permanente o di un’organizzazione militare preponderante, avendo a che fare

con un popolo le cui inclinazioni ed intenzioni sono ormai fin troppo note. Questo vale, a maggior ragione, per il Giappone imperiale. Un’alleanza tra le nazioni per il rispetto della pace implica necessariamente una supervisione sugli affari dei popoli le cui intenzioni pacifiche siano dubbie, con conseguenti difficoltà non soltanto per i popoli recalcitranti ma anche per le nazioni pacifiste. Partendo sempre dal principio che lo scopo primario e coerente della lega sono la pace e la sicurezza delle nazioni pacifiche dalla cui iniziativa essa dipende, è ragionevole supporre che l’organizzazione, l’amministrazione e gli ulteriori adattamenti e riassestamenti della lega debbano seguire la logica necessitante che conduce a quel fine. Chi vuol conseguire uno scopo deve fare i conti con i mezzi per ottenerlo. In questo caso lo scopo è costituito dalla pace e dalla sicurezza; il che, in pratica, significa pace e buona volontà; la cattiva volontà non è una buona premessa di pace. Persino gli strateghi militari del governo imperiale raccomandano un programma di «terrore» solo come utile espediente militare, quasi come una base provvisoria per la tranquillità, che però come misura permanente di pace è senz’altro inadeguata. I popoli moderni potranno raggiungere la sicurezza solo sulla base di una reciproca comprensione e di una comune base di equità, anche approssimativa, circostanze permettendo. Quindi perché l’eventuale accordo abbia un effetto duraturo e liberi le nazioni che vi aderiscono dall’apprensione e dall’animosità persistente, eliminando il senso abituale della precarietà della propria vita e della propria incolumità, la lega dovrà esser non soltanto globale, ma perfettamente uniforme nelle sue esigenze e nelle sue clausole. I popoli delle nazioni imperiali di un tempo dovranno partecipare alla lega su un piano di parità formale con gli altri. Ciò comporterà da parte di questi popoli la virtuale rinuncia alle loro strutture dinastiche e di conseguenza il passaggio ad un’organizzazione democratica, con l’abrogazione formale dei privilegi e delle prerogative di classe. Tuttavia un’abolizione virtuale del potere dinastico, tale da porlo formalmente sullo stesso piano della corona britannica, non sarebbe affatto conforme alla situazione reale nel caso del governo imperiale germanico e ancor meno in quello del Giappone imperiale. Se, sull’esempio della decaduta corona britannica, l’uno o l’altro di questi istituti imperiali fosse ridotto, con un provvedimento giuridico, ad una funzione puramente simbolica, le conseguenze sarebbero molto diverse rispetto alla società britannica, dove la corona ha perso i propri poteri in mancanza dell’indispensabile appoggio

popolare e non per avere abdicato formalmente ai suoi diritti. Nel caso della Germania, e ancor più del Giappone, la forza dell’istituzione imperiale si fonda sulla inalterata lealtà del popolo, la quale inizialmente resterebbe quasi intatta e in seguito si attenuerebbe ma solo per gradi impercettibili; quindi, se l’istituzione imperiale fosse lasciata formalmente in vita, essa potrebbe sempre contare sulla fedeltà delle masse e, malgrado l’abrogazione formale dei suoi poteri, le cose seguirebbero lo stesso corso di prima. Solo una radicale pulizia potrebbe dare allo stato dinastico una base democratica, base che sarebbe indispensabile al successo di una lega pacifica tra le nazioni, poiché solo un governo nazionale effettivamente democratico non intrigherà immancabilmente per un ampliamento del potere dinastico, nella buona e nella cattiva fama. In un caso come quello della Germania imperiale, con i suoi stati confederati e sussidiari, dove regalità e nobiltà costituiscono tuttora un potente motivo di attrazione per la fantasia popolare, e dove la leale abnegazione di fronte all’autorità è la virtù più importante e basilare dell’uomo comune, la virtuale abdicazione del potere dinastico in favore delle forme costituzionali può avvenire soltanto con l’abrogazione formale e integrale delle norme consuetudinarie e legali che hanno creato e permesso, fino ad oggi, un irresponsabile esercizio di autorità. Neutralizzazione, in questo caso, significa riduzione ad un livello di democrazia senza riserve che però, almeno al principio, non sarà accettabile per le masse e del tutto intollerabile per le classi dirigenti. Perciò un regime di questo tipo, se è fondamentale per il funzionamento di una lega neutrale di pace, urterebbe immediatamente contro la disperata resistenza delle classi dirigenti, con alla testa gli uomini di stato e i capi militari e, alle spalle, la caparbia fedeltà della popolazione sottomessa. Per le classi al governo sarebbe la fine, e per il popolo significherebbe la più ingrata sottomissione ad un sistema straniero di usi e costumi. Eppure questo è indispensabile per qualunque progetto di pace e di sicurezza permanente. Se è probabile che il popolo tedesco imparerà a cavarsela in modo soddisfacente senza la dominazione gratuita delle classi al governo, ciò non toglie che, all’inizio, questo verrebbe sentito come una vera e propria privazione. Dunque una lega per la difesa della pace dovrebbe, prima di tutto, imporre il rispetto della pace sulla base della resa incondizionata delle potenti nazioni militariste; il che si può ottenere soltanto con la loro sconfitta, totale e irrimediabile. E qui si presenta un problema: il fine giustifica il suo prezzo? A

questa domanda non è possibile rispondere in assoluto, poiché si tratta anche di una questione di gusto e di prevenzione; d’altra parte in questo momento non cambierebbe di molto la linea d’azione che le nazioni pacifiche seguiranno probabilmente per ottenere una pace duratura. Ha più senso chiedersi quali saranno, in pratica, le decisioni di questi popoli quando alla fine il problema si presenterà in forma concreta. Non dimentichiamo, inoltre, che qualsiasi innovazione importante che abbia come base il sentimento popolare richiede tempo, e che di conseguenza un plebiscito su questo problema non costituirebbe oggi un’indicazione sicura di quelle che saranno le decisioni al momento di affrontare la questione, tanto più che, considerando la rapidità e l’urgenza con cui le cose si svolgono, ogni periodo di tempo accordato conta più di quanto il suo coefficiente quotidiano parrebbe indicare. Con un po’ di ottimismo si può dire che proprio ora, durante gli ultimi due anni, il sentimento si è orientato nella direzione indicata, con l’aiuto della constatazione ormai prevalente che solo dei rimedi eroici possono esser di qualche utilità nella congiuntura attuale. Se si arriva ad ammettere che una pace duratura può aversi solo a condizione di estirpare il privilegio e la monarchia dalle nazioni militariste, è ragionevole aspettarsi che, visto il loro atteggiamento odierno, le nazioni pacifiche non esiteranno ad adottare questo rimedio, purché le sorti della guerra si decidano nel senso opportuno e sempre che il conflitto duri abbastanza a lungo e sia abbastanza aspro da indurle a provvedimenti così drastici. Vi è una certa questione secondaria tra quelle che riguardano il sentimento popolare e la politica nazionale nei confronti delle misure da prendere contro le nazioni militariste, nel caso che le nazioni alleate che combattono in difesa della neutralità siano in grado di occuparsene con piena libertà. Questo problema può apparire secondario e remoto e quindi esser sottovalutato rispetto alla congerie di considerazioni più gravi e più concrete. Si è già visto che il Regno Unito costituisce uno dei due pilastri per l’edificazione della pace; e inoltre, senza timore di esser contraddetti o di offendere qualcuno, possiamo dire che il Regno Unito è anche quella delle nazioni pacifiche che pili si avvicina, in caso di emergenza, alla possibilità di risolvere i suoi problemi senza un aiuto esterno. In ogni caso, è indispensabile che gli inglesi aderiscano al progetto, e gli inglesi dal canto loro sono in posizione di poter dettare i termini della propria adesione. Il commonwealth britannico, in senso lato, deve rappresentare il nucleo centrale della lega pacifica e l’opinione britannica avrà un ruolo molto importante nel definire le

clausole della sua costituzione e le condizioni da offrirsi alla coalizione imperiale. Si dà il caso era che la società britannica sia entrata in questa guerra nella sua veste di monarchia democratica, guidata e diretta da un gruppo di gentiluomini che costituiscono, senza dubbio, la più corretta e ammirevole accolta di gentiluomini che il mondo moderno abbia da offrire. Ma la guerra si è rivelata ben altro che una guerra fra gentiluomini; è stata, se mai, una guerra di prodezze tecnologiche, con l’aggiunta di azioni barbare e bestiali. È un tipo di guerra in cui le virtù specifiche dell’uomo ben educato e gentile rappresentano uno svantaggio, in cui la verità, il valore, l’umanità e la liberalità non conducono che alla sconfitta e all’umiliazione. Il tasso di mortalità tra gli ufficiali-gentiluomini inglesi nei primi mesi e per molti mesi successivi è stato esorbitante, soprattutto perché si trattava di valorosi gentiluomini oltre che di ufficiali imbevuti del buon vecchio spirito classista di noblesse oblige, quello stesso che ha contribuito in larga misura a creare la tradizione e la dottrina dell’ufficiale inglese sul campo di battaglia, buona, ma vecchia e irrimediabilmente sorpassata. Questa generazione di ufficiali si è in gran parte estinta perché incapace di sopravvivere o di servire al proprio scopo nelle condizioni della guerra moderna, alle quali invece gli avversari si erano già uniformati in anticipo con estrema facilità. Gli attributi del gentiluomo, l’apparato materiale d’una educazione raffinata, e forse, ammettiamolo pure, i gentiluomini in persona sono finiti in secondo piano, o meglio sono caduti in disuso, tra gli ufficiali di linea. Si può dubitare se ciò si applichi alla raffinatezza degli stati maggiori, ma nella migliore delle ipotesi anche questo resta dubbio. Speriamo di poter dire, senza offendere nessuno, che con il passar del tempo la classe militare è scaduta fino alla volgarità imposta dai mezzi e dei sistemi della guerra moderna, che esigono la familiarità con un apparato meccanico vasto e complesso, con i trasporti per ferrovia e su strada, con le fonti di energia, con il cemento armato, le trincee e il fango, soprattutto il fango, l’occultamento, le imboscate, gli inganni e la ferocia smisurata. Non che le persone di rango e di educazione superiore abbiano cessato di aspirare al mestiere di ufficiale o, ancor meno, che siano state prese misure per impedir loro di farlo, o per allontanare dal servizio attivo coloro che vi sono già entrati (sebbene si possano avanzare dubbi su questo punto soprattutto per i gradi di maggiore responsabilità), ma solo che la provvista di gentiluomini adatti, sebbene insolitamente grande, si è esaurita; quanto a coloro i quali sono

entrati in servizio di recente, o che vi sono rimasti, essi hanno inevitabilmente perduto in larga misura la loro raffinatezza e in particolare la distinzione di classe, e sono scaduti al livello, più banale, di uomini comuni. L’utilizzabilità ai fini della guerra moderna è condizionata dagli stessi elementi di temperamento e di formazione che favoriscono la produttività nei processi industriali moderni, in cui è indispensabile coordinare i movimenti su vasta scala ed avere un’ottima conoscenza di processi meccanici di grande precisione e portata, indispensabile, appunto, quanto una gestione efficiente dell’industria meccanica moderna. Ma il prototipo del gentiluomo inglese non è di alcuna utilità per l’industria moderna, semmai il contrario. Tuttavia il gentiluomo inglese è, in fatto di patrimonio ereditario, identico all’uomo comune; così che, evitandogli l’educazione sbagliata che fa di lui un gentiluomo, e che può esser facilmente annullata dall’urgenza del bisogno, lo si può render utilizzabile per la guerra moderna. Frattanto la grande richiesta di ufficiali e l’insaziabile richiesta di buoni ufficiali ha fatto sì che ci si rivolgesse all’uomo comune esperto e competente, e sta portando ad eliminare la nobiltà delle origini dagli attribuiti essenziali degli ufficiali di linea. Lo stesso processo di discredito e di eliminazione si va però estendendo anche ai funzionari responsabili dell’amministrazione. Anzi, l’accesso alle cariche di funzionari responsabili appartenenti alle classi più modeste è iniziato da qualche tempo ed ha avuto effetti notevoli, e il suo ritmo sembra aumentare con il passare dei mesi. In questo campo, come in quello delle operazioni militari, è ormai evidente che i metodi, i criteri, i pregiudizi e la conoscenza degli uomini e delle cose tipici dei gentiluomini non servono più; anche per questo aspetto è evidente che non si tratta di una guerra per gentiluomini. Le qualità tradizionali, che erano sufficienti in passato a dare all’amministrazione inglese almeno la possibilità di «cavarsela alla meno peggio», come si usava dire con orgoglio, valgono ben poco in questa congiuntura tecnologica delle vicende del paese. Forse dire che oggi le qualità tipiche dei gentiluomini non hanno più alcuna importanza a questi fini sarebbe troppo poco, e non sarebbe giusto sostenere che esse siano del tutto controproducenti data la meccanica odierna delle cose, ma un critico capzioso potrebbe scoprire un qualche precario addentellato per formulare delle argomentazioni in tal senso. Nel corso del diciannovesimo secolo, il governo inglese è andato progressivamente assumendo il carattere di un gentlemens agreement, un governo fatto dai gentiluomini per i gentiluomini e su dei gentiluomini al di là

di ogni precedente noto, anche se non in maniera integrale; nessun governo infatti potrebbe esser esercitato esclusivamente su dei gentiluomini, poiché dai gentiluomini come tali non si ricava alcun guadagno e quindi non c’è ragione di governarli; anzi esso non potrebbe rappresentare un incentivo per i gentiluomini i quali, com’è noto, vivono a spese di qualcun altro. Un governo di gentiluomini potrà sfuggire alla morte per inedia solo servendo gli interessi materiali della propria classe in contrapposizione a quelli della popolazione sottostante, da cui appunto questa classe trae i propri mezzi di sussistenza. La concezione britannica di un governo composto di gentiluomini prudenti e umani, interessati a mantenere lo stato di cose che meglio contribuisce al benessere materiale della loro classe, ha in genere riscosso l’appoggio leale della popolazione sottoposta, salvo qualche protesta occasionale e confusa. La protesta, tuttavia, non è mai giunta ad una sfiducia esplicita nei confronti dei gentiluomini, che hanno continuato ad esser considerati i pilastri del governo; e la gestione degli affari non è mai finita nelle mani di un’altra classe o ceto socialmente inferiore. Tutto sommato il criterio degli inglesi di far controllare gli affari nazionali da un corpo di azionisti-gentiluomini interessati rientra perfettamente nel quadro degli affettuosi pregiudizi diffusi nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo, come lo sfruttamento dei boriosi aristocratici autonominatisi si addice alla popolazione tedesca o come il controllo della nazione da parte degli uomini d’affari per i loro fini si addice agli americani. Il sistema inglese e quello americano sono molto simili nelle loro conseguenze, in quanto i gentiluomini inglesi rappresentano come classe la filiazione di una società affaristica e i loro fini e criteri di condotta continuano ad esser imposti dagli interessi finanziari che condizionano la loro nobiltà. Continuano a trarre i mezzi per una vita rispettabile da investimenti finanziari di carattere «consolidato», fatti su misura per la loro tranquillità e il loro sostentamento; sono autorizzati a usufruire degli sforzi produttivi della comunità in forza di un interesse finanziario costituito e sancito dai sacri diritti della proprietà; analogamente l’usufrutto dinastico e aristocratico tedesco si basa sulla prerogativa personale, ed è sanzionato senza mezzi termini dai sacri diritti della norma autorevole. Va notato che questi due tipi di usufrutto sono molto simili, «sotto la superficie», mantenendo però la distinzione che in Germania i gentiluomini usufruttuari sono, almeno in teoria, valorosi avventurierigentiluomini dal linguaggio altezzoso, la cui funzione nell’economia mondiale è quella di glorificare Dio e disturbare la pace; mentre la loro controparte in

Inghilterra è costituita da azionisti-gentiluomini d’irreprensibile correttezza, la cui funzione è più semplicemente quella di glorificare Dio e goderlo per sempre. Essendo tutti e due profondamente radicati nei pregiudizi dell’uomo comune, tutto il sistema dell’usufrutto mirante ad un consumo decoroso della produzione superflua della comunità ha riscosso l’appoggio cordiale del sentimento inglese, cordiale forse quanto la sottomissione del popolo tedesco al corrispondente modello germanico. Ma la guerra ha messo tutto ciò a dura prova e il comitato esecutivo dei gentiluomini inglesi si è visto costretto ad assumersi dei compiti ai quali non era preparato. Le esigenze di questa guerra fatta di realizzazioni tecnologiche hanno avuto quasi sempre un carattere non previsto nella costituzione di questo comitato esecutivo di azionistigentiluomini, destinato a proteggere gli interessi di classe e ad avvantaggiare economicamente la propria classe dirigendo gli affari nazionali in un modo indiretto, irreprensibile e poco appariscente. Questi metodi rientrano nel genere conosciuto familiarmente nel volgare linguaggio degli uomini politici americani come «agire di soppiatto» e «aiutarsi a vicenda»3, sempre però in circostanze di tale grandezza, autenticità e cortese deferenza verso i precedenti da conferire alla risultante routine di sottrazioni indebite, di accaparramenti e di appropriazioni un carattere non solo di benevola considerazione ma di austera moralità. Ma la cortesia più austera e la più autenticamente imparziale ripartizione dei benefici non possono bastare a soddisfare le brute esigenze di una guerra condotta secondo le linee meccanicistiche dei processi industriali moderni. Così il comitato esecutivo degli azionisti-gentiluomini, irreprensibile, ma inetto a tale riguardo, è andato a poco a poco perdendo la fiducia e l’appoggio dell’uomo comune, al quale in ultima analisi tocca sempre di fare ciò che va fatto. Di conseguenza l’istituzione delle consultazioni e contrattazioni dei gentiluomini ha dovuto, con grandi timori di una calamità, cedere il campo, con riluttanza e tardivamente, a qualcosa di assai meno aristocratico; sempre meno raffinato e quindi sempre più consimile al carattere di questa guerra, ma accettato con chiara riluttanza e apprensione sia dalla classe dirigente che dalla popolazione. L’urgenza di accettare questa nuova base e di risolvere la situazione ricorrendo disinvoltamente alla logica concreta dell’efficienza meccanica, che rappresenta la sola soluzione possibile ma non porta alcun rispetto alle persone, è stata sentita sin dall’inizio e compresa, sia pure in modo vago, da lungo tempo; ma solo tardivamente e dopo aver pagato

pesantemente le conseguenze dell’inettitudine dei gentiluomini si è fatto qualche passo concreto in questa direzione. C’è voluta molta britannica decisione per superare la paura del buio, per avventurarsi sulla terra sconsacrata dei fatti concreti dove non ci si era mai spinti da parte degli organismi governativi, se non per compiere quelle transazioni finanziarie che sono implicite nell’attività di un paese commerciale; senza contare che c’è un interesse economico nell’esser interessati alle transazioni finanziarie. Il passaggio del controllo discrezionale dalle mani dei gentiluomini a quelle della massa volgare4, che sa come fare quello che le volgari necessità impongono, può spingersi lontano una volta cominciato, e può continuare a svolgersi a ritmo accelerato qualora la spinta del bisogno duri abbastanza a lungo. Se ci sarà tempo sufficiente perché l’uomo comune si abitui a questo tipo di governo e di conseguenza si renda conto di come sia possibile andare avanti senza il controllo degli azionisti-gentiluomini, le conseguenze potrebbero esser piuttosto gravi. È dubbio, ma certo concepibile che, in questo caso, il comitato esecutivo dei gentiluomini che gestiscono gli affari alla luce dei loro interessi finanziari potrebbe non riassumere in pieno il controllo discrezionale del Regno Unito per un buon numero di anni dopo il ritorno della pace. Forse anche il regime sarebbe seriamente compromesso e, benché minima, c’è la possibilità che gli interessi finanziari consolidati sui quali si sostiene la classe dei gentiluomini subiscano qualche scossa, qualora il controllo passasse nelle mani della gente rozza e non abbiente per un periodo di tempo tale da abituare l’uomo comune a considerare gli interessi consolidati e i sacri diritti della nobiltà come molto rumore per nulla. Un esito del genere sarebbe un caso estremo, ma sia pure come eventualità remota è da tenere in considerazione. A questo punto le classi privilegiate del Regno Unito dovrebbero esser in grado di rendersi conto del pericolo che un eccessivo prolungamento della guerra rappresenterebbe per loro e per i loro interessi consolidati, in campo morale ed economico; alla pari del resto di un rinvio della pace tale da dar tempo al popolo di accorgersi della loro incompetenza e dannosità per il benessere materiale della nazione nella situazione moderna. Perché l’esperienza di guerra del paese ottenga questo risultato, bisognerebbe prolungarne la durata oltre i termini contemplati dalle speranze o dai timori della comunità. A questo proposito, dobbiamo notare la remota possibilità che almeno per qualche tempo si debba rinunciare a quella clausola implicita della costituzione inglese che ha finora limitato l’assegnazione dei posti di responsabilità a uomini di lignaggio e di educazione

superiore o almeno di notevole peso finanziario, tanto notevole da renderne i possessori dei gentiluomini di fatto, con un lignaggio virtuale e con quel forte senso dell’interesse di classe caratteristico del vero gentiluomo. Se ciò dovesse accadere ai sentimenti e alle credenze popolari inglesi esiste la possibilità, se non altro remota, che i diritti di proprietà e d’investimento perdano un certo grado di sacralità. È necessario rilevare un altro, in un certo senso meno probabile, sintomo di disintegrazione dei preconcetti moderni. Tra i pregiudizi e le illusioni più radicate del mondo moderno in materia giuridica ed economica è quello secondo cui i capitali sono indispensabili e quindi concederli o negarli significa esser in grado di arrestare rapidamente le operazioni industriali. Finora l’esperienza bellica ha dimostrato in via provvisoria che sotto la pressione della necessità si può fare a meno dei capitali e delle transazioni finanziarie, di credito, di contrattazione, di vendita e solvibilità, senza in apparenza ostacolare molto l’andamento meccanico delle cose verso cui è rivolto necessariamente il nostro interesse e che bisogna ritenere determinante in vista del risultato definitivo. Negli ultimi tempi la situazione si è andata chiarendo un po’ di più per la maggiore esperienza e sotto la rinnovata pressione delle esigenze tecnologiche, per cui si è arrivati a concludere che se gli aspetti finanziari sono indispensabili è solo perché si è deciso di considerarli tali, come nel caso del commercio internazionale; essi costituiscono un tramite indispensabile di mediazione solo nella misura in cui questa mediazione serve a favorire e difendere degli interessi finanziari. Quando, come è ora accaduto ai belligeranti, il governo nazionale diventa sostanzialmente insolvente, pare che i suoi affari possano esser curati con minor difficoltà e maggiore efficacia senza ricorrere ad espedienti finanziari. Certo ci vuole tempo per abituarsi a fare le cose con il metodo più diretto e senza la solita circonlocuzione della contabilità o la solita percentuale di utili destinati alle parti interessate, che in regime finanziario hanno autorità discrezionale in tutte le questioni che comportano l’uso delle tecniche industriali. In presenza di necessità materiali urgenti l’investimento appare più che altro un peso e un drenaggio ingiustificato delle energie dell’industria. Anche in questo caso si profila una pericolosa eventualità; pericolosa, s’intende, per i diritti consolidati di proprietà in forza dei quali coloro che possiedono il «capitale» possono concedere o rifiutare alla comunità l’uso delle tecniche industriali, pena l’infliggere delle privazioni nel caso che non sia pagato loro l’usuale balzello. Naturalmente non vogliamo criticare questa

soluzione, che ha la sanzione del «tempo immemorabile» e di una convinzione radicata che la reputa fondamentale per la vita e per tutti i rapporti civili. Solo che questo strumento di controllo industriale, ritenuto indispensabile, è crollato di fronte all’estremo bisogno e con l’esperienza si sta rivelando un elemento estraneo di disturbo. Qualora la situazione dovesse prolungarsi nello stesso senso per un considerevole periodo di tempo e in un clima di profonda tensione, è se non altro pensabile che il diritto consolidato dei proprietari di ricorrere al sabotaggio illimitato per perseguire i propri profitti cadrebbe in tale discredito da lasciarli in una posizione piuttosto discutibile, una volta tornati a condizioni «normali». In altri termini l’uomo comune, che dal sabotaggio discrezionale dei proprietari non riceve altro che privazioni e preoccupazioni, potrebbe in fondo liberarsi del pregiudizio secondo cui i diritti consolidati di proprietà sono i pilastri della sua vita, della sua libertà e della ricerca della felicità. Dalle considerazioni elencate in questo lungo esame della situazione bellica e delle sue probabili conseguenze sulle abitudini mentali del popolo nel Regno Unito si deduce che quando si giungerà ai negoziati di pace, con il Regno Unito nella sua qualità di membro principale e di portavoce più autorevole delle nazioni alleate e della lega dei neutrali pacifici, è probabile che i rappresentanti degli interessi e della mentalità dell’Inghilterra si esprimeranno in un tono differente, severo e disincantato, ben diverso dall’atteggiamento inglese all’inizio delle ostilità. L’aristocratico spirito inglese di arrogante autosufficienza sarà in un certo senso attenuato, se non addirittura represso. È probabile che si facciano più concessioni del previsto alle rivendicazioni e alle pretese delle altre nazioni pacifiche, e soprattutto alle richieste di una maggiore solidarietà internazionale e di minori discriminazioni; insomma concessioni che mirino a ridurre le pretese nazionali e siano un primo passo per neutralizzare gli interessi nazionalisti. Per converso, l’atteggiamento verso i membri della coalizione dinastica contro i quali si è combattuto sarà forse meno conciliante, a causa di una più matura consapevolezza dell’impossibilità di giungere ad una pace negoziata duratura con una potenza il cui nucleo vitale è costituito da un istituto dinastico bellicoso ed irresponsabile. I negoziati di pace si svolgeranno presumibilmente in un clima di minor deferenza diplomatica verso le autorità costituite e di maggior rispetto degli interessi e dei sentimenti delle popolazioni, più di quanto non avvenisse nel caso degli inutili negoziati condotti all’inizio delle ostilità. La nobile arte della diplomazia, che si avvale del talento di personaggi

illustri e di statisti di alto rango, ha subito un certo discredito; anzi, se il processo di popolarizzazione della classe dirigente del Regno Unito, dei suoi alleati e dei neutrali avrà il tempo di affermarsi e consolidarsi, è probabile che la deferenza dei rappresentanti di queste nazioni per i diritti vincolanti della dinastia, della nobiltà, della burocrazia e persino dell’aristocrazia finanziaria dei paesi dell’altro gruppo sia diminuita in modo tale da indurli, in pratica, a ignorare o ad abrogare completamente tutti questi diritti, nella forma e nella sostanza. Per la verità, le possibilità che la situazione attuale porti ad una valida lega pacifica dipendono, in gran parte, dal grado di popolarizzazione che si farà strada nelle classi dirigenti delle nazioni belligeranti e nelle abitudini mentali del popolo in questi paesi e in quelli neutrali, durante le fasi successive della guerra. Se forse è un po’ troppo generico dire che più la guerra dura e maggiori sono le possibilità che si crei un atteggiamento neutrale nelle nazioni interessate tale da render realizzabile una lega pacifica, è però ancora più difficile sostenere il contrario. L’uomo comune è ovviamente quello che ha meno interesse per le imprese militari ed è al tempo stesso quello che si accolla l’onere di simili imprese ed ha anche l’interesse più immediato a mantenere la pace. Se nel corso di una dura esperienza egli imparasse lentamente e universalmente a diffidare della direzione dei suoi superiori e insieme a confidare che la sua classe possa fare ciò che è necessario, trascurando ciò che non lo è, il rispetto verso i suoi superiori ne subirebbe un’incrinatura che dovrebbe orientarlo, di impulso, verso i modi e i mezzi della democrazia. In breve, la popolarizzazione progressiva degli usi e costumi e del sentimento nel Regno Unito e altrove apre le porte a qualche lieve speranza – o timore – che non sarà possibile far pace con le potenze dinastiche del secondo gruppo, a meno che non cessino di esser potenze dinastiche e si trasformino in società democratiche, abolendo la dinastia, gli attributi della regalità e i privilegi di classe. Questo esigerebbe forse un prolungarsi delle ostilità, finché le dinastie e le classi privilegiate non avranno esaurito tutte le risorse di cui dispongono o finché le classi privilegiate delle nazioni più moderne fra i belligeranti non saranno state rimosse dai posti di potere ad opera delle classi meno raffinate cui spetta di fare ciò che va fatto; o comunque, finché non si arrivi abbastanza vicino ad una situazione del genere. Da questi sviluppi e da un tale esito dipendono le possibilità di una lega pacifica funzionante. Senza un’ulteriore

esperienza della futilità del controllo delle classi elevate e della finanza che serva a screditare le autorità costituite e il peso dei precedenti, non è pensabile che in caso di vittoria gli alleati si preoccuperebbero di abbattere con la forza la dinastia imperiale germanica e le classi satelliti che le gravitano intorno e che con essa costituiscono lo stato imperiale per sostituirle con un’organizzazione popolare a base democratica, che abbia le caratteristiche di una società moderna. Senza un cambiamento di questo tipo che interessi quella nazione e quelli tra i suoi alleati che rimarranno sulla carta geografica, nessuna lega di neutrali pacifici potrebbe resistere abbastanza a lungo, se non su un piede di guerra e mantenendo un armamento competitivo contro future imprese dinastiche della medesima origine. Di conseguenza una pace duratura non è possibile, se non abolendo la dinastia imperiale e abrogando tutti i residui di privilegi feudali in Germania e tra i suoi alleati e riducendo inoltre questi paesi alla condizione di comunità formate da uomini liberi e uguali. Se è facile parlare delle condizioni essenziali di una lega pacifica fra i popoli neutrali, non è per questo meno difficile azzardare un’ipotesi fondata sulle possibilità che queste si verifichino. Di queste condizioni preliminari la principale e più importante, senza la quale qualunque altra circostanza favorevole sarebbe praticamente vana, è un grado notevole di neutralizzazione che si estenda in pratica a tutti gli interessi e a tutte le rivendicazioni nazionali, e in particolare a tutti gli interessi materiali e commerciali dei popoli confederati; e inoltre, con particolare riguardo e in modo indispensabile, alle nazioni dalle quali si teme ora che possa partire l’aggressione, come ad esempio quella tedesca. Ma, a meno di un suo cambiamento in senso democratico, una tale neutralizzazione non può interessare la Germania perché lo stato imperiale è, per forza di cose, una potenza militare e antineutrale. Tale sembra esser la segreta intenzione apparente dei governi alleati quando proclamano che il loro scopo è quello di spezzare il militarismo germanico, senza conseguenze nocive per il popolo tedesco. Quanto alla neutralizzazione della Germania riabilitata in senso democratico o, in mancanza di questo, alle condizioni di pace da offrire al governo imperiale, la prima clausola da stipulare dovrebbe esser l’abolizione di tutte le discriminazioni commerciali contro la Germania o della Germania contro altri paesi; con ciò s’intende, naturalmente, qualsiasi discriminazione commerciale come tariffe d’importazione, d’esportazione e daziarie, diritti portuali e di registro, sovvenzioni, brevetti, diritti d’autore, marchi di fabbrica,

totale o parziale esenzione dalle tasse, misure preferenziali per gli investimenti all’interno o all’estero, in breve cioè una neutralizzazione completa e perpetua dei rapporti commerciali, nell’accezione più ampia del termine. Lo stesso varrebbe, naturalmente, per la frangia di popoli satelliti e periferici sulle cui risorse la Germania imperiale fa affidamento per i suoi scopi militari. Così si eliminerebbe fra parentesi anche il problema coloniale per quanto riguarda i legami specifici di affiliazione tra l’Impero, o la Madrepatria, e i possedimenti coloniali che ora si ritiene opportuno rivendicare. In seguito alla neutralizzazione le colonie cesserebbero di essere «possedimenti coloniali» poiché parteciperebbero necessariamente all’abrogazione generale delle discriminazioni commerciali e sarebbero inoltre esenti da forme speciali di tassazione o da tasse particolarmente favorevoli. Certo le colonie continuerebbero ad esistere, sebbene in questo caso non sia facile immaginare che significato potrebbe avere una «colonia tedesca». Le colonie infatti dovrebbero essere delle libere comunità, sull’esempio della Nuova Zelanda e dell’Australia, ma attenuando ancora di più i legami fra colonia e paese d’origine, in conseguenza dell’abolizione di tutte le cariche di nomina governativa e di ogni responsabilità verso la corona o il governo imperiale. Ora, non esistono colonie tedesche nel senso britannico del termine, che presuppone soltanto una comunione di sangue, d’istituzioni e di lingua, insieme ad un certo senso di solidarietà fra la colonia e la madrepatria, che nasce appunto dalla comunità d’origine e d’istituzioni. Ma se oggi non esistono colonie tedesche di questo tipo, non c’è ragione di pensare che non potrebbero realizzarsi, ipoteticamente, in un regime di neutralità quale verrebbe imposto da una lega pacifica e qualora la lega garantisse che nessuna colonia della Madrepatria sarebbe esposta al rischio eventuale di finire sotto il protettorato discrezionale dell’Impero Germanico, riducendosi alla condizione di figliastra della dinastia imperiale. Come è ben noto e come è stato ampiamente esposto, sotto forma di superfluo luogo comune, da un ex Ministro delle Colonie dell’Impero, il motivo principale per cui non esistono colonie tedesche è l’impossibile politica coloniale del governo tedesco, che si preoccupa di sfruttare le colonie a proprio favore; senza contare che le colonie temono il controllo arbitrario e le discriminazioni nepotistiche messe in pratica a piacere dall’egoismo dell’istituto dinastico. Stando al significato moderno del termine, solo sotto il dominio imperiale non è possibile l’esistenza di una colonia tedesca unicamente perché l’Impero non può concepire l’esistenza di una comunità

libera formata di colonizzatori provenienti dalla Madrepatria, o comunque di una comunità apparentemente libera che si senta al sicuro da interferenze non richieste nei propri affari. Ciò che si avvicina di più al concetto di colonia tedesca, in contrapposizione a quello di «possedimento coloniale», è finora l’esempio del foltissimo numero di sudditi tedeschi fuoriusciti che si sono stabiliti in paesi anglosassoni o latini, soprattutto nell’America del Nord e del Sud. Tenuto conto che ciò che li accomuna fondamentalmente è l’esser riusciti a sottrarsi alla pesante autorità del governo imperiale, costoro rivelano un’ammirevole pietà filiale verso l’istituzione imperiale, anche se non vi mescolano il minimo rimorso di esser fuggiti al controllo imperiale e non hanno alcuna intenzione di ritornare a rifugiarsi sotto la sua tutela. Recentemente è invalso l’uso dell’espressione «naturalizzato»5 per sopperire alla mancanza di una parola adatta a indicare questi coloni fuggiaschi, ma pur sempre patriottici. Per l’esattezza però il tedesco naturalizzatosi americano, almeno nella misura in cui è conforme al modello, se nel cuore continua ad essere un suddito tedesco, con la testa è un cittadino americano. Ciò significa che se in Germania si instaurasse una tolleranza democratica, tale che nessun recidivo sia costretto a qualificarsi con una lineetta difensiva per sottrarsi alle fastidiose attenzioni del governo imperiale, si potrebbe prender in considerazione l’idea delle colonie tedesche; sebbene in questo caso per il governo tedesco esse non sarebbero di alcuna utilità. La politica coloniale dell’Impero considera le sue colonie in rapporto al loro guardiano o padrone imperiale, come un qualcosa di mezzo tra un figliastro e un apprendista servitore che si può trattare sommariamente a proprio piacimento e senza scrupoli. Un tempo gli statisti inglesi e spagnoli avevano verso le colonie un atteggiamento analogo; ma gli inglesi si sono accorti che il sistema, oltre che controproducente, era insostenibile, e lo hanno abbandonato; gli spagnoli, dal canto loro, mancando di una prospettiva politica diversa da quella dinastica, non potevano certo rinunciare al solo scopo della loro avventura coloniale, se non rinunciando ai loro possedimenti. La politica coloniale della Germania (imperiale), impostata sia attualmente che in futuro sul modello spagnolo, avrà necessariamente gli stessi risultati. L’eventuale progetto di neutralità escluderebbe la politica coloniale e l’incentivo ad acquistare colonie, dal momento che non ne deriverebbe alcun vantaggio, neppur immaginario. Tuttavia se nessun paese, in quanto comunità, ha un interesse materiale a conquistare o a conservare delle colonie,

non si può dire altrettanto per quanto concerne gli interessi dinastici di un governo imperiale; e neppure, almeno secondo il convincimento degli interessati, per quanto concerne i particolari uomini d’affari o le imprese commerciali che possono in un certo senso trarre vantaggio dalle discriminazioni nazionali in loro favore. Per quanto riguarda gli interessi finanziari degli uomini d’affari o delle imprese commerciali e degli azionisti favoriti dalle discriminazioni nazionali nei rapporti con le colonie, tali espedienti rientrano nel capitolo generale delle misure discriminatorie sul commercio, ed equivalgono in pratica alle tariffe protettive, alle sovvenzioni marittime e ai sussidi agli esportatori. Le cose però stanno diversamente nei confronti degli interessi militari, vale a dire dinastici, del governo imperiale. In questo caso la nazione non ricava alcun vantaggio materiale dai possedimenti coloniali, che però rappresentano un utile pretesto per i preparativi militari eventualmente destinati a difendere e a conservare le colonie, e un mezzo atto a stimolare l’orgoglio nazionale e a tener viva al punto giusto l’animosità patriottica. Peraltro, in caso di guerra non è sicuro che si possa contare sull’aiuto materiale di questi possedimenti, anzi è più probabile che, nel complesso, essi non siano di alcuna utilità effettiva. È certo però che questi possedimenti costituiscono, per un governo contaminato da ambizioni imperiali, una comoda fonte di complicazioni diplomatiche, un pretesto per armarsi, per creare del malcontento internazionale, e, all’occorrenza, per aggredire. Una lega di nazioni neutrali non potrebbe tollerare che uno stato dinastico, membro della lega, o che comunque ne accettasse la giurisdizione (per esempio l’Impero tedesco, se tale dovesse rimanere), mantenesse i suoi possedimenti coloniali. Se invece i popoli tedeschi fossero riportati alla democrazia, sotto forma di commonwealths neutrali, senza una corona o un’organizzazione militarista, verrebbe meno il problema dei loro possedimenti coloniali. Quanto alla neutralizzazione dei rapporti commerciali indipendentemente dal problema delle colonie, e in particolare nel caso di una Germania sottoposta alla giurisdizione di una lega pacifica di neutrali, valgono più o meno le stesse considerazioni. Questa neutralizzazione, attuata mediante l’abolizione delle discriminazioni commerciali e industriali fra la Germania e le nazioni pacifiche, apporterebbe un duraturo vantaggio materiale al popolo tedesco, che dal regime di pace non dovrebbe subire al cuna perdita o danno. Imposte protettive, cioè discriminatorie, sulle esportazioni e le importazioni, dazi, diritti di traffrico e di registro, sovvenzioni, esenzioni fiscali e misure

preferenziali, come tutti gli altri sistemi per interferire sul commercio e sull’industria, rappresentano senz’altro un ostacolo per gli interessi materiali di qualsiasi popolo che si imponga o al quale vengano imposte queste remore. Cosicché l’eliminazione di tutte le discriminazioni, mediante la neutralizzazione totale dei rapporti commerciali, aumenterebbe immediatamente il benessere materiale di tutte le nazioni interessate in tempo di pace. Questa è un’affermazione di carattere generale che non ammette eccezioni, come ben sanno gli esperti di questi problemi. Non si può dir lo stesso dell’interesse dinastico e di qualsiasi interesse nazionalistico orientato verso avventure militari. È indubbio che limitare il commercio fra le nazioni, le classi e le località entro le frontiere nazionali porta inevitabilmente a indebolire e a impoverire la popolazione sulle cui attività economiche la limitazione viene a gravare; inoltre nella misura in cui ciò si verifica il paese che, in tal modo, è ostacolato nello sviluppo delle sue attività, disporrà di minori risorse al servizio delle finalità imperialistiche dei propri uomini di governo. Ma questo sistema, trasformando sempre di più il paese in un’ce entità economicamente autonoma», può esser utile agli scopi dinastici e cioè militari. Un paese diviene un’«entità economicamente autonoma» per mutilazione, quando si isola dal sistema industriale al quale appartiene, ma nel quale si rifiuta di restare come nazione. Le frontiere nazionali sono delle barriere industriali. Ma si è creduto che in seguito alla mutilazione della propria vita industriale un paese sia in grado di sopportare meglio il contraccolpo della completa interruzione dei propri rapporti commerciali internazionali che si verifica appunto in caso di guerra. Un grande paese, come l’America o la Russia, che entro i suoi confini nazionali possiede risorse molto vaste e varie ed una popolazione ampiamente distribuita e differenziata, risentirà meno, in proporzione, del danno derivante dalle limitazioni commerciali che ne ostacolano i rapporti industriali con il resto del mondo. Un paese di questo genere rassomiglia molto ad un mondo industriale in miniatura, sebbene nessuna delle nazioni civili, grande o piccola, possa svolgere le sue normali attività industriali e seguire la propria abituale condotta di vita senza ricorrere, in misura rilevante, a risorse provenienti dall’esterno. Ma un paese di piccola estensione territoriale e di limitate risorse naturali, per esempio la Germania o la Francia, anche con le più drastiche misure isolazionistiche e di mutilazione può raggiungere un’«autosufficienza» e un isolamento industriale molto relativi; come la guerra attuale ha comunque dimostrato. Ma in ogni caso, anche se in diversa misura, il relativo

isolamento risultante dalla limitazione del commercio influenza negativamente l’efficienza industriale del paese, riducendo il benessere materiale della popolazione; se tuttavia le restrizioni sono applicate con una certa accortezza, l’isolamento parziale e la parziale «autosufficienza» contribuiranno a preparare la nazione all’isolamento più integrale che si accompagna allo scoppio delle ostilità. La difficile situazione attuale del popolo tedesco, oppresso dalla guerra, può servire a dimostrare che questo scopo è raggiungibile, ma che al tempo stesso qualunque provvedimento d’isolazionismo industriale, anche il più radicale, è inadeguato appunto in quanto i processi dell’industria moderna dipendono necessariamente dalle risorse collettive del mondo. Ci si può chiedere se obiettivamente mutilare l’industria del paese, per mezzo di misure isolazionistiche, non indebolisca in fondo il paese anche dal punto di vista bellico. Ma negli stati dinastici le autorità al potere sono ancora, e forse inevitabilmente, intralciate dalle antiquate teorie tramandate dall’epoca cameralistica, in cui i piccoli prìncipi della Germania andavano scrivendo la storia dinastica; così la politica economica attuale degli statisti della Prussia imperiale, ad esempio, segue ancora i criteri che Federico II, detto il Grande, avrebbe prediletto. Al pari di ogni altro preparativo di guerra, ridurre il paese alla condizione di un organismo economicamente autonomo è dispendioso, ma al pari di ogni altro preparativo di guerra mette la nazione in grado di rompere con maggior prontezza i rapporti di amicizia con le nazioni vicine. Si tratta di una misura di guerra che i suoi fautori definiscono, di solito, legittima difesa; ma, senza entrare in merito al problema della difesa, essa rimane sempre un provvedimento di guerra che, come tale, non può trovar posto nei piani di una lega pacifica e neutrale, il cui scopo è quello di rendere impossibile la guerra. In particolare una politica di discriminazione e d’isolamento commerciale è inammissibile da parte di una nazione che abbia perseguito in passato una politica del genere in funzione di un’aggressione militare, dato che lo scopo immediato della lega è quello di costringerla a mantenere la pace. Si è discusso a lungo, oziosamente, sulla legalità e sull’opportunità di boicottare il commercio dei popoli dell’Impero una volta ristabilita la pace, considerandola una sanzione o una misura preventiva intesa a rallentarne la ripresa, in modo tale da impedire loro d’imbarcarsi in una nuova avventura militare. Una iniziativa del genere sarebbe per forza alquanto inutile poiché, dopo tutto, «gli affari sono affari», e le limitazioni pratiche imposte ad un

boicottaggio infruttuoso dall’esigenza morale di acquistare a poco e vendere a caro prezzo, esigenza condivisa da tutti gli uomini d’affari, finirebbero per mitigare per vie traverse le conseguenze del boicottaggio fino a renderlo insignificante. È inconcepibile, o meglio lo sarebbe se non ci fossero uomini politici inetti e uomini d’affari preoccupati del loro interesse, che una lega di neutrali possa prendere in considerazione delle misure intese ad isolare commercialmente uno qualunque di questi paesi. Misure di questo genere troveranno proseliti solo fino a quando si permetterà che la gelosia patriottica e i sentimenti di vendetta tengano il posto dell’aspirazione alla pace e alla sicurezza. Dovrebbe ormai esser chiaro che il boicottaggio commerciale, concepito come sanzione da imporre alle nazioni traviate che hanno scatenato l’attuale guerra, non riuscirebbe a colpire i principali responsabili né i loro complici più fidati; piuttosto farebbe il gioco degli interessi militaristi, contribuendo a tener vivo lo spirito di gelosia nazionale e di odio internazionale, dai quali nascono le guerre e senza i quali le avventure militari scomparirebbero, forse, dal consorzio umano. Come accade per tutti gli aggravi e le restrizioni economiche, il boicottaggio colpirebbe l’uomo comune e le classi popolari. Il legame tra l’uomo ordinario – la popolazione sottomessa dei sudditi tedeschi – e l’inizio e il proseguimento di questa avventura militare dell’Impero si spiega con il fatto che si tratta, appunto, di una popolazione assoggettata di sudditi, tenuta in usufrutto dall’istituzione imperiale e utilizzata a discrezione. È vero che costoro si sono prestati incondizionatamente a tutti i compiti decisi per loro dalla dinastia, e che hanno preso parte con entusiasmo all’avventura militare scatenata dagli statisti dinastici; ma questa, da parte loro, è più una disavventura che una colpa: per costume e tradizione, essi sono stati indottrinati e addestrati a lungo e senza soste a dei sentimenti di lealtà dinastica, di animosità nazionale e di abnegazione servile, che non ammettono vie d’uscita; al punto che costituirebbe un patetico capovolgimento di ogni giustizia l’attribuire le colpe dei padroni all’uomo comune, la cui unica colpa è in fondo quella di esser una popolazione sottomessa, che non ha avuto la possibilità di raggiungere il livello spirituale in base al quale potrebbe esser giustamente tenuta responsabile delle proprie azioni. È vero che gli uomini sono di solito puniti per le loro disavventure, ma l’avventura militare della dinastia imperiale ha già portato obiettivamente ad una severa punizione per la popolazione sottoposta, la cui colpa fondamentale e la cui principale disavventura sono

costituite dall’aver abitualmente abdicato in modo servile alle doti d’iniziativa e di libera decisione che fanno dell’uomo un essere responsabile, suscettibile di premio o di punizione. Sarebbe una beffa ancora più patetica far scontare gli abusi dei padroni alle vittime delle circostanze e della menzogna dinastica, dal momento che le convenzioni della giustizia internazionale non permetteranno, in questo caso, che i maggiori responsabili subiscano una pena più severa di una garbata figura retorica. Perché sia efficace, la pena deve colpire la fonte responsabile, ma la tradizione servile è ancora troppo integra in questo campo perché sia lecito sperare che qualsiasi pena riesca a colpire il centro vitale di una dinastia sciagurata. È probabile che, dato il logorio della lunga guerra e il connesso scadimento qualitativo del personale dirigente e responsabile tra gli alleati pacifici, il rispetto convenzionale delle persone subisca una certa considerevole decadenza; non al punto, tuttavia, di doversi preoccupare di un’eventuale mancanza di decoroso rispetto per le personalità, tale da compromettere gli agi materiali di quella cricca di alti personaggi per iniziativa dei quali la Germania si è avventurata in quest’impresa di dominio. Le mancanze e le colpe del passato non devono trovar posto nei piani di una lega pacifica di neutrali per mantenere la pace; come non dovrebbero contare le passate prerogative e i precedenti di splendore e di potenza, salvo quando entrano in gioco le debolezze degli uomini incapaci di liberarsi dei loro inveterati pregiudizi, in base ai quali uno Hohenzollern o un Asburgo rappresentano qualcosa di più notevole e di più degno di considerazione che non un sergente di reclutamento o un fornitore di letteratura amena. La lega potrà svolgere il proprio compito di pacificazione solo ignorando con ogni cura le disparità e i contrasti che causano il malcontento internazionale; il che è come dire che la neutralizzazione delle discriminazioni e delle pretese nazionali, se deve esser efficace, dovrà esser totale. Ma questo implica che le nazioni pacifiche che costituiscono la lega e ne amministrano provvisoriamente le clausole di statuto e la giurisdizione non potranno esimersi dalle misure livellatrici alle quali dovranno assoggettarsi le nazioni sospette di mire dinastiche. Ciò equivarrebbe a rinunciare a tutti i residui istituzionali di carattere non democratico, dai quali in genere ha origine il malcontento internazionale. Come dice un proverbio danese, i neutrali della lega debbono esser tutti strigliati con la stessa striglia. Tutti coloro che faranno parte della lega pacifica di neutrali o che saranno compresi nella sua giurisdizione, per propria volontà o perché costretti dalle

circostanze, dovranno passare sotto la striglia della neutralizzazione e della democrazia. È essenziale che i popoli che sono stati impiegati nelle campagne della coalizione imperiale tedesca ne facciano parte su un piano di parità imparziale con i popoli che si sono schierati contro di loro; debbono esser sotto la giurisdizione della lega dei neutrali, con la prospettiva di divenirne membri, sempre supponendo che la coalizione imperiale sia costretta ad accettare una resa incondizionata. Non sembri presuntuoso il tentativo di enumerare sommariamente le misure concrete che dovrebbero, a rigor di logica, rientrare in un piano di pacificazione mirante ad ottenere imparzial mente l’uguaglianza per i popoli che dovrebbero farne parte. È significativa la formulazione usata dai rappresentanti dei belligeranti dell’Intesa che insistono, di solito, nell’affermare che le ostilità non sono rivolte contro il popolo tedesco o gli altri popoli suoi alleati, bensì contro le istituzioni imperiali con i loro sostenitori e complici; aggiungendo altresì di non aver la minima intenzione d’infliggere sofferenze e pene ai popoli che sono stati così utilizzati dai loro padroni, ma solo di punire la colpevole classe al potere di cui questi popoli sono stati strumenti. Proprio in questi giorni (gennaio 1917) un sostenitore responsabile e disinteressato della lega pacifica ha dichiarato che la lega potrà fondare una pace duratura soltanto sulla base di una «pace senza vittoria»6. La concordanza reciproca delle due dichiarazioni non implica necessariamente una collusione; ma si tratta, cionondimeno, di proposizioni complementari e rivelatrici di un orientamento comune da parte di coloro che sono più idonei a parlare a nome delle nazioni pacifiche che si considerano i pilastri della progettata lega. Entrambe le dichiarazioni concordano nell’affermare che l’obiettivo da raggiungere non è la vittoria dell’Intesa, ma la sconfitta della coalizione imperiale tedesca; e che i popoli sottoposti ai governi sconfitti non vanno considerati come nemici vinti, ma come colleghi di un’immeritata sventura, provocata dalle colpe dei loro capi; e che pertanto non s’intende approfittare in alcun modo di questi popoli o imporre loro un trattamento gratuitamente duro. Certo i loro capi dovranno esser allontanati, ma non come avversari sconfitti, bensì come un pericolo pubblico da cui ci si deve difendere nel modo più conveniente per la pace e la sicurezza delle nazioni che essi hanno turbato. Ciò premesso, non dovrebbe riuscir molto difficile prevedere, nelle grandi linee, il procedimento che è logicamente necessario seguire, a parte qualche irrilevante riguardo per i precedenti e per i risentimenti troppo accesi, e posto

che i responsabili della stesura delle condizioni di pace abbiano mano libera e si preoccupino soltanto di fondare una pace duratura. Il caso della Germania sarebbe il più rappresentativo; e le voci principali del conto dovrebbero logicamente esser le seguenti: 1) eliminazione definitiva dell’istituzione imperiale, degli istituti monarchici dei diversi stati dell’Impero, e delle classi privilegiate; 2) rimozione o distruzione di ogni attrezzatura bellica, sia terrestre che navale, difensiva od offensiva; 3) cancellazione del debito pubblico dell’Impero e dei suoi membri, considerando così i creditori dell’Impero come complici della colpevole avventura del governo imperiale; 4) confisca di tutto il macchinario e di tutte le risorse industriali che abbiano contribuito alla condotta della guerra, considerati anch’essi come complici; 5) avocazione a sé, da parte della lega, di tutti i debiti contratti dai belligeranti dell’Intesa o dai neutrali per il proseguimento della guerra o a causa di essa, e ripartizione imparziale dell’impegno così assunto tra i membri della lega, compresi i popoli delle nazioni sconfitte; 6) indennizzo di tutti i danni subiti dai civili nei territori invasi; i mezzi per questo indennizzo da procurarsi mediante la confisca di tutte le proprietà delle nazioni sconfitte che superino un massimo molto modesto, da stabilirsi facendo la media dei beni posseduti, ad esempio, dai tre quarti più poveri della popolazione, considerando giustamente le classi mantenute come complici dell’avventura dell’Impero. L’idea che il debito di guerra debba esser ripartito fra tutti i membri della lega, su un piano di rigida parità, potrà apparire nuova e forse stravagante. Ma qualunque piano per la salvaguardia della pace nel mondo, mediante un’intesa fra le nazioni pacifiche, si basa sulla chiara seppur tacita ammissione che le nazioni dell’Intesa stanno spendendo le loro sostanze e impegnando il proprio credito per la causa comune. Gli americani, che costituiscono la principale nazione neutrale, cominciano a rendersene conto con sempre maggior chiarezza, cosicché, almeno in questo caso, non dovrebbero provare un’insormontabile riluttanza ad assumersi la loro parte dell’onere comune, in particolare una volta che abbiano capito che la progettata lega, se impostata su un piano di neutralità, solleverà in pratica la repubblica da ogni spesa per la propria difesa. Naturalmente con ciò non intendiamo dar temerari consigli su quanto va

fatto a quanti debbono operare, né delineare il corso necessario degli eventi. Il che, come è già stato detto in altro luogo, equivarrebbe ad esser profetici o sfrontati, cose entrambe che speriamo esulino dagli orizzonti della nostra indagine, preoccupata di stabilire quali siano le condizioni da soddisfare per una pace durevole e non quali saranno la natura e l’esito di negoziati condotti da scaltri delegati, ognuno interessato ad avvantaggiare in modo particolare il proprio paese. Eppure il bisogno perentorio di giungere ad una soluzione pratica per il mantenimento della pace induce a pensare che anche le trattative più scaltre ne saranno in una certa misura influenzate e indotte, quindi, ad attenersi in qualche modo alle esigenze più semplici ed ovvie della situazione. Quindi il ragionamento torna ancora una volta al Regno Unito, per domandarsi quale sarà probabilmente il suo limite di tolleranza, quale livello di democratizzazione esso esigerà verosimilmente dai popoli del secondo gruppo e quale sforzo di abnegazione nazionale sarà, a sua volta, disposto ad assumersi. Il Regno Unito è indispensabile alla formazione di una lega pacifica di neutrali; dunque le condizioni dell’adesione britannica, o per meglio dire le condizioni indispensabili alla nascita di tale lega, dovranno costituirne l’ossatura, alla quale si potranno aggiungere dei particolari e a cui tutte le altre nazioni dovranno apportare adattamenti a titolo di concessioni. Questo non vuol dire che la lega debba essere o che sarà dominata dal Regno Unito o amministrata secondo gli interessi britannici; anzi, la lega non può esser ridotta a servire in particolare gli interessi britannici, pena l’insuccesso del suo scopo fondamentale. Infatti soltanto l’effettiva neutralizzazione delle rivendicazioni e degli interessi nazionali può servire ai fini di una pace permanente. Ma significa, tuttavia, che la neutralizzazione degli interessi e delle discriminazioni nazionali dovrebbe aver luogo in termini accettabili per i gusti britannici e non dovrebbe oltrepassare di molto i limiti che i britannici riterranno convenienti. La lega pacifica di neutrali verrebbe ad avere un aspetto molto britannico, sebbene «britannico», in questo caso, si riferisca ai popoli di lingua inglese più che al solo Regno Unito, dal momento che la partecipazione dei britannici alla lega comporterebbe l’ingresso delle colonie britanniche e, in verità, anche della Repubblica Americana. Il carattere e la mentalità della società britannica diventano perciò elementi di fondamentale importanza, quando si voglia analizzare la situazione che emergerà alla fine della guerra e l’eventuale indirizzo che le nazioni pacifiche vorranno seguire; con questo s’intende non tanto il carattere e i pregiudizi della società britannica quali risultano dalla storia recente, ma

piuttosto come saranno, probabilmente, modificati dall’esperienza della guerra. Cosicché la realizzabilità di una lega neutrale si basa, in gran parte, sull’effetto prodotto dall’esperienza bellica sulle abitudini mentali del popolo inglese o su quella parte della popolazione inglese che rappresenterà la maggioranza effettiva alla fine della guerra. Il grande interesse di questo problema giustifica che se ne faccia un esame ancor più approfondito anche se, a priori, non è possibile darvi una risposta sicura e definitiva. Possiamo fare, con una certa sicurezza, alcune affermazioni di carattere generale. Le esperienze della guerra, in particolare per coloro che vi partecipano direttamente e per quanti stanno in patria in rapporto diretto con loro (una percentuale sempre maggiore della popolazione), stanno mostrando chiaramente la inutilità e l’asprezza di questo conflitto. Non c’è dubbio che costoro vadano convincendosi che una guerra moderna, su scala così vasta, debba esser se possibile evitata. Certo, sono disposti a far molto per scongiurare che una cosa simile si ripeta, ed è probabile che si spingano più avanti in questa direzione prima del ritorno della pace. Ma gli sforzi che sono disposti a fare possono prender la forma delle concessioni, oppure della contestazione e della coercizione. Senza dubbio nella società britannica è diffuso un risentimento profondo e vendicativo, e non c’è ragione di temere che esso venga meno con il proseguimento delle ostilità, sebbene sia prevedibile che perda un po’ della sua malevolenza esuberante e indiscriminata, in particolare se le ostilità continueranno per un certo tempo. È assai verosimile che il risentimento popolare chiederà una tangibile vendetta sommaria contro quanti sono responsabili di aver inflitto al paese i disagi della guerra. Il tipo di castigo che dovrebbe soddisfare la richiesta popolare di fare «giustizia» dei nemici sarà indubbiamente influenzato dalle sorti e dalle conseguenze della guerra. Se, alla fine del conflitto, le classi nobiliari saranno ancora in possesso dell’istituzione governativa e della sua autorità, allora è probabile che il castigo si riduca alla consueta forma nobiliare dei gravami finanziari imposti al popolo del paese sconfitto, insieme con la cessione per vie diplomatiche di possedimenti territoriali e coloniali o simili, così da lasciar cortesemente da parte il nemico de facto, concedendo qualcosa agli azionistigentiluomini in carica sotto forma di benefici finanziari, e qualcosa di più sotto forma di incarichi remunerativi alla classe dirigente, che appartiene sempre alla categoria dei gentiluomini. In questo caso il castigo colpirebbe le classi popolari del paese sconfitto senza toccare seriamente i settori

responsabili e dando, così, alla nazione vinta un nuovo motivo di risentimento e di animosità patriottica e un ulteriore incentivo per adottare una politica di vigile attesa d’una possibilità di rivalsa. Ma bisogna sottolineare che, in conseguenza dello sforzo bellico, nella società inglese si assiste ad una progressiva sostituzione degli standard di comportamento aristocratico e della prassi ufficiale con criteri e procedimenti di tipo chiaramente assai meno raffinato; il che rivela l’indebolita partecipazione delle classi superiori al controllo degli affari e la diminuzione dell’influenza che i sacri diritti della proprietà, dell’investimento e del privilegio hanno a lungo esercitato sulla fantasia del popolo inglese. Nel caso che le ostilità debbano protrarsi e le esigenze della situazione bellica continuino a mettere in evidenza agli occhi dell’opinione pubblica la futilità di questi sacri diritti e la fatuità dei loro possessori, così come si è verificato finora, non sarebbe del tutto irragionevole attendersi che il potere passi nelle mani delle classi inferiori o nelle mani di uomini tenuti a rispondere del loro operato in modo rigoroso e immediato alle classi inferiori. In tal modo, il sentimento popolare si renderebbe conto sempre di più che la dinastia imperiale ed i suoi aristocratici complici e collaboratori sono, al tempo stesso, gli autori e i nemici responsabili della guerra e quindi, probabilmente, si rivolterebbe contro questi colpevoli istigatori e questi fautori di sciagure, in maniera così efficace da far gravare effettivamente su di loro il peso del castigo. Questo potrebbe significare la soppressione definitiva della dinastia imperiale, insieme al potere della classe privilegiata che la sostiene e al sistema di repressione irresponsabile grazie al quale essa esercita il proprio dominio sulla Madrepatria, sui suoi possedimenti e sui territori alleati. Tenuto conto dell’urgenza del loro bisogno di pace e di sicurezza e considerato inoltre che, se si vuole evitare la guerra, è necessario eliminare i motivi di gelosia internazionale e di discriminazione nazionale dai quali appunto nasce la gelosia internazionale, possiamo pensare che un governo che rispecchi il carattere e le speranze degli inglesi potrebbe insistere per neutralizzare i popoli della Madrepatria fino a liberarli dall’apparato dinastico che è all’origine delle avventure militari, dando loro necessariamente una mentalità pacifica. Con il tempo, in mancanza dei loro beneamati residui di feudalesimo, la necessità di affidarsi alla propria libertà d’azione e d’iniziativa e la liberazione obbligata dalla tronfia e spavalda retorica militare potrebbero mutarsi in una mentalità diffusa. Il popolo tedesco, se lasciato libero di seguire le proprie inclinazioni e reso immune dalle vane ubbie della dominazione

nazionale, non è per nulla meno capace di tolleranza e di socievole dignità degli altri popoli vicini dello stesso sangue, come quello scandinavo o quello inglese. Non intendiamo dire, però, che una totale neutralizzazione dei rapporti internazionali della Madrepatria e del suo governo dinastico avrà probabilmente luogo al ritorno della pace o che il popolo tedesco, per precauzione contro una ricaduta nella rabbia imperiale, sarà organizzato su un modello democratico per imposizione delle nazioni pacifiche della lega; certo, però, questi provvedimenti di neutralizzazione sono le condizioni necessarie perché la lega neutrale possa aver successo, e inoltre finché la guerra continua esiste qualche possibilità che la società britannica possa, con il tempo, acquisire una mentalità che unisca la ferma determinazione di salvaguardare la pace ad ogni costo con una tale indifferenza verso le convenzioni superate da permettere ai suoi rappresentanti nelle trattative di spingere fino a quel punto la neutralizzazione di questi popoli. Un risultato del genere richiede tempo e una dura esperienza, più tempo e un’esperienza più dura forse di quel che si preferisce mettere in bilancio. I più, quindi, ritengono che ci siano scarse possibilità di giungere a questa soluzione. Eppure, bisogna tener presente che la guerra è durata a lungo e che gli effetti delle sue esigenze e delle sue esperienze sono già profondi; quanto più dura, maggiori sono le possibilità che si protragga e imponga nuove sofferenze, se non altro perché ogni mese di guerra riduce le possibilità che le nazioni alleate accettino la pace a condizioni diverse da una resa incondizionata. E la resa incondizionata costituisce il primo passo per esautorare senza mezzi termini l’istituzione imperiale e i suoi profeti guerrafondai; il che dipende, appunto, soprattutto dallo stato d’animo del popolo inglese in quel dato momento. Sebbene poco probabile, è tuttavia sempre possibile, come taluni sostengono, che se la guerra continua l’uomo comune della Germania apra gli occhi sull’utilità e il valore del governo imperiale, con il risultato di respingere e disconoscere il governo stesso, con tutte le sue opere. Ma ciò significherebbe sottovalutare la forza di un’antica abitudine e comporterebbe un’errata comprensione dell’incidenza psicologica di un’esperienza bellica. Il popolo tedesco, in sostanza, non ha nessun concetto base d’indipendenza e di autodecisione, in mancanza del quale non può verificarsi una rivolta efficace contro il governo dinastico. Nel senso comune della popolazione inglese è inveterata una certa predisposizione, diffusa e alquanto imbronciata, alla correttezza. In questo gli

inglesi sono ben poco o forse per nulla diversi dai loro vicini, se non nel fatto che il senso comune di cui questa correttezza fa parte integrante è di un genere più maturo di quello che informa la vita quotidiana di molti loro vicini. Questa maturità sembra derivare soprattutto dalla circostanza che essi hanno disimparato, abbandonato per iniziativa propria o in forza del disuso, gran parte di quel fardello di funesti pregiudizi che l’Europa occidentale, e soprattutto l’Europa centrale, si è portata dietro dal Medio Evo. Hanno avuto il tempo e le occasioni per dimenticare in maggior misura ciò che date le esigenze della vita moderna è più conveniente lasciar nell’oblio. Eppure, sono considerati lenti e conservatori. Ma si sono trovati nella posizione adatta per perder molta parte di ciò che era opportuno perdere. Tra l’altro, il loro concetto dell’animosità nazionale non è ben saldo, quando manchi la provocazione. Essi si trovano ora in grado d’imparare a fare a meno di una parte dell’inutile retaggio del passato – inutile, s’intende, per il sistema di vita odierno, indipendentemente dal suo valore nel contesto del passato da cui proviene. A questo punto sorge l’interrogativo se, sotto l’incalzare di esigenze che postulano la rimozione di buona parte dell’ingombrante apparato ereditario congegnato per fare ciò che non deve esser fatto, gli inglesi si lasceranno guidare dal proprio senso di praticità e di correttezza, tanto da cancellare dal proprio sistema di vita quella percentuale di questo retaggio di pregiudizi convenzionali che è ormai giunta a intralciare palesemente il loro benessere materiale, frustrando, al tempo stesso, la pace e la sicurezza per cui si sono mostrati pronti a combattere. Certo è più facile combattere che liberarsi di un pregiudizio superstizioso anche se ormai privo di fondamento, come ad esempio il prestigio della ricchezza ereditaria, la nobiltà ereditaria, la vanagloria nazionale e forse soprattutto l’odio nazionale. Ma se la lezione sarà abbastanza dura e il tirocinio sufficientemente prolungato, non c’è alcun motivo concreto di temere che la massa del popolo inglese non dimentichi queste futilità, che costituivano un tempo la sostanza della realtà in un ordinamento vecchio e superato. Questo popolo ha già mostrato la propria capacità di spogliarsi di vincoli istituzionali ormai logori, rinunciando all’essenza del potere dinastico. Non sarebbe sorprendente che gli inglesi, quando si troveranno ad affrontare le esigenze della nuova situazione, sapessero dimostrarsi capaci di farvi fronte. La nuova situazione esige che da parte della società britannica si proceda all’esautor amento dell’istituto imperiale tedesco e della casta militare, alla riduzione dei popoli germanici ad una condizione di democrazia senza mezzi

termini con sufficienti garanzie contro discriminazioni sul commercio nazionale, alla cessazione di ogni forma di tutela da parte britannica sui propri possedimenti, se non in quanto serva a garantire la loro autonomia locale; alla soppressione di tutte le rivendicazioni extra-territoriali da parte dei paesi membri della lega; alla neutralizzazione dei diversi organismi nazionali, che vada dal disarmo effettivo all’abolizione di ogni restrizione commerciale e di ogni so stegno della nazione verso le rivendicazioni e gli interessi economici da parte di singoli cittadini fuori del territorio nazionale. Sarà più opportuno lasciare agli inglesi il controllo navale dei mari. Nessun popolo ha un interesse più immediato e più essenziale a salvaguardare la libertà e la sicurezza del commercio marittimo; e il Regno Unito ha dimostrato, del resto, di meritar fiducia su questo punto. Inoltre, è probabile che l’orgoglio nazionale e i timori degli inglesi non permetterebbero loro di cedere il controllo navale dei mari, mentre la formazione della lega dovrà avvenire proprio a condizione che il popolo inglese sia disposto ad accettare. Ci sarà bisogno anche di una forza armata di una certa entità per tener sotto controllo i governi delle nazioni non neutrali – e a tal fine tutti i paesi retti da una monarchia efficiente sono da considerarsi non neutrali per natura, a prescindere dalle loro dichiarazioni formali e dalla loro appartenenza o meno alla lega. Anche a questo riguardo probabilmente il popolo del Regno Unito e dei paesi di lingua inglese in generale non permetterà che questa forza armata e il suo uso discrezionale siano sottratti al controllo britannico, o meglio franco-britannico; e in questo caso, ancora una volta, la decisione pratica dipenderà dal popolo inglese, soprattutto perché la società britannica non ha più alcun interesse, reale o immaginario, a usare questa forza in modo repressivo per propri fini particolari. Non si può fare affidamento su nessun’altra potenza eccetto la Francia, ma la Francia è meno adatta allo scopo e certamente non bramerebbe un onore così atto a suscitare invidia e un compito così ingrato. La teoria, cioè la necessità logica di una lega pacifica di nazioni neutrali, è abbastanza semplice nei suoi elementi. La guerra dev’esser evitata mediante una politica di omissione. Di conseguenza bisogna eliminare, nei limiti del possibile, i mezzi e le cause delle imprese e delle provocazioni belliche. È naturale che l’esperimento fallisca, se non si soddisfano queste esigenze. Della condizione preliminare, l’eliminazione dell’unico formidabile stato dinastico in Europa, abbiamo già parlato. La sua controparte in Estremo Oriente cesserà di esser temibile con la scomparsa del suo alleato naturale nell’Europa centrale, almeno per quanto riguarda l’eventuale lega. Altrettanto dicasi del

sempre più traballante Impero zarista. Cosicché sembrerebbe che le sorti della lega pacifica dipendano, in definitiva, da quelli che potremmo definire i suoi assetti domestici o interni. Ora, lo spirito patriottico della nazione costituisce sempre, in ultima analisi, lo strumento delle imprese belliche, capace di creare sconsiderati imbrogli. Una volta che questo spirito patriottico si sia sufficientemente affermato, è facile trovare l'attrezzatura materiale e la provocazione per scatenare le ostilità. Di conseguenza è evidente che la preoccupazione prima della lega pacifica dovrebbe esser quella di ridurre al minimo possibile le fonti di esaltazione patriottica, il che può aver luogo neutralizzando le rivendicazioni nazionali. Sotto questo aspetto la soluzione ideale, tale da garantire una pace perpetua per i popoli in questione, sarebbe la neutralizzazione senza riserve della cittadinanza, come abbiamo già visto. Il problema che i fautori di una lega pacifica dovranno risolvere consiste nello stabilire in che proporzione si potrà conseguire questo risultato. Ogni altra cosa che essi potranno intraprendere o ottenere mediante compromessi e contrattazioni è relativamente poco importante ed avrà conseguenze relativamente transitorie. Il progetto di neutralizzare la cittadinanza si è naturalmente presentato, sia pure in modo piuttosto vago, nei piani dei socialisti e di altri «indesiderabili» agitatori, ma poi non se n’è fatto di nulla, né sono stati tracciati dei programmi per metterlo in atto. Al momento è estremamente improbabile che si possa giungere a qualcosa di conclusivo in questo senso, visto lo spirito di ardente patriottismo di tutti questi popoli, fomentato ancor più dall’esperienza dell’attuale guerra. Ciò nondimeno in tutte le nazioni considerate all’avanguardia dei popoli civili moderni si è notata una tendenza spontanea e naturale in questa direzione da quando questi popoli hanno cominciato a rimpiazzare il potere dinastico con «libere» istituzioni, cioè con istituzioni che poggiano su una base accettata d’insubordinazione e di libera iniziativa. Il patriottismo di questi popoli, o il loro spirito nazionalistico, è in fondo nel migliore dei casi una forma residua, attenuata e spersonalizzata della lealtà dinastica, che si riduce in effetti ad una specie di troncone residuo o ad una parziale atrofia di quella mentalità democratica che si può riassumere nella for mula: Vivi e lascia vivere. Si tratta senza dubbio di una mentalità molto antica e degna di lode. È facile da acquistare e difficile da accantonare. Lo spirito patriottico e la vita (il prestigio nazionale) sui quali si fonda sono materia d’instancabili elogi, ma finora i suoi laudatori non hanno rilevato alcun

motivo o avanzato alcuna pretesa di credere che questa mentalità sia minimamente utile per un qualunque fine che non ne dia per scontato il merito supremo. Comunque è una mentalità assai meritoria, almeno così dicono. Ma, considerate le condizioni della vita civile moderna, non può dare nessun altro risultato materiale se non danno e disagio. Eppure è virtualmente onnipresente fra gli uomini civili, in un ammirevole stato di conservazione, e nel prossimo futuro costituirà certamente un ostacolo duraturo sul cammino verso una pace definitiva, una fonte costante di ansia e di preoccupazione. I motivi che operano attraverso lo spirito nazionale, servendosi di questo ardore patriottico, si dividono in due categorie: ambizione dinastica e iniziative commerciali. Le due categorie hanno in comune la caratteristica di non contribuire minimamente al vantaggio materiale della comunità; tuttavia entrambe hanno un alto valore di prestigio nell’opinione convenzionale dell’uomo moderno. Il rapporto fra ambizione dinastica e impresa militare, e la funzione dell’usufrutto delle risorse e della mano d’opera nazionale che il patriottismo del paese mette a disposizione dell’istituto dinastico, sono già stati discussi in dettaglio nelle pagine precedenti, forse con ampiezza eccessiva, nel corso del ripetuto esame dello stato dinastico e della sua ricerca di un dominio fine a sé stesso. Abbiamo anche definito, forse con troppa libertà, le misure da adottare contro i formidabili stati dinastici che minacciano la pace. Non resta quindi che prendere in esame quella forma temperata di potere dinastico che va sotto il nome di monarchia costituzionale. Esempi di monarchia costituzionale miranti o a perpetuare i beneamati abusi del potere dinastico sotto la copertura delle formalità democratiche, o a introdurre un’effettiva insubordinazione democratica al riparo delle antiche dignità di un sistema monarchico superato (la definizione può avere un senso o l’altro secondo il capriccio di chi parla, comunque con lo stesso effetto pratico), simili esempi di monarchie di compromesso si hanno attualmente, in modo altrettanto felice che altrove, negli stati balcanici; tra questi forse il caso della Grecia è particolarmente istruttivo. L’altro estremo è rappresentato invece da esempi tipici come la monarchia inglese e olandese o, in miniatura, dall’esempio patetico e farsesco della monarchia norvegese. Naturalmente c’è una notevole differenza tra la sfrontatezza grottesca della corona ellenica e il costante, decoroso sforzo del sovrano olandese di passar inosservato; eppure tutta la gamma di questi istituti, da quelli semidinastici a quelli pseudo-dinastici, presenta qualche aspetto comune. Per

motivi inevitabili e persistenti, anche se non scritti nella costituzione, l’organismo governativo affiancato alla monarchia è costituito da individui delle classi mantenute, dell’aristocrazia o della nobiltà minore, e permeato dallo spirito delle classi «superiori r> piuttosto che da quello delle masse. Con astuzia sbalorditiva, o forse come semplice reazione spontanea all’impulso non ponderato di una «coscienza di ceto», il governo britannico – di solito una cricca di nobili – ha sempre voluto che si instaurasse una forma di monarchia costituzionale in ogni organismo nazionale di nuova formazione nei cui confronti avesse potere discrezionale. E: molti e vari governi costituzionali sorti in questo modo, di solito in una certa misura sotto gli auspici della Gran Bretagna, non si sono in ogni caso distaccati molto dal modello. Questi governi potranno essere semi-dinastici o pseudo-dinastici, ma per quanto vogliano avvicinarsi ad una forma democratica essi mantengono sempre e inevitabilmente almeno qualche carica governativa per i nobili, sotto forma di un ministero e di un apparato cortigiano, il cui ruolo nell’economia della nazione è quello di adattare il corso degli affari alle necessità delle classi mantenute. Non c’è motivo di attribuire sinistri disegni a questi nobili che, a causa delle circostanze, sono stati prescelti per tutelare e guidare gli interessi della nazione; anzi, visto come vanno le cose, è indubbio che costoro sono di solito mossi dalle migliori intenzioni. Ma un gentiluomo bene intenzionato, che abbia buoni precedenti, è bene intenzionato nella misura e nel modo in cui può esserlo un gentiluomo alla luce dei buoni precedenti; il che equivale necessariamente a un pregiudizio molto preciso a favore di quegli interessi che stanno a cuore ai gentiluomini d’onore e di buoni precedenti. Tra questi interessi ci sono quelli delle classi mantenute, in contrasto con la massa della popolazione da cui esse ricavano il loro sostentamento. Sotto gli auspici, anche se si tratta solo di auspici istrionici e decorativi, di un elemento così decoroso dell’apparato istituzionale qual è la monarchia, è logico e necessario che il personale del governo effettivo debba anch’esso esser scelto tra le classi superiori, la cui condizione, stato sociale e alta reputazione non rendano la loro associazione con il Primo Gentiluomo del Reame intollerabilmente assurda; senza contare che la consuetudine del popolo di considerare il Primo Gentiluomo con il rispetto imposto dalla regalità porterà ad estendere l’abituale atteggiamento di deferenza anche alla nobiltà nel suo complesso. Persino in un paese così democratico, e con una monarchia così indebolita

come il Regno Unito, l’istituzione monarchica fa sì, in modo chiaro e molto concreto, che i rappresentanti delle classi mantenute mantengano costantemente l’effettivo controllo del governo, ritardando di conseguenza in modo notevole un ulteriore passo del paese verso l’insubordinazione democratica e la partecipazione diretta alla condotta degli affari da parte delle classi inferiori, che in ultima analisi ne pagano le spese. E, d’altra parte, anche un’istituzione blandamente monarchica come quella norvegese contribuisce sensibilmente ad accentrare le leve del potere nelle mani delle classi superiori, in condizioni di tale ristrettezza che sarebbero apparse atte a escludere qualunque classe a superiore», nell’accezione convenzionale del termine. Sembrerebbe che persino un residuo della regalità pseudo dinastica, sia pure sterilizzato al massimo grado, possa rappresentare un ostacolo efficace contro il governo democratico e quindi contro l’ulteriore neutralizzazione delle pretese nazionalistiche, e al tempo stesso un sostegno efficace del potere delle classi superiori per i loro propri fini. Ora, un governo composto di azionisti-gentiluomini animati da buone intenzioni non esprimerà i bisogni materiali e gli. interessi della massa più di quanto una parabola rappresenti i fatti concreti che spera di illustrare. Per quel che si riferisce direttamente all’argomento in questione, questi gentiluomini amministratori degli affari della nazione che si stringono intorno al trono, per quanto questo possa esser vacante di ogni cosa salvo la presenza fisica della maestà, sono in fondo gentiluomini con un raffinato senso del formalismo nelle maggiori questioni di decoro e di signorilità della vita politica. L’onore nazionale è sempre una questione di formalismo, e dalle esigenze formali dell’onore nazionale nascono ingiustizie che vanno riparate; sono proprio ingiustizie di questo tipo quelle che offrono il pretesto formale per la violazione della pace. Sul piano patriottico dell’orgoglio nazionale ferito, un appello rivolto alla massa per nulla educata al formalismo da parte della classe nobiliare responsabile che invece lo possiede, corroborato da assicurazioni che il prestigio o gli interessi nazionali sono in gioco, otterrà certamente una reazione appropriata. Non è necessario che la massa sia informata dei motivi precisi della vertenza, purché sappia, tramite i suoi superiori nei quali ha fiducia, che esiste un’ingiustizia da riparare. Per concludere, è chiaro che in un paese democratico gli affari sono amministrati da una cricca formata dalla classe meno democratica della popolazione. Fatte le debite eccezioni, si può affermare che in generale questi governi di gentiluomini sono oggi guidati in modo esemplarmente integro e retto, con

consapevole rettitudine e benevole intenzioni; ma sono in ultima analisi dei governi di classe ed è quindi inevitabile che siano portatori dei preconcetti della loro classe. I signorili dirigenti e i legislatori di questi governi provengono in gran parte dalle classi mantenute, che traggono il proprio sostentamento dal reddito degli investimenti in patria o all’estero, o da una forma corrispondente di ricchezza accumulata o da emolumenti ufficiali. I pregiudizi che derivano da tale situazione non avranno necessariamente un carattere intollerante, in modo da arrecare il minor danno possibile alla politica nazionale per quanto concerne i suoi rapporti di amicizia con gli altri stati; ma anche un preconcetto moderato, impostato su un piano di diritto consapevole e di abitudine ininterrotta, può avere ripercussioni importanti. Nel difendere gli investimenti dei propri cittadini all’estero, nell’esigere il debito pagamento delle rivendicazioni dei cittadini sulle rendite o sul capitale dei beni investiti che possono avere all’estero, ciascuno di questi governi di gentiluomini agisce nei limiti dei propri legittimi diritti, o meglio nell’àmbito dei propri imprescindibili doveri; il servirsi delle risorse della nazione, cioè dell’uomo comune e dei suoi mezzi di sostentamento, nell’imporre il rispetto (felle rivendicazioni della classe degli azionisti, fa parte dei normali doveri di tali governi. La comunità, nel suo insieme, non ha alcun interesse a far rispettare tali pretese; evidentemente si tratta di un interesse di classe, protetto da un codice di diritti, di doveri e di procedure nato da un pregiudizio di classe, a spese dell’intera comunità. Questo preconcetto che favorisce gli interessi degli investimenti può anche, come avviene comunemente, favorire in modo aggressivo gli investimenti all’estero, in particolare nei paesi economicamente arretrati, mediante l’ampliamento della giurisdizione nazionale, ed incoraggiare attivamente le concessioni in paesi stranieri mediante sovvenzioni o la creazione di cariche che forniscano emolumenti adeguati ai figli minori delle famiglie meritevoli. Le tariffe protettive, alle quali si ricorre in taluni casi, hanno la stessa natura e lo stesso scopo. Naturalmente quest’ultima manifestazione aggressiva o espansionistica dei pregiudizi dei benestanti a favore dell’investimento e dei capitali investiti ha un effetto particolarmente deleterio sui rapporti internazionali. Il reddito franco, cioè il reddito che non dipende dal merito personale o da uno sforzo di qualsiasi tipo, è la linfa vitale per le classi mantenute; come corollario alla «prima legge di natura», quindi, i capitali investiti che giustificano legalmente la pretesa a queste rendite acquistano ai loro occhi

tutta la santità che può esser conferita dal diritto naturale. Di conseguenza l’investimento, spesso eufemisticamente chiamato «risparmio», costituisce un atto meritorio, ritenuto molto utile alla comunità in generale e quindi da favorirsi con ogni mezzo disponibile. Si ritiene cioè che il capitale investito vada a sommarsi ai beni disponibili complessivi della comunità. In realtà il reddito degli investimenti, nella mani della nobiltà, è un mezzo per sperperare senza residui una corrispondente percentuale della produzione annuale della comunità. Ma certo le classi mantenute, che vedono le cose dal punto di vista del beneficiario, non considerano il fatto in questa luce. Per queste ultime, il reddito degli investimenti è la linfa vitale. Al pari di altri uomini d’onore, quelli delle classi mantenute non sputano nel piatto in cui mangiano; e per tradizione autentica l’uomo comune, nei cui disciplinati pregiudizi le classi mantenute rappresentano gli indispensabili superiori, crede anche ingenuamente che il capitale investito che permette a costoro di sperperare senza residui un’opportuna quota della produzione annuale sia un accrescimento della ricchezza complessiva disponibile. Di conseguenza lo sviluppo dell’iniziativa commerciale e in genere degli affari oltre le frontiere nazionali è un dovere che non va trascurato e su cui non ci si può permettere di scherzare. Per un governo di gentiluomini esso è talmente legato agli ideali nazionali, che ogni violazione o elusione dei diritti degli investitori in paesi stranieri, o di altri affari connessi ai rapporti con i paesi stranieri, coinvolge immediatamente non soltanto l’interesse materiale della nazione ma anche l’onore nazionale; donde rivalità internazionali e possibili complicazioni. La monarchia costituzionale che di solito tutela una società democratica moderna costituisce, di conseguenza, una minaccia alla pace comune, e una lega pacifica di neutrali che commettesse l’errore di lasciare comunque in piedi una simile istituzione si preparerebbe delle complicazioni e forse anche la propria rovina. Se fosse possibile agire in piena libertà, la progettata lega dovrebbe eliminare dalle nazioni confederate tutte le istituzioni monarchiche, siano esse costituzionali o meno. Certo non è ragionevole prevedere che si possa giungere a questo punto nel corso dei negoziati che dovranno gettare le basi della progettata lega di neutrali; ma se ne abbiamo parlato in questa sede è stato solo per indicare una delle questioni difficili da affrontare in ogni tentativo di creare una lega del genere, e insieme una delle fonti costanti di attrito internazionale, che intralcerà la giurisdizione della lega fino a quando non venga preso un provvedimento decisivo.

La logica dell’intera faccenda è abbastanza semplice e le misure necessarie per porvi rimedio sono altrettanto semplici, a prescindere dalle obiezioni sentimentali che probabilmente si riveleranno insormontabili. Una monarchia, anche una monarchia abbastanza inetta, è gravata dal peso di un governo di gentiluomini, un governo cioè formato da e per le classi mantenute. È inevitabile che un governo di questo tipo diriga gli affari dello stato tenendo presente il reddito del capitale investito e consideri gli interessi materiali del paese solo quando si presentino sotto la forma d’investimenti o d’iniziative commerciali intese a risolversi in investimenti. Queste sono le uniche forme d’interesse materiale che causano rivalità, discriminazioni e incomprensioni internazionali e che al tempo stesso, rappresentando degli interessi di singoli individui, non hanno alcuna utilità o valore per l’intera comunità. Finché i diritti del capitale investito continueranno ad esser considerati inviolabili nel giudizio del popolo, l’esistenza di un istituto monarchico, con il suo governo di gentiluomini, renderà impossibile evitare questo sinistro agente provocatore di rivalità internazionali. Ovviamente, vi è un certo tu quoque pronto per l’uso dei «gentiluomini della vecchia scuola», che vedono nella monarchia costituzionale un riparo provvidenziale allo sfrenato involgarimento della vita da parte delle classi sottosviluppate e malnutrite, riprovevoli e prive d’equilibrio. Le nazioni formalmente democratiche, che non hanno mantenuto neppure una monarchia pseudodinastica, non si trovano in una situazione molto migliore per quel che riguarda le discriminazioni nazionali nel commercio e negli investimenti. La Repubblica Americana può rappresentare il prototipo della politica economica di una società democratica. Ma c’è poco da scegliere fra la politica economica perseguita da repubbliche come la Francia o l’America da una parte, e gli esempi ad esse più vicini tra le monarchie costituzionali dall’altra. Dobbiamo anche ammettere subito che il paragone non torna a merito delle istituzioni democratiche osservate all’opera in queste repubbliche. Infatti quanto a politica economica esse sono in un certo senso le più immature e le meno accorte tra i popoli della cristianità. E considerata la sorprendente facilità con cui queste società democratiche sono sempre pronte a ingannarsi in tutto ciò che riguarda la politica commerciale nazionale, è evidente che una lega di neutrali, le cui sorti siano in qualche misura condizionate dal fatto che queste società democratiche diano retta ad un appello teso a neutralizzare i loro regolamenti commerciali per amor della pace, avrà bisogno di tutta la forza di persuasione possibile.

Tuttavia le forze dell’oscurantismo possono contare, per proteggere sé e la propria opera di malversazione, su una linea di difesa in meno in queste società che non nelle monarchie costituzionali. Ad esempio il governo nazionale americano, abbastanza tipico sotto questo aspetto, è composto da uomini d’affari volti a fini affaristici, e non esistono tabù di assiomatica nobiltà o di lignaggio autenticato che possano condizionare questo attivo sindacato d’interessi commerciali; cosicché esso è più vicino di un gradino al contatto disgregatore dell’uomo comune e delle circostanze della vita quotidiana. Il regime affaristico di questi uomini politici democratici va diritto allo scopo, sempre nella misura in cui le circostanze lo consentono, nel difendere e nel sostenere le iniziative tese al vantaggio privato, al riparo delle discriminazioni nazionali; e le circostanze permetteranno di fare molto, di andar lontano, poiché in questi paesi i limiti della credulità popolare, in tutto ciò che riguarda le mirabili imprese del commercio, sono molto ampi. C’è una curiosa credenza popolare di natura sentimentale, secondo la quale i cittadini di queste società, essendo tutti pari ed uguali di fronte alla legge, possono tutti indiscriminatamente arricchirsi con il commercio a spese dei propri vicini. Eppure resta il fatto che questa è l’unica linea di difesa, nei paesi in cui gli interessi commerciali non hanno l’appoggio di un’antica nobiltà, con sullo sfondo la sanzione della monarchia; questa considerazione è avvalorata poi da una delle sue conseguenze immediate. Grazie alla fede incondizionata di questi popoli nell’attività affaristica come soluzione universale, l’illimitata venalità e avidità dei loro uomini d’affari, non intralciate dalla noblesse oblige tipica del gentiluomo, hanno portato alla conversione del diritto pubblico in guadagno privato in maniera più rilevante e più palese che altrove; donde diverse misure restrittive del commercio o miranti a favorire degli abusi proficui di carattere così grossolano e scandaloso che, se il popolo un giorno si rendesse conto della realtà di questa politica, è probabile che l’intero edificio andrebbe a rotoli. Se nelle circostanze attuali il popolo americano si trovasse a dover scegliere, ad esempio, fra l’esclusione dalla lega neutrale (che comporterebbe probabilmente una guerra di auto-difesa di esito incerto) da una parte, e la partecipazione alla lega, con la conseguente sicurezza (a prezzo dell’abolizione della tariffa nazionale restrittiva del commercio) dall’altra, è sempre possibile che il popolo sia indotto a riconsiderare il valore della tariffa protettiva e, riconosciutala come una volgare cospirazione per limitare il commercio, decida una volta per tutte di eliminarla. In questo caso tutta quanta la politica di favoritismi affaristici adottata dalla Repubblica verrebbe

probabilmente accantonata insieme alla tariffa protettiva, dato che anche il resto ha lo stesso carattere fraudolento. Con questo non intendiamo dire che ci si debba aspettare una simile manifestazione di buon senso da parte degli elettori americani. L’esperienza della loro credulità nel passato sotto questo aspetto non incoraggia a sperarlo. Ma questa costituisce un’altra delle difficoltà da affrontare nel corso dei negoziati per giungere ad una lega pacifica di neutrali. Senza una neutralizzazione alquanto integrale dei regolamenti commerciali nazionali, la prospettiva di una pace duratura si ridurrebbe proporzionalmente, perché permarrebbero numerose cause di gelosia e d’incomprensione internazionale, tali da richiedere continui compromessi e accomodamenti, con la costante eventualità di una rottura della pace. L’infatuazione degli americani per la loro tariffa protettiva e per altre consimili discriminazioni rappresenta un ostacolo piuttosto serio, ed è possibile che la loro incapacità di liberarsi di questa superstizione impedisca loro di aderire alla progettata lega di neutrali7. Dobbiamo aggiungere, però, che più tempo passa prima che si possa organizzare attivamente la lega, cioè in pratica più a lungo dura la guerra, maggiori sono le probabilità che gli americani siano più inclini ad esser inclusi nella lega. Nel caso che la guerra dovesse prolungarsi ancora in una misura prossima a quella che i più recenti pronunciamenti dei belligeranti sembrano indicare, e se le ambizioni imperiali e la diplomazia anomala del Giappone8 dovessero continuare ad imporsi all’attenzione generale come fanno adesso, mentre al tempo stesso le operazioni militari in Europa confermano il costo eccessivo della difesa contro un’offensiva bene organizzata e decisa, allora sarebbe ragionevole prevedere che gli americani prendano atto della situazione, evitando che considerazioni secondarie di discriminazioni commerciali impediscano loro di far causa comune con le altre nazioni pacifiche. Sembra che negli ambienti più responsabili ci si sia già resi conto che l’America ha assoluto e indifferibile bisogno dell’assistenza delle altre nazioni pacifiche, così come ci si va accorgendo che le potenze imperiali agiscono da elementi di disturbo della pace, a causa del loro carattere imperiale. Naturalmente i politicanti che cercano di trarre vantaggi personali dalle difficoltà della nazione non sono, di solito, in grado di vedere il problema sotto questa luce. Ma è anche evidente che il sentimento popolare, man mano che il tempo passa e gli scopi e i metodi delle potenze imperiali si fanno più chiari, è influenzato dalla stessa preoccupazione.

Finora i sostenitori di una pacifica federazione di nazioni hanno parlato di una lega impostata su una (indeterminata) costituzione tale da non interferire nella condotta degli affari, sia interni che internazionali, delle nazioni confederate; forse perché non hanno riflettuto abbastanza sulle complicazioni derivanti dalla compartecipazione in un’impresa così importante e insolita. Hanno anche parlato della partecipazione dell’America al progetto come se si trattasse di un estraneo interessato, il cui interesse per qualunque misura precauzionale di questo tipo rappresenta in parte una forma di rispetto per la propria tranquillità di vicino disinteressato, ma soprattutto una sorta di umana sollecitudine per il benessere dell’umanità civile in genere. In base a questa concezione alquanto presuntuosa – lo si deve ammettere – l’America è considerata un’iniziatrice e una guida intorno alla quale le nazioni pacifiche dovranno stringersi, quasi fosse una specie di ape regina. In questa visione dell’America, considerata come una specie di ufficio centrale o di caposaldo della progettata federazione di nazioni neutrali c’è però qualcosa di verosimile, malgrado il carattere farisaico che essa assume talvolta nelle presuntuose affermazioni dei patrioti americani. La Repubblica Americana è in fondo la più grande delle nazioni pacifiche della cristianità per risorse, popolazione e capacità industriale, e non si può negare che il carattere di questo grande popolo sia, nell’insieme, pacifico quanto quello di ogni altro popolo numeroso, ad esclusione della Cina. L’adesione della Repubblica Americana raddoppierebbe la massa e la potenza della lega, garantendola da ogni pericolo di sconfitta e anche da una seria opposizione esterna alle sue finalità. Eppure non è vero che l’America sia disinteressata o indispensabile. Al Regno Unito spetta il poco invidiabile ruolo di essere indispensabile, che di solito fa gravare sulla parte più forte in una transazione il sospetto di aver dei motivi d’interesse. D’altra parte la lega è indispensabile per l’America, costituendo un riparo da pericoli futuri che sarebbero altrimenti inevitabili; non passerà molto tempo prima che gli elettori americani si accorgano che il futuro della Repubblica è piuttosto precario, senza un’adeguata solidarietà con le altre nazioni pacifiche. L’America non potrà difendersi da sola, se non ad un prezzo proibitivo; mentre l’associazione con queste altre farebbe della difesa nazionale una questione praticamente trascurabile. Per l’America si tratta di scegliere fra una politica di dispendiosi armamenti e di diplomazia aggressiva, di esito incerto, e un’attenuazione delle pretese nazionali, tale da evitare inutili contese.

Ma bisogna ammettere che il temperamento patriottico del popolo americano è così suscettibile, da non poterne prevedere lo sbocco. Non vogliamo dire che, cessate le ostilità, gli americani non si sforzeranno di trovare una qualche forma di accordo per mantenere la pace; salvo imprevisti, è praticamente scontato che un tentativo in tal senso sarà fatto e che gli americani si adopereranno perché vada a buon fine. Ma non è certo che essi seguiranno direttive tali da pervenire ad accordi in grado di salvaguardare la pace del paese. Gli interessi commerciali hanno molto peso nelle decisioni degli americani, e questi interessi commerciali – quelli americani in modo particolare – mirano a vantaggi immediati, da ricavarsi dalle esigenze del paese. È probabile che gli interessi commerciali, per bocca dei loro rappresentanti al Congresso e altrove, non approveranno un trattato di pace che non comporti un aumento degli armamenti nazionali e un’eventuale futura domanda di munizioni e un ulteriore aumento delle spese della nazione. Le nazioni pacifiche dell’Europa tenteranno senz’altro di formare una lega o un’alleanza mirante al mantenimento della pace, con o senza l’America. Se l’America non vi partecipa, è probabile che la lega si riduca a poco più di una nuova alleanza difensiva delle nazioni in guerra contro la coalizione germanica. Tut tavia è ancora dubbio se la lega così progettata debba essere un semplice patto di armamento difensivo contro un nemico comune, nel qual caso sarebbe per forza transitoria se non effimera, oppure una coalizione più vasta e più salda che si proponga di evitare ogni violazione della pace, mediante il disarmo e il ripudio e rigetto di quelle pretese nazionali e di quei formalismi dei quali il sentimento patriottico delle parti contraenti accetterà di fare a meno. La natura e la durata della pace che ne risulterà saranno in gran parte condizionate dal tipo di accordo su cui essa si baserà, accordo che sarà notevolmente condizionato dalla misura in cui la coalizione militare controllata dall’Impero Germanico sarà stata effettivamente eliminata dalla situazione come potenziale elemento di disturbo della pace; il che a sua volta è strettamente legato alla durata della guerra, come abbiamo già rilevato nel corso della trattazione. 1. Gioco di parole sul significato del termine Double Cross, che sta per croce doppia (cristianoortodossa), ma anche per doppio gioco. 2. Una caratterizzazione che non si discosta da quella che sarebbe stata la sorte effettiva della Società delle Nazioni; ancora una sbalorditiva intuizione vebleniana. 3. Nel testo pussyfooting e log-rolling, due termini pittoreschi che fanno riferimento al passo vellutato del felino il primo, ed al reciproco aiuto che si prestano i tronchi d’albero fatti rotolare dopo il taglio, il secondo. Dal gergo politico americano. 4. Si prefigura qui l’avvento al potere dei laburisti, dopo le elezioni del dicembre 1923 e del maggio

1929 (primo e secondo gabinetto di Ramsay MacDonald). 5. Nel testo hyphenate, da hyphen (cioè il trattino della parola Gennari -American, tedescoamericano). A tale trattino si riferisce anche la battuta di poche righe più sotto. 6. Sono le parole usate dal Presidente Wilson nel suo discorso al Senato, dopo ii fallimento del suo appello per una conferenza di pace. 7. Ciò che in effetti si sarebbe verificato, con il rifiuto americano di aderire alla Società delle Nazioni e il ritorno alla politica isolazionistica (1920). 8. Allude alla pratica giapponese di aggredire senza una preventiva dichiarazione di guerra, usata sia in Cina che nella guerra contro la Russia del 1904-05.

CAPITOLO VII. LA PACE E IL SISTEMA DEI PREZZI È evidente che il concetto di pace enunciato dai suoi svariati sostenitori non è affatto uguale per tutti. Nella concezione tedesca corrente, come si può desumere dalle dichiarazioni dei suoi insistenti e numerosi portavoce, sembra che per pace si intenda una sorta di tregua tra nazioni il cui eventuale destino, assegnato loro da Dio, è quello di risolvere con le armi una controversia relativa all’attribuzione della precedenza. Essi ne parlano a volte in tono conciliatorio, definendola eufemisticamente una «garanzia del futuro nazionale», dove il futuro nazionale sta a indicare un’opportunità di estendere il dominio nazionale a spese di qualche altro governo. Allo stesso riguardo si potrebbero citare le numerose ed eloquenti affermazioni sullo stato, la sua funzione suprema e il suo valore nell’economia umana. Lo stato è utile per disturbare la pace. Queste di fonte tedesca possono ritenersi le più meschine tra le concezioni attuali della pace, o meglio rappresentano il concetto di pace ridotto ai termini minimi che ancora consentano di riconoscerlo per tale. Segue subito dopo il concetto di armistizio, che si differenzia da quello di pace soprattutto perché presuppone un intervallo, ben definito e relativamente breve, fra le operazioni militari. Naturalmente, la concezione della pace intesa come periodo di preparazione alla guerra trova numerosi sostenitori fuori della Germania. Anzi, probabilmente essa suscita un interesse maggiore ed è accettata più prontamente da coloro che si interessano ai problemi di pace e di guerra più che qualsiasi altra; procede di pari passo con quel nazionalismo militante che viene convenzionalmente dato per scontato come base comune di quei rapporti internazionali che hanno una funzione importante in campo diplomatico. Parlare di guerra in parabole di pace rientra nel métter del diplomatico. La concezione della pace come precario intervallo di preparativi bellici è un retaggio dell’età feudale e di conseguenza trova maggior séguito nei paesi dove i pregiudizi feudali sono meglio conservati; e porta con sé il fondamentale concetto feudale secondo cui, seguendo il modello di Machiavelli, tutti gli istituti dinastici sono rivali nella ricerca del dominio. La

pace conseguita in questo modo nel reame è una pace di soggezione, oiù o meno accentuata a seconda che l’istituto nazionale sia più o meno militarista, dato che un’organizzazione militarista ha necessariamente un carattere servile, nella misura appunto in cui è militarista. Le nazioni democratiche moderne sono giunte a concepire la pace in modo nuovo o riveduto nella proporzione e nei limiti in cui hanno abbandonato il sistema feudale di rapporti civili e la peculiare gamma di concetti tipica di quel sistema. Fra le nazioni democratiche e momentaneamente pacifiche la pace, invece esser vista soprattutto come un periodo di tempo utile alla preparazione della guerra, sia offensiva che difensiva, è in genere considerata un modo di vita normale e stabile, buono e lodevole di per sé. Le società pacifiche moderne stanno di solito sulla difensiva. Esse sono ancora strenuamente nazionaliste, ma hanno disimparato quel tanto dei pregiudizi feudali che basta per adottare un atteggiamento difensivo secondo la parola d’ordine: pace con onore. Il loro prestigio nazionale semifeudale non va sottovalutato, sebbene abbia perso tanto del proprio fascino da esser inutile per un’avventura aggressiva, a meno di qualche abile sofisticazione da parte dei politicanti militaristi e dei loro agenti diplomatici. Naturalmente, può accadere che un patriottismo esuberante possa ritrovare di tanto in tanto l’antica veemenza barbarica, spingendo queste nazioni temporaneamente pacifiche ad un’incursione aggressiva contro un vicino inerme; ma è anche vero che, in fondo, questi popoli considerano la pace come uno stato di cose normale e ordinario, del quale ogni nazione deve prendersi cura da sola e con i suoi mezzi. L’ideale degli statisti del diciannovesimo secolo era di conservare la pace con un equilibrio di potenze; un equilibrio insta bile fondato sulle rivalità, dove era un fatto riconosciuto che la vigilanza perpetua fosse il prezzo di una pace basata sull’equilibrio. Da allora, dopo la concreta lezione delle guerre del ventesimo secolo, è chiaro che la vigilanza perpetua non è più sufficiente a mantenere la pace mediante l’equilibrio e che, di conseguenza, l’equilibrio di potenze è ormai superato. Al tempo stesso l’evolversi della situazione ha indotto la maggioranza delle nazioni civili ad apprezzare i vantaggi della pace, senza ulteriori opportunità di estendere il proprio dominio. Per di più, queste nazioni si sono organizzate in forma di commonwealths e, in tal modo, hanno perso parte del loro spirito nazionale. Quindi gli statisti di queste nazioni pacifiche si stanno adoperando, con molte riluttanti esitazioni e molta diffidenza, per formulare piani atti a

conservare la pace sull’inconsueta base di un equilibrio stabile. Il metodo preferito è quello che si basa sul-l’equilibrazione delle finzioni, ad imitazione dell’ormai superato equilibrio di potenze. Ne è parte un meticoloso rispetto per le gelosie e le discriminazioni nazionali, che si ritiene necessario conservare intatte. Naturalmente le gelosie nazionali e l’integrità nazionale non hanno più un vero significato, in questi piani leggermente diversi che si prefiggono di conservare la pace su una solida base di associazione fra le nazioni pacifiche. Ma gli statisti pensano e pianificano in termini di precedenti; il che è come dire che pensano e pianificano in termini fittizi, in quanto le mutate circostanze hanno reso superati i precedenti. In tal modo gli statisti arrivano a formulare la singolare proposta che la pace debba esser conservata di concerto tra le nazioni pacifiche, mediante delle forze che possano infrangerla al momento opportuno. Una pace che si fondi su una base di discriminazioni e di armamenti nazionali sarà necessariamente precaria, perché in effetti si riduce ad un’imitazione diplomatica della pace che un tempo era mantenuta in modo ancor più precario dalle nazioni pacifiche, ciascuna per proprio conto. Finora il movimento per la pace non è andato oltre questa concezione, secondo cui la pace consisterebbe nel salvaguardare di comune intesa le divergenze tra le nazioni con la forza delle armi. Una pace così concepita è necessariamente precaria, in parte perché gli eserciti servono per rompere la pace, in parte perché le divergenze nazionali a cui questi attuali pacifisti danno tanta importanza costituiscono una fonte costante di perturbazione. Sarebbe logico aspettarsi che i pacifisti si preoccupino di eliminare queste divergenze perturbatrici; mentre, in realtà, sembra che si diano da fare per conservarle. Una pace mediante l’abbandono concordato dei residui di finzione feudale che ancora contribuisce no a dividere le nazioni pacifiche non è stata sinora presa seriamente in considerazione. Evidentemente, finora e nel prossimo futuro, la pace costituisce una questione relativa, una questione di approssimazione, qualunque sia la concezione operativa, tra quelle a cui si è accennato sopra, che arrivi ad affermarsi. Inoltre una pace che miri a rafforzare le istituzioni nazionali in vista di un’eventuale guerra avrà un’efficacia diversa rispetto ad una pace a carattere difensivo concordata fra le nazioni pacifiche, destinata dai suoi ideatori a conservare quelle divergenze nazionali sulle quali gli statisti patriottici amano soffermarsi. E una pace ottenuta trascurando volutamente le inutili discriminazioni nazionali che ora generano discordia avrebbe un valore

diverso dalle altre due. Un lungo periodo di pace dovrebbe logicamente aver effetti culturali diversi, in corrispondenza con il tipo di politica pubblica adettata in quel periodo. Perciò dovrebbe esser più facile mantenere in modo sicuro e saldo la legge e l’ordine acquisiti sotto la copertura di una pace concordata di tipo difensivo, tendente a conservare intatte quelle divergenze nazionali che hanno un ruolo così importante nella vita nazionale di oggi, sia per focalizzare il sentimento patriottico sia come sbocco per le spese nazionali. Un piano così concepito turberebbe in misura minima l’ordine costituito tra i popoli democratici, anche se il piano stesso potrebbe subire, con il tempo, qualche cambiamento. A questo proposito una delle caratteristiche singolari della situazione attuale, messa in evidenza dalle esperienze della grande guerra, è una stretta rassomiglianza tra le recenti operazioni militari e i processi normali dell’industria. La guerra moderna e l’industria moderna sono entrambe condotte mediante processi tecnologici, sottoposti al controllo e alla direzione di ingegneri meccanici, o meglio di esperti d’ingegneria meccanica. Oggi la guerra non è un fatto di cuore saldo e braccio forte. Non che questi attributi non abbiano peso e valore nella guerra moderna, ma non ne costituiscono più gli elementi decisivi. Le prodezze che contano, in questa guerra, sono quelle tecnologiche; conquiste della scienza tecnologica, attrezzature industriali e preparazione tecnologica. Come si è già visto, non è più una guerra da gentiluomini, e il gentiluomo in quanto tale gioca più o meno il ruolo del guastafeste. Da ciò è possibile dedurre alcune conseguenze. L’esperienza tecnologica e industriale, in grandi proporzioni e ad alto rendimento, e indispensabile alla guerra condotta su un piano di modernità, al pari di un’efficiente e moderna comunità industriale e degli impiantì industriai: in grado di produrre il materiale necessario per la guerra. Al tempo stesso, la disciplina della campagna, che si esercita sui soldati semplici come sul numeroso corpo di ufficiali e di tecnici, non contrasta con i normali impieghi industriali del tempo di pace, o almeno non nella stessa misura che nel passato anche recente. L’esperienza della campagna bellica non rende quanti sopravvivono inutilizzabili per scopi industriali e non costituisce una vera e propria interruzione della loro esperienza industriale, spezzando la continuità di quella gamma di abitudini mentali che sono il portato dell’industria moderna di tipo tecnologico; comunque, non nella misura in cui ciò avveniva nelle condizioni belliche del diciannovesimo secolo. L’incidenza culturale e soprattutto

tecnologica della guerra moderna dovrebbero esser molto diverse da quelle sperimentate nel passato, e dalle concomitanti conseguenze psicologiche dell’esperienza bellica che gli studiosi di questi problemi erano soliti prevedere. È pur vero che la disciplina della campagna, per quanto tenda a divenire impersonale, inculca tuttora la subordinazione personale e l’obbedienza assoluta. Ma le tattiche moderne e i sistemi di guerra si basano più che nel passato sull’iniziativa personale, sul giudizio individuale, sull’avvedutezza e sulla padronanza di sé. È certo che gli uomini che sopravviveranno a questa grande guerra, gli uomini comuni, porteranno a casa un patriottismo accentuato e astioso, un odio velenoso per i nemici che non sono riusciti ad uccidere; ma non è altrettanto sicuro che provino ammirazione ed affetto maggiori per i loro superiori che hanno fallito nel compito di capeggiare questo lavoro di squadra a fini omicidi. Questi anni di guerra si sono rivelati penosi per la reputazione dei dirigenti e degli ufficiali, i quali hanno dovuto affrontare difficoltà impreviste, con possibilità di cavarsela non maggiori di quelle dei loro subalterni. Ma tutto sommato è probabile che il popolino che è ora sotto le armi ritorni dalla guerra con una molto maggiore lealtà verso l’onore della nazione e fedeltà verso i propri capi; questo dovrebbe valere in particolare per i sudditi tedeschi, ma molto meno per gli inglesi: rimarrà però il dubbio circa l’entità di questo guadagno netto in fatto di subordinazione o di questa perdita netta in fatto di padronanza di sé. È lecito dubitare che la mentalità dell’uomo comune, per esempio nei paesi della coalizione imperiale, sarà grazie all’esperienza della guerra sensibilmente più arrendevole per quanto riguarda gli obblighi verso i suoi superiori e la sottomissione all’autorità irresponsabile dei diversi poteri governativi di quanto non fosse allo scoppio della guerra. C’è motivo di ritenere che a quell’epoca un sinistro, seppur poco minaccioso, mormorio di malcontento cominciasse a levarsi dalle classi lavoratrici delle città industriali. Ciò malgrado è da prevedersi che la servile disciplina del servizio militare e il patriottismo vendicativo alimentato dalla guerra concorrano a render più arrendevole la popolazione della Germania verso il dominio irresponsabile della dinastia imperiale e degli istituti regali suoi subalterni, malgrado qualunque lieve influenza contraria esercitata dalla pratica dei metodi tecnologici e dalla fiducia in sé stessi che accompagnano oggi la disciplina del servizio militare. In un passo precedente abbiamo già accennato alla popolazione inglese, sotto le armi o sotto il vincolo della

necessità in patria; nel suo caso molto dipenderà dall’ulteriore durata della guerra. Sotto quest’aspetto la sorte delle altre nazioni coinvolte, sia neutrali che belligeranti, è ancor più oscura, ma è anche d’interesse meno immediato per il presente ragionamento. Sembra che le virtù tipicamente feudali della lealtà e del patriottismo bellicoso abbiano acquistato il loro profondo ascendente sullo spirito di tutti gli uomini che vivono entro i confini della civiltà occidentale in forza del carattere singolarmente coerente del condizionamento della vita durante il feudalesimo, in pace o in guerra; alla stessa uniformità di queste forze che modellarono le abitudini mentali quotidiane delle nazioni feudali si deve la profonda istituzionalizzazione dei preconcetti di patriottismo e di lealtà che imprigionano tutti i popoli moderni in una rete inestricabile di pregiudizi, malgrado che le condizioni che ne favorirono l’acquisizione siano in gran parte venute meno. I preconcetti di solidarietà nazionale e d’inimicizia internazionale sono stati tramandati dal passato come parte integrante di quella costituzione non scritta che costituisce il fondamento di tutte le nazioni moderne, anche di quelle che si sono maggiormente distanziate dal tipo di vita a cui i popoli debbono questi antichi preconcetti. Sinora, o piuttosto fino ad un periodo recente, l’esperienza quotidiana di questi popoli non ha agito in serio contrasto con lo spirito patriottico e l’animosità nazionale; finora ogni effettiva discrepanza tra il tirocinio della vita quotidiana e gli inveterati preconcetti istituzionali ora citati è stata annullata da politicanti interessati, da preti e pubblicisti che hanno costantemente inculcato queste virtù, parlando come è loro abitudine in nome dell’ordine costituito. L’ordinamento noto sul piano politico e civile come sistema feudale, insieme all’epoca caratterizzata dagli stati dinastici che succede al periodo feudale propriamente detto, era sul piano industriale o tecnologico un sistema di mano d’opera specializzata, organizzato sulla base della subordinazione tra individuo e individuo. Nel complesso il modello e la logica di quella vita, nei loro aspetti politici (militari) e in quelli industriali, sia in pace che in guerra, si fondavano su criteri di capacità, di efficienza e di rapporti personali. L’organizzazione delle forze impegnate e le leggi vincolanti che presiedevano al funzionamento di quest’organizzazione avevano il carattere di rapporti personali, mentre i fattori impersonali erano dati per scontati. La politica e la guerra erano un banco di prova per il valore, la forza e l’astuzia personale, in pratica per la forza e la frode. L’industria costituiva, nelle parole di Adam Smith, un campo in cui la routine quotidiana della vita e le sue conseguenze

s’imperniavano sull’«abilità, destrezza e discernimento del singolo lavoratore». L’età feudale si chiuse sotto i colpi mortali infertile dall’attività artigianale, dal traffico commerciale, dalla polvere da sparo e dai politici fondatori di stati. Ma gli stati politici creati da questi ultimi, che potrebbero opportunamente chiamarsi stati dinastici, continuarono a condurre la vita politica su un piano di rivalità e di gelosia personale tra le dinastie e tra gli stati, e malgrado la polvere da sparo e le nuove tecniche militari la guerra continuò ad essere in primo luogo un campo in cui le forze disponibili e le qualità personali decidevano dei risultati, mediante l'abilità, destrezza e discernimento» personali. Nel frattempo, l’industria e la sua tecnologia subirono un insensibile, graduale processo di spersonalizzazione, in particolare nei paesi dove la fondazione dello stato e le relative imprese militari avevano cessato o stavano cessando di rappresentare per il popolo gli interessi fondamentali e la concezione determinante. La logica della nuova industria meccanica, che in questi paesi ha soppiantato l’artigianato, è una logica meccanicistica che procede in termini di sforzi fattuali, di masse, di velocità e simili, invece che di «abilità, destrezza e discernimento» dei protagonisti personali. La nuova industria non fa a meno degli agenti personali, e non si può dire che minimizzi la necessità dell’abilità, della destrezza e del discernimento degli agenti personali di cui si serve, ma li dà per scontati insieme alle loro qualità, e in un certo senso li considera una premessa assiomatica. La logica del sistema artigianale dava per scontati i fattori impersonali; l’industria della macchina dà per scontati l’abilità, la destrezza e il discernimento dei lavoratori. I processi mentali, e quindi la disciplina abituale e coerente del primo si basavano sugli individui impiegati e sui rapporti personali di decisione, di controllo e di subordinazione indispensabili al lavoro; la logica meccanicistica della tecnologia moderna si basa invece, con coerenza sempre maggiore, sulle forze impersonali impegnate, inculcando una predilezione abituale verso affermazioni di carattere concreto e l’idea basilare che solo le scoperte della scienza della materia sono determinanti. Nelle nazioni che hanno rappresentato l’avanguardia della civiltà occidentale nel corso del suo affrancamento dal feudalesimo, l’effetto disgregatore di questa mentalità concreta inculcata dal nuovo stadio delle tecniche industriali ha contribuito efficacemente a screditare i preconcetti di discriminazione personale, su cui si fonda il potere dinastico. Sinora però la

disciplina della tecnologia meccanicistica non ha mai funzionato in modo perfetto e non ha mai dato dei risultati definitivi. Nel frattempo, la guerra e la politica sono andate avanti sulla base dei vecchi criteri; anzi, è forse giusto precisare che la politica è andata avanti in questo modo perché l’avventura militare è tuttora un fatto di forze personali quali l’abilità, la destrezza, il discernimento, il valore e l’astuzia, la forza personale e la frode. Ultimamente, con un ritmo graduale ma crescente, anche la tecnologia della guerra ha assunto un’impronta meccanicistica; ed è evidente che anche la logica della guerra, nelle sue fasi più recenti più o meno alla fine del secolo scorso, si è identificata con la stessa logica meccanicistica che è alla base dello stadio moderno delle tecniche industriali. A questo proposito, sorge il problema di stabilire quali potranno essere la strategia politica e i pregiudizi politici destinati ad affermarsi nel nuovo secolo, anche se non c’è speranza di trovare una rapida soluzione della questione. Potrebbe inoltre sembrare avventato e sgarbato il voler stabilire il modo e la misura dell’eventuale scadimento a cui gli ideali e le virtù politiche accettate sembrerebbero esser esposte in seguito allo sconvolgimento dell’antica disciplina a cui gli uomini sono stati sottoposti. Comunque è evidente che le virtù e gli ideali acquisiti di animosità patriottica e di gelosia nazionale potranno esser meglio protetti da una prematura decadenza aggrappandosi risolutamente all’osservanza formale di tutti i triti luoghi comuni dell’integrità e della discriminazione nazionale, malgrado la loro disutilità sempre crescente; come avverrebbe, almeno in via sperimentale, ad esempio se si costituisse una lega di nazioni neutrali mirante al tempo stesso a conservare la pace e a salvaguardare quegli «interessi nazionali» il cui unico scopo è dividere le nazioni e mantenerle in uno stato d’invidia e di sfiducia reciproca. I popoli soggetti al regime vincolante dello stadio moderno delle tecniche industriali (e tutti i popoli moderni lo sono, proprio nella misura in cui sono «moderni») sono quindi esposti ad un tirocinio quotidiano che contrasta con la legge e l’ordine ereditati quali si esplicano negli affari nazionali. A questo punto bisogna aggiungere che, ora che la stessa impresa militare si è spostata sul piano meccanicistico-tecnologico, non è più possibile contare come un tempo sulla guerra perché corregga il conseguente distacco dalle antiche pietre miliari delle imprese di dominio dinastico, pseudo-dinastico o nazionalistico. Come s’è visto in precedenza, la guerra moderna non solo sì serve della tecnologia industriale moderna, ma ne dipende in ogni fase delle operazioni

campali e attinge alle normali risorse industriali del paese in guerra in una misura e con un’urgenza senza precedenti. Nessuna nazione può sostenere una guerra moderna senza utilizzare nel modo più radicale le moderne tecniche industriali, e tanto meno condurre con successo un’impresa militare. Di conseguenza, ogni potenza che nutra ambizioni imperialistiche dovrà adoperarsi affinché le sue classi popolari possano padroneggiare senza riserve i sistemi e i mezzi della moderna industria meccanica. Quindi l’istruzione del popolo dovrà esser curata nella misura che potrà esser utile a questo tipo di industria ed al tipo di vita che il sistema industriale comporta; di conseguenza solo i popoli che vantano un alto livello d’istruzione e di addestramento potranno mantenere la loro posizione di potenze formidabili, in questa fase recente di civiltà. Sono necessari l’istruzione e l’addestramento che forniscono una competenza nella tecnologia moderna e in quelle scienze della materia che sono alla base della competenza tecnologica del tipo moderno. È evidente, date le premesse, che un alto tasso di analfabetismo costituisce un intollerabile handicap; lo stesso vale per ogni tipo di formazione che scoraggi la fiducia abituale in sé stessi e l’iniziativa o che faccia da freno allo spirito scettico; la mentalità scettica infatti è una componente indispensabile dell’apparato intellettuale che promuove il progresso, le invenzioni e la comprensione nel campo della competenza tecnologica. Ma a questi requisiti, strettamente indispensabili al successo militare, si oppongono quel rispetto assoluto delle persone e quello spirito di abnegazione che soli possono garantire l’adesione di un popolo alle istituzioni politiche del vecchio ordinamento e farne un compiacente strumento nelle mani degli statisti dinastici. In apparenza, lo stato dinastico è prigioniero di un dilemma. È probabile che la preparazione necessaria ad un’impresa militare di tipo moderno riesca, con il tempo, a disintegrare le fondamenta dello stato dinastico. Ma su questo elemento si può contare solo a lunga scadenza e forse neppure in un periodo abbastanza lungo come l’attuale, se gli statisti interessati prendono tutte le precauzioni necessarie, – come sembra indicare l’ottima conservazione dei caratteri arcaici delle popolazioni tedesche nel corso dell’ultimo cinquantennio, sotto il potere arcaicizzante degli Hohenzollern. È una questione di assuefazione, che richiede tempo e che può peraltro esser neutralizzata in una certa misura con l’indottrinazione. Nondimeno, a conti fatti, si dovrà ammettere che per esempio una nazione come la Russia sarà vittima di questa sorta d’inerente impotenza imposta dall’uso indispensabile delle tecniche industriali moderne. Se il popolo russo

non acquisisce una padronanza relativamente libera e completa dei metodi dell’industria moderna, insieme alla virtuale scomparsa dell’analfabetismo – con l’agevole e vasto sistema di comunicazioni che tutto ciò comporta – l’istituto imperiale russo non potrà mai rappresentare una potenza formidabile né una grave minaccia per i paesi pacifici; e non è facile immaginare in qual modo l’istituto imperiale potrebbe conservare il suo potere e il suo carattere nelle condizioni descritte. Analogo è in un certo senso il caso del Giappone, preso isolatamente. È probabile che il popolo giapponese acquisti una padronanza adeguata della tecnologia moderna, in un lasso di tempo non molto lungo; ciò comporterebbe, in questo come negli altri casi, l’effettiva scomparsa dell’attuale diffuso analfabetismo e la perdita, in una misura accettabile, dell’attuale rozzo e superstizioso nazionalismo di quel popolo. Vi sono sintomi che qualche cosa del genere, e di dimensioni alquanto preoccupanti, sia già in corso, sebbene non vi sia alcun indizio che le connesse abitudini mentali disgregatrici abbiano già fatto irruzione nel sacro recinto della devozione patriottica giapponese. Una volta di più, è una questione di tempo e di abitudine. Con il tempo e con l’abitudine è probabile che l’imperatore cessi a poco a poco di esser considerato di origine divina e che la cricca di statisti che conducono i propri affari sotto l’avallo della sua firma veda i propri tentativi di espansione imperiale messi in discussione dal popolo che ne paga le spese. Ma finché la cricca imperiale godrà dell’attuale immunità contro ogni opposizione dall’esterno e potrà, di conseguenza, proseguire nella sua ininterrotta campagna predatoria in Corea, in Cina e in Manciuria, minori sono le probabilità che l’infatuazione patriottica perda d’intensità, ritardando così proporzionalmente lo scadimento della fedeltà giapponese. Eppure se anche fosse, nei limiti del possibile, concesso loro di aggredire liberamente i loro sventurati vicini, appare assai verosimile che lo spirito scettico e l’insubordinazione nei confronti dell’autorità personale, che a lungo andare è inscindibile dall’applicazione delle tecniche industriali moderne, debbano subentrare allo spirito di leale servigio proprio dei giapponesi. L’occasione del Giappone sta proprio nel periodo intermedio; lo stesso può dirsi della minaccia del Giappone imperiale, quale presumibile disturbatore della pace mondiale. Anche a costo di una certa inevitabile noia, riassumeremo la discussione per quel che si riferisce a questi aspetti e ad altri analoghi. Alla luce (forse dubbia) della storia delle istituzioni democratiche e della tecnologia moderna,

come della logica di questa tecnologia e delle scienze della materia che ne rappresentano il sostrato, risulta che la pratica costante delle peculiari abitudini di pensiero connesse con il suo sviluppo conduce in breve allo scadimento dei pregiudizi su cui si fondano il governo dinastico e le ambizioni nazionali. La pratica continuata del moderno modello della vita industriale dovrebbe con il tempo produrre lo scadimento del nazionalismo militante, con il conseguente declino delle iniziative militari. Allo stesso tempo il diffondersi nel popolo della competenza nelle moderne tecniche industriali, con tutto quel che comporta in fatto d’intelligenza e d’informazione, è un mezzo indispensabile per il successo di qualsiasi iniziativa militare su scala moderna. La minaccia di un’aggressione militare da parte di stati dinastici quali la Germania e il Giappone imperiale si deve al fatto che questi stati si sono impadroniti della tecnologia moderna senza aver ancora avuto il tempo di spogliarsi dello spirito di fedeltà dinastica, che avevano ereditato da un ordinamento arcaico dal quale sono emersi assai più di recente (seconda metà del diciannovesimo secolo) che non i popoli democratici di cui ora minacciano la pace. Come si è detto, essi hanno adottato lo stadio moderno delle tecniche industriali senza sopportare finora i difetti inerenti alle sue qualità. La tecnologia moderna, insieme alle scienze della materia che ne costituiscono la base, è un elemento nuovo nella storia della civiltà dell’uomo, nel senso che la sua pratica continuata provoca lo scadimento del patriot tismo militante, mentre il suo impiego accresce grandemente l’efficienza militare di uno stesso popolo pacifico in caso di necessità, ad un punto tale da impedire che questo popolo sia seriamente molestato da altri popoli, per quanto valorosi e numerosi, i quali non siano in grado di servirsi con competenza di questa tecnologia. Quinci, una volta che le nazioni civili abbiano conseguito la pace globale e perso le caratteristiche aggressive, dedicandosi con costanza alle arti della pace, non c’è rischio che questa venga infranta da incursioni di barbari bellicosi, sempre che i popoli arcaici esistenti, classificabili come barbari, siano allineati con le nazioni pacifiche su un piano di pace e di uguaglianza. La differenza fra le prospettive di una pace globale conseguita abbandonando inutili animosità e gli esempi storici di civiltà pacifiche travolte da incursioni barbariche dovrebbe esser evidente. È sempre possibile, né sarebbe sorprendente, che la progettata lega di neutrali o di nazioni amanti della pace non possa realizzarsi in questo momento e forse neppure in un immediato futuro; ma allo stesso tempo è ragionevole attendersi che la tendenza ad accettare una composizione pacifica

delle rivalità nazionali, manifestatasi nelle vicende storiche del recente passato per un periodo di tempo non indifferente, possa ottenere nel corso delle ulteriori esperienze, nelle condizioni moderne e sempre in mancanza di ostacoli imprevisti, dei risultati positivi. Indipendentemente dalla forza iniziale della lega, purché essa riesca nel suo scopo principale, si dovrebbe instaurare sotto la sua egida una tendenza atta a favorire a lunga scadenza il conseguimento di quel tipo di pace che è stato definito pace per abbandono o per neutralizzazione dei contrasti. Ciò dovrebbe verificarsi salvo imprevisti; e con tante maggiori probabilità, se nel tessuto delle istituzioni interne della nazione non ci saranno fattori determinanti di dissenso. Analogamente bisogna accettare la previsione che, una volta raggiunte e stabilite definitivamente la pace e la sicurezza nazionali, si dovrà risolvere il problema della differenza di fatto tra coloro che posseggono la ricchezza del paese e gli altri. Tuttavia, sarebbe un’impresa più audace e più incerta cercar di prevedere la forma di questa soluzione o i modi, i dettagli, le appendici e i corollari impliciti nella sua realizzazione. Finora tutti i tentativi di risolvere questo problema si sono arenati sullo scoglio della minaccia vera o immaginaria per i supremi interessi nazionali. La situazione del governo nazionale interessato e il carattere degli obblighi internazionali assunti all’atto della formazione dell’eventuale lega pacifica deciderebbero ovviamente quali conseguenze questa soluzione potrebbe avere per gli interessi nazionali e per i rapporti internazionali. È sempre possibile che le transazioni relative ad un problema di così universale portata finiscano con l’assumere un carattere internazionale e, intaccando gli interessi reali o immaginari delle nazioni con effetti divergenti, arrivino di conseguenza a infrangere la comprensione reciproca e gli accordi di pace che di questa reciproca comprensione sono il frutto. In principio, cioè al principio dell’era moderna delta civiltà occidentale, con le sue leggi ed i suoi costumi, sorse per uso inveterato il diritto di proprietà e di libera contrattazione della proprietà, che può aver costituito o meno una soluzione istituzionale salutare in quelle circostanze. Successivamente, lo sviluppo dell’artigianato e del piccolo commercio nell’Europa occidentale portò a rafforzare il diritto di proprietà e di contratto, che venne codificato nei dettagli della legge e protetto contro eventuali molestie da parte degli interessi governativi, con scrupolo ancora maggiore tra i popoli che sono stati all’avanguardia nelf elaborare il sistema d’istituzioni libere e popolari che caratterizza le nazioni civili moderne. In questo modo

esso è entrato a far parte del diritto comune del mondo moderno come un diritto naturale inviolabile e con tutta l’autorità prescrittiva frutto di una abitudine immemorabile, autenticata dalla legge. In una società fondata sull’artigianato e sul pìccolo scambio, il diritto di proprietà e di libero contratto serviva in larga misura gli interessi dell’uomo ordinario e contribuiva a proteggere gli individui industriosi e risparmiatori da maltrattamenti e soprusi da parte dei loro superiori. C’è motivo di credere, come in genere si crede, che per tutta la durata di quel sistema industriale e commerciale relativamente diretto e semplice il diritto di proprietà e di contratto fu un’abitudine salutare, per ciò che riguarda il suo influsso sulle sorti dell’uomo comune. Sembra inoltre che abbia nel complesso favorito il pieno sviluppo della tecnologia artigianale e la sua eventuale evoluzione nei nuovi ritrovati e nelle invenzioni tecnologiche che gettarono rapidamente le basi dell’industria meccanizzata e dell’iniziativa commerciale su vasta scala. Le teorie standard della scienza economica hanno assunto i diritti di proprietà e di contratto come premesse assiomatiche e termini ultimi di riferimento. Queste teorie, di solito, sono enunciate in una forma che si accorda con le condizioni dell’industria artigianale e del piccolo scambio, ma che può, con un’abile interpretazione, esser adattata a qualsiasi altra situazione economica. Queste teorie, da Adam Smith fino alla fine del diciannovesimo secolo ed oltre, appaiono nell’insieme sostenibili se riferite alla situazione economica di quei tempi anteriori per tutto quanto riguarda i salari, il capitale, il risparmio, l’efficienza e l’economicità della gestione e della produzione secondo i metodi dell’iniziativa privata fondata sui diritti di proprietà e di contratto e retta dalla ricerca del guadagno privato. Quando però si tenti di applicarle alla situazione posteriore, che ha superato la fase artigianale, queste teorie appaiono inconsistenti o fraudolente. Sembra che, nella fase anteriore d’iniziativa su scala ridotta e di contatti personali, il «sistema concorrenziale» che queste teorie classiche assumono a condizione indispensabile della propria validità, e intorno al quale servono a formare una barriera protettiva, abbia rappresentato al tempo stesso un’ipotesi di base abbastanza valida e un sistema abbastanza conveniente per i rapporti economici e per i traffici. Non si può dire che in quella fase della sua storia il «sistema concorrenziale» sia stato costantemente fonte di stenti per l’uomo comune, semmai il contrario. D’altra parte sembra che l’uomo comune di quel tempo non avesse sospetti circa l’eccellenza del sistema o di quell’articolo dei diritti naturali che ne è alla base.

Questo stato di cose, per quel che si riferisce all’influenza concreta dell’istituzione della proprietà e degli antichi diritti consuetudinari di proprietà, è sostanzialmente cambiato dal tempo di Adam Smith. Il «sistema concorrenziale» nel quale Smith vedeva la traduzione in termini economici di quel «semplice e ovvio sistema di libertà naturale» a lui tanto caro, ha in gran parte cessato di operare normalmente come un’estrinsecazione quotidiana della libertà naturale, in particolare per quel che ri guarda il destino dell’uomo comune, la massa povera della popolazione. Naturalmente il sistema concorrenziale e i suoi inviolabili diritti di proprietà costituiscono, de jure, una roccaforte della libertà naturale, ma l’uomo comune, de facto, da qualche tempo ne sta avvertendo la morsa. Si tratta di un diritto, e indubbiamente ci un buon diritto, fondato sull’uso immemorabile e autenticato da norme scritte e dai precedenti. Ma le circostanze sono mutate a tal punto che questo buon vecchio sistema è diventato in un certo senso arcaico e forse inutile, se non addirittura nocivo, in particolare per le condizioni di vita dell’uomo comune. O, almeno, questa è la sensazione che l’uomo comune comincia a provare di fronte a questo problema nelle nazioni democratiche e commerciali moderne. A questo punto non sarà inopportuno affrontare un breve esame sommario delle circostanze mutevoli che hanno influenzato l’incidenza dei diritti di proprietà nei tempi moderni, allo scopo di stabilire in quale misura e perché questi diritti debbano esser riesaminati o modificati, qualora uno stato di pace permanente lasciasse gli uomini liberi di rivolgere la propria attenzione agli interessi interni anziché a quelli nazionali. In quel sistema fondato sull’artigianato e sul piccolo scambio che portò a codificare i diritti di proprietà nella forma accentuata che li caratterizza in base al diritto e al costume moderno, l’uomo comune, nella misura in cui i diritti di proprietà lo riguardavano da vicino, aveva una possibilità effettiva di libera iniziativa e di auto-direzione nella scelta e nello svolgimento di un lavoro che gli assicurasse i mezzi di sostentamento. A quel tempo il lavoratore rappresentava nell’industria l’elemento principale, e il problema del suo impiego si riduceva, in fondo, a quello che egli avrebbe voluto fare. L’attrezzatura materiale dell’industria, la «fabbrica» come è stata chiamata in seguito, era un oggetto di proprietà allora come oggi, ma a quel tempo costituiva un fattore secondario e notoriamente ausiliario rispetto all’attrezzatura immateriale di abilità, destrezza e discernimento impersonata dall’artigiano. La quantità d’informazioni e di cognizioni generali indispensabili a dare ad un artigiano la competenza lavorativa era abbastanza

limitata e semplice da esser alla portata della classe lavoratrice senza bisogno di un’istruzione speciale; mentre l’attrezzatura materiale necessaria al lavoro, come utensili e attrezzi, era anch’essa abbastanza limitata e tale quindi da esser alla portata dell’uomo comune. L’essenziale era l’acquisizione di quelle doti di abilità, destrezza e discernimento personale che avrebbero fatto dell’operaio un maestro nel suo mestiere. Bastava un po’ di tenacia perché l’uomo comune fosse in grado di padroneggiare l’attrezzatura materiale necessaria al proprio lavoro, e fosse quindi in condizione di provvedere al proprio sostentamento; allora il diritto inviolabile di proprietà serviva dunque a garantirgli il frutto della sua operosità e ad assicurargli la vecchiaia e un buon avviamento per i figli. In questo modo, almeno nella concezione popolare e forse in certa misura anche nella realtà, il diritto di proprietà fungeva da garanzia della libertà personale e da criterio di uguaglianza. Tale i suoi apologeti lo considerano tutt’oggi. Da allora, questo complesso di fatti e di concezioni popolari ha subito un notevole cambiamento, sebbene, com’era da prevedersi, l’evoluzione delle concezioni popolari non sia andata di pari passo con il mutare delle circostanze. La tecnologia meccanica moderna richiede una notevole attrezzatura materiale in tutti i settori principali e decisivi dell’industria, anzi un’attrezzatura così consistente da fare di una fabbrica, come s’è convenuto di chiamarla, un formidabile investimento di capitale, e così vasta da impiegare di solito un numero considerevole di operai per unità d’impianto. Con l’avvento della tecnologia meccanica la fabbrica è divenuta l’unità operativa al posto dell’operaio, e con lo sviluppo successivo della tecnologia moderna, nel corso degli ultimi centocinquant’anni circa, si è passati gradualmente da un sistema in cui la singola fabbrica isolata rappresentava l’unità operativa e di controllo ad una fase in cui le aziende operano congiuntamente in un gruppo articolato che costituisce un sistema equilibrato e mantiene lo stesso ritmo, regolato da una gestione collettiva. Al tempo stesso il singolo operaio si è visto ridotto ad un fattore ausiliario, quasi ad un articolo di fornitura da addebitare tra le spese di funzionamento. In tal modo le decisioni e le iniziative non dipendono più dall’operaio, bensì dai proprietari dell’azienda. Di conseguenza il diritto di proprietà ha cessato di esser nei fatti una garanzia di libertà personale per l’uomo comune, trasformandosi in una garanzia di dipendenza. Tutto questo provoca una sensazione d’inquietudine e d’insicurezza tale da insinuare nella mente dell’uomo comune qualche dubbio sull’ulteriore convenienza di questa soluzione e dei diritti prescrittivi di proprietà su cui

essa si fonda. Esiste anche un’idea insidiosa, nata dalla scienza etnologica, che porta con sé una sinistra nota di discredito ed è ancor più atta ad incrinare la fede dell’uomo comune in quest’istituto accreditato della proprietà, con il suo controllo sull’attrezzatura materiale dell’industria. Per quanti si interessano alla civiltà umana è evidente che l’attrezzatura materiale rappresenta uno strumento per utilizzare lo stadio delle tecniche industriali, utile all’industria e vantaggioso per coloro che lo possiedono solo in ragione e nella misura in cui è una creazione della scienza tecnologica attuale e permette a colui che lo possiede di appropriarsi dell’usufrutto delle tecniche industriali correnti. È altrettanto ovvio che il sapere tecnologico, per mezzo del quale l’attrezzatura materiale serve agli scopi della produzione e del guadagno privato, è un dono spontaneo della comunità ai proprietari degli impianti industriali, e nelle condizioni attuali un dono riservato esclusivamente a loro. Lo stadio delle tecniche industriali è retaggio collettivo della comunità, ma laddove, come nelle nazioni moderne, il lavoro eseguito con questa tecnologia richiede una vasta attrezzatura materiale, l’usufrutto di questo retaggio collettivo passa in effetti nelle mani dei proprietari di questa vasta attrezzatura materiale. I padroni non hanno di solito minimamente contribuito alla tecnologia moderna, dalla quale riescono a ricavare un profitto esercitando un controllo sull’attrezzatura materiale dell’industria. In una società moderna nessuna classe, ad eccezione forse del clero e dei politicanti, contribuisce meno ad aumentare il patrimonio di cognizioni tecnologiche della comunità dei grandi proprietari di capitali investiti. Per uno di quei singolari paradossi, determinati dal fatto che la produzione viene diretta in funzione degli interessi privati, si dà il caso che gli azionisti non solo sono restii ad aumentare e diffondere le cognizioni tecnologiche, ma hanno un deliberato interesse ad ostacolare o a scoraggiare ogni progresso particolare nelle tecniche industriali. Le migliorie e le innovazioni che aumentano l’efficienza produttiva di un dato settore portano inevitabilmente «all’obsolescenza per superamento» dell’impianto già impegnato in quel settore e, di conseguenza, causano una diminuzione delle sue capacità di reddito e quindi del suo valore come capitale e come investimento. Il capitale investito dà un reddito perché gode dell’usufrutto del patrimonio tecnologico della comunità, e mantiene il monopolio effettivo di questo usufrutto perché la tecnologia moderna, per poter operare, ha bisogno di vaste attrezzature materiali. Qualunque innovazione che miri a render

superate queste attrezzature non sarebbe conciliabile con gli interessi dei proprietari degli impianti industriali esistenti. Dunque l’influenza della proprietà sull’industria e sulle sorti dell’uomo comune deriva soprattutto dal suo controllo monopolistico delle tecniche industriali e dal conseguente controllo delle condizioni d’impiego e di fornitura dei prodotti di consumo; agisce soprattutto mediante l’inibizione e la privazione, arrestando la produzione qualora questa non garantisca all’azionista un utile conveniente e infine rifiutando lavoro e sostentamento agli operai se la loro produzione non raggiunge sul mercato un prezzo conveniente. L’opportunità che l’industria della nazione sia gestita sulla base della proprietà privata in funzione del profitto privato da individui che, come persone, non potrebbero secondo giustizia aspirare neppure al più modesto tenore di vita, e il cui sistema normale per controllare l’industria è il sabotaggio (cioè il rifiuto di dar libero corso alla produzione se essa non offre un reddito non guadagnato), appare sempre più dubbia a coloro che ne fanno le spese. E certo non contribuisce ad alleviare i loro dubbi lo scoprire che il prezzo che essi pagano non è destinato, di solito, a fini più urgenti o più utili di uno spreco vistoso di oggetti superflui da parte dei capitani del sabotaggio e delle loro istituzioni domestiche. Questo, forse, può non sembrare un resoconto fedele ed adeguato di questi problemi e in effetti non soddisfa forse la formula: la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità; ma qui non si tratta della sua adeguatezza come constatazione di fatto. Lasciando impregiudicata la questione della sua veridicità ed adeguatezza, tale resoconto risulta però sempre più naturale e convincente per l’uomo della strada il quale si ritrova in misura sempre maggiore nella morsa della privazione e dell’insicurezza, in seguito ad una serie di circostanze che convalidano costantemente l’assunto, e il quale inoltre tende necessariamente a vedere questi fatti dal punto di vista prevenuto di colui che ci rimette. C’è motivo di ritenere che questa interpretazione apparirà agli occhi dell’uomo comune tanto più convincente, quanto più attentamente si considerino le circostanze pertinenti e la loro incidenza sulle sue fortune. Non rientra nei limiti della nostra indagine stabilire in qual misura l’opinione contraria di coloro che l’interesse o l’educazione orientano in senso opposto possa condurli ad un’interpretazione diversa di queste circostanze. Qui vi accenniamo soltanto nella misura in cui influiscono sulla presumibile mentalità di quella massa più sfortunata della popolazione che avrà l’opportunità di avanzare le sue proposte quando la pace mondiale avrà

rimosso gli interessi nazionali dalla loro posizione preferenziale nella considerazione degli uomini. A rischio di dilungarsi troppo, c’è ancora qualcosa da aggiungere a proposito del sabotaggio capitalistico cui si è accennato prima. L’uso ha conferito a questa parola uno sgradevole senso di disapprovazione. Eppure il suo significato non va oltre un ostruzionismo deliberato o un rallentamento dell’industria ottenuto di solito con mezzi legittimi, per amor di qualche vantaggio personale o di parte. Ed è questo significato moralmente incolore che intendiamo dare alla parola. Il sabotaggio è molto comune nei settori dell’industria che provvedono a rifornire il mercato di prodotti di consumo; costituisce in pratica l’espediente più comune e universale nei settori dell’industria a cui spetta di rifornire il mercato, dal momento che è sempre presente nei necessari calcoli dell’uomo d’affari ove rappresenta uno strumento non solo utile e conveniente, ma assolutamente indispensabile come normale criterio di sagacia commerciale. Cosicché il fatto che un uomo d’affari o una ditta lo impieghino non implica alcun biasimo per le persone. È solo quando i dipendenti ricorrono a misure di questo genere per ottenere un qualche loro fine che questa condotta diventa (tecnicamente) biasimevole. Ogni gestione affaristica dell’industria mira al profitto, e per ottenerlo è necessario soddisfare le condizioni del mercato. Il sistema dei prezzi che regola gli affari industriali non può permettere che la produzione superi la domanda del mercato o non tenga nella debita considerazione le spese di produzione determinate dal mercato in base al costo delle forniture. Dunque ogni impresa commerciale deve adeguare le proprie operazioni, mediante l’accelerazione, il rallentamento o l’arresto, alle condizioni del mercato, in rapporto alle possibilità di assorbimento dei traffici, cioè in funzione del massimo utile netto ricavabile. Finché l’industria sarà dominata dal sistema dei prezzi, vale a dire finché sarà impostata sull’investimento a fini di profitto, sarà necessario e inevitabile adattarne i processi alle esigenze di un prezzo remunerativo; questo adattamento si potrà ottenere solo mediante un’opportuna accelerazione o decurtazione dei processi industriali, ciò che risponde appunto alla definizione di sabotaggio. Quindi un’accorta amministrazione degli affari, e soprattutto quell’amministrazione che si definisce sicura e sana, si riduce a ricorrere accortamente al sabotaggio, e cioè a limitare accortamente i processi produttivi ad un livello inferiore alla capacità produttiva dei mezzi disponibili. Quanti sono inclini a vedere tali questioni di usanze alla luce della loro storia e a considerarle come fenomeni di assuefazione, di adattamento e di

superamento nel processo della proliferazione culturale, dovrebbero riconoscere senza difficoltà che l’istituzione della proprietà, che forma il nucleo centrale della struttura istituzionale moderna, è un precipitato della consuetudine al pari di ogni altro elemento di uso e costume; e che, al pari di ogni altro elemento di sovrastruttura istituzionale, essa è un fattore contingente, soggetto al superamento e all’obsolescenza. Qualora le abitudini dominanti di pensiero, frutto delle esigenze prevalenti della vita e del sostentamento, dovessero subire un mutamento tale da render irritante o insopportabile per la massa della popolazione il tipo di vita imposto da questa istituzione, e al tempo stesso la situazione si evolvesse in modo tale da non permettere che altri interessi o esigenze avessero la precedenza su questa, impedendole di affermarsi, allora nascerebbe un attrito fra la massa non privilegiata la cui vita ne viene aggravata e le classi che, invece, vivono grazie ad essa. Ma non è possibile prevedere fin d’ora con precisione quale sarà la linea di frattura o quale forma prenderà il contrasto tra le due parti interessate. Tuttavia dalle premesse si può dedurre che, salvo imprevisti d’insolita portata, una frattura del genere dovrebbe esser la logica conseguenza di una pace globale duratura; ed è possibile, altresì, che tale questione possa portare a interrompere o a infrangere la pace fra le nazioni. A questo proposito ricordiamo che nelle nazioni pacifiche le istituzioni governative sono attualmente tutte nelle mani dei beneficiari, o delle classi mantenute, nel senso in cui questa distinzione si applica alla situazione fin qui considerata. I dirigenti responsabili e i loro principali funzionari amministrativi, tutti coloro, insomma, che possono a buon diritto rientrare sotto la denominazione di «governo» o «amministrazione» provengono, in modo tipico e invariabile, dalle classi beneficiarie – nobili, gentiluomini o uomini d’affari – che sono poi la stessa cosa, dal momento che l’uomo comune è escluso da questi collegi e non partecipa ai consessi che presumono di guidare il destino delle nazioni. Certo può capitare che di tanto in tanto, in modo sporadico ed effimero, un uomo proveniente dalla massa povera e indifferenziata riesca a varcare la soglia; mentre è più frequente che un sedicente «uomo del popolo» sieda nel consesso. Ma la regola resta intatta e inviolabile, com’è dimostrato dal fatto che nessuna comunità potrà mai tollerare che gli emolumenti ufficiali dei suoi dirigenti responsabili, anche di quelli che hanno responsabilità minori, sia ridetto al livello del reddito normale della popolazione comune o che sia inferiore al reddito che è reputato decoroso per un gentiluomo. Chiunque,

proveniendo dalla massa povera, sia chiamata a occupare un posto di responsabilità nel governo, cesserà immediatamente di esser un uomo comune per assurgere al rango di gentiluomo, nei limiti in cui ciò risulta possibile prendendosene cura e assegnandogli un reddito che gli consenta un sistema di vita decorosamente dispendioso. L’antagonismo fra una condizione sociale umile e una posizione di credito ufficiale è così evidente, che molti «uomini fattisi da sé» hanno accortamente cercato di ottenere una carica governativa, talvolta a prezzo non indifferente, per il solo motivo apparente della ben nota efficacia di una tale carica come correttivo levitico per gli umili natali. In effetti finora nessuna maggioranza popolare ha imparato ad affidare delle responsabilità di governo ad individui della sua stessa condizione sociale poiché, nella mentalità popolare, quelle responsabilità non hanno mai cessato di esser prerogativa delle classi benestanti e bene educate. Supponiamo che questo stato di cose, e in particolare il carattere delle istituzioni governative nelle nazioni pacifiche, non subisca alterazioni notevoli, tenendo conto d’una certa inevitabile dose di esagerazione in quel che s’è detto. Queste istituzioni governative sono, per posizione ufficiale e per il carattere dei propri funzionari, impegnate in maniera più o meno accentuata a tutelare la legge e l’ordine esistenti. Se in seguito all’esperienza della guerra questi governi non subissero alcun cambiamento radicale, la lega pacifica sarebbe formala da governi di tal fatta. Quindi, se in uno qualunque di questi paesi dovessero sorgere difficoltà fra chi ha e chi non ha, vien fatto di chiedersi se l’accordo per conservare la pace e l’integrità nazionale dei vari paesi membri della lega dovrebbe contemplare l’eventualità di contrasti interni e di possibili disordini aventi carattere di rivolte contro le autorità costituite o contro le disposizioni della legge. Uno sciopero come quello minacciato di recente nelle ferrovie americane, ed a stento evitato1, potrebbe facilmente creare delle perturbazioni tali da mettere in discussione la giurisdizione della lega pacifica; in particolare se un’agitazione di questa portata dovesse scoppiare in un paese meno tranquillo e meno isolato della Repubblica Americana, in modo tale da far sentire inevitabilmente le proprie ripercussioni oltre le frontiere nazionali, per il tramite dei rapporti industriali e commerciali. È pur sempre possibile che un governo, la cui condotta s’ispiri al principio conservatore di tutelare la legge e l’ordine costituito, possa vedersi costretto dal proprio concetto di pace a far causa comune con i custodi dei diritti costituiti negli stati vicini, specialmente se gli analoghi interessi del proprio paese dovessero esser ritenuti minacciati dal corso degli eventi.

È probabile che per prima cosa i diritti consolidati di proprietà e di disposizione della proprietà; soprattutto degli investimenti, dovranno esser esaminati e riveduti non appena si arriverà ad un regime di pace definitiva. È indubbio che con questa revisione si cercherà di decurtare o di abrogare questi diritti allo stesso modo che gli analoghi diritti acquisiti ereditati dal feudalesimo e dalla monarchia dinastica sono stati riveduti e in gran parte decurtati o abrogati nei paesi democratici più progrediti. Quanto ai particolari di questa eventuale revisione dei diritti legali si può dire assai poco, ma l’analogia con la procedura mediante la quale quegli altri diritti acquisiti sono stati ridotti ad uno stato di docile impotenza lascia intendere che anche in questo caso il metodo da adottare si baserebbe sulla decurtazione, l’abrogazione e l’eliminazione. Anche in questo, come in altri movimenti analoghi di disuso e di eradicazione, si manifesterebbe senza dubbio da parte dei conservatori una grande preoccupazione rivolta a trovare adeguati sostituti per i metodi soppiantati, destinati a fare ciò che non è più desiderabile fare. Ma in questo caso come in altri simili la soluzione più adatta è, con ogni probabilità, quella del puro e semplice disuso e disconoscimento delle prerogative di classe. Considerato nel suo valore nominale, senza gli inevitabili pregiudizi derivanti dal passato, il problema di trovare un sostituto dell’attuale sfruttamento delle tecniche industriali per l’utile privato mediante il sabotaggio capitalistico non è del tutto esente dal sospetto di esser una presa in giro. Non bisogna però dimenticare che l’iniziativa privata, basata sulla proprietà privata, costituisce il metodo abituale e riconosciuto di gestire gli affari dell’industria. Agli occhi dell’uomo comune questo metodo ha la sanzione conferitagli dall’usanza immemorabile, mentre agli occhi delle classi mantenute è una questione di vita o di morte. Dunque una pace che rimuovesse tutti i dissensi internazionali potrebbe dare alla divisione delle classi un aspetto nuovo, imperniato sul contrasto fra coloro che difendono gli antichi diritti di sfruttamento e di dominio e coloro che non sono più disposti a sottomettersi. Ed è verosimile che la divergenza di opinioni su questi temi possa ripercuotersi in breve sul vecchio e familiare terreno delle ostilità internazionali, fomentate in parte allo scopo di sedare delle agitazioni civili nei paesi interessati e in parte dai popoli più arcaici o conservatori per salvaguardare le istituzioni della legge e dell’ordine tradizionale contro le incursioni degli iconoclasti. Coloro che propugnano la pace fra le nazioni e fanno piani per realizzarla

intendono prospettare un ritorno o una continuazione dello stato di cose precedente alla grande guerra, con l’aggiunta della pace e della sicurezza nazionale o con l’eliminazione del pericolo di guerra. Fra le conseguenze necessarie di questo avvento della pace e della sicurezza non è prevista nessuna notevole o seria innovazione. L’integrità e l’autonomia nazionale debbono esser salvaguardate secondo le linee tradizionali, e le divisioni e le discriminazioni nazionali vanno regolate, come in passato, con i consueti episodi di formalismo puntiglioso e di compensazione finanziaria. In campo internazionale dovrebbe spuntare un’èra di diplomazia senza ripensamenti, checché questo possa significare. Nella situazione presente ci sono molti elementi che depongono a favore di una soluzione di questo tipo, in particolare vista come stadio iniziale di quella tanto auspicata pace perpetua e astraendo da mutamenti e deviazioni che potrebbero verificarsi nel corso degli anni. L’esperienza della guerra nei paesi belligeranti e l’allarme che ha turbato le nazioni neutrali hanno visibilmente innalzato il tono della solidarietà patriottica in tutti questi paesi. E il patriottismo favorisce molto la conservazione degli usi e dei costumi tradizionali, o meglio è favorevole al potere costituito e alla politica del governo nazionale. Lo spirito patriottico non è uno spirito innovatore. Quindi, almeno in un primo tempo, ci dovrebbero esser buone probabilità che l’uso e il costume accettati, con le distinzioni tradizionali di classe e i diritti prescrittivi, possano esser conservati e consolidati. Presumendo quindi, come i fautori di questo patto di pace sono singolarmente disposti a credere, che l’èra di pace e di buona volontà che hanno in mente debba esser in carattere con gli anni più tranquilli del recente passato, anche se in meglio, per l’uomo comune e per lo studioso della civiltà umana diviene interessante sapere come si comporterà l’uomo della strada in questo regime di legge e di ordine – cioè la massa della popolazione la cui funzione è quella di fare ciò che va fatto e quindi, in fondo, di far avanzare la civiltà delle nazioni pacifiche. Non è forse fuori luogo ricordare tra parentesi come si dia per scontato che tutte le istituzioni governative sono necessariamente conservatrici in ogni loro rapporto con questo retaggio culturale, salva la misura in cui possono esser reazionarie. Il loro compito è stabilizzare le istituzioni arcaiche, in cui il grado di arcaismo varia a seconda dei casi. Previa la necessaria stabilizzazione e un’accorta amministrazione dell’ordine e della legge costituiti, l’uomo ordinario dovrebbe trovarsi ad

operare in condizioni e con risultati familiari; con la differenza però che mentre il costume giuridico e i precedenti legali restano immutati, è prevedibile che lo stadio delle tecniche industriali segua il proprio progresso nella stessa direzione di prima, mentre la popolazione aumenterà nel modo di sempre e la comunità degli azionisti continuerà l’abituale ricerca di guadagno concorrenziale e di spese competitive, con lo spirito ben noto e con dei mezzi complessivamente aumentati. Questi fattori non sono interessati dalla stabilizzazione della legge e dell’ordine costituiti; per il momento si assume che questi elementi non potranno turbare la legge e l’ordine costituiti. Questo presupposto potrà sembrare infondato agli studiosi della civiltà umana, ma è del tutto ovvio per gli uomini di stato. Gli esempi storici più vicini a questa serena epoca di pace potrebbero esser la pace romana, diciamo del tempo degli Antonini, e in un certo senso la pace britannica dell’età vittoriana. In entrambi i casi la legge e l’ordine subirono dei cambiamenti che però, in ultima analisi, non furono né di eccessiva portata né di carattere sovversivo. Nell’uno e nell’altro caso non sembra invero che la legge e l’ordine abbiano subito quei mutamenti che le alterate circostanze potevano giustificare. Agli occhi dell’uomo comune la pace romana si presenta come una pace per sottomissione, non troppo diversa da quella che il caso della Cina ha di recente presentato all’attenzione degli studiosi. La pace vittoriana, che può esser esaminata con maggiori dettagli, ebbe, per quel che riguarda le sorti dell’uomo comune, un carattere più mite. Essa prendeva le mosse da una situazione abbastanza acuta di stenti e di ingiustizie de facto e fu caratterizzata da numerosi cauti tentativi di migliorare la situazione delle masse diseredate, anche se bisogna riconoscere che questi cauti tentativi non furono mai al passo con il procedere delle circostanze. Non che queste prudenti misure di miglioramento fossero del tutto inefficaci, ma è evidente che non costituivano un correttivo efficace dei mutamenti che si andavano verificando. In effetti queste misure furono così sistematicamente tardive da lasciar sempre scoperto un margine di malcontento nei confronti della situazione corrente. È storicamente dimostrato che verso la fine di quell’epoca vasti strati della popolazione andavano assumendo un atteggiamento molto simile ad una rivolta contro quelle che consideravano condizioni intollerabili. Fu soprattutto la loro costante fedeltà alla nazione a mantenerli entro i limiti, cioè entro i limiti della legge; una fedeltà accresciuta notevolmente, com’era indispensabile, dal vivo timore di un’aggressione militare dall’esterno. Ora, si nutrono grandi speranze che grazie alla progettata pax orbis terrarum ogni

pericolo d’invasione sia scongiurato; e una volta allontanato questo timore dovrebbe venir meno anche il peso della fedeltà nazionale sulle decisioni della massa sottosviluppata. Se la pace britannica del diciannovesimo secolo va presa come un’indicazione significativa di ciò che ci si può aspettare da un regime di pace mondiale, fatte le debite e necessarie riserve, allora ci attende un’epoca di straordinaria prosperità commerciale, d’iniziative commerciali e d’investimenti su una scala mai sperimentata fino ad oggi. Questi sviluppi avranno le loro inevitabili ripercussioni sulla vita della società, e forse è possibile anticiparne qualcuna. Le circostanze che condizionano questa futura era di pace e di prosperità saranno per forza diverse da quelle che condizionarono la pace vittoriana, ed è possibile prefigurare con una certa attendibilità molti di questi punti di differenziazione. Per coloro che si interessano allo svolgimento degli eventi nel futuro avranno interesse soprattutto i fattori economici destinati a condizionare la civiltà di questo promesso avvenire. Il sistema di legge e di ordine che è alla base di tutte le nazioni moderne, sia nella condotta degli affari interni che nella politica nazionale, è nelle sue caratteristiche fondamentali il frutto dell’esperienza inglese (e francese) del diciottesimo secolo e anteriore, successivamente riveduta e modificata nel diciannovesimo secolo. Anche altri popoli, in particolare quello olandese, hanno contribuito all’evoluzione e allo sviluppo della concezione moderna dei princìpi istituzionali, ma il loro è stato un ruolo di secondo piano; quindi il sistema, nell’insieme, non sarebbe in ogni caso materialmente molto diverso da quello che è anche senza il contributo di questi altri popoli. Le nazioni arretrate, come la Germania, la Russia, la Spagna, ecc., hanno contribuito alla concezione moderna della vita civile soltanto con l’indugio e la mancanza di adattamento, qualunque sia il nostro debito, dal punto di vista della formulazione accademica, verso gli studiosi residenti in quei paesi. È questo sistema del diciannovesimo secolo che si propone di conservare nella nuova èra, e pare che i sostenitori responsabili del progettato nuovo ordinamento non prevedano alcun provvedimento riguardante questo modello di legge e di ordine se non quello di salvaguardarlo intatto sotto ogni aspetto. Una volta conseguita la progettata pace globale, gli interessi internazionali avranno necessariamente un peso secondario, perché cesseranno di rappresentare un fattore di precario equilibrio, con in gioco il pericolo di gravi sanzioni. Di conseguenza la diplomazia si ridurrà ad una finzione ancor più di

quanto non lo sia già oggi, qualcosa di simile ad un bluff fatto con fiches non riscuotibili. L’iniziativa commerciale, cioè gli affari, attrarrà un’attenzione più esclusiva e si svolgerà in condizioni di maggior sicurezza e nell’ambito di rapporti commerciali più vasti. È probabile che la popolazione del mondo pacifico continui ad aumentare come è accaduto nel recente passato; a questo proposito bisogna sottolineare che fino ad oggi non oltre la metà, e forse meno della metà delle risorse agricole disponibili è stata utilizzata dal mondo civile. Probabilmente lo stadio delle tecniche industriali, compresi i mezzi di trasporto e di comunicazione, continuerà a svilupparsi più o meno nella direzione di prima, posto che durino le condizioni pacifiche. La cosiddetta intelligenza popolare, o meglio l’istruzione popolare, dovrà forse sopportare un ulteriore passo avanti, necessario poiché ogni progresso efficace nelle tecniche industriali, ogni progresso tecnologico apprezzabile presuppone, come requisito della sua utilizzazione industriale, una maggiore informazione e competenza da parte degli operai dai quali deve esser messo in pratica. Tra i diritti prescrittivi conservati nella nuova era nell’ambito della legge e dell’ordine costituiti, solo i diritti di proprietà potranno aver un certo significato materiale nella routine della vita quotidiana. Tutti gli altri diritti personali, che un tempo sembravano determinanti, si ridurranno ai fini quotidiani a un fatto ovvio e semi-dimenticato. Come ora, ma in misura più accentuata, i diritti di proprietà coincideranno e si fonderanno in pratica con i diritti dell’investimento e della gestione degli affari. Il mercato, cioè il dominio del sistema dei prezzi in tutti gli aspetti della produzione e del sostentamento, acquisterà probabilmente in volume e in diffusione, cosicché praticamente tutti gli aspetti dell’industria ed i mezzi di sussistenza dipenderanno dai prezzi del mercato, in misura anche superiore a quanto si verifica oggi. Il progressivo estendersi e consolidarsi degli investimenti, della solidarietà azionaria e della gestione finanziaria seguirà le linee consuete, come è dimostrato dagli avvenimenti degli ultimi decenni. Di conseguenza le condizioni del mercato dovrebbero ricadere in misura sempre maggiore sotto il legittimo controllo discrezionale degli uomini d’affari o di sindacati di uomini d’affari in grado di disporre di grossi blocchi di capitali investiti, – il «grande capitale», come si suole definirlo, dovrebbe diventare ancor più grande ed esercitare un controllo sempre più arbitrario sulle condizioni del mercato, compreso il mercato monetario e quello del lavoro. Grazie ai prevedibili progressi nelle tecniche industriali, al possibile incremento dell’efficienza industriale che dovrebbe derivare da

un’organizzazione su scala più ampia., all’aumentata portata dei trasporti e delle comunicazioni e all’incremento della popolazione, grazie a questi crescenti vantaggi per l’industria produttiva la produzione pro capite e quella totale dovrebbero crescere in misura notevole e le condizioni di vita dovrebbero diventare molto più agevoli e più attraenti, o almeno più favorevoli all’efficienza e al comfort personale di tutti gli interessati. Questa è la prima, poco accurata deduzione che si potrebbe trarre dalle premesse generali della situazione; e proprio qualcosa del genere fluttua nella profetica visione dei sostenitori di una lega di nazioni per il mantenimento della pace mondiale. Queste premesse e le relative deduzioni possono acquistare maggior forza e portata, considerando anche alcune economie molto concrete che diventano possibili, e che dovrebbero far séguito, «in assenza di cause di disturbo», all’instaurazione di una pace generale. Naturalmente a ogni persona riflessiva verrà in mente che gli armamenti devono esser ridotti, forse al minimo, con la conseguente e corrispondente riduzione delle spese e della mano d’opera impiegata nel servizio militare. In questo modo, è facile continuare, si ridurrebbe di molto anche il costo della pubblica amministrazione, in particolare il costo per unità di servizi resi. Un simile apice di felicità potrebbe esser prospettato da persone speranzose, in assenza di cause di disturbo. Sotto il nuovo ordinamento il tenore di vita, cioè il livello di spesa, dovrebbe aumentare considerevolmente, almeno per le classi ricche e benestanti; e per la pressione delle esigenze imitatone un fenomeno simile si verificherebbe anche fra la massa indifferenziata. La questione del livello di vita minimo indispensabile per la sussistenza, o anche di un livello normale di comodità fisica, non si pone più, in particolare per le classi ricche e benestanti. Queste classi hanno da tempo accantonato il problema delle comodità materiali nei loro standard di vita accettati, data poi la continua ascesa di questi standard. Per le classi che si sogliono eufemisticamente definire «in circostanze economiche favorevoli» il problema è quello di un livello di spesa prestigiosa, da rispettare pena la perdita del rispetto di sé e della reputazione in genere. Come si è visto in precedenza, esigenze di questo tipo sono estensibili all’infinito. Cosicché è dubbio se la maggiore efficienza produttiva di cui s’è parlato riuscirà a render la vita più agevole, considerata la necessità di uno standard di spesa più alto, e pur tenendo conto delle numerose economie che il nuovo ordinamento dovrebbe render realizzabili. Una delle possibili conseguenze potrebbe esser un maggiore incentivo per

gli uomini ambiziosi a dedicarsi agli affari. Infatti, al contrario delle professioni industriali, soltanto dagli affari tutti possono sperar di ricavare l’alto reddito necessario ad un tenore di vita così costoso da esser fonte di grandi soddisfazioni per quanti aspirano ad una buona reputazione finanziaria. Quindi il numero degli uomini d’affari e delle imprese commerciali aumenterebbe fino al limite di saturazione, e la concorrenza fra le imprese rivali in soprannumero porterebbe le spese concorrenziali più o meno a questo stesso limite. Sotto questo aspetto la situazione non sarebbe gran che diversa da quella attuale, con la differenza però che il limite delle spese competitive sarebbe più alto di adesso, in corrispondenza del maggior margine disponibile di produzione che potrebbe esser riservato a questi fini. Inoltre le imprese concorrenziali sarebbero più numerose, o almeno la spesa globale per iniziative concorrenziali sa rebbe maggiore; salirebbero così, ad esempio, il costo della pubblicità, delle tecniche di vendita, delle contese strategiche e le spese per assicurarsi i sussidi e la connivenza legislativa o municipale e simili. È sempre possibile, malgrado possa sembrar poco probabile, che questi aspetti connessi con la maggior incidenza della concorrenza sull’attività commerciale arrivino a riassorbire tutta l’eccedenza, senza lasciare il minimo margine netto di produzione in più rispetto a quanto è disponibile nelle condizioni meno favorevoli dell’industria di oggi; specialmente quando alla maggior concorrenza nel commercio a fini di profitto si unisce una più forte incidenza delle spese competitive per ragioni di apparenza decorosa. Ciò vale per il commercio al dettaglio e per i settori dell’industria e dei pubblici servizi che sono assimilabili al commercio al dettaglio, nel senso che le tecniche di vendita e i loro costi li influenzano in modo notevole. Questo è un campo molto esteso, è vero, e che anzi sta diventando continuamente sempre più esteso con i cambiamenti recenti dei metodi abituali di vendita delle merci; tuttavia non rappresenta certo l’intero campo dell’industria, né un settore in cui gli affari sono esenti da ingerenze da parte di un superiore controllo esterno. Questo settore del commercio e dell’industria affine al commercio, particolarmente esteso, dispendioso e lucroso, nel quale gli uomini d’affari trattano più o meno direttamente con un gran numero di clienti, è sempre soggetto alle limitazioni imposte dalle condizioni del mercato. Queste ultime a loro volta sfuggono in una certa misura al controllo degli uomini d’affari suddetti, essendo in parte controllate da grosse società che stanno dietro le quinte, le quali per parte loro non sono precisamente libere; anzi non lo sono

molto di più delle loro cugine del commercio al dettaglio, dato che ogni azione è condizionata dal sistema dei prezzi che tutto domina e stringe tutti nella sua rete impersonale e inesorabile. Tra gli uomini d’affari si suol dire familiarmente che non ci si dedica agli affari per amor della salute, in altri termini che ci si dedica agli affari per amor del guadagno. Negli affari, il guadagno è il risultato della differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita, o fra le transazioni che portano allo stesso risultato. I guadagni sono valutati, accumulati e investiti in ter mini di prezzo. Per un’azienda commerciale è necessario raggiungere un favorevole bilancio in termini di prezzo, e più ampio è l’attivo, più successo avrà l’impresa commerciale. Questo attivo può esser raggiunto soltanto tenendo nel debito conto le condizioni del mercato, in modo che le transazioni commerciali non oltrepassino il limite in grado di assicurare un rapporto favorevole in termini di prezzo tra entrate e uscite. Come s’è già visto in precedenza, il sabotaggio costituisce l’arma prescrittiva e indispensabile nella direzione degli affari, e consiste appunto nel porre un limite all’offerta per ottenere un prezzo remunerativo. Il nuovo ordinamento aggiunge due nuovi elementi alla necessità affaristica di un abile sabotaggio, o meglio comporta un mutato coefficiente dei due fattori che già conosciamo nell’organizzazione degli affari: una maggior necessità di limitare il traffico commerciale per ottenere dei risultati profittevoli, e una più ampia disponibilità di mezzi e di modi per imporre le necessarie restrizioni. È dunque probabile che in un ipotetico sereno futuro di pace il progresso delle tecniche industriali continui a ritmo accelerato; il che con tutta probabilità dovrebbe influenzare le possibilità di aumentare la produzione dei beni di consumo, contribuendo di conseguenza a ridurre i prezzi delle merci. Da questo, a sua volta, consegue che un’industria produttiva, per esser remunerativa come affare, dovrà usare una continenza maggiore che nel passato per evitare che i prezzi scendano ad un livello non remunerativo. In pratica, il margine tra capacità produttiva e produzione effettiva consentita dovrà esser più ampio che in passato. Del resto, l’esperienza degli ultimi decenni insegna che una coalizione più imponente del capitale investito, che controlli una percentuale maggiore della produzione, può limitare più efficacemente l’offerta ad un massimo salutare tale da offrire profitti ragionevoli. Il nuovo ordinamento, che offre più ampie possibilità all’iniziativa commerciale, in condizioni di maggiore sicurezza, darà luogo a coalizioni più poderose che nel passato. Ci saranno quindi i mezzi opportuni

per far fronte adeguatamente all’urgente necessità di limitare più rigorosamente la produzione, anche se il progresso delle tecniche industriali aumenterà la capacità produttiva della comunità industriale. È da prevedersi, dunque, un ricorso così efficace al sabotaggio capitalistico da render praticamente nullo ogni eventuale vantaggio che la comunità potrebbe derivare dai continui miglioramenti tecnologici. Malgrado questa infausta combinazione di circostanze, non c’è da temere che il sabotaggio capitalistico, inteso a tutelare i prezzi e il tasso di utili, ottenga in pieno i risultati accennati, per lo meno non su queste semplici basi. Nello sviluppo della tecnologia moderna c’è un flusso continuo, su cui si può fare affidamento, di nuovi artifici ed espedienti miranti a sostituire i vecchi; questi, in misura maggiore o minore, riescono in effetti a trovare utile impiego, in modo tale da sostituire le attrezzature superate, da svalutarle sul mercato grazie alla propria maggiore economicità, e da renderle obsolete e soggette a ricapitalizzazione sulla base di una inferiore capacità di reddito. Questo flusso ininterrotto d’innovazioni, finché ha efficacia, cioè finché non gli si impedisce di esser efficace, contribuisce ad abbassare il costo effettivo dei prodotti per il consumatore. Si tratta di un effetto parziale e in qualche modo incerto, ma poiché ha un carattere persistente, sia pure di dimensione incerta, non potrà con il tempo non influenzare i risultati. Come si è appena visto, le grandi coalizioni di capitali investiti sono più idonee a conservare ed eventualmente ad aumentare i prezzi, più di quanto non lo siano le piccole coalizioni che operano singolarmente o anche in combutta. Questa situazione è stata ben dimostrata dal grande successo dei grossi organismi affaristici, negli ultimi decenni, sotto l’aspetto della capacità di ricavare alti profitti dai propri investimenti. Con il nuovo ordinamento, come si è già visto, è probabile che le coalizioni diventino più imponenti e raggiungano un maggior grado di efficienza a tal fine. I loro promotori e i teorici del vecchio sistema ad esse favorevoli tendono, di solito, ad attribuire gli ingenti guadagni delle grandi coalizioni azionarie ad economie di produzione, rese possibili dalla produzione su scala più vasta; spiegazione che è tendenziosa solo nei limiti dello stretto necessario. Un’indagine minuziosa sull’operato di queste coalizioni proverà che esse riescono a mantenere i prezzi ad un livello vantaggioso, anzi eccezionalmente vantaggioso, mediante un controllo della produzione così rigoroso che lo si potrebbe definire sabotaggio qualora fossero gli operai interessati ad usarlo, nel tentativo di difendere i propri salari. I risultati di questo abile sabotaggio

sono costituiti dai grandi profitti degli investimenti e dai forti utili che più di una volta ne ricavano i dirigenti responsabili. In genere, questa è l’origine delle grosse fortune. Nei casi in cui per un buon numero di anni non c’è stata alcuna ricapitalizzazione, sembra che i profitti annuali delle coalizioni siano arrivati a sfiorare il 50% del valore capitalizzato. Tuttavia di solito, quando i guadagni raggiungono cifre vertiginose, l’azienda viene ricapitalizzata in ragione della sua capacità di guadagno mediante l’emissione di un dividendo sui titoli, oppure reincorporandola in una nuova combinazione con un aumento di capitalizzazione, e simili. Teorici e pubblicisti hanno spesso considerato questo aumento di capitale come un incremento della ricchezza della comunità, ottenuto mediante il risparmio. Basterà tuttavia analizzare un caso qualunque oer dimostrare che l’aumento di valore del capitale rappresenta un metodo sempre più remunerativo per garantire un prezzo elevato, molto superiore al costo, mantenendo la produzione disponibile ad un livello inferiore alla capacità produttiva delle industrie interessate. In senso lato, e sempre rispettando i limiti di tolleranza del mercato, i guadagni in tal caso sono proporzionali allo scarto fra la capacità produttiva e la produzione o l’offerta controllata. In tal modo la capitalizzazione è più o meno proporzionale alla perdita materiale che questo tipo di sabotaggio causa alla comunità. Quindi, invece di una capitalizzazione di utili mezzi di produzione, più di una volta si avrà qualcosa di molto simile ad una capitalizzazione del sabotaggio patentato. Con il nuovo ordinamento di pace e di sicurezza globale è verosimile che questo tipo di capitalizzazione e d’iniziativa commerciale guadagni in portata e sicurezza di operazione. In verità, nella vasta gamma degli interessi umani, ci sono poche cose su cui sia possibile farsi un’opinione così attendibile in anticipo. Comunque, se i diritti di proprietà si manterranno intatti nella loro ampiezza e portata di fronte alla legge quali sono oggi, nelle nuove condizioni previste il controllo che l’impresa commerciale su vasta scala esercita ora sugli affari e sulle fortune della comunità diventerà più stretto e sarà usato in maniera ancor più incondizionata per l’utile privato. La logica conseguenza di tutto questo dovrebbe esser una tendenza accentuata a concentrare la ricchezza della nazione nelle mani di una classe relativamente ristretta di ricchi proprietari, con una classe media benestante non molto numerosa, in posizione di semi-dipendenza, e con la massa della popolazione ancor più diseredata di oggi. Allo stesso tempo sarà difficile

evitare che a questa massa del tutto dipendente e povera venga data un’istruzione migliore di quella odierna; ritorneremo più oltre sul problema delle eventuali difficoltà, quali malcontento e agitazioni, che potrebbero derivare da una situazione del genere. Nel frattempo, nell’esaminare la prospettiva di un futuro di pace alla luce del passato pacifico, bisognerà prender in considerazione alcune conseguenze, specialmente di ordine economico, che potranno derivarne. L’esperienza della pace vittoriana rappresenta un esempio così appropriato e significativo a questo proposito, che potrebbe sembrare un esperimento fatto ad hoc; con la riserva, però, che nell’età vittoriana la dimensione della vita economica era in fondo ridotta e il suo ritmo era fiacco, se paragonato a quello che dovrebbe offrire il ventesimo secolo in appropriate condizioni di pace e di sicurezza economica. Alla luce di questo altamente istruttivo e recente esempio, pare verosimile un aumento del numero delle famiglie benestanti in virtù di capitali investiti, che di conseguenza sono in grado di vivere d’introiti non guadagnati; rendite più ingenti e quindi un ceto più imponente e raffinato di gentiluomini, mantenuti e garantiti da spese più munifiche per oggetti superflui di quanto il mondo moderno abbia visto finora. Senza dubbio ne risulterebbe un aumento numerico dei gentiluomini e delle gentildonne, di una perfezione quale ci si potrebbe aspettare da queste possibilità senza precedenti di ricevere un’educazione raffinata. Al punto che perfino i loro britannici precursori sulle orme della rispettabilità sarebbero al confronto insignificanti, sia dal punto di vista delle qualità del gentiluomo che da quello del costo unitario. Certo, sarebbe preferibile soffermarsi sul valore morale, e specialmente su quello estetico di questa genia di gentiluomini, nonché sulla civiltà che essi porrebbero in evidenza, e sui vantaggi spirituali che potrebbero derivare all’umanità in genere dalla co stante contemplazione di questa meritoria rispettabilità esibita a un simile prezzo. Ma le prosaiche necessità della discussione ci riconducono alle conseguenze economiche e civili di quest’eventuale sviluppo, di questa virtuale biforcazione delle nazioni pacificate in un piccolo numero di gentiluomini, che possiedono la ricchezza della comunità e ne consumano la produzione netta perseguendo la raffinatezza, da una parte, e la massa diseredata della popolazione che svolge il lavoro della comunità con scarsi mezzi di sostentamento, che praticamente si riducono al minimo indispensabile per sopravvivere, dall’altra. Evidentemente quest’ipotetico

assetto potrebbe sembrare «foriero di gravi pericoli per il bene comune», come potrebbe dire un cittadino preoccupato per il pubblico bene. O, per dirla in parole meno eloquenti, sembra includere degli elementi che dovrebbero favorire un cambiamento. Al tempo stesso bisogna ricordare (e basta rifletterci un poco per concordare) che non è sostanzialmente possibile evitare un simile assetto delle cose sotto il promesso regime di pace e di sicurezza, qualora il sistema dei prezzi rimanga intatto e gli attuali diritti di proprietà si mantengano inviolati. Se ci fosse bisogno di un esempio illustrativo dei ben noti princìpi del guadagno competitivo e della spesa concorrenziale la ben nota storia della pace vittoriana è sufficiente a far tacere tutti i dubbi. Naturalmente, la risultante articolazione delle classi nella comunità non può ridursi a quelle semplici linee di netto contrasto che il nostro modello sembra indicare. Non ci si può aspettare che la classe dei gentiluomini, gli sperperatori legalmente riconosciuti – come bisognerebbe considerarli dal punto di vista economico – possa prendersi cura personalmente di un consumo così imponente di superfluità quale da essi sembrerebbe richiedere questa particolare situazione. Dovrebbero avere, come insegna la pace vittoriana, l’assistenza di un complesso ben addestrato di esperti nel consumo improduttivo, con al primo posto coloro che Adam Smith, con una simpatica definizione, designa come «servitori domestici». Al secondo posto verrebbero i fornitori di prodotti superflui propriamente detti, e la vasta, anzi ridondante classe dei commercianti di alto e basso rango – di fatto dipendenti, ma con un’illusione di semi-dipendenza; e subito dopo le classi legali e professionali del tipo degli amministratori, il cui compito sarà quello di amministrare le fonti di reddito, di ricevere, spartire e sborsare gli introiti così destinati ad estinguersi senza lasciar traccia. Ci sarebbe, in altre parole, una specie di «classe media piuttosto agiata», dipendente dai ricchi e dal loro modo di spendere il denaro, ma presumibilmente nutrita dell’illusione tipica della classe media vittoriana di contare qualche cosa di per sé. Con le necessarie formalità e sanzioni legali questa classe media, piuttosto numerosa, si darebbe ai traffici che sono sua prerogativa e continuerebbe a credere, in un certo qual senso, di costituire un elemento essenziale in via abbastanza immediata, anziché secondaria. Essa parrebbe in gran parte composta di persone di «mezzi indipendenti», o meglio continuerebbe a nutrir la speranza di dare una simile impressione, e di poterla in seguito confermare. Di conseguenza il suo interesse, immaginario e quindi sentimentale, starebbe dalla parte della legge e dell’ordine costituito, ed essa

rappresenterebbe un fattore di stabilità nella società, usando del proprio peso e della propria voce in difesa di quella proprietà privata e di quel tessuto di prezzi e di credito attraverso il quale il «flusso delle entrate» scorre fino ai possessori della preponderante ricchezza investita. Tenuto conto della situazione attuale e data per scontata l’accresciuta efficienza degli investimenti su larga scala e della gestione consolidata nelle possibili future condizioni di maggior sicurezza finanziaria, è probabile che la classe media dotata di «mezzi indipendenti» riesca a procurarsi un magro sostentamento, purché i suoi membri si dedichino fedelmente al compito di dirigere il traffico finanziario a vantaggio dei loro superiori in questo campo – un magro sostentamento, s’intende, quando si sia tenuto conto delle spese convenzionalmente alte devolute al rispetto delle apparenze decorose, che fanno parte obbligatoriamente del loro standard di vita. Considerata la natura di questo sistema d’investimenti e d’iniziative su vasta scala, i fattori (finanziariamente) secondari impegnati su un piano di apparente indipendenza otterranno soltanto quella percentuale dei guadagni globali della comunità che ai maggiori interessi commerciali conviene conceder loro come incentivo, perché continuino nella loro funzione di procuratori di traffici a favore degli interessi commerciali più grossi. La situazione attuale, e ancor più quella futura, di questa classe media semi-autonoma può esser agevolmente illustrata dal caso degli agricoltori americani, nel passato e nel presente. All’agricoltore americano piace esser definito «agricoltore indipendente»2. Un tempo egli era indipendente, sia pure ad un livello di vita magro e stentato, prima che il sistema dei prezzi attraesse lui e le sue opere nell’orbita del mercato. Ma questa è storia passata. Ora egli lavora per il mercato, di regola in cambio di ciò che viene definito «un salario di sussistenza», purché abbia dei «mezzi indipendenti» tali da permettergli, grazie ad un’applicazione assidua, di guadagnarselo. Naturalmente, poiché il mercato è controllato dietro le quinte dai supremi interessi degli investimenti, il suo lavoro in effetti torna a loro beneficio; eccetto per quel tanto che può sembrar necessario concedergli come incentivo per andare avanti. Ovviamente, anche i supremi interessi degli investimenti sono a loro volta controllati, in ogni loro manovra, dalle esigenze impersonali del sistema dei prezzi, il quale non ammette eccezioni alla norma che stabilisce che ogni traffico deve produrre un attivo di profitti in termini di prezzo. L’agricoltore indipendente continua a credere, in qualche suo modo misterioso, di esser tuttora libero nelle proprie decisioni; o meglio di poter con

astute manovre conservare o riconquistare in misura ragionevole quell’indipendenza che possedeva in quello che è ritenuto esser stato l’assetto generale degli affari nel periodo antecedente all’avvento della finanza azionaria; o almeno crede di dover ottenere, recuperare o rivendicare un certo grado d’indipendenza che dovrebbe poi, a sua volta, con l’ausilio dei «mezzi indipendenti» che egli ancora custodisce gelosamente, procurargli un sostentamento onesto e sicuro, come corrispettivo di un onesto anno di lavoro. Di recente egli, vale a dire l’agricoltore medio, ha cominciato ad accorgersi di partecipare al mercato in condizioni a suo avviso sfavorevoli. Cosicché ora sta iniziando un’azione concertata allo scopo, per così dire, di «manipolare il mercato» a proprio vantaggio. Così facendo egli sottovaluta la posizione inespugnabile occupata dall’altra par te, cioè dagli interessi dei grandi investimenti: in pratica sta facendo i conti senza l’oste. Fino a questo momento non si è convinto della propria impotenza, E con bella immaginazione crede ancora che i suoi interessi stiano dalla parte delle classi privilegiate e abbienti. Cosicché il collegio elettorale agricolo costituisce il principale caposaldo della legge e dell’ordine conservatore, in particolare per quel che riguarda i diritti inviolabili della proprietà, in qualunque circostanza che determini una divisione fra coloro che vivono d’investimenti e quelli che vivono di lavoro. Dal punto di vista finanziario l’agricoltore americano medio, che legalmente possiede una fattoria di proporzioni modeste e di tipo ordinario, appartiene alla classe degli individui che debbono lavorare per guadagnarsi quel sostentamento che gli interessi degli investimenti ritengono conveniente conceder loro, nei limiti consentiti dal mercato. Ma dal punto di vista del sentimento e della coscienza di classe, egli si aggrappa ad una superata posizione dalla parte di coloro che ricavano un profitto dal suo lavoro. Lo stesso dicasi dei servitori domestici e della classe media di «mezzi indipendenti», che tuttavia è in condizione di rimarcare meglio la propria dipendenza dai titolari della ricchezza predominante. Ed è probabile che, con un’ulteriore accentuazione dell’anomalia, tale sarà in futuro l’andamento di questi rapporti, sotto il promesso regime di pace e di sicurezza. È poco verosimile che la ben nutrita classe dei gentiluomini venga a trovarsi isolata, nell’eventualità di una divisione tra coloro che vivono di investimenti e coloro che vivono di lavoro, poiché è ragionevole attendersi che, in un futuro prevedibile, questa stessa notevole frangia di dipendenti e di pseudoindipendenti si uniformerà ai suoi princìpi ci vita onesta e giusta collaudati dal

tempo, nella buona e nella cattiva sorte, e rischierà senza riserve la propria fortuna insieme alla classe rispettabile alla quale il controllo del commercio e dell’industria mediante l’investimento assegna l’usufrutto delle forze produttive della comunità. Del possibile allevamento di gentiluomini di alto lignaggio, sotto il futuro regime di pace, abbiamo già detto qualcosa. Il lignaggio, per quel che ci concerne, è un attributo finanziario, frutto naturalmente della ricchezza investita da più o meno tempo. È possibile procurarsi un lignaggio virtualmente antico, spendendo abilmente il proprio denaro in vistose mondanità; cioè un lignaggio efficace ed adeguato per far da origine e da sfondo all’attuale raffinatezza di classe. I gentiluomini di lignaggio sincopato dovranno muoversi, certo, con qualche circospezione; ma il fatto che siano obbligati a comportarsi bene tende ad aumentare la loro effettiva utilizzabilità in quanto gentiluomini, poiché impone loro una determinazione ad apparire nobili assai superiore a quella che si richiede a coloro che sono già in una posizione di sicurezza. Se non per convenzione, non esiste alcuna differenza ereditaria tra i gentiluomini-tipo e, diciamo, i loro «servitori domestici», ovvero la massa della popolazione agricola e delle città industriali. Questo è un luogo comune ormai assodato fra gli studiosi di etnologia, che non ha però alcun rapporto, ovviamente, con le linee di discendenza convenzionalmente distinte delle «migliori famiglie». Queste migliori famiglie non sono assolutamente distinguibili dalla massa per caratteri ereditari, dato che la differenza che crea il gentiluomo e la gentildonna è una questione di assuefazione, che si produce nel corso della vita dell’individuo. In un certo senso è una sgradevole necessità dover richiamare l’attenzione sulla totale assenza di una differenza originaria fra chi nasce bene e l’uomo comune, ma è una necessità della nostra discussione, e quindi il richiamarla in argomento può esser per una volta perdonato. Non intendiamo arrecare alcun danno o fastidio. Il punto della questione è che, date le premesse della situazione, il ceto dei gentiluomini creato dall’accumulazione dei capitali investiti avrà un valore culturale effettivo non minore di quello che avrebbe se il suo lignaggio, virtualmente antico, fosse autentico. A questo proposito, ancora una volta, l’esperienza della pace vittoriana e il modo di operare dei suoi gentiluomini sono indicativi di quello che ci si può aspettare, da questo punto di vista, sotto il futuro regime di pace globale. Con la differenza, tuttavia, che la scala sarà più vasta e il ritmo più veloce, mentre

il volume e la dispersione di questa classe agiata saranno alquanto più considerevoli. L’opera di questa classe oziosa – e non v’è paradosso o incoerenza nell’espressione – dovrebbe rifarsi a modelli elaborati dai suoi prototipi dell’epoca vittoriana, ma con qualche notevole accentuazione delle principali caratteristiche della classe agiata in quell’epoca di tranquillità. A questo proposito, l’elemento tipico a cui l’attenzione si rivolge naturalmente è appunto la tranquillità che ha contrassegnato quel ceto di gentiluomini e il loro codice di vita limpida e onesta. Si potrebbe scegliere un’altra parola che non «tranquillità» per designare quella caratteristica disposizione d’animo, ma qualunque altra parola atta a definire adeguatamente la situazione evocherebbe in modo meno felice le virtù di quella classe superiore che ha rappresentato il valore sostanziale del gentiluomo vittoriano. Il consapevole valore di questi gentiluomini è stata una realizzazione splendidamente completa. È stata una realizzazione della «fede senza opere» naturalmente; ma, inutile dirlo, è ovviamente così che deve essere. La funzione dei gentiluomini nell’economia della natura è quella di consumare senza lasciar tracce la produzione netta della comunità e, così facendo, di stabilire uno standard della spesa decorosa affinché gli altri vi si avvicinino, nei limiti del possibile, nel tentativo di emularli. Non è facilmente concepibile che ciò possa farsi in un modo così discretamente efficiente, o con una convinzione più austeramente virtuosa di far del bene, di quanto abbiano fatto i gentiluomini della pace vittoriana» Parallelamente, è assai verosimile che la futura generazione di gentiluomini, frutto della produzione netta delle nazioni pacifiche sotto il promesso regime di pace globale, non si rivelerà affatto meno funzionale per gli stessi scopi. Da loro si esigerà di più, nel senso di un consumo senza residui di beni superflui e di un tenore di vita costoso al di là di ogni precedente. La situazione che li aspetta può esser considerata sia un’occasione più vantaggiosa che un compito più arduo. Un’esposizione teorica della funzione e del valore culturale della classe agiata nella vita moderna sarebbe fuori posto in questa sede, e del resto è già stata fatta abbastanza in dettaglio in altro luogoa. Per i nostri fini può esser sufficiente ricordare che i canoni del gusto e gli standard di valutazione elaborati e inculcati dalla vita della classe agiata si sono orientati, in ogni tempo e con ininterrotta coerenza, verso lo spreco finanziario e la futilità personale. Nella sua influenza economica, e in particolare nella sua influenza immediata sul benessere materiale della comunità in genere, la funzione di guida della classe agiata non può esser definita che con un epiteto spregiativo

come «funesta». Questo però non esaurisce la questione, e bisogna ascoltare anche l’altra campana. La vita di tranquillità della classe agiata, distaccata com’è dal tumulto da cui deriva materialmente il suo sostentamento, permette lo sviluppo di tutte quelle virtù che contrassegnano o fanno il gentiluomo; queste a loro volta influenzano per imitazione la vita della comunità sottostante in tutta la sua estensione, provocando la standardizzazione delle buone maniere quotidiane ad un livello presumibilmente più alto di urbanità e integrità di quel che ci si potrebbe aspettare in assenza di questo modello normativo. Integer vitae scelerisque purus3, il gentiluomo di sicuro rango guarda con placido distacco a tutte le minuscole vessazioni insite nel guadagnarsi il pane quotidiano, che non lo sfiorano neppure. Sereno e con impassibile forza d’animo, egli affronta quelle banali vicissitudini della vita che sono impotenti a fare o a disfare le sue fortune materiali e che non possono compromettere le sue comodità o gettar ombra sulla sua buona fama. Cosicché egli disbriga senza esitazioni e con correttezza tutte le quotidiane faccende del dare e dell’avere, poiché per lui esse non sono al massimo che episodi senza importanza, seppure gli stessi avvenimenti potrebbero rappresentare un disastro irrimediabile per i suoi equivalenti della classe non abbiente, per gli uomini comuni che devono compiere il lavoro della comunità. In breve egli è un gentiluomo nella migliore accezione del termine, inevitabilmente, in forza delle circostanze. Come tale, il suo esempio è d’incalcolabile importanza per la sottostante società di gente comune, in quanto mantiene davanti ai loro occhi un esempio obiettivo di costante forza d’animo e di visibile integrità, che non sarebbe potuta nascere se non dietro un simile riparo da tutte quelle perturbazioni che di regola sconvolgono l’abituale forza d’animo ed integrità. Non v’è dubbio che l’alto esempio dei gentiluomini vittoriani abbia molto contribuito a stabilizzare l’ani mo dell’uomo comune britannico su un piano d’integrità e di correttezza. Di quali altri e maggiori preconcetti abituali questi possa esser debitore, per imitazione competitiva, alla stessa nobile fonte, non è d’immediato interesse in questa sede. Ricordiamo ancora una volta che i canoni di vita per cui un uomo è un gentiluomo si riassumono nelle esigenze dello spreco finanziario e della futilità personale e che queste esigenze sono estensibili all’infinito; al tempo stesso la gestione dell’industria della comunità sulla base degli investimenti a scopo di profitto autorizza i proprietari dei capitali investiti a stornare a proprio uso personale la produzione netta della comunità, per soddisfare

appunto queste esigenze; quindi la comunità in genere, la quale provvede a fornire questa produzione, potrà disporne nei limiti imposti dalle necessità del loro tenore di vita, con un margine di errore variabile nel processo di adattamento. Questo margine di errore dovrebbe tendere a restringersi sempre di più man mano che la gestione affaristica dell’industria diventa più efficiente con l’esperienza; ma sarà anche continuamente disturbato, in senso opposto, dalle innovazioni di natura tecnologica che richiedono costanti riadattamenti. È probabile che non si arriverà ad eliminarlo del tutto, benché sia verosimile che, in condizioni di maggiore stabilità, esso tenda a diventare più ristretto. Non bisogna neppure dimenticare che il tenore di vita che abbiamo definito necessario accordare alla popolazione lavoratrice non coincide affatto con il «minimo di sussistenza fisica», da cui, anzi, si distacca sempre in misura apprezzabile. Il tenore di vita necessario per la comunità lavoratrice è infatti composto di due fattori distinti: il minimo di sussistenza e le esigenze di consumo, anzi di uno spreco decoroso – le «convenienze della vita». Questi elementi di rispettabilità non sono meno indispensabili delle necessità fisiche sotto il profilo dell’urgenza quotidiana, e la loro misura è stabilita dagli usi e costumi. Questo tenore di vita composito è in pratica un minimo, al di sotto del quale il consumo non può cadere, salvo che per un margine di errore fluttuante; il suo effetto, dal punto di vista del consumo necessario, è lo stesso che se si trattasse integralmente di un minimo di sussistenza fisica. Genericamente parlando, non dovrebbe rimanere proprio niente, una volta che siano soddisfatte le esigenze dello spreco nobiliare e dello standard quotidiano di consumo; da questo, a sua volta, consegue che quant’ altro viene compreso sotto la categoria generale di «cultura» troverà posto solo negli interstizi delle spese della classe agiata e solo da parte di membri aberranti della classe che ha ricevuto una buona educazione. Alla popolazione lavoratrice non dovrebbe rimanere alcun effettivo margine di tempo, di energia o di mezzi per altre finalità che non il lavoro quotidiano al servizio del sistema dei prezzi; cosicché gli individui aberranti di questa classe, che per inclinazione innata potrebbero esser propensi a perseguire ad esempio le scienze o le belle arti, non avrebbero (virtualmente) alcuna possibilità di farcela. Si tratterebbe in pratica di una soppressione delle doti innate della gente comune, ma non di una soppressione definitiva e completa. La situazione all’epoca della pace vittoriana può, ancora una volta, servire da esempio per illustrare la nostra tesi; sebbene sotto il controllo presumibilmente

più efficace che si eserciterà nel futuro di pace il margine dovrebbe ragionevolmente esser più ristretto, di modo che la virtuale soppressione del talento culturale fra gli uomini comuni dovrebbe avvicinarsi di più ad una soppressione totale. Quella stessa libera iniziativa che produce l’avanzamento della civiltà, come pure la maggior parte della sua conservazione, sarebbe ir. effetti possibile soltanto per membri eccentrici delle classi mantenute, pur dovendo anche qui lottare contro la pressione collaterale delle usanze convenzionali, che tende a scoraggiare qualunque sforzo che non sia visibilmente futile secondo un qualche canone di futilità comunemente accettato. Ora, sotto il futuro regime di perfetto funzionamento col sistema dei prezzi, i portabandiera della civiltà potranno esser tratti in pratica soltanto dalle classi mantenute, dai gentiluomini che soli disporranno di entrate così agevoli quali si richiedono per dedicarsi a delle attività che non hanno alcun valore economico. Numericamente i gentiluomini sono poi una frazione trascurabile della popolazione. La disponibilità di uomini adeguatamente dotati per rappresentare la cultura della società sarà di conseguenza limitata a quanti si potranno autoselezionare nell’àmbito di questa trascurabile percentuale della comunità nel suo complesso. Ricordiamo ancora una volta che sotto il profilo ereditario, e quindi sotto quello dell’idoneità innata a conservare e a far progredire la civiltà, non esiste differenza tra i gentiluomini e il popolo in genere; o almeno non v’è una differenza di natura tale da infirmare la proposizione ora enunciata. Una qualche leggera, ma in fondo insignificante differenza può esserci, ma semmai a sfavore dei gentiluomini come tutori del progresso civile. La nobiltà deriva dagli affari; i gentiluomini sono una filiazione degli uomini d’affari e quindi, ammettendo che la classe debba aver qualche carattere ereditario tipico, si tratterà semmai di quelli che caratterizzano tipicamente l’uomo d’affari di successo: astuto, accaparratore e senza scrupoli. Per una o due generazioni, forse fino alla terza o quarta generazione biblica, è possibile che una certa diluita rapacità ed astuzia continui a contraddistinguere i discendenti bennati dell’uomo d’affari; ma questi non sono tratti utili per la conservazione e il progresso del patrimonio culturale della comunità. Di conseguenza a questo proposito non è necessario contemplare alcuna particolare idoneità ereditaria delle classi bennate. Quanto alla limitazione imposta dal sistema dei prezzi alla disponibilità di candidati adatti per doti innate all’umano lavoro della civiltà, sarebbe senza

dubbio proporre una cifra eccezionalmente alta il dire che i gentiluomini propriamente detti costituiscono il dieci per cento della popolazione; anche meno della metà di questa percentuale sarebbe una grossolana sopravalutazione, ma possiamo adoperarla al fine di tener conto di tutte le frange e dei casi incerti. Se ammettiamo il dieci per cento come cifra approssimativa ne consegue che gli scienziati, gli artisti e gli studiosi della comunità, come pure tutti gli altri individui dediti alle quotidiane attività dello spirito umano, devono essere, per restrizione convenzionale, attinti da un decimo della disponibilità corrente di persone portate per doti naturali verso questo genere di attività. O in altri termini, ove il progettato sistema dovesse attuarsi, ne risulterebbe la soppressione di nove (o più) persone su dieci adatte ad un lavoro costruttivo della civiltà. Le conseguenze culturali prevedibili, quindi, dovrebbero esser marcatamente conservatrici. Naturalmente nella realtà il ritardo o la repressione della civiltà con questi mezzi, come si possono calcolare su queste pre messe, dovrebbero ragionevolmente ammontare a qualcosa di notevolmente superiore ai nove decimi dei progressi presumibilmente ottenibili, in assenza del sistema dei prezzi e del regime degli investimenti. Ogni opera di questo tipo ha carattere di lavoro di gruppo; di modo che gli sforzi di individui isolati contano assai poco, e pochi individui che lavorino più o meno in accordo e collaborazione reciproca conteranno proporzionalmente assai meno di un gran numero che lavorino di concerto. Gli sforzi degli individui impegnati contano cumulativamente, di modo che il raddoppio delle loro forze produrrà più del doppio della loro efficienza complessiva; e viceversa la riduzione del loro numero ridurrà l’efficacia del loro lavoro in misura superiore alla semplice proporzione numerica. Possiamo dire anzi che un’eccessiva riduzione numerica, in questo caso, può portare alla totale paralisi dei pochi rimasti, e i migliori sforzi del sempre più debole residuo possono esser del tutto futili. È necessario un senso di comunità e di solidarietà, senza il quale la sicurezza necessaria al lavoro è destinata a vacillare e a svanire. Vi è anche necessità di un certo grado d’incoraggiamento popolare, che non può esser ottenuto da individui isolati, impegnati nella ricerca non convenzionale di cose che non possono esser classificate né come spreco ai fini della rispettabilità, né come beni di consumo. In questo senso un individuo isolato non conta per uno, mentre superando il punto critico minimo il valore del singolo risulterà moltiplicato. Si tratta di un caso in cui la «dose minima» è del tutto inoperante.

Vi sono non pochi motivi di credere che, in conseguenza dell’instaurazione del futuro regime di pace globale e d’investimenti sicuri, il punto critico nella repressione del talento sarà rapidamente raggiunto e superato, in modo che il principio della «dose minima» troverà la sua applicazione. Questo punto può esser illustrato facilmente dal caso di molte città e località inglesi ed americane nel corso degli ultimi decenni, dove la supremazia del sistema dei prezzi con i suoi standard commerciali di verità e bellezza ha sopraffatto qualsiasi inclinazione verso la salute culturale, mettendola definitivamente fuori corso. Il residuo culturale, o meglio convenzionale, che resta in quei casi in cui la civiltà si è inaridita per l’inefficacia della dose minima non è tale che gli si possa muovere rimprovero. Convenzionalmente è irreprensibile, né abbiamo intenzione qui d’infierire su una simile desolazione. Effetti simili di simili cause si riscontrano nei colleges e nelle università americane4, dove i princìpi affaristici hanno soppiantato la ricerca del sapere e dove la commercializzazione delle finalità, degli ideali, dei gusti, delle occupazioni e dei docenti sta seguendo più o meno le stesse direttrici che hanno spinto tante delle cittadine di provincia praticamente fuori dell’àmbito della cultura. Il college o l’università americana sta diventando una specie di emanazione del sistema dei prezzi quanto a finalità, a standards e a personale docente; fino ad oggi la tradizione del sapere come tratto di civiltà, in quanto distinto dagli affari, non è stata completamente spodestata, benché adesso stia per affrontare la fase della dose minima. Altrettanto sembra valere in una certa misura, negli ultimi tempi, per molte scuole inglesi, e con ancor maggiore evidenza per molte scuole tedesche. In questi vari esempi di quello che si potrebbe definire carie del legno o disseccamento locale della cultura del mondo civile, pare che il declino non si debba ad una vera e propria infezione di tipo maligno, ma piuttosto ad un venir meno del fermento culturale attivo, che è caduto al di sotto del punto critico di efficacia. Ciò può esser avvenuto forse mediante un involontario rifiuto dei mezzi di sussistenza alle persone adatte a coltivare gli elementi della civiltà, o forse rinnegando convenzionalmente il perseguimento di qualunque altro fine che non il guadagno competitivo e la spesa concorrenziale. Evidentemente, nel caso del futuro regime di pace bisognerà aspettarsi qualche cosa di assai più completo in questo senso, sempre nel caso che il sistema dei prezzi acquisti quell’ulteriore impeto e sicurezza che dovrebbe conseguire, qualora i diritti di proprietà e d’investimento rimanessero intatti, e venissero così a godere del beneficio di un ulteriore

progresso delle tecniche industriali, di una scala di operazioni più ampia e di un ritmo accelerato di produzione. E torniamo ora al punto dal quale è partito il nostro excursus. Finora abbiamo dato per scontato che l’attrezzatura tecnologica, o lo stadio delle tecniche industriali, debbano continuare a progredire nelle condizioni offerte dal regime di pace globale. Ma gli ultimi paragrafi suggeriranno senza dubbio che una dedizione così univoca al profitto e alle spese competitive, quale lo stabilizzato ed ampliato sistema dei prezzi comporta, deve condurre ad un effettivo ritardo e forse a un declino di quelle scienze della materia a cui attinge la tecnologia moderna; quindi lo stadio delle tecniche industriali dovrebbe cessar di progredire, solo che il sistema degli investimenti e del sabotaggio affaristico possa esser reso abbastanza sicuro. Che questo possa esser il risultato è una contingenza che la discussione dovrà affrontare e tener presente; ma in ultima analisi è una contingenza che non sconvolgerà necessariamente la successione degli eventi, se non nel senso di ritardarli. Anche senza un ulteriore progresso negli espedienti tecnologici o nelle scienze della materia più importanti si verificherà ugualmente un effettivo progresso delle tecniche industriali, nel senso che la migliore organizzazione e l’ampliamento dell’attrezzatura materiale e dei processi industriali secondo metodi già ben noti e impossibili da dimenticare apporteranno senza dubbio un effettivo aumento d’efficienza al processo industriale nel suo insieme. Tanto per fare un esempio, non si può neppur lontanamente dubitare che il sistema dei trasporti e delle comunicazioni non subirà estensioni e miglioramenti secondo i criteri già noti, anche in assenza di nuovi espedienti tecnologici. Allo stesso tempo si può contare su un continuo aumento della popolazione, che rispetto alle finalità di cui parliamo ha più o meno lo stesso effetto di un progresso delle tecniche industriali. I contatti umani e la comprensione reciproca diventeranno più vasti e stretti e non mancheranno di aver il loro effetto sulle abitudini di pensiero dominanti nelle società che dovranno vivere sotto il promesso regime di pace. Il sistema dei trasporti e delle comunicazioni, dovendo sbrigare un traffico più voluminoso ed impegnativo al servizio di una popolazione più numerosa e compatta, dovrà esser organizzato e amministrato secondo tabelle meccaniche di tempo, luogo, volume, velocità e prezzo con un’accuratezza ancor più impegnativa di oggi. Lo stesso varrà per tutte le occupazioni industriali che impiegano impianti o processi estensivi o che si articolano con processi industriali di questo ge nere, che quindi includeranno una percentuale di processi industriali superiore al

livello odierno. Come abbiamo già notato più di una volta nel corso della discussione, una popolazione che vive e svolge il suo lavoro, prendendosi gli svaghi che le vengono concessi, nell’ambito e per mezzo di un sistema meccanico così impegnativo e articolato, dovrà esser necessariamente una popolazione «intelligente», nel senso colloquiale della parola; cioè sarà necessariamente una popolazione capace di servirsi con disinvoltura della carta stampata e provvista di una certa familiarità con gli elementi delle scienze della materia che fanno da sostrato a questo sistema di attrezzature e di processi, strutturato su base meccanica. Una popolazione simile vive per mezzo e nell’ambito della logica meccanicistica, ed è destinata a perder fede in qualunque proposizione che non possa esser esposta in modo convincente nei termini di questa logica meccanicistica. In una società simile le superstizioni hanno ogni probabilità di decadere per trascuratezza o per disuso; cioè le proposizioni di carattere non meccanicistico sono destinate ad esser in questo caso messe a poco a poco fuori corso; e «superstizione» in questo contesto vale a significare qualunque cosa che non abbia quel carattere meccanicistico o «materialistico»; un’eccezione a questa generale definizione delle proposizioni non meccanicistiche come «superstizioni» va fatta per ciò che è un portato immediato dei sensi o della sensibilità estetica. Per analogia si potrebbe dire che ciò che rientra nella categoria generale della «superstizione» è, in questo caso, soggetto a decadenza per inedia. Non è difficile immaginare l’andamento generale di questa decadenza, sotto il tirocinio incessante delle abitudini meccanicistiche di vita. Il recente passato offre un esempio illuminante della decadenza progressiva e dell’indifferenza che ha colpito le credenze religiose nei paesi più civilizzati, specialmente tra gli operai delle industrie meccaniche intellettualmente preparati. L’eliminazione delle proposizioni non meccanicistiche della fede è andata visibilmente avanti, sia pure con risultati non uniformi e senza interessare un complesso di persone molto numeroso e compatto in modo conforme o improvviso, dato che per sua natura è un processo di obsolescenza e non un vero e proprio ripudio. Ma, sia pure in modo fiacco e inconsapevole, il processo di liberazione è andato avanti in modo tale che ormai gli effetti complessivi sono inconfondibili. È verosimile attendersi un’analoga liberazione dalle superstizioni in quella sfera dei preconcetti che sta tra il soprannaturale e il meccanicistico. Principale tra questi preconcetti alterati dal tempo, o superstizioni, che

sopravvivono da un passato diverso tra i popoli democratici, è l’istituzione della proprietà. Come è vero per i preconcetti relativi alle verità soprannaturali, anche in questo caso l’elemento di uso e costume non ammette una formulazione in termini meccanicistici, e non è coerente con la logica meccanicistica che sta orientando ogni giorno di più nella propria direzione le abitudini mentali dell’uomo comune. Esiste naturalmente la differenza che mentre nessuna classe – tranne i servitori della chiesa – ha un interesse materiale a mantenere integri gli articoli della fede soprannaturale, esiste invece un forte e caparbio interesse materiale strettamente legato al mantenimento di quest’articolo della fede finanziaria; e la classe titolare di questo interesse materiale è altresì investita dei poteri coercitivi della legge. La legge, ed i preconcetti popolari che le conferiscono la sua forza vincolante, contribuiscono a sorreggere le usanze e le prerogative costituite su questa materia; e di conseguenza lo sradicamento dei diritti di proprietà e d’investimento non è una semplice questione di obsolescenza per negligenza. Si può contare con sicurezza sul fatto che tutto l’apparato coercitivo della legge e tutti i rappresentanti della legge e dell’ordine verrebbero mobilitati per sostenere gli antichi diritti di proprietà, qualunque mossa venisse fatta per sconfessarli o limitarli. Ma d’altro canto il movimento per sconfessare o diminuire le prerogative della proprietà non potrà prender la forma innocua della negligenza spontanea. Non appena, o meglio nella misura in cui l’uomo medio arriverà a rendersi conto che questi diritti di proprietà e d’investimento operano uniformemente a suo detrimento materiale, avendo al medesimo tempo perduto ogni «volontà di credere» in qualsiasi ragionamento che non si articoli nei termini della logica meccanicistica, è ragionevole attendersi che egli prenderà posizione su questo problema; ed è più che probabile che la posizione presa non sarà tale da ammetter compromessi – presumibilmente qualcosa di simile alla posizione presa un tempo dai recalcitranti inglesi, come protesta contro l’irresponsabile governo del sovrano Stuart È altrettanto probabile che i beneficiari di questi diritti di proprietà non cederanno il terreno in modo amichevole, tanto più che sono patentemente nel loro autentico diritto quando insistono nell’esigere la piena discrezionalità nel disporre di quanto possiedono; proprio come Carlo I o Giacomo II5 erano allora nel loro pieno diritto normativo, – anche se questo servì ben poco a modificare il risultato finale. Anche prescindendo dal «tempo immemorabile» e dalla patente autenticità dell’istituzione, c’erano e ci sono molti argomenti convincenti da

allegare in favore della posizione per cui si batterono i sovrani Stuart e i loro sostenitori. Analogamente vi saranno molte, e forse più convincenti ragioni per mantenere la legge e l’ordine costituiti in materia di diritti di proprietà e d’investimento. Non la meno urgente né la meno reale tra queste ragioni è l’imbarazzante problema di che cosa mettere al posto di questi diritti e dei sistemi di controllo su di essi fondati, problema assai simile a quello che metteva in imbarazzo gli uomini preoccupati del pubblico bene all’epoca degli Stuart. Tutto questo induce a concludere che bisognerà attendersi il sorgere di una congiuntura carica di perplessità e di complicazioni, insieme ad una divisione d’interessi e di rivendicazioni. A ciò bisogna aggiungere che la divisione con tutta probabilità raggiungerà il colmo non appena l’equilibrio delle forze tra le due parti contendenti dovesse divenire incerto, inducendo una delle parti a far affidamento solo sui propri sforzi per il successo dei propri scopi. E come accade quando due parti antagoniste sono ciascuna convinta della giustizia della propria causa, e in assenza di un arbitro, la logica soluzione è la sorte delle armi. Accogliendo le premesse non ci dovrebbe esser, a lume di ragione, alcun dubbio circa la frattura finale tra quelli che hanno e quelli che non hanno, e di queste premesse l’unica che non sia ancora un fatto compiuto è l’instaurazione di una pace globale. Tutti gli altri elementi del ragionamento sono rappresentati dal ben noto stadio moderno delle tecniche industriali e dal l’altrettanto noto sistema dei prezzi, che combinati insieme conferiscono all’impresa finanziaria moderna il suo carattere. Si tratta solo di un esempio di proporzioni insolitamente vaste di assetto istituzionale che con il tempo e il mutare delle condizioni è venuto a contrasto con quel sostrato degli assetti istituzionali che prende forma nel consueto aforisma: vivi e lascia vivere. Poiché i cambiamenti si orientano nella direzione ben nota oggi a tutti gli uomini, è solo questione di poco tempo il momento in cui il contrasto raggiungerà il punto critico, e si può far affidamento sul fatto che la pace accelererà l’andamento delle cose in questo senso. Che si cercherà di arrivare ad una decisione ricorrendo a delle misure violente, non è da metter in dubbio; infatti la legge e l’ordine costituiti prevedono il ricorso alla repressione per imporre il rispetto di questi diritti normativi, e tanto più che entrambe le parti interessate, in questo come in altri casi, sono persuase della giustizia delle loro pretese. Una decisione è comunque un’intollerabile iniquità agli occhi della parte perdente. La storia insegna che, in questo tipo di contese, si è sempre fatto ricorso alla forza.

La storia insegna altresì, ma con un’inflessione di dubbio, che le istituzioni superate in simili congiunture vanno incontro alla soppressione; almeno, così gli uomini amano credere. Quello che l’esperienza della storia non lascia in dubbio è il grave danno, il disagio e la vergogna insiti nel rimuovere questo contrasto istituzionale ricorrendo alla forza. Ciò che inoltre, date le premesse, sembra chiaro o almeno sembra una valida ipotesi è che, nel caso attuale, la decisione o la scelta sta tra due alternative: il sistema dei prezzi e l’impresa finanziaria sua alleata cederanno e saranno superati; oppure le nazioni pacifiche conserveranno il loro sistema finanziario di legge e ordine, a costo di ritornare su un piede di guerra e di lasciar che i proprietari tutelino i diritti di proprietà con la forza delle armi. Questa riflessione suggerisce ovviamente di per sé che una tale prospettiva delle possibili conseguenze dell’instaurazione di una pace generale dovrebbe esser tenuta ben presente anticipatamente da coloro che si propongono di operare per una pace duratura. Dallo svolgimento della discussione è scaturito che la conservazione della legge e dell’ordine attuali, in materia finan ziaria, con tutti i loro corollari di proprietà e d’investimento, non è compatibile con uno stato di pace e di sicurezza alieno dalla guerra. Il sistema corrente d’investimenti, di affarismo e di sabotaggio avrebbe assai migliori possibilità di sopravvivere, a lungo andare, se le attuali condizioni di preparazione bellica e d’insicurezza nazionale fossero mantenute o se la progettata pace fosse lasciata in una posizione alquanto problematica, abbastanza precaria da tenere all’erta le animosità nazionali e quindi da far trascurare gli interessi interni, specialmente quelli che riguardano il benessere del popolo. D’altro canto, è risultato anche che la causa della pace e della sua conservazione potrebbe esser materialmente avvantaggiata prendendo in anticipo delle precauzioni per togliere di mezzo, nei limiti del possibile, le divergenze d’interessi e di sentimenti tra le nazioni e tra le classi, che portano alla discordia e infine alle ostilità. Quindi, se i promotori di questa pace generale sono in qualche misura disposti a cercare delle possibili concessioni in base alle quali si potrebbe render duratura la pace, dovrebbe far parte dei loro sforzi fin dall’inizio il metter in moto gli eventi in modo tale da ridurre in breve e in seguito abrogare i diritti di proprietà e il sistema dei prezzi, nel cui àmbito questi diritti esercitano la loro azione. Un buon inizio in questo senso sarebbe, chiaramente, la neutralizzazione di tutti i diritti economici connessi con la cittadinanza, come abbiamo spiegato in un passo precedente. D’altro canto, se

la pace non è desiderata fino al punto di abbandonare il sistema dei profitti e delle spese competitive, i promotori della pace dovrebbero osservare le debite precauzioni e muoversi in direzione di un assetto pacifico solo nei limiti di un equilibrio sufficientemente precario di reciproche gelosie, che si possa rompere con sollecitudine non appena lo scontento nei confronti degli affari finanziari dovesse arrivare a minacciare il sistema costituito delle prerogative finanziarie. 1. Con la legge Adamson del 1916, che introdusse la giornata di otto ore per il personale ferroviario su ispirazione dell’amministrazione Wilson. 2. Sullo stesso tema, vedi il saggio The Independent Farmer, apparso su «Freeman» del 13 giugno 1923. a. Cfr. La teoria della classe agiata, particolarmente i capp. V-IX e XIV. 3. ORAZIO, Odi, I, XXII, 1. 4. Sullo stesso tema, Veblen avrebbe pubblicato nel 1918 The Higher Learning in America, a Memorandum on the Conduci of Universities by Business Men. 5. Carlo I (re d’Inghiberra dal 1625 al 1649) e Giacomo II (1685-1688), ambedue della dinastia Stuart, furono i massimi esponenti del dispotismo monarchico nella lotta contro l’allargamento dei poteri del Parlamento. Il primo fu deposto e decapitato, il secondo costretto all’esilio.

GLI INGEGNERI E IL SISTEMA DEI PREZZI

CAPITOLO I. SULLA NATURA E LE FUNZIONI DEL SABOTAGGIO1 «Sabotaggio» deriva da «sabot», termine francese che indica uno zoccolo di legno. Esso significa una lenta andatura, con movimenti strascicati e goffi, quali può prevedibilmente permettere quel tipo di calzatura. Perciò ha finito per indicare ogni manovra di rallentamento, d’inefficienza, d’incapacità, di ostacolo. Nell’uso americano il termine è impiegato molto spesso per indicare l’ostruzionismo a viva forza, le tattiche distruttive, l’intimidazione nell’industria, gli atti incendiari e l’uso di esplosivi, sebbene questo non sia evidentemente il suo significato primo o usuale; né tale è nell’uso che fanno del termine coloro che hanno propugnato il ricorso al sabotaggio come mezzo per risolvere con la forza una controversia relativa ai salari o alle condizioni di lavoro. Il significato normale del termine è meglio definito da un’espressione che di recente è entrata nell’uso tra gli I.W.W.2, la «coscienziosa soppressione dell’efficienza» – sebbene questa frase non esprima tutto ciò che a rigore va fatto rientrare nel termine tecnico. Il significato sinistro spesso annesso alla parola nell’uso americano, denotante violenza e disordine, sembra dovuto al fatto che tale uso è stato introdotto soprattutto da persone e da giornali che miravano a gettar discredito sull’impiego del sabotaggio da parte dei lavoratori organizzati, e che quindi ponevano l’accento sulle sue manifestazioni meno gradevoli. È una circostanza infelice, che diminuisce l’utilità della parola, rendendola uno strumento di denuncia anziché di comprensione. Senza dubbio l’ostruzionismo violento ha avuto la sua parte nella strategia sabotatoria perseguita dai lavoratori malcontenti, come pure nell’analoga tattica delle aziende rivali. Esso entra nel quadro come uno dei metodi di sabotaggio, tutt’altro che il più comune o efficace; ma è un metodo tanto spettacolare e sensazionale da attrarre su di sé un’eccessiva attenzione. Eppure questa violenza intenzionale costituisce senza dubbio un fattore relativamente secondario del problema, in confronto con le intenzionali finte malattie, la confusione e l’errato indirizzo del lavoro che formano la massa di quello che gli esperti praticanti riconoscerebbero come sabotaggio legittimo.

La parola fu usata inizialmente tra i lavoratori francesi organizzati, membri di taluni syndicats, per descrivere la loro tattica di resistenza passiva, e continua ad esser collegata con la strategia di tali lavoratori francesi, noti come sindacalisti, e dei loro colleghi di analoghe convinzioni in altri paesi. Ma la tattica di questi sindacalisti e il loro uso del sabotaggio non differiscono se non nei dettagli dalla tattica usata altrove dai lavoratori, o da quella analoga consistente in attriti, ostruzionismi e ritardi, impiegata di solito volta a volta sia dai datori di lavoro che dai lavoratori per imporre la propria posizione nelle controversie relative ai salari e ai prezzi. Perciò durante il quarto di secolo trascorso la parola ha assunto nel linguaggio comune, com’era inevitabile, un significato generico ampliato fino a comprendere tutte le manovre, pacifiche o clandestine, di ritardo, ostruzionismo, attrito ed elusione impiegate sia dai lavoratori per imporre le proprie rivendicazioni, sia dai datori di lavoro per piegare i loro dipendenti, sia dalle aziende in concorrenza per aver la meglio sui loro rivali in affari o per garantire il proprio vantaggio. Tali manovre di restrizione, ritardo e impedimento hanno larga parte nella normale condotta degli affari; ma solo di recente si è ammesso che questo normale metodo della strategia affaristica ha sostanzialmente lo stesso carattere dell’ordinaria tattica dei sindacalisti. In effetti non si usava, fino agli ultimi anni, parlare in termini di sabotaggio di manovre del genere, quando erano impiegate dai datori di lavoro e dalle loro aziende. Ma tutta questa strategia di ritardi, restrizioni, impedimenti ed elusioni ha ovviamente identico carattere, e quindi dovrebbe opportunamente esser definita con lo stesso termine, sia se perseguita dagli uomini di affari che dai lavoratori; così che oggi non è raro trovare operai che parlano di «sabotaggio capitalista» con la stessa libertà con cui i datori di lavoro e i giornali parlano di sabotaggio sindacale. Così com’è oggi usata, correttamente, la parola definisce un certo sistema di strategia o di direzione industriale, impiegato dall’uno o dall’altro; cioè il ricorso a restrizioni, ritardi, astensioni o ostruzionismi pacifici o clandestini. Il sabotaggio opera nell’àmbito della legge, anche se spesso più secondo la lettera che non lo spirito di essa; è usato per impadronirsi di un qualche speciale vantaggio o privilegio, per lo più di tipo affaristico. Di solito è connesso con una qualche sorta di diritto acquisito, che questa o quella parte in causa mira a ottenere o a difendere, oppure a nullificare o sminuire; un qualche diritto preferenziale o speciale vantaggio rispetto al reddito o alle prerogative, qualcosa del tipo di un interesse costituito. I lavoratori hanno

fatto ricorso a tali misure per ottenere migliori condizioni di lavoro, o aumenti di salari, o riduzioni d’orario, o per mantenere i loro livelli abituali, verso ognuno dei quali accampavano una sorta di diritto acquisito. Qualsiasi sciopero ha ovviamente carattere sabotatorio; anzi, esso è una specie tipica di sabotaggio. Il fatto che gli scioperi non siano stati definiti come sabotaggio lo si deve alla circostanza accidentale che essi erano in uso prima dell’introduzione di tale parola. Così pure, naturalmente, la serrata è un’altra specie tipica di sabotaggio. Il fatto poi che la serrata sia impiegata dai datori di lavoro contro i lavoratori non modifica la realtà per cui essa è un mezzo per difendere il possesso di un diritto acquisito mediante il ritardo, l’astensione, l’ostacolo e l’elusione del lavoro da compiere. Le serrate non sono di solito definite sabotaggio, per la stessa ragione che vale nel caso degli scioperi; tuttavia si è ammesso che scioperi e serrate abbiano carattere identico. Tutto ciò non implica che vi sia alcunché di disonorante o d’immorale in quest’uso abituale degli scioperi e delle serrate. Essi fanno parte necessariamente delle normali relazioni industriali nell’àmbito del sistema esistente; finché il sistema rimane immutato, tali misure ne rappresentano una componente necessaria e legittima. In virtù del suo diritto di proprietà, il padrone-datore di lavoro è titolare del diritto di far quel che gli pare con le sue proprietà, di negoziare o meno con ogni persona che faccia un’offerta, di tener lontane o di ritirare in tutto o in parte dall’impiego attivo al momento presente le sue attrezzature industriali e risorse naturali, di far funzionare a orari dimezzati o di chiudere la sua fabbrica e di lasciar fuori tutte le persone di cui non ha bisogno sul momento nelle sue proprietà. Non vi è dubbio sul fatto che la serrata sia una manovra del tutto legittima. Può perfino esser lodevole, e spesso è considerata tale, quando il suo impiego contribuisce a mantenere una situazione favorevole nel mondo degli affari – vale a dire una situazione di elevati profitti – come sovente accade. Tale è l’opinione dei cittadini più agiati. Così pure è legittimo lo sciopero, nei limiti in cui si mantiene nell’àmbito della legge; e talvolta può anche esser lodevole, almeno dal punto di vista degli scioperanti. Bisogna ammettere che, in senso assai lato, ambedue queste specie tipiche di sabotaggio sono del tutto eque e oneste in linea di principio, anche se non ne consegue che ogni sciopero o serrata sia necessariamente equo e onesto nel suo svolgimento. Quest’ultimo è in certa misura un problema che verte sulle circostanze particolari. Il sabotaggio quindi non dev’essere, semplicemente in quanto tale, condannato senz’altro. Vi sono molte misure di governo e di direzione, sia nel

mondo degli affari privati che nella pubblica amministrazione, che hanno inconfondibile carattere sabotatori© e che non solo sono considerate giustificate, ma sono sanzionate esplicitamente dal diritto comune e da quello statutario e dalla coscienza pubblica. Molte di tali misure sono assolutamente fondamentali nel sistema stabilito di diritto e di ordine, di prezzi e di affari, e sono sinceramente ritenute indispensabili al bene comune. Non dovrebbe esser difficile dimostrare che il benessere comune in ogni società organizzata sulla base del sistema dei prezzi non può esser mantenuto senza un salutare impiego del sabotaggio – vale a dire senza un abituale ricorso al ritardo e all’impedimento dell’industria e ad una restrizione della produzione, tali da mantenere i prezzi a un livello ragionevolmente profittevole, prevenendo una depressione negli affari. In effetti sono precisamente considerazioni del genere quelle che impegnano attualmente la massima attenzione da parte dei dirigenti politici e degli uomini d’affari, nel tentativo di sormontare una minacciata depressione del mondo americano degli affari, e un conseguente periodo di difficoltà per tutte le persone dipendenti in modo primario dai redditi franchi derivanti dagli investimenti. Senza una qualche salutare restrizione, sotto la forma del sabotaggio, nell’utilizzazione produttiva degli impianti industriali e dei lavoratori disponibili, è affatto improbabile che i prezzi potrebbero esser mantenuti ad un livello ragionevolmente profittevole per un periodo di tempo considerevole. Il controllo affaristico del ritmo e del volume della produzione è indispensabile per sostenere un mercato profittevole, il quale è la prima e ineliminabile condizione della prosperità in ogni società la cui industria sia posseduta e diretta da uomini d’affari. E i mezzi e le procedure di tale necessario controllo della produzione industriale consistono sempre e necessariamente in una sorta di sabotaggio – qualcosa del genere dei rallentamenti, delle restrizioni, delle astensioni, della disoccupazione dei lavoratori e degli impianti – a mezzo del quale la produzione è mantenuta al di sotto della capacità produttiva. L’industria meccanica del nuovo genere è eccessivamente produttiva. Quindi il ritmo e il volume della produzione devono esser regolati tenendo presente ciò che i traffici consentono – vale a dire, ciò che assicura i massimi utili netti in termini di prezzo agli uomini d’affari che dirigono il sistema industriale del paese. Altrimenti si avrebbe la «sovraproduzione», la depressione degli affari, e di conseguenza tempi difficili per tutti. Sovraproduzione significa produzione in eccesso rispetto a quella che il

mercato assorbe ad un prezzo abbastanza profittevole. Quindi pare che la conservazione quotidiana della prosperità del paese dipenda dalla «coscienziosa soppressione dell’efficienza». da parte degli uomini d’affari che controllano la produzione industriale del paese. Essi la controllano tutta per i loro propri fini, com’è ovvio, e questi consistono sempre in un prezzo profittevole. In ogni società organizzata sulla base del sistema dei prezzi, degli investimenti e dell’impresa d’affari, la disoccupazione abituale, parziale o totale, degli impianti industriali e della manodopera disponibile appare come la condizione indispensabile senza di cui non potrebbero esser mantenute condizioni di vita sopportabili; cioè in nessuna società del genere si può consentire al sistema industriale di funzionare al massimo della capacità per un qualsiasi considerevole periodo di tempo, pena la stagnazione degli affari e le conseguenti privazioni per tutte le classi e i ceti sociali. Le esigenze del profitto affaristico non lo ammettono. Perciò il ritmo e il volume della produzione devono esser regolati in base alle necessità del mercato, non in base alla capacità produttiva delle risorse, delle attrezzature e delle forze di lavoro disponibili, né secondo i bisogni della comunità in fatto di beni di consumo; ne deriva che deve sempre sussistere un certo margine di disoccupazione d’impianti e di manodopera. Com’è ovvio, ritmo e volume della produzione non possono esser regolati mediante il superamento della capacità produttiva del sistema industriale; perciò devono esserlo mantenendosi al di sotto della produzione massima in una misura minore o maggiore, a seconda di ciò che è reso necessario dalla situazione del mercato. È sempre un problema di maggiore o minore disoccupazione degli impianti e della manodopera; una saggia moderazione nella disoccupazione di tali risorse disponibili, una «coscienziosa soppressione dell’efficienza» è quindi un elementare princìpio di saggezza in ogni valida iniziativa affaristica quotidiana che abbia a che fare con l’industria. Tutto ciò è ovvio, e notorio; ma non è un argomentò di cui ci si occupi volentieri. Scrittori e oratori che espongono diffusamente le lodevoli azioni degli uomini d’affari del paese non fan no di solito alcuna allusione a questa massiccia amministrazione corrente basata sul sabotaggio, questa coscienziosa soppressione dell’efficienza, che fa parte del loro normale lavoro di ogni giorno. Si preferisce insistere sugli episodi eccezionali, sporadici e spettacolari nel mondo degli affari, in cui uomini d’affari hanno di quando in quando abbandonato con successo la sicura e sana strada dell’iniziativa affaristica

conservatrice, attorniata e protetta dalla coscienziosa soppressione dell’efficienza, e hanno tentato di regolare la produzione accentuando per un qualche aspetto la capacità produttiva del sistema industriale. In ultima analisi questo ricorso abituale a misure pacifiche o clandestine di freno, di ritardo e di restrizione nella normale direzione affaristica dell’industria è troppo largamente noto e approvato per richiedere un’ampia esposizione o illustrazione. Può peraltro esser appropriato, come esemplificazione fondamentale della portata e della forza di tale soppressione affaristica dell’efficienza, ricordare che tutte le nazioni civili stanno sopportando proprio in questo momento un esperimento di sabotaggio affaristico su una scala senza precedenti, eseguito con impudenza ineguagliata. Tutte le nazioni che hanno subito l’esperienza bellica, sia come belligeranti che come neutrali, si trovano in una situazione di ristrettezze più o meno accentuate, causate dalla scarsezza dei normali beni necessari alla vita; e tali ristrettezze ricadono soprattutto, come è ovvio, sulle persone comuni, che hanno pure sopportato il maggior onere di quella guerra che le ha condotte in questa situazione disagiata. L’uomo comune ha vinto la guerra e ha perso il proprio sostentamento. Questo non è necessariamente detto nel senso di un’approvazione o di una critica. In realtà si tratta, in senso lato, della formulazione di un fatto oggettivo, che può aver bisogno di qualche lieve riserva, così come si verifica di solito per le affermazioni generiche di fatti. Tutte queste nazioni che hanno subito l’esperienza bellica, e più in particolare le comuni masse popolari, hanno grande necessità di ogni sorta di provviste per uso quotidiano, sia per il consumo immediato che per l’impiego produttivo, al punto che la situazione predominante di ristrettezze giunge in molte zone fino a punte malsane di privazioni, per la mancanza del cibo, del vestiario, degli alloggi e del combustibile necessari. Ma in tutti questi paesi le industrie di base stanno rallentando il ritmo; si ha una sempre maggiore soppressione dell’efficienza. Gli impiantì industriali restano sempre più inattivi o semi-inattivi, funzionando a livelli sempre più lontani per difetto dalla loro capacità produttiva. I lavoratori vengono licenziati e un numero sempre maggiore di quelli reduci dal servizio militare rimane inattivo per mancanza di lavoro, mentre le truppe che non sono più necessarie in servizio vengono smobilitate con quella lentezza che pare tollerabile per l’opinione popolare, presumibilmente nel timore che il numero dei lavoratori disoccupati nel paese possa in breve raggiungere proporzioni tali da produrre una catastrofe. E nel

frattempo tutte queste masse hanno grande necessità di ogni sorta di quei beni e servizi, che quegli stessi impianti e lavoratori ora inattivi sono atti a produrre. Ma per ragioni di convenienza affaristica è impossibile consentire che questi impianti e lavoratori inattivi riprendano il lavoro – vale a dire a causa dell’insufficiente profitto per gli uomini d’affari interessati, o in altre parole dell’insufficiente remunerazione degli interessi costituiti che controllano le industrie di base e regolano quindi la produzione dei beni. I traffici non consentono una produzione di beni ampia quanto i bisogni della società in fatto di consumo corrente, perché si dubita che sarebbe possibile vendere partite così consistenti a prezzi tali da assicurare un ragionevole profitto agli investimenti – o meglio al capitale obbligazionario; cioè, si dubita che un aumento di produzione, tale da occupare un maggior numero di lavoratori e da fornire i beni necessari alla società, risulterebbe in un aumento della remunerazione netta complessiva degli interessi costituiti che controllano tali industrie. Un profitto ragionevole significa sempre, in effetti, il massimo profitto ricavabile. Tutto ciò è semplice e ovvio, e non richiede praticamente una formulazione esplicita. À questi uomini d’affari spetta dirigere l’industria del paese, naturalmente, e perciò regolare il ritmo e il volume della produzione; e altrettanto naturalmente ogni regolamento della produzione da parte loro viene effettuato nella prospettiva delle necessità del mondo degli affari, cioè del massimo profitto netto ricavabile, non in quella delle necessità fisiche dei popoli che hanno subito l’esperienza bellica e hanno reso sicuro il mondo per gli affari degli interessi costituiti. Se gli uomini d’affari al comando dovessero, per una qualsiasi fortuita aberrazione, fuorviare dallo stretto e diritto sentiero dell’integrità affaristica, consentendo ai bisogni della società d’influenzare indebitamente l’amministrazione dell’industria da parte loro, si troverebbero in breve screditati e dovrebbero con ogni probabilità fronteggiare l’insolvenza. La loro unica via di salvezza sta nella coscienziosa soppressione dell’efficienza. Tutto ciò rientra nella natura delle cose; è opera del sistema dei prezzi, di cui questi uomini d’affari sono creature ed agenti. La loro situazione è piuttosto patetica, come invero ammettono con una certa loquacità. Non sono in grado di amministrare con piena libertà per la ragione che hanno accumulato in passato, in obbedienza alle esigenze abituali del sistema dei prezzi applicato alla finanza della società per azioni, un così pesante onere di costì fissi generali, che ogni diminuzione considerevole dei redditi netti degli affari porterebbe ogni azienda di questo tipo, seppure ben diretta, di fronte alla

bancarotta. Nell’attuale congiuntura, che è il risultato della guerra e della sua conclusione, la situazione ha più o meno questi aspetti tipici. Nel recente passato gli utili sono stati massicci; questi vasti utili (redditi franchi) sono stati investiti sul mercato finanziario; il loro valore capitalizzato è stato sommato al capitale azionario e coperto con titoli comportanti il pagamento di una quota fissa delle entrate; questa quota delle entrate, che rappresenta un reddito franco, è quindi divenuta un impegno passivo, garantito dagli utili della società per azioni, a cui non si può far fronte nel caso in cui gli utili netti complessivi dell’azienda diminuiscano in una qualsiasi misura; perciò i prezzi devono esser mantenuti ad un alto livello, tale da comportare il massimo utile netto complessivo, e l’unico mezzo per mantenere alti i prezzi è una coscienziosa soppressione dell’efficienza nelle industrie di base dalle quali la società dipende per la fornitura dei beni necessari alla vita. La comunità degli affari nutre speranze di poter sormontare con questo mezzo le attuali difficoltà, ma è tuttora dubbio se l’attuale impiego di un sabotaggio di dimensioni senza precedenti nella direzione affaristica delle industrie di base possa bastare per far superare alla comunità questa grave crisi senza una disastrosa contrazione del suo capitale investito, e una conseguente liquidazione; non è però dubbio che la salvezza fisica dei popoli che hanno subito la guerra debba in ogni caso esser asservita alla salvezza economica dei proprietari dei tìtoli azionari che rappresentano un reddito franco. È una strada abbastanza difficile; pare che la produzione debba necessariamente esser ridotta nelle industrie di base, pena il calo dei prezzi a livelli non profittevoli. La situazione non è altrettanto disperata per le industrie immediatamente interessate alla produzione di beni superflui, ma anche queste, che dipendono soprattutto dalla clientela formata dalle classi mantenute destinatarie dei redditi franchi, non si sentono affatto sicure. Per il bene del mondo degli affari è necessario ridurre la produzione dei mezzi di sussistenza, pena l’instaurazione di prezzi non profittevoli, proprio quando occorre far fronte in qualche maniera tollerabile all’aumentato bisogno di ogni sorta di beni necessari alla vita, pena le agitazioni popolari che derivano sempre dalle ristrettezze del popolo, quando queste superano il limite di tolleranza. Quei sagaci uomini d’affari che sono incaricati di amministrare il minimo salutare di sabotaggio in questa grave congiuntura possono presumibilmente trovarsi di fronte a una dubbia scelta tra una spiacevole contrazione del

reddito franco percepito dagli interessi costituiti, da una parte, ed un incontrollabile assalto del malcontento popolare dall’altra; ed ambedue le alternative comportano conseguenze disastrose. Le indicazioni attuali sembrano dimostrare che la loro scelta sarà effettuata secondo le antiche abitudini, cioè che con ogni probabilità essi intendono tener duro in sostegno di un livello non diminuito di reddito franco in favore degli interessi costituiti, al possibile costo di qualsiasi scontento popolare che possa esser in vista – per raggiungere poi in quel caso, con l’aiuto dei tribunali e delle forze armate, un rapido e ragionevole accomodamento con quel tanto di scontento popolare che possa esser insorto. In questa eventualità tutto ciò non dovrebbe occasionare sorpresa o risentimento, in quanto non costituisce nulla d’insolito o d’irregolare, e rappresenta presumibilmente il modo più spedito di pervenire ad un modus vivendi. Durante le ultime settimane, inoltre, un numero insolitamente grande di mitragliatrici è stato venduto qua e là alle aziende industriali maggiori, almeno così si dice. Dato che l’impresa affaristica è il palladio della Repubblica, è giusto prendere ogni misura necessaria alla sua salva guardia. Il prezzo è essenziale nel nostro caso, mentre i mezzi di sopravvivenza non lo sono. La grave situazione di emergenza originata dalla guerra e dalla sua conclusione provvisoria non è in fondo affatto eccezionale, se non per la dimensione e la gravità. In sostanza essa è analoga a quella che si verifica continuamente, ma in modo discreto e ovvio, nei normali periodi di affari consueti. È solo il carattere estremo della situazione che attrae su di sé l’attenzione; nello stesso tempo esso serve a confermare in modo assai efficace l’ipotesi generica secondo cui una coscienziosa soppressione dell’efficienza è un elementare principio di saggezza in ogni impresa d’affari ben avviata, che abbia a che fare con la produzione industriale. Si è però constatato che la seria attenzione che gli interessi costituiti dedicano sempre ad un salutare rallentamento dell’industria per un aspetto o per l’altro non può affatto esser lasciata agli sforzi casuali e mal coordinati delle singole aziende, ciascuna delle quali si prende cura del suo particolare metodo sa-botatorio nell’àmbito delle sue proprietà. Il sabotaggio necessario può esser meglio amministrato seguendo un vasto piano da parte di un’autorità centrale, dato che l’industria del paese ha il carattere di un esteso sistema intercomunicante, mentre invece le aziende che sono chiamate a controllare i movimenti del sistema industriale operano necessariamente in modo parziale e separato, e in contrasto l’una con l’altra. In effetti il loro operare in contrasto reciproco risulta in un abbastanza

ampio rallentamento complessivo dell’industria, com’è ovvio, ma tale corrispondente rallentamento è di necessità distribuito alquanto alla cieca e non converge ad un esito chiaro e netto. Anche una ragionevole quantità d’intese clandestine tra le aziende interessate non può bastare di per sé a produrre quel vasto, mobile equilibrio del sabotaggio che è necessario per preservare la comunità degli affari da crolli e stagnazioni ricorrenti, o per allineare i traffici del paese alle generali esigenze degli interessi costituiti. Ove il governo nazionale è incaricato della cura generale degli interessi affaristici del paese, ciò che accade in ogni nazione civile, da tale situazione di fatto deriva che ai legislatori e al potere esecutivo viene attribuito un ruolo nell’amministrazione di quel minimo necessario di sabotaggio che rientra sempre e necessariamente nella quotidiana conduzione dell’industria con metodi e per fini affaristici. Il governo è in grado di porre sanzioni legali a carico dei traffici eccedenti o contrari all’utile generale; per esempio, tutti i mercantilisti ortodossi hanno sempre ritenuto necessario o almeno conveniente imporre e mantenere, per mezzo di una tariffa o di sovvenzioni, un certo equilibrio o proporzione tra i diversi settori dell’industria e del commercio che formano il sistema produttivo del paese. Lo scopo che di solito si afferma di perseguire mediante misure di tale specie è una più completa utilizzazione delle risorse industriali nazionali in fatto di materiali, di attrezzature e di manodopera; mentre l’effetto invariabile è una riduzione dell’efficienza ed un uso dilapidatorio di tali risorse, unitamente ad un aumento delle rivalità internazionali. Eppure misure del genere sono ritenute convenienti per quei fini da parte dei mercantilisti – vale a dire, da parte degli uomini di governo di quei paesi civili, per i fini degli interessi costituiti. Il principale e quasi unico mezzo per mantenere un simile artificioso equilibrio e rapporto tra le industrie del paese è quello consistente nell’ostacolare i traffici in qualche punto critico, vietando o infliggendo sanzioni a ogni esuberante indesiderabile all’interno di quei settori industriali. L’espropriazione, totale o parziale, è il metodo consueto e standard. Il massimo esempio esistente di sabotaggio regolato dal governo è la tariffa protettiva, com’è ovvio. Essa protegge taluni interessi particolari ostacolando la concorrenza d’oltre frontiera; tale è la funzione fondamentale del confine di stato. L’effetto della tariffa consiste nel mantenere bassa l’offerta di beni e quindi elevato il loro prezzo, assicurando dividendi ragionevolmente soddisfacenti agli interessi particolari che trafficano negli articoli di scambio così protetti, a danno della società sottostante. Una tariffa

protettiva è un tipico illecito accordo per limitare il commercio. Essa origina un afflusso di redditi franchi, piccolo in senso relativo ma vasto in assoluto, a favore degli interessi particolari che ne beneficiano, ad un costo elevato in senso sia assoluto che relativo per la società sottostante, e quindi fa nascere un complesso di diritti acquisiti e di voci attive intangibili spettanti a quegli interessi particolari. Hanno natura similare, nel senso che in effetti hanno carattere sabotatorio – cioè di coscienziosa soppressione dell’efficienza – tutti i tipi di norme regolanti le imposte di consumo e quelle doganali, sebbene esse non siano sempre congegnate per quel fine. Tali sono, per esempio, il divieto parziale o totale delle bevande alcooliche, la regolamentazione del commercio del tabacco, dell’oppio e di altri narcotici nocivi, degli stupefacenti, dei veleni e degli esplosivi. Uguale è il carattere, negli effetti se non nelle intenzioni, di regolamentazioni quali la legge sull’oleo-margarina; quali anche la trafila d’ispezioni inutilmente costose e vessatorie imposte sulla produzione dell’alcool industriale (denaturato), che è tornata a vantaggio di certe aziende interessate in altri carburanti da impiegare nei motori a combustione interna; e infine quali le disposizioni singolarmente vessatorie e di una complicazione idiota che limitano e scoraggiano l’uso dei pacchi postali, per il beneficio delle compagnie di trasporto veloce e degli altri trasportatori che hanno un interesse costituito in quel tipo di traffico. Vale la pena di notare per quest’ultimo aspetto, sebbene ciò faccia parte del rovescio della medaglia, che sin da quando le compagnie di trasporto veloce sono state rilevate dal governo federale è manifestamente entrato in vigore un vasto sistema di vessazioni e di ritardi nelle minuzie della condotta dei traffici, congegnato in modo da screditare il controllo federale di tali traffici e da provocare un sentimento popolare in favore di un loro rapido ritorno sotto il controllo privato. Una situazione pressoché identica risulta evidente nel traffico ferroviario sottoposto a condizioni analoghe. Il sabotaggio è utilizzabile come deterrente sia per assistere l’opera governativa che per contravvenire ad essa. In ciò che si è appena detto non vi è, naturalmente, alcuna intenzione di criticare nessuno di tali impieghi del sabotaggio. Non è una questione di etica e di buone intenzioni. Si deve sempre presumere, come fatto ovvio, che lo spirito che guida ogni simile mossa governativa, diretta a regolarizzare gli affari del paese mediante restrizioni o incentivi, sia una saggia cura per il vantaggio durevole e la sicurezza del paese. Tutto ciò che si può dire in questa

sede è che molte di tali sagge misure di restrizione e d’incentivo hanno carattere sabotatorio, e che in effetti esse tornano di solito, anche se non invariabilmente, a vantaggio di taluni interessi costituiti; per lo più di quelli che hanno maggior peso nella proprietà e nel controllo delle risorse nazionali. Perciò non c’è bisogno di ripetere che tali misure sono del tutto legittime e presumibilmente vantaggiose; sono dirette infatti ad ostacolare i traffici e l’industria per un aspetto o per l’altro, ciò che spesso può esser una saggia precauzione in affari. Durante il periodo bellico le misure amministrative di carattere sabotatorio sono state di molto ampliate sia per portata che per varietà. Si è dovuto far fronte ad esigenze peculiari ed imperative, e lo strumento basilare per fronteggiare molte di tali esigenze nuove ed eccezionali è consistito, in modo del tutto logico, in certe forme di annullamenti, di espropriazioni, imposizioni di ammende, impedimenti, una coscienziosa soppressione dell’efficienza nei settori industriali non coerenti con i fini dell’esecutivo. Proprio come accade negli affari privati quando si presenta una situazione di dubbi e di rischi, così pure negli affari di governo, nell’attuale congiuntura di esigenze imperative e di svantaggiose limitazioni, l’esecutivo è stato spinto a espedienti di divieto e di ostacolo rispetto ad alcuni dei normali procedimenti della vita quotidiana, come per esempio nel caso delle industrie non essenziali. È parso anche che le normali attrezzature ed agenzie per la raccolta e la distribuzione di notizie ed altre informazioni avessero sviluppato nel passato delle capacità di molto superiori a quelle che possono esser consentite senza pericolo in tempo di guerra o di ristabilimento della pace. Lo stesso vale per i normali canali di discussione pubblica di ogni sorta di problemi pubblici. Tali canali normali, che possono esser sembrati abbastanza limitati in tempo di pace e d’interesse fiacco, avevano nonostante tutto sviluppato capacità di molto superiori ai limiti di tolleranza dell’attività governativa in questi tempi difficili di guerra e di negoziati, quando la gente sta bene all’erta per conoscere ciò che sta succedendo. Grazie a un uso moderato dei più recenti perfezionamenti della tecnica dei trasporti e delle comunicazioni, i normali mezzi di diffusione d’informazioni e di opinioni sono divenuti efficienti al punto che a tale attività non si può più consentire di svolgersi al massimo delle sue capacità durante un periodo di tensione negli affari di governo. Perfino il servizio postale si è dimostrato efficiente in modo insopportabile, ed una selettiva soppressione dell’efficienza è stata messa in atto. Per proseguire l’analogia con gli affari privati, si è trovato preferibile rifiutare

l’autorizzazione ad utilizzare le attrezzature postali nei modi che non tornavano a vantaggio dell’esecutivo sotto forma di popolarità e di diritti acquisiti di usufrutto3. Queste perentorie misure di restrizione hanno attratto un’attenzione ampia e dubbiosa, ma hanno senza dubbio avuto carattere e intento salutare, in un qualche modo che non può esser compreso dagli estranei – cioè dai cittadini della Repubblica. Una diffusione incontrollata d’informazioni e di opinioni, o una discussione inopportunamente franca sui relativi dati di fatto da parte di questi estranei sarebbe un inconveniente per l’opera dell’esecutivo, e potrebbe perfino portare a frustrare i suoi obiettivi. Per lo meno così dicono. Fenomeni di analoga apparenza sono stati osservati in altri luoghi e in altri tempi, ragion per cui tutto questo ricorso nervosamente vigile al sabotaggio delle informazioni e delle opinioni indesiderabili non costituisce nulla di nuovo né di peculiarmente democratico. I più antichi uomini di governo delle grandi monarchie, d’oriente e d’occidente, si sono da lungo tempo occupati di misure analoghe e le hanno approvate. Ma questi più antichi uomini di governo del regime dinastico si sono dedicati all’opera di sabotare l’informazione a causa di un palese divario di sentimenti tra il loro governo ed il popolo sottostante, quale non esiste nelle comunità democratiche avanzate. Si ritiene che il caso della Germania imperiale durante il periodo bellico presenti un siffatto divario di sentimenti tra il governo e il popolo sottostante, ed anche che esso indichi il modo migliore per affrontare una simile divisione di sentimenti nei confronti di un popolo diffidente e di cui si diffida. Il metodo sanzionato dall’esperienza dinastica tedesca consiste nel sabotaggio, impiegato in modo alquanto libero nella censura, nel divieto delle comunicazioni, ed anche, si afferma con certezza, nell’accurata diffusione di informazioni false. Simili procedure da parte degli statisti dinastici dell’Impero sono comprensibili anche al profano. Ma come tutto ciò sia possibile in quelle nazioni democratiche avanzate, quale l’America, dove il governo è l’agente ed il portavoce imparziale e fedele del complesso dei cittadini, e dove non vi può esser di conseguenza alcun divario di obiettivi e di sentimenti tra la compagine dei dirigenti politici e qualsiasi parte del popolo sottostante – tutto ciò è un soggetto di riflessioni più oscuro ed arrischiato. Eppure vi è stata la censura, alquanto rigorosa, ed il rifiuto discriminato dei servizi postali, alquanto arbitrario, anche in queste comunità democratiche, non ultima l’America che è largamente riconosciuta come la più genuinamente democratica di tutte. Ed insieme sarebbe pur piacevole potersi convincere che

questo sia in un qualche modo servito ad un fine utile. Tutto ciò lascia abbastanza perplessi.

1. Pubblicato su «The Dial» del 5 aprile 1919, come primo saggio di una nuova serie dedicata ai Contemporary Problems in Reconstruction. Questi tre saggi unitamente ai tre della serie successiva formarono nel febbraio 1921 il libro Gli ingegneri e il sistema dei prezzi. Contemporaneamente a questo saggio apparveo su «The Dial» due editoriali dello stesso Veblen, dal titolo Sabotage e Congressional Sabotage. 2. Il sindacato Industrial Workers of the World, raro esempio di sindacato americano impostato su basi classiste ed ideologiche. Gli anarzo-sindacalisti sorelliani degli I.W.W. non furono alieni da tentazioni dinamitarde; narti a Chicago nel 1905, furono a quell’epoca abbastanza temuti, anche se la loro forsa numerica fu sempre limitata. La loro ostilità all’ingresso degli Stati Uniti nel pnmo conflitto mondiale (1916-17) segnò l’inizio del loro declino, anche per le conseguenti persecuzioni subite ad opera delle autorità costituite. Gli I.W.W. furono comunque attivi nelle agitazioni post-belliche, e sopravvissero in taluni settori periferici, specie tra i braccianti agricoli. Veblen fu in cordiali rapporti con alcuni esponenti dell’organizzazione. La forza dei due gruppi rivali I.W.W. di Chicago (facente capo a William D. Haywood) e di Detroit (facente capo a Daniel De Leon) non raggiungeva nel 1914 i 30.000 iscritti. 3. Veblen stesso era stato vittima delle restrizioni imposte sui servizi postali, quando il suo La Germania imperiale e la rivoluzione industriale era stato dichiarato contrario alle disposizioni dell’Espionage Act, e come tale ne era stato vietato l’invio a mezzo posta da parte del Post Office Department (1918).

CAPITOLO II. IL SISTEMA INDUSTRIALE E I CAPITANI D’INDUSTRIA1 Era in uso un tempo, ed invero ancor oggi non è inconsueto, parlare di tre «fattori della produzione» coordinati, terra, lavoro e capitale. La ragione di questa triplice suddivisione dei fattori della produzione sta nel fatto che vi sono tre specie riconosciute di reddito: rendite, salari e profitti; e si è presunto che tutto ciò che produce un reddito sia un fattore produttivo. La tripartizione proviene dal diciottesimo secolo; si presume che essa fosse corrispondente al vero, in linea di massima, rispetto alle condizioni prevalenti a quel tempo, e si è quindi supposto che dovesse continuare ad esser naturale, o normale, rispondente in alto grado al vero, quali che fossero le diverse condizioni subentrate in seguito. Vista alla luce degli eventi posteriori, questa triplice suddivisione di fattori coordinati della produzione è piuttosto degna di nota per ciò che omette. Essa non attribuisce alcun effetto produttivo alle tecniche industriali, per esempio, per la decisiva ragione che lo stadio della tecnica non produce per nessuna singola classe di persone alcun reddito determinato o suscettibile di valutazione; né rende possibile alcuna rivendicazione legale di una quota parte della produzione annua di beni della comunità. Lo stadio della tecnica è un capitale comune di cognizioni, derivato dalle esperienze passate, che è detenuto e trasmesso come possesso indivisibile della società nel suo complesso. Pur costituendo il fondamento indispensabile di ogni industria produttiva, come è ovvio, tale capitale comune non è proprietà individuale di alcuno, eccezion fatta per taluni minuscoli frammenti coperti da diritti di brevetto o da segreti professionali. Per questa ragione esso non è stato computato come fattore produttivo. I progressi senza precedenti compiuti dalla tecnica durante gli ultimi centocinquant’anni hanno cominciato solo ora ad attrarre l’attenzione sulla sua omissione nella tripartizione dei fattori produttivi trasmessa da quell’epoca antecedente. Un’altra omissione nella suddivisione dei fattori originariamente stabilita era quella dell’uomo d’affari. Ma nel corso del diciannovesimo secolo l’uomo

d’affari s’impose sempre più alla ribalta e fu il destinatario di una porzione sempre più generosa del reddito annuo del paese – il che valse ad argomentare che anch’esso contribuiva in modo crescente alla produzione annua di beni. Perciò un quarto fattore produttivo è stato provvisoriamente aggiunto alla tripartizione, nella persona dell’«imprenditore», i cui stipendi dirigenziali sono ritenuti misura del suo ruolo creativo nella produzione di beni, sebbene vi sia tuttora qualche dubbio su quale sia la funzione precisa dell’imprenditore nell’industria produttiva. «Imprenditore» è un termine tecnico che designa la persona che si occupa dell’aspetto finanziario dei problemi. Esso è relativo alla stessa fattispecie del più familiare «uomo d’affari», ma con una vaga allusione ad affari di grandi dimensioni anziché di piccole. L’imprenditore tipico è il finanziatore di società azionarie; e dal momento che questi è di solito il destinatario di una porzione assai rilevante del reddito annuo della comunità, si è quindi ritenuto che le rendesse del pari un servizio di grande rilievo, in quanto forza creativa nell’àmbito di quell’industria produttiva da cui proviene il reddito annuo. Anzi, si può quasi dire che nell’uso corrente «produttore» sia giunto a significare «dirigente finanziario», nella teoria economica standard come nel linguaggio di ogni giorno. Ovviamente, non è necessario trovar a ridire di questo stato di cose. È una questione di usi. Nell’epoca dell’industria meccanizzata – che è anche l’epoca della democrazia commerciale – gli uomini d’affari hanno controllato la produzione e diretto l’industria della comunità ai loro propri fini, così che le sorti materiali di tutti i popoli civili hanno continuato ad esser imperniate sulla direzione finanziaria dei loro uomini d’affari. E durante lo stesso periodo non solo le condizioni di vita di tali popoli civili sono rimaste nel complesso discretamente tollerabili, ma è vero anche che il sistema industriale diretto da quegli uomini d’affari per il loro privato profitto ha continuamente progredito in efficienza complessiva. La capacità produttiva unitaria degli impianti e della manodopera si è continuamente accresciuta. Si deve attribuire, così come in effetti si è fatto, il giusto merito di questo risultato, degno di molta considerazione, alla comunità degli affari che ha esercitato la supervisione. L’efficace ampliamento della capacità industriale è stato dovuto naturalmente al continuo progresso della tecnica, al continuo aumento delle risorse naturali disponibili ed al continuo incremento demografico; ma la comunità degli affari ha avuto la sua parte nel portare a questa evoluzione, essa è sempre stata in grado d’impedirne il procedere, e solo grazie al suo consenso ed al suo

giudizio la situazione ha potuto progredire fino al punto attuale. Questo permanente incremento della capacità produttiva, dovuto al continuo progresso della tecnica e della popolazione, ha avuto anche un’altra conseguenza notevole. Secondo i princìpi liberalistici del diciottesimo secolo ogni percezione di redditi legalmente ammissibile è il sicuro contrassegno dello svolgimento di un lavoro produttivo. Visto alla luce di questo presupposto, il manifesto incremento della capacità produttiva del sistema industriale ha non solo autorizzato tutte le persone di mentalità liberalistica e commercialistica ad attribuire il merito della creazione di tale capacità produttiva agli affaristi capitani d’industria, ma anche a trascurare tutte le misure adottate dagli stessi capitani d’industria nel normale svolgimento degli affari allo scopo di tener a freno l’industria produttiva. Si dà il caso che per tutto questo periodo la situazione si sia evoluta in tale direzione, giungendo ad un punto così avanzato che è oggi un problema aperto se la direzione affaristica dei capitani non sia più occupata a frenare l’industria anziché ad incrementarne la capacità produttiva. Questo capitano d’industria, tipicamente rappresentato dal finanziatore di società azionarie e più di recente dal banchiere in vestitene, è una delle istituzioni che contribuiscono a formare il nuovo ordinamento, instauratosi presso tutti i popoli civili sin dall’avvento della rivoluzione industriale. Come tale, in quanto sviluppo istituzionale, la storia della sua esistenza fino ad oggi costituisce un valido tema di ricerca per chiunque si proponga di comprendere l’evoluzione recente e le tendenze attuali del nuovo ordinamento economico. Gli inizi del capitano d’industria si riscontrano nella forma migliore tra quegli inglesi intraprendenti che si dedicarono a mandare ad effetto le promesse industriali della rivoluzione attraverso realizzazioni concrete, durante gli ultimi decenni del diciottesimo secolo e i primi del diciannovesimo. Questi capitani del periodo iniziale sono con ogni probabilità passati alla storia come inventori, almeno in un senso vago del termine. Ma è più appropriato rilevare il fatto che essi erano progettisti e costruttori di attrezzature per le fabbriche, le officine e le miniere, di motori, di procedimenti, di macchine e macchine utensili, come pure dirigenti di fabbrica, mentre si occupavano nello stesso tempo, con più o meno successo, degli aspetti finanziari. Questi inizi del capitano d’industria risaltano in modo più convincente che in ogni altro luogo tra i fabbricanti inglesi di utensili di quel periodo iniziale, che progettarono, sperimentarono, costruirono e smerciarono quella serie d’indispensabili macchine utensili che hanno costituito il fondamento pratico dell’industria

meccanica. Qualcosa di pressoché analogo va detto per l’opera pionieristica degli americani, lungo le stesse direttrici generali di progettazione e realizzazione meccanica, in un periodo di poco posteriore. È a uomini di questa specie che il nuovo ordinamento industriale è debitore di gran parte del suo successo iniziale, come pure della sua espansione successiva. Questi uomini erano capitani d’industria, imprenditori in un senso semplice e lato della parola, quale quello che gli economisti sembrano aver avuto presente per i cento anni successivi, quando hanno parlato degli stipendi dirigenziali dovuti all’imprenditore in cambio del lavoro produttivo svolto. Erano un incrocio tra un uomo d’affari ed un esperto industriale, e quest’ultimo pare aver costituito la metà più utile del composto. Ma i proprietari delle fabbriche, delle miniere, e delle navi, come pure i commercianti e i banchieri, formavano anch’essi una componente vitale della comunità affaristica dalla cui successiva espansione e specializzazione ha avuto origine il finanziatore di società azionarie del diciannovesimo e ventesimo secolo, Le sue origini sono sia tecniche che commerciali, ed in quella fase iniziale della storia della sua esistenza, ormai entrata nelle tradizioni della teoria economica e del senso comune, egli perseguiva ambedue questi filoni d’interessi e di lavoro combinati. Ciò accadeva prima che la vasta dimensione, l’ampia portata e la specializzazione spinta dell’industria meccanizzata progredita avessero acquistato slancio. Ma progressivamente le responsabilità della direzione affaristica divennero più ampie ed impegnative, con l’aumento delle dimensioni degli affari, e perciò il dirigente a capo di ogni azienda del genere si trovò a dedicare la sua attenzione in modo progressivamente sempre più esclusivo all’«aspetto finanziario». Contemporaneamente, spinta da identiche considerazioni, la direzione affaristica dell’industria si è trasferita progressivamente sulle nuove basi della finanza azionaria. Ciò ha portato ad un’ulteriore separazione, dividendo la proprietà degli impianti e delle risorse industriali dalla direzione degli stessi; nello stesso tempo il sistema industriale, nel suo aspetto tecnico, ha progressivamente accresciuto ed ampliato la propria portata, diversificazione, specializzazione e complessità, come pure la capacità produttiva unitaria degli impianti e della manodopera. L’ultimo aspetto del mutamento ora citato, l’aumento progressivo della capacità produttiva, è particolarmente significativo a questo riguardo. Sembra abbastanza vero che nei decenni iniziali e pionieristici dell’era delle macchine la normale routine direzionale dell’azienda industriale era strettamente

associata con la ricerca di nuovi mezzi e procedimenti e con l’accelerazione della produzione fino al massimo della capacità. Ciò accadeva prima che si diffondessero la standardizzazione dei procedimenti e delle unità prodotte e la fabbricazione in parti, e quindi prima che la produzione in massa si fosse avvicinata alla gamma e all’estensione successiva. In parte proprio a causa di questo fatto – cioè essendo ancora la produzione in massa un fatto trascurabile e grandemente circoscritto, in confronto al suo sviluppo successivo – il normale volume della produzione delle industrie meccaniche era ancora relativamente ridotto e controllabile; perciò le aziende impegnate in tali attività industriali trovavano an cora un mercato del tutto aperto per ogni loro prodotto, un mercato in grado di assorbire qualsiasi ragionevole aumento di produzione. Si verificavano delle eccezioni a questa regola generale, come per esempio nel caso dell’industria tessile; ma la regola generale emerge in modo stabile e preminente lungo i decenni iniziali del diciannovesimo secolo per quanto concerne l’industria inglese, ed in modo ancor più evidente nel caso dell’America. Un simile mercato aperto significava buone possibilità di produzione concorrenziale, senza troppi rischi di accumulare scorte eccessive. Analogo era l’effetto del continuo incremento demografico e dell’aumento del raggio d’azione e della massa dei mezzi di trasporto, che servivano a mantenere un mercato libero per ogni futuro aumento di produzione, a prezzi che offrivano buone prospettive di mantenimento del profitto. Nella misura in cui questo stato di cose predominava, era possibile una produzione concorrenziale ragionevolmente libera. La situazione industriale ora delineata cominciò visibilmente a lasciare il campo verso la metà del diciannovesimo secolo in Inghilterra, e in un periodo corrispondentemente successivo in America. La capacità produttiva dell’industria meccanica stava manifestamente eguagliando la capacità del mercato, così che la libera concorrenza senza riserve non costituiva più un valido fondamento sulla cui base regolare la produzione. Approssimativamente, questo periodo critico o di transizione cade verso il secondo quarto del diciannovesimo secolo in Inghilterra; altrove in una data corrispondentemente posteriore. Naturalmente il punto critico, in cui le esigenze degli affari cominciarono a dettare una politica di combinazioni e di restrizioni, non giunse nello stesso momento per tutte o per gran parte delle industrie meccaniche; ma sembra possibile affermare che, nel complesso, il periodo della transizione ad una regola generale di restrizioni nell’industria si

verifica nell’epoca e per le ragioni suindicate. Oltre a quelli sopra citati» vi erano anche altri fattori che influivano sulla situazione industriale, meno degni di nota e meno chiaramente definiti, ma tali da imporre limitazioni della stessa natura. Tali erano ad esempio l’obsolescenza rapidamente subentrante degli impianti industriali, dovuta ai perfezionamenti ed agli ampliamenti, così come il parziale esaurimento della riserva di manodopera causato dal persistente eccesso di lavoro, dall’insufficiente nutrizione, e dalle condizioni di vita insalubri – ma ciò si applica al caso inglese più che agli altri. Questo periodo critico negli affari dell’azienda industriale coincide nel tempo all’inarca con l’introduzione della finanza azionaria come metodo tipico e normale per controllare la produzione industriale. Ovviamente la società per azioni, o società anonima, ha altre funzioni oltre al controllo restrittivo della produzione al fine di mantenere profittevole il mercato; ma dovrebbe essere abbastanza chiaro il fatto che la combinazione della proprietà e l’accentramento del potere di controllo che la società per azioni consente sono estremamente convenienti anche per quel fine. E quando risulta evidente che l’universale ricorso ad organismi azionari del tipo più ampio ha inizio all’incirca all’epoca in cui le esigenze degli affari cominciano ad imporre una restrizione imperativa della produzione, non è facile evitar di concludere che questo era proprio uno degli scopi perseguiti con quella riorganizzazione dell’impresa d’affari. Si può giustamente affermare che l’impresa d’affari passò da un’impostazione basata sulla produzione liberamente concorrenziale a quella del «coscienzioso rifiuto dell’efficienza», non appena e nella misura in cui una finanza azionaria su scala abbastanza vasta giunse a rappresentare il fattore governante l’industria. Nello stesso tempo e nell’identica misura il controllo direzionale dell’industria, e di gran parte delle altre imprese d’affari, è passato nelle mani del finanziatore di società azionarie. L’organizzazione delle società per azioni ha progredito continuamente verso una dimensione più ampia ed una più estesa coalizione di forze, mentre, in modo sempre più manifesto, il normale compito della direzione aziendale è divenuto quello di adattare la produzione alle esigenze del mercato restringendola entro i limiti che sono consentiti dai traffici, vale a dire che producono i massimi utili. Sotto l’egida della direzione aziendale accade raramente che la produzione sia spinta fino ai limiti della capacità; questo si verifica, e può verificarsi, solo di rado e in modo intermittente. Ciò è stato sempre più vero da quando la capacità produttiva ordinaria delle industrie meccaniche ha cominciato ad eguagliare sul serio, ed ha minacciato di

eccedere, il livello che il mercato assorbirebbe ad un prezzo ragionevolmente profittevole. A partire da quella svolta critica ne gli affari dell’azienda industriale – all’incirca verso la metà centrale del diciannovesimo secolo – è divenuto via via più imperativo l’uso di una sapiente moderazione e il blocco della produzione ai ritmi ed ai volumi consentiti dai traffici. La cura degli affari ha richiesto un’attenzione sempre più esclusiva da parte degli uomini d’affari, e il loro lavoro quotidiano si è imperniato in misura sempre crescente sulla regolazione corrente del sabotaggio della produzione. Evidentemente l’organizzazione di tali aziende in società azionarie su scala sempre più vasta è molto conveniente per quel fine, dato che il necessario sabotaggio dell’industria produttiva può esser efficacemente amministrato solo secondo un vasto piano e con mano ferma. «I dirigenti del mondo degli affari sono persone che hanno studiato e riflettuto per tutta la vita. In questo modo hanno imparato a prender rapide decisioni sui grossi problemi, basandole sulla loro conoscenza dei princìpi fondamentali» – Jeremiah W. Jenks2 In altre parole, la supervisione dell’aspetto finanziario dell’azienda industriale e il controllo del necessario equilibrio sabotatori corrente sono stati ridotti ad una routine regolata da princìpi procedurali prestabiliti e amministrata da esperti opportunamente addestrati nella finanza azionaria. Date le limitazioni a cui ogni capacità umana è soggetta, da questo condizionamento sempre più rigoroso dell’amministrazione degli affari deriva che gli uomini d’affari perdono sempre più il contatto con i modi di pensare e gli elementi di conoscenza che formano la logica della tecnologia meccanica ed i dati di fatto ad essa relativi. La dedizione ad un criterio rigoroso e incessante di valutazione di ogni cosa in termini di prezzo e di profitto li lascia, per un uso inveterato, non idonei ad apprezzare quei dati di fatto e quei valori tecnici che possono esser formulati solo in termini di tangibili realizzazioni meccaniche; ciò è sempre più vero ad ogni nuovo passo verso una più rigorosa dedizione alla direzione affaristica, e ad ogni ulteriore progresso del sistema industriale verso una portata ancor più ampia e verso un ancor più diversificato e delicato equilibrio del dare e dell’avere tra i suoi membri interconnessi. Sono degli esperti solo in prezzi e profitti ed in manovre finanziarie; eppure la discrezionalità ultima in tutte le questioni di politica industriale continua ad esser nelle loro mani. Sono per tirocinio e per interessi dei capitani della finanza; pure, privi come sono di qualsiasi adeguata comprensione delle tecniche industriali, continuano ad esercitare una

discrezionalità plenaria come capitani d’industria. Sono impegnati in un’incessante routine di accaparramento in cui raggiungono di solito i loro fini mediante una sapiente restrizione della produzione; pure si continua ad affidar loro il benessere industriale della società, che esige la massima produzione. Tale è stata la situazione in tutti i paesi civili da quando la finanza azionaria ha preso a governare l’industria, fino ad una data recente. Ultimamente questo sistema affermato di direzione affaristica ha dato segni di lasciare il campo, ed è venuta in luce una nuova svolta nell’organizzazione dell’impresa d’affari, in cui il controllo discrezionale della produzione industriale si sposta ancor più dalla parte della finanza e si allontana ulteriormente dal contatto con le esigenze della massima produzione. La nuova svolta ha un duplice carattere: a) i finanzieri capitani d’industria hanno dimostrato la loro incompetenza industriale in una maniera progressivamente convincente, e b) il loro proprio, particolare compito di direzione finanziaria ha assunto progressivamente il carattere di una routine standardizzata, tale da non richiedere o consentire più alcuna ampia misura di discrezionalità o d’iniziativa. Hanno perso il contatto con la direzione dei procedimenti industriali, mentre la direzione delle attività sul mercato azionario è in effetti passata nelle mani del personale burocratico impiegatizio. Il finanziatore di società azionarie della tradizione popolare sta assumendo i caratteri del capufficio. I mutamenti che lo hanno condotto in questa posizione, alquanto ingloriosa, di amministratore di una routine, presero l’avvio insieme all’iniziale sviluppo della finanza azionaria verso la metà dell’Ottocento, e hanno raggiunto il culmine intorno al passaggio nel Novecento, anche se solo dopo quest’ultima data l’esito sta diventando chiaramente definito. Quando l’organizzazione della società per azioni e il conseguente controllo della produzione entrarono in campo, due erano le direttrici alternative aperte al governo direzionale: a) mantenere prezzi profittevoli limitando la produzione e b) mantenere i profitti abbassando i costi di produzione mediante l’aumento di quest’ultima. In una certa misura furono seguite ambedue queste direttrici, ma nel complesso la prima si dimostrò la più attraente, dato che comportava minori rischi e richiedeva una minor familiarità con i processi operativi dell’industria. Per lo meno risulta che in effetti le preferenze si orientarono sempre più verso il primo metodo, durante questo mezzo secolo di direzione

finanziaria; e per questo vi erano delle buone ragioni. I processi produttivi diventavano continuamente più vasti, diversificati, complicati, e più difficili a comprendersi per ogni profano della tecnica – e il finanziatore di società azionarie era proprio, necessariamente e in modo crescente, un profano, per le ragioni esposte sopra. Intanto, a causa del continuo incremento demografico e del continuo ampliamento del sistema industriale, il prodotto netto dell’industria ed i suoi ricavi netti continuavano ad aumentare, indipendentemente da qualsiasi sforzo creativo da parte della direzione finanziaria. Perciò i finanzieri, in quanto classe, divennero destinatari di un «incremento non guadagnato» del reddito, con il semplice sistema di «tenersi stretti i risultati conseguiti»; sistema intelligibile ad ogni profano. Ogni innovazione industriale ed ogni economia aggressiva nella conduzione dell’industria presuppone una conoscenza approfondita dei dettagli tecnici del processo industriale, ed anzi ogni mossa del genere appare arrischiata a chiunque all’infuori dei tecnici esperti, che hanno grande familiarità con i dati di fatto. Perciò gli uomini d’affari che hanno controllato l’industria, essendo dei profani per tutto ciò che concerne la sua direzione, si sono sempre più limitati a lasciar convenientemente correre, e si sono adattati a sempre maggiori costi generali dovuti all’inefficienza, dato che non ci rimettevano nulla. Il risultato è stato un continuo aumento della massa degli sprechi e degli errori direzionali nell’impiego delle attrezzature, delle risorse e della manodopera in tutto il sistema industriale. In séguito, cioè negli ultimi anni, il risultante ritardo, le falle e gli attriti nel normale funzionamento dell’industria meccanica retta dalla direzione affaristica hanno raggiunto proporzioni tali che nessun estraneo di media intelligenza può fare a meno di discernerli ovunque egli osservi la realtà della situazione. Ma sono stati gli esperti industriali, e non gli uomini d’affari, che alla fine hanno cominciato a criticare la cattiva amministrazione affaristica e la negligenza dei mezzi e delle procedure dell’industria. E finora i loro sforzi e consigli non hanno ricevuto alcuna risposta cordiale da parte degli uomini d’affari al comando, i quali hanno nel complesso continuato a lasciar correre convenientemente – convenientemente, s’intende, ai fini di una miope politica affaristica mirante al guadagno privato, quale che sia il cattivo servizio reso in tal modo alle necessità materiali della società. Ma nel frattempo sono accaduti due fatti che hanno sconvolto il regime dei finanzieri: esperti industriali, ingegneri, chimici, mineralogisti, tecnici di ogni specie si sono spostati su posizioni di maggior responsabilità nel sistema industriale e si sono sviluppati

e moltiplicati entro il sistema, poiché quest’ultimo non potrebbe più funzionare senza di loro; e d’altro canto i grandi interessi finanziari, sul cui appoggio facevano affidamento i finanzieri, si sono gradualmente resi conto del fatto che la finanza azionaria può esser meglio amministrata come una vasta routine burocratica, e che i due pilastri dell’edificio dell’impresa d’affari azionaria del tipo più ampio sono gli esperti industriali e le grosse società finanziarie che controllano i capitali necessari; laddove invece il finanziatore di società azionarie rappresenta poco più che un discutibile termine intermedio tra questi due. Uno dei maggiori personaggi della finanza americana prese nota di questa situazione agli ultimi del secolo e si dedicò a volgerla a profitto per il beneficio di se stesso e dei suoi soci in affari3; da quel momento ha inizio una nuova epoca della finanza azionaria americana. Per un certo tempo se ne parlò vagamente come dell’era della creazione dei trusts4, ma tale frase la definisce in modo affatto inadeguato. La si dovrebbe piuttosto chiamare l’èra dei banchieri investitori, ed essa è giunta al suo attuale stadio di maturità e stabilità solo durante il quarto di secolo trascorso. Gli elementi caratteristici e lo scopo che governa questo metodo perfezionato della finanza azionaria sono meglio illustrati attraverso l’esposizione dei metodi e delle realizzazioni di quel grande pioniere da cui esso fu inaugurato. Come caso esemplificativo, dunque, il settore americano dell’acciaio soffriva nell’ultimo decennio del secolo scorso per il prolungato impiego di procedimenti, di attrezzature e di localizzazioni antiquate, per l’amministrazione dilapidatoria sotto il controllo di dirigenti aziendali caparbiamente ignoranti, ed in particolare per la concorrenza intermittente e accidentale e per il reciproco sabotaggio tra le numerose aziende che a quel tempo producevano acciaio. Sembra che quest’ultima difficoltà in particolare richiamasse l’attenzione e fornisse l’opportunità al grande pioniere. Non è possibile supporre, facendo un caritatevole sforzo, che egli possedesse la benché minima cognizione delle necessità e delle deficienze dell’industria dell’acciaio. Ma ad un uomo dotato di ampie vedute nel campo commerciale e di sobrietà finanziaria era chiaro che un’organizzazione ed un controllo più estesi, e quindi più autoritari, del settore dell’acciaio avrebbero prontamente ovviato a gran parte della concorrenza che stava sconvolgendo i prezzi. Lo scopo apparente e l’effetto evidente della nuova e più vasta coalizione d’interessi affaristici dell’acciaio era quello di mantenere prezzi profittevoli mediante una ragionevole riduzione della produzione. Un effetto secondario e

meno evidente fu una amministrazione più economica dell’industria, che comportò qualche allontanamento di vecchi finanziatori di società azionarie e l’introduzione di alcuni esperti industriali. Un ulteriore, ma inconfessato, scopo a cui la stessa mossa serviva in ciascuna delle molte iniziative di coalizione intraprese dal grande pioniere e dai suoi concorrenti era il profitto extra che tali intraprendenti persone ricavavano, sotto la forma di un aumentato valore in capitale delle loro aziende. Ma la caratteristica rimarchevole di tutto ciò dal punto di vista del pubblico nel suo complesso era pur sempre la stabilizzazione dei prezzi a livelli ragionevolmente alti, tali da assicurare in ogni caso una remunerazione ragionevolmente ampia per l’aumentato valore del capitale. Da allora questo tipo di finanza azionaria è stato ulteriormente perfezionato e standardizzato, al punto che oggi si può affermare che nessuna mossa importante nel campo della finanza azionaria può esser compiuto senza il parere e il consenso di quei grossi interessi capitalistici che sono in grado di operare come banche investitrici; nessuna grossa impresa sul mercato azionario sfugge mai al controllo permanente dei banchieri investitori in alcuna delle sue maggiori transazioni; né alcuna impresa azionaria di grosse dimensioni può oggi continuare a fare affari se non in una forma tale da arrecare un utile considerevole ai banchieri investitori, la conservazione del cui appoggio è necessaria al suo successo. L’interesse finanziario qui definito come banchiere investitore è di solito una sorta di cartello più o meno articolato di società finanziarie, e bisogna aggiungere che queste ultime sono pure di norma, se non invariabilmente, impegnate o interessate in operazioni bancarie commerciali del tipo consueto. Perciò quella medesima ramificazione saldamente stabilita e semi-confederata di aziende bancarie che da tempo si occupano delle operazioni bancarie commerciali su scala nazionale, con il suo centro di credito e di controllo nella metropoli finanziaria del paese, è pronta in anticipo a rilevare e ad amministrare la finanza azionaria del paese secondo un piano unificato e con il fine di un’equa distribuzione del reddito nazionale netto tra quelle stesse aziende ed i loro clienti. Tanto più ampia è quest’organizzazione finanziaria, tanto più essa è ovviamente capace di amministrare il sistema industriale del paese come un tutto unico e d’impedire ogni innovazione o esperimento rischioso, oltre che di limitare la produzione dei beni necessari ad un volume tale da arrecare il massimo utile netto a sé medesima ed ai propri clienti. Evidentemente il perfezionato disegno che ha posto la discrezionalità e la

responsabilità in mano al banchiere investitore deve favorire una sicura e salda condotta degli affari, tale da evitare fluttuazioni dei prezzi, e più in particolare ogni non profittevole accelerazione dell’industria produttiva. È evidente anche che in tal modo l’iniziativa non appartiene più al finanziatore di società azionarie, decaduto alla posizione di mediatore o di agente finanziario, con discrezionalità limitata e con un precario e dubbio futuro. Tutte le istituzioni umane sono suscettibili di perfezionamento, e l’andamento di quest’ultimo può talvolta, come in questo caso, risultare nel superamento e nell’allontanamento; senza dubbio tutto è per il meglio, cioè per il bene degli affari, più specificamente per il profitto dei grossi gruppi affaristici. Ma oggi come sempre la finanza azionaria costituisce un credito di traffico; anzi, oggi più che mai. Perciò per stabilizzare a sufficienza il mercato azionario nelle mani di quel vasto semicartello d’interessi bancari è necessario che il sistema creditizio del paese sia amministrato come un tutto unico, secondo un piano unificato ed in modo onnicomprensivo. A questo fine viene incontro quella stessa associazione di circostanze; lo stesso semicartello d’interessi bancari che utilizza il credito del paese sotto la forma della finanza azionaria è anche il guardiano del credito nazionale nel suo complesso. Da ciò risulta che, per quanto concerne le grosse aperture di credito d’importanza fondamentale, i crediti e i debiti sono in effetti combinati e compensati nell’ambito del cartello, in modo che nessun sostanziale squilibramento della situazione creditizia possa aver luogo se non per libera scelta del semicartello di aziende bancarie investitoci; in altri termini, se non nel caso in cui esse prevedano di ricavare un vantaggio permettendo che la situazione del credito sia squilibrata, e non oltre il limite che più sia conveniente ai loro scopi collettivi, contrapposti al resto della società. In un simile sistema chiuso nessuna emissione di obbligazioni di credito o moltiplicazione di titoli azionari, con la risultante inflazione dei valori, porta con sé necessariamente alcun rischio di liquidazione, dato che crediti e debiti sono in effetti compensati nell’àmbito del sistema. Tra parentesi si può anche osservare che in tale situazione la parola (credito» non ha alcun particolare significato, se non come metodo contabile. Il credito è anch’esso una delle istituzioni logorate dal tempo, destinate a subire l’obsolescenza in seguito ai perfezionamenti. Questo processo di combinazione e confederazione che sta rimodellando il mondo del credito e della finanza azionaria è stato grandemente facilitato in America con l’istituzione del sistema della Riserva Federale5, mentre risultati

pressoché analoghi sono stati conseguiti altrove con strumenti similari. Il sistema ha molto contribuito a estendere, facilitare, semplificare e consolidare il controllo unificato dei meccanismi di credito del paese, lasciando in modo assai conveniente il controllo sostanziale in mano a quei maggiori interessi finanziari che già concentravano in sé il controllo del credito e dell’attività industriale in forza delle circostanze e mediante la sapiente manipolazione delle parti interessate. Con questo mezzo il nucleo sostanziale del sistema creditizio del paese è concentrato in un tutto unico, autoequilibrato, chiuso ed inattaccabile, autoassicurato contro ogni rischio e squilibrio. Tutto ciò converge alla definitiva stabilizzazione degli affari del paese; ma, dal momento che riduce i traffici finanziari ad una routine priva di rischi, converge anche all’ipotizzabile obsolescenza della finanza azionaria ed in seguito, forse, del banchiere investitore. 1. Pubblicato su «The Dial» del 31 maggio 1919. Sul capitano d’industria, vedi anche il saggio The Captain of Industry apparso su «Freeman» del 18 aprile 1923. 2. Economista, docente alla Cornell University. I suoi rapporti con Veblen furono caratterizzati dalla reciproca disistima. 3. Allusione a John Pierpont Morgan (1837-1913), banchiere dal 1864. Morgan fu il fondatore delle società finanziarie del tipo holding. Nel 1901 egli promosse e finanziò la fusione della Carnegie Steel, della Federai Steel e di molte altre aziende siderurgiche in unico trust, che da solo controllava i due terzi della capacità produttiva nazionale nel settore dell’acciaio. Nasceva così la United States Steel Corporation, il primo colosso con un capitale di oltre un miliardo di dollari. È appunto Morgan che incarna agli occhi di Veblen la figura del banchiere-investitore come centro motore della vita degli affari. 4. Così fu definito il periodo 1897-1901. 5. II Federal Reserve System fu istituito nel 1913, agl; inizi dell’amministrazione Wilson, per assicurare un maggior controllo dello stato sql sistema bancario e sulla circolazione monetaria.

CAPITOLO III. I CAPITANI DELLA FINANZA E GLI INGEGNERI1 Il sistema industriale odierno differisce notevolmente, sotto più di un aspetto, da tutti quelli del passato. Esso è in modo preminente un sistema, autoequilibrato e comprensivo; un sistema di processi meccanici interconnessi, piuttosto che di abile manipolazione; ha carattere meccanico anziché manuale. È un’organizzazione di energie meccaniche e di risorse materiali, più che di abili artigiani e di arnesi, sebbene gli operai specializzati e gli arnesi formino anch’essi una componente indispensabile del suo vasto meccanismo; inoltre ha carattere impersonale, sul modello delle scienze della materia, a cui attinge costantemente. Esso si traduce nella «produzione in massa» di beni e servizi specializzati e standardizzati. Per tutte queste ragioni si presta al controllo sistematico sotto la direzione degli esperti industriali, dei tecnici qualificati, che possono esser definiti «ingegneri della produzione» in mancanza di un termine migliore. Il sistema industriale funziona come un’organizzazione comprensiva di molti e diversi processi meccanici interconnessi, interdipendenti ed equilibrati tra loro in modo tale che il regolare funzionamento di ciascun componente di esso è condizionato dal regolare funzionamento di tutto il resto. Perciò funziona nel modo migliore solo a condizione che quegli esperti industriali, o ingegneri della produzione» operino insieme di comune intesa; e più particolarmente a condizione che essi non operino in contrasto reciproco. I tecnici specialisti, la cui costante supervisione è indispensabile per il regolare funzionamento del sistema industriale, costituiscono lo stato maggiore dell’industria, e il loro compito è di controllare la strategia produttiva nel suo complesso e di tener sotto sorveglianza le tattiche produttive particolari. Tale è la natura del sistema industriale, dal cui regolare funzionamento dipende il benessere materiale di tutti i popoli civili. È un vasto sistema, tracciato secondo un piano d’interdipendenza stretta e comprensiva, tale che nessuna nazione o società ha nulla da guadagnare, in fatto di benessere materiale, a spese di alcuna altra nazione o società. Dal punto di vista del benessere materiale, lo stadio della tecnica industriale ha riunito tutti i popoli

civili in un’unica vasta azienda ben avviata, per il cui regolare funzionamento è essenziale che la classe dei tecnici specialisti, la quale grazie, all’addestramento, all’acume e agli interessi forma lo stato maggiore dell’industria, abbia mano libera nel disporre delle risorse utilizzabili in fatto di materiali, di attrezzature e di manodopera, a prescindere da qualunque pretesa nazionale o interesse costituito. Ogni misura di ostruzione, diversione o impedimento di ciascuna delle forze produttive disponibili, rivolta al fine del guadagno particolare di una nazione o di un investitore, produce inevitabilmente una disarticolazione del sistema, il che comporta uno sproporzionato abbassamento dell’efficienza operativa di questo, e quindi una perdita sproporzionata per la collettività, cioè una perdita netta per tutte le sue componenti. E nel frattempo gli uomini di governo sono sempre all’opera per deviare e ostacolare in più modi le forze produttive del sistema industriale, per il particolare vantaggio dell’una o dell’altra nazione a spese di tutte le altre; e i capitani della finanza operano in contrasto reciproco ed in combutta per deviare tutto ciò che possono in favore del particolare profitto di questo o quell’interesse costituito, quale che ne sia il costo per gli altri. Accade in tal modo che il sistema industriale sia deliberatamente ostacolato mediante le discordie, le errate direttive e la disoccupazione delle risorse materiali, degli impianti e della manodopera in ogni occasione in cui gli uomini di governo o i capitani della finanza sono in grado di porre le mani sul suo meccanismo; e tutti i popoli civili soffrono di comuni privazioni perché il loro stato maggiore di esperti industriali è in tal modo obbligato a ricevere ordini ed a sottostare al sabotaggio da parte degli uomini di governo e degli interessi costituiti. Al mondo della politica e a quello degli investimenti si permette tuttora di decidere di problemi di politica industriale che dovrebbero palesemente esser lasciati alla discrezionalità dello stato maggiore degli ingegneri della produzione, i quali non sono guidati da alcun pregiudizio commerciale. Senza dubbio questa descrizione del sistema industriale e delle tribolazioni che lo tormentano può sembrar esagerata. Tuttavia non s’intende sostenere che essa sia valida per alcun periodo anteriore al Novecento, né per alcuna società arretrata che si trovi ancora fuori della portata dell’industria meccanica. Solo in modo graduale, via via che l’industria meccanica subentrava progressivamente durante il secolo scorso nella produzione di beni e servizi, passando alla produzione in massa, il sistema industriale ha assunto questo carattere di vasta organizzazione di processi interconnessi e

d’interscambio di materiali; e solo nel Novecento questa progressione cumulativa è giunta al culmine con effetti tali che la descrizione precedente sta manifestamente diventando oggi veritiera. Pure, anche oggi essa è valida in modo sicuro e palese solo per quanto concerne le principali industrie meccaniche, quei settori industriali fondamentali che determinano le condizioni basilari di vita, ed in cui la produzione in massa è divenuta la regola normale e indispensabile. Tali, ad esempio, i trasporti e le comunicazioni; la produzione e l’impiego industriale del carbone, del petrolio, dell’elettricità e dell’energia idraulica; la produzione dell’acciaio e di altri metalli; della pasta di legno, del legname da costruzione, del cemento e di altri materiali per costruzioni; delle fibre tessili e della gomma; ed ancora la macinazione del grano e gran parte della sua coltivazione, così come l’inscatolamento della carne e buona parte dell’industria dell’allevamento del bestiame. Vi è naturalmente una larga porzione dell’industria, in molti settori, che non è stata inserita in maniera diretta e decisiva, o lo è stata solo in parte ed in modo discutibile, in questa rete di processi meccanici e di produzione di massa. Ma questi altri settori industriali che rimangono ancora legati ad un diverso e più antiquato modello operativo sono in ultima analisi periferici e sussidiari del sistema industriale organizzato su basi meccaniche, dipendenti o subordinati alle maggiori industrie di base che formano la massa operante del sistema e che perciò determinano il ritmo di tutte le altre. Fondamentalmente, quindi, e per quel che riguarda queste maggiori industrie meccaniche dal cui regolare funzionamento dipende il benessere materiale quotidiano della società, la descrizione è valida senza alcuna sostanziale mitigazione. Si deve però aggiungere che anche in questi maggiori, primari e basilari settori produttivi il sistema non ha ancora raggiunto una misura decisiva d’interdipendenza strettamente intrecciata, di equilibrio e di complicazione; esso procede con un’efficienza del tutto sopportabile, nonostante una quantità assai considerevole di persistente squilibramento. In altri termini, il sistema industriale nel suo complesso non si è ancora trasformato in una struttura e in un processo delicatamente bilanciati al punto che la consueta quantità di squilibramento e sabotaggio necessaria per il normale controllo della produzione con metodi affaristici paralizzi senz’altro il tutto; esso non è ancora intrecciato abbastanza strettamente perché ciò accada. Eppure, l’entità e la misura della paralisi dovuta al legittimo sabotaggio affaristico, di cui soffre proprio oggi l’industria del mondo civile, serve ad argomentare che può

non esser molto lontano il giorno in cui i processi intercomunicanti del sistema industriale saranno divenuti così strettamente interdipendenti e delicatamente bilanciati che perfino quel poco di normale sabotaggio comportato dalla consueta condotta degli affari porterà il tutto ad un fatale crollo. Lo scompiglio e le privazioni prodotte da ogni sciopero ben organizzato e di vaste dimensioni costituiscono un ulteriore argomento in questo senso. In effetti la progressiva evoluzione del sistema industriale verso un onnicomprensivo equilibrio meccanico di processi interconnessi sembra avvicinarsi ad un punto critico, al di là del quale non sarà più possibile lasciarne il controllo in mano agli uomini d’affari operanti in contrasto reciproco per il privato guadagno, o affidarne la successiva amministrazione a coloro che non siano tecnici esperti idoneamente addestrati, ingegneri della produzione senza interessi commerciali. Ciò che questi ultimi potranno farne a quel punto non è troppo chiaro, ed il meglio che essi possono fare può non esser sufficiente; ma sta comunque risultando abbastanza evidente l’affermazione negativa, secondo la quale l’attuale stadio meccanico della tecnica industriale non tollererà a lungo la sopravvivenza del controllo sulla produzione da parte degli interessi costituiti in base alla regola affaristica corrente dell’incapacità deliberata. All’inizio, cioè durante l’evoluzione iniziale dell’industria meccanizzata, e in particolare in quel fiorire di nuove industrie meccaniche che sorsero direttamente dalla rivoluzione industriale, non c’era alcuna marcata separazione tra gli esperti industriali e i dirigenti aziendali. Ciò accadeva prima che il nuovo sistema industriale si fosse spinto innanzi sulla via della specializzazione e complessità progressiva, e prima che gli affari avessero raggiunto dimensioni vaste e impegnative; perciò anche gli uomini d’affari dell’epoca, pur privi di uno speciale tirocinio in materia tecnica, erano ancora in grado di esercitare una specie d’intelligente supervisione di tutto quanto, e di comprendere una parte di ciò che era necessario per la direzione meccanica del lavoro che essi finanziavano e da cui traevano il loro reddito. Non era allora raro che gli stessi progettisti dei processi e degli impianti industriali si occupassero anche dell’aspetto finanziario, ed insieme dirigessero la fabbrica. Ma fin da un momento iniziale dell’evoluzione si mise in moto una progressiva differenziazione, tale da dividere coloro che progettavano e amministravano i processi industriali dagli altri che divisavano e dirigevano le transazioni commerciali e si occupavano dell’aspetto finanziario; subentrò quindi una corrispondente separazione di poteri tra la direzione aziendale e i

tecnici esperti. Compito dei tecnici divenne quello di determinare le realizzazioni tecnicamente possibili nel campo dell’industria produttiva, e di congegnare modi e mezzi per la loro esecuzione; ma la direzione aziendale continuava sempre a decidere, secondo la logica commerciale, quanto lavoro doveva esser svolto e che tipo e qualità di beni e servizi dovevano esser prodotti; e la decisione della direzione aziendale è sempre rimasta quella definitiva, stabilendo sempre il limite oltre il quale la produzione non deve andare. Con il continuo incremento della specializzazione, gli esperti hanno avuto necessariamente una voce sempre maggiore negli affari dell’industria; ma le loro conclusioni relative al lavoro da svolgere ed ai modi e mezzi da impiegare nella produzione sono state asservite ai deliberati dei dirigenti aziendali relativi a ciò che è conveniente ai fini del profitto commerciale. Questa separazione tra direzione d’affari e direzione industriale ha continuato a progredire ad un ritmo sempre più accelerato, perché lo speciale tirocinio e l’esperienza necessari per ogni organizzazione e direzione decentemente efficiente dei processi industriali sono divenuti sempre più impegnativi, richiedendo speciali conoscenze e talento da parte di chi è incaricato di tale funzione ed esigendone in modo esclusivo l’interesse e l’attenzione per il lavoro da svolgere. Ma questi specialisti nelle cognizioni, nei talenti, negli interessi e nelle esperienze della tecnica che sono balzati sempre più in primo piano per tal via – inventori, progettisti, chimici, mineralogisti, geologi, specialisti in agraria, dirigenti della produzione ed ingegneri di molte specie e denominazioni – sono sempre rimasti alle dipendenze dei capitani d’industria, cioè dei capitani della finanza, la cui opera è consistita nel rendere smerciabili le cognizioni e i talenti degli esperti industriali e nel metterli a frutto per il loro proprio profitto. Non è forse necessario aggiungere il corollario assiomatico, secondo cui i capitani hanno sempre messo in tal modo a profitto i tecnici e le loro cognizioni solo nella misura che serviva al loro proprio profitto commerciale, non fino al limite della capacità di quelli, o fino al limite imposto dalle circostanze materiali o dalle esigenze della società. Il risultato è stato, in modo uniforme e ovvio, che la produzione di beni e servizi è stata deliberatamente bloccata ad un livello inferiore alla capacità produttiva, mediante la riduzione della produzione stessa e lo squilibramento del sistema produttivo. Due sono le ragioni principali di ciò, e ambedue hanno operato insieme per tutta l’epoca delle macchine in modo da bloccare la produzione industriale ad un livello

sempre più lontano per difetto dalla capacità produttiva. a) L’esigenza commerciale del mantenimento di un prezzo profittevole ha condotto ad una riduzione sempre più imperativa della produzione, ad un ritmo corrispondente a quello con cui il progresso della tecnica industriale potenziava la capacità produttiva. b) Il continuo progresso della tecnologia meccanica ha richiesto una sempre crescente quantità e varietà di speciali cognizioni, lasciando quindi gli affaristi capitani della finanza sempre più in arretrato, rendendoli via via meno capaci di comprendere ciò che è normalmente necessario nel campo degli impianti industriali e del personale. Di conseguenza essi hanno in pratica mantenuti i prezzi ad un livello profittevole riducendo la produzione anziché abbassandone i costi per unità prodotta, perché non avevano quella familiarità di lavoro con gli opportuni dati di fatto della tecnica che li avrebbe posti in grado di pervenire ad una valutazione passabilmente valida dei modi e mezzi idonei ad abbassare il costo della produzione; ed insieme, sagaci uomini d’affari quali erano, non era loro possibile aver fiducia nella fedeltà da salariati di tecnici che essi non capivano. Il risultato è stata una scelta alquanto diffidente e operata alla cieca dei procedimenti e del personale ed una conseguente forzata incompetenza nella direzione dell’industria, una riduzione della produzione al di sotto dei bisogni della società, della capacità produttiva del sistema, e anche al di sotto del livello che un intelligente controllo della produzione avrebbe reso commercialmente vantaggioso. Nei primi decenni dell’era delle macchine i limiti imposti all’opera degli esperti dalle esigenze del profitto affaristico e dall’ignoranza degli uomini d’affari in fatto di tecnica non sembrano aver rappresentato un grave inconveniente, sia in quanto impedimento ai successivi sviluppi delle cognizioni tecniche che come ostacolo al loro normale impiego nell’industria. Ciò prima che l’industria meccanica avesse molto progredito in fatto di campo d’applicazione, di complessità e di specializzazione; e inoltre prima che la successiva opera dei tecnici avesse portato il sistema industriale ad una capacità produttiva così elevata, da porlo in una situazione di continuo pericolo di produrre più di quanto è necessario ai fini del profitto degli affari. Ma gradualmente, con il passar del tempo e il progresso della tecnica industriale verso un più ampio ambito d’applicazione ed una maggior dimensione, e verso un’aumentata specializzazione e standardizzazione dei procedimenti, il complesso delle cognizioni che costituisce lo stadio della tecnica ha richiesto un più elevato grado di addestramento formativo degli specialisti industriali; mentre ogni direzione industriale passabilmente

efficiente ha necessariamente fatto affidamento in misura crescente su questi ultimi e sui loro particolari talenti. Contemporaneamente, ed a causa del medesimo mutamento di circostanze, i capitani della finanza, spinti da un’applicazione sempre più stretta ai problemi degli affari, si sono allontanati ulteriormente dalle realtà consuete dell’industria produttiva; inoltre, bisogna ammetterlo, costoro hanno continuato a diffidare sempre più dei tecnici specialisti, che non capiscono, ma di cui non possono neppure fare a meno. I capitani hanno continuato per forza di cose ad impiegare i tecnici, ed a far danaro per loro, ma l’hanno fatto con riluttanza, in modo tardivo e parsimonioso, e con una sapiente circospezione; ciò solo perché e nei limiti in cui erano stati persuasi che l’impiego di quei tecnici era indispensabile per far danaro. Una conseguenza di questa persistente e universale riluttanza e circospezione da parte dei capitani è stato un crescente impiego incredibilmente antieconomico delle risorse materiali, ed un’organizzazione delle attrezzature e della manodopera incredibilmente dilapidatoria nelle grandi industrie, in cui il progresso tecnico è stato più marcato. Per buona parte è stata proprio questa situazione poco edificante, a cui le principali industrie sono state condotte da quei miopi capitani d’industria, che ne portò il regime a fine ingloriosa, trasferendo l’iniziativa e la discrezionalità in questo campo nelle mani dei banchieri investitori. Per consuetudine questi ultimi avevano occupato una posizione intermedia, o sconfinante, tra le funzioni di un agente di borsa e quelle di un sottoscrittore di emissioni azionarie – una simile posizione è in effetti tuttora loro attribuita nelle opere standard sulla finanza azionaria. La dimensione sempre più vasta dell’impresa azionaria ed il sorgere di una reciproca intesa tra queste aziende hanno avuto pure la loro parte in quella svolta. Ma verso quell’epoca, inoltre, gli «ingegneri consulenti» stavano venendo in notevole evidenza in molti di quei settori industriali in cui la finanza azionaria era abitualmente interessata. Per quanto concerne il presente ragionamento la normale funzione degli ingegneri consulenti è consistita nell’esprimere ai banchieri investitori pareri circa la validità industriale e commerciale, passata e futura, di qualsiasi iniziativa da sottoscrivere. In tale funzione sono compresi un esame accurato ed imparziale delle caratteristiche fisiche di ogni determinata situazione, ed una altrettanto imparziale verifica dei conti e valutazione delle prospettive commerciali di tali iniziative, da servire come direttive per i banchieri o i cartelli di banchieri interessati nel caso specifico in qualità di sottoscrittori. Su

questa base nacquero in breve degli accordi di lavoro ed una reciproca intesa tra gli ingegneri consulenti e le aziende bancarie abitualmente interessate a sottoscrivere imprese azionarie. L’effetto di questa svolta è stato duplice: l’esperienza ha portato alla luce il fatto che la finanza azionaria nelle sue espressioni migliori e più valide è oggi divenuta una questione di routine burocratica estesa e standardizzata, comprendente necessariamente le relazioni reciproche tra varie aziende azionarie, ed atta ad esser sbrigata nel modo migliore da parte di personale impiegatizio composto da contabili specializzati; e la stessa esperienza ha posto le aziende finanziarie in contatto diretto con lo stato maggiore dei tecnici del sistema industriale, la cui supervisione è divenuta sempre più imperativa nella condotta di qualsiasi impresa industriale profittevole. Ma allo stesso modo è apparso chiaro che il finanziatore di società azionarie della tradizione ottocentesca non è più un elemento essenziale della finanza azionaria di maggiori dimensioni e responsabilità. Egli non è più, in realtà, nient’altro che una ruota intermedia di trasmissione nel meccanismo economico, la cui unica funzione è quella di consumare un poco del lubrificante. Da quando e nei limiti in cui questo passaggio dall’Ottocento al Novecento è stato portato a compimento, il finanziatore di società azionarie ha cessato di esser un capitano d’industria, diventando un luogotenente della finanza; il posto di comando è stato assunto dai banchieri investitori confederati, e amministrato come una routine contabile standardizzata, comprendente l’emissione di titoli azionari e le fluttuazioni dei loro valori, ed anche in certo modo la regolazione del ritmo e del volume della produzione delle imprese industriali passate in tal modo sotto il controllo dei banchieri investitori. Nel complesso, questa è la situazione odierna del sistema industriale e del mondo finanziario che lo controlla. Ma questo stato di cose non è tanto un fatto compiuto, trasmesso dal recente passato, quanto il culmine a cui tutto il passato recente tende nel presente immediato e la manifesta tendenza dei fatti nel prevedibile futuro. Solo nel corso degli ultimi anni questa situazione dell’industria ha assunto in modo evidente la forma ora delineata, ed ancor oggi è solo nei maggiori settori industriali, i quali determinano il ritmo di marcia del resto e che sono del tutto al passo con le nuove norme della tecnica, che tale stato di cose ha raggiunto una forma compiuta. In questi maggiori e basilari settori del sistema industriale, peraltro, l’attuale situazione e la tendenza dei fatti è inconfondibile. Intanto rimane in piedi ancora buona

parte del regime contrassegnato dalla regola del pollice per prender le misure, dal sabotaggio concorrenziale e dagli intrallazzi del commercio in cui i capitani affaristi dell’antico ordinamento si trovano così bene a loro agio, e che ha rappresentato quanto di meglio quei capitani abbiano saputo congegnare per la direzione del sistema industriale di cui avevano il comando. Perciò ovunque gli esperti della produzione stanno oggi assumendo la direzione, rilevandola dalla manomorta dei capitani fattisi da sé, e ovunque essi hanno modo d’indagare sulle condizioni produttive fissate, trovano il campo ingombro di ogni sorta d’incredibili espedienti dilapidatori ed inefficaci – espedienti che forse sosterrebbero l’esame di un qualsiasi anziano profano moderatamente stupido, ma che hanno tutta l’aria di un lavoro svolto alla cieca agli occhi di persone che sappiano qualcosa in fatto di tecnica progredita e del suo funzionamento. A tutt’oggi, dunque, l’evoluzione e la conduzione del sistema industriale presentano quest’esito singolare. La tecnica – lo stadio delle tecniche produttive – che è in vigore nell’industria meccanica costituisce in modo preminente un capitale comune di cognizioni e di esperienze, posseduto in comune dai popoli civili. Essa esige l’impiego di operai qualificati e istruiti – nati, allevati, addestrati e istruiti a spese del popolo nel suo complesso. Essa richiede inoltre, con insistenza sempre più imperiosa, un corpo di esperti altamente qualificati e particolarmente dotati, di vari e diversi tipi: anche questi nascono, sono allevati e addestrati a spese della società nel suo complesso, e attingono le necessarie speciali cognizioni dal capitale comune di esperienza accumulato dalla società. Questi esperti, tecnici, ingegneri, o qualunque termine sia loro più idoneo, compongono l’indispensabile Stato Maggiore del sistema industriale, che non potrebbe funzionare senza la loro guida e correzione degli errori immediata e incessante. Si tratta di una struttura organizzata meccanicamente, formata da processi tecnici progettati, installati e condotti dagli ingegneri della produzione; senza di loro e senza la loro costante attenzione le attrezzature industriali, gli impianti meccanici dell’industria, equivalgono ad altrettanti rottami. Il benessere materiale della comunità è legato senza mezzi termini al regolare funzionamento del sistema industriale, e perciò al suo controllo senza residui da parte degli ingegneri, che sono i soli competenti a dirigerlo. Per svolgere come si deve il loro lavoro, questi membri dello stato maggiore industriale devono aver mano libera, non imbarazzata da considerazioni e restrizioni commerciali; per la produzione dei beni e servizi necessari alla società essi non hanno bisogno né ricavano il

minimo beneficio da qualsiasi supervisione o interferenza da parte dei proprietari. Ma i proprietari assenteisti, oggi in effetti rappresentati dai banchieri investitori confederati, continuano a controllare gli esperti industriali ed a limitarne arbitrariamente la discrezionalità per il proprio profitto commerciale, senza tener conto dei bisogni della comunità. A tutt’oggi questi componenti dello stato maggiore del sistema industriale non si sono uniti per formare una sorta di forza operativa autodiretta; e sono stati investiti di un controllo nient’altro che occasionale, fortuito e provvisorio su qualche settore sconnesso d’impianti industriali, senza alcuna relazione diretta e decisiva con quel personale dell’industria produttiva che può esser senz’altro paragonato agli ufficiali di linea e ai soldati semplici. È ancora una prerogativa intatta della direzione finanziaria e dei suoi agenti finanziari quella di «assumere e licenziare». La disposizione ultima di tutte le forze produttive rimane tuttora nelle mani degli uomini d’affari, che continuano a disporne per fini diversi da quelli produttivi. E ciò nonostante sia noto a tutti che gli esperti della produzione, se fosse loro lasciata una ragionevole mano libera, sarebbero in grado di aumentare rapidamente la normale produzione industriale di parecchie volte – variamente stimate tra il 300 ed il 1200 per cento della produzione corrente. Ciò che blocca la strada ad un simile aumento della normale produzione di beni e servizi è l’affarismo consueto. Ultimamente quei tecnici hanno cominciato ad acquisire una inquieta «coscienza di classe»2 ed a riflettere sul fatto che essi costituiscono tutti insieme l’indispensabile stato maggiore del sistema industriale. La loro coscienza di classe ha assunto l’aspetto immediato di una crescente sensibilizzazione allo spreco e alla confusione insiti nella direzione dell’industria da parte degli agenti finanziari dei proprietari assenteisti. Stanno cominciando a valutare appieno quell’onnipervasivo malgoverno dell’industria, che è inseparabile dal suo controllo a fini commerciali. Tutto ciò li spinge a rendersi conto della loro vergogna e del danno causato al bene comune. Per questo gli ingegneri stanno cominciando a riunirsi e a domandarsi «che ne pensi» ? Quest’inquieto movimento ebbe inizio tra i tecnici, in modo indefinito e fortuito, negli ultimi anni del secolo scorso; quando gli ingegneri consulenti, e subito dopo gli «ingegneri dell’efficienza»3, cominciarono a operare sparse correzioni di dettaglio, che misero in luce l’incompetenza industriale di quegli anziani profani che facevano affari in modo conservatore a spese dell’industria. Gli ingegneri consulenti del tipo standard, a quel tempo come

in seguito, sono tecnici commercializzati, il cui compito consiste nel valutare il valore industriale di qualsiasi determinata iniziativa al fine del suo sfruttamento commerciale. Sono un incrocio tra un tecnico specialista ed un agente commerciale, ostacolati dai limiti di ambedue e di solito non del tutto competenti in nessuno dei due campi. La loro normale posizione è quella di dipendenti dei banchieri investitori, stipendiati o pagati in onorari, e la loro sorte consueta è il successivo passaggio da una impostazione tecnica ad una apertamente commerciale. Il caso degli ingegneri dell’efficienza, o esperti della direzione scientifica, è alquanto simile; anch’essi si sono dedicati a valutare, esporre e correggere le deficienze commerciali della direzione consueta delle organizzazioni industriali in cui indagano e a convincere gli uomini d’affari al comando che si possono ragionevolmente ricavare maggiori introiti netti sfruttando con una tosatura più rasente le forze industriali a loro disposizione. Durante gli anni iniziali del nuovo secolo si concentrò un vivace interesse sulle opinioni e sui commenti di questi gruppi di esperti industriali; non inferiore fu l’interesse sollevato dalle loro illustrazioni della realtà contemporanea, le quali indicavano deficienze, fessure e attriti onnipervasivi nel sistema industriale, dovuti alla sconnessa e miope direzione di esso da parte di avventurieri commerciali miranti al profitto privato. Nei pochi anni trascorsi dall’inizio del secolo, i membri di questa ufficiosa categoria degli ingegneri in senso lato si sono interessati al problema dell’abituale cattiva amministrazione frutto di ignoranza e di sabotaggio commerciale, anche a prescindere dalla idiozia commerciale insita in tutto ciò; ma nel loro ambito sono solo i giovani, piuttosto che gli anziani, a vedere l’industria in una luce diversa dal suo valore commerciale. Le circostanze hanno voluto che la generazione più anziana del mestiere sia divenuta del tutto commercializzata; il suo normale modo di vedere è stato informato da un lungo e ininterrotto apprendistato sotto i finanziatori di società azionarie e i banchieri investitori, così che essa è ancora abituata a concepire il sistema industriale come un espediente utile in modo indiretto per far danaro. Di conseguenza le Associazioni e gli Istituti degli Ingegneri4 ufficialmente costituiti, che sono diretti e controllati da ingegneri vecchi e giovani dalla mentalità di vecchio stampo, continuano anch’essi a presentare, nelle loro critiche e nelle loro proposte, l’inclinazione commerciale dei loro creatori. Ma la nuova generazione che sta subentrando in questo secolo non è altrettanto fedele alla tradizione dell’ingegneria commerciale, che fa del tecnico un timoroso luogotenente del capitano della finanza.

Per insegnamenti ricevuti e forse anche per inclinazione innata, i tecnici trovano facile e convincente la classificazione di persone e cose in termini di realizzazioni tangibili, senza secondi fini commerciali, salva la misura in cui il loro apprendistato sotto i capitani della finanza può aver trasformato i secondi fini commerciali in una loro seconda natura. Molti membri della generazione più giovane stanno cominciando a comprendere che l’ingegneria ha inizio e termine nel campo delle realizzazioni tangibili, e che la convenienza commerciale è tutt’altra faccenda; anzi, stanno cominciando a capire che quest’ultima non ha null’altro da offrire all’opera dell’ingegnere se non deficienze, fessure e attriti. La quadriennale esperienza bellica è stata pure altamente istruttiva al riguardo. Proprio per questo stanno iniziando a ritrovarsi su una comune base d’intesa, come persone interessate ai modi e mezzi delle realizzazioni tangibili nel campo dell’industria produttiva, in concordanza con lo stadio delle tecniche che meglio conoscono; e vi è tra loro una crescente persuasione di costituire tutti insieme il gruppo dirigente sufficiente e indispensabile delle industrie meccaniche, dal cui lavoro di gruppo libero da vincoli dipende il regolare funzionamento del sistema industriale e quindi anche il benessere materiale dei popoli civili. Inoltre per questi uomini addestrati alla pervicace logica della tecnica tutto ciò che non può esser tradotto in termini di realizzazioni tangibili non ha realtà piena; di conseguenza essi stanno arrivando a capire come l’intero tessuto del credito e della finanza azionaria non sia che un tessuto di finzioni. Le obbligazioni di credito e le transazioni finanziarie si basano su taluni princìpi di formalità legale trasmessi dal Settecento, che in quanto tali sono anteriori all’industria meccanica e non esprimono alcuna certezza di rispondenza al vero per uomini addestrati alla logica di quell’industria. Nell’àmbito del sistema tecnologico basato sulle realizzazioni concrete, la finanza azionaria con tutte le sue operazioni ed atti è completamente futile; essa si inserisce nel piano di lavoro degli ingegneri come una semplice e gratuita intrusione, che sarebbe possibile eliminare senza scompensare affatto il lavoro alla sola condizione che la gente si decida in questo senso – cioè a condizione che sia posta fine alle finzioni della proprietà assenteista. Il suo unico effetto ovvio sulle attività di cui devono occuparsi gli ingegneri è uno spreco di materiali ed un rallentamento del lavoro; perciò la prossima domanda che gli ingegneri dovranno opportunamente porsi riguardo a questo logoro tessuto di proprietà, finanza, sabotaggio, credito, e reddito non guadagnato sarà probabilmente: perché ingombra il campo? E con ogni

probabilità troveranno una risposta pronta per l’impiego nella Sacra Scrittura. Sarebbe arrischiato voler pronosticare come, quando, in seguito a quale impulso e con quali effetti la categoria degli ingegneri si dovrà render conto del fatto di costituire una categoria e del fatto che le sorti materiali dei popoli civili sono fin d’ora senza limiti nelle sue mani. Ma è già abbastanza chiaro che le condizioni dell’industria e la tendenza dei convincimenti degli ingegneri stessi stanno convergendo verso un esito del genere. Finora si è di solito fatto affidamento sulle trattative interessate, condotte in continuazione e mai concluse, tra capitale e lavoro, tra gli agenti degli investitori e la massa dei lavoratori, per conseguire tutti i riassetti eventualmente auspicabili nel controllo dell’industria produttiva e nella distribuzione e nell’impiego dei suoi prodotti. Queste trattative hanno avuto necessariamente e continuano ad aver il carattere di transazioni d’affari, di contrattazioni sul prezzo, dato che ambedue le parti del negoziato rimangono sempre sul terreno consacrato della proprietà, della libertà di contrattazione e della cura dell’interesse proprio; proprio quello che la scienza commerciale del Settecento aveva esaminato, approvato e sanzionato, nell’epoca anteriore all’avvento di questo complicato sistema industriale. Nel corso di queste trattative senza fine tra i padroni e i loro operai si è avuta una certa unificazione approssimativa e provvisoria delle rivendicazioni e delle forze di ambedue le parti; così che ciascuna delle due parti riconosciute della controversia industriale è venuta a formare un interesse costituito legato non troppo strettamente, e ciascuna sostiene i suoi particolari diritti in quanto parte interessata. Ciascuna lotta per un qualche particolare guadagno proprio cercando di concludere un contratto profittevole per sé, e finora nessun portavoce disinteressato della società nel suo complesso o del sistema industriale in quanto complesso funzionante ha inciso seriamente nella controversia tra questi interessi costituiti in lotta. Ne sono risultati concessioni e compromessi affaristici, del genere dei negozi e delle vendite. È vero che durante la guerra, e per fini di natura bellica, vi furono alcune misure semiconcertate, adottate dall’esecutivo nell’interesse della nazione nel suo complesso come belligerante; ma si è sempre tacitamente convenuto che si trattava di misure straordinarie di guerra, non sostenibili in tempo di pace. In tempo di pace la norma accettata è ancora quella degli affari di sempre; vale a dire, investitori e lavoratori che disputano tra loro sulla base dell’affarismo di sempre. Queste trattative sono state necessariamente inconcludenti. Finché è

consentita la proprietà privata delle risorse e degli impianti industriali, oppure finché ad essa è lasciata una qualsiasi misura di controllo o di potere deliberante nella conduzione dell’industria, da qualsiasi riassetto non può derivare nulla di più sostanziale di una mitigazione, a titolo di concessione, dell’interferenza padronale sulla produzione. Di conseguenza non vi è alcunché di sovversivo in queste prove di contrattazione tra gli operai confederati e i proprietari coalizzati. È una partita di fortuna e di abili:à giocata tra due interessi costituiti che lottano per il private profitto, in cui il sistema industriale come complesso funzionante entra solo in veste di vittima d’interferenze interessate; e ciò nonostante che il benessere materiale della società, non ultimo quello de: lavoratori, dipenda dal suo regolare funzionamento, senza interferenze. Ogni mitigazione concessiva del diritto d’interferire sulla produzione da parte dell’uno o dell’altro di questi interessi costituiti, evidentemente, non produce nulla di più sostanziale di una mitigazione concessiva. A causa però del peculiare carattere tecnico del sistema industriale, con i suoi interconnessi processi produttivi specializzati, standardizzati, meccanici ed altamente tecnicizzati, è venuto gradualmente a formarsi il corpo dei tecnici specialisti della produzione, sotto la cui custodia si è ora posto per forza di circostanze il regolare funzionamento del sistema. Costoro sono, a causa delle circostanze, i custodi del benessere materiale della società, sebbene abbiano finora agito, in realtà, da custodi e procuratori di redditi franchi per le classi mantenute. Essi sono installati nella posizione di direttori responsabili del sistema industriale, e allo stesso tempo sono in grado di divenire gli arbitri del benessere materiale della società. Stanno acquisendo una coscienza di classe e non sono più guidati dagli interessi commerciali in una misura tale da far di loro un interesse costituito di tipo commerciale, alla stessa stregua dei proprietari coalizzati e dei lavoratori confederati; ed inoltre non rappresentano numericamente, anche per il loro modo consueto di pensare, una massa eterogenea e difficile a manovrarsi come i lavoratori confederati, il numero e la dispersione degli interessi dei quali hanno condannato alla sostanziale impotenza ogni loro sforzo. In breve, gli ingegneri sono nella posizione idonea a compiere la prossima mossa. In confronto con il popolo nel suo complesso, compresi i magnati della finanza e le classi mantenute, i tecnici specialisti qui presi in esame rappresentano un numero del tutto trascurabile; ma questo piccolo numero è indispensabile alla prosecuzione del funzionamento delle industrie produttive.

Il loro numero è così ridotto, e la loro classe è così nettamente definita ed omogenea, che un’organizzazione abbastanza compatta e unitaria delle loro forze dovrebbe instaurarsi in modo quasi naturale, non appena una qualsiasi apprezzabile frazione di essi sia mossa da uno scopo comune; e quest’ultimo non va cercato lontano, nell’universale confusione, ostruzione, spreco e rallentamento dell’industria che l’affarismo di sempre getta loro continuamente in faccia. Per di più essi sono a capo del personale dell’industria, gli operai, gli ufficiali di linea ed i soldati semplici; i quali stanno acquistando una predisposizione mentale a seguire i loro capi in qualsiasi avventura che prometta di far progredire il bene comune. Per questi uomini, sobriamente addestrati in uno spirito di realizzazioni concrete e forniti di una dose superiore alla media del senso dell’efficienza, ed anche provvisti del comune retaggio di predilezione per la norma del Vivi e lascia vivere, il rigetto di un logoro e ingombrante diritto di proprietà assenteista non dovrebbe sembrare con ogni probabilità un’infrazione traumatizzante di sacre realtà. Il diritto consuetudinario di proprietà, in grazia del quale gli interessi costituiti continuano a controllare il sistema industriale a vantaggio delle classi mantenute, appartiene ad un ordinamento di fatto più antico dell’industria meccanica; esso proviene da un passato fatto di piccole cose e di finzioni tradizionali. Per tutto ciò che concerne il sistema di realizzazioni concrete che forma il mondo della tecnica, esso manca di forma ed è privo di senso. Perciò non dovrebbe affatto sorprendere se, datole il tempo necessario per un’opportuna irritazione, la categoria degli ingegneri sia stimolata a coalizzarsi e a rigettare senz’altro la grande proprietà assenteista che va a vantaggio degli interessi costituiti e a danno del sistema industriale; dietro di essa poi stanno ammassate le legioni dei maltrattati semplici operai dell’industria, inquieti e desiderosi di mutamenti. Naturalmente la generazione di tecnici più anziana, commercializzata, si domanderà: perché dovremmo preoccuparci? Che cosa ci guadagneremo? Ma la generazione più giovane, non analogamente corrosa dall’esperienza commerciale, si domanderà con altrettante probabilità: che cosa ci perdiamo? C’è infine il fatto evidente che uno sciopero generale dei tecnici specialisti dell’industria non coinvolgerebbe necessariamente più di una minuscola frazione dell’uno per cento della popolazione; ma porterebbe rapidamente al crollo del vecchio ordinamento, spazzando via tra i rifiuti una volta per tutte il logoro tessuto della finanza e del sabotaggio assenteista. Una simile catastrofe sarebbe senza dubbio deplorevole. Potrebbe

sembrare quasi la fine del mondo a tutti coloro che prendono posto tra le classi mantenute, ma può apparire nient’altro che un incidente nel lavoro quotidiano agli ingegneri ed alle maltrattate legioni dei semplici operai. È una situazione che può ben a ragione esser deplorata; ma non serve a nulla perder la calma per un’associazione di circostanze. Né può far male ad alcuno il prender atto della situazione e ammettere che, in forza delle circostanze, l’effettuazione della prossima mossa spetta ora al Consiglio dei Rappresentanti dei Lavoratori Tecnici e dei Soldati5, a modo suo ed al tempo opportuno. Quando avverrà ed in che cosa consisterà questa mossa, se vi sarà, o anche quale aspetto essa assumerà, su tutto ciò non è possibile ad un profano farsi un’opinione certa. Ma quello che pare chiaro è che la dittatura industriale del capitano della finanza è mantenuta per la sopportazione degli ingegneri ed è suscettibile in ogni momento di esser fatta cessare a loro discrezione, a seconda della convenienza. 1. Pubblicato su «The Dial» del 14 giugno 1919. 2. Veblen pensa soprattutto, almeno secondo Daniel Bell, a Morris L. Cooke, ingegnere meccanico di Philadelphia e vicepresidente dell’A.S.M.E. (vedi nota alla pagina seguente); e a Henry L. Gantt, assistente e seguace delle dottrine di F. W. Taylor. Gantt aveva fondato nel 1916 un’organizzazione, chiamata la New Machine, di orientamento tecnocratico e in opposizione al potere della finanza. 3. Una terminologia venuta in voga intorno al 1910, con il successo del taylorismo. 4. Veblen si riferisce alla lotta condotta da Morris L. Cooke, dal 1915 ^ce-presidente dell’American Society for Mechanical Engineers, per sganciare l’organizzazione, di cui lo stesso Frederick W. Taylor era stato Presidente nel 1905, dal controllo del grande capitale. Questa battaglia ottenne risultati illusori, mostrando in breve tempo il suo fondamentale carattere corporativo; in analogia del resto con ciò che si verificò nell’American Institute of Mining Engineers. diretto da Herbert Hoover, il futuro Presidente degli Stati Uniti di impronta conservatrice (1928-1932), considerato a quel tempo un progressista. 5. Una terminologia evidentemente ricalcata sul modello dei soviet.

CAPITOLO IV. SUL PERICOLO DI UN SOMMOVIMENTO RIVOLUZIONARIO1 Il bolscevismo è una minaccia ai diritti acquisiti di proprietà e di privilegio. Perciò i guardiani degli interessi costituiti sono stati gettati in uno stato di rossa trepidazione dal protrarsi dell’esistenza della Russia Sovietica e dalle continue esplosioni dell’identico morbo rosso in altre parti del continente europeo. Si paventa, con una paura tale da averne i nervi a pezzi, che lo stesso morbo rosso del bolscevismo possa in breve infettare i ceti inferiori in America portando al rovesciamento dell’ordine costituito, non appena i ceti inferiori siano in grado di valutare appieno la situazione e di congegnare una direttiva di azione. La situazione è inquieta, e contiene in sé gli elementi di molte perturbazioni; almeno tale pare esser il convincimento dei guardiani dell’ordine costituito. Si sente che qualcosa del genere è in vista, sulla base dei fatti compiuti; perciò si teme, con una paura che spezza i nervi, che qualunque sorta d’informazione non indorata sui relativi dati di fatto e qualunque libera discussione popolare di essi possa logicamente aver effetti disastrosi. Di qui tutta questa indecorosa trepidazione. I guardiani degli interessi costituiti, ufficiali e semi-ufficiali, hanno permesso che la loro cognizione di questo sinistro stato di cose si sostituisse al loro senso comune. Lo svolgimento dei fatti li ha fatti uscir dai binari, gettandoli a capofitto in una sconsiderata politica di clamori e di repressione, per nascondere e sopprimere i dati di fatto e per escludere la discussione e la riflessione3 Nel frattempo i guardiani sono anche febbrilmente all’opera per mobilitare tutte quelle forze su cui si spera di poter fare affidamento per «mantenere sotto controllo la situazione» nel caso che debba accadere ciò che si prevede. L’unica risoluzione manifestamente conclusiva a cui siano pervenuti i guardiani degli interessi costituiti è che i ceti inferiori devono esser «tenuti sotto controllo» in vista di qualsiasi eventualità. L’unico loro principio di condotta stabilito sembra esser quello di non arrestarsi di fronte a nessuna difficoltà; in tutto ciò senza dubbio i guardiani sono animati dalle migliori intenzioni.

Ora, i guardiani degli interessi costituiti hanno presumibilmente ragione di scoraggiare ogni discussione aperta o ogni libera comunicazione d’idee ed opinioni; esse potrebbero produrre nient’altro che una scomoda irritazione e sfiducia popolare. Si sa che gli interessi costituiti si sono attivamente interessati alla prosecuzione della guerra, e non mancano prove che i loro portavoce siano stati ascoltati nei successivi consessi della pace. E senza dubbio meno si sa e si parla delle imprese degli interessi costituiti durante la guerra e dopo meglio è, sia per la tranquillità pubblica che per l’ulteriore espansione e profitto degli stessi interessi costituiti. Eppure non si deve ignorare che fatti di simile entità e di urgente interesse pubblico quali le manovre degli interessi costituiti durante la guerra e dopo non possono esser felicemente coperti tutti quanti con una congiura del silenzio. Una sorta di via di mezzo, una pubblicità temperata, sarebbe apparsa più appropriata. Può esser una disgrazia, ma cionondimeno è inevitabile che qualche fatto degno di nota debba obbligatoriamente venir alla luce; cioè qualche fatto sinistro. Dovrebb’esser chiaro a tutti i buoni cittadini che hanno a cuore la causa della legge e dell’ordine, che in una simile situazione una politica più illuminata di promesse conciliatorie e di dilazioni è più adeguata allo scopo di qualsiasi turbolento ricorso alla mano pesante e alla Camera Stellata4 Un tocco di storia, e più in particolare di storia contemporanea, avrebbe conferito ai guardiani un minimo di saggezza. Abilissimo com’è divenuto in ogni mezzo e modo di eludere impeccabilmente la spregevole maggioranza, il signorile governo britannico si destreggia in affari di questo tipo in modo assai migliore. Esso ha imparato che i gesti bellicosi suscitano inimicizie, e che i rimedi disperati debbono esser tenuti in riserva finché non sono necessari; mentre invece i guardiani degli interessi costituiti in America stanno palesemente mettendo in moto le cose per un’operazione capitale, della quale non vi è alcuna apparente necessità. Dovrebb’esser evidente a chi vi dedichi un minimo di riflessione che le cose non hanno raggiunto lo stadio fatale, in cui nulla di meno di un’operazione capitale può dare affidamento per salvare la vita agli interessi costituiti in America; non ancora. Ed anzi, non è che le cose debbano necessariamente e con sicurezza raggiungere un tale stadio, se sono adottate misure ragionevoli per evitare un allarme e un’irritazione inopportuni. Tutto ciò che occorre per mantenere di umore amabile i ceti, inferiori del popolo americano è una certa misura di paziente ambiguità e d’indugio, secondo il modello britannico; e tutto andrà di nuovo bene per i diritti acquisiti di proprietà e di privilegio, per un certo periodo avvenire.

La storia insegna che nessuna efficace sollevazione popolare può esser messa in atto contro istituzioni logore e inique se il movimento non corrisponde effettivamente alle particolari esigenze materiali della situazione che lo provoca; né d’altra parte un imminente sommovimento popolare può esser impedito senza fare i conti con quelle condizioni materiali che concorrono a suscitarlo. La lunga storia dei signorili compromessi, delle collusioni, delle conciliazioni e degli insuccessi popolari britannici è altamente istruttiva al riguardo. E dovrebbe esser evidente per ogni persona disinteressata, in seguito ad un’analisi anche superficiale dei dati di fatto pertinenti, che la situazione americana non offre oggi la combinazione di circostanze che sarebbe richiesta per un effettivo rovesciamento dell’ordine costituito o per un’espropriazione forzosa degli interessi costituiti che oggi controllano le sorti materiali del popolo americano. In breve, in forza delle circostanze il bolscevismo non è una minaccia attuale per gli interessi costituiti in America; sempre a condizione che i guardiani di quegli interessi costituiti non passino il limite, facendo precipitare la situazione con misure tali da far sembrare il bolscevismo di qualsiasi specie come il male minore, – ciò che rappresenta forse una clausola poco rassicurante, dati gli umori istericamente rossi dei guardiani. Nessun movimento per l’espropriazione degli interessi costituiti in America può aspirare ad un successo anche temporaneo ove non sia intrapreso da un’organizzazione competente a rilevare l’industria produttiva del paese nel suo complesso, e ad amministrarla fin dall’inizio secondo un programma più efficiente di quello oggi perseguito dagli interessi costituiti; e non vi è alcuna organizzazione del genere in vista o in prospettiva a breve scadenza. Ciò che di più prossimo ad una possibile organizzazione delle forze industriali si abbia in America, finora, è l’A.F.L.5: e basta farne il nome per dissipare l’illusione che vi sia alcunché da sperare o da temere nel senso di una mossa radicale da parte sua. L’A.F.L. è essa stessa uno degli interessi costituiti, pronto come ogni altro a dar battaglia per il suo margine di privilegi e di profitti. Inoltre sarebbe una fantasia del tutto chimerica il credere che un’organizzazione di lavoratori come l’A.F.L. sarebbe in grado di rilevare e dirigere una porzione considerevole del sistema industriale, anche se il suo univoco interesse rivolto a conseguire speciali privilegi per se stessa non escludesse ogni mossa in tal senso da parte sua. La Federazione non è organizzata per la produzione, bensì per la contrattazione; né è organizzata secondo criteri che sarebbero funzionali per la direzione del sistema

industriale nel suo complesso, o di qualsiasi particolare settore produttivo nell’ambito di esso. Essa è in realtà un’organizzazione rivolta non alla produzione di beni e servizi, ma alla sconfitta strategica dei datori di lavoro e delle organizzazioni rivali, mediante il ricorso alla disoccupazione forzata ed all’ostruzionismo. È diretta da tecnici esperti nei sistemi e nelle procedure per contrattare con i politicanti e per intimidire datori di lavoro e lavoratori, non da uomini dotati di particolare intuito o interesse nei modi e mezzi della produzione in massa e della direzione dei traffici; costoro non sono, né per i loro scopi è necessario che siano, tecnici in senso positivo, – e non si deve perder di vista il fatto che qualsiasi effettivo sommovimento, del tipo nebulosamente previsto dai politici isterici, dovrà sempre esser fondamentalmente opera di tecnici. In effetti, la Federazione è diretta da politicanti sani e sicuri, ed i suoi semplici iscritti sono adepti della «gavetta piena». Nessun guardiano deve preoccuparsi per la Federazione, e non vi sono in vista altre organizzazioni che si differenzino concretamente da essa negli aspetti che contano ai fini di una svolta effettiva in direzione di un sommovimento popolare – a meno che non si debba avanzare una discutibile eccezione per le Railroad Brotherhoods6 L’A.F.L. è un’organizzazione affaristica con un suo proprio interesse costituito, tendente a tenere alti i prezzi e bassa l’offerta, proprio secondo il consueto sistema direzionale degli altri interessi costituiti; non a dirigere l’industria produttiva od anche ad aumentare la produzione dei beni sotto qualunque direzione. Nella migliore delle ipotesi il suo scopo e la sua normale attività è quella di guadagnare qualche poco per i suoi membri ad un costo sproporzionato per il resto della comunità; ciò che non offre davvero la base intellettuale o materiale idonea per un sommovimento popolare. Né del resto sono l’A.F.L. e le altre organizzazioni per la «contrattazione collettiva» ad esser oggetto delle preoccupate attenzioni dei politici e delle molte congiure semi-ufficiali per la repressione della moderazione. Le loro paure, che ne mandano in pezzi i nervi, si concentrano piuttosto su quegli irresponsabili pellegrini dell’industria che formano gli I.W.W.7 e sui miserevoli e disgraziati miscredenti estranei il cui contributo al tutto è costituito da chiacchiere sconnesse in una qualche lingua straniera. Ora, se un’affermazione può esser fatta senza timore di sbagliarsi, è che questi relitti dell’industria non sono organizzati per assumersi le funzioni altamente tecniche connesse con l’amministrazione del sistema industriale. Eppure sono costoro e i loro simili che impegnano La massima attenzione delle molte

commissioni, comitati, clubs, leghe, federazioni, corpi di sindaci, e corporazioni per la caccia delle oche selvatiche con bandiera rossa8. In ogni luogo in cui l’industria meccanica sia entrata in campo in modo decisivo, come in America e nelle due o tre regioni industrializzate d’Europa, la società vive alla giornata in modo tale che la sua sussistenza dipende dall’efficiente funzionamento, giorno per giorno, del sistema industriale. In tale situazione è sempre facile provocare una grave perturbazione e uno scompenso del processo produttivo equilibrato, che è sempre fonte di immediate privazioni per larghi settori della comunità. Invero è proprio questo stato di cose – la facilità con cui l’industria può esser gettata nella confusione e con cui privazioni possono esser inflitte al popolo nel suo complesso – che costituisce il principale capitale di organizzazioni di parte come l’A.F.L. È uno stato di cose che rende facile ed efficace il sabotaggio e gli assicura un vasto campo d’azione; ma il sabotaggio non è la rivoluzione. Se lo fosse, l’A.F.L., gli I.W.W.., i Chicago Packers9 e il Senato degli Stati Uniti sarebbero da annoverare tra i rivoluzionari. Un sabotaggio di ampia portata, vale a dire uno squilibramento del sistema industriale tale da comportare privazioni per la società nel suo complesso o per qualche particolare settore di essa, è facile a praticarsi in ogni paese dominato dall’industria meccanica. Ad esso fanno di solito ricorso ambedue le parti di ogni controversia tra i datori di lavoro affaristi e i lavoratori; in effetti è un quotidiano espediente affaristico, ed il suo normale impiego non incontra serie censure. In determinate circostanze, quali per esempio quelle create proprio adesso dal ritorno della pace, un simile squilibramento dell’industria e impedimento alla produzione è un inevitabile espediente degli «affari consueti». Inoltre è ad uno squilibramento della stessa specie che si fa ricorso di solito come mezzo di coercizione in ogni tentato movimento rivoluzionario; esso è il sistema più semplice ed ovvio per iniziare una perturbazione rivoluzionaria in ogni paese industriale o commercializzato. Nelle attuali condizioni dell’industria, però, ogni simile movimento di riedificazione rivoluzionaria, per conseguire un successo anche transitorio, deve fin dall’inizio esser anche in grado di sormontare, quale che ne sia l’entità, l’iniziale squilibramento dell’industria, sia esso provocato o meno dal movimento stesso; e di svolgere una funzione costruttiva della particolare specie richiesta dalla disposizione corrente delle forze industriali e dall’attuale stretta dipendenza dei mezzi di sussistenza della comunità dal regolare funzionamento sistematico di quelle forze. Per conseguire risultati positivi e

per mantenere la posizione anche in via momentanea ogni movimento rivoluzionario deve provvedere in anticipo ad una conduzione sufficientemente produttiva del sistema industriale da cui dipende il benessere materiale della comunità, e ad un’adeguata distribuzione di beni e servizi a tutta la comunità. In caso contrario, date le attuali condizioni dell’industria, non si ottiene nulla più di un’effimera perturbazione e di una fase passeggera di privazioni accentuate. Un mancato successo, anche passeggero, nella direzione del sistema industriale condanna alla sconfitta inevitabile ed immediata ogni movimento rivoluzionario in qualsiasi paese industriale progredito. Per questo aspetto la lezione della storia viene meno, poiché l’attuale sistema industriale e il tipo di vita sociale strettamente intrecciato da esso imposto non trovano riscontro nella storia. Tale stato di cose, che condiziona la possibilità di un qualsiasi sommovimento rivoluzionario, è peculiare ai paesi industriali progrediti, e le restrizioni da esso imposte hanno efficacia vincolante in tali paesi nella misura in cui quelle società sono dominate dal sistema dell’industria meccanica. Il caso della Russia Sovietica può esser citato, in contrasto con tale stato di cose, per illustrarne la diversità. In confronto con l’America e con buona parte dell’Europa occidentale la Russia non è una regione industrializzata in modo decisivo, sebbene anch’essa dipenda dall’industria meccanica in misura maggiore di quanto si riconosca di solito; invero, la sua dipendenza dall’industria meccanica è così considerevole che può ancora dimostrarsi il fattore decisivo nella lotta attualmente in corso tra la Russia Sovietica e le potenze alleate10 Ora, è senza dubbio il protrarsi del successo dell’amministrazione sovietica della Russia che ha gettato in questo trasporto di panico i guardiani degli interessi costituiti in America e nei paesi civili d’Europa. È inutile negare che il soviet russo abbia conseguito una certa misura di successo, anzi una misura stupefacente di successo, ove si considerino le circostanze estremamente avverse in cui il soviet ha operato. Il fatto può esser deplorato, ma rimane. Il soviet ha avuto palesemente un successo molto superiore nell’aspetto materiale a quanto riferiscono i resoconti a cui è stato consentito di superare lo scrutinio dei Sette Censori e degli Uffici Associati di Prevaricazione delle potenze alleate11 Tale prolungato successo del bolscevismo in Russia – o la misura di successo che esso ha conseguito – è senza dubbio un giusto fondamento per un ragionevole grado di apprensione da parte dei buoni cittadini negli altri paesi; ma non serve affatto ad arguire che una misura

analoga di successo potrebbe esser conseguita da un movimento rivoluzionario che seguisse le stesse direttive in America, anche in assenza di interventi dall’esterno. La Russia Sovietica ha avuto successo sino al punto di sopravvivere per circa due anni in una situazione di gravissima inferiorità; ed è ancor oggi in dubbio se le potenze alleate saranno in grado di abbattere il soviet mediante l’impiego di tutte le forze di cui dispongono e con l’aiuto di tutti gli elementi reazionari della Russia e dei paesi vicini. Ma il soviet deve questa misura di successo al fatto che la società russa non è stata ancora industrializzata in un grado prossimo a quello dei suoi vicini occidentali; essa è stata capace di far ritorno in larga misura ad un tipo d’industria produttiva più antica, più semplice e meno interdipendente, tale che ogni minuscola frazione della disunita società russa è capace, in caso di bisogno, di ricavare i propri mezzi di sussistenza dalla terra mediante il proprio lavoro, senza quella dipendenza insistente e incessante da materiali e merci lavorate tratte da porti stranieri e da regioni lontane che è caratteristica delle società industriali avanzate. Il vecchio sistema di produzione casalinga non comporta un «sistema industriale» in senso impegnativo come l’industria meccanica. È vero che il sistema industriale russo opera anch’esso su una sorta di piano equilibrato del dare e dell’avere, dipende in misura considerevole dall’industria meccanica e attinge dagli scambi con l’estero molti dei suoi articoli d’impiego necessario; ma al momento attuale, e per un apprezzabile periodo di tempo, una popolazione industriosa e domestica del genere, che vive in stretto contatto con la terra e soddisfa i propri normali bisogni con metodi artigianali domestici, è in grado di mantenersi in un discreto stato di efficienza, se non di benessere, anche se virtualmente isolata dai centri industriali più progrediti e dalle più remote fonti di materie prime. Per gli ignoranti – vale a dire per i sapientoni del commercio – questa capacità del popolo russo di sopravvivere e rimanere attivo in una situazione di blocco esemplare è fonte d’incredulo stupore. È solo sotto l’aspetto della potenza militare, e quindi solo ai fini di una guerra d’aggressione, che una società del genere non può contare praticamente nulla in una contesa con le nazioni industriali progredite. Un simile popolo fa di esso un paese difficile alla conquista dall’esterno; la Russia Sovietica è autosufficiente, in modo disunito e privo di comodità, e in quanto tale è un paese assai ben difendibile, la cui conquista può ancora dimostrarsi estremamente difficile per le potenze alleate; ma dati i caratteri della

situazione non vi può esser la più lieve ombra di timore che essa possa con successo passare all’offensiva contro qualsiasi paese straniero, grande o piccolo, che utilizzi l’industria meccanica progredita. I governanti delle potenze alleate, che stanno oggi conducendo una guerra clandestina contro la Russia Sovietica, sono in grado di conoscere tale stato di cose; non ultimi quelli americani, che sono stati costretti dal sentimento popolare a limitare ed a camuffare con riluttanza la propria collaborazione con le forze reazionarie della Finlandia, della Polonia, dell’Ucraina, della Siberia12 e di altre regioni. Tutti costoro si son presi cura d’indagare con diligenza sulla situazione della Russia Sovietica; anche se, è vero, si sono pure preoccupati di diffondere informazioni sorprendentemente scarse – tale essendo in gran parte la ragion d’essere dei Sette Censori. I largamente pubblicizzati timori ufficiali e semiufficiali di un’offensiva bolscevica portata oltre le frontiere sovietiche possono esser con tutta sicurezza catalogati come un esempio degli artifici dei governanti; i quali conoscono bene la verità. Ciò che in effetti si teme è un contagio dello spirito bolscevico oltre le frontiere sovietiche, a detrimento degli interessi costituiti di cui quei governanti sono i guardiani; e sotto questo aspetto i timori degli anziani governanti non sono del tutto infondati, dato che essi sono pure in grado di sapere, senza bisogno di molte indagini, che non vi è un solo luogo o angolo dell’Europa civile e dell’America in cui i ceti inferiori abbiano nulla da perdere da un rovesciamento dell’ordine costituito tale da sopprimere i diritti acquisiti di privilegio e di proprietà, di cui costoro sono i guardiani. Ma l’America commercializzata non è la stessa cosa della Russia Sovietica. Nel complesso, l’America è un paese industriale progredito, avvolto nella ragnatela di un sistema industriale assai strettamente connesso e integrato. La situazione industriale, e quindi le condizioni del successo, sono radicalmente diverse nei due paesi per gli aspetti che determinano l’esito di ogni rivolta efficace. Perciò, lo si voglia o no, le direttive di fondo che dovrebbero esser necessariamente seguite nella messa in pratica di qualsiasi movimento rivoluzionario realizzabile nel nostro paese sono già tracciate dalle condizioni materiali dell’industria produttiva. In seguito a una provocazione vi potrebbe esser una ondata di disordini sediziosi, che però finirebbero nel nulla, per quanto sostanziale possa esser la provocazione, finché il movimento non si conformi a quelle norme direzionali di fondo che la situazione del sistema industriale esige per garantire qualsiasi successo prolungato. Queste direttive di fondo della strategia rivoluzionaria sono quelle dell’organizzazione tecnica

e della direzione industriale, essenzialmente direttive d’ingegneria industriale, adatte ad un’organizzazione incaricata della gestione del sistema industriale altamente tecnicizzato che rappresenta l’indispensabile fondamento materiale di ogni moderna società civile. Di conseguenza esse non solo saranno di un tipo profondamente diverso da quelle che possono esser adatte e sufficienti nel caso di una regione industriale slegata e arretrata come la Russia, ma saranno anche necessariamente di una specie che non ha alcun precedente analogo nella storia passata dei movimenti rivoluzionari. Le rivoluzioni del Settecento furono militari e politiche; e gli anziani governanti che credono di star scrivendo la storia continuano a esser convinti che le rivoluzioni possono esser fatte e disfatte con gli stessi sistemi e mezzi nel Novecento, mentre ogni sostanziale o effettivo sommovimento nel ventesimo secolo sarà necessariamente un sommovimento industriale; ed analogamente ogni rivoluzione del Novecento può esser combattuta o neutralizzata solo con mezzi e sistemi industriali. Perciò il caso dell’America in quanto candidata per il bolscevismo deve esser dibattuto in maniera autonoma, e la discussione deve vertere necessariamente sui mezzi ed i sistemi dell’industria produttiva, condizionata dai più recenti sviluppi della tecnica. Si è sostenuto, e non sembra irrazionale ritenere, che l’ordine costituito d’imprese affaristiche, di diritti acquisiti e di nazionalismo commercializzato è destinato a breve scadenza a cadere in mezzo ad una babele di vergogna e di confusione, non essendo più un sistema di direzione industriale utilizzabile nella situazione creata dal più recente stadio della tecnica. La tecnologia del ventesimo secolo si è sviluppata troppo per il sistema settecentesco di diritti acquisiti. L’esperienza degli ultimi anni insegna che la consueta direzione dell’industria con metodi affaristici è divenuta altamente inefficiente e dilapidatoria, e vi sono segni numerosi ed evidenti del fatto che qualsiasi controllo affaristico della produzione e della distribuzione è obbligatoriamente in contrasto sempre più costante con la garanzia della sussistenza della comunità, via via che le tecniche industriali progrediscono e che il sistema industriale si amplia. Perciò non si può forse razionalmente porre in dubbio il fatto che gli interessi costituiti negli affari siano predestinati al crollo. Ma non siamo ancora alla fine; sebbene si debba ammettere, forse con rammarico, che ad ogni ulteriore progresso delle cognizioni e degli impieghi della tecnica e ad ogni ulteriore aumento delle dimensioni e della complessità del sistema industriale qualsiasi controllo affaristico di esso diviene obbligatoriamente ancor più inadeguato, privo di connessione e incongruo.

Sarebbe assai arrischiato voler congetturare oggi quanto possa esser lontana tale consumazione dell’inettitudine commerciale. Vi è chi afferma che l’attuale sistema di direzione affaristica è palesemente destinato a sparire entro due anni; e vi sono altri pronti ad accordargli, con altrettanta sicurezza, una durata probabile di parecchie volte tanto; sebbene sia vero che queste ultime sembrano esser, nel complesso, persone aventi una familiarità meno stretta con i dati di fatto in esame. Molti esperti nei maggiori problemi delle aziende industriali sono in dubbio sulla durata del periodo di sopravvivenza dell’attuale situazione. Queste persone che studiano l’incerto futuro sono però disposte ad ammettere tra loro, con una certa apprensione, che esiste ancora un certo margine su cui basarsi; perciò, salvo incidenti, non sembra esistere alcun elemento che giustifichi la previsione certa di un disastroso crollo del sistema affaristico entro un periodo prossimo ai due anni. Bisogna anche aggiungere, per rassicurare l’inquieto guardiano degli interessi costituiti, che se un simile crollo della situazione dovesse giungere mentre questa presenta gli aspetti attuali, il risultato non potrebbe certamente esser un effettivo rovesciamento dell’ordine costituito; ciò finché non sia stato predisposto alcun piano realizzabile per rilevare la direzione subentrando alla manomorta degli interessi costituiti. Se un simile crollo dovesse avvenire nell’attuale congiuntura, l’esito potrebbe difficilmente esser in realtà più significativo di una parentesi, essenzialmente passeggera anche se più o meno prolungata, di tumulti e di carestia tra i ceti inferiori, unitamente ad una sorta di battuta d’arresto del sistema industriale nel suo complesso. Non sembra esservi alcuna ragione per temere che una qualsiasi sostanziale soppressione dei diritti acquisiti di proprietà possa derivare da un siffatto interludio, essenzialmente effimero, di discordie. In realtà i diritti degli interessi costituiti in America sembrano ragionevolmente al sicuro, per ora. È forse prevedibile nel prossimo futuro nel nostro paese qualche caso di scontento sedizioso e di disordini di fazione, e vi potrà esser perfino qualche avventato gesto di rivolta da parte di scontenti mal consigliati; le circostanze sembrano favorire qualcosa del genere. Si stima, sulla base di calcoli prudenziali, che sia già in vista una fase di privazioni e d’insicurezza per gli strati inferiori della popolazione, che potrebbe esser evitata solo a costo di qualche sostanziale interferenza nei diritti acquisiti degli uomini d’affari del paese, – il che pare un’alternativa altamente improbabile, visto lo spirito di pietà filiale con cui i politici stanno a guardia delle prerogative dell’affarismo consueto. Così, per esempio, si prevede oggi (settembre 19x9) con sicurezza, o

piuttosto si calcola, che una carestia di combustibili colpirà l’America durante il prossimo inverno, per ragioni di buona amministrazione affaristica; ed è analogamente prevedibile che per le identiche ragioni il sistema americano dei trasporti si trasformerà in un groviglio di settori congestionati ed altri oziosi verso lo stesso periodo – salvo un intervento provvidenziale, sotto la forma di condizioni meteorologiche senza precedenti. Ma una stagione di carestia e di disordini non rappresenta un rovesciamento rivoluzionario dell’ordine costituito; e gli interessi costituiti possono proseguire tranquillamente il loro sfruttamento dell’industria del paese, per ora. Questo promettente stato di cose si presta ad esser illustrato in modo abbastanza convincente e senza bisogno di spendere molte discussioni; a tal fine s’intende tra breve proseguire ulteriormente quest’argomentazione, descrivendo in modo schematico quali siano i punti deboli del regime degli interessi costituiti, che secondo i più ottimisti tra i malcontenti danno affidamento di condurlo a fine ingloriosa nell’immediato futuro; si intende anche esporre, in modo altrettanto schematico, quale dovrebbe esser il carattere di qualsiasi organizzazione di forze industriali che dia affidamento di porre effettivamente termine al regime degli interessi costituiti e di assumere la direzione del sistema industriale sulla base di un programma ponderato. 1. Pubblicato su «The Dial» del 4 ottobre 1919, come primo saggio della serie Bolshevism and the Vested interest; in America. 2. Il tema del bolscevismo ha formato l’oggetto di numerosi altri saggi di Veblen, pubblicati su «The Dial» nel penodo febbraio-novembre 1919 e su «Freeman» nel maggio 1921-giugno 1922. I titoli: Bolshevism Is a Menace - to Whom? (22 febbraio); Bolshevism Is a Menace to the Vested interests (5 aprile); The Red Terror-At Last It Has Come to America e The Red Terror and the Vested Interests (6 settembre); Between Bolshevism and War («Freeman», 25 maggio 1921); Dementia Praecox (21 giugno 1922). Alcuni tra questi sono stati poi ripubblicati postumi nel testo Essays in Our Changing Order, a cura di Leon Ardzrooni (1934). 3. Si riferisce alla «paura dei rossi» ed alla campagna allarmistica lanciata dall’Attorney General (Ministro della Giustizia) A. Mitchell Palmer, che ebbe come effetto misure repressive contro i radicali, con fermi e arresti, irruzioni della polizia durante convegni clandestini, e leggi antisindacali approvate in diversi stati (1919). Lo stesso Veblen fu sospettato e fatto oggetto d’indagini. 4. La Star Chamber era un tribunale privilegiato inglese (di diritto romano) dell’epoca Tudor, che fu utilizzato come impopolare strumento di oppressione dispotica da parte di Carlo I Stuart e del suo ministro Wentworth conte di Strafford. Fu abolita nel 1641 dal Lungo Parlamento, il quale riaffermò così il predominio del diritto comune. 5. La confecbraziome sindacale American Federation of Labor, che nacque nel 1881 a Pittsburgh come Federation of Organized Trade and Labor Unions, assumendo l’attuale nome a Columbus nel 1886. Fondata soprattutto ad iniziativa di Samuel Gompers, che ne fu Presidente fino alla morte (1924), l’A.F.L. nacque sul modello inglese come coalizione di numerose associazioni di categoria e di mestiere, soprattutto di lavoratori specializzati e qualificati. La sua impostazione moderata – o meglio conservatrice –, pragmatica, attenta alle rivendicazioni settoriali quotidiane, esclusivistica ed aliena da

prese di posizione classiste ne consacrò il successo; nel 1915 l’A.F.L. contava tre milioni d’iscritti. Al suo interno esistè, fino al 1914, una forte minoranza socialista, che in una occasione riuscì a mettere in minoranza il Gompers. L’A.F.L. si oppose fin dal 1914 all’«organizzazione scientifica» del lavoro, vista come metodo di super sfruttamento. 6. Le Confraternite dei Ferrovieri. Si tratta di quattro sindacati autonomi, quelli dei macchinisti (engineers), dei fuochisti (locomotive firemen, fondato nel 1873), dei conduttori (conductors, del 1868) e del personale addetto alla manutenzione (ménte-nance men), che erano tra le più forti e battagliere organizzazioni non confederate del paese, anche se impostate su basi rigorosamente professionali e settoriali. 7. Gli Industrial Workers of the World (vedi nota 2 a p. 909), la cui forza stava appunto nell’eccezionale attivismo e mobilità dei suoi capi, capaci di mobilitare in ogni parte del paese grandi masse specie di emigranti non qualificati e mal retribuiti, ma non di conservarne l’adesione dopo il conseguimento degli obiettivi più immediati. 8. Allude alla proliferazione di organizzazioni di estrema destra quali l’American Legion, l’Union League Club, la Security League, la Civic Federation. 9. Il trust della macellazione e distribuzione delle carni mediante trasporti frigoriferi, facente capo a Chicago. 10. Si riferisce all’intervento delle potenze dell’Intesa a sostegno dei bianchi nella lotta contro i bolscevichi: sbarco inglese a Murmansk, marzo 1918; sbarco americano e giapponese a Vladivostok, aprile-agosto 1918, in appoggio alla Legione ceca operante in Siberia; occupazione inglese di Batum, novembre 1918; arrivo di truppe francesi a Odessa, dicembre 1918; scoppio delle rivolte comuniste a Berlino (la «settimana rossa», gennaio 1919) e in Ungheria (marzo 1919) e conseguente fallimento della missione di pace di William Bullitt a Mosca. 11. La cosiddetta politica del «cordone sanitario» contro la Russia Sovietica consisteva nel non intervento diretto da parte delle potenze alleate, che si limitavano ad appoggiare i vari gruppi bianchi di Kolchak, Denikin, Yudenich e Wrangel. Essa fu attuata con l’evacuazione delle truppe francesi e inglesi dal territorio russo nell’aprile-agosto 1919, e in seguito con l’appoggio alla creazione di un blocco di stati baltici in funzione antirussa, fallito nel gennaio 1920. Alla stessa data ebbe fine il blocco commerciale, ma non quello diplomatico. La frase Associated Prevarication Bureaux è probabilmente un riferimento polemico ai dispacci anticomunisti dell’agenzia Associated Press. 12. La Finlandia si era proclamata indipendente fin dal dicembre 1917, sotto la guida del generale zedesco Von der Goltz e poi del reggente Mannerheim; la lotta contro i sovietici durò fino alla pace dell’ottobre 1920. La Polonia, ricostituita secondo il Trattato di Versailles^ condusse una lunga guerra contro i russi sotto la guida del maresciallo Pilsudsky, che godeva dell’appoggio francese; nell’ottobre 1920 si giuns1e all’armistizio, in una situazione militare favorevole ai polacchi. In Ucraina dopo l’evacuazione francese di Odessa operava il generale Anton Denikin, dopo la cui sconfitta gli subentri) il generale Piotk Wrangel, anche lui appoggiato dai francesi e sconfitto definitivamente nel novembre 1920 in Crimea. La Siberia ospitava il governo panrasso dell’ammiraglio Kolchak (dicembre 1918-gennaio 1920), appoggiato dagli inglesi e poi dai giapponesi – rimasti soli dopo l’evacuazione delle poche truppe americane, nel maggio 1919 – che sostennero anche il successivo governo bianco dell’ataman Semenov. L’occupazione nipponica sarebbe continuata fino all’agosto 1922.

CAPITOLO V. SULLE CIRCOSTANZE CHE FANNO PREVEDERE UN MUTAMENTO1 La stadio dell’industria, in America e negli altri paesi industriali progrediti, impone alcune severe condizioni ad ogni movimento che miri ad eliminare gli interessi costituiti. Queste condizioni rientrano nella natura delle cose, cioè nella natura del sistema industriale esistente; e finché esse non sono adempiute in modo tollerabile il controllo di quest’ultimo non può esser assunto in maniera effettiva o durevole. È chiaro inoltre che tutto ciò che risulta valido al riguardo per l’America vale anche in misura pressoché identica per gli altri paesi dominati dall’industria meccanica e dal sistema della proprietà assenteista. Si può anche affermare fin d’ora con sicurezza che da un esame imparziale del materiale documentario, quale quello a cui si mira in questa sede, apparirà chiaro che non occorre che vi sia al presente alcun timore di uno spodestamento degli interessi costituiti in America da parte di una sollevazione popolare, anche se l’irritazione popolare dovesse crescere in modo assai considerevole al disopra del suo attuale livello, ed anche se taluni propugnatori dell’«azione diretta», qua e là, dovessero esser mal consigliati al punto da compiere qualche avventato gesto di rivolta. L’unico pericolo attuale è che una clamorosa campagna di repressione ed inquisizione da parte dei guardiani degli interessi costituiti potrebbe suscitare qualche passeggero tremito di agitazioni sediziose. A questo fine è quindi necessario ricordare, in modo sommario, i fondamentali dati di fatto del sistema industriale e dell’attuale controllo affaristico di esso che assumono rilievo in modo immediato. Si deve osservare, a mo’ di premessa generale, che l’ordine costituito degli affari si basa sulla proprietà assenteista ed è diretto all’unico fine del massimo ricavo netto conseguibile in termini di prezzo; in altre parole, si tratta di un sistema di amministrazione affaristica su basi commerciali. La massa della popolazione dipende per i propri mezzi di sussistenza dal funzionamento del sistema industriale; perciò il suo interesse concreto s’indirizza verso la produzione e la

distribuzione di beni di consumo, e non verso un maggior volume d’introiti per i proprietari assenteisti. Si ha quindi una separazione d’interessi tra la comunità degli affari che opera in favore dei proprietari assenteisti, da una parte, e le masse popolari, che lavorano per vivere, dall’altra; e date le caratteristiche della situazione questa separazione d’interessi tra proprietari assenteisti e masse popolari si approfondisce e diviene più evidente di giorno in giorno, ciò che origina una certa divisione di sentimenti e una certa misura di sfiducia reciproca. Ciò nonostante gli strati inferiori della popolazione conservano tuttora un atteggiamento mentale abbastanza deferente nei confronti dei proprietari assenteisti, e sono assai coscienziosamente imbarazzati nei confronti di ogni riduzione del reddito franco di etri i proprietari sono destinatari, secondo le regole del gioco attualmente in vigore. Le aziende affaristiche cui compete la gestione dell’industria sulla base della proprietà assenteista sono valutate in capitale secondo la loro capacità affaristica, non secondo quella industriale; cioè sono valutate secondo la loro capacità di produrre profitti, e non di produrre beni. Il loro valore in capitale è computato e stabilito in pratica al livello del massimo normale tasso di profitti ottenuto in precedenza; e ai suoi dirigenti affaristici si richiede ora, pena l’insolvenza, di far fronte a costi fissi sulle entrate commisurati a quel valore in capitale. Perciò, come norma di una salda e sicura direzione affaristica, i prezzi devono esser mantenuti o aumentati. Dall’esigenza affaristica di far fronte a simili costi fissi generali sul valore in capitale derivano taluni criteri consuetudinari di spreco e di ostacolo, che sono inevitabili finché l’industria è diretta con metodi e per fini affaristici. Questi normali criteri di spreco e di ostacolo fanno necessariamente (e incensurabilmente) parte integrante della conduzione affaristica della produzione. Essi sono molti e diversi in dettaglio, ma possono esser per ragioni di convenienza classificati in quattro categorie: a) disoccupazione delle risorse materiali, degli impianti e della manodopera, totale o parziale, intenzionale o frutto d’ignoranza; b) tecniche di vendita (che comprendono, per esempio, l’innecessaria proliferazione dei commercianti e delle rivendite al dettaglio e all’ingrosso, la pubblicità sui giornali e con cartelloni, le esposizioni e gli agenti di vendita, gli imballaggi e le etichette di fantasia, l’adulterazione, la moltiplicazione delle marche e degli articoli di decoro); c) produzione (e costo di vendita) di beni superflui e non genuini; d) disarticolazione, sabotaggio e duplicazione sistematici, dovuti in parte alla strategia affaristica, in parte all’ignoranza affaristica delle esigenze dell’industria (di cui fanno

parte, per esempio, le spedizioni a ritroso, la monopolizzazione delle risorse, il rifiuto di attrezzature e d’informazioni ai rivali in affari che si ritiene saggio ostacolare o eliminare). Ovviamente tutto questo quotidiano spreco e confusione, che forma il risultato giornaliero complessivo della gestione affaristica, non comporta alcun biasimo, né alcun senso di colpa o di vergogna; tutto ciò fa parte in modo necessario e legittimo dell’ordine costituito d’iniziativa affaristica, nell’àmbito della legge e dell’etica del commercio. Le tecniche di vendita sono la più vistosa, e forse la più grave, tra le pratiche dilapidatone ed industrialmente futili connesse con la conduzione affaristica dell’industria; esse risaltano in grande evidenza sia quanto al loro costo immediato che quanto ai loro effetti di adescamento. Sono inoltre del tutto legittime e indispensabili per ogni azienda industriale che abbia a che fare con una clientela per gli acquisti o per le vendite; il che equivale a dire per quasi ogni azienda connessa con la produzione e la distribuzione di beni e servizi. In verità, le tecniche di vendita esauriscono in un certo modo lo scopo e l’essenza dell’iniziativa affaristica; la produzione di beni, salvo la misura in cui essa è amministrata al costante fine della realizzazione d’affari profittevoli, non rientra di per sé nella materia affaristica. Proprio la soppressione delle profittevoli transazioni di acquisto e vendita costituisce l’oggetto delle speranze di ogni movimento che aspira attualmente ad un rovesciamento; e la stessa eliminazione della contrattazione profittevole è paventata, con una paura che ne spezza i nervi, dai guardiani dell’ordine costituito. L’abilità nelle tecniche di vendita è anche la più indispensabile e meritoria tra le qualità che compongono il saldo e sano uomo d’affari. Risponde senza dubbio al vero l’affermazione secondo cui, in media, metà del prezzo pagato per beni e servizi dal consumatore va attribuito alle spese per le tecniche di vendita – cioè al costo di vendita e ai profitti netti degli specialisti del ramo. Ma in molti settori commerciali di rilievo il costo di vendita ammonta fino a dieci o venti volte più del costo di produzione vero e proprio, e fino a non meno di cento volte più del necessario costo di distribuzione. Tutto ciò non è fatto oggetto di vergogna o di disgusto; anzi, oggi più che mai s’insiste in modo rumoroso e palesemente crescente sui meriti e sull’importanza suprema delle tecniche di vendita, quale pilastro fondamentale del commercio e dell’industria, e si richiede strenuamente un tirocinio più vasto e completo di un maggior numero di giovani nelle tecniche di vendita – a spese del pubblico – in modo da consentire che una produzione

sapientemente ristretta di beni possa esser venduta a prezzi più profittevoli – sempre a spese del pubblico. Così pure si ha un manifesto incremento delle spese in ogni sorta di pubblicità; e i portavoce di queste imprese di sciupio vistoso stanno «additando con orgoglio» il fatto che la comunità affaristica americana ha già speso oltre 600 milioni di dollari solo in cartelloni nell’anno scorso, per non parlare delle somme molto maggiori spese nei giornali e in altra carta stampata rivolta allo stesso fine – e l’uomo della strada ne paga le spese. Per di più la pubblicità e le manovre di adescamento delle tecniche di vendita sembrano l’unica risorsa a cui gli uomini d’affari del paese sappiano far ricorso per cercar sollievo dal groviglio di difficoltà in cui l’avvento di una pace affaristica ha precipitato il mondo commercializzato. Un aumentato costo di vendita deve rimediare ai mali della sotto-produzione. Al riguardo può valer la pena di ricordare, senza accalorarsi o esprimere biasimo, che tutta quella costosa pubblicità che aumenta il costo di vendita ha il carattere di una prevaricazione, quando non di una sana, aperta menzogna; e ciò in modo del tutto necessario. Nel frattempo il rapporto tra costì di vendita e costi di produzione continua a crescere, il costo della vita aumenta continuamente per le masse popolari, e le necessità degli affari continuano ad ampliare le necessarie spese nei sistemi e nei mezzi di vendita. È ragionevole ritenere che questo stato di cose, che si è venuto creando in modo graduale negli anni trascorsi, giunga con il passar del tempo ad esser compreso e valutato dalle masse popolari, almeno in una certa misura; ed è altrettanto ragionevole pensare che non appena queste ultime si siano rese conto del fatto che tutto questo traffico dilapidatorio nelle tecniche di vendita sta esaurendo le loro forze produttive senza conseguire alcun risultato migliore di un aumento del costo della vita, saranno spinte a fare qualche passo al fine di attenuare il flagello. Perciò, nei limiti in cui questo stato di cose sta cominciando oggi ad esser compreso, il risultato logico è una crescente sfiducia negli uomini d’affari e in tutte le loro opere e parole. Ma le masse popolari sono ancora molto credule nei confronti di qualsiasi cosa che sia detta o fatta nel nome degli affari, e non occorre che vi sia alcuna apprensione circa lo scoppio di una rivolta, per ora. È peraltro evidente anche che ogni programma direzionale che riuscisse a congegnare il modo di fare a meno di tutte queste spese nelle tecniche di vendita, oppure che riducesse materialmente i costi di vendita, avrebbe un corrispondente margine di sicurezza su cui basarsi, e quindi possibilità di successo corrispondentemente

maggiori; così com’è evidente che ogni direzione che non sia quella affaristica sarebbe in grado di ottenere tanto, dal momento che i costi di vendita sono imposti esclusivamente in funzione degli affari e non dell’industria, cioè sono imposti a vantaggio del profitto privato e non del lavoro produttivo. Non vi è peraltro in realtà alcuna prospettiva attuale di una crisi degli affari, dovuta al continuo aumento dei costi di vendita; anche se questi continueranno per forza a crescere finché l’industria del paese continuerà ad esser diretta secondo l’attuale sistema o secondo uno simile. In effetti le tecniche di vendita sono il fattore principale del continuo aumento cel costo della vita, il quale è a sua volta il principale fondamento della prosperità della comunità degli affari e la fonte primaria di perenni privazioni e di malcontento per le masse popolari. Vale ancora la pena di notare come l’eventuale eliminazione delle tecniche e del costo di vendita alleggerirebbe di circa il cinquanta per cento l’onere produttivo quotidiano delle masse popolari. Tale è l’entità dell’incentivo palese ad espropriare il sistema di proprietà assenteista su cui si basa la moderna attività affaristica; e – per quel che può valere – si deve ammettere che vi è di conseguenza nell’attuale situazione una corrispondente tendenza ad un sommovimento rivoluzionario mirante a spodestare gli interessi costituiti. Ma allo stesso tempo l’eliminazione delle tecniche di vendita e di tutto il loro massiccio apparato e traffico ridurrebbe di circa la metà il reddito capitalizzato della comunità degli affari; e un’eventualità del genere non viene neppur presa in considerazione, non diciamo poi con equanimità, dai guardiani nelle cui mani stanno in ultima analisi le sorti della comunità. Un simile passo è un’assurdità morale, per ora. In stretta relazione con le pratiche dilapidatone delle tecniche di vendita comunemente intese, se non piuttosto da ritenersi come un prolungamento delle stesse, è la persistente disoccupazione di forze di lavoro, d’impianti e di risorse materiali mediante la quale la produzione di beni e servizi è contenuta al livello delle «esigenze del mercato» al fine di mantenere i prezzi ad un «livello ragionevolmente profittevole». Tale disoccupazione, intenzionale e abituale, è uno degli espedienti normalmente impiegati nella gestione affaristica dell’industria; ve ne è sempre una certa quantità, maggiore o minore, in tempi normali. I «ragionevoli guadagni» non potrebbero esser realizzati senza di essa, dal momento che «ciò che il traffico può reggere» in quanto a produzione di beni non coincide affatto con la capacità produttiva del sistema industriale, e tanto meno con le necessità complessive di consumo

della società; in effetti, esso tende palesemente a non coincidere con nessuna delle due. Più in particolare è nei periodi di ristrettezze popolari, come l’anno in corso, in cui la produzione corrente dei beni non si avvicina neppure al livello necessario per far fronte alle necessità di consumo della società, che considerazioni di strategia affaristica esigono una sapiente disoccupazione delle forze produttive del paese; nello stesso tempo questa disoccupazione affaristica d’impianti e di manodopera è la causa più ovvia delle ristrettezze popolari. Tutto ciò è ben noto ai guardiani degli interessi costituiti, e tale consapevolezza, in modo del tutto logico, è per loro fonte di disagio. Ma essi non vi vedono alcun rimedio; ed in verità non ne esiste alcuno, nell’àmbito della struttura degli «affari consueti», dato che essa costituisce proprio l’essenza degli affari consueti. I guardiani sono altrettanto consapevoli del fatto che tale sabotaggio affaristico dell’industria produttiva è fonte di abbondante malcontento e sfiducia tra le masse popolari che ne subiscono gli inconvenienti; e sono oppressi in permanenza dal timore che le masse popolari possano esser bruscamente stimolate ad espropriare gli interessi costituiti a beneficio dei quali è operato il sabotaggio intenzionale e consueto della produzione. Si è consci del fatto che anche in questo caso esiste una ragione sufficiente per porre fine alla gestione affaristica dell’industria; il che equivale a dire che questa è un’altra ragione palesemente sufficiente per un sommovimento rivoluzionario che ponga termine al vecchio ordinamento di proprietà assenteista e di reddito capitalizzato. È evidente anche che ogni programma che sia congegnato in modo da fare a meno della disoccupazione normale e intenzionale di manodopera e d’impianti avrà un margine corrispondentemente maggiore su cui far affidamento, sia rispetto alla propria efficienza pratica che alla sopportazione popolare; e va da sé inoltre che ogni direzione dell’industria che non sia affaristica può manifestamente riuscirvi, dal momento che ogni simile amministrazione non-affaristica – quale ad esempio il Soviet – sarà liberata dalla massima ossessione del dirigente affaristico, «un livello di prezzi ragionevolmente profittevole». Nonostante tutto ciò quelle persone, ottimiste in un modo da far rabbrividire, che prevedono la dissoluzione del sistema della proprietà assenteista entro due anni, non fanno tanto affidamento, come fattore del crollo, sullo spreco insito nelle tecniche di vendita e sul sabotaggio affaristico, quanto sull’elemento citato sopra alla lettera d), la dislocazione sistematica e la completa disfatta dell’industria produttiva, dovute in parte a sagaci

manovre di strategia affaristica, in parte alla consueta ignoranza degli uomini d’affari relativa alle esigenze sistematiche del sistema industriale nel suo complesso. L’astuta sagacia mondana dei dirigenti affaristici, costantemente miranti all’interesse personale, coopera in piena armonia con la loro provetta ignoranza in materia tecnica nel produrre quello che equivale ad un efficace lavoro di squadra teso alla disfatta del sistema industriale del paese in quanto complesso funzionante. Senza dubbio però la sinistra speranza di un crollo entro due anni è troppo ottimistica; senza dubbio si può contare sul fatto che le masse popolari continueranno stolidamente ad adattarsi a ciò a cui si sono così ben assuefatte, per ora; più particolarmente finché conservino l’abitudine a non pensare affatto a questi problemi. Né sembra logico ritenere che lo spreco e la confusione universale delle forze industriali portino da sé soli ad un crollo dell’organizzazione degli affari entro un periodo così breve. È pur vero che il sistema industriale si espande continuamente in volume e in complicazione, e che da ogni nuovo ampliamento del suo campo d’azione e della sua portata e da ogni ulteriore incremento operato nell’impiego della tecnica deriva per gli uomini d’affari al comando una nuova ed urgente opportunità di ampliare e accelerare la loro strategia di ostacolo e di disfatta reciproca; tutto ciò rientra nel lavoro quotidiano. Man mano che il sistema industriale diviene più vasto e più strettamente intrecciato, esso offre possibilità sempre maggiori e più allettanti per manovre affaristiche tali da squilibrarlo efficacemente nelle stesso istante in cui producono il desiderato insuccesso tattico di qualche rivale in affari; manovre mediante le quali lo stratega affarista che ha successo è posto in condizioni di ricavare qualche piccola cosa senza dar nulla in cambio, ad un costo costantemente crescente per la comunità nel suo complesso. Ad ogni progresso della sua espansione e della sua maturità il sistema industriale del paese diviene più delicatamente equilibrato, più intricatamente preso nella ragnatela del dare e dell’avere dell’industria, più sensibile ad uno squilibramento di vasta portata a seguito di qualsiasi dislocazione locale, con più larghe e istantanee reazioni ad ogni venir meno della debita correlazione in qualsiasi momento; a causa della stessa evoluzione i capitani d’industria, alla cui responsabilità sono affidati gli interessi della proprietà assenteista, sono messi in grado, o piuttosto spinti dalle necessità degli affari concorrenziali a tracciare la loro strategia di disfatta e squilibramento reciproco seguendo criteri più vasti ed intricati, di por tata sempre più ampia e comportanti una più massiccia mobilitazione di forze. Da tutto ciò deriva un’insicurezza sempre crescente del lavoro e della produzione

giorno per giorno ed una aumentata certezza di danni generalizzati e d’impotenza nel lungo periodo; incidentalmente abbinati con un aumento delle privazioni per le masse popolari, che ne consegue come ovvio fatto sussidiario, disgraziato ma inevitabile. È proprio questo insuccesso, palesemente crescente, che l’attuale direzione affaristica incontra nel far fronte alle necessità industriali del caso, il suo costante operare in contrasto reciproco nella ripartizione delle fonti di energia, dei materiali e della manodopera – è in breve il fatto che ogni gestione affaristica contrasta necessariamente con le più ampie realtà tecniche del sistema industriale, che soprattutto vale a convincere le persone d’indole apprensiva che il regime dell’impresa affaristica sta rapidamente avvicinandosi al limite di tolleranza. Perciò molti ritengono che l’attuale sistema di proprietà assenteista sia destinato tra breve tempo a crollare, precipitando così l’abdicazione degli interessi costituiti, riconosciuti colpevoli di totale inettitudine. La teoria su cui si fondano queste persone apprensive pare sostanzialmente valida, nei limiti della sua portata; ma esse giungono ad una conclusione sconsideratamente disperata perché trascurano uno dei fondamentali dati di fatto della situazione. Nessuna eccezione logica può esser sollevata nei confronti dell’affermazione secondo cui il sistema industriale del paese sta continuamente diventando più esteso e complesso, sta assumendo sempre più il carattere di un complesso strettamente connesso, intrecciato, sistematico; un equilibrio mobile, delicatamente bilanciato di parti funzionanti nessuna delle quali può compiere la sua opera del tutto da sola, e nessuna delle quali può svolgere bene la sua parte di lavoro se non in stretta correlazione con tutto il resto. Allo stesso tempo è anche vero che, data la natura della situazione commercializzata, la direzione affaristica dell’industria sta costantemente giocando a tira e molla con quell’equilibrio di forze mobile e delicatamente bilanciato da cui dipende giorno per giorno la sussistenza delle masse popolari; questo è particolarmente vero per le grosse imprese affaristiche che si fondano sulla proprietà assenteista e compongono i maggiori interessi costituiti del paese. Ma a tutto ciò va aggiunto, come correttivo e fattore fondamentale della situazione, il fatto che il sistema industriale meccanizzato costituisce un meccanismo estremamente efficiente per la produzione di beni e servizi anche nel caso in cui, come di consueto accade, gli uomini d’affari gli consentano per ragioni affaristiche di funzionare sempre e solo con il forte handicap della disoccupazione e delle tattiche ostruzionistiche. Finora il margine consentito all’errore, cioè alla strategia dilapidatoria ed all’ostacolo

dell’ignoranza, è stato assai ampio, tanto da salvare la vita agli interessi costituiti; di conseguenza non si può affatto ritenere con sicurezza che tutte quelle ampliate possibilità di uno squilibramento rapido e di vasta portata rendano capace la strategia dell’impresa affaristica di produrre un crollo disastroso, per ora. È vero che se l’industria produttiva del paese fosse organizzata adeguatamente come un tutto sistematico, e fosse quindi diretta da tecnici competenti miranti all’unico scopo della massima produzione di beni e servizi, invece di esser come oggi mal diretta da uomini d’affari ignoranti al solo fine dei massimi profitti, la risultante produzione di beni e servizi sorpasserebbe senza dubbio quella attuale di parecchie volte il cento per cento. Ma nulla di tutto ciò è necessario per salvare l’ordine stabilito delle cose. Tutto ciò che è richiesto è una conveniente, modesta misura di efficienza, molto al di sotto della massima produzione teorica. La società è infatti solita tirar avanti tranquillamente ad un livello considerevolmente inferiore alla metà della produzione che i suoi impianti industriali realizzerebbero lavorando senza interruzione al massimo delle capacità; e ciò nonostante che, come di consueto, qualche cosa come la metà della produzione effettiva sia consumata in superfluità dilapidatone. Il margine lasciato allo spreco e all’errore è fortunatamente molto ampio; e in realtà un’analisi più paziente ed esauriente dei dati di fatto in esame sarebbe sufficiente a dimostrare che i diritti degli interessi costituiti sono per ora ragionevolmente al sicuro; almeno nella misura in cui dipendono da considerazioni di questo tipo. Vi è naturalmente la possibilità, nient'affatto remota, che il rapido aumento delle dimensioni e della complessità del sistema industriale conduca in breve tempo l’industria del paese in una situazione di equilibrio instabile così precaria che neppure una ragionevole, modesta quantità di squilibramento intenzionale possa più esser tollerata, neanche se giustificata dalle più urgenti e legittime ragioni della strategia affaristica e dei diritti consolidati. È presumibile che con il passar del tempo sia da prevedersi un risultato del genere; anzi non mancano segni del fatto che i paesi industriali progrediti, e tra gli altri l’America, si stanno avvicinando a una tale situazione. Infatti il margine consentito per l’errore e per la strategia dilapidatoria viene continuamente ristretto dall’ulteriore progresso della tecnica industriale; ad ogni nuovo progresso in fatto di specializzazione e di standardizzazione, eli specie, quantità, qualità e di tempi il margine di tolleranza del sistema nel suo complesso nei confronti di qualsiasi errato

assetto strategico si restringe continuamente. Quanto sia poi vicino il momento in cui sarà raggiunto il limite di tolleranza in fatto et squilibramento intenzionale, queste sarebbe un arrischiato tema ci congetture. Vi sono oggi buone prospettive che il prossimo inverno possa fare un po’ di luce su quest’oscuro quesito; ma ciò non significa che la fine sia in vista. Ciò che va ribadito è che tale sinistra eventualità appartiene ancora al futuro, anche se potrebbe rientrare in un futuro computabile. È comunque opportuno tener presente che anche un crollo francamente disastroso dell’attuale sistema di direzione affaristica può non dimostrarsi necessariamente fatale agli interessi costituiti, per ora; cioè fino a quando non vi sia alcuna organizzazione competente pronta a prenderne il posto e ad amministrare l’industria del paese secondo programmi più razionali. Si tratta necessariamente di una questione di alternative. In tutto questo ragionamento relativo alla perpetua disarticolazione e al contrasto reciproco si presuppone che l’attuale gestione affaristica dell’industria abbia carattere concorrenziale e si muova necessariamente lungo le direttrici della strategia concorrenziale; si presuppone inoltre, come ovvia premessa sussidiaria, che i capitani d’industria i quali dirigono la strategia concorrenziale siano normalmente abbastanza male informati in fatto di problemi tecnici da commettere errori, industrialmente parlando, nonostante le più pacifiche e benevole intenzioni. Sono dei profani per tutto ciò che concerne le esigenze tecniche della produzione industriale. Perciò questo secondo, e secondario, presupposto non ha bisogno d’esser discusso; è abbastanza notorio. D’altro canto il primo presupposto citato sopra, ossia il carattere concorrenziale dell’attuale impresa affaristica, sarà probabilmente messo in dubbio da molti che ritengono d’aver familiarità con i dati di fatto relativi. Si sostiene, da parte di questo e di quello, che le aziende affaristiche del paese si sono impegnate in consolidamenti, coalizioni, intese e transazioni di lavoro tra loro – cartelli, trusts, fondi comuni, combinazioni, gruppi dirigenziali collegati, gentlemens agreements, confederazioni di datori di lavoro, – in misura tale da interessare virtualmente tutto l’ambito delle aziende d’affari di grandi dimensioni, quelle che determinano il ritmo e regolano i movimenti di tutte le altre; e che laddove entra in tal modo in vigore una combinazione, cessa la concorrenza. Si sosterrà anche che nei casi in cui non vi è stata alcuna coalizione ufficiale d’interessi, gli uomini d’affari al comando agiscono di solito in collusione, con risultati pressoché identici; è inoltre facile suggerire che, pur nella misura in cui un sabotaggio affaristico di

tipo concorrenziale vada ancora fronteggiato, esso può esser integralmente neutralizzato da un ulteriore consolidamento d’interessi, tale da eliminare ogni occasione per un contrasto concorrenziale reciproco nell’àmbito del sistema industriale. Non è agevole discernere esattamente dove conduca un simile tipo di ragionamento; ma per esser efficace e per investire la situazione nel suo complesso esso dovrebbe manifestamente risultare in una coalizione d’interessi e in una combinazione di gruppi dirigenziali così ampie da eliminare in effetti ogni ragione di una gestione affaristica entro il sistema, lasciando le masse popolari completamente alla mercé della conseguente coalizione d’interessi – un risultato che presumibilmente non è nelle intenzioni. Ma anche in questo caso il ragionamento tiene conto di uno solo dei tre fili intrecciati nella corda che forma il cappio fatale. Gli altri due sono robusti quanto basta, e rimangono intatti. È vero che gli economisti e tutti coloro che hanno esaminato questo problema della concorrenza hanno di solito dedicato la loro attenzione solo a questo tipo di concorrenza – tra interessi commerciali rivali – perché esso è ritenuto naturale, normale e utile al bene comune. Ma rimangono: d) la concorrenza tra gli uomini d’affari che comprano a buon mercato e vendono a caro prezzo e le masse popolari da cui costoro com prano a buon mercato e vendono a caro prezzo; e h) la concorrenza tra i capitani d’industria e i proprietari assenteisti a nome e con i capitali dei quali i capitani fanno affari. Nel caso tipico l’impresa d’affari moderna assume la forma della società azionaria, è organizzata sulla base del credito e si fonda perciò sulla proprietà assenteista; da ciò consegue che in ogni società d’affari di grandi dimensioni i proprietari ed i dirigenti non sono le stesse persone, né gli interessi del dirigente coincidono di solito con quelli dei proprietari assenteisti, particolarmente nelle moderne «grandi società d’affari». Ne consegue quindi che anche una coalizione d’interessi costituiti che fosse virtualmente onnicomprensiva dovrebbe pur sempre regolarsi a seconda di «ciò che il traffico consente», cioè di ciò che produce il massimo reddito netto in termini di prezzo; vale a dire che la coalizione resterebbe sempre assoggettata alla necessità concorrenziale di comprare a buon mercato e di vendere a caro prezzo, fino al massimo delle sue capacità, utilizzando tutte le agevolazioni conferitegli dalla sua posizione di dominio del mercato. Perciò la coalizione sarebbe anche assoggettata alla necessità di limitare sapientemente la produzione di beni e servizi ad un ritmo e volume tali da mantenere o far

salire i prezzi, ed anche a variare la propria manipolazione dei prezzi e dell’offerta da luogo a luogo e di periodo in periodo, per fare un poco di onesto danaro, il che ci riporta quasi alla situazione iniziale. Per di più si ammetterà probabilmente che un rimedio del genere per tali inconvenienti del sistema concorrenziale sia chimerico, senza discussione. Quello che è peraltro più rilevante è il fatto, noto anche quando non sia confessato, che i consolidamenti finora effettuati non hanno affatto eliminato la concorrenza, né mutato il carattere della strategia concorrenziale adottata, sebbene ne abbiano modificato le dimensioni e i metodi. Ciò che si può affermare è che le società per azioni controllate dalle società anonime del tipo holding, per esempio, non sono più in concorrenza tra loro sulle primitive basi. Ma la dislocazione strategica e i contrasti reciproci continuano ad esser all’ordine del giorno nella direzione affaristica dell’industria; e l’entità della consueta disoccupazione, d’impianti come di manodopera, permane intatta e senza pu dorè, – ciò che rappresenta in ultima analisi un aspetto primario della situazione. È bene riconoscere ciò che gli uomini d’affari tra di loro ammettono sempre come cosa ovvia, cioè il fatto che gli affari sono in ultima analisi condotti in ogni caso per il vantaggio privato dei singoli uomini d’affari che li realizzano; e tali persone intraprendenti, essendo uomini d’affari, saranno sempre in concorrenza tra loro per il guadagno, per quanto numerose e strette siano le combinazioni da loro concluse in vista di un fine comune contrapposto al resto della comunità. Lo scopo e la meta di qualsiasi impresa lucrativa condotta in comune è sempre la ripartizione dei profitti congiunti, e in tale ripartizione i partecipanti coalizzati figurano sempre come concorrenti. I cartelli, le coalizioni, le corporazioni, i consolidamenti di interessi conclusi nella ricerca del profitto hanno in realtà carattere di congiure tra uomini d’affari, ciascuno dei quali persegue il suo personale vantaggio a spese di chiunque possa averci a che fare. Non vi è alcuna ulteriore solidarietà d’interessi tra i partecipanti ad imprese congiunte di tale specie. A titolo di esemplificazione, tutto ciò che è esposto nelle voluminose testimonianze raccolte per il caso Colton2 dibattuto davanti ai tribunali della California e relativo agli affari della Southern Pacific e delle sue sussidiarie, serve ad illustrare il modo in cui è prevedibile che funzionino gli incentivi affaristici degli individui associati nella spartizione dei profitti entro una determinata coalizione. Non solo non vi è alcuna vincolante solidarietà d’interessi tra i diversi partecipanti ad una simile impresa comune per quanto

concerne la ripartizione finale delle spoglie, ma risulta vero perfino che l’interesse affaristico del dirigente al comando di un tale cartello di proprietà assenteiste non coincide affatto con l’interesse collettivo della coalizione in quanto complesso funzionante. Come esempio illustrativo si può citare la testimonianza del potente presidente delle due ferrovie Great Northern3 resa davanti ad una commissione del Congresso, in cui si spiega in maniera alquanto dettagliata il fatto che per qualcosa come un quarto di secolo le due grandi linee da lui dirette non abbiano mai ottenuto ragionevoli utili sul loro capitale investito; mentre è comunemente noto, anche se caritatevolmente l’argomento non fu affrontato nelle sedute della commissione, il fatto che durante il suo periodo in carica come dirigente dei due grandi sistemi ferroviari questo intraprendente presidente di ferrovie ha aumentato le sue personali proprietà private da io dollari ad una cifra variamente stimata dai 150 ai 200 milioni di dollari, grazie al risparmio e all’oculata amministrazione; mentre i suoi due principali soci in questa impresa avevano lasciato la direzione ritirandosi a vita privata con posizioni altrettanto agiate; notevolmente agiate, invero, al punto da aver meritato un paio di molto decorosi titoli nobiliari da parte della corona britannica. In realtà vi è tuttora un’evidente domanda di sagaci strategie personali a spese di chiunque possa averci a che fare; ciò mentre vi è anche una misura assai considerevole di collusioni tra gli interessi costituiti, a spese di chiunque vi abbia a che fare. Gli affari sono sempre concorrenziali, ricerca competitiva del privato profitto; e perché non dovrebbe esser così?, dal momento che l’incentivo di ogni attività d’affari è dopo tutto il profitto privato a spese di chiunque possa averci a che fare. In forza della loro coerenza dottrinaria e fedeltà alla tradizione, gli economisti accreditati hanno di solito definito l’iniziativa affaristica come un metodo razionale per l’amministrazione del sistema industriale del paese e per garantire una piena ed equa distribuzione dei beni di consumo ai consumatori. Non c’è bisogno di polemizzare con tale opinione; è però semplicemente giusto avanzare la riserva secondo cui l’iniziativa affaristica basata sulla proprietà assenteista, se considerata come metodo per l’amministrazione del sistema industriale, ha i difetti connessi con i suoi pregi; e i difetti di questo buon vecchio metodo stanno oggi attirando su di sé l’attenzione. Sino ad ora, dal momento in cui l’industria meccanica ha assunto il ruolo dominante nel sistema produttivo, i difetti della gestione affaristica dell’industria hanno continuato ad erodere una porzione sempre maggiore dei suoi pregi. Esso ebbe

inizio come un sistema di direzione da parte dei proprietari degli impianti industriali, sviluppandosi nei suoi anni più maturi in un sistema di proprietà assenteista diretto da agenti finanziari semi-responsabili. Nata come comunità industriale imperniata su un mercato aperto, si è maturata in una comunità d’interessi costituiti a cui compete il diritto consolidato di mantenere alti i prezzi mediante un’offerta scarsa su un mercato chiuso. Non è eccessivo affermare che, nel complesso, questo metodo per il controllo della produzione e della distribuzione di beni e servizi per mezzo degli agenti della proprietà assenteista è oggi divenuto essenzialmente un marchiano pasticcio di difetti. Per i presenti fini, cioè avendo riguardo alla probabilità di un qualsiasi sommovimento rivoluzionario, questa può servire come descrizione imparziale del regime degli interessi costituiti; la sopravvivenza del cui predominio è ritenuta oggi, da parte dei loro guardiani, minacciata da una sollevazione popolare di carattere bolscevico. Ora, il sistema industriale del paese che viene maltrattato con questo metodo affaristico è un complesso vasto ed equilibrato di amministrazione tecnica. L’industria di questo tipo moderno – meccanica, specializzata, standardizzata, tendente alla produzione di massa, tracciata su larga scala – è altamente produttiva, sempre che le condizioni necessarie per il suo funzionamento siano adempiute in qualche maniera sopportabile. Queste condizioni necessarie dell’industria produttiva hanno un carattere tecnico ben definito, e divengono sempre più rigorose ad ogni ulteriore progresso delle tecniche industriali. L’industria meccanica fa affidamento in modo sempre più esteso e urgente sulle fonti naturali di energia meccanica, e impiega necessariamente una gamma sempre più ampia e diversa di materie prime, tratte da tutte le latitudini e da tutte le regioni geografiche, nonostante l’ostacolo delle frontiere nazionali e degli odi patriottici; ciò poiché la tecnologia meccanica è impersonale e imparziale, ed il suo fine è semplicemente quello di servire ai bisogni umani, senza timore o favore o riguardo per le persone, i privilegi e la politica. Essa forma un sistema industriale di un tipo senza precedenti – un sistema meccanicamente equilibrato ed interconnesso di lavoro da fare, primo requisito del cui funzionamento è un accurato ed intelligente coordinamento dei procedimenti operativi ed una altrettanto accurata ripartizione dell’energia meccanica e delle materie prime. Il suo fondamento e la sua forza motrice sono costituiti da un massiccio complesso di cognizioni tecniche, di carattere estremamente impersonale e niente affatto affaristico, che opera in stretto contatto con le

scienze della materia, da cui attinge largamente in ogni occasione – rigorosamente specializzato, infinitamente dettagliato, estendentesi in tutti i settori della realtà empirica. Questo è il sistema di lavoro produttivo, derivato dalla rivoluzione industriale, dal cui pieno e libero funzionamento dipende oggi giorno per giorno il benessere materiale di tutte le società civili. Ogni difetto o impedimento nella sua direzione tecnica, ogni intromissione di considerazioni non tecniche, ogni deficienza od ostacolo in qualsiasi suo aspetto risulta inevitabilmente in una sproporzionata crisi del complesso equilibrato e porta con sé uno sproporzionato fardello di privazioni per tutti i popoli la cui industria produttiva rientri nel raggio d’azione del sistema. Ne consegue che tutti quei tecnici dotati, qualificati ed esperti che sono oggi in possesso delle informazioni e dell’esperienza tecnica necessaria costituiscono il fattore primo e immediatamente indispensabile nella quotidiana opera di conduzione dell’industria produttiva del paese; oggi essi formano in effetti lo stato maggiore generale del sistema industriale, checché possano affermare in contrario il diritto e la consuetudine. I «capitani d’industria» possono continuare a rivendicare vanitosamente per sé il titolo, e il diritto e il costume ad appoggiare tale rivendicazione; ma nella realtà i capitani non hanno alcun rilievo tecnico. Perciò ogni questione relativa ad un sommovimento rivoluzionario, in America od in qualsiasi altro paese industriale progredito, si risolve all’atto pratico in un problema concernente ciò che la categoria dei tecnici farà. In effetti ciò che rileva è il verificarsi o meno del passaggio della discrezionalità e della responsabilità nella direzione dell’industria del paese dai finanzieri, rappresentanti gli interessi costituiti, ai tecnici, rappresentanti il sistema industriale come complesso funzionante. Non vi è alcuna terza parte che possieda i tìtoli per fare un’offerta plausibile o che sia in grado di realizzare le sue pretese ove essa avesse fatto una offerta. Finché i diritti consolidati di proprietà assenteista rimangono intatti, il potere finanziario – cioè gli interessi costituiti – continuerà a disporre delle forze industriali del paese per il suo privato profitto; e non appena, o nella misura in cui tali diritti consolidati cedano il campo, il controllo del benessere materiale della società passerà nelle mani dei tecnici. Non vi è alcuna terza parte. Le possibilità che qualcosa di simile ad un soviet si instauri in America si identificano perciò con le possibilità di un soviet di tecnici. Inoltre, ad opportuna consolazione dei guardiani degli interessi costituiti e dei buoni

cittadini che ne formano il sostegno, si può dimostrare che in America una cosa come un soviet di tecnici rappresenta nella migliore delle ipotesi una eventualità remota. È pur vero che finché non venga realizzata una simile trasformazione di fondo, si può con sicurezza prevedere un regime di permanente e crescente obbrobrio e confusione, disagi e dissensi, disoccupazione e privazioni, spreco e insicurezza della persona e della proprietà – quale quello che il governo degli interessi costituiti negli affari ha ormai reso sempre più familiare a tutte le società civili. Ma i diritti consolidati di proprietà assenteista sono ancora radicati nei sentimenti delle masse popolari, continuano ancora a rappresentare il Palladio della Repubblica; perciò è possibile affermare con tutta sicurezza che un soviet di tecnici non costituisce una minaccia attuale agli interessi costituiti in America. Per consuetudine ormai affermata i tecnici, gli ingegneri e gli esperti industriali sono tipi innocui e docili, nel complesso ben nutriti, i quali si accontentano alquanto placidamente della «gavetta piena» che di solito i luogotenenti degli interessi costituiti accordano loro. È vero che costituiscono lo stato maggiore generale indispensabile al sistema industriale che alimenta gli interessi costituiti; ma almeno fino ad ora non hanno avuto alcuna voce nella progettazione e nella direzione di esso, se non come dipendenti stipendiati dai finanzieri. Essi si sono finora accontentati, senza assolutamente riflettere, di operare in maniera parcellare, senza giungere a intese reciproche, lavorando a cottimo senza riserve per gli interessi costituiti; e hanno prestato gratuitamente, senza troppo rifletterci, se stessi e le loro facoltà tecniche alle tattiche ostruzionistiche dei capitani d’industria; tutto ciò mentre il tirocinio che fa di loro dei tecnici non è che una proiezione specializzata di quel capitale comune di cognizioni tecniche che la comunità nel suo complesso si è portata con sé dal passato. Ma rimane pur sempre vero che essi e la loro conoscenza, acquistata a caro prezzo, dei mezzi e dei sistemi – acquistata a caro prezzo da parte delle masse popolari – costituiscono i pilastri dell’edificio dell’industria in cui continuano a risiedere gli interessi costituiti. Senza la loro continua ed incessante supervisione e direzione il sistema industriale cesserebbe del tutto di esser un sistema funzionante; laddove al contrario non è facile rendersi conto di come la soppressione dell’attuale controllo affaristico possa non risultare in un sollievo ed in un’accresciuta efficienza per tale sistema operante. I tecnici sono indispensabili all’industria produttiva di questo tipo meccanico; gli interessi

costituiti ed i loro proprietari assenteisti non lo sono. I tecnici sono indispensabili agli interessi costituiti ed ai proprietari assenteisti, in quanto forza operativa senza di cui non vi sarebbe alcuna produzione industriale da controllare o da spartire; mentre gli interessi costituiti ed i loro proprietari assenteisti non hanno alcuna rilevanza concreta per i tecnici e per il loro lavoro, se non come fonti estranee d’interferenze e di ostacoli. Ne consegue che il benessere materiale di tutte le società industriali progredite si trova nelle mani di questi tecnici, alla sola condizione che essi se ne rendano conto, si consultino reciprocamente, si costituiscano come stato maggiore generale autodiretto dell’industria nazionale, e si liberino dall’interferenza dei luogotenenti dei proprietari assenteisti. Sono già, dal punì» di vista strategico, in grado di assumere il comando e di dettare le proprie condizioni direzionali, non appena essi, o un numero decisivo di loro, raggiungano un’intesa comune in tal senso e concordino un piano d’azione. Ma per certo non vi è attualmente alcuna prospettiva che i tecnici impieghino il loro acume e buon senso a tale fine. Non occorre che vi sia apprensione per il momento. I tecnici sono tipi «sani e sicuri», nel complesso; e sono del tutto commercializzati, particolarmente la generazione più anziana, che parla con autorità e con convinzione, e a cui la generazione più giovane d’ingegneri usa deferenza, nel complesso, con un grado tale di pietà filiale da risultare altamente rassicurante per tutti i buoni cittadini. Proprio in questo sta l’attuale sicurezza degli interessi costituiti, come pure la fatuità di ogni odierno allarme nei confronti del bolscevismo e simili; poiché la cooperazione piena e senza riserve dei tecnici sarebbe altrettanto indispensabile per ogni efficace movimento rivoluzionario, quanto il loro servizio incrollabile alle dipendenze degli interessi costituiti è indispensabile per il mantenimento dell’ordine prestabilito. 1. Pubblicato su «The Dial» del 18 ottobre 1919. 2. Si tratta di uno scandalo scoppiato nel 1887, in seguito ad un’azione legale intentata dalla vedova del gen. D. D. Colton contro il senatore Stanford, Crocker, Hopkius e Huntington, promotori cella Central Pacific della Southern Pacific e di numerose linee sussidiarie. La vedeva sosteneva di esser stata defraudata della quota di profitti spettante al defunto marito, che era stato il principale collaboratore dei promotori. La pubblicazione della loro corrispondenza rivelò casi clamorosi di corruzione al vertice, connessi alle lotte e alle manovre dei promotori in reciproca concorrenza. Fu aperta un’inchiesta per accertare il motivo per cui le due compagnie non pagavano gli interessi sui titoli del debito pubblico affidati ai promotori per finanziare la costruzione delle strade ferrate: le testimonianze rivelarono che questi ultimi non avevano investito praticamente alcun capitale proprio, realizzando così profitti favolosi a spese del pubblico. La Southern Pacific faceva e disfaceva collegi elettorali e fortune negli affari, disponendo di un’apposha organizzazione che si occupava dei parlamenti dei singoli stati e di altre eventuali c fonti di disturbo». 3. James J. Hill (1838-1916), oriundo canadese, fondatore con alcuni soci suoi connazionali della

Great Northern (la linea St. Paul-Seattle). Nel 1874, nel corso di un procedimento giudiziario davanti ai tribunali del Minnesota, venne alla luce il fatto che Hill, promotore della St. Paul, Minnesota and Manitoba Company, aveva impegnato nell’iniziativa i soli fondi necessari per stampare i titoli, utilizzando poi gli ingenti prestiti statali per impadronirsi della gran maggioranza del capitale azionario. Hill fu il principale bersaglio degli attacchi degli agricoltori, vittime della vessatoria politica tariffaria delle ferrovie.

CAPITOLO VI. MEMORANDUM SU UN REALIZZABILE SOVIET DI TECNICI1 Scopo di questo memorandum è quello di dimostrare, in modo oggettivo, che nelle attuali circostanze non occorre che vi sia alcun timore, né alcuna speranza, di un effettivo sommovimento rivoluzionario in America, tale da sconvolgere l’ordine prestabilito e da spodestare gli interessi costituiti che oggi controllano il sistema industriale del paese. In uno scritto precedente (cap. IV, pp. 958 e segg.) si è concluso che non è possibile compiere alcun passo effettivo nella direzione di un simile sommovimento se non per iniziativa e sotto la direzione dei tecnici del paese, agenti in comune e secondo un piano concertato. Com’è noto, nessuna mossa del genere è stata fatta fino ad oggi, né vi sono testimonianze del fatto che un qualcosa di simile sia stato preso in considerazione dai tecnici. Essi sono ancora coerentemente fedeli, di una fedeltà alquanto superiore a quella di un dipendente, all’ordine prestabilito di profitto commerciale e di proprietà assenteista. Ed un adeguato piano d’azione concertata, quale sarebbe necessario per l’impresa in questione, non è una cosa da poco, da prepararsi in un paio di giorni. Ogni piano d’azione che possa sperare di far fronte ai requisiti del caso in modo sopportabile deve giovarsi necessariamente di una matura ponderazione da parte dei tecnici competenti a dare l’avvio ad una simile impresa; esso deve assicurarsi l’intelligente collaborazione di diverse migliaia di persone tecnicamente qualificate sparse per tutto il paese, nell’una industria e nell’altra; deve effettuare un’evirazione abbastanza completa delle forze industriali del paese; deve predisporre degli schemi organizzativi realizzabili interessanti in dettaglio l’industria del paese: fonti di energia, materie prime e forze di lavoro; e deve assicurarsi anche l’appoggio attivo ed aggressivo di persone esperte operanti nei settori dei trasporti, delle miniere e delle maggiori industrie meccaniche. Questi sono i requisiti iniziali, indispensabili per l’avvio di ogni impresa del genere in un paese industriale come l’America; e quando ciò sia tenuto presente, ci si renderà conto del fatto che ogni timore di un effettivo passo in tale direzione è oggi del tutto chimerico; tanto che, in effetti, si può affermare senza possibilità di equivoco che la proprietà assenteista è al

sicuro, per ora. Perciò, per dimostrare in modo conclusivo ed oggettivo quanto remota sia tuttora un’eventualità del genere, si intende esporre qui in modo sommario le linee di fondo che ogni simile piano concertato d’azione dovrebbe seguire, e quale sia necessariamente l’unico tipo di organizzazione che possa sperare di assumere il controllo del sistema industriale, a seguito dell’eventuale abdicazione o spodestamento degli interessi costituiti e dei loro proprietari assenteisti. Tra parentesi è proprio l’abdicazione, di propria iniziativa anche se riluttante, degli interessi costituiti e dei loro proprietari assenteisti, più che il loro forzato spodestamento, che rimane sempre un evento da prefigurare come ragionevolmente probabile nel futuro calcolabile. In realtà non dovrebbe provocare alcuna sorpresa l’osservare come essi si elimineranno, in un certo senso, da soli, mollando la presa in modo del tutto involontario dopo che la situazione industriale sia sfuggita completamente al loro controllo. Infatti essi hanno già abbastanza dimostrato, nell’attuale difficile congiuntura, la loro inidoneità a prendersi cura del benessere materiale del paese, che è in ultima analisi l’unico fondamento su cui possano basare una plausibile rivendicazione dei propri diritti consolidati. Allo stesso tempo una sorta di offerta di partenza per un contratto di abdicazione è già venuta da più di una parte. Perciò una cessazione dell’attuale sistema di proprietà assenteista, in conformità di questo o quel programma, non deve più esser considerata come una novità puramente teorica; ed un esame obiettivo del tipo di organizzazione che è da considerarsi candidato a prendere il posto del controllo ora esercitato dagli interessi costituiti – nell’eventualità della loro futura abdicazione – dovrebbe d: conseguenza rivestire un certo interesse attuale, anche a prescindere dal suo rapporto con la questione non risolta di una rottura a viva forza del sistema prestabilito di proprietà assenteista. Come è ovvio, i poteri e i compiti dell’organismo dirigente futuro avranno carattere principalmente se non esclusivamente tecnico; ciò proprio in quanto lo scopo del suo accesso al posto di comando è la cura del benessere materiale della comunità mediante una direzione più competente del sistema industriale nazionale. Si può aggiungere che anche nel caso imprevisto in cui il sommovimento qui preso in considerazione dovesse incontrare, nella sua fase iniziale, l’opposizione armata dei fautori del vecchio ordinamento, i compiti dell’organismo dirigente futuro conserveranno pur sempre un carattere essenzialmente tecnico, in quanto le operazioni militari sono oggi anch’esse sostanzialmente una questione tecnica, sia nella condotta immediata delle

ostilità che nell’ancor più impegnativa opera di sostegno e di rifornimento materiale. L’ordinamento industriale futuro è designato a correggere gli inconvenienti di quello vecchio. Perciò i compiti e i poteri del futuro organismo dirigente si concentreranno su quegli aspetti dell’amministrazione dell’industria in cui il vecchio ordinamento si è più segnatamente messo in luce per le sue deficienze, vale a dire sulla giusta ripartizione delle risorse e sul conseguente impiego pieno e razionalmente proporzionato degli impianti e della manodopera disponibili: sull’abolizione dello spreco e della duplicazione del lavoro; e su un’equa e sufficiente offerta di beni e servizi ai consumatori. Evidentemente l’opera più immediata ed urgente in cui il futuro organismo dirigente dovrà impegnarsi sarà quella per la cui assenza nel vecchio ordinamento il sistema industriale sta funzionando in modo fiacco e in contrasto reciproco; cioè la giusta ripartizione celle risorse disponibili in fatto di energia, di attrezzature e di materie prime tra le maggiori industrie primarie. Nel vecchio ordinamento non è prevista praticamente alcuna misura relativa a questa necessaria opera di ripartizione. Al fine di effettuare questa ripartizione il sistema nazionale dei trasporti deve esser posto a disposizione dello stesso gruppo dirigenziale di essa incaricato, dato che nella realtà moderna ogni ripartizione del genere può aver effettivamente luogo solo mediante l’uso del sistema dei trasporti. Ma, con lo stesso atto, anche il controllo effettivo della distribuzione dei beni ai consumatori cadrà necessariamente nelle stesse mani, dal momento che i traffici in beni di consumo sono anch’essi essenzialmente una questione di trasporti. Sulla base di queste considerazioni, che sarebbero senz’altro confermate da un’indagine più dettagliata sull’opera da compiere, l’organismo dirigente centrale assumerà presumibilmente la forma di un consiglio esecutivo, tripartito in modo approssimativo, munito della potestà di agire in materia di amministrazione dell’industria; un consiglio comprendente tecnici la cui specializzazione consenta di definirli ingegneri delle risorse, insieme con rappresentanti analogamente competenti del sistema dei trasporti e dell’attività connessa alla distribuzione di prodotti finiti e di servizi. Al fine della sua efficienza e funzionalità, il consiglio esecutivo non sarà probabilmente un organismo numeroso; anche se prevedibilmente si servirà di quadri dirigenti assai vasti per le informazioni e la consulenza, e sarà guidato a mezzo di consultazioni correnti con i rappresentanti accreditati (deputati,

commissari, dirigenti esecutivi, o quale altro ne sia il nome) dei diversi settori primari dell’industria produttiva, dei trasporti, e dell’attività distributiva. Armato di questi poteri e operando in opportuna consultazione con un’adeguata struttura secondaria di centri periferici e di consigli locali, questo organismo dirigente l’industria dovrebbe esser in grado di abolire virtualmente ogni disoccupazione d’impianti e di manodopera utilizzabili, da una parte, ed ogni carestia locale o stagionale dall’altra. La principale direttrice operativa indicata dalla natura del lavoro che incombe all’organismo dirigente, che è anche la caratteristica principale delle attitudini del suo personale dirigenziale, sia esecutivo che consultivo, è quella che richiede i servizi degli ingegneri della produzione, per impiegare un termine che sta entrando nell’uso. È peraltro evidente anche che, nella sua prolungata opera di pianificazione e di consultazione, l’organismo dirigente avrà bisogno dei servizi di un considerevole numero di consulenti economici; persone aventi i titoli per esser definite economisti della produzione. La categoria comprende oggi persone dotate dei requisiti necessari, sebbene non si possa dire che la categoria degli economisti sia composta principalmente di individui del genere. Per un caso affatto incensurabile, gli economisti hanno nutrito una propensione abituale, a causa della tradizione e della pressione del commercio, verso una ricerca teorica sui mezzi e sui sistemi delle tecniche di vendita, dei traffici finanziari, e della distribuzione dei redditi e della proprietà, anziché verso un studio del sistema industriale considerato come modo e mezzo per produrre beni e servizi. Pure vi è oggi, nonostante tutto, un numero considerevole e forse sufficiente di economisti, specie della generazione più giovane, che hanno appreso che «gli affari» non sono «l’industria» e che l’investimento non è la produzione. E in questo caso come in ogni altro, ciò che di meglio è disponibile è necessariamente adeguato al bisogno. I «consulenti economici» di questo tipo sono un complemento necessario del personale direzionale dell’organismo dirigente centrale, poiché il tirocinio tecnico che serve a formare un ingegnere delle risorse, o della produzione, o anche un esperto industriale competente in qualunque settore di specializzazione, non è tale da conferirgli il necessario pronto e sicuro intuito riguardo al gioco delle forze economiche in senso lato; e com’è noto, in realtà ben pochi tecnici si sono affatto adoperati per apprendere qualcosa di più appropriato in questo senso, al di fuori dei luoghi comuni semi-dimenticati del vecchio ordinamento. Il «consulente economico» è di conseguenza necessario

per coprire una giuntura, che altrimenti rimarrebbe scoperta nella nuova articolazione della realtà. Il suo posto nel sistema è analogo al ruolo che recita oggi il consulente legale nelle manovre dei diplomatici e degli statisti; e i funzionari del futuro organismo dirigente muniti di potere discrezionale saranno, in effetti, alquanto simili a statisti industriali del nuovo ordinamento. Vi è anche una certa riserva generica da avanzare nei confronti del personale dirigenziale, a cui si può opportunamente accennare a questo punto. Al fine di evitare la costante confusione e il prevedibile insuccesso, sarà necessario escludere da ogni posizione di fiducia e di responsabilità esecutiva tutte le persone che siano state addestrate all’affarismo oppure che abbiano fatto esperienza nelle imprese affaristiche di maggiori dimensioni. Questa regola avrà valore generale per l’intera struttura amministrativa, anche se si applicherà in modo più tassativo nei confronti dei dirigenti responsabili dell’organismo, sia centrali che subordinati, e dei loro collaboratori addetti alle informazioni e alla consulenza, in tutti i casi in cui la capacità di giudizio e l’intuito siano essenziali. Ciò che occorre è l’esperienza nei mezzi e nei sistemi dell’industria produttiva, non in quelli delle tecniche di vendita e degli investimenti profittevoli. Per forza di abitudine le persone addestrate a partire da premesse affaristiche nel giudicare ciò che è giusto e ciò che è reale sono prevenute in modo irrecuperabile contro ogni sistema produttivo e distributivo che non sia tracciato in termini di profitti e perdite commerciali e non garantisca un margine di reddito franco percepito dai proprietari assenteisti. Le eccezioni individuali a questa regola sono a quanto pare ben poche. Ma questo aspetto è di per sé, in ultima analisi, di rilevanza relativamente secondaria. Ciò che più interessa al riguardo è il fatto che la propensione commerciale introdotta dal loro tirocinio nei modi di pensare affaristici li rende incapaci di qualsiasi effettivo acume in fatto d’impiego delle risorse o di esigenze e scopi dell’industria produttiva, in termini diversi da quelli dei profitti e delle perdite commerciali. Le loro unità di misura e criteri di valutazione e di calcolo sono unità di misura e criteri basati sul prezzo, e sul profitto privato in termini di prezzo; laddove nei confronti di ogni tipo d’industria produttiva fondata non sulle tecniche di vendita e gli utili, ma sulle realizzazioni concrete e il concreto vantaggio arrecato alla comunità nel suo complesso, le valutazioni e la contabilità delle tecniche di vendita e degli utili sono fuorvianti. Pur con le migliori e più benevole intenzioni, persone addestrate in tal modo stabiliranno inevitabilmente le loro valutazioni della produzione e la loro disposizione delle

forze produttive negli unici termini possibili con cui siano familiari, quelli della contabilità commerciale; ciò che equivale a dire la contabilità della proprietà assenteista e del reddito franco, la cui completa soppressione costituisce proprio il fine duraturo del sistema delineato. Perciò, ai fini di questo proposto nuovo ordinamento produttivo, gli uomini d’affari esperti e capaci devono esser ritenuti, nella migliore delle ipotesi, dei sordomuti ciechi bene intenzionati. Il loro più acuto giudizio e i loro sforzi più sinceri divengono privi di senso e fuorviati non appena il fine governante l’industria cessa di esser fondato sui profitti degli investimenti assenteisti e viene a basarsi su una vantaggiosa produzione di beni. Tutta quest’abiura dei princìpi e della sagacia affaristica potrebbe apparire una precauzione contro una vacua esteriorità; è invece opportuno rammentare che per inclinazioni e tradizioni ben coltivate gli uomini d’affari grandi e piccoli sono, in ultima analisi e ciascuno a suo modo, proprio dei luogotenenti di quegli interessi costituiti che l’organizzazione industriale ora delineata intende spodestare, – addestrati nelle loro tattiche e inquadrati sotto le loro insegne. L’esperienza del governo di guerra e della sua direzione dell’industria con l’aiuto degli uomini d’affari durante gli ultimi anni serve a dimostrare quale specie di saggezza industriale sia da prevedersi quando uomini d’affari capaci e ben intenzionati siano chiamati a dirigere l’industria al fine della massima produzione ed economicità. Il governo ha attinto in modo uniforme il suo personale dirigente responsabile tra gli uomini d’affari esperti, di preferenza tra le persone che avessero raggiunto il successo nel mondo del grande capitale; vale a dire, persone esercitate e perspicaci nel discernere il proprio interesse personale. La storia delle loro avventure, nei limiti in cui la reticenza affaristica ha consentito di renderle note, è una stupefacente commedia degli errori, che finisce essenzialmente sempre allo stesso modo sia che la si narri per l’uno o per l’altro dei tanti dicasteri, comitati, consigli, commissioni ed amministrazioni incaricate di questo lavoro. Com’è ben noto, tale scelta del personale dirigente si è dimostrata con singolare uniformità discutibilmente consigliabile, per non usare un’espressione più dura. Le politiche da esso perseguite, senza dubbio con le migliori e più sagge intenzioni di cui questo personale dirigente affaristico sia stato capace, hanno prodotto l’uniforme risultato della salvaguardia degli investimenti e della distribuzione di profitti commerciali; il tutto mentre il fine dichiarato, e senza dubbio lo scrupoloso obiettivo dei governanti affaristici, è stata la produzione in massa di beni essenziali. Quanto più questo fatto viene

alla luce, tanto più evidente risalta la differenza tra l’obiettivo dichiarato e le realizzazioni concrete. Realizzazioni concrete in fatto d’industria produttiva costituiscono esattamente ciò che gli uomini d’affari non sanno proporre; ma rappresentano anche l’elemento su cui si fonderà sempre il possibile successo di ogni piano rivoluzionario che sia concepito. Bisogna peraltro osservare anche che perfino gli sforzi riluttanti e compiuti alla cieca da quei governanti affaristici di allontanarsi dalla regola, invalsa per tutta la loro vita, che postula dei ragionevoli profitti, sembrano aver ottenuto il risultato di un aumento molto considerevole della produzione industriale per unità impiegata di manodopera e di attrezzature2 Un simile risultato del governo di guerra è presumibilmente dovuto in gran parte al fatto che gli uomini d’affari al comando non furono in grado di esercitare un controllo altrettanto stretto sulla forza operativa formata dai tecnici e dagli operai qualificati durante quel periodo di sforzo. Qui il ragionamento entra in contatto con una delle ragioni di fondo per cui non occorre che vi sia alcun timore attuale di un sommovimento rivoluzionario. Per consuetudine inveterata il popolo americano è del tutto incapace di concepire l’eventualità di affidare qualsiasi responsabilità di rilievo a chiunque non sia un uomo d’affari; mentre proprio un simile atto di sommovimento può aspirare al successo solo se escluda gli uomini d’affari da tutte le posizioni di responsabilità. Il rispetto sentimentale che il popolo americano nutre nei confronti della saggezza dei suoi uomini d’affari è massiccio, profondo e vivo; al punto che ci vorrà un’esperienza dura e prolungata per farlo sparire, o per stornarlo in modo adeguato ai fini di qualsiasi diversione rivoluzionaria. Più in particolare, il sentimento popolare nazionale non tollererà l’assunzione di responsabilità da parte dei tecnici, che nella considerazione popolare sono ritenuti come una specie di bizzarra confraternita di tipi strambi eccessivamente specializzati, di cui è bene non fidarsi quando non siano sotto gli occhi, a meno che vengano tenuti a freno dalla mano di uomini d’affari sani e sicuri. Né i tecnici hanno essi stessi l’abitudine di valutare la loro posizione in termini molto diversi; continuano a ritenere che, nella natura delle cose, il loro posto sia quello di dipendenti di quegli intraprendenti uomini d’affari i quali, sempre nella natura delle cose, sono predestinati a guadagnare qualcosa senza dar nulla in cambio. La proprietà assenteista è al sicuro, per ora. Con il tempo, e con adeguati stimoli, questa mentalità popolare può ovviamente cambiare; ma in ogni caso è questione di un considerevole periodo di tempo.

Uno schizzo pur schematico e sommario degli aspetti generali, quale quello frettolosamente tratteggiato nelle pagine precedenti, è utile a dimostrare che ogni effettivo rovesciamento dell’ordine prestabilito non è un’impresa che sia possibile intraprendere immediatamente o indirizzare nel senso voluto a mezzo di espedienti, una volta compiuta la mossa iniziale. Non vi è alcuna possibilità di successo senza una ponderata preparazione preventiva. Due sono i momenti fondamentali della preparazione che incombe ad ogni gruppo di persone che prenda in considerazione un simile atto: a) un’indagine sulla situazione di fatto e sui mezzi e sistemi disponibili; e b) la predisposizione di schemi organizzativi realizzabili ed una rivista del personale disponibile. Legate a tale opera di preparazione, ed aventi nei suoi confronti valore condizionante, sono le misure che devono esser adottate per favorire la nascita di uno spirito del lavoro di gruppo, che predisponga ad intraprendere ed a sostenere questa difficile avventura. Tutto ciò richiederà del tempo. Sarà necessario indagare e far risaltare in modo convincente quali siano i diversi tipi e metodi di spreco necessariamente connessi con l’attuale controllo affaristico dell’industria; quali siano le cause permanenti di quelle pratiche dilapidatorie e ostruzionistiche; e quali economie direzionali e produttive diventeranno realizzabili con la soppressione dell’attuale controllo affaristico. Ciò richiederà un diligente lavoro di squadra da parte di un idoneo gruppo di economisti ed ingegneri, che dovrà formarsi mediante l’autoselezione, sulla base del comune interesse all’efficienza produttiva, all’impiego economico delle risorse, ed alla equa distribuzione dei beni di consumo prodotti. Fino ad oggi nessuna simile autoselezione di persone competenti ha evidentemente avuto luogo, né è stato finora intrapreso il piano del lavoro di gruppo per lo svolgimento di un’indagine di quel tipo. Nello svolgimento dell’indagine ora presa in esame, e sulla base costituita dai suoi dati conclusivi, vi è un’opera non meno importante da compiere nel senso di una ponderazione e deliberazione, sia nell’ambito dei membri del gruppo in questione che in consultazione con tecnici esterni capaci d’individuare la migliore utilizzazione possibile dei mezzi a disposizione, il cui interesse nei fatti concreti li spinge a partecipare a quella stessa avventura non lucrosa. Ciò comporterà la predisposizione di schemi organizzativi interessanti l’impiego efficiente delle risorse e degli impianti disponibili, e la riorganizzazione dei traffici connessi con la distribuzione dei prodotti. A titolo di esempio illustrativo, per lumeggiare in certo modo quelle che

presumibilmente saranno la portata e il metodo di quelle indagini e consultazioni, si può osservare che nel nuovo ordinamento l’attuale attività concorrenziale impegnata nella distribuzione dei beni ai consumatori verrà presumibilmente a cadere, in gran parte, per mancanza d’incentivi commerciali. È ben noto, in senso generale, il fatto che l’attuale organizzazione di questa attività, attraverso il commercio all’ingrosso e al dettaglio, comporta un’assai vasta e costosa duplicazione del lavoro, delle attrezzature, delle provviste e del personale – diverse volte più di quello che sarebbe richiesto da un’amministrazione economicamente efficiente dell’attività, secondo un piano razionale. Nella ricerca di una via d’uscita dall’attuale, estremamente dilapidatoria attività commerciale, e nell’elaborazione di schemi organizzativi miranti ad un’equa ed efficiente distribuzione dei beni ai consumatori, si ritiene che gli esperti in questione riceveranno un valido aiuto da dettagliate informazioni sulle organizzazioni esistenti, quali ad esempio il sistema distributivo dei Chicago Packers3, le catene di grandi magazzini, e le ditte di vendita a mezzo della posta. Queste sono naturalmente organizzazioni commerciali, e come tali gestite al fine del profitto commerciale dei loro proprietari e dirigenti; ma sono insieme congegnate in modo da evitare il normale spreco della comune distribuzione al dettaglio, a vantaggio dei loro proprietari assenteisti. Non sono poche le lezioni oggettive che possono esser apprese in fatto di economie di carattere pratico dagli interessi costituiti; tanto che le economie che ne risultano fanno parte del patrimonio utile capitalizzato di tali aziende affaristiche. L’indagine qui considerata sarà naturalmente utile anche sotto forma di pubblicità; cioè per illustrare in modo concreto e convincente quelli che sono i difetti inerenti all’attuale controllo affaristico dell’industria, il motivo per cui questi difetti sono inseparabili da esso nelle attuali circostanze, e ciò che ci si può onestamente aspettare da una direzione industriale che non tenga alcun conto della proprietà assenteista. La soelta dei mezzi e dei sistemi di pubblicità da impiegare è una questione che evidentemente non può esser utilmente discussa anzitempo, nella misura in cui la stessa intera questione dell’indagine considerata ha un interesse poco più che speculativo; lo stesso può dirsi per l’àmbito e la minuziosità dell’indagine, i quali dovranno esser determinati in gran parte dagli interessi e dalle attitudini delle persone che la svolgeranno. Finché l’opera non sarà in corso, non si potrebbero delineare con alcuna sicurezza, nell’àmbito di questo programma, nient’altro che generiche categorie provvisorie.

All’eventuale passaggio qui preso in esame ad un sistema nuovo e più pratico di produzione e di distribuzione industriale si è in questa sede fatto riferimento in termini di «sommovimento rivoluzionario» dell’ordine prestabilito. Si è usata quest’espressione scellerata soprattutto perché i guardiani dell’ordine prestabilito nutrono palesemente il timore di un qualcosa di sinistro, che non può esser definito con un termine più gentile; e non con l’intenzione d’insinuare che solo tali misure estreme e sovversive possono oggi preservare la vita delle masse popolari dal dominio sempre più nocivo degli interessi costituiti. L’atto che è qui discusso in maniera teorica sotto la forma di quella espressione sinistra, come un’eventualità da cui premunirsi con mezzi sia leali che scorretti, non dovrà in effetti costituire necessariamente un fatto spettacolare; per certo non comporta necessariamente uno scontro armato o uno sventolio di bandiere, a meno che i guardiani del vecchio ordinamento non trovino conveniente, come sta cominciando ad apparir probabile, una cosa del genere. Nei suoi elementi di fondo, l’atto avrà carattere semplicissimo e del tutto concreto, anche se senza dubbio molte complicate sistemazioni di dettaglio dovranno aver luogo. In linea di principio, esso comporta necessariamente soltanto un’espropriazione della proprietà assenteista, vale a dire la soppressione di un’istituzione che si è dimostrata, nel corso del tempo e delle trasformazioni, nociva al bene comune. Tutto il resto deriverà in modo assai semplice dall’estinzione di questo logoro e infondato diritto consolidato. Per proprietà assenteista, così come il termine si applica ai presenti fini, si deve intendere qui la proprietà di qualsiasi oggetto d’uso industriale da parte di ogni persona o gruppo di persone che non siano abitualmente occupate nell’impiego industriale di esso. A questo riguardo il lavoro d’ufficio di carattere commerciale non è considerato impiego industriale. Ne deriva immediatamente un corollario di una certa rilevanza, che è sottinteso in modo così ovvio dalla tesi principale da non aver quasi bisogno di esplicitazione: un proprietario, che sia pure occupato nell’uso industriale di una data quantità di beni da lui posseduta, rimane sempre un «proprietario assenteista», secondo il significato del termine, nel caso in cui egli non sia l’unica persona abitualmente occupata in tale uso. Ne deriva anche un ulteriore corollario, forse meno ovvio a prima vista, ma non meno convincente per chi ponga una più rigorosa attenzione al senso dei termini impiegati: la proprietà collettiva del tipo della società azionaria, vale a dire la proprietà da parte di una collettività istituita ad hoc, decade anch’essa in quanto è inevitabilmente una

proprietà assenteista, secondo il significato del termine. Si noti che tutto ciò non riguarda la proprietà congiunta di beni detenuta mediante possesso indiviso da parte di un gruppo familiare, ed utilizzata congiuntamente dai membri del gruppo familiare. Solo nella misura in cui il gruppo familiare possieda dei beni utilizzabili che non siano impiegati dai membri di esso, o che lo siano con l’aiuto di dipendenti, il suo possesso di tali beni rientra nell’àmbito del significato del termine proprietà assenteista. Per esser abbastanza espliciti, si può aggiungere che l’estinzione della proprietà assenteista così com’è qui intesa si applicherà indiscriminatamente a tutti gli oggetti di utile impiego industriale, sia beni mobili che immobili, risorse naturali, attrezzature, capitale bancario, o partite di beni elaborati. Come conseguenza immediata di quest’estinzione della proprietà assenteista, parrebbe del tutto probabile che gli oggetti di uso industriale dovrebbero in breve cessare di esser impiegati a fini di possesso, cioè a fini di privato lucro; anche se potrebbe non esservi alcuna interferenza amministrativa avverso tale impiego. Nell’attuale stadio delle tecniche produttive né le risorse naturali a cui si attingono l’energia e le materie prime né le attrezzature impiegate nelle industrie maggiori e determinanti si prestano per loro natura ad una proprietà che non sia assenteista; e tali industrie controllano la situazione, cosicché la piccola iniziativa privata rivolta al guadagno troverebbe difficilmente un mercato idoneo. Inoltre l’incentivo all’accumulazione privata di ricchezze a spese della comunità dovrebbe virtualmente decadere, in quanto tale incentivo è oggi nella quasi totalità dei casi un’ambizione a ottenere un qualcosa del genere della proprietà assenteista; gli altri incentivi sono in effetti di entità trascurabile. Evidentemente gli effetti secondari di tale estinzione si estenderebbero oltre, in più di una direzione; ma è anche evidente che servirebbe a ben poco il tentativo di cercar di individuare in questa sede tali ulteriori eventualità mediante prolungate riflessioni teoriche. Per quanto concerne le formalità di carattere giuridico connesse con tale espropriazione della proprietà assenteista, queste non saranno necessariamente estese né complicate, per lo meno nelle loro conseguenze fondamentali. Essa assumerà con ogni probabilità la forma di un’estinzione di tutti i titoli azionari, come atto iniziale. I contratti di società, i titoli di credito e gli altri strumenti giuridici che oggi attribuiscono un titolo alla proprietà di beni non detenuti o impiegati dal proprietario saranno con lo stesso provvedimento resi nulli. Con ogni probabilità ciò sarà sufficiente allo scopo.

Questo atto di espropriazione può esser definito sovversivo e rivoluzionario; ma, pur senza alcuna intenzione di presentarne qui una qualsiasi giustificazione, è necessario osservare, ai fini di una valutazione obiettiva dell’atto considerato, che l’effetto di tale espropriazione sarebbe sovversivo o rivoluzionario solo in senso metaforico. Essa non sovvertirebbe né sconvolgerebbe alcun importante meccanismo o rapporto meccanico, né disturberebbe necessariamente in modo concreto la situazione ed i rap porti, sia come lavoratori sia come consumatori di beni e servizi, di un qualsiasi gruppo abbastanza numeroso di persone oggi interessate nell’industria produttiva. In realtà, l’espropriazione non colpirà nulla di più sostanziale di una finzione giuridica. Ciò sarebbe ovviamente assai grave per le sue conseguenze nei confronti di quelle classi – definite come classi mantenute – la cui sussistenza dipende dalla conservazione di quella finzione giuridica. Analogamente essa svuoterebbe la professione dell’«agente intermediario», che dipende parimenti dalla conservazione della finzione giuridica, la quale conferisce un «titolo» nei confronti di ciò con cui non si ha alcun rapporto concreto. Indubbiamente, ne seguiranno senz’altro gravi e duri disagi per quelle classi che sono meno assuefatte alle privazioni; e certo, tutti concorderanno che ciò è una gran disgrazia. Ma questa sciagura è in fondo una questione marginale per quanto concerne il presente ragionamento, il quale si riferisce esclusivamente alla realizzabilità del piano. Perciò è necessario osservare che questo atto, per quanto dannoso ai particolari interessi dei proprietari assenteisti esso possa essere, non sconvolgerà o menomerà in alcun modo quelle realtà concrete che costituiscono i mezzi e i sistemi dell’industria produttiva; né debiliterà o mutilerà affatto quel capitale comune di cognizioni e pratiche tecniche che costituisce la forza operativa intellettuale del sistema industriale. Esso non colpisce direttamente le realtà concrete dell’industria, né in meglio né in peggio. In questo senso si tratta di un soggetto completamente sterile, nella sua incidenza immediata, quali che possano esserne le presumibili conseguenze secondarie. Non vi è dubbio però che la proposta di espropriare la proprietà assentista urterà la sensibilità morale di molte persone, particolarmente quella dei proprietari assenteisti. Perciò, per evitare di dar l’impressione di averlo trascurato intenzionalmente, è necessario parlare anche dell’ «aspetto morale». Non si ha alcuna intenzione di dibattere in questa sede i valori morali della espropriazione della proprietà assenteista ora esaminata, o di concludere in

favore o contro tale atto sulla base di argomentazioni morali o altre. La proprietà assenteista è giuridicamente valida oggi; anzi, com’è ben noto, la Costituzione comprende una clausola che ne salvaguarda specificamente la sicurezza. Se, e quando, la norma sia mutata per questo aspetto, ciò che oggi è legale cesserà ovviamente di esser tale. In pratica non vi sono molte altre cose da dire al riguardo se non che, in ultima analisi, l’etica economica è asservita alla necessità economica. Il sentimento economico-morale della società americana di oggi sostiene senza mezzi termini che la proprietà assenteista è fondamentalmente ed eternamente giusta e vantaggiosa; e parrebbe logico ritenere che esso continuerà a sostenerlo per qualche tempo ancora. Vi è stata di recente una certa irritazione e riprovazione nei confronti di quelli che sono definiti i «profittatori» e vi può esser un maggiore o minore malcontento ed inquietudine di fronte a quella che è ritenuta una disparità ingiustamente sproporzionata nell’attuale distribuzione del reddito; ma le persone di carattere apprensivo non dovrebbero perder di vista il fatto fondamentale che la proprietà assenteista è in fondo l’idolo di ogni sincero cuore americano. Essa forma la sostanza di ciò a cui si aspira e la realtà di ciò che non si vede. Raggiungere (o ereditare) l’agiatezza, cioè accumulare una ricchezza tale da garantire un «decente» tenore di vita in absentia rispetto all’industria costituisce l’ambizione universale, ed universalmente lodevole, di tutti coloro che hanno raggiunto l’età della ragione; ma tutto ciò significa una sola cosa – ottenere qualcosa senza dar nulla in cambio, ad ogni costo. Parimenti universale è la timorosa deferenza con cui si guarda ai maggiori proprietari assenteisti perché fungano da guida e da esempio. Questi cittadini agiati sono coloro che hanno «avuto successo» nella considerazione popolare; sono gli uomini grandi e buoni le cui vite «ci ricordano tutte che possiamo render eccelse le nostre, ecc.». Questa mentalità commercializzata è il resistente prodotto di molte generazioni di conformi insegnamenti rivolti al perseguimento del proprio interesse; è una seconda natura, né deve esservi alcun timore che essa consenta agli americani di concepire la realtà quotidiana in una prospettiva che non sia la sua, per ora. Il fattore più tenace in ogni civiltà è una mentalità popolare saldamente stabilita, e secondo la perdurante mentalità americana la proprietà assenteista è il nucleo determinante di ogni realtà economica. Avendo dunque chiarito che tutto il ragionamento intorno ad un realizzabile rovesciamento dell’ordine prestabilito ha un interesse esclusivamente teorico, è possibile andar oltre ed esaminare quale sarà la

natura dell’iniziale atto di rovesciamento con cui sarà posto fine al vecchio ordinamento di proprietà assenteista e sarà costituito un regime di efficienza operativa governato dai tecnici del paese. Come si è già avuto modo di osservare in ripetute occasioni, la direzione effettiva del sistema industriale nel suo complesso è già nelle mani dei tecnici per quanto concerne il lavoro effettivamente svolto, mentre è tutta sotto il controllo degli interessi costituiti, rappresentanti i proprietari assenteisti, per quanto riguarda la sua incapacità di funzionare; incapacità la quale sta attraendo, com’è del tutto logico, molta attenzione in questi ultimi tempi. In questa amministrazione bipartita, o bicamerale, dell’industria si può dire che i tecnici rappresentano la comunità in senso lato nella sua capacità industriale, o in altri termini il sistema industriale in quanto complesso funzionante; mentre gli uomini d’affari sono i portavoce dell’interesse commerciale dei proprietari assenteisti, in quanto gruppo che detiene l’usufrutto della comunità industriale. Il ruolo dei tecnici, nel loro complesso, è quello di conoscere le risorse disponibili del paese in fatto di energia meccanica e di attrezzature; di possedere ed applicare il patrimonio congiunto di cognizioni tecniche indispensabili alla produzione industriale; e infine di esser a conoscenza e di prendersi cura delle normali necessità della comunità e del suo uso di beni di consumo. Essi costituiscono in pratica lo stato maggiore degli ingegneri della produzione, sotto la cui supervisione viene prodotta e distribuita ai consumatori la quantità richiesta di beni e servizi. Di contro, il ruolo degli uomini d’affari consiste nel sapere quale ritmo e volume di produzione e distribuzione sia più utile all’interesse commerciale dei proprietari assenteisti, e nel tradurre in pratica tale conoscenza commerciale limitando scrupolosamente la produzione e la distribuzione dei prodotti ai ritmi e ai volumi tollerati dai loro traffici commerciali – cioè a quelli che arrechino il massimo utile netto ai proprietari assenteisti in termini di prezzo. In tale opera di sagace rallentamento dell’industria i capitani d’industria agiscono necessariamente in contrasto reciproco tra di loro, dato che Fattività ha carattere concorrenziale. Di conseguenza, in questo duplice assetto delle funzioni amministrative compito dei tecnici è quello di pianificare il lavoro e di eseguirlo; e compito dei capitani d’industria è quello di fare in modo che il lavoro vada a vantaggio esclusivo di loro stessi e dei proprietari assenteisti loro soci, e che esso non sia spinto oltre il minimo salutare tollerato dai loro traffici commerciali. Per tutto ciò che concerne la pianificazione e l’esecuzione del lavoro svolto, i tecnici

assumono necessariamente l’iniziativa ed esercitano la necessaria, fattiva supervisione e direzione, cioè le funzioni che essi, ed essi soli, sono in grado di svolgere; mentre i rappresentanti affaristici dei proprietari assenteisti esercitano sapientemente un potere permanente di veto sui tecnici e sulla loro industria produttiva. Essi sono in grado di esercitare effettivamente tale potere di veto commercialmente dosato a causa del fatto che i tecnici sono in effetti alle loro dipendenze, assunti per eseguire i loro ordini e licenziati se non li eseguono; e forse in misura non inferiore anche a causa del fatto che i tecnici hanno finora lavorato in modo parcellare, come individui sparsi sotto l’occhio dei padroni; fino ad oggi non si sono incontrati sul loro specifico terreno e non si sono consultati reciprocamente come stato maggiore dell’industria, per determinare ciò che sarebbe più opportuno fare e non fare. Perciò essi hanno finora rappresentato, nella conduzione delle iniziative industriali del paese, una semplice proiezione tecnologica della presa con cui gli uomini d’affari si aggrappano al loro personale interesse commerciale. Ciononostante i tecnici, il loro consiglio e la loro supervisione sono, in modo immediato e costante, essenziali per l’adempimento di qualunque compito nelle grandi industrie primarie su cui si fonda il sistema produttivo nazionale, e che determinano il ritmo di tutte le altre. Ed è ovvio che non appena si uniscano in una misura ragionevolmente rappresentativa e si consultino su ciò che sia più opportuno fare, essi saranno in grado d’indicare quale lavoro vada svolto e di dettare i termini per svolgerlo. In breve, per quanto concerne le sue caratteristiche tecniche, la situazione è matura perché un soviet di tecnici autoselezionato, ma rappresentativo, assuma la direzione degli affari economici del paese e consenta o vieti di comune accordo ciò che gli sembri opportuno; sempre a condizione che esso rimanga nell’ambito dei requisiti imposti dallo stadio della tecnica industriale di cui è il custode, * e che le sue pretese continuino a godere dell’appoggio delle masse lavoratrici dell’industria, ciò che equivale in pratica a dire che il soviet deve prendersi cura in modo costante ed effettivo del benessere materiale delle masse popolari. Ora, questa predisposizione rivoluzionaria dell’attuale stadio della tecnica industriale può esser indesiderabile, per taluni aspetti, ma è perfettamente inutile negarla. Non appena – ma soltanto allorché – gli ingegneri si uniscano, si consultino, elaborino un piano d’azione e decidano di espropriare senz’altro la proprietà assenteista, tale atto sarà compiuto. Il modo ovvio e semplice per farlo è una coscienziosa astensione dall’efficienza; vale a dire uno sciopero

generale, che interessi quel tanto del personale tecnico del paese bastante a paralizzare con la sua astensione il sistema industriale nel suo complesso, per il periodo di tempo che sia necessario al conseguimento dell’obiettivo. Nei suoi elementi costitutivi, il piano è semplice e ovvio, ma la sua effettuazione richiederà molti, accurati preparativi, assai più di quanti appaiano palesemente da questa spoglia esposizione; perché dall’attuale stadio della tecnica industriale, e dalla natura del sistema industriale in cui si estrinseca la tecnica moderna, deriva anche il fatto che una mancanza di successo anche transitoria nella conduzione dell’industria produttiva risulterà in un crollo precipitoso dell’impresa. I tecnici sono in grado da soli di paralizzare effettivamente in poche settimane l’industria produttiva nazionale in modo adeguato allo scopo. Nessuno che voglia riflettere spassionatamente sul carattere tecnico del sistema industriale potrà fare a meno di convenire su tale dato di fatto. Ma finché non godano almeno del tollerante consenso del popolo nel suo complesso, sostenuto dall’appoggio attivo delle forze lavoratrici qualificate addette ai settori dei trasporti e delle maggiori industrie primarie, essi saranno sostanzialmente impotenti a creare una realizzabile organizzazione funzionante su nuove basi; ciò che equivale a dire che in tal caso essi non otterranno in questo campo nient’altro che un periodo passeggero di disagi e dissensi. Di conseguenza, ove si presuma che gli ingegneri della produzione abbiano intenzione di giocare un loro ruolo, vi sono per lo meno due fondamentali momenti preparatori sussidiari di cui prendersi cura prima che sia possibile intraprendere qualsiasi atto palese: a) una vasta campagna d’indagini e di pubblicità, tale da far ragionevolmente comprendere alle masse popolari il senso di tutta l’impresa; e b) la realizzazione di una comune intesa e di una solidarietà di sentimenti tra i tecnici e le forze lavoratrici addette ai trasporti e alle maggiori industrie di base del sistema, a cui va aggiunta, in quanto pressoché indispensabile fin dall’inizio, un’adesione attiva al piano da parte degli operai qualificati della generalità delle industrie meccaniche. Fino a che non si prenda cura di questi requisiti preliminari, ogni piano per il rovesciamento dell’ordine prestabilito di proprietà assenteista è destinato ad esser futile. A titolo di conclusione si può ricordare ancora una volta che, per ora, gli ingegneri della produzione formano un gruppo sparpagliato di subalterni discretamente soddisfatti, che lavora in modo parcellare agli ordini dei

rappresentanti dei proprietari assenteisti; e che le forze lavoratrici delle grandi industrie meccaniche, compresi i trasporti, sono tuttora quasi prive di contatto e di simpatia per i tecnici, e legate da organizzazioni sindacali rivali il cui unico, egoistico interesse si concentra sulla gavetta piena; mentre le masse popolari sono tenute male informate sulla situazione reale nella misura in cui ciò riesce possibile ai guardiani degli interessi costituiti, compresi i giornali commercializzati, conservando perciò tuttora una mentalità che non tollera alcuna sostanziale menomazione della proprietà assenteista; e le autorità costituite sono convenientemente dedite al mantenimento dello status quo. Non vi è nulla nella situazione attuale che possa giustificatamente turbare la sensibilità dei guardiani o del vasto strato di cittadini agiati che forma la base della proprietà assenteista, per ora. 1. Pubblicato su «The Dial» il 1° novembre 1919. 2. Allude probabilmente soprattutto all’opera del War Industries Board presieduto dal finanziere Bernard Baruch. 3. Vedi nota 1, p. 964.

INDICE DELLE TAVOLE

Thorstein Veblen nel 1920 Thorstein Veblen a quarantasette anni