Islam e violenza. Parlano i musulmani italiani 8842080810, 9788842080817

In questo libro parlano i rappresentanti delle comunità religiose, gli intellettuali, i commercianti, gli studenti, i pr

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Islam e violenza. Parlano i musulmani italiani
 8842080810, 9788842080817

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Saggi Tascabili Laterza 305

© 2006, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2006

Francesca Paci

ISLAM E VIOLENZA Parlano i musulmani italiani Prefazione di Gianni Riotta

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2006 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 88-420-8081-0

alla mia mamma e al mio papà

Prefazione di Gianni Riotta

L’islam è stato così spesso ritratto, anche da studiosi contemporanei, come «una religione militare, con guerrieri fanatici, impegnata a diffondere la propria fede e la propria legge con la forza delle armi», che l’immagine delle orde che caricano selvagge in battaglia è uno degli stereotipi più antichi dell’Occidente. «L’islam non è mai stata una religione di salvezza», ha scritto l’eminente sociologo Max Weber. L’islam è una religione guerriera, che lo studioso Samuel Huntington ha definito «radicata in confini sanguinosi». E così anche Reza Aslan, nel suo magnifico libro No god but God: the origins, evolution and future of Islam (Random House, 2005). Il pregiudizio radicato porta Francesca Paci a dichiarare, senza ipocrisie, che «l’islam fa paura», dritto nella prima pagina di questo libro. E come potrebbe non far paura, con le immagini dell’11 settembre a New York e Washington e le stragi nelle pacifiche metropolitane di Madrid e Londra, lo stillicidio di bagnanti massacrati dall’Egitto a Bali, i kamikaze di casa e quelli dei campi d’addestramento, i proclami di Osama bin Laden e la strategia nichilista di Hamas? Man mano che la paura degenera in paranoia, figlia naturale del panico incrociato all’ignoranza, si difVII

fida non più solo dei terroristi, non più solo dei fondamentalisti, ma tout court degli arabi, dei musulmani, dell’intera umma, la comunità dei fedeli islamici. Il risentimento innesca diffidenza, che scatena prevenzione e razzismo. L’islam non è una religione di guerra, non più del buddismo, che ha generato schiere di monaci combattenti, del taoismo, fonte di arti marziali, della Bibbia che esalta Sansone e la guerra asimmetrica di Davide contro Golia e neppure del cristianesimo. Non c’è bisogno di scomodare le Crociate per ricordare che anche la cristianità ha avuto la stagione che lo storico dell’arte Gombrich chiama «la Chiesa militante»: quando ero chierichetto si pregava ancora nelle chiese «il Signore, Dio degli eserciti». Reza Aslan data la paranoia della violenza islamica ai giorni del primo «scontro di civiltà», le Crociate. Da allora l’immagine temuta del combattente musulmano, «coperto dalla sua tunica, scimitarra brandita, pronto a sgozzare ogni infedele che gli attraversi la strada» è, e rimane, «un popolare clichè letterario». Di fronte al quadro di violenza dell’islam, l’opinione pubblica occidentale reagisce con due riflessi condizionati. Il primo, innescato da studiosi insigni e reso popolare dai media, strumentalizza lo stereotipo e fa dei musulmani – un essere umano su cinque nel nostro pianeta – la riserva militare di un puritanesimo wahhabita trasformato in guerriglia da Osama bin Laden e al-Qaeda. Ogni fedele del Corano è potenziale recluta del terrore. Il secondo nega invece, in radice, l’insorgenza violenta del fondamentalismo. Considera il terrorismo e la guerra promossi dai ribelli islamisti come tardiva conseguenza del colonialismo ottocentesco e assolve gli atti di violenza senza troppe lacrime. La mia è una schematizzazione di due ipocrisie opposte, così spesso preVIII

senti nei talk show televisivi, nei bar, nei colleges universitari e in editoriali di prima pagina, ma non è neanche tanto eccessiva: il lettore che abbia tempo per verificarlo, riconoscerà le due maschere ogni giorno, in Europa come negli Stati Uniti. Francesca Paci affronta la questione violenza e islam con mente libera dalle due grandi ipocrisie. Non indossa la camicia di forza della logica «noi contro loro», senza però sfoggiare la corona di fiorellini del «è solo colpa nostra!». Interroga i musulmani presenti tra di noi, emigrati e convertiti, ponendosi alla pari, mostrandone le ambiguità, le zone grigie, trattandone le complicità senza ritrosia. Ma al tempo stesso ricostruisce la nostra ambiguità, occidentali lesti a reclutare manodopera a basso costo, lesti a criminalizzarla se capita. E riconosce e incoraggia i segni di evoluzione e maturazione di una comunità che, vivendo in democrazia, condivide i frutti del lavoro e del dialogo. Studiosi come Olivier Roy e Gilles Kepel hanno parlato di «scontro di identità all’interno della cultura islamica», tra tolleranza e intolleranza, di fitna, la guerra civile che oppone al terrorista islamico il fedele tranquillo. Reza Aslan propone un analogo modello interpretativo: come la cristianità ha vissuto le sue stagioni di maturazione e scontro, la Riforma, la Controriforma, l’Inquisizione, la fine del potere temporale in Vaticano, il Concilio Vaticano II, per affermarsi nella dimensione ecumenica, così – sostiene Aslan – anche la umma islamica è sottoposta alla tensione sismica di ideali contrapposti. Il rigore fanatico dei wahhabiti, tradotto in sangue da Osama e accoliti, non è il prodotto del Corano né della predicazione di Maometto ma, tutto al contrario, la conseguenza della frizione tra islam e mondo globale (di cui hanno a lungo scritto da noi i due Allam, il deputato Khaled Fouad, IX

di origine algerina, e il vicedirettore del «Corriere della Sera» Magdi, di origine egiziana). Al-Qaeda, al-Zarqawi, i ribelli di Iraq e Afghanistan, i maestri violenti delle madrasse, le scuole coraniche alla periferia di Kabul e delle nostre città, non sono mossi al jihad in prima battuta dall’odio contro l’Occidente1. È il terrore di perdere la propria identità, di vedere Mtv e la scuola femminile, internet e la coesistenza religiosa spezzare non la tradizione dell’islam, ma la caricatura della tradizione che si portano in cuore, a scuoterli. Quando «la piazza araba» si mobilita contro le vignette europee sul Profeta, vale a dire quando militanti e simpatizzanti aizzati da governi e forze politiche danno il via a cortei preorganizzati, l’obiettivo non è la libertà di parola del nostro mondo: è il terrore che la libertà di parola possa estendersi anche al mondo islamico, privando i fondamentalisti di quella presunta purezza in nome della quale sono pronti a dare, o ricevere, la morte. Osama attacca Hamas quando partecipa alle elezioni in Palestina, salvo ripensarci quando vince e al-Zarqawi massacra gli iracheni che vanno a votare a Baghdad. Il diario della Paci sull’«islam sotto casa» (questo il titolo di un suo precedente volume) conferma che l’emigrazione non è il cavallo di Troia del terrorismo fondamentalista, come temono in tanti. Al contrario è la nostra Quinta colonna per sconfiggere il fondamentalismo. I nostri valori di convivenza e libertà contrastano, tra gli emigranti, il feticcio dell’«islam totale», mai esistito nel passato, che Osama e il Fratelli Musulmani 1 E del resto Aslan osserva che tradurre jihad in «guerra santa» o «holy war», è improprio e fuori dalla filologia coranica: meglio parlare di «guerra giusta» o «ingiusta», e spesso jihad ha valore mistico e spirituale, prima della volgarizzazione militare.

X

provano a erigere. Tocca a noi far sì che i nostri vizi – materialismo, nichilismo, egoismo – non sporchino agli occhi dei musulmani una proposta di convivenza, rendendoli preda della propaganda sanguinaria. Sono esseri umani, è la morale di Islam e violenza, «capaci di apprendere e di insegnare». Se anche noi sapremo, a nostra volta, essere allievi e maestri, la guerra globale in atto potrebbe non degenerare in conflitto totale ma, come la guerra fredda, concludersi con più pace e più dialogo. Inshallah, se Dio vorrà. New York-Milano, maggio 2006

Introduzione

Fino a pochi anni fa classificavamo gli immigrati in base alla provenienza. I vucumprà, per lo più magrebini. I polacchi, lavavetri e taciturni. Gli albanesi, associati comunemente agli scafisti traghettatori di uomini da una sponda all’altra dell’Adriatico. Le ambitissime colf filippine, meticolose e riservate, e le prime badanti provenienti dall’Est Europa. Quello che invece fa la differenza oggi, nei dibattiti televisivi come nelle oziose chiacchiere al bar, è la religione: sembra ormai impossibile parlare d’immigrazione senza distinguere tra i musulmani e gli altri. Quasi che le sfide della società aperta si siano ridotte a un confronto serrato tra noi e loro, dove «loro» non sta genericamente per tutti quegli stranieri che cercano in Italia la chance umana e professionale mancata in patria ma indica in modo specifico i seguaci dell’islam, i figli della umma, gli arabi (che in realtà rappresentano appena il 15% dei musulmani nel mondo). L’islam fa paura. Anche la Germania, che ha una tradizione d’accoglienza ben più collaudata della nostra e vanta almeno una piccola Ankara in ogni città, ha registrato la crescita d’una diffidenza popolare selettiva al punto da cominciare a immaginare una legge ad hoc. Il Baden-Württemberg, un ricco Land conservatore nel XIII

Sud-Ovest del paese, ha stabilito che dal primo gennaio 2006 gli immigrati di fede musulmana, solo ed esclusivamente loro, diversi tra i diversi, debbano superare una specie di test d’educazione civica per ottenere il permesso di soggiorno1. Domande mirate alla sfera politico-religiosa del tipo: cosa pensa dell’affermazione secondo cui la donna deve obbedire al marito e che questo può picchiarla nel caso lei non obbedisca? Gli autori degli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti e dell’11 marzo a Madrid erano terroristi o combattenti per la libertà? Cosa pensa delle affermazioni che indicano gli ebrei come responsabili di tutti i mali del mondo? Sul fronte opposto la Francia, patria prima dell’islam europeo, ha creduto a lungo nella possibilità dell’assimilazione culturale fin quando le banlieues in rivolta non hanno svelato che non c’è assimilazione culturale possibile senza integrazione economica. L’Italia scopre solo ora i quartieri-casbah e si accorge di non avere un modello culturale da proporre. Il primo minareto vero e proprio ha fatto capolino tra le antenne della Capitale appena pochi anni fa. Ma le tante piccole sale di preghiera adibite a moschea che, da Palermo a Torino, funzionano da punto di riferimento per la umma nostrana sono sempre più percepite come luoghi ostili, impenetrabili, alieni. Laboratori d’odio secondo il pregiudizio popolare, dove però può capitare davvero che il sermone del venerdì abbia una duplice versione, conciliante in italiano e infuocata in arabo, con parole ostili e minacciose contro la società ospite, empia e kafir, infedele. La diffidenza, alimentata spesso dall’allarmismo giornalistico, cresce fino a partorire 1 Andrea Tarquini, Germania, un test per i musulmani, in «la Repubblica», 5 gennaio 2005.

XIV

l’incubo collettivo di svegliarsi un giorno scioccati come gli inglesi del 7 luglio 2005 davanti alla moschea londinese di Finsbury Park, culla dell’imam fondamentalista Abu Hamza al-Masri, condannato in seguito a sette anni di reclusione per istigazione all’odio razziale e omicidio, o come i multiculturali olandesi messi in scacco dall’assassinio del regista Theo van Gogh2. Nonostante ci siano gruppi etnici molto meno integrati, la comunità musulmana si porta dietro l’immagine del ghetto, dell’autoisolamento, dell’impermeabilità alle regole comuni. Alle feste di compleanno degli studenti delle scuole elementari e medie, per esempio, partecipano regolarmente i ragazzini marocchini, tunisini, egiziani, compagni di classe e amici degli italiani. Molto meno i bambini cinesi: non perché non abbiano voglia di giocare, ma perché magari nel pomeriggio aiutano a preparare involtini primavera o riso alla cantonese nel ristorante di famiglia. Uno dei pochi romanzi italiani contemporanei sul rischio prossimo venturo della bomba melting pot, L’età dell’oro di Edoardo Nesi3, si svolge nell’anno 2010 in un desolato scorcio del Belpaese ridotto a periferia industriale di Pechino e – più o meno volontariamente – lascia intendere che, alla fine, potrebbe non essere la mezzaluna l’effige dei nuovi colonizzatori. Eppure, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, dopo Madrid, dopo Londra, è l’immigrato mediorientale che crea disagio. Gli studiosi si affannano a isolare il terrorismo jihadista dalla cultura islamica, magari indicando personaggi leggendari di grande apertura mentale come il ma2

Olanda: ucciso il regista Theo van Gogh, in «Corriere della Sera», 2 novembre 2004. 3 Edoardo Nesi, L’età dell’oro, Bompiani, 2004. XV

rocchino Abu Abdallah Ibn Battuta, il più grande viaggiatore dell’epoca pre-moderna, autore di un libro di avventure itineranti considerato Il Milione del mondo arabo4. Ma l’icona di Osama bin Laden con il Corano in una mano e il kalashnikov nell’altra ha influenzato a tal punto l’immaginario collettivo da far nascere il sospetto che la violenza sia parte integrante dell’islam. E la reazione di una minoranza estremista alla provocazione delle vignette contro Maometto pubblicate da un giornale danese, con le foto dei consolati europei in fiamme, fomenta l’ostilità. La religione musulmana ha effettivamente un’innata e peculiare indole sanguinaria? La storia dei monoteismi suggerirebbe di no. Ogni volta che gli uomini hanno giustificato la sopraffazione con la volontà di Dio, qualsiasi fosse il suo nome, il risultato è stato identico. Molti però accusano l’islam di una rigidità dottrinale che cristallizza la comunità dei fedeli in un eterno Medioevo. C’è la questione femminile, per esempio, che nell’era globale non può più essere blandamente liquidata come differenza culturale. Una donna magrebina che vive nel nostro paese è soggetta alla legge italiana o a quella islamica, la sharia? C’è il rapporto con i non musulmani, gli «infedeli», nella migliore delle ipotesi considerati estranei alla famiglia transnazionale della umma e nella peggiore avversari da combattere. C’è il tabù dello Stato d’Israele, l’«entità sionista», l’archetipo del nemico, oggetto d’ostilità sin dalle battute degli adolescenti, che si chiedono scusa al solo nominarne l’esistenza come si fa con le bestemmie. C’è infine la sfida dell’immigrazione, che accosta mondi lontani nello spa4

Ross E. Dunn, Gli straordinari viaggi di Ibn Battuta, Garzanti,

2005. XVI

zio ma soprattutto nel tempo e produce periodici cortocircuiti. La mancanza di un clero ufficiale espone l’islam all’azione invasiva dei predicatori fai-da-te, ingenui e sprovveduti o estremisti e violenti, e rende particolarmente difficile per noi giudicare dall’esterno quale comportamento sia davvero halal, legittimo, e quale haram, vietato. Il Corano, come tutti i testi sacri, si presta alle interpretazioni più diverse, comprese quelle letterali dei fondamentalisti che negano qualsiasi valenza simbolica alla parola di Dio e al comportamento del profeta Maometto. Molti musulmani oggi scoprono personalmente la fede attraverso un’esperienza individuale, un fenomeno nuovo che interessa anche il mondo cristiano. Il sociologo francese Olivier Roy li definisce credenti «born again», rinati, quelli che ricostruiscono la loro identità messa in crisi dalla globalizzazione con la fede. «La religiosità dei fondamentalisti è individuale e generazionale, è una ribellione contro la religione dei genitori – scrive Roy –. Molte ragazze musulmane di seconda generazione in Europa portano il velo non sotto l’ingiunzione dei loro genitori, ma per affermare la loro individualità: non esitano d’altronde a riprendere slogan femministi del tipo ‘my body is my business’, il mio corpo sono affari miei»5. Nell’islam non esiste un’autorità unica in grado di dire l’ultima parola in tema di dogmi ed eresie. L’obbligo dell’hijab per le donne: indiscutibile secondo alcuni, optional per altri. La preghiera del venerdì in moschea, attestato etico del buon musulmano o distorsione formalistica di un momento di raccoglimento spirituale 5 Olivier Roy, Una fede senza radici, ecco il diavolo globale, in «Corriere della Sera», 14 febbraio 2006.

XVII

che può aver luogo ovunque. Il rispetto della sharia, che molti sapienti antepongono a qualsiasi altra legge umana mettendo in crisi soprattutto l’islam dell’immigrazione, costretto a confrontarsi con paesi occidentali in cui vige il principio della separazione tra religione e Stato. La distinzione tra jihad maggiore e minore, la sfida tutta interiore a migliorarsi e la guerra santa vera e propria contro i nemici dell’islam, un’ambiguità terminologica che arriva fino alla giustificazione dei kamikaze ceceni o palestinesi consacrati martiri della fede. Comprendersi è davvero complicato. Anche la domanda sul legame tra islam e violenza non trova una risposta definitiva. Questo libro lo chiede direttamente ai musulmani d’Italia. I rappresentanti delle comunità religiose, gli intellettuali, i commercianti, gli studenti, i praticanti rigorosi e quelli più laici, gli uomini e le donne che vivono e lavorano nel nostro paese e sperimentano ogni giorno, in prima persona, le contraddizioni della propria cultura e i pregiudizi di quella ospite. Alcuni sono nomi noti per essere stati chiamati dal ministero dell’Interno a far parte della Consulta islamica, Ali Rashid e Khaled Fouad Allam debuttano alla Camera come deputati neoeletti nelle fila della coalizione di centro-sinistra, altri sono persone qualsiasi. Le loro opinioni, raccolte in luoghi e momenti differenti, compongono un dialogo ideale sulla minaccia islamica reale e quella virtual-mediatica, sull’inquietudine suscitata da una confessione che è tutt’uno con la politica, sulla necessità di stabilire un corpo di regole comuni che sia frutto di valori condivisi, sulla zona grigia che cresce come terra di nessuno intorno a certe moschee dove l’emarginazione perde la sua radice sociale e diventa un problema d’identità etnico-religiosa. Il risultato è un coro che contraddice la rappresentazione dell’islam coXVIII

me un monolite privo di sfumature cara tanto ai sostenitori dello scontro di civiltà – intenti a colpevolizzare un’intera religione per il delirio di una minoranza di fanatici –, quanto ai nuovi relativisti incapaci di denunciare un immigrato marocchino che picchia la moglie emancipata perché, sostengono, «il bene e il male non sono mai concetti assoluti». F. P.

ISLAM E VIOLENZA

1.

CHI HA PAURA DELL’ISLAM?

«Nell’era contemporanea, per un musulmano, non ci sono le condizioni per il ricorso alla violenza». Oppure: «L’islam è di per se stesso un terreno fecondo per la nonviolenza, poiché favorisce potenzialmente la disobbedienza, la forte disciplina, il senso di condivisione delle responsabilità sociali [...]». E poi, ancora: «Per essere un vero credente dell’islam, ogni musulmano deve ricorrere alla nonviolenza come nuovo strumento di lotta». A rileggere oggi le otto tesi dello studioso thailandese Chaiwat SathaAnand sull’azione nonviolenta dell’islam sembra passato un secolo1. Era il 1997 e associare il Corano al pacifismo non implicava un’acrobazia spericolata. Certo, il politologo americano Samuel Huntington ripeteva già da tre anni che la fonte principale di conflitti nella nuova era del mondo non sarebbe stata né l’ambito economico né quello dell’ideologia ma «le differenze culturali» e che «i confini dell’islam grondano sangue»2. Lo scontro delle civiltà, però, aveva ancora il gusto acerbo della provocazione intellettuale. Nell’immaginario collettivo l’attentato del 1993 al World Trade Center di New York e quello che sette anni dopo avrebbe colpito il cacciatorpediniere Uss Cole nel porto yemenita di Aden restavano episodi isolati di terrorismo tutt’altro che globale. 3

L’11 settembre 2001 il mondo volta pagina: gli aerei lanciati contro le Torri Gemelle di New York e il Pentagono aprono la stagione della paura. E il calendario non smette più d’aggiornare la conta dei morti: Casablanca e Riad nel 2003, Madrid e Beslan l’anno successivo, le discoteche di Bali, la quotidiana macelleria irachena che non distingue tra militari stranieri, giornalisti pacifisti come Enzo Baldoni, musulmani sciiti o curdi. Finché alla fine del 2004 lo studioso egiziano Tarek Heggy, il palestinese Hasan al-Batal e altri colleghi arabo-musulmani decidono di uscire dal circolo del vittimismo acritico e affrontare le responsabilità della propria cultura. In un articolo pubblicato su «Al-Sharq alAwsat», quotidiano saudita stampato a Londra, l’editorialista Abdul Rahman al-Rashid passa in rassegna gli ultimi dieci anni di stragi, dall’Algeria al Darfur, terrorizzato dai janjaweed, i famigerati «diavoli a cavallo», e conclude lapidario: «Non dico che tutti i musulmani siano terroristi ma, tragicamente oggi, la maggior parte dei terroristi nel mondo è musulmana»3. L’islam è davvero una cultura intrinsecamente violenta? A giudicare dai titoli dei giornali internazionali e dai best seller pubblicati negli ultimi quattro anni parrebbe di sì. Gli articoli e i libri di Oriana Fallaci, sin da La rabbia e l’orgoglio4, sintetizzano un pensiero condiviso: che fosse o meno intenzione originaria di Maometto, i suoi eredi del XXI secolo diffondono nel mondo l’immagine di una religione aggressiva. Lo conferma la popolarità della tesi di Samuel Huntington, ormai condensata in un saggio di successo5, che accomuna trasversalmente l’uomo della strada agli intellettuali neoconservatori americani e i loro seguaci italiani, convinti, come Antonio Socci, dell’imprescindibile rapporto tra islam e fondamentalismo: «Basta leggere il Corano: ‘Vi è imposta la 4

guerra anche se ciò possa spiacervi’ (sura II, versetto 216) […]. Del resto gli Stati musulmani hanno dimostrato un’alta propensione alla violenza in occasione di crisi internazionali, tra il 1928 e il 1979 vi hanno fatto ricorso per risolvere 76 crisi su un totale di 142»6. Cresciuta tra storia e leggenda, l’islamofobia è ormai un fenomeno con cui facciamo i conti quotidianamente, in Italia e fuori: le indagini statistiche sulla percezione delle minacce sociali più preoccupanti collocano il binomio «islam e violenza» in testa alla classifica delle paure collettive degli ultimi anni7, e pochi mesi fa, in Australia, è nato il primo centro studi sull’islam esclusivamente finalizzato a debellare il virus dell’odio che avvelena la religione contemporanea8. Qualcosa è cambiato davvero insomma, se anche la Chiesa cattolica – che durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II aveva promosso il dialogo interreligioso, dagli appuntamenti di Assisi «Uniti nella preghiera» alla visita ufficiale del papa alla moschea di Damasco9 – mostra una certa diffidenza. Nessuno mette in discussione l’autorevolezza del Corano, ma alla luce della nuova stagione del terrorismo islamista il presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, il cardinale Walter Kasper, lo definisce «ambiguo a proposito di una diffusione violenta dell’islam»10. E Benedetto XVI, appena nominato, detta la nuova linea del Vaticano: stop al dialogo con l’islam senza un confronto preliminare sui diritti umani11. Eppure, gli studiosi Richard W. Bulliet12 e Mahmood Mamdani13 affermano che la conversione dei movimenti jihadisti allo stragismo dei kamikaze sia un tratto distintivo della «modernizzazione» dell’islam, un aggiornamento culturale degli ultimi cinquant’anni. Quel desiderio d’emulazione misto di amore e odio che Oli5

vier Roy giudica «occidentalizzazione mal vissuta dell’islam» e il connazionale René Girard colloca all’origine del terrorismo di bin Laden, autocandidatosi a «raccogliere la sfida un tempo intrapresa dal marxismo»14. Secondo Roy il radicalismo islamico contemporaneo è più implicato di quello cristiano nella violenza politica perché «si diffonde in spazi di esclusione sociale o di tensioni politiche, recluta laddove un tempo reclutava l’estrema sinistra, mette il cappello dell’islam sulla rivolta contro l’ordine stabilito»15. Nulla a che vedere insomma con l’islam delle origini, come per esempio quello di Abdul Ghaffar Khan, detto anche Badshah Khan, un musulmano indiano contemporaneo di Gandhi che si impegnò per i diritti dei poveri e fondò il primo esercito nonviolento della storia votato al perdono degli oppressori, il Khudai Khidmatgar, i Servi di Dio16. Cosa ne pensa l’islam italiano? Come reagisce quella galassia eterogenea di microcosmi accomunati spesso da null’altro che la lettura del Corano? È cominciato un confronto tra i vari gruppi per stabilire se la deriva violenta dell’islam sia una minaccia reale o solo percepita? All’indomani dell’attentato nella metropolitana di Londra l’Unione delle comunità islamiche italiane (Ucoii) convocò a Bologna i rappresentanti delle diverse realtà per mettere a punto un documento unitario di condanna del terrorismo internazionale17. Quella carta, sottoscritta a luglio da un centinaio di sigle e pubblicata sui principali quotidiani, rappresenta una piattaforma di partenza. Certo, non è mai stata divulgata la versione araba del testo, probabilmente tradotto e distribuito solo in circuiti ristretti e dunque inaccessibile alla maggioranza dei musulmani d’Italia. E gli scettici come il giornalista Magdi Allam, che considera l’Ucoii una filiazione dei Fratelli Musulmani egiziani18, muovono obiezioni di so6

stanza: il documento, obietta Allam, resta volutamente ambiguo nei passaggi su cui le posizioni delle diverse comunità divergono maggiormente, come quando condanna il terrorismo glissando però sul significato esatto da attribuire alla parola19. Ma pur balbettante, tardivo, parziale, quello di Bologna è un avvio. Anche perché, riconoscendo l’esistenza del problema, evidenzia come la molteplicità dei punti di vista da cui lo si guarda contribuisca in qualche modo al problema stesso. Se provate a domandare nelle sale di preghiera impropriamente chiamate moschee, che da Milano a Napoli funzionano da luogo di culto e di riferimento per migliaia di nuovi immigrati spiazzati dalle difficoltà del debutto italiano, nove interlocutori su dieci negheranno l’esistenza di una scia di sangue a rimorchio della civiltà islamica. Balle, secondo i più: disinformazia messa in giro ad arte dai nemici sin dal 1979, quando la rivoluzione iraniana impose per la prima volta al mondo contemporaneo il confronto con una grande potenza musulmana. La reazione immediata è difensiva. «Prima di parlare della violenza altrui dovremmo andare a chiedere qualcosa agli indios dell’America Latina», risponde Hamza Roberto Piccardo, segretario generale dell’Ucoii ed esponente di quell’islam italiano che sposa la dottrina coranica all’antiliberismo economico e all’antiamericanismo20. Sembra abituato alla domanda: dall’11 settembre 2001 la sua parlantina senza esitazioni, il tono provocatorio e la corporatura minuta da folletto sono diventati familiari ai telespettatori, che l’hanno visto decine di volte ospite di trasmissioni sul terrorismo. Conosce la fascinazione mediatica e i segreti dell’oratoria: proviene dall’area dell’estremismo di sinistra degli anni Settanta e si è avvicinato al credo musulmano trent’anni fa, al tramonto di quell’esperienza, dopo un 7

lungo viaggio in Africa occidentale. Un percorso di sublimazione politica che lo avvicina a fratelli e sorelle ex militanti della destra radicale ed ex nemici. Oggi si divide tra l’Italia e Bruxelles, dove lavora come consigliere direttivo e portavoce dell’European Muslim Network presieduto da Tariq Ramadan, il controverso intellettuale che il premier inglese Tony Blair ha inserito nella task force istituita per combattere l’integralismo islamico, mentre gli Stati Uniti continuano a ritenerlo un ospite indesiderato cui non concedere il visto d’ingresso. Secondo Piccardo, che ha conosciuto la stagione dell’odio fratricida armato, nessuna cultura detiene il monopolio assoluto della violenza e l’islam, forse, ancor meno delle altre: «L’Iran degli ayatollah non ha mai coltivato mire imperiali o issato barricate se non protettive. E sì che era stato messo all’indice sin dal principio. Ora l’Occidente ipocrita preferisce pensare che i bombardieri siano meno sanguinari dei tagliagole. Abbiamo impiegato un secolo per esorcizzare la violenza: dopo aver fatto sessanta milioni di morti con due conflitti mondiali ci siamo perfezionati nel colpire con bombe aeree che ci permettono di uccidere il nemico senza guardarlo in faccia». Piccardo aggira il problema, si dirà. Ma la sua analisi comparativa somiglia a quella dello storico americano Victor Davis Hanson – un californiano a fianco al numero uno dell’Ucoii – che dopo aver riletto a fondo la guerra del Peloponneso, svoltasi dal 431 al 404 avanti Cristo, l’ha sintetizzata nel saggio A War Like No Other come «una galleria di orrori, decapitazioni, massacri» non meno sanguinaria delle stragi cui ci ha abituato il terrorismo21. A confronto con la crudeltà degli occidentalissimi ateniesi contemporanei di Tucidide, che tagliavano la mano destra ai marinai spartani fatti 8

prigionieri o li bruciavano direttamente, le gesta di alZarqawi apparirebbero naïf. In questa posizione si collocano anche i partiti e i movimenti della sinistra massimalista europea e americana che rifiutano di schierarsi nella guerra globale, paragonano il presidente americano George W. Bush a Osama bin Laden e, pur dissociandosi dalle stragi degli innocenti di New York, Madrid, Londra, aggiungono alla condanna del terrorismo una lunga serie di se e ma. La tentazione di fare qualche sconto all’islam che si autoproclama jihadista in virtù dell’antico teorema del «chi è senza peccato scagli la prima pietra», è più diffusa tra gli italiani che tra gli immigrati. Una particolarità che si ripete in alcuni dibattiti sulla condizione della donna nel mondo arabo-musulmano, quando l’attenzione delle femministe italiane alla specificità di ogni cultura prevale un po’ contraddittoriamente sull’indignazione per i diritti universali violati22. È l’eco di quel senso di colpa per il «fardello dell’uomo bianco», essere superiore chiamato a colonizzare le altre civiltà, che all’inizio del Novecento gettò le basi del relativismo culturale e politico. Ma a inseguire un’idea si finisce talvolta per trascurare la realtà, come ammonisce il sociologo di origine algerina Khaled Fouad Allam: «Oggi i musulmani chiedono di essere considerati cittadini come gli altri, hanno bisogno di sentirsi dire che, anche per loro, la democrazia è possibile, che non è un lusso per popoli privilegiati»23. Solo chi assiste da spettatore a questo psicodramma collettivo interno alla società musulmana può godere a pieno del privilegio dell’equidistanza. Così, se il camaleontico Luigi Ammar De Martino, un sessantenne napoletano approdato all’islam dalla destra estrema di Ordine Nuovo e portavoce degli sciiti italiani aderenti al gruppo Gente della casa, smenti9

sce categoricamente l’aggressività attribuita all’islam e assicura di essere meno irascibile da fido musulmano rispetto a quando, giovanotto, lanciava le molotov contro l’università partenopea occupata da Lotta Continua24, la presidentessa delle donne marocchine Suad Sbai denuncia senza giri di parole «certe guide spirituali che farcendo l’islam di discorsi tribali si dedicano a tempo pieno al lavaggio del cervello dei più giovani e li indirizzano sulla via dell’irrazionalità»25. Lui, piccolino e ben piantato, con la faccia rassicurante da nonno italiano da cui però non tutti si sentono rassicurati, può esaltarsi leggendo le gesta di personaggi nobilitanti come Danny Williams, il pugile inglese che dopo la conversione all’islam è diventato «riluttante alla lotta» e che si batte «con moderazione» solo perché è il suo mestiere26. Lei, imponente e volitiva, preferisce ricordare la faccia meno edificante della medaglia su cui è impresso il volto tumefatto di donne come Kabira Ennaui, uccisa a botte dal marito Abdelbaki, furioso per i modi «occidentali» di lei27. Non tutto è da gettar via, ovviamente. Suad Sbai distingue il Corano dai suoi interpreti: «Nelle sura e negli hadit, i detti del Profeta, c’è la stessa dose di violenza che troviamo nella Bibbia. Probabilmente è una caratteristica dei testi di riferimento delle religioni monoteiste, che dovendo rimarcare la contrapposizione manichea tra bene e male calcano abbondantemente la mano». Il segreto della parola che resiste al tempo però è la sua capacità d’aggiornamento anziché la cristallizzazione in un assoluto fuori dalla storia. «Prendere alla lettera un libro del VII secolo sarebbe come, su un piano parallelo, aspettarsi che i cristiani battezzino i figli alla maniera di Gesù sulle rive del Giordano», osserva l’ex ambasciatore italiano a Riad 10

Mario Scialoja, un uomo azzimato, eccentrico, dai modi così diretti da sembrare bruschi e la barba rada intorno al volto tondo più corta e curata di quella dei talebani afgani. Se la combinazione tra testi sacri e contesti fosse stabilita a priori una volta per sempre lui, probabilmente, non avrebbe mai cambiato fede, come invece ha fatto nel 1988, e non guiderebbe la grande moschea di Roma pur essendo sposato con una donna che a convertirsi all’islam non ci pensa affatto: «È verissimo che ci sono versetti d’esplicito incitamento alla violenza. Di più: ci sono interi passi del Corano che spingono i musulmani a correre appresso agli infedeli, cristiani ed ebrei. È la parte iniziale del libro, quella storica che narra i primi anni alla Mecca, quando gli uomini del profeta Muhammad erano attivamente combattenti. Ma allora, a voler essere filologici, anche nell’Antico Testamento si parla di un Dio sputafuoco ed è prevista la condanna a morte per chi insulta il padre e la madre. E il Vangelo? Ricordate il passo in cui il Messia annuncia di non essere venuto a portare pace ma una spada? Tutte le sacre scritture vanno contestualizzate. Solo i fanatici tra i musulmani leggono nella parola jihad l’istigazione alla guerra santa anziché l’invito a sfidare se stessi per migliorarsi che racchiude il vero significato della parola»28. Perché il testamento del Profeta, concorda la maggior parte dei musulmani d’Italia, può far da base al grido di battaglia dei kamikaze o alla preghiera di Souheir Katkhouda, battagliera portavoce dell’Unione donne musulmane d’Italia, convinta che il Corano sia «sceso dal Cielo frase dopo frase nel corso di ventitré anni, fino alla morte del Profeta nel 632»29, lentamente, con saggezza, «per proteggere l’uomo dall’impulsività e dalla violenza dell’uomo»30. 11

La mancanza di un clero che interpreti il messaggio divino, mediandone il rapporto con i fedeli, agevola l’uso strumentale e politico della religione. Gli imam, grandi protagonisti quando si tratta di riportare sui giornali le opinioni dell’islam italiano, in realtà sono una sorta di parroci che si autoproclamano guide spirituali in virtù del carisma esercitato sulla propria comunità. Attribuire loro la capacità d’indirizzare l’ermeneutica del testo per il semplice fatto di condurre la preghiera del venerdì davanti a poche decine di fedeli crea schematismi che, disgraziatamente o per fortuna, non corrispondono alla realtà. Su questo concorda perfino uno come Abdel Hamid Shaari, presidente della moschea milanese di viale Jenner, il luogo di culto considerato capofila dell’islamismo estremista e finito in numerose inchieste sul terrorismo internazionale: «Distinguere tra islam radicale e moderato non ha senso. L’islam è uno solo. Il problema è che non essendoci un vero e proprio ministro di Allah ognuno ne adatta il verbo alla sua visione del mondo, chi più soft e chi più dura. L’itijad, l’interpretazione, è aperta, nel senso che non c’è un’unica scuola di pensiero riconosciuta e purtroppo anche i predicatori di demagogia hanno campo libero»31. Tutto e il contrario di tutto. Il rischio, denuncia Suad Sbai, è che questo diventi l’alibi per negare il terremoto che sta squassando il mondo musulmano, la fitna, come la chiama lo studioso Gilles Kepel32. Ecco perché, secondo la Sbai, bisogna partire dall’osservazione della realtà: «I terroristi esistono eccome. Sono tra noi, in Italia, in Europa. Sono stati spediti qui dai mullah dei nostri paesi d’origine per indottrinare i giovani della diaspora, i più facili da espugnare perché i più sradicati. Gli apologeti della violenza sono pochi ma abilissimi, sanno cambiare la testa di un ragazzo e farne un ka12

mikaze in meno di due mesi. E la maggioranza dei marocchini, dei tunisini, degli egiziani, tutti i poveracci che sono emigrati in Italia solo per lavorare e mandare i soldi alle famiglie rimaste a casa, pagano con l’emarginazione quel delirio di onnipotenza». A sostegno della sua tesi, la Sbai porta decine di storie denunciate ogni giorno al centralino di «al-Maghrebiy», il mensile in arabo che dirige a Roma. Storie che somigliano al racconto di Hanif Kureishi Mio figlio il fanatico33 – in cui il tassista pakistano Parvez scopre che il primogenito s’è improvvisamente votato al fondamentalismo islamico e al rifiuto della cultura occidentale – ma che sono tragicamente reali. Storie come quella di Abdallah, che dopo aver portato il figlio Jamil in Italia per farlo studiare e tenerlo lontano dalle moschee «ideologiche» di Casablanca, se l’è visto sfilare sotto il naso dal fascino d’un improvvisato imam vicino di casa. Da alcuni mesi Jamil diserta le lezioni pomeridiane di calcio e ha mandato in soffitta il sogno d’una carriera alla Zinedine Zidane: per un sedicenne in fisiologico antagonismo con il padre, operaio marocchino felicemente immigrato a Brescia, l’identità musulmana rivoluzionaria e antioccidentale è molto più accattivante della prospettiva riformista d’una maglia numero dieci concessa da una squadra gestita da «colonialisti bianchi». La lettura del problema come risultato del corto circuito tra il passato glorioso e il presente sventurato dell’islam, tra padri e figli, tra vecchie e nuove generazioni della diaspora, fa infuriare i teologi radicali, più favorevoli all’identificazione di un nemico esterno che giustifichi l’irrigidimento dogmatico di alcune frange dichiaratamente integraliste, ma convince gli studiosi. Nella crisi del mondo musulmano si avverte l’eco di quell’identità divisa degli arabi di cui parlava lo storico Jac13

ques Berque e di cui ha parlato fino al giorno della sua morte Samir Kassir, il giornalista libanese ucciso in un attentato a Beirut il 2 giugno 2005. Nel suo libro-testamento, L’infelicità araba, Kassir lascia la fotografia di una cultura del vittimismo segnata dalla sensazione d’impotenza per un mondo che non comprende più e al quale si ribella negando la modernità o imboccando le strade della «violenza del sacro»34. «L’islam, come l’intera cultura semitica, vive all’ombra del Dio-padre-padrone», osserva lo scrittore iracheno Younis Tawfik35. A Torino dirige un centro di cultura araba, il Dar al-Hikma, dove oltre all’hammam e al ristorante c’è una biblioteca di testi sulla storia dell’islam. «Il Dio semitico è un Dio severo, che castiga. Questo vale per l’islam come per l’ebraismo. Il cristianesimo ha cercato di smussarlo, ma dietro le influenze neoplatoniche resta riconoscibile la figura originaria dell’autorità suprema». La metafora della paternità sopravvissuta a Edipo serve a Tawfik per illustrare l’incertezza dell’uomo musulmano: «La duplice natura di Dio, padre misericordioso e inesorabile, indica sempre due strade possibili, la pietà e il castigo, la spalla su cui piangere e la spada. Negli ultimi vent’anni l’indirizzo materiale ha prevalso su quello spirituale e una parte dell’islam ha imboccato la strada dell’intolleranza e delle armi». Quando ha inaugurato il Dar al-Hikma, Tawfik ha dovuto fare i conti con l’ostruzionismo dei musulmani più conservatori, ostili al centro «troppo laico», ma anche con quello di altri fondamentalisti, alcuni militanti della Lega Nord che l’accusavano di essere «troppo arabo» e un manipolo di giovani d’estrema sinistra contrari all’assegnazione di uno spazio pubblico per un uso «troppo frivolo». «L’islam non è una religione violenta in sé, ma la vio14

lenza è stata parte integrante della sua storia, soprattutto nell’epoca delle conquiste», afferma Farian Sabahi, giornalista e docente all’Università Bocconi. Nel saggio Storia dell’Iran ricostruisce l’album di famiglia di una civiltà brillante e millenaria ma non per questo estranea al circolo vizioso di guerre sanguinarie, «conflitti a scopo per lo più difensivo, a causa delle aggressioni subite. Pensate per esempio all’invasione di inglesi e sovietici durante la Seconda guerra mondiale, quando lo scià si era invece dichiarato neutrale, e a quella delle truppe irachene di Saddam Hussein nel settembre del 1980». La storia aiuta a leggere il presente, spiega Sabahi, «sin dall’epoca dei califfi l’espansionismo musulmano è stato mosso dal desiderio di conquista e lo stesso Iran è stato invaso e conquistato dagli arabi»36. Questo non significa che i popoli musulmani siano bellicosi o lo siano stati per periodi più prolungati di altri e soprattutto non autorizza a confondere la religione con la propaganda: un conto è il Corano, altra cosa i media nel mondo islamico. Continua Farian Sabahi: «Molte emittenti dei Paesi arabi e islamici mandano in onda, in prima serata, le informazioni sulla Palestina occupata e sui civili uccisi ogni giorno dall’esercito israeliano, influenzando così l’opinione pubblica della regione: la Tv pubblica iraniana controllata dal leader supremo Ali Khamenei, per esempio, associa regolarmente l’immagine del premier israeliano Ariel Sharon alla stella di David che brucia». Un progetto tutt’altro che trascendente. Che infatti attecchisce naturalmente nei cortili delle università, dove le nuove generazioni rispondono d’istinto al richiamo dell’ideologia, più musicale del canto del muezzin. Maryem, una studentessa tunisina iscritta alla facoltà di architettura di Torino, racconta che nel suo paese «i ragazzi dicono afuan!, perdono!, si chiedono 15

scusa a vicenda ogni volta che nominano Israele, quasi fosse una bestemmia da non pronunciare in pubblico». L’opposizione al «potere sionista» diventa dunque bandiera d’identità anche nella «moderata» Tunisia, dove il presidente Ben Alì è stato il primo tra i colleghi arabi a invitare un premier israeliano dopo l’inizio della Seconda intifada. O forse, proprio per quello. Cosa mina l’identità dei giovani musulmani che si perdono dietro al linguaggio della violenza? Le proprie origini o il futuro? Khaled Fouad Allam sostiene che nell’islam non esiste l’adolescenza37: «Il mondo musulmano passa senza soluzione di continuità dall’infanzia all’età adulta. La mancanza di un anello nella catena della crescita fa saltare un passaggio fondamentale e riproduce all’infinito la permanenza e la rigidità dei sistemi». Un’ipotesi suggestiva che ricorda il romanzo della scrittrice iraniana Azar Nafisi Leggere Lolita a Teheran e la fotografia di un popolo-bambino, come la protagonista di Nabokov, costretto dagli ayatollah khomeinisti a un’eterna infanzia della coscienza38. Nel problema dell’adolescenza negata, l’occhio di Fouad Allam riconosce un gap psicologico con conseguenze dirette sullo sviluppo della democrazia: «Dovremmo cominciare a domandarci cosa voglia dire avere vent’anni nell’islam contemporaneo. In Occidente, a quell’età, sei un protagonista della storia che ha la possibilità di rovesciare il mondo, sei iscritto a pieno titolo nella prospettiva del cambiamento e del miglioramento, anche se esso può passare attraverso conflitti generazionali. La gioventù nel mondo arabo invece non ha nessun libro-cardine, nessun punto di riferimento. La storia non si cambia ma rimane uguale a se stessa perché il ciclo della tradizione ne assorbe le potenzialità rivoluzionarie. A vent’anni nel mondo arabo si è già adul16

ti. Il concetto di adolescenza di fatto non esiste, perché le società si autoriproducono come avveniva duecento anni fa: l’universo familiare non sopporta lesioni o fragilità, tutto deve essere certo, tutto deve ripetersi come prima. Avere vent’anni nel mondo arabo non ha la stessa portata che ha in Europa e in Occidente, semplicemente perché lì l’irruzione del soggetto è molto più ardua». Basta pensare ai kamikaze, che hanno sempre tra i 16 e i 30 anni: «È l’energia dell’adolescenza negata che si riversa nel simulacro della violenza. Quella che René Girard definisce ‘violenza mimetica’, la carica distruttiva rovesciata addosso all’altro che non puoi essere». Il ragionamento di Fouad Allam lascia agli storici la discussione sull’islam delle origini e si concentra sugli ultimi cinquant’anni: «Tutte le società producono violenza ma la risolvono in modi differenti. Il cristianesimo, per esempio, trova la sua catarsi nella figura di Gesù che assume su di sé i problemi dell’umanità e muore in croce. Non si può dire la stessa cosa dell’islam e di Maometto: ci sono versetti cruenti nel Corano e nessuna redenzione salvifica. Nell’islam, teoricamente, la violenza si sublima in un gioco di doppie verità: una storica, che riconosce i musulmani custodi del Verbo e li autorizza a imporlo con la forza, e l’altra più trascendente e volta alla soluzione conciliante dei conflitti che è riconoscibile nelle sura dedicate ad Abramo, definito ‘né ebreo, né cristiano, né musulmano, ma solo un puro’». La dialettica tra queste due verità ha garantito l’equilibrio per quattordici secoli, ma qualcosa sta cambiando: «La crescita esponenziale del fondamentalismo e della violenza a cui abbiamo assistito negli ultimi anni dipende da un segmento dell’islam che non è più stato in grado di mettere a fuoco la contraddizione tra le due verità. Il sistema coranico ha dimenticato la complessità del te17

sto e si è concentrato su una lettura letterale». Le ragioni possono essere molte, economiche, politiche, geografiche. Fouad Allam preferisce la chiave sociologica: «Nel corso del XX secolo le società musulmane si sono acculturate: hanno perso la cultura d’origine, che privilegiava la mediazione, ma non ne hanno ancora elaborata una nuova capace di traghettare l’islam nell’era postmoderna. L’acculturazione decontestualizza l’islam contemporaneo e ufficializza il divorzio tra religione e cultura. Nell’antichità la religione era un collante sociale, s’incarnava nella comunità. Le nuove generazioni non sono più in grado d’interpretare il testo e si limitano a leggerlo». Analizzato da dentro, da chi conosce la religione islamica perché la vive ogni giorno, il problema della violenza dell’islam appare più una mutazione che una malattia genetica. «La sfida alle democrazie liberali arriva dal futuro e non dal passato dell’islam», ammonisce lo storico Faisal Devji osservando le proteste del mondo musulmano per le vignette su Maometto pubblicate nell’ottobre del 2005 da un quotidiano danese39. Proteste di una comunità virtuale costruita su internet, diffuse in inglese, fondate sulla rivendicazione di una libertà d’espressione sconosciuta a molti Paesi da cui si levano. «Il mondo arabo musulmano ha tanti nodi rimasti irrisolti, eredità del periodo post coloniale», ammette Ali Rashid, primo segretario della delegazione palestinese in Italia40. «Possiamo legittimamente continuare a dar la colpa all’Occidente che, all’indomani della Seconda guerra mondiale, ha creato il Medio Oriente a tavolino frazionando i domini dell’ex impero turco e lasciando alle popolazioni l’onere di trovare sistemi di convivenza. Ma questo non ci aiuterà a superare la crisi d’identità che la fine della Guerra fredda ci ha trasmesso e che, se abbandonata alla deriva, degenera in forme estreme 18

di terrorismo». Ali Rashid attribuisce l’avanzata della violenza nel mondo contemporaneo a un fallimento del metodo illuminista: «Quando la politica manca la soluzione dei problemi entra in campo la fede e la capacità di mediazione si riduce a zero». L’irrazionalità dunque come tratto distintivo dei nostri tempi, segnati dal ritorno della religione in generale e non solo dell’islam. La fede è un’arma a doppio taglio, concede Feras Jabareen, uno tra gli imam più benvoluti d’Italia, il palestinese di Afula con passaporto israeliano responsabile del centro islamico di Colle Val d’Elsa, dove cristiani ed ebrei sono stati varie volte ospitati per confrontarsi sulla prospettiva di un cammino comune: «Il piano del trascendente è per sua definizione sfuggente come il concetto di Dio, e si presta a giustificare il bene e il suo opposto»41. Ma attenzione, la colpa non è del Corano: «L’islam è una religione di pace che mette al centro l’uomo e la pietà. I terroristi stravolgono il messaggio divino per darsi legittimità. Non è la prima volta che succede nella storia musulmana e non sarà l’ultima. Ricordate, per esempio, la setta degli Assassini fondata in Persia nel 1090 da Hassan ben Sabbah? Era un gruppo di fanatici musulmani che massacrava fratelli della stessa fede e cristiani». A settembre del 2005, all’indomani della strage di Beslan, dopo aver firmato con altri musulmani d’Italia il Manifesto contro il terrorismo e per la vita, Feras ha digiunato diversi giorni per esprimere concretamente il proprio sdegno verso «i nuovi nazisti, come e peggio di coloro che sterminarono gli ebrei»42. A cavallo tra passato e futuro, l’islam tratteggiato dai diversi islam italiani non appare tanto violento quanto violentato dai fanatici e sembra a corto di presente. La religione-rifugio è già di per sé un luogo antico pieno di risposte depositate lì molto tempo prima delle doman19

de. L’idea di Stefano Allievi, esperto d’islam europeo e docente all’università di Padova, è che dietro tanto movimento si celi una paralisi di fondo: «I testi sacri sono la spiegazione del mondo elaborata quando non c’era la scienza e contengono ogni possibile soluzione ai dubbi umani, compresa la più illogica»43. Tutti quelli che contrappongono il bene al male sono libri cruenti per definizione: «Anche la mitologia greca è piena di violenza. E lo sono le cronache delle gesta dei templari. Nel 1209 Simone di Monforte, il capo dei crociati, raccontava: ‘Come faremo a riconoscere i catari, comandante? Ammazzate tutti indistintamente e Dio riconoscerà i suoi’. No, la chiave del rebus della violenza che oggi appare connaturata all’islam non si trova nel Corano». Basta pensare che, nascosta tra le sura, Chaiwat Satha-Anand scova addirittura un’invettiva contro la bomba atomica: «L’avversione alla guerra nucleare è un argomento centrale nella prospettiva dell’islam che, pur permettendo il ricorso alla lotta, impone di fare un uso minimo della forza. Per questo l’islam proibisce le armi nucleari, in quanto armi di distruzione di massa, che non possono in alcun modo discriminare tra combattenti e non combattenti, tra obiettivi militari e fabbriche o campagne»44. Andatelo a raccontare oggi al presidente iraniano, l’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad. Il dibattito italiano sulla cultura della violenza nell’islam si concentra sul testo, quasi fosse un problema linguistico. Al punto che il professor Majid El Houssi, orientalista franco-tunisino e docente di letteratura francese all’Università di Venezia, un intellettuale arabo cresciuto a Parigi, con le mani lunghe da pianista e la barba curata sul volto olivastro, invita a distinguere l’oggetto dalla parola che lo definisce: «Quella che stiamo vivendo non è una condizione normale, è la malat20

tia dell’islam. Dobbiamo precisare che non parliamo d’islam ma d’islamismo». Messi i puntini sulle i e il Corano al riparo dal qualunquismo, El Houssi affronta la situazione attuale: «L’islam non è violento, l’islamismo sì. Sono vent’anni che i fondamentalisti se ne vanno in giro per l’Europa a far proseliti contando sulla protezione garantita dal paradigma dei diritti umani. Sono gli eredi dei demoni di Dostoevskij, nichilisti senza Dio né legge che si muovono nel caos come pesci nell’acqua. Distorcono il concetto di jihad leggendovi l’imperativo della guerra santa, ignorano i grandi interpreti del misticismo islamico come al-Ghazali, dimenticano che negli hadit Maometto dispone di ospitare il nemico fino a tre giorni e poi accompagnarlo più lontano possibile da casa propria. Pensate un po’ che guerrafondaio...»45. Il fondamentalismo, che il professor El Houssi e il suo collega Abdelwahab Meddeb chiamano la malattia dell’islam46, riguarda molto da vicino il desiderio d’emulazione dell’Occidente. «L’islam è solo una religione, ma la società moderna ha paura del sacro e preferisce rifugiarsi nell’ideologia e nei suoi derivati violenti», conclude amaro lo shaykh Abd al-Wahid Pallavicini, seduto nel salotto chiaro del suo appartamento milanese sopra alla sala di preghiera della Coreis, una stanza che in sobrietà e numero di volumi d’ispirazione sufi tradisce la nostalgia per una dimensione antica e ascetica del rapporto con la divinità47. La Coreis è l’unica organizzazione in Italia ad aver chiesto allo Stato il riconoscimento giuridico come ente morale per il culto islamico. Non lontano da lì, Abdur-Rahman Rosario Pasquini guida la moschea di Segrate con medesima vocazione spirituale ma su presupposti teorici opposti, che sintetizza con un paragone irrituale: «Chi crede che l’islam e il marxismo siano inconciliabili sbaglia di grosso. Quando il marxismo dice 21

che nessun uomo ha diritto di essere padrone di un altro uomo trova l’islam, che è la via reale per la liberazione dell’uomo dal dominio dell’uomo. L’autore del Capitale ha semplicemente messo una virgola dove il profeta Muhammad aveva messo un punto»48. A guardare il mondo con lenti occidentali sono gli italiani ma anche, spesso, gli stranieri. A settembre del 2004, quando l’imam di Torino Bouriki Bouchta è stato espulso dall’Italia perché considerato un agitatore filobin Laden, un connazionale, proprietario d’una macelleria halal nel capoluogo piemontese, ha riassunto così il pensiero della comunità marocchina: «Bouchta ha sbagliato. Ha agito troppo da occidentale: un musulmano prega e si fa gli affari suoi. Lui invece si è fatto prendere dalla politica attiva e ha dimenticato la vera ragione per cui tutti noi emigriamo: trovare un lavoro dignitoso». La definizione di terrorismo è un terreno scivoloso. Ma sul fatto che la cultura occidentale della tolleranza sia stata sfruttata da alcuni integralisti islamici per coltivare gruppi eversivi sono d’accordo in molti: l’intellettuale laico El Houssein, un mistico come Abd alWahid Pallavicini, il discusso Abdel Hamid Shaari. Il responsabile del centro di viale Jenner esclude che in Italia esistano le cosiddette moschee dell’odio, ammette però la presenza di alcuni «isolati» individui a rischio: «Invasati e violenti sono dovunque, anche da noi. Quando vengono in moschea li allontaniamo subito. Abbiamo preso posizioni radicali contro il terrorismo proprio perché abbiamo paura del magma indistinto in cui si mescolano frustrazioni sociali, indottrinamento, ribellismo giovanile. Dobbiamo combattere il ghetto dell’autoesclusione: è lì che si allarga la zona grigia in cui cresce il radicalismo. Ha fatto benissimo il premier inglese Tony Blair ad espellere i predicatori dell’odio al22

l’indomani delle bombe nella metropolitana di Londra. Averli tollerati tanto a lungo, con le loro invettive contro la Gran Bretagna, è stato un grosso errore». Sembra impossibile riconoscere lo stesso Shaari convocato ripetutamente dai magistrati nelle inchieste milanesi sul terrorismo internazionale nelle parole schiette di questo signore ben vestito seduto a bere un cappuccino al bar del quartiere, dove lo salutano anche i netturbini. Invece, forse perché allarmato dalla minaccia di un attentato in Italia «che danneggerebbe tutti gli immigrati musulmani indistintamente», si direbbe che è proprio lui: «Può darsi che in passato abbiamo sbagliato. Siamo stati poco vigili sui frequentatori del centro di viale Jenner. Pensavamo che la preghiera restasse lì, confinata nelle mura della moschea, e invece chi cerca un alibi per uccidere trova sempre, anche nel Corano, parole che giustificano la violenza. Questa politicizzazione dell’islam, d’altra parte, non è un fenomeno nuovo, in un certo senso nasce con l’islam stesso. I califfati originari sono già poteri politici che piegano il Corano ai loro bisogni e nell’Egitto degli anni Settanta si sviluppa una frangia estremista che propone di abbattere gli Stati apostati. La situazione è notevolmente peggiorata negli ultimi vent’anni, dopo la guerra in Afghanistan: i mujaheddin hanno pensato che avendo sconfitto l’Unione Sovietica avrebbero potuto aver la meglio anche sugli Stati Uniti. E il jihad, frainteso, si è globalizzato». «Da strumento di difesa della libertà e della giustizia il jihad si è trasformato nel sovvertimento della sicurezza, così come la fatwa è passata a essere un qualcosa di negativo che porta alla repressione delle libertà degli uomini», scrive il giornalista tunisino Rashid al-Ghannushi49. Quando è avvenuto questo slittamento di significato che sposta l’ago della bilancia verso la violen23

za, la guerra, il terrorismo? «L’islam è antico, ma il movimento islamico è recente», continua Rashid al-Ghannushi. Il risultato di questo sguardo lontano e vicino è una distorsione prospettica in cui la minaccia reale si confonde al pregiudizio. L’aveva già intuito Walter Lippmann in L’opinione pubblica, un famoso libro del 1922 più volte ristampato: «La tradizione democratica non ha mai potuto immaginarsi nel contesto di un ambiente vasto e imprevedibile. Lo specchio è concavo. E i democratici, pur ammettendo di essere in contatto con affari esterni, vedono con sicurezza che tutti i contatti oltrepassanti il gruppo autosufficiente sono una minaccia alla democrazia»50. Se le analisi si differenziano, la contestualizzazione suggerita da Khaled Fouad Allam potrebbe suggerire una soluzione unica: «Nel saggio La parte dell’odio il filosofo Georges Bataille definiva il sistema islamico come un sistema basato essenzialmente sulla guerra, sullo spirito di conquista. Mentre un altro grande studioso, Louis Massignon, privilegiava nelle modalità di concettualizzazione dell’islam la vocazione spirituale. Chi aveva ragione? Entrambi. Sono i contesti storico-sociali nei quali l’islam si definisce che ne determinano l’immagine. Certo, il corpus coranico contiene molti elementi che potrebbero avallare una strutturazione delle società islamiche attraverso la violenza. Ma fino a che punto questa va considerata un’ineluttabilità testuale? E se la interpretassimo come un simulacro semantico di quella violenza che tutte le società devono espellere...?»51.

2.

AL DI LÀ DEL VELO: LA QUESTIONE FEMMINILE

Souheir Katkhouda si allenta leggermente il foulard marrone annodato sotto il mento, sistema la piccola Laila in grembo avvolgendola bene nella copertina in modo che non prenda freddo così esposta nel dehors del bar centrale di Gallarate, sbottona il pesante spolverino avana all’altezza del petto e, celando con pudore il seno nudo, inizia ad allattare: «Se quando torno in Siria raccontassi che qui in Italia ci sono mamme che uccidono il proprio bambino a causa della depressione post-parto, le mie amiche e le mie sorelle vi prenderebbero per barbari incivili. Ma sarebbe un errore, una generalizzazione. Allo stesso modo, l’islam va capito. Ci sono musulmani che maltrattano le mogli, è vero. Questo però non significa che la religione sia violenta contro le donne. Al contrario, l’unica differenza ammessa dal Corano tra maschio e femmina è, giustamente, quella di genere»1. Qualche giorno dopo, a Torino. «La ragione per cui i paesi musulmani trovano tanto difficile sottoscrivere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è che l’islam ha in sé tre diseguaglianze: tra musulmano e non musulmano, tra uomo e donna, tra uomo libero e schiavo. Nel rapporto di coppia la donna è in condizione di inferiorità, nel senso che deve rispetto al Corano»2: Fa25

rian Sabahi sfoglia il Corano cercando il versetto che autorizza il marito a battere la consorte, mentre il figlioletto Atesh di tre anni si affaccenda infaticabile intorno a lei, le prende la mano libera, cerca di attirarne l’attenzione, si arrampica sulle spalle giocando con i suoi folti e lunghi capelli neri tenuti sciolti. «Eccolo, è il versetto 34 della sura IV delle donne. Teniamo comunque presente che il mondo musulmano è complesso e non tutti i mariti picchiano la moglie. Inoltre, un recente rapporto di Amnesty International ha dimostrato che la violenza sulle donne è trasversale a ogni religione e persino le società occidentali e industriali non ne sono esenti». Nel 2000 Mohamed Kamal Mostafa, l’imam della moschea di Fuengirola, in Spagna, ha pubblicato un pamphlet per suggerire come picchiare la moglie senza lasciar traccia su di lei3. Un boomerang, alla resa dei conti: La mujer en el Islam ha sollevato un tale vespaio che autore ed editore sono stati costretti a fare marcia indietro e ritirare il libro spiegando d’essere stati fraintesi. Mohamed el Afifi Mohamed, portavoce della grande moschea di Madrid, ha in seguito smorzato l’eco di quella polemica: «Sono sicuro che l’imam di Fuengirola non voleva certo spingere gli uomini alla violenza. È stato citato a sproposito, in modo esagerato. In un paese dove si urla viva all’ETA e si assiste a manifestazioni pubbliche che inneggiano all’ETA, che cos’è la libertà d’espressione? Se si urla ‘viva l’ETA’ non succede nulla, mentre un’interpretazione sbagliata di un testo può portare una persona in carcere»4. Farian e Souheir, italo-iraniana la prima e siriana emigrata a Milano da venticinque anni la seconda, laureate ed entrambe musulmane – anche se divise da scelte di vita diversissime che hanno portato l’intellettuale Farian in giro per il mondo accompagnata dal figlio e 26

dalla tata, e Souheir a preferire la dimensione domestica di mamma di sette figli –, sono due volti dell’islam d’Italia, dove modernità e tradizione s’incontrano e si scontrano sul corpo della donna. Da quando l’islam fa notizia, la condizione femminile nella società musulmana è un argomento d’attualità, spesso purtroppo utilizzato in modo strumentale per dimostrare l’inferiorità ontologica dei fedeli di Allah. La donna iraniana, marocchina, egiziana, sudanese, è sempre tirata in ballo nei convegni in cui si parla di melting pot, terrorismo jihadista, conflitto delle civiltà, ma raramente viene interpellata in prima persona per confermare, argomentare o smentire la denuncia del prepotente e antiquato uomo arabo. «È una leggenda», assicura Souheir e accarezza Laila che poppa paciosa. «I nostri uomini sono iperprotettivi, lo ammetto. L’esperienza dell’immigrazione in particolare li rende molto ansiosi, temono le novità, cercano sicurezza nella tradizione. Ma da lì ad affermare che ci segregano in casa ce ne passa. Figurarsi: quando noi donne abbiamo bisogno di una cosa non ci ferma nessuno. Io per esempio ho la patente da vent’anni, con tutte le cose di cui mi devo occupare per la casa sarebbe impossibile rinunciare all’automobile. Il mondo è diverso da un secolo fa ed è vero che la nostra visione della famiglia è rimasta un po’ patriarcale, ma stiamo cambiando. Le donne, ammesso e non concesso che lo volessero, non possono più permettersi di restare al margine della vita sociale». Secondo Olivier Roy questa rivoluzione silenziosa, che porta le giovani musulmane della diaspora alla ribalta riconoscendo loro un protagonismo ancora impensabile in alcuni dei Paesi di origine, è una delle ragioni della crisi d’identità dell’islam contemporaneo, tradizionalmente declinato al maschi27

le5. Souheir Katkhouda non è d’accordo con la lettura della storia come contrapposizione tra sessi; è convinta che, lungi dal sottometterle, gli uomini che conosce siano intimiditi dalle loro compagne: «Hanno paura di noi, credete a me. Mogli, mamme, perfino le figlie si fanno sentire». In casa Tawfik, per esempio, è Hanane a «portare i pantaloni», anche se la metafora non rende giustizia alla femminilità della giovane moglie marocchina dello scrittore, dai nerissimi capelli lunghi sulle spalle e gli abiti sempre ben tagliati. Il Corano assegna il timone all’uomo, ammette Tawfik, ma la donna-preda reclusa per secoli ha affinato l’ingegno e si è trasformata in predatrice: «Non pretendo che siano tutte come Hanane, lei è una ragazza moderna, ha studiato, è religiosa senza ottusità. Ma credetemi, l’obbedienza delle musulmane è un mito: da quando siamo sposati mia moglie mi fa camminare sull’impasto senza lasciare traccia»6. Lo fa rigare dritto, insomma. Leonardo Sciascia, maestro del romanzo poliziesco, usava la stessa immagine per le donne in Sicilia, persuaso che dietro la discriminazione si nascondesse spesso un vero matriarcato7. Maschilista e violento o ingiustamente accusato d’imporre il velo all’altra metà del mondo, il Corano presenta un’ambiguità sulla questione femminile che si presta a entrambe le interpretazioni. Prendete uno dei versetti più controversi, quello che autorizza il marito a battere la moglie8: possiamo chiudere un occhio sulla differenza culturale o dobbiamo affermare che non ci sono eccezioni nel campo dei diritti basilari dell’individuo? E soprattutto, possiamo ignorare gli studiosi come Reza Aslan quando spiegano che linguisticamente quella sura ha un doppio, contraddittorio significato? Il giornalista e orientalista iraniano osserva infatti che la 28

stessa frase può essere tradotta in due modi opposti: «Parlate suadentemente alle donne ostili, lasciatele sole nel letto senza molestarle e tornate da loro se lo vogliono» oppure «Ammonite le donne che temete possano ribellarsi, abbandonatele nei loro letti e picchiatele»9. Hamza Roberto Piccardo alza le spalle con noncuranza, come a dire che, in fondo, qualche schiaffone ogni tanto vola anche nelle migliori famiglie. Scagli la prima pietra contro l’islam chi non ha mai esagerato un po’. Potrebbe essere capitato perfino a lui che è uno dei punti di riferimento della umma italiana, e quando l’ha lasciato intendere in un’intervista a «Panorama»10 qualcuno tra gli stranieri che lo ascoltano parlare in Tv a nome loro si è sentito sollevato. «Se vogliamo vivisezionare il testo dobbiamo essere precisi – spiega con la sicurezza di chi ha curato una delle più diffuse edizioni italiano del Corano11 –. Muhammad, pace e benedizione su di Lui, autorizzò i fedeli a picchiare le donne ma solo con il siwak, un termine arabo che può significare il fazzoletto o il bastoncino per pulirsi i denti. Evidentemente era un modo per comunicare agli uomini del VII secolo, abituati a considerare le compagne uno zero assoluto, che se proprio non riuscivano a controllare l’aggressività stessero almeno attenti a non far del male e risparmiassero il volto dai colpi»12. Una spiegazione, certo. Ma non abbastanza netta da impedire all’intraprendente imam di Fuengirola di riproporre la tesi nella Spagna alle porte del nuovo millennio, ad uso di un popolo d’immigrati non sempre sufficientemente preparato per distinguere la dottrina religiosa dall’opinione personale di un fanatico. Cosa ne pensa Piccardo, che attraverso l’Ucoii conosce bene la condizione d’arretratezza culturale di molti musulmani d’Italia, provenienti in maggioranza 29

da paesi come il Marocco, dove l’analfabetismo riguarda poco meno di un abitante su due, con punte di oltre il 40% tra i maschi e il 67,5% tra le donne13? Sorride divertito: «Ma dài, siamo seri. Ancora con questa storia del libro La mujer en el Islam? Che importanza ha? La mamma dei cretini è sempre incinta, lo sappiamo. Al di là del fatto che generalmente si tende a sopravvalutare la funzione dell’imam, in realtà poco più di un sacrestano, questo Mohamed Kamal Mostafa non mi sembra un intelligentone. Se una cosa del genere l’avesse scritta un cristiano nessuno ci avrebbe fatto caso, invece appena un musulmano si mette in evidenza negativamente sono tutti pronti a sparargli addosso». Inutile ricordare che nei paesi dove vige la sharia, la legge islamica, l’adulterio femminile viene sanzionato piuttosto pesantemente, Piccardo resta della sua idea: «Non esageriamo. Adesso pare che la lapidazione sia un sistema. Succede ogni morte di papa e inoltre ci vogliono un mucchio di prove e testimoni prima di procedere... Comunque, l’Ucoii si è schierata con Tariq Ramadan sulla proposta di una moratoria per tutte le pene corporali su base islamica14, chiediamo ai sapienti di teologia islamica di fermare con delle fatwe le lapidazioni, le esecuzioni, le punizioni di vario genere. Siamo certi che, pian piano, la legge diventerà cultura condivisa». Tutto è relativo insomma. Su questo i religiosi ortodossi come Piccardo concordano con gli intellettuali laici che difendono l’insindacabilità delle culture, analizzabili e dunque valutabili solo in relazione al contesto da cui emergono. Prendete un esempio innegabilmente discriminante come il codice di famiglia, che nella maggior parte dei paesi islamici sancisce l’esistenza di cittadini di serie A e cittadine di serie B. «Il matrimonio previsto dal Cora30

no è un contratto di diritto civile e la donna deve obbedienza al marito, il quale ha l’obbligo di mantenerla nel vitto e nell’alloggio – ripete Farian Sabahi agli studenti del master sull’immigrazione che tiene ogni anno all’università Bocconi –. Rispetto al rapporto che si instaura nelle coppie italiane, quello tra marito e moglie musulmani è un rapporto con un diverso equilibrio, in cui l’uomo ha però maggiori prerogative che può esercitare a proprio piacimento. Per esempio può decidere di ripudiare la moglie. A essere determinanti sono, oltre ai fattori religiosi, quelli culturali, antropologici e sociali. In Pakistan, per dire, le donne sarebbero maggiormente tutelate se a essere applicata fosse la sharia e non le leggi tribali». Se poi si obietta che prima dell’avvento di Maometto le cose andavano ancora peggio la prospettiva cambia ancora. Sentite Souheir Katkhouda: «Non nego che ci siano casi di violenza giustificati dalla lettura distorta di qualche sura. E anche la pratica bestiale della lapidazione, per fortuna sempre meno diffusa, deve essere abolita alla luce d’una interpretazione aggiornata del testo sacro. Ma attenzione: l’islam ha valorizzato la donna, le ha riconosciuto diritti che in precedenza non aveva». Tra niente e qualcosa c’è un progresso indubbio, e l’impatto modernizzante di Maometto sulla società araba e tribale del VII secolo è universalmente riconosciuto. Ma è una buona ragione per fermarsi lì? Una parte dell’islam vorrebbe arrestare il treno della storia. E non sono solo uomini. In Kashmir imperversano le militanti dello Squadrone di Mariam, le custodi della morale islamica vestite di nero dalla testa ai piedi che, ispirandosi alla verginità di Maria, aggrediscono le giovani in abbigliamento troppo disinvolto, le coppiette che amoreggiano nei parchi, fanno irruzione 31

negli alberghi e nei bar frequentati dagli adolescenti15. Sono l’altra faccia dell’universo femminile liberal rappresentato dalla cantante malese Ani, madrina e animatrice della Muslim Progressive Union of North America (PUM), l’associazione che attraverso un’interpretazione soft del Corano e l’apertura all’imamato delle donne si propone di «portare l’islam nel XXI secolo»16. Donne di ieri e donne di domani. Donne che sognano di realizzarsi nella sfera domestica, donne ambiziose che inseguono il modello occidentale, donne come la marocchina Amina, lavoratrice e autosufficiente ma spaventata da quella che considera la «deriva» delle femministe italiane «capaci di sposare qualsiasi battaglia ma incapaci di sposare un uomo». Il ritardo dell’emancipazione femminile nel mondo musulmano dipende in buona parte dalla dialettica bloccata tra passato e presente. Un impasse atavico che, secondo Fouad Allam, alla prova di fenomeni nuovi come l’emigrazione può mandare in tilt il sistema: «Tutte le società perpetuano riti di violenza. L’islam in particolare lo fa attraverso alcune figure iconiche come la donna, da sempre anello di collegamento tra conservazione e trasformazione. L’obiettivo maschile è il controllo della sessualità, del sangue: la donna mestruata perde sangue per mantenere l’identità, mentre l’uomo perde sangue in guerra e si gioca l’identità. Per questo l’emancipazione femminile passa attraverso la pillola e il controllo delle nascite. Il paradosso dell’età contemporanea è la rivoluzione iconica che investe madri, mogli, figlie e sorelle del ruolo di avanguardie della conservazione rendendole una sorta di cintura di protezione della società»17. L’hijab è il simbolo di questa linea d’ombra. Imposizione culturale ma anche scelta politica, controllo sociale e autodifesa, baluardo acritico della tradizione o 32

decisa risposta identitaria al caos postmoderno. L’islam italiano, fatto da almeno due volti e molte anime, non sa ancora definire una linea unitaria che chiarisca se il foulard sul capo sia effettivamente prescritto dal Corano oppure no. E in questa ambiguità qualcuno rivendica addirittura la legittimità della copertura totale, da capo a piedi, nonostante molti studiosi come l’islamologo egiziano Ahmad Chaouki Alfangari la smentiscano: «Se lo stesso profeta Muhammad ordinò alla donna di non indossare il niqab (velo integrale) e i guanti durante i riti del piccolo e grande pellegrinaggio, al fine di eliminare questa consuetudine dalla vita delle musulmane, come è possibile che i gruppi oscurantisti ed estremisti islamici si siano attribuiti la missione del ripristino del niqab?»18. Souheir Katkhouda si vela il capo perché, d’accordo con l’Associazione donne musulmane, non vede contraddizione tra il pudore e la determinazione femminile: «L’hijab non fa parte della tradizione ma è un’usanza, rappresenta un sistema di valori. Il Corano non lo impone: come potrebbe se proprio il profeta Muhammad, su di Lui la pace e la benedizione di Dio, insegna che non c’è costrizione nella religione? Un terzo di noi mette il foulard per obbedire al volere della famiglia, un terzo è convinto del significato religioso, le femministe più laiche non lo vogliono ma riconoscono che abbia un valore e lo rispettano come i cattolici non praticanti la messa domenicale. Mia figlia va in classe velata, è l’unica tra i 1300 alunni dell’istituto, eppure segue il programma scolastico italiano così bene da meritare la borsa di studio». Mario Scialoja argomenta che le sura parlano di «copertura fino al seno» e nega l’obbligo categorico di nascondere i capelli: la grande moschea di Roma è frequentata da ragazze con il foulard fisso e altre che lo met33

tono solo prima d’entrare. Un po’ come Stefania, una poetessa di Milano convertita all’islam da un anno e mezzo, che solitamente recita le cinque orazioni quotidiane nel suo appartamento arredato in stile indiano-nepalese e ogni sei o sette venerdì va a pregare nella sala del centro di viale Jenner. Sa che lì, lontana dall’atmosfera mistica della sua stanza profumata d’incenso al sandalo, deve osservare le regole e, vincendo l’anarchismo indomito dell’ex sessantottina, indossa l’hijab: «Ho scelto questo percorso religioso liberamente e non mi sento assogettata a nessuno. Sono stata femminista e ho conosciuto la contraddizione di combattere l’uomo su un fronte e sull’altro cercare d’assomigliargli il più possibile. La prima volta che sono stata nella moschea di Istanbul, alcuni mesi fa, ero infastidita concettualmente dall’idea della preghiera separata. Poi però ho capito che ha un senso, che aiuta la concentrazione, che non mi sarebbe piaciuto avere sguardi maschili addosso mentre parlavo con Dio, che accettare l’hijab in quel momento è un atto di devozione e modestia». Al bivio tra tradizione e modernità, la società musulmana sta sospesa in uno spazio simbolico. Stefania non ha mai visitato un paese musulmano e non lo farà: «Non voglio rovinare con la realtà l’immagine che nella mia testa ho dell’islam». Sembra di rivedere i vecchi romantici comunisti italiani che non andavano a Mosca per mantenere intatto l’ideale della rivoluzione sovietica. Che immagine hanno dell’islam le musulmane straniere? Quando è arrivata a Roma, nel 1981, Suad Sbai pensava che sarebbe stata una fatica pazzesca mettersi al passo con la vita emancipata delle italiane. A Casablanca, dove aveva appena terminato le scuole superiori, era scesa in piazza decine di volte per urlare al mondo la propria volontà di contare, in coro con le compa34

gne di Parigi, Milano, Londra, Berlino. Proprio così, la rivoluzione culturale degli anni Settanta e l’avvento del femminismo facevano proseliti anche a migliaia di chilometri dall’epicentro, grazie a quel formidabile megafono antecedente a internet che era ed è la voce della diaspora: «La Tv satellitare non c’era ancora ma i racconti che ci giungevano soprattutto dai parenti emigrati in Francia descrivevano un mondo lontano anni luce dal nostro: la musica rock, le lunghe e scampanate gonne a fiori, i pantaloni jeans a zampa d’elefante, la libertà sessuale e i capelli lunghi unisex»19. Oggi che ha 43 anni, guida l’Associazione donne marocchine in Italia e firma il mensile d’informazione bilingue «Al-Maghrebiya», Suad crede che quella rivoluzione sociale che dagli avamposti occidentali stava dilagando fino a travolgere paesi ancora usi alla poligamia si sia fermata: «Anziché accelerare il contatto tra gli uomini e favorire il contagio delle idee, l’immigrazione di massa ha provocato un riflusso. In Marocco mi battevo per la tutela delle colf minorenni, ce n’erano moltissime allora ed erano trattate come schiave. Le mie compagne che sono rimaste laggiù hanno continuato quelle battaglie ed ora, conquista dopo conquista, sono giunte molto più avanti di quanto possiate immaginare. La mudawana, il nuovo codice di famiglia adottato dal re Mohamed VI, è uno dei risultati di questo processo d’emancipazione. Qui invece le immigrate hanno fatto enormi passi indietro, l’ho capito subito, appena sbarcata: all’inizio è stato uno shock, la mia cultura mi sembrava una tale gabbia che per molto tempo l’ho rifiutata». L’ostacolo maggiore è la difficoltà di fare rete. «L’hijab è la tenda, il recinto, l’imene […], trasferisce nella vita quella differenza che Allah ha iscritto nei corpi», scrive il giornalista Igor Man20. Al tempo stesso, ag35

giunge la scrittrice Fatima Mernissi, è stato ed è «lo strumento per creare l’illusione che la umma fosse unita perché era omogenea, ma soprattutto allo scopo di far dimenticare alla gente quello che gli arabi della jahiliyya (l’epoca dell’ignoranza preislamica) sapevano fin troppo bene: il corpo con la sua sessualità indomabile è l’irriducibile fortezza dell’individualità sovrana»21. Il velo separa simbolicamente la sfera politica da quella privata e media inevitabilmente il contatto tenendo distanti i due sessi e le donne che vivono una accanto all’altra. Le straniere dalle straniere ma anche le straniere dalle italiane, dimentiche spesso di quanto fosse tutto meno scontato quando a chiedere diritti eravamo noi. Per questo, nel 2003, le militanti dell’associazione Ni putes ni soumises hanno sostenuto con forza la legge voluta dal presidente francese Jacques Chirac contro l’ostentazione dei simboli religiosi negli uffici pubblici e nelle scuole: loro, musulmane e progressiste, denunciano da anni l’uso politico dell’hijab da parte degli immigrati delle banlieues che ne fanno uno strumento di controllo sulla famiglia e sulla donna22. Anche in Italia cominciano a levarsi voci dissidenti rispetto all’acritica accettazione di comportamenti «maschilisti e fascisti» giustificati in virtù della diversità culturale. Voci di donne, specie immigrate, infaticabili nello spiegare che l’islam non è aggressivo – c’è addirittura una fatwa di un gruppo di mufti della Nuova Zelanda che condanna la violenza domestica23 – ma i loro uomini, «i presunti musulmani», sì. Naima Gouhai, 30 anni, marocchina, assistente sanitaria presso una Asl della Toscana e mamma di tre bambine, è andata oltre: si è candidata alla guida della preghiera del venerdì24. Ambizione audace per una donna, abituata fin dai tempi di Maometto a essere te36

nuta lontana dai riti sacri. Prima di lei ci aveva provato con successo Amina Wadud, che il 18 marzo 2005 ha officiato una preghiera mista collettiva a New York suscitando indignazione in tutta la umma, unanime per una volta nell’interpretazione delle scritture, dalle madrase del Pakistan alle moschee arabo-americane di Detroit25. Ovvio che mullah ed imam si siano ribellati: la partecipazione femminile alle funzioni è un tabù interconfessionale che accomuna i tre grandi monoteismi, islam, cristianesimo ed ebraismo. E la figura asessuata della donna-madre è un topos globale che collega trasversalmente gli immaginari religiosi, come dimostra il dvd Maria la prescelta, prodotto dall’associazione degli sciiti italiani Il puro islam, dove il culto della Madonna, vergine e madre velata del profeta Gesù, entra a pieno titolo nell’empireo islamico. In Italia Naima non è sola: anche Amina Donatella Salina, una convertita, sarebbe interessata: «Se la comunità islamica mi accettasse, sarei pronta a fare l’imam per la preghiera collettiva mista. D’altro canto, anche se il fatto non è noto, ancor prima della Wadud, la sorella spagnola Yaratullah Monturiol aveva fatto l’imam a una preghiera collettiva mista in Sudafrica, protetta dalla polizia»26. C’è un unico religioso, per ora, disposto davvero a sostenerle pubblicamente: Feras Jabareen. L’imam di Colle Val d’Elsa aprirebbe volentieri la sua moschea al tentativo di Naima Gouhai perché, dice, non viola nessun precetto: «Perfino Ibn Taymiyya, il teologo islamico caro ai salafiti, nella raccolta in 28 volumi Le grandi fatwe sostiene che non è vietato alla donna fare l’imam, perché anche all’epoca del profeta Muhammad sua moglie Aisha aveva fatto diversi incontri di preghiera alla presenza di uomini, anche se non davanti agli uomini, e alcuni di loro hanno imparato da lei come 37

pregare. Ebbene Ibn Taymiyya dice che nel caso in cui all’interno di una comunità una donna sia più competente dell’uomo nella gestione della preghiera, è lei che la deve condurre»27. Gli altri, imam ed esperti di teologia islamica, preferiscono non affrontare la questione sul piano sessista e ne danno una spiegazione pragmatica. Gabriele Mandel Khan, vicario generale della confraternita turca Jerrahi-Halveti, apprezza il coraggio della Wadud e delle sorelle italiane ma resta fedele alla tradizione: «Nelle confraternite sufi ci sono anche donne, che sono guidate da maestre sufi. Quando si sta uniti le donne stanno su in alto nel balconetto o in fondo come nelle moschee. La separazione tra i sessi è precisa»28. La scuola di pensiero più diffusa comunque, è quella sintetizzata da Abdel Hamid Shaari, che ogni venerdì accoglie alcune migliaia di fedeli nel centro islamico di viale Jenner, dove si prega ma ci si dà anche una mano a cercare un lavoro, una moglie, una casa in affitto: «La donna non può guidare la preghiera semplicemente per una ragione di decoro: l’imam infatti deve posizionarsi davanti agli altri, inchinato a novanta gradi e rivolto in direzione della Mecca»29. È uno dei pochissimi punti su cui l’islam cosiddetto moderato del segretario della Coreis, Yahya Sergio Yahe Pallavicini, incontra quello più radicale di viale Jenner: «Siamo contrari all’imamato femminile solo perché sarebbe una tentazione e perché nel momento del raccoglimento l’imam incarna la figura del profeta Muhammad che era un uomo»30. Se però in Italia dovesse essere introdotta la conduzione femminile della preghiera, Yahya Pallavicini non innalzerebbe le barricate: trova «legittimo» che la tradizione tenga il passo con il presente. La donna è il paradigma del confronto con la modernità, come ripete sua moglie, Ilham-Allah Chiara 38

Ferrero, segretario generale della Coreis. Nel saggio Conoscere le donne musulmane, IlhamAllah sollecita un approccio meno rigido al rapporto tra i sessi nell’islam, che scinda la violenza domestica dalla religione e la riconduca «alla sua vera origine», il disagio socio-economico: «Non si può continuare a suddividere le donne musulmane in due categorie contrapposte, quelle che portano il velo e quelle che non lo indossano, facendo poi seguire a queste motivazioni personali, la condizione sociale e il grado di istruzione. Ci possono essere buone musulmane senza velo e cattive donne velate e viceversa. [...] Il delicato equilibrio tra il mantenimento della propria identità religiosa e il confronto con le diverse prospettive va ricercato innanzitutto dentro di noi, usando tutte le nostre facoltà intellettuali e la nostra adesione alla tradizione per fare in modo che le situazioni nuove che la vita di volta in volta ci riserva vengano gestite attraverso quei supporti che nell’islam sono vitali come l’intelligenza, la dottrina e il consenso dei sapienti». Solo così, secondo IlhamAllah, i musulmani realizzeranno «una vera libertà nella religione, non una libertà dalla religione, né tanto meno una religione senza libertà»31. Le molteplici sfumature nelle obiezioni sollevate dai leader religiosi delle comunità musulmane quando si parla della questione femminile rispecchiano la pluralità dell’islam italiano, conservatore, radicale, possibilista, innovatore. Sullo sfondo però, anche quando i contorni della tradizione sfumano nell’abbraccio col presente, resta l’immagine della donna tentatrice, veicolo di sensualità e viatico al peccato. «L’islam è equilibrio» spiega con voce lenta e modulata Abdur-Rahman Rosario Pasquini, seduto alla scrivania del suo studio nella moschea di Segrate, una del39

le prime costruite nel nostro paese32. Quando un giovane egiziano che lavora lì gli serve una tazza di tè, china lentamente la testa canuta sotto il berretto bianco e si porta la mano sul cuore: as-salam alaikum, la pace sia con te. Wa alaikum as-salam, altrettanto. «Le emozioni, comprese quelle fisiche, sono turbamenti. La donna emoziona, per questo deve vestire in modo modesto, ma non c’è bisogno di esagerare. Niente trasparenze, niente abiti fascianti, l’hijab sul capo, perché il Corano le prescrive di mostrare solo il volto e le mani, ma nient’altro. Non c’è alcuna indicazione circa la copertura totale del niqab, un’esagerazione da osservanti più realiste del re. La regola è equilibrio, appunto: una via di mezzo tra l’ombelico in bella mostra e il burqa stile talebano». Pasquini vive nel mondo contemporaneo, dove moda e pudore non vanno sempre esattamente a braccetto, ma giura di abbassare lo sguardo ogni volta che incontra per la strada una fanciulla abbigliata in modo provocante: «Sono uomo e come tutti ho pulsioni psicogenitali. Se non puoi soddisfarle perché, come me, hai scelto un’esistenza spirituale, ti fanno soffrire, così le evito completamente e chiedo protezione ad Allah». È colpito dalle mani affusolate di una donna e gliele loda facendola arrossire, ma poi sorride con malcelata soddisfazione, sentendosi più forte: «Sono superiore perché conosco la verità, ma rispetto le persone che incontro perché realizzano la volontà divina». Le tentazioni fanno parte del mondo, basta saperle evitare. Pasquini, per esempio, ha trovato un modo tutto suo per conciliare il rifiuto della nudità esibita con l’amato mare: allo stabilimento balneare La Lanterna di Trieste uomini e donne prendono il sole e fanno il bagno separati. Due ingressi, due spiagge, l’acqua divisa da un muro di cemento fino a diversi metri oltre la riva. 40

È l’ultima roccaforte dell’impero austroungarico, inespugnabile dalla modernità. Alcuni anni fa, quando l’amministrazione comunale progressista ha proposto d’abolire il vecchio regolamento della Lanterna, la città si è ribellata. La Lanterna sta ancora lì, con il suo decoro antico e l’appeal moderno che si rinnova ogni estate. E la religione islamica stavolta non c’entra per niente: le donne, timide o sfrontate, non vogliono rinunciare all’unico spazio dove possono chiacchierare tra loro al sicuro dagli indiscreti sguardi maschili. La violenza contro le donne non è e non può essere il problema di una singola cultura. Il confronto con l’islam ci chiama a interrogarci sulla nostra storia. Le esigenze sono cambiate con i tempi. Suona lontana la voce della scrittrice iraniana Azar Nafisi quando ammonisce le lettrici italiane a non abbassare la guardia perché i diritti conquistati vanno difesi ogni giorno, senza distrarsi. Suona lontana, ma è una voce familiare. «Prima della rivoluzione khomeinista non pensavo di poter perdere le libertà che mia madre aveva conosciuto e io davo per scontate – ricorda la Nafisi –, ma niente è mai per sempre. Così, un mattino, mi sono svegliata con l’hijab in testa e i sandaletti estivi messi al bando perché considerati troppo sensuali dai guardiani della moralità islamica»33. Così succede che Fatima, una ragazza marocchina cresciuta con il mito dell’emancipazione femminile occidentale, arrivi finalmente in Europa, a Milano, e non trovi la prima linea della battaglia per i diritti avviata negli anni Settanta ma le retrovie. Donne adulte che ripensano l’autodeterminazione strappata con i denti alla luce della «vuota società dei consumi in cui, alla fine, nessuno sceglie davvero niente» e uomini venuti su a dosi massicce di cultura illuminista per scoprirsi con l’età più conservatori del padre che Fatima ha 41

lasciato a casa. Come lo sciita Ammar De Martino, che con disarmante semplicità distingue le donne in due categorie: «Le atee scalmanate e le sedicenti musulmane che rifiutano il velo pensando di potersi costruire la religione su misura, e le altre, le musulmane vere, silenziose, modeste, impermeabili alle sconcezze della propaganda americana»34. Dov’è il confine tra la presunta civiltà bigotta ed oppressiva da cui fugge Fatima e la nostra, laica ed emancipata, ma incapace di indignarsi per qualsiasi discriminazione contro la donna a prescindere dall’identità religiosa che pretende di giustificarla? Nel provocatorio saggio Il relativismo culturale: il fascismo della nostra epoca la studiosa e femminista iraniana Maryam Namazie se la prende direttamente con chi, preoccupato di non interferire nell’organizzazione sociale e religiosa degli «altri», concede all’abuso di potere la patente d’impunità: «I relativisti culturali si spingono a dire che i diritti umani universali sono un concetto occidentale. Ma come mai quando si usa il telefono o un’automobile il mullah non protesta che si tratta di roba occidentale incompatibile con la civiltà islamica? Come mai quando c’è da sfruttare i lavoratori, le innovazioni tecnologiche diventano universali? Però poi se parliamo dell’universalità dei diritti umani ecco che diventano occidentali. Ebbene, anche se lo fossero, sarebbe del tutto assurdo sostenere che ‘gli altri’ non ne sono degni. Persino a sinistra qualcuno obietta che condannare le fedi reazionarie alimenta il razzismo. Opporsi allo stupro di una bambina di nove anni costretta a sposarsi non serve il razzismo»35. È il Corano che alimenta violenza e misoginia oppure sono coloro che lo brandiscono come un’arma, tradendo al tempo stesso l’umanità e la religione? È un problema religioso o strettamente politico, come invece ritiene l’orientalista ame42

ricano Richard Bulliet, convinto che in alcuni paesi islamici tipo la Tunisia ci siano legislazioni perfino più avanzate delle nostre in materia di diritti delle donne ma che languano neutralizzate dall’assenza di democrazia36? La Namazie ritiene che l’Occidente non possa lavarsene le mani: «Le culture non sono sacre. Anche il razzismo e il fascismo hanno le loro proprie culture eppure non le rispettiamo. Quando i relativisti culturali dicono che la società iraniana è musulmana, sottintendendo che le persone hanno scelto di vivere nel modo in cui sono costrette e che non ci sono differenze tra i musulmani né per esempio intellettuali comunisti o socialisti, difendono l’Olocausto della nostra epoca».

3.

NOI E GLI ALTRI: IL CONFLITTO DELLE IDENTITÀ

«Quando Emiliano ha visto in televisione l’attentato alle torri gemelle di New York mi ha chiesto della mia scelta religiosa. A pensarci bene è stata la prima volta. Abbiamo parlato molto, ha capito che si trattava di assassini qualsiasi e l’islam non c’entrava niente». Cresciuta prendendo a calci le gerarchie e i cerimoniali della famiglia tradizionale, Antonella non si era mai posta il problema di spiegare al figlio di vent’anni le improvvise preghiere all’alba, il digiuno di Ramadan drastico anche per una come lei vegetariana vegan da una vita, i quadri con le sura del Corano e il ritratto dell’imam Alì appesi da un giorno all’altro accanto alle sue fotografie da ragazza con la chitarra in spalla e l’orecchino al naso quando non era ancora una moda. «Mi sono convertita all’islam alla fine del 2000 perché avevo paura delle tribù in cui mi ero rinchiusa negli anni Settanta», racconta mentre, sprofondata nella poltrona in tessuto batik, accarezza il grosso e pacioso gatto persiano. L’idea di essere catalogata ora in una nuova categoria e dover prendere continuamente le distanze dal terrorismo le mette un’ansia che ha sentito di dover dividere con il figlio: «La mia è stata una scelta privata, non ideologica. Da quando sono musulmana e leggo i mistici sufi come 44

il poeta Rumi sono addirittura più pacifica, con Emiliano bisticciamo meno, ognuno ha la sua privacy». Anche Souheir Katkhouda, il 12 settembre 2001, ha scoperto che non bastavano venticinque anni d’Italia a darle la patente di musulmana «normale», doveva condannare il terrorismo, distinguersi dai kamikaze, spiegare ogni volta da capo che il Corano bandisce la violenza: «Siamo quattrocento iscritte all’Unione donne musulmane d’Italia, alcune vengono solo alle riunioni ma la gran parte è attivissima. Abbiamo fatto centinaia di conferenze e dibattiti in giro per il paese perché crediamo nell’integrazione, la situazione stava pian piano evolvendo. Adesso è cambiato tutto: ci invitano esclusivamente per parlare della minaccia islamica»1. E lei ripete sempre la stessa cosa: «Il terrorismo è tutto barbaro, senza distinzioni. Lo affermo dal 1980 ma sui giornali trovano spazio solo le vicende negative, come se noi musulmani che viviamo qui non fossimo i primi ad essere danneggiati dagli assassini. E guardate che le persone perbene sono la maggioranza. Quante sono state le espulsioni come quella dell’imam di Torino Bouchta? Qualche centinaio? Vogliamo aggiungere qualche migliaio di indagati per terrorismo internazionale nell’ambito di inchieste che comunque non hanno portato a niente? E gli altri 950.000? Se sapessimo qualcosa di attentati in preparazione o kamikaze in sonno ci precipiteremmo a denunciarlo, la nostra vita di emigrati dipende dal rapporto che instauriamo con voi». Dopo New York, Madrid, Londra, l’Italia viene indicata spesso come prossimo target nei proclami online di al-Qaeda. È evidente che le Souheir Katkhouda di Napoli, Firenze, Bologna, si sentano doppiamente in pericolo: bersaglio delle potenziali bombe umane che non fanno distinzioni di fede o passaporto e dell’isla45

mofobia che ne deriva. Il giornalista del quotidiano saudita «Arab News» Amir Taheri calcola che negli ultimi venticinque anni circa 250.000 arabi sono stati uccisi da attacchi terroristici, senza considerare le vittime di guerre civili come quella ancora in corso in Sudan2. Solo due Stati arabi su ventuno risultano al momento risparmiati, il sultanato dell’Oman e gli Emirati. L’Algeria ha pagato un tributo di sangue da 150.000 morti, 25.000 in Egitto, una media di una decina al giorno nell’Iraq post Saddam. Un bilancio drammatico che all’inizio del 2005 ha portato a Riad i rappresentanti della conferenza islamica per mettere a punto una politica di difesa comune. Si erano già visti a Kuala Lumpur nel marzo del 2002 ma non avevano trovato un compromesso accettabile da tutti. La discussione si arena sempre sulla definizione di terrorismo: finora ne sono state date almeno quarantuno. Cos’è terrorismo e cosa invece legittimo atto di resistenza? Molti condannano la violenza di al-Qaeda o del Fis algerino ma assolvono i kamikaze palestinesi e le azioni del partito libanese Hezbollah. E qui? Un attentato in Italia sarebbe considerato una barbarie o una «sacrosanta resa dei conti» per l’impegno del nostro esercito in Iraq? Un’ennesima strage degli innocenti o una vendetta contro gli alleati delle truppe angloamericane covata dai tempi dei crociati che disprezzavano la mezzaluna con un odio così forte da prolungarsi fino al 1683 quando, per celebrare la sconfitta ottomana, i pasticceri viennesi impastarono il primo croissant, una mezzaluna da divorare a colazione3. La questione è tutt’altro che un sofisma linguistico, come dimostra la vicenda di Mohamed Daki, Toumn Ali e Bouyahia Maher, i tre marocchini accusati di reclutare kamikaze per l’Iraq e prosciolti dal giudice Clementina 46

Forleo perché ritenuti «guerriglieri» e non terroristi4. L’assoluzione è stata confermata poi in vari gradi di giudizio, spaccando l’Italia tra chi accusava la Forleo di fiancheggiare il terrorismo e i sostenitori del diritto anche quando fa meno comodo, ma i tre sono stati espulsi ugualmente con un decreto del ministero dell’Interno. Il margine d’ambiguità che accompagna le parole è una ricchezza per i voli pindarici della lirica ma può creare parecchi ostacoli quando c’è da intendersi su questioni geopolitiche. Antonio Cassese, giurista internazionale ed ex presidente del Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, ricorda che una definizione unanime del termine terrorismo è stata da poco faticosamente raggiunta e inserita nella legislazione di numerosi Stati e trattati internazionali: «È terrorista chiunque 1) commetta un’azione criminosa (omicidio, strage, dirottamento di aerei, sequestro di persona, etc.) contro civili o anche contro militari non impegnati in un’azione bellica (che per esempio partecipano a una funzione religiosa); 2) compie l’atto al fine di coartare un governo, un’organizzazione internazionale o anche un ente non statale (ad esempio una multinazionale); questa coartazione può avvenire diffondendo il terrore nella popolazione civile (si pensi agli attentati di Londra del 7 luglio) o con altre azioni (ad esempio facendo saltare, o minacciando di far saltare, il ministero della Difesa, la banca nazionale o un’ambasciata straniera; o sequestrando il capo del governo o anche di una multinazionale, se questa ad esempio non dà armi ai guerriglieri); 3) compie l’atto per una motivazione politica o ideologica (quindi non per fini di lucro o per motivi personali di vendetta o altro)». Gli arabi di Milano potevano essere definiti combattenti o terroristi a seconda delle circostanze di fatto ma, conclude Cassese, «la distinzione giu47

ridica in sé, delineata dalla Forleo, tra terroristi e coloro che partecipano ad azioni belliche, è corretta»5. Il sofisticato dibattito sul diritto internazionale non raggiunge le case popolari di Centocelle, a Roma, o dell’hinterland milanese, dove negli ultimi anni la polizia ha arrestato presunti terroristi conviventi con mogli o fratelli che ne ignoravano completamente le simpatie politico-religiose. Basta pensare alla vicenda dell’ex idraulico marocchino Mohammed Aouzar: i genitori berberi e semianalfabeti hanno scoperto l’obiettivo della sua repentina partenza per il Pakistan attraverso una lettera recapitata a Torino quando lui era già detenuto a Guantanamo da mesi6. Mohammed, 23 anni, aveva lasciato Torino a luglio del 2001 spiegando al padre che andava a studiare il Corano in una delle madrase del Pakistan, molto più economiche di quelle patrie. Invece, riferiscono le inchieste della Digos di Torino, era stato arruolato da un imam milanese, tale Abdel Halim Remadna, considerato uno dei referenti di al-Qaeda in Italia e tra i responsabili dei campi di addestramento afghani. Attraverso Teheran e Meshad, Mohammed era finito a Tora Bora e poi, nel gennaio 2002, tra i mujaheddin del jihad che combattevano gli americani a Mazar i Sharif. Catturato in battaglia nei pressi della città afghana e trasferito all’X-Ray Camp di Guantanamo, Mohammed Aouzar è stato liberato a settembre del 2004 ed estradato in Marocco insieme a molti altri suoi connazionali. Come papà e mamma Aouzar, molti immigrati ignorano tanto la genesi delle scelte radicali dei propri figli quanto la discussione che il terrorismo suscita tra i nostri giuristi. Nella maggior parte delle moschee non arriva l’eco del bel dialogo tra lo scrittore triestino Claudio Magris e l’ambasciatore italiano a Teheran Roberto 48

Toscano sui dubbi dell’Occidente: una duplice riflessione pubblicata dal «Corriere della Sera» che mette in luce il rischio di confondere «il tuo kamikaze con il mio eroe», fino a trovarsi nell’impossibilità di definire un crimine universale come il terrorismo7. Succede invece che l’islam della diaspora preferisca le certezze del Corano alle nostre domande e vada a cercare lì le regole per relazionarsi con i fratelli della umma, con le donne, con i non musulmani, amici o nemici. Cosa hanno trovato nelle parole di Maometto Mohammed Sidique Khan e Shezad Tanweer, due dei quattro terroristi di Londra, la coppia di ragazzi fotografati in canoa con un gruppo di compagni inglesi alcune settimane prima dell’attentato? I più integrati, in apparenza. Vestiti casual come gli altri, indistinguibili, figli meticci della società globale ma ancorati sotto sotto a modelli tradizionali che non esistono più neppure nei villaggi remoti sulle montagne del Pakistan. Ci sono versetti del Corano che incoraggiano esplicitamente la famigerata caccia agli infedeli? Assolutamente sì, ammette Hamza Roberto Piccardo. E non ci trova niente di male: «I Profeti non usano forse un linguaggio feroce nella Bibbia? Il profeta Muhammad dissuade i fedeli dall’aggredire i nemici inoffensivi ma autorizza la guerra di difesa. Gli antichi d’altra parte avevano un grande vantaggio, non dovevano preoccuparsi del politically correct. Dicevano pane al pane e vino al vino. All’ermeneutica poi, il compito di contestualizzare»8. L’idea che il contesto muti il significato delle parole e delle azioni, porta Piccardo a distinguere tra attentati suicidi leciti e illeciti: «Il primo attentatore suicida fu Sansone. Appena gli ricrebbero i capelli ammazzò più di tremila filistei. Eppure la Bibbia lo presenta come un eroe della fede. L’uomo incatenato può colpire a prez49

zo della sua vita. Ma il Corano fissa un’etica della guerra: non è lecito colpire i non belligeranti, le donne, i vecchi e i bambini, non è lecito avvelenare l’acqua, tagliare gli alberi, attaccare col fuoco. Il massacro degli alunni innocenti di Beslan non ha nulla a che vedere con l’idea di resistenza»9. Dopo l’11 marzo a Madrid e il 7 luglio a Londra però, Hamza Roberto Piccardo ha realizzato che era arrivato il momento di pronunciare senza remore «quello che pensavo da sempre, una netta condanna delle azioni che conducono a massacri di innocenti, destabilizzano la società, provocano disordine civile». Il documento contro il terrorismo firmato il 31 luglio 2005 dall’Ucoii a nome di circa 150 moschee italiane prende con decisione le distanze dall’integralismo dei kamikaze e precisa che «in Europa e nelle Americhe le leggi garantiscono sostanzialmente la libertà di culto e di associazione ai musulmani». Nonostante la parentesi lasciata aperta dall’avverbio «sostanzialmente», la carta di Bologna afferma dunque che in Occidente la umma è tenuta alla lealtà alle istituzioni. «Nel solco della tradizione musulmana l’Ucoii dichiara il jihad legittimo solo come strumento di difesa dalle aggressioni e non come strumento offensivo tanto più nei confronti di vittime innocenti», commenta lo studioso Renzo Guolo, aggiungendo il suo nome alla lista di quanti hanno letto e apprezzato nell’iniziativa dell’Ucoii una svolta nell’atteggiamento dell’islam italiano, talvolta troppo giustificazionista verso «i fratelli che sbagliano»10. In realtà, la parola jihad non compare più nella versione definitiva: troppo scivolosa in un momento che richiede fermezza. «L’abbiamo tolta per evitare strumentalizzazioni – spiega Piccardo –. Il jihad era definito come lo sforzo sulla via di Dio, inteso anche come fisico, vuoi 50

militare. E si affermava l’importanza di stabilire quale fosse il jihad lecito in paesi nei quali il musulmano non è direttamente aggredito». Il problema vero non è dissociarsi dalle bombe alla stazione Atocha o nella metropolitana della City, carneficine che accomunano tutti nella condanna, anche gli ulema più integralisti del Cairo o i mullah delle madrase di Karachi. Il problema è chiarire se è ammissibile la distinzione tra un terrorismo cattivo che colpisce indistintamente al fine unico di destabilizzare la società e uno «buono» che si pone invece come risposta a un’aggressione precedente. E soprattutto: cosa s’intende per terrorismo, al di là delle complesse architetture dei trattati internazionali? «Terrorista è qualsiasi assassino, sia che colpisca una persona, un gruppo, uno Stato. Perfino i guerriglieri dei movimenti di resistenza che ammazzano degli innocenti sono, secondo me, terroristi. Questo punto di vista non è però condiviso da tutti e lo dimostrano le interviste – anche con europei convertiti all’islam –, che ho condotto durante il mio viaggio tra le moschee d’Europa», afferma Farian Sabahi senza ignorare le contraddizioni emerse nella preparazione del suo saggio Islam: l’identità inquieta d’Europa. Viaggio tra i musulmani d’Occidente11. All’inizio, nel VII secolo, i seguaci di Maometto erano pochi e perseguitati, l’infedele rappresentava l’altro da sé da cui dipendeva la sopravvivenza dell’islam. Oggi che l’islam si è affermato come una delle tre grandi religioni monoteiste è diverso: «Alcuni ritengono che il jihad sia addirittura il sesto pilastro dell’islam, un obbligo morale. Esistono due tipi di jihad: quello militare contro un nemico e la lotta contro le proprie tendenze cattive e dunque verso il miglioramento individuale». 51

Il sociologo Adel Jabbar data all’epoca delle penetrazioni coloniali la traslazione semantica della parola jihad da sforzo a combattimento: «Allora è emersa un’interpretazione in termini di resistenza all’ingerenza esterna. Lo choc coloniale è intervenuto infatti a mettere in discussione i tre elementi fondanti della concezione islamica di comunità: l’unità della umma al-Islamiyya, la sacralità di dar al-islam e l’alta dignità dell’etica islamica. Il mondo musulmano che oggi ci troviamo di fronte rappresenta l’esito dello sconquasso prodotto dal colonialismo, che influenza tutto l’andamento di queste società: in termini storici, sociali, ma anche economici e politico-istituzionali»12. Altri fanno coincidere l’origine del fondamentalismo con il 1928, la nascita dei Fratelli Musulmani, la prima organizzazione radicale islamica che dalla guerra arabo-israeliana del 1967 affianca l’attività militante e internazionale a quella sociale, limitata ai confini egiziani. Un gruppo borderline e ramificato in realtà clandestine, secondo Gilles Kepel, che a settant’anni dalla nascita e a venti dall’assassinio del presidente egiziano Sadat rappresenta ancora uno dei cardini del movimento islamista mondiale13. Sia responsabilità esterna e coloniale o intestina, è un dato di fatto riconosciuto che l’islam attraversi una fase di profonda trasformazione. L’imam Yahya Sergio Yahe Pallavicini è stato tra i primi a evidenziarlo: «C’è una crisi di identità diffusa e prevale una dimensione ideologica che ribalta le gerarchie tra fede, ragione e coesistenza, per cui di fatto c’è un processo di grave crisi identitaria dal punto di vista religioso e di conseguenza prevale una dimensione di politicizzazione o di socializzazione dove il carattere islamico è concepito su basi puramente settarie. Di fatto uno dei problemi è la contrapposizione tra un mondo occidentale concepito come anti-islamico e un mondo 52

islamico concepito – e questo lo dico io da musulmano e da imam – non religiosamente, perché è una enfatizzazione ideologica emotiva»14. Suo padre, lo shaykh Abd alWahid Pallavicini, rifiuta addirittura l’apparentamento tra religione e cultura, quasi fosse un pastiche postmoderno insensato per definizione: «L’islam è culto e non cultura. Le parole sono importanti. Non esistono musulmani moderati e integralisti, ma solo musulmani. Gli altri sono assassini, imbonitori, politici»15. La distinzione tra la radice politica del terrorismo islamista e la sua autoetichettatura religiosa emerge all’indomani dell’11 settembre, quando le principali guide spirituali islamiche si schierano a fianco degli Stati Uniti feriti, sconfessando la rivendicazione di Osama bin Laden infarcita di citazioni del Corano. L’islam è sinonimo di pace, ripetono i religiosi. Ma il palestinese Ali Rashid, un laico che ha seguito la nascita e la crescita del movimento islamico radicale Hamas fino all’inattesa vittoria nelle elezioni del 2006, mette in guardia dall’abbraccio mortale tra fideismo cieco e ideologia: «I governi arabi hanno giocato a lungo col terrorismo islamico mandandolo in giro per il mondo. Erano sicuri di controllarlo. Invece l’immigrazione di massa li ha spiazzati, permettendo a un macellaio che ignora la teologia di nominarsi imam, guidare la preghiera del venerdì, dominare la comunità. Il Dio delle nuove generazioni è a misura dell’uomo anziché il contrario, può benissimo vestire i panni del guerriero. L’icona del martire è ammantata di santità e il suo obiettivo in termini politici conta molto meno del gesto, del sacrificio di sé. Non a caso le critiche fatte da al-Qaeda al presidente palestinese Abu Mazen non sono politiche, lo accusano di essere laico come se questa fosse un’infamia...»16. Ognuno ricostruisce la religione sulla base del proprio essere 53

individuale in un’esperienza di onnipotenza: è parte del fenomeno che Olivier Roy chiama la «globalizzazione dell’islam»17. La ricerca di una definizione identitaria oggettiva riconoscibile anche nella letteratura religiosa, dove da qualche tempo sono spariti i classici titoli metafora tipo Le perle del sapere o La spiegazione dei segreti per lasciare spazio a manuali fai-da-te: Che cos’è la fede, Come vivere l’islam, Cosa significa essere musulmano. La dimensione autodidatta rompe la continuità che tradizionalmente legava la religione alla cultura. Nei Paesi arabi e soprattutto nell’islam della diaspora si allarga una zona grigia, indefinita, impenetrabile, dove i figli si ribellano ai padri «troppo occidentalizzati» (o troppo poco?) sventolando le insegne di Allah come i coetanei europei e americani la bandiera del Che Guevara. «Gli jihadisti si sentono attori apolidi che combattono una guerra irregolare contro i kafirun, gli infedeli, e vedono la loro battaglia come una vera guerra legittimata da un’interpretazione religiosa, politica e militare del concetto islamico di jihad», scrive Bassam Tibi, docente all’università di Göttingen e autore del volume Islam between Culture and Politics18. A suo giudizio pretendere che il terrorismo jihadista non abbia nulla a che fare con l’islam è una forzatura, un errore prospettico: gli stessi protagonisti infatti si proclamano «veri musulmani» e vanno a studiare nelle scuole islamiche il messaggio del grande padre spirituale Sayyid Qutb, intellettuale islamista egiziano impiccato dal regime di Nasser nel 1966 dopo aver lasciato opere profondamente controverse come Pietre miliari, nelle quali viene sviluppato il concetto di jihadismo come rivoluzione islamica mondiale permanente contro l’Occidente19. Il risultato dello scontro interno all’islam tra chi è il vero fedele di Allah e chi il traditore è storia d’ogni gior54

no. In metropolitana, all’aeroporto, nei centri commerciali, sul treno, dovunque ci sia una grande concentrazione di persone la presenza di un mediorientale, presumibilmente un musulmano, allarma. Come se non ci fossero mai stati i compagni di scuola marocchini dei nostri figli né le decine e decine di gastronomie che profumano le città di cumino e kebab, come se in ogni musulmano dormisse un potenziale kamikaze. All’islam integrato nessuno fa caso, non desta preoccupazione dunque non esiste. Quanti sono invece gli aspiranti martiri, quelli davvero disposti a uccidere e uccidersi per un obiettivo tanto astratto? Pochissimi, risponde Suad Sbai, ma la cosa non la tranquillizza affatto: «Gli assassini sono una ridottissima minoranza, armati però del linguaggio della violenza, l’unico che alla fine paga. Attento Occidente: stai insegnando che le prove di forza vincono. Vedrete che un giorno l’Europa e gli Stati Uniti dialogheranno anche con al-Qaeda, l’hanno già fatto con Gheddafi, figuriamoci»20. In realtà, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha già presentato un’interpellanza al governo italiano proponendo di recuperare il patto di non aggressione con «la guerriglia arabo-palestinese» e concludere un «onesto accordo» proprio con la rete dello sceicco saudita e le altre organizzazioni terroristiche della stessa ispirazione religiosa e culturale che «si impegnino a risparmiare obiettivi, italiani o anche esteri, nel nostro paese, escluse le organizzazioni di intelligence loro nemiche, ed anche obiettivi italiani all’estero, purché non collaboranti con le forze loro ostili»21. Una provocazione, evidentemente. Ma se lo sceicco saudita offrisse davvero una sponda al nemico americano? «Osama sa il fatto suo, ha sconfitto i russi e ora sconfiggerà gli americani», dice un ragazzo tunisino che sta55

ziona con un gruppo di amici davanti a un call center torinese. Avrà appena diciotto anni, l’abbigliamento casual di qualsiasi coetaneo, lavora al mercato di Porta Palazzo e sfoggia un modernissimo videofonino. Ha bisogno di miti come tutti gli adolescenti. La realtà è che tra le seconde generazioni di musulmani residenti all’estero Osama bin Laden è diventato un eroe, il paladino del popolo musulmano umiliato e derubato dall’Occidente, un popolo che lo sceicco saudita riscatta dando scacco matto alla grande superpotenza americana. In un blog iraniano lo studente universitario Lawrence Reza Ershaghi riflette amaro sull’involuzione dell’immaginario giovanile della sua generazione: «Durante la nostra età dell’oro, all’epoca del califfato spagnolo, Ibn Khaldun sognava che l’arabo diventasse un giorno la lingua franca parlata in tutto il mondo. Oggi nessuno considera l’arabo la lingua aulica di Kahlil Gibran, Mahmoud Darwish, Taha Hussein. Per tutti, in positivo o in negativo, è la lingua di Osama»22. Khaled Fouad Allam ha affrontato l’argomento nel libro Lettera a un kamikaze, un viaggio nella psicologia collettiva d’una comunità disorientata: «Il mondo musulmano ha sempre avuto il complesso dei perdenti della storia. La nabka, il disastro della sconfitta. In Algeria si dice che è come se i musulmani camminassero accanto alle loro scarpe. La creazione del nemico esterno serve all’autogiustificazione che impedisce di evolvere, ieri come oggi. Il fatto che nell’islam manchi un vero conflitto generazionale non significa che non ci siano fratture. La più importante è quella storica che vede l’islam debole sopraffatto dall’Occidente colonizzatore e porta all’assunzione iconica del kalashnikov più il Corano»23. L’idea che il terrorismo contemporaneo abiti in questo spazio a sé stante senza relazioni con l’esterno 56

dovrebbe rassicurare, invece l’impenetrabilità lo rende ermetico, impalpabile, onnipresente: «È difficile interpretare i cortocircuiti della storia. Gli atti violenti dell’islam si iscrivono nella storia ma sono transtorici. L’evento rimanda sempre alla casella di partenza, come se l’islam fosse condannato alla sua storia. La catena si rompe solo se i musulmani si rimettono in gioco e l’Occidente accetta di gettare uno sguardo altro, più comprensivo, che li aiuti nel passaggio». La dialettica padre-figlio è una caratteristica dell’islam europeo. «La ribellione giovanile contro i genitori è un fenomeno nuovo prodotto dall’immigrazione come la religione fai-da-te, la riscoperta della tradizione in versione dogmatica, la lingua ibrida che mescola arabo classico a dialetti a parole inglesi o francesi», nota Younis Tawfik24. Nei paesi d’origine, i ragazzi musulmani rispettano l’autorità paterna anche quando dissentono, perché temono la condanna sociale. All’estero, in assenza del controllo di un’intera società, l’individuo recupera autonomia: «Sembra un processo naturale invece, spesso, s’inceppa. I giovani musulmani della diaspora non sono abituati alla libertà, si sentono disorientati. La perdita di centralità della figura paterna mina le loro certezze e vanno quindi a cercare stabilità nella fede». Tawfik ricorda che all’indomani della caduta del muro di Berlino «duecentocinquanta ragazze tedesche si convertirono in massa all’islam, come se gli fosse stato tolto il tappeto da sotto i piedi». Orfane prima d’essere state svezzate, alla ricerca d’un padre di riserva. «Sono un musulmano praticante, barbuto, un pakistano che ha servito nell’intelligence e nell’aviazione del proprio Paese e che tanto tempo fa è stato molto vicino a Osama bin Laden, all’epoca in cui combattemmo insieme per cacciare i sovietici dall’Afghanistan. Sono 57

quello che con uno stereotipo voi in Occidente definireste terrorista, estremista o islamista radicale. Ma non accetto nessuna di queste etichette. Io sono un ponte: una voce di ragionevolezza musulmana in un crescendo cacofonico di voci piene di risentimento, alcune delle quali devastano irreparabilmente il messaggio di una grande religione e ora devono essere tenute a freno da gente come me per garantire che si sopravviva tutti al flagello del radicalismo. [...] Noi – padri e nonni musulmani dell’odierna generazione di figli pieni di risentimento – abbiamo fatto poco per offrire loro un cammino di vita alternativo alle missioni suicide. Accusare l’Occidente dei nostri mali non supplisce alla ricerca di soluzione ai problemi che la nostra prole cerca di risolvere con la violenza. È troppo tardi perché ci accolliamo la correzione di rotta da soli»25. Questa lettera, spedita alla fine dell’agosto 2005 a diversi quotidiani internazionali, porta la firma di Khalid Khawaja, ex membro dell’intelligence pakistana ed ex mujaheddin in armi contro l’Armata Rossa che nel 1993 ha collaborato a un accordo di pace tra le fazioni belligeranti in Afghanistan. È cominciato tutto lì, a detta di Abdel Hamid Shaari, comprese le indagini della magistratura che dal 1993 coinvolgono il centro islamico di viale Jenner: «Il terrorismo della cosiddetta al-Qaeda è diverso dai movimenti che da sempre tramano all’interno della società araba per rovesciare i governi corrotti. È terrorismo globale e nasce in Afghanistan alla fine degli anni Ottanta, frutto malato della guerra imperiale tra Stati Uniti e Unione Sovietica che si è servita del jihad islamico in modo alternato. La sconfitta dell’Armata Rossa ha aperto la porta a una valanga umana finanziata dai sauditi che si è rovesciata sull’Occidente, convinta che dopo i comunisti avrebbe vinto gli infedeli»26. C’è dentro tut58

to: il complesso del popolo sconfitto, l’insoddisfazione dei migranti mai davvero integrati completamente, lo scontro interno all’islam tra ortodossi e riformisti, il nichilismo de I demoni di Dostoevskij. Un processo dialettico al contrario in cui le conseguenze precedono le cause e poi le rincorrono per annetterle a posteriori. È così che il confine tra vittime e carnefici sfuma nel gioco infinito del chi ha cominciato per primo e si entra nel campo della più assoluta soggettività: terrorismo o resistenza? Anche i trentacinque capi di Stato e di governo riuniti alla fine di novembre 2005 a Barcellona per il primo vertice euro-mediterraneo hanno glissato sull’argomento, approvando un codice di condotta comune per la lotta contro il terrorismo «in tutte le sue forme e manifestazioni» senza però pronunciarsi sul diritto alla resistenza contro l’occupazione27. Perché tutto dipende dalla parte da cui si guarda la situazione. Molti politicizzano il messaggio islamico scorgendovi l’ultima grande ideologia di liberazione dei popoli, una sorta di terza via tra marxismo e capitalismo. La guerra in Iraq, come già la questione israelo-palestinese, è un moltiplicatore di punti di vista. A eccezione degli immigrati di origine curda che hanno pagato con l’isolamento l’appoggio palese alla campagna militare contro Saddam Hussein e alcuni sciiti che come Luigi Ammar De Martino si spingono a definire l’odiato presidente americano George W. Bush «uno strumento involontario di Allah, utilizzato per eliminare il dittatore sunnita»28, l’islam italiano è stato compattamente contrario all’intervento sin dal principio. Chi additandovi l’ennesima intrusione nella sacra terra dell’islam, chi come Farian Sabahi e molti altri perché convinto che la «pur lodevole cacciata di un dittatore sanguinario» avrebbe finito per lasciare il paese in balia del caos, degli esporta59

tori di terrorismo e «di una versione integralista dell’islam, sconosciuta ai tempi di Saddam quando i cristiani, i musulmani sunniti e sciiti e i membri di sette esoteriche come gli Ahl-e Haqq vivevano in pace tra loro». A dare fastidio, continua Sabahi, «è soprattutto che Saddam sia stato per anni finanziato e appoggiato dall’Occidente e che non si sia trovata traccia delle armi di distruzione di massa, pretesto per la guerra». Oggi però, dopo le immagini degli iracheni in coda per votare e la mattanza quotidiana che colpisce soprattutto i civili, molti sono disposti a cambiare opinione, consapevoli che nessuno possa dirsi più iracheno degli iracheni. «In Iraq esiste una risoluzione dell’Onu che dichiara il paese non più occupato, il resto sono chiacchiere», taglia corto il professor Majid El Houssi che da ragazzo, in Tunisia, ha conosciuto e sostenuto la guerra di liberazione contro la Francia29. Allora trovava «sacrosanto» ribellarsi, ma ammette che non sempre le cose sono così semplici e i confini tanto chiari: «I popoli hanno diritto all’autodeterminazione, io ho conosciuto il colonialismo e anche voi in Italia avete combattuto contro la dittatura fascista. Ma tanto per cominciare parliamo di guerre politiche. Ammesso che quella in Iraq lo sia, cosa c’entra l’islam? Cosa c’entrano i roboanti proclami contro gli infedeli? Non confondiamo la guerra con il terrorismo, Baghdad ha un governo democraticamente eletto che dirà quando e come le forze straniere dovranno andar via». Alla vigilia della guerra Feras Jabareen aveva organizzato veglie e veglie di preghiera nella moschea di Colle Val d’Elsa sperando di risparmiare quel nuovo shock alla popolazione irachena già provata dalla tirannide trentennale e dall’embargo internazionale. Ora, per la stessa ragione, chiede la linea dura contro i «se60

dicenti partigiani» specializzati in stragi nei mercati affollati di donne e bambini: «Se Baghdad cadesse nelle mani di quella che chiamano resistenza sapete cosa accadrebbe? Un’altra dittatura! Sono assassini e basta. Noi musulmani abbiamo la responsabilità di far vincere la vita, è nella nostra storia. Sotto il califfato, nel 1200, i poeti parlavano addirittura dei gay e adesso siamo ostaggio di chi predica il ritorno alla sharia impugnando il kalashnikov. Anche gli ulema più integralisti si sono spaventati e hanno smesso d’identificare la democrazia con Satana per tuonare contro il terrorismo. Cosa vuol dire? Che l’Iraq non c’entra niente e questo terrorismo ci chiama tutti in causa perché pesca nell’acqua torbida delle nostre contraddizioni»30. Pochi hanno il coraggio di dichiararlo così apertamente, perché gli attentati rivendicati da al-Zarqawi fanno sempre riferimento alla umma e gli immigrati di religione musulmana non esprimono volentieri critiche sulla propria comunità, soprattutto ora che si sentono accerchiati. Molto meglio distinguere. Per questo il documento dell’Ucoii mantiene un equilibrio tra il rifiuto deciso del terrorismo e gli umori ondivaghi della realtà che rappresenta, settanta associazioni e centocinquanta moschee frequentate in maggioranza da stranieri. La linea è dettata a chiare lettere: «Anche se fosse una reazione ad altre pregresse ingiustizie, il terrorismo è reazione scomposta e criminale e del tutto inaccettabile dalla coscienza e dalle menti dei fedeli». Nessun margine di fraintendimento: un no deciso agli assassini anche se mossi da buone ragioni. Anche se, appunto. Una precisazione che Hamza Roberto Piccardo difende come assolutamente necessaria: «Il terrorismo è uno strumento utilizzato tanto dai movimenti di liberazione quanto dagli Stati per mettere paura alla gente e ricattarla. Se ne 61

sono serviti tutti storicamente, europei, inglesi, americani, arabi. Non so dire se ce n’è un tipo buono e uno cattivo, ma so che quando un pilota americano bombarda un villaggio si chiama azione di guerra con drammatici effetti collaterali mentre se un palestinese si fa esplodere su un autobus a Tel Aviv è un terrorista. Dobbiamo metterci d’accordo. Secondo noi dell’Ucoii non andrebbero mai coinvolti i non belligeranti, donne, anziani, bambini. L’etica dei mezzi è fondamentale, per questo riteniamo che una parte degli attentati compiuti in Iraq non abbia nulla a che vedere con i metodi islamici». Una parte. Ce n’è un’altra che invece merita rispetto? Piccardo si aggiusta meglio sulla sedia, accavalla le gambe, incrocia le braccia un po’ annoiato come chi spiega per la centesima volta la stessa semplice ovvietà: «Di ciò che accade in Iraq non sappiamo nulla. Con questo non voglio negare che le decapitazioni avvengano. Si tratta di azioni indegne e considero atroce mostrarle. Ma abbiamo notizia di circa duecento azioni compiute ogni giorno in Iraq, è ovvio che non si tratti solo di terrorismo. Certo, le stragi nelle moschee sono stragi e basta. Ma se colpisci il nemico o il collaborazionista sei un partigiano. E non venitemi a raccontare la storia degli iracheni neutrali: chi collabora con l’invasore è un collaborazionista perché oggi in Iraq c’è una guerra civile come nel nostro paese sessant’anni fa. Provate a chiederlo a chi c’era allora»31. A poco vale ricordare l’opinione di Massimo Rendina, memoria storica della resistenza italiana, che ha negato a più riprese qualsiasi possibile parallelo tra la liberazione italiana dal nazifascismo e la situazione irachena, dove la mattanza quotidiana coinvolge più civili che militari32. Secondo Piccardo la causa di quanto sta accadendo nella terra del Tigri e l’Eufrate è l’aggressione angloamerica62

na: «Potevano eliminare Saddam in un altro modo. Ci hanno infiltrato per così tanto tempo... Poi che c’entra, è evidente che ci sono azioni inaccettabili, ma dobbiamo fare attenzione. Leggevo sul ‘Boston Globe’ che la maggior parte delle auto bomba sono rubate e sono made in Usa. Mah. Noi conosciamo bene la strategia della tensione...». È ovvio che ai musulmani d’Italia farebbe più piacere sapere che le autobombe in Iraq portano una firma estranea all’islam. O comunque diversa dalla propria scuola islamica, come evidenzia Luigi Ammar De Martino quando sottolinea: «quella laggiù è opera dei soliti sunniti o di mascalzoni senza vita spirituale, magari marxisti mascherati da musulmani»33. Anche all’indomani dell’11 settembre 2001 fiorirono leggende di complotti orditi chissà dove e autonomi rispetto all’identità degli attentatori. Ma bisogna distinguere l’istinto naturale all’autodifesa dal rifiuto della realtà. Ci sono gli ideologi che si servono della dietrologia e quelli che semplicemente preferirebbero non essere apparentati con gli assassini. I nomi in calce alla sottoscrizione promossa dal movimento antimperialista per la resistenza irachena sono soprattutto italiani, molti provengono dall’estrema sinistra, qualcuno dall’estrema destra34. Musulmani e stranieri se ne leggono pochi. Non che la tentazione di attribuire la colpa dei mali del mondo agli Stati Uniti e a Israele non sfiori gli immigrati marocchini, egiziani, tunisini, giordani, e gli imam che predicano nel nostro paese. Anzi. Ancora adesso in una moschea di Milano capita di domandare una riflessione sull’attacco al World Trade Center e sentirsi rispondere: «Nell’islam non si muove foglia che Dio non voglia...». Ma l’impressione è che giunti a questo punto la follia del terrore jihadista abbia spaventato soprattutto i mu63

sulmani, consapevoli dei pericoli che possono derivare dalla sia pur minima ambiguità di fronte al terrorismo. «All’inizio abbiamo sbagliato, siamo stati un po’ troppo chiusi, probabilmente in quel modo abbiamo attratto degli estremisti», ammette Abdel Hamid Shaari35. L’inizio è il 1991, quando da viale Jenner partono i primi aiuti per i fratelli bosniaci della ex Jugoslavia e l’intelligence italiana comincia a interessarsi di quella realtà milanese fino allora ignorata. Ancora oggi il centro compare nella lista nera delle associazioni considerate terroriste dagli Stati Uniti. «Quindici anni fa in Bosnia sostenevamo le iniziative sociali, ma non nego che attraverso di noi qualcuno sia passato a combattere con la resistenza. In moschea transitano tante di quelle persone che controllarle tutte è difficilissimo, a volte abbiamo lasciato carta bianca un po’ troppo alla leggera. Oggi però è diverso, andiamo verso la trasparenza e non siamo più nel ghetto: l’8 luglio, ventiquattr’ore dopo gli attentati di Londra, ero in un ufficio della Digos per ragionare sul da farsi. Che nonostante questo Washington ci consideri nemici mi dispiace, ma so che lì funziona così, si procede per moduli acritici, la velina viaggia da un ufficio all’altro e tu ti ritrovi col marchio indelebile di terrorista». L’America è lontana, l’11 settembre sembra un evento televisivo. Atocha, la metropolitana londinese, l’omicidio del regista olandese Teo van Gogh, sono l’Europa, casa. «Hanno sbagliato gli inglesi a tollerare tanto a lungo le moschee dell’odio e fa benissimo Tony Blair a ripulirle – continua Abdel Hamid Shaari –. Ricordo la prima volta che vidi in tivù Abu Hamza, l’imam con l’uncino. Era il ’97, parlava in una trasmissione su al-Jazira e mi fece una pessima impressione. Pensai che non sapeva nulla del Corano e che era un ingrato perché continuava a sputare veleno contro la Gran Bretagna 64

che lo aveva accolto. Credo che su questo dovremmo essere chiari: nessuno ci obbliga a emigrare e se lo facciamo stipuliamo con il paese ospite quel che si chiama al-ahda, il patto di fedeltà. La conosco bene la leggenda per cui la Gran Bretagna avrebbe attaccato per prima la terra dell’islam e dunque il suo popolo meriterebbe d’essere colpito. Frottole! Inglesi e musulmani che vivono insieme sono lo stesso popolo. Poi certo, Blair ha preso una cantonata sull’Iraq, occupare un paese non è mai accettabile e i militari inglesi che sono laggiù vengono giustamente combattuti dalla resistenza. Ma quello è un altro discorso, lì c’è una guerra di liberazione in corso e i soldati della coalizione sono nemici da cacciare. Qui no: in Europa l’islam viene rispettato. Perciò ben vengano i provvedimenti d’allontanamento se gli stranieri non osservano le leggi, oltretutto in quel caso non sono neppure musulmani veri. D’altra parte in Italia siamo oltre un milione e nessuno ci tocca, se il governo decide di cacciar via qualcuno avrà i suoi buoni motivi». Ripete di auspicare collaborazione. Per questo se l’è presa quando non ha letto il suo nome nell’elenco dei convocati dall’ex ministro dell’Interno Pisanu per partecipare alla Consulta islamica. Viale Jenner, per ora, resta lontano dal Viminale. «Quando si avviano processi d’integrazione non bisognerebbe escludere nessuna realtà sociale, neppure le più restie al dialogo», dice Younis Tawfik, membro della Consulta islamica e convinto sostenitore della politica come antidoto al fondamentalismo. La prima riunione della Consulta ha stabilito gli obiettivi immediati: la palestra di convivenza rappresentata dalla scuola, la formazione degli imam per il controllo delle moschee, la valorizzazione del lavoro come strumento d’emancipa65

zione degli individui che li sottrae alla tentazione rassicurante del ghetto. La reazione della comunità marocchina all’espulsione dell’imam di Torino Bouriki Bouchta descrive la paura e il sospetto meglio di qualsiasi studio. «Povero Bouchta, per quel che se ne sa in giro si è sempre prodigato per gli altri», commentano amici e conoscenti. Ma non vanno oltre. Quell’accusa di connivenza con ambienti del terrorismo internazionale contenuta nell’ordinanza del ministero dell’Interno impone il no comment generale. Trapela l’angoscia di dire una parola di troppo ed essere accompagnati all’aeroporto per direttissima, ma anche il dubbio che magari qualche contatto poco raccomandabile l’amico Bouchta ce l’avesse pure, va a sapere. Nessuno può mai dire di conoscere a fondo il proprio vicino. E poi – azzarda qualche temerario – se anche Bouchta avesse dato una mano a un combattente che andava a difendere i fratelli massacrati in Cecenia, che sarà mai? Finché non succede niente in Italia... Eccola, la zona grigia a cui bisogna prestare attenzione: né con la legge, né con i terroristi. Un terreno pericoloso, tanto che il documento dell’Ucoii proibisce esplicitamente ai musulmani di fornire supporto materiale o logistico a «persone sospette in merito alla violenza» e li sollecita a denunciare «progetti di attentati di cui si fosse venuti a conoscenza». «Esiste uno spazio che sfugge al controllo» conviene Abdel Hamid Shaari, ma nega che lo si possa circoscrivere alle moschee. «Un conto è guardare con simpatia certi fenomeni terroristici perché sono commessi da connazionali o musulmani, altra cosa è la collusione. Nell’islam c’è un po’ di conformismo, condannare un fratello è un tabù. Un meccanismo simile alla simpatia che, tra i giovani di sinistra, accompagnava l’azione delle vostre 66

Brigate Rosse senza fiancheggiarla direttamente. Passare all’azione però è un salto di qualità. Per questo sono favorevole a controllare la predicazione degli imam, ci vogliono delle scuole ad hoc create d’intesa tra lo Stato italiano e gli atenei del Cairo. Noi da soli possiamo fare ben poco. Filtriamo sì, ma alla fine dobbiamo preparare il minestrone con le verdure che abbiamo...». Anche la grande moschea di Roma un bel giorno si è trovata a fare da megafono a un giovane e veemente predicatore mandato in Italia dall’università di al-Hazar. Uno di quelli sul genere dei colleghi di Finsbury Park, con il dente avvelenato contro l’Occidente «empio» e nemico giurato dell’«entità sionista». Una grana per l’ex ambasciatore Scialoja, il primo a segnalarlo all’autorità: «I giornali fecero un gran baccano, ma quando la storia venne fuori noi avevamo già denunciato il caso al ministero dell’Interno. Si aspettava solo il momento migliore per mandare via quell’invasato». Ci tiene a precisare la dinamica di quella vicenda: con l’islamofobia strisciante emersa negli ultimi anni nessuno può chiamarsi fuori dai sospetti, neppure loro che chiedono da sempre una sorta di messa a norma dell’islam italiano – un’intesa con lo Stato simile a quella stipulata già per altre confessioni – che solo l’incapacità di mettersi d’accordo ha impedito alle rappresentanze dei musulmani di ottenere. «Di noi dicono che siamo finanziati dai sauditi, ma solo il 55% dei soldi che riceviamo vengono da Riad e servono giusto per le spese correnti, le organizzazioni locali sono autofinanziate. Figurarsi che si è rotto uno dei vetri colorati della grande moschea: l’ho riparato di tasca mia. Inoltre, anche la Lega islamica mondiale fondata nel ’62 si è andata sfibrando, oggi solo due dei diciannove intellettuali che la compongono sono sauditi. E comunque tutte queste pun67

tualizzazioni lasciano il tempo che trovano: Osama è saudita, ma i kamikaze di Londra erano inglesi. La nazionalità non conta, il jihad militare è globale e non guarda in faccia nessuno. Proprio l’opposto del messaggio di Muhammad che in un hadit sulla guerra di difesa si raccomanda di non distruggere il bestiame, i campi agricoli, le donne, i bambini, i civili»36. Quando si parla di terrorismo islamista si tende a confondere mezzi e fini. Il giudizio dei musulmani d’Italia sui primi è implacabile: uccidere è per definizione antislamico perché il messaggio religioso, qualsiasi messaggio religioso, presuppone che solo Dio abbia la delega sulla vita degli uomini. Sugli obiettivi, al contrario, la discussione è pericolosamente aperta, quasi che Dio concedesse eccezionalmente a certi uomini e in certe condizioni permessi speciali per agire in sua vece. Nell’era della riscoperta del sacro questo significa l’autorizzazione all’iniziativa individuale, un’altra faccia di quella sindrome da religione prêt-à-porter da cui ha messo in guardia Benedetto XVI. Il 10 novembre 2005, quando due coniugi iracheni si sono fatti saltare in aria nell’albergo di Amman dove si celebrava un matrimonio (lei si è salvata perché la sua bomba non è esplosa), Kholud, una giovane donna palestinese che vive e lavora a Bologna è rimasta imbambolata davanti alla televisione: «Non era l’Iraq occupato, non era Israele, non era l’America di Bush né l’Europa filoatlantista e alleata dell’impero a stelle-e-strisce. Le vittime erano gli invitati musulmani di una qualsiasi festa di nozze musulmana ammazzati da terroristi musulmani che dicevano di voler difendere la terra musulmana aggredita dagli infedeli. E io non riuscivo a identificare il nemico».

4.

ISRAELE: IL NEMICO

Metti un giovane musulmano di nome Osama nel cuore del ghetto di Roma, il quartiere ebraico della Capitale, all’indomani del primo discorso del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad contro l’esistenza dello Stato d’Israele. Osama al-Saghir, studente di scienze politiche all’Università di Padova, guida l’associazione dei Giovani musulmani d’Italia (Gmi). Ai coetanei riuniti per il raduno annuale dell’Ugei (Unione giovani ebrei) dichiara che «le affermazioni di Ahmadinejad sono disgustose e ostacolano il percorso di convivenza pacifica in Terra Santa». Gli applausi salgono sinceri. Osama arrossisce, sapeva di parlare a una platea preparata ma era piuttosto teso. L’ha invitato il padrone di casa Tobia Zevi, nipote di Bruno Zevi, brillante ideologo dell’architettura contemporanea, e di Tullia, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane dal 1986 al 1998. Tobia ha organizzato l’incontro sfidando i dubbi di molti compagni: un congresso tanto aperto non ha precedenti nella storia dell’Ugei. Osama e Tobia, entrambi ventiduenni, si sono conosciuti all’inizio del 2004 durante un weekend interreligioso organizzato a Villa Altieri, nella campagna romana, ed è nata un’amicizia. Se la loro rimarrà un’esperienza individuale o se 69

invece riusciranno a condurre le rispettive organizzazioni su una strada comune lo dirà il tempo. Le prove di dialogo sono cominciate1. Israele rappresenta un complesso per il mondo musulmano, una specie di spazio interiore collettivo incandescente, intoccabile. Il convegno organizzato lo scorso anno a Lovanio sul tema Il martirio come categoria di azione politica ha analizzato centinaia di fatwa, i verdetti dei giuristi islamici, dividendole in tre gruppi. Meno del 5% dichiara legittimi tutti gli attentati suicidi, compresi quelli dell’11 settembre negli Stati Uniti e dell’11 marzo a Madrid. Un buon 10% li giudica sempre illeciti. Resta la grande maggioranza: la fatwa tipica per cui il lanciarsi a bomba contro civili inermi di per sé non sarebbe ammissibile ma lo diventa quando i musulmani «non hanno altro mezzo per far sentire la loro voce». Questa situazione, concordano i dottori in legge, si verifica solo in Israele: dunque, secondo loro, i «martiri» di Hamas vanno considerati un’eccezione tollerabile2. «Mi piacerebbe moltissimo visitare quella terra, ma oggi, anche se potessi, non lo farei per principio. Sai cos’è per noi marocchini la Palestina? È la causa dell’orgoglio arabo per eccellenza, lo impariamo sin da quando andiamo a scuola» spiega il trentunenne Karim, impiegato in un call center di Milano e grande sostenitore della resistenza palestinese. Indossa sempre la kefia bianca e nera avvolta intorno al collo, non se la toglie neppure d’estate. Dalla tasca dei jeans scoloriti sbuca un portachiavi di plastica rotondo con la foto di Yasser Arafat da un lato e dall’altro la grande moschea di Gerusalemme. È un vero militante, Karim, appassionato come solo gli idealisti. Ignora le dinamiche delle guerre arabo-palestinesi che si susseguono a partire dal 1949 ma non se ne cura. Quel che importa è l’effetto che han70

no prodotto: «Un’occupazione ogni anno più feroce sostenuta dagli americani». La storia è piena di sfumature e colpi di scena, gli Stati Uniti non hanno sempre tenuto per Israele e l’interesse dei palestinesi non è mai stato davvero la ragione dei conflitti mediorientali. Lui però non ha il tempo di formarsi un’opinione: lavora dalla mattina alla sera, la vita lontana da casa trascorre lentissima e al tempo stesso non lascia un istante libero per pensare. I pregiudizi s’insinuano subdoli nella testa dei giovani meno alfabetizzati e producono una miscela avvelenata di frustrazione e desiderio di rivalsa, la convinzione tutta araba d’essere i perdenti della storia e l’attesa messianica di un vendicatore. Un sondaggio del centro d’indagine Pew condotto in Marocco nel 2004 dava le azioni di al-Qaeda al 45% dei consensi, l’assassinio di occidentali in Iraq al 66%, il sacrificio dei kamikaze palestinesi al 75%3. A Casablanca, Tunisi, Damasco, mettersi in viaggio per Tel Aviv equivale a infrangere un tabù, violare una legge non scritta. Scrive Khaled Fouad Allam: «Ci sono viaggi che non sono viaggi, e nemmeno pellegrinaggi, perché hanno a che vedere con l’esperienza dei limiti. Andare a Gerusalemme, per me arabo e musulmano significava oltrepassare un confine mentale, psicologico, significava superare paure irrazionali: ma significava anche confrontarsi in prima persona con un secolo di storia, la storia del Medio Oriente e dello Stato d’Israele, la storia di due popoli che si trovano faccia a faccia, quello israeliano e quello palestinese». Nel 2005 la Fiera internazionale del libro di Gerusalemme gli ha offerto l’occasione di afferrare una realtà impalpabile come un pensiero: «In quell’esperienza erano contenute le contraddizioni del nostro passato, del mio passato. Tornavano in me in modo confuso ricordi e immagini dell’infanzia. La 71

settimana che precedette la guerra dei sei giorni, alla televisione, alla radio, nelle vie e nelle piazze – io abitavo ad Algeri – le folle impazzite gridavano ‘Al-Quds! AlQuds!’ (‘Gerusalemme! Gerusalemme!’), e io temevo di vedere mio padre andare in guerra per l’ennesima volta. Ma non vi andò. Si vedevano partire autobus e camion pieni di volontari: all’epoca il nazionalismo arabo si alimentava della questione d’Israele»4. Ancora oggi, ragiona Ali Rashid, la questione palestinese resta un riferimento mitico tanto per l’islam della diaspora quanto nel mondo arabo-musulmano: «La gente non sa nulla di noi, della nostra storia. Siamo solo una bandiera d’ingiustizia. Gli immigrati in particolare, sradicati dalle proprie origini, imparano a memoria gli slogan pescati a casaccio nella memoria dell’identità araba, ma sul conflitto in corso domina il pressappochismo». Con il risultato che i palestinesi hanno sempre raccolto e continuano a ricevere la solidarietà incondizionata della umma, ma al di là delle parole quasi nient’altro. «L’ideologia è una faccia posticcia della storia utilizzata per controllare le masse – continua Rashid –. Nel 1967 l’Egitto, la Siria e la Giordania entrarono in guerra con Israele per prendersi la terra, non per ricacciare a mare gli ebrei, alter ego imposto dei palestinesi. Ma la propaganda è proprio questo travestire da cause comuni gli interessi di parte. A chi sta veramente a cuore che un israeliano possa andarsene liberamente in giro per il mondo mentre un palestinese no? Molto meglio sventolare un’idea, specie quando dirotta l’attenzione dalla politica interna. Le nazioni arabe sono rette da regimi così apparentemente inossidabili che la popolazione, spesso in gran parte analfabeta, guarda la politica con sospetto, la considera appannaggio delle élite. Durante 72

tutta la Guerra fredda i governanti sono stati visti dai governati come fantocci degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica, satrapie corrotte, dinastie prepotenti incapaci di guidare un paese. Oggi poi, il verbo damaqrata, che in arabo indica il processo di democratizzazione, ha assunto l’accezione peggiorativa di imposizione esterna, un cambiamento preteso dallo straniero. La religione si avvantaggia di questo humus, va a incidere emotivamente sul senso d’inferiorità diffuso, cresce sulla debolezza. Guardate i palestinesi: più di sessant’anni d’occupazione feroce ci hanno messo in ginocchio. Così, nell’82, è saltato fuori Hamas: non avevamo mai avuto prima una forza islamica così organizzata, eravamo un popolo prevalentemente laico. Hamas ha raccolto l’esasperazione della gente comune e ne ha fatto la sua bandiera fino a diventare una forza politica, la più potente, la vincitrice delle elezioni. Inoltre c’è al-Jazira: gli arabi di tutto il mondo vedono ogni giorno in diretta cosa fa Israele ai palestinesi e si caricano»5. La Seconda intifada, la protesta popolare palestinese esplosa nell’autunno del 2000 dopo la provocatoria passeggiata di Sharon sulla Spianata delle moschee, a Gerusalemme, trova un formidabile megafono transnazionale: dal 1996 il satellite trasmette in tutto il mondo i notiziari e le trasmissioni di al-Jazira, la Cnn araba fondata dall’emiro del Qatar, una voce talmente neutra sugli attentatori di Hamas e del jihad islamico da preferire alla più diffusa e condivisa definizione di terroristi quella di shahid, martiri per la fede. Secondo il sociologo francese Gilles Kepel «al-Jazira e le sue consorelle raccontano quotidianamente le storie di una guerra in cui le ‘operazioni di martirio’ rappresentano altrettanti atti d’eroismo, in cui i telespettatori s’identificano con le vittime fatte dall’esercito israeliano, delle quali vedo73

no i funerali trasmessi in televisione. Essi si sentono a loro volta vittime di un’umiliazione generalizzata che lo Stato ebraico infliggerebbe alle masse musulmane con la complicità degli Stati Uniti e nell’indifferenza dell’Occidente»6. Nelle periferie delle grandi città e in quelle anomale come Torino, dove gli immigrati abitano quartieri centrali a ridosso della stazione, i condomini affittati agli stranieri si riconoscono dalla parabola sul balcone. Tre cose non mancano mai in casa di Khalidah, un’infermiera giordana residente da sette anni a Bologna: l’aria pregna d’odore di agnello stufato, un piatto color argento colmo di pistacchi e datteri piazzato al centro della tavola, la televisione accesa e sintonizzata su al-Jazira. Oltre alle partite di calcio, i talk show, i notiziari, la Tv qatariota ospita ogni settimana la trasmissione Sharia e vita condotta dallo sceicco egiziano Youssef al- Qaradhawi, uno dei leader dei Fratelli Musulmani e tra i religiosi sunniti più influenti della umma. Un predicatore che nei suoi sermoni del venerdì non ha mai smesso di ribadire l’impossibilità del dialogo fra ebrei e arabi «se non con la spada e il fucile»7 e ha giustificato in più occasioni «l’assassinio dei civili israeliani col pretesto che questi ultimi sono tutti, uomini e donne, riservisti dell’esercito, e dunque bersagli legittimi»8. L’islam italiano, se può, evita di affrontare il tema dell’antigiudaismo e lo confina nell’ambito delle opinioni personali per impedire che diventi il capro espiatorio dell’insoddisfazione sociale come in Francia, dove da alcuni anni l’emarginazione delle seconde generazioni di beur si manifesta attraverso la profanazione dei cimiteri ebraici e i raid notturni contro le sinagoghe, e dove l’odio per il sale juif, lo sporco ebreo, salda pericolosamente il bullismo arabo alla retorica antisemita dell’ultrade74

stra9. Ma poi, anche qui da noi, tra una battuta all’uscita dalla moschea e una riflessione sul ritiro di Sharon dalla striscia di Gaza, rispunta sempre fuori la vecchia animosità contro «l’entità sionista», un pregiudizio dalle radici così profonde da perdersi tra storia e leggenda. Quando il quotidiano «Il Foglio» ha lanciato l’idea d’una manifestazione pro Israele e contro le dichiarazioni del presidente conservatore Ahmadinejad, parecchi musulmani hanno raccolto l’invito, specialmente a titolo personale. Un gruppo di cittadini iraniani e di italiani d’origine iraniana ha sottoscritto immediatamente un manifesto di condanna di quelle affermazioni perché, come sottolinea Farian Sabahi, «Israele non è un’entità astratta ma un paese dove vivono milioni di abitanti, compresi i pacifisti di Peace Now e i refusenik che rifiutano di prestare il servizio militare nei Territori occupati. Tra l’altro, molti israeliani hanno legami con l’Iran e lo stesso presidente dello Stato ebraico è nato e cresciuto nella città iraniana di Yazd. Sono migliaia gli iraniani di fede ebraica ancora residenti nella Repubblica Islamica dove, come i cristiani, hanno dei seggi riservati in Parlamento, segno del rispetto per le minoranze religiose in uno Stato dove, peraltro, le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno»10. Un po’ per convinzione sincera e un po’ perché in questo caso sarebbe stato imbarazzante non schierarsi, hanno aderito anche i ragazzi del Gmi – presieduto da Osama al-Saghir –, Khalid Chaouki – il più giovane membro della Consulta islamica –, Suad Sbai, Mario Scialoja e l’editorialista Magdi Allam, che il giorno dopo ha annotato sul «Corriere della Sera»: «Non è affatto usuale che dei musulmani partecipino a una manifestazione pubblica a difesa del diritto di Israele all’esistenza. Mentre osservavo decine di musulmani che affluivano nei pressi dell’Ambasciata iraniana 75

a Roma, mi sono domandato se l’avrebbero fatto anche qualora non ci fosse stata l’inammissibile minaccia di morte dello Stato ebraico proferita dal presidente Ahmadinejad. Per i musulmani d’Italia è veramente una condivisione del diritto alla vita di Israele o è più una presa di distanza da un regime teocratico indifendibile che insegue follie di stampo nazista?»11. I musulmani, in genere, sono riluttanti a pronunciarsi apertamente a favore di Israele. In molti prevale la preoccupazione di essere giudicati dal resto della comunità, il timore di tradire l’islam, il rispetto della fratellanza con i palestinesi, che in buona parte sono cristiani. Ma a grattare bene sotto la superficie emerge che spesso si tratta di una posizione ufficiale, posticcia, una specie di riflesso condizionato assai meno argomentabile e argomentato di quanto non sia l’antisemitismo occidentale. Pochissimi, per esempio, saprebbero elencare i capi d’accusa storici che l’islam contesta ab origine agli ebrei e che, secondo lo studioso Abd al-Hamid al-Ansari, ex preside della Facoltà della Sharia dell’Università del Qatar, sono alla base dell’atavica teoria della cospirazione ebraica: «Tra le ragioni per cui siamo ancora prigionieri di tesi la cui falsità è stata provata, come ‘I protocolli dei savi di Sion’, a cui ormai crediamo più solo noi, ci sono alcuni passi della Sira, la biografia di Muhammad. Vi si lascia infatti intendere che l’ebreo Abdallah ibn Saba fomentasse le divisioni politiche e i grandi conflitti che scoppiarono tra i compagni del Profeta e finirono per indebolire il potere musulmano. Da lì deriva quella frattura insanabile che si risolverà solo il Giorno del Giudizio quando gli ebrei si nasconderanno dietro la roccia e questa rivelerà ai musulmani: ‘Oh servo di Allah, o musulmano, un ebreo si nasconde dietro di me, vieni a ucciderlo’»12. Leggende metropolitane simili a quelle stu76

diate dallo psicologo americano Martin Bourgeoris, da anni alle prese con la genesi dei miti moderni che si propagano via internet e alimentano razzismo e superstizione13. La maggioranza silenziosa dei musulmani d’Italia aggrotta le sopracciglia con disapprovazione appena sente nominare Israele perché, spiega, lo associa automaticamente all’oppressione dei palestinesi, ma finisce lì: non tutti interpretano ogni evento come se fosse determinato da un ebreo burattinaio, tanti considerano la religione assolutamente compatibile con la ragione e, in privato, senza indugi, difendono il diritto alla vita degli israeliani, degli americani, degli inglesi, degli ebrei e dei cristiani, convinti che il rifiuto dell’odio non tradisca in alcun modo i precetti coranici. Poi ci sono quelli che non esitano a esporsi con affermazioni clamorose e ottengono la ribalta mediatica. Hamza Roberto Piccardo per esempio, non ha mai negato l’avversione all’esistenza stessa dello Stato d’Israele, neppure a ridosso dell’Israel Day. Avversione politica e personalissima, specifica sempre: la linea ufficiale dell’Ucoii appoggia la soluzione «due popoli e due Stati». Piccardo no: «Credo che ci sia una sola nazione possibile da edificare sulla Palestina mandataria affidata agli inglesi dalla Società delle Nazioni. Lo Stato degli ebrei non ha alcun diritto né fondamento, è un paese coloniale nato dalla pulizia etnico-religiosa: se fosse accettabile una casa per pochi intimi che sorte toccherebbe ai milioni di fedeli delle altre religioni che vivono laggiù? Possiamo accettare che siano considerati cittadini di serie B? Sogno uno Stato democratico di Palestina per ebrei, musulmani e cristiani, senza religione ufficiale, costruito sul voto. Con uno Stato israeliano e uno palestinese non ci sarà mai pace perché il primo avrà sempre gli autobus con l’aria condizionata e il secondo le fo77

gne a cielo aperto». Piccardo rifiuta l’eccezione di uno Stato confessionale che, a suo parere, non ha eguali nemmeno nell’Iran degli ayatollah: «L’Iran è una repubblica islamica, una democrazia incompiuta. Magari fosse una vera teocrazia... Mi direte piuttosto che il governo di Teheran non rispetta davvero l’etica islamica, che avalla una doppia linea di condotta, la morale di Stato e quella dei cittadini. Ma anche noi su questo siamo campioni d’ipocrisia: vietiamo la marijuana e di nascosto tutti fumano, l’Iran vieta l’alcol e di nascosto tutti bevono. Che differenza c’è? Ogni popolo si sceglie la propria strada più o meno tortuosa verso la laicità. Israele è diverso: è lo Stato degli ebrei disegnato per gli ebrei sulla terra di altri»14. La teoria dell’eccezione d’Israele giustifica affermazioni spericolate e complica parecchio la vita a tutti quei musulmani che non ce l’hanno affatto con gli ebrei in quanto tali ma sono semplicemente critici con l’occupazione e la politica dei coloni. Quando il dibattito prende una piega manichea, le contraddizioni si appiattiscono fino a scomparire. Nell’ambiente degli italiani convertiti all’islam in particolare, la questione israelo-palestinese si mescola a umori antichi, retaggio culturale dell’estremismo degli anni Settanta che Renzo Guolo legge alla luce della crisi delle ideologie: «Sinistra e destra radicale condividono l’esperienza d’una politica totalizzante e attraverso l’islam militante e rivoluzionario rinnovano l’impegno quasi religioso di ieri. Un impegno che si traduce nel comune rifiuto del modello americano e nella questione palestinese come catalizzatrice d’istanze diverse, dalle rivendicazioni autonomiste contro l’occupazione israeliana all’antisemitismo di destra»15. Ci sono i convertiti come il ceramista Elvio Arancio, 78

un sufi innamorato delle poesie di Rumi («Poi che son servo del Sole; notte non sono, né adoratore delle notti, non parlerò di sogni...») e della musica di Franco Battiato sin dai tempi di Centro di gravità permanente, che non esclude di organizzare un bel viaggio in Israele prima o poi, con i bambini e la moglie «agnostica». Nessuna avversione a priori, nonostante l’adolescenza sessantottina e il sostegno politico-ideologico all’Olp: «Non so piuttosto se mi vorrebbero loro, dato che sono musulmano, ma a me piacerebbe. Piuttosto l’unico paese al mondo dove non metterei piede è l’Arabia Saudita. Checché mi biasimino gli amici ortodossi credo che rinuncerò al pellegrinaggio a La Mecca finché ci saranno al potere quei dittatori lì»16. Altri invece hanno trasferito nella retorica islamista gli antichi pregiudizi. Da sciita ultraortodosso, Ammar De Martino segue ciecamente i dettami del Consiglio dei guardiani della rivoluzione: se non fosse che Allah l’ha fatto nascere in Italia per diffondere il Corano tra gli infedeli, ripete, si sarebbe già trasferito a Teheran con la moglie velata da capo a piedi. Su Israele, nemmeno a dirlo, si schiera con Ahmadinejad. Boicotta «la terra dei sionisti» da quando militava con i fascisti di Ordine Nuovo e guai a criticare i «partigiani» palestinesi che hanno abbandonato le pietre per la cintura esplosiva: «Sono eroi e vanno rispettati. Uccidere è peccato dovunque, ma la Palestina è diversa. In Iraq per esempio, c’è un terrorismo spietato che ammazza gli sciiti impegnati nella sacrosanta costruzione di un governo autonomo, regolarmente eletto e tutt’altro che filoamericano. Un governo benedetto da Allah, subhanahu wa-Taala, gloria a Lui l’Altissimo. In Palestina no: i martiri s’immolano per il loro paese legittimamente perché il Corano autorizza i musulmani a uccidere quando c’è in ballo la difesa della vi79

ta, del territorio, dei propri cari. Perché gli ebrei si sono stabiliti proprio lì? Non potevano porsi il problema di chi c’era prima? L’esistenza d’Israele è un’assurdità geografica e politica. Quella palestinese è una guerra di liberazione bella e buona, altroché l’assurda macelleria di Baghdad»17. Proviamo a ricapitolare: i kamikaze di Hamas e del jihad islamico non sono assassini? «No». Neppure se colpiscono bambini ebrei? «Anche gli ebrei ammazzano i bambini palestinesi». Occhio per occhio, insomma? «Quando i musulmani sono attaccati devono rispondere». E se domani palestinesi e israeliani si mettessero d’accordo per la soluzione «due popoli due Stati», la umma l’accetterebbe? «Dipende da cosa disporrebbero in quel caso le autorità religiose. Io mi attengo alle indicazioni della sharia e oggi non andrei mai in Israele, non lo riconosco. Non sopporto la vocazione sionista in sé, gli ebrei vivano pure tranquillamente dovunque ma senza pretendere uno Stato etnico e religioso tutto per loro: in fondo sono stati per secoli sotto l’ala protettrice della mezzaluna...». «La storia della pacifica convivenza tra arabi e ebrei all’epoca del califfato sta diventando una scusa per negare il presente», nota padre Samir Khalil Samir, un vivace gesuita egiziano dai capelli tutti bianchi che insegna scienze religiose all’università di Beirut e collabora con la rivista «La civiltà cattolica». Raffinato conoscitore della teologia cristiana e del pensiero islamico nonché dell’Italia, dove trascorre almeno una settimana al mese, ritiene che l’antisionismo politico delle giovani generazioni di musulmani si stia trasformando gradualmente in antigiudaismo, complice anche qualche passo del Corano: «Una delle prime azioni belliche di Muhammad fu eliminare le tre tribù ebraiche di Medina. Alcuni versetti dicono chiaramente che gli ebrei de80

vono essere umiliati, sono dimmi, come i cristiani, gente del libro ma cittadini di serie B»18. Molti obiettano che è impossibile accusare gli arabi di antisemitismo essendo loro stessi semiti, ma padre Samir replica che mentre gli uomini perdono tempo ad assegnare un nome alle cose le cose accadono: «All’origine c’è la politica, ovviamente. Anche io ritengo che la creazione dello Stato d’Israele sia stata una terribile ingiustizia. Ma ormai è fatta. L’unica alternativa al caos è la legge internazionale: Israele esiste legittimamente e deve, sottolineo deve, rispettare i confini stabiliti dalle risoluzioni delle Nazioni Unite. I governi arabi però, a forza d’istigare i popoli contro lo spettro sionista per tenerli distratti da quanto accadeva in patria, hanno generato un mostro che catalizza ormai tutte le frustrazioni: non si addita il nemico israeliano ma l’ebreo transnazionale e malvagio, responsabile di ogni malefatta». L’ebreo nemico. Un topos della mitologia musulmana che Yahya Sergio Yahe Pallavicini fa risalire al 622, i tempi di Medina, molti secoli prima della dichiarazione di Balfour, le origini dell’islam: «All’inizio il profeta Muhammad orienta la preghiera in direzione di Gerusalemme per guadagnarsi le simpatie delle famiglie ebraiche più ricche. È isolato, cerca alleanze. Ma quelli non lo riconoscono come profeta. Così, dopo un anno e mezzo, rivolge la preghiera a La Mecca, verso gli arabi pagani, e porta il digiuno da un giorno, alla maniera ebraica, a un mese. Quando è sufficientemente forte si scatena contro gli ebrei, confisca i loro beni e li ridistribuisce tra i musulmani. La vittoria, celebrata ancora oggi dai palestinesi, arriva dopo una battaglia di quarantacinque giorni combattuta in un’oasi vicino La Mecca»19. Che una storia tanto lontana possa tornare d’attualità nell’immaginario eroico dei palestinesi è per Ali 81

Rashid la prova di quanto la religione abbia condizionato entrambe le parti, sin dal principio: «Prima che l’idea biblica della terra promessa si frapponesse tra noi e loro, vivevamo uno accanto all’altro senza fratture, separati solo dall’appartenenza alle varie tribù. C’erano screzi sì, scaramucce, normali scontri tribali. Gerusalemme invece è diventata per entrambi un simbolo divino, non barattabile, unica e indivisibile». Younis Tawfik vede nella questione di Gerusalemme l’esempio della metamorfosi dell’islam da religione politica delle origini a partito politico religioso definibile solo dal contrasto con l’avversario: «Al-Quds, come la chiamiamo in arabo, è il terzo luogo sacro dell’islam dopo La Mecca e Medina. Ha una valenza religiosa molto importante. All’inizio i musulmani si rivolgevano là per la preghiera. E una notte, raccontano gli hadit, Muhammad vi si recò per omaggiare il profeta Gesù prima di ascendere al cielo. Una città che l’islam ha sempre sentito sua senza per questo ripulirla dalle tracce di altre culture». Dopo la guerra del 1967 e l’occupazione israeliana le cose sono cambiate. «Gerusalemme è diventata l’icona dell’islam sottomesso, non più la città terrena che i musulmani custodiscono per tutti ma il campo di una battaglia più grande e di durata più lunga della politica»20. «Il terreno è insidioso perché in Terra Santa s’incrociano il tempo del mito e quello della cronaca», ammette Feras Jabareen. «In moschea ci diamo un gran da fare a condannare i kamikaze di al-Qaeda e l’indottrinamento islamista contro l’Occidente considerato empio. Ma poi, quando mi vengono a chiedere conto dell’umiliazione sistematica dei palestinesi, delle vittime dell’occupazione, della sproporzione di forze in campo, il discorso si sposta dal piano della violenza gratuita a quello della vendetta. Un musulmano sta in difficoltà di 82

fronte alla situazione della Terra Santa. Cerco sempre di non fare distinzioni, uno che ammazza civili o bambini è sempre un terrorista a prescindere dalla disperazione che lo spinge. Ma quei video che i kamikaze lasciano in eredità prima d’andare a farsi esplodere sono scioccanti e hanno un impatto emotivo potentissimo. Quel conflitto mette in difficoltà anche un musulmano moderato, è inutile girarci tanto intorno: è la chiave di volta per la stabilità del Medio Oriente e del mondo»21. Chiunque alimenti la fabbrica dell’odio è responsabile, eppure tocca ai musulmani spezzare il cerchio della violenza, sostiene Majid El Houssi: «È ora di riconoscere che dobbiamo parlare con Israele. Quelli che l’hanno fatto ufficialmente, come il presidente tunisino, hanno pagato e continuano a pagare il prezzo dell’ostracismo popolare. Chi in cuor suo crede che la pace valga bene un passo indietro preferisce tacere. Ma gli intellettuali non possono più stare zitti e nascondersi dietro lo stereotipo del nemico in divisa armato fino ai denti. Quando il superfalco Sharon ha richiamato l’esercito da Gaza avremmo dovuto gridare senza vergogna ‘Viva Sharon’. Probabilmente solo un uomo della destra storica poteva osare tanto»22. Tra gli estimatori italiani dello Sharon del ritiro c’è Abdel Hamid Shaari, un insospettabile, nel cui centro di viale Jenner, specialmente in passato, la propaganda antisraeliana ha trovato benevola ospitalità: «Gli arabi fingono di non vedere che in Israele c’è democrazia e che il governo, anche il peggiore, alla fine agisce secondo regole democratiche. A Tel Aviv la gente va in piazza a protestare e non viene massacrata, cosa che avviene invece regolarmente nelle nostre città. Provate a immaginare cosa sarebbe successo in un qualsiasi paese arabo in una circostanza analoga all’evacuazione da Ga83

za, con i coloni che disobbediscono ai militari e si arroccano nelle case. Avremmo visto botte da orbi, violenza, perfino qualche morto»23. Proprio così, pur premettendo di non capire come un popolo che ha subito la Shoa possa trattare un altro popolo in modo «nazista», Abdel Hamid Shaari ritiene che la questione palestinese si sia trasformata in realtà in una più ampia e generica questione araba: «Certo, la rivendicazione israeliana della terra promessa in sé è una forzatura storica, sarebbe come prendere sul serio quelli di noi che sognano di riconquistare l’Andalusia. Ma è un problema secondario. La verità è che la bandiera della Palestina sventola sul mondo arabo ogni volta che i nostri governanti sono in difficoltà. Lo fece Nasser nel ’67. Subito dopo la Libia cacciò tutti gli ebrei espropriando loro i beni che oggi spero vadano a reclamare. È una vecchia storia che ostacola la creazione di due Stati per due popoli: una volta sciolto quel groviglio, a cosa si appellerebbero i nostri dittatori per sedare il dissenso interno? Per questo il Cairo o Tripoli lanciano proclami più palestinesi dei palestinesi». A Gaza e Ramallah però, la gente ha imparato da un pezzo a contare solo su se stessa diffidando dell’illusoria solidarietà della umma. «Parliamo lingue differenti. I palestinesi, poveracci, sono pronti a negoziare pur di vivere in pace. E noi inneggiamo alla falsa vittoria di Hamas sul ritiro da Gaza e difendiamo i kamikaze con la scusa che gli israeliani sono tutti militari in servizio effettivo o potenziale, donne e bambini compresi. Scuse! Ci sono altri modi per combattere un esercito, pure agguerrito come Tsahal. C’è la rivolta delle pietre della Prima intifada, che procurò ai palestinesi molte simpatie. Le bombe sono terrorismo e basta». La difficoltà è andarlo a spiegare a chi è cresciuto nell’umiliazione quotidiana e nella convinzione 84

di essere un cittadino di seconda categoria e ha imparato a definire la propria identità attraverso l’odio per il «nemico sionista»: «Le invettive delle moschee italiane sono politiche non religiose. Da molto tempo ormai le abbiamo messe al bando, ma è un lavoro lungo: quelle prediche avvelenate fanno parte della letteratura popolare. È compito dei rappresentanti delle varie comunità e degli imam spiegare la verità agli immigrati che arrivano qui pieni di pregiudizi contro Israele». «L’ossessione araba per la Palestina è un mito mediatico completamente estraneo alla routine della gente», osserva Suad Sbai. Incontra ogni giorno tante donne immigrate dal Magreb, i mariti, le loro famiglie, vite così precarie da non potersi permettere il lusso dell’ideale: «Credete davvero che nelle nostre conversazioni quotidiane discutiamo di Sharon, del Likud, dei campi profughi o dei coloni? Gli intellettuali, forse. Le persone comuni mai. È un argomento di cui gli immigrati parlano solo quando vengono interpellati dai giornali: hanno imparato a casa che quello è il capro espiatorio con cui prendersela per qualsiasi difficoltà ed esternano così le loro frustrazioni. D’altra parte però, difficilmente incontrerete per la strada un musulmano disposto ad ammettere che la decisione israeliana di ritirarsi da Gaza sia stata grandiosa e che sedersi al tavolo delle trattative sia ormai una strada necessaria»24. Quando nel 2003 a Taba l’attuale presidente palestinese Abu Mazen ha dichiarato di fronte al collega americano George W. Bush che il terrorismo danneggiava la causa del suo popolo, è stato licenziato da Arafat e tenuto lontano dall’agone politico fino alla morte del rais. Dopo il debutto politico di Hamas il suo posto è nuovamente in bilico. Ogni volta che i giurati dell’Academy di Hollywood propongono la nomination per film come Paradise now 85

del regista Hany Abu-Assad, selezionato nel 2005, si riapre un caso diplomatico: gli Stati Uniti non riconoscono la Palestina come nazione sovrana e, nonostante abbiano concorso tre volte nelle settantotto edizioni dell’Oscar, le pellicole palestinesi non hanno mai conquistato la prestigiosa statuina. La Palestina non esiste. Ha un bel ripetere il pubblicitario israeliano Dror Sternschuss che dall’automobile al collant tutto si può «piazzare», compreso un accordo tra i contendenti che preluda alla nascita dello Stato palestinese: forte di questa certezza ha sponsorizzato l’Iniziativa di Ginevra come un brand di sicuro successo25. La Palestina è uno Stato virtuale che non ha confini geografici e idealmente può essere disegnato dovunque: piccolissimo e frammentato all’interno di Israele, accanto, sopra. «L’imperialismo internazionale ha conficcato il cancro dell’entità sionista nel cuore del mondo arabo per ostacolare la nascita della nazione araba accomunata dall’unità del sangue, della lingua, della storia, della geografia, della religione, del destino», recitavano i libri di storia araba negli anni Sessanta e Settanta26. Sulla carta geografica Israele non compariva affatto: la Palestina si estendeva dal Giordano al Mediterraneo. Gli ex bambini che hanno studiato su quei testi nelle scuole elementari del Cairo, Algeri, Amman, vivono ora nelle nostre città, traditi una prima volta dall’utopia panarabista e poi dal sogno del riscatto occidentale. Israele c’è. La Palestina, come la grande nazione araba, no. Una realtà che nel 2005 in Italia non può essere modificata da una cartina geografica contraffatta, ma può essere spiegata in tanti modi. La prima edizione del Corano curata da Hamza Roberto Piccardo («mi è costata cinque anni di lavoro»), una delle sei versioni italiane pubblicate dal 1914 a oggi, conteneva alcune note 86

molto personali. La fatiha, il versetto che apre il Corano, tradotto «Guidaci sulla retta via, la via di coloro che hai colmato di grazia, non di coloro che sono incorsi nella tua ira, né degli sviati», era commentato: «Tutta l’esegesi classica, ricollegandosi fedelmente alla tradizione, afferma che con l’espressione ‘quelli che sono incorsi nella tua ira’ Allah indica gli ebrei (yahud)»27. Yahud che, secondo l’autore, «sono portatori di una pratica antispirituale e antitradizionale, che usa la religione per scopi di potere e che Allah ha condannato con grande severità». Dopo qualche mese e molte polemiche, Piccardo l’ha ripulita: «In passato ero condizionato da pensatori irriducibili. Siccome gli ebrei non hanno riconosciuto i Profeti, li ritenevo responsabili di tutti i mali del mondo. Un’idea sbagliata. Gli uomini si giudicano per quel che fanno, non per quel che sono»28. Tra i «pensatori irriducibili» c’è probabilmente Wagdy Ghoneim, un telepredicatore egiziano del canale saudita Iqra, espulso da Stati Uniti e Canada e più volte arrestato al Cairo con l’accusa di fondamentalismo. L’Ucoii l’ha invitato tre volte in Italia. «È un alim, un sapiente», afferma Piccardo. E non si scandalizza del fatto che abbia gridato «no ai giudei, discendenti dalle scimmie» perché «ha solo citato una sura che descrive la rovina d’un gruppo di pescatori ebrei del Golfo di Aqaba trasformati in scimmie da Allah per aver violato la legge del sabato». Nei paesi musulmani succede che i religiosi concludano il sermone elevando l’invocazione «Dio aiutaci ad annientare gli ebrei» e i fedeli, senza scomporsi, rispondano «Amin». L’islam italiano, negli ultimi anni, ha sollevato l’esigenza di una scuola di formazione per imam proprio per evitare che semianalfabeti indottrinati a Riad o a Karachi ed emigrati a Milano si autoincarichino 87

alla guida della preghiera del venerdì. È già successo. Quando nell’estate del 2003 l’imam Abdel-Samie Mahmoud Ibrahim Moussa ha concluso la predica alla grande moschea di Roma sentenziando che «dal punto di vista islamico non c’è alcun dubbio che le operazioni dei mujaheddin contro gli ebrei in Palestina sono legittime perché tutta la Palestina è dar al-harb, casa della guerra e tutta la società ebrea occupa illegalmente una terra islamica»29 i responsabili della struttura, disorientati sulle prime, si sono adoperati per l’espulsione. «Sappiamo dove conduce la logica alla Moussa – aggiunge Mario Scialoja, che allora avrebbe preferito risolvere la questione lontano dai riflettori –. Il passo successivo è sostenere che anche un ragazzino israeliano di sette anni è un target in quanto ebreo e merita la morte. Un delirio di onnipotenza che autorizza i sedicenti giustizieri dell’islam a disporre della vita altrui»30. «L’eccezione palestinese crea un precedente pericoloso. Se l’elemento cruciale diventa l’intenzione sincera, come negarla a priori ai militanti di bin Laden?», rilancia Massimo Introvigne, direttore del Centro studi nuove religioni31. Le solite pericolose domande. Se Ahmadinejad minaccia Israele per il bene dei palestinesi oppressi, come biasimarlo? Se al-Qaeda foraggia il terrorismo in Iraq per cacciare gli invasori americani equipaggiati con potenti armi all’uranio, chi ha aperto le ostilità? Gli amici Osama al-Saghir e Tobia Zevi se ne infischiano, guardano al futuro. A dicembre del 2005 Tobia ha organizzato a Roma un convegno sull’islamofobia intitolato Guerra e pregiudizio. Antisemitismo e islamofobia tra ostilità e convivenza proprio per indirizzare l’attenzione sul disagio dell’essere percepito come alterità temuta, un disagio comune ai musulmani quanto agli ebrei d’Europa. La mattina del 27 gennaio 2006, 88

Osama, pioniere tra i coetanei musulmani, ha preso il «treno della memoria» diretto al campo di concentramento Auschwitz-Birkenau con 1200 studenti piemontesi, un viaggio lungo e impegnativo alla scoperta di una storia non sempre raccontata alla lettera sui manuali della sua iniziazione scolastica32. Il dialogo comincia dal riconoscere qualcosa che si condivide. Come le decine di persone che ogni giorno varcano la soglia del Gastronauta, una rosticceria mediorientale aperta di recente nel centro di Torino. I titolari sono due ex compagni di scuola che dai tempi del liceo non hanno mai smesso di frequentarsi. Hamid è un iraniano sciita emigrato in Italia dopo aver preso parte alla rivoluzione khomeinista come baby-pasdaran. Ester è un’ebrea, nata e cresciuta nella città di Primo Levi. Bisticciano per ore, in cucina. La cottura della shishlike barre, le costine d’agnello, la quantità di bacche rosse nel riso allo zafferano zeresk polo, gli involtini di verza d’origine ashkenazita. Il ciolo kababe kubide, riso basmati e spiedini di macinato alla persiana, e i dolci kosher allineati uno accanto all’altro nella vetrinetta non sembrano affatto il prodotto di tradizioni diverse33.

5.

SE LA «UMMA» SOSTITUISCE LO STATO

Quando alcune maestre della scuola milanese Agnesi proposero di rinunciare al presepe in aula perché «politicamente scorretto» verso i bambini di altre fedi, le mamme musulmane furono tra le prime a protestare: «Gesù è un profeta anche per noi e il Natale è diventato ormai una festa di tutti a prescindere dall’appartenenza religiosa». Younis e i suoi fratelli Mohammad e Sued, originari di un paese a pochi chilometri da Tunisi e ora impiegati in una fabbrica di mobili dell’hinterland milanese, si scambiano regali la notte del 24 dicembre e spediscono Sms d’auguri ad amici e colleghi italiani. Pazienza per la scansione del calendario coranico: tra gli stranieri musulmani che risiedono in Italia il digiuno di Ramadan non è in contraddizione con il cenone della vigilia. L’immigrazione è molto più di un semplice trasferimento d’identità perché, scrive Khaled Fouad Allam, «il fatto di vivere in un’altra società implica in ogni caso una diluizione dell’identità di partenza: l’immigrato non è mai lo stesso di prima, perché è costretto a confrontarsi in un corpo a corpo con una realtà che gli è completamente nuova, e nel silenzio della società d’accoglienza la sua identità subisce una trasformazione»1. 90

Il crocefisso appeso nelle aule scolastiche, che da anni toglie il sonno al presidente dell’Unione musulmani d’Italia Adel Smith, lascia indifferente l’islam italiano. Resti pure dov’è, pensa la maggior parte dei genitori stranieri: se un domani dovesse partire anche qui una campagna alla francese contro l’hijab, quel simbolo religioso tollerato negli uffici pubblici sarebbe una garanzia per gli altri. Con Adel Smith si schierano piuttosto i laici come la finlandese italianizzata Soile Lauti o il giudice di Camerino Luigi Tosti, una contro il crocefisso nella classe dei suoi figli, l’altro deciso a farlo togliere dal tribunale, entrambi nemici dello Stato confessionale che faccia riferimento al Vaticano o ai dispotici ayatollah di Teheran. Salvo eccezioni, sempre segnalate dai giornali, la comunità musulmana convive senza troppi problemi con l’ordinamento italiano. Anche il caso della scuola coranica di via Quaranta, a Milano, con le mamme in piazza a chiedere per i figli il programma scolastico egiziano e le lezioni in arabo, riguarda poche centinaia di famiglie, molte delle quali italiane convertite all’islam. Tutti gli altri iscrivono i bambini alle materne, alle medie, alle superiori, nelle scuole pubbliche dove si formano i cittadini italiani di domani. Per questo gli attentati alla metropolitana di Londra hanno provocato un terremoto le cui scosse si avvertono a distanza di mesi: i kamikaze erano cittadini regolari, immigrati di seconda generazione in apparenza integrati al sistema sociale britannico. Inglesi per look, lingua, passaporto, inglesi uguali agli inglesi se non che provenienti da una zona grigia dove l’insoddisfazione e il rancore crescono indistinguibili dalla routine quotidiana. Secondo lo studioso canadese Michael Ignatieff, le nazioni sono sempre più «comunità immaginarie» che 91

frustrano l’umano desiderio di appartenenza e annacquano la passione giovanile per il gruppo, il clan, la famiglia allargata. Gli attentatori di Londra, per esempio, «potrebbero aver scelto di arruolarsi nella jihad per battersi in favore di una comunità immaginaria in grado di offrire loro un maggiore senso di appartenenza. Per la gioia di essere accettati e il piacere di sentirsi coinvolti, piuttosto di accontentarsi della misera consolazione di acquisire la cittadinanza in una società democratica»2. In questo senso la umma, la comunità internazionale dei credenti musulmani a cui anelano ricongiungersi i martiri della fede, pare compensare quella atavica mancanza identitaria offrendo una causa nobile per cui battersi, la difesa dell’islam. La paura degli inglesi, degli spagnoli, degli italiani, si nutre del sospetto che non esistano regole sociali condivise. Non si tratta solo della diffidenza per lo straniero, l’altro da sé, l’alieno. Si va diffondendo la convinzione che gli immigrati musulmani siano più diversi degli altri perché rispondono a un doppio codice di leggi, quelle dello Stato dove sono stati accolti e quelle superiori della umma, sinonimo d’una cittadinanza extraterritoriale che impone fedeltà assoluta, anche a costo di tradire i connazionali in carne e ossa, gli amici, i vicini di casa. È la preoccupazione per l’affermarsi di un credo assoluto che, ammonisce il poeta siriano Adonis, «non si limita alla sfera spirituale ma invade la politica, l’economia, la cultura»3. L’islam si basa sul dogma dell’unità divina, tawhid, che attraverso l’unità del cosmo filtra fino agli uomini, chiamati ad affermarla sulla terra. L’atto di nascita dell’islam coincide con quello della prima comunità musulmana, la umma, fondata dal profeta Maometto a Medina nel 622, anno I dell’egira. Culture differenti, razze, ca92

sati, si fondono allora intorno al valore universale della fede e costruiscono un modello mitico di organizzazione socio-religiosa regolata dal Corano. L’islamismo politico contemporaneo guarda alla umma medinese quando sogna la riunificazione dei paesi islamici sotto la sharia. È il riconoscimento della religione come cittadinanza, l’utopia panislamista dei Fratelli Musulmani: «L’islam non riconosce confini geografici né considera divisioni di razza e di sangue. I musulmani sono tutti intesi come un’unica nazione (umma) e la nazione islamica è anche essa unica per quanto distanti possano essere i suoi paesi e contesi i suoi confini». Il corollario che segue è una sorta di santa alleanza: «Quando gli arabi sono stati umiliati anche l’islam lo è stato […] Gli arabi sono, loro, truppe e custodi dell’islam. […] È dovere di ogni musulmano agire al fine di rivivificare l’unità araba e di sostenerla»4. Quel che rende ambigua la percezione dell’islam all’esterno è proprio questo suo porsi come religione sociale, onnicomprensiva. Una religione che, per dirla con le parole dell’imam Hassan al-Banna, fondatore e ideologo dei Fratelli Musulmani, «è dogma e culto, è patria e nazionalità, è religione e Stato, è spiritualità e attivismo, è libro e spada»5. In una parola, è tutto. Padre Samir Khalil Samir condanna l’islamofobia e il razzismo in crescita in Europa negli ultimi anni, ma ritiene che vadano interpretati come fenomeni di disagio, prodotto di una saturazione sociale per la convivenza con una comunità molto esigente. «C’è una onnipresenza dell’islam, che è la sua caratteristica e la sua forza. L’islam è din, wa-dunya, wa-dawla: religione, società e politica. Esso penetra fin nelle minime cose – afferma il gesuita egiziano –. In Italia, ad esempio, gli immigrati musulmani sono il 30-35% di tutti gli immigrati. Tutti gli altri, filippini cingalesi, peruviani, non pretendono 93

nulla in nome della loro religione, fanno la loro vita in tranquillità. Solo i musulmani pretendono. E in nome di che cosa? Solo per il fatto che nella loro mentalità religione e politica sono uniti. Un filippino che viene in Italia non pretende che vi sia una chiesa filippina. I copti, che digiunano almeno 200 giorni all’anno, senza bere o mangiare nulla, non hanno mai chiesto in nessun paese al mondo delle facilitazioni: il digiuno è un affare personale. Invece per l’islam questo è un affare di politica e quindi di potere»6. La natura «politica» dell’islam importata in contesti differenti da quelli originari apre due possibili scenari, la creazione di ghetti autosufficienti o il fiorire d’insiemi eterogenei di individui che non riescono ancora a diventare classe ma, a differenza di gruppi meno «visibili» come i cinesi, rivendicano rumorosamente il diritto alla partecipazione. Nel 2005 Farian Sabahi ha realizzato un’inchiesta sul diritto di voto tra i musulmani residenti nel comune di Alessandria da cui emerge grande curiosità per la vita istituzionale del nostro paese, alla quale otto su dieci degli interpellati vorrebbero partecipare: «Durante le interviste condotte sia in moschea tra i praticanti sia in altri luoghi, gli immigrati di religione e cultura musulmana hanno dimostrato molto interesse per la politica italiana, soprattutto perché le leggi promulgate nel nostro Paese impattano sulle loro vite, per esempio attraverso la legge sulla cittadinanza e le norme sull’immigrazione. Non ho invece riscontrato un interesse altrettanto forte tra gli immigrati provenienti dall’est Europa». La politica attira e mette i musulmani d’Italia di fronte alla contraddizione di partecipare senza tirare in ballo la religione. «Pur desiderando diventare italiani, e quindi volendo integrarsi, molti dei musulmani che ho incontrato 94

sentono comunque di appartenere alla comunità islamica, vale a dire alla umma, e la frequentazione della moschea diventa un modo per mantenere i contatti – continua Sabahi –. Per i musulmani d’Europa si pone quindi la questione delle leggi cui obbedire: quelle dello Stato dove risiedono oppure la sharia? Per l’integrazione è fondamentale rispettare le leggi dello Stato e, in base al principio di necessità, accantonare quelle islamiche è più che legittimo per il musulmano che vive in Europa. Il principio di necessità è stato applicato dagli imam in Francia nel caso del divieto del velo e dell’ostentazione di altri simboli religiosi»7. È convinta che alla fine, chiamati a scegliere tra l’obbedienza alla Costituzione e il richiamo dell’imam che recita il Corano, la maggior parte dei musulmani d’Italia non avrebbe dubbi: «Sceglierebbero lo Stato, anche perché gli immigrati sono motivati principalmente da due fattori: fuggono da regimi dittatoriali e trovano in Europa maggiori opportunità di istruzione e impiego. Questo stesso dilemma d’altra parte si pone nei Paesi del Medio Oriente dove le istituzioni politiche non hanno riferimenti alla sharia. In Iran, per esempio, esiste dal 1906 un parlamento, struttura rappresentativa di cui il Corano non fa menzione. Il potente Rafsanjani, eminenza grigia dietro le quinte, ha affermato una volta che la Repubblica Islamica aveva istituzioni non islamiche come il parlamento. Sono ottimista: se la politica riesce a trovare una strada nell’islam degli ayatollah, figuriamoci in quello della diaspora». Nel saggio Islam e democrazia la sociologa marocchina Fatima Mernissi ricostruisce le origini della storia politica islamica e mostra come la libertà di pensiero, la partecipazione politica, il rispetto dell’individuo che è alla base dello stato di diritto, siano parte integrante del 95

patrimonio musulmano, nonostante ulema e tirannici califfi le abbiano combattute sin dall’inizio con esiti alterni8. L’autrice ipotizza che proprio nell’individualismo asociale l’islam abbia intravisto e demonizzato il fantasma dell’epoca precedente, il paganesimo diffuso tra gli arabi prima della rivelazione monoteista di Maometto: un’epoca rimossa e condannata perché caratterizzata dal disordine e dalla devozione a feroci divinità che esigevano sacrifici umani. Cosa resta oggi della tradizione politica dell’islam che apriva la religione alla società e al confronto anziché chiudere i fedeli in un fortino isolato? Il Corano è un libro di preghiere universale che aiuta l’integrazione attraverso l’evoluzione dello spirito o un manuale di guerriglia per adepti? In una ricerca patrocinata dalla Commissione Europea sull’islam e la partecipazione politica, Stefano Allievi nota che – messi in condizione di scegliere – i musulmani privilegiano altre reti sulla fratellanza religiosa e recuperano «la vocazione universalista del culto originario, quando Maometto, che aveva un abissino tra i suoi primi seguaci, non si rivolgeva solo agli arabi ma a chiunque»9. In Gran Bretagna gli immigrati musulmani regolarizzati votano più degli inglesi, simpatizzano soprattutto per il Labour Party – anche se la campagna per i valori promossa dai conservatori sta facendo breccia –, ignorano i candidati indicati dalle moschee e assegnano alle liste etniche appena lo 0,2% delle preferenze. In Francia prevale l’astensionismo, ma i partiti islamici non raccolgono consensi. In Olanda vanno piuttosto bene le liste turche, che però pongono l’accento sull’identità nazionale anziché su quella confessionale. Da nessuna parte d’Europa insomma l’islam vota come un sol uomo e Stefano Allievi è convinto che eventuali formazioni islamiste non riu96

scirebbero a ottenere oltre il 4% dei seggi a Bruxelles. Ma allora, che peso politico ha la umma? «La umma è una tradizione etica e morale che non può avere rappresentanza politica», afferma l’ambasciatore Mario Scialoja, che ha accettato di far parte della Consulta islamica, ma lo considera un organo di consulenza esclusivamente culturale. La mancanza di un’intesa con lo Stato italiano rende l’islam una religione estranea, diversa dalle altre che invece, sin dall’iniziativa pionieristica dei valdesi nel 1984, hanno concordato patti di coesistenza10. Il confronto politico, sostiene Scialoja, avviene sul piano di un corpus di leggi condiviso e non ragionando in termini di una umma astratta: «Storicamente i Paesi musulmani si sono scannati peggio dei cristiani. Dove sta questa fantomatica fratellanza? Teoria, come i nobili versetti del Corano che incoraggiano a liberare gli schiavi nell’indifferenza del mondo arabo, dove invece la schiavitù è rimasta ufficialmente in vigore fino al 1960. La umma è la nostra chiesa. L’idea politica del dar al-islam invece, la terra dell’islam, è folle, il mondo oggi non è più divisibile in compartimenti stagni». La globalizzazione rende i confini geografici porosi: da una parte avvicina gli uomini e dall’altra elimina un riferimento identitario forte. Gli studenti europei che beneficiano del programma Erasmus e passano dalla biblioteca universitaria di Berlino alla videoteca della Sorbona di Parigi chiacchierando dell’ultimo film del regista americano Robert Altman con il compagno californiano come se l’Occidente fosse un unico infinito ateneo, vivono nella zona chic del villaggio globale. La prospettiva cambia se messa a fuoco dal quartiere dormitorio alla periferia di Firenze, dove i genitori di Mustafà tornano ogni sera dopo la fabbrica, soddisfatti di aver 97

contribuito in qualche modo all’economia di un paese che pure li considera figli di serie B. Alì e Amina sono sbarcati a Lampedusa nel 1989, Mustafà gattonava appena. Tuttavia dieci anni di residenza possono non essere sufficienti alla promozione: il riconoscimento della cittadinanza è a discrezione del governo italiano, e per loro, evidentemente, non è ancora il momento giusto. A Mustafà comunque non interessa. «Sono musulmano», risponde a chiunque gli chieda di parlare di sé. Il suo Egitto è un collage postmoderno di fotografie, impressioni fugaci ricavate da qualche visita estiva ai parenti rimasti al Cairo, ricordi rubati ai racconti di mamma e papà. Mustafà è il prototipo di quelli che il sociologo tedesco Ulrich Beck chiama «i giovani superflui delle periferie», ragazzi occidentalizzati ma orfani del contesto d’origine al punto da produrre il paradosso per cui «la mancata integrazione dei genitori attenua i conflitti, mentre l’integrazione riuscita della generazione dei figli li aggrava»11. Nella moschea, che frequenta insieme all’amico Rashid, Mustafà ha imparato che l’identità musulmana ingloba e supera quell’incertezza dolorosa di non essere più un arabo doc ma non ancora, e forse mai, un vero italiano. «Sta nascendo una solidarietà islamica internazionale basata sul fondamentalismo – osserva Ali Rashid –. Fino ad alcuni anni fa marocchini e tunisini erano nemici giurati, come cani e gatti. Ora, messi in crisi entrambi da un ego vago, accantonano le ostilità e si uniscono in nome dell’islam»12. Un risveglio di «oltranzismo confessionale» che Rashid osserva con preoccupazione anche nel cristianesimo, in particolare in quello puritano americano, e nell’ebraismo. Al punto da avanzare l’ipotesi che all’origine delle nuove rivendicazioni identitarie di tipo etnico o religioso ci sia la profonda in98

certezza delle civiltà anziché lo scontro tra colossi teorizzato dal professor Huntington. Abdel Hamid Shaari esclude che i kamikaze di Londra, con la loro ingannevole integrazione, siano rappresentativi delle seconde generazioni d’immigrati. Ne conosce parecchi, li incontra alle riunioni del centro islamico di viale Jenner, dice che potrebbe giurare sulla buona fede di quasi tutti. Ma ammette che un problema di «doppia cittadinanza» esiste: «Di fronte al conflitto in Iraq il musulmano farà sempre il tifo per l’Iraq di Saddam o, adesso, per i ribelli. Così come in Cecenia, in Bosnia, nella Palestina occupata, in Afghanistan. Dovunque l’islam sia in guerra vediamo accorrere da tutti i paesi gruppi di musulmani volontari pronti ad arruolarsi contro gli infedeli. Il 99,9% di noi condanna il terrorismo, sappiamo benissimo per esempio che un attentato in Italia ci metterebbe in ginocchio. La nazionalità viene prima dell’islam. Ricordate però la simpatia tacita che accompagnava da lontano le azioni delle Brigate Rosse italiane? Con i kamikaze che s’immolano in nome di Allah avviene la stessa cosa, ci sono tra noi fratelli che non li seguirebbero mai ma, nell’intimo, ne approvano l’azione e ammirano il loro coraggio»13. «È dai tempi del califfato che ci portiamo dietro la confusione fra umma e Stato», ragiona il professor Majid El Houssi: il sospetto dell’Occidente è «legittimo». L’uomo islamico contemporaneo «sta sospeso in una zona grigia tra il mito e la storia»14. Da una parte ci sono i concetti paralleli di comunità islamica, umma, e cittadinanza, watan, che possono essere manipolati ad arte da predicatori interessati ad alimentare il caos. Umma e watan o umma in alternativa a watan? Un rischio denunciato da anni dalle gerarchie cattoliche allarmate da una confessione che «non è solo una fede personale, 99

bensì una realtà comunitaria molto compatta in cui una parola d’ordine lanciata da qualche voce autorevole al momento opportuno può ricompattare o ricondurre a unità serrata anche i soggettivismi o i sincretismi religiosi vissuti da un singolo individuo»15. Dall’altra c’è la genesi dello Stato-nazione nella storia islamica che, lungi dal nascere spontaneamente dall’esperienza indigena, viene invece importato dall’Europa. Il sociologo Adel Jabbar osserva che «nel mondo arabo-islamico non è mai esploso un contrasto fra potere religioso e potere temporale paragonabile a quello che è avvenuto in Europa, perché né la moschea svolgeva un ruolo simile a quello della chiesa né la presenza del municipio era paragonabile alla funzione del potere borghese europeo. Entrambe queste istituzioni in Europa erano rappresentative di ceti e classi diverse per collocazione sociale e disegno politico, mentre nelle società musulmane queste formazioni sociali non hanno trovato le stesse condizioni per poter nascere e svilupparsi. L’idea di nazione di matrice europea, trapiantata nel mondo musulmano, si trova così di fronte a un non-senso in rapporto alla concezione di comunità, sorta proprio dall’esperienza di Medina, secondo la quale il superamento delle divisioni tribali, se vogliamo delle ‘piccole patrie’, si basa sulla creazione di una coscienza comune, fondata sull’appartenenza alla fede islamica»16. In altre parole, la fede come fondamento della prima struttura statale costruita intorno all’identità islamica che resta però legata alle consuetudini tribali, dalla discendenza alla simbiosi con il territorio. Un’origine estranea a quella dello Stato-nazione europeo che si afferma invece successivamente: «La massa resta lontana dal cosiddetto processo di modernizzazione, appannaggio di una élite modernista e vassalla ai centri dell’impero che non è riuscita a rea100

lizzare né le condizioni per la partecipazione della società civile né la tutela degli interessi della propria gente. Il problema di fondo è l’assenza di una vera teoria dello Stato ancorata nella realtà sociale. Manca in definitiva un’idea morale dello Stato e questa carenza finisce per legittimarne uno qualsiasi, fosse pure, come lo è di fatto, fondato sulla forza bruta». «Non ho mai votato», confessa timidamente Amir, mentre si avvicina al seggio simbolico delle primarie dell’Ulivo allestito allo storico bar Ciccio di Bologna. Amir ha quarantacinque anni, è arrivato da Islamabad nel 1996 con un curriculum da ingegnere edile e dopo aver trovato lavoro in un cantiere ha chiesto il ricongiungimento familiare con la moglie Zara e la piccola Amina. Ora che vivono tutti e tre nel capoluogo emiliano, Amir si sente un po’ meno straniero in Italia: la domenica porta a spasso fiero le sue donne velate, ha uno stipendio buono, può pregare in moschea. La cittadinanza è ancora un miraggio ma le elezioni per scegliere il candidato premier del centro-sinistra, aperte anche agli immigrati, gli sono sembrate un’opportunità: «Simpatizzo per questa parte politica e ho deciso di provare a votare. Lo so che questa volta la cosa ha solo un valore formale, ma domani chissà... Sono molto emozionato, nel mio paese le elezioni sono una specie di farsa e comunque non ho mai votato, non so neppure bene come si fa». È una storia che si ripete, la maggior parte dei musulmani emigrati in Italia proviene da paesi estranei alla pratica dell’alternanza politica. Come Rafik, che fa il tifo per la proposta di legge sul voto agli immigrati sponsorizzata da Gianfranco Fini e sogna di candidarsi anche lui un giorno, magari nelle liste della sezione del Carroccio di San Salvario, a Torino, dove di tanto in tanto passa a dare una mano all’uscita dalla fabbrica17. 101

Nel caso di Amir e Rafik il voto è un indicatore sociale, simbolo di partecipazione politica e termometro del grado d’integrazione. I musulmani che arrivano in Europa sono orfani del proprio habitat e devono riposizionarsi in una società agli antipodi di quella islamica tradizionale, dove la sfera pubblica ha divorziato da quella intima e la religione è una questione privata. Khaled Fouad Allam spiega che il rapporto tra islam e immigrazione non si esaurisce nell’interpretazione dei testi sacri, il Corano e la sunna, ma coinvolge anche il territorio in quanto strumento di strutturazione delle comunità musulmane: «La logica del territorio che esprime la comunità è assente in Europa e in Occidente, e ciò comporta una maggiore individualizzazione della fede. La fede e la pratica religiosa in Europa non risultano più da una coercizione dello Stato, ma da una scelta individuale, proprio perché i musulmani in Europa vivono in una società che non incoraggia affatto un islam di tipo passivo, e in cui l’adesione alla fede e alla prassi religiosa deve essere sempre rinnovata [...] Nell’islam dell’immigrazione l’identità religiosa assume una matrice individuale, risultato di una scelta personale e non di un controllo comunitario»18. La raffigurazione della umma compensa nell’immaginario la solitudine esistenziale dell’esilio, un po’ come le chat soddisfano in Rete il bisogno di aggregazione della società occidentale sempre più atomizzata. Anche per il mondo musulmano internet è il veicolo privilegiato d’informazione, comunicazione, divulgazione. Gli imam più radicali predicano contro il materialismo euro-americano ma diffondono online i loro sermoni e affidano le fatwe, i pareri giuridici islamici, alla lingua universale del web. Mustafà, Zarra, Amir, Rafik, sono vicini di casa, colleghi di lavoro, accompagnano i figli nelle scuole e nel102

le piscine frequentate dai ragazzi italiani e cattolici. La grande famiglia musulmana, invece, è un’entità astratta, senza volto, uno spazio altro, parallelo a quello sociale, in cui i musulmani della diaspora recuperano l’identità. «Lo Stato-nazione nell’islam è dunque un concetto ideologico non territoriale – scrive Panayotis Vatikiotis, docente di studi orientali e africani all’università di Londra19 –. Esso comprende la comunità dei fedeli o dei credenti dovunque essi si trovino (...). L’islam è per definizione una religione politica perché impone doveri politici ai credenti». La fonte del diritto coincide con la volontà divina e non esistono leggi superiori alla sharia, che deriva direttamente da Allah. Eppure i musulmani della diaspora vivono in Paesi con ordinamenti laici, che nella maggior parte dei casi tutelano la libertà religiosa circoscrivendola però all’ambito privato. Cosa succede se la Costituzione entra in contraddizione con la sharia? Prevale la cittadinanza reale o l’appartenenza mitica alla umma? «Lo sdoppiamento del cittadino musulmano diviso in Occidente tra il suo essere pubblico e privato esiste, inutile negarlo», ammette Younis Tawfik20. Non un’identità unica come in patria dunque, dove politica e religione coincidono, ma almeno due. «L’equivoco nasce dall’uso che i terroristi fanno del concetto di fratellanza, una zona franca che garantisce l’immunità ma imprigiona tutti i musulmani in un enorme ghetto virtuale. La umma, al contrario è responsabilità, in primis verso i fratelli e le sorelle, che sono mani, braccia, gambe, parti dello stesso corpo islamico, e poi verso la società. È un atteggiamento di per sé inoffensivo che condividiamo con gli ebrei: anche loro si sentono italiani legati materialmente all’Italia e al tempo stesso ebrei legati idealmente a Israele». 103

La frizione tra le due identità dei musulmani d’Occidente emerge dal bisogno d’affermare questo sdoppiamento, di rivendicarlo quasi fosse una sfida. Nonostante abiti la sfera del trascendente come tutte le religioni, l’islam assume forme esteriori molto evidenti che spesso non si limitano alla diversità culturale, ricchezza peculiare d’una società laica, ma suggeriscono altro, un giudizio morale. Non si tratta solo dell’hijab delle ragazze o della folta barba maschile ma di stili di vita. Abdur-Rahman Rosario Pasquini racconta la sua conversione attraverso il mutamento dell’uomo fisico, non solo spirituale: «Se guardo le mie fotografie di ieri fatico a riconoscermi. Ero l’icona del vizio. Oggi ho smesso di bere, non mangio più carne di maiale, evito cinema, teatri o concerti rock e non possiedo televisore. Mi concentro sulla vita interiore senza perdermi in distrazioni inutili». Una scelta solo apparentemente ascetica, che Pasquini considera il coronamento e non la smentita della sua passata militanza politica: «L’islam è politico. Sbaglia chi pensa che il marxismo e l’islam siano agli antipodi. È più facile che diventi musulmano un materialista di un indù, un cristiano, un ebreo. Chi proviene da un’altra religione ha radicato in sé il concetto inossidabile dell’esistenza di Dio che invece è solo l’ente creatore: Dio non esiste, è, e si conosce solo nella misura in cui è rivelato, ossia attraverso il Corano. Un materialista lo vive in modo diverso: non ha a monte il problema di un altro Dio e può ritrovare nelle sura il principio base della dottrina marxista: nessuno ha il diritto di essere padrone di un altro essere umano. In questo possiamo considerare l’islam un movimento di liberazione dal dominio dell’uomo sull’uomo». Secondo Pasquini però, la natura «rivoluzionaria» dell’islam oggi si manifesta solo nelle scelte individuali e non minaccia di sovvertire l’or104

dine esistente: «In Italia viviamo in democrazia, le leggi garantiscono la libertà di pensiero e di culto, e i musulmani debbono lealtà a chi non li combatte. Anzi, troverei giusto estendere l’obbligo di giurare sulla Costituzione agli stranieri, a qualsiasi religione appartengano. Sono certo che i veri musulmani non avrebbero problemi, chi porta avanti battaglie assurde tipo quella contro il crocifisso ci danneggia e basta, fornendo pretesti per alimentare il sospetto verso l’islam»21. Anche uno come Luigi Ammar De Martino, entusiasta dell’ultraconservatore presidente iraniano Ahmadinejad e rammaricato di non essere nato in una teocrazia islamica, è d’accordo sulla «tolleranza italiana»: «Sarei più contento di vivere in un Paese regolato dalla sharia, ma se Allah ha disposto diversamente lo accetto. Anche perché l’Italia ci rispetta, i fratelli e le sorelle possono mandare i figli alla scuola pubblica tranquilli che non saranno ghettizzati, la maggioranza cristiana è disponibile, ci sono perfino certi comunisti che ci difendono a prescindere da cosa pensiamo di loro. Mai e poi mai avrei aperto una querelle sul crocefisso»22. Certo, gli insulti all’islam sono un’altra cosa. La maglietta con le vignette contro Maometto, indossata provocatoriamente dall’ex ministro leghista Roberto Calderoli, è una mina lanciata contro il progetto di convivenza interreligiosa, come le sparate antimusulmane del partito fondato da Umberto Bossi. Ma, per ora, restano episodi isolati, condannati da tutti gli schieramenti politici al punto da rendere inevitabili le dimissioni di Calderoli. Le alte gerarchie cattoliche e il papa Benedetto XVI hanno ripetutamente biasimato l’umorismo religioso del quotidiano danese condividendo il disagio dei musulmani quando «espresso in forme civili»23. La vita di tutti i giorni trova meno ostacoli della dottrina. Quan105

do si sono convertiti, Ammar e la moglie hanno cambiato quotidiano – oggi in casa si legge «il Manifesto» – e abitudini: vanno in spiaggia alle sette del mattino, quando c’è poca gente, e fanno il bagno separati. Amano ancora il mare ma non la «promiscuità balneare»: lui indossa un costume castigato, lei un leggero camice lungo fino ai piedi. Nessuno trova niente da ridire. Non ci sono obiezioni neppure a certi atteggiamenti clanici adottati in nome della umma: «Siamo una comunità, se una di noi cerca marito la aiutiamo a trovarlo. Non sono veri e propri matrimoni combinati, ma è sempre meglio che sposare uno sconosciuto». La legislazione italiana tutela le differenze religiose, d’accordo. Ma cosa accadrebbe in caso di conflitto giurisprudenziale? Su questo, Ammar De Martino è meno possibilista: «I veri musulmani dovrebbero emigrare. La umma è solo una comunità spirituale, ma le sue leggi divine sono prioritarie rispetto a qualsiasi normativa umana. Siamo chiamati a rispettare la Costituzione finché non entra in contrasto con i nostri imperativi. A quel punto non più». «Se mai le condizioni non ci consentissero più di rispettare l’islam, dovremmo andarcene», conviene Hamza Roberto Piccardo. Ma precisa che non saranno i musulmani a sollevare per primi la bandiera della diversità: «Bisognerebbe chiedere ad altri quale cittadinanza preferiscono, se l’italiana o quella dell’internazionale ebraica. Ci sono alcuni rappresentanti della comunità ebraica romana che non smettono di distinguere tra ‘noi e coloro che non ci riconoscono’». Noi e gli altri. Noi musulmani e gli ebrei. Gli ebrei e coloro che non li riconoscono. Un continuo ingannevole gioco di specchi che finisce per penalizzare l’islam dell’immigrazione, meno abituato al confronto e dunque più a ri106

schio di perdersi. Nella società musulmana tradizionale non c’è confusione su «chi siamo»: l’identità è affermata una volta per tutte a ogni livello sociale, dalla famiglia alla moschea allo Stato. «Il primo errore di numerosi esponenti della cultura e della politica sta nel ritenere che l’islam e i musulmani non si integrino in Occidente ma rimangano sempre uguali a se stessi», scrive Khaled Fouad Allam24. Già nel 1935 lo storico medievista belga Henri Pirenne proponeva questa tesi nel saggio Maometto e Carlomagno25, argomentando che mentre la conquista germanica si era risolta con una romanizzazione dei vincitori quella islamica aveva imposto un modello impermeabile capace di incrinare l’unità mediterranea. Fouad Allam obietta però che tra il IX e il XII secolo «l’islam e la lingua araba funzionano da cultura dominante e la cultura medievale del mondo islamico è, all’epoca, il vettore portante della modernità». Non una cultura monolite dunque, ma una cultura egemone. Oggi la situazione è capovolta, la civiltà islamica ha dimenticato i fasti del passato e assorbe gli impulsi delle società con cui entra a contatto. Lungi dall’essere una forza, l’impermeabilità auspicata dai fondamentalisti si rivela una patologia. L’Europa offre all’islam gli strumenti per tutelare le proprie tradizioni. È ovvio che la mitizzazione della umma nasca qui, lontano da casa, con tutte le distorsioni ottiche della distanza. Abdel Hamid Shaari non crede che l’alternativa a una sovrapposizione tra la legge italiana e la sharia sia la fuga: «Se alle nostre donne fosse proibito l’hijab come in Francia combatteremmo con gli strumenti legali messi a disposizione in un paese democratico. Magari raccoglieremmo le firme per un referendum». Bando agli «isterismi», dunque, suggerisce Shaari, e agli anatemi tipo quelli lanciati contro la Gran 107

Bretagna dall’imam con l’uncino, predicatore «ingrato» in carica nella moschea londinese di Finsbury Park. Il rischio della creazione di uno Stato islamista parallelo all’interno delle società europee c’è, ammette. Le inchieste sul centro di viale Jenner cercavano proprio la centrale operativa che attraverso la fratellanza della umma portasse acqua al mulino del terrorismo jihadista. L’antidoto di Shaari è un corpus di regole semplici, comuni e soprattutto inviolabili: «Chi sgarra torna da dove è venuto». «L’Italia deve intervenire sulla formazione degli imam e sull’educazione civica degli immigrati, affinché tutti conoscano e rispettino la Costituzione, senza per questo dimenticare la cultura originaria» chiosa Farian Sabahi. Sulle persone dunque, più che sulle comunità nel loro insieme. Come nel caso del progetto di 100 borse di studio da 1.000 euro l’anno per studentesse di religione e cultura islamica meritevoli e residenti nel nostro paese che la Sabahi ha proposto a Palazzo Chigi. Ragazze dai 13 ai 18 anni, italiane, musulmane, cittadine di domani: «In molte famiglie, dove domina un sistema patriarcale e la preferenza dei genitori va spesso all’istruzione dei figli maschi, questo progetto potrebbe favorire l’emancipazione delle figlie e la loro futura indipendenza economica». Ne ha ragionago a lungo, con il gruppo di lavoro voluto dalla Presidenza del Consiglio di Silvio Berlusconi e composto da lei, Afef Jnifen, consulente per le relazioni con il mondo arabo, la giornalista Rula Jebreal, Khaled Fouad Allam, lo scrittore Alain Elkann. L’obiettivo è far passare il messaggio che «l’inclusione è uno strumento e non un obiettivo dell’integrazione». Secondo il filosofo Francis Fukuyama «la tolleranza liberale è stata interpretata come rispetto non per i dirit108

ti dei singoli ma dei gruppi, alcuni dei quali proprio loro intolleranti (con l’imposizione, ad esempio, di chi le proprie figlie dovessero frequentare o sposare)»26. Con il risultato di lasciare che le minoranze si autodisciplinassero in una zona franca sospesa tra l’emarginazione e l’illegalità. L’equivoco della doppia cittadinanza, la umma globale in alternativa allo Stato nazionale, deriva da qui, come se il sermone di un imam improvvisato in una sala di preghiera ricavata dal garage di un condominio d’immigrati potesse sostituire il codice civile.

6.

OSAMA: EROE DELL’ISLAM CONTEMPORANEO?

«Ti presento i miei figli, Yasser e Osama: Yasser in memoria di Yasser Arafat fondatore dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e Osama onora lo sceicco saudita bin Laden». L’orgoglioso padre, Ahmed, è un ragioniere marocchino immigrato nel ’93 a Torino, dove ora gestisce una gastronomia araba. In realtà i ragazzini, 12 e 9 anni, si chiamano Alì e Mahmud ma lui si diverte da tempo a fare questo gioco: finge di aver dato loro il nome dei «più famigerati terroristi in testa alle classifiche most wanted». Arafat e bin Laden hanno curriculum differenti, Ahmed li colloca però uno di fianco all’altro nel suo personale empireo di eroi musulmani, «paladini dell’islam». Sdrammatizza così la diffidenza diffusa che avverte per il kaftano bianco, la barba da mullah, l’aria da «islamico pericoloso». Una boutade, appunto: «Non so neppure cosa voglia davvero Osama, figuriamoci se ne approvo gli attentati, posto che siano opera sua. Però simpatizzo con lui, questo sì, difende la nostra storia e ci fa sentire orgogliosi d’essere islamici». Alì e Mahmud sono troppo piccoli per dare man forte al genitore, anche se capiscono quel che dice, sorridono e fanno la V di vittoria con le dita. 110

«È vero, i terroristi che s’ispirano al Corano compiono atti terribili al pari dei criminali comuni, ma in fondo sono fratelli che sbagliano...». Come molti musulmani, Ammar De Martino è incline a una certa indulgenza verso i kamikaze di al-Qaeda e dei gruppi satelliti. Lui poi, da sciita, di errori gliene attribuisce parecchi, soprattutto storici. Ne fa una questione di famiglia religiosa, quasi un’eco dello scisma di 1400 anni fa: «Sono sunniti, sognano il ritorno al califfato, un’utopia irrealizzabile. I califfi hanno commesso molte nefandezze, gli imam venerati dagli sciiti no, sono tutti martiri della fede. Prova ne sia il diverso modo di combattere per l’islam. Non ci sono attentati sciiti in Iraq. Non c’erano sciiti nei commandi suicidi di New York, Londra, Madrid. Non troverete una strage firmata da sciiti in nessuna parte del mondo. Gli attentati non servono a niente, molto meglio costruire un ampio consenso popolare. Guardate la rivoluzione khomeinista: noi promuoviamo lotte di popolo invece di singole inutili azioni kamikaze contro civili inermi»1. Secondo gli islamologi della scuola di Gilles Kepel, l’Europa è il campo di battaglia del jihad ma la strategia della guerra di Osama guarda altrove, ai paesi arabi, al dar al-islam, la terra santa dell’islam retta da governi «corrotti e empi». Un obiettivo così distante e ambizioso da assumere un’aura mitica. «Come nell’universo medievale la terra era il fulcro del sistema planetario, così nella cartografia islamica medievale lo spazio musulmano confluisce verso il suo centro che è costituito dai paesi arabi […] il ‘centro dei centri’, il cuore pulsante dell’intero sistema, era la moschea della Mecca» scrive la studiosa Antonella Caruso. La forza mobilitante di quella simbologia non si è esaurita nell’epoca medievale ma è riemersa nelle ideologie 111

panaraba e islamista del Novecento e si impone oggi prepotentemente nei discorsi televisivi dei leader di alQaeda: «Osama bin Laden e al-Zawahiri non rappresentano Stati, regni, eserciti, sfere religiose. Eppure dai microfoni e dalle immagini di al-Jazira predicano quelle note che, da tempi lontani, continuano a far vibrare le coscienze dei musulmani. Gli Stati della regione si confrontano così ancora una volta con un attacco sovversivo che proviene dal loro stesso interno. Diversamente dal passato, però, e più pericolosamente di prima, i nuovi eserciti oppositori non conoscono confini e le loro azioni si prefiggono obiettivi diversi e lontani»2. Un grande poster stropicciato con la faccia di Osama campeggia alle spalle dell’uomo che stacca i biglietti da 50.000 franchi per il sogno italiano in un gabbiotto ad Agadez, nel centro del Niger, dove si ammassano orde di disperati diretti in Libia e poi, di lì, in Sicilia3. C’è scritto sopra «Osama, eroe dell’islam»: una specie di appunto per non dimenticare, prima dell’immersione nell’opulenta e amorale società occidentale. Il topos più ricorrente nella cinematografia del terzo mondo è quello del ragazzo o della ragazza che lasciano il loro sperduto villaggio per trasferirsi in Europa, costretti dalla povertà o dalla guerra. Una volta giunti a destinazione però, trovano un mondo chiuso, che ai nuovi venuti apre solo le porte del crimine o della prostituzione. Niente a che vedere con la Mecca delle opportunità promessa dalla televisione o da internet. Il film di solito ha un finale drammatico, la morte del protagonista o un gesto estremo di disperazione. Nella realtà invece qualcuno si ricorda di quel poster, «Osama, eroe dell’islam», e s’identifica nel leader di al-Qaeda, si sente riscattato dall’umiliazione dell’esilio, scopre di poter compensare la mancata integrazione con l’ap112

partenenza superiore alla grande famiglia musulmana. Una recente ricerca di Zogby International sull’opinione pubblica nei principali paesi arabi mostra che i più si sentono rappresentati sia pur indirettamente da al-Qaeda: il 39% afferma di simpatizzare con i terroristi perché fronteggiano la superpotenza americana, il 20% perché difendono la causa musulmana dall’aggressore occidentale4. Il filosofo israeliano Avishai Margalit vede nell’internazionalismo di al-Qaeda il tentativo d’innescare una rivoluzione islamista per rovesciare i governi in carica nei paesi musulmani: «Khomeini era uno ‘stalinista’, voleva sperimentare un regime islamico inizialmente in un solo paese, in Iran, e poi esportarlo. Bin Laden è un trotzkista, ritiene che si debba esportare l’islamismo nell’intero mondo musulmano (...). L’esportatore bin Laden rappresenta la rivoluzione islamica tanto quanto l’esportatore Trotzky rappresenta quella russa»5. Osama è dunque diventato l’icona dell’islam globale? Padre Samir Khalil Samir non ci crede: «Il terrorismo, il colpire ciecamente e chiunque, non è rappresentativo dell’islam. Ma i principi evocati da bin Laden creano una larghissima eco nel mondo islamico. Essi richiamano principi tradizionali dell’islam, insegnati correntemente. Va notato infatti che il terrorismo non è estraneo all’islam, come spesso si ripete per ‘buonismo’. Il terrorismo islamico, o meglio la violenza islamica, ha radice nel Corano e nella sunna, cioè nella pratica del Profeta. I testi coranici a favore della violenza sono numerosissimi (io ne ho elencati almeno 75). Quelli non violenti sono molti di meno e appartengono al periodo più antico. Nell’islam vi è il principio interpretativo per cui le ultime rivelazioni cancellano le precedenti. È il principio del nasikh wa-l-mansukh». Il gesuita egiziano 113

obietta ai fondamentalisti la pretesa di applicare le leggi dell’islam alla lettera all’interno di un contesto in cui «la maggioranza musulmana è ormai orientata verso una relazione meno rigida fra politica e religione. Quasi tutti i paesi musulmani hanno ordinamenti ispirati all’Occidente che, in alcuni casi, sono stati modificati dove erano incompatibili con l’islam». Proprio l’astrazione è al tempo stesso la debolezza e la forza del progetto di Osama: «Questo islam fondamentalista vuole a tutti i costi prendere il potere. Il suo disegno è anzitutto quello di rovesciare i regimi dei paesi a maggioranza islamica, o i regimi ufficialmente musulmani – che sono appoggiati all’Occidente – e che sono giudicati ‘traditori’. Se noi domandiamo: dove sono i regimi islamici sognati dai fondamentalisti? In Arabia saudita? No, dicono, quello è il regime peggiore perché ha tradito i principi di Maometto. In Iran? No, perché vi è una base pre-islamica pagana (jiahiliyya) che inficia tutto. In pratica l’ideale fondamentalista è un’utopia inesistente, che però rende impossibile la convivenza»6. L’aspirazione al califfato è irrealizzabile, concorda Majid El Houssi, «sarebbe come sperare di poter tornare indietro all’uomo a una dimensione ora che siamo nel pieno dell’era delle identità plurali». Assolutamente fuori tempo massimo nel 2006, se già due secoli fa Goethe cantava le lodi dell’incontro magico tra Oriente e Occidente, laboratorio del paradiso. L’autore del Faust sarebbe forse stato curioso di partecipare alla messa organizzata nella moschea di Colle Val d’Elsa nel 2004, una funzione ridotta alla lettura di alcune preghiere ma rivolta a una platea mista di musulmani, sacerdoti cristiani, rabbini, monaci buddisti. Il promotore, l’imam Feras Jabareen, cita sempre l’esempio del profeta Muhammad che nel 632, sei mesi prima 114

di morire, ricevette una delegazione di settanta cristiani di Najran, capeggiati da un vescovo, e consentì loro di celebrare messa all’interno della propria casa-moschea. «Osama rifiuta la modernità dell’Occidente, capace di arricchirsi delle differenze – nota Feras Jabareen –. Eppure è proprio qui che uno come lui ha la possibilità di sviluppare il proprio pensiero. Nel mondo arabo non può certo andarsene in giro liberamente a incoraggiare il jihad, mentre in Italia riuscirebbe a trovare un avvocato orgoglioso di difenderlo»7. Abdel Hamid Shaari vorrebbe incontrarlo, un giorno. «Dico sul serio, mi piacerebbe parlare con Osama, magari lo convincerei del fatto che così ci sta danneggiando tutti». Gli spiegherebbe «i guasti irreversibili che l’indottrinamento produce nella testa dei giovani musulmani» e l’«islamofobia isterica» con cui l’Occidente reagisce alla propaganda jihadista: «Vi racconto due storie. Una volta al centro di viale Jenner assumemmo un ragazzo come segretario. Era bravo, lavorava sodo, stava ogni giorno con noi. Poi di colpo sparì. Ora scopriamo che è stato arrestato alla stazione di Milano perché aveva legami con al-Qaeda: lo ignoravamo. In un’altra occasione si presentò da noi un marocchino clandestino, un uomo riservato, molto colto. Gli offrimmo un posto in biblioteca. Lui era contento, ma aveva un fratello in Afghanistan e alla fine decise di andarlo a cercare. È finito a Guantanamo, quattro anni di segregazione dura. Alcuni mesi fa è stato rimandato in Marocco ed è venuto fuori che era innocente». Indicato spesso dai media come esponente dell’islam radicale, Abdel Hamid Shaari rifiuta la distinzione tra musulmani estremisti e moderati perché «in assenza di un’interpretazione unica e ufficiale del Corano nessuno può affermare d’essere più vicino alla verità». Neppure Osama bin Laden: «All’inizio 115

degli anni Ottanta, quando è cominciato il jihad, il mondo era diverso. Unione Sovietica e Stati Uniti combattevano la loro guerra imperiale e lo sceicco saudita s’insinuò per ricavarsi uno spazio terzo. Oggi è cambiato tutto. I muri sono caduti e ipotizzare di alzarne di nuovi è folle». Può darsi che la condanna di al-Qaeda sia strategica, che sia un modo per ridare verginità al centro islamico di viale Jenner, indirizzo ricorrente nelle inchieste sul terrorismo internazionale come punto di riferimento di cellule in sonno. Shaari è stato escluso dalla Consulta islamica per i sospetti che gravano sul suo giro di conoscenze, e non ha gradito. Ma se incontrasse Osama gli direbbe lo stesso che sta sbagliando tutto perché «chi ha sconfitto l’Armata Rossa ieri non potrà vincere oggi sulla società aperta»8. «Ogni morte di un uomo mi diminuisce perché io partecipo dell’umanità...». Ali Rashid applica la morale di Per chi suona la campana alla minaccia del terrorismo globale. È convinto che nessuno possa chiamarsi fuori dalla sfida lanciata dagli ideologi di al-Qaeda: «Invocano la Palestina libera ma hanno un progetto politico indipendente dalla sorte del mio popolo, vogliono restaurare il califfato. Hamas è una rete territoriale, alQaeda no: ha un orizzonte più ampio e mete più ambiziose della Terra Santa. Prova ne sia l’ostilità che palesa per chiunque cerchi una soluzione politica. Considerano il presidente Abu Mazen peggio di Sharon e il dialogo un compromesso vergognoso». Il 6 gennaio 2005 alZawahiri ha esplicitamente maledetto i suoi connazionali del partito islamico colpevoli di aver accettato le regole della democrazia. In un video diffuso dalla Tv alJazira il medico egiziano se l’è presa con i Fratelli Musulmani per aver partecipato al voto riportando un significativo successo: «Hanno fatto il gioco degli ameri116

cani»9. La stessa accusa lanciata ripetutamente da alZarkawi ai movimenti islamici coinvolti nel processo elettorale in Iraq. «I suoi nemici vedono l’Occidente come una minaccia non perché offra un sistema alternativo di valori, e meno che mai una strada diversa verso l’utopia – scrive Ian Buruma –. Esso costituisce una minaccia perché, promettendo benessere materiale, libertà individuale e dignità a vite non eccezionali, le svuota di ogni ambizione magica. La natura antieroica e antiutopica del liberalismo occidentale è il peggior nemico dei fondamentalismi religiosi, dei sacerdoti-re e di quelle comunità che aspirano a un eroismo salvifico»10. Agli antipodi di questo modello si colloca il borghese integrato, l’uomo comune, il prototipo della classe più bersagliata della storia per la sua presunta mancanza di slanci eroici, per la ricerca di sicurezze e la paura della morte, per l’impermeabilità alle suggestioni dell’ethos. In un’intervista rilasciata nel 1998, Osama bin Laden afferma di non temere il tradimento di nessuno dei suoi uomini: «Tutti loro hanno abbandonato gli affari mondani e sono venuti qui per il jihad»11. Mustafà vende fazzoletti di carta e accendini a forma di phon o mazza da baseball nei ristoranti e per le strade del quartiere Esquilino, a Roma. Ma l’accendino più strano l’ha comprato a sua volta da un ambulante cinese e lo tira fuori solo con i clienti che immagina simpatizzanti: due piccole Twin Towers che si aprono in cima per far uscire la fiamma quando l’areoplanino collegato gli entra dentro. Mustafà sa che l’11 settembre non è un argomento spiritoso, sbircia l’interlocutore con aria furba e sorride mostrando i denti davanti, rovinati come tutti i ragazzi che provengono dalla regione mineraria di Khouribga. Ha quindici anni, è arrivato dal Marocco al117

cuni mesi fa con il pullman che parte da Casablanca e attraversa la Spagna fino a Torino, in tasca cinquanta euro e un permesso turistico scaduto ormai da tempo. Adesso vive a Roma con uno zio e altri otto connazionali, si arrangia come può: «Quando avrò abbastanza soldi per comprare un fuoristrada Nissan Patrol tornerò a casa a farmi vedere, gli amici moriranno d’invidia». Parecchi tra i musulmani immigrati in Italia considerano l’attacco al World Trade Center di New York una risposta «giustificata» all’imperialismo americano. La frustrazione per un’esistenza in bilico incancrenisce nella recriminazione e il desiderio di rivalsa viene sublimato nella figura vendicatrice di bin Laden. Sono ragazzi, seconde e terze generazioni di migranti, ipersensibili al fascino romantico dell’eroe che s’immola per una causa, giusta o sbagliata che sia. Personalità fragili strette tra l’adolescenza non vissuta e la maturità. Bin Laden non è semplicemente una risorsa finanziaria per i kamikaze, è soprattutto un simbolo per milioni di individui alienati, come dimostra l’impatto delle sue performance video che utilizzando gli strumenti della globalizzazione hanno elevato il jihad dalla dimensione locale a quella universale. La figura del terrorista, d’altra parte, non vive solo nell’immaginario giovanile arabo-musulmano. Un sondaggio del 2004, condotto dal TG2 all’indomani della strage di Beslan, rivela che il 13% degli italiani considera i kamikaze dei martiri (9%) o degli eroi (4%), li guarda insomma con una certa ammirazione. Un dato che non sorprende troppo il neurologo Rosario Sorrentino, membro dell’Unità italiana per gli attacchi di panico della Clinica Paideia a Roma: «Da tempo avverto nei giovani qualcosa che va oltre il disagio, che entra nel terreno della ribellione, della rabbia, della protesta. E queste 118

sensazioni il giovane le ritrova proprio nel kamikaze. D’altra parte l’uso e l’abuso e la eccezionale fruizione dei videogiochi e la Tv violenta possono creare le premesse psicologiche e culturali di un’aggressività e di una violenza prêt-à-porter, sempre pronta»12. Il mondo come rappresentazione che diventa più reale della realtà. Il film di James McTeigue V per Vendetta propone come eroe un terrorista che, sia pur nobilitato da generosi ideali, fa saltare in aria senza grossi rimorsi il Palazzo di Giustizia inglese e il Parlamento, Big Ben compreso. «Nell’Algeria dell’inizio degli anni Novanta circolava un libro sulle virtù dei combattimenti in Afghanistan – racconta Khaled Fouad Allam –. In testi come quello le pulsioni verso il cambiamento, le forze ed energie anche irrazionali che ogni ventenne possiede, venivano canalizzate unicamente verso la violenza e la guerra. Così tutta una gioventù ha trovato nella violenza il modo di esprimere la sua richiesta di cittadinanza: processi di democratizzazione bloccati, società e universo familiare autoritari, portano a trasformare le pulsioni di un ventenne in violenza, che cattivi maestri perversamente strumentalizzano ai loro fini»13. Mustafà con i suoi fazzoletti e gli accendini provocatori è il nipote di quella generazione cresciuta davanti a un orizzonte buio in un mondo inchiodato a un eterno Medio Evo che l’islamologo Emmanuel Sivan definisce «fra la peste e il colera»14. La critica al materialismo occidentale non appartiene specificatamente all’islam ma accomuna tutte le religioni. Anche i musulmani della Coreis – una comunità di circa tremila persone in buona parte convertiti italiani, i più appartati rispetto alla umma italiana e sostenitori di una lettura spirituale e non politica del Corano che deriva dallo studio di Guénon e dei teorici di una certa destra esoterica – non condividono la secolarizza119

zione della società e la fede cieca nel modernismo. Proprio per questo, spiegano, nel palazzo milanese dove stanno costruendo la loro moschea non ci sarà posto per i fondamentalisti. «Bin Laden è un prodotto della globalizzazione», osserva Massimo, un commerciante quarantacinquenne passato all’islam con il nome di Abdarrazak, in arabo «servo della provvidenza», che si presenta porgendo senza problemi la destra perché «il divieto di stringere la mano a una donna non è prescritto formalmente nel Corano». Quando arriva lo shaykh Abd al-Wahid Pallavicini, Massimo-Abdarrazak s’inchina rispettoso, riconoscendo in lui un sapiente, un maestro: «L’islam non ha clero perché Dio anziché farsi uomo – come nel cristianesimo – si è fatto libro. Ma ci sono uomini che conoscono profondamente il Corano e aiutano i fratelli a leggerlo senza travisare». «L’islam è l’opposto dell’ideologia – dichiara lo shaykh –. L’unica cosiddetta rivoluzione islamica, quella khomeinista del 1979, si è rivelata un ennesimo ‘ismo’. Capii subito che non avrebbe funzionato. Tanti ci credettero allora con entusiasmo, come tanti avevano già creduto al comunismo: illusi. Gli Stati islamici non ci sono più, checché ne dica qualcuno. Il problema oggi si pone tra i musulmani della diaspora, in balia di sedicenti dottori in legge che sono in realtà profughi politici, ideologi, reduci dalla rivoluzione mancata»15. «Il terrorismo è il risultato del cortocircuito fra l’ignoranza del terzo mondo e l’indifferenza supponente del primo», afferma Souheir Katkhouda. Non che sia una formula matematica, ovviamente: «In Italia ci sono state numerose inchieste sul fondamentalismo islamico e le cellule dormienti di al-Qaeda, arresti, espulsioni. Eppure non è mai emerso niente di veramente eclatante»16. Pensa alla vicenda di Mansour Abdel Moname 120

Ben Khalifa, il tunisino trentasettenne arrestato il primo marzo 2002 perché sospettato d’essere la mente di un attentato in preparazione contro l’ambasciata americana. La Prima corte d’assise d’appello di Roma l’ha assolto il 3 marzo del 2005, dopo quindici mesi di carcere preventivo, e lui ha presentato istanza per «indennità di ingiusta detenzione»17. Casi come quello di Abdel contribuiscono ad alimentare un clima di sospetto reciproco, ostacolo sicuro a qualsiasi forma di dialogo. Souheir però non cerca nell’errore altrui la giustificazione per assolvere con formula piena il mondo musulmano, affatto immunizzato dal virus della violenza: «Bin Laden è indubbiamente un modello per tanti nostri giovani allo sbando. Giovani senza prospettive in casa e fuori. Questo significa che siamo tutti nella stessa barca, gli italiani e la maggior parte dei musulmani immigrati qui per lavorare, mantenere la famiglia, garantire un futuro ai propri figli». «La figura di Osama colma un vuoto di punti di riferimento ed è frutto di un processo d’identificazione mitica che va al di là dello stesso Osama». Tawfik non minimizza l’influenza subdola dell’«eroe del male» ma lo vede quasi come un simbolo pop, un brand riconoscibile nel caos delle identità. «Il nostro ultimo eroe positivo è Saladino, il condottiero che liberò Gerusalemme. Dalla caduta del califfato non abbiamo più avuto un immaginario mitico comune, il dissolvimento dell’impero ottomano ha distrutto le ultime fantasie di grandezza. C’è stato Nasser, d’accordo. Ma era un laico, combatteva il ruolo pubblico della religione e rendeva la vita dura ai Fratelli Musulmani. Osama è pericoloso perché promette certezze a chi vacilla nel buio»18. Suad Sbai ritiene che l’integrazione sia l’unico antidoto ad al-Qaeda: «Osama se ne frega dell’Europa, vuo121

le i paesi arabi. Ha un preciso progetto politico ed economico non religioso: ambisce a conquistare il potere temporale. Il richiamo alla fede, alla dimensione spirituale, al Corano, serve solo a costruire artificialmente la fratellanza tra uomini e popoli diversissimi. Per questo la guerra in Iraq è stata un disastro, ha amplificato le argomentazioni di chi contrappone noi musulmani, eternamente aggrediti, agli altri, gli aggressori»19. L’ombra minacciosa di Osama si allunga sulle speranze d’integrazione. Farian Sabahi è convinta che i mostri non esistano, lo ripete anche a suo figlio Atesh quando fatica ad addormentarsi perché ha paura del buio: «Siamo noi gli artefici dei nostri incubi, su scala individuale e su scala collettiva. Al-Qaeda è un mostro su cui riversiamo tutte le nostre paure, un mostro creato dall’Occidente dopo la caduta dell’impero sovietico e dell’ideale comunista. Raccoglie la summa di tutte le minacce che vorremmo esorcizzare. I kamikaze invece sono uomini in carne e ossa, assassini spietati da condannare senza indugio. Sono figli del disagio e del loro mondo incapace di offrire opportunità reali più che soldati di un agguerrito esercito islamico. Testimoniano una società in crisi per mancanza di progettualità: l’Occidente, a forza di rappresentarseli come il nemico organizzato, ne ha fatto un mostro reale»20. «Negli ultimi anni, il mondo musulmano ha sviluppato una certa ostilità verso l’Occidente visto come culturalmente ed economicamente aggressivo», ammette Hamza Roberto Piccardo. Una reazione, secondo lui, che può essere disinnescata solo da chi ha messo in moto il processo: «Il nostro modo di ragionare non favorisce l’equilibrio, pensiamo in bianco e nero. O l’islam se ne sta buono buono nella sfera privata o diventa una minaccia sociale. Dimentichiamo spesso le sfumature, l’a122

zione dei riformisti islamici che prestano attenzione ai valori religiosi senza però metterli in contrapposizione con il mondo contemporaneo. Se ci concentriamo solo sui fondamentalisti troveremo risposte fondamentaliste. Chi è un fondamentalista? Uno che usa mezzi di pressione per imporre la propria opinione sugli altri. Ce ne sono di tutti i tipi: islamici, macrobiotici, interisti. La religione islamica per definizione è wasat, media: deve essere per forza moderata o non è». Che Osama bin Laden abbia ripetutamente dichiarato guerra all’Occidente lo preoccupa: vive a Imperia con la sua famiglia. Ma, figlio degli anni della strategia della tensione, della teoria del complotto fatto sistema, dello Stato parallelo, non crede all’origine «islamica» della minaccia: «Allah ci scampi da un attentato in Italia. Purtroppo temo che non ci sia modo di evitarlo: gli jihadisti sono imprevedibili, attori ultimi di una strategia complessa. Obbediscono a logiche che loro stessi ignorano. Bisognerebbe andare a cercare l’origine vera del lavaggio dei loro cervelli. Bin Laden probabilmente è morto da anni, infatti in Tv lo stanno sostituendo con Ayman al-Zawahiri. Sono entrambi personaggi astratti, virtuali. Chi li ha mai visti? I morti degli attentati no, quelli sono veri, ma di loro sappiamo pochissimo. Sull’11 settembre c’è una verità politica e una verità mediatica, ma manca una verità giudiziaria. Un giorno salterà fuori la verità storica. Il tempo è galantuomo»21.

POSTFAZIONE

Il nostro rapporto con l’islam muta ogni giorno. È storia del presente, fatta di intese e rotture, di dialogo e guerra. Le violenze seguite alle vignette su Maometto, pubblicate dal quotidiano danese «Jyllands Posten», si sono allargate ovunque nel mondo, dove gestite tacitamente dai governi – come in Siria e Iran –, dove al di fuori da ogni controllo – come in Pakistan, Libia, Nigeria. I teorici della natura violenta dell’islam esultano: l’umorismo sarà pure inadatto al sacro, ma la risposta sproporzionata dei musulmani dimostra – a loro giudizio – l’inconciliabilità del credo musulmano con i valori illuministici di tolleranza e democrazia. Gli amici del dialogo tra civiltà replicano sottolineando la differenza tra libertà d’espressione e d’insulto, condannano i disegni razzisti paragonati alle caricature antisemite nella Germania nazista, ma restano infine spiazzati dalla spirale d’odio che avvolge la protesta e trascende l’indignazione. L’uomo della strada ascolta, osserva, si chiude. La parabola delle vignette, dopo il caso Salman Rushdie e il feroce assassinio di Theo van Gogh, è emblematica di quanto fragile resti l’equilibrio tra «noi» e gli «altri», perché nella società interconnessa nessuno può essere davvero libero da solo. 125

All’inizio quella delle vignette pareva la solita storia: islamofobia contro anti-occidentalismo. Alcuni paesi – tra cui Arabia Saudita, Kuwait, Giordania, Emirati Arabi, Siria –, lanciano il boicottaggio dei prodotti danesi e in strada si accendono falò con bandiere europee e americane (gli Stati Uniti stavolta non c’entrano, ma sono considerati sempre e comunque responsabili). Poi l’Iran decide di rompere i rapporti commerciali con Copenhagen. Ritorsioni, lezioni accelerate di religione islamica, piazze infiammate dal Magreb all’Indonesia e dibattiti infiniti nei talk show d’Occidente. Il cardinale Achille Silvestrini e il gran rabbino di Francia Joseph Sitruk si dichiarano solidali con la sensibilità offesa dei musulmani e la parlamentare olandese Ayaan Hirsi Ali, coautrice del film Submission che costò la vita a van Gogh, denuncia la timidezza dell’Europa nei confronti dell’islam. Finché le televisioni satellitari cominciano a trasmettere le immagini dei primi scontri, il fuoco appiccato alle ambasciate europee di Teheran, Damasco, Giacarta, le vittime. Il sacerdote cattolico don Andrea Santoro, freddato nella sua chiesa a Trabzon, città turca sul Mar Nero. Sedici cristiani morti durante i tafferugli nella zona di Maiduguri, nel nord della Nigeria. Undici manifestanti libici uccisi dalla polizia nell’assalto al consolato italiano a Bendasi, seguito alle proteste contro la maglietta antiislam che è costata la poltrona di ministro al leghista Roberto Calderoli. È il caos globale. I giornalisti danesi si scusano, Al-Jazira e i principali quotidiani arabi divulgano il mea culpa. La risata che – stando alle dichiarazioni del «Jyllands Posten» sulle intenzioni originarie dell’iniziativa – avrebbe dovuto accompagnare l’uscita delle caricature, ha un’eco sinistra. Lo scrittore Carlo Fruttero auspica che anche nel mondo musulmano arrivi presto o tardi un Voltaire, il 126

grande scettico, «per la gioia di tutti i democratici, tolleranti e così spiritosi»1. Di Voltaire, in realtà, il mondo musulmano ne ha avuti. Intellettuali all’avanguardia sui propri contemporanei come il tunisino Mohammed Talbi, l’egiziano Nasr Abu Zayd – in esilio a Leida proprio per le sue tesi –, l’iraniano Mohsen Kadivar – hojatoleslam (uno scalino sotto l’ayatollah) e primo prigioniero politico dell’epoca Khatami incarcerato per avere messo in discussione il principio del velayat-e faqih (governo del clero). Ma il loro pensiero non è riuscito a fare rete, non si è trasformato in un movimento rivoluzionario e antidogmatico come l’Illuminismo. Così, oggi, quel mondo ha ben poco da sorridere: arretratezza economica, disoccupazione, tassi d’analfabetismo altissimi nella maggior parte dei Paesi, governi dittatoriali o, in alternativa, teocrazie illiberali. Qualsiasi manipolazione ha gioco facile. La percezione dell’islam come religione intrinsecamente violenta si nutre di queste immagini, della rabbia cieca delle masse, dell’odio urlato nelle strade, delle dimostrazioni che degenerano in scontri, feriti, morti. Ed è inutile ricordare come questa miscela esplosiva abbia più a che fare con la dittatura che con la religione musulmana: la violenza ipnotizza la ragione. Ma se il fuoco è pericoloso, attizzarlo è folle. Quando l’ex ministro Calderoli insulta in Tv la giornalista arabo-israeliana Rula Jebreal («quella signora un po’ abbronzata») non esercita un diritto alla parola, pratica un’inutile provocazione. Jebreal mostra stile, dichiarandosi pronta a difendere il ministro «nel caso venisse minacciato per le sue idee, anche le peggiori»2. Ma non tutti i musulmani sono nelle condizioni di sfoggiare il medesimo aplomb. I fondamentalisti scattano, innescati da un’astuta propaganda, e la conseguenza è il terremoto. È davvero im127

possibile far valere le proprie ragioni e interloquire in modo umano, non arrogante, senza rinunciare ai principi di libera espressione e ai valori occidentali, ma senza considerarli unici e agitarli in sfida grottesca come la rossa muleta di un torero? Per la realizzazione di questo libro ho raccolto le opinioni di alcuni musulmani d’Italia di fronte a un mondo dove dialogo e violenza, tolleranza e guerra, multiculturalismo e terrorismo si affrontano ogni giorno in diretta Tv. Ho raccontato le loro ragioni, le paure, i dubbi, i torti. Sono le voci di uomini e donne spesso in dissenso non solo con «noi», ma anche tra «loro». Alcuni severissimi con la propria religione, altri indulgenti, con posizioni diverse sulla violenza dell’islam, divisi tra chi crede che l’associazione tra il Corano e la spada faccia parte della tradizione e chi ipotizza che sia un prodotto confezionato dai media. Gente come «noi», simpatici e antipatici, concilianti e indisponenti, di destra o di sinistra, qualunquisti, laici, credenti ma non troppo o religiosi ortodossi. Solo dialogando con la consapevolezza di aver di fronte persone, esseri umani capaci di apprendere e di insegnare, di maturare e di sbagliare, non personaggi, caricature, feroci Saladini o terroristi per obbligo, odalische da harem o poverette rinchiuse per sempre nel burqa dell’oppressione, riusciremo a disinnescare la rabbia che cova alle loro spalle, dove umiliazioni, ignoranza e fondamentalismo complottano in campo aperto per imprimere il marchio del conflitto, della paura e della violenza al nostro rapporto con l’islam.

NOTE

Note al capitolo 1 1 Chaiwat Satha-Anand, Islam e nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, 1997, pp. 32-33. 2 Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations?, in «Foreign Affairs», LXXII, estate 1993, pp. 22-49. 3 Abdul Rahman al-Rashid, La dolorosa verità è che la maggior parte dei terroristi sono musulmani, in «Al-Sharq al-Awsat», 4 settembre 2004. 4 Oriana Fallaci, La Trilogia (La rabbia e l’orgoglio, La forza della ragione, Oriana Fallaci intervista sé stessa), Rizzoli, 2004. 5 Samuel P. Huntington, Scontro di civiltà, Garzanti, 2000. 6 Antonio Socci, Islam e violenza. Non è una guerra di religione, ma va combattuta, in «Il Giornale», 20 settembre 2000. 7 T-Lab: L’immagine dell’islam su www.tlab.it/it/allegati/esempi/islam.htm. 8 http://canali.libero.it/affaritaliani/politica/Australia_centrostudiIslam.html. 9 Luigi Accattoli, Giovanni Paolo: Il Grande, in «Famiglia Cristiana», 8 gennaio 2006. 10 Francesco Del Mas, Il cardinale Kasper: sulla violenza il Corano resta ambiguo, in «Avvenire», 28 giugno 2005. 11 Marco Politi, Ratzinger svolta sull’islam: prima i diritti umani, in «la Repubblica», 29 aprile 2005. 12 Richard W. Bulliet, La civiltà islamico-cristiana, Laterza, 2005. 13 Mahmood Mamdani, Musulmani buoni e cattivi. La guerra fredda e le origini del terrorismo, Laterza, 2005. 14 Henri Tincq, La rivalità mimetica e l’islam, intervista a René Girard, in «Le Monde», 5 novembre 2001. 15 Olivier Roy, Global muslim. Le radici occidentali del nuovo

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Islam, Feltrinelli, 2003 e Id., Una fede senza radici, ecco il diavolo globale, in «Corriere della Sera», 14 febbraio 2006. 16 Adel Jabbar, Jihad non significa guerra. La caricatura dell’islam, in «Carta», 2003. 17 Documento dell’Ucoii in www.islam-ucoii.it/NOTERRORISMO.htm. 18 Il rapporto con i Fratelli Musulmani è all’origine della polemica che da molto tempo contrappone Magdi Allam all’Ucoii: l’editorialista del «Corriere della Sera» accusa l’organizzazione d’essere una filiazione del gruppo estremista egiziano e nel libro Vincere la paura (Mondadori, 2005) identifica nel segretario Hamza Roberto Piccardo il referente italiano degli islamismi radicali di Hamas e il promulgatore d’una fatwa che lo costringe a girare sotto scorta. L’Ucoii replica smentendo «qualsiasi legame organico» con l’organizzazione egiziana e querelando. 19 Magdi Allam, Guerra santa: il tour italiano, in «Corriere della Sera», 1° settembre 2005. 20 Intervista a Hamza Roberto Piccardo. 21 V. Davis Hanson, Atene o Iraq, è sempre la stessa guerra, in «Corriere della Sera», 28 ottobre 2005. 22 Francesca Paci, Intervista a Suad Sbai, in «Zero», ottobre 2004. 23 Khaled Fouad Allam, La solitudine dell’islam, in «la Repubblica», 6 settembre 2004. 24 Intervista a Luigi Ammar De Martino. 25 Intervista a Suad Sbai. 26 Giulia Zonca, Io, Danny Williams pugile musulmano che odia la violenza, in «La Stampa», 12 dicembre 2005. 27 Massimo Numa, Dramma in una famiglia marocchina, in «La Stampa», 5 gennaio 2002. 28 Intervista a Mario Scialoja. 29 Nella tradizione musulmana si parla di «discesa del Corano», poiché secondo l’islam esso è stato rivelato da Allah a Maometto frase dopo frase nel corso di tutta la sua vita. 30 Intervista a Souheir Katkhouda. 31 Intervista ad Abdel Hamid Shaari. 32 Gilles Kepel, Fitna. Guerra nel cuore dell’islam, Laterza, 2004. 33 Hanif Kureishi, Love in a blue time, Bompiani, 2001. 34 Samir Kassir, L’infelicità araba, Einaudi, 2006. 35 Intervista a Younis Tawfik. 36 Intervista a Farian Sabahi. 37 Intervista a Khaled Fouad Allam. 38 Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, Adelphi, 2004. 39 Faisal Devji, Islam offers a role model of the most modern kind, in «Financial Times», 13 febbraio 2006.

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40

Intervista ad Ali Rashid. Intervista a Feras Jabareen. 42 Magdi Allam, Lo sciopero della fame di un islam moderato, in «Corriere della Sera», 5 settembre 2004. 43 Intervista a Stefano Allievi. 44 Chaiwat Satha-Anand, Islam e nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, 1997, p. 15. 45 Intervista a Majid El Houssi. 46 Abdelwahab Meddeb, La malattia dell’islam, Bollati Boringhieri, 2003. 47 Intervista ad Abd al-Wahid Pallavicini. 48 Intervista ad Abdur-Rahman Rosario Pasquini. 49 Rashid al-Ghannushi, Non è arrivato ancora il momento di metter fine a questa confusione tra islam e terrorismo?, in «Al-Sharq al-Awsat», 24 maggio 2005. 50 Walter Lippmann, L’opinione pubblica, Donzelli, 2005, p. 193. 51 Khaled Fouad Allam, Quando la violenza imprigiona l’islam, in «Avvenire», 11 ottobre 2001. 41

Note al capitolo 2 1

Intervista a Souheir Katkhouda. Intervista a Farian Sabahi. 3 Mohamed Kamal Mostafa, La mujer en el Islam, Casa del Libro Arabe de Barcelona, 1990 (è la casa editrice diretta da Mowafak Kanfach, presidente della Federación Islámica de Catalunya). 4 Farian Sabahi, Islam: l’identità inquieta dell’Europa, Il Saggiatore, 2006, p. 293. 5 Olivier Roy, Global muslim. Le radici occidentali del nuovo islam, Feltrinelli, 2003. 6 Intervista a Younis Tawfik. 7 Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, a cura di Marcelle Padovani, Mondadori, 1989 e Matteo Collura, Il maestro di Regalpetra, Tea, 2000. 8 «Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono [per esse] i loro beni. Le [donne] virtuose sono le devote, che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse. Allah è altissimo, grande» (Corano, IV, Sura delle Donne, v. 34, Newton & Compton, 2001). 9 Reza Aslan, No god but God, Random House, 2006, pp. 60-70. 2

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10 Stefano Lorenzetto, Piccardo: c’è solo un islam moderato, in «Panorama», 15 settembre 2005. 11 Il Corano, a cura di Hamza Roberto Piccardo, Newton & Compton, 2001. 12 Intervista a Hamza Roberto Piccardo. 13 Analfabetismo in Marocco, «Gazzetta ufficiale», n. C 076 dell’11 marzo 1998, p. 120. 14 Tariq Ramadan, Appello internazionale per la moratoria sulle punizioni corporali nel mondo islamico, su www.arabcomint.com/appello_internazionale_per_la_mo.htm. 15 Donne velate all’attacco contro i luoghi del peccato, in «La Stampa», 3 settembre 2005. 16 Muslim Progressive Union of North America: www.pmuna. org. 17 Intervista a Khaled Fouad Allam. 18 Magdi Allam, Quel no di Maometto sul velo, in «Corriere della Sera», 27 ottobre 2005. 19 Francesca Paci, Intervista a Suad Sbai, in «Zero», ottobre 2004. 20 Igor Man, Il dizionario ragionato delle parole chiave del mondo musulmano, in «La Stampa», 1° ottobre 2001, raccolto poi in Igor Man, Islàm dalla A alla Z. Dizionario di guerra scritto per la pace, Garzanti, 2001. 21 In Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, 2005, p. 186. 22 Ni putes ni soumises: www.niputesnisoumises.com. 23 Fatwa contro la violenza domestica su www.islamonline.net/ servlet/Satellite?pagename=IslamOnline-English-Ask_Scholar/FatwaE /FatwaE&cid=1119503544256. 24 Magdi Allam, Naima: anch’io guiderò la preghiera, in Toscana, in «Corriere della Sera», 21 marzo 2005. 25 Gianni Verdoliva, Rivoluzione nell’Islam: la prima donna Imam, in «Il Mattino», 20 agosto 2005. 26 Ibid. 27 Ibid. 28 Ibid. 29 Intervista a Abdel Hamid Shaari. 30 Intervista a Yahya Sergio Yahe Pallavicini. 31 Yahya Sergio Yahe Pallavicini, L’islam in Europa, Il Saggiatore, 2004, pp. 179-181. 32 Intervista ad Abdur-Rahman Rosario Pasquini. 33 Francesca Paci, Per chi vota Lolita, in «La Stampa», 12 giugno 2005. 34 Intervista a Luigi Ammar De Martino. 35 Maryam Namazie, Il relativismo culturale, il fascismo della no-

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stra epoca, conferenza sul relativismo culturale impartita all’interno di un forum organizzato dall’International Campaign in Defence of Women’s rights in Iran (ICDWRI), su www.wforw.it/Namazie.html. 36 Intervista a Richard Bulliet (Festival della Storia, Saluzzo e Savigliano, 15 ottobre 2005). Si veda anche in Richard W. Bulliet, La civiltà islamico-cristiana, Laterza, 2005.

Note al capitolo 3 1

Intervista a Souheir Katkhouda. Amir Taheri, Islam e terrorismo, in «Arab News», 5 febbraio 2005. 3 Gilles Kepel, Fitna. Guerra nel cuore dell’islam, Laterza, 2004, p. 61. 4 Paolo Biondani, Assolti i tre islamici accusati di terrorismo, in «Corriere della Sera», 29 novembre 2005. 5 Antonio Cassese, Terroristi, guerriglieri e la giustizia internazionale, in «la Repubblica», 6 settembre 2005. 6 Massimo Numa, Mio figlio Mohamed soldato di al-Qaeda. Una scelta dissennata, in «La Stampa», 31 marzo 2002 e Massimo Numa, Così vivono le cellule di al-Qaeda a Torino, in «La Stampa», 14 febbraio 2005. 7 Claudio Magris e Roberto Toscano, Il dubbio dell’occidente: chi è il vero terrorista?, in «Corriere della Sera», 5 maggio 2005. 8 Intervista a Hamza Roberto Piccardo. 9 Stefano Lorenzetto, Piccardo: c’è solo un islam moderato, in «Panorama», 15 settembre 2005. 10 Renzo Guolo, Condanna ai crimini della jihad, in «la Repubblica», 1° agosto 2005. 11 Intervista a Farian Sabahi e Farian Sabahi, Islam: l’identità inquieta dell’Europa, Il Saggiatore, 2006. 12 Adel Jabbar, Jihad non significa guerra. La caricatura dell’islam, in «Carta», 2003. 13 Gilles Kepel, Il profeta e il faraone, Laterza, 2006. 14 Alessandro Cornali, Italia, comoda culla dell’islam militante, in «Il Federalismo», 6 settembre 2004. 15 Intervista ad Abd al-Wahid Pallavicini. 16 Intervista ad Ali Rashid. 17 Olivier Roy, Global muslim. Le radici occidentali del nuovo islam, Feltrinelli, 2003. 18 Bassam Tibi, Islam Between Culture and Politics, Palgrave Macmillan, 2005. 19 Gilles Kepel, Il profeta e il faraone, Laterza, 2006. 2

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20 21

Intervista a Suad Sbai. Cossiga: l’Italia tratti con al-Qaeda, dall’Agenzia ANSA, 24 luglio

2005. 22

Cfr. il blog iraniano: www.iraniantruth.com. Intervista a Khaled Fouad Allam. 24 Intervista a Younis Tawfik. 25 Khalid Khawaja, Combattevo con Osama. Ora vi dico: aiutiamoci, in «Corriere della Sera», 25 agosto 2005. 26 Intervista ad Abdel Hamid Shaari. 27 Alessandro Oppes, Euromed condanna il terrorismo ma tace sul diritto di «resistenza», in «la Repubblica», 29 novembre 2005. 28 Intervista a Luigi Ammar De Martino. 29 Intervista a Majid El Houssi. 30 Intervista a Feras Jabareen. 31 Intervista a Hamza Roberto Piccardo e Stefano Lorenzetto, Piccardo: c’è solo un islam moderato, in «Panorama», 15 settembre 2005 («... Provate a chiederlo a chi c’era allora. Il conte Pierluigi Bellini delle Stelle, il comandante Pedro che prese in consegna Benito Mussolini a Dongo, mi raccontò che i partigiani non torturavano i prigionieri, però quando catturavano tre tedeschi usavano un metodo infallibile per ottenere informazioni: li legavano a tre alberi con una bomba a mano infilata in bocca. Se il primo non parlava tiravano da lontano una cordicella legata alla spoletta. Il secondo e il terzo hanno sempre parlato...»). 32 Francesca Paci, Il 4 giugno, né con Bush né coi violenti, in «La Stampa», 29 maggio 2004. 33 Intervista a Luigi Ammar De Martino. 34 Dopo un articolo di Jacopo Iacoboni intitolato Quel leninista amico dei «fasci» che finanzia l’Iraq (in «La Stampa», 2 aprile 2004), il leader antimperialista Moreno Pasquinelli scrisse a «La Stampa» sostenendo che il suo movimento non avesse nessun militante proveniente dall’estrema destra. Iacoboni rispose così: «Prendo atto del rifiuto del neofascismo di Pasquinelli. Ricordo solo che, in una nota dello stesso Campo antimperialista sezione italiana (pubblicata allora sul sito www.antimperialista.com e datata 14 novembre 2003) si chiariva, a proposito del corteo del 13 dicembre: ‘I presunti tre o quattro fascisti hanno firmato esclusivamente a titolo individuale accettando una chiara piattaforma antimperialista e rispettando lo spirito antifascista più volte ribadito dal Comitato promotore’. Senza smentire, dunque, che esponenti usciti dal neofascismo avessero aderito, sia pure a titolo individuale». 35 Intervista ad Abdel Hamid Shaari. 36 Intervista a Mario Scialoja. 23

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Note al capitolo 4 1 Francesco Grignetti, Un Osama applaudito nel ghetto, in «La Stampa», 2 novembre 2005. 2 Massimo Introvigne, L’islam e il complesso anti-Israele, in «Il Giornale», 8 giugno 2005. 3 Il fronte marocchino, in «Il Foglio», 5 aprile 2004. 4 Khaled Fouad Allam, Io, arabo a Gerusalemme, in «la Repubblica», 25 aprile 2005. 5 Intervista ad Ali Rashid. 6 Gilles Kepel, Fitna. Guerra nel cuore dell’islam, Laterza, 2004, pp. 11-12. 7 Lo Sceicco Youssef al-Qaradhawi: Non c’è dialogo fra noi e gli ebrei se non con la spada e il fucile, in «Memri» (www.memri.org), «Special Report», n. 753, 23 luglio 2004. 8 Gilles Kepel, Fitna. Guerra nel cuore dell’islam, Laterza, 2004, p. 10. 9 Paolo Rumiz, Ebrei in Francia, due paure nel mirino di arabi e ultradestra, in «la Repubblica», 5 maggio 2002. 10 Intervista a Farian Sabahi. 11 Magdi Allam, La prima volta dell’Italia - Ho difeso gli ebrei da musulmano, in «Corriere della Sera», 4 novembre 2005. 12 Abd al-Hamid al-Ansari, Le radici islamiche dell’antisemitismo, in «Al-Raya», 20 settembre 2004. 13 Paolo Mastrolilli, Serial killer e terroristi, la paura fa leggenda, in «La Stampa», 3 dicembre 2005. 14 Intervista a Hamza Roberto Piccardo. 15 Francesca Paci, Massimalismo e italiani convertiti all’islam, in «Zero», n. 2, Marsilio, 2005 e Renzo Guolo, Xenofobi e xenofili. Gli italiani e l’islam, Laterza, 2003, pp. 14-16. 16 Intervista a Elvio Arancio. 17 Intervista a Luigi Ammar De Martino. 18 Francesca Paci, Dio, Allah e Javé davanti a una tartina, in «La Stampa», 17 dicembre 2005. 19 Yahya Sergio Yahe Pallavicini, L’islam in Europa, Il Saggiatore, 2004. 20 Intervista a Younis Tawfik. 21 Intervista a Feras Jabareen. 22 Intervista a Majid El Houssi. 23 Intervista ad Abdel Hamid Shaari. 24 Intervista a Suad Sbai. 25 Davide Frattini, Sono un pubblicitario e vi venderò la pace, in «Sette» magazine del «Corriere della Sera», 19 febbraio 2004.

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26 Magdi Allam, Così i ‘cattivi maestri’ del Corano insegnano a odiare ebrei e cristiani, in «Corriere della Sera», 23 febbraio 2005. 27 Magdi Allam, Nella geografia insegnata ai bambini esiste solo la ‘Grande Palestina’, in «Corriere della Sera», 28 ottobre 2005. 28 Paolo Conti, Sì a due popoli e due democrazie. Ma in Palestina è un problema, in «Corriere della sera», 1° dicembre 2005. 29 Magdi Allam, Tutta la Palestina è un Dar al-harb, territorio di guerra, in «la Repubblica», 7 giugno 2003. 30 Intervista a Mario Scialoja. 31 Massimo Introvigne, L’islam e il terrorismo, in «Il Timone», luglio/agosto 2004. 32 Francesca Paci, Io, islamico pellegrino ad Auschwitz, in «La Stampa», 27 gennaio 2006. 33 Francesca Paci, Iran-Israele, la pace in cucina, in «La Stampa», 8 novembre 2005.

Note al capitolo 5 1 Khaled Fouad Allam, La fede musulmana è compatibile con la democrazia?, in «La Stampa», 4 novembre 2000. 2 Michael Ignatieff, Le città invisibili dell’emigrazione, in «Corriere della Sera», 21 dicembre 2005. 3 Adonis, La cultura araba, l’islam e l’occidente, in www.infinitestorie.it (www.infinitestorie.it/frames.speciali/speciali.asp?page=3& searchString=&ID=373), 11 maggio 2005. 4 Antonella Caruso, Quando l’islam pensa il mondo, in «Limes», Quaderni speciali, 10 dicembre 2001. 5 Hassan al-Banna, Majmuu’at rasa’il al-imam al-sahid hassan albanna (raccolta dei messaggi dell’imam martire hassan al-Banna), in Antonella Caruso, Quando l’islam pensa il mondo, op. cit. 6 La missione dei cristiani per non soffocare sotto l’islam e il terrorismo, intervista a Samir Khalil Samir, su www.chiesa.espressonline. it/dettaglio.jsp?id=7488. 7 Intervista a Farian Sabahi. 8 Fatima Mernissi, Islam e democrazia. La paura della modernità, Giunti, 2002. 9 Intervista a Stefano Allievi. 10 La mancanza di un’intesa con lo Stato italiano distingue l’islam dalle altre religioni. I valdesi sono stati i primi a firmare un accordo nell’84. La chiesa avventista del settimo giorno si è aggiunta nell’86, seguita dalle comunità ebraiche nell’87 e da buddisti e testimoni di Geova nel 2000.

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11 Ulrich Beck, I giovani «superflui» delle periferie, in «la Repubblica», 3 gennaio 2006. 12 Intervista ad Ali Rashid. 13 Intervista ad Abdel Hamid Shaari. 14 Intervista a Majid El Houssi. 15 Giuseppe Samir Eid, In nome di Dio: pace o guerra?, in «Realtà Nuova», settembre/ottobre 2004. 16 Adel Jabbar, Jihad non significa guerra. La caricatura dell’islam, in «Carta», 2003 e su: www.saveriani.bs.it/Cem/Rivista/arretrati/2003_09/bradford.htm 17 Francesca Paci, Detroit e Torino, il mondo alla rovescia, in «La Stampa», 9 ottobre 2005. 18 Khaled Fouad Allam, La fede musulmana è compatibile con la democrazia?, in «La Stampa», 4 novembre 2000. 19 Panayotis Vatikiotis, Islam: stati senza nazioni, Il Saggiatore, 1998 e su www.generazioneelle.it/notizia.asp?N=831. 20 Intervista a Younis Tawfik. 21 Intervista ad Abdur-Rahman Rosario Pasquini. 22 Intervista a Luigi Ammar De Martino. 23 Francesca Caferri, Vignette, il Papa condivide il malessere dei musulmani, in «la Repubblica», 17 febbraio 2006. 24 Khaled Fouad Allam, La fede musulmana è compatibile con la democrazia?, in «La Stampa», 4 novembre 2000. 25 Henri Pirenne, Maometto e Carlomagno, Laterza, 2005. 26 Francis Fukuyama, L’Europa è la Mecca dell’islam globale, in «Corriere della Sera», 4 gennaio 2006.

Note al capitolo 6 1

Intervista ad Ammar De Martino. Antonella Caruso, Quando l’islam pensa il mondo, in «Limes», Quaderni speciali, 10 dicembre 2001. 3 Sergio Ramazzotti, I naufraghi del deserto, in «Famiglia Cristiana», 25 dicembre 2005. 4 Daniel Benjamin e Steven Simon, Al-Qaeda’s Big Boast, in «The New York Times», 25 gennaio 2006. 5 Nina Fuerstenberg, Bin Laden rivoluzionario come Trotzky, in «Il Nuovo», 13 dicembre 2001. 6 La missione dei cristiani per non soffocare sotto l’islam e il terrorismo, intervista a Samir Khalil Samir, su www.chiesa.espressonline.it/ dettaglio.jsp?id=7488. 7 Magdi Allam, In un gesto rivive l’esempio di Maometto. Così l’I2

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slam tollerante dialoga con l’Italia, in «Corriere della Sera», 20 settembre 2004. 8 Intervista ad Abdel Hamid Shaari. 9 Guido Olimpio, I Fratelli Musulmani contro al-Qaeda, in «Corriere della Sera», 10 gennaio 2006. 10 Ian Buruma e Avishai Margalit, Occidentalismo: l’Occidente agli occhi dei suoi nemici, Einaudi 2004, p. 65. 11 Abdul Bari Atwan, My weekend with Osama bin Laden, «The Guardian», 12 novembre 2001. 12 Kamikaze, assassini o eroi?, su www.clicmedicina.it/pagine%20n%2014/sondaggio_kamikaze.htm. 13 Khaled Fouad Allam, Avere vent’anni nel mondo arabo, in «Aspenia», ottobre 2003. 14 Ibid. 15 Intervista ad Abd al-Wahid Pallavicini. 16 Intervista a Souheir Katkhouda. 17 Raffaele Oriani, Abdel, terrorista immaginario, in «Io Donna», supplemento del «Corriere della Sera», 18 febbraio 2006. 18 Intervista a Younis Tawfik. 19 Intervista a Suad Sbai. 20 Intervista a Farian Sabahi. 21 Intervista a Hamza Roberto Piccardo e Stefano Lorenzetto, Piccardo: c’è solo un islam moderato, in «Panorama», 15 settembre 2005.

Note alla Postfazione 1 Carlo Fruttero, Tra Voltaire e Gheddafi, in «La Stampa», 3 febbraio 2006. 2 Monica Guerzoni, La Jebreal: mi ha offeso, ma se lo minacciano lo difenderò, in «Corriere della Sera», 17 febbraio 2006.

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NOTA DELL’AUTORE

Per realizzare questo libro sono stati intervistati alcuni musulmani residenti nel nostro paese e rappresentativi dei vari islam italiani, nomi noti accanto a gente della strada. Ecco di seguito i sintetici profili biobibliografici dei più conosciuti tra loro. Khaled Fouad Allam, sociologo, è nato a Tlemcen, in Algeria, da madre siriana e padre marocchino. Ha studiato diritto e sociologia politica ad Algeri e poi a Parigi. Scrittore ed editorialista del quotidiano «la Repubblica», dal 1994 insegna Sociologia del mondo musulmano e Storia e istituzioni dei paesi islamici all’Università di Trieste e Islamistica all’Università di Urbino. Ha pubblicato diversi libri tra cui Lettera a un kamikaze (Rizzoli 2004), vincitore della sezione Scrittori del mondo del Premio Elsa Morante 2004, La città multiculturale. Identità, diversità, pluralità (Emi 2004) e L’islam globale (Rizzoli 2002). Cittadino italiano dal 1990, consulente di organizzazioni internazionali sull’immigrazione e le nuove cittadinanze, è stato eletto nelle liste della Margherita alle elezioni politiche del 2006. Stefano Allievi, islamista, docente di Sociologia alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova, se143

gretario della sezione Sociologia della religione dell’Associazione italiana di sociologia (Ais), da una quindicina d’anni si occupa di islam europeo. Ha pubblicato numerosi saggi tra cui Niente di personale, signora Fallaci (Aliberti 2006), Musulmani d’occidente, tendenze dell’islam europeo (Carocci 2005), Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese con D. Bidussa e P. Naso (Einaudi 2003), Il Libro e la spada. La sfida dei fondamentalismi (Claudiana 2000), I nuovi musulmani. I convertiti all’Islam (Edizioni Lavoro 1999). Per la Commissione Europea, dove è consulente sui temi dell’immigrazione, della xenofobia, della pluralità culturale e religiosa, ha realizzato la ricerca Muslims in the Enlarged Europe. Luigi Ammar De Martino, napoletano, ex militante dell’estrema destra convertito all’islam nel 1983 e alla Shia nel 1984, è presidente del gruppo Gente della casa che fa parte dell’Associazione mondiale Ahl al-Bayt (http://digilander.libero.it/ahlalbait), un’internazionale filoiraniana guardata però con sospetto da Teheran. Gente della casa ha ora anche una sorella romana, l’Associazione islamica Iman Mahdi. Personaggio controverso, dal 1991 De Martino dirige la rivista «Il Puro Islam», punto di riferimento di alcune decine di sciiti italiani, portabandiera dell’originario messaggio della rivoluzione khomeinista e sostenitrice del movimento libanese sciita Hezbollah. Majid El Houssi è nato a Tabarka, nella Tunisia nordoccidentale. Arrivato in Italia nel 1965, da allora vive tra Padova e Parigi. Studioso di Linguistica e Letteratura francese, fino al 1999 è stato direttore dell’Istituto di Lingue all’Università di Ancona e attualmente è profes144

sore titolare della cattedra di Linguistica e Letteratura francese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha pubblicato numerosi saggi e diverse raccolte di poesie in francese (Une journée à Palerme, Id Livre 2005 ; Les arabismes dans la langue française: du Moyen âge à nos jours, L’Harmattan 2003). Il suo primo romanzo, Le verger des poursuites (Noël Blandin, 1991) ha ottenuto il Prix Comar. Souheir Katkhouda, siriana, 46 anni, 6 figli, nel 1980 emigra nell’hinterland milanese, dove lavora come mediatrice culturale. È vicepresidente dell’Associazione donne musulmane italiane (Admi, www.islam-ucoii.it/ ADMI/ADMI.htm), un’organizzazione che fa parte dell’Ucoii, che ha circa trecento iscritte e si occupa dell’inserimento delle donne musulmane nella società italiana. Feras Jabareen, palestinese con cittadinanza israeliana, dalla metà degli anni Novanta è imam del Centro culturale islamico di Colle Val d’Elsa (Siena), luogo di preghiera ma anche centro d’aggregazione per gli immigrati musulmani. Dopo l’11 settembre 2001 ha fatto della sua moschea una base per il dialogo ecumenico islamocristiano-ebraico aperto però anche all’incontro con altri religiosi, evangelisti, buddisti, mormoni. Nel settembre del 2004 è uno dei promotori del Manifesto contro il terrorismo e per la vita cui hanno aderito altri esponenti dell’islam cosiddetto moderato. Alla fine del 2004 firma con il Comune di Colle Val d’Elsa un protocollo d’intesa per la costruzione del nuovo Centro culturale islamico, che suscita l’indignazione di Oriana Fallaci e mette in allarme la popolazione, al punto da promuovere un referendum contro il progetto. 145

Shaykh Abd al-Wahid Pallavicini, uno dei primi convertiti italiani, passato all’islam nel 1951, è teologo e autore di saggi come L’Islam interiore (Il Saggiatore 2002). Nel 1993 fonda a Milano l’Associazione internazionale per l’informazione sull’islam (Aiii) che quattro anni dopo evolve nella Coreis (Comunità religiosa islamica, www.coreis.it), gruppo d’ispirazione guénoniana promotore di un islam «pienamente compatibile con la società e con l’ordinamento giuridico italiano». La Coreis ha dato vita anche a un Institut des Hautes Études Islamiques (Ihei) e a un Centro studi metafisici, il cui organo è la rivista «Il Messaggio». Gestirà la futura moschea milanese di via Meda, un luogo di preghiera della capienza di circa 150 persone. Ilham-Allah Chiara Ferrero Pallavicini, torinese, convertita all’islam e sposata con Yahya Sergio Yahe Pallavicini, segretario generale della Coreis. È autrice di diversi saggi sulle donne musulmane tra i quali Muslim Women and Worship (in Women and Worship: Perspectives from World Religious, a cura di Agustine Thottakara, Journal of Dharma & Dharmaran Publications, Bangalore 2000). Yahya Sergio Yahe Pallavicini, cittadino italiano, nato musulmano, figlio di Shaykh Abd al-Wahid Pallavicini e di madre giapponese. Fa parte del direttivo dell’Isesco (l’Organizzazione islamica per l’educazione, la scienza e la cultura) e della Eic (European Islamic Conference), la prima Ong islamica riconosciuta dall’Unione Europea. È vicepresidente della Coreis, imam della moschea al-Wahid di Milano, membro della Consulta islamica. Dal 2000 partecipa al consiglio di amministrazione del Centro islamico culturale d’Italia e della mo146

schea di Roma. Tra le sue pubblicazioni L’Islam in Europa. Riflessioni di un imam italiano (Il Saggiatore 2004) e Narrazioni. Racconti di religione e spiritualità, storie di sofferenza e di cura, dialoghi fra generi e generazioni (Guerini e Associati 2002). Abdur-Rahman Rosario Pasquini, avvocato italiano convertitosi all’islam nel 1973, gestisce la moschea del Misericordioso di Segrate (Masjid al-Rahman, www. islam.it), la prima moschea d’Italia munita di cupola e minareto, fondata nel 1988 insieme ad Ali Abu Shuwayma. Pasquini rivendica la paternità della prima concessione per la macellazione sciaraitica (il metodo tradizionale per ottenere carne halal, lecita) in una struttura pubblica, presso il macello di Milano. Dal 1977 pubblica «Il messaggero dell’Islam» e si occupa della casa editrice Edizioni del Calamo, specializzata in libri sulle regole alimentari e d’abbigliamento dell’islam. Hamza Roberto Piccardo, ex giornalista di estrema sinistra e militante di Autonomia operaia convertitosi all’islam nel 1975, dopo un viaggio in Africa, riveste oggi la carica di segretario nazionale dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche d’Italia, www.islam-ucoii.it), l’organizzazione ispirata ai Fratelli Musulmani che controlla il 75% delle moschee italiane. È fondatore della casa editrice Al-Hikma (La saggezza), curatore di una delle sei traduzioni italiane del Corano pubblicate dal 1914 a oggi, e consigliere direttivo e portavoce dell’European Muslim Network presieduto da Tariq Ramadan, il discusso intellettuale che Tony Blair ha inserito nella task force istituita per combattere l’integralismo islamico. Dopo aver divorziato dalla prima moglie che non accettava la sua nuova religione, ha sposato una donna marocchina. 147

Ali Rashid, palestinese di Gerusalemme, nato nel 1953, per tutta la vita ha viaggiato tra l’Italia e il Medio Oriente difendendo il diritto del popolo palestinese alla propria patria. È stato segretario nazionale dell’Unione generale degli studenti palestinesi e ha fatto parte dell’Unione generale degli scrittori e giornalisti palestinesi. Nel 1987 diventa il primo segretario della Delegazione generale palestinese in Italia. Ha fondato il movimento palestinese per la cultura e la democrazia. Ha partecipato alla costruzione della Sinistra europea ed è stato eletto alla Camera tra le fila di Rifondazione Comunista. Farian Sabahi, studiosa di cultura e religione musulmana e di storia dell’Iran, figlia di padre iraniano e madre italiana, ha conseguito il dottorato presso la School of Oriental and African Studies di Londra e ha insegnato all’Università di Ginevra. Attualmente è docente all’Università Bocconi di Milano e alle Università di Siena e di Torino. Giornalista collaboratrice del «Sole 24 Ore» e della Radio Svizzera, è anche autrice di numerosi saggi sull’islam tra i quali Islam: l’identità inquieta dell’Europa (Il Saggiatore 2006) e Storia dell’Iran (Bruno Mondadori 2003). Samir Khalil Samir, padre gesuita egiziano, si è formato in Francia e in Olanda. Insegna Storia della cultura araba e Islamologia all’Université Saint-Joseph di Beirut, dove ha fondato un importante Centro studi di cultura arabo-cristiana (Centre de documentation et de recherches arabes chrétiennes), promuovendo prestigiose collane editoriali, in collaborazione anche con Jaca Book. È stato visiting professor alla Georgetown University di Washington, alla Sophia University di Tokyo e alle Università del Cairo, di Betlemme, di Graz e di 148

Torino. Dal 1975 al 1986 ha avuto una cattedra presso il Pontificio istituto orientale di Roma. Collabora con la rivista «La civiltà cattolica» ed è autore di numerosi saggi tra cui l’ultimo Cento domande sull’islam (intervista a Samir Khalil Samir a cura di Giorgio Paolucci e Camille Eid, Marietti 2002). Suad Sbai, originaria di Casablanca, presidente dell’Associazione delle donne marocchine Acmid Donna (www.acmid-donna.it/) e promotrice di campagne di sensibilizzazione sulla questione femminile nel mondo islamico (l’ultima in ordine di tempo è quella per salvare Majida Mahir, una giovane immigrata marocchina incarcerata da sette anni in Arabia Saudita e condannata a morte con l’accusa di aver ucciso il marito, il principe saudita Farid bin Abdullah al-Saud), ricercatrice universitaria di diritto islamico presso l’Università di Caserta, dirige il giornale «Al-Maghrebiya», un mensile distribuito in 50.000 copie nelle edicole e presso i centri delle comunità marocchine in Italia. Attualmente è membro della Consulta islamica. Mario Scialoja, ambasciatore italiano a Riad dal 1984 al 1994, si è convertito all’islam nel 1987. Impegnato da tempo nella promozione del dialogo interreligioso, Scialoja è membro della Consulta islamica e dirige la sezione italiana della Lega musulmana mondiale (Rabitah, www.lega-musulmana.it) che ha sede a Roma presso il Centro culturale islamico della grande Moschea di Monte Antenne, una struttura religiosa di confessione wahhabita come tutte quelle collegate all’Arabia Saudita. Inaugurata nel 1996, la moschea capitolina è la più grande d’Europa, un’immensa sala di preghiera in grado di ospitare fino a 2.000 fedeli. 149

Abdel Hamid Shaari, nato in Libia nel 1948, vive in Lombardia dal 1977. È cittadino italiano, dirige una cooperativa ed è responsabile dell’Istituto culturale islamico (Ici) di viale Jenner, a Milano, insieme all’imam Abu Imad. Il Centro, cui fanno capo alcune sale di preghiera milanesi compresa quella di via Quaranta (la stessa del contestato tentativo di aprire una scuola coranica), è una struttura indipendente dall’Ucoii ed è stato più volte oggetto d’indagini sul terrorismo internazionale. L’Ici è da tempo nel mirino della Cia, che nel 2003, proprio in viale Jenner, ha rapito l’imam egiziano Abu Omar, caso ancora aperto per la magistratura italiana. Younis Tawfik, nato nel ’57 a Mosul, l’antica Ninive, ha lasciato l’Iraq di Saddam Hussein nel 1979 e non vi è più tornato. Da allora vive a Torino, dove si è laureato in Lettere e Filosofia e ha cominciato a lavorare come insegnante di lingua araba e come giornalista. Narratore e poeta sin da giovanissimo (nel 1978, appena ventunenne, ottiene il Premio di poesia conferito dalla Presidenza della Repubblica irachena), ha continuato a scrivere anche in Italia: il romanzo La straniera (Bompiani 1999) ha vinto il Premio Ostia, il Premio Comisso e il Premio Grinzane Cavour 2000. Tra gli altri suoi libri L’Iraq di Saddam (Bompiani 2003) e Islam. Storia, dottrina, diffusione (Idea Libri 1997). Attualmente è editorialista del quotidiano «Il Giornale», insegna Lingua e letteratura araba all’Università di Genova, fa parte della Consulta islamica, e dirige il Centro culturale italoarabo Dar al-Hikma di Torino, fondato nel 1984.

APPENDICE

MANIFESTO CONTRO IL TERRORISMO E PER LA VITA a cura di Khalid Chaouki

Noi musulmane e musulmani d’Italia siamo schierati in modo totale, assoluto e compatto contro il terrorismo di quanti, strumentalizzando un’interpretazione estremistica e deviata dell’islam e facendo leva sul fanatismo ideologico, hanno scatenato una guerra aggressiva del terrore contro il mondo intero e la comune civiltà dell’uomo. Nel terzo anniversario della tragedia che ha insanguinato gli Stati Uniti d’America, confermiamo il nostro più sentito e convinto cordoglio per le vittime di questa offensiva globalizzata del terrorismo che infierisce in modo indiscriminato contro tutti coloro che sono stati condannati come nemici di una folle «guerra santa», siano essi americani, europei o arabi, oppure ebrei, cristiani, musulmani e di altre religioni. Noi musulmane e musulmani d’Italia affermiamo in modo forte, inequivocabile e deciso la nostra fede nel valore della sacralità della vita di tutti gli esseri umani indipendentemente dalla nazionalità e dal credo. Per noi la sacralità della vita è il principio discriminante tra la comune civiltà dell’uomo e le barbarie di quanti predicano e perseguono la cultura della morte. Siamo consapevoli che la sacralità della vita o vale per tutti o, qualora venisse violata, si ritorce contro tutti. Solo l’abbraccio comune alla cultura della vita consente la salvezza, la pace e il benessere dell’umanità. Noi musulmane e musulmani d’Italia lanciamo un appello al popolo, alle istituzioni e al governo italiano affinché sostengano la nostra opera tesa a favorire la nostra piena e co153

struttiva integrazione. Siamo per l’assoluto rispetto delle leggi dello Stato e per la più sincera condivisione dei valori fondanti della Costituzione e della società italiana. Siamo convinti che un’Italia dall’identità forte, anche sul piano della religione, degli ideali e delle tradizioni, sia la migliore garanzia per tutti, autoctoni e immigrati, perché solo chi è forte e sicuro al proprio interno è in grado di aprirsi e di condividere positivamente le proprie scelte con gli altri. Alla luce di ciò siamo schierati dalla parte dello Stato italiano contro i terroristi e gli estremisti di matrice islamica, e non solo, che attentano alla sicurezza e alla stabilità della collettività, sia perpetrando trame eversive sia utilizzando taluni luoghi di culto per attività di indottrinamento e arruolamento di combattenti e aspiranti terroristi suicidi. Sosteniamo ogni iniziativa dello Stato volta ad assicurare che tutti i luoghi di preghiera siano delle case di vetro aperte e in simbiosi con l’insieme della società italiana, rispettose delle leggi e dei valori italiani, trasparenti sul piano della gestione e dei bilanci. Diciamo in modo esplicito che le moschee d’Italia non devono in alcun modo trasformarsi in un cavallo di Troia di ideologie integraliste e di strategie internazionali volte a imporre un potere islamico teocratico e autoritario. Noi musulmane e musulmani d’Italia chiediamo al capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, al presidente del Senato Marcello Pera, al presidente della Camera Pier Ferdinando Casini e all’intera classe politica di adoperarsi per metterci nelle condizioni di poter condividere la costruzione di un’Italia più forte e più aperta, più sicura e più giusta, più prospera e più lungimirante. Riteniamo che i tempi siano maturi affinché lo Stato e la società italiana considerino positivamente la prospettiva di un’Italia plurale sul piano etnico, confessionale e culturale, ancorata a una solida piattaforma di leggi e di valori comuni. E siamo convinti che solo chi è a pieno titolo cittadino italiano, solo chi opera sulla base della piena parità sul piano dei diritti e dei doveri, possa ergersi ad artefice di questa nuova Italia. Oggi i musulmani non sono soltanto parte integrante della realtà 154

economica e sociale dell’Italia, ma anche parte integrante del suo patrimonio spirituale. Insieme a un milione di musulmani immigrati, ci sono circa trentamila musulmani italiani. Sollecitiamo pertanto le autorità italiane ad agevolare il processo di «cittadinizzazione» dei musulmani d’Italia, accogliendo senza indugi e ritardi come nuovi cittadini coloro che vivono nel rispetto delle leggi e nella condivisione dei valori comuni. Oggi più che mai è necessario ancorare i musulmani d’Italia a un’identità italiana forte e condivisa, espressione di un sistema di valori credibile e convincente. Il rischio è che taluni musulmani, specie i più giovani, nati e cresciuti in Italia, se abbandonati a loro stessi e in preda a una crisi di identità, possano finire soggiogati e cooptati dall’ideologia dei gruppi estremisti. In quest’ambito sosteniamo la proposta del ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu di una Consulta dei musulmani d’Italia quale strumento per favorire il dialogo tra lo Stato e la maggioranza dei musulmani moderati. Noi musulmane e musulmani d’Italia ci sentiamo profondamente partecipi all’impegno internazionale volto a contrastare la guerra del terrore che ha avuto proprio nell’11 settembre 2001 il suo momento di maggior impatto umano, mediatico e politico. Aspiriamo a un mondo migliore dove tutti i popoli, compresi i musulmani, possano vivere nella libertà, nella giustizia e nel rispetto dei diritti fondamentali della persona. A tale fine auspichiamo l’avvento di una nuova etica nelle relazioni internazionali che favorisca l’emancipazione dei popoli dal sottosviluppo e dall’oscurantismo, nonché la formazione di governi autenticamente rappresentativi e democratici. Siamo consapevoli che la globalizzazione dello sviluppo, del diritto, della pace, della libertà e della democrazia costituisce la migliore garanzia affinché questi valori possano essere tutelati in ogni angolo della terra attraverso il dialogo e il reciproco rispetto. Hanno aderito: Mario Scialoja, direttore Lega musulmana mondiale-Italia; Abdellah Redouane, segretario generale del Centro cul155

turale islamico d’Italia; Mahmoud Ibrahim Sheweita, imam della Moschea di Roma; Gabriele Mandel Khan, Gran maestro per l’Italia della Confraternita turca Jerrahi-Halveti; Suad Sbai, presidente Associazione donne marocchine in Italia; Khalid Chaouki, presidente Giovani musulmani d’Italia; Irta Lama, titolare azienda informatica ITS Associates; Yahya Sergio Pallavicini, vice-presidente Coreis (Comunità religiosa islamica d’Italia); Gulshan Jivraj Antivalle, presidente Comunità ismailita italiana; Ali Baba Faye, coordinatore nazionale Forum Fratelli d’Italia - Democratici di sinistra; Ali Federico Schuetz, mediatore culturale, Milano; Yassine Belkassem, Consulta comunale di Poggibonsi (SI); Khalida El Khatir, studentessa di Psicologia, Università di Napoli; Ejaz Ahmad, caporedattore «Azad», mensile per i pachistani in Italia; Amadia Rashid, imam della moschea di Salerno; Roland Sejko, direttore «Bota Shqiptare», il giornale degli albanesi in Italia; Rashida Kharraz, Ufficio provinciale Acli di Viterbo; Feras Jabareen, imam del Centro culturale islamico di Colle Val d’Elsa (SI); Zoheir Louassini, scrittore e giornalista di Raimed; Jawed Q. Khan, marketing sistemi di tecnologia informatica per i trasporti, Roma; Shera Lyn Parpia, consulente professionale allattamento seno materno; Omar Camiletti, mediatore culturale presso la Moschea di Roma; Lotfy El Hosseny, presidente del Centro islamico di Ostia; Franco Abdul Ghafour Grassi Orsini, Guida spirituale in Italia della Tariqa Burhaniya Dusuqiya Shadhliya; Tarek Hassan, presidente del Centro islamico di Viale Marconi, Roma; Imane Fouganni, impiegata a Cremona, aspirante carabiniere. [«Corriere della Sera», 2 settembre 2004]

DICHIARAZIONE DEL CAIRO SUI DIRITTI UMANI NELL’ISLAM

Sommario I diritti fondamentali e le libertà fondamentali nell’Islam sono parte integrante della religione islamica: nessuno in via di principio ha diritti di sospenderli in tutto o in parte o di violarli o di ignorarli poiché essi sono comandamenti divini vincolanti, che sono contenuti nel libro della rivelazione di Dio e furono inviati attraverso l’ultimo dei suoi Profeti a completare i precedenti messaggi divini; conseguentemente ogni persona è individualmente responsabile – e la Ummah collettivamente responsabile – della loro salvaguardia. Abstract Gli Stati membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, Riaffermando il ruolo civilizzatore e storico della Ummah Islamica che Dio fece quale migliore nazione, che ha dato all’umanità una civiltà universale e equilibrata nella quale è stabilita l’armonia tra questa vita e ciò che viene dopo e la conoscenza è armonizzata con la fede; e il ruolo che questa Ummah deve svolgere per guidare una umanità confusa da orientamenti e ideologie contradittorie e per fornire soluzioni ai cronici problemi dell’attuale civiltà materialistica, 157

Desiderando contribuire agli sforzi dell’umanità intesi ad asserire i diritti umani, proteggere l’uomo dallo sfruttamento e dalla persecuzione e affermare la sua libertà e il suo diritto ad una vita degna in accordo con la Sharia Islamica, Convinti che l’umanità che ha raggiunto un elevato stadio nelle scienze naturali avrà sempre bisogno di fede per sostenere la sua civiltà e di forza automotivante per salvaguardare i propri diritti, Credendo che i diritti fondamentali e le libertà fondamentali nell’Islam sono parte integrante della religione Islamica e che nessuno in via di principio ha diritti di sospenderli in tutto o in parte o di violarli o di ignorarli poiché essi sono comandamenti divini vincolanti, che sono contenuti nel libro della rivelazione di Dio e furono inviati attraverso l’ultimo dei suoi Profeti a completare i precedenti messaggi divini facendo pertanto della loro osservanza un atto di adorazione e della loro negligenza o violazione un abominevole peccato, e conseguentemente ogni persona è individualmente responsabile – e la Ummah collettivamente responsabile – della loro salvaguardia, Procedendo dai summenzionati principi, Dichiara quanto segue: ARTICOLO 1

a) Tutti gli esseri umani formano un’unica famiglia i cui membri sono uniti dalla sottomissione a Dio e dalla discendenza da Adamo. Tutti gli uomini sono eguali in termini di fondamentale dignità umana e di fondamentali obblighi e responsabilità, senza alcuna discriminazione di razza, colore, lingua, sesso, credo religioso, affiliazione politica, stato sociale o altre considerazioni. La vera fede è la garanzia per rispettare questa dignità lungo il cammino della umana perfezione. b) Tutti gli esseri umani sono soggetti a Dio e i più amati da Lui sono coloro che sono più utili al resto dei Suoi sudditi, e nessuno ha superiorità sugli altri eccetto che sulla base della pietà e delle buone azioni. 158

ARTICOLO 2

a) La vita è un dono dato da Dio e il diritto alla vita è garantito a ogni essere umano. È dovere degli individui, delle società e degli Stati proteggere questo diritto da ogni violazione ed è vietato sopprimere la vita tranne che per una ragione prescritta dalla Sharia. b) È proibito ricorrere ai mezzi che possono provocare il genocidio dell’umanità. c) La difesa della vita umana nel disegno di Dio è un dovere prescritto dalla Sharia. d) L’integrità fisica è un diritto garantito. È dovere dello Stato proteggerlo ed è vietato infrangerlo senza una ragione prescritta dalla Sharia. ARTICOLO 3

a) In caso di uso della forza e di conflitto armato, non è consentito uccidere non belligeranti quali anziani, donne e bambini. I feriti e i malati hanno il diritto a trattamento medico; e i prigionieri di guerra hanno il diritto al cibo, all’alloggio e al vestiario. È vietato mutilare cadaveri. È fatto dovere di scambiare i prigionieri di guerra e di consentire visite e riunioni delle famiglie separate per circostanze di guerra. b) È vietato abbattere alberi, danneggiare colture o animali, nonché distruggere le costruzioni o le installazioni civili del nemico bombardandoli, minandoli o con altri mezzi. ARTICOLO 4

Ogni essere umano ha diritto alla inviolabilità e alla protezione del suo buon nome e onore durante la sua vita e dopo la sua morte. Lo Stato e la società proteggeranno la sua salma e il luogo di sepoltura. ARTICOLO 5

a) La famiglia è il fondamento della società e il matrimonio è la base del suo formarsi. Uomini e donne hanno il diritto al matrimonio e nessuna restrizione derivante da razza, colore o nazionalità impedirà loro di beneficiare di tale diritto. 159

b) La società e lo Stato rimuoveranno ogni ostacolo al matrimonio e ne faciliteranno la procedura. Essi assicureranno la protezione e il benessere della famiglia. ARTICOLO 6

a) La donna è uguale all’uomo in dignità umana e ha diritti da godere e obblighi da adempiere; essa ha la propria identità e indipendenza finanziaria e il diritto di mantenere il proprio nome e la propria identità. b) Il marito è responsabile del mantenimento e del benessere della famiglia. ARTICOLO 7

a) Fin dal momento della nascita ogni bambino ha diritti nei confronti dei genitori, della società e dello Stato ad avere appropriato nutrimento, educazione e cure materiali, igieniche e morali. Sia il feto sia la madre devono essere protetti e ricevere speciale assistenza. b) I genitori e quanti si trovano in analoga condizione hanno il diritto di scegliere il tipo di educazione che essi desiderano per i propri bambini, a condizione che essi prendano in considerazione l’interesse e il futuro dei bambini in conformità con i valori etici e i principi della Sharia. c) I genitori sono titolari di diritti rispetto ai loro figli e i parenti sono, a loro volta, titolari di diritti rispetto al ceppo di appartenenza, in conformità con le prescrizioni della Sharia. ARTICOLO 8

Ogni essere umano gode di personalità giuridica in termini di obbligazioni e di capacità di contrarre obblighi giuridici; nel caso in cui questa personalità sia perduta o limitata egli sarà rappresentato dal suo tutore. ARTICOLO 9

a) Fornire l’accesso alla conoscenza è un dovere e assicurare l’educazione è un obbligo della società e dello Stato. Lo Stato garantirà la disponibilità di vie e mezzi per acquisire l’e160

ducazione e garantirà la pluralità di offerte educative nell’interesse della società e in modo da rendere capace l’essere umano di familiarizzarsi con la religione dell’Islam e con i fatti dell’Universo a beneficio dell’umanità. b) Ogni essere umano ha il diritto di ricevere l’educazione religiosa nella sua estensione più ampia delle varie istituzioni di educazione e di orientamento, compresa la famiglia, la scuola, l’università, i media, ecc. e in modo integrato ed equilibrato tale da consentirgli di sviluppare la sua personalità, rafforzare la sua fede in Dio e promuovere il rispetto e la difesa dei diritti e doveri. ARTICOLO 10

L’Islam è una religione intrinsecamente connaturata all’essere umano. È proibito esercitare qualsiasi forma di violenza sull’uomo o di sfruttare la sua povertà o ignoranza al fine di convertirlo a un’altra religione o all’ateismo. ARTICOLO 11

a) Gli esseri umani nascono liberi e nessuno ha il diritto di renderli schiavi, umiliarli, opprimerli o sfruttarli e non esiste soggezione se non a Dio l’Altissimo. b) Il colonialismo di qualsiasi tipo, in quanto peggiore forma di schiavitù, è assolutamente vietato. I popoli che soffrono di colonialismo hanno pieno diritto alla libertà e all’autodeterminazione. È dovere di tutti gli Stati e di tutti i popoli sostenere la lotta dei popoli colonizzati per la liquidazione di qualsiasi forma di colonialismo e occupazione, e tutti gli Stati e tutti i popoli hanno il diritto di preservare la propria identità originaria e di esercitare il controllo sulle proprie ricchezze e risorse naturali. ARTICOLO 12

Ogni uomo ha il diritto, nel quadro della Sharia, di muoversi liberamente e di scegliere il luogo della propria residenza sia dentro che fuori del proprio paese e se perseguitato è legittimato a chiedere asilo in un altro paese. 161

Il paese del rifugiato garantirà la sua protezione fino a che egli raggiungerà la sicurezza, a meno che la richiesta di asilo sia fondata su un atto che la Sharia considera come un crimine. ARTICOLO 13

Il lavoro è un diritto garantito dallo Stato e dalla società a ogni persona abile a lavorare. Ognuno è libero di scegliere il lavoro che ritiene migliore e che soddisfa i propri interessi e quelli della società. Il lavoratore ha il diritto alla salute e alla sicurezza nonché a ogni altra garanzia sociale. Non gli può essere assegnato un lavoro al di là delle proprie capacità né si può assoggettarlo a violenza o sfruttamento. Egli ha il diritto – senza alcuna discriminazione tra maschi e femmine – a un equo salario per il suo lavoro così come alle vacanze e alle promozioni che merita. Da parte sua, egli è tenuto a impegnarsi meticolosamente nel suo lavoro. Nel caso in cui i lavoratori e gli impiegati siano in disaccordo su questa o quella materia, lo Stato interverrà per risolvere il conflitto, confermare i diritti e assicurare la giustizia in modo equo. ARTICOLO 14

Ognuno ha il diritto a guadagni legittimi senza monopolio, inganno o violenza sugli altri. L’usura (riba) è assolutamente vietata. ARTICOLO 15

a) Ognuno ha il diritto alla proprietà acquisita in modo legittimo ed eserciterà i relativi diritti senza pregiudizio per se stesso, gli altri o la società in generale. L’espropriazione non è consentita tranne che per esigenze di pubblico interesse e dietro pagamento di un immediato ed equo indennizzo. b) La confisca e la riduzione della proprietà è proibita tranne che per necessità dettata dalla legge. ARTICOLO 16

Ognuno ha il diritto di godere dei frutti della propria produzione scientifica, letteraria, artistica o tecnica nonché di 162

proteggere gli interessi morali e materiali che ne derivano, a condizione che tale produzione non sia contraria ai principi della Sharia. ARTICOLO 17

a) Ognuno ha il diritto di vivere in un ambiente sano, immune dal vizio e dalla corruzione morale, in un ambiente che favorisca il suo autosviluppo; incombe alla Stato e alla società in generale il dovere di rispettare tale diritto. b) Ognuno ha il diritto all’assistenza medica e a ogni pubblica agevolazione fornita dalla società e dallo Stato nei limiti delle loro risorse disponibili. c) Lo Stato assicurerà il diritto dell’individuo a una vita dignitosa che gli consenta di rispondere a tutte le esigenze proprie e a quelle dei suoi dipendenti, compresa l’alimentazione, il vestiario, l’alloggio, l’educazione, le cure mediche e ogni altro bisogno essenziale. ARTICOLO 18

a) Ognuno ha il diritto di vivere nella sicurezza per sé, la propria religione, i propri dipendenti, il proprio onore e la propria proprietà. b) Ognuno ha il diritto alla privacy nella conduzione dei suoi affari, nella sua casa, in famiglia e per quanto attiene alla sua proprietà e alla sua rete di relazioni. Non è consentito svolgere spionaggio su di esso, porlo sotto sorveglianza o infamare il suo buon nome. Lo Stato deve proteggerlo da interferenze arbitrarie. c) L’abitazione privata è assolutamente inviolabile. Non vi si può accedere senza permesso dei suoi abitanti o in maniera illegale, né può essere demolita o confiscata e il suo arredamento asportato. ARTICOLO 19

a) Tutti gli individui sono eguali di fronte alla legge, senza distinzione tra il legislatore e il cittadino. 163

b) Il diritto di ricorrere alla giustizia è garantito a tutti. c) La responsabilità è strettamente personale. d) Non c’è crimine o punizione al di fuori di quanto previsto dalla Sharia. Un imputato è innocente fino a che la sua colpa non sia provata in equo processo nel quale egli disponga di tutte le garanzie della difesa. ARTICOLO 20

Non è consentito arrestare illegalmente un individuo o restringere la sua libertà, esiliarlo o punirlo. Non è consentito assoggettarlo a tortura fisica o psicologica o a qualsiasi forma di umiliazione, crudeltà o indegnità. Non è consentito sottoporre un individuo a esperimenti medici o scientifici senza il suo consenso o a rischio della sua salute o della sua vita. Né è consentito promulgare leggi di emergenza che prevedano interventi d’autorità per tali azioni. ARTICOLO 21

La presa di ostaggi sotto qualsiasi forma e per qualsiasi motivo è espressamente vietata. ARTICOLO 22

a) Ognuno ha il diritto di esprimere liberamente la propria opinione in un modo che non contravvenga ai principi della Sharia. b) Ognuno ha il diritto di sostenere ciò che è giusto e propagandare ciò che è buono e mettere in guardia contro ciò che è sbagliato e malvagio in conformità con le norme della Sharia Islamica. c) L’informazione è una necessità vitale per la società. Essa non può essere sfruttata o distorta in modo tale da violare la sanità e la dignità dei Profeti, minare i valori morali e etici o disintegrare, corrompere o inquinare la società o indebolirne la fede. d) Non è consentito suscitare odio nazionalistico o ideologico o comunque incitare a qualsiasi forma di discriminazione razziale. 164

ARTICOLO 23

a) Autorità è fiducia; il suo abuso o il suo malevolo esercizio è assolutamente vietato, affinché i diritti umani fondamentali possano essere garantiti. b) Ognuno ha il diritto di partecipare, direttamente o indirettamente alla amministrazione dei pubblici affari del suo paese. Egli ha anche il diritto di assumere cariche pubbliche con le disposizioni della Sharia. ARTICOLO 24

Tutti i diritti e le libertà enunciate nelle presente Dichiarazione sono soggette alla Sharia Islamica. ARTICOLO 25

La Sharia Islamica è la sola fonte di riferimento per l’interpretazione di qualsiasi articolo della presente Dichiarazione. [Risoluzione 49/19-P della XIX Conferenza Islamica dei Ministri degli Esteri, 5 agosto 1990, Centro italiano studi per la pace; www.studiperlapace.it]

I MUSULMANI D’ITALIA CONTRO IL TERRORISMO

Affinché non s’interrompa irrimediabilmente un’apprezzabile prassi di convivenza e di dialogo tra i musulmani che vivono in Europa e i loro concittadini di altre o nessuna religione, affinché la follia omicida di una fazione microscopica del tutto estranea alla comunità islamica non possa compromettere e rendere impossibile la vita di tutti gli altri musulmani e musulmane che vivono in Occidente, affinché la dottrina, l’esegesi e la giurisprudenza islamica non siano utilizzate per seminare morte e devastazione nelle nostre città e nelle nostre vite, noi dirigenti Ucoii, insieme ai rappresentanti delle associazioni islamiche e agli imam delle moschee in Italia, affermiamo che: 1. La rivelazione coranica che sta alla base della nostra religione e la sunna (prassi) del profeta Muhammad hanno confermato quanto era contenuto nelle rivelazioni che erano state date ai profeti (pace su tutti loro). «Credono in quello che è stato fatto scendere su di te e quello che è stato fatto scendere prima di te» (Corano II, 4), e cioè l’unità, unicità di Dio e l’obbligo morale dell’uomo e delle comunità di essere attori del bene in questa vita terrena per ottenere il bene nell’Altra vita. Questo obbligo morale è sintetizzato nell’imperativo dell’«ordinare il bene e condannare il male» condizione sine qua 166

non per rimanere nel sereno equilibrio tra gli obblighi di questa vita e quelli finalizzati alla vita eterna. In questa prospettiva generale è un imperativo del musulmano e della musulmana adoperarsi con tutte le sue capacità e tutto il suo impegno alla realizzazione della pace e della concordia tra le creature umane e tra le forme comunitarie e statuali che esse si sono date per organizzare la loro vita terrena. «Raccomandano le buone consuetudini e proibiscono ciò che è riprovevole» (Corano XXII, 41). 2. Ogni comportamento che scientemente nuoccia alla sicurezza collettiva e tenda a destabilizzare le società introducendo elementi d’insicurezza o rischio collettivi, per qualunque scopo dichiarato esso venga perpetrato, è oggettivamente una fitna (un’eversione malefica), estendendo questo termine a ogni forma di terrorismo, guerra civile, e aggressione contro le creature innocenti. Infatti l’azione del musulmano e della musulmana dev’essere improntato alla benevolenza e alla misericordia nei confronti di tutte le creature in forza di una misericordia generale che Iddio ben chiarisce nel Corano quando rivolgendosi al Suo Inviato (pbsl) dice: «In verità tu sei una misericordia per i mondi». Fa parte dell’etica islamica la sincerità nei confronti di tutti gli esseri e pertanto non è tollerabile nessuna ambiguità nel discorso e nei comportamenti. «Non spargete la corruzione sulla terra, dopo che è stata resa prospera» (Corano VII, 56). 3. Nella totalità dei paesi occidentali (intesi convenzionalmente come Europa e le Americhe) la condizione religiosa dei musulmani e la loro relazione con lo spazio pubblico è retta da impianti costituzionali e leggi ordinarie che ne garantiscono sostanzialmente la libertà di culto e di associazione. Questi ordinamenti e queste leggi rendono possibile la vita delle musulmane e dei musulmani, e le restrizioni che sono state recentemente introdotte in alcuni paesi, per quanto 167

inopportune e ingiuste, come la legge sul divieto del foulard islamico nelle scuole francesi, non inficiano il quadro generale di eguaglianza di fronte alla legge. In queste condizioni il musulmano e la musulmana, siano essi cittadini di quegli Stati o stranieri residenti in forza di un documento di soggiorno o comunque presenti sul territorio nazionale, sono tenuti al rispetto della legge generale, alla lealtà e alla collaborazione nei confronti delle istituzioni che le garantiscono. «Se inclinano alla pace, inclina anche tu ad essa e riponi la tua fiducia in Allah» (Corano VIII, 61). Nei confronti dei correligionari, sottoposti alla dura prova della guerra e del terrorismo, la solidarietà, nel rispetto delle leggi che reggono gli Stati europei ed occidentali in genere, può essere variamente espressa ed esercitata sotto il profilo umanitario e, ove possibile, attraverso un azione informativa, di lobbying o di massa per esercitare pressioni politiche mediante legittime forme di protesta previste nell’ordinamento democratico finalizzate a far cessare la violenza e l’ingiustizia. Un’azione che può e deve essere condotta in intesa con la grande maggioranza della popolazione italiana che ha espresso e continua ad esprimere la sua contrarietà ad ogni forma di violenza. Aldilà di queste forme solidali e politiche la sola altra azione lecita è la preghiera dei credenti affinché la misericordia di Dio muova verso gli oppressi e li sollevi. «Aiutatevi l’un l’altro in carità e pietà e non sostenetevi nel peccato e nella trasgressione» (Corano V, 2). Il rapporto dei musulmani con i credenti di altre religioni o le persone che non hanno alcun riferimento religioso o spirituale dev’essere improntato alla bontà e alla giustizia in nome della comunanza umana e in nome della misericordia e giustizia che il musulmano deve applicare nei confronti di tutte le creature. Nel Corano sta scritto: «In verità abbiamo onorato i figli di Adamo» (Corano XVII, 70), inten168

dendo tutte le creature umane che sono meritorie di rispetto e di amore. Il Profeta chiarì che vi sarebbe stata una ricompensa per la bontà verso qualunque creatura, umana o animale. La prima forma di giustizia e bontà risiede nel rispetto della vita, dell’incolumità, dei beni e dell’onore delle persone, a qualunque religione, etnia o nazionalità appartengano. «Allah non vi proibisce di essere buoni e giusti nei confronti di coloro che non vi hanno combattuto per la vostra religione e che non vi hanno scacciato dalle vostre case, poiché Allah ama coloro che si comportano con equità» (Corano LX, 8). Nella fattispecie oggettiva delle minacce che sarebbero state rivolte contro l’Italia da parte di organizzazioni terroriste, ribadiamo la centralità del lavoro di prevenzione e di educazione alla cultura della pace, della legalità e della cittadinanza attiva, nel rispetto delle diversità e delle appartenenze religiose e laiche, svolto da quasi tre decenni dalle associazioni islamiche in Italia, da sempre all’avanguardia in questo campo e la ferma determinazione a continuare questo lavoro nell’interesse del bene del Paese. Considerato quanto sopra e analizzando le azioni del terrorismo realizzate dalla cosiddetta al-Qaeda, siamo certi di affermare che nessuna base giuridica o giurisprudenziale sta alla base di siffatti comportamenti. Infatti, la giurisprudenza islamica fa assoluto divieto di colpire i non belligeranti, le donne, i bambini, gli anziani. Basterebbe questa reiterata trasgressione a escludere ogni legittimità alle azioni terroristiche che colpiscono in paesi islamici e occidentali centinaia di persone innocenti tra le quali cittadini e residenti musulmani. «Allah non guida gli ingiusti» (Corano IX, 109). Per queste semplici ragioni e alla luce del fatto che: a) anche se fosse una reazione ad altre pregresse ingiustizie, il terrorismo è reazione scomposta e criminale del tutto inaccettabile dalla coscienza e dalle menti dei credenti; 169

b) l’iper-mediatizzazione e la forma delle rivendicazioni espresse con terminologia religiosa danneggiano gravemente l’immagine dei musulmani alzando un muro di diffidenza e di vera e propria paura, rendendo impossibile la trasmissione del messaggio dell’Islam; c) la destabilizzazione che esso provoca nelle società che ne sono vittime assume ampiezza e profondità tali da compromettere seriamente la convivenza tra i musulmani e i loro concittadini di altre o nessuna religione e rischia di renderla impossibile. Noi sottoscritti dirigenti della comunità musulmana e imam, rappresentanti delle realtà islamiche in Italia affermiamo solennemente: 1. l’incompatibilità del metodo terrorista con la dottrina, la giurisprudenza e la cultura islamiche; 2. la condanna assoluta e incontrovertibile delle azioni che conducono a stragi di innocenti o tendenti alla destabilizzazione delle società e al conseguente disordine sociale e civile; 3. la repulsione nei confronti delle rivendicazioni che usano strumentalmente e blasfemamente le parole del Corano e del Profeta, e invitiamo tutti i musulmani e le musulmane d’Italia a: a) non attribuire nessuna valenza islamica a queste azioni anzi a ritenerle una grave eversione (fitna) dalla quale è obbligatorio separarsi e difendersi con estrema chiarezza e responsabilità; b) ricordiamo che stante quanto sopra affermato è fatto assoluto divieto di fornire supporto materiale o anche solo logistico, verbale o appoggio morale a persone di cui si potesse ragionevolmente sospettare attitudini o convinzioni aberranti in merito all’uso della violenza con la demagogica pretesa di far trionfare la causa islamica colpendo gli innocenti o le strutture civili e politiche delle società; c) relazionarsi lealmente con le istituzioni dello Stato e denunciare progetti di attentati o formazione di gruppi a que170

sta finalità costituiti e organizzati, di cui si fosse venuti a conoscenza. Disse il profeta Muhammad: «Aiuta tuo fratello, sia che faccia il bene sia che faccia il male», «Come mai potremmo aiutarlo a fare il male?», chiesero i Compagni. «Impedendogli di farlo» concluse l’Inviato di Allah. [Il documento, già approvato dalla direzione dell’Ucoii, è stato presentato all’assemblea straordinaria delle associazioni islamiche in Italia a Bologna, domenica 31 luglio 2005, presso la Moschea di Via Pallavicini 13]

INDICE

Prefazione di Gianni Riotta Introduzione

VII XIII

1. Chi ha paura dell’islam?

3

2. Al di là del velo: la questione femminile

25

3. Noi e gli altri: il conflitto delle identità

44

4. Israele: il Nemico

69

5. Se la «umma» sostituisce lo Stato

90

6. Osama: eroe dell’islam contemporaneo?

110

Postfazione

125

Note

129

Bibliografia

139

Nota dell’autore

143 173

Appendice Manifesto contro il terrorismo e per la vita, p. 153 - Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’islam, p. 157 - I musulmani d’Italia contro il terrorismo, p. 166

151

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