Il tesoro nascosto. Intorno ai testi inediti e ritrovati della giovane Elsa Morante, con sei storie e una poesia dell'autrice 9788822905956, 9788822913777

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Il tesoro nascosto. Intorno ai testi inediti e ritrovati della giovane Elsa Morante, con sei storie e una poesia dell'autrice
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Elena Porciani Il tesoro nascosto

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Intorno ai testi inediti e ritrovati della giovane Elsa Morante, con sei storie e una poesia dell’autrice

Quodlibet

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Prima edizione: gennaio 2023 © 2023 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 – 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di nw srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn) isbn 978-88-229-0595-6 | e-isbn 978-88-229-1377-7

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Quodlibet Studio. Lettere Collana diretta da Franco D’Intino Comitato scientifico Franco D’Intino, Sapienza Università di Roma Paul Hamilton, Queen Mary University of London Robert Pogue Harrison, Stanford University Bernhard Huß, Freie Universität Berlin Thomas Pavel, University of Chicago Paolo Tortonese, Université Sorbonne Nouvelle Paris 3 Volume pubblicato con un finanziamento di ateneo dell’Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’ e con un finanziamento stanziato nell’ambito del Progetto Eccellenza 20182022 del Dipartimento di Lettere e Beni Culturali della medesima Università.

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Indice



7



11

Introduzione. La preistoria fatta storia



19

Storie della prima gioventù



21 1.1 Bambole sul «Balilla»



43 2.



44 2.1 Una ninna nanna e un sequel



65 3.



67 3.1 Le leggi dei pesi

9

1.

Premessa Nota al testo

26 1.2 Eroici fratelli 32 1.3 Due storie postume 36 1.4 Una principessa e un’artista

Billi e la Favolaia della luna

50 2.2 Favolose metalessi e creature stellari 56 2.3 Trionfi lunari e dispetti della Befana

Dalla preistoria all’Isola di Capri

71 3.2 Una fantasia mitologica 74 3.3 Nidi e riti d’amore

87 4.

Fantastiche passioni

89 4.1 Tra sacro e profano 97 4.2 Eros demoniaco 106 4.3 Un’attrice senza palcoscenico

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6



indice 113 5.

Memorie dell’impero

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115 5.1 Una monaca per la città 127 5.2 Sul Ponte Alessandro



133 6.

Drammi di famiglia e d’amore



134 6.1 Arsenico e vecchie trame



165 7.

143 6.2 Frammenti luttuosi 150 6.3 Primi amori I 156 6.4 Primi amori II

Una pesante molteplicità

166 7.1 Una disgraziata ginnasta 174 7.2 Il peso del male 178 7.3 Il sogno di una matrigna



185 8.

Umorismi e parodie poetiche

186 8.1 Vite da cani 189 8.2 Effetti di un divorzio 195 8.3 L’ineffabile poeta Fernando

Appendice Sei storie e una poesia di Elsa Morante

225

Storia di una bambina e di due bambole Il sogno di Pietruccio Storia di Nic e di Nichita La ninna nanna del piccolo Billi Peppuccio, padrone di un bazar Il ritratto della principessa La zia Sì e la zia No

229

Indice dei nomi

207

210 213



216 219 222



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Premessa

Questo lavoro costituisce il terzo episodio monografico di un percorso di ricerca su Elsa Morante ormai più che ventennale, avviato negli anni del dottorato e concretizzatosi in vari saggi e nei due volumi L’alibi del sogno nella scrittura giovanile di Elsa Morante e Nel laboratorio della finzione. Modi narrativi e memoria poietica in Elsa Morante, pubblicati rispettivamente nel 2006 e nel 2019. Nelle pagine iniziali di Nel laboratorio della finzione avevo preannunciato l’intenzione di dedicare un ulteriore momento di ricerca ai materiali giovanili riemersi dall’Archivio Morante sito presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. In realtà, due sezioni del libro andavano già in questa direzione – il primo capitolo dedicato alla duplice vicenda redazionale di Via dell’Angelo e l’appendice incentrata sulle carte del Ladro dei lumi –, ma il progetto alla base della presente ricerca è più sistematico e consiste in una presentazione e interpretazione complessiva dei documenti ritornati alla luce dopo le donazioni degli eredi nel 2007 e, soprattutto, nel 2016. Non senza l’emozione di chi si avventura in un territorio inesplorato e scopre via via nuove storie e parole dell’autrice che più ama, il primo obiettivo che mi sono prefissata è stato di approfondire la mappatura delle costanti tematiche e diegetiche di Morante: nell’orizzonte di una scrittura che continuamente ripropone, variati, motivi e figure di un immaginario magmatico e modulare. Al contempo, mi sono riproposta di aggiornare la periodizzazione della produzione giovanile offerta nell’Alibi del sogno che, essendo limitata ai lavori editi disponibili quindici anni fa, risulta per certi versi superata, per quanto mi appaia tuttora valida la tripartizione in tre momenti che avevo individuato, segnata da una decisiva svolta intorno alla metà degli anni Trenta. All’indagine sui materiali dell’Archivio ho poi voluto affiancare in questa occasione il recupero di quelle pubblicazioni sui periodici per

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8

premessa

l’infanzia dei primi anni Trenta – «Il Balilla», «Corriere dei piccoli», «Il cartoccino dei piccoli» – di cui il carteggio dal 1933 al 1942 con l’amica illustratrice Luisa Fantini fornisce alcune notizie sparse. Ho così ritrovato sei storie e una poesia per l’infanzia dimenticate, i cui testi pubblico in appendice grazie alla cortese e generosa autorizzazione concessami dagli eredi Carlo Cecchi e Daniele Morante. Si tratta di lavori solo apparentemente marginali, dato che meglio consentono di indagare le origini della scrittura morantiana, riguardo alle quali sempre meno ormai si può affermare che siano avvolte nell’enigma della preistoria.

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*** Desidero ringraziare Carlo Cecchi e Daniele Morante per la loro gentilissima disponibilità e il loro cortese permesso a pubblicare i testi ritrovati dell’autrice; Eleonora Cardinale e Annamaria Piccigallo per il loro fondamentale supporto nella consultazione dei materiali conservati presso l’Archivio Morante della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma; Franco D’Intino per avere promosso questa pubblicazione e il Dipartimento di Lettere e Beni Culturali dell’Università della Campania ‘Luigi Vanvitelli’ per averla sostenuta, in special modo Maria Luisa Chirico e Giulio Sodano. Grazie a Davide Pettinicchio per la cura con cui ha accompagnato la pubblicazione del volume e a Elisiana Fratocchi per la lettura finale. Ringrazio poi, come sempre, Gerarda ed Enrico. Il libro è dedicato alla memoria di Lino: «Nessuna anima vivente | fu più innocente e amorosa della sua».

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Nota al testo

I paragrafi 1.1, 5.1, 6.3 e 7.2 costituiscono in parte una rielaborazione di Al crocevia della preistoria morantiana: i quattro testi ritrovati nelle carte giovanili, in Eleonora Cardinale - Giuliana Zagra (a cura di), «Nacqui nell’ora amara del meriggio». Scritti per Elsa Morante nel centenario della nascita, Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, Roma 2017, pp. 97-110. Il capitolo 2, eccetto la sezione sulla poesia del «Cartoccino dei piccoli», è stato pubblicato con alcune varianti e il titolo La Prima Favolaia del Regno della luna. Il mio straordinario viaggio in cerca di Billi di Elsa Morante, in «Oblio. Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca», X, 2020, 40, pp. 143-160, https://www.progettoblio.com. Il paragrafo 7.1 è stato pubblicato con qualche variante e il titolo Tracce giovanili della pesanteur. La lezione di ginnastica, un racconto inedito di Elsa Morante, in «Oblio. Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca», XI, 2021, 44, pp. 171-180, https://www.progettoblio.com. Il paragrafo 8.3 è tratto dal contributo redatto per gli Atti, in corso di pubblicazione, del Convegno Spazi900. Studi sulle nuove acquisizioni letterarie della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, a cura di Eleonora Cardinale, tenutosi presso la BNCR il 27 settembre 2018. Abbreviazioni Aneddoti infantili, Einaudi, Torino 2013. Aracoeli (1982), Einaudi, Torino 1989. L’isola di Arturo (1957), Einaudi, Torino 1995. Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina e altre storie, a cura di Giuseppe Pontremoli, Einaudi Ragazzi, Trieste 1995. Cronologia Cesare Garboli - Elsa Morante, Cronologia, in Elsa Morante, Opere, a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, Mondadori, Milano 1988, vol. I, pp. XVII-ICI. Dimenticati Racconti dimenticati, a cura di Irene Babboni e Carlo Cecchi, Presentazione di Cesare Garboli, Einaudi, Torino 2004.

Aneddoti Aracoeli Arturo Caterì

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nota al testo

L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, a cura di Daniele Morante con la collaborazione di Giuliana Zagra, Einaudi, Torino 2012. Lettere Diario 1938 (Lettere ad Antonio), a cura di Alba Andreini, Einaudi, Torino 1989. Menzogna Menzogna e sortilegio (1948), Einaudi, Torino 1994. Mondo Il mondo salvato dai ragazzini (1968), Einaudi, Torino 1995. Pro o contro Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, a cura di Cesare Garboli, Adelphi, Milano 1987. Scialle Lo scialle andaluso (1963), Einaudi, Torino 1994. Storia La Storia (1974), Einaudi, Torino 1995.

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L’amata

Le citazioni dei racconti riemersi dall’Archivio Morante saranno seguite dalla segnatura; nella trascrizione dei passi ho corretto i refusi, normalizzato gli accenti, trasformato il sottolineato in corsivo e inserito i segni di interpunzione dove questi mancavano. Riguardo invece alle citazioni dalle pubblicazioni ritrovate, esse saranno indicate con la denominazione e la data del periodico, seguite dal numero di pagina.

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Introduzione La preistoria fatta storia

Io […] scrivo tutti i giorni, ma solo per scrupolo di coscienza, perché appena la cosa è scritta si presentano due problemi. Il primo costa molte fatiche a risolverlo ed è: trovare uno che te la paghi. Il secondo purtroppo è insolubile ed è che, se anche te la [xxxx] pagano, lo fanno fra tre o quattro mesi. E intanto che si fa? (L’amata, p. 32)

Il passo, tratto da una lettera all’amica illustratrice Luisa Fantini databile al 12 settembre del 19341, testimonia l’indefessa attività scrittoria con cui la poco più che ventiduenne Elsa Morante prova a far fronte ai pressanti problemi economici che la affliggono, dovuti alla decisione, senz’altro coraggiosa negli anni Trenta del Novecento, di lasciare la famiglia e rendersi indipendente: «Figurati che ora sono proprio sola sola, non vado mai, più, a casa, e questo vuol dire che devo pensare alla colazione, al pranzo, tutto da me» (ibid.). È in primo luogo nell’orizzonte di questa molto concreta esigenza di sbarcare il lunario che si dovrà inquadrare «il presto e il veloce»2 della produzione giovanile dell’autrice, oltre che nell’indiscutibile vocazione letteraria che pure emerge dalle lettere a Fantini: un forsennato bisogno di pubblicare che in circa un decennio, dal 1931 al 1941, produce – allo stato attuale delle nostre conoscenze3 – un corpus di 1  Riguardo alla datazione dei documenti, Giusi Letizia Rapisarda, cui si deve il reperimento del carteggio, ricorda come Luisa Fantini avesse conservato con grande cura le lettere: «Tutte in perfetto ordine cronologico, divise per anni» («Scricciolo & C.» di Guelfo Civinini, Elsa Morante, Luisa Fantini o dell’utopia di una felicità semplice, «F.M. 1995. Annali del Dipartimento di Italianistica», 1996, p. 82). 2  Carlo Cecchi - Cesare Garboli, Prefazione, in Elsa Morante, Opere, a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, Mondadori, Milano 1988, vol. I, p. XIII. 3  È questa un’avvertenza di cui si dovrà costantemente serbare memoria perché, sebbene il corpus delle pubblicazioni note si sia negli anni ampliato, è possibile, oltre che auspicabile, che nuove scoperte riportino alla luce lavori dimenticati oppure rivelino come lavori al momento da considerarsi inediti siano invece apparsi in rivista.

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il tesoro nascosto

più di centoquaranta lavori usciti in rivista, corrispondenti a ventitré storie per bambini, un romanzo per l’infanzia come ghost writer4, dodici poesie e filastrocche, settantacinque racconti, un romanzo a puntate, due articoli a proprio nome e trenta firmati Antonio Carrera o Renzo/Lorenzo Diodati, a cui devono aggiungersi la raccolta di racconti Il gioco segreto (Garzanti, 1941) e la fiaba lunga Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina (Einaudi, 1942). Solo in alcuni casi, a partire dal «macrotesto»5 del «Meridiano di Roma» del 1937-1938, questi lavori raggiungono un livello considerevole. Siamo di fronte, indubbiamente, a una scrittrice in formazione, che sta cercando con tutte le forze di trovare la sua strada non solo nel mondo letterario, ma proprio nella vita, pagando con la solitudine e la povertà la scelta di indipendenza. Ciò non spiega però l’esigua attenzione che questo ricco corpus ha sinora ricevuto, né si può addurre a giustificazione il fatto che tuttora manchi un’edizione integrale e filologicamente avvertita delle opere giovanili, anche perché tutte le pubblicazioni degli anni Trenta e Quaranta, non solo i lavori raccolti in seguito da Morante o ripubblicati in raccolte postume6, sono – con un po’ di pazienza – reperibili7. Continuare a non conoscere o disconoscere la prima Morante – perché è questa la vera prima Morante, non quella di Menzogna e

4  Si ricorderà che Elsa Morante, come ghost writer, e Luisa Fantini, come illustratrice, ma anche redattrice di alcune parti, collaborarono alla redazione di Scricciolo & C., un romanzo per bambini apparso con la firma di Guelfo Civinini dapprima a puntate sul «Corriere dei piccoli» tra il 28 aprile e 14 luglio 1935 e poi in volume presso Bemporad nel 1937. Come ricorda Daniele Morante, nella copia del libro in possesso della scrittrice, ora conservata nell’Archivio, «sotto la dedica di Civinini, “A Elsa / questo mio libro che è anche un po’ suo”, leggiamo l’ironico commento di Elsa, “Grazie per quell’un po’!!!”» (L’amata, p. 10). Sulla questione cfr. Rapisarda, «Scricciolo & C.» di Guelfo Civinini cit., pp. 59-88. 5  Gabriella Contini, Elsa Morante: autoritratti d’autrice. Dal «Meridiano di Roma» allo «Scialle andaluso», «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena», XIV, 1993, p. 163. 6  Elsa Morante, Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina e altre storie, a cura di Giuseppe Pontremoli, Einaudi Ragazzi, Trieste 1995; Ead., Racconti dimenticati a cura di Irene Babboni e Carlo Cecchi, Presentazione di Cesare Garboli, Einaudi, Torino 2002; Ead., Aneddoti infantili, Einaudi, Torino 2013. 7  Le scansioni di molte pubblicazioni giovanili sono persino scaricabili dal meritorio sito della mostra Le stanze di Elsa, organizzata da Simonetta Buttò e Giuliana Zagra presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma nel 2006. Cfr. Le stanze di Elsa, http://193.206.215.10/morante (ultimo accesso 26.11.2021).

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introduzione. la preistoria fatta storia

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sortilegio8 – ha ormai le sembianze di un’insostenibile lacuna della critica, la quale, anzi, tra i suoi compiti dovrebbe avere quello di setacciare i periodici degli anni Trenta e primi Quaranta alla ricerca di eventuali altre pubblicazioni sommerse da riportare alla luce. Così è accaduto, sulla scorta di indizi sparsi dalla stessa autrice o altri testimoni, per i testi poetici apparsi sull’«Eroica» tra il 1931 e il 1933 e sulla «Rassegna nazionale» nel 1935, come si ricorderà nell’ultimo capitolo, ma si avverte la necessità di un lavoro più sistematico. In attesa di una simile iniziativa, in questa sede ho inteso fornire un contributo a tale filone di indagine recuperando alla memoria alcune pubblicazioni apparse sul «Balilla», «Corriere dei piccoli» e «Il cartoccino dei piccoli» fra il 1932 e il 1935, grazie ai riferimenti che si possono reperire nelle lettere a Luisa Fantini pubblicate da Daniele Morante nel volume del 2012 L’amata. Lettere di e a Elsa Morante9. La riscoperta di questi testi, peraltro, sottrae alla favoletta Paoletta diventò principessa, apparsa sul «Corriere dei piccoli» il 12 febbraio 1933, lo status di debutto narrativo della scrittrice; di tale titolo può adesso fregiarsi Storia di una bambina e di due 8  Così come Menzogna e sortilegio non è il primo romanzo di Elsa Morante, ma il secondo, dato che, a prescindere dal suo basso valore letterario, la definizione di esordio romanzesco spetta a Qualcuno bussa alla porta, uscito in ventinove puntate sulla rivista per insegnanti elementari «I diritti della scuola» dal 25 settembre 1935 al 15 agosto 1936. Vi torneremo nei prossimi capitoli. 9  Per quanto concerne il ritrovamento delle storie, non meno prezioso è stato il fatto che tra i numerosi ritagli delle proprie opere conservati dalla scrittrice si trovi anche quello della Zia Sì e la zia No, sulla cui intestazione chiaramente si legge «“Il Balilla”, n. 23» (A.R.C. 52 I 1.22, c. 62): più che un invito, si può intuire, a effettuare una ricognizione delle annate del periodico in cerca di altri testi che, in effetti, sono venuti alla luce. Peraltro, se, come è probabile, più di un quindicennio prima di essere trasferito alla BCNR, questo corpus di ritagli ha costituito la principale fonte per la redazione della Bibliografia che chiude il secondo Meridiano del 1990, è degno di nota che nella lista dei lavori giovanili presente in tale sezione questo titolo manchi. Colpisce, inoltre, che dal ritaglio siano state eliminate le illustrazioni dell’amica Luisa. Si dovrà ricordare poi che nella lettera del 12 novembre 1938 Morante mostra tutto il suo irritato stupore per una pubblicazione avvenuta a sua insaputa sul «Tamburino della gioventù italiana all’estero», di cui le ha dato notizia Luisa Fantini in una precedente comunicazione: «io non ho mai visto questo giornale né ho mai autorizzato la direttrice a riportare quella mia novelletta, che era apparsa in un’altra rivista» (L’amata, p. 65). La novella in questione è con ogni probabilità Infanzia di Gesù, uscita il 15 maggio 1938 sui «Diritti della scuola» e ripubblicata sul quindicinale diretto da Liana Ferri il 15 agosto dello stesso anno. Sul periodico furono ripubblicati vari lavori già editi di Morante, come La chiesa povera (15 febbraio 1938), Il sogno delle cento culle (15 marzo 1938) e Un negro disoccupato (7 marzo 1939).

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il tesoro nascosto

bambole, uscito sull’organo ufficiale dell’Opera Nazionale Balilla l’11 agosto 1932. Riguardo a questa collaborazione, si può immaginare che in seguito, visto il suo percorso culturale e ideologico10, Morante non ricordasse volentieri simili esordi, che rischiavano – e rischiano – di apparire uno scheletro nel suo armadio giovanile; e si intuisce che non solo per ragioni estetiche nella sua maturità non amasse troppo rivangare la memoria della prima fase della sua opera. Tanto più, quindi, si dovrà tenere presente, oltre all’impellente necessità di guadagnarsi da vivere che si è detta, il contesto sociale da cui proviene la giovanissima autrice e nel quale ancora si muove nei primissimi anni Trenta: «una famiglia piccolo-borghese: appartenente, cioè, per istruzione alla borghesia; e, per la povertà, al popolo basso» (Cronologia, p. XX), in cui Elsa affianca alla sua originaria religiosità la propensione per un epigonale romanticismo dannunziano. I suoi esordi poco hanno a che fare con la più aggiornata sensibilità letteraria del tempo, cosa che contribuisce anche a rendere conto dell’ammirazione per un autore come Guelfo Civinini, colui che a inizio anni Trenta la introduce in sedi di pubblicazione più o meno direttamente affiliate al regime. Più che suscitare sconcerto, pertanto, i racconti del «Balilla» sono rilevanti per ricostruire la complessa minorità degli esordi di Morante, caratterizzati dalla pratica di generi estranei all’alta cultura e dalla pubblicazione in sedi tutt’altro che canoniche. Meglio si comprende, in altri termini, la struggle for literary life della giovane autrice, entrata nella repubblica delle lettere dalla porta di servizio, ma determinata a vivere di letteratura. Più in generale, non è solo la riscoperta di pubblicazioni risalenti al 1931 e al 1932 a consentire di rivedere la periodizzazione della fase giovanile dell’autrice11. Mettendoci nelle condizioni di osservare 10 

Si pensi all’impietoso ritratto di Mussolini che Morante affida a una pagina di diario nel 1945, all’indomani della sua morte – «uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo» (Cronologia, p. LI) –, ma anche alla maggiore consapevolezza che emerge già nelle lettere della seconda parte del 1938, nel clima delle leggi razziali. Menzionando il fatto che Alberto (Moravia) può fare poco per una questione che evidentemente sta cuore all’amica Luisa, le scrive: «Le cose sono molto cambiate (non leggi i giornali?)» (L’amata, p. 61). 11  Per una sintesi dello stato dell’arte prima del presente volume cfr. Elena Porciani, Per una periodizzazione aggiornata della scrittura giovanile di Elsa Morante, «Oblio. Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca», VIII, 2018, 32, pp. 167-177, https://www.progettoblio.com (ultimo accesso 31.12.2021).

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dall’interno il suo laboratorio narrativo, anche gli inediti riemersi dall’Archivio Morante dopo le donazioni del 2007 e del 2016 contribuiscono a scandire la produzione giovanile in tre momenti: una prima fase, dal 1931 al 1935, caratterizzata dalla pratica delle storie per bambini e da una narrativa romanzesco-sentimentale; un cruciale periodo di mezzo, tra il 1936 e il 1938, in cui la scrittrice si volge verso il fantastico-psicologico; gli anni di «Oggi», compresi tra il 1939 e il 1941, che definiscono la giovinezza più tarda dell’autrice, al termine della quale escono i due volumi sopra ricordati: nel 1941 Il gioco segreto e nel 1942 Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina. In particolare, il triennio 1939-1941 è contraddistinto, in ragione della regolare collaborazione al rotocalco di Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio, da un ritmo di pubblicazione più elevato rispetto agli anni precedenti, ma soprattutto da un ampliamento delle proprie corde espressive, che si aprono all’umorismo e al riuso parodico dei modi narrativi praticati negli esordi. Siamo già, in altre parole, nell’area dell’ipergenere di Menzogna e sortilegio12, romanzo che, letto al termine del viaggio negli anni giovanili di Morante, tende ad apparire il punto di arrivo di un lungo e tortuoso apprendistato letterario, per quanto non solo in questo, ovviamente, esso consista. Al contempo, pur non mirando a offrire un minuzioso commento testuale né una edizione critica dei materiali riemersi, il presente volume ambisce a essere parte di quella svolta filologica degli studi morantiani che si deve in primis al caso, assai raro, di avere a disposizione in un’unica sede, l’Archivio della scrittrice sito nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, la quasi totalità delle sue carte, oltre ai libri e dischi a lei appartenuti13: un autentico «tesoro nascosto» (Il mondo, p. 122), la cui esplorazione costituisce, oltre che una conti12 

Cfr. Elena Porciani, Nel laboratorio della finzione. Modi narrativi e memoria poietica in Elsa Morante, Sapienza Università Editrice, Roma 2019, https://www.editricesapienza.it, pp. 6-12 e 111-199. 13  Per una storia più puntuale delle donazioni degli eredi di Morante dal 1989 al 2013 cfr. Giuliana Zagra, “La Stanza di Elsa” alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, con una postfazione di Carlo Cecchi, Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, Roma 2015; Eleonora Cardinale, Il direttore scrive agli scrittori: un archivio della letteratura italiana contemporanea per la nuova Biblioteca Nazionale, in Andrea De Pasquale (a cura di), La grande biblioteca d’Italia. Bibliotecari, architetti e artisti all’opera (1975-2015), Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, Roma 2016, pp. 217-230; Monica Zanardo, Il poeta e la grazia. Una lettura dei manoscritti della Storia di Elsa Morante, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2017, pp. 17-19.

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nua «festa» (ibid.), una delle strade più fertili per il futuro prossimo della critica morantiana. In primo luogo, gli inediti riemersi dall’officina autoriale ci consentono di riconoscere nel modo di lavorare della giovane Morante certe prassi ricorrenti, come l’affidare le proprie idee ad alcune notazioni sparse e il redigere i racconti a mano, per trascriverli solo successivamente in forma dattiloscritta, generalmente in due copie ottenute con la carta carbone. Su queste poi, in tempi diversi, l’autrice interviene cancellando, correggendo, integrando, nell’orizzonte di un’incessante e minuziosa opera di revisione che mostra come, nonostante i ritmi di lavoro, non venga mai meno, già a quest’altezza cronologica, la cura certosina del proprio lavoro. D’altro canto, l’attenzione alla genesi e alle varianti delle carte morantiane arricchisce l’indagine sui cospicui fenomeni di autointertestualità che caratterizzano la scrittrice. Il «dilatarsi, moltiplicarsi e rifrangersi in situazioni, ambienti e personaggi ricorrenti»14 tipico della sua opera si lega alla capacità di Morante, da vera sarta della finzione, di tessere racconti, ma anche poesie, riusando segmenti testuali pregressi alla luce delle mutate esigenze compositive15. Ciò non deve tradursi, sul piano interpretativo, in una qualche idea di teleologismo o di ipercontrollo autoriale, anche perché la stessa autrice si stupisce, in una preziosissima annotazione del 1945 nel cosiddetto Quaderno di Narciso, nella quale più volte ci imbatteremo, di aver riutilizzato un’espressione di una poesia adolescenziale senza averne avuto alcuna consapevolezza. Piuttosto, sarà da rilevare come, sospeso fra memoria profonda e riuso cosciente, il fenomeno riguardi la persistenza nei decenni di immagini, motivi, tipi umani e persino nomi, come nel caso molto suggestivo, come vedremo, delle bambine di nome Ida. Da questo punto di vista, di fronte alla produzione giovanile, si ha l’impres14  Giuseppe Nava, Il ‘gioco segreto’ di Elsa Morante: i modi del racconto, in Concetta D’Angeli - Giacomo Magrini (a cura di), Vent’anni dopo La Storia. Omaggio a Elsa Morante, «Studi novecenteschi», XXI, 1994, 47-48, p. 53. Continua lo studioso, legando la magmaticità della scrittura morantiana più a una cristallizzazione psicologica che a un’attitudine letteraria, che si tratterebbe della «metastasi di un antico trauma, intorno a cui ruota l’intera opera» (ibid.). 15  Cfr. Giuliana Zagra, Le stanze di Elsa. Appunti sul laboratorio di scrittura di Elsa Morante, in Giuliana Zagra - Simonetta Buttò (a cura di), Le stanze di Elsa. Dentro la scrittura di Elsa Morante (Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, 27 aprile - 3 giugno 2006) Colombo, Roma 2006, pp. 6-7; Zanardo, Il poeta e la grazia cit., pp. 32-35; Porciani, Nel laboratorio della finzione cit., pp. 39-40.

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introduzione. la preistoria fatta storia

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sione di una sorta di filiera narrativa che, attraverso una travagliata sperimentazione di forme e modi della scrittura, dalle filastrocche e storie per l’infanzia perviene a Menzogna e sortilegio e oltre: come ci trovassimo al cospetto di figure e personaggi che si presentano in cerca di un’autrice sul palcoscenico mentale di Morante, dal «teatrino coi burattini» (A.R.C. 52 I 2/1, c. 39r), di cui si legge nella poesia infantile I miei giocattoli, sino alla stanza di Elsa di via dell’Oca ricostruita nello spazio espositivo di Spazi900 alla BNCR. Rimane da menzionare un’ultima questione, che costituisce il punto di arrivo delle precedenti, e cioè che se, estendendo il raggio di azione di un’espressione utilizzata dalla stessa Morante nella Nota che conclude Lo scialle andaluso, per lungo tempo si è considerata la produzione giovanile la «preistoria» (Scialle, p. 215) della sua opera, adesso si può affermare che tale preistoria si è ormai fatta storia e che la vera preistoria è semmai costituita dal decennio precedente. Perché sebbene le storie per l’infanzia apparse sul «Corriere dei piccoli» rechino iscritta nella propria superficie testuale la dimensione performativo-familiare che le ha generate, degli anni Venti non è rimasto quasi nulla, segno che è qui che si è esercitata la vera rimozione della scrittrice, ansiosa, evidentemente, di non lasciare traccia di quella che in una lettera a Luisa Fantini del 28 maggio 1935, sulla quale avremo modo di tornare, già si volge a definire la sua «gioventù stupida» (L’amata, p. 39). Delle poche tracce presenti nell’Archivio si renderà conto nel corso dei capitoli: una lirica del 1926 trascritta nel Quaderno di Narciso e alcuni lavori narrativi che ci sono con ogni probabilità giunti in una veste redazionale più tarda. Più consistente, paradossalmente, il corpus della primissima produzione infantile, dato che si sono conservati due quaderni che risalgono probabilmente al 1918-1920 e contengono poesie, racconti e persino drammi teatrali16, autentici cimeli della precocissima vocazione letteraria della piccola Elsa, che in più occasioni si citeranno: 16  Il primo documento (A.R.C. 52 IV 2/1) consiste in un quaderno a quadretti di prima elementare che contiene quarantotto poesie; l’altro (A.R.C. 52 IV 2/2) è costituito invece da un quaderno a righe di terza elementare e reca sulla copertina un’etichetta in cui si legge: «Libro per la 3a classe | Il primo mio libro narra | la storia di una bambola», seguita da due drammi e da altre filastrocche. Per una descrizione dei testi cfr. Giuliana Zagra, «Santi Sultani e Gran Capitani in camera mia». Il gioco del teatro di una bambina di nome Elsa, in Giuliana Zagra (a cura di), Santi Sultani e Gran Capitani in camera mia. Inediti e ritrovati dall’Archivio di Elsa Morante (Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, 26 ottobre 2012 - 31 gennaio 2013), Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, Roma 2012, pp. 17-28.

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Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio – (Aneddoti, p. 3).

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Storie della prima gioventù

In una scheda autobiografica redatta tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta Elsa Morante così rievoca il suo precocissimo approccio alla letteratura: La mia intenzione di fare la scrittrice nacque, si può dire, insieme a me; e fu attraverso i miei primi tentativi letterari che imparai, in casa, l’alfabeto. Nello scrivere mi rivolgevo, naturalmente, alle persone mie simili; e perciò, fino all’età di quindici anni circa, scrissi esclusivamente favole e poesie per bambini. Alcuni di quegli scritti vennero pubblicati in quella stessa epoca, da giornali per l’infanzia (Cronologia, pp. XX-XXI).

I quaderni infantili acquisiti dall’Archivio Morante nel 2007 hanno confermato l’attendibilità della prima parte della citazione, così come pare plausibile che nell’adolescenza la giovanissima autrice si fosse volta verso una scrittura più adulta, tanto più che, come si è già ricordato, nel Quaderno di Narciso troviamo trascritta una poesia di argomento esistenziale, sulla quale torneremo più avanti, datata 29 agosto 1926. È al momento priva di riscontri, invece, l’affermazione che, «in quella stessa epoca», ossia nella seconda metà degli anni Venti, Elsa pubblicasse già i primi lavori per l’infanzia1; è possibile, piuttosto, che la scrittrice stia qui sottotraccia

1  Una possibilità per dare credito a questa affermazione sarebbe di ritenere l’Emilia Morandi che pubblica filastrocche sul «Balilla» sin dal 1928 – e racconti ancora sul «Corriere dei piccoli» nel 1938 – un nom de plume dell’autrice sulla scorta del refuso ‘Elsa Morandi’ che segue la seconda delle storie apparse sul «Balilla» nel 1932 (vedi infra). I versi, però, sono molto convenzionali e non vi si riscontra alcuna prova decisiva per l’attribuzione, mentre i racconti appaiono piuttosto distanti dai vari filoni della scrittura per l’infanzia morantiana.

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spostando in avanti la sua data di nascita2, in modo da enfatizzare la precocità di pubblicazioni che risalgono in realtà a quando aveva già venti anni. Tra i lavori editi risalenti alla prima gioventù di Morante autrice, ossia agli anni compresi tra il 1931 e il 1935, si possono annoverare alcuni lavori che si riportano alla luce in questa occasione: innanzitutto cinque brevi storie pubblicate sul «Balilla», di cui tre uscite fra l’agosto e il settembre 1932 – Storia di una bambina e di due bambole, Il sogno di Pietruccio e Storia di Nic e di Nichita – e due nel maggio e giugno 1935 – Peppuccio, padrone di un bazar e La zia Sì e la zia No. Ciò non toglie che Morante possa avere pubblicato sulla rivista altri lavori anonimi o sotto pseudonimo, ad esempio alcuni degli scritti didattico-compilativi presenti nelle pagine conclusive di ogni numero e dedicati a personaggi storici o luoghi monumentali, similmente a quanto avrebbe fatto anni dopo su «Oggi» con lo pseudonimo di Renzo o Lorenzo Diodati3. Difficilmente, infatti, una collaborazione 2  «Ammise poi di aver barato in gioventù sui propri anni perché, dimostrando meno della sua età ed essendo “innamorata”, lasciò credere di essere nata nel 1918, data che rimase nelle traduzioni francesi dei suoi libri» (Graziella Bernabò, La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci, Roma 2012, p. 20). Il vezzo si riconosce anche nelle schede della maturità: «Aveva circa vent’anni, quando il critico Giacomo Debenedetti la conobbe ed ebbe la bontà di apprezzare quei suoi racconti, che le fece pubblicare dalla rivista “Meridiano di Roma”» (Cronologia, p. XXVII). Antonio Debenedetti, tuttavia, ricorda che, anche se «Elsa Morante conosceva Giacomino già nel 1936» (Antonio Debenedetti, Giacomino [1994], Rizzoli, Milano 2002, p. 109), fu «nel 1937 o all’inizio del 1938 [che] Elsa e papà presero a incontrarsi con una certa frequenza» (ibid.). Inoltre, la prima pubblicazione di Morante sul «Meridiano di Roma» – L’uomo dagli occhiali ­­– data al 25 aprile 1937, quando l’autrice aveva quasi venticinque anni. 3  Non dimentichiamo che in quegli anni Morante si manteneva redigendo tesi di laurea ed era quindi abituata alle ricerche erudite; al riguardo, Moravia ricorda che «era molto accurata nelle ricerche e scriveva bene» (Enzo Siciliano, Alberto Moravia. Vita, parole, idee di un romanziere, Bompiani, Milano 1982, p. 48). È doveroso poi menzionare due poesie apparse sul periodico l’11 giugno 1931 e il 1° dicembre 1932, rispettivamente intitolate La casetta abbandonata e La parrucca, recanti la firma E.M., che potrebbero essere altresì le iniziali di Emilia Morandi. Nel primo componimento è degna di nota la presenza dell’aggettivo ‘trasognato’, che ricorre anche nella poesia del 1926 trascritta sul Quaderno di Narciso ed è, in generale, parola tipica di Morante – «Com’è triste nell’autunno | la casetta di campagna. | Smuove il sole in un grigiore | sopra il tetto di lavagna, | passa come trasognato | tra le piante del giardino» («Il Balilla», 11.6.1931, p. 11) –, mentre nella parte finale si fa riferimento ad alcune bambole abbandonate – «pupe scolorite» (ibid.) – che «Apron grandi occhi di vetro | nel silenzio meridiano» (ibid.) e «fanno nella stanza | uno strano girotondo» (ibid.) rimpiangendo la loro padrona che se ne è andata: una situazione che può richiamare l’universo delle bambole e delle loro padroncine nel Primo libro dei

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1. storie della prima gioventù

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limitata alle storie firmate col proprio nome e cognome giustificherebbe la familiarità con il caporedattore del periodico che trapela da una lettera del 22 maggio 1936 a Luisa Fantini: «Belloni mi dice S.E. non ha ancora firmato i mandati e non potrà firmarli se non dopo il 24 maggio (25 o 26). Ci tiene poi a [farti] sapere che fra poco riprenderà di nuovo le collaborazioni regolari» (L’amata, p. 49)4. Le cinque storie non sono gli unici ritrovamenti provenienti dalla stampa periodica per l’infanzia della prima metà degli anni Trenta: ad essi si devono aggiungere due ulteriori lavori intitolati La ninna nanna del piccolo Billi e Il ritratto della principessa. Nel primo caso, si tratta di una poesiola apparsa il 24 giugno 1934 sul «Corriere dei piccoli», di cui si tratterà nel prossimo capitolo in quanto compone una sorta di dittico con Il mio straordinario viaggio in cerca di Billi, riemerso tra i materiali acquisiti dalla BNCR nel 2016. Prenderò invece in esame nell’ultimo paragrafo di questo capitolo l’altro testo, una storia apparsa sul «Cartoccino dei piccoli» il 19 maggio 1935: per ragioni cronologiche, ma anche perché costituisce uno scritto di transizione verso la nuova fase della scrittura morantiana che prende avvio alla metà del decennio. 1.1 Bambole sul «Balilla» Se la collaborazione al «Corriere dei piccoli» rientra ormai con sicurezza nella vicenda della frequentazione giovanile di Guelfo Civinini5, più nebuloso appare il modo in cui la giovanissima autrice quaderni infantili. Le rilevazioni non appaiono però sufficienti per una sicura attribuzione, come anche nel caso della più convenzionale Parrucca, che si compone di cinque quartine di ottonari e imita le surreali avventure, anch’esse in ottonari, del Signor Bonaventura di Sergio Tofano: «Ma sapete la fortuna | del signor Ticco Barucca, | che svegliatosi al mattino | va per metter la parrucca?» («Il Balilla», 1.12.1932, p. 11). Si devono ricordare anche cinque lavori firmati E.d.M., riguardo ai quali anche in questo caso non si dà alcuna prova decisiva per attribuirli a Morante: tre puntate di un racconto in versi intitolato Giramondo al Polo, pubblicate il 1°, l’8 e il 22 ottobre del 1931, e due poesie più spostate sul versante propagandistico dal titolo L’alza bandiera. Ricordi del campo ‘Dux’ (5 novembre 1931) e Il XXIV Maggio (2 giugno 1932). 4  La lettera richiama un’altra, del 23 marzo 1935, in cui leggiamo: «Nei giorni scorsi vidi Belloni, mi disse che ti avrebbe fatto collaborare regolarmente al Balilla» (L’amata, p. 38). 5  Si veda al riguardo la lettera del 28 novembre 1938: «vi ricordate che foste voi stesso, molti anni fa, che con la vostra cortesia e amicizia mi presentaste al “Corriere dei

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poté iniziare a pubblicare su quello che, nato come «Giornale dei Balilla» nel 1923 e divenuto nel giugno 1925 supplemento settimanale del «Popolo d’Italia», costituiva dal 5 giugno 1931 l’organo ufficiale dell’Opera Nazionale Balilla, a sua volta destinata a confluire, il 27 ottobre 1937, nella Gioventù italiana del littorio. Morante potrebbe aver proposto lei stessa i propri materiali alla redazione, ma si può non di meno ritenere che abbia avuto luogo una qualche intercessione ad personam, forse ancora di Civinini, che era al tempo personalità molto influente. Al riguardo, appare significativo che in una lettera del 1° ottobre 1934 Elsa chieda a Luisa: «Credi che si possa, scrivendo sul Corriere dei piccoli collaborare anche al Balilla? Mi sembra che Civinini mi abbia detto che non si può, e ho sempre questa paura» (L’amata, p. 34)6. La cronologia delle pubblicazioni, peraltro, non è in contraddizione col fatto che con ogni probabilità il primo contatto avvenne nell’estate del 1930 quando Elsa, «giovinetta di diciotto anni» (L’amata, p. 10), scrisse all’autore toscano una lettera al fine di esprimergli il suo commosso apprezzamento per l’editoriale Bisogno di una sorella («Corriere della sera», 4 luglio 1930). È possibile, pertanto, che Civinini si sia in seguito attivato per procurare le prime occasioni di pubblicazione alla sua protegée non solo sul «Corriere dei piccoli», supplemento del quotidiano al quale principalmente collaborava, ma anche sull’altro importante periodico dell’infanzia del periodo: il più schierato «Il Balilla». In ogni caso, la prima pubblicazione firmata Elsa Morante ad apparire sulla rivista, l’11 agosto 1932, è Storia di una bambina e di due bambole7, una melancolica novella che rivela sin dal titolo la piccoli” procurandomi una collaborazione abbastanza regolare a quel giornale» (L’amata, p. 14). Sui rapporti di Morante con Civinini all’inizio della sua carriera di scrittrice cfr. Rapisarda, «Scricciolo & C.» di Guelfo Civinini, Elsa Morante, Luisa Fantini cit. Alcune notizie al riguardo si ritrovano anche in Marcello Morante, Maledetta benedetta, Garzanti, Milano 1986, pp. 80 e 84-86. 6  Non sarà da trascurare, in tale direzione, il fatto che già in vari numeri del 1930 del «Balilla» appaiono illustrazioni della stessa Fantini, altra protetta di Civinini (cfr. Introduzione, nota 4). 7  Una stesura con poche varianti rispetto a quella pubblicata è conservata in due copie dattiloscritte presso l’Archivio Morante, con la segnatura A.R.C. 52 I 1.3, cc. 43r-46r e 47r-50r, sulle quali ho lavorato per il saggio del 2013 che costituisce il punto di partenza di questo paragrafo (Elena Porciani, Al crocevia della preistoria morantiana: i quattro testi ritrovati nelle carte giovanili, in Eleonora Cardinale - Giuliana Zagra (a cura di), «Nacqui nell'ora amara del meriggio. Scritti per Elsa Morante nel centenario della nascita», Biblio-

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1. storie della prima gioventù

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presenza al suo interno del giocattolo più ricorrente nella scrittura per l’infanzia di Morante, circostanza che suggerisce, peraltro, la precocità della sua ideazione8. Nonostante la possibile origine adolescenziale, si tratta di un testo che sin dall’incipit mette in campo un gusto tutt’altro che banale nel complicare i livelli di realtà:

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C’era una volta, nel più lontano paese del mondo, un bel sogno. Voi non potete immaginare quanto sia bello un sogno se si può vederlo da svegli, vivo. Specie se è il sogno di un bambino piccolo, che lo dimentica al mattino. I sogni, perché rimangano veramente belli, bisogna dimenticarseli subito, perché il sole potrebbe sciupare il loro vestito di stelle («Il Balilla», 11.8.1932, p. 5).

Se i sogni restano belli solo se li si dimenticano, ciò evidentemente non vale per i raccontatori di storie, che possono apprezzarne la vivida bellezza anche «da svegli», senza che ne abbiano smarrita la memoria. E in virtù di un simile privilegiato accesso al mondo onirico la voce narrante prende a raccontare del «bel sogno […] nato d’improvviso, una notte, nel piccolo cuore di una bambina […] povera» (ibid.): possedere una bambola, una di quelle «da due lire che si vendono sui carretti per le strade» (ibid.). A conoscenza del desiderio viene la «regina dei sogni» (ibid.), che è non di meno una fata capace di leggere negli occhi dei bimbi; sennonché anch’essa è molto povera e i sogni sono il suo «unico tesoro» (ibid.). Per questo, non può donare alla bambina che «una bambola fatta di azzurrità» (ibid.)9 che la visiti in sogno: Questa bambola si avvicinò al piccolo cuore tremante, e accarezzò le ciglia della bambina con le sue manine di stoffa. Era bella, aveva un grande fiocco nei capelli, e sapeva camminare e piangere. Sapeva anche sorridere mostrando cinque dentini. La bambina le mise nome Lucietta, e fu felice giocando con lei per tutta la notte (ibid.). teca Nazionale Centrale di Roma, Roma 2017, pp. 98-99). Le due copie provengono da una cartellina recante il titolo autografo Il sogno delle cento culle (Racconti per bambini) nella quale sono contenuti anche altri lavori per l’infanzia destinati a essere raccolti in un libro di storie per bambini che rimase, però, solo allo stadio di progetto; cfr. ivi, pp. 97-98. 8  Le bambole sono costantemente presenti nei testi contenuti nei due quaderni infantili acquisiti dall’Archivio, oltre che nelle Bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina, la lunga fiaba uscita per Einaudi nel 1942, il cui nucleo probabilmente risale all’adolescenza; la protagonista, infatti, si mette in cerca, insieme all’intrepido Dan, della bambola Bellissima portata via da uno stracciarolo in cambio di un soldo bucato. 9  Nel dattiloscritto conservato nell’Archivio della BNCR si legge «una bambina fatta di sogno» (A.R.C. 52 I 1.3, c. 43r). L’espressione sarà forse sembrata ridondante all’autrice al momento della pubblicazione.

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Ogni notte Lucietta torna dal «paese più lontano nel mondo [dove abita] con gli altri sogni, tutti lieti di esser liberi e di poter volare fra gli alberi» (ibid.), e gioca in sogno con la sua padroncina, che al risveglio è allietata da un residuo di allegria e dolcezza. Un evento imprevisto, però, cambia irreversibilmente le cose. Un giorno un carretto pieno di bambole si ferma davanti alla casa della bambina:

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essa lo vide dalla finestra, e corse sulla strada, senza parlare, col pollice in bocca. Passava di là un vecchio signore con gli occhiali, e la guardò. Quel signore, avendo gli occhiali, vedeva molto bene quello a cui nessuno bada. Egli vide nel viso della bambina un desiderio immenso: il desiderio di una di quelle bambine che il padrone del carretto vendeva per due lire (ibid.).

Commosso, il signore compra la bambola alla bambina10, che «era stupita, non capì, e voleva restituirla, ma il padrone le disse: È tua» (ibid.). Allora, «col cuore che le batteva forte» (ibid.), la bambina corre in casa e non lascia più la bambola, al punto che la mamma le dà il permesso di tenerla con sé a letto. Giunta la notte, Lucietta fa l’amara scoperta di essere stata sostituita da una bambola reale: Lucietta stette un poco immobile davanti al piccolo letto; poi capì che oramai un’altra Lucietta aveva preso il suo posto e fuggì, dopo aver accarezzato leggermente i riccioli della bambina. Ma quando si trovò sola nel vicolo buio, dove un fanale metteva una luce povera povera e tutte le finestre erano chiuse, due lagrime scesero dai suoi occhioni celesti (ibid.).

Ma è solo questione di un attimo: «d’improvviso sentì tante vocine nel vicolo chiamare: “Lucietta, Lucietta, Lucietta”. Erano le voci di tutte le bambine che desiderano una bambola e non possono averla» (ibid.). In tal modo comincia per lei una nuova vita: di notte «fa tutte le sere la stessa strada, e va a trovare tutte le bambine che non hanno bambol[e] per rendere felici i loro sogni» (ibid.). Quando si svegliano, queste si dimenticano di Lucietta, ma rimane nel loro cuo10  È possibile che nel personaggio del «vecchio signore con gli occhiali» sia adombrato Francesco Lo Monaco, il padre naturale della scrittrice, che i fratelli Morante chiamavano zio. Si veda al riguardo la poesia La mia bambola, contenuta nel primo quaderno infantile conservato presso l’Archivio: «Lo zio è ritornato | o che gran piacere | per me è rivedere | lo zio tanto amato. | Evviva lo zio | da gioia al cor mio. || Vedeste che bambola | lo zio mi à portato […]» (A.R.C. 52, IV 2/1, c. 5r). Una figura simile tornerà nel racconto significativamente intitolato L’uomo dagli occhiali («Meridiano di Roma», 25 aprile 1937).

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1. storie della prima gioventù

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re «la gioia delle cingallegre e delle rondini. Una gioia che conoscono solo i bambini e gli uccelli, ed è la più bella» (ibid.). Vari sono gli aspetti di interesse di questo testo che mostra come nei primi anni Trenta fosse ancora possibile pubblicare sul «Balilla» storie delicate e malinconiche, a differenza di quanto accadrà in seguito, quando, specie con la Guerra d’Etiopia, gli obiettivi propagandistici del periodico diventeranno più aggressivi e pervasivi. Innanzitutto, con altre storie della prima gioventù11 la Storia di una bambina e di due bambole dà vita a un corpus caratterizzato da alcune costanti come la miseria delle piccole protagoniste, bambine sole o poco amate che vivono in casette altrettanto umili e povere, anche se non mancano eccezioni come la dolce Mariolina che abita nella Stella prenatale da cui provengono tutti i bambini o la viziata Giovannola che disobbedisce alla sua domestica tedesca12. Le ambientazioni sono generalmente stilizzate, ma, come si può vedere anche in questo caso, l’insistenza sulla povertà dei personaggi si accompagna a un’accuratezza nella definizione dei dettagli che incunea effetti di realtà a misura infantile nella dimensione del fiabesco. L’obiettivo è senz’altro quello di favorire il coinvolgimento dei piccoli destinatari nelle vicende narrate, ma già si può notare come il richiamo del meraviglioso in Morante sia mediato da un appiglio realistico. Da questo punto di vista è indicativa proprio la presenza delle bambole, perfette mediatrici, per così dire, dei due poli dell’immaginario della giovane autrice. Da una parte, la bambola, rinnovando i giochi infantili, apre alla fluidità ontologica delle storie morantiane, in cui bambini, bambole e animali interagiscono in un piccolo mondo grazioso, non esente da qualche leziosità, nel quale una soluzione gioiosa e magica dà luce a una realtà altrimenti miserevole; dall’altra, la bambola non perde la sua concretezza di giocattolo che ci si può permettere solo se si possiedono i soldi per acquistarlo. Soprattutto, però, nella sua cornice meraviglioso-fiabesca la Storia di una bambina e di due bambole inaugura quella scoppiettante varietà 11  Più precisamente, Paoletta diventò principessa («Corriere dei piccoli», 12 febbraio 1933), La storia dei bimbi e delle stelle (ivi, 5 marzo - 30 aprile 1933), Storia di una povera Caroluccia (ivi, 9 luglio 1933), La casa dei sette bambini (ivi, 29 ottobre 1933), Il sogno delle cento culle («Il cartoccino dei piccoli», 18 marzo 1934), La storia di Giovannola («Corriere dei piccoli», 10 febbraio 1935). 12  La cui origine è spiegata nella lettera a Luisa Fantini del 23 marzo 1935: «Giovannola e Ja esistono davvero e le ho conosciute a Capri. Quello era il loro ritratto. Se andremo a Capri le vedremo insieme. Vedrai come sono carine e buffe» (L’amata, p. 38).

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di utilizzi del sogno che costituisce il più riconoscibile collante dei lavori per bambini della giovane Morante13. In primo luogo, la bambola che di notte conforta la solitudine della protagonista rende evidente la funzione compensativa che l’autrice già a quest’altezza riconosce ai sogni: non nei termini di un appagamento di desideri di marca freudiana, con cui la scrittrice si familiarizzerà nella seconda metà degli anni Trenta14, bensì in conformità a un’onirologia di genere che incanala il magico e il soprannaturale delle fiabe nella sfera onirica. Si pensi, ad esempio, a Paoletta diventò principessa, nella quale, similmente alla Storia del «Balilla», i prodigi consolatori accadono nella dimensione del sogno notturno: «Nella notte avevano sognato una bella principessa, coi capelli d’oro, tutta vestita d’oro, che li accarezzava e faceva loro un regalo. E, al mattino, il regalo c’era davvero» (Caterì, p. 10). Al contempo, la Storia rivela come il sogno costituisca per la giovane Morante una risorsa anche per mettere in scena le più bizzarre metalessi ontologiche15, secondo un’attitudine ai passaggi di soglia tra sogno e veglia che si estende, nella scrittura per l’infanzia, sino al Ritratto della principessa. 1.2 Eroici fratelli La presenza di una componente onirica nel racconto è esplicita già nel titolo della seconda storia per bambini apparsa sul «Balilla», Il sogno di Pietruccio, che esce con la firma storpiata di Elsa Morandi il 25 agosto 193216: 13  Sulle diverse funzioni del sogno negli esordi fiabeschi di Morante cfr. Elena Porciani, L’alibi del sogno nella scrittura giovanile di Elsa Morante, Iride, Soveria Mannelli (CZ) 2006, pp. 27-38. 14  Cfr. al riguardo Marco Bardini, Dei fantastici doppi, in Lucio Lugnani, Emanuella Scarano et alii, Per Elisa. Studi su «Menzogna e sortilegio», Nistri-Lischi, Pisa 1990, pp. 175-199; Giovanna Rosa, Ovvero il romanziere, in Giorgio Agamben, Alfonso Berardinelli et alii, Per Elsa Morante. La narrativa, la poesia e le idee di uno dei maggiori scrittori del ’900, Linea d’ombra, Milano 1993, pp. 55-87. 15  Si ricorderà la distinzione, che si deve a Marie-Laure Ryan, tra metalessi retorica, relativa agli interventi della voce narrante nel racconto, e metalessi ontologica, che riguarda più propriamente l’attraversamento di diversi livelli di realtà; cfr. Concetta Maria Pagliuca, Il punto sulla metalessi, in Concetta Maria Pagliuca - Filippo Pennacchio (a cura di), Narratologie. Prospettive di ricerca, Biblion Edizioni, Milano 2021, pp. 73-90. 16  Non mi pare, comunque, che possano esserci dubbi sull’attribuzione del testo, alla luce di alcuni elementi autointertestuali e anche della contiguità che si può stabilire con La zia Sì e la zia No (vedi infra).

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Mentre le sue pecore vagano per il declivio del monte, Pietruccio fa un bel sogno. Gli sembra di vedere, proprio in cima al monte, dove va tutti i giorni con le sue pecore, l’Eroe a cavallo, come lo ha visto sul libro di lettura: bello, con la sua camicia rossa, i suoi capelli biondi, i suoi occhi color del mare, tutto luminoso nella lotta e nell’orgoglio della vittoria. E intorno a lui sul monte salgono tanti guerrieri, giovani, ragazzi, con gli occhi fissi nei suoi. È stato un bel sogno! Pietruccio non può dimenticarlo: ora sul monte vede solo le sue pecore che ritornano all’ovile in fila, con la testa bassa («Il Balilla», 25.8.1932, p. 11).

Forse Pietruccio si è addormentato mentre al pascolo contava – letteralmente – le pecore; certo è che al risveglio queste gli si mostrano come le vilissime creature che lo costringono a uno stile di vita opposto al suo ideale, rappresentato dal luminoso condottiero a cavallo che gli è apparso in sogno. Le fattezze e l’abbigliamento consentono di riconoscere nell’Eroe – con la maiuscola – il Garibaldi omaggiato come padre della patria nel libro scolastico che il pastorello possiede, senza che, in verità, sia spiegato come l’istruzione di Pietruccio si concili col suo mestiere di pastore. Che la coerenza dei dettagli non sia così necessaria in una storia che ha un evidente fine didatticomorale lo mostra anche l’accento sulla «camicia rossa» dell’eroe, non propriamente in linea con l’iconografia fascista del «Balilla». La voce narrante, tuttavia, è soprattutto intenta a presentare il travaglio psicologico – il «gran dolore» (ibid.), nei termini più elementari del testo – che la visione onirica, in questo testo convenzionalmente ricondotta nei confini del sonno, ha scatenato in Pietruccio. Il ragazzino confronta sconsolato l’altitudine sublime dell’Eroe con la «sua casettina grigia ai piedi del monte» (ibid.), ma ancora più lacerante è la contrapposizione tra il richiamo della gloria e l’affetto per la «povera sorelluccia che a quest’ora si è certo tutta affaccendata per preparagli la cena» (ibid.) e il cui nome Caterinuccia richiama, con l’ennesimo vezzeggiativo, non solo le protagoniste delle fiabe del periodo, ma anche la favola lunga del 194217. Il sogno ha infatti de17  Non a caso, anche questa Caterinuccia è provvista di una «trecciolina di capelli neri piantata sul cucuzzolo» («Il Balilla», 25.8.1932, p. 11). L’espressione tornerà nel Mio straordinario viaggio in cerca di Billi a proposito uno degli spiritelli incontrati sulla Stella del Nano Frugoli: «Bugia si avanzò con gli occhi bassi. Aveva il grembiule, e le treccioline legate sul cocuzzolo» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 80r). Sulla ricorrenza delle trecce nell’opera morantiana cfr. Porciani, Nel laboratorio della finzione cit., pp. 95-109.

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stato in Pietruccio una smania di grandezza che lo spinge a desiderare di superare i limiti dell’orizzonte, oltre il quale «ci sarà la vita, la lotta, la gloria» (ibid.): tutto un mondo ardimentoso che si contrappone al nido in cui la sorella maternamente si prende cura di lui e ne attende il ritorno alla sera, per parlare, tra le varie cose, «di quando c’erano il babbo e la mamma» (ibid.) – e non sarà da dimenticare che il rapporto idilliaco tra sorella e fratello è uno dei miti della giovane autrice, come si evince dall’entusiasmo per l’editoriale Bisogno di una sorella di Civinini18. Nonostante l’affetto per Caterinuccia, è «l’immagine dell’eroe biondo e bello come un re» (ibid.) che ha la meglio: a cena Pietruccio «mangia svogliatamente» (ibid.) e, una volta a letto, sogna di avere un gran cavallo, che lo porti oltre la linea curva dell’orizzonte, nel mondo della lotta. Sogna di essere anche lui un eroe, di avere tanti guerrieri, di combattere per la Patria, e che tutti gli italiani, fra cui anche il suo maestro, gridino: Evviva Pietruccio! Bravo Pietruccio! È notte profonda; il prato è pieno di grilli e di stelle. Pietruccio scende piano piano dal letto, infila i suoi scarponi, il suo berretto, fa un pacco delle cose sue più preziose, ed esce nel prato senza voltarsi indietro. Dove va? Io non lo so. Nel pacco ha i suoi libri, lo zaino, un fuciletto, e poi la sua camicia di piccolo soldato che non è rossa, è nera, ma è anche essa tanto bella (ibid.).

Risolto, con apparente nonchalance, la questione del colore della camicia, la voce narrante si produce in un’espressione – «Io non lo so» – che ricorre anche in altre storie dei primi anni Trenta19, nell’orizzonte di quella tendenza alla metalessi che intreccia i passaggi di realtà con gli interventi metanarrativi. In questo caso, l’improvvisa 18  Scrive Morante all’autore toscano nella lettera inviatagli nell’estate del 1930: «mentre leggevo piangendo il Suo articolo sulla sorella, io pensavo che, sebbene mi senta tante volte forse egoista, forse severa, saprei essere una sorellina buona, il sorriso e il conforto, se potessi avere un fratello che assomigliasse a Lei» (L’amata, p. 12). 19  La frase appare tre volte in Paoletta, in cui leggiamo, ad esempio, riguardo all’ordine reale di trasformare la protagonista in una principessa: «perché poi al Re era venuta quell’idea? Io non lo so» (Caterì, p. 8). Ritroviamo il medesimo costrutto nella Storia di Giovannola, apparsa sul «Corriere dei piccoli» il 10 febbraio 1935: «Tutto questo non lo disse; ma chi fu che lo sentì? Io non lo so; d’improvviso, ecco Giovannola dentro la sua barchetta che se ne va per il mare» (ivi, p. 125). Anche l’accento, più avanti in Pietruccio, sulla voce che al protagonista pare di udire richiama le sequenze di Paoletta in cui, nei momenti di maggiore tensione, si ode una «voce dolce» (ivi, p. 10) in grado di cambiare il corso degli eventi.

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apparizione della prima persona produce un effetto di sospensione che accresce la suspense, ma la si potrebbe considerare anche una traccia dell’origine orale, di ambito familiare, del racconto20. Di tono più metaletterario è invece il commento successivo: «Cammina ancora, come in una fiaba. Ma nelle fiabe non bisogna voltarsi, e invece, arrivato al cancello verde, Pietruccio si volta indietro e rivede la sua casettina grigia» (ibid.). Il tarlo del dubbio si è ormai fatto strada e il ragazzino avverte una grande tenerezza per la sua casuccia dimessa, per le pecore che gli belano intorno e, soprattutto, per la sorella che sta dormendo esausta dopo le fatiche della giornata: Sembra quasi a Pietruccio di udire una voce. Di chi sarà? È una voce profonda e cara e pare la voce di un padre. Dice: «Torna indietro, Pietruccio, con la tua povera sorelluccia e con le tue pecorine. L’Italia ora è libera e grande, e ha bisogno di bravi uomini che facciano il loro dovere. Se domani le occorreranno degli eroi, ti chiamerà, e tu combatterai e vincerai come gli altri. Così si è veri italiani. Torna indietro, Pietruccio». E il giorno dopo Pietruccio vede ancora l’eroe biondo e luminoso che gli sorride e gli dice: – Bravo, Pietruccio! Al ritorno, andando verso la sua casettina dove lo aspetta qualcuno che gli prepara la buona minestra, Pietruccio canta: «Fiorin, fiorello!…» (ibid.).

A meno di non leggere nell’ultima frase, in cui vediamo il pastorello pacificato riprendere allegramente a cantare21, una sottile ironia, il finale si presenta come un perfetto compromesso tra le aspirazioni eroiche e il richiamo del focolare domestico: l’Italia chiamerà Pietruccio quando ne avrà bisogno, non confonda il ragazzino l’eroismo romantico con quello spirito pratico e solido con cui si può veramente servire la patria. La goffa metamorfosi del colore della camicia suggerisce la patina posticcia delle concessioni alla propaganda di regime: il nocciolo tematico del racconto consiste non tanto nell’istanza ideologica quanto nel mito romantico dell’eroe. Siamo al cospetto di una delle prime manife-

20  Come nel caso della Storia dei bimbi e delle stelle su cui si tornerà nel prossimo capitolo. 21  L’edizione a stampa della canzone Fiorin fiorello di Vittorio Mascheroni e Peppino Mendes è del 1938, ma in precedenza esistevano stornelli popolari con lo stesso titolo. Ringrazio Jacopo Tomatis per la sua preziosa consulenza sull’argomento.

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stazioni di un tema di lunghissima durata nell’opera morantiana22, che fa di Pietruccio un remoto progenitore di Arturo, colui che abbandonerà l’isola per diventare sul campo di battaglia l’eroe dei suoi antichi sogni.Non è da trascurare peraltro, in questa genealogia, il fatto che il primo nucleo dell’Isola di Arturo sia riconoscibile in un frammento narrativo del 5 ottobre 1949, affidato a un quaderno acquisito dalla BNCR nel 2016, che significativamente si intitola Il ritorno del glorioso23. Allo stesso tempo, si potrà notare come nel vasto orizzonte della memoria poietica di Morante, tramite un lungo processo di metamorfosi che si impernia sulla parodia incarnata da Wilhelm Gerace ancora nell’Isola di Arturo24, il modello dell’eroe biondo e luminoso presente nel Sogno di Pietruccio giunga sino ai destini incrociati nella Storia dei soldati semplici Günther e Giovannino, entrambi biondi e destinati a una morte assurdamente tragica. Quando leggiamo la formula di saluto con cui la narratrice si distacca da Giovannino morente in Russia – «Buona notte, biondino» (Storia, p. 387) –, non si tratta solo di un inserto che, a seconda dei giudizi, può apparire affettuoso o patetico, ma di un congedo che riguarda il proprio stesso immaginario di lungo corso e che trova conferma anche in Aracoeli. Qui, infatti, assistiamo allo sfacelo esistenziale di un altro militare biondo, «sano e solare» (Aracoeli, p. 37), ma incapace di essere all’altezza dell’eroismo a cui lo assegnerebbe il suo ruolo: Eugenio Oddone Amedeo, il padre del protagonista Manuele. All’origine di questa linea tematica si trova, oltre a Pietruccio, un’altra storia che sarà pubblicata quasi tre anni dopo, ma che probabilmente proviene dalla stessa stagione compositiva, ossia La zia Sì e la zia No. Prima di prendere in esame questo lavoro, insieme a Peppuccio, padrone di un bazar che di poco lo precede nella primavera del 22  Sulla questione cfr. Elena Porciani, Eroismo, nazione e femminile in Elsa Morante: un percorso testuale verso La Storia, «The Italianist», XXXIX, 2019, 3, pp. 347-363. 23  «Eccomi dunque di nuovo in vista dell’isola paterna, ch’io già credetti, in altri tempi, di non voler mai più rivedere. Sono passati dodici anni da quando, ragazzo ancora, ne partii; durante i quali, per oltre un lustro ha infuriato nel mondo la guerra più crudele di cui si ricordi testimonianza di storico o memoria d’uomo» (A.R.C. 52 I 1/34, c. 1r). Cfr. al riguardo Elena Porciani, La preistoria dell’Isola di Arturo, «Contemporanea», XVIII, 2020, pp. 112-113. 24  Si veda la scena in cui Wilhelm, inerpicatosi sino alla prigione di Procida, viene umiliato dal Carcerato a cui rivolge la sua serenata: «Il suo messaggio a mio padre, ch’io fra me tradussi pronto, consisté in tutto delle seguenti parole: vattene parodia!» (Arturo, p. 316).

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1935 sulle pagine del «Balilla», conviene brevemente soffermarsi sulla Storia di Nic e di Nichita, che esce sul periodico il 1° settembre 1932 e nella quale, sebbene travestiti da favola silvestre, il tema dell’eroismo e il rapporto tra fratello e sorella sono ancora al centro della narrazione. Per quanto dotati di una caratterizzazione antropomorfica che non risparmia una fantasiosa onomastica slaveggiante, i protagonisti della storia sono due camosci che vivono tra le più alte balze delle montagne. Il più temerario dei due è ovviamente il maschio Nic, che «amava sfidare il pericolo, correva quasi sotto il naso dei cacciatori, per poi salvarsi con un balzo improvviso» («Il Balilla», 1.9.1932, p. 5). Egli ha insegnato alla sorella minore a correre e saltare, ma ben si guarda dal coinvolgerla nelle sue più intrepide spedizioni verso i villaggi, dove gli uomini praticano la caccia e le donne strillano al vedere gli animali selvatici. In questi casi, la remissiva Nichita rimane in attesa del fratello in un luogo sicuro: dopo poco chiamava impensierita: «Nic, Nic!». Egli arrivava saltando, pieno di allegria, e le raccontava le storie degli uomini, che hanno un bastone in ispalla e, se lo tendono, fanno: Pum! Pum! gettando a terra i camosci. Nichita tremava, ma incuriosita guardava verso le vette e verso i sentieri pieni d’erba (ibid.).

Ecco però che un giorno arriva il famelico lupo Utu a minacciarla. La situazione sta precipitando, ma provvidenzialmente Nic proprio in quel momento è di ritorno dalla sua ennesima impresa e, fremente «d’ira e di spavento» (ibid.), si getta sulla bestia feroce colpendola con una letale incornata: Il lupo ululò; e cadde a terra, con uno squarcio alla gola da cui il sangue gorgogliando uscì e macchiò la neve. Allora Nic corse su per i dirupi e Nichita lo seguì. Si fermarono al limite del bosco, si rincorsero folli di gioia. Nic gridava: «Vittoria! Vittoria!» col muso al vento e la schiena arcuata nella corsa. Poi si fermò per guardare con affetto la sorellina e girarle intorno, accarezzandola e chiedendole se si fosse fatta male (ibid.).

Dopodiché, i due se ne tornano in alta quota e, circondati dagli altri esemplari del branco, riprendono a saltare tra i dirupi godendosi la montagna, per quanto il rincorrersi «folli di gioia» dopo lo scontro

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con il lupo metta in scena una sfrenatezza che può apparire fuori target rispetto al pubblico infantile a cui la storia è diretta. Si intravedono, piuttosto, vaghe implicazioni incestuose, che rendono il racconto più inquietante del previsto e lo avvicinano al Giuoco segreto («Il Meridiano di Roma», 13 giugno 1937)25, mentre la fascinazione per la temerarietà che rimane in precario equilibrio tra il favoloso e il sanguinario denuncia l’occasionalità non risolta del lavoro.

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1.3 Due storie postume Non so davvero perché tu mi ringrazi per una cosa di cui dovrei essere io a ringraziarti, cioè per i disegni che hai fatto per i racconti del Balilla. Non è davvero per fare cerimonie – te lo dico sul serio. Tu sai che è una cosa che a me piace tanto, mentre a te porta un utile molto relativo. Appunto per questo esitavo prima di dirtelo. E poi devo dirti un’altra cosa. Figurati che quel racconto che Belloni ti ha mandato, era una storia di tre o quattro anni fa che gli era rimasta dopo il cambiamento del direttore, e che io non avevo la più lontana intenzione di rivedere più. E lui s’è sbagliato, l’ha ripescata di non so dove, e te l’ha mandata invece di una recente. Oramai tu hai fatto i disegni, e uscirà lo stesso. Ma voglio dirtelo perché tu non mi creda anche rimbambita. È già faticoso per me scrivere piccole storie impossibili [xxx xxx] a cui non credo più. Figurati che invece allora ci credevo! E vedere riesumata la propria gioventù è una cosa irritante, specie se è una gioventù stupida come la mia (L’amata, p. 39).

Così scrive il 28 maggio 1935 Elsa a Luisa Fantini, per giustificarsi di una storia recuperata per errore da Eros Belloni che l’amica ha illustrato e ormai «uscirà lo stesso»: La zia Sì e la zia No, che sarebbe in effetti apparsa sul «Balilla» poco più di una settimana dopo, il 6 giugno 1935. Il 16 maggio, invece, era stato pubblicato un altro racconto, Peppuccio, padrone di un bazar, corredato anch’esso di disegni di Fantini, riguardo al quale però, sebbene forse anch’esso parte dei «racconti del Balilla» di tre o quattro anni prima, l’autrice sente di non dover fornire giustificazioni. In effetti, se si confrontano i due testi, l’esile vicenda di Peppuccio appare senz’altro più innocua di quella venata di miti eroici e con25  Si ricorderà che in questo racconto, con l’aiuto del secondogenito Pietro, i due fratelli Antonietta e Giovanni impersonano la principessa Isabella e il cavaliere Roberto, venuto a rapirla per amore, e che la recita notturna nella Sala della Caccia è interrotta dall’irruzione dei genitori mentre i due si stanno baciando.

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cessioni propagandistiche del pilota Mimmo/Emilio al centro della Zia Sì e la zia No. La storia racconta la ribellione dei giocattoli che si trovano nella bottega di famiglia, stanchi di essere smontati da Peppuccio che è curioso di vedere come sono fatti dentro. Coalizzatisi contro di lui, si mettono a inseguirlo per impartirgli un’esemplare punizione: Allora comparve una bambola vestita da befana, che aveva in mano un gran paio di forbici e con quelle voleva tagliare la testa a Peppuccio. Quando Peppuccio la vide, cominciò a scappare, e tutti i giocattoli dietro, trenini, lanterne, bambole e soldati. E strillavano: – Vogliam la giustizia! Rataplan! Rataplan! E il povero Peppuccio correva, finché si ritrovò nel suo letto. Era già ora di alzarsi, e vicino a lui non c’era che l’orso, con tutta la sua paglia intorno. – Buon giorno! – disse Peppuccio al padre, alla madre e al nonno («Il Balilla», 28.5.1935, p. 12).

La rivolta dei giocattoli è stata solo un sogno e Peppuccio si è svegliato sano e salvo nel suo letto, con accanto l’orsacchiotto che la sera prima ha finito di smontare. Il sogno non produce in questo caso effetti di metalessi, anzi il bambino chiede al nonno di portargli il giocattolo che nel sogno è stato a capo della rivolta e gli stacca la testa, per poi regalarlo a Briccioletta, la figlia del cuoco, che si diletta «con cerotti e medicine» (ibid.) ad aggiustare le bambole rotte. La storia non manca di una morale finale, e cioè che «Se un balocco vuoi donare | fallo prima accomodare» (ibid.), evitando di fare come Peppuccio, a meno che non si possieda un bazar, altrimenti si resta «con tre cocci da buttare» (ibid.). Il tratto più rilevante è costituito dal ritmo concitato dell’inseguimento, che innesta sull’originario tessuto fiabesco delle storie per bambini di Morante il modello cinematografico della slapstick comedy e dei cartoons, segnando un evidente cambio di passo che si ritrova anche nel Mio straordinario viaggio in cerca di Billi. È questa un’evoluzione che, in effetti, sembra marcare la differenza fra le storie per bambini scritte negli anni Trenta rispetto a quelle di provenienza più remota, anche se Peppuccio, per quanto non privo di una sua grazia, non possiede l’articolazione narrativa dei coevi lavori per l’infanzia che, sempre nella primavera del 1935, Morante pubblica sul «Cartoccino dei piccoli»: Un negro disoccupato e Il ritratto della principessa, come vedremo nel prossimo paragrafo.

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La medesima levità si ritrova in parte anche nella prima sezione della Zia Sì e la zia No, in cui due due zie antitetiche – la dolce zia Sì, che tutto ammette e consente, e la severa zia No, che, al contrario, tutto paventa e proibisce – si contendono la vita del nipote Mimmo, il quale «vuol fare l’aviatore proprio per questo. Un giorno prenderà il suo apparecchio e volerà via» («Il Balilla», 6.6.1935, p. 5), lontano dalle grinfie della zia No, che gli rende impossibile quella vita in campagna che sarebbe invece così bella, «specie se c’è un orto, un prato e perfino un somarello» (ibid.). Sennonché, a circa metà del testo si scopre che questa infanzia funestata dalla rigida inflessibilità della zia appartiene al passato e il racconto bruscamente vira verso l’avventura patriottica: Questa è la storia di un Mimmo di parecchi anni fa. Ma il tempo passa, ogni anno porta qualche cosa di nuovo: rughe alla zia No, capelli bianchi alla zia Sì. Ma un anno porta anche una cosa tanto bella. Mimmo si veste di una divisa azzurra e cammina per le strade del cielo. Ora non vuole più che gli dicano Mimmo: si chiama Emilio. Tutto il cielo è suo. Romba, motore! Elica, gira! (ibid.)

Con una giuntura che sembra unire due segmenti narrativi in origine separati, la vicenda del piccolo Mimmo si tramuta in quella del celebre aviatore Emilio, padrone dei cieli da un oceano all’altro, mentre «milioni di uomini, da tutti i mari, da tutte le patrie, pensano a lui con ansia, e lo seguono da lontano col cuore» (ibid.). La traversata è dura nella solitudine della notte, ma pensieri affettuosi si affacciano nella mente di Emilio e gli danno forza: «Chi sa che l’eroe non ripensi in qualche momento a un orto fiorito, a un tempo lontano, alla zia Sì e alla zia No» (ibid.). Il nuovo giorno infine sorge e per Emilio è un tripudio «di bandiere e di grida» (ibid.) che lo attendono all’atterraggio: L’aeroplano volteggia, discende. Uomini che non conoscono la lingua italiana gridano il nome di Emilio, gridano Italia. Tutta la città è in festa. […] Quando Emilio ritorna in Italia, tutti sono ad attenderlo! I vecchi che non hanno potuto conoscere la gioia del volo, i giovani che sognano d’imitare l’eroe, i bimbi che sembrano già soldatini e pensano: «Anche noi saremo così bravi». Tutti gridano, acclamano, sventolano i fazzoletti. Ma chi si spinge innanzi a tutti, tendendo le braccia? Due povere vecchiettine vestite di grigio, piccole piccole e felici. Ed ecco che gli occhi dell’eroe si illuminano e sorridono (ibid.).

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L’accento esplicito sull’eroismo del protagonista rende questo racconto il pendant del Sogno di Pietruccio. Tanto più, si può supporre che le due storie risalgano a una medesima fase dalla quale alla fine del maggio 1935, per quanto non ancora ventitreenne, Morante decisamente prende le distanze, definendola una «gioventù stupida» che le procura, con ogni evidenza, un forte disagio. In effetti, come meglio vedremo nel terzo capitolo, il 1935 è un momento di svolta, nel quale le ambizioni letterarie della giovane scrittrice mutano profondamente di tono, anche se per esigenze economiche continuerà per qualche anno ancora a pubblicare «storie impossibili» che ormai non rispecchiano più la sua visione della scrittura e del mondo: non solo storie per bambini, ma anche racconti sentimentali. Detto altrimenti, sulla scorta di quanto Morante afferma in un’altra scheda della maturità, e cioè che uno dei suoi scritti per l’infanzia, «Le avventure di Caterina, è stato pubblicato postumo (per così dire) dall’Editore Einaudi, nel 1942» (Cronologia, p. XX), si può a ragione sostenere che le sue prime pubblicazioni postume siano queste due apparse sul «Balilla» nella primavera del 1935, quando la scrittrice è già volta verso tutt’altre movenze esistenziali e letterarie. In particolare, come suggerisce la lettera a Fantini del 28 maggio 1935, la definizione sembra attagliarsi soprattutto alla Zia Sì e la zia No, un testo che, presumibilmente per la presenza della fascinazione patriottica dell’eroe, la giovane autrice sembra considerare imbarazzante, anche se – è doveroso ricordarlo ­– di questo racconto serberà comunque il ritaglio fra le sue carte: a suggerire un giudizio meno drastico di quello che emerge nell’urgenza della comunicazione epistolare. Peraltro, La zia Sì e la zia No costituisce uno snodo autointertestuale di non minore rilevanza rispetto al Sogno di Pietruccio nella linea tematica dell’eroismo. Si può riconoscere, infatti, un sistema di richiami intertestuali che arriva sino a Lettere d’amore, l’episodio del Giardino d’infanzia apparso su «Oggi» il 29 luglio 1939, in cui, facendo la parodia di se stessa, Morante mette in scena la delirante passione liceale per quel Charles Lindbergh sul cui volo transoceanico in solitaria del 1927 è chiaramente modellata la trionfale traversata di Emilio26. Nel racconto di «Oggi», Morante parlerà anche, ironica26  I quindici episodi apparvero su «Oggi» tra il 17 giugno 1939 e il 20 gennaio 1940. Cfr. al riguardo Porciani, L’alibi del sogno cit., pp. 191-202.

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mente, di una sua «età degli eroi» (Aneddoti, p. 20) che molto sembra corrispondere a quella che nella lettera a Fantini definisce la sua «gioventù stupida»: gli anni dell’adolescenza, ma ancora i primissimi anni Trenta, quando il culto dell’eroismo nutre, tra esaltazioni dannunziane e suggestioni da romanzo rosa, l’immaginario imbevuto di mitologia piccolo-borghese della giovanissima autrice. Si pensi alla poesia Grido dell’allodola, apparsa nel 1932 in un numero celebrativo dell’«Eroica» dedicato a un altro aviatore, di nome Giorgio Cicogna, prematuramente deceduto in un incidente. Il componimento culmina nei versi finali «O terra, o cielo, gettate a quell’attimo | la vostra stupida eternità»27, che sono esattamente quelli citati, con gusto autoparodico, in Lettere d’amore per mostrare la ridicola superbia di Velivola, colei che, nei fumi romantici della passione per gli eroi, si credeva corrisposta nel suo amore dal lontano eroe dell’aviazione: «Quando parlavano di lui rabbrividivo d’orgoglio; non sapevano che egli per me volava i cieli, per me conquistava le palme» (ivi, p. 21). 1.4 Una principessa e un’artista Il 13 luglio 1935, poco più di un mese dopo la lettera in cui si lamenta della riesumazione dei racconti del «Balilla», Elsa condivide con Luisa il malumore nei confronti di un’altra rivista su cui ha pubblicato due storie illustrate anch’esse dall’amica: Mi chiedi di Cartoccino. Devo dirti che in principio pagava, e in teoria dovrebbe pagare ancora. Ma dopo tre lettere e un espresso io ancora non riesco ad avere quello che mi è dovuto per Il ritratto della principessa e una novella uscita prima. Credo che i giornali siano fatti apposta per fare impazzire i pochi savi che ancora vagano sulla terra, ma, Luisella, non disperiamo troppo perché è estate, per grazia di Dio. In ogni modo il Direttore del Cartoccino mi scrive lettere in cui si professa mio grande amico (vedi con quali risultati pratici) e, se credi, posso scrivergli anche di te. Ma scrivi anche tu, e reclama energicamente i tuoi diritti, perché altrimenti non si decideranno a svegliarsi (L’amata, p. 41). 27  Citati in Marco Bardini, Elsa Morante e «L’Eroica», «Italianistica. Rivista di letteratura italiana», XLI, 3, 2012, p. 132. Come ha rilevato lo studioso, è possibile che, pur di sfruttare l’occasione di pubblicazione, Morante abbia riadattato «qualche suo verso preesistente, o [scritto] in fretta questo sciatto componimento» (ibid.). Come preannunciato nell’Introduzione, torneremo su queste poesie nell’ultimo capitolo.

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1. storie della prima gioventù

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«Il Cartoccino dei piccoli» chiuderà i battenti nel maggio del 1936 ed è quindi possibile che il ritardo nel pagamento della «novella uscita prima» – Un negro disoccupato, il 12 maggio 1935 – e del Ritratto della principessa, pubblicato invece il 19 maggio 1935, tre giorni dopo Peppuccio, padrone di un bazar sul «Balilla», fosse dovuto alle difficoltà economiche in cui versava il periodico. Riguardo alla stima ironicamente menzionata da parte del direttore – un giovane Rino Albertarelli, nei decenni successivi figura di spicco del fumetto italiano –, questa era forse maturata già a partire dall’anno precedente, quando Morante aveva pubblicato sulla rivista Il sogno delle cento culle (18 marzo 1934), Rosettina alla finestra (25 marzo 1934) e Ninna nanna della vecchietta (13 maggio 1934): tutte storie e filastrocche improntate su un immaginario fiabesco di matrice adolescenziale che appare invece superato in Un negro disoccupato. L’intreccio di questa storia, infatti, è ancora più decisamente ispirato, rispetto a Peppuccio, padrone di un bazar, ai modelli comico-cartoonistici del periodo. Protagonista è il signor Negretti, un burattino nero che, per andare in groppa a un asino a visitare l’Africa, smarrisce la sua compagnia e, dopo alcuni tentativi andati male di trovare un nuovo lavoro, si trova costretto ad accettare l’occupazione di accompagnare in giro il capriccioso cane di una marchesa; grazie poi a una serie di coincidenze e fortuiti incontri, il signor Negretti riesce a ricongiungersi con i suoi compagni burattini e a sposare la sua amata signorina Alberelli28. Rispetto a queste pirotecniche peripezie l’andamento del Ritratto della principessa sembrerebbe, sin dal titolo, più tradizionale. A ben vedere, però, si riconosce un piglio diverso anche in questo lavoro, dato che i motivi tipici del corpus fiabesco femminile dell’estrema gioventù, come la metalessi onirica e il confronto tra bambine povere e principesse, sono rifunzionalizzati in un nuovo utilizzo del meraviglioso e dell’onirico, oltre che in una nuova agency del personaggio. Lo si intuisce già nell’incipit: Una bambina aveva nel suo salotto, fra tanti altri, un bellissimo quadro che ritraeva una piccola Principessa. La Principessa era vestita di stoffa a fiorami, e intorno al collo aveva una catena con un medaglione. I suoi capelli erano neri e lisci, la fronte alta, e le mani lunghe e fini. Era seduta in una grande poltrona dalla spalliera intagliata e rimaneva sempre lì ferma, senza sorridere («Cartoccino dei piccoli», 19.5.1935, p. 6). 28 

La storia verrà ripubblicata nel 1959 nelle Straordinarie avventure di Caterina.

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Inutilmente la bambina mostra alla Principessa la sua «bambola dalla faccina sporca» (ibid.): la figura ritratta rimane impassibile e non soddisfa il desiderio della piccola di giocare con lei. Possiamo però già indovinare quale sarà la soluzione per uscire da una simile impasse: «siccome era una buona e cara Principessa, pensò di andare a visitare la bambina in un sogno» (ibid.), in modo da superare l’«incantesimo» (ibid.) che le impedisce di muoversi dal quadro, come spiega alla bambina, dopo averla appellata «stupidina» (ibid.) per la sua ignoranza in merito di magie. La Principessa si presenta: si chiama Maria e ha una mamma di nome Eleonora; dopodiché, «se ne andò presto e senza rumore, come fanno tutte le cose dei sogni» (ibid.). La notte successiva reca con sé il fratello don Garzia, «un principino grasso e allegro» (ibid.) e i tre giocano «allegramente alle bambole e ai soldati» (ibid.)29, anche se un’ombra alleggia sulla compagnia: non possono condurre la bambina nel loro castello, per quanto lei lo desideri, «perché era proibito» (ibid.). Sin qui la storia sembrerebbe riproporre stancamente le consuete metalessi ontologiche delle prime fiabe, così come la bambina pare una replica della protagonista, anch’essa senza nome, della Storia di una bambina e di due bambole, con annessa la soluzione onirica all’infelicità dei bambini poveri30. Un evento scompagina invece l’intreccio: Un giorno il babbo e la mamma della bambina dissero che erano diventati poveri ed era necessario vendere tutte le belle cose del salotto e delle altre stanze. E poco dopo, la bambina andò nel salotto per salutare la sua amica, ma al posto del quadro vide il muro vuoto (ibid.). 29  Da notare che Morante qui utilizza costantemente la forma ‘giuocare’ con il dittongo, come farà anche nella prima edizione in rivista del Giuoco segreto («Il Meridiano di Roma», 13 giugno 1937). Nella Storia di una bambina e di due bambole le forme più arcaiche sono presenti nel manoscritto, ma non nella versione a stampa, lasciando presupporre una correzione – o una richiesta in tal senso – redazionale. 30  Peraltro, sarà da ricordare che il quaderno di poesiole dell’infanzia conservato nell’Archivio Morante mostra come il tema della povertà sia già ben presente alla piccola Elsa, forse per effetto dell’impatto avuto con il mondo aristocratico durante il soggiorno, all’età di circa sei anni, presso la lussuosa dimora di Maria Guerrieri Maraini Gonzaga. Lo si nota, ad esempio, in Bimbi poveri e Bimbi ricchi: «Ci son poveri bambini | senza casa senza tetto | che non anno [sic] poverini | neanche paglia per il letto. | E ci sono altri bambini | che an [sic] palazzi grandi e belli | ma non pensano ai piccini | che pur son loro fratelli. | Ah… se fossi ricca anch’io | quante cose far vorrei | quanto amore à il cuore mio | per quei fratelli miei» (A.R.C. 52 IV 2.1, c. 17rv).

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1. storie della prima gioventù

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Nell’universo a misura infantile della fiaba non c’è spazio per dettagli o anche solo cambiamenti graduali, per cui il rovescio della famiglia è tanto terribile quanto immediato e si traduce in una subitanea desolazione senza rimedio. Non ci sarebbe del resto alcuna consolazione se non fosse che, a compensare la perdita del quadro, la notte Maria e Garzia accorrono in soccorso della bambina annunciandole una grande «novità» (ibid.): potranno tutti insieme recarsi al castello. La bambina indossa «un mantello col cappuccio» (ibid.) e, una volta arrivata a destinazione, un po’ si vergogna vedendo lo sfarzo degli affreschi delle sale31 e l’eleganza lussuosa della principessa madre, che appare «con un abito di velluto e di ricami e una reticella d’oro sulle spalle» (ibid.). Gli abitanti del castello, però, «le fecero festa e ballarono un lungo girotondo intorno a lei» (ibid.), cosicché ogni imbarazzo è presto superato e la bambina può tornare «nel suo letto tutta allegra» (ibid.). Si tratta dell’ultimo sogno veramente felice. Dopo che la famiglia si è trasferita in una casa più piccola dove «le mura [erano] vuote e bianche. I mobili erano pochi, brutti, e tutto era molto triste» (ibid.), Maria e Garzia non visitano più con piacere i sogni della bambina: si annoiano perché lei intanto è cresciuta e le è nata persino «una ruga in mezzo alla fronte» (ibid.) dopo che ha visto la madre piangere. Inaspettatamente, però, si presenta l’occasione per un ultimissimo sogno condiviso con tanti «principi e principesse» (ibid.). A un tratto Maria la chiama a sé e in gran segreto le regalò una cuffia di lana, che pareva la cuffia di una bambola; e tutti insieme le cantarono una canzone che la bambina imparò subito a memoria. Poi fuggirono, come facevano sempre quando spuntava il sole (ibid.).

Com’è intuibile, il sogno prelude a una «grande sorpresa» (ibid.) che attende la bambina al risveglio: «Nella camera vicina trovò una culla, e dentro un fratellino appena nato» (ibid.), che ovviamente ha in testa una cuffia che «sembrava proprio quella della Principessa» (ibid.). Dopo la variante del trasloco dovuto all’improvvisa miseria 31  Gli affreschi dei «guerrieri, alberi, angeli e uccelli» (ibid.) sembrano già guardare alla lussureggiante fantasia della Sala della Caccia del Giuoco segreto, contraddistinta «dagli ampi scenari affrescati sulle pareti e sul soffitto. Rappresentavano scene di caccia, contro un paesaggio rupestre su cui nascevano alberi irti ed oscuri» («Meridiano di Roma», 13.6.1937, p. 8).

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familiare, la narrazione sembrerebbe tornata nei binari più tipici del fiabesco morantiano, ma il mondo notturno non è più così metaletticamente intrecciato con la realtà diurna. Come suggerisce il dettaglio della cuffia che si limita a sembrare quella donatale dalla Principessa, una connotazione più realistica si incunea nel racconto conferendogli lo status di un lavoro di transizione verso una scrittura più consapevole e articolata: Subito il fratellino rimase zitto zitto, e cominciò a succhiarsi un dito. Era tanto buffo, col suo dito in bocca, che la bambina pensò di disegnarlo. Così fece un quadro bellissimo, e tutti quelli che lo guardavano non potevano fare a meno di ridere e di sentirsi allegri per tutto il giorno. La bambina appese il quadro al muro, nella camera della mamma, e pensò, dopo quello, di disegnare la principessa. La dipinse com’era veramente, più piccola del quadro, coi capelli al vento e la bocca che rideva e poi dipinse anche Garzia, grasso grasso e con gli alamari d’argento (ibid.).

La bambina si dedica anche ad altri quadri nei quali ritrae le stanze del castello e i personaggi incontrati nei sogni, per appenderli nella camera del fratello che da misera e spoglia diviene «veramente splendida, tanto che il fratellino, vedendosi intorno quelle figure straordinarie, tutto a un tratto si mise a ridere» (ibid.) e la stessa madre, da troppo tempo afflitta, «si mise a cantare» (ibid.). Il finale è in linea con questo tripudio di risa e di canti, che rende il finale del Ritratto della principessa uno dei più allegri della giovinezza morantiana: Allora, in quella brutta e povera stanza diventata la più bella del mondo, la mamma e la bambina si sentirono ricche come il re. E la bambina pensò che certo in quella notte avrebbe fatto il più bel sogno di tutta la sua vita (ibid.).

È senz’altro degno di nota il passaggio dal sogno al disegno, che appare innanzitutto effetto della crescita della bambina, approdata a un’età in cui non bastano più fantasie e voli notturni per essere sereni. In primo luogo, la messa in scena di questo processo favorisce la trasmissione della solida morale della storia, e cioè che sono l’amore e il calore familiare a dare la felicità e a rendere veramente belle le case – e in questa direzione la bambina appare per certi versi già una ragazzina che salva il mondo, in grado di donare allegria a coloro che la circondano, in primis gli adulti devastati dalle vicissitudini esistenziali, e, con ciò, di fare tornare loro il sorriso e il desiderio di vivere.

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1. storie della prima gioventù

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Più ampiamente, poi, i disegni della bambina costituiscono una sorta di mise en abyme della stessa attività dell’autrice, rappresentando il potere compensativo della finzione e il ruolo che i sogni esercitano come movente dell’invenzione, una questione su cui Morante molto rifletterà nel corso del 1938 in quel preziosissimo zibaldone onirico che sono le Lettere ad Antonio. Per quanto, quindi, la favoletta possa rientrare a pieno titolo nelle storie per bambini della prima gioventù, si colgono al suo interno alcune complicazioni metanarrative che, superando il gusto metalettico del primitivo corpus fiabesco, guardano ormai alla nuova stagione apertasi a metà circa degli anni Trenta nella scrittura di Morante. Prima di affrontarla, tuttavia, si dovrà prendere in esame una lunga storia riemersa dalle carte donate all’Archivio nel 2016: Il mio straordinario viaggio in cerca di Billi.

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Billi e la Favolaia della luna

Avevo già da moltissimo tempo chiuso questa storia, quando mi giunsero lettere da tutte le parti del mondo. Il portalettere arrivava ogni giorno con un carrettino, e poi con un carro, e schioccando la frusta gridava: – Posta, Signora! Erano tutti i bambini del mondo che pretendevano una conclusione, e chiedevano di conoscere la mamma degli altri bambini, e se la storia era finita così (A.R.C. 52 I 1/39, c. 73r).

Con l’immagine dei piccoli lettori che scrivono all’autrice per reclamare un diverso finale di una storia precedente prende avvio Il mio straordinario viaggio in cerca di Billi, un lavoro per l’infanzia ritrovato grazie alla donazione del 2016, in cui si narrano le avventure di tre intrepide amiche – la scrittrice, Mariolina e la signora Berta – che compiono un viaggio sulle stelle e sulla luna per ritrovare il capriccioso nascituro Billi, inviato alla signora Berta dalla balia stellare Ultimafata, ma fuggito dal cesto della cicogna durante il trasporto sulla Terra. Il testo, catalogato nell’Archivio della BNCR con la segnatura A.R.C. 52 I 1/39, cc. 73r-113r1, può essere ascritto anch’esso alla prima giovinezza dell’autrice, molto probabilmente al 1933-1934. Come stiamo per vedere, fanno propendere per questa datazione non solo un passo del carteggio con Luisa Fantini, ma anche, adesso, il ritrovamento della poesia La ninna nanna del piccolo Billi, uscita sul «Corriere dei piccoli» nel giugno 1934, che compone con la storia una sorta di dittico del cui episodio maggiore, tuttavia, non si hanno al momento riscontri di pubblicazione. Possiamo ritenere, pertanto, 1  La storia è conservata in una copia dattiloscritta, contenuta in una cartella su cui è presente il medesimo titolo scritto a mano. Il testo è sostanzialmente pulito, a parte alcuni interventi autografi relativi a varianti formali e correzioni di refusi. Solo in un caso abbiamo una correzione sostanziale, relativa al nome di un personaggio (cfr. infra, nota 20).

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il tesoro nascosto

che si tratti di un inedito nel quale, come in altre storie per bambini del periodo, si nota la transizione dalle atmosfere miserevoli delle prime fiabe a un impianto narrativo più dinamico e allegro, sostenuto da un complessivo senso di divertissement.

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2.1 Una ninna nanna e un sequel Al pari della dicitura «Capitoli aggiunti» (ibid.) presente nel dattiloscritto prima del titolo, l’incipit mette subito in chiaro che siamo di fronte al sequel di una storia che ha avuto uno straordinario successo, per quanto l’affermazione di aver ricevuto «lettere da tutte le parti del mondo» debba considerarsi senz’altro iperbolica2. La frase di apertura non esplicita a quale lavoro la narratrice sta riferendosi, ma i personaggi e i luoghi che, a partire dalla Piazza delle Stelle, compaiono di lì a poco collegano indubitabilmente Il mio straordinario viaggio alla Storia dei bimbi e delle stelle, uscita in nove puntate sul «Corriere dei piccoli» fra il 5 marzo e il 30 aprile 1933. Anche la circostanza che i bambini abbiano scritto alla voce narrante per avere ragguagli sul destino dei personaggi procede in tal senso, dato che il precedente lavoro così terminava: «se questa conclusione non vi persuade abbastanza, potete scrivere, per chiedere schiarimenti, al “Giardino Meraviglioso”, Piazza delle Stelle, Paese dei Sogni (Estero)» (Caterì, pp. 103-104). Forse la giovane scrittrice pensava a una ripubblicazione congiunta delle due storie, come lascerebbe intuire il deittico «questa», che suggerisce una diretta prossimità testuale3. In ogni caso, se le date 2  È possibile che Morante stia qui gonfiando, per evidenti effetti narrativi, un dato di realtà che emerge da un passo della già menzionata lettera a Civinini del 28 novembre 1938 in cui ricorda, a dimostrazione del successo delle sue storie, «le lettere di ragazzini e non ragazzini che, all’uscire di ogni nuovo racconto, mi venivano da varie città d’Italia» (L’amata, p. 14). Potrebbe però essere anche questa, a sua volta, un’esagerazione visto che la scrittrice intendeva persuadere Civinini a intercedere in suo favore presso la direzione del «Corriere dei piccoli». 3  L’intenzione di raccogliere le storie in un libro per l’infanzia, ricordata già nella nota 7 del precedente capitolo, attraversa non di meno la corrispondenza degli anni Trenta con Luisa Fantini, anche se Morante non sempre pare ricordarsi dei progetti avviati: «Tu parli di un mio libro, ma io non ho capito bene che cosa tu voglia dire. Ti confesso che sono curiosa. Di che libro parli? A meno che non si tratti di quella fiaba del Corriere dei Piccoli» (L’amata, p. 55).

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2. billi e la favolaia della luna

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della Storia dei bimbi e delle stelle costituiscono grosso modo il termine post quem per situare la composizione del seguito, non mancano indizi nemmeno per quanto concerne il termine ante quem. In primo luogo, non sarà da considerare un riferimento attendibile il «moltissimo tempo» dell’incipit, che appare dettato dal medesimo effetto iperbolico riconoscibile nella sconfinata fortuna della storia precedente, tanto più che, confrontando le carte delle due storie, si nota una certa similarità di materiali e inchiostro. Può costituire un ulteriore appiglio cronologico La ninna nanna del piccolo Billi, apparsa con illustrazioni della stessa autrice sul «Corriere dei piccoli» il 24 giugno 1934, la cui prima strofa recita: E questa sera vi voglio cantare la ninna nanna del piccolo Billi. Una stelluccia comincia a tremare e tutti dormono tranquilli. Dorme stelluccia dentro la cuna, dorme il mare, dorme la luna. Ma Billi è solo, perché la mamma è partita, ninna nanna, è partita e, come si sa, fino a domani non tornerà. Ninna nanna ninna nà (vv. 1-11; «Corriere dei piccoli», 24.6.1934, p. 4).

Seguono altre quattro strofe di diversa lunghezza così come variabile è l’estensione dei versi, perlopiù ottonari e novenari. Le rime sono in genere baciate, a parte i versi iniziali, e contribuiscono in tal modo all’andamento cantilenante della poesia, in linea con la funzione del componimento, una ninna nanna da recitarsi a un bambino che sta imparando a dormire da solo. Tema della poesia, infatti, sono le apparizioni notturne che mitigano l’allontanamento della madre durante le ore che il bambino deve affrontare: «Povero Billi! Me lo sai dire? | Senza la mamma si può dormire?» (vv. 12-13; ibid.)4. Per fortuna, sentite le sue preghiere serali, si muovono in soccorso le stelle, pronte a inviargli i giocattoli animati che nella notte lo rin4  Ci si può chiedere se dietro questi versi si possa riconoscere una qualche suggestione proustiana. Come vedremo nel sesto capitolo, la rappresentazione delle immagini che accompagnano l’addormentamento di un personaggio tornerà nel racconto del febbraio 1937 dal titolo I genitori con una più evidente reminiscenza della Recherche.

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cuoreranno: «il soldato di stagno | sotto una tela di ragno» (ibid.), «Orsetto con gli occhi di vetro» (ibid.) e poi […] c’è il treno che va per vie lunghe, e buie gallerie e parla di prati, e d’erbe su cui pascolano caprette con tanti sonagli d’argento mentre gira il mulino a vento (vv. 46-51; ibid.).

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Ma la massima consolazione giunge nell’ultima strofa, quando è convocata niente meno che la Madonna col bambino: Ninna nanna ninna nanna. E sul letto c’è la Madonna, tutta celeste, tanto vicina che guarda proprio la tua testina. Ha tanta luce sulla faccia e il suo bambino fra le braccia. Piccolo Billi, buona sera! Dormon le case nella via nera e la Madonna sorride e dice: «Ninna nanna. Sii felice!» Tutti dormono tranquilli e la mamma sogna Billi e Billi sogna la mamma. Ninna nanna. Ninna nanna (vv. 52-65; ibid.).

L’immagine sacra sopra il letto tornerà variata nella narrativa di poco successiva legandosi, come si vedrà nel quarto capitolo, alle abitudini devote della giovane autrice. Ciò suggerisce, peraltro, una sofferta cifra autobiografica nella «piccola voce sola | sperduta nel cielo viola | che cerca la casa di Dio | e dice: “Sono qua io!”» (vv. 18-21; ibid.), rendendo la poesia meno innocente di quanto potrebbe ritenersi a prima vista. In ogni caso, la ricorrenza onomastica fa presumere una qualche contiguità fra la ninna nanna e lo Straordinario viaggio: i versi potrebbero essere stati espunti dal racconto oppure la storia potrebbe essere stata ideata a partire dalla poesia, il cui protagonista sembra costituire, anche per la comune apparizione di un orsetto, una versione più quieta – o solo di età ancora più infantile – del Peppuccio rompi-giocattoli della storia eponima.

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2. billi e la favolaia della luna

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Un altro dato di cui tenere di conto è che Il mio straordinario viaggio è menzionato in una lettera del 5 ottobre 1934 in cui Elsa descrive all’amica Luisa una storia inviata al «Corriere dei piccoli» come «una specie di quella del piccolo Billi (te la ricordi?) buffa, e con le figure di quel genere già fatto» (L’amata, pp. 35-36)5. Si potrebbe, quindi, inserire la redazione del racconto in una forbice cronologica non troppo ampia, tra la primavera del 1933 e il pieno 1934: se non nel senso di una scrittura totalmente ex novo, perlomeno in quello di un inedito montaggio di materiali precedentemente abbozzati. L’impressione, infatti, è che i tre capitoli della storia, rispettivamente intitolati Partenza, Altro ricevimento delle fate, Ritorno, corrispondano a tre distinte sequenze narrative assemblate insieme – e la cosa non stupisce, vista la consueta urgenza di pubblicare. Evidente, senz’altro, è la differenza di ispirazione rispetto al corpus fiabesco incentrato su fanciullette umili e timide, protagoniste più passive che attive dei meravigliosi rovesciamenti di destino che si ritrovano a sperimentare, come, ad esempio, il già ricordato personaggio eponimo di Paoletta diventò principessa, così come appare distante il tono divertito della vicenda dai testi eroici del «Balilla». Come suggeriscono il nome avventuroso, da western, del bambino e soprattutto le pirotecniche invenzioni e il ritmo forsennato, Il mio straordinario viaggio in cerca di Billi appare più vicino a Un negro disoccupato e a Piuma mette K.O. l’amico Massimo6. Una più sviluppata propensione avventuroso-cinematografica è comunque percepibile anche nei capitoli finali della Storia dei bimbi e delle stelle, il cui primo nucleo, se prestiamo fede a una testimonianza 5  Su quale possa essere questa storia non si hanno notizie certe, ma si potrebbe anche ipotizzare che si tratti delle Bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina, il che spiegherebbe come nel 1942 Morante potesse proporle a Einaudi in un lasso di tempo piuttosto rapido: «in quell’inverno di guerra Elsa ritrova dentro di sé, o in qualche remoto cassetto di casa, una lunga storia di formazione» (Lorenzo Cantatore, Libri per ragazzi numero uno: la lunga storia di Einaudi, Morante e Caterina, in Cardinale - Zagra (a cura di), «Nacqui nell’ora amara del meriggio» cit., p. 67). 6  Le due storie formano con Il soldato del re («Corriere dei piccoli», 27 giugno 1937) il trittico che sarà ripubblicato di seguito alla storia principale nell’edizione del 1959 delle Straordinarie avventure di Caterina. La riproposizione, peraltro, a circa venticinque anni di distanza, dell’aggettivo ‘straordinario’ nella nuova edizione di Caterina conferma la lunga durata delle costanti, tematiche ma anche lessicali, che agiscono nella memoria poietica di Morante.

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di Maria Morante, sarebbe da ricercare in una storia inventata da Elsa adolescente durante le passeggiate con i fratelli nel quartiere di Monteverde Nuovo, come mostrerebbe già il nome della protagonista, Mariolina, diminutivo di quello della sorella della scrittrice7. Mariolina è menzionata nell’incipit come fonte del racconto, ma poi il primo capitolo si sposta sulla descrizione dell’edenico giardino prenatale sito su una stella di cui è guardiana Ultimafata, l’unica tra le fate a non aver fatto in tempo a rifugiarsi sulla luna dopo che queste sono fuggite dalla Terra. I bambini prendono origine dai fiori, che ne influenzano il carattere, con una reminiscenza variata di Peter Pan, in cui essi discendono invece dagli uccelli8. Nel capitolo successivo si racconta la ‘pre-nascita’ di Mariolina dai petali di una rosa impregnati del sangue di un rondinotto che, per suo amore, si è trafitto il cuore; di qui la straordinarietà della bambina, provvista anche lei di un cuore e della capacità di provare sentimenti, a differenza degli altri nascituri. Tra questi il più crudele e bello è Daddo, che entra in scena nel terzo capitolo e di cui Mariolina teneramente si innamora. I due si recano sulla luna dove le fate sono impegnate in una guerra contro i folletti. Anche Daddo vi partecipa assurgendo allo status di eroe, sebbene sia stata Mariolina, invero, a salvarlo in più di un’occasione (capitolo quarto); fatto sta che il bambino viene nominato Governatore e decide di rimanere con le fate, separandosi da Mariolina che, con grande dolore, torna da sola nel giardino di Ultimafata (capitoli quinto e sesto). Qui, aiutandosi con una corda d’oro donatale da un usignolo poeta, Mariolina riesce a rivedere Daddo nello spazio di un breve sogno (capitolo settimo). L’ultima avventura, di tono decisamente più allegro, avviene sulla stella in cui il nano Frugoli tiene prigionieri gli spiriti maligni. Mariolina si 7  Cfr. Maria Morante, «Mariolina», in Maria Pia Mazziotti - Simona Lattarulo (a cura di), Una signora di mio gusto: Elsa Morante e le altre, Apeiron Editore, Roma 2005, p. 48. Sembra confermare l’origine familiare del personaggio di Mariolina il fatto che, enumerando nelle pagine finali del Mio straordinario viaggio i regali lasciati dalla Befana, la narratrice affermi, quasi con un lapsus d’autrice, che questa ha lasciato «a Maria una tromba» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 142r). 8  Sui modelli intertestuali della fiaba cfr. Elena Porciani, Peter Pan e gli altri. Le ragioni del fiabesco morantiano nella Storia dei bimbi e delle stelle, in Enrico Palandri - Hanna Serkowska (a cura di), Le fonti in Elsa Morante, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2015, pp. 43-50, https://edizionicafoscari.unive.it/it/edizioni4/libri/978-88-6969-045-7/le-fonti-in-elsamorante (ultimo accesso 31.10.2021).

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fa trarre in inganno dalle sorelline Acquolina e Bugia, che la lasciano sola nel palazzo di Dulcisinfundo; qui i Capricci le si infilano nei riccioli e incontra per l’ultima volta Daddo (capitolo ottavo). La storia termina quando Mariolina viene portata dalla cicogna sulla Terra e può finalmente nascere (capitolo nono). Da questa vicenda, della cui esuberanza di personaggi e trovate non si può fornire in questa sede che un’idea molto parziale, trasmigrano nel Mio straordinario viaggio, oltre a Mariolina, il nano Frugoli e il più marginale mago Rabbuffo9 nel primo capitolo e poi, nel secondo, Daddo e la Regina delle Fate, così come fa una fugace apparizione nel terzo la stessa Ultimafata. La continuità è infatti garantita dal ritorno di alcuni personaggi più che dall’atmosfera complessiva, dato che non c’è più traccia nel sequel della malinconica visione della nascita come caduta da un eden prenatale. Più che nel coeso intreccio dei primi sette fiabeschi capitoli della Storia dei bimbi e delle stelle, la nuova storia si inserisce nell’atmosfera divagante e divertita dell’ottavo, L’avventura dei capricci, che ha tutta l’apparenza, anch’esso, di un capitolo più tardo, aggiunto in un secondo momento alla storia principale; non a caso, la prima tappa del Mio straordinario viaggio è ambientata, di nuovo, sulla stella del nano Frugoli. Contestualmente, svaniscono anche gli struggimenti della sensibile Mariolina per Daddo, primo caso dei tipici amori morantiani per il beau sans merci di turno10. Quando, nel secondo capitolo del Mio straordinario viaggio, i due si incontreranno di nuovo nel regno lunare delle fate, l’iniziale turbamento di Mariolina si stempererà rapidamente nello stupore – non alieno da una reminiscenza carrolliana – di trovare Daddo troppo minuscolo e bambinesco, con il suo ingenuo egocentrismo, per lei che è ormai una ragazzina e va a scuola: In quel momento si sentì un fragoroso: Perepè, Perepè, Perepè!, e apparve Daddo. – Com’è piccolo! – gridò subito Mariolina. Infatti, nella luna non si cresce troppo, e Daddo era rimasto sempre molto piccolo. Aveva ancora il suo corsa-

9  «Tutte le stelle racchiudono qualche cosa di meraviglioso; per esempio, in una abita il mago Rabbuffo, che dirige tutte le scuole del mondo e consiglia ai maestri di dar molti zeri» (Caterì, p. 18). 10  Su questa figura ricorrente cfr. Porciani, Nel laboratorio della finzione cit., pp. 79-82.

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letto di velluto e la piuma sul cappello, e un’aria maestosa e fiera. Timidamente Mariolina gli si accostò e gli disse piano: – Non mi conosci? Daddo accese la spadina d’argento e rispose: – No. Allora Mariolina cantò una canzone che essi conoscevano al tempo del bel giardino […]. Daddo guardò in su con meraviglia e fece quasi un sorriso: – Bene! – disse – Sei tu? Ti aspettavo. Rimani con me? Mariolina arrossì, e rispose a voce bassa: – Devo andare al ginnasio. – Oh! Non fa niente! – rispose Daddo, alzando le spalle. – E allora, che sei venuta a fare? – A cercare Billi – spiegò Mariolina (ivi, cc. 90r-91r).

2.2 Favolose metalessi e creature stellari Il diverso clima narrativo tra le due storie non esclude una forte continuità di tipo strutturale, garantita innanzitutto dalla presenza in scena della narratrice. Nell’incipit della Storia dei bimbi e delle stelle si legge: «Questa storia me l’ha raccontata Mariolina» (Caterì e altre storie, p. 17), la quale, avendo posseduto un cuore già prima di nascere, può ricordarsi di quanto le è capitato sulle stelle e sulla luna. Una simile memoria è garanzia di veridicità: «potete essere sicuri che questa storia è vera» (ibid.), anche se magari un qualche «signore serio e barbuto si metterà a ridere» (ibid.), visto che, non avendo avuto un cuore prenatale, si è certo dimenticato delle sue origini stellari. In secondo luogo, la conoscenza diretta della sua fonte consente alla narratrice di legittimare la propria speciale posizione intermedia nel mondo creato dal suo stesso racconto: Anche Ultimafata esiste ancora, ve lo posso assicurare. Ella viene sempre, quando sogno, a darmi un bacio sugli occhi. E poi mi dice: – Ricordi quand’eri un Miosotis? – Io naturalmente le rispondo di sì. Ora so che prima di nascere ero un miosotis, mentre Mariolina era una piccola rosa (ibid.).

Attraverso la memoria di Mariolina la narratrice recupera la propria: torna in contatto con Ultimafata e può mettere in forma di narrazione i ricordi dell’amica. In tal modo l’incipit crea un effetto di cornice metanarrativa con l’ultimo capitolo, che «potrebbe intitolarsi Capitolo Importante. Infatti se quello che sto per raccontare

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non fosse accaduto, non solo non esisterebbe Mariolina, ma non esisterebbe nemmeno questa storia» (ivi, p. 93). Tornata in scena con il suo status di personaggio narrante, l’antica Miosotis ribadisce non solo di essere amica di Mariolina, che ormai vive sulla Terra, ma anche, nella fattispecie, di ricevere in sogno le visite di Ultimafata, in un cortocircuito di mondo onirico e mondo meraviglioso-fiabesco che è tutt’altro che episodico. Siamo nuovamente di fronte a quella costante dei primi lavori morantiani per bambini che già abbiamo messo a fuoco nella Storia di una bambina e di due bambole e che consiste in una personalissima versione della tendenza alla metalessi che già di per sé la scrittura fiabesca possiede quando imita, con interventi metanarrativi e allocuzioni al lettore, la dimensione performativa del racconto orale11. Più in dettaglio, da un lato il passaggio da un livello narrativo all’altro – il racconto di Mariolina riportato dall’io narrante – corrisponde a quello dall’autodiegesi all’eterodiegesi, e ritorno; dall’altro si registrano slittamenti sia fra i diversi livelli di realtà rappresentata – sogno e veglia, vita terrestre e stelle prenatali – sia, con le apostrofi ai lettori, fra la narrazione e la realtà evocata oltre la soglia del testo. Simili coordinate metalettiche ritornano nel Mio straordinario viaggio, in cui la narratrice si presenta sin dall’inizio come una Signora scrittrice, di successo addirittura mondiale per poi, più specificamente, entrare nella storia da lei stessa redatta. La caratterizzazione dell’io narrante è infatti più marcata, essendo essa amica e compagna di avventure dei propri personaggi, una volta che sia avvenuto il debito passaggio in un altro livello di realtà: Su questo cumulo di lettere io mi addormentai, in una sera piacevole ma fredda. Nel sonno, fui informata che i bambini avevano scritto anche in Piazza delle Stelle, ma non avevano avuto risposta per il gran da fare che c’è lassù. Intanto qualcuno bussò alla porta della mia camera. Era la mia vicina, la signora Berta, che aveva ordinato un bambino. Aveva un fiore fra i capelli e il vestito della festa ed era molto affannata perché aveva proprio allora ricevuto un telegramma. Me lo porse. Vidi subito che veniva dalla Piazza delle Stelle. Diceva: Arriverò domani ore 14. Billi (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 73r-74r). 11  Peraltro, nel caso delle storie per bambini di Morante, non si dovrà omettere di collegare la ricorrenza della metalessi alle circostanze in cui alcune videro la luce, come suggerisce la testimonianza sopra citata della sorella Maria: i passaggi di livello discorsivo sono anche la traccia delle performance adolescenziali di raccontatrice – ‘favolaia’ – familiare.

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La vicenda prende inizio dopo che la Signora scrittrice si è addormentata e ha, con ogni probabilità, iniziato a sognare, cosa di cui si ha allusiva conferma quando più avanti, rivolgendosi ai suoi lettori, chiederà loro, a proposito di ciò che sta raccontando: «E poi… non vi sembra di sognare?» (ivi, c. 108r). Il primo personaggio a essere presentato nel livello di realtà (finzionale) in cui la scrittrice è entrata prendendo sonno è la signora Berta, la sua vicina di casa12, molto emozionata per l’imminente arrivo di Billi, il «bambino grasso e con gli occhi celesti» (ivi, c. 79r) ordinato a Ultimafata13. Si intuisce che la vicina è una signora ‘dabbene’, per citare Gozzano, che può permettersi il meglio per il suo bambino: una «culla col fiocco rosa» (ivi, c. 74r)14 e giocattoli di ogni tipo, tra i quali, però, la voce narrante non approva uno «scimpanzé di pezza col grembiule quadrettato» (ibid.) perché troppo costoso – anche se poi, pur di far approdare Billi sulla Terra, gli sarà concesso anche questo. Come si può immaginare, tremenda è la delusione quando la signora Berta si vede recapitare dalla cicogna un cesto vuoto anziché il neonato richiesto: «Non so dirvi come rimanemmo. Tutti piangevano. Un Billi scappato che passeggia per il cielo! È una disgrazia sul serio!» (ivi, cc. 75r-76r) – e fa la sua comparsa qui il motivo del pianto esagerato, destinato a tornare più avanti, nel Regno delle fate: un possibile nuovo omaggio ad Alice in Wonderland che favorisce, enfatizzando umoristicamente l’infantilità dei personaggi, il processo di immedesimazione dei bambini lettori. Alla scena è presente anche Mariolina, ormai amica di lungo corso della narratrice, ed è lei che propone di mettersi sulle tracce del fuggitivo: «Io dico di prendere un aeroplano e di andare a cercarlo» (ivi, c. 76r). La proposta è accolta senza esitazioni: 12  Il nome è destinato a ritornare in un abbozzo di racconto più tardo, Il marito di Berta, di cui si tratterà nel sesto capitolo. 13  La lettera contenente la richiesta è in possesso del nano Frugoli, che la rende nota dopo che le viaggiatrici sono arrivate sulla sua Stella. Ultimafata, infatti, è solita rivolgersi a lui per rifornire i bambini della dovuta quantità di capricci: «Cara Ultimafata, ti chiedo un bambino grasso e con gli occhi celesti. Mi raccomando che sia molto svelto. Anche se ha qualche capriccio non fa niente. Lo preferirei col naso schiacciato. Se è possibile, lo vorrei ricciuto. Aff.ma Signora Berta» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 79r). Persino superfluo notare, alla luce delle future famiglie disfunzionali e dei futuri padri dimidiati di Morante, come nella storia non compaia alcuna figura paterna. 14  In tempi, evidentemente, in cui gli stereotipi del genere non erano ancora abbinati a una rigida ripartizione cromatica fra rosa e celeste.

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Subito la signora Berta si asciugò le lacrime, e in fretta in fretta si tolse il fiore e si mise un berretto. Io telefonai alla C.T.A. (Compagnia Trasporti Aerei) perché mettesse a nostra disposizione il più veloce aeroplano. La cicogna se ne andò senza pensare alla mancia, spiegandoci che il Billi non indossava che la camicia e aveva in mano un candeliere, che aveva voluto portare con sé. Poco dopo un apparecchio della C.T.A. si fermava dinanzi alla porta. Salimmo, ed io, che ho il brevetto, mi misi al volante (ibid.).

Il primo elemento degno di nota è l’immagine del bambino con il candeliere, che può forse ricordare la simbologia veterotestamentaria della candela che significa l’anima, contaminandola, tuttavia, con l’iconografia, più cristiana, di un pargoletto ricciuto: Billi starebbe portando con sé la sua anima che sta per venire alla vita, diffondendo pace e serenità su chi lo attende. In secondo luogo, colpisce la naturalezza con cui la Signora scrittrice s­ i rivela una pilota provetta con tanto di licenza di volo. Si tratta di una variazione che declina al femminile, non senza implicazioni autofinzionali, la fascinazione per gli aviatori che si è ricordata a proposito della Zia Sì e la zia No. Anzi, pur senza forzare la suggestione, si potrebbe persino supporre che questa scrittrice-aviatrice che, interrogata dal nano Frugoli, risponde d’aver «già girato tutto» (ivi, c. 82r) il mondo, costituisca un’incarnazione favolosa dell’adolescenziale Velivola di cui, come si è ricordato nel capitolo precedente, si racconteranno le deliranti fantasie in Lettere d’amore. A bordo dell’aeroplano pilotato dalla Signora scrittrice le tre viaggiatrici ammirano innanzitutto la vita delle stelle più nobili. Il sereno riposo di «vecchi santi che vivevano in solitudine, e dormivano con la loro aureola d’oro accuratamente piegata sotto il cuscino» (ivi, c. 77r) si alterna ai ghiribizzi delle comete che, ospiti di sfavillanti ricevimenti, «gettavano sui vulcani della terra fiammiferi accesi per farli scoppiare come fuochi d’artificio» (ivi, c. 78r). Dopo aver scorto il Mago Rabbuffo che continua a dare zero a tutti i suoi scolari, le tre giungono sulla stella del nano Frugoli. Mariolina si accorge che le gabbie dove erano tenuti gli spiritelli dei capricci sono vuote: «– Sulla terra è incominciato il regno della giustizia, come tutti sanno – spiegò Frugoli con compunzione, – e, allora, gli spiritelli sono molto buoni» (ivi, c. 80r). È possibile che in questo «regno della giustizia» di biblica memoria si riconosca un riferimento a qualche imprecisata situazione del periodo; certo è che il cambiamento, sulla stella, è stato radicale: persino Bugia si è fatta

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una brava e compunta «governante [con] le treccioline legate sul cocuzzolo» (ibid.), a non smentire la propensione della giovane autrice per questa pettinatura. La nuova occupazione di Frugoli è diventata scrutare «ogni millimetro dell’universo» (ivi, c. 82r) con un telescopio che lui stesso si è fabbricato, «fra un dispiacere e l’altro» (ibid.). Sul momento Mariolina rimane «un po’ sdegnata» (ibid.), ma poi è curiosa di sapere che cosa stiano facendo i vecchi compagni del Giardino di Ultimafata partiti per la Terra insieme a lei, così si mette a osservare il Cinesino figlio dell’Imperatore, la «dignitosa signorina con gli occhi d’ambra» (ivi, c. 84r) che, pur avendo scelto «un cuore di principessa» (ibid.), fa la serva della madre e dei quindici fratelli e non pare troppo contenta – «ogni tanto guardava lontano, lontano, e poi in su, diceva: Dio Mio!» (ibid.) –, e infine i fratelli Sesa, Sisi, Susi, Nonno, Nenno e Ninno che litigano in continuazione. Memore della Storia dei bimbi e delle stelle, la narratrice si premura di indicare la propria fonte: «Mariolina mi raccontò poi quello che vide» (ivi, c. 82r), così come, dopo aver narrato del figlio di Chu-Chu-San, mostra, con rapido accenno metalettico, di non essersi dimenticata dei suoi piccoli lettori: «ecco accontentati i miei amici» (ivi, c. 83r). Anche la signora Berta chiede di guardare dal telescopio, nella speranza di individuare Billi, ma Frugoli preferisce farlo al suo posto e, in effetti, riconosce un bambino che, con gli occhi «grandi e rotondi, e celesti […] in camicia, con un candeliere» (ivi, c. 85r), corrisponde alla descrizione fattagli dalla signora; non riesce, però, a riconoscere il luogo in cui Billi si trova, sebbene veda un prato e una «sedia d’argento in un tronco di quercia» (ibid.). È Mariolina a fornire la soluzione: «Quella è la luna» (ivi, c. 86r), dove vivono ancora Daddo e le fate. Subito, le tre viaggiatrici corrono a recuperare l’aeroplano («– Due lire il posteggio – disse la guardia», ibid.)15 e, fatta salire a bordo una fata incontrata mentre cercava un portafogli di cui in seguito si svelerà l’origine, si dirigono verso la luna: 15  Sin dalle battute iniziali le iperboli favolose si alternano ai dettagli quotidiani, come è tipico nelle storie per bambini di Morante: il successo planetario delle storie della Signora scrittrice si accompagna alla figura del portalettere che le reca la posta, così come la cicogna avrebbe diritto a una mancia; adesso, al momento di recuperare l’aeroplano parcheggiato, non manca il posteggiatore che reclama il pagamento dovuto mentre, poco dopo, una fata cerca un portafogli.

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Sulla porta della luna, una donnina faceva la calza. Figuratevi la meraviglia di Mariolina quando vide che era la Regina delle Fate! Aveva sempre il suo abito verde ma si vedeva che era già un po’ rimbambita. La fata rise dietro il suo ventaglio, e ci fece cenno di tacere. – Benvenuti, si accomodino! – gridò la Regina delle Fate balzando in piedi. La porta si aperse senza far rumore (ivi, c. 88r).

Inizia così, senza che stavolta ci sia detto dove è stato parcheggiato l’aeroplano, il secondo capitolo. Anche sulla luna Mariolina nota dei cambiamenti, a partire dalla presenza delle Cavallette e dei Folletti, un tempo nemici delle fate e ora alleati contro i Grilli e le Cavolaie; le fate, invece, sono poche e stanno «tutte affacciate ai fiori» (ivi, c. 89r) dove vivono. Per prima cosa, viene spiegato perché ogni sera una fata sia inviata in giro per il cielo in cerca di un portafogli: ciò avviene su richiesta del folletto Cuoredoro che vuole riabilitare la memoria del padre, il Ministro del Tesoro, che ha smarrito il portafogli ed è stato accusato dalla stampa di averlo, invece, rubato. Dato che la ricerca sinora non ha prodotto frutti, la narratrice interviene per assicurare il suo aiuto al folletto: «Dirò al mio amico nano di cercartelo col suo telescopio» (ivi, c. 90r). Dopodiché, mentre cresce l’ansia della signora Berta che non vede traccia del suo Billi, entra in scena Daddo che, pur apparendo ormai minuscolo agli occhi di Mariolina, è comunque ancora il Governatore delle fate e come tale si comporta, specie ora che ha al suo seguito un «nuovo Caporale [che] da oggi combatterà con me in prima fila contro i nostri secolari nemici, i Grilli» (ivi, c. 92r) e che ovviamente, come si sarà intuito, altri non è che il nascituro scomparso: – Ma è il mio… Bil[li]! – gridò la povera signora Berta. – Capite, vi prego? Io sono sua madre. – Che cosa è madre? – chiese Cuoredoro con interesse. – Oh, – disse la Regina delle Fate, che ricordava vagamente la sua vita terrestre. – È una cosa che sculaccia i bambini. Caporale Billi, vuoi essere sculacciato? – Sissignola! – rispose Billi, che sapeva che si deve rispondere sempre di sì alla Regina. Questa risposta commosse fino all’estremo la signora Berta (ivi, c. 94r).

Daddo cerca di convincere Billi a rimanere fedele all’onore militare: «– Io ti darò – gli disse, – questa fulminea spada perché con essa torni o sopra d’essa cada» (ivi, c. 94r), ma Billi, con grande scorno

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del suo comandante, preferisce la vita del bebè con tanto di culla con fiocco rosa, giocattoli e un «cappel da generale» (ibid.) anziché da caporale, che la narratrice e Mariolina a suon di filastrocche gli prospettano. Daddo si consola, però, quando Mariolina, che ormai lo tratta come farebbe una madre con un bambino bizzoso, gli regala una catenina d’oro, da lui subito appesa «all’elsa della spada, come ciondolo» (ivi, c. 95r). È un momento solenne e la Regina delle Fate ordina, «in segno di tristezza per la partenza del Caporale» (ivi, c. 96r), che tutti i soldati si cavino un occhio; tuttavia, di fronte alle severe rimostranze di Daddo, rettifica l’ordine nell’obbligo di «portare per mezza giornata i calzoni alla rovescia» (ibid.). Potrebbe essere questo un segno del fatto che, come hanno notato le viaggiatrici sulla porta della luna, la Regina «era già un po’ rimbambita», sennonché, più in generale, una simile parificazione di mutilazioni e ridicolaggini appare a misura di un universo meraviglioso-fiabesco in cui la levità fa presto a mutarsi in orrore, e viceversa. L’ineffabile severità non rende la Regina meno munifica: offre pappa di luna a tutti e fa portare una bella culla di legno per Billi che nel frattempo, ascoltando una ninna nanna cantatagli dalla signora Berta, «si addormentò, dimenticando tutte le delusioni della vita» (ivi, c. 98r): un’ombra di malinconia che si intreccia con il paradosso di parlare di esperienze di vita per un bambino che, di fatto, deve ancora nascere. 2.3 Trionfi lunari e dispetti della Befana Non solo per Billi è arrivato il momento di dormire: […] Daddo guardò la Regina con severità e le disse: – Faccio osservare a Vostra Maestà che è ora di andare a letto. – Ah, questo no! – dichiarò la Regina battendo lo scettro a terra. – A letto! – esclamò Daddo scuotendo la spada. – No! No! – dichiarò la Regina battendo un piede, e per la disperazione cominciò a piangere. Quando la Regina piange, debbono piangere tutte le fate. Era una pena vederle affacciate alla finestra coi nasi rossi e i fazzoletti pieni di lagrime. Ma Daddo gridò con voce terribile: – A letto! – e solennemente si avanzò ed offrì il braccio alla Regina delle Fate.

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2. billi e la favolaia della luna

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Davanti ad un gesto tanto cavalleresco e gentile, la Regina delle Fate, sempre piangendo, non poté rifiutare. E si incamminò verso la sua camera; in un corteggio superbo, la seguivano Fate, Folletti e tutti noi, compreso Billi nella sua culla nuova. La camera della Regina era dentro un garofano, e ancora non so come potemmo penetrarvi; il letto sorgeva su quattro colonne rosse, e quattro fate vestite di rosso, con un ventaglio di piume in mano, vegliavano sul sonno regale. La Regina si sedette sul letto, e dichiarò che non aveva sonno. Allora si fece avanti la Raccontatrice di Corte, o Favolaia, che sorrideva sempre (ivi, cc. 98r-100r).

Nel rapido incalzare della narrazione la Regina molto somiglia adesso a una bambina capricciosa da mettere a letto, a indicare tutta la fatata gravità lunare in cui spadroneggia la terribile autorevolezza del minuscolo Daddo. Dopo che la narratrice si è premurata di precisare, con divertito scrupolo di verosimiglianza, che non sa come siano potuti tutti entrare in un garofano, la Regina mostra di aver bisogno di qualcuno che le racconti una storia, come capita alle bambine che devono prendere sonno. Entra in scena, così, la Raccontatrice ufficiale di Corte, detta anche la Favolaia, che, per accontentare la Regina, si mette a narrare, recuperando la funzione eziologica dei miti, la storia dell’origine della costellazione del Cane, che la luna stessa ha creato per omaggiare un cane di cui si era senza speranza innamorata: «Quel cane si chiamava Fritz, e la sua storia è finita» (ivi, c. 101r). La Regina non è molto soddisfatta: «fece una smorfia, che significava: – La tua storia è abbastanza stupida, – ma non lo disse per educazione» (ivi, cc. 101r-102r); la sua insoddisfazione cresce ancora di più quando chiede la «storia della Bilancia» (ivi, c. 102r), che però la Favolaia non conosce: – E allora che Favolaia sei? – disse la Regina con tristezza. Fu allora che io mi feci avanti, e dichiarai: – La so io, la storia della Bilancia. – Oh, grazie signora! Io l’ascolto, – rispose la Regina con un bel sorriso. Subito io, gettando uno sguardo di disprezzo alla Favolaia ignorante, cominciai con la mia voce dolce […] (ibid.).

La narratrice racconta la storia della Fornarina del Cielo mossa da pietà per un angelo povero che ha solo un soldo, guadagnato spazzando le scale del Paradiso, per comprare il pane e sfamare la sua famiglia numerosa: «mise di nascosto sull’altro piatto della Bilancia un peso da un chilo. E giù fette» (ivi, c. 103r), cosicché l’angelo, stu-

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pito e felice, se ne va con un bel chilo di pane. L’azione, tuttavia, non è sfuggita al «buon Dio» (ibid.), che decide di premiare la fanciulla: «la Fornarina, senza sapere come, si trovò davanti, invece della solita bilancia, una bilancia di stelle» (ibid.), la stessa che noi vediamo nel cielo16. Grandioso è il successo del racconto: Alla fine della mia storia, tutti erano commossi. Vidi che le fate si soffiavano il naso; Billi alzò un piede, e la Regina aveva in mano una medaglia d’oro: – Degnatevi di accettare, signora – mi disse, – in premio della Vostra storia, una piccola onorificenza. Da questo momento voi siete la Prima Favolaia del Regno della luna. Ringraziai arrossendo, ma spiegai che per il momento dovevo trattenermi sulla terra, dove avevo un mucchio di cose da fare. – Verrete con tutto il Vostro comodo, – rispose gentilmente la Regina (ivi, cc. 103r-104r).

È questa una sequenza di racconto nel racconto che richiama l’architettura metalettica delle storie per bambini, come suggerisce la «voce dolce» con cui la narratrice ha raccontato la sua storia e che richiama quella della Vecchia Principessa, emissaria degli ordini del re, ma soprattutto dea ex machina della vicenda nella già menzionata Paoletta diventò principessa: «Un mattino venne da lei la vecchia Principessa, quella che era anche un po’ fata, e le parlò. Aveva una voce dolce» (Caterì, p. 10)17. Ciò lascia intuire come, nonostante l’impostazione corale del racconto, sin dal possessivo del titolo Il mio straordinario viaggio, la vera protagonista della storia sia più la Signora scrittrice che non gli altri personaggi, poco più che marionette della sua funambolica narrazione: 16  La storia sembra contaminare reminiscenze di vario ambito. Al nome raffaellesco della protagonista si unisce forse il ricordo di Spera di sole, presente in C’era una volta… Fiabe di Luigi Capuana (1882), la cui umile fornaia protagonista, Tizzoncino, sotto l’apparente bruttezza cela invece una radiosa bellezza e sposerà, dopo varie peripezie, il figlio del re; nello stesso tempo si avverte il tono di exemplum fiabesco di raccontini agiografici come Il povero santino della bella chiesa («Corriere dei piccoli», 19 agosto 1934) o Il battesimo di Pinin («I diritti della scuola», 7 marzo 1937). 17  Già in precedenza Paoletta ha sentito una «voce dolce che non si sapeva da dove uscisse» (Caterì, p. 9), ma che ogni volta è in grado di imprimere svolte alla sua vicenda. Tra l’altro, a rafforzare la contiguità intertestuale, si noterà che anche la Fornarina si ritrova a possedere la bilancia di stelle «senza sapere come», provando il medesimo smarrimento di Paoletta e di altre piccole protagoniste delle prime fiabe.

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2. billi e la favolaia della luna

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E subito per tutta la luna, fate e folletti batterono i tamburi e diedero fiato alle trombe; ed io non sapevo dove nascondermi. Insomma, fu proprio così; e quando sparirò dalla terra, sappiate che sono nella luna a fare la Favolaia (A.R.C. 52 I 1/39, c. 104r).

La Regina si è addormentata, le luci si sono spente, siamo ai saluti: è il momento di rientrare sulla Terra. Mariolina regala a Daddo anche un braccialetto; lui promette spavaldo di venire presto «con un aeroplano a conquistare l’America» (ivi, c. 105r), ma, «come tutti sanno, ancora non si è visto» (ibid.). Una «bellissima musica» (ibid.) accompagna la partenza, narrando che la Regina nel sonno verrà trasportata in portantina da quattro fate in un’oasi dove «berrà succhi zuccherini per tutta la notte» (ibid.). Infine la Signora scrittrice, ora anche Prima Favolaia lunare, sale insieme a Mariolina, la signora Berta e Billi sull’aeroplano per decollare. Una volta in volo, si sente d’improvviso una voce: «– Mi fate un posticino?» (ivi, c. 106r). Si tratta nientemeno che della Befana, perché, guarda caso, nel trambusto tutti si erano dimenticati che era la notte dell’Epifania – o forse perché, più semplicemente, sono stati cuciti insieme due segmenti narrativi di diversa origine: Aveva due sacchi e un canestro da cui usciva un coccodè di gallina e un baubau di cani. Oh, chi si vede, la Befana! – Come va, come va, vecchia mia? – le chiesi – Accomodatevi accanto a me –, ed ella si sedette senza cerimonie. La sua cuffia ricamata fu molto ammirata da tutti noi, e così il suo elegante grembiule con le tasche piene di carbonella. Ahimè! E le rughe erano sempre le stesse, le solite rughe che le sono venute a furia di ridere e di piangere (ibid.).

Siamo ormai nel terzo e ultimo capitolo, poco più che un’appendice di una vicenda sostanzialmente conclusasi con la partenza dalla luna delle tre amiche con Billi ritrovato. L’intromissione della Befana è senz’altro gustosa, ma si tratta di un personaggio che non molto pare avere a che spartire con quelli sinora incontrati, sebbene, nonostante le rughe, si riveli anch’essa giocherellona e dispettosa. Ad esempio, porge «una calzetta con aria misteriosa» (ivi, c. 107r) alla narratrice, che immagina sia «piena di diamanti» (ibid.) mentre invece contiene solo carbone: «Anch’io finsi di ridere; ma ero piuttosto indignata. – Per chi mi prende? – pensai. Non sa che sono la Prima Favolaia del Regno delle Fate?» (ibid.). Una reazione, questa, di me-

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galomane permalosità che anticipa gli autoritratti del Giardino d’infanzia. Soprattutto, però, si notano significative differenze riguardo a quello che potremmo definire l’orizzonte culturale del testo. Per quanto l’inventio morantiana si sviluppi nell’alveo di un immaginario che non trae giustificazione narrativa se non dalla propria poliedrica e surreale creatività, si nota che mentre il secondo capitolo è affollato di figure fiabesche più tradizionali – fate, folletti, animali magici, ma anche, sul versante religioso, angioletti e bambini pii –18, nel primo capitolo, nonostante la presenza di un mago e di un nano riconducibili al folklore delle fiabe, prevale un repertorio più impregnato di romanzesco e di modernità: aeroplani e telescopi, che denunciano la lettura dei romanzi di avventura e di prima fantascienza, in primis Jules Verne con il suo Da la Terre à la Lune (1865), anche se sullo sfondo, come suggerisce specialmente la stella in cui si trovano i cuori dei nascituri, sembra situarsi il viaggio sulla luna di Astolfo nell’Orlando furioso19. Una simile modalità ritorna nel terzo capitolo, ma variata in una versione cinematografico-cartoonistica che reca senza dubbio la traccia di un’assimilazione ‘intermediale’: non solo Morante ripropone il ritmo sfrenato dei cortometraggi animati sonori alle origini del genere, ma proprio riprende alcune celebri figure dei primi cartoons. Seduti a tavola, dove stanno consumando, vestiti di tutto punto, un ricco ed elegante pranzo nella lussuosa casa della signora Berta, i personaggi assistono al sorprendente spettacolo che la Befana ha in serbo per loro: Eravamo una compagnia elegante, vi assicuro! Ma il più bello deve ancora venire. Dunque, avevamo appena mangiato una prima fetta di dolce, quando la Befana disse: – Toc toc toc, chi vuol vedere quel che porto nel paniere?

18  E non sarà casuale che le filastrocche, intonate perlopiù dalle fate, si concentrino soprattutto nel secondo capitolo, a partire da quando, lasciata la stella del Nano Frugoli, le viaggiatrici si sono imbattute nella fata in cerca del portafogli, intenta a cantare la filastrocca di Cuoredoro che «ha trovato l’erba voglio | Che da fare, che da fare | La disgrazia a rimediare» (A.R.C. 52 I 1.39, c. 87r). 19  Sulle reminiscenze ariostesche in Morante cfr. Lucia Dell’Aia, Tradizione ariostesca e memoria mitologica in Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, «Cuadernos de Filología Italiana», XXIV, 2017, pp. 167-190.

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2. billi e la favolaia della luna

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Toc toc toc, chi vuol vedere quel che porto nel paniere? – Io! Io! Io! – strillammo tutti. Il paniere si aprì e ne venne fuori Topolino, non quello delle figure, proprio lui in persona, seguito da Bimba e da Mio Mao ecc. Si misero in mezzo alla tavola per fare una rappresentazione in nostro onore e Bimba, dopo l’inchino disse la poesia:

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Se non vi piace il mio grembiule, il mio bel naso, il mio ciuffetto, non siete degni più di rispetto, La vostra scienza più a nulla vale! E fece una risatina delle sue. Ma Topolino rispose con un salto e strillò. – Prosopopea! Prosopopea! Il tuo grembiale è uno straccetto Il tuo ciuffetto un vil cernecchio! Il tuo naso un patatino! E non sai fare l’inchino! Mio Mao fece una risata, dalla casa che si era scavata in un albero, e Bimba pianse battendo i piedi. Ma si vedeva che piangeva per finta, perché, dopo poco cominciò una bellissima danza con Topolino, fra i piatti. Danzarono il minuetto e la rumba con aria d’importanza, e di dietro ai piatti si affacciavano bersaglieri, Marmittoni, elefanti e Arcibaldi, tutti non più alti di un dito. La Befana si divertiva un mondo, e volle vuotare anche l’altro cesto e il sacco. I treni ci correvano intorno, casine di dadi bianchi e gialli si costruivano da sé, e in un serraglio i leoni ruggivano; le bambole camminavano in modo buffo credendo di fare chi sa quale cosa straordinaria (ivi, cc. 108r-110r).

Il «più bello» della storia consiste in una vorticosa danza che vede protagonisti i noti personaggi Topolino e Mio Mao, più conosciuto come il gatto Felix, mentre Bimba potrebbe costituire una variante femminile di Bimbo, il cane di Betty Boop20. Ad essi si uniscono minuscoli omettini, nei quali si riconoscono personaggi 20  Nella c. 109r ‘Bimba’ corregge con intervento autografo ‘Bimbo’, mentre nella c. 110r già nel testo dattiloscritto leggiamo ‘Bimba’, cosa che suggerisce come Morante abbia inserito questa variante mentre trascriveva a macchina la storia, forse per avere nella scenetta un personaggio femminile che meglio si adattasse a ballare con Topolino.

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dello stesso «Corriere dei piccoli» come Arcibaldo e Marmittone, in una furiosa sarabanda che coinvolge anche i giocattoli: il paradiso di ogni bambino sotto forma di festa di accoglienza per Billi, così grandiosa da commuovere la signora Berta, ma da suscitare qualche pensiero non proprio generoso nella narratrice e in Mariolina: «Noi guardavamo con aria d’invidia, perché nessuno di noi appena nato ha avuto una festa simile» (ivi, c. 111r)21. È però arrivato il tempo di altri saluti; la Befana, distratta dal pranzo e dalla festa, si è quasi dimenticata di dover portare i regali in giro per il mondo, ma, rivenutasi, «in fretta in fretta rimise dentro tutta la roba» (ibid.) e se ne va, senza accettare l’offerta d’aiuto della voce narrante e di Mariolina: – Oh no! Non sapreste far nulla e mi sareste d’impiccio, – rispose la Befana. Quando tutto fu pronto, ci strinse la mano, uno per uno. Ricordo ancora la sua mano piccola e magra. Poi salì sulla finestra, e allor si udì una musica. Rassomigliava al rumore dei trenini c[a]ricati, al raglio degli asinelli di legno, allo sparo dei fucili meccanici, al ma-ma delle bambole, e a tutte queste cose insieme. Ma non so come, era una bellissima musica (ibid.).

Colpisce la «mano piccola e magra», che pare una più diretta intrusione di un ricordo d’autrice, da collegarsi, forse, alle ricorrenti descrizioni di nonne e vecchie nei racconti giovanili, trapassate in seguito nella figura della nonna Cesira in Menzogna e sortilegio22. Ciò non toglie che il finale del Mio straordinario viaggio in cerca di Billi sconfini nel musical, visti anche i regali che la Befana ha lasciato sul tavolo, sotto i tovaglioli: «A me una chitarretta, a Maria una tromba, e alla signora Berta un violino. Il regalo di Billi era appeso alla sua culla, ed era un suonino d’argento» (c. 112r). Da allora, ogni occasione è buona per improvvisare concerti con i ritmi più in voga, che tutti «i marmocchi più sporchi del rione e i ladri in licenza si fermano ad ascoltar[e]» (ibid.); non si tratta, tuttavia, di musiche senza senso: 21  Non pare casuale la declinazione al passato prossimo del verbo ‘avere’, incongruente rispetto all’imperfetto del verbo ‘guardare’ della proposizione reggente: la consecutio temporum avrebbe richiesto il trapassato prossimo, ossia ‘aveva avuto’. Questa scelta sembra spiegarsi, di nuovo, in un orizzonte metalettico: la narratrice Scrittrice mira a trapassare la soglia della finzione narrativa per unirsi all’hic et nunc dei suoi lettori, che sono così – con suo divertimento – implicitamente invitati, nel mentre che ammirano la strabiliante festa per Billi, a pensare di non aver avuto nemmeno loro una tale accoglienza nel mondo. 22  Cfr. al riguardo Porciani, Nel laboratorio della finzione cit., pp. 88-95.

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2. billi e la favolaia della luna

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I nostri suoni raccontano tutte le avventure del viaggio, e tutti pensano alle stelle come ad un posto più interessante dei tropici e del polo, e più lontano ancora, e vorrebbero andarci. Per questo noi riuniamo una somma, soldo a soldo, nel nostro salvadenari nuovo, e, appena sarà pieno, faremo un nuovo viaggio in dirigibile e inviteremo tutti i nostri amici. Prenotatevi in tempo (ibid.).

Di nuovo la narratrice si rivolge a noi che leggiamo, oltrepassando i confini tra scrittura e realtà. Al contempo, l’insistenza sul denaro, in cui culminano i vari motivi del desiderio di sazietà, eleganza e ricchezza distribuiti nel testo, di nuovo evoca, al di là della facciata allegra, la grama vita della giovane Elsa, che si può immaginare come non riesca più, per quanto ci provi, al pari della Signora scrittrice rientrata sulla Terra, a «rivedere la Befana» (ivi, c. 113r). Così, mentre La storia dei bimbi e delle stelle si chiudeva con un invito divertito e speranzoso a scrivere all’autrice se il finale non fosse piaciuto – e, come si è visto, di qui prendono il via i «capitoli aggiunti» –, Il mio straordinario viaggio in cerca di Billi giustappone al primo finale musicale un secondo più dimesso e intimo, a suggerire che forse anche questa è una di quelle le «piccole storie impossibili» (L’amata, p. 39) a cui Morante non crede più, come afferma nella lettera del 28 maggio del 1935 a Luisa Fantini: Mi sarebbe piaciuto salutarla. Ma è stato inutile. La Befana non si fa più vedere da me. E allora la chitarra: Tran! Tran! e il violino: Ohoh! e la tromba Peh! peh! e il suonino: Din! Din! cantano lunghe canzoni, in cui si parla della Befana e della stella e del viaggio come di cose lontane, che presto nessuno ricorderà più (A.R.C. 52 I 1/39, c. 113r).

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3.

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Dalla preistoria all’Isola di Capri

Nella prima metà degli anni Trenta Elsa Morante si fa conoscere come autrice di storie e filastrocche per l’infanzia1, ma ciò non significa che essa trascuri le «novelle per grandi» (L’amata, p. 34), alle quali, come si è accennato, si sarebbe dedicata fin dall’adolescenza: «Dopo i quindici anni, incominciai a scrivere poesie e racconti per adulti» (Cronologia, p. XX). Sebbene il 1° ottobre del 1933 appaia sulla rivista femminile «Novella» il Romanzo del piccolo Bepi ­– in realtà un breve racconto il cui un bambino fa la traumatica scoperta di essere il figlio di un adulterio2 ­–, è però solo a partire dal 1935 che il versante adulto delle pubblicazioni diviene preminente, grazie alla collaborazione con «I diritti della scuola». I primi racconti ad apparire in questa sede sono il 12 maggio Giorno di compere e il 20 giugno La bella vita della vecchia Susanna, che sfoggiano una propensione alle trame sentimentali3 destinata, pochi mesi più tardi, a raggiunge1  Si legge sul «Corriere dei piccoli» nell’annuncio della Storia dei bimbi e delle stelle: «Nel prossimo numero avrà principio un altro racconto, una fantasiosissima fiaba, tutta ingegnose sorprese, soffusa d’un delicato candore: La storia dei bimbi e delle stelle. Voi conoscete già un po’ l’autrice Elsa Morante, di cui potete leggere in questo stesso numero una graziosa nenia [La casina che non c’è più]. È una scrittrice nuova, giovanissima, che, quando compose questa sua leggiadra fantasia, era certo più giovine di molti lettori del «Corriere dei Piccoli». Ciò ve la renderà certo più cara» («Corriere dei piccoli», 26.2.1933, p. 15). 2  Persino inutile rimarcare quanto questo precoce racconto di Morante sia intessuto di richiami autobiografici. Nel ritaglio della ripubblicazione del racconto il 30 marzo 1936 sui «Diritti della scuola» conservato nell’Archivio l’autrice con annotazione autografa ha aggiunto «1932» (A.R.C. 52 I 1.22, c. 30r), a indicare presumibilmente l’anno di composizione. 3  Giorno di compere pone di nuovo al centro della vicenda una madre adultera mentre La bella vita della vecchia Susanna racconta la storia di una zitella dal destino segnato dalla timidezza e dalla rinuncia, ma che si rasserena, con cristiana pacificazione, al cospetto della maternità dell’amata nipote. A proposito di Giorno di compere, sul ritaglio di questo racconto Morante ha aggiunto vicino al titolo l’annotazione autografa «1933»

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il tesoro nascosto

re la più compiuta realizzazione nel primo feuilletonistico romanzo: Qualcuno bussa alla porta, uscito sulla rivista in ventinove puntate dal 25 settembre 1935 al 15 agosto 19364. Come meglio vedremo nel prossimo capitolo, proprio in corrispondenza del periodo in cui il lavoro viene pubblicato sui «Diritti della scuola» Morante inizia a lasciarsi alle spalle il romanzesco ispirato ai modelli della letteratura popolare5 per abbracciare le atmosfere psicologiche e inquietanti che costituiscono il marchio di fabbrica della sua giovinezza più avanzata. Purtroppo, della primissima produzione che precede questa svolta di metà decennio esigue sono le tracce che ci sono rimaste. Se per quanto riguarda la poesia, oltre alla già menzionata poesia adolescenziale trascritta sul Quaderno di Narciso, ne offrono un’indiretta testimonianza le liriche dell’«Eroica» e della «Rassegna Nazionale», sul versante della narrativa ben pochi sono i documenti riemersi dall’Archivio, senza che peraltro niente si possa affermare di certo sulla loro effettiva datazione se non che sono molto precoci e forse persino riconducibili ai ‘preistorici’ anni Venti: il racconto morale Il servo che dormì nel tempio, la fantasia mitologica Una sirena vi attende e due lavori di tono romanzesco-rosa intitolati La casina rossa e Sette candele che hanno in comune una più o meno esplicita ambientazione nell’isola di Capri, al tempo celebre non solo per la straordinaria bellezza dei luoghi, ma anche per il fascino, non meno decadente che sovversivo, dei personaggi eccentrici che la frequentavano.

(A.R.C. 52 I 1.22, c. 27r), anche in questo caso evidentemente per rimarcare il periodo in cui lo avrebbe scritto. 4  Sullo sfondo di un lussureggiante scenario meridionale, vi si narrano le arzigogolate vicende amorose di Lucia, una trovatella adottata da un burbero aristocratico che in gioventù si è macchiato di un terribile uxoricidio. Dapprima fidanzata con il ricco americano Jack Sullivan, la giovane donna si sposerà invece con il musicista Franco Abbati, dal quale ha un figlio e che sostiene nella faticosa ricerca del successo, salvo nell’ultimo capitolo misteriosamente salpare per Capri e imbattersi in Mirtilla la Nera, una girovaga che altri non è che la sua – non riconosciuta – madre. Sul romanzo cfr. Rosa, Ovvero il romanziere cit.; Silvia De Laude, “Qualcuno bussa alla porta” di Elsa Morante, «Paragone Letteratura», XLVI, 548-550, 1995, pp. 151-152; Porciani, L’alibi del sogno cit., pp. 65-83. 5  Proprio la sede della pubblicazione del Romanzo del piccolo Bepi è indicativa in tal senso: «Novella» è il periodico antenato dell’attuale «Novella 2000», fondato nel 1919, pubblicato dal 1921 da Arnoldo Mondadori, ma già dal 1927, con il passaggio a Rizzoli, convertito dall’iniziale impostazione colta in un settimanale di narrativa rosa dal caratteristico inchiostro violaceo.

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3. dalla preistoria all’isola di capri

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3.1 Le leggi dei pesi

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Caro Pancrazi, voglio dirle, nello spedire questa lettera, che provo una certa commozione a scrivere il suo indirizzo sulla busta. E ciò a motivo di un fatto che Ella non può certamente ricordare. È questa la seconda volta che scrivo il suo indirizzo; la prima fu quando avevo circa quindici o sedici anni, e le spedii in lettura un mio racconto (dal titolo, mi pare Il servo che dormì nel tempio!). Ella era allora, come può immaginare, un mito per me, ed io veramente speravo assai poco in una Sua risposta (A.R.C. 52 A. Morante E.18).

Così leggiamo nell’incipit della minuta di una lettera, conservata anch’essa nell’Archivio Morante, che l’autrice scrisse a Pietro Pancrazi per ringraziarlo della sua recensione a Menzogna e sortilegio, uscita sul «Corriere della sera» col titolo Fantasia e sortilegio della Morante il 13 ottobre 19486. Non sappiamo se la lettera sia stata effettivamente inviata, ma quello che per noi è rilevante è che Morante dati il racconto al 1927 o al 1928, esattamente il periodo in cui, se prestiamo fede alle schede della maturità, si sarebbe volta verso la scrittura adulta. È arduo, però, dirimere fino a che punto il ricordo sia attendibile, tanto più che l’autrice pare – o piuttosto finge di – non ricordare esattamente il titolo del racconto. Si potrebbe ritenere, infatti, che Morante stia ostentando un certo understatement per meglio prendere le distanze da un lavoro della cui qualità non è più persuasa: come se nutrisse il timore, più che la speranza, che Pancrazi si ricordi del racconto e cercasse quindi di presentarlo come un immaturo frutto dell’adolescenza7. Di sicuro, grazie alla donazione del 2016 siamo adesso in possesso di una copia, pulita ma in parte danneggiata8, del Servo che dormì nel tempio (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 181r-195r), sebbene il fatto che si tratti di un dattiloscritto lasci intendere che se non il racconto, perlomeno il documento dovrebbe essere successivo all’acquisto da 6  La recensione sarà ripubblicata in Pietro Pancrazi, Scrittori d’oggi. Segni del tempo, Laterza, Roma-Bari 1950, pp. 95-100. 7  Senza contare che l’autrice potrebbe aver già preso il vezzo di ringiovanirsi e potrebbe quindi aver spedito il racconto a Pancrazi verso il 1933-1934, quando di anni ne aveva all’incirca ventuno-ventidue. 8  Il dattiloscritto è danneggiato sulla parte alta del margine destro dei fogli, cosa che impedisce di decifrare il testo in alcuni punti.

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parte della scrittrice della sua prima macchina da scrivere, avvenuto nell’autunno del 1933. Il 3 novembre di questo anno Elsa inserisce infatti un’imprevista giustificazione in chiusura di una lettera a Luisa Fantini: «scusa se ti scrivo a macchina, ma, come tutti i novellini, i primi tempi non so farne a meno» (L’amata, p. 28). Senz’altro, le ingenuità di alcune immagini e scelte lessicali, come quando la voce narrante definisce il piccolo servo un «omino» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 190r e c. 195r)9 o quando il personaggio parla della serva che lavora con lui come di una «collega» (ivi, c. 193r), fanno pensare che possa trattarsi in effetti di un testo molto precoce, frutto di una scrittura ancora non del tutto controllata, e solo in seguito trascritto. La storia è quella di un piccolo servo, il cui compito è di «aspetta[re] ogni notte [il] padrone che tornava dalle feste e dai banchetti» (ivi, c. 181r). Mai sinora gli è sorta la tentazione di mutare il suo destino; quando si addormenta, ad esempio, Egli non pensava neppure a dolersi della sua posizione scomoda, perché sapeva che il padrone, essere onnipotente e sovrumano ai suoi occhi, lo aveva acquistato al mercato con una moneta. Quindi egli era una cosa, un niente munito di lanterna (ibid.).

Una notte d’estate, invece, «chi sa perché» (ivi, c. 190r) – un’espressione che, a confermare la precocità della redazione del racconto, ricorda gli inserti metanarrativi delle fiabe che si sono visti nel primo capitolo –, il servo decide di salire sulla rigogliosa montagna dove si erge un tempio. Egli ignora che «l’ingresso era negato ai profani» (ibid.), così come è all’oscuro che corre voce che «a chiunque avesse una notte dormito ai piedi del dio, sarebbero state rivelate in quel sonno proibito, verità sul presente e sull’avvenire» (ibid.). La sua intenzione, riconducibile all’ingenua minorità in cui vive, sarebbe solo di salire più in alto per afferrare le stelle cadenti, ma poi, di fronte al recinto aperto, compie l’atto sacrilego di varcare la soglia e, attratto dai «ricchi bagliori che partivano dal dio» (ibid.), si dirige verso l’imponente statua di marmo nero della misteriosa divinità alata dalle quattro teste, ciascuna prov9  A ben vedere, la minutezza del personaggio ne fa una creatura di passaggio fra le fiabe e la narrativa per adulti. Il termine ‘omino’ è utilizzato anche nella Storia di una povera Caroluccia («Corriere dei Piccoli», 9 luglio 1933) per indicare i piccoli abitanti del bosco che soccorrono la protagonista.

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3. dalla preistoria all’isola di capri

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vista di occhi di pietra preziosa – zaffiro, rubino, smeraldo e diamante nero –, e dalle «molte poppe, e un gonfio, maestoso ventre» (ivi, c. 191r). Prostratosi ai piedi del dio, «un lento sonno gli occupò tutte le membra» (ibid.) e comincia così per il servo una straordinaria esperienza in cui il dio gli rivela le più alte verità su di lui e sul mondo. Dapprima appaiono al servo «dei vivaci omiciattoli» (ibid.), che altro non sono se non gli idoli protettori della casa del padrone e che tra balli e canti si fanno beffa di lui; dopodiché il dio stesso prende la parola con le sue quattro bocche unisone e si complimenta con lui perché potrà assistere allo spettacolo delle quattro coppie di occhi che penetrano dentro tutte le cose del mondo10. Segue un articolato dialogo tra i due, durante il quale il dio inizialmente rimprovera il servo perché lo ha trascurato per occuparsi di umili mansioni come «chiudere il vino dentro le bocce, strofinare col cencio il mosaico dell’atrio, vegliare sui sonni del […] padrone» (ivi, c. 192r), ma poi mostra di apprezzare il coraggio che finalmente il piccolo uomo ha trovato di salire al tempio e rompere il legame di sudditanza col suo padrone. Con il suo atto il servo ha rovesciato le gerarchie e, divenuto egli stesso «il padrone dei servi» (ivi, c. 193r), può vedere il vero volto del suo vecchio padrone, uno spettacolo che suscita la sua ilarità: «Lo vedo! è lui! è lui! ed ha una testa di porco!» (ibid.). Vorrebbe condividere la scoperta con la «povera serva, [sua] collega, che è così bionda e bella e sempre è frustata» (ivi, c. 194r) dal padrone, in modo da infonderle forza, ma il dio non lo concede: «– Se tutti i servi saliranno al tempio, chi farà da servo? Ci mancherebbe altro» (ibid.). L’ingresso nel luogo sacro deve essere il risultato di una decisione coraggiosa, non un’azione predisposta dall’alto; inoltre, dalla sua somma sublimità, il dio si diverte a vedere gli uomini impegnati nei loro ridicoli traffici terreni: «camminare così avanti e indietro e chiudere e aprire, e vestire e spogliare, e riempire e vuotare, e tracciare labirinti di punti e di cerchi» (ibid.). Il servo, liberatosi dal giogo della schiavitù, non vuole sottomettersi alla volontà del dio e insiste, «in una quasi sghignazzata di trionfo» (ibid.), che vorrebbe parlare «alla bionda» (ibid.); il dio è però inflessibile: 10  «[…] tu ora puoi vedere nei miei occhi azzurri, con cui io penetro fin nel cuore della gioia, nei miei occhi rossi con cui io raggiungo il culmine del dolore, nei miei occhi [ver]di che percorrono tutta la distesa della natura, nei miei occhi neri con cui io fisso la morte» (A.R.C. I 1/39, c. 192r).

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– Mi rallegra questa tua indipendenza nascente – disse – ma tu non potrai. Ora che sai il segreto, non tornerai mai più là in basso. La tua lanterna illuminerà il mio regno. Il tuo falso corpo, omino del cappuccio, resterà lì, butt[ato nel] tempio, e il tuo vero corpo è già libero dalle legg[i dei] pesi. Tu cammini sulla strada a cui tendono la fiam[ma e il] crescere degli alberi, a cui mira la freccia e il ca[vallo che] nitrisce. Io ti ho benedetto. Tu sei felice – term[inò il] Dio. E subito innanzi a loro si aprì un passaggio inde[cifra]bile, in cui l’ombra e la luce scoprivano i loro volti (ivi, cc. 194r-195r)11.

Il servo ha raggiunto uno stadio oltreumano in cui la congiunzione col divino consiste nella liberazione dal peso del «falso corpo» terreno in favore di una levità assoluta, al di là della distinzione tra ombra e luce. Non è motivo di sorpresa che il mattino successivo sia ritrovato cadavere dai sacerdoti del tempio: l’ascesa alla divinità ha coinciso, dalla bassa prospettiva del consorzio umano, con la sua morte. I sacerdoti, però, non capiscono il prodigio che è avvenuto e lo scambiano per un sacrilegio, da punire privando il corpo del servo della sepoltura e gettandolo agli uccelli: Non sapevano che diventato una danza o una canzone, e [tra]sformato egli stesso in un Dio il piccolo servo [era] entrato nel suo vero corpo, ed era padrone dell’erba, della primavera e dell’estate. Non lo sapevano, e non l’avrebbero mai saputo. Così era scritto (ibid.).

L’imprevisto riferimento a un’inscrutabile legge scritta sembra rendere il finale non del tutto consequenziale col segmento in cui si evoca la fama, orale, delle misteriose rivelazioni che hanno luogo nel tempio, ma è l’intreccio stesso a presentare alcuni snodi non pienamente congruenti, come l’apparizione iniziale degli «omiciattoli». La distinzione tra servi e padroni, poi, potrebbe evocare vaghe ascendenze hegeliane, ma soprattutto si riconosce nella giovanissima scrittrice, fresca di liceo e molto credente, il tentativo di contaminare una materia arcana e misteriosa12 con un modello di dialogo più filosofico, forse desumibile 11  La c. 195r è particolarmente danneggiata per cui le parti di testo mancanti, segnalate fra parentesi quadre, sono frutto di congetture, tra le quali «fiamma» e «indecifrabile» sono le meno certe. 12  Sulla rappresentazione latamente induista del dio si potrebbe innestare, se diamo credito a una testimonianza del fratello Marcello, sul ricordo di un canto intonato dalla madre: «Quest’anno qui schiavi | quest’anno qui servi. | L’anno che viene | nella terra d’I-

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3. dalla preistoria all’isola di capri

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dalle Operette morali. Il racconto acquista così le sembianze di un apologo che lambisce questioni destinate a giocare un ruolo di primo piano nell’immaginario morantiano, come la suddivisione dell’umanità in servi e padroni13 e, soprattutto, le «leggi dei pesi» che rendono angustiante la carnalità del proprio corpo: un tema di chiara matrice religiosa, ma che, come vedremo, nella narrativa dei secondi anni Trenta sarà connotato in un senso più terreno ed esistenziale. Appare infine non meno trascurabile il favoloso sfarzo della statua della divinità, nel quale, sospeso fra iconografia da orientalismo misterico e fascinazione delle pietre preziose, possiamo riconoscere il sostrato più profondo dell’atmosfera allusiva ed esotica di Alibi. 3.2 Una fantasia mitologica L’amore della giovane autrice per l’Isola di Capri è testimoniato al massimo grado da un’entusiastica lettera a Giorgio Vigolo redatta alla Villa Ceselle di Anacapri il 29 agosto 1938, nella quale Morante scherzosamente afferma di dover interrompere l’esuberante descrizione della magia dei luoghi per non eccedere nella lunghezza dello scritto: «continuando così le scriverò il I volume dell’Opera intitolata: Un paese in cui si deve andare» (L’amata, p. 22). L’affezione verso l’isola, però, è già testimoniata da precoci lettere a Luisa Fantini che riferiscono di almeno due soggiorni nelle estati del 1934 e del 1935, da porsi a monte, peraltro, di Sette candele, la cui ambientazione caprese è desumibile dalla toponomastica menzionata, laddove nella Casina rossa l’identità dell’isola è più frutto di una supposizione autointertestuale. Un altro lavoro che testimonia delle esperienze capresi dell’autrice sarà poi Maschere in piazza, apparso su «Oggi» il 9 settembre 1939, che, dedicato alla mania dei bizzarri villeggianti di mascherarsi, si presenta come una forma di giornalismo narrativo a metà fra la cronaca e il racconto d’invenzione. A questi testi noti si può aggiungere adesso, riemersa in forma dattiloscritta dall’Archivio grazie alla donazione del sraele | gente libera» (M. Morante, Maledetta benedetta cit., p. 34). Sulla religiosità della giovane Morante si tornerà nel prossimo capitolo. 13  Al centro, peraltro, in chiave mondano-umoristica, di un intervento dal titolo I servitori e i padroni pubblicato con la firma di Antonio Carrera su «Oggi» il 18 gennaio 1941.

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2016, una fantasia mitologica dal titolo Una sirena vi attende (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 67r-72r), in cui si narrano le origini dell’isola, civilizzata dall’unica Sirena che, dopo lo smacco subito da Ulisse, disubbidì al dio del mare e non si gettò, «per la disperazione e la vergogna» (ivi, c. 67r), fra le onde trasformandosi in pietra. Il mattino successivo al suicidio collettivo delle Sirene, il dio del mare, cavalcando tra i flutti «il suo delfino dalle scaglie d’argento e d’oro» (ivi, c. 68r), giunge in prossimità della «montagna di rocce, coperta di piante selvagge» (ibid.) che era stata abitata dalle sirene e sente un canto che, «nostalgico e triste, esprimeva la solitudine e il desiderio» (ibid.). La sua prima reazione è di ira, ma poi egli si impietosisce di fronte alla figura che timidamente gli si fa innanzi: «Era una Sirena adolescente e il suo corpo agile era appena sbocciato. I suoi capelli lunghi fino ai fianchi erano simili a piante selvagge, e i suoi occhi avevano il colore ingenuo degli specchi d’acqua nell’ombra» (ibid.). Segue un incalzante dialogo tra i due: – Che cosa fai qui? E perché piangi? – Maestà, sono così giovane! Non voglio morire. Non voglio dormire in eterno come un sasso. Siate buono. Lasciatemi cantare. – Eh! Hai fatto abbastanza malefizi. Ora basta. Ma non piangere in quel modo, vediamo un po’. Se ti lascio in vita, prometti di abitare soltanto su quest’isola, senza allontanartene mai? – Sì. – E prometti di non seguire il costume delle tue sorelle e di far servire il tuo canto solo alla gioia e mai al dolore e alla morte? – Sì, – rispose la Sirena, tutta tremante. – E allora tu vivrai di giovinezza eterna! – dichiarò il dio, e si allontanò in un fragore di acqua e di vento (ivi, c. 69r).

A ben vedere, come suggeriscono il titolo di ‘maestà’ con cui la Sirena si rivolge al dio e i riferimenti ai «malefizi», al pari del tremore adolescenziale e della caratterizzazione del dio come indulgente mago più che come ieratica divinità, il dialogo ha un tono più fiabesco che mitologico, in linea con la scrittura dei primi anni Trenta sui periodici per l’infanzia14. In ogni caso, determinata a mantenere 14  Questo spiegherebbe anche perché la sirena dia del ‘voi’ al dio: più che il segnale di una datazione avanzata, in corrispondenza dell’accentuarsi della campagna per il ‘voi’ del regime fascista, si tratterebbe di una conseguenza della connotazione regale della divinità.

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3. dalla preistoria all’isola di capri

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la promessa, la Sirena convoca gli «spiriti delle sue sorelle» (ibid.), affinché le insegnino «tutte le magie e tutti i sogni» (ibid.), e poi gli elementi naturali, in modo da rendere il suo regno sempre più splendido e gioioso. Senza mai smettere di cantare, dapprima abbellisce l’isola di riflessi luminosi e di una vegetazione lussureggiante, con giardini, profumi e persino un cielo dal colore unico; dopodiché, chiama ad abitarla «un popolo allegro e gentile» (ivi, c. 70r), vestito di colori sgargianti, le cui «belle donne sapevano cantare canzoni indimenticabili e danzare, battendo il tamburo coi campani» (ibid.). Con le «case dalle linee semplici e insieme fantastiche» (ibid.) e le carrozze colorate «tirate da asinelli piumati e inghirlandati» (ibid.), l’isola si trasforma in un paradiso esotico dai contorni baudelairiani15: la Sirena «tracciò strade che parevano nate da una favola e da cui si aveva la visione del mondo circostante e del cielo, come in un sogno» (ibid.). Ma non è ancora finita: con il suo incessante canto la Sirena attira nell’isola uomini da ogni parte del mondo, che qui ritrovano una nuova voglia di vivere, sentendosi «giovani, buoni e felici» (ibid.). Tra questi, vi sono poeti, re, imperatori, monaci, che contribuiscono tutti alla meraviglia del luogo, perché «la magia che è nel canto della Sirena è tale che chi l’ha udito non può più dimenticarlo» (ivi, c.71r), al punto che, con una reminiscenza delle Metamorfosi, Alcuni dicono che, col tempo, la Sirena e l’isola di Capri divennero una cosa sola. L’isola sarebbe dunque la Sirena che dorme e sorride tranquilla; le pinete ondeggianti i suoi capelli incorniciati di oleandri e di rose; e il soffio del mare il suo respiro, e il suo canto quella musica misteriosa, vagante in ogni luogo, e che consola ogni animo. Ma altri dicono che invece la Sirena si aggira sempre nel suo regno spesso visibile anche ai mortali (ibid.).

Quale che sia la versione della storia da seguire, la Sirena continua tuttora a compiere la sua missione vivificatrice: «Fortuna e allegrezza, chi ode quel canto, e chi sbarca nell’isola. E felice chi per primo vede i Faraglioni che, a guardia della terra beata di Capri, aspettano i graditi ospiti» (ivi, c. 72r). 15  «Dopo i quindici anni, incominciai a scrivere poesie e racconti per adulti. Il mio poeta preferito, allora, era Baudelaire» (Cronologia, p. XX).

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Il documento è di difficile datazione, anche se sembrerebbero situarlo nella prima metà degli anni Trenta il tono complessivo e un raffronto con gli altri dattiloscritti: la distribuzione del testo nel foglio, con un ampio margine a sinistra e uno spazio interlineare pronunciato, lo apparenta al Servo che dormì nel tempio e anche al Mio straordinario viaggio in cerca di Billi, così come le lineette che separano il titolo dal testo. Difficile è non di meno stabilire l’occasione della stesura di questa prosa che mostra non solo l’amore per Capri, ma anche la fascinazione subita dalla cultura classica: quella greca in primis e poi, con minore trasporto, quella latina16. Da una parte, l’autrice contamina tradizioni mitologiche diverse, ambientando i racconti post-omerici sul suicidio delle Sirene, sconfitte ora dalle Muse ora da Orfeo in una gara di canto, nella mitica dimora di queste creature, situabile in «una sorta di sperone di grosse dimensioni e allungato che si protende dai territori di Sorrento verso lo stretto di Capri»17. Dall’altra, il mito si intreccia con movenze fiabesche per celebrare, non senza richiami vichiani, la forza civilizzante del canto e, con esso, della poesia. La storia viene così a costituire una sorta di mise en abyme della primitiva concezione di Morante della cultura classica: le origini di Capri sono avvolte in un remoto mito, sul quale, a quest’altezza, non si affacciano ancora le ombre della modernità e delle psicoperipezie che saranno presto al centro della narrativa morantiana. 3.3 Nidi e riti d’amore I due racconti La casina rossa – o Milène e la statua, titolo alternativo aggiunto di lato con un altro inchiostro e un tratto più rapido – e Sette candele condividono un’ispirazione per certi versi 16  Sul complessivo rapporto di Morante con i classici cfr. Franco Serpa, Greci e Latini, in Agamben, Berardinelli et alii, Per Elsa Morante cit., pp. 257-264.; Id., Il greco di Elsa, in Goffredo Fofi - Adriano Sofri (a cura di), Festa per Elsa, Sellerio, Palermo 2011, pp. 29-30. 17  Maurizio Bettini - Luigi Spina, Il mito delle Sirene. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino 2007, p. 120. È possibile che Morante avesse presenti anche tre versi dell’Eneide tratti dal passo in cui si narra della morte di Palinuro, annegato nel golfo che da lui prende il nome, e dell’imbarcazione dei Troiani che, protetta da Nettuno, procede sicura tra i flutti: «Iamque adeo scopulos Sirenum adverta subibat, | Difficilis quondam multorumque ossibus albos, | Tum rauca assiduo longe sale saxa sonabant» (V, vv. 864-866).

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3. dalla preistoria all’isola di capri

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simile; tuttavia un confronto fra il clima narrativo dei due testi fa propendere per la maggiore precocità del primo lavoro, tornato alla luce in forma manoscritta con la donazione del 2016 e catalogato con la segnatura A.R.C. 52 I 1/39, cc. 534r-540r. Si riscontra infatti una trama senza dubbio più elementare e incoerente rispetto all’altro racconto, oltre che la presenza più pronunciata di figure e stereotipi del romanzesco sentimentale. Un ulteriore indizio, poi, che spinge in favore di una datazione precoce è il formato del documento: mentre i fogli su cui sono stati redatti i racconti giovanili conservati nell’Archivio, sia autografi che dattiloscritti, presentano generalmente dimensioni che si adattano alla larghezza del rullo della macchina da scrivere, il formato del manoscritto della Casina rossa è più ridotto. Si potrebbe ritenere, pertanto, che la stesura pervenutaci sia precedente all’acquisto da parte della scrittrice nell’autunno del 1933 della sua prima macchina da scrivere, anche se non si hanno elementi sufficienti per considerarla un’inoppugnabile traccia degli anni Venti. Per quanto non esplicitamente denominata, l’isola in cui si svolge parte della vicenda sembra essere anch’essa Capri, come suggerisce, oltre che l’appassionata predilezione testimoniata da Una Sirena vi attende, una descrizione che ricorre simile in Sette candele, dall’indubbia, invece, ambientazione caprese (vedi infra). La possibilità, però, che già durante gli anni del liceo Elsa avesse visitato l’isola appare remota18, mentre assai più probabile è la circostanza che vi avesse soggiornato nei primissimi anni Trenta, anche prima del 1934. Il documento conserva una versione verosimilmente avanzata del racconto, con correzioni che si addensano soprattutto nella seconda parte del testo. Vi si narra dell’amore tra Paolo – o Paul – un artista impegnato, in una non precisata città, a scolpire una statua da cui dipende il suo successo di artista, e Milene – o Milène19 –, che invano lo aspetta nella «casina rossa» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 534r) dell’isola dove l’inverno precedente i due hanno consumato il loro amore. La giovane donna si strugge nell’attesa, recandosi al porto a ogni arrivo 18  Marcello Morante in Maledetta benedetta non fa cenno a possibili soggiorni familiari o della sorella a Capri negli anni Venti, ma è vero che i suoi ricordi sono spesso imprecisi. 19  In un primo momento, dopo aver forse pensato a un altro nome iniziante con «Ro», Morante scrive «Milena» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 534r), ma poi preferisce la versione francesizzante, più evocativa di atmosfere romanzesche.

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del piroscafo e inviando a Paolo «buffe lettere […], tutte piene di errori, scritte in un italiano così strambo» (ivi, c. 535r), in cui gli si rivolge disperata:

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Oh, caro Paul! – diceva quella lettera – Il sole sta per finire, viene l’inverno. Che fai? Io ti aspetto tutte le sere al piroscafo, e non mangio che uova cotte20, in attesa del gran pranzo di quella sera. Io piango sempre se tu non arrivi. Non vuoi vedere questa bella casa rossa e il letto con le zanzariere sopra? Ho preparato tutto per te, ma tu non scrivermi di no. Non mi riconosci? Sono Milene, la stessa Milene di quest’inverno. Oh, vieni, vieni, amore! (ibid.)

Paolo è lontano, ossessionato dalla sua arte, e trascorre le giornate a ritrarre la modella Giovanna, che posa «inginocchiata sul tappeto, con la testa arrovesciata indietro, e le mani congiunte, sotto i seni un po’ sfatti» (ivi, c. 534r). Solo dopo che l’opera è stata terminata e inviata al concorso per il quale è stata scolpita, Paolo fa un sogno rivelatore: Vide passare di corsa davanti a sé, il rosso dei riccioli, gli occhi infantili di Milene. E allora corse alla stazione, e partì. Al porto non c’era nessuno, ad aspettarlo. E la casina rossa c’era, piccola e commovente, ma Milene no. Il padrone disse: – La signorina è tornata questa mattina a Parigi. Ha detto che, tanto, non veniva di certo nessuno, oramai – e Paolo entrò solo, nella Casa Rossa (ivi, c. 536r).

Troppo tardi Paolo è tornato nel nido d’amore e adesso è lui a essere disperato mentre osserva le tracce di Milene con uno sguardo amoroso rivelato dai diminutivi: oltre alla casina, anche i «due lettini» (ibid.) e «una camicina rosa un po’ stinta» (ibid.). Una fitta al cuore, poi, è «il tegamino, con un poco d’uovo rappreso sull’orlo» (ibid.). Novello Heathcliff, Paolo fugge sulle cime in verità non troppo tempestose dell’isola: Allora corse fuori, su e giù per la montagna grigia, e chiamò dentro di sé: – Milène! Milène! Sono venuto! Amore mio, piccolezza mia, Milène! – e sentì quanto Milene lo aveva chiamato, correndo su per quella montagna, e la sera, nella camera della casa rossa, sentì quanto Milene aveva pianto su quei cuscini, 20  Corregge «fritte» (ivi, c. 535r), ma forse la sottolineatura della parola indica qualche dubbio al riguardo.

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3. dalla preistoria all’isola di capri

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aspettandolo, e guardando i letti e l’armadio, e i tegami e la ventola, tutta una casa sul serio preparata per loro due. Se la immaginò vicina a sé, piccola e pensosa, con tutto il corpo chiuso e raccolto fra le sue braccia, sotto la zanzariera. Avrebbe voluto maltrattarla e dirle: – Perché sei andata via? Dovevi capire che sarei venuto, – ma non sapeva dirle altro che amore. La mattina dopo, tutto era buio, e pioveva. Col primo piroscafo, ripartì (ivi, cc. 536r-537r).

Una volta rientrato nella sua città, Paolo è teso fra l’affermazione di artista, ora che l’esposizione della statua lo ha posto al centro del dibattito critico21, e la nostalgia di Milene, che d’improvviso torna a dargli notizie di sé inviandogli una partecipazione di nozze: «si era sposata cinque giorni prima, a Parigi, con un cugino anziano e ricco» (ibid.)22. Segue una nuova scena di insensato furore, in cui Paolo decide di precipitarsi in Francia a riconquistare la donna: «Tu eri mia, lo capisci? le gridò di lontano – Tu devi stare con me» (ibid.). Non meno possessivi sono i propositi per la vita futura: E sulla via di Parigi pensava: – Le dirò di non curarsi più di niente, perché è questo che vale. La prenderò in braccio come quand’era una piccola cosa mia, e me la porterò nella casina rossa, con me (ibid.).

Milene, però, ha già intrapreso una diversa strada esistenziale, come suggerisce il contegno di signora «vestita di un velluto che le scendeva mollemente dal collo alle braccia» (ivi, c. 539r). L’incontro con Paolo la fa tremare e sussultare, ma una più profonda ragione le impone di non partire con il suo antico amore: Tutto cadeva sordamente intorno a lui, e non rimaneva che un oscuro vuoto. E in questo vuoto, un’altra Milène, una madre, che non alzava gli occhi su di lui, ma si guardava le mani congiunte sul ventre con uno sguardo indicibile. E dopo, sollevò i suoi occhi grandi; ed egli le si inginocchiò davanti, baciandole le mani congiunte, nel suo ultimo pianto di ragazzo, improvviso e disperato. Gli occhi di Milene: – Addio, Paolo – ed era tutta la giovinezza e la felicità che dicevano addio. Perché la casina rossa si era chiusa, ed incominciava la gloria (ivi, c. 540r). 21  «Alcuni la trovavano ambigua e muta, altri stupenda. I giornali ne parlavano e la fotografavano, come una bellissima donna nuda, che fa sognare uno strano amore» (ivi, c. 538r). 22  Inizialmente lo sposo è solo un «fidanzato ricco» (ivi, c. 538r), poi, accentuando la convenienza del matrimonio di interesse, Morante lo trasforma in un parente facoltoso.

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Si sarà notata la materia al contempo sentimentale e moraleggiante che nutre un racconto da considerarsi, anche in questo caso, un crocevia mal assemblato di motivi della primissima Morante23: la contrapposizione tra le fanciulle povere e semplici, vestite di un «mantelletto bianco» (ivi, c. 534r), e le «bellissime donne, alcune già in pelliccia, che andavano agli alberghi tutti illuminati» (ibid.), alle quali la protagonista, grazie al suo fortunato matrimonio, può essere nel finale accomunata; il mito dell’artista concentrato sulla propria ispirazione; la modella vissuta che, mentre Milene si strugge mangiando misere uova, gradisce «il cognac e le sigarette» (ibid.) che Paolo le porge quando si sveste con indolenza e disincanto per posare; la ricorrenza dei sogni; e poi il locus amoenus del nido d’amore, il mito di Parigi, la passione per i nomi stranieri. Non di meno si riconosce, a suggerire l’ambizione di una scrittrice che non si accontenta di attingere a piene mani dal repertorio rosa, lo sforzo di tenere insieme due diverse linee narrative, che meglio sono evocate dal titolo alternativo Milène e la statua: la ricerca del successo artistico di Paolo, la cui ossessione riguardo alla propria scultura pare ispirata dalla tradizione ottocentesca del ritratto vivente, e la vicenda dell’amore romantico, racchiuso nelle stanze della «casina rossa», cui segue sul versante femminile il matrimonio di interesse con un vecchio parente e le (uniche) gioie della maternità. Gli aspetti più notevoli del racconto sono relativi alla presenza di due situazioni che, mutatis mutandis, ritroveremo a distanza di anni nei romanzi maggiori. In primo luogo, sul versante dei topoi romanzeschi, la redazione di lettere d’amore in italiano incerto da parte di Milene costituisce il remoto antecedente di un altro sgrammaticato epistolario rivolto a un amato assente: le false missive del Cugino, composte da Anna in Menzogna e sortilegio. Non meno fertile è il percorso aperto dall’incipit: «Andò ad attendere l’arrivo del piroscafo al porto, per vedere se Paolo arrivava» (ivi, c. 534r). In questa primigenia apparizione di un personaggio che aspetta la nave al porto 23  La dimensione morale della maternità richiama La bella vita della vecchia Susanna, la cui protagonista trova una finale pacificazione nel nome di una maternità religiosamente sublimata: «E allora il Signore per farle capire che l’aveva perdonata, le fece una grazia. Le fece sembrare per un momento che fosse suo, quel bel bambino. E Susanna vide il Paradiso, e vide che c’erano tanti angeli piccoli, che erano figli suoi, nati da lei in Paradiso, perché sulla terra non ne aveva fatti. E le dicevano: – Buon giorno, cara madre!» («I diritti della scuola», 1934-1935, p. 372).

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si intravede la scena chiave dell’Isola di Arturo in cui il protagonista attende l’arrivo a Procida del padre Wilhelm con la sua sposa: «io dovevo andare ad aspettarli, il prossimo giovedì, al piroscafo delle tre, sul molo» (Arturo, p. 70), come accade all’inizio del capitolo successivo – il secondo –, intitolato Un pomeriggio d’inverno:

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Io avevo compiuto da poco quattordici anni; solo pochi giorni prima avevo saputo che da oggi, con l’arrivo del piroscafo delle tre, la mia esistenza cambiava. E, in attesa delle tre, combattuto fra l’impazienza e la ripugnanza, mi aggiravo per il porto (ivi, p. 73).

Non si tratta, peraltro, di una persistenza secondaria nella memoria poietica di Morante. La scena è già presente nel quaderno riemerso con la donazione del 2016 che, come si è ricordato nel primo capitolo, contiene i più precoci abbozzi del romanzo. Abbandonata la strada del Ritorno del glorioso, circa due mesi dopo, il 7 gennaio 1950, Morante riprende il progetto delle memorie di un personaggio che ha lasciato la propria isola natale fissando sulla pagina proprio la scena che taglia in due la vita di Arturo. Siamo già dentro il romanzo come lo conosciamo: Avevo, in quel tempo, compiuto da poco i quattordici anni, era un pomeriggio d’inverno. L’arrivo del piroscafo delle tre doveva portare un grande cambiamento nella mia vita, ed io mi aggiravo inquieto nei dintorni del porto, combattuto fra la curiosità e la ripugnanza (A.R.C. 52 I 1/34, c. 7r)24.

Come suggeriscono le numerose cancellature e correzioni di mano dell’autrice, a differenza della Casina rossa, il manoscritto Sette candele (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 526r-533r) sembra costituire la prima stesura di un racconto non ulteriormente sviluppato. La datazione autografa «1929» (ivi, c. 526r), che tra parentesi tonde non chiuse segue con un diverso inchiostro, più debole, il titolo, potrebbe farla ritenere la più precoce testimonianza della scrittura non per l’infanzia di Morante, ma, se si esamina più da vicino il testo, ci si rende conto che lo status di traccia dei preistorici anni Venti non è così pacifico come si potrebbe credere. 24  Il brano è stato poi trascritto in un’altra carta conservata tra i materiali relativi all’Isola di Arturo e catalogata come Vitt. Em. 1620/b2, c. 4r.

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La vicenda si svolge su un’isola identificabile con Capri, come si desume dai toponimi utilizzati: «Cercoletta» (ivi, c. 529r), che richiama via Cercola, e poi «le piccole vie che avevano così allegri o misteriosi nomi: Via Campo di Teste, Via Matermagna» (ivi, c. 530r). Protagonista è la giovane «donna Giovanna» (ivi, c. 526r)25, la cui bellezza è stata devastata da una grave malattia e che decide di ricorrere a un rito d’amore per riconquistare il suo «amante» (ibid.), di nome Ted. Il racconto si apre con «una notte illune […] calata sulla scogliera» (ibid.), mentre «infinite, piccole lampade» (ibid.) si scorgono, sino al «continente opposto» (ibid.), a comporre uno scenario straordinariamente suggestivo. L’aria è immobile, ideale per parlare, «increduli, della morte e della vita, e di Dio e dell’inferno», ma anche delle stelle e degli spiriti, come fanno Giovanna, di cui ci viene subito presentato il volto «sciupato dalla malattia» (ibid.), e i due uomini che sono con lei. Questi si chiedono se «il fine della vita degli uomini sia il bene, o il male» (ibid.), supportando i propri ragionamenti con citazioni del Discorso della Montagna e del Cantico dei cantici, finché non interviene la donna: Io lo so, l’ho saputo ora, quando ero malata. Voi sapete che io stavo per morire. Sentivo già il mio corpo decomporsi, e sentivo la mia anima decomporsi insieme al mio corpo. Non vorrei neppure dire così, perché l’anima e il corpo erano una sola cosa, malata e che fra poco doveva morire. E mentre il prete diceva su di me tante parole, che io già non afferravo più, sapevo che tutto questo era inutile, perché vedevo così chiaramente il vuoto in cui cadevo, piano piano. Vedevo che cadevo sotto la terra, tutta intera, e che non sarei stata altro che terra, fra poco (ivi, c. 527r).

Il discorso conduce all’esplicita professione di un materialismo non esente da qualche reminiscenza leopardiana: «Non c’è nessun Dio che si cura di noi – continuò, – Alla natura non importa quello che noi facciamo» (ivi, c. 528r). Capiamo, tuttavia, che nel disincanto di Giovanna risuona il dolore di un’indifferenza ben più grave di quella della natura: la perdita di interesse nei suoi confronti da parte dell’uomo amato, che la guarda senza desiderio, ed «ella sapeva che oramai quegli sguardi non potevano rendere più acuto il taglio che sentiva profondo dentro di sé» (ivi, c. 527r). Poco dopo, non a caso, i due si separano: 25  Inizialmente Morante pensa di fare di Giovanna una «Marchesa» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 526r), poi cassa il termine e lo sostituisce con ‘donna’.

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– […] E tu che fai, Ted? – e la sua piccola figura nera si fermò, contro la luce piena della porta. – Io vado anche stasera a fare i miei due passi, – rispose l’uomo, avviandosi in basso, giù per la montagna. Ed ella chiuse l’uscio dietro di sé, e rimase in mezzo alla stanza, nell’alone della lampada, in cui si aggiravano i minimi insetti e gli odori della notte. Era sola, era proprio sola, e forse per sempre (ivi, c. 528r).

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Una volta in camera, Giovanna contempla il disfacimento del proprio corpo, cui invano cerca di porre rimedio con unguenti e lozioni. Una possibile soluzione le viene proposta dalla serva Carmela: – E lo sposo non c’è? – chiese d’improvviso, e poi i suoi occhi si posarono sul viso di Giovanna, unto dal ridicolo impasto. – No, – disse donna Giovanna, – è fuori, a far due passi. – Signurì, – rispose Carmela, d’improvviso, proprio come se la donna le avesse mostrato quel suo pesante organo, che pulsava così dolorosamente – perché non andate dalla bella Maria, che sta vicino alla Cercoletta? Quella sa tutti i segreti, e fa i filtri, e i miracoli. Tutti lo dicono. – e sorrise con fede a donna Giovanna, che la fissò senza arrossire. – Davvero, Carmela? – domandò, e guardò fuori, agli astri lontanissimi che battevano senza suono (ivi, c. 529r).

La mattina successiva Giovanna si reca da Maria. Le strade che attraversa le trasmettono, con la loro luminosità e la loro lussureggiante vegetazione, una felicità inattesa, descritta in tutta la sua straboccante corporeità: […] corse con una strana leggerezza nella strada. Non sentiva più tanto il peso del proprio cuore; le pareva nella sua corsa, di tenerlo rinchiuso dolcemente nella palma. Era perché il sole le correva nel sangue, attraverso la pelle, e tutti i suoi muscoli ne erano resi più vigorosi e agili. […] Tutto il suo corpo, la fronte, e le ascelle, e i seni erano in sudore, ed ella rideva, infantilmente, anelante, con la bocca che tremava» (ivi, c. 530r).

Giunta alla casa della fattucchiera, sulla soglia si fa avanti «quella che era stata la bella Maria, una delle belle dell’isola, e aveva ballato agitando il tamburo coi campani» (ivi, c. 531r). Adesso, però, Maria è una vecchia alla quale Giovanna si rivolge senza esitazione: «Sei tu che sai i segreti e i filtri?» (ibid.), pregandola di farle sentire i bei canti che conosce. La donna «prese il tamburo, e lo agitò, in alto, senza

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muovere il corpo. Cantò con la sua voce rauca e povera, che il mare ha bisogno di stelle, perché vuole tutto rilucere» (ibid.). Una volta che Maria ha finito di cantare, Giovanna le formula la sua richiesta: – Maria, Maria, senti – disse […], alzandosi con un balzo, e sorridendole da lontano. – Il mio sposo non mi vuole più. Che devo fare perché mi ami? E perché il mio corpo ritorni bello come prima? Credo che tu lo sappia. – Certo che lo so, signurì, – rispose la vecchia avanzandosi e parlando piano. – Tutto so, figlia cara. Hai fatto bene a venire dalla vecchia Maria. Senti. Tu hai da prendere sette candele. – Sette candele. – Sette candele accese, per tre sere, e metterle in fila, accese, che nessuno ti veda. E poi metterti in ginocchio per terra al buio, e spegnerle, una dopo l’altra; e ogni volta, devi dire il nome del tuo sposo. Che nessuno ti senta. – Il nome del mio sposo. – Sì. E quando le hai spente con sette soffi, toccarti tre volte gli occhi e la bocca, e dire il nome tuo e del tuo sposo. Questo devi fare (ivi, cc. 531r-532r).

Per tre sere di seguito Giovanna esegue il rito. L’ultima, Ted rientra prima del solito e la sorprende mentre sta ancora officiando la cerimonia: Era in ginocchio, rannicchiata ed oscura, con la faccia segnata da solchi26, simile ad un genio bizzarro. Ombre gigantesche si levavano agli angoli della camera e i suoi occhi, che riflettevano le ultime fiamme della candela, brillavano in quel momento come due stelle. Lo sentì, e balzò su spaurita, fissandolo con la faccia convulsa. Tutto il suo corpo tremava. Ed egli, con l’anima piena di un deciso e freddo coraggio, si accostò a lei (ivi, c. 533r).

Si intuisce che il rito ha avuto successo, ma la conclusione del racconto, specie se comparata alla digressione del canto di Maria, appare frettolosa, così come la trama risulta poco equilibrata, per quanto non si debba dimenticare che con ogni probabilità siamo di fronte a una prima stesura. Stridente suona il repentino mutamento di tono narrativo che intercorre fra l’iniziale discussione filosofica, la superstiziosa bonarietà della serva e i sortilegi della vecchia «strega» (ivi, c. 532r), come così si riconosce un’altra incongruenza nell’«amante» che si trasforma in «sposo» mano a mano che dall’at26  Corregge «ombre» (ivi, c. 533r) conferendo un senso di maggiore fisicità, quasi espressionistica, oltre a evitare la ripetizione del termine a breve distanza.

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mosfera colto-borghese della prima scena ci si sposta nel contesto folklorico-popolare delle successive, senza contare che sia Carmela che Maria chiamano Giovanna «signurì»; del secondo uomo presente alla conversazione notturna, poi, non si dà più notizia. Ciò potrebbe anche far presumere che Sette candele costituisca il frammento di una narrazione più ampia: una questione che si intreccia strettamente con quella della datazione autografa. Al riguardo, la prima opzione sarebbe di ritenere che questo tentativo di racconto sia l’immaturo frutto di un’adolescente, a partire da una non troppo riuscita commistione di scolastiche suggestioni filosofiche, stereotipi romanzeschi ed esotismo folklorico. Sembra però essere di ostacolo a una piena datazione del manoscritto al 1929 proprio l’ambientazione caprese, la cui vivida descrizione – l’aspetto più riuscito del racconto – lascia presupporre una conoscenza diretta dei luoghi. Come si è ricordato anche a proposito della Casina rossa, ben difficilmente la scrittrice poté visitare Capri negli anni Venti mentre dalle lettere a Luisa Fantini veniamo a sapere di due soggiorni nell’isola che ebbero luogo nell’agosto del 1934 e all’inizio dell’estate del 193527. Specie quest’ultima è un’informazione di grande rilievo, in quanto la si può incrociare con la tutt’altro che trascurabile circostanza che Sette candele si intitola anche il sesto capitolo, di parziale ambientazione caprese, di Qualcuno bussa alla porta, a cui Morante lavora proprio nei mesi estivi del 1935, come si desume da una lettera a Luisa Fantini del 3 agosto in cui nomina la «storia lunghissima che [si è] impegnata a consegnare» (L’amata, p. 41). Pertanto, anziché ascrivere il manoscritto di Sette candele al 1929, considerandolo una compiuta fonte adolescenziale del più tardo romanzo, si potrebbe ipotizzare che la redazione del documento risalga all’estate del 1935 costituendo, complice il soggiorno nell’isola, la tappa intermedia che da un lavoro – o un abbozzo – di sei anni prima conduce al capitolo del romanzo. Vista la fragilità dell’impianto narrativo, invece di sviluppare la traballante storia della deturpata 27  Nel primo caso Morante scrive a Capri la lettera del 22 agosto 1934; nel secondo caso, nella già citata lettera del 13 luglio 1935 in cui si lamenta del ritardo del pagamento dei racconti da parte del «Cartoccino dei piccoli», Elsa racconta all’amica di una cartolina inviata da Capri a Guelfo Civinini che avrebbe suscitato le ire della moglie di lui Giuseppina (cfr. L’amata, p. 40).

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Giovanna, Morante avrebbe optato per trasferire nel capitolo di Qualcuno bussa alla porta quelli che gli sembravano gli aspetti più meritevoli del racconto: l’atmosfera notturna marina della scena iniziale – «Sulle scogliere discese una notte senza luna; le lampade dei pescatori erravano sul mare» («I diritti della scuola», 1935-1936, p. 120) – e soprattutto la figura della vecchia Maria che insegna il rito di amore a una giovane donna. La sequenza in cui la fattucchiera impartisce le istruzioni del sortilegio a Lucia, la protagonista, ricalca quasi alla lettera quella del racconto: – So che conoscete le magie, – mormorò. – Certo, – rispose la vecchia, piano. – Tutto so, figlia cara. Dimmi che vuoi. […] – Ascolta, signurì, – le disse la vecchia, accostandosi. – Ecco qua. Hai fatto bene a venire dalla vecchia Maria. Allor senti. Stanotte, tu hai da prendere sette candele. – Sette candele. – Sette candele accese, per tre sere, e metterle in fila, accese, che nessuno ti veda. E poi metterti in ginocchio per terra al buio, senza altri lumi, e spegnerle, una dopo l’altra; e ogni volta, devi dire il suo nome. Che nessuno ti senta. – Sì. – Sì, e quando le hai spente con sette soffi, toccarti tre volte gli occhi e la bocca, e dire il nome tuo e il nome suo. Perché così, – spiegò ­– non vedrà più che per i tuoi occhi, e non parlerà più che per la tua bocca. Ecco qui. Così devi fare (ivi, p. 136).

Al contempo, la figura di Ted potrebbe essersi sdoppiata in quella del fidanzato americano Jack, che peraltro, giunto in Italia, soggiorna proprio in un’isola, descritta con toni favolosi, identificabile con Capri, e dello sposo Franco. Certo è che, grazie a questi richiami autointertestuali, il termine ante quem per la datazione del manoscritto sarà da considerarsi il pieno 1935: un periodo cruciale nella maturazione della giovane autrice, sempre più insofferente, come si è visto nella lettera a Luisa Fantini del 28 maggio dello stesso anno, nei confronti del suo precedente approccio alla scrittura, oltre che, più in generale, alla vita, seppure ancora costretta, come mostra lo stesso contratto con «I diritti della scuola», a scrivere racconti sentimentali per guadagnarsi di che vivere. Da rilevare, infine, che il testo appare legato alla Casina rossa per la comune presenza di una Giovanna dal corpo sfiorito, seppure

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nell’altro racconto in un ruolo di comprimaria, e per la collocazione isolana del nido d’amore; più generica nella vicenda di Milene, ma non priva delle consuete «lampade che si riflettevano nell’acqua» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 534r). È possibile, quindi, che i due testi condividano un’origine, se non comune, almeno contigua, testimoniando della ricerca da parte della giovane Elsa di trame romanzesche rosa che troveranno il loro approdo più compiuto in Qualcuno bussa alla porta, in cui la figura del musicista devoto alla sua arte potrebbe costituire una variante del pittore Paul. Colpisce poi in entrambi i racconti, anche se senz’altro maggiore è la sua centralità tematica in Sette candele, il nesso che lega l’eros delle donne a una sofferta dinamica di leggerezza e pesantezza corporea, che si impernia su una soggiacente idea di meritata indegnità qualora la felicità della bellezza fisica venga meno: una sorta di intercapedine tragica che si incunea nell’apparente soluzione positiva delle vicende e che sappiamo, grazie al nostro sguardo retrospettivo, quanti sviluppi avrà nella narrativa a venire di Morante28.

28  La vicenda del rito amoroso compiuto da una donna di nome Giovanna e dalla bellezza sfiorita che vuole conquistare un uomo con gli artifici della magia popolare non si arresta né a Sette candele né a Qualcuno bussa alla porta. La ritroviamo nel racconto Filtro d’amore, apparso in tre puntate su «Oggi» il 14, il 21 e il 28 ottobre 1940 e divenuto poi, più genericamente, Storia d’amore nella raccolta Il gioco segreto. Notevoli sono però le differenze: la vicenda si svolge in un «paese […] tanto selvatico e amaro che nessuno straniero vi era venuto ad abitare» (Dimenticati, p. 83) e, soprattutto, volge al delittuoso, dato che il filtro avvelenerà il giovane maestro oggetto delle mire della donna. Anche i personaggi sono molto diversi: Giovanna è una ricca signora che compra i favori della fattucchiera con i soldi e i gioielli, e quest’ultima, al contrario di Maria, è giovane e avida. Si registra nell’insieme un’accentuazione degli aspetti sinistri e disturbanti a scapito dell’esuberanza romanzesca di Sette candele, ma, come stiamo per vedere, una simile sensibilità gotico-fantastica si accentua proprio a partire dalla svolta della metà degli anni Trenta e, sebbene in seguito sia affiancata dalle modalità umoristiche e mondane favorite dalla collaborazione a «Oggi», risulta ancora dominante nella raccolta di racconti del 1941.

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Anche se non mancano avvisaglie del talento dell’autrice, i lavori più precoci riemersi dall’Archivio sono ancora lontani dal raggiungere un apprezzabile valore letterario. Ciononostante, si tratta di testi molto preziosi per capire da quale milieu culturale provenga Elsa Morante e in che senso il tortuoso percorso della giovinezza consista anche nel rifunzionalizzare in una dialogicità permanente tra romanzesco e realistico le modalità ora sentimentali ora fosche degli esordi. In questa direzione, si può affermare che Qualcuno bussa alla porta marchi una sorta di spartiacque, dato che la sua pubblicazione coincide con un periodo di profondi cambiamenti nella scrittura, oltre che nella vita, di Morante. Si è citata la lettera del 28 maggio 1935 a Luisa Fantini nella quale l’autrice mostra l’insofferenza maturata verso la primissima fase della sua attività e della sua stessa vita, ma di tono non troppo dissimile appare anche un documento epistolare dell’inizio del 1936: Lavori? Io mi sforzo a farlo, ma oramai credo di non poter trovare grandi soddisfazioni e la mia riserva di entusiasmo, per questa e altre cose, è molto limitata. Questa estate ero ancora molto giovane […]1.

Se nel maggio precedente la non ancora ventitreenne Elsa guardava ai suoi lavori di tre anni prima come al prodotto di una «gioventù stupida» (L’amata, p. 39), poco più di sette mesi dopo è la stessa estate del 1935 a essere oggetto di un giudizio di ingenuità, dovuto a un residuo di giovinezza al quale sarebbe succeduta un persino 1  Rapisarda, «Scricciolo & Co.» di Guelfo Civinini, Elsa Morante, Luisa Fantini cit., p. 79. La studiosa non riporta la datazione esatta del documento, che non è fra quelli pubblicati da Daniele Morante nell’Amata.

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più amaro disincanto. È nell’alveo di questa fase, complice anche la lettura di Kafka, dal quale rimane affascinata, che Morante sviluppa una nuova sperimentazione di atmosfere angoscianti ed enigmatiche, destinate a costituire una delle principali cifre di riconoscimento della prima fase della sua scrittura. Si tratta di una svolta che forse anche incide, circa quaranta anni dopo, sull’idiosincrasia di Morante nei confronti degli approcci femministi alla letteratura2: come se la presa di distanza dalla sua primissima fascinazione per il romanzesco intriso di rosa, di cui il lavoro uscito a puntate sui «Diritti della scuola» costituisce il punto di arrivo, avesse cristallizzato ai suoi occhi le questioni di genere nella bassa considerazione di una simile letteratura femminile d’antan. Eppure, come si sarà notato nelle pagine precedenti, nei primissimi lavori di indubbia connotazione sentimentale è già riconoscibile uno degli aspetti che sono maggiormente distintivi delle pubblicazioni dei successivi anni Trenta e Quaranta: la capacità di rappresentare con una vividezza e un’intensità rare nel panorama italiano del tempo l’eros travagliato, quando non proprio infelice, di donne lacerate dal conflitto tra l’educazione e la maternità da un lato, il desiderio e la passione dall’altro, in un contesto sociale che non consente loro di vivere liberamente la propria affettività. Per tale motivo, nonostante non manchino racconti maschili – come già Il servo che dormì nel tempio –, ci si può spingere ad affermare che la giovane Morante sia in primo luogo una scrittrice di storie femminili: di madri e figlie, ma anche di nonne e zie, vedove e zitelle, suore e zingare, secondo una multiformità di ruoli che giunge sino a Menzogna e sortilegio3. Il gruppo di racconti riemersi dall’Archivio che si prenderanno in esame in questo capitolo rientra in un simile orizzonte tematico, dato che vi si trovano al centro donne – delle più varie età – alle prese con la solitudine e l’abbandono e, più in generale, con un’estenuazione della propria emotività che può prendere la forma di una fervida 2  Si ricorderanno al riguardo lo scontro con la rivista «Noi donne» nel 1974, di cui offre documentazione l’Archivio (A.R.C. 52 IV 5/10r-13r), e il più noto episodio del rifiuto di apparire nell’antologia Donne in poesia allestita da Biancamaria Frabotta e Dacia Maraini nel 1976. 3  Sulla centralità del mother-daugher plot nel primo romanzo della maturità cfr. Tiziana de Rogatis, Realismo stregato e genealogia femminile in Menzogna e sortilegio, «Allegoria», XXXI, 81, 2019, pp. 97-124.

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fede religiosa. L’importanza dei testi che stiamo per affrontare non si limita, tuttavia, a corroborare costanti già note. Essi sono portatori di una prospettiva poietico-metodologica che consente di osservare direttamente dall’interno del laboratorio della scrittrice il graduale passaggio dal romanzesco sentimentale degli esordi a un’originale pratica del fantastico. Come stiamo per vedere, infatti, una patina di perturbante e morboso avvolge i personaggi e le loro vicende, mentre da luminose e piene di colori le ambientazioni si fanno via via più allucinate e livide.

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4.1 Tra sacro e profano Il racconto più palesemente segnato dal movimento di crescita che caratterizza l’autrice intorno alla metà degli anni Trenta è La piccola (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 61r-66r), riemerso anch’esso in forma manoscritta dalla donazione del 2016 e contraddistinto dalla presenza sul frontespizio di una doppia datazione: «1929» e «Aprile 1935» (ivi, c. 61r). Più in dettaglio, come in Sette candele, «1929» segue tra parentesi tonde e con un inchiostro più debole il titolo, a suggerire un’operazione di riordino cronologico successiva alla stesura. Pertanto, se possiamo attribuire alla scrittrice diciassettenne la sua prima ideazione, il racconto dovrebbe esserci pervenuto – il condizionale è d’obbligo –­ in una versione di sei anni successiva, come suggerisce la dicitura «Aprile 1935» apposta in alto a sinistra. In ogni caso, il duplice riferimento cronologico preannuncia una tensione fra due fasi diverse di cui doveva essere consapevole la stessa autrice se, ancora prima di battere a macchina il testo, sottopose il racconto alla lettura di un revisore. Questi, come si può notare dai pungenti commenti autografi, non si esime dal rimarcare incongruenze e scelte lessicali dubbie, anche a proposito del non felicissimo incipit4:

4  Non si può al momento stabilirne l’identità, anche se il tono adottato nei commenti farebbe propendere per una persona più adulta e di genere maschile, che la giovane scrittrice considera autorevole. Sicuramente, non si tratta di un amico o di un’amica: non solo nell’ultima pagina del racconto il lettore dà del lei a Morante, ma anche mantiene un atteggiamento di sostanziale superiorità.

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La bambina era nata con un difetto alla gamba destra; mal compressa nell’utero della madre, essa era rimasta più corta dell’altra, contratta e avvizzita. La madre capì che quella gambina non sarebbe più cresciuta regolarmente, e ascoltò, come una maledizione, il suo passo zoppicante che la seguiva per sempre (ibid.).

«Era nata» è correzione dell’originario «nacque» suggerita dal revisore con la motivazione «era nata, se no si stacca e diventa storia» (ibid.). Uno stentoreo punto interrogativo, poi, evidenzia l’incoerenza del «passo zoppicante» in una scena che descrive una bambina appena venuta alla luce e di lì a poco, ancora prima di iniziare a camminare, condotta da una balia in campagna. Un altro commento relativo alla spiegazione pseudoscientifica della deformità della neonata – «io non riesco a capire queste realtà fisiche inutilmente defluite» (ibid.) – lascia trapelare il disagio di fronte a dettagli che gli appaiono pedanti. L’incipit, inoltre, pone al centro del discorso il senso di colpa che la madre prova per un concepimento evidentemente avvenuto in una situazione illegittima, ma il crescendo angosciante delle prime righe subito si disperde nello spostamento ex abrupto della vicenda in un imprevisto scenario rusticale in cui, tra il fieno, l’orto, la vigna e «gli odori di pecora e di capra» (ibid.), la vita della bambina sembra scorrere assai serena a dispetto della sua menomazione5. Dopo avere «quasi fatto fortuna» (ibid.)6, ecco che qualche anno dopo la madre viene a riprendersi la bambina e la conduce in città a vivere in un confortevole appartamento dove non mancano mai regali e bambole; fa inoltre fabbricare un apparecchio ortopedico che consente alla figlia di camminare. Nella casa abita anche una giovane serva che, quando conduce ai giardini pubblici la piccola, sparla della padrona con le sue amiche. La voce narrante non ce ne rivela ancora il motivo; piuttosto, adotta il punto di vista della bambina che, sconvolta dalla malignità delle chiacchiere, chiede in lacri5  Ad esempio, quando cerca di andare dietro ai due figli della contadina, «che, piccoli e arditi, correvano e s’arrampicavano per i sentieri» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 61r), la bambina «si arrestava con gli occhi fissi e un dito in bocca» (ibid.) e non sembra, nella sua inconsapevolezza, crucciarsi troppo. È questa un’immagine che ritroveremo nel sesto capitolo a proposito della Settima figlia. 6  Si noti come il ‘quasi’ suoni una precisazione superflua, che ne richiama una simile presente nel Servo che dormì nel tempio, in cui si legge, a proposito del protagonista, che di fronte al dio prorompe «in una quasi sghignazzata di trionfo» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 194r).

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me di essere riportata a casa, anche se non cessa di osservare, in un crescendo grottesco che rimane, sul momento, immotivato, i dettagli dei volti che la circondano: «il […] naso che si arricciava, gli occhi che si dilatavano o ammiccavano, la bocca grossa che si apriva e si chiudeva senza posa» (ivi, c. 62r). Dopodiché, con un nuovo brusco passaggio, si passa a descrivere la fanatica religiosità della piccola, sviluppatasi dopo che «la madre la fece comunicare molto presto» (ibid.) regalandole una «piccola croce appesa ad una catena d’oro» (ibid.)7, oltre che uno «scrigno col rosario» (ibid.) e persino un messale rilegato con l’avorio: Da allora la bambina fece la Comunione ogni Domenica, e scese, la mattina presto, nella Chiesa dove si potevano vedere Iddio e la Vergine, magnificamente vestiti, che, in cima all’altare, odoravano i vapori dell’incenso. Lo Spirito Santo, in forma di colombo, stava fermo su loro con le ali aperte, e per loro, fra le colonne e le balaustre, erano accesi gli infiniti lumi; per loro, mille voci più acute, più forti, salmodianti, gridanti e borbottanti, cantavano e pregavano. Quando il campanello squillava, incalzando con maggior forza, era segno che il Sacro Spirito era presente, e la bambina curvava in fretta8 la testa, presa da venerazione e da paura. Prima di confessarsi, faceva un tormentoso esame dei propri peccati, nel timore di ometterne qualcuno, che sarebbe stato un sacrilegio. Un altro terribile sacrilegio era incidere l’ostia santa coi denti, ed ella se la sentiva disciogliere in bocca, con trepidazione, e poi tornava al suo posto con la testa china e le braccia in croce, in una contenta beatitudine (ivi, cc. 62r-63r).

Solo a questa altezza, dopo che si sono forniti ulteriori particolari sulla vita agiata della madre e della figlia, si chiarisce l’origine delle maldicenze: numerosi uomini frequentano la casa e intuiamo che il mestiere della donna è quello della prostituta d’alto bordo. A una simile mollezza di costumi sembra alludere anche l’abitudine, che poco si addice a una signora per bene, di aggirarsi per casa canticchiando «mezza nuda, la mattina, con le bretelle della camicia che le scorrevano giù dalle spalle quasi gonfie, i capelli in disordine» (ivi, c. 63r). 7  Varie le osservazioni del revisore: dapprima, riguardo all’iniziale «la fece comunicare» (ivi, c. 62r), commenta: «non è così; fece fare la I com.: è altra cosa!» (ibid.); poi suggerisce di correggere l’iniziale «Crocifisso» con qualcosa che faccia «sentire che è piccola; se no è grottesco» (ibid.). 8  Corregge «precipitosamente» (ivi, c. 63r) dopo che il revisore ha commentato: «il gesto è così lieve che non c’è precipitare (che vuol dire cadere col caput prae!’» (ibid.).

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Le ragioni della ricchezza accumulata dalla madre si fanno mano a mano più evidenti: «Talvolta, se la serva era in faccende, toccava alla bambina aprire l’uscio ai visitatori, ed ella andava, tentando di affrettarsi e incespicando talora fra tutti quei mobili» (ibid.). Spiccano in particolare due curiosi personaggi. Il primo è «un signore alto, secco, coi sopraccigli folti e le rughe fonde, fra cui due labbra bluastre si socchiudevano sui denti gialli e umidi» (ibid.), la cui «spaventosa bruttezza» (ibid.), così come la sua rigidità nei movimenti e l’abitudine di raschiarsi «la gola con una specie di grugnito» (ibid.), la bambina osserva con il consueto occhio analitico. Il secondo è «un grasso e bruno, con occhi vivaci e gesti ampi, che dava allegri scappellotti a sua madre sussurrandole nell’orecchio parole» (ibid.), ma anche, spesso, «un buffetto sul mento» (ibid.) alla figlia, che però non si lascia avvicinare, né da lui né dalle comitive più rumorose che a volte irrompono in casa: indietreggiava, impallidita, abbassando la faccia. Certe sere, quando ella era già a letto, arrivavano visitatori più numerosi, donne e uomini, ed ella ne sentiva le risate attraverso i muri, col tintinnio dei vetri (ivi, c. 64r).

Più piacevoli sono per lei, forse perché abituata ai rumori della campagna – il racconto non lo esplicita –, i temporali notturni che molto, invece, impauriscono sua madre, la quale «fuggiva vicino a lei, se erano sole, per nascondere la faccia nelle coperte, e si inginocchiava accanto al letto, con strida soffocate e brividi» (ibid.). Si tratta di un particolare che il revisore trova «perfettamente inutile» (ibid.), ma che in realtà serve a corroborare il profilo allegramente fatuo e infantile del personaggio materno, in contrapposizione alla crescente scontrosità della figlia: secondo una ripartizione di ruoli e peculiarità caratteriali che procede in una direzione sostanzialmente opposta rispetto all’avvio del racconto quando, piuttosto, il tormento apparteneva alla donna adulta e la serenità incosciente alla bambina. Non meno a rischio di incongruenza appare il passaggio alla sequenza successiva, in cui si narra della morte della portinaia del caseggiato dove è sito l’appartamento, a causa delle esalazioni del «bracere [sic]» (ivi, c. 64r) da lei acceso. Non si comprende sul momento la funzionalità del segmento nella progressione del racconto, che poco dopo di nuovo si focalizza sulla vita domestica di madre e figlia, ispirata, si potrebbe dire, a un’affettuosa commistione di sacro e profano:

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Se la serva usciva, nelle ore del suo permesso domenicale, la madre rimaneva in casa con la bambina; insieme sfogliavano le riviste e la vite dei santi, mangiavano dei dolci, e la madre cantava tutto il repertorio delle canzonette, con gesti buffi e voce stridente, e si scuoteva in movimenti di danza. La bambina ridendo, si stringeva con le spalle il collo. Poi caricavano il grammofono, e ascoltavano in silenzio ballabili, canzonette napoletane e filastrocche per ragazzi (ibid.).

Una domenica un’automobile si ferma davanti casa e dalla strada chiamano la madre, che corre «a darsi il rossetto» (ibid.), prima di affacciarsi, mentre la figlia «si infilò sotto il suo braccio per vedere, e scorse signori e signore nella strada e una signora che parlava disordinatamente, alzando la faccia dalle guance paonazze in un gran collone di volpe azzurra» (ivi, cc. 64r-65r). Seppure «a malincuore» (ivi, c. 65r), la madre decide di unirsi alla compagnia dalle «facce allegre e congestionate» (ibid.), promettendo alla figlia di rientrare presto. Rimasta sola, la bambina diviene preda delle sue più segrete ossessioni mano a mano che il tempo trascorre e il buio avvolge la casa. Non sapendo che fare, si reca a «rimirare il quadro della Madonna appeso nella sua camera» (ibid.) e si mette a pregare, recitando «il Rosario, un Pater, un Ave, un Gloria, per ogni grano» (ibid.); dopodiché, rabbrividendo, si guardò di sottecchi la gamba destra. Quella sua strana gamba le causava una sensazione di paura e di rispetto. Le pareva un essere estraneo, che, quasi, avesse un nome e uno spirito. Precipitosamente la ricoprì, e, accese tutte le lampade nel salotto di sua madre, fissò attentamente i ritratti appesi al muro (ibid.).

Nell’osservare dapprima le fotografie della nonna, poi quelle del «signore magro» (ibid.) e di «altre signore e signori» (ibid.), dalle più varie pose – alcune sorridenti, altre «di estrema importanza, come se mai nessuno fosse stato fotografato prima di loro» (ibid.) –, la bambina immagina che queste figure «dovessero da un minuto all’altro sbattere le palpebre o parlare e allora il cuore le si sarebbe rotto dallo spavento e non avrebbe neppure urlato» (ibid.). Impressionata, si reca in cucina «con la sensazione vaga di aver un’ombra dietro le spalle, simile a quegli spauracchi che tengono le braccia per impaurire i passeri» (ibid.) e cerca invano di scacciare i pensieri cantando sottovoce filastrocche come «Girotondo e l’ambasciatore,

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e infine le canzonette alla moda» (ibid.)9. Il ronzio di un insetto la estenua ulteriormente, togliendole anche la forza di guardare fuori dalla finestra:

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Sentiva che avrebbe veduto qualche cosa laggiù, uno spirito forse, fermo dietro i vetri, e spaventoso, e preferì lasciarsi tiranneggiare dalle tre Presenze implacabili che l’opprimevano, – la propria gamba malata e pesante sotto la veste, l’ombra dietro le spalle, e quel ronzio nell’aria della cucina. Rimase silenziosa e immobile per qualche minuto, finché decise di morire come la vecchia portinaia (ivi, c. 66r).

La voce narrante tira le fila, sin troppo didascalicamente, delle «tre Presenze» che opprimono la bambina e, nel crescendo fantastico dell’ossessione, la conducono al proposito suicida di accendere il braciere e portarselo in camera per morire come la portinaia, la cui funzione nel racconto adesso meglio comprendiamo. Sennonché un commento della voce narrante, che si rimpossessa d’improvviso del punto di vista, viene a turbare il crescendo perturbante creatosi: «a quella comica vista, tutti gli spiriti della casa si placarono e non la tormentarono più» (ibid.). Ma è solo questione di una frase e di nuovo la focalizzazione si sposta sul personaggio, non senza qualche rischio ancora di pedanteria descrittiva: Sicura di morire prestissimo, chiuse accuratamente l’uscio e vi spinse contro il tavolino da notte, in mancanza di una chiave. Poi, senza guardarsi intorno, si distese rigida sul letto, e aspettò. Si sollevò solo un minuto, per aggiustarsi il cuscino sotto la testa (ibid.).

Già questi sbalzi della narrazione mostrano come l’autrice non sia riuscita ad amalgamare le diverse istanze alla base del racconto, ma non meno indicativo in tal senso è il finale. Proprio quando la bambina avverte «un cerchio stretto chiuderle la nuca e la fronte, e capì che era il principio della morte» (ibid.), ecco che la madre rientra in casa e subito si dirige verso la camera, riuscendo ad entrarvi solo dopo aver forzato la porta bloccata dal tavolino. Una volta nella stanza, «si guardò intorno e scoppiò a ridere; voltandosi meccanica9  Il revisore ha sottolineato «canzonette alla moda» tratteggiando una linea che arriva a un commento più in alto che non bene si capisce se si riferisca a questa espressione o a tutto il passo: «non dice nulla» (ivi, c. 65r).

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mente verso lo specchio, vi fissò il proprio volto invecchiato» (ibid.). Si comprende che il revisore commenti, a proposito della scena: «È un po’ troppo descrittiva d’una realtà non trasformata, neppure nel senso dell’intensità» (ibid.): per quanto si voglia interpretarla come una presa di coscienza improvvisa da parte della donna della propria miseria esistenziale, la ripresa del motivo della bellezza sfiorita non appare in effetti compiutamente giustificata dal contesto narrativo. Non si tratta, tuttavia, di mera imperizia10. La giovane autrice è ancora alla ricerca di un equilibrio tra l’urgenza espressiva e la misura diegetica, come suggeriscono le situazioni e le immagini che ricorrono – e si rincorrono – nei suoi lavori: la devastazione fisica, ad esempio, presente già in Sette candele, o la mania religiosa, che, come stiamo per vedere nel prossimo paragrafo, deflagrerà a breve in Dionisia. Soprattutto, però, le due protagoniste sembrano sovraccariche di istanze oltre che di fasi narrative diverse: la madre appare portatrice di un romanzesco originario, dove predominano il teatro e la sensualità, che pure convivono, non senza qualche stridore, con il senso materno, salvo l’innesto nell’incipit e nel finale, quasi come un corpo estraneo, di una più cupa psicologia. Per buona parte del racconto la figlia ci appare una compagna di giochi della madre e ci dimentichiamo della sua menomazione, mentre in altri tratti si intravede un rovesciamento di ruoli tra i due personaggi: essa acquisisce la connotazione di una sorta di puella senex, caratterizzata da una «curiosità diffidente» (ivi, c. 62r), ma protettiva nei confronti di una figura genitoriale infantile e frivola finché, nel crescendo dell’ultima parte, prevalgono le fantasie ossessive e persino le manie suicide. Nel complesso si ha l’impressione, per così dire, di un’ambivalenza narrativa che potrebbe essere l’effetto di una stratificazione cronologica nella composizione. Si potrebbe ritenere, cioè, che su un originario racconto adolescenziale impostato secondo modalità imitative delle scrittrici rosa dell’epoca si sia innestato un ceppo più oscuro e morboso, costituito in primis dalla caratterizzazione della bambina, che apre alla futura tipologia morantiana delle ragazzine dall’apparenza 10  Si ha l’impressione, in effetti, che nella sua vis correttiva, che pure sottolinea evidenti goffaggini espressive, il revisore non si sforzi di cogliere le ragioni più intime della mal riuscita armonizzazione nel racconto di figure e situazioni, come si vede dal commento in calce al testo: «Tra parentesi l’avverto che oggi non si vuole più sentire parlare di suicidi; e potrebbe non esserle consentito di pubblicare la narraz. d’un suicidio» (ivi, c. 66r).

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miserevole combinata all’immaginazione ipertrofica11. Non meno rilevante in tale direzione è il ricco repertorio del fantastico che entra qui per la prima volta nella scrittura della giovane Morante: dal quadro animato al rumore ossessivo nel buio, alla Poe. Le date del 1929 e del 1935 indicherebbero, in tal modo, i due estremi del lavoro redazionale, facendo delle incongruenze della Piccola un’ottima testimonianza delle sperimentazioni in atto nella giovane autrice, alla ricerca di una sua identità per rappresentare i temi a lei cari, ma non ancora in grado di padroneggiare la convergenza di differenti modalità di scrittura. La fertilità della Piccola non si esaurisce nelle rilevazioni intertestuali relative alla giovinezza: perché la lunga durata della memoria autoriale di Morante, nella quale immagini e figure possono ripresentarsi a distanza di anni e persino decenni, fa di questo racconto così disomogeneo e, in definitiva, poco riuscito l’antenato più remoto della cornice di Menzogna e sortilegio. Innanzitutto, quella che si potrebbe definire, perlomeno sino all’inatteso finale, una cortigiana felice non può non evocare, come si sarà intuito, il personaggio della matura Rosaria adombrata nell’Introduzione alla Storia della mia famiglia, così come l’atteggiamento forastico della bambina richiama quello di Elisa nei primi tempi della convivenza con la madre adottiva: «I presenti, ricordo, commentavano con risa e motteggi la mia scontrosità; ma non infierivano mai troppo contro di me […]. Nonostante la loro moderazione, però, ai loro scherzi io mi facevo di fuoco» (Menzogna, p. 13). Per quanto riguarda più specificamente la figlia, proprio nella misura in cui essa costituisce un primo abbozzo di quelle sensibilità fanatiche e psicopatologiche che caratterizzano molti personaggi femminili della giovinezza, non di meno apre, attraverso di essi, alla «vecchia fanciulla» Elisa (ivi, p. 12), miserevole ed esaltata al contempo. Né saranno da trascurare, sulla lunga durata, le «tre presenze» che opprimono la bambina, così come notevole è il verbo utilizzato per descrivere una simile oppressione, ‘tiranneggiare’, la cui radice tornerà per descrivere la persecuzione operata dalle figure familiari nei confronti di Elisa: 11  Manetti le definisce le «ragazzette morantiane socialmente inferiori e fisicamente incompiute» (Beatrice Manetti, Donne al cospetto dell’angelo: il sacro come epifania del fantastico in Paola Masino, Elsa Morante e Rossana Ombres, «California Italian Studies», V, 2014, p. 539).

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Ma quelle larve si vendicarono della mia presunzione, e fecero, nel tempo stesso, le vendette della ragione e della realtà sulla stolida Elisa. Da compagne che m’erano state in principio, divennero le mie tiranne. M’inseguirono fin nel riposo, simili più spesso a incubi che a sogni; e di giorno e di notte, tutte in giro come per un assedio, grandi, subdole, m’insinuarono senza tregua i loro intrighi, i loro inganni crudeli (ivi, p. 24).

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4.2 Eros demoniaco Nel 1936 la sperimentazione di nuove modalità di scrittura non si arresta, anche se durante questo anno, principalmente segnato dall’uscita regolare delle puntate di Qualcuno bussa alla porta12, non si danno occasioni di pubblicazione improntate alla svolta in corso. L’Archivio ci ha restituito tuttavia alcune tracce di questa evoluzione: dapprima, con la donazione del 2007, si è recuperata una versione dattiloscritta, datata maggio 1936, del Ladro dei lumi (A.R.C. 52 I 1/5-6, cc. 1r-9r)13; in seguito, le acquisizioni della BNCR del 2016 hanno consentito di ritrovare un racconto dal titolo Dionisia, conservato in una duplice copia dattiloscritta. La prima, in inchiostro violaceo, catalogata A.R.C. 52 I 1/39, cc. 265r-277r, presenta in calce al testo la data e la firma dattiloscritte cancellate; con una grafia e un inchiostro simili a quelli del «1929» di Sette candele e La casina rossa / Milène e la statua, Morante ha invece apposto tra parentesi l’indicazione autografa «1935» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 277r), a indicare probabilmente il momento dell’ideazione del racconto. L’altra copia, invece, in inchiostro nero, corrisponde alle cc. 278r-290r e reca nell’ultima carta la firma autografa e la data dattiloscritta 18 marzo 193614. Tra i due documenti intercorrono solo poche varianti autografe mentre i refusi corretti a penna nella prima copia lo sono anche, con un diverso intervento a penna, nella seconda. Si cita dalla seconda copia ritenendo che, col mantenere la data del 18 marzo 1936 in calce al testo, Morante abbia voluto rimarcare una volontà 12  Si ha notizia solo della riproposizione del Romanzo del piccolo Bepi e della pubblicazione della poesia Semplice, ancora sui «Diritti della scuola», rispettivamente il 30 marzo e il 30 agosto 1936. 13  Cfr. Porciani, Nel laboratorio della finzione cit., pp. 255-268. 14  La carta risulta strappata sotto la data e la firma, forse per rimuovere un commento che l’autrice non voleva conservare.

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di autrice più avanzata rispetto all’altra copia datata 1935. Si segnaleranno comunque le varianti relative ai passi citati. La storia è incentrata su una casta e devota donna che vive con l’anziana madre e la cui esistenza viene sconvolta dalla visita di un pittore che le fa il ritratto. Il nome della protagonista contiene un’allusione orgiastico-misterica che già preannuncia che la chiave della storia sarà il risveglio, tramite la tentazione demoniaca attivata dall’artista, di un’ardente pulsione erotica sino a quel momento repressa: La signorina Dionisia si avvicinava ai quarant’anni. I suoi capelli neri, tirati sulla fronte e sulle tempie e raccolti nella nuca, si rigavano di bianco. La sua faccia chiusa e seria, di quel colorito olivastro così comune15 nel mezzogiorno, quantunque senza rughe, appariva già appassita, e le palpebre sempre chine lasciavano intravedere gli occhi opachi, castani, nelle orbite lunghe. Essa vestiva di tela grigia, con scarpe nere e guanti neri, e le pieghe del suo abito nascondevano ogni forma del corpo alto e magro. Non si era fatta monaca per restare con la madre vecchissima, ma la sua clausura volontaria era più rigida di quella delle monache (ivi, c. 278r).

Con il suo ordinato, ma implacabile succedersi di informazioni l’incipit bene dà il senso della maturazione in corso dell’autrice: la scrittura appare più controllata e meglio la descrizione del personaggio è affidata a dettagli visivi che, in equilibrio tra showing e telling, mostrano la repressione del personaggio, come l’abito dimesso che nasconde le forme del corpo. In un simile grigiore esistenziale un particolare fisico sfugge all’ingabbiamento della condotta monastica della signorina: Cuciva e pregava, e sapeva infinite preghiere a memoria. Recitava a voce bassa gli atti di fede, di contrizione e di dolore, quantunque non avesse mai peccato, e la bocca che ripeteva queste preghiere era una grande, strana bocca, dal labbro superiore piuttosto breve e gonfio, dal labbro inferiore più lungo e voluttuoso e segnato da un piccolo taglio. La pallida bocca della signorina Dionisia pareva dormisse di un sonno ambiguo nella sua faccia devota; era come un selvaggio, piccolo animale caduto in un morbido letargo su quella faccia. Aveva baciato l’anello dell’Arcivescovo, la fronte della madre, le fredde croci d’argento, aveva cantato le laudi del Signore e non si era svegliato (ivi, cc. 278r-279r). 15  Nell’originale si legge, più blandamente, «del colorito olivastro comune» (A.R.C. 52 I 1.39, c. 278r).

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Mentre le occupazioni del cucire e pregare preludono alle atmosfere conventuali di Via dell’Angelo16, il dettaglio del labbro inferiore «segnato da un piccolo taglio» sembra costituire lo strato più profondo un’immagine che, di nuovo, troverà la sua più piena espressione in Menzogna e sortilegio, ‘reincarnandosi’ nella cicatrice di Anna. Rimanendo nei confini del racconto, si nota quanto l’insistenza sulla voluttuosità della bocca di Dionisia suggerisca che la sua devozione è tanto più integerrima quanto più deve coprire il proprio sopito ardore erotico. La rottura dell’equilibrio iniziale avviene il giorno in cui «con grande stupore di Dionisia, uno stupore che quasi le arrestò il respiro, un celebre pittore venuto dall’estero» (ivi, c. 279r) si presenta a chiederle di visionare il quadro della Madonna da lei tenuto nella sua camera sopra il letto, similmente alla protagonista della Piccola – ed è questo, come meglio vedremo al termine del paragrafo, una costante tutt’altro che casuale. L’artista, modellato forse sulla figura di Henri de Toulouse-Lautrec, «aveva un corpo piccolo e deforme» (ibid.), ma il volto è carismatico e affascinante mentre, con «gli occhi pieni di intelligenza e di brio» (ivi, c. 280r), osserva il dipinto che «con timidezza, e quasi chiedendo perdono alla Madonna» (ibid.), Dionisia gli ha recato in visione dalla camera: Egli parve soppesare il quadro e lo guardò attentamente e da vicino, e di nuovo fissò Dionisia. Infine le disse, con lentezza e cercando di insinuare il proprio sguardo sotto le palpebre abbassate di lei: – Mi permetterebbe, signorina, di farle un ritratto? (ibid.)

Per Dionisia la richiesta è motivo di ulteriore turbamento: «– A me? – ella si stupì, confusa. E arrossì, e il cuore le batteva per l’emozione» (ibid.). L’insistenza sullo stupore disorientato della donna lascia intuire come l’ordinata routine della sua vita stia per crollare: l’ultima resistenza è vinta dal «suono inatteso e rauco» (ivi, c. 281r) della voce della madre, che la invita ad accettare per fare una cortesia al pittore. Ha inizio così la posa, durante la quale l’uomo incalza Dionisia con domande dall’apparenza filosofico-teologica, ma sotto le quali è evidente il gusto di turbare l’interlocutrice. Dapprima le chiede 16  «Nel convento ella imparava il cucito, oltre alle faccende casalinghe e a qualche santa canzone» («Meridiano di Roma», 14.8.1938, p. 6).

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come sia «fatto quel Dio, in cui aveva tanta fede» (ibid.) e Dionisia, che pure è dell’opinione che «non bisogna approfondire queste cose» (ibid.), risponde che Dio non ha «apparenza corporea» (ibid.); dopodiché, egli la incalza domandandole se nemmeno il Demonio abbia un corpo e, quando Dionisia risponde che «il Demonio è lo spirito del male. È da semplici dargli un aspetto corporeo» (ibid.), ribatte: – Pure, signorina, lei non ha mai visto il Demonio come un grazioso giovinetto alto e snello con occhi e capelli scuri17? Nel fare questa bizzarra domanda il pittore sorrise in un modo trionfante e malvagio; egli pareva sapere che Dionisia in fondo conosceva più il suo nemico che il suo Dio; così diceva col perfido sorriso. E a quelle parole, Dionisia rabbrividì tutta e sollevò le palpebre. Gli occhi del pittore, pieni di piccoli bagliori, fissavano solo un punto e questo punto era la bocca della signorina Dionisia (ivi, c. 282r).

La donna nega, ma è evidente che le parole del pittore si sono ormai fatte strada dentro la sua apparente saldezza. È forse sin troppo diretto quello che, con un termine che suggerisce un possibile modello cinematografico, potremmo definire un primissimo piano sulla bocca conturbante di Dionisia, così come può suonare didascalica l’intrusione onnisciente della reale consapevolezza di questa riguardo alla propria familiarità col demonio18. Tuttavia, al di là di queste rigidità, il dialogo tra il pittore e la donna bene annuncia la virata della scrittura morantiana verso una più decisa contaminazione di psicologico e fantastico. La deformità del pittore si tinge di sfumature mefistofeliche e le sue parole trovano seguito nel quadro, frutto del «suo perverso, capriccioso istinto» (ibid.), che, partendo, lascia in dono a Dionisia: Egli aveva dipinto, sì, la faccia di Dionisia, ma di una Dionisia a cui scorreva per le vene un sangue prepotente e rosso, che le tingeva dolcemente le 17  ‘Scuri’ è variante autografa su entrambe le copie, ma non si riesce a decifrare il termine utilizzato in origine, forse «sani» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 282r). 18  Peraltro, se si pone a confronto questo inserto con l’intromissione del punto di vista onnisciente nella sequenza della Piccola incentrata sulle ossessioni della bambina (vedi supra), si nota una certa difficoltà nella prima Morante a frenare la tendenza a intervenire con commenti che spiegano troppo didascalicamente il comportamento dei personaggi. Una simile propensione al telling sembra costituire l’humus della predilezione nella maturità per la prima persona.

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gote, e i lobi delle orecchie, e la punta del mento forte e colorava con selvaggia violenza quelle sue labbra. Nel dipinto non dormivano più quelle labbra, ma vivevano felici, semiaperte, e con una specie di impazienza. Sembrava avessero appena finito di mordere un frutto e ancora fossero umide. Giovane, giovane, era la carne di quella faccia, e le palpebre non si abbassavano sugli occhi, ma ne scoprivano la curva sottile e il lampeggiamento languido. E i capelli neri, invece di essere tesi e stretti come sul capo della vera Dionisia, erano lasciati appena liberi e molli, così che facevano intorno al viso un semicerchio di buio. Eppure quello era il viso di Dionisia, si poteva riconoscerlo. Non c’era inganno (ivi, cc. 282r-283r).

Similmente a Dorian Gray che scorge nel proprio ritratto la sua vera indole, Dionisia osserva con sgomento, ma anche con segreta esaltazione, ciò che il dipinto, senza «inganno», le rivela di se stessa. È il momento di svolta: per il personaggio, ma anche per il racconto, nel quale Morante dà prova di personalizzare il repertorio del fantastico in funzione di una peculiare rappresentazione dell’erotismo femminile. Portato il ritratto nella sua camera, al momento di coricarsi, Dionisia si sente inquieta: «nella sua gola cominciò a tremare un ignoto riso» (ivi, c. 284r) e ha voglia di rimirarsi nello specchio, finché in un crescendo di inaudite sensazioni «fece ancora un peccato, ma senza la coscienza di quel che faceva. O meglio, la sua coscienza le parlava di una oscura felicità che ella avrebbe goduto in quella notte» (ibid.). Mossa da un misterioso desiderio di godere – e il verbo è particolarmente incisivo nel suggerire lo strabordante sconvolgimento fisico di una donna che per tutta la vita ha inteso rimuovere il proprio desiderio –, Dionisia apre «una cassa dimenticata in fondo a un corridoio» (ibid.) e ne trae fuori un «abito antico» (ibid.) di lussuoso velluto viola, dai merletti ricamati di fiori e uccelli, appartenente alla sua bisnonna, e subito lo indossa19: Gli occhi della Madonna e gli occhi del ritratto la guardarono attentamente; un soffio di vento passò lungo la fessura della finestra, con un sibilo. Ella guardò nello specchio la pelle delle proprie braccia e del collo, che vicino al velluto e ai merletti acquistavano una tinta velata e splendida; e d’improvviso, vide che nello specchio, la sua immagine era come quella del quadro (ivi, cc. 284r-285r).

19  Si ricorderà che casse e scrigni sono oggetti ricorrenti nella narrativa di Morante, anche nella sua maturità (cfr. Porciani, Nel laboratorio della finzione cit., pp. 87-88).

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La cerimonia non si arresta alla contemplazione, non esente da narcisismo, di se stessa: «una voce un po’ aspra, che sospirava di desiderio, sussurrò a due passi da lei: Come sei bella, Dionisia» (ivi, c. 285r). La voce richiama il precedente «sibilo» di vento, a suggerire che una presenza è entrata nella stanza: «Ed ella vide un giovinetto, fermo contro l’uscio chiuso» (ibid.), i cui lineamenti, pieni di grazia, «commuovevano, erano la giovinezza stessa» (ibid.)20, anche se «nel suo aspetto c’era qualche cosa di beffardo e insieme di carezzevole» (ibid.). Il giovane si compiace con Dionisia perché ha indossato l’abito con cui potrà andare «alla festa del re» (ivi, c. 286r) e, vedendo che lei trema e sta per piangere, le chiede: «Non mi riconosci?» (ibid.). La risposta della donna è flebile, ma sicura: «– Sì, – mormorò Dionisia – Tu sei il demonio. Non verrò con te. Lo so che sei il demonio» (ibid.). Al che il giovane, ridendo «con aria di beffa» (ibid.), fa mostra di andarsene e lasciarla sola: «Che inganno e che stupida follia! Ebbene, allora addio» (ibid.) – e la nuova ricorrenza del termine ‘inganno’ rimarca quale sia la finzione in cui sinora è vissuta Dionisia: nascondere dietro la castità la sua vera natura sensuale. Prevedibilmente, la donna cede: «– Vengo, eccomi – bisbigliò» (ibid.), accompagnando il proposito con «lagrime pesanti e calde» (ibid.). Inizia a questo punto la sezione più visionaria del racconto, con Dionisia e il Demonio che si recano a una festa misteriosa, anche se la condizione è che lei rientri «prima che suoni l’ultimo colpo della mezzanotte» (ibid.), altrimenti resterà dannata per sempre: un’invenzione che, conferendo a Dionisia lo stato di una peccaminosa Cenerentola e al demonio quello di uno stregato Principe Azzurro, bene si pone in linea con quel rovesciamento della materia fiabesca che si intuisce anche nella festa reale a cui si recano21. La fiaba, non di meno, è evocata anche nel gesto del Demonio giovinetto che sfila le scarpe a 20  Di nuovo la memoria corre a un cruciale passaggio di Via dell’Angelo, nel momento in cui il misterioso evaso appare ad Antonia: «“Come sei giovane” – mormorò stupita, e questo perché non ebbe il coraggio di confessare: “Dio, come sei bello!”. In realtà, mai viso umano le era apparso così giovane, né tale da potersi paragonare a questo» («Meridiano di Roma», 14.8.1938, p. 6). 21  A bene vedere, a questa rifunzionalizzazione del fiabesco partecipa anche il lussuoso vestito di velluto indossato da Dionisia, che richiama l’«abito di velluto e ricami» («Il cartoccino dei piccoli», 19.5.1935, p. 6) indossato dalla principessa Eleonora nella festa al castello in cui la bambina protagonista del Ritratto della principessa si reca in sogno insieme ai due principini Maria e Garzia.

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Dionisia, con una possibile implicazione feticistica che ulteriormente rovescia il modello:

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Ed ella vide apparire improvvisamente i suoi piccoli piedi, che non le sembrava di aver mai visto prima, così puerili e teneri, con le dita brevi e le vene appena segnate. Rabbrividì al contatto dell’erba (ivi, c. 287r).

Sotto una luna dai «riflessi rossastri» (ibid.) i due procedono attraverso luoghi meravigliosi, in un tripudio di vegetazione mai vista e odori avvolgenti: «camminavano su una fresca sabbia, verso una grande casa di vetro22, che, per le splendide luci, di dentro appariva simile a un diamante» (ibid.). Si assiste intanto a un crescendo di sensazioni erotiche: non solo Dionisia «non provava vergogna per i suoi piedi nudi» (ibid.), ma avverte anche il peso dei capelli liberi sulla testa e, sentendo un’orchestra suonare, percepisce, turbata, «nella bocca uno strano sapore» (ivi, c. 288r) e poi, bevendo e ballando, «al contatto di lui, le parve di sentir vibrare due fiamme sotto la pelle del seno» (ibid.). Intorno, in un’atmosfera decisamente onirica, appaiono e scompaiono «infinite altre coppie, e tutte identiche» (ibid.), mentre Dionisia è sempre più – letteralmente – eccitata dalle parole del suo accompagnatore che, «presso un ampio letto, nella penombra scintillante della sala» (ibid.), tesse il suo elogio paragonandola al «frutto dell’arancio» (ibid.) o «a un pioppo» (ibid.), ma anche descrivendola dolce e «spaurita come la gazzella che fugge» (ibid.), sino a formulare un preciso desiderio: «tu non mi lasci che le tue labbra, ma io ho voglia del tuo piccolo petto. Questo mi dà la febbre» (ibid.)23. La reazione di Dionisia è impetuosa: Dionisia sentiva il languore correrle dalla gola alle ginocchia, e tutto il suo corpo si ridestava, si ridestava e gridava. Infiniti brividi partivano dalle sue labbra, e urtavano il petto, che s’inturgidiva sotto la veste, urtavano le tempie, e le orecchie, in cui correvano strani rombi e ronzii. Una dolorosa, indeterminata brama la bruciava tutta, e le stringeva i fianchi in una morsa, ed essa muoveva 22  Sulle possibili suggestioni culturali e letterarie dietro questa immagine di architettura trasparente cfr. Riccardo Donati, Critica della trasparenza, Rosenberg & Sellier, Torino 2016. 23  Una simile insistenza sul seno si ritroverà anche in Via dell’Angelo, nel momento in cui Antonia e il misterioso giovane sono nudi a letto: «– Quanto sei bella! – le disse. Chinando il capo: – Ho già il petto, – ella mormorò, compiaciuta» («Meridiano di Roma», 14.8.1938, p. 7). Al contempo, le similitudini erotiche possono evocare il Cantico dei cantici in un significativo cortocircuito di intertestualità biblica e dizione demoniaca.

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febbrilmente le dita sul corpo di lui che pareva, col suo caldo peso, fare un riposo alla sua ansia. Infine, sorridendo, si scoperse il petto, e le sembrò, anche ora, di vederlo per la prima volta, il suo petto che la castità aveva mantenuto piccolo e fresco, come quello di un’adolescente. Ella le offriva rovesciando la testa in un timido e folle riso, e desiderava il darsi tutta, così, agli occhi dell’ignoto. La dolce pelle del suo corpo trasaliva di gioia e di angoscia sotto il tocco di quelle mani, ed ecco nelle sue orecchie si levò una musica simile a quella della marea che s’alza, e la sua bocca gridò parole mai dette con una voce chiara e felice: – Prendimi! – gridò. – Vieni da me! Sì, ti voglio! Amore! – e sentì che le sue labbra fiorivano, a quelle parole, come una pianta imbevuta di sole e d’acqua. Tutto il suo corpo si apriva e viveva, era un albero dai molti grappoli, e dalle radici distese (ivi, cc. 288r-289r).

La vivida descrizione pienamente esprime l’esplosione di brama sessuale esperita da Dionisia che tuttavia, proprio sul limitare dell’amplesso, bruscamente si interrompe: «In quel momento si udì il primo rintocco di mezzanotte» (ivi, c. 289r). In un lampo Dionisia ricorda che se non torna subito a casa, sarà dannata per sempre e così fugge via; il Demonio scoppia in «una risata fredda e lunga, mentre la fissava dal basso coi suoi obliqui occhi d’ebano» (ivi, c. 290r). Attraversando una tempesta, con nelle orecchie «quell’orribile riso» (ibid.), Dionisia riesce a rientrare nella propria dimora sennonché, appena varcata la soglia, «cadde con un grido» (ibid.) e qui la trovano, la mattina successiva, le serve: Aveva il suo solito abito grigio, e la sua faccia era invecchiata e livida. Le labbra sembravano foglie secche. Esse le tolsero dal capo le forcine, e i suoi capelli grigi si sciolsero. Allora Dionisia aprì gli occhi, che subito si empirono di lagrime (ibid.).

Il fatto che Dionisia indossi il solito abito e non la lussuosa veste di velluto dell’ava suggerisce che l’esperienza della festa non è stata che un sogno, ma tale da lasciare un’impronta indelebile in lei. Le labbra ridotte a «foglie secche» rivelano su quale privazione sia costruita la sua vita che, piuttosto, è una non vita: il mondo parallelo dei sogni, che nelle metalessi delle fiabe era un luogo di consolazione e appagamento dei desideri, è diventato il palcoscenico su cui cadono gli inganni e ci si rivela per quello che si è veramente, ma che non è permesso essere nella realtà della veglia. Come suggerisce la sua maggiore solidità, il racconto costituisce una tappa seminale nel percorso della giovane Morante. Da un punto

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di vista strettamente intertestuale la figura del pittore si riconnette al Paolo della Casina rossa, a indicare, pur nel mutato clima narrativo, un persistente interesse per le implicazioni erotiche dell’attività artistica che si ritroverà, con l’irruzione misteriosa del personaggio nella vita di una giovane donna, in Due sposi molto giovani, pubblicato sui «Diritti della scuola» il 10 agosto 193724. Soprattutto però, in un orizzonte più ampio, la figura di Dionisia, approfondendo alcuni tratti della fanatica religiosità della bambina della Piccola, inaugura più compiutamente il personaggio della donna che dietro l’umiltà, quando non proprio la miseria, della propria apparenza nasconde un animo dilaniato da fosche e morbose passioni, tanto più esacerbate quanto maggiore è la censura che le soffoca. Nelle altre storie femminili non sempre il conflitto tra il desiderio e la sua impossibilità possiederà una simile connotazione religiosa, ma senz’altro lo scontro tra devozione ed eros costituisce un tema persistente, in cui non possiamo non riconoscere una matrice autobiografica. Non mancano, infatti, le testimonianze sulla spiccata religiosità dell’autrice nella sua giovinezza, tra le quali assume un particolare interesse, alla luce dei racconti presi in esame25, quella di Carlo Levi, che rammentava come, in occasione del suo primo incontro con la scrittrice nel 1937 nella dimora di Corso Umberto, si fosse ritrovato «in una stanza ammobiliata, piccola, con un enorme letto: “Quello che mi colpì subito fu un lumino acceso davanti a una Madonna a capo del letto […]”»26. Se consideriamo attendibile il 24  Un giorno, mentre il marito Giorgio è assente da casa, perché impegnato nel suo mestiere di maestro in uno sperduto paese di montagna, la moglie Isabella «udì uno scalpiccio presso l’uscio […] e quando ella guardò alla soglia, vide uno sconosciuto, alto e sorridente, che faceva un inchino» (Dimenticati, p. 110). Si tratta del pittore che è venuto ad abitare di fronte e che, divenuto amico della donna, decide di farne il ritratto finché, capendo la gelosia del marito, se ne va dal paese. Consolazione della donna, di nuovo sola per lunghe ore, sarà la maternità. 25  Ma anche nel finale del Piccolo Bepi fa la sua comparsa, sopra il letto in cui i genitori si riabbracciano, un «quadro della Madonna» («Novella», 1.10.1933, p. 14) su cui getta un alone di luce una «lampada piccola» (ibid.); il bambino, invece, se ne sta in un angolo al buio. 26  Giulia Massari, La sua patria è L’isola di Arturo, «Illustrazione italiana», maggio 1960, p. 66. Si vedano sulla religiosità della giovane Elsa anche le lettere di Pietro Tacchi Venturi, suo padre spirituale (cfr. L’amata, pp. 17-19), sulle quali si tornerà nell’ultimo capitolo. Sul tema cfr. poi Sonia Gentili, Novecento scritturale. La letteratura italiana e la Bibbia, Carocci, Roma 2016, pp. 127-132 e Daniele Zibella, La religione nella scrittura

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ricordo e riteniamo che quella di Morante fosse un’abitudine consolidata27, possiamo legare la presenza di un’immagine sacra nella camera da letto dalla Ninna nanna del piccolo Billi a Dionisia, passando per La piccola, a un rito personale che bene dà l’idea dell’urgenza espressiva a monte di questi lavori.

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4.3 Un’attrice senza palcoscenico Di non agile collocazione cronologica appare Principessa, un racconto ritrovato grazie alla donazione del 2016 e catalogato con la segnatura A.R.C. 52 I 1/39, cc. 193r-197r, che vede ancora una volta protagonista un personaggio femminile alle prese con l’angoscia che la sua passione amorosa le procura. Al centro della vicenda è infatti, anche come narratrice in prima persona, un’attrice che decide di abbandonare le scene per vivere insieme all’uomo da lei amato, il quale la preferisce nella sua dimessa quotidianità più che nello sfarzo principesco del trucco teatrale; tuttavia, nemmeno l’amore ricambiato è fonte di una qualche serenità per la protagonista, come si nota nella seconda parte del testo. Sebbene sul dattiloscritto non appaiano indicazioni cronologiche, potrebbe situare il racconto nella primavera del 1937 la similarità della carta e dell’inchiostro, oltre che della distribuzione del testo nella carta, con le caratteristiche dei dattiloscritti di due racconti di cui si tratterà nel sesto capitolo: I genitori e la prima versione di Primo amore, rispettivamente datati febbraio e marzo 1937. Un termine ante quem potrebbe invece essere rappresentato dal racconto intitolato proprio L’attrice, uscito sui «Diritti della scuola» il 29 febbraio 1940, dove si racconta di Matelda che ha lasciato il teatro per sposare l’uomo di cui si è innamorata e che, tra i cimeli degli anni del successo, possiede vesti di broccato e parrucche che possono ricordagiovanile di Elsa Morante. Questioni tematiche e filologiche, Tesi di laurea magistrale in Letteratura italiana contemporanea, Università della Campania ‘Luigi Vanvitelli’, 2021. Sul versante dell’ebraismo cfr. Marina Beer, Costellazioni ebraiche: note su Elsa Morante e l’ebraismo del Novecento, in Cardinale - Zagra (a cura di), «Nacqui nell’ora amara del meriggio» cit., pp. 165-201. 27  Peraltro, Morante abitava in Corso Umberto già dall’inizio del 1936, quando stava lavorando a Dionisia.

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re quelle della protagonista di Principessa, a suggerire una possibile filiazione redazionale. Principessa condivide con I genitori la presenza dell’io narrante, sebbene la configurazione del racconto presenti un intreccio di piani temporali più complesso rispetto alla visione linearmente retrospettiva dell’altro racconto. Ciò potrebbe costituire il segnale dell’appartenenza del lavoro a una stagione più avanzata, ma non di meno i temi dell’inadeguatezza femminile e della perdita della bellezza legano Principessa a Sette candele e anche al finale della Piccola. Lo stesso titolo, poi, che cita le storie per l’infanzia Paoletta diventò principessa e Il ritratto della principessa, sembra voler rimarcare con forza il rovesciamento psicologico di una materia fiabesca ancora prossima. Se infatti la prima parte del racconto sembrerebbe riportare in auge il repertorio alcune atmosfere più da letteratura rosa, con un intreccio di motivi fiabeschi e sentimentali in linea con il misterioso pseudonimo «Madala» (ivi, c. 197r) con cui l’autrice si firma – e che incrementa l’allure romanzesca del lavoro –, la seconda parte getta un’ombra inquietante sulla vicenda che, in virtù della definizione psicologico-esistenziale della protagonista e del trattamento del fiabesco, apparenta il racconto più a Dionisia che non a Qualcuno bussa alla porta. La vicenda prende avvio dal racconto che la protagonista fa del suo rientro a casa dopo uno spettacolo: ancora sente echeggiare «le parole dell’ultimo dramma» (ivi, c. 193r) recitato a teatro e le ripete mentre si rivede con la sua mise di scena, «vestita da principessa russa, con le lunghe file di perle e la veste ampia a grandi ricami» (ibid.): Mi vedevo come mi vedevano tutti gli altri nella sala, bella, appassionata, simile ad una luce e ad un fuoco. Ero un’altra donna, l’amata, la grande. Ma io ero quella che si vedeva dopo, nello specchio. E mi guardavo nell’alto specchio della mia camera, magra e piccola, col viso pallido dagli occhi oscuri, i capelli lisci e una ruga sulla fronte. Tutto qui (ibid.).

La contrapposizione non potrebbe essere più netta, concentrata nel desolato «Tutto qui» che compendia, ai suoi occhi, la miseria della realtà a­ l cospetto della grandeur teatrale. Di qui il senso di vergogna di fronte all’uomo amato che irrompe, inaspettato, nella stanza: «Giorgio entrò. Non era mai entrato d’improvviso, così, ed io lo amo» (ibid.). L’irruzione, tuttavia, non è solo del personaggio maschile, ma anche del sentimento ancora vivo e doloroso in colei che

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racconta: oltre a rendere particolarmente stentorea l’affermazione, l’imprevisto utilizzo del tempo presente – «ed io lo amo» – porta allo scoperto il fatto che la narrazione non si svolge in un tempo lontano dagli eventi della storia, bensì si sviluppa nell’alveo degli stessi laceranti stati d’animo posti in scena. In altri termini, la sofferenza della narratrice si insinua nel racconto non meno urgente e opprimente di quella provata da lei come personaggio, anche se sul momento non si comprende ancora quale sia il senso di una simile continuità tra i livelli temporali del discorso e della storia. Il racconto riprende infatti l’andamento retrospettivo: Non mi aveva mai conosciuta con la mia vera faccia. Vidi che rimaneva meravigliato e dubbioso. Ed io avevo dimenticato improvvisamente tutte le parole della mia parte. Quella che Giorgio amava, passeggiava fra luci sapienti in qualche misterioso corridoio nascosto dietro lo specchio, e aveva una sfolgorante veste rosa orlata di cigno, e una graziosa maschera (ibid.).

L’irraggiungibile superiorità del personaggio rispetto alla donna si dispiega nel possesso di quella virtù – o, piuttosto, di quel dono naturale – che secondo Morante costituisce, come vedremo nel settimo capitolo, la quintessenza della poeticità: «Le sue babbucce e i suoi capelli, e le sue dita dalle unghie rosse, tutto sapeva muoversi con grazia» (ibid.). L’attrice spogliata delle luci della ribalta e ricondotta alla sua quotidianità di donna sente di essere del tutto priva di quella grazia posseduta al massimo grado dalla principessa che ha messo in scena: «La mia bocca tremava un poco, sentendo di essere così pallida e troppo grande, ed io fui d’improvviso stupida e goffa» (ivi, cc. 193r-194r), come quando a sedici anni si era presentata a un celebre attore. Si sarà peraltro notata, come già in Dionisia, l’insistenza sulle labbra, che evidentemente nell’immaginario della scrittrice costituiscono il tratto più sensuale del volto femminile, per quanto, in questo caso, si tratti di una bocca che non ha più alcun potere ammaliante e non riesce più a tenere avviluppati a sé gli uomini come in un «incantesimo» (ivi, c. 193r). La ricorrenza nei passi citati della locuzione ‘d’improvviso’, variata dall’avverbio ‘improvvisamente’ e dall’aggettivo ‘improvviso’, è funzionale a segnalare, non senza ridondanza, come l’arrivo imprevisto dell’uomo nella stanza abbia comportato un subitaneo cambiamento in quello che si configura un rapporto triangolare tra l’io

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narrante, il suo doppio sfarzoso e l’amato. Di fronte all’«offesa» (ivi, c. 194r) che la scoperta del suo vero volto ha recato alla principessa e a Giorgio, la donna ha una reazione di autodifesa:

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sentii che era il momento di difendere quella me stessa sconosciuta, la creatura goffa e pallida. E copersi la mia brutta faccia con le mani, scoppiando in un pianto improvviso. – Va’ via! – dissi all’uomo che era entrato. – Va’ via! Non posso vederti, stasera, va’ via (ibid.)!

Giorgio protesta che non vuole andarsene, ma la donna, umiliata dalla caduta della sua maschera teatrale, lo caccia via, senza guardarlo per la vergogna e solo udendo «la sua voce che tremava dolorosamente di delusione e d’ira» (ibid.). Come nelle storie della prima gioventù, la protagonista, rimasta sola, si addormenta e ha un sogno in cui «l’Imperatore di tutta la Russia e altri Re con mantelli e corone [le] baciavano la scarpina ornata di diamanti» (ibid.) e la chiamano «Altezza, bellissima, cara principessa» (ibid.). A differenza delle fiabe, però, la consolazione onirica non tracima nella veglia, per quanto nelle sere seguenti, una volta sul palcoscenico, l’attrice si reimpossessi del suo ruolo riuscendo a «cantare e volare sulla ribalta» (ibid.) e a sentire il suo «corpo accompagnare con ardore e grazia le canzoni e i sorrisi» (ibid.). Gli spettatori non si accorgono come lei cerchi con lo sguardo «qualcuno che non c’era» (ibid.), ma ecco che proprio la sera dell’ultimo spettacolo, «come in un miracolo» (ibid.), Giorgio ricompare: «Era sul palco, e mi fissava coi suoi occhi d’uomo troppo bello e troppo giovane» (ibid.). Il turbamento è tale che, terminata la recita, incurante degli ammiratori, la donna si precipita fuori dal teatro: «Vestita da principessa, con la pelliccia sulle spalle, salii sulla mia macchina, e mi trovai sulla strada fuggendo senza saper bene perché» (ivi, c. 195r). Nonostante la ritrovata postura mondana, l’attrice non ha riacquistato l’antica sicurezza, anzi, giunta a casa, fissa nello specchio la propria faccia «grottesca e assurda» (ibid.) e ancora, quando Giorgio irrompe nella camera, fa per mandarlo via. La risposta dell’uomo, tuttavia, è ben diversa rispetto alle sue infauste previsioni: – Tu rimarrai sempre con me, – mi disse. E, senza che io mi muovessi, mi tolse ad una ad una le collane, e la parrucca, e le scarpine coi diamanti. Poi

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nascondendo il suo volto nel broccato azzurro, … – Io ti amo… ti amo come eri quella sera. – Lacerò i ganci della mia veste troppo bella (ibid.).

La sorpresa si trasforma in gratitudine: «avrei voluto inginocchiarmi per ringraziarlo. La povera piccola donna così brutta, era dunque lei, l’amata?» (ibid.). Di qui la decisione di smettere di recitare e di seguire l’uomo, mentre intanto le pare «che la Principessa, bella e lontana come gli altri la vedevano, [le] facesse addio con la mano gemmata» (ibid.). Passato e presente sembrano quindi congiungersi armoniosamente, dando senso all’intreccio dei diversi tempi verbali prima utilizzati: senza rimpianti, l’attrice sembrerebbe abbandonare il palcoscenico e le finzioni per seguire colui che la preferisce nelle vesti dimesse dell’autenticità anziché nello sfarzo del trucco e parrucco, con un lieto fine degno del rosa al quale il racconto parrebbe essersi ricongiunto. Siamo però nella giovinezza avanzata di Morante: il racconto riabbraccia motivi che creano un clima sentimentale-patetico, senza mancare nella sua teatralità di un’esibita connotazione melodrammatica, ma nell’insieme si respira un’aria insana e tesa, le cui conseguenze si manifestano nella seconda parte del testo. Il ritiro dalle scene, infatti, non è stato foriero di felicità, dato che un continuo rovello di angoscia mina la vita della protagonista: Non recitai più, e venni in questa casa, dove il sole e il mare hanno abbronzato la mia pelle troppo bianca; io non sento più vergogna di questa me stessa, senza tinture né broccati, perché lui mi vuol bene così, e gli anni passano senza che noi ce ne accorgiamo. Senza che lui se ne accorga (ibid.).

Lei, invece, il passaggio del tempo lo vede e lo sente, nonostante Giorgio continuamente le rinnovi la sua promessa d’amore e i due trascorrano le giornate in armonia, tra nuotate, corse a piedi nudi sulla spiaggia, baci negli anfratti della scogliera, in un profluvio di immagini tratte dal più smaccato repertorio del romanzo rosa. Eppure ogni giorno lei si scopre una ruga in più, un nuovo segno di decadenza del proprio «corpo magro» (ibid.), per cui, nonostante l’amore dell’uomo amato, la diagnosi sulla propria vita è amara e impietosa: «Io non sono felice. Ho paura» (ivi, c. 196r). Il passo ulteriore è il ritorno della principessa, il cui «famoso vestito di broccato azzurro»

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(ibid.), ma anche la parrucca e «le scarpine di diamante» (ibid.), la donna di nuovo indossa nel segreto della sua camera:

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Felice principessa! È sempre giovane e bella, lei. Tutti la ricordano e la amano. Si aggira intorno qua e là, dietro gli specchi, in corridoi sfarzosi. Io apro gli occhi, e vedo contrarsi la mia piccola faccia sciupata. – Buon giorno, Principessa, – dico all’altra. – Credi che Giorgio mi amerà sempre? Tu credi? Sento la risata crudele di lei. – Sempre? Per poco, molto poco. Presto sarai vecchia; lo sei già, – dice, e mi fissa, con attenzione, ruga per ruga (ivi, cc. 196r-197r).

Sin troppo facile è riconoscere le coordinate sociali nelle quali l’attrice si muove e che minano la sua condizione di donna, rendendo lacerante e fonte di inesauribile sofferenza il sentimento che più dovrebbe sostenere la sua vita. Non di meno, la protagonista interiorizza il proprio personaggio, ossia la principessa, nei termini sia di una rivale irraggiungibile che di un sé sublimato, cosicché il meccanismo del desiderio triangolare, così bene delineato da René Girard in Menzogna romantica e verità romanzesca, si riflette in maniera ancora più contorta in quello del narcisismo infelice, con modalità che nel prossimo capitolo ritroveremo simili in un lavoro poco riuscito, ma molto interessante come Chiesa di Santa Maria. Leggenda. Si avverte l’empatia che lega l’attrice alla scrittrice, che sul tema della devastazione del corpo femminile costruirà figure memorabili come Cesira e Anna, oltre che Concetta, in Menzogna e sortilegio, sino ad Aracoeli, ma soprattutto è rilevante, nella dichiarata teatralità del racconto, come la paura della protagonista si risolva in una sorta di schizofrenia, imperniata sul dialogo che, nel fantasticizzato gioco di specchi della stanza, si muove tra la realtà e la finzione, tra il passaggio del tempo e il mito dell’eternità. In questo orizzonte alle rughe che deturpano, una per una, il volto della donna si contrappone il «bizzarro sorriso, pieno di grazia» della Principessa (ivi, c. 197r), che spinge la protagonista, nel contegno con l’amato, alla finzione – e si sarà notata la significativa ricorrenza del termine ‘grazia’. L’attrice si propone infatti, nei «giorni che verranno, [di] ridere e cantare e amare molto» (ibid.), perché si sente sicura che la compagnia di Giorgio non durerà a lungo e dovrà quindi applicarsi a recitare una parte diversa da quella teatrale, ma altrettanto smagliante

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e seducente, come lascia intendere il finale, in cui – con un inatteso passaggio metalettico venato di autobiografismo – si rivolge direttamente all’amato che l’attende impaziente in giardino: «io sono qui, senza di te, e piango, vestita da principessa. Questo mio pianto, tu non lo saprai» (ibid.).

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5.

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Memorie dell’impero

Con Principessa siamo entrati nel pieno della seconda fase della produzione giovanile di Elsa Morante, quando, dopo l’anno di transizione rappresentato dal 1936, la scrittrice si inserisce sempre di più, grazie anche al legame con Alberto Moravia, negli ambienti culturali di prestigio della capitale e inizia ad essere maggiormente conosciuta e apprezzata1. Lasciatasi definitivamente alle spalle l’età degli eroi dannunziani e il romanticismo epigonale degli esordi2, il più tangibile salto di qualità è rappresentato dalla collaborazione al «Meridiano di Roma», avviata, come si è già ricordato, nell’aprile del 1937 con L’uomo dagli occhiali e proseguita nello stesso anno con Il giuoco segreto e La nonna. Nell’agosto del 1938, invece, vi pubblica Via dell’Angelo, che è il punto di arrivo di una delle due linee genetiche che si dipartono da un racconto dell’ottobre 1937 intitolato anch’esso Via dell’Angelo e riemerso tra le carte donate nel 2007 (A.R.C. 52 I 1.1/7, cc. 1r-50r)3. 1  Ciò non si traduce in un miglioramento dei propri annosi problemi economici. Nel novembre del 1938, come si è visto, Morante torna a rivolgersi a Civinini nella speranza che questi l’aiuti a riprendere a collaborare con il «Corriere dei piccoli» e alla fine dello stesso anno è costretta a traslocare dall’appartamento di Corso Umberto 300, riprendendo la vita raminga nelle odiate camere ammobiliate. 2  Dà bene l’idea della distanza ormai maturata da Guelfo Civinini un passo di una lettera a Luisa Fantini del 22 maggio 1936, non raccolta nell’Amata, in cui Morante racconta all’amica di un confronto su temi politici con lo scrittore, prima che questi ripartisse per l’Africa in qualità di inviato del «Corriere della sera»: «Lo vidi circa due mesi prima ed ebbi con lui una discussione – molto tiepida per mancanza di serietà da parte mia, sul difendere la patria» (in Rapisarda, «Scricciolo & Co.» di Guelfo Civinini, Elsa Morante, Luisa Fantini cit., p. 80). 3  Per un’illustrazione più articolata della storia genetica della doppia Via dell’Angelo cfr. Porciani, Nel laboratorio della finzione cit., pp. 33-74. A queste pagine si rimanda anche per una più dettagliata presentazione dei racconti.

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il tesoro nascosto

L’intreccio è del tutto diverso rispetto a quello del testo omonimo pubblicato. Anziché la storia, tra l’onirico e l’allegorico, dell’iniziazione erotica da parte di un misterioso e bellissimo evaso dell’orfana Antonia, cresciuta in un convento in una condizione «fra l’educanda, la servetta e la pensionante» («Meridiano di Roma», 14.8.1938, p. 6), al centro del racconto del 1937 si trovano le intricate vicende di Lena, un’adolescente che vive con la madre cucitrice Elvira in solitudine e povertà. Accesasi di un’ossessiva passione per Andrea, un vagabondo che si scoprirà essere suo fratellastro, da remissiva e obbediente la protagonista si trasforma in una giovane donna disposta a tutto, anche a prostituirsi, pur di compiacere l’amato con regali e servizi. Anzi, Lena prova un fantasioso gusto nel rovesciare le umiliazioni subite in un’ebbrezza sensuale che possiamo presumere le riveli il senso più intimo del suo destino, sennonché il finale non definisce la piega che prenderà la sua vita. Il racconto termina infatti con un sogno in cui Lena ripercorre gli eventi vissuti dopo l’arrivo del fratellastro sino a ritrovarsi in una fila frondosa di alberi: «da un lato si entrava nella città, dall’altro si ritornava in via dell’Angelo; né Lena sapeva quale direzione avrebbe presa al suo risveglio» (A.R.C. 52 I 1 1/7, c. 50r). Si tratta di una vicenda che, sottoposta a interventi che mirano a snellire le sue troppe frange, come, ad esempio, la complicazione incestuosa, si trasmette a tre successive stesure dattiloscritte riemerse con la donazione del 2016 e ora conservate nell’Archivio Morante: La cortigiana (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 588r-618r), Cortigiana (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 619r-634r) e Peccati (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 544r-565r), che costituisce, peraltro, il racconto pubblicato nel 2002 a chiusura dei Racconti dimenticati, ben prima che tutti i documenti fossero acquisiti dalla BCNR. Al di là di vari aggiustamenti interni e di un diverso peso concesso alla figura di Andrea, si dovrà qui ricordare il diverso explicit delle ultime due stesure, laddove La cortigiana si interrompe bruscamente al trentunesimo foglio. Rispetto al finale aperto della Via dell’Angelo del 1937, Lena prende in maniera progressivamente più decisa la via della perdizione: da «Ma noi ci fermeremo a questo primo ingresso di Lena nella città» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 634r) di Cortigiana a «Tale fu per Lena l’entrata nella città dell’inferno» di Peccati (Dimenticati, p. 290). Per quanto differenti, le storie di Lena e di Antonia rientrano ancora nella rappresentazione delle fantastiche passioni femminili prese in esame nel capitolo precedente, mettendo entrambe in scena la

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5. memorie dell’impero

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scoperta della passione amorosa da parte di un’adolescente priva di relazioni affettive, oltre che, per così dire, di una qualche pregressa grammatica erotica. Se nella Via dell’Angelo del 1938 la vicenda ha una conclusione non meno misteriosa e cifrata del suo svolgimento4, nelle varie stesure che dalla Via dell’Angelo del 1937 conducono a Peccati la narrazione, non sempre fluida, sembra avere innanzitutto l’obiettivo di ricostruire le premesse della perdizione di Lena nella città nella quale fa il suo ingresso alla fine del racconto. Peraltro, proprio il titolo Peccati lascia intuire quanto la questione religiosa, sebbene non esplicitamente tematizzata nell’intreccio, condizioni nell’immaginario dell’autrice la scoperta del potere dell’eros, al punto che di nuovo, come già a proposito di Dionisia, ma anche della bambina protagonista della Piccola, possiamo chiederci quanto simili personaggi femminili siano figure del sé autobiografico o, per meglio dire, di un’identità femminile, lacerata fra solitudine fantasticante e abnegazione erotica, nella quale si intravede l’inquieta passionalità della giovane autrice. Un altro tratto comune che, pur con un tasso variabile di riconoscibilità, caratterizza i lavori che compongono quello che si potrebbe definire, per brevità, il ‘ciclo angelico’ è che le vicende si svolgono in una remota città dalle perturbanti architetture. È in nome di questa costante che, pur escludendo dirette ramificazioni redazionali, alla duplice genealogia di Via dell’Angelo si possono avvicinare altri due testi che l’Archivio ha restituito: Chiesa di Santa Maria. Leggenda e La morte romantica. 5.1 Una monaca per la città La città era stata un tempo sede imperiale, e conservava di questo periodo gli edifici di una maestà pomposa e troppo adorna. Lungo i ponti gettati sul fiume si levavano in gruppi avvinghiati e tempestosi enormi statue dalle vesti 4  Il misterioso giovane è caduto addormentato e Antonia ne approfitta, «con un piccolo e selvaggio sorriso» («Meridiano di Roma», 14.8.1938, p. 7), per annodare la fettuccia della treccia al suo polso in modo che «ella sarebbe stata avvertita, anche nel sonno, di ogni moto di lui» (ibid.). La fanciulla riesce così ad addormentarsi, ma il racconto si chiude con l’immagine di una delle suore del convento, la pacifica Suor Maria Lucilla, che «con la faccia grassa e tonda tutta stravolta, […] singhiozzava per lei, versando compunta lagrime grosse come acini d’uva. E cuciva pianete» (ibid.).

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il tesoro nascosto

fluttuanti. Nelle piazze, le acque scrosciavano dentro fontane animate da giganti e da mostri, in mezzo a conchiglie e a strane flore; e in quei vasti luoghi, ogni suono riecheggiava come fra le muraglie di una rovina deserta. Se appena si alzava lo sguardo, s’incontrava dove un muto volto di pietra, dove un liscio ed immane ginocchio di bronzo. Dentro le chiese gravi di pinnacoli e di guglie, gli organi ricchissimi di canne rompevano scintillando l’ombra cava delle volte. E le facciate dei palazzi dai cornicioni dipinti, cariche di balconcini, di lesene e di cornici, davano alla città un volto fastoso e vario, che contrastava con la sua condizione attuale. Poiché l’impero da molti anni era caduto, il folle e prodigo imperatore era scomparso, e la popolazione diradata vegetava in una pigra miseria. Sotto i portici e sui pavimenti di mosaico si aggiravano figure stanche e ambigue, dai visi smunti e dagli occhi annebbiati; a notte, le vie vuote e nere davano la sensazione di camminare per una città di morti. Le finestre dei palazzi erano quasi sempre chiuse e gli abitanti malvestiti, anche i giovani, già esperti di caduti e di rinunzie, tenevano basse le fronti, come per una costante vergogna o paura (A.R.C. 52 I 1/7, c. 1r).

La descrizione è tratta dall’incipit della Via dell’Angelo dell’ottobre 1937 e subito suggerisce in quali territori estremi Morante si sia spinta durante questo cruciale momento del suo percorso giovanile5. Le ambientazioni ancora riconducibili a un tenore di verosimiglianza, per quanto rastremata e stilizzata, dei primi racconti del «Meridiano di Roma» sono qui abbandonate a favore della piena adozione di un’angosciante geografia fantastica, che si distingue anche dal circoscritto sconfinamento perturbante del sogno di Dionisia. Similmente a quanto farà Elisa all’inizio del ‘romanzo dei suoi’ presentando le varie parti della città di P., la voce narrante del primo racconto angelico, esaurita la presentazione generale, passa a descrivere il quartiere settentrionale abitato dai poveri. Esso è «abbastanza ordinato e decoroso, grazie alle cure del defunto imperatore» (ivi, c. 2r), ma con le «case alte ed uguali, dall’intonaco leggermente scrostato» (ibid.) e dalle cui finestre aperte si vedono «panni, lenzuola

5  Trattando del Ladro dei lumi Marina Beer suggerisce che, oltre alle suggestioni kafkiane, operi nella costruzione dell’allucinato e visionario spazio urbano del racconto la reminiscenza di un versante fantastico della cultura ebraica rappresentato da lavori come Il Golem di Gustav Meyrink (1915) e Il Dubbuk: fra due mondi di Sholem An-Ski (1920), tradotti e conosciuti in Italia al tempo (cfr. Beer, Costellazioni ebraiche: note su Elsa Morante e l’ebraismo del Novecento cit., pp. 192-193). Simili influenze, contaminate con l’educazione cattolica, si possono postulare anche per il ciclo angelico, ma non sarà da trascurare la possibile lezione del cinema espressionista.

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5. memorie dell’impero

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e materasse» (ibid.) appesi, mentre intorno si sentono i rumori delle voci e delle botteghe. Nonostante lo squallore e l’incuria, gli abitanti «apparivano meno tetri che gli altri della città, avendo nello sguardo e nei gesti la sfrontatezza e noncuranza proprie dei poveri» (ibid.). È qui che si trova la Via dell’Angelo in cui vivono Elvira e la figlia Lena: una viuzza tra le tante contorte e sporche, battute «da una luce bianca e senza riflessi» (ibid.), ma resa riconoscibile da una misteriosa e imponente statua alata senza testa. A questo punto prende avvio la trama vera e propria del racconto, ma intuiamo che le rovine barocche e i quartieri popolari della decaduta capitale imperiale non si limitano a fornire l’ambientazione alla vicenda, bensì con la livida tortuosità delle strade e degli anfratti ne costituiscono le premesse cronotopiche. Nel momento in cui, nel febbraio del 1938, Morante, insoddisfatta del risultato della prima stesura, riprende in mano il racconto, decide di espungere dalla prolungata presentazione della città la statua ritenendo, evidentemente, che essa meriti una più specifica valorizzazione. La traferisce così in un nuovo racconto che ha in mente, incentrato su una fanciulla che vive in un convento, al quale dà anche il titolo associato all’immagine, ossia Via dell’Angelo, e che pubblicherà nell’agosto successivo sul «Meridiano di Roma». Nel testo non appaiono espliciti riferimenti alla città imperiale, ma un residuo della lunga descrizione del 1937 si percepisce nei «neri vicoli» («Meridiano di Roma», 14.8.1938, p. 7) che conducono dal convento alla casa dell’evaso6, l’unica traccia pubblicata, quindi, della più esplicita e ampia ambientazione fantastica alle spalle del lavoro. Rimasta orfana, per così dire, del segmento relativo alla statua, la descrizione della città si mantiene invece nelle successive redazioni della vicenda di Lena, solo che in Cortigiana – e quindi in Peccati – l’ingresso in scena di Andrea separa la presentazione generale da quella più specifica del quartiere settentrionale. Il personaggio acquista infatti in questa redazione una più marcata caratterizzazione di straccione vagabondo, tale da farne un antenato di Wilhelm Gerace, col risultato, però, che la sua connotazione picaresca stride con l’atmosfera allucinata del racconto, a conferma delle difficoltà dell’autrice a far collimare nel testo le varie componenti della sua ispirazione. 6  «C’era nella via che percorrevano una luce di crepuscolo che, ad ogni passo, sempre più calava nella notte. Ed essi andavano giù per una stretta scala tortuosa» («Meridiano di Roma», 14.8.1938, p. 8).

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Tra le carte presenti nell’Archivio Morante si trova un altro racconto che è ambientato in una remota città imperiale, pervenuto in una doppia copia dattiloscritta. La prima (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 158r177r), facente parte della donazione del 2016, si intitola Una leggenda, con l’articolo aggiunto con un intervento autografo, e sembra essere l’originale; l’altra (A.R.C. 52 I 1/4.4, cc. 1r-20r), proveniente dalla donazione del 2007, appare copia ottenuta con la carta carbone e reca il più elaborato titolo Chiesa di S. Maria. Leggenda, dal nome degli edifici consacrati al remoto culto mariano della città7. Anche per tale ragione, pur senza un’assoluta certezza, la si può considerare rappresentativa di un’intenzione autoriale più avanzata e da essa, infatti, pur segnalando le varianti più significative, si citerà, sebbene sia andata perduta la quattordicesima carta8. Riguardo alla datazione del lavoro, non si hanno riferimenti per stabilirla con certezza. Si può supporre che perlomeno l’ideazione si situi nella seconda fase della giovinezza dato che l’atmosfera della vicenda presenta elementi di contatto con le ambientazioni allucinate dei racconti fantastico-psicologici del periodo. Si deve notare, tuttavia, che dalla decima pagina sino alla quattordicesima e poi dalla diciannovesima alla ventesima, secondo la numerazione dell’autrice9, cambia il sistema di sillabazione: non più il trattino, ma la barra obliqua, suggerendo che si tratti di fogli inseriti in un secondo momento per sostituire quelli di una versione precedente. Un simile intervento riguarda probabilmente anche la nona pagina – A.R.C. 52 I 1/39, 7  «Bisogna dire che nei tempi antichi, quando ancora il terrore e la violenza non si erano impadroniti del popolo, la città era consacrata alla Madonna. Le chiese erano intitolate a lei, sotto il nome di “Vergine della Roccia”, o di “Vergine della Battaglia”, o di “Vergine Regina”. Veniva gente in pellegrinaggio da tutte le parti del mondo; tutte le classi del popolo di dedicavano a questo culto. Ed erano state istituite delle scuole, che gareggiavano nel dipingere la figura della Vergine» (A.R.C. 52 I 1/4.4, cc. 2r-3r). «“Vergine regina”» è correzione autografa di «“Maria del Drago”» mentre «“Vergine della Battaglia”» e «“Vergine Regina”» correggono rispettivamente «“Maria della Battaglia”» e «“Maria Regina”» (ivi, c. 3r). 8  Per tale carta mancante farò rifermento alla copia del 2016. Al riguardo, sarà da ricordare che questo racconto è oggetto di un paragrafo del mio precedente studio del 2013 menzionato nella Nota al testo (Porciani, Al crocevia della preistoria cit., pp. 105-110), ma al tempo ho potuto lavorare solo sulla copia lacunosa. Rielaboro pertanto qui le pagine del precedente lavoro anche alla luce della nuova disponibilità della copia integra. 9  Rispettivamente A.R.C. 52 I 1/39, cc. 167r-171r e 176r­-177r e A.R.C. 52 I 1/4.4, cc. 10r-14r e 19r-20r.

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c.166r­e A.R.C. 52 I 1/4.4, c. 9r –, visto che i numeri di pagina in alto dalla 9 alla 15 sono sprovvisti dei due trattini che racchiudono gli altri, e la seconda parte della pagina 18 – A.R.C. 52 I 1/39, c.175r­ e A.R.C. 52 I 1/4.4, c. 18r –, che presenta un segno di battitura a macchina diverso; ciò spiegherebbe, peraltro, perché i numeri delle pagine 16, 17 e 18 siano corretti a mano dall’autrice. Saremmo in presenza, cioè, di un racconto redatto in due momenti, la cui fase più avanzata sembra situarsi in prossimità di altri due racconti che, come vedremo nei prossimi capitoli, presentano anch’essi il sistema di sillabazione della barra obliqua: il secondo Primo amore e soprattutto Divorzio, la cui connotazione umoristica fa propendere per una datazione piuttosto tarda, legata alla collaborazione a «Oggi». Come nel ciclo angelico, al centro del racconto è un’adolescente: una monaca le cui vicende sono narrate da lei stessa in prima persona da una distanza che appare sconfinata, suggerendo una qualche consonanza con il finale del Ladro dei lumi, non di meno segnato da una fuga vertiginosa di generazioni10. L’intreccio può essere suddiviso in tre parti: la prima, più descrittiva, è dedicata alla città nella quale è ambientata la storia e introduce alcuni primi elementi caratterizzanti la giovane suora; la seconda segue le peregrinazioni della protagonista nella città per chiedere l’elemosina, fino all’incontro con una sorta di suo luminoso doppio; la terza culmina nella distruzione della città e in una scena onirica di enigmatica metempsicosi. Nella prima parte, nella quale il cronotopo urbano, pervaso di un allegorismo di matrice kafkiana, si unisce a una movenza storiografica fantastica alla Poe, veniamo a sapere che la giovane protagonista, deforme ed estranea a tutti, ha pronunciato i voti per continuare, al di là dell’ipocrisia delle apparenze, la propria «vita come fuga da [se] stessa» (A.R.C. 52 I 1/4.4, c. 1r) e dalla consapevolezza che, sotto l’«odio» e la «ripugnanza», giace una immensa «paura» (ibid.): «M’impauriva la presenza di ciò che avrei voluto essere: grande e orgogliosa presenza, che per attimi fiammeggiava su di me, bruciandomi come una paglia» (ibid.). Sin dall’inizio, quindi, siamo posti a contatto con una già tipica psicologia morantiana segnata dalla doppiezza, nella quale la più bassa e forastica umiltà nasconde una morbosa 10  Nel dattiloscritto datato maggio 1936 del Ladro dei lumi si legge: «Tale il mio Dio; e quella fanciullina fui io, o forse mia madre, o forse la madre di mia madre; io sono morta e rinata, e ad ogni nascita si inizia un nuovo processo» (A.R.C. 52 I 1/5-6, c. 9r).

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megalomania, così come l’apparente rassegnazione al «limbo deserto, ostile, sconosciuto a [se] stessa» (ivi, c. 4r) traveste da superbia il desiderio di amore e amicizia che in realtà anima la protagonista. La giovane monaca vive in un monastero che costituisce l’ultimo baluardo del culto mariano un tempo diffuso nella città, che ormai è preda delle incursioni dei popoli vicini e della barbarie degli stessi abitanti, dediti a latrocini e amori illeciti: Nell’incominciare a scrivere di questo, il mio sangue trema. Forse non dovrei parlare di un simile segreto. E potrò infine ricordare? Sono passati molti secoli, non so quanti, da allora. Non so dove sorgesse quella città, che ora è morta; neppure l’epoca, insieme gentile, fosca e torbida, non so capire a qual parte della storia appartenga. Pure, mentre scrivo queste parole, già vedo lentamente l’amata città riapparire a liberarsi dal fumo, levandosi quasi dal fondo di un’acqua. Segno che devo parlarne. Io fui, quella volta, una monaca (ivi, c. 1r).

Il monastero conserva le ultime tracce dell’epoca in cui la città era costellata di pitture sacre: «Pochi dipinti si poterono salvare; e le suore, per tenerli nascosti da nuove violenze, li nascosero in quei recessi dei loro monasteri, dove da anni stavano sepolti, appesi alle umide pareti, sotto la fredda polvere» (ivi, c. 3r). Quando le suore si nascondono nei sotterranei per sfuggire ai barbari, la protagonista può ammirarli tra la «muffa» e «i lamenti e le orazioni» (ivi, c. 4r) delle compagne, che detesta per la loro vile sottomissione e dalle quali è ricambiata con sguardi di soggezione e sospetto. L’unico sollievo le proviene dal compito al quale, per l’ignoranza che la rende inetta ad altro, è stata preposta: la questua, che la obbliga a percorrere la città decaduta, ma non del tutto deprivata di una sua recondita virtù: «La primitiva grazia, un po’ rustica e spoglia, nella quale era nata, non si era distrutta, ma traluceva con suoi modi segreti dietro il selvaggio ardore che l’aveva maturata e consunta» (ibid.). In una simile affezione che lega l’io narrante allo spazio urbano si può intuire la chiave allegorica del cronotopo, che fa della bellezza nascosta sotto la deturpazione della città un correlativo della vicenda esistenziale della protagonista. Il primo indizio in tal senso proviene da una ricorrenza lessicale. Quando la narratrice afferma di aver amato «quell’adolescenza» della città celata dietro il «male bruciante» che aveva invaso ormai i luoghi (A.R.C. 52 I 1/4.4, c. 5r),

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il participio riprende la descrizione iniziale della propria interiorità: «M’impauriva la presenza di ciò che avrei voluto essere: grande e orgogliosa presenza, che per attimi fiammeggiava su di me, bruciandomi come paglia» (ivi, c. 1r). La corrispondenza è suggerita da un’ulteriore significativa immagine che coinvolge l’aria semantica del fuoco:

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Ma quella cosa nascosta viveva. Certe volte, per dar segno di sé, veniva agli orecchi in forma di suono, or sì or no cantando; e certe volte, salendo come odore d’orti, esaltava l’anima. Si pensava quasi, benché nulla lo provasse, che la città proprio a quel segreto di letizia dovesse la sua vita tenace. L’avevano umiliata, arsa, ed essa ancora fioriva, come certe amanti a cui le percosse e i baci fanno più gentile la carne (ibid.).

La «cosa nascosta» vive anche dentro di lei, «umiliata, arsa», finché sembra poter venire alla luce nella seconda parte del racconto, più narrativa, introdotta da una vera e propria formula di soglia – «Ma perché fantasticare ancora?» (ibid.) – con cui l’io narrante si congeda dalla descrizione della città. Prende avvio da qui la lunga sequenza incentrata sull’incontro della protagonista, durante la sua attività di questuante, con una giovane che ne costituisce una sorta di doppio luminoso, visto che si presenta solare, generosa e affettuosa. Non a caso essa vive in alto, all’ultimo piano di un palazzo che si contrappone all’architettura oppressiva e agli sviluppi sotterranei del monastero in cui abita invece la suora: «Dormivamo in certe stanzette intonacate che chiamavamo cubicoli e le finestre minuscole e circolari, ad inferriate, erano dette occhi» (ivi, c. 2r). La questua è stata una vita «simile alla morte» (ivi, c. 6r) e, per trovare il coraggio di chiedere l’elemosina, la monaca ha preso a frequentare bettole malfamate e «cortili in cui si frustavano i servi» (ibid.), scoprendo un insano gusto nell’aizzare i carnefici a colpire più forte11. Un imprevisto episodio gioioso è però destinato a cambiare il suo destino, proprio nel momento in cui la qualità allegorica della città si affaccia compiutamente alla sua coscienza: Ma un giorno, durante la questua, mi parve, se così posso esprimermi, di rispecchiarmi nella città. Il dolore cupido che fermentava in quelle mura si abbe11  Morante doveva sentire come problematico ed eccessivo questo passaggio, infatti nella copia acquisita nel 2016 risulta cassato con una pronunciata cancellatura (cfr. A.R.C. 52 I 1/39, c. 6r).

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verò a un tratto di me come mio proprio dolore; mi parve di essere portata su fino alla fronte delle chiese, e che le raffiche delle fiamme e del vento mi consumassero; e sotto la lingua ebbi l’arido bruciare della polvere. Un padrone mi vinse, davanti a me percorrendo le strade e i canali e a tutto mescolando il suo fiato febbrile e impuro. E come una radice che si ramifica nella terra, la pietà si scavò in me; allora mi accorsi di essere più che mai viva, e la nota paura mi prese […] (ibid.).

Capitata in una strada che non ricorda di aver mai percorso in precedenza, la protagonista si sente diversa, per la prima volta oggetto di amore, e questo la riempie di una sconosciuta generosità; persino chiedere l’elemosina le sembra una festa se in quella via «fra il chiedere e il dare non c’era differenza. La felicità era comune, identica» (ivi, c. 8r). Con questo nuovo spirito entra in un palazzo e inizia a salire le scale, con un movimento di ascensione in cui prova una «allegrezza che anzi saliva anch’essa come il grido degli uccelli quando si levano in aria» (ibid.). Giunta sul pianerottolo dell’ultimo piano, illuminato da una grande luce naturale, le apre il portone una bellissima fanciulla, di età e atteggiamento infantili nonostante l’alta statura e la «fierezza barbarica» (ivi, c. 9r) – ed è questa una delle prime apparizioni di un aggettivo che sarà ricorrente nella Morante degli anni Quaranta e Cinquanta: Mi guardò. E la mia anima corse a lei come una rondine al nido. Io balbettavo e tremavo. Ma con tal forza l’anima correva a lei, che, mentre il mio labbro taceva, in me si muoveva un canto confuso, in cui le parole si sforzavano inutilmente di dire la sua grazia: “O casa, – la chiamava il mio cuore, – o casa d’oro! O tu gentile come una vigna in fiore, vestita del colore dell’uva, tu levata come una torre sul campo dei forti, fra lance e stendardi, o torre santa. O stella nata dalle montagne prima del giorno, o annuncio, o prima rosa del campo. Tu specchio d’argento, porta incisa della reggia” (ibid.).

Il linguaggio si impenna in una sequenza di immagini liriche tese a esprimere la gentile freschezza di questo doppio femminile che introduce la giovane suora in una casa dove si sente finalmente accolta12. Intanto «qualcosa di dimenticato» (ivi, c. 10r) le corre incontro: 12  Per quanto la vicenda redazionale di questo racconto non sia direttamente intrecciata con quella del ciclo angelico, che esso faccia parte di un medesimo rovello dell’ispirazione pare testimoniato dal fatto che l’inattesa felicità che la monaca prova prima di incontrare questa sorta di suo doppio richiama le sensazioni di Lena di fronte all’apparizione di quella che si rivela la moglie del fratellastro Andrea nella Via dell’Angelo del

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«infanzie che forse avevo già vissuto ed ora mi riapparivano, non risorte, ma compagne in attesa lassù con lei» (ibid.). La casa e la fanciulla sembrano svolgere, cioè, una funzione di anamnesi che fa (letteralmente) emergere alla luce la memoria di un’esistenza anteriore, in cui l’amorosità e la generosità, concretizzatesi nell’attesa di un figlio, prevalevano sul conflitto tra l’amore e l’odio di sé: «Ma ora, guardami, rido. So che quella di laggiù non è che un’eco: le cose vivono e risplendono solo per l’ansia di arrivare a te. Ed io ti ho toccato. Sono una dea quando ti guardo, e tutto il resto è morte» (ivi, cc. 12r-13r). Anche per questo la misteriosa figura assume le sembianze di un enigmatico alter ego, ora filiale e ispirante pietà di madre alla protagonista, ora invece a sua volta materno nel mostrarle un «corredo da culla, cucito certo per una nascita regale» (ibid.), che reca il disegno delle costellazioni nello sfarzoso ricamo della stoffa. La protagonista prende l’abitudine di visitare ogni giorno la giovane, con la quale intesse un rapporto di confidenza e amore, ricambiato da sorrisi in cui non appaiono né «disprezzo» né «pietà», ma si legge «l’aria indulgente e consapevole di una madre sul figlio capace appena di compitare le parole» (ivi, c. 12r). Alla lunga, però, la sua tendenza alla conflittualità non risparmia nemmeno l’alter ego, che in un impeto di rabbiosa frustrazione viene accusato di essere una statua animata solo dalla propria immaginazione: «Sono io che ho inventato questa infantile leggenda, sono io che ti copro di grazie e di colori. Tu sei di pietra, ed io non credo a te» (ivi, c. 13r) ­– e si noterà che, a rinforzare la specularità dei due personaggi, con l’immagine della pietra era stata prima descritta la propria insensibilità: «Io ero assente da me stessa, la mia anima, fattasi pietra, giaceva nel sonno» (ivi, c. 5r). Di fronte all’animosità della monaca, la giovane non proferisce parola, anche se appare turbata: «Mi parve di vederla impallidire e ridere quasi vagheggiasse un disegno» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 171r). Dopodiché, senza alcuna spiegazione di come ciò sia stato possibile, la monaca si ritrova per strada, come risucchiata al suolo, «tra le strade già buie» (ibid.), dalla sua miscredenza, sebbene solo da poco sia tramontato il sole; al contempo, in un paesaggio urbano sempre più allucinato, «Dalle finestre illuminate scendevano voci, canzoni 1937: «giovanissima, rassomigliava singolarmente nei tratti del viso alla stessa Lena: aveva uguali gli zigomi rigonfi, uguali le labbra incurvate e molli. Ma alla sua presenza si provava un balzo di gioia segreta» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 29r).

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dalle porte delle osterie, passavano a precipizio carrozze portando gente che rideva» (ibid.). La descrizione si arresta al momento in cui le pare «di esser levata impetuosamente nell’alto come un sottile getto d’acqua» (A.R.C. 52 I 1/4.4, c. 15r), ma si tratta di un’allucinazione causata dall’acuto nitrito di un cavallo imbizzarrito. Segue un ampio spazio bianco che introduce l’ultima parte del racconto, dedicata alla devastazione della città, descritta con pennellate a tinte forti in cui visionarietà e orrore procedono di pari passo. Dopo l’allarme lanciato dal suono delle campane, le monache fuggono lungo i corridoi del convento in direzione dei rifugi sotterranei con oggetti sacri in mano, spaventate ma anche eccitate dal pericolo: «Essi cantano» (ivi, c. 16r) le annuncia, alludendo agli invasori, una «piccola conversa che si sollevava la veste con le due mani per correr più in fretta» (ibid.). Lei invece fugge all’esterno, dove rimane stupita dalla «luce di uno splendido giorno autunnale» (ibid.), ma anche dal passaggio di «stormi di uccelli oscuri» (ibid.). La battaglia infuria, ma «L’invasione e la strage in tanto sole parevano una festa» (ibid.). La monaca vede «i nemici sui dorsi sellati [che] entravano nella città con risa di gioco» (ibid.) mentre i cavalli irruenti ogni tanto cadono a terra, piegati i ginocchi, colpiti dai difensori della città, ma «negli sguardi che spegnendosi giravano verso le alte gradinate e gli stendardi» (ibid.) riconosce anche «un piacere senza memoria» (ibid.). La città pare aver ritrovato la sua antica bellezza e «con orrore» (ibid.) la monaca si accorge che «essa, ridente, piegava sotto il nemico» (ibid.), così come sente che la città si beffa di lei: «sebbene io cercassi di nascondermi, udivo bisbigliare: Passa la brutta!» (ibid.). Con ulteriori similitudini e personificazioni, la narratrice cerca di mostrare il palpitante risveglio del paesaggio urbano che la circonda, che non ha più niente di verosimile: «Come il febbricitante che, dimentico, s’inebria delle figure del suo delirio, favoleggiava con se stessa, diceva il suo segreto» (ibid.) e persino «fiduciosa, rispecchiata nelle acque cantanti, gioiva della sua fronte benedetta» (ibid.). Intanto i cittadini cercano di nascondersi oppure, «esausti, trasognati si fermavano aspettando il colpo» (ivi, c. 17r) o cadendo calpestati dai cavalli al galoppo. Sul momento i difensori della città sembrano soccombere «vinti e inebetiti dalla morte» (ibid.), ma poi, incontrando gli sguardi degli invasori, «l’ebbrezza li prese» (ibid.) e tutti orgiasticamente si mischiano, perché «tutti insieme avevano

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deciso la morte della città» (ibid.) e si precipitano a raderla al suolo e a calpestarne le rovine. La visionaria descrizione procede oltre in una commistione di furore bellico ed ebbrezza panica, tra grida di distruzione e risate di esaltazione finché la città non viene incendiata e gli abitanti muoiono nel fuoco. L’ultima immagine è quella ossimorica di un «torbido sorridere» (ivi, c. 18r) che la monaca sente affiorare e che la spinge a correre alla strada dove si trova il palazzo della fanciulla luminosa, sennonché, mentre chiede un’informazione a un soldato, «una frana enorme [la] travolse, e tutta la città si spense; di essa non restava che una specie di scogliera deserta, senza vivi e senza morti, dove il suono di cose accadute risaliva da lontano come un flusso d’acqua» (ivi, c. 18r-19r). Segue quella che con tutta probabilità appare una rappresentazione della propria stessa morte, nella quale, nella quiete dell’incorporeità, il sé si ricompone con il proprio doppio: Via via sentivo la mia voce farsi più debole e i miei sensi attenuarsi, finché divenni muta. Non avevo più le mie membra, ma qui, dove credevo fosse la fine, mi sentivo invece trasformata in una gioia quieta e senza corpo. Non era una gioia della vista e neppure dell’udito o del tatto, che non mi appartenevano più sebbene soltanto ora capissi quanto, queste gioie del mio senso, io le avessi amate, ma questa gioia era me stessa, era indivisibile e intera, e ancora mi veniva da lei. Non so quanto tempo durò; ne ripenso, a momenti, l’intensità sfolgorante, ma non riesco a pensarne la durata. Certo, dopo, tutto ricomincia. E per quante strade io abbia percorso, per quanto abbia chiamato, niente ho ritrovato che possa paragonarsi a questa immagine, pur così scolorita e dimenticata, che conservo di lei (ivi, c. 19r).

La pesantezza del corpo è rovesciata in una «intensità sfolgorante» da cui, nel segno del misterioso doppio femminile, si apre con un’apparente metempsicosi una nuova fase esistenziale segnata da nuove «strade» e nuovi destini corporei. Le vie e la città si fanno, così, immagini allegoriche di una sorta di eterno ritorno che spiega la patina onirica che avvolge nel finale una visione di carattere edenico: Forse, solo nei primi anni dopo la nascita, quando si crede alle cose vedute che poi si cancellano, mi è dato ripercorrere una simile strada. Mi pare infatti di ricordare un’infanzia della mia vita che va sola per un altissimo sentiero, fra alberi piantati appena, confidenti e freschi. Sono forse pini e cipressi, ma io non

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il tesoro nascosto

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ne so il nome, né so che stagione sia. Tutto è nuovo e senza nome, e dal cielo appena nato, meraviglioso, si rispecchiano in mare le luci (ibid.).

E questa ennesima infanzia è abitata da figure misteriose, sospese tra il leggendario e il divino, come il «gran vecchio dai capelli bianchi come lana, dall’alta fronte, dal corpo gigantesco sui forti ginocchi», simile a «uno di quei re che vanno per la polvere dei deserti e la loro pelle è bruciata e nera» conoscendo «mirabili cantici di guerra e di ringraziamento» (ivi, cc. 18r-19r). Soprattutto, nella casa che lì si erge, luminosa e circondata di canti, «Ella vive, col suo bambino» – e su questa immagine si chiude il racconto riallacciando, al di là delle «strade» dell’esistenza terrena, il doppio pieno di grazia della fanciulla barbara a una figura archetipica di madre, da una parte identificabile, in un sincretismo di fascinazioni religiose e culturali, con la S. Maria del titolo, ma dall’altra forse allusiva, come le precedenti immagini materne, a una propria maternità rifiutata. Giunta al termine del racconto, Morante mostra di non essere particolarmente soddisfatta, come si ricava dalla notazione autografa apposta in alto nel frontespizio della copia ritrovata nel 2016: «Da rifare» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 158r). In effetti, si ha l’impressione di un’oltranza visionaria che rende al contempo troppo criptico e dispersivo l’impianto del racconto. Rispetto alla vicenda di Lena si riscontra un diverso tipo di ipertrofia narrativa: mentre in quel caso troppe situazioni diegetiche affollavano la trama, qui un eccesso di simbolismo fa sbandare l’intreccio nel furore immaginifico, senza che sia raggiunto un vero equilibrio tra le varie urgenze espressive, un po’ come accadeva nella Piccola. Comprendiamo, con il nostro sguardo a ritroso, come non fosse questa radicale vena fantastico-allegorica la chiave più fertile dell’ispirazione dell’autrice, che difatti si volge ben presto verso altre modalità narrative. Non mancano comunque punti di interesse, come il fatto che, la narratrice è segnata da una doppiezza che trova il corrispettivo allegorico nella città, in rovina e al contempo in preda all’ebbrezza. Il cronotopo urbano ben si presta a costruire contrapposizioni che rappresentano una simile duplicità della protagonista: i sottofondi del monastero contrapposti all’altezza del doppio luminoso, la miseria della città da cui emerge il passato splendore, la catastrofe che si rivela un nuovo inizio alludono al conflitto tra la miseria esterna e la bruciante

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interiorità del personaggio. D’altro canto, la monaca è alle prese con un conflitto interiore persino più profondo rispetto a quello suggerito dall’analogia urbana, come si nota in un passo che di nuovo presenta al suo centro il verbo ‘bruciare’: «Certo, tale è la bruttezza del mio corpo e dell’animo, che anch’io mi odio; all’odio si mescola non so come un amore bruciante, e queste due passioni lottano in me come demoni, al punto che in preda ad esse io mi dibatto per terra e mi mordo la lingua» (A.R.C. 52 I 1/4.4, c. 11r). Si intuisce che l’atteggiamento forastico del personaggio deriva dall’introiezione del giudizio degli altri, che la conduce a rovesciare la difficoltà di gestire i rapporti umani in una sprezzante scontrosità, al pari di quello che accade, in una narrazione senz’altro più riuscita e misurata che esamineremo nel settimo capitolo, dal titolo La lezione di ginnastica. La lacerante compresenza di amore e odio di sé che contraddistingue la monaca si riconnette anche per certi versi al narcisismo contraddittorio della Principessa, contribuendo a fondare un tipo psicologico di lunga durata, dalle sospette ombre autobiografiche, di cui Morante darà un’impagabile descrizione nell’articolo I tre narcisi, apparso sul «Mondo» il 16 dicembre 1950: È questo, dei tre, il mostro più selvatico e l’enigma più strano. Misera sorte di Ludovica! Ella non piace a se stessa, si giudica brutta, sgradevole, ignorante, e non dubita che anche gli altri siano della sua stessa opinione. Né può rimproverare agli altri una tale opinione, che è la sua medesima. Per cui, più che all’odio verso gli altri, ella è votata all’odio verso se stessa. Ma chi consolerà dunque di un poco di protezione, di compassione, di amore, la diseredata Ludovica? Chi, se non Ludovica stessa? Ecco, dunque, l’inconfessato riscatto di Ludovica. Nel tempo stesso che si odia e si disprezza, Ludovica si adora. In lei convivono due Narcisi, di cui uno adora l’altro, che purtroppo non lo ricambia. Essere l’innamorata non ricambiata di se stessa; essere, insieme, la propria nemica e la propria complice! (Pro o contro, p. 17).

5.2 Sul Ponte Alessandro Una geografia urbana fantastica simile è presente nell’incipit di quello che, più che un compiuto racconto, è un frammento narrativo pervenuto in forma manoscritta, dal titolo La morte romantica (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 139r-142r): Abitavo allora nella remota capitale di uno degli sterminati imperi prossimi al Polo, cancellati da secoli dalla Storia. Ne restano lunghissime steppe,

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interrotte da città gotiche e da fiumi ghiacciati. La città di cui parlo si apriva appunto al limite di una steppa; ricca di guglie e di stretti campanili, di chiese dalle navate risonanti, aveva uno strano colore grigio ed attonito che non si poteva fissare a lungo. Per questo i passanti camminavano dinoccolati e distratti, come ubriachi (ivi, cc. 139r).

Il documento presenta alcuni titoli alternativi cassati – l’originario Il galante accattone e poi Festa di nozze, L’età romantica, Racconto romantico variato in Avventura e Ricordo –, che alludono tutti alla giovane età della protagonista al momento degli eventi raccontati. Si riconosce nell’incipit, peraltro, un possibile riferimento al contempo autofinzionale e autointertestuale, in quanto l’attività «di traduzioncelle e di lezioni private» richiama il racconto La lezione privata («Oggi», 24 agosto 1940) in cui la scrittrice ricorda le sue – al solito – scornatissime avventure didattiche con un allievo di nome Catani Fiorenzo13. Ciò tuttavia non può tradursi in una lineare ipotesi di datazione, così come non fornisce appigli sicuri nemmeno la ricorrenza della città del Nord, dove l’io narrante avrebbe abitato in una fase lontana della propria vita, in Signore e cani, uno scritto di costume situabile, come vedremo nell’ultimo capitolo, nel periodo della collaborazione a «Oggi». Nella Morte romantica il cronotopo urbano mantiene una più evidente connotazione fantastica: Era una città miserabile, che da tempo aveva rinunciato all’antico orgoglio, così che ogni venti cittadini si contava un accattone. Si vedevano accattoni di ogni sesso e di ogni età, seduti al piede delle altissime gradinate o rannicchiati allo sbocco dei ponti pieni di vento. Stavano avvolti in mantelli color fango o in pellicce e costumi stracciati che, per avere appartenuto prima a nobili e signori, li facevano sembrare in maschera. Chiedevano con ipocrita unzione oppure con rabbia, resi folli dai morsi del gelo (ibid.).

Più avanti si parla di un «Ponte Alessandro» (ibid.) che, suggerendo le più disparate fascinazioni, potrebbe evocare l’omonimo ponte parigino, tanto più che, per sottolineare la giovinezza dell’accattone, lo si definisce «un garzone, come si dice laggiù» (ivi, c. 140r), con evi13  Peraltro, sul frontespizio del dattiloscritto della Lezione privata conservato nell’Archivio si legge l’intestazione Giardino d’infanzia (A.R.C. 52 I 1/9-10-11, c. 1r) a suggerire che anche questo racconto avrebbe dovuto far parte della rubrica. Evidentemente, al momento della pubblicazione si preferì non proseguire con una serie il cui ultimo episodio, apparso il 29 gennaio 1940, risaliva ormai a sette mesi prima.

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dente calco da garçon. La nota prevalente, comunque, è data dall’indeterminatezza di una declinante città gotica, sospesa in un Nord Europa grigio e ventoso, piena di mendicanti a cui la protagonista, «sebbene qualche volta dovess[e] imbottire con pezzi di cartone le [sue] suole rotte, spesso facev[a] l’elemosina» (ivi, c. 139r). Il motivo di un simile contegno è spiegabile con l’età:

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Vivevo allora quel tempo felice dell’uomo in cui tale è l’intimo orgoglio, che si è ambiziosi solo di fronte a se stessi, al punto da disprezzare ogni riconoscimento esteriore; in cui, grazie all’immaginazione, si dà vita a nomi senza corpo e ogni nostro giorno, riflesso in uno specchio romantico, acquista un tenero lume. Parlo insomma dell’adolescenza; non di una qualunque adolescenza, ma della mia (ibid.).

Che l’adolescenza sia per eccellenza l’età romantica è convinzione che nutrirà molti luoghi dell’opera morantiana a venire. Tuttavia, in questo lavoro che non è poi così successivo rispetto alla propria adolescenza, una simile presa di distanza non solo appare in linea con quanto l’autrice già scrive in più occasioni all’amica Luisa Fantini tra il 1935 e il 1936 a proposito della giovinezza che si è lasciata alle spalle, ma soprattutto, nell’economia del racconto, ha la funzione di accentuare il senso di remotezza che traspare dall’incipit. In tal modo si rafforza anche il legame allegorico tra l’io narrante e la città, entrambe segnate dalla perdita del loro fulgore: da una morte che appare in primo luogo la fine della pienezza romantica della propria vita, anche se il racconto si interrompe prima che la corrispondenza figurale possa pienamente compiersi, dando senso al titolo La morte romantica. Una sera, di ritorno dalle lezioni, arrivata sul Ponte Alessandro, la protagonista si sente chiamare da un accattone: – Dammi un soldo, amorino. Era una maniera insolita di chiedere l’elemosina; tanto insolita che arrossii. Ancor più dovetti arrossire quando, la sera dopo, mi disse “bella mora”, e, la sera seguente, “riccia”. Non mancò in seguito di una certa arguzia, per quale ad esempio, a causa di buffi guanti che portavo, mi chiamò manine di lana. Una sera infine (doveva averci pensato tutto il giorno, per arrivare a una tale sintesi poetica) mi disse: – Un soldo, candore. E mi guardò con occhi celesti, pieni appunto di quelle parole. Gli occhi celesti sono comuni nel paese; la misteriosa influenza delle nevi e dei ghiacciai

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rischiara il colore delle pupille, al punto che io stessa, arrivata laggiù con occhi neri, piano piano li vidi illimpidirsi, quasi che l’aria li lavasse. Ma lo sguardo celeste dell’accattone mi arrivava insieme alla parola candore, dopo una serie di giorni in cui la sua voce aveva esaltato per me, con brevi e teneri madrigali, ogni singola parte della mia persona. Per questo rimasi tutta turbata, e, presa a un tratto da una divertita commozione, vinta da quegli assurdi e felici impeti che allora mi trascinavano, dissi ridendo: – Eh, tu, barbone! – Gallinella, – egli mi disse e rise (ivi, c. 140r).

L’elemosina diviene un’occasione di corteggiamento, tanto più che il mendicante si rivela poco più di un ragazzo: «Pulzella e garzone, tali eravamo, noi due, sul Ponte Alessandro» (ibid.). Dopodiché, il giovane mendicante invita la protagonista all’«Osteria degli Accattoni» (ivi, c. 141r): Nello stesso momento che accettavo l’invito, io cominciavo a non esser più degna di lui. L’ho già detto, ero nel declinare dell’età felice, e accettai per quel motivo che oggi è detto snobismo, sia pure intinto di un vago romantico. Pensai cioè: – Sicuro, andrò. Che cosa strana, pranzare con un accattone! Che avventura interessante! Egli invece stava ancora sull’altra riva, dove l’amore e la fantasia regnano, e pensava solo a quanto sarebbe stato bello pranzare vicino ai miei occhi neri che l’aria schiariva lentamente, alle mie manine di lana (ibid.).

Non si ha modo tuttavia di vedere distesa in una compiuta articolazione diegetica la presentazione delle diverse sfaccettature di appartenenza all’«età felice» che caratterizzano i due personaggi14. Il racconto, infatti, non procede oltre la descrizione della malfamata osteria e della sua fascinazione romanzesca: L’osteria degli accattoni era piena di questi personaggi, per i quali il solo fatto di mangiare è una splendida festa. C’era dunque, fra il fumo e le canzoni roche, un’aria di convito quasi regale. Sui tavolini, fra cartate gialle e unte di pesciolini sfriggenti, qualche vecchio accattone lasciava cadere la barba canuta, e dormiva rivedendo i ghiacciai, le statue ferme sulle piazze. Si beveva a turno in un solo bicchiere, e l’aria gelida era scaldata dai fiati. Il mio accattone si tolse allora la sua pelliccia spelacchiata di astrakan, una carità del Principe 14  Il sintagma, peraltro, tornerà associato ad Achille nell’articoletto I personaggi, uscito sul «Mondo» il 2 dicembre 1950, per indicare il romanticismo delle illusioni dell’adolescenza.

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Nichi, e la buttò indolentemente sulla tavola, scoprendone la fodera ad arabeschi d’oro. Nel mezzo della stanza comparve una donna che ballò, gettando in aria la veste. L’amico accattone allora mi sussurrò: – Quella è la Miseria; e tu sei l’amore (ibid.).

Mentre l’oste, per festeggiare la ragazza, le offre «una salsiccia allo spiedo» (ivi, c. 142r), la giovane diventa la protagonista di una fama «leggendaria e cavalleresca» (ivi, c. 141r) che, così come già la precedente trasfigurazione in pulzella al fianco del garzone, sembra nettamente contrapporsi alla sua vita miserevole. Non si fa in tempo, però, a saggiarne le conseguenze perché la voce narrante sente l’esigenza di una pausa che si trasforma nella fine stessa del racconto: «Ma qui devo fermarmi, perché mi accorgo che incomincio a confondere la realtà coi sogni» (ivi, c. 142r). È come se non solo la narratrice, ma proprio l’autrice avesse perduto il bandolo di un racconto in cui evidentemente non riesce a conciliare le reminiscenze autobiografiche con la fantasia allegorica. Rimane comunque una serie di immagini e figure che, al di là della rappresentazione della città, confermano la contiguità tematica con il ciclo angelico e la Leggenda della monaca, come la presenza dell’osteria e la connotazione di bello e straccione dell’accattone, che guarda all’Andrea amato da Lena, ma, più in generale, a un ideale estetico di Morante che traspare dai suoi vari beaux sans merci. Riguardo alla datazione del lavoro, la commistione dell’invenzione fantastica con la componente autofinzionale potrebbe essere interpretata come un indizio sia per considerare il frammento una primigenia tappa del tortuoso itinerario che conduce ai racconti ambientati nella città imperiale, sia per reputarlo un’appendice ad essi successiva. Detto altrimenti, La morte romantica potrebbe essere il primo passo di un travagliato processo redazionale che avrebbe mirato a sfumare l’autobiografismo, qui affidato alla prima persona, per approdare negli altri testi alla creazione di protagoniste più marcatamente finzionali e all’eterodiegesi. Un indizio in tale direzione potrebbe essere offerto dalla ricorrenza variata di un segmento della Morte romantica nella Via dell’Angelo del 1938: «Dal suo riso capii che si faceva crescere la barba per economia, ma era ancora un giovinetto, o meglio un garzone, come si dice laggiù» (ivi, c. 140r). Nel racconto del «Meridiano di Roma» leggiamo invece: «Dico “un signore” benché si trattasse ancora di un giovinetto malvestito in

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abito borghese» («Il Meridiano di Roma», 14.8.1938, p. 6), con una variante che, presupponendo un lavoro di limatura sulla precedente immagine, attenua il dato realistico della barba in direzione dell’oniricità che avvolge l’evaso. Tuttavia, se può apparire strano che l’autrice riproponga a breve distanza un’immagine utilizzata in un racconto sul quale ha senz’altro puntato per una pubblicazione di prestigio, non lo si può nemmeno escludere a priori. Non di meno, si potrebbe ritenere che i riferimenti autobiografici apparentino il testo al Giardino d’infanzia, al pari della maggiore leggerezza, consona a una rivista come «Oggi» nella quale si danno anche occasioni per pubblicazioni di tono mondano o umoristico; il frammento, pertanto, potrebbe costituire un anello di congiunzione fra la pesantezza delle precedenti storie e il tono più lieve della rubrica di «Oggi».

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Drammi di famiglia e d’amore

La rappresentazione, in racconti spostati sul versante del fantastico, di personaggi femminili caratterizzati da relazioni affettive complesse e, in alcuni casi, da una sessualità vissuta con sensi di colpa e forti condizionamenti educativi non esaurisce lo spettro dei temi e dei generi della narrativa della giovane Morante, tanto più alla luce del considerevole incremento di pubblicazioni determinato dalla regolare collaborazione a «Oggi». Tra il 17 giugno 1939 e il 6 dicembre 1941 appaiono sulla rivista settantasette lavori di vario genere e argomento, tra i quali diciassette articoli di costume firmati Antonio Carrera1, a dimostrazione che la ‘curiosa molteplicità’ delle origini si è mutata in un’ispirazione poliedrica in cui l’esigenza di pubblicare il più possibile per far fronte alle sempre più pressanti difficoltà economiche2 si unisce a un effettivo ampliamento degli orizzonti della propria scrittura. Come meglio vedremo nell’ultimo capitolo, l’autrice avvia un inedito filone umoristico, incentrato sui destini tragicomici di bizzarri personaggi quale la Elsa ragazzina nel ciclo autofinzionale Giardino d’infanzia, così come non mancano lavori più realisticocronachistici che, situandosi fra il racconto d’invenzione e il pezzo giornalistico, bene incontrano i gusti del pubblico del rotocalco3. 1  Tra i lavori si devono contare anche dodici interventi divulgativi firmati Renzo o Lorenzo Diodati, di cui recano le tracce, come per quelli di Antonio Carrera, le carte dell’Archivio. 2  Come si legge nella Nota che chiude Lo scialle andaluso, «in quegli anni infatti, E. M. per necessità economiche pubblicava un racconto ogni settimana» (Scialle, p. 215). 3  Si pensi a un lavoro come La matrigna, pubblicato il 30 marzo 1940, in cui l’io narrante si presenta come una «viaggiatrice povera e giovane» (Dimenticati, p. 175) che, in una sua trasferta «nella piccola città di P.» (ibid.), trascorre una notte in una camera in affitto, di proprietà di «un uomo sui cinquant’anni, tozzo e robusto, dalla grossa testa incassata fra le spalle» (ibid.). Ciò le fornisce l’occasione di conoscere la giovane da lui

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Nonostante la maggiore varietà di soluzioni narrative progressivamente avviate, permane nella narrativa della giovane Morante una tonalità di racconto in cui l’estenuazione esistenziale dei personaggi si sviluppa in ambientazioni claustrofobiche e allucinate, come conferma la raccolta del 1941, Il gioco segreto, il cui indice è in massima parte ascrivibile all’area del fantastico-psicologico. Le allegorie e le visioni del biennio 1937-1938 sono però sempre più affiancate da un diverso accento su comportamenti ossessivi, quando non proprio patologici, che, come già nella Nonna («Meridiano di Roma», 1° e 8 agosto 1937), possono sfociare nel delitto. Morante sta infatti incanalando la propria ricerca narrativa nella definizione di un ipergenere contraddistinto, anziché dal soprannaturale o dall’onirico tout court, dalla perdita del senso del reale e dell’equilibrio mentale da parte di personaggi che agiscono in contesti sostanzialmente rispettosi del paradigma di realtà. Di qui, specie nelle pubblicazioni dei primi anni Quaranta, una maggiore propensione a rappresentare in un contesto realistico il conflitto fra le ragioni del sogno – da intendersi, in senso lato, come finzione, illusione, fantasticheria – e le ragioni della realtà, la cui miseria solo la fuga in un vaporoso altrove sembra poter redimere. Alla descrizione di una simile multiformità narrativa contribuiscono alcuni materiali che sono riemersi con le donazioni degli eredi alla BNCR, già nel 2007 e poi nel 2016. In particolare, questo capitolo sarà dedicato a due linee tematiche fondative quali quella familiare e quella erotico-adolescenziale maschile; nel prossimo, invece, ci si occuperà, tirando le somme di questioni che riguardano l’intera produzione giovanile, di quella dicotomia cruciale nella visione morantiana della vita e della letteratura che consiste, come già è emerso nei racconti femminili, nella contrapposizione tra grazia e peso esistenziale. 6.1 Arsenico e vecchie trame Se la famiglia è l’istituzione in cui, per dirla con Elisa De Salvi, figli e figlie scontano con la loro sofferenza personale l’«eredità» (Menzogna, p. 18) delle vite devastate di genitori e parenti, Morante mette sposata dopo essere rimasto vedovo con tre figli, la cui storia racconta offrendo anche un ritratto della «provincia meridionale» (ibid.) dove la vicenda è ambientata. Si tornerà sulla Matrigna al termine del prossimo capitolo.

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in scena una simile visione dei legami fra consanguinei sin dai tempi dello straziante Romanzo del piccolo Bepi, apparso, come si è già ricordato, su «Novella» il 1° ottobre 1933, per arrivare all’estrema delle sue pubblicazioni giovanili, Le ambiziose («Oggi», 6 dicembre 1941), incentrata su quelle che sono già le «futili tragedie» (Menzogna, p. 23) della madre e della figlia protagoniste4. Al contempo, l’ambiente domestico possiede una funzione narratologica simile a quella esercitata in chiave allegorico-fantastica dalla città imperiale nei racconti che si sono affrontati nel precedente capitolo, anche se trasposta in una cornice più realistica: con la sua struttura muraria e i suoi passaggi obbligati, la casa determina abitudini e movimenti coatti che corroborano l’oppressività delle relazioni familiari. Una simile connessione cronotopica-tematica è evidente nel racconto I genitori (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 143r-157r), che proviene dalla donazione del 2016 ed è conservato in una copia dattiloscritta accompagnata da una carta recante la datazione autografa al febbraio 1937. Il documento, però, è gravemente danneggiato: nella parte centrale delle carte, specie verso il margine sinistro, alcune righe risultano illeggibili e soprattutto è compromesso il finale, essendo andate perdute le carte successive alla tredicesima, secondo la numerazione dell’autrice; dopo di essa, infatti, si riesce a leggere solo un minimo segmento testuale che non si capisce da quale carta provenga. Anche se ci è precluso conoscere l’epilogo, non per questo il racconto merita minore attenzione: non tanto perché si percepisce la prossimità dell’inferno domestico al centro della storia alle vicende personali dell’autrice quanto perché possiamo apprezzare il filtro letterario a cui Morante sottopone una materia per lei così intima e dolorosa5. Molto si è detto sull’immaginario modulare che l’autrice, 4  Le quali sono impegnate la prima a sognare un fulgido matrimonio d’interesse per la figlia prediletta; l’altra, presi i voti, a immaginarsi sposa nientemeno che del Signore e padrona delle magioni celesti, per poi morire di tisi. La malattia diventa polmonite in una versione rivista, forse per una ripubblicazione non andata in porto nello Scialle andaluso, del cui primo indice provvisorio il racconto faceva parte. È questa seconda versione, peraltro, che si legge nei Racconti dimenticati. Sulla vicenda redazionale del testo cfr. Zibella, La religione nella scrittura giovanile di Elsa Morante. Questioni tematiche e filologiche cit. 5  Se prestiamo fede a quanto racconta Marcello Morante, similmente a quanto accade nel racconto il padre legittimo Augusto sarebbe stato sempre più emarginato dall’insofferenza della madre Irma, il cui ventre ingrossato, a fronte dei graziosi lineamenti del volto e, soprattutto, dei bellissimi occhi, potrebbe invece costituire il modello della descrizione fisica della madre nel racconto. Cfr. M. Morante, Maledetta benedetta cit., pp. 15-28.

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facendo di necessità virtù, dipana nel corso del suo frenetico tirocinio narrativo degli anni Trenta e primi Quaranta, ma l’operazione di ‘cucitura’ che caratterizza il suo approccio alla scrittura coinvolge non di meno il processo di assimilazione delle sue coordinate culturali e letterarie. In questo caso, in un momento ancora iniziale della seconda fase della produzione giovanile, l’esito è quello di una sorta di bricolage in cui sin troppo evidenti sono i tributi agli autori prediletti: come se, per mascherare l’urgenza dei temi affrontati, la giovane scrittrice paradossalmente avesse giocato a carte scoperte. È proprio questo eccesso di imitatio, tuttavia, che ci consente di sporgerci sul suo laboratorio della finzione e di osservare da vicino, per così dire, come lavorava Morante. A raccontare la storia è il figlio Carlo, testimone durante l’adolescenza della rabbiosa ostilità che contraddistingue i rapporti fra i genitori: la madre è preda di una scomposta e lamentosa frustrazione mentre il padre, dietro l’apparenza passiva e rassegnata, ordisce un piano uxoricida. I due, però, non sono subito in scena: nella sequenza incipitaria Carlo descrive un tipico pomeriggio di quando, studente sedicenne del liceo classico, studiava avvolto dall’atmosfera soffocante e buia della cucina. Visto che l’unica finestra «dava sul cortile, chiuso fra quattro alti muri» (ivi, c. 143r), solo di sbieco entra un po’ della luce del tramonto dalla stanza accanto. L’oscurità, però, non dispiace al ragazzo, di cui, anzi, alimenta l’immaginazione: «in quel mondo del crepuscolo il continuo e monotono gocciolio dell’acqua aveva un suono segreto, quasi favoloso» (ibid.) – e si noti una delle prime occorrenze dell’aggettivo, cruciale nel definire il polo romanzesco dell’immaginario morantiano. Il narratore passa poi a descrivere se stesso adolescente, «pallido e dinoccolato» (ibid.), in preda ai languori dell’età: «rimanevo inerte davanti ai libri, con gli occhi fissi, scompigliandomi i capelli con una mano» (ibid.). Soprattutto, Carlo sente «un bisogno d’assenza» (ibid.) che si accentua mano a mano che «La zona d’ombra diventava sempre più vasta» (ibid.) sino a culminare in una reminiscenza leopardiana: «naufragavo in quel mondo senza cose» (ibid.). La suggestione crepuscolare è interrotta dalla teatrale irruzione della madre, che spezza l’equilibrio del silenzio chiedendo: «– Che fai, all’oscuro? – e una luce bianca, accecante, brillò nella lampada» (ivi, cc. 143r­-144r). Una nuova sequenza si apre, dedicata in primo luogo a rap-

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presentare l’infelicità rancorosa della figura materna, di cui si descrivono il corpo disfatto e poi «i tratti bellissimi» (ibid.) del volto e gli occhi grigi deturpati dalle occhiaie e dal «grasso malato» (ibid.). La donna passa il tempo a compiangersi ad alta voce: «­– Maledetta questa vita – disse» (ivi, c. 144r) oppure, poco dopo, «– Non ne posso più […] –» (ibid.), esasperata dalla miseria familiare che le impedisce di «prendere una serva» (ibid.), ma ancora prima dal suo disgraziato matrimonio: La chiave girò nella toppa all’ingresso, ed entrò mio padre. Subito l’odio guizzò da mia madre verso di lui, con tale immediata violenza, che ebbi la sensazione viva di questo guizzare dal fornello all’uscio. Anche mio padre parve sentirlo, e abbassò gli occhi, come intimidito, rigirando il cappello fra le mani incerte. Le pupille di mia madre scintillavano, mentre ella si curvava sui fornelli, e le sue labbra tremarono in un sorriso ostile. Non sapeva perdonare a lui, povero ed incapace, di avere sposato lei, allora così bella. – Buona sera, – le disse, ed ella tacque, rimestando l’acqua nella pentola (ivi, cc. 144r-145r).

Se i guizzi d’odio dagli occhi della madre sembrano rovesciare gli amorosi dardi stilnovistici che muovono dallo sguardo dell’amata, la descrizione del padre appare debitrice di reminiscenze dostoevskiane6 – o anche del dannunziano Giovanni Episcopo – tale è la vile inettitudine che egli incarna: Egli era una figura piccola, magra e curva. Aveva occhi presbiti e mansueti, un ciuffo di radi baffetti, e il collo esile in colletti sempre troppo larghi. Non usava radersi spesso, e la macchina oscura della barba sembrava gli divorasse le guance. Vicino alle labbra, pallide e sottili, aveva due rughe profonde, e il suo abito non stirato formava borse e pieghe. Si guardò intorno don aria fra sospettosa e smarrita, come per chiedere il permesso, e infine si sedette in silenzio, sull’orlo della sedia, come in casa d’estranei (ivi, c. 145r).

Estraneo in casa propria, l’uomo sta quasi sempre fuori visto che il lavoro in tipografia lo impegna giorno e notte, soprattutto – si 6  La presenza di Dostoevskij nell’opera morantiana è stata studiata solo riguardo ai romanzi, ma tracce della lettura si riconoscono anche nella scrittura giovanile. Sul rapporto con l’autore russo cfr. Donatella Diamanti, La voce molteplice della dormiente: Leopardi, Dostoevskij, Baudelaire, in Lugnani, Scarano et alii, Per Elisa. Studi su «Menzogna e sortilegio» cit., pp. 301-342 e Monica Zanardo, Tangenze micro e macroscopiche tra La Storia di Elsa Morante e L’idiota di Dostoevskij, in Siriana Sgavicchia (a cura di), La Storia di Elsa Morante, Edizioni ETS, Pisa 2012, pp. 226-235.

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intuisce ­– per evitare il confronto con la moglie, che non sopporta nulla di lui, nemmeno il modo in cui mangia, «biascicando i cibi faticosamente, a causa della sua cattiva dentatura» (ibid.). Lei, invece, non riesce a ingurgitare nulla ed è questo un primo indizio di una trama che si preciserà nel seguito del racconto: «– […] Da qualche giorno mando giù quasi niente, salvo quell’uovo che lui mi porta la notte. –» (ivi, cc. 145r-146r). L’utilizzo del pronome personale di terza persona è dovuto al fatto che essa «nelle liti non lo apostrofava direttamente, ma si rivolgeva altrove coi gesti e gli sguardi» (ivi, c. 146r), come si vede quando tra i due scoppia l’ennesimo alterco perché mancano i soldi per acquistare al figlio un atlante di geografia: «– È inutile scuotere le spalle, – riprese subito l’altra, che, sebbene in apparenza non lo guardasse, in realtà lo inseguiva in ogni minimo gesto e respiro» (ibid.). Tuttavia, per quanto continui a inveire col marito, accusandolo, fra le varie cose, di sembrare a cinquant’anni già un vecchio, la madre non pare accorgersi che questi «ha un’impercettibile scossa, e nei suoi occhi velati e stanchi passò, con una subitanea violenza, l’ondata del rancore» (ivi, c. 147r). Solo scoppia in «una risata dispettosa, bizzarramente tragica, che presto si cambiò in un rauco tossire» (ibid.), spaventando Carlo in quanto il muco «non sembrava provenire dalla gola e dai polmoni, ma da un torcersi doloroso delle viscere» (ibid.) che prelude a una più violenta crisi: «con le mani tremanti si accarezzava i fianchi e il ventre: – Ahi, mormorava in un lamento lungo e infantile. – Oh, Dio, oh, Dio» (ibid.). Nell’atmosfera sempre più tesa e inquietante sopraggiunge un momento di tregua. Mentre il padre rimane fisso nel suo «vago e incosciente stupore» (ibid.), la madre va a dormire, seguita di lì a poco dal figlio, che, coricatosi nella sala da pranzo, sente i rumori del bizzarro rito notturno dei genitori: prima di uscire per recarsi di nuovo al lavoro, il padre reca un uovo sbattuto alla madre. L’io narrante, comunque, non manca di soffermarsi sulle sue fantasticherie notturne, che si riallacciano ai languori del crepuscolo, ma con un surplus di oppressiva suggestione. Passando in rassegna gli oggetti e i soprammobili presenti nella stanza, mentre intanto fuori la notte si fa sempre più buia e tempestosa – «si era alzato un vento foriero di pioggia, e di quanto in quanto le imposte scricchiolavano» (ivi, c. 148r) –, Carlo volge lo sguardo su un «ussero di coccio applicato

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alla saliera» (ibid.), «una gazzella di vetro» (ibid.) e le fotografie appese, che ritraggono «un sergente fiero del suo berretto, un bambino nudo» (ibid.), immaginando che i loro occhi lo osservino «con uno sguardo non sempre benigno» (ibid.). Di qui, gli «strani riti» coi quali tenta di propiziarsi il loro favore:

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Con la palma aperta battevo sette volte sul muro, o ripetevo a voce bassa, venti volte, un verso greco. Ma alla fine, incapace di resistere oltre, mi coprivo il capo con le lenzuola, agitato dal ribrezzo (ibid.).

La scena richiama l’ultima parte della Piccola, mostrando di nuovo la tendenza della giovane Elsa a riutilizzare i propri materiali, ma anche rinforzando la velata proiezione autobiografica nel figlio che assiste, ormai assuefatto, al costante conflitto tra i genitori. È a questo punto che, nell’atmosfera allucinata nella quale sinora la vicenda si è mantenuta, si apre un più circostanziato squarcio di fait divers che introduce un omaggio alle trame naturalistiche alla Maupassant, ma non senza aver prima indugiato in un segmento di sapore proustiano, nella sequenza in cui Carlo prende sonno: Via via, la cortina che mi separava dal giorno e dalle cose si faceva più spessa, e i fatti, le impressioni, si confondevano e si deformavano. Un capitolo tradotto in mattina, Senofonte e Cesare, animava d’immagini il principio di un sogno. Appare molto vagamente, a distanza, non so quale deserto senza limiti, sparso di pepite d’oro; dal fondo, ecco si avanza un drappello di soldati a cavallo, sempre in aumento, è un esercito, con sottili stendardi in cime alle lunghe aste. Il vento soffia, spingendo da una sola parte tutti gli stendardi, che si tendono come gialle lingue di fuoco. Il sonno mi affondava sordamente, teneramente, nella sabbia seminata d’oro. – Carlo! – chiamò dalla stanza vicina la voce strozzata di mia madre (ivi, cc. 149r-150r).

La chiamata replica la rumorosa entrata in scena della figura materna nella malinconia crepuscolare del figlio al tramonto. Carlo balza fuori dal letto e si precipita nella camera della madre, che trova seduta nel letto con in mano la tazza dell’uovo sbattuto, «atterrita» (ivi, c. 150r) dalla scoperta che il «sapore così amaro» (ibid.) è probabilmente determinato dalla presenza di una strana polvere bianca sull’orlo della tazza. I due si recano in cucina:

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– Ecco, – disse infine con una specie di sollievo. E raccolse con la palma, sull’orlo della tela incerata, un esiguo mucchio della medesima polvere bianca. – È veleno, – disse piano. – Lui vuole sbarazzarsi di me. Da qualche giorno ne avevo il sospetto, – aggiunse, sopra pensiero (ibid.).

Per quanto Carlo provi uno «stupore […] ottenebrato dal sonno» (ibid.) e faccia fatica a raccapezzarsi, la madre lo obbliga a vestirsi e a recarsi in una farmacia notturna per verificare che sostanza sia quella di cui il marito avrebbe lasciato traccia. Messosi in cammino, il ragazzo è talmente stordito che neanche riconosce qualcuno che lo saluta, né riesce ad affrontare la prova del farmacista con convincente nonchalance, anzi lo riprende l’«opprimente disagio che rendeva così faticosi i [suoi] rapporti con la gente» (ivi, c. 151r), lasciando trapelare di essere affetto anche lui dall’inettitudine familiare. Entrato finalmente in farmacia, Carlo dapprima chiede una «compressa per l’emicrania» (ibid.), poi mostra la polvere bianca. Il farmacista risponde che si tratta di arsenico e vuol conoscerne la provenienza; quando Carlo risponde di averlo trovato in cucina, lo invita a fare attenzione, ma poi si limita a osservare il ragazzo mentre esce, «aguzzando gli occhi in una pigra indifferenza» (ivi, c. 152r). Solo in questo momento, di fronte alla vetrina del negozio, il figlio sembra prendere coscienza della gravità di ciò che sta accadendo: «– Veleno, – ripetei fra me, come nel dormiveglia. – Mio padre nasconde il veleno nella tazza. Arsenico. Mio padre e mia madre –» (ibid.). Tornato a casa, un’improvvisa lucidità lo coglie e sempre più comprende come «tutto ciò che avveniva in quella notte era nuovo e privo di senso» (ibid.). La madre, invece, si mette a singhiozzare aggrappandosi a lui e chiedendogli aiuto: «– Ho paura, ho paura, – ella ripeteva, come una bambina, battendo i denti e fissandomi coi suoi occhi trasognati, azzurri» (ibid.). Carlo la accompagna nella camera e cerca, pur goffamente, di confortarla, ma lei gli chiede una ben più ardua prova: – Tu – gridò con violenza, – devi parlargli. Tu glielo dirai, che abbiamo scoperto tutto, che è un assassino, ma che non riuscirà a vedermi morta. Sei un uomo, oramai, tu lo metterai a posto. – E mi fissò con la faccia sconvolta e gli occhi brillanti e magnetici. – Va a letto, ora, figlio, – seguitò. – Domattina ti sveglierò presto, e prima di andare a scuola, gli parlerai, da solo a solo (ibid.).

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Il figlio si sente fiero della responsabilità: freme «d’ansia e di entusiasmo» (ivi, c. 154r), lasciando che l’affetto per la madre lo trascini in fantasticherie nelle quali la salva e la porta via con sé, riproponendosi di «guadagnare la vita» (ibid.) per entrambi. Non tutto si riesce a leggere della scena, a causa della carta danneggiata, ma si comprende che a un certo punto Carlo si addormenta: «Il sonno fu violento e mi parve brevissimo» (ibid.). In realtà, quando la madre lo sveglia dicendogli «Alzati. È di là» (ibid.), è già l’alba:

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Balzai, stordito. Ora ogni desiderio di azione era dileguato col sonno, e sentivo il peso insopportabile del risveglio, e la voglia di rannicchiarmi nel letto, ad occhi chiusi. Ma poi tornai col pensiero alle circostanze presenti, e il nobile impulso di viscere si riprese. Senza neppure pettinarmi, entrai in cucina (ibid.).

Qui tutto è rimasto identico alla sera prima; solo, il padre è rientrato e se ne sta «col cappello ancora in testa» (ivi, c. 155r), mostrando «un certo stupore» (ibid.) quando il figlio chiude la porta dietro di sé, prima di iniziare a parlargli, come concordato con la madre: – Vengo a dirti, – esclamai con voce acuta e febbrile, come un accusatore sorto improvvisamente dal vuoto, – che noi sappiamo quello che volevi fare alla mamma. – Che dici? – egli mormorò, e mi guardò di sbieco, con un vago sorriso sulle labbra umide e sbiancate, tolse il cappello e lo depose sulla tavola, appoggiando sull’orlo le mani (ibid.).

Alcune righe sono illeggibili, ma si riesce ad afferrare, nella vividezza dei dettagli fisici e gestuali, che di fronte all’aspetto miserevole del padre le accuse e le minacce che Carlo gli lancia si tramutano in una «compassione subitanea» (ibid.): «Povero assassino, – mi sorpresi a pensare, – ti è fallita anche questa. Povero assassino mancato» (ibid.). Purtroppo il seguito del confronto tra padre e figlio non è conservato e non siamo resi edotti sulla conclusione della vicenda; abbiamo non più che una mezza carta pesantemente danneggiata, che si può leggere solo nella parte inferiore, dedicata a una «fotografia ingiallita» (ivi, c. 156r) che si trova sulla mensola della cucina. Questa ritrae Carlo bambino, vestito con «alti stivalini, un cappotto di pelliccia e una cuffia di lana e di merletti, più adatta ad una femmi-

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na che ad un maschio» (ibid.)7, mentre i genitori sono compresi in un decoro piccolo-borghese che non lascerebbe presumere la miserabile quotidianità che li attende:

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La madre ancora snella, superba nella sua grazia donnesca, chinava un poco la vita stretta, e sollevava le ciglia sotto il rotondo cappello fiorito. Il padre, compunto, attento all’obiettivo da cui sarebbe partito il “Via” bilanciava su di una mano, con gesto elegante, la canna (ibid.).

Pur sprovvisto del finale, I genitori si distingue dagli altri racconti per l’impietoso ritratto che offre delle dinamiche familiari. Anche per questo, ma non di meno per la connotazione sostanzialmente teatrale della successione delle scene e per il clima tragico degradato a grottesco, si può forse aggiungere ai modelli sinora evocati il Moravia degli Indifferenti, sebbene la versione di Morante possieda una maggiore potenzialità melodrammatica. Al contempo, anche se non possiamo apprezzarne il pieno svolgimento narrativo, è degna di nota la pietas che d’improvviso colpisce il figlio di fronte alla miseria del padre, una linea minoritaria nella narrativa morantiana, sfiorata nell’Isola di Arturo, ma che sottotraccia arriva, come un tardo perdono, alla scena estrema di Aracoeli e, con essa, della scrittura dell’autrice8. Resta inoltre da rilevare che I genitori, con la composizione del già menzionato Ladro dei lumi alle spalle, testimonia delle prime sperimentazioni dell’utilizzo della prima persona. Per quanto il segmento dedicato a Carlo che si addormenta possa far pensare anche a sollecitazioni proustiane sul crescente utilizzo dell’io narrante da parte della giovane Morante, non è un caso che in questo racconto, così come nel precedente ispirato dai racconti materni, il ricorso 7  La precisazione potrebbe far presupporre che l’autrice stia adattando al personaggio maschile una fotografia di famiglia in cui è ritratta lei o una bambina. In precedenza, peraltro, il narratore ha ricordato il suo imbarazzo nel recarsi nella camera della madre «a piedi nudi» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 150r) e con le gambe scoperte, ma, a parte la sua forse superflua pedanteria, il dettaglio sembra possedere una connotazione femminile. Ci si potrebbe chiedere se si tratti di un lapsus autobiografico oppure se in una precedente stesura, invece di un figlio, ci fosse una figlia, come potrebbe suggerire la stessa descrizione della fotografia, in cui l’abbigliamento del bambino è più femminile che maschile (vedi infra). 8  Vengono alla mente anche la «disperazione» e il «rimorso» (Lettere, p. 9) che l’autrice prova in un sogno trascritto nelle Lettere ad Antonio temendo che il padre, di cui si vergogna e che ha cercato di scacciare violentemente, possa essere morto buttandosi dal balcone della sua casa.

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all’autodiegesi sia sollecitato dalle implicazioni autobiografiche delle vicende. È in atto, cioè, un’immedesimazione che favorisce in primo luogo la creazione di personaggi narranti che presentano una forte componente autobiografica; tuttavia, come si è visto in Principessa e Chiesa di Santa Maria. Leggenda, la proiezione autoriale si fa presto più velata e obliqua, secondo un percorso di crescente mascheramento che conduce a quello che nel 1959, con la consapevolezza della maturità, nella risposta all’inchiesta di «Nuovi Argomenti» sul romanzo Morante definirà alibi dello scrittore, ossia il ricorso a un io narrante che, non potendo costituire più la tradizionale voce d’autore onnisciente, si trasforma nel portavoce di una visione del mondo al contempo soggettiva e onesta9. 6.2 Frammenti luttuosi L’idea di coniugare la rappresentazione del rancore coniugale con un oscuro evento luttuoso ritorna in un progetto narrativo che pare non essere andato oltre la prima stesura manoscritta di due diverse versioni dell’incipit, segnate da numerose correzioni e rispettivamente intitolate Il marito di Berta e La vedova (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 209r-211r e 212r-213r), probabilmente della fine degli anni Trenta o inizio anni Quaranta, come suggerisce la presenza di un io narrante che fa da testimone alla vicenda. In entrambi i casi una giovane maestra di un villaggio racconta di come abbia dovuto recarsi a dare la notizia della morte del marito a una donna di nome Berta, riportando nel frattempo alcune informazioni sulla coppia, come il fatto che hanno avuto un figlio in tarda età, morto annegato. La circostanza che nella seconda carta della Vedova si trovi il rimando «(1)» (ivi, c. 213r) a un segmento testuale redatto sul verso, relativo alla morte del bambino, fa pensare che questa stesura preceda l’altra. Nella Vedova, infatti, il decesso per annegamento sostituisce una prima idea secondo la quale il figlio sarebbe «sciaguratamente morto a sette anni perché il fuoco, da uno scaldino gli si era appicciato al letto»

9  «[…] nel momento di fissare la propria verità attraverso una sua attenzione al mondo reale, il romanziere moderno, in luogo di invocare le Muse, è indotto a suscitare un io recitante (protagonista e interprete) che gli valga da alibi» (Pro o contro, pp. 53-54).

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(ivi, c. 213v)10, mentre Il marito di Berta presenta subito la versione del bambino annegato; inoltre, sul verso della c. 213 della Vedova è presente una descrizione del bambino –­ «tutti lo ricordavano quando seminudo e sporco, giocava per le strade, grazioso e bello come una bambina, eppur quasi uguale, nei tratti, a suo padre» (ibid.) – che nel Marito di Berta risulta già inglobata nel racconto, evidentemente frutto di una trascrizione dall’altro testo durante la stesura. Nella Vedova i coniugi sono entrambi stranieri e, dediti al «vizio di bere» (ivi, c. 212r), si lasciano andare a furiose scenate la cui eco arriva sino alle aule della scuola, anche se per fortuna si accapigliano in una lingua astrusa che le orecchie innocenti degli scolari non capiscono; impressionante è, comunque, per la maestra il tono dei litigi: «nella voce di lui c’era tale una rabbia d’odio, e in quella di lei tale una feroce, lamentosa rampogna, che impallidivo» (ibid.) – e siamo ancora, come si può intuire, in prossimità degli scontri dei Genitori. Il frammento, tuttavia, si interrompe prima di dare una qualsiasi sostanza alla narrazione, sebbene si faccia in tempo a notare come l’eleganza stracciona del marito richiami, a ritroso, quella dei mendicanti nella Morte romantica e non di meno costituisca un anello di congiunzione verso la definizione di futuri personaggi, in primis il tedesco-procidano Wilhelm Gerace: Quasi ogni giorno incontravo Soeren, il marito, il quale si toglieva il cappello al vedermi non senza un’orgogliosa, quasi regale signorilità. Era gigantesco, sebbene ormai quasi piegato in due. I suoi capelli, in gran parte bianchi, erano di una lucentezza graziosa, come d’argento misto all’oro. Egli parlava l’italiano assai bene, con un accento vagamente napoletano (aveva imparato l’italiano a Napoli). Berta invece stentava a parlare in una lingua che non fosse la sua: la sua voce era roca e ancora, si sarebbe detto, curiosamente acerba (ivi, cc. 212r-213r)11.

Nel Marito di Berta, il focus si sposta sulla moglie, una straniera arrivata nel paese da molto tempo, ma che ancora parla un italiano 10  Variante di «scaldino» è «braciere» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 213v), che più stringentemente richiama La piccola. 11  Nella descrizione del vecchio Morante ha cassato un dettaglio relativo al colore originario della sua capigliatura che rafforza il suo status di antenato di Wilhelm Gerace: «I suoi capelli alquanto arruffati serbavano ancora, candidi, la lucentezza preziosa di quand’erano stati biondi» (ivi, c. 212r).

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incerto. Nella reazione alla notizia luttuosa, che la maestra con la massima delicatezza le porge, si intravede una commistione di pena e risentimento che evoca lo strazio quotidiano dei Genitori: “Vostro marito… si è sentito male stanotte. È malato.” “Volete dire ubriaco?” ella chiese bruscamente. “No, non ubriaco, malato… malato gravemente. Ha avuto un colpo,” spiegai. “Allora vuol dire che è morto,” ella affermò con crudeltà. Non seppi che dirle. “Avrà bevuto uno dei suoi veleni,” ella seguitò percorrendo la stanza a gran passi con un sorriso disperato. “Sempre voleva bere un veleno, e io fingevo di prepararglielo, e gli davo invece acqua e limone, acqua e bicarbonato. Lui si vantava che i veleni non gli facessero nulla. Son proprio maledetto, diceva, non morirò mai, nemmeno il veleno mi tocca. Quelli della città non capivano, e gli avranno dato il veleno” (ivi, c. 210r).

La maestra trova ciò improbabile, visto che «Le farmacie non danno veleni a nessuno» (ibid.) – e il motivo può richiamare, di nuovo, la memoria dei Genitori. Il racconto, comunque, si interrompe nello spazio di poche righe, dopo un breve cenno alle facoltà premonitrici del marito, che aveva presentito la morte del figlio. Un lutto familiare si riscontra anche nell’altro racconto interrotto La settima figlia (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 55r-60r), acquisito dall’Archivio Morante nel 2016. Si tratta di un manoscritto le cui molte correzioni denunciano che siamo al cospetto di una prima stesura risalente probabilmente al pieno 1940, dato che nel verso di alcune carte si riconoscono passi, anch’essi autografi, di lavori pubblicati in questo anno12. Un ulteriore termine di confronto potrebbe essere 12  Sono cinque le carte che sul verso presentano stralci di lavori del periodo, testimoniando – e non è un aspetto irrilevante – come la giovane Elsa facesse economia persino sui fogli che usava. Nella c. 56v si legge, sotto il numero autografo 16 della pagina, «le porgeva uno scialle ripiegato ad uso di cuscino», variante di una frase dell’ultima scena della Pellegrina, apparso il 12 agosto 1940 su «Panorama», uno degli ultimi numeri prima della forzata chiusura della rivista per ordine del regime fascista: «e ripiegato il proprio scialle a guisa di guanciale, lo depose sul piano della tavola» (Dimenticati, p. 26). Nella c. 57v appare invece un brevissimo segmento relativo alla redazione dei Gemelli («Oggi», 14 e 21 dicembre 1940): «“Antonio” susurrò Pietro», mentre la c. 58v riporta il titolo La pellegrina e una variante dell’incipit del racconto: «“Eccola” – disse la giovane nuora, e subito il suo volto puerile si allungò», seguito da una parola non terminata (forse «parv»), che nella versione a stampa diventa: «–Arriva. Sento i suoi passi, – bisbigliò la giovane nuora sogguardando l’uscio della sala, all’erta; e il suo viso puerile s’intristì» (Dimenticati, p. 17). Nella c. 59v si trova invece il titolo di un reportage uscito su «Oggi», La festa di

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rappresentato dalla pubblicazione il 30 dicembre 1939 su «Storia di ieri e di oggi» del racconto Il gomitolo, che ha in comune con La settima figlia la presenza non solo di una famiglia con sette figli, ma, più specificamente, di una bambina che uno dei fratelli definisce «un’infelice» (Dimenticati, p. 165). Essa, in realtà, più che infelice appare appagata del mondo esclusivo in cui vive, passando tutto il tempo ad avvolgere un gomitolo e balbettare «col suo riso promettente e colmo di stupore […]: – Do-mani andiamo alla pineta!» (ivi, p. 163). Non stupisce, pertanto, che il titolo originale del racconto fosse La figlia minore, mutato forse nella Settima figlia perché meno didascalico. Al centro del racconto, infatti, si trova una minorità che non si limita alla posizione inferiore nella scala di età rispetto ai fratelli, ma descrive uno stato esistenziale di minus habens che costituisce, al contempo, la chiave del privilegiato accesso della bambina in un altrove nel quale le persone, diremmo oggi, normodotate non possono penetrare. Si tratta, come stiamo per vedere, della maggiore eredità che questo frammento narrativo, in apparenza più che marginale, trasmette alla scrittura a venire di Morante. Nonostante il titolo, a occupare – quantitativamente – la scena del racconto è più la madre che la figlia, come si nota sin dall’incipit: «Tutti ricordano quanto Anna Carmeli fosse bella da fanciulla» (ivi, c. 55r). L’utilizzo dell’indicativo presente pare suggerire che da tale tempo remoto si passerà nel corso della narrazione a un livello temporale più prossimo, con un correlato spostamento del focus diegetico sulla figlia, ma si tratta di un’ipotesi che l’interruzione del testo all’altezza della sesta carta del manoscritto non consente di verificare. Quale che fosse il possibile sviluppo della storia, la voce narrante, per quanto non appaia come personaggio, fa parte della comunità in cui la vicenda si è svolta e ancora sopravvive la memoria della Anna quindicenne13. Santa Maria con la firma di Antonio Carrera, seguito però da un inizio alternativo a quello apparso sul rotocalco. Dopo l’epigrafe che definisce il luogo – «Santuario del Divino Amore, Domenica di Pentecoste», il testo prende avvio con una modalità didascalica che sarà abbandonata nella versione definitiva del lavoro: «La Madonna del Divino Amore prende questo titolo dallo Spirito Santo, cioè appunto dall’Amore Divino; per questo la sua festa cade il giorno di Pentecoste» («Oggi», 25.5.1940, p. 15). Nel verso dell’ultima carta della Settima figlia si trovano solo tre parole: «Di quel tempo» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 60v). 13  Da notare, al riguardo, la cassatura dell’integrazione «eccetto me» (ivi, c. 55r), che avrebbe trasformato la voce narrante in un più esplicito personaggio testimone.

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Questa possiede alcuni tratti inquietanti volti ad assimilarla alle altre adolescenti dei lavori giovanili della scrittrice: «una tale bellezza non era di quelle da far pensare all’amore, ad una casa, ai figli. C’era in lei qualcosa di freddo e di strano, un colore, si sarebbe detto, non di questa terra» (ibid.). Tuttavia, a rendere diversa Anna dalle sue coetanee morantiane è il fatto che è dotata di una «grazia» (ibid.) che la ingentilisce, malgrado si vesta di stracci, e di una finezza fisica che si nota già dai piedi, «delicati e bianchi» (ibid.), sebbene non possa permettersi un paio di scarpe. A completare la sua eleganza stracciona, Anna ha folti «capelli color miele» (ibid.) e «occhi allungati e grigi» (ibid.), per cui il «pallore delle membra esili» (ibid.) non è insano, ma è piuttosto il segno di un’innata signorilità che traluce, senza effetti di ridicolezza, dall’«alterigia» del suo portamento: Anna teneva le labbra dischiuse, il collo proteso avanti, quasi per cogliere una voce, o un messaggio. Veramente, ella non aveva innamorati ed era, nella sua povertà, così libera e regale, che forse aspettava proprio una notizia inaspettata, un messaggio venuto chi sa da dove che avrebbe trasformato a un tratto la sua vita. Lei stessa, seppure inconsciamente, se lo prometteva; aveva solo quindici anni, e la vita le faceva intorno un confuso, turbinoso rumoreggiare. Ma certo da quel disordine di suoni un giorno si sarebbe staccata una bellissima frase, udibile solo dall’orecchio di Anna, e cantabile solo da lei. Tale era l’inconsapevole fiducia che rendeva la bellezza di Anna così preziosa, e così pura (ivi, cc. 55r-56r).

L’intervento onnisciente della voce narrante segna il passaggio dalla descrizione iniziale alla vicenda vera e propria, come perlopiù accade nei racconti morantiani, anche se in questo caso l’intreccio non è privo di forzature nel descrivere la drastica trasformazione di Anna da ammaliante adolescente in prolifica madre di famiglia. Di tale processo è responsabile l’entrata in scena di Felice Andurro14, che possiede «una ricca bottega» (ivi, c. 56r) e prende in moglie Anna, di cui si è innamorato a vederla «passare così alata e pigra insieme, e così fragile e superba» (ibid.)15. La gente mormora, pensando alla ricchezza che 14  Si tratta, a conferma della datazione avanzata del testo, dello stesso nome del protagonista del racconto La giornata, apparso su «Oggi» il 30 novembre 1940 e ripubblicato nello Scialle andaluso come prima parte della doppia storia intitolata Andurro e Esposito. Inizialmente Morante aveva scritto «Tranci» (ivi, c. 56r), ma subito corregge con «Andurro» (ibid.). 15  Interessante una correzione nella scena in cui Felice si reca dal padre di Anna a chiederla in sposa: «E un giorno lo si vide, vestito a festa chiudere l’uscio della bottega e

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ricadrà sulla fanciulla: «Adesso ne avrà, di scarpe, Anna che non ne ha mai portate! Ne avrà quante ne vuole!» (ibid.). Le nozze si rivelano invece felici: calzando «due stivalini di capretto» (ibid.) e vestita di «una gonna verde a pieghe, una camicetta bianca e il busto» (ivi, cc. 56r-57r), in breve Anna diventa «una bottegaia esperta» (ivi, c. 57r) e con la sua abilità compensa l’«aria un po’ stregata» (ibid.). Fattasi via via «più grassa e rotonda» (ibid.) e divenuti i suoi occhi ­– con citazione sabiana – «mansueti come quelli di una giovenca» (ibid.), Anna si dimostra un’«eccellente massaia» (ibid.) e partorisce sei figli, maschi e femmine, che «si assomigliavano tutti l’uno con l’altro» (ibid.), avendo preso dal padre il corpo tozzo e il «sorriso mite e gioviale» (ibid.). Scoccato il decimo anno di matrimonio, Anna partorisce una settima figlia destinata a essere ben diversa dai rubicondi fratelli: I primi tempi, vedendola crescere così diversa dai fratelli, Anna provava stupore. Ma poi si abituò, né del resto aveva il tempo di badare a simili cose. Provvedeva a che la bambina fosse, come gli altri sei, pulita, avesse le scarpe e il vestito della festa e, all’ora debita, facesse merenda. E non la trattava né meglio né peggio degli altri, come appunto deve fare ogni buona madre. La settima figlia era magra e piccina, con fragili membra e tenerissime giunture. Aveva riccioli pesanti, e così neri che al passaggio delle luci riflettevano un color giacinto. Il volto era minuto e pallido, e gli occhi di un celeste vivo osservavano tutti, fin da principio, con attenta serietà; la sera, vedendoli dormire, ci si figurava nascosto sotto le palpebre il loro splendore, come di minuscoli fiori chiusi nelle loro foglie. Prestissimo, la bambina imparò a camminare [e] a parlare. Seguiva la madre per tutte le stanze, con passetti lievissimi e frettolosi; ma Anna, occupata nelle sue faccende non badava troppo a lei. Così che ella chiacchierava sempre da sola nell’incomprensibile linguaggio dei bambini a quell’età. Doveva parlare di sé, perché spesso nei discorsi ripeteva il proprio nome: Ida, ed era questa l’unica parola che si capisse. Quando fu più grande, la madre, non volendo portarsela sempre dietro, le diceva di andar fuori a giocare con gli altri fratelli. Ella ubbidiente usciva, ma invece di giocare si sedeva sullo scalino della bottega, a continuare i suoi discorsi fra sé. Alternava i discorsi con risate simili a gorgheggi, e nel dire il suo nome Ida, la sua voce si empiva di un tenero e canoro tripudio; e mai prima, era parso così gentile quel nome (ivi, cc. 58r-59r).

scendere giù per la via carrozzabile» (ibid.). «Vestito a festa» inizialmente si trovava dopo «via carrozzabile»: la correzione rende bene l’idea delle accresciute abilità di gestione del racconto di Morante, che si rende conto che la prima cosa che avrebbe colpito i testimoni sarebbe stato l’abbigliamento del bottegaio che chiude il negozio.

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Distratta dalle troppe occupazioni, Anna un giorno d’estate prepara ai figli una merenda con del cibo avariato del giorno precedente: «i bambini qualche ora dopo furono messi a letto con febbre e dolori acuti. Tutti guarirono, salvo Ida la quale, più piccola e più delicata, morì» (ivi, c. 58r). Qui la narrazione termina bruscamente, forse anche perché Morante non sembra ben decidersi su quale figura elevare a effettiva protagonista della storia: la figlia Ida o la madre Anna. L’abbandono del progetto avviene prima che il dramma familiare possa pienamente dispiegarsi, ma non per questo La settima figlia cade nell’oblio d’autrice. Non solo un’altra madre di nome Anna farà la sua comparsa non molti anni dopo in Menzogna e sortilegio16, ma soprattutto, come forse è persino superfluo rimarcare, è grande la suggestione che il nome ‘Ida’ esercita17. Soprattutto, guarda alla memoria poietica di lunghissimo periodo di Morante l’immagine della bambina concentrata nei suoi allegri gorgheggi, che altro non sono, a ben vedere, che una manifestazione particolarmente acuta di quel distacco dal mondo reale che la stessa apparenza – «alata e pigra» – di Anna adolescente lasciava presagire: un’eredità materna che nel racconto non si fa in tempo ad apprezzare, ma che tornerà nella genealogia di Ida e Useppe nella Storia. Si potrebbe affermare, quindi, che da questa antica figlia minore di nome Ida si produrrà nel romanzo del 1974 una scissione in due diverse figure, tra di loro, peraltro, visceralmente unite. Da una parte, il nome si sposta sulla madre Ida Ramundo vedova Mancuso, contraddistinta da una sorta di condizione di minorità cognitiva che le garantisce però l’accesso, sacrale, 16  Il protendere del capo di Anna può ricordare la descrizione che nella pagina iniziale di Menzogna e sortilegio Elisa fa dei suoi «occhi grandi e accesi, che paion sempre aspettare incanti e apparizioni» (Menzogna, p. 11). Una simile postura di attesa, che è non solo fisica, ma proprio esistenziale, è inaugurata dalla filastrocca Rosettina alla finestra («Il cartoccino dei piccoli», 25 marzo 1934): «Chi mi conosce? | Sto sempre affacciata, perché | aspetto il figlio del re» (Caterì, p. 120). 17  Il nome, in realtà, appare già nei quaderni infantili. Nel primo, Ida è la protagonista della poesia Come è brutto studiare che inizia con una vera e propria didascalia teatrale: «(Ida una bimba di otto anni. La scena rappresenta una stanza da letto)» (A.R.C. 52 IV 2/1, c. 13v), dopodiché segue la lamentatio della bambina che non vuole andare a scuola, finché la mamma la chiama e «Allora Ida si alza | e cala la tela» (ivi, c. 14v). Nel secondo, Ida è invece, insieme a Marcella, una delle due bambine proprietarie di bambole che appaiono nel Primo libro della piccola Elsa; in particolare, nella prima scena, le due aprono i regali di Natale, ma mentre Marcella ha ricevuto un’altra bambola in dono, Ida ha ricevuto un teatrino che dà l’idea del diverso livello della sua vis creativa nei giochi con la compagna.

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al divino e all’eroico18; dall’altra, il «tenero e canoro tripudio» dei gorgheggi di Ida definisce una linea di infante ‘idiota’ che arriva sino alle poesie naturali di Useppe19, legando alla fondativa allegria della sua minorità psichica l’impossibilità di una lunga permanenza sulla Terra. Da questo punto di vista, peraltro, non meno indicativo è il comune possesso di «occhi di un celeste vivo» con i quali Ida, come il futuro pischello romano, scruta attentamente il mondo che la circonda e con la sua allegria segreta, a ben vedere, sembra già dell’idea che «tutto è uno scherzo» (Storia, p. 509).

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6.3 Primi amori I Un’altra linea tematica di cui i documenti disponibili presso l’Archivio contribuiscono ad articolare le radici nella parabola letteraria di Morante consiste nella scoperta della forza dirompente della passione amorosa da parte di ragazzi adolescenti. Il dato più appariscente di questo filone, che prelude a non pochi personaggi dei romanzi della maturità, è che i due racconti che lo compongono recano lo stesso titolo, Primo amore, al pari di un episodio del Giardino d’infanzia, più precisamente Il primo amore («Oggi», 20 gennaio 1940), la cui protagonista è però una Elsa che frequenta la terza ginnasio ed è alle prese con un innamorato non meno goffo di lei20. La ricorrenza del titolo, peraltro, mostra come la scoperta dell’amore negli anni dell’adolescenza sia un tema costantemente al centro dell’interesse narrativo dell’autrice. Il lavoro più precoce (A.R.C. 52 I 1/4.1, cc. 1r-17r) è stato recuperato con la donazione del 2007 e consiste di una copia manoscritta datata marzo 1937, di un mese successiva, quindi, se riteniamo attendibili le indicazioni cronologiche autografe, alla stesura dei Genitori. In effetti, la vicenda ha luogo in «zone limbali tra sogno e veglia»21 18 

Cfr. Porciani, Eroismo, nazione e femminile cit., pp. 355-360. Il termine ricorre esplicitamente nel Gomitolo, quando Teresa, la figlia forse affetta da autismo, viene così appellata dalla dama aristocratica che fa beneficenza alla famiglia: «– Ah, poverina, è idiota, – sussurrò, piena di compassione, la signora» (Dimenticati, p. 165). 20  Un qualche rischio di confusione tra i testi è testimoniato dal fatto che nel medesimo fascicolo del più precoce Primo amore è conservato anche l’incipit manoscritto del testo apparso di «Oggi» (A.R.C. 52 I 1/4.1, c. 18r). 21  Contini, Elsa Morante: autoritratti d’autrice cit., p. 165. 19 

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simili a quelle che si riscontrano nelle pubblicazioni del biennio 19371938 del «Meridiano di Roma», ma anche nel già citato Due sposi molto giovani («I diritti della scuola», 10 agosto 1937), sebbene l’estiva ambientazione meridionale possa richiamare gli scenari di Qualcuno bussa alla porta. Protagonista è un adolescente di nome Paolo, recatosi in villeggiatura appena ottenuta la licenza «dopo molti anni di studio e di clausura in collegio» (A.R.C. 52 I 1/4.1, c. 1r), in una località che si affaccia su un bellissimo golfo, presso la vecchia zia Principessa Isotta, semiparalitica e in eterno lutto per la morte del figlio ancora bambino. Una simile prostrazione si trasmette anche al paesaggio, come si nota a proposito del giardino che circonda la sua vetusta «villa, dipinta di un colore arancio sbiadita, con le persiane brune chiazzate dal sale» (ivi, c. 2r) e, «angusto, addormentato», suscita «curiosità ed ansia» (ibid.): La madre e il giardino si erano fermati al giorno di quella morte, e avevano conservato in sé, come ricordo, un senso d’infanzia non conclusa. Fra le piante e gli alberi mozzati dal giardino, si vedeva ancora un triciclo arrugginito, che le piogge e il secco avevano in parte immerso nella terra; e, più in là, un cavallo di legno fradicio, quasi ingoiato dalle piante che gli crescevano intorno, e battevano sul suo muso senz’occhi nelle giornate di vento. Questi oggetti solitari avevano acquistato dal lungo soggiorno nel giardino una bizzarra vita, fra animale e vegetale. Il triciclo pareva uno spirito oscuro, una specie di grillo gigantesco; e il cavallo, marcito e tormentato, aveva nel muso una tragica mansuetudine, e pareva affondare, dimentico di ogni galoppo, nella melma della sua cecità (ivi, c. 3r).

La descrizione ricorda per certi versi quella che apre Il giuoco segreto («Meridiano di Roma», 13 giugno 1937), dove sono invece la piazza del paese con la fontana barocca inaridita e il palazzo fatiscente della famiglia aristocratica decaduta a dare il tono della vitalità repressa dei ragazzi protagonisti, destinata a risvegliarsi nel loro teatro notturno. Una simile corrispondenza fra paesaggi e vicende si riscontra anche in questo Primo amore, in cui i luoghi – letteralmente – si rianimano mano a mano che Paolo, con il destarsi della sua passione, conferisce loro linfa vitale, come si nota già quando il primo giorno si reca al mare e, «desideroso di avventura» (ivi, c. 3r), esplora «il margine montuoso della costa» (ibid.). Qui scopre l’esistenza di «un avanzo antichissimo, una specie di tempio sorretto da due colonne»

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(ivi, c. 4r) nella quale spicca la statua mutilata di un putto22, che vorrebbe seppellire «preso da pietà per lui» (ibid.), sennonché, insofferente dell’immobilità, presto desiste e decide di rimettersi in moto. Si imbatte così in colei che muterà le sorti della sua villeggiatura: Scendendo, egli fece un incontro; una ragazza magra, piuttosto piccola, munita di una grande borsa di tela ricamata, saliva lungo il viottolo. Era pallida, ed infatti la salita doveva esser faticosa per lei, che, come Paolo notò subito, zoppicava pietosamente. Con un visibile sforzo di muscoli, ella trascinava su per le rocce la sua gamba malata, ed il suo viso era ricoperto di sudore. Aveva una treccia nera intorno alla testa, e gli occhi celesti e attenti. Le sue labbra erano grandi, fresche e molto rosse. Il polso era fragilissimo, ed anche le braccia nude davano un senso di debolezza e di fragilità. Le unghie, nonostante ella fosse ancora quasi una bambina, erano smaltate di vermiglio, e parevano spini selvatici (ivi, cc. 4r-5r).

Quando Paolo, arrossendo, si offre di accompagnarla, la reazione della fanciulla, che presenta tratti tipici delle adolescenti morantiane come il pallore e le trecce e che scopriremo chiamarsi Liuba23, è tutt’altro che incoraggiante: «parve offesa di questa proposta, perché scosse le spalle, e sollevò gli occhi adirati su Paolo» (ivi, c. 4r). Dopo aver pronunciato alcune parole in un’incomprensibile lingua gutturale, volta le spalle e se ne va. In effetti, Liuba mantiene nei confronti del ragazzo un atteggiamento ambivalente che lo estenua: a tratti sembra cercarlo, a tratti fa mostra di evitarlo. L’ambascia di Paolo si fa più opprimente nelle ore notturne, trascorse a peregrinare 22  Il putto sembra costituire una sorta di prima prova della gigantesca scultura che si ritrova nel ciclo angelico: «Rappresentava un putto informe, senza gambe né braccia, fatto di una pietra così bruna e porosa da parer terra. Molti dei suoi riccioli, accuratamente lavorati, erano stati spezzati dal tempo; negli occhi le pupille in forte rilievo guardavano con una curiosità piena di languore. Le guance erano tonde e piene, e il naso, purtroppo, corroso e quasi distrutto; ma le labbra infantili, un po’ gonfie, sorridevano senza aprirsi con misteriosa malignità ed innocenza. Sul dorso, apparivano ancora due moncherini di ali, eccessivamente piccole rispetto al corpo e, più in basso, un tatuaggio incomprensibile, che forse raffigurava un insetto: scarabeo o coccinella» (A.R.C. 52 I 1/4, c. 4r). 23  Il nome sarebbe entrato di lì a poco nella storia della letteratura italiana con la poesia montaliana A Liuba che parte, dedicata all’amica Ljuba Blumenthal. Più difficile motivare la scelta del nome in questo racconto; si possono ipotizzare la fascinazione dell’assonanza amorosa con Liebe o la reminiscenza del Giardino dei ciliegi del prediletto Čechov, dove Ljuba è il diminutivo di Ljubov’ Andreevna Ranevskaja, la proprietaria decaduta del giardino.

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in un paesaggio che l’oscurità rende misterioso e inquietante. Una notte, egli è convinto che, comunicando a gesti, Liuba gli abbia dato appuntamento presso il tempio in rovina che si erge nei pressi della villa della zia, ma le aspettative sono destinate ad andare deluse: Passarono innumerevoli attimi, e ancora non si vedeva Liuba. Spesso Paolo, tendendo l’orecchio, credeva di sentire un passo leggero e strisciante nel suono delle ondate. Era soltanto la notte che saliva dalla terra, e camminava sull’acqua. Atterrito, Paolo seguiva il camminare della notte. Una tristezza sorda e senza pace lo tormentava in quell’attesa. Finalmente, dietro una rupe tozza e bassa, simile ad un tronco privo di rami, vide Liuba. Era vestita di una stoffa leggera e chiara, un velo che si agitava leggermente, malgrado l’immobilità dell’aria. Egli, in piedi, chiamò: Liuba! – Uba! – riecheggiarono le rupi. E poi, sempre più fievole e lontano: Uba! Uba! – La fanciulla non si vedeva più. Egli corse avanti. Eccola riapparire fra due rupi altissime, simile a due arboree colonie di corallo. – Liuba! – gridò precipitandosi verso quel luogo. Ma, nel gridare ripercosso dagli echi, ella gli apparve più lontana, in mezzo a giganteschi fiori di pietra. La fanciulla si nascondeva e riappariva, silenziosa e veloce, ed egli l’inseguiva per la foresta di pietre, che improvvisamente gli parve sterminata. Non riusciva a raggiungerla; e se la chiamava forte, le voci sonore delle pietre ripetevano il suo nome, così che ella certo si smarriva per seguire quei richiami ingannevoli (ivi, cc. 11r­-12r).

All’alba Paolo rientra a casa e si corica, per poi svegliarsi a tarda ora con l’ansia di aver sprecato un’intera mattina di compagnia della fanciulla, che ritrova comunque al mare. Qui, per un improvviso sollevarsi della veste, si scopre il ginocchio deforme di Liuba: «Arrossendo tutta in una violenta angoscia, ella si affrettò a coprire con la veste la gamba nuda» (ivi, c. 13r). Paolo prova un commosso turbamento: «Smarrito, sentendo di tremare, egli si curvò appena, e, sollevata con la mano la leggera veste, appoggiò le labbra devotamente sul ginocchio malato» (ibid.). L’effetto, però, è l’opposto di quello desiderato: «Ella distolse lo sguardo, nemica. Le sue ciglia si corrugavano, le sue labbra tremavano convulsamente. Impallidendo in un odio improvviso, gli dette uno schiaffo e si alzò, per avviarsi verso il suo albergo» (ibid.). Invano Paolo la chiama: Liuba non torna indietro. Tutta la giornata trascorre in un’inquieta sofferenza che culmina in un lungo e articolato sogno erotico, in cui la giovane entra nella camera del ragazzo:

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Paolo vide subito che la fanciulla era nuda. Non portava che un cencio legato alla vita, che, scendendo, le copriva la gamba sinistra. Aveva, come al solito, le sue trecce attorcigliate attorno al capo, e fra le braccia portava un bambino in fasce, coperto da un mantello e da un cappuccio (ivi, c. 14r).

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Paolo invita Liuba a coprire i suoi seni, ma, quando lei gli sorride «con aria di intesa» (ibid.), Paolo capisce che sta per allattare il bambino, che però si rivela una creatura più inquietante del previsto: Guardando meglio, Paolo si accorse che quel bambino era l’angiolo monco del tempio. Le fasce nascondevano le sue mutilazioni, ed appariva soltanto, sotto il cappuccio, la sua testa color terra. Liuba copriva quelle labbra ferite e un po’ gonfie di baci amorosi, e teneramente strisciava con le proprie guance contro le guance nere del bambino (ivi, cc. 14r-15r).

Si tratta della prima sequenza onirica della Morante scrittrice di storie per adulti in cui si possa riconoscere, per i residui diurni e il forte simbolismo, una familiarizzazione in corso con la Traumdeutung freudiana. Assumendo le sembianze del putto che si trova nel luogo dove Paolo avrebbe voluto incontrare Liuba e congiungersi con lei, il bambino onirico sembra rappresentare, più che la deformità di Liuba, il frutto mostruoso di un amplesso desiderato da Paolo, ma doppiamente proibito: dall’indifferenza dell’amata non meno che dalle convenzioni sociali. Che il sogno esprima il desiderio ambivalente di Paolo è reso persino più evidente dal fatto che egli grida a Liuba che vuole essere «la [sua] treccia, il [suo] ginocchio malato» (ivi, c. 15r), mosso da «compassione e paura» (ibid.), finché non riesce più a guardarla direttamente e solo la osserva svanire nella superficie di uno specchio. L’ultimo giorno, infine, Paolo assiste disperato alla partenza della ragazza con la madre, lanciandosi persino all’inseguimento della carrozza che conduce via le due. Il finale sancisce il passaggio che l’esperienza d’amore ha determinato nella sua vita, ponendo fine alla sua innocenza: Finalmente si gettò bocconi sul ciglio della via, e nascose contro il suolo il viso coperto di sudore. Per non gridare, si riempì la bocca di terra, e fu preso da uno stupore inconscio per quel sapore selvaggio e amaro. Penetrò con le unghie nel terreno, e gocce di sangue gli spicciarono di sotto l’unghia.

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Le sue spalle sobbalzavano, e gli pareva che orde di cavalli lo calpestassero in corsa, coi loro zoccoli arroventati. Intanto un lunghissimo tempo della sua vita, giovinezza o infanzia, si perdeva per sempre in quel golfo, sotto quel cielo silenzioso (ivi, c. 17r).

Quando leggiamo nella parte iniziale del racconto che «il tempo era mutevole» (ibid.), sembra questa una perfetta descrizione del racconto stesso, che alterna il giorno e la notte, lo psicologismo novecentesco e una tentazione fantastica che, per le bizzarre metamorfosi del regno vegetale e animale, si muove fra i meandri del surrealismo e del gotico per esprimere la potenza totalizzante dell’eros. Se I genitori mette in scena il cronotopo soffocante della casa familiare per mostrare l’oppressione che grava sul figlio a causa dell’odio incancrenito del padre e della madre, in questo Primo amore gli scenari meridionali e la materia romanzesco-sentimentale di Qualcuno bussa alla porta sono convertiti in una palpitante crescendo di corrispondenze fra i luoghi e i sentimenti del protagonista. Soprattutto colpisce la caratterizzazione simbolista del paesaggio, dai cromatismi ora sfumati ora accesi che accompagnano la contrapposizione tra l’atmosfera nebbiosa del viaggio e delle notti e l’assolata estate in cui la vicenda ha luogo, immersa in un’indefinitezza geografica che tuttavia mostra un forte carattere mediterraneo, mostrando quanto la fascinazione del Sud sia persistente in Morante perlomeno sino all’Isola di Arturo. Già durante il viaggio sul piroscafo – altra costante che si accompagna alle ambientazioni meridionali – Paolo «si guardava intorno col gaudio stupefatto che dà alle creature giovani la presenza dell’infinito» (ivi, c. 1r), secondo una sensibilità romantica che mette in corrispondenza gli ambienti della vicenda con i sommovimenti interiori dell’adolescente: «Il pomeriggio di luglio si era volto alla tempesta; le nubi di un colore violento e rugginoso pesavano sui cavalloni gonfi, che sollevavano in cima le barche» (ibid.). In seguito, i giorni accesi e afosi sono pervasi di una definitezza quasi metafisica, come lascia intuire la sinestesia della «luce pesante» (ivi, c. 14 r) e si alternano alla nebbia notturna che, alimentandone l’ossessività, avvolge il desiderio di Paolo. Evidenti sono poi alcuni dati autointertestuali. La malformazione di Liuba inevitabilmente ricorda quella della protagonista della Piccola, a conferma che si tratta di un motivo che in qualche modo ossessiona Morante, ma che, alla luce della relazione da poco iniziata

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con Alberto Moravia, potrebbe anche costituire una trasposizione, rovesciata nella ripartizione di genere, della tubercolosi ossea di cui lo scrittore fu colpito da ragazzo. In ogni caso, la commozione di Paolo di fronte al ginocchio di Liuba, più che evocare un sospetto di feticismo, sembra voler esaltare la forma di devozione assoluta che l’amore assume per Morante dalla parte di colui o colei che ama, a cui risponde tuttavia la volubile ineffabilità dell’amato o amata; a questo, del resto, alludono l’impenetrabilità linguistica della ragazza e le sue intermittenti apparizioni e fughe nella percezione allucinata di Paolo. Il rincorrere il fantasma della propria amata, che appare e scompare in luoghi resi sempre più immaginosi e fantastici dalla propria angoscia, sembra invece echeggiare la disperazione di un altro innamorato abbandonato, ossia il pittore della Casina rossa, che, forse non a caso, si chiamava anch’egli Paolo e di cui il protagonista di Primo amore ripropone il romanticismo melodrammatico mutuato da Cime tempestose. 6.4 Primi amori II Di tutt’altro tenore è l’altro Primo amore (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 225r-252r), che fa parte della donazione del 2016 e il cui titolo originario, riconoscibile sotto la cancellatura, è Giuditta, dall’evocativo nome della donna amata da protagonista24. Il racconto è conservato in forma dattiloscritta con poche correzioni autografe in due copie: la prima (cc. 225r-238r) appare la più avanzata perché, oltre ad aggiungerne altre, ingloba le correzioni presenti nella seconda (cc. 239r-252r). Riguardo alla datazione, si può ritenere che il racconto sia piuttosto tardo, innanzitutto in virtù della presenza di un personaggio-narrante che, retrospettivamente e senza particolari intrusioni commentative, mantiene la focalizzazione sulla propria interiorità mentre, riguardo agli altri personaggi, si limita a mostrare i comportamenti e a riportare le parole tramite il discorso diretto. Sospingono inoltre la datazione verso i tardi Trenta il netto utilizzo del ‘voi’, 24  Si ricorderà che nel racconto Lo scialle andaluso, pubblicato nel 1953 su «Botteghe oscure» e poi nella raccolta del 1963 a cui dà il titolo, la madre danzatrice si chiama Giuditta. Sulla storia redazionale del racconto, che prende origine da un segmento del romanzo interrotto Nerina, cfr. Giuliana Zagra, La tela favolosa, Carocci, Roma 2019, pp. 83-106.

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il sistema di sillabazione con la barra obliqua, che pone il racconto in una posizione contigua alla revisione di Chiesa di Santa Maria. Leggenda e a Divorzio, e un caso di autointertestualità. L’immagine «sembri mangiato dalle streghe» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 234), che viene rivolta dal suo interlocutore al protagonista per descriverne lo stato febbrile, ricorre simile in Peccato originale, racconto di sapore etnografico pubblicato sul «Meridiano di Roma» il 14 gennaio 1940. Qui della giovane contadina al centro della vicenda si narra infatti che una notte «le streghe le avevano mangiato l’anima» (Dimenticati, p. 167). Anziché un giovane di buona famiglia che si accende d’amore, in un’estate al contempo vitale e inquieta, per una misteriosa fanciulla straniera, protagonista è un ragazzo di campagna che, compiendo le sue prime esperienze sessuali in un bordello, si innamora di una prostituta e va incontro a una cocente delusione nel momento in cui comprende che lei gli preferisce un giovane più altolocato e danaroso. La vicenda prende inizio quando un sabato di vacanza, coi soldi della nonna, il ragazzo si reca insieme a un compagno più grande e smaliziato in una casa chiusa, una delle mete che la città col suo «favoloso […] numero dei luoghi e delle voglie» (ivi, c. 226r) offre per divertirsi – e si noti, di nuovo, l’aggettivo ‘favoloso’, che qui apre all’atmosfera incantata del racconto, ma anche mostra, dalla prospettiva adulta del racconto, l’ingenuità adolescenziale del personaggio. I due sono accolti, dopo aver suonato il campanello con una sequenza in codice che accentua il misterioso fascino del luogo, da «un’alta signora coi capelli bianchi» (ibid.), che li conduce in una saletta attigua, dal basso soffitto dipinto con «pargoli e nubi» (ibid.) che volano. È questo un ulteriore segnale dell’aura favoloso-romanzesca che avvolge la scena agli occhi turbati del giovane e prepara il teatrale ingresso, da dietro una tenda che funge da quinta, di quattro «splendide fanciulle» (ibid.) che, più che prostitute, appaiono delle vere e proprie odalische: La prima, florida e grande, era soprattutto amabile per il suo tenero sottogola e i larghi occhi docili. Sui capelli biondi e gonfi, dei quali aveva tagliato sulla fronte una frangettina, portava un minuscolo cappello cinto di lente piume. L’abito di velluto, di colore antico, era stretto di cintura, mentre la gonna sontuosa oscillava placidamente. Le braccia erano nude, e un bracciale d’oro che la cerchiava più su del gomito certo faceva male a quella carne gentile appena macchiata di rosa. Fra due dita ella stringeva una piuma lunga con cui si sventolava.

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La seconda, magra, dai lunghi e sottili piedi, aveva un viso bruno come terracotta con labbra argute ed occhi opachi, che essa aveva dipinto di colori imitando le maschere. Un folto, ardente arancione copriva le gote, la bocca era violacea, gli occhi circondati da una tenebra turchina. La gonna rossa, dalle moltissime pieghe, era ampia e faceva pensare alle foreste d’autunno. La terza, bionda, era tutta artificio e smorfia, e pareva una bambola/paralume. Il suo abito di stoffa leggera e trasparente come scorza di cipolla era intessuto di arabeschi, sotto lunghi fili tremolanti ammiccavano le pupille, il piedino insensibilmente danzava. Questa appena appena sorrise. La quarta era vestita di nero. Una stanchezza infantile, proprio come di bambina che ha troppo camminato e ritorna trascinandosi dietro il giocattolo, le piegava in giù le labbra un po’ gonfie, le spalle strette e rotonde, le faceva pesare i ginocchi. L’abito era così scollato che spuntavano al passo, di quando in quando, le punte rosse delle mammelle. E anche queste erano stanche e molli nella loro piccola forma; e gli occhi avevano uno sguardo, come dire, furbesco, eppure umile come quello di un cane. C’era in lei una qualche cosa che si ritrovava eguale nelle parti più diverse, per esempio nelle mani grassocce e pallide, nel piccolo naso, nella caviglia e nella bianchissima pelle del dorso. Io non potrei certo definire questa cosa, ma ritrovandola si tremava all’incontro come quando si bacia un amico. O mia cara (ivi, cc. 226r-227r).

Il ragazzo si sente tramortito di fronte a tale abbondanza, «come un imperatore quando le mille spose gli sfilano innanzi» (ivi, c. 228r), e timidamente sceglie l’ultima delle quattro, Giuditta, colpito dalla sfuggente poeticità del suo erotismo, che meglio si confà, come capiamo, alla sua fervente immaginazione. Giuditta lo conduce nella propria camera, dove si spoglia sorridendo «coi dentini radi, sciupati» (ibid.)25 e, sebbene il testo non ne tratti in maniera esplicita, evidentemente ha un amplesso col ragazzo, che perde così la verginità. Anche per questo, i difetti fisici della giovane donna non impediscono che egli rimanga ammaliato da lei. Una volta fuori dal bordello, si sente offeso, infatti, dal commento grossolano del compagno che, irridendo la sua goffaggine, gli dice che non ha «buon discernimento» (ibid.), avendo disdegnato la prima ragazza, la più bella delle quattro, ossia la formosa Angelica. Il giorno dopo, convinta la riluttante nonna ad anticipargli la paga settimanale, il protagonista torna nel bordello, da solo e dopo aver 25  Il dettaglio dei denti radi potrebbe peraltro adombrare una proiezione autobiografica nella descrizione del personaggio, riconnettendosi alla rappresentazione dell’eros femminile di cui si è trattato nel quarto capitolo.

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bevuto. Ripete il rito del campanello e di nuovo, introdotto dalla cameriera, si trova di fronte alla tenutaria, che gli chiede se desideri Giuditta. Il giovane subito risponde di sì, pur tenendo a far sapere alle altre che non è perché le disprezzi, bensì perché queste «sono uccelli del Paradiso, ma Giuditta è una rondine» (ivi, c. 229r) – e l’enfasi del complimento è già indicativa del tono dei discorsi che egli terrà di fronte alla fanciulla. La signora, celando il compiacimento dietro parole di modestia, chiama Giuditta e questa si affaccia dalla solita tenda guardando il ragazzo con una «furbizia» (ibid.) che subito stride con l’atteggiamento rapito di lui. Sebbene non sia detto esplicitamente, i due si appartano nuovamente nella camera di Giuditta, che chiede al ragazzo se, visto che è tornato, la ami; la risposta che egli dà è nello stesso tempo ingenua e immaginosa: “Amore,” dissi, “amore è mistero. Come indovinarlo subito? ma prima di ieri nessuna donna era entrata nella mia vita, esclusa mia nonna che certo non conta. Ecco che da ieri io so che cosa significhino un bacio, una camicia con ricami vista da vicino, e mi pare un sogno. Sì, perfino gli abiti da signora e le scarpette chiuse nelle vetrine da ieri mi fanno quasi tremare, devo dirtelo. In ognuna di quei vestiti potresti esserci tu, quelle scarpette sono giuste per il tuo piede” (ibid.).

Forse l’accenno alla nonna non era così necessario, anche se di nuovo potrebbe suggerire, nell’intenzione dell’autrice, l’adolescenziale sincerità del protagonista; di certo, la reazione di Giuditta appare tiepida, mossa non più che da una tenerezza ironica: «scosse la testa: “Eh,” osservò, “quanto parli! Ieri stavi sempre così zitto! avevi forse smarrito il vocabolario?”» (ibid.). Il ragazzo non sembra percepire il divario di esperienza che li separa e la possibilità che Giuditta lo stia stuzzicando con le arti del suo mestiere; prorompe, infatti, in un nuovo flusso di parole, con cui millanta la propria sicurezza e il proprio «carattere allegro e forte» (ibid.). Dopodiché risponde affermativamente alla domanda in precedenza postagli da Giuditta, se egli la ami, dolendosi di essere stato, prima, «un po’ cinico» (ivi, c. 230r). Più che dalla dichiarazione d’amore, tuttavia, lei è colpita dall’aspetto del ragazzo: “Come sei curioso!” ella mi disse. “Non ho mai visto un viso simile. Sei pallido pallido e a un tratto ti fai rosso come nessun altro. Hai gli occhi come due stelle, i cigli sembrano raggi, e la tua faccia è di bambino ma anche di

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vecchio. Come ridi! Sembri uno che si sveglia. E quando parli tremi, ti agiti; sei forse un po’ pazzo? Ma” sospirò, “è tempo che tu te ne vada” (ibid.)26.

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Oltre a esprimere la propria stupita e indolente curiosità per questo giovane che le appare così bizzarro, le parole di Giuditta costituiscono un controcanto al punto di vista del protagonista, incuneando un sospetto di folle ossessività nel suo loquace fervore. Egli, peraltro, vorrebbe rimanere ancora, ma non ha i soldi; Giuditta lo intuisce e alle fantasie di lui contrappone la prosaicità del suo mestiere: “Una notte tutta intera,” bisbigliò girando intorno gli occhi, “costa cento lire. Tu,” rise gentilmente puntando il dito verso di me, “non hai le cento lire. Ecco che di nuovo di fai di fuoco.” “Non ho detto questo”, balbettai; e poi con fierezza aggiunsi: “Posso averne, subito, assai di più.” Ma ella senza ascoltarmi cantilenava o sospirava da sé: “non hai le cento lire, non hai le cento lire”, e, con le braccia dietro la testa, si dondolava sul cuscino, come una che si culla (ibid.).

Mossa da una generosità che pare più il capriccio di chi, troppo disincantata per commuoversi alle parole d’amore, non vuole comunque rinunciare a un insolito amante, Giuditta decide di prestare i soldi al ragazzo e gli indica di prendere una banconota da «una bambola di legno sontuosamente vestita, una specie d’idolo, con lunghe sottane dorate e la gonna di broccato gonfia e ricca di balze» (ibid.): un simulacro della sua stessa proprietaria, tanto più che «a toccarla, faceva oscillare la testa quasi dicendo “no”, con un sorriso quieto» (ibid.). Nelle ore seguenti il giovane, reso ebbro dal mischiarsi del vino «al sangue» (ivi, c. 231)27, alterna all’ardore erotico ulterio26  L’ultima frase corregge con intervento autografo «il mio quarto d’ora è passato» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 230r), evidentemente avvertito come troppo esplicito in relazione alle intenzioni della donna; nell’altra copia l’autrice ha corretto invece con «devi andare, il nostro tempo è terminato» (ivi, c. 244r). Nelle reazioni fisiche dell’innamorato si può riconoscere una prima espansione della fenomenologia del turbamento erotico presente nell’Ode all’amata di Saffo, la cui traccia marca lo svenimento di Nunziatella alla notizia, datale da Silvestro, della partenza di Arturo (cfr. Massimo Pizzocaro, Saffo nell’isola di Arturo, «Belfagor», XLV, 2, 1990, pp. 198-201; Saffo, Ode all’amata, a cura di Sotera Fornaro, Mucchi Editore, Modena 2020, pp. 45-49). La conoscenza della lirica potrebbe datare agli anni della scuola, per cui una reminiscenza dei potenti versi di Saffo appare plausibile. 27  Anche di Paolo nell’altro Primo amore si legge che «scese al mare, simile a un giovane cavallo galoppante, mentre il suo sangue emetteva piccoli gridi di gioia» (A.R.C. 52 I 1/4, c. 3r).

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ri slanci oratori, che culminano nella promessa di comprare vestiti, scarpe e gioielli a Giuditta, la quale non muta di atteggiamento: «“Quanta roba!” ella disse con indulgenza, “E i soldi, chi te li darà?” (ibid.). Infine, novello Romeo con quella che crede la sua Giulietta, il ragazzo invita la fanciulla a rimanere entrambi svegli per non far finire la notte più felice della sua vita: «Ma ella già sonnecchiava, stanca» (ibid.). A quest’altezza, segnalato nel dattiloscritto da un più ampio spazio interlineare inframezzato da tre asterischi, si situa il netto passaggio dalla prima alla seconda parte del racconto, nella quale si consuma lo spostamento dai territori del romanzesco a quelli di un più pronunciato psicologico-onirico, in cui il repertorio del romance riaffiora come repertorio delle fantasie del ragazzo. Anche se non ha denaro, il lunedì il ragazzo torna una terza volta nel bordello sperando di riuscire almeno a vedere Giuditta e, in effetti, la incontra, ma non nel modo che sperava. Essa appare fugacemente per condurre via con sé «un uomo giovane, dai modi impazienti e sdegnosi, […] in tenuta da campagna» (ivi, c. 232r), che stazionava nella saletta di ingresso suscitando reazioni ambivalenti nel protagonista: «Pareva insieme indifferente e curioso, e svegliava sentimenti d’irritazione e di grazia» (ibid.)28. Invano le altre prostitute, apparse d’improvviso da dietro la tenda «in una festa silenziosa» (ibid.), tentano il ragazzo bisbigliandogli, con un conturbante effetto di reciproco eco, «Tradisci il tuo amore!» (ivi, c. 233r); egli lascia il bordello e si apposta nei pressi in attesa che l’uomo esca in strada, cosa che avviene dopo un po’ di tempo, al crepuscolo: «Allora sentii un odore di selvaggina, e col suo frustino passò lui» (ibid.). Il ragazzo lo provoca, accusandolo di averlo urtato volontariamente, ma la reazione dell’altro è disarmante: «“Siete pazzo?” chiede, dubitando, come Giuditta, della sua salute mentale. Di fronte al modo in cui gli è stata posta la domanda – «allegramente, con un curioso e fresco riso» (ibid.) –, il ragazzo subito recede dai suoi propositi, chiedendo perdono e mettendosi a piangere. 28  Nella primitiva versione dattiloscritta, testimoniata dall’altra copia del racconto, il giovane è un «cavallerizzo» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 246r), specificazione che Morante deve poi aver giudicato inopportuna, visto che l’ha rimossa anche nelle successive occorrenze. Si noti il termine ‘grazia’, che indica la disinvoltura che il protagonista, irritandosi, sente di non possedere.

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Una simile alternanza di istinti vendicativi e improvvisi cedimenti si mantiene nel resto del tempo che i due passano insieme, in un’osteria affacciata su una «stretta via traversa, dall’aspetto provinciale, quasi campagnolo» (ivi, c. 234r), dove l’uomo, che si presenta come «il Duca» (ibid.), preoccupato per gli sbalzi di umore e il febbrile pallore del ragazzo, lo invita a bere, dimostrandogli amicizia e simpatia: «“Vogliamo,” propose, “darci del tu?”» (ibid.). L’accresciuta confidenza spinge il ragazzo a metterlo a conoscenza dell’ambascia in cui si trova perché Giuditta lo ha tradito con lui. Alla rivelazione vede il Duca «splendere di piacere come un angelo» (ibid.) e concordare sulla bellezza della giovane, salvo poi aggiungere: «Ma invece non è bella. Potrei quasi dirti che è brutta» (ibid.). Il fascino di Giuditta consiste, piuttosto, in un «segreto» (ibid.), che si percepisce guardando «le sue palpebre e le sue palme un po’ sudate nel sonno, e le labbra quando tremano un pochino» (ibid.)29. Come ha notato anche il ragazzo, sono dettagli che rivelano che «C’è una cosa là che non si capisce, divisa in mille uguali amori. E dovunque in lei c’è uno di questi tanti amori che si affaccia, danza» (ibid.) e, continua il Duca, «quegli amori si dileguano quando si crede di stringerli tutti» (ibid.). Il ragazzo concorda nel definirli «fuggitivi» (ibid.), ma ciò non lo consola: continua febbrilmente a vaneggiare di voler sposare Giuditta, immaginando di lavorare prima come contabile presso uno zio e poi di fare carriera, in modo da potersi permettere tutti i costosi regali che vorrebbe comprare alla fanciulla. Il Duca non è meno altalenante nel suo atteggiamento, ora lasciandosi andare a fiduciose confidenze, ora smascherando impietosamente le fanciullesche fantasie del suo interlocutore: «Fingi di esser tanto sicuro di te stesso, e poi ti spaventi per niente. Ah, tu inventi delle favole. Ma ora, come sei rosso e come bruci! Tu bevi troppo» (ivi, c. 236r). Eppure il ragazzo lo considera un amico, almeno finché il Duca gli svela che il destino di Giuditta è già deciso: il giorno successivo se ne andrà in un palazzo che si affaccia su un lago con al centro «un’isola di cui si vedono le foglie rosse come rubini specchiate dall’acqua» (ivi, c. 237r). Il giovane ha un moto di sconfortata ira che gli fa persino battere i denti, sentendosi beffato da colui che ha 29  Più avanti, menzionando le pupille di Giuditta, il Duca afferma: «Perfino le palpebre sono un gran peso per loro» (ivi, c. 235r).

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creduto un amico. Il seguito, però, è ancora più straniante di quanto già non sia stata la conversazione che i due hanno sinora avuto: “Non io,” egli mi confidò con aria frivola, come chi fa un pettegolezzo, “non io, l’Arciduca.” “L’Arciduca?” balbettai, “la ama?” “Appunto” egli disse, “Domani la porta via. Egli è dolce nei modi, e voluttuoso. Tutte le sere la pettinerà vicino alla finestra, e intanto le bacerà le cime dei riccioli, e la gratterà dolcemente nel collo per solleticarla, come si fa coi colombi.” “Sì, sì” gridai, e il sangue mi saliva al cervello, le mie mani erano gelate. “Egli s’impadronirà di quella cosa” mi bisbigliò il Duca. “No” dissi, “questo no, ti prego, fa’ che non succeda. E dopo… che farà di lei?” “Dopo la butterà via” spiegò il Duca con una risata. “Che vuoi che possa farsene di Giuditta, di una simile vecchia ciabatta?” “Vecchia ciabatta!” gridai. “Bada come parli, Duca! Ora capisco che tu mi odii, e odii [sic] lei Maledetto, ma anch’io ti odio. Io ti ucciderò, ti ucciderò in questo istante.” Sentii che rideva, e questo fu tanto più meraviglioso, perché il Duca non c’era più. Mi trovavo ai piedi della gradinata che porta alla Cattedrale […] (ivi, cc. 237r-238r).

Invano il ragazzo cerca il suo amico per chiedergli di nuovo perdono: intorno a lui ci sono solo fioraie e «venditori di immagini e di rosari» (ibid.), mentre in alto, «sull’orecchia della Cattedrale, col piede levato sotto le pieghe della veste, e fra le mani un giglio» (ibid.), si eleva la statua di un angelo. Si scopre così che il tempo trascorso dal ragazzo insieme al Duca è stato solo un sogno, cosa che spiega i bruschi passaggi dell’ambientazione e l’andamento febbrile e ondivago dei discorsi. Soprattutto, si comprende perché certe frasi del Duca replichino quelle della giovane e perché i due giovani condividessero la visione della fanciulla e dei suoi ‘amori fuggitivi’: il Duca si rivela uno sdoppiamento onirico dello stesso protagonista, oltre che di Giuditta stessa, e a sua volta si duplica nell’Arciduca, in un caleidoscopico gioco di specchi. Per la continua riversibilità dei personaggi e delle situazioni il racconto pare svolgersi nel regno della logica simmetrica che, nella nota formulazione di Ignacio Matte Blanco, è caratteristica dell’inconscio. Sicuramente, si tratta di un racconto ipnotico e complesso, che, per quanto non pienamente riuscito, specie in alcune volute farragino-

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il tesoro nascosto

se del dialogo fra l’io e il Duca, condivide con il Primo amore del 1937 la rappresentazione della persona amata come creatura sfuggente e ineffabile, così come dagli «amori fuggitivi» dalla possibile ascendenza proustiana, sotto lo sguardo feticistico di chi la desidera, il corpo di Giuditta si compone. Emerge dai due racconti una concezione dolorosa dell’amore destinata a divenire preminente nell’opera morantiana, secondo la quale il desiderio convive statutariamente con l’inappagamento e l’angoscia: chi ama sempre si ritrova a inseguire la padrona assoluta o il padrone assoluto dei suoi pensieri e sentimenti. Dal simbolismo romantico-fantastico del 1937 siamo passati a uno psicologismo onirico che, utilizzando il repertorio romanzesco per mettere in stridente contatto le fantasticherie del protagonista con la prosaicità della realtà, mostra la straordinaria evoluzione della scrittura giovanile di Morante rispetto ai suoi esordi.

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Una pesante molteplicità

Come mostrano le protagoniste e i protagonisti delle storie che si sono prese in esame negli ultimi tre capitoli, schiacciati al suolo da un’opprimente forza di gravità esistenziale, i documenti dell’Archivio offrono nuove prospettive anche su una cruciale questione interpretativa dell’opera morantiana che Cesare Garboli solleva in apertura di Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, la raccolta di prose saggistiche della scrittrice da lui curata nel 1987. Come è noto, nella Prefazione al volume il critico riporta una sconsolata affermazione dell’amica Elsa, risalente a un imprecisato momento degli anni Sessanta, elevandola a chiave della crisi che attraversa la sua opera più tarda in contrapposizione alla felicità dei due primi romanzi einaudiani: «Vuoi sapere qual è il mio vero difetto? Proprio quello a cui nessuno pensa. Ma io so benissimo qual è… È la pesanteur»1. Sia stata l’espressione di uno sconforto contingente o di un pessimismo più radicato, da un punto di vista critico-letterario il ‘difetto’ che Morante si riconosce non può comunque esaurirsi in una questione biografica traslata nel suo lavoro; piuttosto, si dovrà affrontare la pesanteur in termini tematici, valutandone le implicazioni personali, ma rilevandone al contempo la fenomenologia testuale. Si potrà così appurare che, nonostante Morante utilizzi il termine negli anni Sessanta mutuandolo dalla lettura di Simone Weil2, la sua 1  Cesare Garboli, Prefazione, in Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, Adelphi, Milano 1987, p. XI. Cfr. al riguardo Porciani, Nel laboratorio della finzione cit., pp. 25-37. 2  Sul rapporto di Morante con Simone Weil cfr. Concetta D’Angeli, Leggere Elsa Morante. Aracoeli, La Storia e Il mondo salvato dai ragazzini, Carocci, Roma 2003, pp. 81-103; Angela Borghesi, Una storia invisibile. Morante Ortese Weil, Quodlibet, Macerata 2015, pp. 11-66.

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il tesoro nascosto

scrittura giovanile è già impregnata, per citare Il servo che dormì nel tempio, delle opprimenti «leggi dei pesi» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 195r). Come suggeriscono le Lettere ad Antonio, ci si può persino spingere ad affermare che attraverso il farmaco – rimedio ma anche, etimologicamente, veleno – della parola scritta Morante cerchi sin dai suoi esordi di gestire la propria ‘gravità’ mutandola in un interiore teatro della crudeltà teso fra sofferenza psichica e vis creativa. Sin dalla prima annotazione del 19 gennaio 1938 – «Mentre mi avvio, sento che mi sono sopravvenuti i mestrui. Un peso liquido, molle, caldo, fra le mie gambe, tutto mi pesa» (Lettere, p. 6) – si nota la lotta strenua dell’autrice con un peso che non è un mero affanno dell’anima, ma una gravezza che abita dentro il suo stesso corpo: una lotta che mira a trasformare gli opprimenti sogni della notte in modelli e fonti per l’invenzione letteraria. In questo orizzonte si spiega, ad esempio, il commento con cui il 25 febbraio 1938 Morante rileva l’accostamento in un sogno di due personaggi così distanti come Kafka e l’amico Filippo S.: «La scelta per il contrasto non poteva essere migliore. Un dieci con lode, autore dei sogni» (ivi, p. 42): perché il sogno, trasformando l’angoscia in racconto, indica la via per addomesticare attraverso la forma narrativa la pesanteur. 7.1 Una disgraziata ginnasta Questa è la legge: alcuni sudano e si insanguinano i piedi per toccare la Grazia, e diventano rochi per chiamarla, ma inutilmente, perché la Grazia li rifiuta. Altri invece che vivono dimentichi e vaghi come foglie sull’acqua, e non si curano della Grazia e magari la respingono, in ogni momento sono vegliati e baciati da lei, e se la ritrovano al capezzale il giorno della morte (Dimenticati, p. 81).

Così recita l’inizio di Un frivolo aneddoto sulla Grazia, pubblicato nel 1940 su «Beltempo. Almanacco delle Lettere e delle Arti» a cura di Libero de Libero e Enrico Falqui e raccolto l’anno successivo nel Gioco segreto, che può essere considerato la più esplicita enunciazione di un concetto che Morante sembra derivare dalla sua educazione religiosa per elaborarne a quest’altezza una versione più laica e poetica. Nel suo immaginario la grazia indica una bellezza prodigiosa e ineffabile, toccata in sorte a quei fortunati la cui connaturata armonia dona loro la capacità di librarsi dalla pesantezza della

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7. una pesante molteplicità

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memoria e dalla materia. Coloro che ne sono privi invano anelano ad essa e, nonostante i loro tentativi di elevarsi verso una dimensione di leggerezza esistenziale, sono inesorabilmente risucchiati da una zavorra psicologica, che blocca il costituirsi di relazioni sane con il mondo circostante, oltre che dal peso di un corpo vissuto come fonte di sofferenza e di umiliazione. Se questa Weltanschauung si precisa già durante la prima fase della produzione di Morante, il lavoro giovanile nel quale più programmaticamente è tematizzato il conflitto tra peso e grazia appare senz’altro La lezione di ginnastica, la cui goffa ginnasiale protagonista sintetizza in modo esemplare la vita dis-graziata di molti personaggi morantiani, da intendersi, etimologicamente, come destituita di ogni possibilità di grazia. Il racconto, proveniente dalla donazione del 2016, è conservato presso l’Archivio Morante in due copie dattiloscritte, catalogate come A.R.C. 52 I 1/39, cc. 258r-262r e 263r267r, ed è privo di indicazioni cronologiche, anche se sono degne di nota alcune similarità con Le due madri di Marta («I diritti della scuola», 3 gennaio 1937), del quale comunque parrebbe successivo vista la tenuta diegetica più compatta3. Quella in nostro possesso è una stesura pressoché ultimata, con alcune cancellature apportate durante la trascrizione a macchina e pochi interventi autografi nella prima copia, dalla quale si cita. Questa, peraltro, presenta sul verso di due carte altrettanti tentativi di incipit sotto il titolo già definito. Nel primo caso (A.R.C. 52 I 1/39, c. 256v) il focus è sulla famiglia della ragazzina protagonista, di cui subito si presentano le sorelle dalle «belle treccioline dorate» e gli altri fratelli, un passo che nella stesura pervenuta compare, con una formulazione simile, all’inizio della seconda parte del racconto. Nell’altro caso (ivi, c. 257v), il testo è pressoché quello definitivo dell’incipit, pur con varianti lessicali e un diverso montaggio delle frasi, e mostra come l’autrice avesse trovato non solo l’attacco giusto, ma anche la chiave 3  Le due madri di Marta affronta il tema della doppia maternità da un’altra prospettiva: quella della madre naturale che, dopo anni di condotta dissipata, viene a riprendersi la figlia, affidata ad una signora dell’alta borghesia. La trama, che nei suoi presupposti potrebbe ricordare La piccola, è piuttosto arzigogolata, concludendosi con la morte per malattia della «cattiva madre» («I diritti della scuola», 1936-1937, p. 91), che pure Marta ha iniziato ad amare e immagina, in un sogno finale che la rassicura, che salga «per la scala del cielo» (ibid.).

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della struttura complessiva del racconto. Come stiamo per vedere, infatti, la sequenza della lezione di ginnastica precede la presentazione della situazione familiare della protagonista:

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La maestra di ginnastica, signorina Eligi, in camicetta bianca e gonna a pieghe, aspettava le allieve della seconda ginnasio B, per la lezione del pomeriggio. Sotto la gonna, portava calzoncini di seta nera chiusi al ginocchio da un elastico. Aveva i capelli stretti in una reticella intorno al volto dai pomelli sporgenti, dalle labbra sottili, dai tratti regolari ma invecchiati. Nel mezzo della palestra, a gambe larghe e braccia conserte, ella si barcollava ora sul tallone ora sulla punta dei piedi, compiacendosi delle proprie scarpe di corda, leggere e flessibili (ibid.).

La descrizione tratteggia la vanità, ma anche alcuni tratti mascolini che preludono alla severità della sfiorita signorina, padrona assoluta della palestra «dalle splendide vetrate sul parco» (ibid.) e dalle pareti «dipinte di figurine danzanti rosse e nere» (ibid.), nella quale in bell’ordine sono disposti gli attrezzi della ginnastica. Dopodiché, con un ingresso di gruppo che qualcosa sembra vagamente trattenere della parata delle proustiane fanciulle in fiore per le strade di Balbec, entrano le allieve, disposte in fila. Tra queste, in ultima posizione –­ e non ce ne stupiamo –, perché è «la più minuscola di tutte» (ibid.), si trova «una fanciulla di nome Adelaide Lucia» (ibid.): Era magrolina di persona, di capelli neri, e pallida di colore. Aveva piedi e mani così piccoli da far sorridere, sennonché i suoi grandi occhi neri avevano uno sguardo cattivo e sfuggente. La sua bocca era sempre imbronciata, i suoi modi lunatici e schivi. Non piangeva mai, non baciava né abbracciava nessuno4, e pareva terribilmente superba. A giudicare dal suo corpo sottile, si sarebbe supposto che fosse brava in ginnastica. Nulla di più errato: in ginnastica, ella era l’ultima della classe. Chi sa come, al momento dell’esercizio le sue membra si appesantivano come piombo e la inchiodavano alla terra. E allora la goffaggine dei suoi sforzi per quel peso era tale, che tutta la classe doveva ridere (ivi, c. 258r).

Con il suo piccolo corpo irrigidito dalla responsabilità dell’esercizio Adelaide Lucia – che la voce narrante spesso chiama con uno soltanto dei due nomi – sconta gli effetti delle ‘leggi dei pesi’, 4  «Nessuno» è correzione autografa dell’originale e più debole «le sue compagne» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 263r). Si noterà come il rifiuto di contatti con le compagne ricordi la scontrosità sprezzante della monaca di Chiesa di Santa Maria. Leggenda.

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7. una pesante molteplicità

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che la colpiscono ogni volta tenti di volteggiare sugli attrezzi della palestra. Non si fornisce sul momento una spiegazione a una simile inabilità, né troveremo in seguito un esplicito commento al riguardo, ma intuiamo subito che le difficoltà motorie della fanciulla in qualche modo si legano alla sua incapacità di manifestare reazioni emotive. In realtà, dietro l’apparente superbia si cela un abnorme desiderio di essere apprezzata, come si nota quando Adelaide Lucia coglie uno sguardo della signorina Eligi e, «credendosi ammirata, s’inorgoglì al punto che le batté il cuore» (ibid.). Non a caso, quando si confonde con le altre e non è costretta alla performance individuale, sente «le membra libere e sciolte, e il corpo le obbediva tanto graziosamente che quasi le pareva di danzare» (ivi, c. 259r), simile a una ballerina indiana, e quasi avrebbe il coraggio di «battere la mano sulla spalla della sua vicina e dirle: “Mimì, come va?”» (ibid.). Ma è solo un’illusione: Dopo la marcia, tutte si prepararono per il salto in alto. Le fanciulle, protese le braccia, prendevano lo slancio, e in quel preciso momento il loro corpo si liberava dal peso. Le gonnelline a pieghe si aprivano durante il volo, facendo la ruota; e quando le fanciulle, in punta di piedi e senza rumore, ricadevano sulla pedana, le gonnelline si richiudevano con leggerissimo sospiro. “Tocca a te, Lucia”, disse la signorina Eligi, con voce stridula. E si morse le labbra, e i suoi pomelli si accesero, mentre le sue pupille sicure e taglienti fissavano la scolara. Con buffo impeto, Adelaide Lucia volle costringere il proprio corpo al volo e sbatté contro la cordicella, che si staccò. Ed ella cadde sulla pedana di felpa, goffa ed arruffata come un anatroccolo al quale abbiano spennato le ali. “Ah, sacco di patate!” gridò, con occhi scintillanti, la signorina Eligi, e tutte scoppiarono a ridere (ibid.).

La tortura – o lo spettacolo, a seconda del punto di vista – non è ancora terminata. Dopo il salto in alto, l’insegnante costringe Adelaide Lucia all’asse di equilibrio, prova che ovviamente – mentre le «altre fanciulle si libravano […] ridenti e a braccia aperte, come ballerine sulla corda» (ibid.) – lei fallisce: «quando Lucia si provò a fare come loro, la sua gamba destra si agitò nel vuoto, e il suo piede sinistro, impaurito, sdrucciolò. La sua fronte si coprì di sudore freddo» (ibid.), nonostante prima abbia ostentato sicurezza e si sia incamminata verso l’attrezzo «impettita, gli occhi sprezzanti che non guardavano nessuno, e la testa un po’ di sbieco» (ibid.). Di fronte a una

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simile umiliazione, tra le risate generali, la signorina Eligi, «trionfante» (ibid.), lascia riposare la fanciulla risparmiandole l’esercizio del trapezio e appellandola con un «povera figliuola» (ivi, c. 260r) che sembra tradire un po’ di tardiva «indulgenza» (ibid.). La maestra si limita a invitare una delle allieve a offrirsi volontaria: «Clara Fedeli alzò la mano e disse: “Io”» (ibid.) – e il nome già preannuncia la limpida agilità della ragazza: E con un lieve salto, si attorse attorno alla pertica, e in pochi attimi fu sulla cima del trapezio e poté stringere l’asse orizzontale fra le due palme. Così appesa, attirò tutta la sua forza nei polsi, e senza cessar di sorridere si fletté come una canna, e si protese, piegando i ginocchi, e ruotò su se stessa, e camminò lungo l’asse sulle mani, a testa in giù. Ridente e vermiglia in viso, era simile ad un angelo dalle piume rosse. Come due sottili fiamme, le sue trecce rosse oscillavano nel vuoto. Tutte le compagne, in delirio, gridavano: “Brava! Brava!” (ibid.).

Non potrebbe essere più stridente il contrasto con la derisione collettiva che ha accompagnato i disastrosi volteggi di Adelaide Lucia. Questa intanto assiste «in un angolo, grave, con occhi pieni d’odio» (ibid.) e crede che «con quegli applausi, volessero schiaffeggiare lei stessa» (ibid.), pur consolandosi col pensiero che lei, a differenza delle sue compagne, possiede «un destino; e forse questo la rendeva tanto superba» (ibid.). Qui si conclude la prima parte del racconto, seguita da una seconda che costruisce, per così dire, l’eziologia del destino di Adelaide Lucia, che altro non è se non il triste plot del suo romanzo familiare: «Ella era la quarta fra due fratelli e tre sorelle: e queste avevano belle treccioline d’oro, e quelli ciocche d’oro che leggermente battevano sulle fronti, aggiungendo luce agli occhi» (ibid.)5. Una così radicale differenza si riscontra anche in altri dettagli fisici e comportamentali: mentre lei è magra e patita, fratelli e sorelle sono «grassottelli» (ibid.) e spicca, in particolare, il colore, rispettivamente «cilestrino violaceo [e] tenerissimo verde» (ibid.),­degli occhi di Arturo e Gabriella – ed è persino pleonastico rilevare l’occorrenza onomastica relativa al fratello. Tutti, poi, «avevano il riso facile, di suono gentile, e le maniere garbate» (ibid.), mentre 5  Nel primo incipit le maniere dei fratelli sono «disinvolte» (ivi, c. 256v) anziché «garbate», più marcatamente esprimendo la mancanza di naturalezza di Adelaide Lucia.

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Adelaide, così nera, e taciturna, e sempre col broncio, e spettinata, e che non voleva mai lavarsi, pareva – l’espressione era di sua madre, – pareva una cornacchia in una covata di colombi. Sua madre, in un litigio, le aveva detto quel si pensava di lei. L’unica spiegazione possibile della sua presenza in quella casa era che il giorno della sua nascita, alla Clinica, l’avessero scambiata (ibid.).

Adelaide Lucia si è talmente convinta che le suore abbiano scambiato due bambine – «una bella, e l’altra brutta e nera» (ivi, c. 261r) – che ogniqualvolta vede la madre confabulare con le sue amiche ritiene che stiano parlando di lei, «di quella straniera che, discosta, nell’angolo della finestra fingeva di guardare un libro di figure» (ibid.), con un’immagine di separazione che replica quella della palestra. Tuttavia, «un problema restava: chi era la sua vera madre?» (ibid.): la domanda che la fanciulla di continuo si pone affidando alla ricerca di questa figura la compensazione del rifiuto affettivo che la segna. Una mattina, mentre si reca a scuola con i fratelli e le sorelle accompagnati dalla governante francese, scorge una donna che potrebbe essere quella giusta: Era alta, e portava un grembiule nero stracciato ai gomiti e impolverato, i piedi nudi in due scarpacce di pezza. Reggeva per le cocche un gran fazzoletto pieno di pane che, lo si vedeva, era secco, e certo era rubato. Aveva capelli neri, sciolti dalle forcine e tutti arruffati, grandi occhi neri pieni di cattiveria e di paura, mani sporche afferrate a quel pane. Andava dinoccolata e superba, e tale era il suo pallore, che la si poteva credere una morta (ibid.).

Nonostante un fugace scambio di sguardi, Adelaide Lucia non può seguire la donna ed è costretta a entrare a scuola. Qui il segmento eziologico, rivelandosi un flashback, si ricongiunge con la scena della palestra. Mentre Clara Fedeli si esibisce nella sua angelica grazia di trapezista, il pensiero della fanciulla corre di nuovo alla donna intravista per strada: Sua madre, la vera, viveva sulla montagna più alta del paese, in un deserto; e le sue amiche erano le nuvole che, in forma di leone e di serpente, passeggiavano lassù con lei. Sotto quel suo sporco grembiule nero, ella aveva due ali simili a quelle delle cicogne; e con esse volava frusciando, fra altri uccelli e fiere (ivi, c. 262r).

L’immagine alata trasforma in grazia la trasandatezza e la tristezza della donna, che sarebbero dovute solo al dover pensare nuove storie da raccontare alla figlia in vista della loro ricongiunzione:

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quando «anch’ella sarebbe andata con sua madre svolazzando per l’aria e nuotando nel mare come i pesci» (ibid.), con prove di abilità ben più raffinate di quelle richieste dagli esercizi della signorina Eligi, oltre che «naturalissime» (ibid.) e spontanee. E poi

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La sera, la vera madre di Adelaide Lucia si pettinava, e con dolcezza, senza strapparle i capelli, pettinava altresì Adelaide. Poi le annodava fra i capelli un nastro cangiante, e tenendola in braccio le diceva: “Poverina, devi aver paura, così piccola. Dormi, e non aver paura. Davvero che le persone più belle son quelle piccole. Quanto sei bella, Adelaidina mia” (ibid.).

Il racconto possiede la limpidezza di un apologo. Per quanto la voce narrante non espliciti il nesso, l’intreccio bene suggerisce come la goffaggine ginnica di Adelaide Lucia abbia a che fare con l’infelice rapporto con la madre, al quale la ragazzina reagisce con la superbia di chi rovescia la mancanza di affetto in un atteggiamento anaffettivo, a sua volta incarnato nella rigidità fisica. L’esemplarità di Adelaide Lucia è tale che, quando leggiamo che «le sue membra si appesantivano come piombo e la inchiodavano alla terra», non solo assistiamo all’ineluttabile compiersi del suo destino di pesanteur, ma anche vi si riconosce la sorte di quanti, non baciati dalla grazia, aspirano a un’altezza che non compete loro, a partire già dal Pietruccio che, nella storia apparsa sul «Balilla» nell’agosto del 1932, ha visto in sogno l’Eroe stagliarsi nelle vette della gloria mentre lui è trattenuto nella sua casetta a piedi della montagna. L’unico rimedio a questa sorta di paralisi psicofisica è la fantasticazione: la creazione di un romanzo familiare alternativo rispetto a quello che la madre le ha costruito, dotato di un lieto fine in cui finalmente, oggetto d’amore e di dolcezza, la figlia può librarsi nella sua segreta aspirazione alla danza celeste insieme a un’altra madre ideale che le vuole bene6. 6  Non si può non rilevare come alle dicotomie tra basso e alto e tra gravità e volo se ne accompagnino altre – tra chiaro e nero, ma anche tra pulito e sporco – in cui si riconoscono sia l’adesione alla tradizionale (in Occidente) analogia perturbante dello scuro/ oscuro, sia un possibile residuo del decoro piccolo-borghese delle origini. Certo, guardare alla pelle scura come a un segno di inferiorità sociale finisce, nolenti o volenti, per caricarsi di venature razziali, specie se lo confrontiamo col contesto colonialista dell’Italia degli anni Trenta, ma più che interrogarsi sulla scorrettezza politica di queste posizioni, si tratta di valutare – e storicizzare – la gabbia culturale con cui Morante, ma anche altri scrittori e scrittrici della sua generazione, hanno dovuto fare i conti. In questo orizzonte si capisce

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È in nome quindi dell’inaridimento affettivo con cui colei che non è –­­ o non si sente – abbastanza amata si difende da un mondo spaventevole che la psicologia della protagonista della Lezione di ginnastica può ricordare quella della monaca narratrice di Chiesa di S. Maria. Leggenda, così come la deformità di questa si pone in linea con quella che è sostanzialmente una minorità fisica di Adelaide Lucia. Non di meno si può mettere in relazione il racconto con la già più volte menzionata rubrica Giardino d’infanzia. Innanzitutto, che di Adelaide Lucia si dica che a ginnastica era «l’ultima della classe» richiama per converso la storia iniziale della rubrica, Prima della classe («Oggi», 17 giugno 1939), che, come si è visto alla fine dell’Introduzione, presenta invece le gesta poetiche della piccola Elsa, riconosciuto genio della versificazione. Una simile obliqua proiezione autobiografica della Lezione di ginnastica è suggerita però ancora più incisivamente da una rilevazione intertestuale che riguarda il secondo episodio della rubrica, I miei vestiti, pubblicato l’8 luglio 1939. Protagonista è una Elsa che ha già compiuto dieci anni e che, «non rassegna[ndosi] alla mediocrità» (Aneddoti, p. 7), decide di apporre degli strampalati ornamenti ai vestiti ricavati dagli abiti smessi della famiglia e di presentarli come creazioni di alta moda. Divenuta oggetto delle beffe delle compagne, maschera il senso di solitudine e la «voglia di piangere» (ivi, p. 9) con un atteggiamento sprezzante e, soprattutto, con una fantasia che dovrebbe consolarla: «Io avevo un Fato. Alludo, capite, signori a quel decrepito fantasma. Mi parlava, credete, in poesia» (ibid.). Il tono della narrazione è decisamente più leggero, in conformità alla rappresentazione umoristica della propria megalomania infantile7, anche, a mio avviso, il rapporto conflittuale della scrittrice con le questioni di genere e con il femminismo, come si evince, in questa occasione, dalla descrizione della signorina Eligi, della quale spicca, nella sua inflessibile severità, la connessione fra i tratti mascolini e lo status di zitella. 7  Megalomania che tocca il culmine quando il professor Scappaticci, di fronte a una creazione quanto mai fantasiosa, le dice che assomiglia a una cattedrale: «Arrossii; ma sentivo il tirannico fantasma compiacersi di una così aulica forma madrigalesca. Un tal madrigale, egli mi ripeteva fiero e soddisfatto, non toccherà mai ad una delle solite donnicciole» (Aneddoti, p. 10). Da notare, peraltro, la ricorrenza anche in questo contesto umoristico dell’immagine della cattedrale, molto frequente nei sogni e associata dalla stessa autrice alla costruzione romanzesca (cfr. al riguardo Alfonso Berardinelli, Il sogno della cattedrale. Elsa Morante e il romanzo come archetipo, in Agamben, Berardinelli et alii, Per Elsa Morante cit., pp. 11-33).

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ma la costruzione psicologica della piccola Elsa ricalca quella di Adelaide Lucia. Si può ipotizzare, pertanto, che questo racconto sia in qualche modo imparentato con la serie del Giardino d’infanzia costituendone forse un anello di passaggio, dato che appare più verosimile ritenere che dal ‘destino’ si sia passati al surplus connotativo del Fato. Non meno interessanti sono, infine, i semi narrativi che a ritroso si possono riconoscere, innanzitutto in relazione a Menzogna e sortilegio. Come si sarà notato, la «vera madre» presenta tratti fisici e un’andatura, oltre alla sua superba sciatteria, che sembrano preannunciare l’aspetto di Anna Massia8. Altrettanto significativo è il modo in cui la governante richiama Adelaide Lucia intenta a fissare la donna – «“Andiamo, Adelaide; t’incanti?”» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 262r) –, perché la polisemia del verbo ‘incantarsi’ evoca una fissazione che è data non solo dallo sguardo fermo su qualcosa, ma anche dalla fantasticheria compulsiva del romanzo familiare: la stessa di Elisa, ‘incantata’ – e paralizzata – per anni nell’invenzione fantastica, tutta mentale, dell’«impareggiabile prosapia» (Menzogna, p. 23) dei parenti trasformati in eroi. 7.2 Il peso del male Appartiene alle carte donate nel 2007 un racconto pervenuto in una copia manoscritta pulita e probabilmente risalente, come lascia intuire la presenza del ‘voi’ anziché del ‘lei’, ai tardi anni Trenta, dal titolo quanto mai significativo in relazione alla rete tematica al centro di questo capitolo: Il peso (ARC 52 I, 1/4.3, cc. 1r-7r). All’esplicitazione del tema, però, si perviene solo nella seconda parte di un lavoro che l’autrice non ha ulteriormente sviluppato, dato che nella prima al centro del discorso sono più le vicende, tra il noir e il 8  Si notano anche alcune somiglianze con la descrizione della vera madre nelle Due madri di Marta, a conferma di una persistente immagine materna: «Era piuttosto alta, robusta e malvestita, e sulle sue scarpe brillavano due grosse fibbie di latta. Non portava cappello, e i suoi capelli in disordine, crespi e neri, circondavano una faccia infiammata» («I diritti della scuola», 1936-1937, p. 90), così come in sogno Marta immagina di camminare insieme a quella che ancora non sa essere la sua madre adottiva «per un piacevole e fiorito viottolino, su cui tanti passeri saltellavano» (ibid.).

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fumettistico, di quello che un tempo era il terribile bandito Feyda9, tornato in libertà dopo dodici anni di reclusione, ma ormai ridotto a larva di se stesso. Niente è rimasto dell’antica ferocia del criminale che ha rapinato tredici anni prima la Banca Universale dai quarantacinque piani. Feyda, «mostruosamente ingrassato» (ivi, c. 1r) e reso vile dalla detenzione nel carcere duro, desidera solo «una casa in campagna dove nessuno sappia il [suo] vero nome, dove la Vendetta non si appiatti» (ivi, c. 2r), tanto più che nella città in cui ancora si trova si sono verificati misteriosi episodi di violenza nei confronti di un suo vecchio complice e dell’avvocato che lo aveva difeso. L’uomo vaga per le strade in preda a una paura continua che lo rende impacciato e incerto, sperando di passare inosservato, finché un giorno «una mano si poggiò sulle sue spalle e una voce armoniosa e fresca gli disse: – Come va, Feyda?» (ivi, c. 3r). Inutilmente egli nega la propria identità di fronte al «giovane alto e magro, dalla pelle bianchissima su cui risaltavano due piccoli baffi neri» e che, per il languore degli occhi allungati e l’eleganza dell’abbigliamento, «si sarebbe potuto giudicare un cantante o un ballerino se non fosse stata la fronte, quasi deforme per l’altezza, ad annullare questa prima ipotesi» (ibid.). Il giovane costringe Feyda a introdurlo nella sua modesta camera a pagamento e qui gli rivela il proposito vendicativo: «volevo proprio vedere la vostra faccia qui, davanti a me, decomporsi e diventare una specie di gelatina per la paura» (ivi, c. 5r). Nel disperato tentativo di convincere il suo persecutore a risparmiarlo, Feyda imbastisce un articolato discorso pseudoscientifico sul tema del corpo: – È ridicolo che vogliate vendicarvi su di me, – spiegò, – del danno che io… che Feyda ha procurato alla vostra famiglia e a voi. Questo corpo che vedete non è Feyda. Vi assicuro, sarebbe la stessa cosa che se voleste vendicarvi di Feyda sul primo Tale che passa. La storia di Feyda non mi riguarda, mi pare… mi pare ridicola, assurda. Veramente, quel Feyda era un pazzo grottesco, io stesso non esito a farne giustizia qui, davanti a voi. Si può nella stessa vita essere due, tre uomini, ed è assurdo che il secondo ed il terzo uomo devono scontare i peccati del primo. Alcuni scienziati sostengono che si cambia ogni 9  Il nome del vecchio bandito potrebbe richiamare quello di Fedya, protagonista del film del 1930 Redenzione – Redemption nella versione originale – di Fred Niblo e, non accreditato, Lionel Barrymore, tratto da una riduzione americana di Arthur Hopkins del dramma tolstojano Il cadavere vivente, scritto nel 1900, ma messo in scena postumo nel 1911.

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minima parte del nostro corpo, le cellule… sì le cellule si rinnovano. Vi assicuro, le mie cellule si sono rinnovate dalla prima all’ultima… mi meraviglio… mi meraviglio che qualcuno possa confondermi con Feyda (ivi, cc. 5r-6r).

Il giovane contrappone una visione di stampo filosofica, in cui si può riconoscere un sapore bergsoniano: «L’uomo […] non è lo spazio occupato dal suo corpo, ma è tutto il tempo della sua vita, dal primo minuto all’ultimo, con tutte le azioni che ci ha messo dentro» (ivi, c. 6r). Inutili sono, di conseguenza, le suppliche di Feyda: «Abbiate pietà di questo corpo. Vi assicuro, vi giuro, è quasi un mero corpaccio senz’anima» (ibid.), perché il giovane lo uccide, come sin da ragazzo aveva sognato di fare: forse per sentirsi più virile e adulto, specie se si pensa che la descrizione fisica ne ha soprattutto evidenziato il mellifluo languore. Sennonché la contemplazione del cadavere disfatto, ormai insensibile, del nemico non gli arreca nessuna soddisfazione, casomai un forte senso di delusione: «I tratti si rilasciavano componendo il vuoto e strano sorriso dei morti. E il corpo enorme pieno di brutti gonfiori, pareva un sacco di cenci riempito male» (ibid.). È la scoperta della pesantezza del corpo: Il giovane contemplando si faceva pallido, e la piega della sua bocca sempre più incerta: – “Dio mio, – mormorò a se stesso, – non credevo che la spoglia del nemico fosse una cosa tanto… insignificante. Che me ne faccio adesso? Non credevo fosse così: e se penso a quei sogni ingenui, eroici! Davvero non la riconosco, questa cosa, mi risulta estranea. Sfugge ad ogni mio controllo. Che me ne faccio? “E, Dio, come pesa. Pensare che dovrò trascinare un peso simile fino al giorno del Giudizio Universale. Chi sa poi se, allora, un così gran peso basterà per il mio riscatto.” (ivi, c. 7r)

Lo stupore si distribuisce tra la scoperta della pesantezza del corpo morto, un «sacco di cenci» che prelude al «fantoccio» (Menzogna, p. 456) in cui si tramuta, nel rigor mortis, Teodoro Massia di fronte agli occhi sconvolti della figlia Anna, e la vacuità del gesto assassino. Il giovane si era illuso di compiere un atto eroico, invece l’omicidio ha solo smascherato i suoi «sogni ingenui», come a decretare, nuovamente e definitivamente, la fine dell’età degli eroi e la mancanza di compassione che ad essa si accompagnava: quella compassione che Feyda invano ha implorato. È possibile che anche il manoscritto L’istitutore (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 218r-224r) appartenga a questa fase, sia perché il modo di firma-

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re con la sottolineatura interrotta sotto nome e cognome è identica a quella di racconti tardi come Gioco di società (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 53r-54r), sia per un possibile riscontro intertestuale. Il segmento in cui l’io narrante introduce la misteriosa donna che lo visita nella sua casa – «Spesso arrivava dopo aver attraversato, si sarebbe detto, regioni temporalesche, malgrado le sue gambe nude e gli abiti leggeri» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 219r) – molto somiglia infatti a una cifrata citazione del mottetto montaliano Ti libero la fronte dai ghiaccioli, apparso nell’aprile del 1940 sulla rivista «La Ruota» e nella seconda edizione delle Occasioni­. La storia è raccontata in prima persona da un vecchio istitutore che ricorda come la sua miserrima vita sia stata segnata dalle visite che la sera, al termine della giornata di lavoro, era solita fargli una fascinosa signora che altri non era che la Morte, la quale col suo «riso infantile, ma terribilmente beffardo» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 220r) gli ha rivelato la percezione della vanità delle cose umane, oltre che la sua condizione di uomo non soggetto al peccato originale. In questa prima parte si rimane incerti se ci troviamo di fronte a un racconto fantastico o se, invece, colui che racconta sia un narratore inattendibile afflitto, dietro il tono dimesso e la lamentatio sul proprio destino disgraziato, da allucinazioni e delirio psichico. Un giorno la Morte gli appare mentre è al lavoro nel riformatorio in cui è guardiano e maestro di un manipolo di cinquantadue «ragazzi traviati» (ivi, c. 218r) che continuamente lo sbeffeggiano e gli mancano di rispetto. La Morte gli prospetta l’assurdità della sua mansione educativa, visto che i ragazzi sono senza rimedio destinati a condurre una vita criminale, al che l’istitutore scoppia in una risata irrefrenabile che non si placa nemmeno di fronte ai suoi superiori e ha come conseguenza l’essere cacciato dall’istituto. Le sventure del protagonista, però, non sono terminate: in strada si imbatte in un gruppo di persone assembrate intorno a un cavallo morto; tuttavia, quando si china a osservalo da vicino, l’animale si rialza e fugge via mentre la folla, inorridita, si scaglia contro di lui. È l’inizio di una maledizione che separa per sempre l’istitutore dal consorzio umano, costringendolo a vivere di elemosina. Anche solo ripercorrere l’intreccio del racconto dà il senso della fragilità della giuntura che unisce le parti dedicate alla quotidiana frequentazione con la Morte e al riformatorio con la coda incen-

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trata sul prodigio nefasto dell’animale rianimato, pur riconoscendo in quest’ultimo l’apice del delirio con cui l’istitutore sin dall’incipit rovescia la sua condizione di perenne umiliato. Si avverte una certa rapidità di redazione che sembra aver impedito una armoniosa assimilazione tra le suggestioni del Pirandello della Patente e la maniera fantastico-psicologica, senza escludere nel cavallo ucciso dalla fatica un’allusione al Cholstomer tolstojano. Inoltre, si dovrà ricordare, sempre che la cronologia sia valida, che Morante starebbe qui riutilizzando un’idea narrativa già presente in Innocenza («Oggi», 25 novembre 1939), a proposito del bambino che apre la porta di casa a un’elegante signora da identificarsi anche in questo racconto con la Morte, venuta a portare via l'anziana nonna. Per tali ragioni l’aspetto in definitiva più interessante del racconto è che nell’inetto protagonista, dai tratti latamente dostoevskiani, riconosciamo una nuova trasposizione, dopo quella nel personaggio del vile uxoricida dei Genitori, del padre legittimo Augusto Morante. Anzi, in questo caso il richiamo è persino più diretto visto che questi di professione era proprio istitutore, nell’istituto di correzione romano ‘Aristide Gabelli’, e non godeva di particolare autorità né presso i ragazzi lì reclusi né presso i superiori, per non parlare delle condizioni di totale emarginazione e umiliazione nella quale, se si presta fede a quanto racconta Marcello Morante, egli viveva in famiglia10. Ciò è tanto più rilevante in quanto mostra come nella sua fase giovanile, caratterizzata da una predominanza di fanciulle e madri, siano presenti anche personaggi nei quali si avverte una rielaborazione in chiave letteraria della figura paterna e che contribuiscono a porre le basi per la caratterizzazione dell’emarginazione affettiva di Francesco De Salvi in Menzogna e sortilegio. 7.3 Il sogno di una matrigna Al centro di Ponte d’Orlando, conservato nell’Archivio dopo la donazione del 2016 in due copie dattiloscritte catalogate A.R.C. 52 I 1/39, cc. 214r-215r – con correzioni autografe – e 216r-217r, è la desolante storia di una ragazza di nome Ginevra sposata a un vedovo 10 

Cfr. al riguardo soprattutto M. Morante, Maledetta benedetta cit., pp. 21-28.

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con tre pestiferi figliastri dai capelli rossi, in un contesto geografico che verso la fine del racconto si intuisce essere la Sicilia. La vicenda ricalca in parte quella del racconto La matrigna, uscito su «Oggi» il 30 marzo 1940, con il quale, come stiamo per vedere, Ponte d’Orlando condivide immagini e segmenti testuali; anzi, è probabile che il lavoro pubblicato sia una rielaborazione di questo, pensato, come suggerisce la dicitura «1 colonna cpo [corpo] 10» (ivi, c. 214r) in alto a sinistro sul frontespizio, per uno spazio di pubblicazione altrettanto esiguo. Mentre però La matrigna, come si è rilevato nella nota 3 del precedente capitolo, si risolve in una sorta di giornalismo narrativo in prima persona del soggiorno dell’autrice, durante un viaggio al Sud, nella casa della famiglia della matrigna, Ponte d’Orlando esplora il retroterra sociale della tristissima vita della protagonista ed è dotato di un risvolto romanzesco che nel testo pubblicato è del tutto assente. La protagonista si chiama Ginevra e proviene da «una delle famiglie più povere del paese» (ibid.), pertanto deve considerarsi fortunata se a diciotto anni è stata chiesta in sposa da un «agiato fattore» (ibid.) che abita non troppo lontano: «Era come se un breve e leggero ponte fosse sospeso fra la prima e la seconda vita di Ginevra; questa doveva soltanto passarlo, per ritrovarsi fanciulla» (ibid.). Tanto il marito è tozzo e grossolano, «taciturno, forse ipocrita» (ibid.) – e non si capisce la necessità, invero un po’ pedante, di questo ‘forse’11 –, tanto lei trattiene qualcosa di delicato e fanciullesco, destinato, com’è intuibile, a essere calpestato dall’irrimediabile meschineria dei rapporti familiari: Era una ragazza alta di persona, timida e ordinata; nella testa piccola, sotto i pesanti capelli rialzati, aveva guance ancor piene e rigonfie come nell’infanzia, occhi dolci, grandi e sporgenti. I bambini del fattore, dai capelli rossi e lisci, dagli occhi rossastri, andando a spasso si appendevano alle sottane della matrigna, chi di qua e chi di là, ed ella in quei momenti s’illudeva di essere amata. Invece si pensava, vedendo quei tre addosso a lei, a tre formiche rosse riunite per trascinare al formicaio la preda, una bestiola più grossa di loro (ibid.)12. 11  Più dettagliata, sebbene simile, la descrizione dell’uomo nella Matrigna: «un uomo sui cinquant’anni, tozzo e robusto, dalla grossa testa incassata fra le spalle» (Dimenticati, p. 175), con in più il «colorito smorto e sparso di lentiggini» (ivi, p. 176) che lasciano intuire come un tempo avesse capelli rossi, dai lineamenti bovini, mentre l’atteggiamento «rivelava l’avarizia, la testardaggine e la diffidenza» (ibid.). 12  Nella Matrigna Ginevra porta ancora le trecce e di più si insiste sulla rotondità puerile del volto, così come sugli effetti dei dispiaceri sul suo aspetto: «Pure a tanta grazia si mescolava un non so che di scolorato e di sciupato. Come negli angeli di pietra che se ne

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Fra accanimento naturalistico e deformazione espressionista, non senza una patina classicistica data dall’impianto della similitudine, l’immagine grottesca della «bestiola» strascinata dalle tre formiche rosse restituisce il compiacimento sardonico di chi nel paese osserva la scena e prevede non solo la solitudine, ma proprio lo scempio che attendono Ginevra13. Infatti, di lì a poco la «figliastra più grande» (ibid.), offesa che la matrigna le abbia lavato la faccia che si era impasticciata per capriccio, si inventa per vendetta una storia col padre, che di conseguenza «picchiò la moglie col suo bastone pieno di nodi» (ibid.). Ginevra si ritrova quindi del tutto sola e incompresa, con i tre figliastri che la minacciano, il marito violento, ma anche i suoi stessi parenti che, quando si reca a trovarli «ripassando quel ponte aereo» (ibid.) – e si noti l’aggettivo14 –, le fanno le richieste più esose: la madre vorrebbe più roba di quella che lei porta in dono, il padre reclama il tabacco del fattore, il fratello chiede insistentemente delle ruote per fabbricarsi un carretto. Le richieste non cessano nemmeno «mentre Ginevra, sola nel suo bel vestito della festa, ripassava quel ponte» (ivi, c. 215r); da lontano infatti le gridano: «Farina! Tabacco!» (ibid.). Ma ecco che tornando indietro verso la sua nuova casa, di nuovo su «quel ponte» (ibid.), si imbatte in qualcosa di inaspettato: Proprio vicino allo stagno, stava fermo uno di quei carri dipinti in uso laggiù. Non più alto di una mano, il Paladino Orlando vi figura, quando con l’elmo, quando con nerissimi riccioli. Meraviglioso a vedersi nella minuscola e variopinta armatura, egli difende i deboli e gli oppressi e con una sciabola squarcia le montagne tramutandole in uno scoppio di faville. Scavalca i truci avversari, uccide il drago, piange vicino ad un albero. Ginevra si fermò a rimirare il carro; e poiché nello stesso tempo correvano l’aria nuvole avventurose e stanno sospesi all’aperto, fuori della cattedrale: le loro membra, pur conservando l’amorosa rotondità dei contorni, sono corrose dalla pioggia e dalla polvere, che le fa grige [sic]» (ivi, p. 177) – e si ricorderà che l’immagine, oltre che apparentata con la statua mozza delle due versioni di Via dell’Angelo, richiama il finale del secondo Primo amore. 13  Su questa immagine si chiude La matrigna, come se Morante avesse ritenuto che la posizione in Ponte di Orlando insufficiente a valorizzarne la devastante potenza. Arrivata l’ora di partire, mentre la narratrice si congeda dalla giovane, arrivano i tre figliastri: «I tre bambini le si appendevano alle vesti, chi di qua e chi di là, traendola dentro la casa; e parevano tre formiche rosse che trasportassero insieme al formicaio una preda più grossa di loro» (ivi, p. 178). 14  Da notare che «ponte aereo» è correzione autografa dell’originario «aereo suo ponte» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 216r), con l’eliminazione di un possessivo giudicato evidentemente ridondante.

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7. una pesante molteplicità

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sentimentali, di quelle che amano disporsi secondo i voti delle donne credule, Ginevra riconobbe in una il Paladino. Docili arcobaleni e luci mutevoli ne composero l’armatura, e, mostruosamente ingrandito, a un tratto egli apparve là, in atto di sguainare la spada generosa di cui Ginevra sapeva il nome: Durlindana. «Per Ginevra, alla vittoria e alla morte!» gridava il Paladino Orlando (ibid.).

Più che nella diversa distribuzione della trama, è qui che si vede la differenza tra La matrigna e Ponte d’Orlando. Nel racconto di ambientazione urbana pubblicato su «Oggi» mancano le premesse cronotopiche per questa finale irruzione del romanzesco, innescata dalla visione di un carretto dei pupi, in corrispondenza del «ponte aereo» su cui Ginevra ‘ripassa’ avanti e indietro fra la casa coniugale e quella della fanciullezza. Se i due spazi domestici mettono in atto il cronotopo dell’oppressione familiare nella doppia declinazione prima di figlia e poi di moglie/matrigna, l’aerea impalpabilità del ‘nonluogo’ di passaggio costituisce la perfetta coordinata spaziotemporale affinché avvenga l’evasione nel sogno, culminante in «nuvole avventurose e sentimentali» di cui Morante si sarà forse ricordata per descrivere i fumi e vapori che avvolgono i personaggi di Menzogna e sortilegio15. In questa direzione, peraltro, la levità sospesa del ponte e dell’apparizione del Paladino, giunto dal cielo a salvare Ginevra dalla pesantezza della sua realtà familiare, consente di afferrare la funzione nel racconto del nome altisonante della giovane, la cui memoria arturiana, così apparentemente sproporzionata rispetto alla miseria della sua vita quotidiana, è con tutta evidenza un effetto ricercato dalla scrittrice. La fascinazione che Ginevra subisce delle storie dei cavalieri è preparata, cioè, dalla sua stessa identità onomastica, che agisce come un segnale del romanzesco in attesa di essere attivato dal teatrino dei pupi. Quando dal livello intratestuale ci spostiamo in quello dell’autrice, notiamo che l’inserto del romance nella vicenda della protagonista costituisce uno dei primi tentativi che Morante compie per dare vita agli intrecci donchisciotteschi-bovaristici che caratterizzeranno Menzogna e sortilegio. Il Paladino che appare alla giovane non è infatti il 15  «E non sono, quei fumi, i soli, incorporei compagni della solitaria Elisa? Infine, avete ormai le prove che, nella prima introduzione al presente libro, io vi dissi il vero: quei vapori lunari ed erratici sono i soli numi della mia epopea familiare, e Anna, la più bella, rimase fedele ad essi fino alla morte, e offerse la propria anima ad essi» (Menzogna, p. 689).

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severo difensore della cristianità del ciclo carolingio, bensì la figura epico-cavalleresca al centro di una stratificata tradizione le cui fonti colte si intrecciano con quelle popolari, cosicché il sogno a occhi aperti di Ginevra, sul ponte fra le sue due case, apre alla sostituzione della (pesante) realtà con la (numinosa) finzione. Al contempo, nel gioco di incastri culturali che costituisce un aspetto importante del modo di lavorare di Morante, bisogna rilevare come nel finale di Ponte d’Orlando si avverta la presenza anche del modello narrativo di Čechov, autore molto amato dalla scrittrice16. Questo momento di subitanea evasione dalla miseria della sua vita, che possiamo supporre si richiuda su Ginevra altrettanto rapidamente come si è aperto, rammenta infatti le epifanie di irrealizzate possibilità esistenziali che si manifestano ai personaggi dei racconti dello scrittore russo. Si pensi, ad esempio, alla maestra protagonista di Sul carro (1897) che, ferma a un passaggio a livello, di ritorno dalla trasferta nella città vicina al villaggio sperduto dove insegna, scorge sul treno che passa una donna somigliante a sua madre: la visione determina una sorta di cortocircuito temporale che, in un attimo, la trasporta nel sogno della sua vita passata, procurandole un fortissimo turbamento emotivo. Nonostante la congiuntura tra motivi e modi narrativi così diversi bene testimoni del percorso di Morante verso la sua maturità di scrittrice, evidenti sono le debolezze strutturali del testo, che spiegano forse perché l’autrice abbia poi privilegiato La matrigna, meno ambizioso ma senza dubbio più omogeneo rispetto a Ponte d’Orlando. In ciò sembra giocare un ruolo anche il passaggio dalla terza alla prima persona. In effetti, la maggiore fragilità del racconto è rappresentata dalla tenuta disomogenea della voce narrante eterodiegetica, che trapassa dall’onniscienza a una prospettiva più interna al sistema dei personaggi, come quando commenta il comportamento ostile dei figliastri affermando che «Del resto, non avevano torto a odiare una matrigna. Sulle matrigne corrono voci cavernose, accuse nere» (ivi,

16  Nella risposta all’inchiesta del 1959 di «Nuovi Argomenti» Morante dedica allo scrittore uno specifico segmento del suo discorso: «gran parte delle singole narrazioni di Čechov sono, a sé stanti, dei racconti; ma la raccolta cecoviana dei Racconti (anche senza contare quelli, come La steppa o Una storia noiosa, ecc. che sono già dei romanzi in se stessi) senza dubbio ha valore di romanzo: giacché presenta un intero sistema (il sistema cecoviano) delle relazioni umane e dell’universo reale» (Pro o contro, p. 45).

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7. una pesante molteplicità

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c. 117r)17. Non meno brusco, poi, è il passaggio dal tono serio a quello umoristico, come si nota dopo che dall’immagine grottesca delle formiche si passa all’ironica presentazione del padre di Ginevra, contadino che si crede botanico – «si diceva di lui che fosse un genio» (ivi, c. 118r) – e, con la sua mania degli innesti, fa seccare gli alberi, per poi consolarsi con l’alcool. Al contempo, l’accenno alle «donne credule», con un lessico che già pare quello di Elisa De Salvi, accentua la dimensione umoristica e la distanza della voce narrante non solo dalla protagonista, ma anche dal contesto comunitario in cui essa si muove. Come si è rilevato anche a proposito della Matrigna, la vicenda della giovane sposata al vedovo con i tre figliastri costituisce il più antico antecedente della Nunziatella dell’Isola di Arturo18, ma la collocazione più stringentemente rurale della vicenda e il matrimonio con l’agiato vedovo lasciano intravedere nella Ginevra di Ponte d’Orlando qualcosa persino della Alessandra di Menzogna e sortilegio. Sicuramente, però, se questi sono elementi di continuità, chiari sono i segni di differenza, a partire dal fatto che i due personaggi della maturità, dotati ciascuno, a suo modo, di una propria agency, sono ben distanti da quella che si può definire la minorità di Ginevra. Questa, infatti, con la sua dolcezza di «bestiola» sacrificale, costituisce un’ulteriore variante di quei personaggi morantiani resi incapaci di reagire alle avversità da un candore cosi assoluto da sconfinare nella condizione di minorità incarnata al massimo grado dalla Ida della Settima figlia.

17  Non è un caso che nella Matrigna una simile considerazione appare nella sezione in cui si riportano le parole della stessa Ginevra: «Sulle matrigne corre una fama nera, e l’antipatia dei figliastri era comprensibile; ma ella non poteva rassegnarsi, e tutto avrebbe dato per conquistarli» (Dimenticati, p. 178). 18  Cfr. Porciani, La preistoria dell’Isola di Arturo cit., pp. 118-119.

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Umorismi e parodie poetiche

L’inizio della collaborazione a «Oggi» – con Prima della classe, il 17 maggio 1939 – può essere considerato un secondo spartiacque nella giovinezza di Elsa Morante, che consente di suddividere la produzione successiva alla svolta della metà degli anni Trenta nei due trienni 1936-1938 e 1939-1941. Come si è già accennato, il più regolare lavoro presso il rotocalco segna un notevole aumento del numero dei lavori pubblicati; soprattutto, però, l’autrice sviluppa nuovi filoni di scrittura riconducibili al giornalismo di costume e al racconto umoristico, spesso intrecciati tra di loro, come negli interventi di Antonio Carrera, lo pseudonimo a cui Morante affida una scrittura giornalistica alla Irene Brin1. Se in questo filone prevale un divertito disincanto sui casi del mondo, in cui la patina mondana riveste un’arguta satira dei vizi e vezzi della buona società2, nelle prove narrative si riconosce dietro la connotazione tragicomica delle vicende narrate 1  Si tratta di una modalità di scrittura che la scrittrice in parte riprenderà all’inizio degli anni Cinquanta con la rubrica Rosso e bianco sul «Mondo» e i cui echi si sentono anche nelle coeve recensioni cinematografiche per la RAI (cfr. al riguardo Porciani, Elsa Morante al cinema (1950-1951), in Michele Guerra - Sara Martin (a cura di), Atti critici in luoghi pubblici. Scrivere di cinema, tv e media dal dopoguerra al web, Diabasis, Parma 2019, pp. 401-413). È probabile, peraltro, che proprio la collaborazione a «Oggi» avesse in mente il misterioso R.T.M. quando, in una lettera del 6 giugno 1940 sprizzante furiosa gelosia, scrive a Elsa: «Ho letto i tuoi racconti che sono un esempio di letteratura accademica e i tuoi articoli sono un mezzo fra un saggio umoristico di basso genere e una letteratura per signorine» (L’amata, p. 82). 2  Cfr. al riguardo Porciani, L’alibi del sogno cit., pp. 203-211, a cui si rimanda anche, più specificamente, per il terzo paragrafo. Lo pseudonimo conferma la propensione della giovane Morante per il nome Antonio, già evidente nello zibaldone onirico del 1938 intitolato Lettere ad Antonio e in vari racconti, dove appare anche nella variante femminile; si pensi solo al Giuoco segreto («Il Meridiano di Roma», 13 giugno 1937) e a Nostro fratello Antonio («Oggi», 2 dicembre 1939).

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il tesoro nascosto

il consueto sguardo dell’autrice, che dà vita a personaggi accecati da ridicole velleità o da un orgoglio autodistruttivo, o anche da fantasie tanto assurde quanto fragili, a partire dallo stesso ciclo autofinzionale Giardino d’infanzia. Peraltro, la componente umoristica di Morante agisce anche sugli aspetti formali della sua scrittura. Oltre che dall’articolata rete tematica e dal frequente ripresentarsi di immagini, motivi e situazioni che si sono sinora osservati, la coerenza autoriale che soggiace alla varietà delle opzioni narrative caratterizzanti i circa dieci anni di pubblicazioni giovanili risulta non di meno garantita da una patente continuità linguistico-stilistica: se nelle storie per bambini, specie le più avanzate, prevale una «prosa buffa»3 ricca di trovate spiritose e retoriche, le «novelle per grandi» sono generalmente contraddistinte da uno stile semplice, lontano dalle volute di Menzogna e sortilegio e per certi versi più simile alla pulizia sintattica dell’Isola di Arturo. Ecco allora che sul versante dei racconti, ma soprattutto del giornalismo di costume gli effetti umoristici sono dovuti anche a un uso ironico dell’affettazione stilistica che si fa essa stessa oggetto di satira: riguardo sia alla prosa lirica del tempo che alle proprie precedenti velleità romanticheggianti, per quanto si tratti di una satira garbata e in linea l’intrattenimento colto perseguito da «Oggi». 8.1 Vite da cani I materiali riemersi dall’Archivio con la donazione del 2016 che più si spingono in direzione del modo umoristico sono senza dubbio Signore e cani e Divorzio. Nel primo caso (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 181r-188r) ci troviamo innanzi a un articolo di giornalismo narrativo, conservato in una copia manoscritta che, viste le numerose correzioni, deve essere considerata una prima – e probabilmente ultima – stesura, danneggiata nella parte centrale di ogni carta al punto 3  Rapisarda, «Scricciolo & C.» di Guelfo Civinini, Elsa Morante, Luisa Fantini cit., p. 64. L’osservazione riguarda soprattutto il lavoro come ghost writer per il libro di Civinini, ma alcune considerazioni valgono anche per il rimanente corpus nel riconoscere come costanti dell’autrice il «susseguirsi dei diminutivi affettuosi, dei crescendo enfatici, delle ripetizioni terminologiche, collocate sia all’inizio che nel corpo del periodo. Uno stile fatto di immagini e di situazioni, colte in un’animatissima presentificazione» (ibid.).

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8. umorismi e parodie poetiche

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che uno o più righe risultano illeggibili. In calce al testo si trova la firma «Georgette Duval» (ivi, c. 188r), che sostituisce l’iniziale «Andrée Laconter» (ibid.)4: una fittizia identità francese che evidentemente mira ad accentuare la dimensione mondana, à la page, dello scritto, recuperando, con diversa ironia, la tendenza agli stranierismi dell’estrema gioventù. Il titolo, invece, pare prendere lontana ispirazione, come suggerisce anche l’incipit, dalla cechoviana Signora col cagnolino: Per talune signore dal destino malinconico, il cagnolino non è che un ripiego. È il caso delle vecchie maritate che non hanno potuto avere bambini, e si consolano con una bestiola. Hanno così qualcuno di cui possono dire sospirando “Non mi mangia niente!” o di cui possono raccontare alle amiche i prodigi o le furbizie (ivi, c. 181r).

Che si tratti di un divertissement d’occasione lo si nota dal fatto che nel seguito del testo l’autrice cambia più volte l’impostazione del discorso, giustapponendo una serie di variazioni sul tema della relazione fra donne e cani. Così, dopo aver descritto il caso non meno malinconico delle zitelle, ricorda quando lei stessa abitava «una specie di soffitta in un quartiere borghese di una grande città nordica, e, grassa e infreddolita, saliv[a] la sera le scale col [suo] pacchetto di würstel e di crauti caldi» (ivi, c. 182r) con l’unica consolazione che ad attenderla c’era il cane Argo che le avrebbe fatto feste e scodinzolato intorno – e si è già notato come questa invenzione della città nordica possa ricordare l’ambientazione della Morte romantica. Dopodiché, l’autrice menziona la Venere di Tiziano per osservare che la presenza nel dipinto del cagnolino ai piedi della dea costituisce «un po’ il simbolo della femminilità la quale, per quanto dignitosa e nobile, ha sempre in sé un piccolo segno, un accento puerile e direi comico che intenerisce e fa ridere» (ibid.). Per fornire ulteriori ragguagli del ruolo del cane nel contesto di una simile frivolezza femminile, Morante lo paragona a quella dei dolci zuccherati e dei cocktail 4  Difficile ricostruire l’origine dei due pseudonimi. Se ‘Andrée Laconter’ può suggerire una fascinazione proustiana nel nome, mentre il cognome potrebbe avere a che fare con l’atto di raccontare, ‘Georgette Duval’ suona come una variante di Paulette Duval, diva francese del cinema muto, partner tra l’altro nel 1924 di Rodolfo Valentino in Monsieur Beaucaire (Stati Uniti, 1924, regia di Sidney Olcott), in cui interpretava il ruolo di Madame de Pampadour.

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ad effetto in un banchetto, sia pure esso «imbandito con lusso austero e semplice» (ivi, c. 183r), per poi passare, con evidente gusto satirico, ad abbinare a ogni tipo di donna una diversa razza canina:

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Esiste infatti tutta una gamma di tipi e le signore devono guardarsi bene allo specchio prima di scegliere. Ad una Daisy dall’occhio celeste e dalla gamba rotonda, consiglio un Bedlington, sciocchino e tenero come agnello, dolce a portarsi. Dell’agnello ha i riccioli e le zampe, e l’umore pieghevole e puerile. Dell’agnello ha il musetto e l’occhio stretto e trepido. Daisy può tenerselo sotto il braccio, con aria distratta e vagamente materna (ibid.).

Lo stesso avviene con Magda, Marisa, Berta, Laura, Greta e Angelica, «la sconsiderata, che per non saper resistere all’attrazione delle colazioni ha perduto ogni lontano ricordo di linea, e che procede impettita vicino alla sua levriera!» (ivi, c. 185r). Una nuova svolta si ha quando l’autrice prende in esame due casi «di amarezze e di ribellismi segreti» (ibid.) di cani che si sentono traditi dalle loro proprietarie, affermando di «conosc[ere] a sufficienza» (ibid.) il loro linguaggio5. Innanzitutto, si menziona un «cagnolo costretto a viaggi interminabili» (ibid.) in treno, per quanto su uno speciale cuscino, terribilmente annoiato e insofferente persino al profumo della padrona, «mugolava fra sé a voce bassa» (ibid.) lasciandosi andare al piacevole ricordo di una notte in cui era capitato in «un certo vicolo oscuro» (ibid.), pieno di odori «fra i cavoli e le cartacce» (ivi, c. 186r). Il secondo caso, invece, riguarda uno Scotch-Terrier [sic] che nel bar di un hotel di lusso, al seguito di «una signora graziosa» (ibid.), si avventa sui pantaloni di un gentiluomo, subito rimproverato dalla proprietaria che in tal modo, però, riesce ad attaccare bottone con l’uomo: Nel frattempo il cane umiliatissimo si rifugiò in un angolo sotto la poltrona. Lo sentivo piangere e borbottare “Non capisco – diceva –. Eppure credevo di non sbagliarmi: “Trapezio – essa mi ha detto, – appena vedi un signore così e così, che abbia insomma, brillanti e cravatte, corrigli intorno, e dagli un po’ di fastidio e magari un paio di piccoli calci e zampate. Ora invece… Chi può capirci qualcosa? (ivi, cc. 186r-187r)

5  In vista di una eventuale pubblicazione Morante aveva previsto di invertire i due esempi, inserendo il numero 2 prima del primo e il numero 1 prima del secondo, forse per la maggiore lunghezza di quest’ultimo.

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8. umorismi e parodie poetiche

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La parte finale del testo è dedicata dapprima alla «vecchia questione della razza» (ivi, c. 187r), per cui «I bastardi, gli incroci, i plebei» (ibid.) compensano con la spavalderia «il cruccio interno» (ibid.) di non essere di alto lignaggio, al pari dei loro padroni, sebbene la «Borsa dei Valori» (ibid.) delle razze sia molto oscillante. Dopodiché, si ricordano «i drammi delle ambizioni deluse, delle vocazioni mancate» (ibid.), con cani mansueti e casalinghi come i pechinesi che vorrebbero essere abili per la caccia, oppure gli atteggiamenti snob di un barbone nero che si presenta a un compare bianco come «Febo dei Conti d’Altincourt» (ibid.). L’ultima carta è particolarmente danneggiata, per cui si perde il senso del conclusivo accenno di vanitas, incentrato sulla constatazione che «si perdono sui marciapiedi i sospiri segreti dei cani» (ibid.). Si può supporre che lo scritto fosse pensato per «Oggi». Il tono del lavoro, infatti, corrisponde a quello delle pubblicazioni di Antonio Carrera, con cui condivide la satira graziosa e latamente misogina, per quanto da tarare nel contesto mondano e venato di ironia dello scritto. Se di nuovo, comunque, ci si può porre più di un interrogativo sulla visione della donna che ha nutrito la formazione dell’autrice, senz’altro l’aspetto più interessante in lunga prospettiva riguarda la capacità che questa rivendica di comprendere il linguaggio canino. Si inaugura, così, nella narrativa adulta una comunicazione tra umani e animali che, liberata della maniera umoristica e traslata in tutt’altro contesto narrativo, avrà una fortuna di lungo corso nella scrittura morantiana. 8.2 Effetti di un divorzio L’altro documento di carattere umoristico riemerso nel 2016 è più propriamente un racconto, intitolato Divorzio (A.R.C. 52 I 1/39, cc. 198r-208r), e affronta in una chiave del tutto diversa le tematiche già al centro dei Genitori. Il lavoro sembra di composizione tarda, risalendo allo stesso periodo del secondo Primo amore e della revisione di Chiesa di Santa Maria. Leggenda, con i quali condivide, come già ricordato, il sistema di sillabazione con la barra obliqua anziché la lineetta; inoltre, appaiono molto avanzati il tono della narrazione, ma anche la presenza di una io narrante testimone: una vicina di casa

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della famiglia Patterson, al modo, per intendersi, dell’amica delle Donato nelle Ambiziose («Oggi», 6 dicembre 1941). Al contempo, può costituire un altro indizio per situare il racconto in una fase avanzata della giovinezza morantiana il fatto che anche in questo caso sia utilizzato il ‘voi’ anziché il ‘lei’. La vita della famiglia, composta dai genitori e dai due figli, una femmina e un maschio, si svolge in un villino, che esercita la funzione di cronotopo domestico tipico delle abitazioni morantiane, ed è travagliata dallo scontro perenne tra la madre e il padre. La prima, di nome Candida6, «raccontava a tutti di essere stata violentemente strappata all’affetto dei suoi» (A.R.C. 52 I 1/39, c. 198r) dal signor Patterson, che «l’aveva sedotta con le sue arti diaboliche» (ibid.) a diciotto anni e poi sposata a ventotto, dopo aver vinto le persistentissime resistenze dei parenti di lei7. Lui invece, sottovoce per non farsi sentire, «asseriva di essere stato raggirato, mentre ancora non era nell’età del giudizio» (ibid.), da Candida e dalla suocera, che gli avevano servito «delle polpette affatturate» (ibid.). Nonostante queste premesse, i due sono ancora insieme dopo molti anni e hanno persino messo al mondo due figli. Di questi, tuttavia, «la cronaca non si occupa troppo limitandosi ad osservare che nei contrasti fra i genitori essi stavano costantemente dalla parte della madre» (ibid.), ma senza particolari slanci, dato che sono entrambi «pesanti e torpidi, con biondi capelli lisci, guance pallide» (ibid.), resi ipocriti e vigliacchi dalla rassegnazione a «condividere il fato dei genitori Patterson» (ivi, c. 199r) – e si noterà il ritorno del termine, che varia in senso umoristico, come in I miei vestiti, la notazione seria di ‘destino’, presente invece nella Lezione di ginnastica. La presentazione dei personaggi suggerisce che la prospettiva della narratrice è quella di chi si propone di scrivere una cronaca, anche se poi non si limita ai puri fatti, come si nota quando, in una seconda descrizione dei due genitori, li paragona a due gatti. Il padre, «taciturno» (ibid.) e rassegnato anch’egli, è più simile a un gatto sornione 6  Anche Candida è un nome ricorrente nella produzione giovanile di Morante: così si chiamano una delle tre figlie del vecchio orologiaio nel Figlio («Meridiano di Roma», 2-9 aprile 1939) e, soprattutto, la signorina patetica protagonista in Un uomo senza carattere («Oggi», 4 ottobre 1941). 7  Non appare dato casuale che la madre di Morante si fosse sposata a ventotto anni (cfr. M. Morante, Maledetta benedetta cit., p. 15).

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8. umorismi e parodie poetiche

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e indolente, mentre la madre assomiglia a un felino dal pelo irto che miagola in continuazione:

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Ella era una donnetta patita e squallida, con la bocca piena di saliva e le labbra secche, e due grigi occhioni, ora smorti, ora lampeggianti. Era sempre in balia delle furie, che le suggerivano strane vendette e la spettinavano, l’arruffavano. Mai la vidi uscire del tutto vestita e in ordine: o aveva il cappello pestato e per traverso, o le scarpe slacciate, o uno strappo nel vestito. E sempre nel parlare mordeva o graffiava febbrilmente la sua borsetta di pelle marrone (ibid.).

Un simile impulsivo disordine si nota soprattutto quando, al culmine di improvvise baruffe che attirano l’attenzione di tutto il vicinato, la signora esce dal villino di famiglia «coi pomelli rossi per la rabbia e le vene del collo tutte gonfie» (ivi, c. 200r), accusando il marito «di avarizia e di infedeltà» (ibid.). Un giorno arriva persino a sventolare «con trionfo un reggipetto» (ibid.) dalla finestra, mentre la figlia, tirandola per la manica, tenta di farle capire che è suo, ma non più bizzarro è il comportamento del figlio che poco dopo esce «come se nulla fosse facendo con la bocca il suono della tromba d’automobile, suono che egli imitava benissimo» (ibid.). Una notte, invece, la donna si mette a gettare per strada quelle che a suo dire sono bottiglie vuote di champagne, chiara prova dei tradimenti del marito, il quale il giorno dopo con un sotterfugio la fa ricoverare in una casa di cura: «E un silenzio pieno di pace, simile ad una pioggia primaverile, scese sul villino Patterson» (ibid.). Pochi giorni dopo la signora è di ritorno, su una carrozza scoperta insieme al marito che «cavallerescamente» (ivi, c. 201r) la aiuta a scendere, cosa che lei fa con «grazia» (ibid.) – e il termine è qui utilizzato in senso ironico, mirando a definire l’equilibrio che la donna avrebbe riacquisito col soggiorno nell’ospedale psichiatrico. Sembrerebbe l’inizio di una nuova fase, in cui «un’aria affabile, domenicale di festa in famiglia» (ibid.) si diffonde nel villino, da cui si odono persino delle musiche, e la figlia è vista «coglier fiori» (ibid.); un mutamento più che sospetto si manifesta tuttavia in Candida Patterson: “Matta io? Matta io?” ripeteva la signora Patterson, con un riso fra scandalizzato e indulgente. Ma nello stesso tempo si notò in lei, nei giorni successivi al suo ritorno, il progressivo fiorire di un’ebbrezza misteriosa, una specie di gioia panica. Una luce ossessionante le brillava negli occhi, un fanciullesco tripudio la guidava nel passo, così che pareva danzare. E i suoi capelli erano sempre più favolosi:

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quando portava in testa un giardino pensile con alberelli oscillanti e misteriose flore, quando una gabbietta piena di api, quando addirittura una moschea. Finalmente mi chiamò in disparte e mi rivelò che mai come dopo quel fugace soggiorno coi professori si era sentita libera: “Tutti gli altri”, mi disse “, sono cittadini, individui sociali, tutti soggetti alla legge. Ma io chi sono per la società? Una matta. Dunque io posso fare quello che voglio. Se domani mi salta un grillo qualsiasi, chi può dir niente? Signori, gli direi, l’avete con me? Io sono una povera matta. C’è tanto di carta, di certificato. E dunque sono libera, sono libera! (ivi, cc. 201r-202r)

La signora Patterson dà quindi pieno sfogo alla sua follia. Compra ad esempio gelati e pizzette dolci dai venditori ambulanti e li distribuisce ai ragazzi del vicinato strillando sotto le finestre del marito «Crepi l’avarizia! Crepi la pidocchieria!» (ivi, c. 202r), oppure piagnucola sugli scalini di casa lamentandosi coi passanti che il marito la notte la lascia sola, dopo averla «spedita là, coi matti, per potersi dare liberamente alle sue orge» (ibid.); i professori, invece, l’avrebbero rimandata a casa «perché tornasse a sorvegliare il suo consorte legittimo, com’era giusto» (ibid.), cosa che lui non le perdona. «Non mancano i giorni fausti nella storia dei Patterson» (ibid.), come quello in cui la figlia porta a casa un fidanzato, «un tale coi baffetti che poi nelle cronache dei Patterson rimase per sempre indicato dal suo solo titolo: il “Cavaliere”» (ibid.) e che pensa bene di svignarsela, visto che, come la madre confida alla narratrice, «La poverina ha il padre matto. […] Vengono a casa, vedono, e poi tutti se ne vanno» (ivi, c. 203r), aggiungendo che, come la figlia destinata a restare zitella, sono «tutti condannati» (ibid.). La situazione sembrerebbe stabilizzata, con i due coniugi che non si sopportano, lui «sempre più laconico» (ibid.), lei «estremamente indignata» (ibid.), ma in definitiva «inscindibili» (ibid.) e guidati in ciò, come ribadisce la narratrice con un’immagine che dovrebbe esserci familiare, da «una necessità, un fato» (ibid.). Invece «un giorno fu presentata al tribunale una domanda di divorzio firmata da entrambi i coniugi Patterson» (ibid.), i quali, per evitare spese, si dividono la casa: il padre al secondo piano; la madre coi figli al primo. La condivisione degli spazi domestici determina però inedite costrizioni nei movimenti coatti dei personaggi, inasprendo le loro relazioni. Ogni volta che esce, il signor Patterson deve attraversare un passaggio comune per uscire e ciò lo espone a «una risata lunga e tetra» (ibid.): quella della moglie, che, piena di rancore, «appostata

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fra i cespugli faceva boccacce all’indirizzo del marito» (ibid.). Questi fa però mostra di indifferenza: «confidava agli amici che gli pareva una favola. Diviso da quella donna si sentiva diventato un pargolo, un cherubino. Sì, faceva dei sogni leggeri leggeri, ogni sonno era come un volo, si svegliava ridacchiando» (ibid.) – e si notino le immagini di levità nelle quali il personaggio cerca conforto. Un giorno la narratrice riceve dalla signora Patterson l’invito a prendere il tè a casa sua, evento mai accaduto prima. Entrata così nel piano in cui la signora vive coi figli, si ritrova in un salotto arredato «alla meglio con una quantità di sedie, un cassettone a specchiera, un triciclo e una quantità di soprammobili rotti» (ivi, c. 204r), mentre alla parete sono appesi «certi manifesti del giovane Patterson» (ibid.), che altro non sono che scherzi rivolti alla sorella, la quale intanto se ne sta «con un vestitino di maglia, seduta zitta zitta in punta di una sedia» (ibid.). Sui manifesti la narratrice legge frasi come «“Editta (nome della giovane Patterson) è cornuta”, “Abbasso il Cavaliere!” (ibid.) o anche “Attenti! qui c’è il morto”» (ibid.) con vicino disegnato un teschio. Mentre il figlio riprende il suo tipico verso della tromba d’automobile, arriva la madre: Profumata. E aveva le trecce giù per le spalle, pantofoline d’oro e una vestaglia orlata di cigno. Mi commossi pensando che una simile insolita eleganza fosse in mio onore; ma c’era intorno a lei qualcosa di ansioso, di patetico che non capivo bene. Infine si udì al piano di sopra un rumore di piedi che passeggiavano in su e in giù; la signora Patterson alzò un dito e levò gli occhi al cielo. Io pure levai gli occhi. Ed ecco che la signora Patterson mi si accostò di furia, avvolgendomi in una nebbia odorosa, e mi parlò fitto, con orgasmo e a voce bassa. “Non potreste, signorina, mi disse, invitarlo voi? A voi non dirà di no. Invitarlo per il tè? (ivi, cc. 204r-205r)

Di fronte all’«aria fra pudica e smarrita» (ivi, c. 205r) della signora e alla «raggiante speranza» (ibid.) che intravede nei suoi occhi, ma anche allo spettacolo desolante e al contempo bizzarro dell’ambiente domestico, la narratrice non riesce a dire di no. Guidata dal figlio Patterson, si reca al piano superiore interdetto alla moglie, per formulare al marito l’invito, non tralasciando di dire, ma con nonchalance, altrimenti «non viene per picca» (ibid.), che c’è anche la pizza di alici che gli piace tanto. Il signor Patterson, «come un

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ragazzo cocciuto che non vuol far mostra di cedere» (ivi, c. 206r), risponde che non è né per il tè né per la pizza, ma che deve comunque scendere per «certe faccende da regolare laggiù» (ibid.). A vederlo entrare nel salotto, «la signora Patterson non disse parola. Sedeva pallida come una statua, ma insieme pareva rapita in estasi» (ibid.) e si mette, con mano tremante, a servire il tè. Una nuova consuetudine si è tuttavia affermata dopo il divorzio: «i coniugi Patterson non si rivolgevano direttamente la parola» (ibid.), utilizzando il figlio come intermediario: “Chiedi a tuo padre se ci vuole il latte o il limone.” “Papà – disse prontamente il giovane Patterson, - ha detto così mamma se ci vuoi il latte o il limone.” “Zucchero,” disse il signor Patterson, “dì a tua madre che lo voglio leggero.” “Mammà, dice così papà che lo vuole leggero.” (ibid.)

La cosa va avanti ancora, con «una chiara esultanza» (ibid.) che si impadronisce della signora Patterson, la quale per l’emozione non riesce a tenere abbastanza ferma la mano per tagliare la pizza di alici; la narratrice si offre così di farlo lei, non senza notare che, «per nascondere un suo puerile sorriso, […] le battevano i denti» (ibid.) mentre intanto «il suo volto pesto ed invecchiato» (ibid.) si è arrossato per il piacere. Non di meno, rosicchiando la pizza, «il signor Patterson taceva e direi quasi faceva le fusa» (ibid.), con un’immagine che riprende la similitudine iniziale del gatto sornione. È solo un momento di apparente tregua finché, sempre con il sistema del parlarsi per interposta persona, il marito chiede che cosa intendono fare per la spartizione delle lenzuola: «Vidi la signora Patterson irrigidirsi e i suoi occhi farsi opachi. “Niente,” disse con voce roca e con una scossa della bocca che pareva un morso» (ivi, c. 207r). Come se fosse stato un segnale per riprendere le ostilità, il signor Patterson comunica che per compensare si prende l’attaccapanni e il calamaio e, con questi oggetti in mano, «Con uno sguardo non so se di perfidia o di disperazione e un incedere di protesta e di giustizia calpestata» (ivi, c. 208r), se ne esce dalla stanza per tornarsene al piano di sopra: Poco dopo si udì al di sopra delle nostre teste un cupo strascinio di mobili, e poi quel solito passo. Quel passo monotono parlava di stanze con l’odore di

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rinchiuso, di camicie buttate per terra finché non viene la lavandaia, di uova fritte sul fornellino a spirito. Di una solitudine, insomma, di una invernale, senile solitudine. La signora Patterson si guardò in giro sperduta come un passero impaniato, e bianca bianca scoppiò in singhiozzi. Le sue trecce sobbalzavano sulla sua vestaglia rosa; e i due giovani Patterson, stretti addosso alla madre, in fretta e furia le asciugavano le lagrime (ibid.).

Si riconoscono evidenti echi pirandelliani nella rivendicazione della follia della signora Patterson e nel relativismo della verità che emerge dal conflitto dei due coniugi, così come nell’abbigliamento ridicolo della signora invecchiata; al contempo, i figli contribuiscono al generale clima grottesco in cui il racconto immerge l’istituzione familiare. Per questo, nonostante la sua diversa verve, sospesa tra pietà e ferocia, la rappresentazione della famiglia borghese non è così distante dai Genitori, col quale Divorzio condivide il contrasto fra la madre querula e il padre taciturno, oltre che il loro uso di non parlarsi direttamente. Di nuovo si intravedono proiezioni autobiografiche, evidenti anche nell’ambientazione in villino che molto ricorda quello abitato dai Morante a Monteverde Nuovo8. Al contempo, proprio il confronto col racconto del 1937, di cui Divorzio appare una sorta di riscrittura, mostra l’ampiezza del cammino che in pochi anni Morante ha compiuto, arricchendo il ventaglio delle sue possibilità espressive di un penetrante umorismo che appieno, sempre in termini pirandelliani, consente di esercitare il sentimento del contrario. La verve umoristica, infatti, non impedisce le graffianti descrizioni dello smarrimento esistenziale dei protagonisti, che dietro l’orgoglio smisurato celano il peso delle loro vite dissipate e disamate. 8.3 L’ineffabile poeta Fernando Fin dall’infanzia Morante scrisse poesie, come testimoniano i due quadernetti scolastici che fanno parte delle donazioni del 2007, ricordati in apertura del primo capitolo, e continuò a farlo anche nell’adolescenza. Di questa fase ci rimane un’unica testimonianza, dovuta alla trascrizione che ne fa la scrittrice nel 1945 nel Quaderno di Narciso: 8 

Cfr. M. Morante, Maledetta benedetta cit., pp. 38-39.

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Lungo tutta la strada, un fantasma mi accompagnava. Nella sua mano di pietra la mia tremava. Mi mostrava il cielo giusto, il fiume, le strade odorose. Con ribrezzo udivo un suo pari discorrere di sante cose.

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Sognavo d’abbandonarlo, di fuggire, d’essere io, e a volte vaneggiavo fino a crederlo dio. Vattene, febbre nera, brutto uccello dagli occhi di vetro. Bello sarebbe andare senza i tuoi passi dietro. Se voleva ingannarmi, per gioco si trasfigurava. Diventava un angelo, un fiore, l’anima mia l’adorava. E dopo avermi rapita in quel sogno sovrumano si scioglieva in sudicio fumo ridendo piano piano (A.R.C. 52 I 1.4/2.1, c. 28r).

Lucido è il commento della scrittrice trentatreenne, che riconduce i versi, datati 29 agosto 19269, al filone delle poesie «brutte e pessimiste, ma spontanee» (ivi, c. 28v), a differenza di quelle dettate da «un pessimismo accademico, o di un voluttuarismo alla D’Annunzio» (ibid.), che confluiranno negli esordi poetici sull’«Eroica» (vedi infra). Né è da trascurarsi un’osservazione relativa alla propria autointertestualità: «V. anche il ridere piano piano che io riscrissi (senza assolutamente ricordare questa poesia) nel racconto L’uomo dagli occhiali scritto all’età di 23 anni» (ibid.), nel cruciale 1935, e pubblicato due anni dopo, il 25 aprile 1937, segnando il debutto sul «Meridiano di Roma». Si tratta, se prestiamo credito alla testimonianza, di 9  È curioso, oltre che rivelante di come le testimonianze di chi ha conosciuto Morante siano preziose, ma non considerabili come prove biografiche oggettive, che nello speciale Festa per Elsa pubblicato nel dicembre del 1985 un giovane amico come Luca Coppola, destinato a morte prematura, faccia risalire la poesia, forse menzionata dall’autrice in pubblico con un surplus di invenzione autobiografica, alla sua infanzia: «A otto [anni] ne scrisse una che cominciava: “Lungo tutta la strada un fantasma mi accompagnava…”» (Luca Coppola, Ricordo di Elsa, in Fofi - Sofri (a cura di), Festa per Elsa cit., p. 90).

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una memoria involontaria che si appiglia su situazioni e motivi evidentemente fissati nell’immaginario dell’autrice sin dall’adolescenza: in questo caso una figura persecutoria nella quale si adombra un personaggio, al contempo minaccioso e seducente, che dietro l’aspetto amichevole e protettivo cela la rovina e la perdizione, destinato a ripresentarsi nelle angoscianti sembianze dell’uomo dagli occhiali. Al contempo, al di là della facile reminiscenza leopardiana delle «strade odorose», colpisce la «mano di pietra» che prelude alla ricorrenza nella futura opera di statue in rovina, oltre che di pietrificazioni figurate, dalla Chiesa di Santa Maria. Leggenda a Via dell’Angelo, ma anche a Nunziata che nell’Isola di Arturo si trasforma in una «matrigna di pietra» (Arturo, p. 290) di fronte alla passione del figliastro. Se nient’altro ci rimane delle poesie preistoriche, abbiamo comunque le testimonianze dovute a due personaggi che giocarono un ruolo di primo piano nella vita della giovane autrice. La prima è contenuta in una lettera del 17 settembre 1936 di Pietro Tacchi Venturi, gesuita conosciuto per aver favorito, in virtù della sua amicizia con Mussolini, la stipula dei Patti Lateranensi del 1929, ma anche colui che battezzò Elsa, ne fu il confessore e la unì in matrimonio con Moravia nel 194110: Che dirti della tua lettera così schietta e figliale! Leggendola ritornai col pensiero a 17 o 16 anni addietro, quando bambina gustasti la dolcezza di essere rinata a Cristo per le mie mani e di sentirti unita a lui per l’innocenza, per il pudore, per il fervore del tuo vergine cuore! Oh quelle tue poesiole a Gesù quanto tesoro di fede e di amore nascondevano in sé! (L’amata, p. 17)

È possibile che qui Tacchi Venturi faccia riferimento alle poesie di argomento religioso che si trovano nel primo dei due quaderni infantili, a conferma non solo della precocità del battesimo, ma anche dell’educazione cattolica della piccola Elsa11. Di poesie più avanzate 10  Su questa figura e le sue relazioni con Irma Poggibonzi ed Elsa Morante cfr. soprattutto Beer, Costellazioni ebraiche cit., pp. 175-177 e 184-185. Si ricorderà che Padre Pietro è il titolo della sinossi, stesa il 24 ottobre 1937 su un un taccuino personale (A.R.C. 52 I 1/32, c. 2r), del racconto poi pubblicato col titolo Il confessore su «Prospettive» nell’ottobre e dicembre 1940, mentre a lui forse allude l’«amico Gesuita, santo padre dalle spalle curve e dal viso impassibile e grigio come creta» («Meridiano di Roma», 14.8.1938, p. 6), che ha affidato Antonia alle suore in Via dell’Angelo. 11  I titoli di argomento religioso sono vari – Gesù, Il bambinello è nato, Ninna nanna di Natale, Ninna nanna degli angeli, La mia befana, A voi angioletti, Sei Gennaio –, e

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sembra invece recare testimonianza una lettera di Guelfo Civinini, che il 16 agosto 1948, all’indomani della vittoria del Premio Viareggio, scrive alla sua antica amica:

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Cara Elsa, sono tanto tanto lieto del tuo trionfo. Lasciami dire che mi fa proprio tenerezza ricordare la bimba scapigliata che tanti anni fa – quanti non ricordo neppure – andavo ad aspettare all’uscita della scuola e che mi leggeva le sue prime poesie, già così belle, così più grandi di lei (L’amata, p. 15)12.

Ci si può chiedere se tra queste poesie fossero comprese anche le quattro che sarebbero state pubblicate sulla rivista «L’Eroica» di Ettore Cozzani, sicuramente affini all’epigonale gusto di Civinini. Senza dubbio, la produzione in versi rimastaci dagli anni Trenta è molto esigua e non proviene, salvo un caso13, dall’Archivio, bensì dalle sedi di pubblicazione: sul fronte infantile, alle filastrocche del «Corriere dei piccoli» e del «Cartoccino dei piccoli» già note si deve adesso aggiungere La ninna nanna del piccolo Billi («Corriere dei piccoli», 24 giugno 1934), di cui si è trattato nel secondo capitolo; sul fronte adulto, oltre a Semplice («I diritti della scuola», 30 agosto 1936), si sono riportati alla luce i quattro sopra menzionati componimenti apparsi sull’«Eroica» tra il 1931 e il 1933, ossia Tutto, La gioia, Grido dell’allodola e Saluto della sera14, e le tre poesie forniscono una prova concreta della sostanziale rimozione in casa Morante dell’ebraismo al quale Elsa e i fratelli, nati da madre ebrea, pure sarebbero stati destinati. 12  «Bimba» sarà da intendersi nel senso di ‘ragazza’, come si usa in Toscana. Se prendiamo alla lettera il ricordo di Civinini, si presenta un problema di cronologia riguardo alla versione più accreditata dell’inizio della loro conoscenza, che sarebbe successiva alla lettera che la diciottenne Elsa scrisse all’autore toscano dopo aver letto l’editoriale Bisogno di una sorella del 4 luglio 1930. Morante, infatti, concluse il liceo nel 1930 (cfr. Bernabò, La fiaba estrema cit., p. 32), quindi all’incirca nel periodo della pubblicazione dell’articolo. Si potrebbe ritenere che Civinini attendesse la giovane amica in un contesto diverso da quello scolastico. 13  La sola Tutto (A.R.C. 52 I 1/22, c. 96r), che fa parte del gruppo di poesie pubblicate sull’«Eroica». 14  Cfr. Bardini, Elsa Morante e «L’Eroica» cit., pp. 129-134; Eleonora Cardinale, «O genio rinchiuso in una / cupola rossa ornata di papaveri»: prime osservazioni sul quaderno di Narciso, in Zagra (a cura di), Santi Sultani e Gran Capitani in camera mia cit., pp. 9394. Chiedendosi come Morante fosse arrivata a pubblicare sulla rivista, Bardini ricorda che «Sull’“Eroica”, in quegli stessi anni, Guelfo Civinini […] è recensito un paio di volte; nel 1928 la Casa editrice di Cozzani pubblica il saggio Scultura vivente, di Anton Giulio Bragaglia (ma, com’è noto, Elsa sarà legata più al fratello Carlo Ludovico)» (ivi, p. 129).

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La meta, Estranea, L’ora, uscite nel giugno 1935 sulla cattolica «La Rassegna Nazionale»15. Si tratta di lavori che recano testimonianza della prima acerba maniera poetica dell’autrice, improntata a quel dannunzianesimo o a quel sentimentalismo che già dalla metà degli anni Trenta Morante inizia a lasciarsi dietro le spalle16. Un caso a sé è costituito dal manoscritto Il poeta demoniaco ovvero L’arduo stil novo che, catalogato con la segnatura A.R.C 52 I 1/21, cc. 1r-5r, fa parte della tranche di acquisizioni del 200717. Il documento reca la firma di Antonio Carrera, lo pseudonimo generalmente utilizzato dalla scrittrice per gli articoli di costume pubblicati su «Oggi» nella rubrica Tempi moderni, la cui intestazione precede infatti il testo. Non è la prima volta che Antonio tratta di poesia. In più occasioni si è definito poeta, a partire dal primo articolo, del 16 dicembre 1939, I poeti e l’epulone. Qui egli narra di una gita al cimitero inglese di Roma in compagnia della frivola Eugenia, che alla romantica meditazione sui poeti morti preferisce i gatti da inseguire fra le tombe e il «sodalizio del suo poeta, che sono io, Antonio Carrera, e del mio giovane amico Apelle, e le nostre serate al caffè» («Oggi», 16.12.1939, p. 7), probabilmente il «caffè Tavolozza» menzionato nel successivo Ricevimento («Oggi», 6.1.1940, p. 10) e destinato a riapparire nel Poeta demoniaco. Non molto, invero, Antonio ci dice del suo modo di poetare. Solo nella serie del 1941 appaiono alcuni cenni alla sua attività: in Alberghi e pensioni, vita segreta dei clienti 15  Cfr. Mario Cianfoni, «La divina onda de le solitudini»: tre poesie ritrovate di Elsa Morante, «Otto/Novecento», XLI, 1, 2017, pp. 85-110. 16  Più prodigo l’Archivio è per gli anni Quaranta, specie per il Quaderno di Narciso, che contiene molti materiali destinati a essere pubblicati in Menzogna e sortilegio e in Alibi, oltre all’inedito Narciso. Sul quaderno cfr. Cardinale, «O genio rinchiuso in una / cupola rossa ornata di papaveri» cit.; Silvia Ceracchini, «Tu sei la fiaba estrema»: le poesie di “Alibi”, «Cuadernos de Filología Italiana», XX, 2013, pp. 73-98; Ead., Due strofe inedite di “Narciso”, in Cardinale - Zagra (a cura di), «Nacqui nell’ora amara del meriggio» cit., pp. 33-47. 17  Se ne dà notizia nella sezione bibliografica che chiude il secondo Meridiano come «sorta di graziosa parodia o satira dello stile ermetico in poesia» (Carlo Cecchi - Cesare Garboli, Scritti di Elsa Morante sparsi in giornali e periodici (1933-1970), in Elsa Morante, Opere, 2 voll., a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, Mondadori, Milano 1990, vol. II, p. 1635). Più in dettaglio, il manoscritto è pervenuto in una cartellina numerata a matita ‘I’ con l’annotazione manuale «Racconti stampati. Dattiloscritto “Mia moglie”. Dattiloscritto “La grande notte”» (A.R.C. 52 I 1/21, c. 1r).

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egli ricorda l’illusione di aver pensato, giunto in un alloggio che pareva finalmente decente e provvisto di una degna scrivania: «“Che belle poesie scriverò qui sopra”» («Oggi», 22.2.1941, p. 11), mentre nel di poco successivo I fidanzati constata i limiti, più quantitativi che qualitativi, della sua ispirazione:

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Quanto ai fidanzamenti dei poeti, io che, come più volte ho asserito su queste pagine, sono un poeta, ne so qualcosa. Una volta fui fidanzato e facevo per la mia fidanzata quel che potevo: sonetti e madrigali, ballate e rispetti, sonetti caudati e canzoni. Ma ella mi preferì un altro poeta, il quale scrisse per lei un poema intero in ottave, diviso in cinque cantiche di trentotto canti ciascuna. Ciascuno fa per la fidanzata quel che può («Oggi», 15.3.1941, p. 10)18.

Pertanto, più che una qualifica provvista di una qualche declinazione specifica, quella di poeta appare una caratterizzazione di maniera, che fornisce una giustificazione pseudobiografica a una firma maschile che ben poco sembra possedere di virile secondo i canoni dell’epoca. Solo nell’articolo L’ultimo soggiorno di Torquato Tasso, del 27 gennaio 1940, il riferimento alla poesia assume, pur nella sua patina umoristica, una movenza critica più sostanziale, quando, raccontando di una visita al convento di S. Onofrio a Roma, Antonio/Elsa afferma di essersi emozionato non tanto di fronte ai cimeli del poeta quanto davanti agli affreschi della vita del santo. Lo spettacolo dei dipinti è occasione per un confronto fra il destino dei poeti e quello dei santi, entrambi «figli prediletti da Dio» («Oggi», 27.1.1940, p. 9), creature sì carnali ma «ammesse al gaudio di invisibili e intangibili fiumi» (ibid.); sennonché «se i santi trovano in sé, per così dire, la sete e l’acqua, perché il loro amore si consuma in se stesso e di se stesso si appaga, per i poeti troppo maggiore è la promessa che l’adempimento» (ibid.) ed essi vanno in cerca di corone, e vorrebbero da tutti inchinata e festeggiata la loro sorte; e spesso perfino sono fatti simili a fanciulli rivali e gelosi l’uno dell’altro, quasi che la beatitudine celeste non fosse inesauribile e capace di contenerli tutti. Il giorno che loro è dato di riposarsi in essa se ne accorgono. Laggiù, certo le belle strofe han valore di vita e di esempio, e le vite beate si spiegano come cori e musiche, e le promesse si adempiono (ibid.). 18  L’articolo riprende, in versione umoristica, la patetica materia del racconto omonimo pubblicato su «I diritti della scuola» il 25 febbraio 1939.

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8. umorismi e parodie poetiche

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Si affaccia qui il motivo della vanità dei poeti, che trovano pace nella morte, come in definitiva lo stesso Tasso, ma che, finché sono vivi, si combattono tra di loro alimentando la fame di gloria con un senso di astrusa superiorità: non a caso, uno degli obiettivi polemici dell’inedito ritrovato di Antonio Carrera. Argomento dello scritto, infatti, come si intuisce dal titolo, è la poesia, anche se diversamente dalle altre occasioni Antonio non rivendica per sé l’alloro del poeta, bensì recita il ruolo dell’amico (fintamente) ingenuo, onorato della grazia che «il poeta Fernando» (A.R.C. 52 I 1/21, c. 1r) gli fa di renderlo partecipe della sua ispirazione. L’ironia non tarda però ad affacciarsi, dato che il primo tratto di riconoscimento di tale sommo personaggio è «la straordinaria sicurezza di sé» (ibid.): Egli ha una tale coscienza della propria statura che sembra, quando cammina, proiettare ombre gigantesche. Noi tutti allora ci restringiamo nelle poltrone del Caffè Tavolozza & Lira, fino ad assumere le nostre giuste misure di nani (ibid.).

Il riferimento al Caffè, già presente, come si è detto, nei primi due articoli firmati Carrera, I poeti e l’epulone e Ricevimento, suggerisce, oltre forse alla contiguità cronologica della redazione, l’intento di satireggiare la vita mondana letterario-artistica della capitale, nella quale, superate, almeno apparentemente, le insicurezze del passato, Morante comincia in questi anni a essere sempre più una presenza fissa. Il tono è al contempo leggero e affilato: Antonio/Elsa sa perfettamente dove vuole andare a parare, come mostra la studiata scansione del testo, imperniata su tre poesie che il sommo vate si degna di leggere all’umile e «ignorante» (ibid.) amico e che consentono di mettere a fuoco la polemica dell’autrice contro l’‘arduo stil novo’, ossia un tipo di poesia inutilmente difficile e, al tempo, da poco sbocciato. Impossibile, quindi, che il pensiero non corra all’ermetismo, ma il discorso non sembra esaurirsi in questo riferimento, come si nota sin dal primo testo di Fernando riportato, dal titolo Bicchiere: Brama vitrea dell’aria in te s’appaga. Trasparenza concede l’illimitato al tuo limite. Dal tuo centro le nocche liberano musiche rare.

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Che la mia bocca alla tua bocca non ceda. Io so quanto di morte tu mesci di furia sanguigna d’esangue oblio (ivi, c. 2r).

Nonostante si possa riconoscere un parodico afflato ermetico in questa «prima maniera dell’ancora ingenuo poeta» (ibid.), ispirata alla volontà di riscattare con i propri versi «ogni minimo oggetto» (ibid.), Bicchiere sembra tuttavia mirare a mettere in ridicolo soprattutto l’epigonismo romantico di ascendenza dannunziana di cui la stessa Morante fu vittima nei suoi esordi. Anzi, si potrebbe persino ipotizzare che certi versi di Fernando risalgano agli esordi della stessa autrice, che si autociterebbe ironicamente per prendere le distanze dalle imbarazzanti prime prove poetiche, similmente a quanto accade nell’aneddoto infantile Lettere d’amore riguardo a Grido dell’allodola, come si è visto nel primo capitolo. In ogni caso, in un crescendo di ironia la seconda somma opera del poeta Fernando, Paesaggio e figura, amplia l’obiettivo polemico dello scritto: Vola alle acerbe nozze, Frieda! I timidi rossi vapori aria invocano al petto. Aride vene ricusano. (Freddo fiume consola gli ozii del pastore) (ibid.)

Richiesto di delucidazioni dal disorientato Antonio, il poeta Fernando fornisce una spiegazione che non può non suonare esilarante a chi legge: Frieda sarebbe il nome poetico di una giovanissima sposa che in treno, durante il viaggio di nozze, si ritrova a soffrire terribilmente il caldo perché un vicino di posto, un anziano commercialista che soffre di cattiva circolazione, le ha impedito di aprire il finestrino; l’immagine finale del fiume richiama invece i pastori che la giovane vede dal treno bere dalle sorgenti della campagna circostante. Non meno attraversata dall’ironia morantiana è la risposta che Fernando offre ad Antonio dopo che questi gli ha fatto presente come, in mancanza di una precisa spiegazione, il significato sarebbe rimasto «oscuro per i non iniziati» (ivi, c. 3r) e per quanti comunque non conoscono la storia del viaggio in treno della giovane signora:

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Fernando allora sdegnosamente rispose che ciò non lo riguardava; essendo i poeti quando offrono il loro canto alle turbe simili ad Apollo Delfico quando concedeva l’oracolo. Nessun poeta ha il dovere di partecipare il mistero chiuso nel verso; i lettori sono padroni di spiegarselo per proprio conto come meglio aggrada (ibid.).

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Se in questo passaggio, in effetti, la stilettata sembra diretta in primis ai poeti ermetici, parodiati nella trasfigurazione del dato quotidiano in una criptica autoreferenziale oscurità, la satira poetica non termina però qui, perché si registra un terzo versante poetico che Antonio/Elsa prende di mira nella terza poesia, Baratro: In assenza di echi fra massi morbidi rantola il disgusto natale. Impazza il timore, la cera si scioglie! Santificata fu la palpebra, persuase le ciglia, né ancora i sogni non nati agitano tremule mani. Fu addio trasparenza di larve. Si dilatano i cerchi intorno al grave. L’acqua si chiude (ivi, cc. 3r-4r).

Quest’ultimo componimento rivolge la divertita polemica dell’articolo al metodo di composizione che il poeta Fernando definisce «demoniaco e che consiste nell’evocare in sé una parola quale appunto ‘baratro’ e nel trascrivere le immagini e i suoni dettati al poeta dal demone che infuria in preda del dio» (ivi, c. 4r). Antonio/Elsa sembra aver qui in mente anche la scrittura automatica di ascendenza surrealista, verso la quale appare assai perplesso/a, temendo che il procedere per associazioni non solo provochi una deriva verso l’incomunicabilità, ma anche apra «un campo illimitato e incontrollabile ai falsi profeti, ai ciechi vaneggianti, alle sonore zucche vuote, ecc.» (ivi, c. 5r), in una degradata versione del demone platonico, oltre che del poeta veggente simbolista. A tali obiezioni, però, il poeta Fernando fa «una smorfia di schiacciante superiorità» (ibid.) e cessa per sempre di rivolgere la parola al malcapitato Antonio: «da allora, simile ad ospite sempre in partenza, inaccessibile mi passa vicino né più si degna di farmi leggere i suoi versi» (ibid.).

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il tesoro nascosto

Giunti al termine della lettura, ci si chiede perché questo testo, così gustoso, non sia stato pubblicato. Al riguardo si può soltanto addurre l’ipotesi che l’autrice, o chi per lei, lo abbia giudicato un apologo letterario al contempo troppo cifrato e troppo militante, non abbastanza adatto per il pubblico di «Oggi», abituato a una più immediata divulgazione culturale. Tuttavia, è proprio in virtù di questa sua maggiore specificità che l’articolo acquista per noi interesse, poiché apre alle successive, per quanto sporadiche, prese di posizione di Morante sulla poesia. Di fronte al Poeta demoniaco, si osservano le radici di quella che più chiaramente nel prosieguo della sua parabola intellettuale si prefigurerà come la predilezione per un tipo di poesia onesta, aliena dal compiacimento autoreferenziale, il cui massimo rappresentante sarà, agli occhi della scrittrice, in Umberto Saba: quel troppo che (secondo l’accusa di certuni) Saba avrebbe messo nel suo Canzoniere, è proprio, invece, la sostanza intima e singolare della sua poesia. Attraverso quel troppo noi impariamo la storia di questa poesia, e la sincerità difficile e disinteressata che porta alle sue assolute rivelazioni: come in una città popolosa, antica e vivente, dove, da rioni promiscui, e per vicoli angusti, e scale faticose, si esce all’improvviso su favolose piazzette e giardini, e cattedrali (Pro o contro, p. 34).

Così si legge nel Poeta di tutta la vita, l’intervento critico del 1957 dedicato all’autore del Canzoniere, e sappiamo adesso, in conclusione di questa mappatura del ‘tesoro nascosto’ nell’Archivio Morante, come una simile città «antica e vivente» non altrove si trovi che nella memoria poietica dell’autrice, che a lungo l’ha percorsa, oltre che rappresentata, nelle intricate volute della sua giovinezza.

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Appendice Sei storie e una poesia di Elsa Morante

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Storia di una bambina e di due bambole*

C’era una volta, nel più lontano paese del mondo, un bel sogno. Voi non potete immaginare quanto sia bello un sogno se si può vederlo da svegli, vivo. Specie se è il sogno di un bambino piccolo, che lo dimentica al mattino. I sogni, perché rimangano veramente belli, bisogna dimenticarseli subito, perché il sole potrebbe sciupare il loro vestito di stelle. C’era una volta, dunque, un bel sogno. Era nato d’improvviso, una notte, nel piccolo cuore di una bambina: questa bambina era povera, e desiderava una bambola. Avrebbe voluto una di quelle bambole da due lire che si vendono sui carretti per le strade, ma non poteva comperarsela. Era molto, molto povera, eppure per essere felice non desiderava che una bambola. Non osava dire a nessuno il suo desiderio, ma la regina dei sogni glielo lesse negli occhi. Purtroppo anche la regina dei sogni è molto povera, e i suoi doni si allontanano con la prima luce e vanno dove nessuno può trovarli e rubarli; essi sono l’unico tesoro di quella povera fata, che può prestarli solo per una notte. Così fu che la regina di sogni volle far nascere nel cuore della bambina una bambola fatta di azzurrità. Questa bambola si avvicinò al piccolo cuore tremante, e accarezzò le ciglia della bambina con le sue manine di stoffa. Era bella, aveva un grande fiocco sui capelli, e sapeva camminare e piangere. Sapeva anche sorridere mostrando cinque dentini. La bambina le mise nome Lucietta e fu felice giocando con lei per tutta la notte. Al mattino, l’aveva dimenticata, e la bambola se ne andò piano piano senza che nessuno le desse la carica. Giunse al paese più lontano del mondo, e lì si confuse con gli altri sogni, tutti lieti di esser liberi e di poter volare fra gli alberi. * «Il Balilla», 11 agosto 1932, p. 5.

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elsa morante

Anche la bambola giocò e si divertì, senza ricordare più la bambina. Ma quando venne l’ora in cui i passeri vanno nei nidi e i bambini nel loro letto, una piccola voce giunse da lontano lontano e chiamò: Lucietta. Allora la bambola, senza pensarci e senza che nessuno glielo dicesse, camminò e camminò finché arrivò al letto in cui dormiva la bambina. E le fece compagnia anche quella notte, pianse e sorrise per divertirla, chiuse i suoi occhi celesti fingendo di dormire per farsi cantare la ninna nanna e andò avanti e indietro dal letto alla finestra. Tutte cose che la bambina dimenticò alla prima luce, ma che le lasciarono nel cuore qualche cosa di allegro e di dolce. Il giorno dopo Lucietta tornò e raccontò tante belle storie che le avevano insegnato le cingallegre, e quando la bambina si svegliò aveva il cuore pieno di canto come una cingallegra e non sapeva che doveva tutto questo a Lucietta. Lucietta aveva ormai imparato la strada che conduceva alla casa della bambina e tutte le sere andava a trovarla dopo aver imparato molte nuove storie sempre più belle; quando ritornava al suo paese lontano, era un po’ stanca, ma felice. Ora avvenne che un bel giorno uno di quei carretti pieni di bambole che girano per le strade, si fermò proprio davanti alla casa della bambina; essa lo vide dalla finestra, e corse sulla strada, e rimase davanti al carretto, senza parlare, col pollice in bocca. Passava di là un vecchio signore con gli occhiali e la guardò. Quel signore, avendo gli occhiali, vedeva molto bene quello a cui nessuno bada. Egli vide nel viso della bambina un desiderio immenso: il desiderio di una di quelle bambole che il padrone del carretto vendeva per due lire. Il signore prese due lire e le porse all’uomo del carretto; e d’improvviso, senza saper come, la bambina si trovò fra le braccia la bambola. Ella era stupita, non capì, e voleva restituirla, ma il padrone le disse: È tua. Allora la bambina fuggì dentro la sua casa, salì le scale di corsa, senza guardare nessuno, col cuore che le batteva forte. Corse, e si inginocchiò sul pavimento, davanti alla bambola. E pensando che la bambola era sua, sua, la baciò. Le fece un vestitino con un fazzoletto, e con un avanzo cucì anche le scarpette di stoffa. Per tutto il giorno non fece altro che cullare la bambola, stringerla al petto, e quando venne la sera, non sapeva staccarsene. Allora la sua mamma, per farla contenta, mise a letto insieme a lei anche la bambola, la quale rimase a vegliare coi suoi occhi rotondi aperti, anche quando la bambina si addormentò. E in quel momento, dal paese dei sogni partì come le altre sere Lucietta.

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storia di una bambina e di due bambole

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Aveva imparato tanti bei giochi e tante storie nuove e camminò piano piano nella notte, per le strade illuminate dai fanali, finché giunse alla casa della bambina. Camminando in punta di piedi, si avvicinò al lettuccio, e stava per toccare le ciglia della bambina e dirle: «Buona notte! Sono io, Lucietta!» quando vide l’altra bambola. La bambina teneva i suoi braccini intorno alla bambola e sorrideva nel sonno a qualche cosa che la rendeva felice. I suoi capelli biondi erano sparsi sul cuscino e un ricciolo si era posato sul viso di legno della bambola. Lucietta rimase un poco immobile davanti al piccolo letto; poi capì che oramai un’altra Lucietta aveva preso il suo posto e fuggì, dopo aver accarezzato leggermente i riccioli della bambina. Ma quando si trovò sola nel vicolo buio, dove un fanale metteva una luce povera povera e tutte le finestre erano chiuse, due lacrime scesero dai suoi occhioni celesti. E allora d’improvviso sentì tante vocine nel vicolo chiamare: «Lucietta, Lucietta, Lucietta». Erano le voci di tutte le bambine che desiderano una bambola e non possono averla. E dietro le persiane chiuse si accesero lumi piccoli come quelli delle lucciole per insegnare la strada alla bambola. Nella notte la bambola andò a trovare tante, tante bambine, che la cullarono e impararono da lei le storie delle cingallegre e delle rondini. Da quella notte, Lucietta fa tutte le sere la stessa strada, e va a trovare tutte le bambine che non hanno bambole per rendere felici i loro sogni. Appena viene il mattino, le bambine l’hanno dimenticata, ma non per questo la loro felicità diminuisce, perché esse hanno nel cuore la gioia delle cingallegre e delle rondini. Una gioia che conoscono solo i bambini e gli uccelli, e che è la più bella.

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Il sogno di Pietruccio*

Mentre le sue pecore vagano per il declivio del monte, Pietruccio fa un bel sogno. Gli sembra di vedere, proprio in cima al monte, dove va tutti i giorni con le sue pecore, l’Eroe a cavallo, come lo ha visto sul libro di lettura: bello, con la sua camicia rossa, i suoi capelli biondi, i suoi occhi color del mare, tutto luminoso nella lotta e nell’orgoglio della vittoria. E intorno a lui sul monte salgono tanti guerrieri giovani, ragazzi, con gli occhi fissi nei suoi. È stato un bel sogno! Pietruccio non può dimenticarlo: ora sul monte vede solo le sue pecore che ritornano all’ovile tutte in fila, con la testa bassa. È giugno, e c’è nell’aria odore di rose e di fragole, ma Pietruccio non è felice e non ha voglia di cantare come gli altri giorni. Pensa all’eroe del suo sogno, al bel cavallo, alla camicia rossa; e poi pensa alla sua casettina grigia ai piedi del monte, dove c’è una povera sorelluccia che a quest’ora è certo tutta affaccendata per preparargli la cena. Guarda quelle quattro pecore che fino a ieri gli sembravano un tesoro; e poi corre col pensiero oltre l’orizzonte, che stasera è tutto tinto di vermiglio. Oltre quell’orizzonte ci sarà la vita, la lotta, la gloria. Il cuore di Pietruccio batte di ansia e di desiderio. Vorrebbe essere come gli uccelli, e poter vedere tutto il mondo in un volo. Le pecore fanno: «Be! be! be! » senz’accorgersi di questo gran dolore di Pietruccio. Le povere pecorelle non s’accorgono di quell’immenso orizzonte che è tutto un mistero. Contente di aver brucato l’erbetta, vanno verso la casettina grigia, dove c’è Caterinuccia che prepara la minestra al suo fratellino. * «Il Balilla», 25 agosto 1932, p. 5.

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il sogno di pietruccio

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Caterinuccia attende al cancello, con la sua trecciolina di capelli neri piantata sul cocuzzolo, e il suo grembiulone grigio: ha sfaccendato tutto il giorno dall’orto al pollaio ed è felice di poter trascorrere un po’ di tempo col fratellino, dargli la buona minestra, parlare con lui del maestro, del raccolto, e poi di quando c’erano il babbo e la mamma. Ma stasera Pietruccio non ha voglia di parlare; mangia svogliatamente, e se qualcuno potesse vedere proprio in fondo ai suoi occhi, dove nessuno vede, scorgerebbe l’immagine dell’eroe biondo e bello come un re. A letto Pietruccio continua a sognarlo quantunque non possa dormire; e sogna di avere un gran cavallo, che lo porti oltre la linea curva dell’orizzonte, nel mondo della lotta. Sogna di essere anche lui un eroe; di avere tanti guerrieri, di combattere per la Patria, e che tutti gli italiani, fra cui anche il suo maestro, gridino: Evviva Pietruccio! Bravo Pietruccio! È notte profonda; il prato è pieno di grilli e di stelle. Pietruccio scende piano piano dal letto, infila i suoi scarponi, il suo berretto, fa un pacco delle cose sue più preziose, ed esce nel prato senza voltarsi indietro. Dove va? Io non lo so. Nel pacco ha i suoi libri, lo zaino, un fuciletto, e poi la sua camicia di piccolo soldato che non è rossa, è nera, ma è anche essa tanto bella. Così cammina Pietruccio; e crede di andare dietro al suo eroe; gli sembra veramente che il guerriero biondo gli mostri la via e gli sorrida. Cammina ancora, come in una fiaba. Ma nelle fiabe non bisogna voltarsi indietro, e invece, arrivato al cancello di legno verde, Pietruccio si volta indietro e rivede la sua casettina grigia. Povera casettina, che di giorno è tanto brutta! Ora la notte la fa tutta nuova e dietro c’è la punta di un piccolo cipresso, e sopra c’è una stella. Pietruccio sta per salutarla, ma d’improvviso qualcuno si sveglia vicino alla casettina: una pecora dal buio dell’ovile fa: «Be! be! be!». Forse ha capito che il suo padrone se ne va e pensa: Chi mi condurrà ora su per la montagna a mangiare la buona erbetta? Ed ecco subito anche le altre pecore si svegliano e fanno: «Be! be! be!». Pietruccio si ferma. Se Caterinuccia si svegliasse? Ma no, povera Caterinuccia. Il suo sonno è pesante, dopo tanto lavorare: ella continua a dormire, e certo sogna il suo buon fratellino e i tempi in cui c’erano anche il babbo e la mamma. Sembra quasi a Pietruccio di udire una voce. Di chi sarà? È voce profonda e cara e pare la voce di un padre. Dice:

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elsa morante

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«Torna indietro, Pietruccio, con la tua povera sorelluccia e con le tue pecorine. L’Italia ora è libera e grande, a ha bisogno di bravi uomini che facciano il loro dovere. Se domani le occorreranno degli eroi, ti chiamerà, e tu combatterai e vincerai come gli altri. Così si è veri italiani. Torna indietro, Pietruccio». E il giorno dopo Pietruccio vede ancora l’eroe biondo e luminoso che gli sorride e gli dice: — Bravo, Pietruccio! Al ritorno, andando verso la sua casettina dove lo aspetta qualcuno che gli prepara la buona minestra, Pietruccio canta: «Fiorin, fiorello!…».

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Storia di Nic e di Nichita*

Nic aveva la sua casa in una valle, presso il torrente. Il tetto era di granito e il pavimento era formato da cumuli di rocce. La casa era corrosa dal tempo, ma assai bella; si vedeva da un’apertura un po’ di celeste e di nubi, e la cima di un ghiacciaio. Nic era felice; egli era un giovane camoscio pieno di coraggio, col pelame sano e due corna ricurve. Arrivava dove noi non siamo mai arrivati e sui picchi fiutava il vento e gettava lunghi stridi di gioia. Da poco abitava nella nuova casa, coi suoi genitori, quando nacque Nichita che appena nata era piccola, spaurita e morbida, ma imparò preso a saltare, a fuggire e ad imitare Nic. Questi le insegnò a riunire tutte e quattro le zampette per rimanere in equilibrio su un sasso e a fuggire nei boschi e dietro gli abeti per nascondersi all’inseguimento delle nuvole. Avere una sorellina come Nichita! Che gioia! Nic cercava di essere sempre più bravo per vedere gli occhi della sorellina spalancarsi pieni d’ammirazione. Scoprirono insieme le grandi cascate color della luce e la sorgente che poi diventava un fiume verde. Si rincorsero in un prato pieno di narcisi alti, tutti in fiore. Giunsero fino ad un villaggio, dove sulla porta di una cassetta scura una donnina grassa con tanti riccioli gettò uno strillo al vederli. Nic amava sfidare il pericolo, correva quasi sotto il naso dei cacciatori, per poi salvarsi con un balzo improvviso. Però qualche volta non voleva che Nichita lo seguisse; essa lo attendeva fra le rupi scoscese e dopo poco chiamava impensierita: «Nic, Nic!». Egli arrivava saltando, pieno di allegria, e le raccontava le storie * «Il Balilla», 1° settembre 1932, p. 5.

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elsa morante

degli uomini, che hanno un bastone in ispalla e, se lo tendono, fanno: Pum! Pum! gettando a terra i camosci. Nichita tremava, ma incuriosita guardava verso le vette e verso i sentieri pieni d’erba. Su questi balzavano le capre che avevano una bella veste ricciuta e qualche volta un campanello; e da questi discese un giorno Utu, il lupo, che cammina a testa bassa e ha sempre fame di carne. Egli uscì dalla sua tana e corse in basso annusando le sporgenze e le erbe. Sollevava ogni tanto la testa per urlare: «Ho fame!», e riprendeva la fuga, quasi scivolando. Era magro, col muso aguzzo e gli occhi rossi. Utu giunse fino alla valle coperta di neve su cui gli alberi gettavano un’ombra livida. Qui Nichita aspettava il fratellino, leccando i tronchi degli alberi. Era già tardi, il tramonto riempiva tutto il cielo di una luce rossa; presto sarebbe tornato Nic, pensava Nichita. Invece giunse Utu, furtivo, con gli occhi pieni di sangue e il naso nella neve. Camminando obliquamente, arrivò fino a Nichita, e Nichita fremette, si rizzò sulle gambe, arrestò piena di paura e volse le corna verso il lupo. Il lupo era il più forte; era tanto magro che sotto la sua pelle si disegnavano le ossa, ed era feroce di fame; tese i muscoli, allargò le narici e mostrò le zanne. In quell’attimo Nichita rivide la sua casa di pietra, le cascate rilucenti, il bosco e la valle dove fioriscono i rododendri. E rivide Nic, il fratellino. Nic aveva corso fino allora lungo il torrente ed era fuggito dietro una roccia quando aveva incontrato un uomo[,] un alpino che aveva un bastone e uno zaino e godeva come lui nel salire fin su le cime per respirare l’odore fresco del cielo. Ora ritornava alla valle, per raccontare a Nichita tutte le sue avventure, ma lo agitava qualche cosa di insolito e di pauroso che egli fiutava nell’aria. Giunse alla valle piena di una luce grigia e vide Nichita e il lupo. Un fremito d’ira e di spavento lo scosse, e si slanciò, con le corna in avanti. Il lupo ululò; e cadde a terra, con uno squarcio alla gola da cui il sangue gorgogliando uscì e macchiò la neve. Allora Nic corse su per i dirupi e Nichita lo seguì.

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storia di nic e di nichita

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Si fermarono al limite del bosco, si rincorsero folli di gioia. Nic gridava: «Vittoria! Vittoria!» col muso al vento e la schiena arcuata nella corsa. Poi si fermò per guardare con affetto la sorellina e girarle intorno, accarezzandole e chiedendole se si fosse fatta male. D’improvviso ai suoi stridi gioiosi vennero altri camosci. Sbucarono di dietro i tronchi sulle erbe e circondarono Nic e Nichita. Quando seppero che il feroce Utu era vinto, fecero grandi balzi di allegria; anche i più piccoli belavano di gioia e di orgoglio per il fratello maggiore. Era notte, il bosco era pieno di aromi e di luce lunare. Fu una bellissima nottata per il branco di Nic. La fama del giovane camoscio attraversò i torrenti, i fiumi e i valloni profondi. Ma Nic ha quasi dimenticato il suo eroismo e attende nuove avventure. Egli è felice di avere ancora la sua sorellina che sgroppa con lui sui fieni bagnati e sulle pietre dei monti. Se andrete sulle montagne forse li incontrerete; essi corrono di balza in balza senza stancarsi mai e mangiano le pianticelle e i fiori selvaggi. Sono giovani, selvaggi e felici come tutte le creature della montagna. Nessuno sa più di loro quanto sia bello bere nella fuga gli odori silvestri e la luce del mattino.

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La ninna nanna del piccolo Billi*

E questa sera vi voglio cantare la ninna nanna del piccolo Billi. Una stelluccia comincia a tremare e tutti dormono tranquilli. Dorme stelluccia dentro la cuna, dorme il mare, dorme la luna. Ma Billi è solo, perché la mamma è partita, ninna nanna, è partita e, come si sa, fino a domani non tornerà. Ninna nanna ninna nà. Povero Billi! Me lo sai dire? Senza la mamma si può dormire? Billi dice la sua preghiera in ginocchio, come ogni sera, mettendo le mani in croce e manda una piccola voce. C’è una piccola voce sola sperduta nel cielo viola che cerca la casa di Dio e dice: «Son qua io!» Le stelle se ne sono accorte; va bussando a tutte le porte, e ne parlano fra loro scuotendo la cuffietta d’oro. * «Corriere dei Piccoli», 24 giugno 1934, p. 4.

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la ninna nanna del piccolo billi

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E in terra c’è Billi, di sera solo solo in una stanza nera! Ma no: c’è il soldato di stagno sotto una tela di ragno, sull’attenti, di guardia, che spia e che gli fa compagnia. Gli dice: «Signor Generale! Il buio non può far male. Sotto la tenda, all’oscuro, io veglio. Dormi sicuro! Ma in guerra, fra rombi e squilli tu tremerai, signor Billi?» E nel cantuccio più tetro, c’è Orsetto con gli occhi di vetro che cerca tra le sue memorie e racconta le belle storie del polo ghiacciato, del gelo e del sole, che arriva al cielo di notte, uscendo da un fosso col suo bel vestito rosso. E c’è il treno che va per vie lunghe, e buie gallerie e parla di prati, e d’erbe su cui pascolano caprette con tanti sonagli d’argento mentre gira il mulino a vento. Ninna nanna ninna nanna. E sul letto c’è la Madonna, tutta celeste, tanto vicina che guarda proprio la tua testina. Ha tanta luce sulla faccia e il suo bambino fra le braccia. Piccolo Billi, buona sera! Dormon le case nella via nera e la Madonna sorride e dice: «Ninna nanna. Sii felice!» Tutti dormono tranquilli

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elsa morante

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e la mamma sogna Billi e Billi sogna la mamma. Ninna nanna. Ninna nanna

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Peppuccio, padrone di un bazar*

Amici, so che voi possedete soldatini e fucili che sparano, automobili e tricicli e altre cose. C’è chi ha il monopattino col sedile e chi ha una cucina completa. Eh, lo so! Ma Peppuccio ha tutto un bazar. C’è da fare i salti a pensarlo. Pensateci! Tutto un bazar! Settecento facili e rivoltelle, eserciti di soldati in fila, bambole e gattini che miagolano, motoscafi con la carica, aeroplani che volano. È impossibile ricordare tutto. Chi mi aiuta? Peppuccio, una mattina, passò in rivista tutti i giocattoli della bottega: Sua madre, suo padre e suo nonno, stavano dietro il banco e sorridevano. Peppuccio, dopo aver passeggiato un poco, giuocò per mezz’ora col treno nuovo, e col motoscafo, poi prese un bell’orso giallo che fa: bau! bau! e se ne andò con l’orso. Verso sera cominciò a borbottare: ­– Quest’orso è bruttissimo, ha i peli gialli, e fa: bau! bau!, come un cane. Orso, perché dici: bau? – Bau! bau! – rispose l’orso, lamentandosi perché Peppuccio gli strappava la pelliccia. ­– Ecco, ­– disse Peppuccio. ­– Tu non vuoi rispondere, e io ti aprirò la pancia per vedere. Dentro la pancia l’orso aveva tanta paglia e una trombettina. Che cosa credete, era questa trombettina che abbaiava, e non l’orso. E Peppuccio lasciò sul tappeto questa stupida bestia e se ne andò a dormire. Verso mezzanotte, sentì l’orso che piagnucolava. Si alzò, e lo vide. Con un ago e un filo, cercava di ricucirsi la pancia e brontolava: – Nel bazar a mezzanotte * «Il Balilla», 16 maggio 1935, p. 12.

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elsa morante

se ne fanno di crude e di cotte. Io da solo non so camminare, Chi mi vuole accompagnare? ­– Io! Io! – disse Peppuccio. E scesero insieme, al buio. Nel bazar, tutte le lanternine giapponesi erano accese, i treni correvano su e giù, e le bambole facevano le smorfiose. Quando videro Peppuccio, si misero tutte a ridere e strillarono: – Guardate com’è buffo quell’omino in camicia da notte! Uh! Uh! ­– Ah, sei qui? ­– gridò poi un Cosacco della Guardia, avanzandosi con aria terribile. – Ora sentirai. Un trenino rosso che correva su e giù per la stanza, si fermò e fischiò domandando: ­– Peppuccio, che cosa hai fatto del trenino verde? – Il trenino verde… Il trenino verde… L’ho aperto per vedere come faceva a camminare. Un reggimento di artiglieri chiese, marciando: – Che ne hai fatto dei nostri cannoni? – Ho voluto vedere come facevano a sparare, — rispose tremando Peppuccio. In pochi minuti tutti i giocattoli gli erano intorno, lo guardavano con gli occhiacci e chiedevano severamente: ­– Che cos’hai fatto della bambola coi capelli gialli? – Che cos’hai fatto del pulcino zoppo? –­ e, vedendo che Peppuccio, spaventato, non rispondeva più niente, il Cosacco dichiarò, facendo un passo avanti: ­– In castigo sarai messo in attesa del processo. Lo misero in un cantuccio, al buio, e, siccome, poco dopo, si sentiva Peppuccio che faceva: Ih! Ih! l’orso propose: – Vogliamo vedere come fa a dire; Ih! Ih?, – e tutti gridarono: Bene! Bene! Allora comparve una bambola vestita da befana, che aveva in mano un gran paio di forbici e con quelle voleva tagliare la testa a Peppuccio. Quando Peppuccio la vide, cominciò a scappare, e tutti i giocattoli dietro, trenini, lanterne, bambole e soldati. E strillavano: – Vogliamo la giustizia! Rataplan! Rataplan!

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peppuccio, padrone di un bazar

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E il povero Peppuccio correva, finché si ritrovò nel suo letto. Era già ora di alzarsi, e vicino a lui non c’era che l’orso, con tutta la sua paglia intorno. – Buon giorno! – disse Peppuccio al padre, alla madre e al nonno. Oggi mi piacerebbe quel Cosacco della Guardia. – Prendilo, – disse il nonno. Tutti i giocattoli erano li, fermi e zitti, e in mezzo a loro il superbo Cosacco. Appena Peppuccio lo ebbe tra le mani, gli disse: – È inutile, caro Cosacco, che tu mi faccia l’inchino e l’occhiolino. Abbiamo un conto da regolare. Il Cosacco dondolò la Testa a destra e a sinistra, perché quella era la sua specialità. E Peppuccio brontolò: – Vediamo, vediamo come fai a muovere così la testa. Quando il Cosacco rimase senza testa, Peppuccio lo regalò a Briccioletta che era la figlia del cuoco. Briccioletta ne fu tanto felice, che da quel giorno Peppuccio le regalò tutti i suoi giocattoli rotti. E Briccioletta con cerotti e medicine si divertiva a far l’infermiera. Stava sempre nel suo cantuccio, e le pareva di esser la Principessa dei giocattoli rotti. Ogni tanto chiedeva: – Come stai, caro Cosacchino? Ti senti ricrescere la testa? E tu, treno? Vediamo se hai ancora la febbre. E tu, Orsetto, la vuoi una caramella? E tu come stai, cara Befana? Dopo la sconfitta del Cosacco, Peppuccio, non fece più brutti sogni. Invece giocò spesso con Briccioletta, e cantavano una bellissima canzone che diceva così: Questa storia divertente è finita finalmente. La morale è la seguente e non vale proprio niente. Se un balocco vuoi donare, fallo prima accomodare. Se non hai nessun bazar come Peppe mai non far, perché rischi di restare con tre cocci da buttare. Non son tutti; oh che disdetta, Come Peppe e Briccioletta.

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Il ritratto della principessa*

Una bambina aveva nel suo salotto, fra tanti altri, un bellissimo quadro che ritraeva una piccola Principessa. La Principessa era vestita di stoffa a fiorami, e intorno al collo aveva una catena con un medaglione. I suoi capelli erano neri e lisci, la fronte alta, e le mani lunghe e fini. Era seduta in una grande poltrona dalla spalliera intagliata e rimaneva sempre lì ferma, senza sorridere. La bambina guardava questa bella Principessa e le mostrava la sua bambola dalla faccina sporca e altre cose molto interessanti. Ma tutto era inutile. La bambina sarebbe stata molto felice di giuocare insieme alla bella Principessa, e magari di scender con lei in giardino; ma la Principessa la guardava fissamente coi suoi occhi tanto grandi e non diceva nulla. Però, siccome era una buona e cara Principessa, pensò di andare a visitare la bambina in un sogno. E la notte andò nella camera dove la bambina dormiva in un letto con le sponde, e le disse: — Stupidina! — proprio così le disse. «— Non sai che nei quadri c’è un incantesimo e io non mi posso muovere? Ma se vuoi giuocare con me verrò spesso, di notte. Io mi chiamo Maria e la mia mamma Eleonora,» e se ne andò presto e senza rumore, come fanno tutte le cose dei sogni. La seconda notte, la Principessa si fece accompagnare da suo fratello don Garzia, che era un principino grasso grasso e allegro, e portava una bella tunica di broccato giallo con le cuciture e gli alamari d’argento. Giuocarono allegramente alle bambole e ai soldati, e i due illustri ospiti parlarono del loro castello con tante sale dipinte, e della splendida camera della loro mamma Eleonora, con in fondo un grande camino e agli angoli statue che tenevano un dito sulle lab* «Il Cartoccino dei Piccoli», 19 maggio 1935, p. 5.

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il ritratto della principessa

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bra. Tutto questo era tanto bello, che la bambina desiderò di vederlo, ma la Principessa e Garzia dissero che non si poteva assolutamente, perché era proibito. Un giorno il babbo e la mamma della bambina dissero che erano diventati poveri ed era necessario vendere tutte le belle cose del salotto e delle altre stanze. E poco dopo, la bambina andò nel salotto per salutare la sua amica, ma al posto del quadro vide il muro vuoto. La sera, però, la Principessa e Garzia vennero ugualmente, e le dissero: — Non piangere. Sai che novità c’è stasera? – No, Che cosa? – Che si va tutti al castello. E la bambina si mise un mantello col cappuccio per seguire i suoi amici al castello. Non avrebbe mai creduto che al mondo esistessero tante belle cose! Sui muri delle sale erano dipinti guerrieri, alberi, angeli e uccelli; molti grandi camini accesi brillavano, e sui seggioloni scolpiti erano seduti principi e principessine vestiti come quelli dei quadri. Agli angoli erano altri candelabri d’ottone lustro. Poi sulla porta apparve la principessa Eleonora, con un abito di velluto e di ricami e una reticella d’oro sulle spalle. La bambina si vergognava di non aver addosso che la camicia da notte e il mantello col cappuccio, ma gli abitanti del castello le fecero festa e ballarono un lungo girotondo intorno a lei. Fu una magnifica notte e la bambina tornò nel suo letto tutta allegra. Dopo qualche giorno, la sua famiglia, diventata povera, lasciò la grande casa dove la bambina era nata e andò in una casina con le mura vuote e bianche. I mobili erano pochi, brutti, e tutto era molto triste. Inoltre la Principessina e Garzia venivano sempre più di rado, e dicevano di annoiarsi perché la bambina era diventata troppo grande. Infatti la bambina aveva visto la sua mamma piangere, e questo le aveva fatto nascere una ruga in mezzo alla fronte. Ma una notte, d’improvviso, la bambina sentì canti e suoni nella strada, e principi e principesse entrarono ballando nella sua camera. Maria la chiamò in un cantuccio, e, in gran segreto, le regalò una cuffia di lana, che pareva la cuffia di una bambola; e, tutti insieme le cantarono una canzone che la bambina imparò subito a memoria. Poi fuggirono, come facevano sempre quando spuntava il mattino. Ma quel mattino la bambina ebbe una grande sorpresa. Nella camera vicina trovò una culla, e dentro un fratellino appena nato. In

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elsa morante

testa aveva una cuffia che sembrava proprio quella della Principessa, e questo era molto strano. Quel fratellino piccolissimo piangeva e strillava, e nessuno riusciva a farlo star zitto. Allora la bambina si provò a cantare la canzone che le avevano insegnato i suoi amici e che ricordava benissimo: C’è un bambino in un canestro con un naso a patatina. Nanna o nanna o. E se piange e tira calci gli darem la medicina. Nanna o nanna o. E se no gli ricamiamo una bella scuffiettina. Nanna o nanna o. Subito il fratellino rimase zitto zitto, e cominciò a succhiarsi un dito. Era tanto buffo, col suo dito in bocca, che la bambina pensò di disegnarlo. Così fece un quadro bellissimo, e tutti quelli che lo guardavano non potevano fare a meno di ridere e di sentirsi allegri per tutto il giorno. La bambina appese il quadro al muro, nella camera della mamma, e pensò, dopo quello, di disegnare la principessa. La dipinse com’era veramente, più piccola del quadro, coi capelli al vento e la bocca che rideva; e poi dipinse anche Garzia, grasso grasso e con gli alamari d’argento. Dipinse il castello con le mura piene di angeli e di uccelli, dipinse i candelabri e il fuoco dei camini, e tutte le principessine con le ampie vesti di seta rossa, sedute sugli scranni. Quando ebbe finito di dipingere tutte le bellissime cose che aveva veduto solo nei suoi sogni, la bambina ne ricoprì le pareti della camera. E la camera diventò veramente splendida, tanto che il fratellino, vedendosi intorno quelle figure straordinarie, tutto a un tratto si mise a ridere. Appena il fratellino rise scuotendo i suoi braccini, tutti si sentirono felici. E la mamma, che da molto tempo era triste, si mise a cantare. Allora, in quella brutta e povera stanza diventata la più bella del mondo, la mamma e la bambina si sentirono ricche come il re. E la bambina pensò che certo in quella notte avrebbe fatto il più bel sogno di tutta la sua vita.

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La zia Sì e la zia No*

È molto bello vivere in campagna, specie se c’è un orto, un prato e perfino un somarello; ma non dovrebbe esservi nessuna zia. Due zie poi sono davvero troppe. Per fortuna una è molto buona e si chiama la zia Sì; ma l’altra è assai cattiva e si chiama la No. La Sì assomiglia ad un budino di riso dolce, la zia No a un professore di latino. Ha gli occhiali e un dito magro magro che sembra il dito della Legge. Lo stende e lo solleva in alto quando dice: «Non si deve». E quante cose non si debbono fare secondo la zia No? Mangiare la frutta? Non si deve, perché troppa frutta fa male. Andare sul somarello? Non si deve, perché il somarello è capriccioso. Correre sul prato? Non si deve perché se si corre si suda, e poi viene il raffreddore. Ah, zia No, zia No, zia No! A passeggio Mimmo va fra la zia Sì e la zia No. Se anche la zia Sì lo lascia libero per un momento, non c’è speranza di scappare, perché la zia No non lo lascia libero di sicuro. L’unica speranza sarebbe che un aeroplano lo tirasse su. Mah! Pare che questi aeroplani abbiano tante altre cose da fare! Mimmo vuol far l’aviatore proprio per questo. Un bel giorno prenderà il suo apparecchio e volerà via. La zia No potrà sollevare il dito finché vorrà e dire: «Non si deve». Mimmo sarà già fra le nuvole. Sporgendosi dirà: «Addio, zia No, addio! Salutami tanto gli occhiali, il tabacco e la grammatica!». E via. Povera zia No! Chi sa quanti no strillerà di sulla porta. Certo il mondo sarebbe molto bello se tutte le zie rassomigliassero alla zia Sì. Questa zia fa dei buoni dolci, ride, e dà il pastone alle galline. Invece, la zia No è sempre dietro a Mimmo, con le ciglia * «Il Balilla», 6 giugno 1935, p. 5.

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elsa morante

corrugate, l’indice sollevato, e certo non gli vuol bene, come Mimmo non vuol bene a lei. Ha le sue idee, poi la zia No. Lo sport? Uh, è la rovina della salute! L’automobile? Tuf, tuf, tuf! Serve solo per sollevare la polvere. E questo è pericoloso, e quest’altro non si deve fare. Non sporgerti dalla finestra! Non bagnarti nello stagno! Tieni bene la forchetta! Studia la matematica! Che disperazione per Mimmo la zia No! Egli non vede l’ora di diventar grande. Allora mangerà tutta la frutta dell’orto, girerà il mondo sul somarello e entrerà in casa dalla finestra. Questa è la storia di un Mimmo di parecchi anni fa. Ma il tempo passa, ogni anno porta qualche cosa di nuovo: rughe alla zia No, capelli bianchi alla zia Sì. Ma un anno porta anche una cosa tanto bella. Mimmo si veste di una divisa azzurra e cammina per le strade del cielo. Ora non vuole più che gli dicano Mimmo: si chiama Emilio. Tutto il cielo è suo. Romba, motore! Elica, gira! Si va sopra le nubi, più in alto degli uccelli; il vento investe, la pioggia scroscia, i monti e le città scompaiono sotto la nebbia. Quando torna il sole, l’aria è tutta d’oro. Si va. È una gioia piena di forza e di canto, eterna come il sole. Ma le strade del cielo sono grandi, senza fine. Un giorno Emilio sogna di percorrerle a lungo, di volare per altri cieli, di attraversare gli Oceani. E parte. È solo sull’Atlantico. Per lunghe ore, con le sue ali d’aquila e il suo cuore di fanciullo. Milioni di uomini, da tutti i mari, da tutte le patrie, pensano a lui con ansia, e lo seguono da lontano col cuore. Ma egli è solo. Le acque tenebrose e profonde risuonano sotto di lui. Il tramonto distende sotto il suo volo nubi vermiglie, e la notte lo copre di stelle. Ma il motore non tace, e la piccola luce continua a splendere nel cielo. Chi sa che l’eroe non ripensi in qualche momento a un orto fiorito, a un tempo lontano, alla zia Sì e alla zia No. Poi ritorna il giorno, e infine appaiono i tetti di una città immensa, un campo pieno di bandiere e di grida. L’ aeroplano volteggia, discende. Uomini che non conoscono la lingua italiana gridano il nome di Emilio, gridano Italia. Tutta la città è in festa. Dalle finestre cadono tanti fiori, e le vie risuonano di canzoni. Emilio passa sorridendo, felice. E pensa alla gioia che proverà la sua mamma, vedendolo dal cielo. Quando Emilio ritorna in Italia, tutti sono ad attenderlo: i vecchi che non hanno potuto conoscere la gioia del volo, i giovani che sognano d’imitare l’eroe, i bimbi che sembrano già soldatini e pensano: «Anche noi saremo così bravi». Tutti gridano, acclamano, sventola-

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la zia sì e la zia no

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no i fazzoletti. Ma chi si spinge innanzi a tutti, tendendo le braccia? Due povere vecchiettine vestite di grigio, piccole piccole e felici. Ed ecco che gli occhi dell’eroe si illuminano e sorridono.

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Indice dei nomi

Agamben, Giorgio  26n, 74n, 173n Albertarelli, Rino  37 An-Ski, Sholem  116n Ariosto, Ludovico  60n Babboni, Irene  12n Bardini, Marco  26n, 36n, 198n Barrymore, Lionel  175n Baudelaire, Charles  73n Beer, Marina  106n, 116n, 197n Belloni, Eros  21, 21n, 32 Berardinelli, Alfonso  74n, 173n Bernabò, Graziella  20n, 198n Bettini, Maurizio  74n Blumenthal, Ljuba  152n Borghesi, Angela  105n Bragaglia, Anton Giulio  198n Bragaglia, Carlo Ludovico  198n Brin, Irene  185 Buttò, Simonetta  12n, 16n, Cantatore, Lorenzo  47n Capuana, Luigi  58n Cardinale, Eleonora  15n, 47n, 106n, 198n, 199n Carroll, Lewis  49 Cecchi, Carlo  8, 11n, 12n, 15, 199n Čechov, Anton Pavlovič  152n, 182, 182n Ceracchini, Silvia  199n Cianfoni, Mario  199n Cicogna, Giorgio  36 Civinini, Guelfo  12n, 14, 21, 22, 28, 44n, 83n, 113n, 186n, 198, 198n

Contini, Gabriella  12n, 150n Coppola, Luca  196n Cozzani, Ettore  198n D’Angeli, Concetta  16n, 165n d’Annunzio, Gabriele  14n, 113, 137, 196, 198, 202 Debenedetti, Antonio  20n Debenedetti, Giacomo  20n De Laude, Silvia  66n Dell’Aia, Lucia  60n De Libero, Libero  166 De Pasquale, Andrea  15n de Rogatis, Tiziana  88n Donati, Riccardo  103n Dostoevskij, Fëdor Michajlovič 137, 137n, 178 Duval, Paulette  187n Falqui, Enrico  166 Fantini, Luisa 8, 11, 11n, 12n, 13, 13n, 14n, 17, 21, 22n, 25n, 32, 35, 36, 43, 44n, 47, 63, 68, 71, 83, 84, 87, 113n, 129 Ferri, Liana  13n Fofi, Goffredo  74n, 196n Fornaro, Sotera  160n Frabotta, Biancamaria  88n Garboli, Cesare  11n, 12n, 165, 165n, 199n Gentili, Sonia  105n Girard, Réné  111 Gozzano, Guido  52

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Guerra, Michele  185n Guerrieri Maraini Gonzaga, Maria  38 Hopkins, Arthur  175n Kafka, Franz  88, 116n, 119, 166

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Lattarulo, Simona  48n Levi, Carlo  101 Lindbergh, Charles  35 Lo Monaco, Francesco  24n Lugnani, Lucio  26n, 137n Magrini, Giacomo  16n Manetti, Beatrice  96n Maraini, Dacia  88n Martin, Sara  185n Mascheroni, Vittorio  29n Massari, Giulia  105n Matte Blanco, Ignacio  163 Maupassant, Guy de  139 Mazzara Bridgtower, Giuseppina  83n Mazziotti, Maria Pia  48n Mendes, Peppino  29n Meynrik, Gustav  116n Montale, Eugenio  152n, 177 Morandi, Emilia  19n, 20n Morante, Daniele  8, 12n, 87n Morante, Marcello  22n, 70n, 71n, 75n, 135n, 178, 178n, 190n, 195n Morante, Maria  48, 48n Moravia, Alberto  14n, 20n, 113, 142, 156, 197 Nava, Giuseppe  16n Niblo, Fred  175n

indice dei nomi

Pennacchio, Filippo  26n Pirandello, Luigi  178, 195 Pizzocaro, Massimo  160n Poe, Edgar Allan  96, 119 Poggibonzi, Irma  197n Pontremoli, Giuseppe  12n Porciani, Elena 14n, 16n, 22n, 26n, 30n, 34n, 48n, 62n, 66n, 97n, 101n, 113n, 118n, 150n, 165n, 183n, 185n Proust, Marcel 45n, 139, 142, 164, 168, 187n Rapisarda, Giusi Letizia  11n, 12n, 22n, 87n, 113n, 186n Rosa, Giovanna  26n, 66n Ryan, Marie-Laure  26n Saba, Umberto  204 Saffo 160n Scarano, Emanuella  26n, 137n Serkowska, Hanna  48n Serpa, Franco  74n Siciliano, Enzo  20n Sofri, Adriano  74n, 196n Spina, Luigi  74n Tiziano (Tiziano Vecellio)  187 Tofano, Sergio  21n Tolstoj, Lev Nikolàevič  175n, 178 Tomatis, Jacopo  29n Toulouse-Lautrec, Henri de  99 Valentino, Rodolfo  187n Vigolo, Giorgio  71 Weil, Simone  105n

Olcott, Sidney  187n Pagliuca, Concetta Maria  26n Palandri, Enrico  48n Pampadour, Madame de  187n Pancrazi, Pietro  67, 67n

Zagra, Giuliana  12n, 15n, 16n, 47n, 106n, 156n, 198n, 199n Zanardo, Monica  15n, 16n, 137n Zibella, Daniele  105n, 135n

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Quodlibet Studio

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lettere Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo Filippo Davoli, Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise Alejandro Patat, Patria e psiche. Saggio su Ippolito Nievo Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto Angela Borghesi, Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento Francesco Fiorentino (a cura di), Figure e forme della memoria culturale

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Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George Vito Santoro, Calvino e il cinema Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del xx secolo Alessio Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno Andrea Rondini, Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre Camilla Miglio, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini Annelisa Alleva, Lo spettacolo della memoria. Saggi e ricordi Mario Barenghi, Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti Romano Luperini, Tramonto e resistenza della critica Susanna Spero, L’invenzione di una forma. Poetica dei generi nell’opera di Samuel Beckett Marcella Biasi, Potenza della lirica. La filosofia della poesia moderna e il paradigma Celan Matteo Marchesini, Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia Paola Laura Gorla, Sei diversioni nel Chisciotte Davide Colussi, Paolo Zublena (a cura di), Giorgio Caproni. Lingua, stile, figure Fabrizio Scrivano, Diario e narrazione Barbara Ronchetti, Caleidoscopio russo. Studi di letteratura contemporanea Eloisa Morra, Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja Paolo Amalfitano, L’armonia di Babele. Varietà dell’esperienza e polifonia delle forme nel romanzo inglese Emanuele Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana Massimo Giuliani, Per un’etica della resistenza. Rileggere Primo Levi Angela Borghesi, Una storia invisibile. Morante Ortese Weil Franco Nasi, Traduzioni estreme Valentino Baldi, Il sole e la morte. Saggio sulla teoria letteraria di Francesco Orlando Antonella Ottai, Ridere rende liberi. Comici nei campi nazisti Marco Gatto, Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento Valerio Camarotto, Leopardi traduttore. La poesia (1815-1817) Valerio Camarotto, Leopardi traduttore. La prosa (1816-1817) Antonio Girardi, Arnaldo Soldani e Alessandra Zangrandi (a cura di), Questo e altro. Giovanni Raboni dieci anni dopo Valentina Polci, Voce fuori coro di Dolores Prato. Trascrizione e commento dei frammenti autografi su Roma capitale d’Italia Amaranta Sbardella, Il mostro e la fanciulla. Le riscritture di Arianna e del Minotauro nel Novecento

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Francesco Diaco, Dialettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini Gonzalo Celorio, Saggio di Controconquista Laura Barile, Il ritmo del pensiero. Montale Sereni Zanzotto Emiliano Alessandroni, L’anima e il mondo. Francesco De Sanctis tra filosofia, critica letteraria e teoria della letteratura Tommaso Giartosio, Non aver mai finito di dire. Classici gay, letture queer Daria Biagi, Orche e altri relitti. Sulle forme del romanzo in Stefano D’Arrigo Angela Albanese, Identità sotto chiave. Lingua e stile nel teatro di Saverio La Ruina Paolo Desogus, Laboratorio Pasolini. Teoria del sogno e del cinema Mimmo Cangiano, La nascita del modernismo italiano. Filosofie della crisi, storia e letteratura (1903-1922) Valentino Baldi, Come frantumi di mondi. Teoria della prosa e logica delle emozioni in Gadda Valentina Sturli, Figure dell’invenzione. Per una teoria della critica tematica in Francesco Orlando Margo Glantz, La conquista della scrittura. Letteratura e società nel Messico coloniale Éric Marty, L’engagement estatico. Su René Char Roberto Deidier, Giorgio Nisini (a cura di), L’eternità immutabile. Studi su Juan Rodolfo Wilcock Franco Nasi, Tradurre l’errore. Laboratorio di pensiero critico e creativo Fabio Moliterni, Una contesa che dura. Poeti italiani del Novecento e contemporanei Luca Maccioni, Il marchio di Qajin. I Dialoghi tra due bestie nell’opera di Giacomo Leopardi Carlo Londero, Ulisse, o dell’Amore. Lettura della poesia di Umberto Saba Vincenzo Allegrini, L’onda trascorrente. I Canti di Leopardi in Saba, Montale, Sereni e Giudici Stefano Prandi (a cura di), Nulla si sa, tutto si immagina. Il cinema di Federico Fellini e la letteratura Laura Vallortigara, L’epos impossibile. Il mito di Enea nel Novecento Elena Porciani, Il tesoro nascosto. Intorno ai testi inediti e ritrovati della giovane Elsa Morante, con sei storie e una poesia dell’autrice

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