Il tempo è uno strano luogo. Una nuova teoria quantistica sul tempo 8860810477, 9788860810472

“Il tempo è uno strano luogo fatto di adesso, di sempre e di mai”, comincia così uno dei capitoli più importanti di q

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Il tempo è uno strano luogo. Una nuova teoria quantistica sul tempo
 8860810477, 9788860810472

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SCIENTIA

A mia madre Giuditta ed a mio padre Giorgio che l’eterno tiranno ha portato via…

Sandro Pandolfi

IL TEMPO È UNO STRANO LUOGO Una nuova teoria quantistica sul tempo

ARMANDO EDITORE

ISBN: 978-88-6081-047-2 Tutti i diritti riservati – All rights reserved Copyright © 2018 Armando Armando s.r.l., Roma. I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/ fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected] Per ulteriori informazioni: www.armandoeditore.it [email protected] – 06/5894525

Sommario

Prefazione

Sandro Pandolfi

Capitolo primo

Il tempo, questo sconosciuto Il tempo della mente Panta rei, tutto scorre Una filosofia del tempo Il tempo relativo Tempo e disordine Calore, entropia, tempo Sulle spalle dei giganti

Capitolo secondo

Tutti possono diventare geni purché lo siano Esperto tecnico di terza classe Gineceo borghese

Capitolo terzo

La formula regina mc2

E= C come celeritas Un neonato chiamato Universo

Capitolo quarto

112 Mercer Street, Princeton New Jersey Annus mirabilis Gödel a Princeton

9

12 13 15 17 18 21 23 26 29 31 34 38 39 41 45 47 48 50

Capitolo quinto Dio gioca a dadi

Il “Maestro” Planck L’interpretazione di Copenaghen I duellanti

Capitolo sesto Nulla è più simultaneo

Il tempo secondo Einstein La danza cosmica dello spaziotempo Una magica equazione di campo La matematica non è un’opinione Pregiudizi etici

Capitolo settimo Atomi, particelle e tanta forza Dall’elettrone al mite protone Ancora bosoni e fermioni La realtà è fatta di materia Ciò che più conta è la forza Una forza forte Una forza speciale

Un’equazione che parla di Universo Somma delle storie e molti mondi Gravità quantistica a loop Il tempo dei quanti

Capitolo ottavo Le teorie quantistiche di campo L’Elettrodinamica quantistica

La Cromodinamica quantistica dove i colori non contano

Capitolo nono Singolarità ed altre storie Il lato oscuro del cosmo Gravità e tempo La particella di Dio L’antimateria

54 57 58 61 64 65 66 68 69 72 73 76 77 79 82 84 88 92 93 95 97 100 101 104 106 109 116 118 123

Il lato oscuro della materia Schrödinger il biologo e Bohm il metafisico Supersimmetria e superstringhe

124 126 132

Capitolo decimo Una nuova teoria quantistica di campo? La mia cronodinamica quantistica La strana coppia La particella di un dio minore Il cronone: la particella che non c’era Un motore universale

136 140 145 149 153 155

Capitolo undicesimo Oscure presenze

Il vuoto ha fatto il pieno L’energia cronocinetica L’interruttore della realtà Il baro sublime La danza di Shiva Gravità quantistica e spaziotempo Entropia e tempo Il quanto di tempo I magnifici tre Non commuta! L’informazione quantistica Gli indiziati di reato Un collasso salutare

158 160 162 164 168 171 174 178 181 184 187 190 195 198

Capitolo dodicesimo La cronodinamica quantistica: una nuova teoria di campo 203 L’energia meccanica: questa sconosciuta 206 Conversioni energetiche 211 Conclusione

217

Ringraziamenti

220

Bibliografia

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Prefazione Sandro Pandolfi

Quando a scrivere la presentazione di un libro è lo stesso autore, capita spesso che finisca per fare delle piccole, significative confessioni a se stesso, oltre che naturalmente al lettore, senza quasi rendersene conto. Si tratta di uno strano meccanismo psicologico ma anche, forse, vagamente psicanalitico a cui però non voglio sottrarmi, anche perché in meccanica quantistica l’eccezione non conferma quasi mai la regola e di realmente deterministico e causale sopravvive ben poco. Perciò, la mia confessione a me stesso e al lettore è questa: sono ossessionato (sic) dal concetto di tempo! Accade da quando ho iniziato ad occuparmene con assiduità e da quando “lui” ha smesso di essere nel mondo della fisica teorica moderna una semplice dimensione statica, un unicum imponderabile fatto di improbabili cronologie assolute. Cioè scorrimenti temporali privi di senso, se disgiunti dall’attività dei ricercatori o dal concetto einsteiniano di moto relativo. Sono stato così piacevolmente ossessionato dalla variabile tempo, da arrivare addirittura a creare una linea di orologeria artigianale che ha utilizzato il marchio Durabo. Strumenti meccanici di precisione, capaci di scandire il tempo con un’approssimazione soddisfacente ma totalmente incapaci, però, di consentirmi di appropriarmi, in termini di comprensione, della concezione teorica di tempo. Una volta ridimensionati l’entusiasmo creativo e quello commerciale, mi sono reso conto che 9

il mio tentativo di penetrare nelle logiche che governano la dimensione temporale era miseramente fallito. Relegato “feticisticamente” in un comune segnatempo meccanico, privo della temporalità logica che Einstein conferì al suo concetto di tempo relativistico. La mia ipotesi di lavoro era sempre stata quella di fare della mia visione del tempo, quale grandezza percepita e vissuta, parte integrante di qualcosa di ancora più composito sotto il profilo della percezione. Un’esperienza cosciente che continuava a sfuggirmi in una nebbia di congetture legate allo spazio ed alla materia, circa la loro reale natura. Naturalmente i miei orologi da polso Durabo, non privi di un certo fascino artigianale, non potevano aiutarmi incapaci com’erano di esprimere la dimensione metafisica, oltre che relativistica, del grande “tiranno”. È stato in questo modo, che parecchio tempo fa ho deciso di intraprendere un’esplorazione approfondita, sotto il profilo scientifico, del pianeta tempo. Una ricerca in relazione a ciò che in realtà è o almeno dovrebbe essere il tempo alla luce delle mie interpretazioni e di quelle della fisica contemporanea senza trascurare, peraltro, i numerosi riferimenti filosofici e metafisici circa la sua indeterminatezza concettuale. Il risultato di tanto piacevole lavoro è questo libro, destinato sia agli esperti che ai dilettanti assoluti (Einstein lo era prima di Berna, come lo era Joule quando faceva ancora il birraio). Un testo che, non lo nascondo, richiede da parte del lettore una certa dose di impegno e di costanza, come quando nei gialli si cerca il nome dell’assassino sino alle ultimissime pagine con ansia. Questo libro, però, si ripromette di andare oltre la semplice aspettativa del lettore interessato, per aprire il dibattito su un nuovo capitolo della fisica contemporanea: la “cronodinamica quantistica”. Una nuova dimensione teorica in cui collocare una nuova forza della natura, la quinta e la sua teoria di campo allo scopo di contribuire a rendere più completo quel Modello Standard della fisica, che mostra ormai qualche cenno vistoso di cedimento alla luce delle recenti scoperte. 10

Il tempo è uno strano luogo segue il mio precedente Il paradosso coerente (Roma, Armando, 2012) e il filone dominante è praticamente lo stesso: il futuro teorico della “nuova fisica” e l’origine del tempo, una fisica così sorprendente e controintuitiva da poter affermare, non senza un pizzico di audacia, che il tempo è uno strano, singolarissimo “luogo”!

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Capitolo primo

Il tempo, questo sconosciuto

Vorrei essere senz’anima e selvaggio come un istinto, per capire se l’eternità si ciba del tempo

Quando provo a pensare al tempo, alla sua cronologia vertiginosa ed inarrestabile che ci trascina “dove” vuole e “quando” vuole, provo un profondo senso di disagio, una sensazione di impotenza. È come se cercassi di risalire una china sempre nuova con una pendenza variabile, assolutamente imprevedibile, una sorta di tormento di Sisifo a cui siamo tutti sottoposti e di fronte al quale siamo tutti uguali, finalmente. Forse è questa la vera maestà del tempo, la sua imperscrutabile azione di livellamento esistenziale, che ci travolge permettendoci però anche di “essere”. La china del tempo è sicuramente fatta di piccoli, infinitesimali gradini appartenenti alla scala di grandezza delle particelle elementari, la dimensione di tutto ciò che nell’universo dell’infinitamente piccolo rende possibile anche la nostra dimensione e quella delle stelle e dei pianeti. Quel tempo misterioso che ci governa e che un po’ ci ossessiona, è sicuramente la chiave di volta per capire nella sua dimensione quantistica l’Universo ed i moti cronologici di quel magma spaziotemporale che è in continua ebollizione. Sono stato sempre così affascinato dall’enigma temporale, forse uno dei più grandi interrogativi scientifici irrisolti della fisica quantistica, da farne un libro ma rispetto troppo il tempo per parlarne soltanto come di un’esperienza umana. È molto di più ed 12

esiste in natura esattamente come le altre forze e i relativi campi quantistici, inoltre, manifesta la sua azione instancabile sin nelle componenti essenziali della materia e, quindi, nell’azione inarrestabile dell’energia sulle particelle elementari, con un’ubiquità olistica universale. Evidentemente, è stato proprio il bisogno di esorcizzare la costante temporale ed i suoi oscuri disegni a spingermi a scrivere questo libro sulla dimensione quantistica del tempo. Il tempo, dunque, l’eterno tiranno fatto di miriadi incalcolabili di sfaccettature di una realtà percepita come in continuo movimento, in un continuo divenire fattuale che segue un’unica direzione, quella che viene definita dai fisici come la “freccia del tempo”.

Il tempo della mente Il rigore cronologico che separerebbe il passato, il presente e il futuro, non mi ha mai molto convinto e nella migliore delle ipotesi, ho sempre inteso il tempo come una sorta di eterno presente dalle connotazioni psicologiche tipicamente umane, cioè pieno di rammarico per il passato e di speranza per il futuro. Tutte sensazioni che Nietzsche definirebbe con il suo consueto cinismo come “troppo umane”, troppo legate alle caratteristiche evocative del nostro cervello ed alla capacità creativa di questo straordinario organo di pensiero appannaggio della nostra specie. Dobbiamo, sorprendentemente, proprio al grande filosofo tedesco, anche lui ossessionato dal tempo, alcune anticipazioni relativistiche ed, addirittura, l’ipotesi in chiave filosofica del Big Bang e del Big Crunch, intesi come una sorta di “eterno ritorno” ciclico del tempo e dell’esistenza. Nietzsche era convinto che la mente umana fosse uno strano giocoliere, capace di rappresentare la realtà percepita come più lo aggradava ma, soprattutto, come le condizioni ambientali ed emotive gli consentivano di fare, elaborando l’esperienza vissuta. In realtà la mente, che contemporaneamente è la sintesi di intelligenza, fantasia e predisposizione al pensiero speculativo 13

ed astratto, è in termini fisiologici il prodotto complesso di una meccanica e di una rete neuronale estremamente articolata. Non dimentichiamo che il cervello umano è attualmente l’unico tipo esistente di “elaboratore” a possedere qualche affinità funzionale con ciò che saranno presto i computer quantistici, capaci di “scegliere” ben oltre il sistema binario ed in grado di elaborare creando algoritmi originali. Non c’è ombra di determinismo negli innumerevoli effetti quantici in atto a livello subcellulare nel nostro cervello, proprio come accade nel caso delle particelle elementari, che vivono la loro inarrestabile danza quantistica nell’Universo in uno stato di libertà acausale assoluta, inspiegabile com’è buona parte della logica che governa la meccanica quantistica. Circa questo aspetto di indeterminatezza controintuitiva, ebbene, trova riscontro anche in alcuni meccanismi mentali relativi al funzionamento del nostro prezioso organo di pensiero. Si può azzardare, a tale proposito, una spiegazione proprio attingendo alle caratteristiche che la logica del “caso” quantistico ci mette a disposizione, nel cervello umano, infatti, risiedono diecimila miliardi di connessioni tra i dieci miliardi di neuroni dotati, a loro volta, di interconnessioni. Questo numero incredibile di collegamenti, ha una configurazione praticamente casuale, lo richiede, del resto, la sua stessa complessità di funzionamento e tanto “caos” porta incredibilmente alla formazione di un’intelligenza capace di avere, addirittura, piena coscienza critica di se! Si tratta di fenomeni inimmaginabili in contesti diversi, come i salti quantici, assolutamente inspiegabili, come lo sono i casi molto frequenti in cui l’effetto precede la causa o in cui l’ubiquità di una particella elementare è una realtà oggettiva. Anche il fenomeno dell’entanglement, che unisce particelle remote in un’assonanza di caratteristiche comuni, è un effetto quantistico reale apparentemente privo di una causalità precisa. La logica di tutti questi fenomeni è disarmante, eppure sono la prova ormai provata, di una connessione totale e di un interscambio diffuso con l’intera struttura della materia e dell’energia che pervade l’Universo. Sono convinto che questi fenomeni costituiscano la 14

chiave di lettura di una realtà quantistica universale che si manifesta anche nel nostro cervello, dando origine a qualcosa di veramente mirabile, autoevolutivo e senziente: la mente umana.

Panta rei, tutto scorre L’idea di uno scorrimento continuo degli eventi, attimo per attimo, mutamento dopo mutamento, è un’idea precisa ma anche una percezione sensoriale innata e molto antica sotto il profilo concettuale. Credo che uno dei primi pensatori greci ad appassionarsi a quella che doveva essere essenzialmente una metafora temporale, sia stato Eraclito di Efeso, un filosofo presocratico che visse nel VI secolo a.C. Di lui sappiamo pochissimo e che preferiva esprimersi attraverso aforismi non sempre comprensibili. Certo è, che riferendosi ad un interrogativo primigenio come quello della dimensione temporale, non poteva e forse non voleva eccellere in una forma di chiarezza esplicativa che avrebbe potuto banalizzare il concetto. Infatti, la sua visione esistenziale del tempo è stata sintetizzata più ampiamente da qualcuno venuto dopo di lui, forse Platone, con una frase brevissima ma efficace e dotata, è il caso di sottolinearlo, di grande “tempismo”, la frase è lapidaria: “Panta rei”, tutto scorre. In realtà, la frase completa è: “Panta rei os potamos”, “tutto scorre come il fiume”, il senso però non si limita ad una constatazione di fatto circa una sorta di semplicistico “Carpe diem”, alla maniera di Orazio. Eraclito è il filosofo del divenire non dell’essere, come invece lo statico Parmenide, suo inevitabile contraltare filosofico, “Tutto scorre” significa che tutto si trasforma per non essere mai più la stessa cosa. È una visione assolutamente vicina a quella di un tempo unico, confinato chissà dove e chissà perché, immobile e statico come una cariatide greca, gravata ed oppressa dal peso eterno che deve sostenere. Ben lontano, quindi, da quel tempo composito, elastico ed essenziale, tipico della realtà relativistica dello spaziotempo, tanto cara ad Albert Einstein. Eppure, Eraclito afferma 15

anche che nessun uomo può bagnarsi nello stesso fiume una seconda volta perché, nel lasso di tempo intercorso, il fiume non è più lo stesso proprio come l’ipotetico bagnante. Questo ci fa riflettere sulla sua visione del tempo e ci fa apparire il suo pensiero come più attuale di quanto non si crederebbe in un uomo della sua epoca. L’essenza stessa dell’Universo è la trasformazione, il moto degli atomi, quello delle particelle che vengono in contatto annichilandosi e dando così origine a energia pura e a nuove particelle elementari, in una danza creativa inarrestabile. Forse Eraclito aveva compreso tutto questo? Sinceramente non lo so, ma è certo che nel lontano VI secolo a.C. la sua visione del tempo era molto simile a quella di Hegel, altro profeta del divenire cronologico e a quella di Bergson, che introdusse nel concetto temporale quello fondamentale di durata, come esperienza dell’Io senziente. Eraclito e il suo Panta rei, furono sicuramente gli antesignani di una “querelle” filosofica che è arrivata sino ai nostri giorni. Sono convinto però che nessuno come Agostino d’Ippona, santo e dottore della Chiesa, autore delle “Confessioni” e della “Città di Dio”, abbia saputo esprimere in maniera altrettanto disarmante il turbamento e il disagio nei confronti di un enigma vitale come quello del tempo. Dopo essersi sforzato, da buon teologo, di fare del tempo una creatura divina, eccolo annaspare nel II libro delle Confessioni ed ammettere di non conoscere affatto la vera natura di questa mirabile, sfuggente “creatura”. “Se nessuno mi chiede cos’è lo so, se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede non lo so”, come dire: percepisco il tempo ma non lo capisco, che è in fondo la nostra stessa condizione di uomini moderni. Eppure, Sant’Agostino qualcosa di fondamentale sull’idea di tempo l’aveva capita, ad esempio, che è una forma di moto, una relazione costante fra le cose che mutano. Una misurazione progressiva di ciò che si sussegue poi, però, nei suoi scritti inevitabilmente il teologo prende il sopravvento sul filosofo per avventurarsi in elucubrazioni fideistiche, che in questo contesto non ci interessano. Anche l’affermazione un po’ paradossale di Agostino, di ignorare addirittura anche ciò che ignorava circa il tempo, è la prova 16

che il teologo in lui non demordeva mai anche quando era in difficoltà. Sino a portarlo alla conclusione per lui ovvia, che il tempo non doveva essere altro che una dimensione dell’anima, una visione metafisica soggettiva ispirata dal Creatore. Solo Dio, per Agostino, è fuori dal tempo perché eterno ed è lui stesso l’artefice unico di tanto scompiglio cronologico nei confronti dell’uomo. Infatti, prima della creazione il tempo non esisteva affatto, come per molti fisici teorici moderni non esisteva prima del Big Bang e per altri ancora non è mai esistito.

Una filosofia del tempo In relazione alla visione filosofica tout court del tempo, di cui ci siamo appena occupati, credo che sia opportuno fermarci qui proprio con le parole ispirate e dubbiose di Sant’Agostino, che da buon teologo lascia il tema in sospeso. Anche perché l’argomento di questo libro è una ricerca scientifica in termini di meccanica quantistica sulla reale natura del tempo, una natura quantistica che va ben oltre la semplice percezione umana e le sue possibili interpretazioni. Per farlo, può essere utile attingere nel contesto specifico dell’epistemologia, cioè della vera e propria filosofia della scienza. Ma senza eccedere troppo, visto che l’epistemologia stessa intesa nella maniera corretta, non pretende di essere necessariamente di qualche utilità pratica agli scienziati nella loro attività di ricerca e di sperimentazione, ma unicamente di supporto nella metodologia e nell’approccio teorico alla fisica contemporanea. Maggiormente ciò deve avvenire nel caso della fisica quantistica, così inedita nella sua diversità concettuale, tanto da mettere seriamente in crisi pensatori della statura di Einstein. A tale proposito, vale la pena ricordare l’opinione negativa nei confronti del pensiero filosofico, inserito nel contesto della fisica, di Richard Feynman e la polemica riaperta a suo tempo da Stephen Hawking circa la filosofia della scienza e il suo contributo. Ormai superata, a suo avviso, perché scavalcata concettualmente dagli 17

ultimi entusiasmanti progressi scientifici in fisica sperimentale. Sono abbastanza d’accordo con lui ma ritengo che, soprattutto in ambiti complessi in cui è fondamentale una logica di sistema condivisibile, si può avvertire il bisogno di un supporto di pensiero speculativo aperto anche all’analisi filosofica. Quindi, predisposto anche ad una visione che, oltre all’indispensabile formalizzazione matematica, tenga conto anche della particolare natura del mondo dell’infinitamente piccolo, dove materia ed energia sono esattamente la stessa cosa. Quel mondo invisibile dove ogni particella elementare interagisce continuamente con tutte le altre sparse nell’Universo, è il caso, ad esempio, della gravità quantistica cioè la gravità descritta in termini di teoria quantistica di campo. Pochi settori sono così complessi e controintuitivi, da sollecitare anche una visione olistica e filosofica di questo problema ancora irrisolto. Questa forma necessaria di analisi speculativa, mi ricorda l’approccio che aveva il grande Niels Bohr nei suoi anni eroici, quando doveva fronteggiare gli attacchi un po’ speciosi ma sempre corretti di Einstein, rivolti alla cosiddetta interpretazione di Copenaghen. Il grande Albert aveva intuito per primo la realtà bizzarra e assolutamente indeterministica dei quanti, per poi rifiutarla quasi con il pudore del purista e affermando che Dio non gioca a dadi con la realtà dell’Universo. Non poteva essere possibile, secondo lui, che la fisica classica venisse di colpo archiviata dall’indeterminatezza statistica dei salti quantici, eppure, aveva torto perché oggi sappiamo per certo che non solo Dio gioca a dadi ma qualche volta bara persino!

Il tempo relativo Fu proprio Albert Einstein a distruggere il “mito degli assoluti” di Isaac Newton, che io mi ostino a chiamare “l’Orso di Cambridge” per il suo pessimo, litigiosissimo e astioso carattere. Newton, titolare nel 1669 della prestigiosa Cattedra Lucasiana di matematica all’Università di Cambridge, oltre ad essere probabilmente il 18

più grande scienziato di tutti i tempi, forse omosessuale ed affetto dalla sindrome di Asperger, era soprattutto un uomo arido, ambizioso ed esclusivista. Pubblicava pochissimo per il timore paranoico di essere copiato ed anche per tenere solo per se tutto ciò che gli apparteneva. Leggendarie furono le sue dispute-faida con Robert Hooke (1635-1703), una sorta di tuttologo della scienza, ma soprattutto con Leibniz al quale contese la paternità del calcolo infinitesimale, pur consapevole del fatto che Leibniz gli era superiore come matematico. Fu Leibniz, infatti, ad usare per primo i numeri binari ed a costruire una calcolatrice meccanica che non era un semplice “addizionatore” ma risolveva calcoli complessi, Newton da parte sua, fu alchimista, direttore della Zecca reale ma soprattutto riformò il metodo scientifico. Stabilì i principi della dinamica, formulò la legge della gravitazione universale e, dulcis in fundo, prese una inevitabile cantonata nel concepire lo spazio e il tempo come assoluti ed uniformi, un errore che prima della nascita della teoria della relatività era praticamente scontato ed inevitabile. A dare il colpo di grazia alla visione univoca dell’Universo, istituzionalizzata dall’Orso di Cambridge fu, dunque, Einstein con la sua concezione relativistica dello spaziotempo, per lui ed aveva ragione da vendere, il tempo era relativo anzi sempre diverso in relazione a condizioni diverse. C’è un tempo per ogni pianeta, per ogni particella ed un tempo per ogni velocità, per chi è più veloce, infatti, il tempo scorre più lentamente, nella nostra dimensione però ciò è irrilevante perché, in condizioni normali, la velocità con cui ci spostiamo è comunque trascurabile. Solo nel caso in cui ci avvicinassimo, per esempio nello spazio, a “celeritas” prossime a quei fatidici 299.792.458 m/sec, cioè circa 300.000 km/sec, cioè alla velocità di propagazione nel vuoto di un’onda elettromagnetica e quindi alla velocità della luce: a quel punto, dovremmo gettar via il nostro orologio ormai inutile e vivremmo avventure fantascientifiche come quella di invecchiare impercettibilmente rispetto ai nostri coetanei ormai molto più vecchi, rimasti sulla terra. 19

Basterebbe spostarsi anche in ragione della metà della velocità della luce, per provare il brivido di un rallentamento anche fisiologico della nostra vita, il tempo, dunque, è assolutamente relativo e dipende dal movimento. Newton aveva torto nel pensare che il tempo fosse lo stesso ovunque, unico come il destino dell’uomo e sono certo che questa rivelazione di Einstein lo abbia fatto molto arrabbiare, con il caratteraccio che aveva, all’interno del suo sepolcro monumentale nell’Abbazia di Westminster a Londra! Anche la gravità ha un effetto soporifero sul trascorrere del tempo e nella teoria della relatività generale, Einstein ne parla diffusamente. Per questa ragione, chi vive in alta montagna o all’ultimo piano di un altissimo grattacielo, ha una vita più breve del portinaio del grattacielo stesso o di chi ama vivere in una casa con vista mare! Naturalmente, sarà una questione di microsecondi ma mettetevi un po’ nei panni di chi vivrà un secondo di vita in meno a causa dell’altitudine! Il tema si presta a qualche facile battuta, ma non bisogna stupirsi del fenomeno perché la forza di attrazione terrestre, quella del centro del nostro pianeta, anche se impercettibilmente rallenta il ritmo temporale. Provate però a pensare a cosa accadrebbe se il nostro pianeta avesse una massa molto più consistente e quindi una gravità attrattiva molto più forte, un astronauta che si avvicinasse a questa ipotetica terra massiva, constaterebbe un rallentamento molto significativo del tempo, con conseguenze in perfetto stile Star Trek. Il tempo, questo eterno tiranno, è capace anche di giocarci brutti tiri, perché non solo può rallentare il suo cammino ma può anche fermarsi in senso assoluto. È il caso, ad esempio, dei Buchi Neri, i cosiddetti predatori dell’Universo, la causa oscura della scomparsa della materia, i divoratori di luce e chi più ne ha più ne metta. Questi veri e propri mostri cosmici, sono enormi concentrazioni di materia dotate di un campo gravitazionale così forte da provocare persino la curvatura dello spaziotempo, sino a dare origine ad una formazione a “toro” (una ciambella), in cui né la materia né la luce possono evitare di precipitare. Ebbene, i Buchi Neri, oltre a divorare la materia e la stessa luce, divorano metaforicamente anche il 20

tempo perché nelle loro immediate vicinanze il suo scorrimento è lentissimo ed oltre il cosiddetto “orizzonte degli eventi”, cioè il limite estremo di non ritorno, addirittura si arresta del tutto. All’interno di un black hole, quindi, non si invecchia mai anche perché si finisce dilaniati dalla gravità schiacciante!

Tempo e disordine Se qualcuno mi chiedesse di definire il tempo in due parole, non esiterei un attimo e risponderei, naturalmente barando, che il tempo è per me semplicemente il tiranno sconosciuto. Se, invece, volessi essere più concreto, cercando veramente di definire il tempo nella sua essenza quantistica di “quanto temporale”, direi che il tempo è soprattutto entropia. Una parola magica, molto gradita ai fisici, che indica in pratica la quantità di disordine cioè le variazioni complesse, sia delle entità quantistiche che dei valori energetici che agiscono nell’Universo. Un disordine che rappresenta quella danza inarrestabile che si compie fra le particelle nel magma mutevole dello spaziotempo. I concetti di ordine e disordine, però, qui sono indicativi ed emblematici di un processo universale che vede l’entropia aumentare progressivamente sino a portare in un futuro remoto, l’Universo stesso alla cosiddetta morte termica (l’Universo non è altro che uno sterminato sistema termodinamico chiuso). Una stasi termica totale di equilibrio, che coinciderà cioè con il raffreddamento definitivo e la morte lenta di ogni sole. Come è facile comprendere, nel caso dell’entropia non si tratta di un disordine inteso nell’accezione più banale e negativa del termine, piuttosto, va inteso come una fattispecie progressiva, uno sviluppo che rende sempre più complesso e variegato un sistema. Nell’Universo, l’entropia non può diminuire ma solo aumentare con le conseguenze remote e tragiche di cui abbiamo parlato; più entropia, quindi, non significa semplicemente più disordine ma maggiori variazioni complesse all’interno di un sistema. Non è facile trovare un esempio sufficientemente esplicativo e perciò ne utilizzerò uno, 21

non proprio elementare, ma che rende sufficientemente l’idea della complessità del concetto entropico. Prendiamo in esame il nostro corpo, ebbene, la sua entropia è molto bassa grazie alla respirazione e all’alimentazione, due aspetti fisiologici su cui ha un’influenza globale il sole che rende possibile la vita sul nostro pianeta. Questo esempio, fa comprendere che l’entropia non deve essere scambiata necessariamente per un concetto negativo, poiché è semplicemente un processo direzionale inevitabile. Come riesce, però, un sistema fisico ad evolversi verso uno stato entropico costante? Nella meccanica classica, quella cioè delle leggi della termodinamica e della dinamica gravitazionale di Newton, il determinismo la faceva da padrone ed era lo stato iniziale a determinare quello finale di un sistema, prevedibile e quasi scontato oltre ogni dubbio. Erano le equazioni differenziali a dirci come procedeva l’evoluzione o meglio le equazioni di campo in presenza delle funzioni d’onda, elemento quest’ultimo indispensabile ed essenziale della nostra caccia al tempo, di cui parleremo più avanti. Nella meccanica quantistica accade il contrario, è l’indeterminatezza a farla da padrone e ciò che è all’inizio o sembra essere, non dice molto su come il sistema sarà nel futuro. Le sue condizioni, il suo stato finale, non sono prevedibili sulla base delle condizioni iniziali, che incidono in maniera molto parziale sull’evoluzione del sistema stesso, non c’è determinismo né causalità rilevabili e le cose vanno nella direzione sconosciuta verso cui vogliono andare. Un fatto però è certo, le equazioni della dinamica in entrambi i casi sono simmetriche rispetto al tempo e dobbiamo cercare di analizzare questo assunto con prudenza, per evitare fraintendimenti ed equivoci concettuali molto frequenti quando si prende in esame quanto afferma la seconda legge della termodinamica, come se fossimo tornati a scuola. Uno studente un po’ superficiale, infatti, enuncerebbe la seconda legge probabilmente così: “il calore passa da un corpo più caldo ad uno più freddo”, magari poi per salvare la faccia dovrebbe aggiungere: “e non viceversa” ma non cambierebbe molto perché il concetto è molto più ampio ed anche fondamentale per la fisica moderna. 22

La verità è che concetti come calore, entropia e tempo sono strettamente uniti da un filo conduttore molto elastico ma estremamente solido. Questo elastico che non può rompersi, è rappresentato proprio dalla seconda legge della termodinamica, la quale afferma chiaramente come l’entropia possa solo aumentare nei sistemi chiusi e come il disordine degli atomi in un corpo caldo sia sempre maggiore nel tempo. Ecco ricostruita di nuovo la tripletta vincente di cui abbiamo già parlato: calore, entropia, tempo, inoltre, se c’è conservazione di energia (prima legge della termodinamica) e non un flusso in transito, il disordine complesso, casuale, non può che aumentare. È ciò che avviene nell’Universo, l’incommensurabile “guscio di noce”, come lo chiamava Hawking, dove ad una staticità di complesso apparente, in realtà, si sostituisce nel tempo una dinamicità termica inarrestabile, almeno in termini temporali esponenziali. Naturalmente, il disastro universale della morte termica, esaminato con l’occhio freddo e anche un po’ cinico dello scienziato, non sarà altro che un rimescolarsi di atomi ormai liberi dagli aggregati di materia. Il tutto immerso in una colossale, interminabile fluttuazione del vuoto cioè l’insieme delle oscillazioni spontanee sia elettromagnetiche (fotoni virtuali), che gravitazionali (gravitoni virtuali).

Calore, entropia, tempo Una volta appurato, che la fine di tutto non è altro che un fenomeno naturale molto “interessante”, mi sembra opportuno tornare ancora una volta alla famosa tripletta vincente: il calore, l’entropia, il tempo. L’entropia, in particolare, è un concetto più complesso di quanto non appaia, tutt’altro quindi che ordine o disordine semplicemente, ad esempio, nel caso della gravità l’entropia ha un significato concettualmente opposto rispetto a come si manifesta nel comportamento dei gas. In questo caso, l’entropia aumenta con la 23

loro distribuzione uniforme in un determinato spazio, nel caso dei corpi soggetti alla forza di gravità invece accade il contrario, è la loro agglomerazione a far salire l’entropia e ciò dipende soprattutto dalla natura attrattiva della gravità. Il massimo dell’entropia gravitazionale però si incontra nel caso limite dei Buchi Neri, dove la concentrazione della massa è più alta, con gli effetti fenomenologici che vedremo più avanti. Qualcosa di molto particolare accade o almeno dovrebbe accadere, anche in relazione alla teoria quantistica di campo che ho battezzato come “cronodinamica quantistica” ed è uno dei cardini della mia teoria sulla natura del tempo, su cui torneremo diffusamente nei prossimi capitoli. L’entropia, in questo caso specifico, è molto alta finché non si verifica il collasso della funzione d’onda ad opera dei crononi, le mie particelle bosoniche mediatrici della forza cronodinamica non ancora mai rilevate, per scendere poi a livelli minimi ma anche di questo, soprattutto di questo, parleremo più avanti. Un altro componente importante della “tripletta vincente”, è sicuramente il calore cioè l’energia termica, non si tratta di un soggetto banale come lo concepiamo nell’eterna lotta molto “terrena” tra il caldo e il freddo. È invece un concetto energetico complesso e pieno di sorprese, si tratta infatti di una forma di energia cinetica relativa al moto degli atomi e delle molecole di una sostanza. La temperatura, in particolare, misura sia la quantità di calore che la velocità dell’agitarsi degli atomi: si tratta di “lavoro” inteso in senso lato ed è spesso anche una forma di radiazione elettromagnetica. Inoltre, quando l’Universo sarà giunto alla fine dei suoi giorni, l’intera energia esistente, dopo infinite conversioni di forma nel tempo, si trasformerà in calore radiante, l’immagine non è rassicurante ma sicuramente apocalittica e maestosa come piace ad alcuni cosmologi d’assalto con il gusto catastrofico per i grandi eventi celesti. Il calore e la temperatura hanno anche altre implicazioni importanti in fisica come, ad esempio, quella secondo cui allo zero 24

assoluto cioè -273,15° C, non può esserci scambio di energia fra due sostanze poiché gli atomi e le molecole posseggono la quantità minima di energia possibile. Lo zero assoluto, comunque, è una temperatura ipotetica a cui non si è mai giunti, tale temperatura infinitesimale è la misura estrema dell’energia delle particelle elementari che costituiscono la materia. In questa condizione così singolare, gli atomi si immobilizzano letteralmente e abbandonando la loro danza frenetica all’interno del reticolo cristallino che li imprigiona nei solidi. Quando ad essere raffreddato è un gas o un liquido, è la velocità degli atomi liberi ad essere ridotta fino a zero, lo zero assoluto di Lord Kelvin però non esiste neppure nell’Universo conosciuto, grazie alla mitica radiazione cosmica di fondo cioè il residuo termico del Big Bang. Lo zero assoluto, in realtà, non è neppure misurabile perché con energia uguale a zero non si può misurare la temperatura, le basse temperature, insomma, paralizzano vari processi a livello atomico con effetti abbastanza sorprendenti ed anomali. Veniamo adesso di nuovo al terzo componente della tripletta, il tempo ma non quello degli orologi o semplicemente quello percepito, quello invece inafferrabile che ci lascia perplessi nel tentare di farcene una ragione, come lo si intende in fisica quantistica. Il suo rapporto concettuale con l’entropia e la relatività, è molto stretto: con l’entropia, perché la cosiddetta “freccia del tempo”, cioè la sua direzionalità, ne è una diretta conseguenza; con la relatività perché Einstein è stato l’autore di un completo “restailing” scientifico del tempo e dello spazio, nonché della loro unificazione in un continuum costante. Per l’Orso di Cambridge, il grande Newton, padre incontrastato della dinamica non luminare, lo spazio e il tempo erano concetti assoluti, simultanei. Il tempo, legato alla vita di ogni giorno e all’esperienza esistenziale di ogni uomo e anche lo spazio, a sostenere con la gravità il sistema solare e la giostra dei suoi pianeti, il tempo, in particolare, era unicamente la cronologia che scorre, che ci fa invecchiare e ci trasforma nel corpo e nell’anima. 25

Questo costrutto newtoniano aveva resistito per secoli, rivelandosi rassicurante e insostituibile per spiegare enigmi scientifici sempre nuovi, qualcosa però non tornava ed aveva il gusto amaro dell’approssimazione, del caso particolare e non della norma. Se ne accorsero nel 1887 Albert Michelson (1852-1931) e Edward Morley (1838-1923), due fisici americani, il primo tedesco di nascita, il secondo anche un predicatore, entrambi specialisti nelle misurazioni scientifiche di precisione. Il sodalizio, grazie ad uno storico esperimento nato peraltro dal presupposto, sbagliato, dell’esistenza dell’etere quale mezzo di propagazione della luce, riuscì a dimostrare che la velocità della luce stessa è una costante assoluta dal valore immutabile. Ciò contraddiceva la “dottrina” dell’Orso di Cambridge che, se fosse stato ancora nel mondo dei vivi, si sarebbe molto risentito, comunque, l’esperimento diede la stura ad una serie di deduzioni che avrebbero portato la fisica classica al suo inevitabile capolinea, decretando definitivamente che nell’elettrodinamica dei corpi in movimento erano stati commessi degli errori.

Sulle spalle dei giganti Tanto per dare un’idea di queste novità sensazionali, mal digerite da molti scienziati newtoniani, divennero improvvisamente chiari alcuni strani comportamenti della materia e della luce, alla straordinaria velocità costante di 300 milioni di metri al secondo. Un certo Albert Einstein, “tecnico di terza classe” presso l’Ufficio Brevetti di Berna ne fece una vera e propria ragione di vita, coronando così i suoi studi e la sua inesorabile passione per le leggi di natura e per la loro innata saggezza. Il giovane Albert, “il cane pigro” come lo aveva definito un po’ ingenerosamente il migliore dei suoi professori di matematica al Politecnico di Zurigo, cioè nientemeno che Hermann Minkowski, in un arco di tempo di circa dieci anni, dal 1905 al 1915, semplicemente rivoluzionò la fisica moderna. Prima centrò obiettivi come il moto browniano, 26

l’effetto fotoelettrico e la relatività speciale, poi, nel 1915 la relatività generale che lo fece diventare un’icona della scienza ed il fisico più noto ed amato di tutti i tempi, in pratica il prototipo del genio per eccellenza. Per riuscire a vedere così lontano giungendo a questa sintesi geniale, evidentemente, era dovuto salire anche lui “sulle spalle dei giganti” che lo avevano preceduto, come tutti coloro che hanno la straordinaria capacità di trovare per primi la direzione giusta nei meandri della ricerca scientifica (chissà se aveva mai letto Bernardo di Chartres: è suo l’adagio dei giganti). Questi giganti, nel caso di Einstein, erano stati sicuramente per ragioni diverse: Ernst Mach (principio di Mach), Max Planck (radiazione del corpo nero e quanti), James Maxwell (equazioni dell’elettromagnetismo), Thomas Young (teoria ondulatoria della luce), Bernhard Riemann (geometria non euclidea e tensore metrico) e Ludwig Boltzmann (meccanica statistica e teoria cinetica dei gas). Il “gigante” più amato di tutti dal giovane Albert, però, era stato sicuramente Hendrik Lorentz (1853-1928), il fisico olandese che battezzò per primo l’elettrone nel 1899 e portò fuori dalle nebbie teoriche l’elettromagnetismo. Einstein lo adorava, letteralmente, come uomo di larghe vedute e come scienziato dalla curiosità inesauribile, tanto da riconoscergli un contributo importante sia nei confronti della relatività ristretta che della relatività generale. Infine c’era, naturalmente, il suo matematico “personale”, l’amico di sempre Marcel Grossmann, che lo sollevò in parte dalle difficoltà dei numeri per vari anni, dall’epoca del Politecnico di Zurigo sino alla formulazione definitiva della relatività generale. Quando a “salire sulle spalle dei giganti” è un altro gigante, lo sguardo può finalmente spaziare veramente molto lontano, dove pochissimi possono osare ed è quello che infatti accadde. Einstein lo fece egregiamente affermando, tutto d’un fiato, una serie di principi rivoluzionari che gli avrebbero conferito il Nobel e una fama intramontabile. La luce viaggia ad una velocità costante che è la massima consentita, tale velocità deforma lo spazio e il tempo che rallenta ed ha un effetto sorprendente sulla materia 27

perché gli oggetti si accorciano in una sorta di contrazione aerodinamica ed aumentano il loro peso! Concetti strepitosi non c’è che dire e tali da aprire nuovi orizzonti scientifici nell’interpretazione delle leggi fisiche che governano l’Universo. Einstein, fu così improvviso ed inaspettato nel suo strepitoso debutto scientifico, da gettare il mondo in una sorta di stupore ammirato, che continuò a crescere per tutto l’arco della sua vita. Anche recentemente, dopo l’esame “scempio” perpetrato sul suo cervello, trafugato da un medico legale e conservato sotto formalina per anni, lo stupore pieno di curiosità ed ammirazione nei suoi confronti ha ripreso forza. Quell’ometto bonario dai capelli arruffati ed il volto segnato, che in una celebre foto mostra divertito la lingua al fotografo, non è più solo un personaggio originale ma un’icona intramontabile ed insostituibile della scienza e del genio umano. Il prototipo carismatico di colui che ha piegato la natura, rubandole “onestamente” i segreti più profondi.

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Capitolo secondo

Tutti possono diventare dei geni purché lo siano

Ciò che resiste al tempo è sicuramente vicino al bene

Potrà sembrare un po’ dissacrante iniziare il capitolo dedicato ad Albert Einstein con questo titolo ma la mia passione per gli aforismi non si è ancora esaurita, tanto da pubblicare anche alcuni libri su questo tema (“Le orme e la sabbia” e “Il tempo verticale”, Armando Editore). Anzi, questo titolo possiede proprio il tono paradossale che vorrei utilizzare per ridimensionare, con grande rispetto, un uomo ed uno scienziato oramai cristallizzato in una sorta di liturgia del mito, che in campo scientifico non mi sembra proprio il caso di condividere e che, in fondo, non piaceva neanche a lui. Einstein, infatti, si stenta quasi a crederlo dopo tanta agiografia, fu un uomo per certi versi comune, con grandi pregi e molti difetti anche in campo scientifico. Sotto il profilo umano, ed è quello che ci interessa di meno anche se lo ritengo notevolmente esplicativo, fu essenzialmente un uomo solitario, addirittura un pigro ma dotato della curiosità vitale di chi vuole conoscere oltre il consentito dai tempi e dalle conoscenze scientifiche coeve. In realtà, voleva soprattutto proseguire i suoi studi in tranquillità libero dalle incombenze pratiche e spesso anche familiari, per occuparsi di se stesso oltre naturalmente che della sua amata relatività. Una certa tiepidezza di fondo negli affetti e negli obblighi parentali lo portò, probabilmente ed incomprensibilmente, a prendere la grave decisione di dare addirittura in adozione una figlia avuta 29

da Mileva Maric prima del matrimonio. Forse, a causa dell’eventuale scandalo o forse perché un figlio arrivato troppo presto rappresentava un grosso problema sociale per un giovane talento scientifico, assorbito interamente dalle sue ricerche. Comunque sia, questa fu sicuramente una storia triste che rappresenta un lato oscuro difficilmente decifrabile del carattere di Einstein. Pare, addirittura, che questa sua pigrizia di fondo nonché una forma quasi “allergica” sia alle complicazioni familiari che agli impegni troppo vincolanti, fu la principale ragione che lo spinse a rifiutare nel 1952 la presidenza dello Stato di Israele offertagli da Ben Gurion. “Non sono la persona adatta e non posso farlo” disse Einstein ad Abba Eban, incaricato ufficialmente dell’importante ambasciata “e non voglio altre scocciature” avrebbe forse voluto aggiungere, se non fosse stato offensivo e scortese nei confronti del popolo israeliano! Anche con le donne il grande Albert fu piuttosto evasivo e sfuggente, a meno che non si trattasse di ottime governanti o ancelle devote, capaci di sollevarlo interamente dagli affanni della vita quotidiana. La sua prima moglie, Mileva Maric, intelligente, bruttina, claudicante, dolce e spesso depressa, sembrava appartenere a questa categoria prediletta ma non era esattamente così anche se per lui era disposta a prodigarsi da vera moglie innamorata. Lo fece con entusiasmo, sino ad avere una parte importante persino nella formalizzazione matematica dei tre famosi articoli pubblicati nel 1905 su “Annalen der Physik”, la più autorevole rivista di fisica dell’epoca. Mileva aveva studiato matematica e fisica al Politecnico di Zurigo con Albert e lo aveva affiancato nelle ricerche circa le caratteristiche del moto relativo ma non rivendicò mai alcun merito in proposito, dando prova di una grande dedizione solo parzialmente ricambiata. Erano anni duri per Einstein quelli di Zurigo e di Milano, dove aveva raggiunto la sua famiglia nel 1901. Ancora un po’ confuso sotto il profilo scientifico, era praticamente un apolide disoccupato e per giunta aveva i piedi piatti e “dall’eccessiva sudorazione”, come si legge nel referto medico della sua visita alla leva militare. Cosa che gli impedì, con sua grande soddisfazione, di prestare il servizio 30

militare nell’esercito svizzero dopo aver finalmente ottenuto la cittadinanza elvetica tanto desiderata. Ma il peggio doveva ancora venire ed arrivò quando Mileva rimase incinta e fu poi bocciata per la seconda volta agli esami di laurea in fisica, in questa fase il giovane Albert, ormai rapito nell’empireo della relatività, riuscì a dare veramente il peggio di sé disinteressandosi della futura madre di suo figlio, dei suoi cocenti insuccessi accademici e persino del nascituro. Lo fece, inoltre, secondo il suo stile partendo spensieratamente per le vacanze estive sulle alpi insieme a sua madre ed a sua sorella. Nel gennaio del 1902 Mileva, non ancora spostata con Einstein, diede alla luce nella casa paterna a Novi Sad in Serbia, una bambina di nome Lieserl, che il fisico non andò neppure a trovare e che, comunque, vide sicuramente pochissime volte nell’arco della sua vita. Inoltre, non nominerà mai questa figlia nei suoi scritti in alcun modo, tanto che dell’esistenza della piccola si seppe solo nel 1986! Il resto della storia è ancora più triste perché Lieserl, per coprire forse lo scandalo della sua nascita illegittima, fu data in adozione ad un’amica della Maric, tale Helene Sovic poi più nulla… È sorprendente, come Albert e Mileva siano riusciti ad occultare alla perfezione ogni traccia documentale dell’esistenza della bambina, compresa la sua morte, avvenuta forse già nel 1903 a causa di una forma grave di scarlattina. Comunque sia, Lieserl fu semplicemente cancellata, depennata da questo mondo e forse anche dalla memoria dei suoi genitori, lasciandoci comprensibilmente molto perplessi circa l’umanità distratta di suo padre.

Esperto tecnico di terza classe Nel giugno del 1902 Einstein fu finalmente assunto, grazie all’intercessione di un amico, all’Ufficio Federale dei Brevetti di Berna come “esperto tecnico di terza classe”, con lo stipendio non disprezzabile di 3.500 franchi. Il destino sembrava finalmente voltare pagina, anche se la morte del padre nell’ottobre del 1902, gettò lo 31

scienziato in una profonda costernazione. Una disperazione sincera piena, forse, di sensi di colpa per il suo proverbiale comportamento distaccato nei confronti degli affetti familiari, poi, ci fu finalmente il tanto auspicato matrimonio con Mileva a Berna, senza l’ombra di un familiare presente ma soltanto con pochi intimi amici al seguito. Qualcosa però, nonostante tutto, si stava ormai deteriorando tra i due e la loro fresca felicità coniugale cominciò ad essere sempre più opaca, stanca ed abitudinaria soprattutto per Mileva, che non viveva più di slanci affettivi vivaci, sempre più spesso spenti dalla flemma metodica e distaccata di lui. Tanta delusione aveva la sua ragione di essere, forse, a seguito della decisione cinica riguardante Lieserl o forse perché al primo posto negli interessi del giovane Albert, più distratto che mai circa la quotidianità, c’era la ricerca scientifica e non certo sua moglie e la nascita del suo primo figlio. Il vero e proprio tracollo del rapporto, però, avvenne nel 1912 quando Einstein, già abbastanza famoso nell’ambiente scientifico, passava con soddisfazione da una conferenza all’altra viaggiando incessantemente e potendo finalmente sponsorizzare e diffondere le sue teorie. Totalmente ignaro dei tormenti esistenziali di sua moglie, confinata a Praga e piena di ripianti per ciò che il loro rapporto avrebbe potuto essere e non era mai stato. Quell’anno, durante le vacanze pasquali, lo scienziato ebbe modo di rincontrare Elsa Einstein, sua cugina, che aveva conosciuto da bambino a Monaco, la donna divorziata con due figlie, apparteneva al genere rassicurante ed efficiente che piaceva ad Einstein. Corpulenta, con l’aria da solida balia tedesca, vagamente somigliante a suo cugino, non era bella ma molto conciliante e soprattutto adatta per un uomo che non aveva molto tempo da perdere in idilli e schermaglie domestiche. Di buon carattere e buongustaia, Elsa era capace di rendere la vita di un uomo impegnatissimo, eppure pigro, come estremamente confortevole e tranquilla, insomma, era la tipica “ancella” intelligente e piena di risorse. Dopo numerose difficoltà e ripensamenti e dopo aver definito sua moglie come “la mia croce” in una lettera ad Elsa, che continuava a tessere incessantemente la sua tela, Einstein decise in cuor 32

suo che proprio lei sarebbe stata il suo prossimo progetto affettivo stabile. La soluzione per uscire da quello che era ormai diventato un vicolo cieco di ricatti morali e rivendicazioni familiari. Intanto, dal Politecnico di Zurigo, dove insegnava dal 1912 grazie all’interessamento di Max Planck, il trentaquattrenne Albert ottenne una comoda sistemazione presso l’Accademia Prussiana delle scienze e la nomina a professore di fisica nell’Università di Berlino. Si trattava, ormai, nientemeno che dello scienziato che aveva stupito con il suo pensiero limpido e lineare gli illustri partecipanti al Congresso Solvay del 1911 e che presto avrebbe pubblicato la teoria delle relatività generale, un’estensione grazie all’aggiunta della gravità, della relatività speciale già pubblicata nel 1905. Il successo scientifico, inevitabile come un uragano tropicale, stava arrivando e lo avrebbe portato diritto fino al Premio Nobel nel 1922, anche se, paradossalmente, non assegnato per gli studi sulla relatività ma per l’effetto fotoelettrico cioè una visione originalissima della luce, intesa come un flusso di particelle. Elsa, intanto, incalzava per sposare il suo Albert e farlo divorziare dalla Maric, circondandolo di attenzioni irresistibili per l’ormai affermato “cane pigro”, sempre meno pigro alla luce degli eventi. Nel 1914 ci fu il trasferimento a Berlino della famiglia Einstein e la situazione, a causa di un misto di gelosia e di rancore da parte di Mileva nei confronti del sempre più distratto marito, precipitò definitivamente. Questa volta in maniera irreparabile, con tanto di separazione ed apertura delle ostilità come si conviene purtroppo in questi casi, la prospettiva di separarsi dai due figli, Hans Albert e il cagionevole Eduard, gettò Einstein in uno stato di prostrazione. Si trattò, forse, per la prima volta di un capovolgimento di valori nella psicologia complessa dello scienziato, che anteponeva finalmente, per una volta, il quotidiano privato alla dimensione pubblica dello studioso geniale e del ricercatore di successo. Il suo rifiuto innato dei valori della borghesia “filistea”, dei sentimenti e dello stile di vita borghese, ebbe per una volta un serio cedimento tanto da indurlo quasi in una crisi di identità che lo turbò profondamente, ma fu con ogni probabilità l’unica volta 33

nella sua vita. Ciò che gli stava accadendo nella sua dimensione di scienziato, del resto, era così enorme e clamoroso da lasciare poco spazio a tutto il resto e di questo dobbiamo dargliene doverosamente atto. Il resto della sua amara storia familiare, si consumò fra i bagliori letali della Prima guerra mondiale che, il pacifista Einstein, riuscì fortunatamente ad evitare. Poiché, comunque, spesso anche le motivazioni di un genio possono essere banali ed anche un po’ meschine, Einstein cominciò ad accusare Mileva di mettergli contro i figli che, effettivamente, iniziavano a provare un certo disagio nei confronti del padre e della sua continua assenza. Dopo una serie di complicate schermaglie legali, economiche ed affettive, senza contare il pressing matrimoniale di Elsa e dei suoi genitori, finalmente, arrivò il divorzio dalla Maric e dopo quattro mesi, nel giugno 1918, il matrimonio con l’amata e rassicurante cugina.

Gineceo borghese Iniziò così un periodo di grande tranquillità emotiva e direi anche di stasi familiare “protetta”, in cui Einstein poté finalmente soddisfare il suo bisogno vitale di non essere distratto dal suo lavoro, che si stava rivelando sempre più impegnativo e promettente. Quando lo scienziato affrontava un problema di fisica sembrava entrare in uno stato di trance e la sua costanza totalmente assorta, lo estraniava completamente dalla realtà. Era capace di dimenticarsi dei pasti ed allora l’impareggiabile Elsa arrivava premurosa con il suo piatto preferito di lenticchie e salsiccia, per aiutarlo a riaffiorare nel mondo cosciente degli umani. Una tale capacità di concentrazione è stata persino scambiata da qualche biografo per una leggera forma della sindrome di Asperger, una forma minore di autismo da cui parecchi uomini di genio sembrano essere stati affetti. L’anticonformista Einstein viveva finalmente in un confortevole gineceo borghese, con la “vestale” Elsa al fianco e le sue figlie “ancelle” Ilse e Margot pronte 34

ad assecondarlo: la fisica moderna poteva guardare con fiducia al suo futuro! Albert visse in armonia con sua moglie sino al 20 dicembre 1936, data della morte di Elsa a causa di gravi problemi cardiaci, il loro “amore affettuoso” aveva motivato un rapporto complesso, fatto soprattutto di un dare continuo da parte di lei e di un ricevere continuo da parte di lui, anche se l’affetto era pienamente ricambiato. Sicuramente si capivano e traevano entrambi dalla vicinanza l’uno dell’altro, una soddisfazione esistenziale che li rendeva felici ed appagati. Prova ne fu il sincero dolore e il senso di desolante abbandono, causato dalla scomparsa di Elsa, che ne provò lui reagendo alla sua solita maniera e cioè tuffandosi nel lavoro e dimenticando abbastanza presto, per concentrarsi sulle misteriose onde gravitazionali che già allora stavano diventando un enigma cosmologico con cui confrontarsi. Il gineceo borghese di cui Albert aveva un assoluto bisogno, quasi fisico, tornò subito a ricomporsi intorno a lui grazie alla segretaria Helen Dukas, alla figliastra Margot e a sua sorella Maja, tutte premurose ancelle anti scocciature e noiose incombenze sociali. Gli anni successivi trascorsero a Princeton abbastanza sereni, con una sorta di riconciliazione con il figlio Hans Albert e certi abbandoni ideologici di stampo socialista, che spinsero Einstein a chiudere momentaneamente un occhio sugli eccessi perpetrati da Stalin in Russia. Il lavoro continuava intanto inarrestabile, anche se gli anni d’oro della relatività erano ormai trascorsi e con loro, forse, anche un po’ della lucidità penetrante del suo pensiero. Einstein continuava ad essere un maestro assoluto nel tradurre le logiche concettuali della fisica ed a trarne formalizzazioni matematiche con un vantaggio applicativo prezioso. La sua visione scientifica di insieme era governata più che dalle formule matematiche, materia in cui non eccelleva e che gli lasciò forse qualche rimpianto, da una sensibilità percettiva veramente unica, che lo rendeva capace di interpretazioni teoriche profonde e spesso geniali: vedeva il risultato ben oltre il metodo necessario per raggiungerlo ed in ciò era assolutamente istintivo ed unico. 35

I suoi famosi esperimenti mentali, erano un tipico prodotto del suo straordinario cervello che possedeva rare qualità evocative. Nonostante queste capacità, però, ebbe modo di prendere anche qualche clamorosa cantonata di cui parleremo nel prossimo capitolo ma questo, in fondo, ci piace perché non fa che riammetterlo a pieno titolo nella consorteria degli umani. La sfortunata Mileva Maric, dopo il divorzio, trascorse la sua vita a Zurigo accudendo il figlio minore Eduard, malato di mente e sua sorella Zorka alcolizzata ed in miseria. La sua fu una fine tristissima e solitaria a cui Einstein non dette mai un vero ristoro, anche se l’aveva sempre sostenuta economicamente con il premio in denaro ricevuto per il Nobel, interamente devoluto a lei come da accordi. Mileva morì nel 1948, disperata per tutto ciò che nella sua vita non era andato come avrebbe dovuto, suo malgrado. Fu sicuramente una figura tragica, che mise a nudo il carattere contraddittorio e distaccato di un uomo che poteva e voleva dedicarsi solo alla sua scienza, senza essere necessariamente colpevole per questo. A settantacinque anni Einstein era soprattutto un personaggio originale, una vera icona della fisica moderna che spesso, magari, sbagliava le equazioni circa la teoria unitaria dei campi e non riusciva a ricavarne le risposte che si aspettava. Fotografatissimo ed idolatrato dai media, era ormai stufo di essere un’icona di se stesso, almeno in questi termini di fatua notorietà. Nei confronti della fisica quantistica, si definì come uno struzzo che affonda la testa nella sabbia per non vedere e bisogna riconoscere che forse aveva ragione. Non volle mai accettare, infatti, l’indeterminatezza acausale della meccanica quantistica e questo fu il suo più grande errore filosofico, prima ancora che scientifico. I suoi frequenti disturbi di stomaco, intanto, aumentavano mentre la sua pazienza diminuiva, in compenso il suo impegno civile contro l’utilizzo delle armi nucleari era sempre più deciso, con appelli e dichiarazioni stringenti ai “Grandi” della terra. Poi, improvvisamente, nel dicembre del 1948 prese forma una grave minaccia per la sua salute a causa di una diagnosi molto precisa: la presenza di un aneurisma dell’aorta discendente, che avrebbe potuto 36

ucciderlo in pochi minuti! Qualcuno consigliò un intervento d’urgenza, certi dolori addominali avevano finalmente una spiegazione, ma il fatalista Albert non se ne curò più di quanto non riteneva che fosse necessario: “Devo morire prima o poi e voglio andarmene quando decido io”, disse alla sua segretaria sbigottita e continuò a condurre la vita di sempre. Nella notte del 18 aprile 1955, all’età dei settantasei anni, Albert Einstein morì a causa della rottura del grosso aneurisma addominale che lo tormentava da qualche tempo. Il suo unico messaggio di commiato al mondo fu un mucchietto di fogli zeppi di equazioni lasciato accanto al suo letto, a riprova che non aveva mai tradito, sino all’ultimo, la sua fede nella scienza e nel suo lavoro di precursore solitario. Sin qui, il ritratto dell’uomo Einstein. Una personalità sicuramente anche contraddittoria, insofferente nei confronti dell’autorità e delle costrizioni sociali, un uomo dotato di una indubbia religiosità ma fondamentalmente ateo, conservatore ma anche libertario ed oltranzista. Capace di slanci affettivi ma distaccato quanto bastava per non essere mai troppo coinvolto dagli altri, autore di autentici voli pindarici dell’intelletto ma, a volte, anche ostinato e un po’ miope come un “passatista”. Un grand’uomo, insomma, ma con tutte le caratteristiche e le carenze di un uomo autentico e non di un feticcio mediatico o di una leggenda di largo consumo, come lo aveva ridotto una fama ossessiva.

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Capitolo terzo

La formula regina

Non si può essere alunni del tempo perché il tempo uccide sempre i suoi discepoli

Nel capitolo precedente ho voluto delineare una biografia molto stringata, ma abbastanza significativa, dell’uomo Einstein. Ho voluto farlo per trasportare lui e le sue teorie fuori dal mito e restituirgli, per una volta, quelle connotazioni di umanità che vengono spesso dimenticate a favore dell’icona leggendaria. Un’altra ragione risiede nel fatto che ritengo assolutamente forviante separare i grandi uomini dalla loro umanità spicciola, dalle loro debolezze e dalle loro miserie quotidiane. Un artista, uno scienziato, un qualsiasi personaggio che ha prodotto grandi opere dell’ingegno è, a mio avviso, un tutt’uno inscindibile con la sua natura di individuo comune, con le sue caratteristiche psichiche e temperamentali, che sono alla radice stessa della sua creatività e della sua visione privilegiata del mondo. Separare, ad esempio, la natura violenta e criminale di un Caravaggio dal linguaggio delle sue splendide opere di luce è, secondo me, un errore madornale che conduce inevitabilmente ad una interpretazione errata e superficiale delle sue motivazioni artistiche ed esistenziali. È vissuto un solo Caravaggio ed un solo Einstein e non “quattro” diversi individui da considerare separatamente, come può farci più comodo a scopo celebrativo oppure critico. Si possono esaminare separatamente i due aspetti della loro natura 38

per approfondirli maggiormente nei diversi ambiti: quello umano e quello creativo poi, però, nell’analisi complessiva con cui la storia sembra restituirceli, devono essere ricomposti in un unicum che ritrae fedelmente l’individuo in tutta la sua travagliata umanità. Detto questo, non ci rimane adesso che prendere in esame lo scienziato Einstein dopo il breve ritratto dedicato all’uomo, sperando di renderlo almeno in parte comprensibile nella sua statura di pensatore geniale. Subito dopo, riunendo le due componenti essenziali, umana e scientifica, avremo gli strumenti per delineare l’individuo nella sua unica, complessa realtà esistenziale. Comunque sia, poiché questo libro ha come protagonista il tempo, non è possibile non approfondire la visione relativistica che del tempo aveva lo scienziato Einstein, colui che rivoluzionò definitivamente questo concetto inafferrabile.

E = mc² Vorrei iniziare questo approccio allo scienziato, da quella che è considerata la formula più bella, sintetica e significativa dell’intera opera di Einstein e di tutta la fisica del Novecento: E = mc². In cui, E rappresenta l’energia in erg (o ergon: è l’unità di misura dell’energia), m la massa in grammi e c la velocità della luce in centimetri al secondo. È l’equazione che sancisce l’equivalenza fra l’energia e la massa e che il fisico tedesco sintetizzò, affermando che “la massa di un corpo è una misura del suo contenuto di energia”. Quindi, in soldoni, che la massa inerziale è equivalente all’energia in un qualsiasi sistema fisico ed in particolare, per entrare nel contesto dell’atomo, che l’energia interna di un nucleo atomico equivale alla sua massa inerziale, insomma, che massa ed energia sono la stessa cosa! Il rapporto di conversione tra energia e massa è sorprendente poiché, secondo la nostra formula, un solo grammo di massa convertita in energia equivale a novecento miliardi di miliardi di erg, oppure, se si preferisce, equivale alla combustione di quasi 39

duemila tonnellate di benzina! Questo vuol dire, che una quantità minima di uranio può sprigionare un’esplosione energetica potentissima e qualcosa di simile potrebbe accadere anche con altri materiali, visto che l’energia è imprigionata nella massa di quasi tutto ciò che ci circonda. La povera Marie Curie (1867-1934), fu uccisa inconsapevolmente dalle radiazioni energetiche prodotte dal minerale di Radio che maneggiava quotidianamente. Il Radio e il Torio emettono, infatti, particelle particolarmente ricche di energia: un grammo di Radio, in particolare, emette più di 100 calorie l’ora, una reazione chimica dalla portata energetica enorme, che si può verificare anche a temperature basse o ordinarie. Nel minerale di Radio avviene un annichilamento spontaneo di piccolissime quantità di massa che danno origine ad un’emissione energetica di particelle alfa, come prodotto di un decadimento radioattivo in cui un atomo emette le particelle stesse. Senza scendere troppo nel dettaglio, mi limiterò a dire che le particelle alfa, legate al nucleo di un atomo di elio-4, vengono prodotte dal decadimento alfa e si muovono come un unico proiettile energetico pericolosissimo e capace di provocare la leucemia nell’uomo. Questi proiettili letali colpirono purtroppo a morte la povera Marie prima che se ne rendesse completamente conto. L’abisso esistente fra la causa: una quantità infinitesimale di polvere di Radio e l’effetto: la morte a causa della leucemia, la dice lunga sul rapporto parossistico esistente fra la massa impiegata e l’energia (letale) ottenuta, un rapporto quasi paradossale stabilito proprio dall’equazione di Einstein. La teoria della relatività e la sua mitica formula, erano contenute in un articolo che il giovane Albert scrisse nel 1905 e spedì ad “Annalen der Physik” nella speranza che fosse pubblicato, anche se era abbastanza convinto della rigorosità scientifica di ciò che aveva scritto. Esaminiamo l’equazione nel dettaglio per renderci conto della sua reale potenza predittiva: iniziamo da E l’energia. Quella a cui fa riferimento Einstein, non è semplicemente un insieme di forze o specificatamente l’energia termica, chimica, 40

elettrica, magnetica ecc., è l’energia che è ovunque nella materia sua fonte inesauribile, sia a livello spontaneo come nel caso della radioattività, sia se “estratta” dall’uomo con l’utilizzo della tecnologia.

C come celeritas Dopo l’energia passiamo adesso alla massa. È sicuramente la regina delle fonti di energia, quella sorta di unicum imperante su tutto il pianeta che Antoine Laurent Lavoisier (1743-1794) comprese per primo nella sua totalità grandiosa, i suoi esperimenti di precisione, infatti, gettarono le basi per l’identificazione di un principio fondamentale: la conservazione della massa. Possiamo afferrare qualunque cosa, macerarla in ogni modo, farla a pezzi, bruciarla ecc.: la sua massa rimarrà costante ma anche l’energia rimarrà costante. Qualcosa di simile accade anche per la carica elettrica: se un neutrone (con carica 0) decade in un protone ed in un elettrone, avremo comunque una carica 0 perché il protone con carica positiva si annullerà con l’elettrone con carica negativa. Infatti, sia la carica elettrica del protone che quella dell’elettrone è pari a 1,60218925 x 10-19 coulomb ma con segno opposto, mentre la loro massa a riposo è pari, rispettivamente, a 938,2796 MeV (megaelettronvolt) e 0,5110034 MeV. Non bisogna dimenticare però che il protone è un barione e l’elettrone è un leptone, anche se entrambi obbediscono alla statistica di Fermi-Dirac, ma di questo parleremo più avanti. Fu la Rivoluzione francese o meglio una vendetta di Marat, medico e scienziato dilettante oltre che leader rivoluzionario, a mandare il povero Lavoisier sulla ghigliottina interrompendo per sempre i suoi studi e le sue misurazioni sperimentali. Veniamo adesso al terzo fattore fondamentale della formula einsteiniana, forse il più risolutivo: c, naturalmente questa c sta per celeritas, velocità in latino, cioè la velocità della luce nei suoi 41

percorsi. Il primo a sospettare che la velocità della luce fosse finita e non infinita, fu il pisano Galileo Galilei, una tempra geniale di “toscanaccio”, che si era scontrato persino con l’Inquisizione pur di affermare le sue idee scientifiche. Il suo tempo, però, non era ancora maturo per misurazioni tanto impegnative e così Galileo non seppe mai di aver visto giusto circa la velocità della luce come grandezza finita. Ciò significava, in pratica, che tale celeritas non era stata mai calcolata prima ed era stata invece ritenuta come aleatoria ed infinita, questo importante parametro, quindi, era sempre stato inservibile sia in campo astronomico che per qualsiasi genere di formalizzazione matematica. Fu proprio un astronomo, il danese Christensen Rømer, che nutriva la stessa convinzione di Galileo, a stabilire l’enorme velocità del lampo di luce riflesso da un satellite di Giove verso la Terra. Lo fece con grande perspicacia, osservando il moto del satellite Io intorno al gigante gassoso e calcolandone i tempi di comparsa dietro all’enorme profilo del pianeta. I calcoli, esatti, dettero un responso sorprendente: la velocità della luce nel vuoto risulta pari a circa 299.798 km al secondo, cioè circa 299,792458 x 106 metri al secondo, cioè 3 x 1010 cm al secondo, in pratica, l’equivalente di mach 900 mila: 900 mila volte la velocità del suono! Ma di cosa è fatta esattamente la luce per essere così fulminea nel suo propagarsi nel vuoto? È pura energia elettromagnetica cioè energia elettrica ed energia magnetica, la prima a generare la seconda in un rincorrersi continuo. Fu il fisico scozzese James Clerk Maxwell (1831-1879), ottimo matematico, ad imbrigliare questa formidabile energia in quattro formule fondamentali, che spiegarono cosa accadeva veramente in questo fantastico tira e molla energetico; grazie a lui il comportamento delle onde elettromagnetiche e, quindi anche della luce, era ormai definitivamente svelato. Un’onda luminosa in movimento però è talmente veloce che nulla, che sia dotato di massa, può superarla, infatti, più si aumenta la velocità di un razzo più aumenterà la sua massa e il veicolo spaziale non riuscirà mai a superare i fatidici 300 mila km al secondo. La ragione risiede nel fatto che 42

la sua massa sarà cresciuta a dismisura avvicinandosi sempre più a tale velocità, è evidente che l’energia si trasforma in massa ma è vero anche il contrario. La spiegazione di tutto ciò è nel rapporto diretto che esiste tra massa ed energia, se una aumenta l’altra diminuisce e la loro somma rimarrà sempre costante, la relazione diretta tra le due grandezze è assicurata proprio dalla velocità della luce, che funge da fattore di conversione nella famosa formula di Einstein. C converte tra loro E ed m, come il giovane tecnico dell’Ufficio Brevetti di Berna capì intuendo per primo il loro rapporto di equivalenza, il loro legame naturale di reciproco scambio. Nella fatidica formula, però, c è indicato al quadrato cioè moltiplicato per se stesso e noi sappiamo quindi che c2 è un numero veramente enorme: 1.166.400 bilioni di km l’ora! Ma perché proprio al quadrato quindi? Direi che avviene per una logica insita nella natura, accade spesso infatti che delle quantità quadratiche risultino da misurazioni di vario genere, come se la proporzionalità di certe grandezze prediligesse il quadrato di tali proporzionalità. Accade, ad esempio, nel misurare la profondità di arresto di una sfera metallica lanciata contro una superficie plastica. In questo caso, E sarà esattamente uguale a mv2 e non a mv (qui c è sostituito da v, la velocità nella fisica newtoniana). Ad una velocità doppia si avrà una velocità di arresto quadrupla, ad una velocità tripla una profondità di arresto di nove volte e così via, la profondità di arresto sarà sempre il quadrato della velocità della sfera per quella che, definirei, come una particolare legge di natura. Un precedente importante, circa le quantità quadratiche, era costituito dalle intuizioni geniali del grande matematico e fisico tedesco Gottfried von Leibniz (1646-1716), l’eterno concorrente dell’Orso di Cambridge, Newton. Che lo aveva persino accusato del furto di ingegno circa il calcolo differenziale, Leibniz a differenza di Newton, era stato un deciso fautore della versione formale E = mv2 ed Einstein evidentemente condivise il suo pensiero e si basò su questo assunto del valore quadratico di v (cioè di c) per 43

la sua storica formalizzazione dell’energia. La sua affermazione secondo cui “una massa m è equivalente ad un contenuto di energia pari a mc2” non era certo concettualmente nuova, ma generalizzava definitivamente il rapporto fra le due grandezze e questo sarebbe stato ricco di significati futuri. Soprattutto nel caso dei processi radioattivi di fissione utilizzando l’uranio 235, in relazione alla conversione in energia radiante di una parte della massa dell’atomo di uranio, le cui conseguenze terrificanti si sarebbero viste ad Hiroshima e Nagasaki, anche se in questo secondo caso fu usato il più ricettivo plutonio (vedi il mio “Il paradosso coerente”, Armando Editore, 2012). In definitiva, il giovane Einstein fra un brevetto e l’altro nell’Ufficio di Berna, aveva definitivamente sancito che l’energia è il prodotto della massa per il quadrato della velocità della luce, cioè, in pratica, che una minuscola quantità di materia, dopo la conversione in energia grazie al fattore di conversione c2, può avere effetti enormemente amplificati. E = mc2, comunque, non è stata solo la spiegazione scientifica dei terribili eventi di morte provocati dall’uomo, lo è stata anche di straordinari, primordiali eventi di vita, come la nascita dell’Universo, del nostro Sole e poi del “primate da record”: l’uomo. Tutto iniziò circa 15 miliardi di anni fa, in condizioni estreme di calore, densità e pressione, con una incredibile concentrazione di energia pura che originò la materia secondo la nota ricetta di Einstein. Sappiamo che a fronte di una temperatura massima raggiungibile, stimata intorno a 2 x 1012 gradi Kelvin, la densità di energia diventa infinita ed è quello che avvenne probabilmente all’inizio di tutto. La ribalta era pronta per la comparsa dei fermioni cioè delle particelle elementari che costituiscono la materia e soprattutto i tempi erano maturi (il cronometro ideale del tempo era appena partito) per la formazione di un particolare tipo di fermione: i quark. In questa fase, dovrò essere necessariamente schematico per evitare complicazioni inutili a chi mi sta leggendo, poiché la classificazione delle varie particelle elementari è abbastanza complessa. I quark, che appartengono addirittura a sei tipologie diverse, 44

costituiscono i nucleoni cioè i protoni ed i neutroni che, a loro volta, costituiscono il nucleo dell’atomo. Tre quark di tipo diverso formano sia i protoni che i neutroni, i quali vengono a loro volta classificati come barioni (dal greco “pesanti”). Detto questo, e per ora non andrei oltre con le classificazioni, torniamo all’inizio primigenio del tempo e dello spazio, quando una sfera di fuoco infinitesimale dalle caratteristiche estreme prendeva forma in un cosmo ancora inesistente.

Un neonato chiamato Universo Ebbene, in quel lontano “non tempo” a causa delle alte energie, della concentrazione e della temperatura, i quark appena nati erano ancora liberi di vagare incontrollabili, non ancora imprigionati negli adroni cioè le particelle che poi sarebbero state costituite dai quark stessi. Fu con il progressivo raffreddamento e l’espansione dell’Universo, che solo allora cominciava ad assomigliare a se stesso, che i quark nella quasi totalità iniziarono a legarsi ed a formare protoni e neutroni o ad annichilarsi nell’abbraccio con le loro antiparticelle. Oggi, di quark ne sopravvive un numero infinitesimale “a piede libero” nell’Universo e tanto basta, ma in quei primi concitati microsecondi accadde anche dell’altro, per esempio, delle importanti transizioni di fase. Cioè, il passaggio di un sistema fisico da uno stato ad un altro diverso, senza mutare la sua composizione chimica (es. il passaggio da acqua a ghiaccio ed a vapore), è importante notare, a questo proposito, che ogni transizione di fase è associata ad uno scambio di energia, che rese possibili le alte temperature primordiali e poi l’espansione del piccolo Universo neonato. A quota un miliardo di gradi Kelvin e centottanta secondi, si consolidò il processo fondamentale della nucleosintesi, cioè la formazione di elementi pesanti da nuclei di idrogeno cosa che accade ancora, del resto, all’interno delle stelle. Intanto, protoni e neutroni si fusero fino a formare nuclei di elio, mentre le stelle in formazione si alimentavano per il 75% di idrogeno e per il 25% di elio, 45

comunque, è certo che tutti gli elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio, sono nati da una nucleosintesi stellare. Cioè, in pratica, all’interno delle stelle e poi lanciati nello spazio dall’esplosione delle supernove, per alimentare a loro volta la nascita di altre stelle, dei pianeti ed infine della “scimmia nuda” su questa Terra. Sul futuro remoto dell’Universo, che non è però l’argomento di questo libro, le ipotesi sono fondamentalmente due: quella del “Big Crunch” e quella dell’espansione infinita. La prima ipotesi consiste in una sorta di ritorno alle origini che vede come protagonista la gravità, se vincesse, infatti, il suo eterno duello con le forze repulsive, l’espansione dell’Universo si arresterebbe per farlo collassare poi su se stesso. Se, al contrario, a vincere fosse l’attività repulsiva dell’energia oscura legata alla materia oscura, che ha il monopolio complessivo della quantità di materia che caratterizza l’Universo, il cosmo in espansione diverrebbe un deserto di pianeti e di stelle, molto espanso ed in accelerazione progressiva. In tutto questo variegato panorama di meraviglie cosmiche, ciò che salta all’occhio è la grande potenza predittiva di quella formuletta breve e scarna di cui siamo in debito con Albert Einstein, che non fa che sintetizzare prodigiosamente quella che è sempre stata l’eterna danza cosmica fra la materia e l’energia. Il genio anticipatore e creativo di Einstein, ha reso possibile tutto questo e molto altro: è stato veramente abbastanza per farlo entrare nella storia della fisica di tutti i tempi!

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Capitolo quarto

112 Mercer Street, Princeton New Jersey

Se l’eternità fosse indifferente al tempo non sarebbe eterna

Con la relatività ristretta, Einstein aveva stabilito una netta linea di demarcazione fra la fisica di Newton e la fisica moderna, che era ormai divenuta assolutamente relativistica. La profonda differenza fra le due, era costituita proprio dall’introduzione della velocità della luce, quella “celeritas” che abbiamo esaminato nel capitolo precedente ma, soprattutto, era rappresentata dalle sue singolari caratteristiche cosmologiche. Intanto, il giovane Albert aveva stabilito, con grande autorevolezza, che tale velocità è una costante assoluta, uguale per tutti gli osservatori e non è assolutamente influenzata dal moto cioè si propaga sempre alla stessa velocità. Noi comuni mortali, vediamo quotidianamente sommarsi le nostre esigue velocità “terrestri”, un raggio di luce, invece, da qualunque mezzo venga lanciato, lento o veloce che sia, conserva sempre i suoi fantastici 300 mila km al secondo quando si propaga nel vuoto. Inoltre, avvengono strani fenomeni fisici, la materia, quando si avvicina alla fatidica celeritas diviene più pesante in maniera esponenziale e perciò non potrà mai raggiungere né superare tale velocità. Cosa che non accade, ad esempio, ai fotoni che in quanto bosoni, sono particelle mediatrici della forza elettromagnetica cioè la luce e non possiedono massa. Come se non bastasse, la materia alle alte velocità subisce anche 47

una decisa contrazione e si accorcia nella direzione del moto, proprio come accade nei cartoni animati all’auto di Topolino, infine, il suo tempo rallenta perché lo spazio e il tempo vengono deformati, cambiando la loro geometria. Il famoso paradosso dei gemelli illustra proprio questo inquietante fenomeno: se un gemello rimanesse sulla Terra e l’altro venisse invece inviato nello spazio, quest’ultimo al suo ritorno troverebbe il suo gemello sedentario invecchiato, mentre lui sarebbe rimasto giovane. Queste straordinarie intuizioni diedero ad Einstein una visione quadridimensionale della realtà, con tre dimensioni fisiche ed una temporale, inoltre, cancellò l’idea di un riferimento fisso, poiché tutti i moti sono relativi e li chiamò “sistemi di riferimento inerziali”, in quanto privi di accelerazioni ma in moto costante fra di loro. Poi, a completare il quadro, era nata la famosa formula dell’equivalenza, che equiparava definitivamente l’energia alla massa ed, in un certo senso, estendeva il concetto allo spazio ed al tempo mettendo anche loro su uno stesso piano relativistico.

Annus mirabilis Il 1905 fu per il tecnico di terza classe dell’Ufficio Brevetti di Berna, sicuramente un anno mirabile e il suo nome cominciò a circolare negli ambienti scientifici giusti, sino ad attirare l’attenzione di uomini come Max Planck. L’altro anno mirabile per Einstein fu sicuramente il 1915, il nostro tecnico di terza classe non fece altro che aggiungere al piatto già ricco della relatività speciale, un ingrediente molto piccante per le sue caratteristiche complesse, la gravità e ne ottenne una generalizzazione veramente epocale: la relatività generale. Anche in questo caso il giovane Albert, in una progressione senza precedenti, si produsse in alcune equiparazioni fondamentali: non più, quindi, sistemi inerziali ma sistemi di riferimento soggetti all’accelerazione. In pratica, affermava che l’accelerazione era 48

equivalente alla forza di gravità e che in caduta libera la gravità non si manifesta. È il cosiddetto “principio di equivalenza”, secondo cui gli effetti dell’accelerazione non sono distinguibili dagli effetti di un campo gravitazionale uniforme, per la semplice ragione che c’è un’equivalenza fra la massa gravitazionale e la massa inerziale. La teoria della relatività generale è, infatti, soprattutto una teoria della gravità e come tale amplifica i significati e le caratteristiche di questa forza che dipende, a sua volta, dalla massa. Il classico, inflazionatissimo esempio del tessuto elastico ben teso che rappresenta lo spaziotempo e viene deformato con avvallamenti vari della sua superficie causati da corpi dotati di massa come i pianeti, è banale ma significativo ed efficace. Rende l’idea di come la gravità condizioni il panorama spaziotemporale e crei attrazione verso tutto ciò che passa vicino ai fatidici avvallamenti del tessuto spaziotemporale. La gravità, però, fa di più e meglio nel cosmo, sino a deviare addirittura la luce dal suo corso quando passa accanto ad un pianeta o ad una stella o comunque in una zona massiva, l’effetto “lente gravitazionale” è la forma più significativa di questo fenomeno prospettico. E non finisce qui, perché anche certe singolarità spaziotemporali come i buchi neri, vengono caratterizzate da una massa e da una forza di gravità super concentrate e tali da costituire una trappola mortale per la materia, che vaga nel cosmo nelle loro vicinanze. Anche i fantascientifici “cunicoli temporali” sono possibili, a causa di una gravità modellatrice della materia e dello spaziotempo. Il tempo, in particolare, è sempre di più “uno strano luogo” perché il “quando” nello spazio è ancora più importante del “dove”, anche se sono fatti entrambi dello stesso tessuto quantistico. Anche la gravità possiede, naturalmente, la sua particella mediatrice di forza che è il gravitone, un bosone privo di carica elettrica e di massa, perfettamente sconosciuto, che agisce su tutte le particelle con raggio di azione infinito, ma di questo parleremo più avanti. È un vero peccato che il gravitone sia solo una particella ipotetica, ma sono certo che verrà presto individuata come è avvenuto per l’altro famoso “fantasma” mediatore della massa: il bosone 49

di Higgs. Effettivamente, le onde gravitazionali emesse dai buchi neri, dalle pulsar e dalle stelle di neutroni che si scontrano, sono state rilevate solo di recente ma è stata, bisogna ammetterlo, quasi esclusivamente colpa nostra e del loro basso impatto quando attraversano la materia. Proprio come una carica elettrica accelerata emette onde elettromagnetiche, un corpo massivo accelerato emette onde gravitazionali: il parallelo fra il “quanto” mediatore fotone e il “quanto” mediatore gravitone, è presto detto. Einstein, studiando la gravità (è sempre sua la formula E gravitazionale = m grav c2), si impegnò per tutta la durata della sua maturità ad affermare la stretta relazione che intercorre fra spazio, tempo e materia. Come ha scritto qualcuno: “la materia dice allo spazio come curvarsi, lo spazio dice alla materia come muoversi” ed aggiungerei io: “il tempo dice ad entrambi come evolvere nella direzione cronologica”. La teoria della relatività generale, grazie alla visione complessiva del suo autore, è effettivamente un compendio fondamentale per la comprensione dell’Universo e delle interazioni continue fra spazio, tempo e materia.

Gödel a Princeton L’ultimo grande sforzo per penetrare sempre più intensamente nei segreti dell’Universo, Einstein lo fece purtroppo senza successo con la teoria unitaria dei campi, una sorta di teoria del Tutto in cui unificare la gravità e lo spaziotempo in termini di meccanica quantistica. Il suo realismo empirico, che lo aveva portato a concepire improbabili “azioni a distanza” fra le particelle elementari, lo portò durante gli ultimi anni vissuti all’Institute for Advanced Study di Princeton nel New Jersey, a vagare inquieto fra i tre capisaldi della fisica di quegli anni: la sua relatività, il principio di indeterminazione di Heisenberg ed i teoremi dell’incompletezza di Gödel. A proposito di Kurt Gödel (1906-1978), logico matematico e filosofo boemo di straordinario talento ma dalla personalità sicuramente “borderline”, mi sembra irrinunciabile dedicargli un 50

breve spazio, per l’influenza che ebbe su Einstein nei suoi anni crepuscolari di Princeton. Paranoico e probabilmente anche schizofrenico, è tuttora considerato a ragione, come il più importante logico del XX secolo e, forse, di tutti i tempi insieme a Leibniz ed Aristotele! Nel 1931, fra una crisi di ipocondria e l’altra, pubblicò il suo fondamentale “Teorema di incompletezza” in cui affermava che nella teoria dei numeri si annidava un gap logico. Questo carattere di incompletezza, impediva sia la dimostrazione che la negazione delle proposizioni di un sistema matematico sulla base degli stessi assiomi di partenza, come dire, che il formalismo matematico e le sue teorie erano incoerenti ed incomplete e che giungere, così, a verità matematiche fosse quasi impossibile. Gödel, peraltro, utilizzava una sorta di logica “circolare” nel suo enunciato, che affermava negando e dimostrava poi l’indimostrabile. Nel 1970 elaborò, addirittura, una teoria matematica che doveva provare l’esistenza di Dio: la prova ontologica! La teoria, priva di implicazioni teologiche tradizionali, fu resa nota solo dopo la morte dell’autore e risente degli episodi di delirio paranoico che lo resero gravemente inadeguato nella quotidianità per tutta la durata della sua vita. Kurt Gödel, durante le interminabili passeggiate nel parco di Princeton, affascinò Einstein sia con la sua metrica matematica, molto vicina alle sue equazioni di campo, sia con la sua visione di un Universo ruotante su se stesso, molto più realistica rispetto alla versione “statica” del grande fisico tedesco. La sua influenza sull’ormai anziano padre della relatività fu innegabile e produttiva soprattutto sotto il profilo umano: due inguaribili solitari al tramonto, si erano incontrati per celebrare le rispettive solitudini e consolarsi a vicenda. Significativo, per capire la personalità complessa e tormentata di Gödel, è l’episodio dell’esame che dovette affrontare per ottenere la cittadinanza americana nel 1947. Gödel era ufficialmente austriaco ed Einstein, che aveva una notevole simpatia per gli aspetti disarmanti del suo carattere introverso, decise di aiutarlo nel progetto, facendolo esaminare dallo stesso giudice federale 51

che aveva esaminato favorevolmente la sua richiesta di diventare americano. Gödel, come nel suo costume, si era preparato con tale impegno all’esame da individuare nella Costituzione americana addirittura una presunta falla logica che, in pratica, la rendeva attaccabile sotto il profilo della stessa concezione democratica e capace di degenerare, addirittura, in una forma di autoritarismo. Nessuno si sarebbe mai sognato, naturalmente, di farne partecipe il severo giudice americano ma Kurt Gödel, infervorato nelle sue eccezioni logicoteoriche, stava per farlo e se non fosse intervenuto prontamente l’amico Albert, deviando la discussione, il logico boemo sarebbe rimasto per tutta la vita di nazionalità austriaca! Il suo teorema di incompletezza, che postula l’incapacità della stessa matematica di dimostrare o di negare certe sue proposizioni in seno alla teoria dei numeri, stabilisce un limite fondamentale alla formalizzazione delle teorie matematiche e sancisce la loro potenziale contraddittorietà. Che equivaleva ad affermare, che buona parte del lavoro dell’altro grande logico matematico tedesco, amico di Einstein, cioè David Hilbert (1862-1943), un altro cacciatore di certezze, veniva messo in discussione per sempre con grande disappunto dei suoi sostenitori. Gödel, ormai vedovo e senza più il sostegno affettivo di sua moglie, morì praticamente suicida rifiutando di nutrirsi per il timore paranoico di essere avvelenato, la tragedia inevitabile della sua vita si era conclusa nel peggiore dei modi. Rivedendo le foto delle lunghe passeggiate a Princeton dei due amici, che sembrano sostenersi a vicenda con le rispettive argomentazioni teoriche, viene spontaneo riflettere su quale fu realmente l’effetto dello strano sodalizio su Einstein. Se ebbe, cioè, il potere di estraniarlo da certe ortodossie scientifiche che sembravano averlo conquistato nel periodo finale della sua esistenza, oppure, se il carattere altamente speculativo delle idee di Gödel lo abbiano sollevato da alcuni dubbi di principio sul significato delle leggi di natura e sulla loro apparente, stabile ed intoccabile certezza. Gli anni, infatti, cominciavano a farsi sentire sulla stessa capacità predittiva del pensiero dell’anziano Albert ed i risultati 52

prefissati tardavano ormai a concretizzarsi, primo fra tutti “l’araba fenice”, cioè la teoria unitaria dei campi. Una sorta di unificazione risolutiva del campo elettromagnetico con quello gravitazionale, di cui avrebbe dovuto far parte a pieno titolo la materia, come prodotto delle deformazioni dello spaziotempo. Forse però l’impossibilità di trovare equazioni che potessero descrivere una logica dimensionale plurima, finirono per fiaccare gli entusiasmi del vecchio leone forse per farlo giungere alla triste conclusione che non sarebbe mai riuscito a dipanare la matassa intrigata di una verifica matematica, circa la coerenza della sua teoria. Purtroppo, fu proprio così e fatta eccezione per qualche altro inserto di costume sui giornali americani, la gloriosa stagione del settantaseienne Albert Einstein si concluse mestamente, come per qualsiasi altro comune mortale privo di particolari talenti. Quel tempo ingrato che lui aveva contribuito a spogliare del suo alone di mistero trascendentale, era tornato implacabile a reclamare il suo diritto di vita e di morte sull’uomo e sulle sue idee, definitivamente. Tutto avvenne, però, nel tipico stile inconfondibile del vecchio “ragazzo curioso”, cioè lasciando accanto al suo letto, per altri curiosi che sarebbero venuti dopo di lui, un ultimo appunto enigmatico con varie equazioni piene di misteriose, incomprensibili correzioni, che nessuno avrebbe mai decifrato.

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Capitolo quinto

Dio gioca a dadi

Il futuro è un mistero in attesa che solo i più fortunati riescono a svelare

Prima di chiudere definitivamente l’argomento circa l’uomo e lo scienziato Einstein, mi sembra opportuno e direi doveroso, cercare di chiarire quello che fu il suo atteggiamento singolare nei confronti della fisica quantistica e delle sue inquietanti indeterminatezze. Einstein fu ostile, in particolare, alla cosiddetta Interpretazione di Copenaghen cioè la più classica fra le spiegazioni quantistiche. Ispirata dal grande fisico danese Niels Bohr (1885-1962), fu il tentativo più riuscito di istituzionalizzare in qualche modo una visione quantistica sfuggente ed ancora circondata da un notevole scetticismo di fondo. Questa interpretazione, grazie al carisma di Bohr ed alla sua appassionata opera di proselitismo, è sopravvissuta in piena salute sino quasi agli anni Ottanta. In realtà, fu sviluppata anche dal fisico tedesco Max Born (1882-1970), che le impresse per primo quella dose di probabilismo sperimentale che è tipico della fisica quantistica. Negli Stati Uniti fu, invece, il matematico ungherese John von Neumann (1903-1957) a tenere alta la bandiera dell’Interpretazione di Copenaghen, nonostante alcuni suoi clamorosi errori che portarono però, comunque, all’importante formalizzazione matematica del collasso della funzione d’onda, come si vedrà nei prossimi capitoli. È proprio questo il punto di partenza della mia visione teorica circa la natura quantistica del tempo. 54

Come già accennato, tanta diffidenza quasi “ideologica” da parte di Einstein verso la fisica quantistica, non era solo riferita alla teoria dei quanti in se stessa ma, soprattutto, nei confronti di una logica universale apparentemente indeterminabile, che sembrava porre il caso e la legge delle probabilità al centro della scena dove si esibisce madre natura. Il suo rifiuto realmente ideologico, comunque, fu ingenerato in buona parte anche dalla formazione filosofica e religiosa del grande fisico; Albert Einstein era nato in un mondo proteso verso la modernità ma ancora legato alla ricerca delle tipiche certezze esistenziali ottocentesche, che stavano ormai crollando una ad una, sia sul piano sociale che su quello morale e scientifico. Forse, per questa ragione, il padre della relatività non fu mai un vero “relativista” e cercò sempre attraverso l’immaginazione e la creatività di superare qualsiasi tipo di convenzione stringente anche in campo scientifico. La sua istintiva necessità di totale autonomia di pensiero era un modo per ribellarsi agli schemi precostituiti, per essere libero di spaziare anche oltre i dogmi scientifici sempre in agguato nelle Università tedesche e ovunque una mente libera di pensare, contasse ancora qualcosa. Da bambino, Albert aveva avuto difficoltà persino nel parlare e probabilmente oggi questo disturbo della parola verrebbe definito come “mutismo selettivo”. Molto silenzioso soprattutto con gli estranei, ripeteva spesso le stesse frasi più volte ed affermava di pensare per immagini astratte, spesso senza poterle tradurre in parole e tutto ciò aveva favorito in lui la psicologia un po’ ermetica dell’estraneo rifiutato, ovunque si trovasse. Inoltre, era ebreo e quindi appartenente ad una etnia, oltre che ad una religione, di anime erranti costantemente nella necessità di doversi difendere dall’antisemitismo strisciante, soprattutto nei paesi di lingua tedesca e slava. Sempre alla ricerca di uno status sociale e di una terra “promessa” in qualche parte del mondo, che pur doveva esserci e bastava trovarla. Fu questo bisogno atavico di accettazione e di sicurezza, probabilmente, a far salire a livelli sorprendenti il numero degli scienziati di origine ebraica e la percentuale altissima dei loro premi 55

Nobel oltre, naturalmente, a certe indiscutibili doti naturali di intelligenza e di tenacia. Albert avrebbe dovuto chiamarsi Abram, come suo nonno, ma un certo “buonsenso pratico” familiare gli evitò quel nome ingombrante e troppo ebraico, che avrebbe potuto essere magari di ostacolo fra i gentili. Questo aspetto la dice lunga sul senso di appartenenza e di adesione, molto tiepida, da parte della famiglia Einstein ai rigori dei costumi ebraici anche a livello religioso. Non erano osservanti ed Albert, infatti, ritrovò le sue radici culturali solo in età matura, quando la tragedia dell’Olocausto si era ormai consumata in tutta la sua drammatica disumanità. La filosofia di vita di Einstein si rifaceva al suo autore preferito: Baruch Spinoza, di cui apprezzava soprattutto l’affermazione del principio di causalità dei fenomeni naturali e questo deve aver avuto un peso notevole sul suo rifiuto, quasi istintivo, dell’acasualità quantistica. Inoltre, come Spinosa, credeva in un Dio della ragione, capace di esprimersi attraverso le meraviglie del creato e non in un Dio inteso come una sorta di interlocutore “funzionale” rispetto all’uomo. Neppure il rapporto intenso e travagliato con Niels Bohr, con cui imbastì per anni duelli scientifici all’ultimo sangue ma sempre nel più profondo rispetto reciproco, riuscirono a farlo addolcire nei confronti dell’indeterminatezza della teoria dei quanti che, pure, aveva intuito per primo. Già nel 1905, il suo “annus mirabilis”, infatti, aveva in qualche modo aperto la strada ai quanti, come pacchetti di energia, con il cosiddetto quanto di luce: il fotone. Sappiamo che la luce non è altro che energia elettromagnetica cioè una delle quattro interazioni fondamentali che poi, in realtà, sono solo ormai tre poiché la forza elettromagnetica è stata fusa nel 1970 con la forza nucleare debole ed è divenuta l’interazione elettrodebole. Tornando alla luce, che ci ispira parecchio grazie ai significati trascendentali che le attribuiamo, essa è formata da un flusso di fotoni, particelle elementari senza massa che perciò possono viaggiare alla velocità della luce appunto. La luce, però, forma solo la parte predominante dello spettro elettromagnetico, che si estende progressivamente dalla radiazione 56

ultravioletta a quella infrarossa. Si tratta di diverse lunghezze d’onda che progrediscono da quelle corte a quelle più lunghe, il resto dello spettro elettromagnetico è formato da altre forme di radiazione, come le onde radio ed i raggi X. Il fotone, in pratica, è una particella di luce visibile all’occhio umano, così battezzata nel 1926 dal chimico Gilbert Lewis ma già “sdoganata” da Einstein sin dal 1905, come quanto di luce, mentre studiava l’effetto fotoelettrico. Il fotone è un bosone cioè un mediatore di forza, la forza elettromagnetica, ha spin pari ad una unità e possiede una particolarità molto significativa: nelle interazioni fra particelle, i fotoni spesso decadono ed il loro numero non si conserva, ciò ha, come vedremo, una notevole importanza. Bisogna inoltre sottolineare che le particelle di luce, come già accennato, hanno spin intero (1,2), parlando di spin mi riferisco al loro movimento rotatorio in senso quantistico, lo spin distingue nettamente i bosoni dai fermioni cioè le particelle che costituiscono la materia, che hanno invece sempre spin semi intero cioè ½. Si tratta di un tipico esempio di sfuggente logica quantistica, lo spin, infatti, è un tipico concetto quantistico che non coincide affatto con il concetto di rotazione della fisica classica, non si tratta di una vera rotazione come la intendiamo comunemente, ma identifica piuttosto la posizione della particella. Inoltre, distingue soprattutto la materia dalle forze e, quindi, le particelle dotate di massa da quelle, come i bosoni ed i gluoni, che invece la massa non ce l’hanno affatto. Detto per inciso: i gluoni, dal termine inglese “glue”, colla, tengono uniti i quark nei nucleoni cioè i protoni e i neutroni, questa terminologia che naturalmente non si esaurisce qui, è un po’ complessa ma va necessariamente “digerita” per potersi orientare efficacemente nella fisica delle particelle.

Il “Maestro” Planck Tornando al giovane Einstein, è evidente che già in epoca non sospetta aveva fatto tesoro e condiviso le intuizioni del fisico 57

tedesco Max Planck (1858-1947). Planck, che sarebbe stato poi un ottimo pianista dilettante in coppia con il violinista Einstein, era un tipico iniziatore rigoroso che, però, non sempre riusciva a sviluppare ciò che aveva intuito per primo, forse per una semplice carenza di spregiudicatezza. Il suo cavallo di battaglia era la termodinamica e con lo studio della cosiddetta “radiazione del corpo nero”, capì che l’energia elettromagnetica veniva scambiata dagli atomi in pacchetti discreti, i cosiddetti “quanti fondamentali di azione” cioè i futuri fotoni. Non andò, però, troppo oltre e soprattutto non collegò le sue deduzioni ad un sistema quantistico organico è indubbio, però, che era riuscito a sviluppare la prima teoria quantistica della radiazione elettromagnetica: E = hf. In cui, E è l’energia del quanto di radiazione, h è la costante di Planck, cioè una costante fondamentale di natura, ricavata sperimentalmente e pari a 6,626x10-34 joule al secondo ed f, la frequenza del fotone. Ciò che più conta, però, è che questa formuletta mette in relazione la natura corpuscolare di una particella quantistica con la sua natura di onda, penetrando un altro tipico mistero quantistico veramente esotico. Poiché, come aveva intuito per primo nella sua tesi di dottorato alla Sorbona del 1924 il principe Louis Victor de Broglie (1892-1987), incredibilmente, ogni particella può comportarsi anche come un’onda! Questa natura duplice della materia ma anche dell’energia, si ricollega all’equivalenza fra materia ed energia (ricordate E = mc2 ?) e rientra in una tipica logica quantistica, che lascia molto perplesso il profano e non ha mancato di porre enormi interrogativi agli stessi addetti ai lavori.

L’Interpretazione di Copenaghen Oltre ai numerosi interrogativi, la meccanica quantistica ingenerava in Einstein, come ho già accennato, una sorta di diffidenza “etica” nonostante la sua visione dei quanti di luce fosse assolutamente limpida e convinta sin dal 1905 quando sbadigliava ancora, 58

un po’ annoiato, nella sua stanzetta dell’Ufficio Brevetti di Berna. Una vera e propria ostilità concettuale, però, doveva fare la sua comparsa solo negli anni di maggiore frequentazione con Niels Bohr, a contatto diretto ed in contrapposizione teorica costante con il “profeta” indiscusso dell’interpretazione di Copenaghen. Quale era esattamente questa visione, che sembrava allora assolutamente vincente, della fisica quantistica? Era, a tutti gli effetti, il “flat standard” della meccanica dei quanti, saldamente in auge sino agli anni Ottanta, grazie al suo energico e coinvolgente mentore danese. In pratica, una sorta di ricetta sicura cui rivolgersi con fiducia, per inquadrare le meraviglie ma soprattutto le stranezze quantistiche. Una teoria tutto sommato coerente, per accedere ad un nuovo mondo fatto di indeterminatezza e di misteriose influenze che sembravano quasi sconfinare in una realtà paranormale! Questa interpretazione che non era l’unica ed era stata elaborata, in parte, anche all’Università di Gottinga, aveva in sé qualcosa di metafisico legato, a doppio filo, con le percezioni sensoriali umane. Secondo la teoria, era in pratica l’operatore dell’esperimento e della misurazione tecnico-strumentale a condizionare con la sua intrusione il risultato stesso. Quando il sistema veniva violato o meglio perturbato, reagiva con una risposta probabilistica, poi, terminata l’intrusione-misurazione, tutto tornava come prima in una sovrapposizione indeterminata di stati della particella in esame e il suo stato definito non era conoscibile sino alla successiva misurazione! La particella/onda, in pratica, esiste come tale solo durante l’osservazione/misurazione, quasi a manifestare una propria esistenza reale solo “a comando” e mostrando una natura assolutamente cangiante. Può sembrare a prima vista improbabile, ma l’interpretazione di Copenaghen racchiude in se teorie valide quali il Principio di Indeterminazione di Heisenberg, il Principio di Complementarità ed il fondamentale collasso della funzione d’onda che rappresenta, come vedremo, un punto cruciale della mia visione teorica circa il tempo e la sua natura di moto cronologico. In realtà, tutte le interpretazioni quantistiche tradizionali sono un tentativo di porre alla portata dei nostri sensi e della nostra 59

comprensione, i fenomeni controintuitivi e “diversamente logici” della realtà quantistica e l’Interpretazione di Copenaghen non era da meno. Ciò fa comprendere, oltre ogni possibile dubbio, con quanta ostilità razionale Einstein si rivolgesse a questa teoria che Bohr, invece, aveva fatto sua sin dall’inizio con l’entusiasmo di chi è convinto di rivolgersi ad una nuova, esaltante realtà scientifica ed esistenziale. Già nel 1912, Einstein si esprimeva in questi termini: “più la teoria dei quanti ha successo, meno seria appare” e non era un caso, perché i suoi dubbi con il tempo erano aumentati anziché svanire. Il trascinatore Bohr, nonostante la sua buona volontà, non poteva fare altro se non sfidarlo sul piano scientifico per averlo poi dalla sua parte. I due futuri contendenti si incontrarono per la prima volta nel 1920, quando ancora le loro posizioni circa i principi fondamentali della meccanica quantistica non erano poi così inconciliabili. Si piacquero e si stimarono da subito, conservando per sempre reciproci sentimenti di affettuoso rispetto, risale al 1926 in una lettera di Einstein indirizzata a Bohr, la testimonianza della sua definitiva opposizione alle tesi del fisico danese e contemporaneamente compare la famosa frase “storica” in cui affermava che: “Dio non gioca a dadi con il mondo”. Questa citazione, che è possibile trovare in ogni biografia del grande Albert, sintetizza alla perfezione non solo il suo pensiero scientifico ma, in parte, anche la sua visione mistica dell’esistenza. Una sorta di “Grande Vecchio” subliminale, secondo lui, doveva pur esserci da qualche parte, non rivolto all’uomo ed ai suoi insignificanti tormenti oppure garante di improbabili premi e castighi ultraterreni, ma come artefice di un grande disegno “autoregolante” della natura. Senza uno scopo apparente se non quello dell’evidenza di un sistema dotato di algoritmi universali coerenti. In questo contesto, è sicuramente la sua religiosità ebraico-cristiana a manifestarsi attraverso un misticismo profondo ma pur sempre dotato di grande razionalità. La religiosità tormentata di un apolide in fuga, alla ricerca affannosa di una terra promessa della ragione, dove finalmente riposarsi e fermarsi a pensare senza costrizioni di alcun genere. 60

I duellanti Accadde durante il Congresso Solvay del 1930 tenutosi in Belgio con la presenza delle maggiori “stelle” della fisica europea, che Einstein iniziò, soprattutto a colazione e durante le pause dei lavori, a “picconare” energicamente le tesi dei quantisti più convinti. Bohr era sinceramente turbato dalle sue eccezioni e le viveva quasi come una sorta di sfiducia rivolta alla sua persona, ma il padre della relatività lanciava bordate anche all’indirizzo di Werner Heisenberg (1901-1976) ed al suo “Principio di Indeterminazione”. Secondo cui, “non era possibile sapere tutti i dettagli del presente”, che tradotto in termini quantistici vuol dire che di due variabili coniugate, ad esempio velocità e posizione di una particella elementare oppure energia e tempo, è possibile conoscerne una sola per volta e maggiore è la precisione con cui si misura una, meno precisa sarà l’altra. Tutto ciò, a causa del fatto che la semplice misurazione modifica lo status della particella stessa, siamo cioè agli antipodi del determinismo tipico sia della fisica classica sia, in parte, di quella relativistica e questo Einstein non poteva condividerlo né tantomeno accettarlo. A proposito di Heisenberg, in particolare, merita qui un breve inciso poiché era dotato di una genialità molto concreta, lungimirante e con un’ottima preparazione che lo rendeva molto efficace nelle formalizzazioni matematiche. Premio Nobel nel 1932, divenne professore di fisica all’Università di Berlino nel 1941 e, filonazista sin dalla prima gioventù, lavorò in seguito al progetto della bomba atomica tedesca durante la Seconda guerra mondiale. A tale proposito, ho ipotizzato nel mio libro “Il paradosso coerente” che sia riuscito, nonostante abbia sempre affermato il contrario, a costruire ed a fare esplodere nel marzo del 1945 in Turingia, un prototipo di bomba atomica “a compressione” di tipo A ed a fissione nucleare. Il tutto, appena quattro mesi prima che mettessero a punto qualcosa di simile gli specialisti americani di Los Alamos. Dopo la guerra, il fisico tedesco fu portato negli Stati 61

Uniti in fretta e furia e con tutti gli onori, evidentemente era troppo prezioso per lasciarlo all’imperialismo criminale di Stalin! Con l’attacco sempre bonario ma penetrante ad Heisenberg, iniziò il fuoco di fila dei cosiddetti esperimenti mentali di Einstein. Una sorta di simulazioni teoriche in cui escogitava meccanismi e situazioni complesse che, in una realtà ipotetica ma coerente, confutavano la visione di Bohr e dei suoi colleghi di Copenaghen. Le tesi da smontare, comunque, appartenevano quasi invariabilmente al povero Niels il quale, con la sua dialettica indecisa ed il tono di chi è un po’ disorientato, incassava il colpo per poi somatizzarlo e rispondere a tono il giorno dopo. Questo “balletto” degli esperimenti mentali, sempre più ingegnosi e complicati, andò avanti sino al 1931, dopo i consueti sbandamenti iniziali di Bohr, il duello si concludeva quasi sempre con la sua capacità di prevalere sulle simulazioni di Einstein e smontare così le sue argomentazioni. Morale della favola: si giunse finalmente alla resa di Einstein ma non al suo reale convincimento e tutto si svolse, comunque, nella maniera più tipica ed elegante che ci si potesse aspettare da lui. In una lettera inviata al Comitato per il Nobel di Stoccolma, infatti, lo scienziato propose per l’alto riconoscimento proprio Werner Heisenberg, il fedelissimo del “partito” di Bohr, colui che era stato l’artefice della teoria matematica della “meccanica delle matrici”, cioè la prima teoria quantistica realmente coerente sotto il profilo matematico. Con il passare degli anni, la convinzione di Einstein che la meccanica quantistica fosse solo parzialmente completa, si trasformò in qualcosa di più articolato sotto il profilo concettuale. Nonostante che non riuscisse ad accettarla, soprattutto sotto un profilo filosofico ed addirittura etico, mitigò la sua visione critica parlando di incompletezza, di parziale inconsistenza teorica ed anche, però, di mancata aderenza alle caratteristiche che una teoria fisica, degna di questo nome, dovrebbe possedere per dirsi veramente esaustiva e coerente. Secondo il suo pensiero, la meccanica dei quanti così come enunciata dal gruppo di Copenaghen, aveva trascurato di considerare un criterio informatore generale, che dovrebbe orientare sempre 62

le osservazioni sperimentali di ogni fisico teorico, si trattava di un’idea che avrebbe accompagnato Einstein per tutta la vita: il criterio della “realtà oggettiva”. Egli imputava a Bohr e ai “suoi” di non considerare che, quando le variabili coniugate di due particelle ad esempio la quantità di moto e la posizione, si trovano in un certo stato definito (cioè relative ad entrambe le particelle), non sono mai elementi simultanei della realtà oggettiva, anche perché la simultaneità, come vedremo, non esiste. Il riferimento era diretto anche ad una caratteristica esotica dell’interpretazione quantistica di Bohr, cioè la complementarità: il principio secondo cui certe coppie di variabili non possono avere valori definiti nello stesso istante. Come dire, che certe realtà bizzarre della fisica quantistica non possono essere considerate come parte della realtà oggettiva, di qui l’incompletezza di fondo della teoria. Anche in questo caso Einstein con le sue eccezioni, in realtà, continuava a ripetere sommessamente ma con insistenza il suo concetto secondo cui Dio non gioca, anzi, non può assolutamente giocare a dadi con la realtà! Non poteva ancora immaginare, da convinto mistico della natura qual era, che Dio in fisica quantistica non solo gioca a dadi ma, spesso, tenta anche di barare e qualche volta ci riesce persino!

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Capitolo sesto

Nulla è più simultaneo

Quando anche strisciare è una conquista ci accorgiamo di quanto tempo abbiamo sprecato correndo

Ritengo, che la principale ragione che impedì ad Einstein di accettare fino in fondo la meccanica quantistica, fosse legata ad una visione complessiva della realtà scientifica in cui la “sua” relatività generale occupava, a pieno diritto, quasi tutto lo spazio disponibile. Il fatto che relatività e meccanica dei quanti non potessero agevolmente convivere, ingenerava in lui grossi dubbi su quest’ultima, che vedeva come il caso particolare di una più ampia teoria di fondo ancora sconosciuta. Proprio come accadeva con le leggi del moto di Newton, che sono un caso particolare della relatività non considerando, però, le piccolissime masse o velocità prossime a quelle dalla luce. Inoltre, come la termodinamica è rilevabile in parte dalla meccanica statistica così, forse pensava Einstein, le leggi “parziali” della meccanica quantistica avrebbero potuto essere perfezionate in seno ad una teoria unitaria dei campi. Una teoria, cioè, che unifichi la forza elettromagnetica, la forza nucleare forte, quella nucleare debole e la gravità, in una formalizzazione matematica unica e totale. Questo, pensava con ogni probabilità l’anziano premio Nobel ma, forse, aveva dimenticato che il Santo Graal esiste solo nella leggenda ed una teoria unitaria dei campi è, praticamente, l’introvabile Santo Graal della fisica! 64

Il tempo secondo Einstein Prima di chiudere definitivamente il “caso Einstein”, vorrei accennare alla visione che il grande fisico tedesco aveva del concetto di tempo, un aspetto propedeutico fondamentale per capire il contenuto di questo libro. Inoltre, vorrei far riferimento anche ad alcuni suoi errori significativi, così ricchi di interesse da non sembrare quasi realmente degli errori: sicuramente il genio consiste anche in questo. Gli esperimenti mentali erano, come già accennato, il suo metodo di visualizzazione delle ipotesi che intuiva con una lucidità di pensiero straordinariamente evocativa. Ipotizzava, infatti, realtà schematiche ma estremamente razionali cui dava vita mentalmente, come se fossero state perfetti prototipi logici. Questa sua capacità di dare forma visiva alle ipotesi, lo aiutò sicuramente a penetrare, visualizzandole, realtà scientifiche altrimenti inafferrabili e di difficile rappresentazione formale come, ad esempio, quella della gravità che, per lui, era soprattutto la curvatura dello spaziotempo. Nella sua realtà quadridimensionale, lo spaziotempo è praticamente inimmaginabile ma Einstein riuscì “a vederlo”, a percepirlo e perciò a comprenderlo per farne una teoria solo successivamente formalizzata matematicamente e perfezionata. La conclusione a cui giunse fu che, sia lo spazio assoluto che il tempo assoluto e la stessa geometria euclidea, erano solo concetti riduttivi della realtà profonda dell’Universo. Anche la teoria cinetica dei gas, cioè una tipologia della meccanica statistica deputata a quantificare il comportamento di miliardi di particelle di gas in movimento, aveva attratto in maniera entusiastica il giovane Albert. Fu soprattutto il rapporto esistente, la proporzionalità, fra la temperatura e l’energia cinetica media delle molecole del gas, ad incuriosirlo. Non dimentichiamo, inoltre, che a velocità prossime a quelle della luce l’energia cinetica di un corpo in movimento diventa enorme come la sua massa. L’interesse di Einstein nasceva, forse, perché nella teoria cinetica si intravede quella danza fluida, cronologica e universale di particelle e molecole, che è strettamente legata allo scorrere del tempo? Ne sono abbastanza convinto, 65

ma non voglio anticipare qui ciò che svilupperò nei capitoli successivi e che costituisce proprio il fondamento teorico della mia teoria sulla natura quantistica del tempo.

La danza cosmica dello spaziotempo Una corrente di pensiero che contribuì a sviluppare ed evolvere l’idea del tempo che nutriva il giovane Albert, fu quella originata dal filosofo scozzese David Hume (1711-1776) e da Ernst Mach, i quali sul tempo avevano, evidentemente, le idee più chiare di Isaac Newton. Secondo Hume, che era un osservatore scettico ed empirico del mondo, il tempo non poteva essere un concetto assoluto rispetto alla realtà cronologica fatta di eventi, persone e cose. Nel suo “Trattato sulla natura umana”, Hume aveva praticamente anticipato, senza saperlo, alcuni concetti di fondo della teoria della relatività. Come, ad esempio, nel caso della sua visione positivista della realtà, che negava ogni validità oggettiva a quei concetti che erano in relazione con fenomeni estranei all’esperienza diretta. Einstein, faceva risalire la relatività proprio al positivismo e non ignorava neppure l’idea di profondo scetticismo che Hume aveva nei confronti del concetto di tempo unico ed assoluto. Per quanto riguardava, invece, il filosofo e fisico austriaco Mach, anche lui campione di scetticismo, ebbene, considerava addirittura la visione di Newton di uno spazio e di un tempo assoluti, come una “mostruosità concettuale”. Il giovane Albert, ricettivo ed entusiasta com’era, non si fece sfuggire il suggerimento e lo applicò non appena la sua evoluzione relativistica glielo permise. Nel frattempo, in attesa delle magiche intuizioni del 1905, continuò a pensare al tempo come ad una grandezza relativa e alla contemporaneità temporale di due eventi, rispetto a due diversi osservatori, come ad un’assurdità sensoriale. Quando era già famoso, parecchi anni dopo il periodo vissuto a Berna, cercò di spiegare al grande pubblico dei suoi ammiratori questo concetto con un tipico esperimento mentale: quello del 66

treno che corre lungo la banchina di una stazione e due fulmini che si abbattono all’improvviso. Di solito, non mi piace riportare noiosi esempi ma in questo caso ritengo sia opportuno perché rende l’idea del modo di pensare e di fare astrazione con grande naturalezza da parte di Einstein. Dunque, un osservatore è sul treno in movimento, l’altro sulla banchina alla stessa altezza, cadono due fulmini: A prima degli osservatori e B dopo gli osservatori, a distanze uguali. Se il treno fosse fermo, il passeggero vedrebbe il lampo dei fulmini simultaneamente, proprio come l’osservatore sulla banchina. Poiché, però, il treno si muove in velocità, il passeggero sarà in rapido avvicinamento al fulmine B e vedrà, quindi, prima il lampo di B poi il lampo di A, cioè non ci sarà per lui alcuna simultaneità dell’evento. È evidente, che alla simultaneità rispetto alla banchina non corrisponde, quindi, la simultaneità rispetto al treno, poiché in moto relativo l’uno nei confronti dell’altro. Esiste un tempo per ogni osservatore, non un tempo assoluto e neppure una simultaneità assoluta, come affermava invece Newton. In altre parole, sono le caratteristiche del moto, sempre e comunque relativo, a cambiare le carte in tavola di una fisica secondo cui il movimento era invece, prima di Einstein, sempre assoluto. Una logica molto lontana dall’esperienza umana ma, tutto sommato, semplice per chi come il giovane tecnico dell’Ufficio Brevetti, era avvezzo ad andare oltre la rigidità dei calcoli con intuito e spregiudicatezza. Einstein, comunque, non intendeva affermare banalmente, come si potrebbe credere, che tutto è semplicemente relativo, lo spaziotempo per lui, ad esempio, non lo era affatto, anzi, era “invariante” cioè capace di mantenere le sue condizioni circa la misura, nonostante l’effetto di un gruppo di eventuali trasformazioni (teoria dei gruppi di simmetria). Il rapporto fra le misure di spazio e di tempo rimane quindi invariante, indipendentemente dal sistema di riferimento, lo spaziotempo, quindi, è un punto fermo e sicuro proprio come piaceva ad Einstein, altro che materia di relativismo spicciolo! Inoltre, con il titanico apporto della relatività generale, “conquistata” a soli 67

trentasei anni nel 1915, lo spaziotempo non era più solo un contesto vago, un semplice teatro degli eventi, ma diveniva il protagonista assoluto degli eventi stessi. Cioè, era il motore responsabile della danza cosmica provocata dal moto dei corpi celesti e contemporaneamente la sua determinante gravitazionale. Lo spaziotempo era finalmente visto come vera forza dinamica e quindi caratterizzato dalle sue curvature e dai suoi sussulti, pieni di significato per la fisica del Ventesimo secolo ed oltre.

Una “magica” equazione di campo Questi concetti mirabili e la loro interpretazione formale, furono sintetizzati magnificamente da Einstein in una formula lapidaria e matematicamente complessa, cioè l’Equazione di campo sviluppata nel 1915, quasi in contemporanea con l’amico e grande matematico David Hilbert. Nata per descrivere la curvatura dello spaziotempo in funzione, contemporaneamente, delle densità di materia, energia e curvatura. Formula che riporto qui unicamente per la curiosità del lettore più esperto a cui faccio notare, però, che è assente la costante cosmologica relativa a quel famoso modello di Universo statico in cui Einstein incappò per un certo periodo, sbagliando di grosso. Detto per inciso, la costante cosmologica è stata ormai rivalutata in funzione dell’accelerazione progressiva riscontrata nel processo di espansione dell’Universo. Questa è la formula dell’equazione di campo:

In essa compaiono elementi significativi come il tensore e lo scalare di Ricci, il tensore metrico di Riemann ma è soprattutto il secondo membro dell’equazione a descrivere, in linguaggio matematico, il braccio di ferro esistente fra la materia ed il campo 68

gravitazionale che la condiziona profondamente. Nel complesso, ci dà un’idea precisa dell’interazione continua fra la curvatura dello spaziotempo, il moto dei corpi celesti e la gravità ed a questo la formula era destinata. Non andrò oltre per ovvi motivi di complessità penso, comunque, che non ci sia nulla di più unificante di una formalizzazione matematica di equazioni differenziali, dotate di notevole eleganza oltre che di efficacia. Non bisogna dimenticare però che, mentre il matematico puro con il suo formalismo rigido non ha il compito di ipotizzare realtà fisiche con le relative teorie, il fisico invece deve farlo. Cioè deve essere in grado di concepire la logica teorica che si nasconde nelle formule e questo compito, che spesso si rende necessario anche in seconda battuta, non è certo agevole. Il giovane Albert, non solo non era un matematico puro ma non era neppure un matematico eccezionale, all’altezza ad esempio di David Hilbert o di Henri Poincaré. Inoltre, ebbe una folgorazione per il calcolo e l’analisi matematica abbastanza tardiva, eppure, in fisica relativistica andò più lontano degli specialisti, pur avendoli sempre alle calcagna stupiti dalle sue capacità intuitive innate.

La matematica non è un’opinione La visione originaria che il giovane Albert ebbe del tessuto dello spaziotempo fu, non a caso, una visione parziale ed incompleta. Per lui il tempo, a causa della gravità, era curvo mentre lo spazio era “ancora“ piatto e scoprirà che era anch’esso curvo solo nel 1912 e che ciò provocava persino la modifica della deviazione della luce. Poiché come riteneva, sbagliando, negli anni di docenza all’Università tedesca di Praga, il campo gravitazionale doveva essere statico anziché scalare e dinamico (invece è tensoriale!). Tutto ciò perché, a mio avviso, non riusciva agevolmente a venire a capo delle equazioni generali delle trasformazioni dello spaziotempo in senso dinamico. Torniamo qui, alle dolenti note delle tipiche “distrazioni” matematiche giovanili di Einstein prima del 1912. Solo successivamente, 69

il suo fraterno amico e “matematico personale” Marcel Grossmann (1878-1936), gli fece conoscere quel prodigio matematico astratto chiamato “tensore” cioè, in pratica, una generalizzazione del concetto di vettore, che è una quantità capace di esprimere sia una grandezza che una direzione. Un tensore è evidenziato da una serie di coordinate ma se esse vengono mutate, l’equazione tensoriale in questione è valida comunque. Il vantaggio è enorme, perché si possono avere così risultati validi in qualsiasi sistema di coordinate, cioè validi per qualsiasi osservatore indipendentemente dal suo moto. Le equazioni tensoriali sono misuratori del tasso dinamico di variazione dei fenomeni di stato in ogni punto dello spazio, il campo tensoriale rappresenta il risultato dell’andamento complessivo delle misurazioni, riportate su una griglia bidimensionale di numeri. In pratica, ma lo accenno solo perché ci sarà utile più avanti, un tensore è una sorta di generalizzazione di una matrice, cioè una serie numerica circa un andamento dinamico progressivo (vedi la meccanica delle matrici di Heisenberg) valida, però, solo in relazione ad un particolare sistema di coordinate. Stiamo parlando, come appena accennato, del tensore e dello scalare di Ricci Curbastro che, insieme al tensore metrico di Riemann, permisero la nascita dell’equazione di campo circa la relatività generale. Un oggetto matematico dotato della caratteristica della “covarianza generale”, che sancisce l’importante caratteristica della conservazione dell’energia e della quantità di moto. Tutto ciò, portò Einstein a fondere matematicamente la relatività speciale con la gravità e condusse anche alle relative conseguenze circa le deformazioni della luce e dello spaziotempo. Inoltre, portò a stabilire che E = mc2 è valida non solo per la massa inerziale ma anche per quella gravitazionale ed, aggiungerei, che l’energia gravitazionale è uguale a mc2, un risultato impressionante che affascina ancora! Ritengo, che l’apice della sua straordinaria carriera di fisico, Einstein, l’abbia raggiunta nel 1915, contemporaneamente al massimo 70

sviluppo della fisica classica. Non bisogna dimenticare, inoltre, che a più riprese negli anni che andarono dal 1905 al 1927, gettò le basi sia della fisica quantistica che della concezione rivoluzionaria del binomio onda/particella. Accoppiata vincente, che verrà poi definitivamente “istituzionalizzata” nel 1924 dal principe de Broglie, come abbiamo già accennato. Circa il quanto di luce cioè il fotone, che si chiamò così solo nel 1926, Einstein stabilì che questo particolare stato del campo elettromagnetico possedeva un’energia: E = hѵ, dove h è la costante di Planck (la relazione fra la natura corpuscolare e ondulatoria del fotone) e ѵ (la lettera greca ni) la sua frequenza. E non finisce qui, perché il “nostro” stabilì anche la quantità di moto del fotone, inoltre stabilì anche gli stati del fotone: spin 1 e due stati di polarizzazione (è una proprietà di qualsiasi radiazione elettromagnetica). Intuizioni straordinarie a cui nessuno, prima di lui, era stato capace di dare voce e forma per affermare alcune profonde verità di natura, in cui non manca neppure una certa eleganza per metà predittiva e per metà rigorosa. Questo era Albert Einstein, un creativo della fisica che veniva seriamente turbato dall’affermarsi evidente del principio di casualità nell’ambito delle sue ricerche. Quella casualità incontrollabile e capace di disorientare, che sembrava manifestarsi anche in relazione all’emissione e all’assorbimento spontaneo dei fotoni, secondo un meccanismo “quasi” statistico che non lo convinceva affatto. In realtà, temeva l’influsso del caso nella nuova fisica, quel caso che non poteva appartenere, secondo lui, alla logica mirabile ed eterna del “Grande Vecchio”. Dopo il 1924, il declino creativo di Einstein ebbe inizio inarrestabile ma non la sua voglia di lottare e di spingersi oltre, ciò avvenne, forse non a caso, in concomitanza con la nascita ufficiale della meccanica quantistica, una svolta molto stimolante che però continuò ad avversare per tutta la vita. Purtroppo pare che una misteriosa delusione amorosa dal forte coinvolgimento emotivo, di cui non sappiamo molto, non lo aiutò affatto in questo senso togliendogli, anzi, molto dell’entusiasmo che aveva sempre dimostrato nel suo lavoro. 71

Pregiudizi etici Mi sono occupato così diffusamente di Einstein sia come uomo che come scienziato, perché l’argomento di questo libro: la natura del tempo, ha un grosso debito concettuale e scientifico nei confronti di questo gigante del pensiero. Fu proprio lui, infatti, a toglierlo prima di ogni altro fisico teorico, dalla palude deterministica e dalla visione statica in cui “l’Orso di Cambridge”, Newton, lo aveva confinato. Riducendo il tempo ad uno sfondo quasi irrilevante delle sciagure umane e dipingendolo come un assoluto inconsistente ed immobile, a guardia degli eventi che ci coinvolgono nostro malgrado. Einstein, ebbe incontestabilmente il merito di dare vita e dimensione al tempo e di farne, insieme allo spazio, la materia singolare del vuoto cosmico. Quel vuoto fluttuante attraversato da campi e da interazioni fra onde e particelle elementari: il teatro vitale dell’eterna danza quantistica dell’Universo.

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Capitolo settimo

Atomi, particelle e tanta forza

Il futuro parla a pochi il presente tace ed il passato sparla di noi

Il titolo di questo capitolo rivela chiaramente che mi sto avviando a descrivere, ma solo quanto basta, le connotazioni salienti del famoso Modello Standard delle particelle elementari. Cioè l’assetto teorico, ancora incompleto, della fisica contemporanea che necessita di ulteriori, continue implementazioni. Tutto ciò è indispensabile per capire cosa seguirà nei prossimi capitoli e come un iter coerente e razionale, mi abbia portato a formulare la mia teoria di campo sul tempo, a cui ho dedicato questo libro. Iniziamo col dire, che l’idea di un componentismo atomico della materia nacque in epoca remota in India, insieme a quei numeri che solo successivamente sarebbero divenuti erroneamente, per noi europei, numeri “arabi” anziché indiani. Quella degli “atomisti”, però, fu soprattutto una visione filosofica della natura che il mondo greco arricchì di varie sfumature estetiche e metafisiche più che scientifiche, come era logico aspettarsi in una cultura ed in un’epoca di dei ed eroi del mito. Furono Galileo e Cartesio, a rispolverare l’atomismo in una veste empirica alla portata del pensiero scientifico occidentale, finché tecnologia e chimica non sdoganarono definitivamente l’idea dell’atomo come oggettiva e coerente. 73

Per definire un atomo bisogna prima delinearne la struttura interna e le forze che vi si manifestano, conferendogli una sorta di equilibrio elettrico. La prima particella elementare “atomica” scoperta fu, non a caso, l’elettrone da parte del fisico inglese Joseph Thomson (1856-1940), che ne svelò anche la natura particellare ricevendone il Nobel nel 1906. Joseph Thomson padre, era il simpatico prototipo dello scienziato un po’ svampito delle vignette umoristiche, così incredibilmente maldestro in laboratorio da metterne spesso fuori uso le apparecchiature in pochissimo tempo! Come suo figlio George, premio Nobel a sua volta nel 1937, testimoniò più volte con grande affetto e senso dell’umorismo. Thomson padre era troppo distratto per ricordarsi di battezzare la nuova particella scoperta e così lo fece al suo posto Lorenz che la chiamò, appunto, elettrone! L’elettrone è la particella che conferisce il numero atomico nella tavola periodica degli elementi, cioè il numero degli elettroni contenuto in un atomo, stabilizzati con la loro carica elettrica negativa dal gioco elettrostatico delle cariche positive e negative secondo la legge di Coulomb. Il nucleo atomico è circondato da una nube di elettroni di piccolissima massa. Un tempo si parlava di vere e proprie orbite circolari intorno al nucleo ma la fisica quantistica ha complicato questa visione “planetaria”, parlando di orbitali energetici di varia forma. Fra gli elettroni ruotanti ed il nucleo, c’è un enorme vuoto ed è così facile capire perché il nucleo, che contiene il 99% della massa dell’atomo, è 10.000 volte più piccolo dell’atomo stesso. Gli elettroni, inoltre, si dispongono con un andamento a strati in armonia con il Principio di esclusione di Pauli, secondo cui, due elettroni possono occupare lo stesso stato quantico, o orbitale energetico, solo se hanno spin invertiti. Lo spin, come già accennato, è una tipica caratteristica quantistica, una sorta di rotazione impropria della particella sul suo asse, un movimento rotatorio quantizzato equivalente ad un’unità che è la metà della costante di Planck: ½ ħ. Quanto sia importante lo spin, lo chiarisce il fatto che le particelle con spin semintero (½) 74

sono fermioni cioè, ad esempio, gli elettroni, i protoni, i quark, che formano la materia vera e propria. Mentre le particelle con spin intero (1) sono bosoni, come i fotoni o il bosone di Higgs, cioè dei mediatori di forza, come abbiamo visto e vedremo ancora più avanti. Tornando agli elettroni, non bisogna dimenticare che la loro energia, essendo quantizzata, ha solo certi valori discreti e, quindi, solo certe orbite sono permesse e corrispondono al valore dell’energia dell’elettrone stesso, secondo la formula E = hѵ, dove h è la solita costante di Planck e ѵ la frequenza della radiazione. È questo valore dell’energia che evita la caduta dell’elettrone sul nucleo dell’atomo, inoltre, la sua permanenza su orbite fisse conserva la sua quantità di energia e rende stabile l’atomo stesso. L’elettrone, però, non sta fermo ma passa da un’orbita all’altra, del tipo consentito, quando un fotone gli cede energia nella sua orbita costringendolo a passare in un’orbita di più alta energia. Quando non c’è questo apporto energetico, l’elettrone con carica negativa, viene attratto dalla carica positiva del nucleo e tende, quindi, a scendere in un’orbita a minore energia, emettendo il fotone assorbito. Maggiore è la frequenza del fotone (è legata alla sua energia), maggiore sarà il cosiddetto “salto quantico” dell’elettrone fra i suoi orbitali, dopo un tempo infinitesimale, però, l’elettrone tornerà dov’era cioè nel suo “stato fondamentale”, riemettendo il fotone che lo aveva fatto saltare più in lato. Se, invece, l’energia acquisita dal fotone in arrivo è maggiore di quella che imprigiona l’elettrone al suo atomo, allora, l’elettrone fuggirà via determinando così un atomo ionizzato, cioè un atomo che ha perso elettroni. Nel caso di altissime temperature, come nel centro delle stelle, l’atomo può perdere tutti i suoi elettroni e ridursi ad un insieme di nuclei ed elettroni liberi, questo, è il cosiddetto “plasma” cioè il quarto stato possibile della materia, dopo quello solido, liquido e gassoso: il più diffuso nell’Universo. Gli elettroni, come già accennato, sono anche gli artefici dei meccanismi del legame chimico, cioè la facoltà degli atomi di unirsi per formare le molecole e, quindi, la materia. Sono, infatti, gli 75

elettroni posti negli orbitali più esterni rispetto al nucleo, a creare quel legame che li sposta presso gli atomi più vicini o che li rende condivisibili con essi. Le molecole risultanti, possono essere composte da atomi di elementi chimici singoli oppure da atomi multipli. Tale meccanismo chimico, dipende esclusivamente dalle interazioni fra elettroni e soprattutto, come ho già detto, tra quelli più esterni ad energia più elevata, cioè i cosiddetti “elettroni di valenza”. Più l’orbitale di questi elettroni è pieno, più l’atomo è dotato di stabilità rispetto allo scambio di elettroni con altri atomi, infatti, è proprio la tendenza a riempire gli orbitali esterni non ancora saturi di elettroni, a rendere gli atomi più reattivi, cioè pronti a dare luogo a reazioni chimiche con altri atomi. Il legame può essere “covalente”, cioè un legame di condivisione degli elettroni oppure “ionico”, donando o togliendo elettroni ad altri atomi. Si tratta, quasi, della parodia di un meccanismo riproduttivo fra elementi chimici e ciò lo rende sicuramente un po’ meno distante dalla nostra mentalità di umani. Non dobbiamo però illuderci troppo, perché una caratteristica saliente dell’elettrone, ma anche di tutte le altre particelle elementari, è quella di comportarsi sia come corpuscoli che come onde, in maniera del tutto incomprensibile e così la distanza logica, che divide il fenomeno dalla nostra esperienza, torna ad aumentare!

Dall’elettrone al mite protone La seconda particella elementare atomica identificata fu il protone. Ciò avvenne ad opera di Ernest Rutherford (1871-1937), premio Nobel per la chimica nel 1908 e “barone Rutherford di Nelson” nel 1931, sepolto con tutti gli onori a Westminster. Fu il primo a chiamare “nucleo” la parte centrale dell’atomo e ad approfondire il fenomeno della radioattività in tutte le sue caratteristiche salienti. Il protone è un “nucleone”, cioè risiede nel nucleo ed ha carica positiva, il suo “gemello” monozigote, situato anch’esso nel nucleo ma con carica elettrica neutra, è il neutrone scoperto 76

nel 1932 dal fisico inglese James Chadwick (1891-1974), premio Nobel nel 1935. La massa del neutrone è leggermente superiore a quella del protone, insieme formano la parte centrale dell’atomo e la maggior parte della sua massa con carica elettrica positiva. Solitamente, nei nuclei il numero dei protoni è uguale a quello dei neutroni che, insieme, determinano la “massa atomica” dell’atomo negli elementi chimici. Bisogna rammentare, che numero atomico e massa atomica sono fondamentali nella disposizione degli elementi nella tavola periodica. È evidente, che ci troviamo qui in piena “area” chimica poiché la fisica quantistica appartiene in buona parte a questa grande famiglia e ne svela molte caratteristiche fondamentali come i meccanismi chimici, che sono essenzialmente quantistici. Ritengo, che non sia possibile capire la fisica quantistica senza tener conto di certe proprietà chimiche che è necessario, perciò, rispolverare dalle “nebbie” scolastiche come ho appena dovuto fare.

Ancora bosoni e fermioni Abbiamo già accennato alla distinzione fondamentale fra bosoni e fermioni: i primi mediatori di forza, i secondi costituenti essenziali della materia. Mi sembra però necessario approfondire ancora questi aspetti da cui prende forma anche il già menzionato Modello Standard, cioè l’assetto complessivo della fisica delle particelle contemporanea. I bosoni, alla cui famiglia appartiene anche il famoso bosone di Higgs, quindi, sono i mediatori di quella forza che, come vedremo più avanti, consente l’interazione delle particelle che formano la materia. Il loro legame con i fermioni, infatti, è molto stretto perché vengono scambiati fra loro durante le interazioni. Esistono, o meglio esisterebbero a mio avviso, ben sei tipi di bosoni e non solo cinque, come attualmente è lecito affermare in attesa di nuove scoperte. Elenchiamoli brevemente per conoscerli meglio: l’ormai noto 77

fotone, mediatore della forza elettromagnetica, privo di massa e di carica elettrica. Il gluone, mediatore della forza nucleare forte che permette l’interazione fra quark e antiquark e mantiene uniti i nucleoni nel nucleo atomico, come già sappiamo. I bosoni vettoriali intermedi W, positivo e negativo, e Z, responsabili della forza nucleare debole, una forza capace di provocare il decadimento radioattivo “beta” (un neutrone emette un elettrone ed un antineutrino e si trasforma in un protone), una sorta di trasmutazione alchemica vera e propria! Veniamo adesso agli ultimi due tipi di bosoni, sicuramente i più controversi: il gravitone, “forse” contenuto nelle onde gravitazionali e mediatore della gravità stessa e, dulcis in fundo, ma qui è solo un’anticipazione brevissima della mia teoria di campo sul tempo che svilupperò nei prossimi capitoli: il “cronone”. Cioè la particella mediatrice della forza cronodinamica (o cronocinetica), che permette al tempo di esistere e di scorrere con il susseguirsi dei fenomeni di interazione quantistica, come spiegherò più avanti. Di tutti i bosoni, gli unici ad avere una massa sono quelli vettoriali (W+, W-, Z°), i primi due dotati anche di carica elettrica, il terzo neutro ed infine il bosone di Higgs. Circa quest’ultimo, recente nato della famiglia dei bosoni ed ipotizzato già nel 1964 dal fisico scozzese Peter Higgs, vorrei impiegare un piccolo spazio per le sue caratteristiche singolari e la sua funzione fondamentale nell’Universo. La particella di Higgs, quantizzata, priva di carica elettrica ma dotata di una massa pari a circa 125 GeV (gigaelettronvolt), è un bosone atipico che si manifesta all’interno del “campo di Higgs”, esteso in tutta la vastità dell’Universo e fluttuante come una sorta di schiuma quantistica. Questo strano bosone, abbastanza instabile da decadere in vari modi, conferisce con la sua azione all’interno del “suo” campo la massa alle particelle elementari che interagiscono con il campo stesso. È quasi come una funzione vivificatrice, quella che il campo di Higgs opera sulle particelle che avvolge nell’immensità del cosmo. A favorirlo nella sua azione è l’attuale bassa temperatura, 78

non più altissima come ai primordi dell’Universo, con la conseguenza di conferire un valore diverso da zero al campo di Higgs e quindi, di conseguenza, la massa a tutte le particelle elementari che, ai primordi, ne erano invece prive. Circa la scoperta del bosone di Higgs, la cui rilevazione del 4 luglio 2012 al CERN di Ginevra ha tanto affascinato anche l’opinione pubblica, eccitando una fantasia collettiva sempre in attesa di stimoli, vorrei sottolineare che si tratta solo di un inizio molto promettente in relazione all’utilizzo del Large Hadron Collider (LHC), l’acceleratore di particelle che ci porterà a svelare molti dei misteri dell’Universo. Risulta evidente, mi pare, che la funzione dei bosoni è veramente quella di regalarci le varie rappresentazioni della realtà che ci circonda, quelle percepite e quelle non percepibili del mondo infinitesimale. La realtà della materia esiste solo perché esiste l’energia di interazione, trasportata dai bosoni ed utilizzata generosamente dai fermioni.

La realtà è fatta di materia Parliamo adesso proprio di lei, della materia, della trama della vita e della componente di tutto ciò che è solido e che si trova in cielo ed in terra, quella materia anche organica che ci restituisce la concretezza fisica di una realtà stabile e ci permette di esistere e di pensare. I fermioni, così battezzati in onore del grande Enrico Fermi (1901-1954), si dividono in due tipologie: i leptoni (dal greco leptos, “leggero”) ed i quark. Tutti i fermioni, indistintamente, obbediscono alla statistica di Fermi-Dirac cioè, come ricorderete, ad una regola statistica che si applica a particelle con spin semintero (½). Mentre i bosoni naturalmente continuano ad obbedire alla statistica di Bose-Einstein, riferita a particelle con spin intero (1). I leptoni sono sei più le relative antiparticelle, cioè l’elettrone (e), su cui ci siamo già soffermati, il 79

muone (µ) che è una sorta di elettrone massivo detto anche elettrone “pesante”, instabile e con una vita media infinitesimale. Vengono, poi, i tre tipi di neutrino (ѵ): elettronico, muonico e tauonico, tutti connessi alle rispettive particelle corrispondenti e con piccolissima massa. Infine, la particella tau (τ), che è anch’essa una forma di elettrone pesante ed è, anzi, il leptone più massivo, instabile e con vita media brevissima. Le antiparticelle dei leptoni non sono altro che il loro rovescio della medaglia, ad esempio in relazione alla carica elettrica: il positrone, con carica positiva, è l’antiparticella dell’elettrone con carica negativa ma hanno identica massa. L’antimateria è costituita da antiparticelle che quando vengono a contatto con le particelle della materia si annichilano entrambe, tramutando la loro massa in energia. In realtà, esistono antiparticelle per ogni tipo di particella nota e l’acceleratore del CERN di Ginevra ne può produrre nei suoi esperimenti di ogni sorta. Attualmente l’antimateria dell’Universo (positroni, antiprotoni, antineutroni, antineutrini ecc.) è scarsissima e sempre in procinto di annichilarsi, a partire dai tempi dal remoto Big Bang in poi. Passiamo adesso all’altra faccia della materia, in una forma di assoluto componentismo minimale: i quark. Formano i nucleoni cioè i protoni ed i neutroni, padroni indiscussi del nucleo atomico ma formano anche i mesoni (un quark ed un antiquark), particelle che hanno però spin intero e sono quindi bosoni, cioè portatori di quella forza nucleare forte che tiene uniti proprio i nucleoni. I quark, veri mattoncini Lego della materia, obbediscono ad una discriminante cui sono sottoposti tutti e dodici i fermioni: le loro tre generazioni. Si tratta di una distinzione tipologica necessaria anche se a noi interessa soprattutto la prima generazione, quella più legata alla realtà della materia così come la conosciamo. In questa prima fase troviamo l’elettrone, il suo neutrino elettronico e, finalmente, i quark up e down, nelle altre due generazioni successive troviamo, invece, particelle più pesanti ed i quark 80

charm, strange, top e bottom, in totale i quark, quindi, appartengono a sei tipologie diverse. Le ultime quattro, però, sono decisamente esotiche come i fermioni generati nella seconda e terza generazione, inoltre, sono il prodotto delle alte energie sviluppate negli acceleratori di particelle ed in natura nel contesto della radiazione cosmica. Insomma, direi usando un eufemismo, che non sono esattamente di questo mondo. In riferimento ai quark appena citati, fu il Nobel per la fisica del 1969 Murray Gell-Mann a battezzare i quark, riferendosi al richiamo di un gabbiano incontrato nel problematico capolavoro “Finnegans wake” di James Joyce. Da notare, che le triplette di quark up e down sono le più comuni e prendono questo nome dalla direzione del loro “isospin” (o spin isotopico di colore: un modo per distinguere i quark in stati quantistici diversi). I quark strange prendono questo strano nome, perché inizialmente associati a particelle sconosciute scoperte nei raggi cosmici. I quark charm, bottom e top, si chiamano così per analoghe ragioni legate alla fantasia dei fisici che li hanno studiati e con la denominazione di “sapori”, ne differenziano le caratteristiche. Tutti i quark possiedono carica elettrica, massa, spin e la cosiddetta “carica di colore” che, nell’ambito della forza nucleare forte, equivale alla carica elettrica. Non si trovano mai quark isolati e la loro capacità di essere i componenti infinitesimali degli adroni, a mio avviso, non li rende affatto gli anelli più piccoli della catena che compone la materia: c’è sicuramente qualcosa di ancora più infinitesimale da scoprire… Parlando di fermioni e quindi di materia barionica, cioè la materia comune che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, non possiamo esimerci dall’osservare che esistono nel cosmo altri tipi di materia. Per esempio, lo ricorderete, quella “oscura” non barionica che costituisce, anzi, la maggior parte di quanto esiste nello spazio e si cela all’interno delle galassie, è oscura perché non emette luce, interagisce pochissimo con la materia comune ma provoca effetti gravitazionali sensibili. Ad essa è associata l’energia oscura, misteriosa ma determinante, tanto da provocare l’espansione accelerata dell’Universo. 81

Esiste poi la cosiddetta materia “strana”, fatta di una miscela di quark up, down e strange mentre, invece, nella materia comune il protone è formato esclusivamente da due quark up ed uno down ed il neutrone da un quark up e due down. La materia strana, che è realmente un enigma, deve essersi formata nel grande miscuglio esplosivo del Big Bang e, forse, esiste tuttora nei raggi cosmici e nelle stelle di neutroni. Penso, che a questo punto sia veramente il caso di tirare un po’ il fiato. Abbiamo percorso parecchia strada nel piccolo, grande universo delle particelle elementari, allo scopo di avere qualche elemento conoscitivo in più, necessario per passare alla fase successiva di questo viaggio. Questa fase si inserisce nella dimensione di una realtà “vera” non ancora completamente nota. Il suo ambito fondamentale, cioè il Modello Standard della fisica delle particelle, riguarda anche le forze della natura ed il loro impatto, in termini di interazioni fondamentali, sulle particelle coinvolte. L’Universo riesce a conservare la sua struttura funzionale complessa, grazie a queste quattro forze a cui, come vedremo, secondo la mia teoria di campo ne va aggiunta una quinta: la forza cronodinamica.

Ciò che più conta è la forza Abbiamo delineato sin qui, solo in parte, il Modello Standard della fisica, esaminando le sue dodici particelle fermioniche, cioè sei leptoni e sei quark, suddivisi in tre generazioni e ben tredici bosoni mediatori di forza. Mancano le quattro forze della natura per completare il quadro rassicurante ma non definitivo della fisica teorica contemporanea. Esistono, dunque, quattro forze fondamentali che, con un raggio di azione diverso, operano grazie a varie particelle ma esclusivamente bosoni cioè i noti mediatori di forza. Iniziamo con l’interazione elettromagnetica, una delle prime ad essere conosciuta alla 82

fine dell’Ottocento, grazie ad essa che vede unificati l’elettricità ed il magnetismo, gli elettroni ed i nuclei restano uniti negli atomi, che unendosi a loro volta ad altri atomi danno origine alle molecole. L’efficacia dell’elettromagnetismo si manifesta su piccola scala ma è di notevole portata energetica, il suo mediatore d’elezione, come già detto più volte, è il fotone, la particella quantistica di pura energia. I fotoni “mediano” continuamente con gli elettroni, passando da uno all’altro, “eccitandoli” e spingendoli così a saltare su un orbitale a più alta energia intorno al nucleo. Successivamente, il fotone verrà riemesso dall’elettrone, con la conseguente ridiscesa ad un orbitale inferiore, i fotoni non dimentichiamolo, agiscono su tutte le particelle dotate di carica elettrica con un raggio d’azione infinito. Qui i concetti di materia ed energia sono assolutamente quantistici e fanno riferimento a grandezze quantizzate, concetti della fisica classica come onde o campi non c’entrano più, lo stesso legame chimico è in realtà un meccanismo quantistico, è il prodotto dello scambio di elettroni degli orbitali più esterni, fra gli atomi delle varie molecole. Andiamo adesso ad esaminare le cosiddette forze nucleari cioè, come ho già anticipato, quelle forze che agiscono direttamente all’interno del nucleo dell’atomo con funzioni essenziali. Iniziamo con la forza nucleare debole che è realmente molto debole rispetto alle altre forze, il suo campo, infatti, è addirittura milioni di volte più esiguo rispetto a quello dell’interazione nucleare forte e migliaia di volte inferiore rispetto a quello della forza elettromagnetica. È la forza responsabile del decadimento radioattivo cioè, in pratica, della “decomposizione” delle particelle elementari nei loro costituenti fondamentali. Ciò avviene, ad esempio, nel cosiddetto “decadimento beta” (è la vecchia denominazione dell’elettrone), in cui un neutrone si trasforma in un protone, in un elettrone ed in un antineutrino, qualcosa di simile avviene anche nel “decadimento alfa”, in cui il nucleo di un atomo produce una particella alfa (è il nucleo di un atomo di elio 4). In generale, comunque, il fenomeno del decadimento radioattivo consiste nella trasformazione 83

di una particella o di un nucleo instabile in qualcosa di diverso, con emissione di energia. Si tratta, in pratica, del sogno perduto di ogni alchimista medievale cioè la “trasmutazione” della materia e infatti, come ho già accennato, la fisica quantistica è anche un po’ chimica e un po’ alchimia. Fu Enrico Fermi a studiare negli anni Trenta il “decadimento beta”, accorgendosi della grande affinità, anche matematica, fra l’interazione elettromagnetica e quella debole, tanto che negli anni Settanta, le due forze furono unificate in una descrizione matematica unica, dando origine all’interazione elettrodebole. Furono i fisici Glashow, Salam e Weinberg a guadagnarsi il Nobel unificando le due forze e facendo strage dei numerosi “infiniti” che affliggevano le formule della teoria, rendendola poco coerente sotto il profilo matematico. L’idea dell’unificazione nacque poiché, mentre alle basse energie le due interazioni restano ben distinte, con i fotoni privi di massa da una parte e i bosoni W e Z massivi dall’altra, alle elevatissime energie accade, invece, che i fotoni diventano molto simili alle particelle W e Z, le quali, infatti, vengono addirittura denominate spesso come “luce pesante”. I bosoni mediatori della forza nucleare debole, quindi, sono le particelle W+ e W- e la neutra Z°, tutte e tre dotate di notevole massa e tutte e tre con una vita brevissima, molto ma molto più breve del proverbiale, poetico spazio di un mattino. La loro massa è dovuta al bosone di Higgs o meglio al suo campo, che appesantisce le particelle che lo attraversano rendendole massive. Circa l’intensità dell’interazione debole, posta in rapporto all’intensità dell’interazione forte uguale a 1, essa è addirittura pari a 10-13, ciò rende l’idea della sua debolezza intrinseca all’interno del nucleo atomico.

Una forza forte Veniamo adesso all’altra forza che opera all’interno del nucleo dell’atomo: l’interazione forte. Essa lo è di nome e di fatto, 84

rappresentando in questo un record naturale rispetto alle altre interazioni. È capace, inoltre, di scatenare disastri storici che purtroppo conosciamo bene come la fissione e la fusione nucleare a scopi bellici ma, contemporaneamente, ha la funzione primaria di dare grande stabilità al nucleo agendo sui nucleoni. Il suo compito principale è quello di agire all’interno della materia mantenendola coesa e facendo prevalere la coesione anche fra particelle, come i protoni con carica elettrica uguale, a distanze piccolissime. Ma non finisce qui, perché l’interazione forte grazie a quella tipologia di bosoni chiamati gluoni (glue: colla), riesce a tenere uniti anche i quark che, a seguito dello scambio di gluoni, mutano la loro caratteristica di colore, una differenziazione quantistica senza precedenti. Vorrei chiarire subito che tale aspetto, gestito dai gluoni quali mediatori della “forza colore”, è solo una forma di energia in un campo gluonico, distinta con le denominazioni cromatiche puramente indicative di rosso, verde e blu. Una pura convenzione, allo scopo di effettuare i calcoli e distinguere i quark con una facile visualizzazione cromatica, il colore vero e proprio non c’entra affatto. Un protone, in pratica, può essere formato da un quark up rosso, uno up blu ed uno down verde. Cioè da “sapori” e “colori” diversi, che li distinguono in senso quantistico e spiegano una serie di meccanismi complessi, che vedono i quark come originali protagonisti. Per non farsi mancare nulla sotto il profilo delle stranezze controintuitive, le leggi della fisica quantistica hanno deciso, infatti, di ribaltare le logiche sia dell’interazione elettromagnetica che di quella gravitazionale. Perciò, mentre la loro intensità è inversamente proporzionale alla distanza, l’intensità della cosiddetta “forza colore” è direttamente proporzionale e, quindi, è tanto più intensa quanto più i quark si allontanano fra loro. È la spiegazione del perché non esistono quark ribelli isolati, che vagano per “ammutinamento”! A suo tempo, quando parleremo della “cromodinamica quantistica” il concetto sarà più chiaro. 85

A questo punto, invece, mi sembra opportuno ribadire che i quark sono realmente “clienti” un po’ scomodi per i fisici delle particelle, perché sempre in procinto di sfuggire dai nucleoni ma puntualmente respinti e relegati dalla “colla” dei gluoni. È come se la materia non si rassegnasse al suo ruolo solido e statico e cercasse una libertà che ci metterebbe inesorabilmente in guai molto seri. A questa libertà anarcoide, però, si oppone con successo la libertà appena enunciata della proporzionalità diretta rispetto alla distanza, cioè, quella che viene definita come “libertà asintotica” dei quark. Rimanendo sempre nel contesto della forza nucleare forte, vorrei a questo punto tornare ad avventurarmi in una breve divagazione, circa il fenomeno della simmetria e quello inverso della sua rottura. Un argomento fondamentale, per capire la dinamica complessa che governa una logica che, in fondo, non è molto diversa e soprattutto è intuibile anche nella nostra dimensione macroscopica, rispetto a quella minimale delle particelle elementari. Inoltre, si tratta quasi di una logica universale che ha un preciso punto di contatto con una sorta di valore estetico percepito, il termine simmetria, infatti, evoca un’immagine di ordine, di precisione armonica, quasi un concetto estetico. Cosa c’è, infatti, di più piacevole di un volto dai tratti simmetrici ma esiste anche una matematica della simmetria altrettanto armoniosa. La simmetria, comunque, è una importante caratteristica delle teorie fisiche, quasi uno schema regolare dei numeri quantici delle particelle, essa facilita situazioni di calcolo in cui c’è, ad esempio, una simmetria fra due campi, per cui le loro caratteristiche possono essere invertite a piacimento. Tipica in questo senso è la “simmetria di gauge” (gauge sta per “misura”), che descrive campi che possono essere rimisurati in funzione di riferimenti diversi, senza mutare le loro proprietà specifiche con grande vantaggio per i calcoli. La forza di gravità, ad esempio, è una “teoria di gauge” poiché le differenze della sua energia gravitazionale misurate in punti diversi, sono collegate da una 86

sorta di regolarità schematica ricorrente che può essere, al solito, molto utile nei calcoli. Detto questo, passiamo al fenomeno inverso altrettanto importante della rottura spontanea della simmetria, che può essere intesa come la complicazione di una situazione standard univoca. Un esempio chiaro, è quello dello stato delle quattro forze della natura subito dopo il mitico, ancestrale Big Bang, erano tutte unite in un’unica interazione fondamentale e la loro simmetria era perfetta. Con l’abbassarsi della temperatura infernale dei primi istanti di vita dell’Universo, iniziarono le transizioni di fase, cioè le trasformazioni progressive del sistema. I quark, da liberi e indipendenti furono inglobati negli adroni e l’unica grande forza esistente si scisse nelle quattro che conosciamo. Il fenomeno avvenne anche a causa del decrescere dell’intensissima energia del sistema globale e così la simmetria primordiale si ruppe spontaneamente. È, in pratica, quello che accade ad una barra di ferro incandescente, che si raffredda fino a circa 700° C: i suoi atomi subiscono una transizione di fase violenta e si allineano in un’unica direzione, è così che la barra acquisterà i suoi poli magnetici ma la simmetria del sistema sarà rotta. Nel progressivo raffreddamento dell’Universo neonato, le transizioni di fase si susseguirono incessantemente e così le varie rotture spontanee di simmetria. La prima forza a separarsi, a 10-43 secondi dal Big Bang, è stata la gravità poi l’ha seguita a 10-36 secondi la forza nucleare forte, mentre la debole e l’elettromagnetica lo hanno fatto a 10-11 secondi. Nell’arco di cronologie infinitesimali come queste, il piccolissimo Universo delle origini perse la sua commistione energetica, per avviarsi verso quella differenziazione che lo avrebbe portato sempre più vicino al suo stato attuale. Detto questo, vorrei a questo punto chiudere qui la mia breve ma necessaria divagazione sulla simmetria e concludere l’argomento della forza nucleare forte. Credo, però, che non si possa chiudere questo esame senza sottolineare per un attimo, ancora 87

una volta, la funzione essenziale svolta dai mesoni cioè quegli speciali bosoni mediatori, composti da un quark e da un antiquark, i quali sostengono l’interazione forte fornendo stabilità al nucleo. Senza il loro apporto stabilizzante, infatti, la realtà che crediamo di conoscere non esisterebbe affatto, così come la nostra esperienza esistenziale e l’intero Universo.

Una forza speciale Chiuso il discorso (si fa per dire) circa l’interazione forte, eccoci giunti a quella gravitazionale. La forza di gravità è misteriosa ed inafferrabile, la definirei come forte con i forti e debole con i deboli, cioè, forte nella dimensione macroscopica ed in quella cosmica e debole, anche se con un raggio d’azione infinito, nella dimensione microscopica delle particelle elementari. La sua energia attrattiva è data dalla massa dell’insieme degli atomi che compongono i corpi e anche semplicemente accelerando una massa, può aversi dell’energia sotto forma di onde gravitazionali ma il fenomeno è minimale a livello atomico. L’azione gravitazionale di un elettrone e di un protone, ammonta solo a 1/1039 della loro attrazione elettromagnetica, per questa ragione rilevare la presenza di un gravitone è quasi impossibile anche se l’interazione gravitazionale è a lungo raggio di azione, proprio come quella elettromagnetica (e quella cronodinamica). La sua intensità, infatti, decresce solo con il quadrato della distanza e viaggia, quindi, in profondità nello spazio, i suoi effetti, però, sono sorprendenti soprattutto in relazione allo spaziotempo di cui provoca l’incurvamento, una deformazione che si riflette nella variazione degli stessi ritmi temporali. Infatti, e non è una trovata ad effetto, il tempo in cima ad un grattacielo scorre più in fretta, anche se in maniera infinitesimale, rispetto a quello misurato al livello del suolo, proprio perché la forza di gravità espressa dal centro della Terra, laggiù, è più intensa che in alto. 88

Il bosone mediatore dell’interazione, contenuto nelle cosiddette onde gravitazionali emesse soprattutto dalle stelle di neutroni e dai buchi neri, è il gravitone. Una particella mai vista ma molto immaginata, che deve pur esistere da qualche parte altrimenti la Luna non ruoterebbe intorno alla Terra e così tutto il resto. Un importante aspetto da considerare circa la gravità, strettamente collegata da Einstein alla relatività generale, è la sua inevitabile dimensione quantistica ciò rientra, in realtà, in una visione ambiziosa e più ampia che rivela il tentativo di fondere la meccanica quantistica e la relatività generale. Un’opera veramente ardua poiché le due teorie fondamentali sono molto distanti fra loro e apparentemente inconciliabili, come dire, che una delle due è sbagliata proprio perché cozza con l’altra. Per ora, in attesa di meglio, ci si accontenterebbe di una solida teoria della gravità quantistica che, infatti, è in corso d’opera dagli anni Cinquanta con notevoli difficoltà. Le alternative per venire a capo dell’enigma potrebbero essere due: inserire la gravità nelle teorie quantistiche di campo, oppure “smontare” matematicamente la relatività generale per rielaborarla con gli oggetti matematici tipici della meccanica quantistica (funzioni di Lagrange, formalismo dell’integrale sui cammini, equazioni differenziali hamiltoniane ecc.). Oppure, ma il senso è quello di una provocazione rivolta agli addetti ai lavori, si potrebbe considerare una terza ipotesi: quella di una sorta di “fusione”, usando una formalizzazione matematica compatibile fra la gravità quantistica e la cronodinamica quantistica cioè la nuova teoria di campo che affronterò nei prossimi capitoli. L’idea nasce, lo ribadisco, come una provocazione ma le “affinità elettive” in termini energetici, dinamici e funzionali fra la gravità e la forza cronodinamica, sembrano così significative, come vedremo, da formulare questa ipotesi. Di questo parleremo però ancora a tempo debito. Si tratterà veramente di cercare l’ennesimo ago in un pagliaio, ma bisogna considerare che in questi ultimi anni i fisici ed i cosmologi di aghi ne hanno trovati parecchi, alcuni addirittura nell’immensità dell’Universo! 89

Tornando proprio ai fantomatici gravitoni o quanti del campo gravitazionale, si tratta di semplici bosoni vettoriali intermedi e nel contesto della gravità quantistica si comportano come i fotoni scambiati nell’interazione elettromagnetica. Il gravitone non ha massa come il fotone e spin intero pari a 2 unità, inoltre, può interagire con altri suoi simili proprio come le particelle dotate di massa. Il fatto è, però, che nella gravità quantistica succede una cosa molto strana, infatti, quando una piccola massa è nel campo di una massa più grande, la forza gravitazionale e le accelerazioni subite dipendono dalla massa più piccola! In campo elettrico, ad esempio, avviene il contrario, è la particella con carica maggiore a subire l’accelerazione più forte. Questa stranezza si ricollega, probabilmente, all’inspiegabile equivalenza che esiste fra massa inerziale (massa di un corpo determinata dalla sua resistenza all’accelerazione) e massa gravitazionale (massa di un corpo determinata dalla sua forza gravitazionale), un’equivalenza che è nella prassi operativa naturale dell’Universo ma che non trova ancora piena comprensione. Un’altra interessante e significativa caratteristica della gravità, è quella che le attribuì Einstein per primo nella “sua” relatività generale, cioè la possibilità di essere descritta come curvatura dello spaziotempo. Questa conclusione è stata molto positiva sia per lo spaziotempo stesso, che acquistò così un ruolo dinamico lontano dalla funzione di sfondo inanimato del passato, sia per la gravità, che in questo nuovo spaziotempo ha assolto finalmente ad un ruolo essenziale anche nei confronti del tempo. Un tempo inteso finalmente come funzione cronologica, uno “strano luogo” misterioso dove cercare i gravitoni e la radiazione cosmica di fondo a microonde, cioè, il famoso rumore di fondo che ha accompagnato la nascita dell’Universo ed il suo vagito primordiale. Potremmo definire questa radiazione come il respiro del Big Bang a onde corte. Fu intercettata nel 1965 da Penzias e Wilson, che notarono come questa emanazione di energia elettromagnetica 90

fosse diffusa uniformemente nel cosmo e come i suoi deboli fotoni replicassero, quasi come in una parodia, il lampo accecante provocato dall’esplosione primigenia. Attualmente la temperatura di questa radiazione, a causa dell’espansione dell’Universo, è di appena 3° sopra lo zero assoluto ed è inspiegabilmente uniforme anche se presenta zone che si differenziano. Ebbene, è proprio in queste aree che può essere cercata la radiazione gravitazionale, anche se molto debole da rilevare (è solo 10-40 volte quella elettromagnetica). Personalmente, sono dell’avviso che le onde gravitazionali, rilevate solo nel 2015 ed oggi all’attenzione di tutti i cosmologi dopo i nuovi rilevamenti degli interferometri Ligo e Virgo, sono esclusivamente il risultato di fenomeni astrofisici ad alta energia e sono state originate, come la radiazione cosmica di fondo, ai primordi dell’Universo. Entrambe queste radiazioni permeano uniformemente lo spaziotempo con la differenza, però, che le onde gravitazionali furono originate dopo il processo di inflazione, cioè l’espansione rapidissima dell’Universo, mentre la radiazione cosmica di fondo si diffuse circa quattrocentomila anni dopo il Big Bang ed è, quindi, meno remota. Sarà probabilmente di nuovo Virgo, il grande interferometro nei pressi di Pisa, a dirci di più nel prossimo futuro anche se il modo migliore per catturare gli sfuggenti gravitoni è sicuramente quello di aspettare, ogni trent’anni circa, la nascita di una Supernova e registrarne l’enorme radiazione prodotta che va ad increspare la superficie dello spaziotempo. Restando sempre nel contesto della gravità quantistica, tuttora insoluta e caratterizzata da quanti e stranezze, vorrei attrarre brevemente l’attenzione del lettore su uno strumento matematico importante. Una formalizzazione matematica che mi permetterà, probabilmente, di trovare i presupposti di calcolo circa la mia teoria sulla variabile tempo: l’equazione di Wheeler-DeWitt o meglio la cosiddetta “funzione d’onda dell’Universo”.

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Un’equazione che parla di Universo Prima di andare avanti, cerchiamo però di ricordare cos’è una funzione d’onda. Lo abbiamo in parte già detto in un precedente capitolo: non è nient’altro che l’identikit matematico della propagazione e della stessa natura d’onda di un oggetto quantistico come, ad esempio, un elettrone. Negli anni Venti, fu il fisico austriaco Erwin Schrödinger (1887-1961) a sviluppare la “meccanica ondulatoria”, basata sulla “sua” equazione d’onda e articolata sulla funzione hamiltoniana H. Un oggetto matematico potente di cui il fisico austriaco, ottimo matematico, conosceva bene l’efficacia e l’affidabilità. L’impareggiabile Erwin, oltre che abile con i numeri era un tipo veramente anticonvenzionale. Donnaiolo, dall’aria dinoccolata del perpetuo escursionista “fai da te” con tanto di zainetto in spalla, era adorato dagli studenti e, contemporaneamente, da sua moglie e dalla sua amante che portava sempre con se in un perfetto triangolo da fare invidia ad un mormone! Nota di colore a parte, trovo la sua concezione ondulatoria come assolutamente geniale e superiore per la facilità di utilizzo e l’agilità nei calcoli, alla cosiddetta “meccanica delle matrici” dell’altrettanto grande Werner Heisenberg. Quella delle matrici era, infatti, una teoria parallela ma sviluppata diversamente rispetto alla meccanica ondulatoria, sicuramente più veloce nel raggiungere risposte di calcolo significative. Senza contare, inoltre, che la meccanica ondulatoria possiede innegabilmente una visione più realistica e, direi, meno classica della meccanica quantistica ed anche della variabile temporale, almeno come la concepisco io. Tornando alla fatidica funzione d’onda dell’Universo di Wheeler-DeWitt, essa descriverebbe in senso matematico e con l’utilizzo dell’equazione d’onda di Schrödinger, l’andamento progressivo dell’intero Universo in movimento. Vi sembra un po’ esagerato? Certamente, se si partisse dalla ormai vecchia concezione dell’osservatore/catalizzatore cara all’interpretazione di Copenaghen, 92

una concezione più filosofica e direi quasi metafisica, piuttosto che una visione congeniale alla mentalità di fisici teorici con i piedi ben piantati nelle loro formule. Prendendo, però, in considerazione alcune nuove teorie molto esplicative e proiettate verso una logica assolutamente olistica della realtà universale, dall’equazione di Wheeler-DeWitt qualcosa di molto costruttivo se ne può ricavare. Se ne può trarre, ad esempio, una visione globalmente probabilistica e relazionale completa di ciò che chiamiamo, con un po’ di timore reverenziale, Universo.

Somma delle storie e molti mondi Quanto appena detto, è utile anche per introdurre due teorie dotate di un notevole equilibrio speculativo e sicuramente “in odore di santità” presso le ultime generazioni dei fisici americani: la “somma delle storie” e “l’interpretazione dei molti mondi”, a cui l’equazione della funzione d’onda dell’Universo, fornisce l’indispensabile supporto matematico. La complessità di quest’equazione, che si è inevitabilmente proiettata nel contesto della cosmologia, presenta varie soluzioni ognuna delle quali legata ad una gamma ipotetica di universi alternativi, tutte le possibili soluzioni si avvicinano, senza però raggiungerla, alla realtà cosmologica del “nostro” Universo. Stephen Hawking, il grande fisico britannico tetraplegico ormai scomparso, elaborando le numerose proprietà desumibili dalle varie soluzioni dell’equazione, ha ipotizzato per il nostro Universo spaziotemporale una dimensione finita, ma priva di limiti nell’assenza di confini. Cioè, non un Universo infinito ma semplicemente senza bordi finali, non bisogna stupirsi troppo di questa visione perché non si tratta di fantascienza ma solo di un’interpretazione da fisica quantistica! Abbiamo appena parlato di due nuove teorie che ho definito, a ragione, come “in odore di santità” cioè, in altre parole, in odore 93

di verità quantistica: la somma delle storie e l’interpretazione dei molti mondi. Poiché, però, non conosco altra “santità” che non sia la verità scientifica, vorrei parlare brevemente delle due teorie, anche perché sembrano entrambe una proiezione futuristica inevitabile della fisica teorica contemporanea. Iniziamo dalla “somma delle storie”, un’interpretazione quantistica che è praticamente l’equivalente “dell’integrale sui cammini”, un metodo matematico ideato da Richard Feynman negli anni Quaranta. Questa formalizzazione utilizza le funzioni lagrangiane, cui abbiamo già accennato, per sommare le probabilità quantistiche relative ad una particella che si sposta da un punto all’altro dello spazio, ad esempio un elettrone, prendendo in considerazione i numerosissimi percorsi possibili. La risultanza di ogni “cammino” viene integrata sommandola con tutti gli altri, il totale generale darà la probabilità complessiva circa il reale cammino della particella che non è il più diretto, come accade nella meccanica classica, ma solo nel contesto di quelli più prossimi al percorso classico. In prossimità del percorso classico le fasi (proprietà che determinano la traiettoria) si sommano e la probabilità di trovarvi il percorso dell’elettrone aumentano sensibilmente. Veniamo adesso all’altra teoria “in odore di santità” quantistica: “l’interpretazione dei molti mondi”. Si tratta sostanzialmente di una variante dell’interpretazione di Copenaghen di Niels Bohr, in cui l’osservatore/misuratore provoca il fenomeno del collasso della funzione d’onda, perturbando il sistema. Nell’interpretazione dei molti mondi o multiversi, non c’è bisogno né del collasso della funzione d’onda per risolvere la sovrapposizione di stati, né dell’osservatore che lo provoca con la misurazione del sistema. Della funzione d’onda e del suo fatidico collasso parleremo, comunque, diffusamente più avanti. Fu Hugh Everett (1930-1982) laureando a Princeton, a sviluppare nel 1957 la teoria dei molti mondi, secondo cui ogni possibilità quantistica, ogni alternativa possibile nella realtà dell’indeterminatezza quantistica, esisterebbe effettivamente in un apposito 94

Universo. Avremmo perciò più universi paralleli, ma non comunicanti, capaci di rappresentare ognuno un’alternativa vera, a tutti gli effetti, circa varie realtà possibili. Ad avvalorare questa tesi un po’ ardita, contribuì proprio Bryce DeWitt, l’autore della formula della funzione d’onda dell’Universo, a cui abbiamo già accennato, DeWitt fornì il supporto matematico alla teoria, riuscendo a sdoganarla presso i cosmologi. Il problema più grosso è rappresentato, però, da un’improbabile verifica sperimentale della teoria stessa e, confesso, che sotto questo profilo la vedo veramente dura!

Gravità quantistica a loop Prima di uscire definitivamente dal contesto della gravità e teorie connesse, argomento chiave della fisica contemporanea, ritengo utile tracciarne a grandi linee le vaste aree di influenza, in particolare, in relazione alla cosmologia ed alla visione della realtà spaziotemporale che ci circonda. Iniziamo con il precisare, che il vero “profeta” della gravità quantistica è stato John Wheeler. Sua anche la visione secondo cui alla piccolissima scala di Planck, lo spaziotempo si ridurrebbe ad una sorta di schiuma quantistica in ebollizione, ben diversa dalla struttura piatta ed elastica che apparirebbe alle maggiori dimensioni. Insieme al già citato DeWitt, Wheeler, professore austero e composto ma scientificamente molto spregiudicato, gettò le basi matematiche della teoria della gravità quantistica. La loro famosa formula, però, si macchiò di una dimenticanza: a furia di armeggiare con derivate ed operatori di derivazione, dimenticarono di inserire la variabile tempo! Insomma, nella loro equazione non si tiene conto del tempo nonostante si cerchi di seguire scrupolosamente, nel tempo, l’evoluzione di un sistema. Ulteriori, successive rivisitazioni della formula, oltre ad eliminare parecchi inconcludenti infiniti, portarono alla conclusione che le sue soluzioni dipendevano da molte configurazioni anulari 95

(in inglese: loop), linee chiuse nella struttura dello spazio cioè, in pratica, quanti della geometria dello spazio di dimensioni classificabili alla scala di Planck. Il tutto ad una scala di grandezze estreme, le minime possibili circa lunghezza, tempo, massa, energia e temperatura, caratteristiche presenti nell’Universo agli albori del Big Bang, circa quindici miliardi di anni fa. Fu il grande Max Planck, Nobel 1918, a battezzare queste grandezze ma fu anche il primo fisico al mondo, non dimentichiamolo, a parlare del “quanto fondamentale di azione” il primo passo verso la fisica quantistica. Tornando ai loop, gli anelli infinitesimali che compongono la trama fluttuante dello spazio alla scala di Planck, ebbene, questo concetto diede origine a quella che oggi conosciamo come “gravità quantistica a loop”. Cioè, una gravità le cui linee di forza, che indicano la direzione e l’intensità del suo campo, sono costituite da queste formazioni ad anello, intrecciate in una trama tridimensionale che pervade lo spazio e ne è l’essenza stessa, in una dimensione quantizzata e discreta della scala di Planck. La componente più importante in questa trama a loop, sono i cosiddetti nodi, cioè i punti dove le linee chiuse si uniscono ed i segmenti di linea fra un nodo e l’altro sono denominati “link” (legami), mentre più nodi collegati da link formano un “grafo”. Sorvolando sulla complessità strutturale di questo costrutto, ciò che più conta per noi è sapere che la gravità quantistica a loop ci dice in pratica che lo spazio intero è un campo gravitazionale formato da quanti di spazio, calcolabile con precisione nelle dimensioni e nelle caratteristiche, inoltre, anche lo spazio in quanto pura entità quantistica, è dominato dalla logica della probabilità e della casualità. L’evoluzione della sua struttura più “intima”, fatta di nodi e di grafo è nebulosa nel senso letterale del termine, legata cioè alla fatidica nuvola probabilistica della fisica dei quanti, circa tutti gli sviluppi possibili nelle interazioni fra i quanti di gravità del sistema. Lo spazio, insomma, non è più inerte e continuo ma anche il tempo, suo alter ego quantistico, non è più lo stesso come lo 96

conoscevamo da sempre da quando, Newton prima ed Einstein poi, ce lo hanno rappresentato nelle sue caratteristiche irrisolte.

Il tempo dei quanti Il tempo quantistico, così vorrei definirlo una volta per tutte, non è più un assoluto ed ogni processo temporale ha un suo ritmo indipendente, inserito nella realtà intrinseca dell’Universo e legato all’andamento del campo gravitazionale. Per i padri della fisica come Newton, il tempo era quasi un espediente per decifrare i fenomeni naturali e non si chiedevano troppo se esistesse veramente e concretamente, sfuggente come era e com’è. Oggi, alcuni fisici sostengono che il tempo non esiste, che il suo scorrere inerte non può regolare i processi quantistici né avere una consistenza fattuale e materica rispetto alla realtà. Credo che si tratti di un grosso equivoco concettuale, secondo cui il tempo non avrebbe affatto una sua identità cronologica di catalizzatore degli eventi quantistici e non governerebbe neppure l’esistenza delle entità quantistiche nella loro inarrestabile danza cosmica. Non sono d’accordo e penso che sia proprio in questa concezione meccanicistica ed empirica che nasce l’equivoco. Ritengo, innanzitutto, che il tempo esista ben oltre la nostra percezione e la nostra esperienza umana e sono giunto alla conclusione che è la variabile tempo a regolare interamente i processi cronologici fra le entità quantistiche. Sono proprio questi processi, le interazioni, gli entanglement fra particelle, la relazionalità fra i sistemi fisici a scandire un numero infinito e discontinuo di cronologie temporali su cui, poi, la gravità esercita i suoi inevitabili effetti. Quindi, è contemporaneamente il tempo a catalizzare ma anche ad essere catalizzato dalla realtà progressiva delle fluttuazioni e di tutti i fenomeni quantistici che si verificano senza sosta casualmente, perciò il tempo esiste sia come effetto che come causa. La ragione per cui il tempo non c’è nell’equazione di Wheeler-DeWitt, in cui nessun termine 97

contiene la derivata rispetto al tempo, risiede nel presupposto, secondo me errato, che la funzione d’onda e il suo collasso non dipendano affatto dal tempo ma da una sorta di meccanismo deterministico universale. Su questo aspetto ho molti dubbi ma, soprattutto, ne ho circa un altro concetto similare espresso, credo, da Stephen Hawking. Cioè, che in un Universo chiuso non c’è una coordinata temporale privilegiata cioè finalizzata, da prendere in considerazione, mancherebbe, in pratica, il riferimento temporale certo quale coordinata cronologica catalizzatrice di ogni evento quantistico. L’indipendenza della funzione d’onda dal tempo è praticamente sancita sulla base di presupposti parziali che sono, secondo me, da smontare poiché trascurano il ruolo temporale determinante della gravità quantistica, che pure contribuisce al collasso della funzione stessa. Non solo, trascurano anche la sua particolare diversità energetica, in quanto unico campo che struttura l’habitat stesso in cui esprime la sua azione fra le masse. I campi gravitazionali, inoltre, sono dotati di una loro entropia intrinseca (è la misura del disordine di un sistema), che porta a livelli altissimi la naturale indeterminatezza della fisica quantistica. Bisogna aggiungere, poi, che il nesso di causalità insito nell’azione della forza gravitazionale, e in nessun’altra forza, fa dello spazio ma soprattutto del tempo una funzione attiva determinante tali da influire, entrambi, sulle caratteristiche della funzione d’onda stessa, di quello sterminato sistema chiuso che porta il nome di Universo. Se è vero, infatti, che sia lo spazio che il tempo appartengono al dominio strutturale del campo gravitazionale, ciò depone a favore della tesi secondo cui il tempo, effettivamente, si manifesta come agente attivo e catalizzante del campo stesso. Mi sembra chiaro che nulla cambia “nel” tempo e “per” il tempo ma è il tempo stesso a scorrere con il cambiamento e per il cambiamento. Sono i processi ad attivare la cronologia degli eventi, che vedono gli eventi quantistici come protagonisti in una zona finita dello spazio ed in un tempo definito per ogni evento. 98

La dimensione di tutto ciò è contemporaneamente spaziotemporale e gravitazionale perché le due realtà determinanti dell’Universo, la relativistica e la quantistica, per una volta coincidono. Comunque, di questo come dell’entropia in quanto catalizzatore assoluto e della stessa funzione d’onda, parlerò in maniera ancora più approfondita nel capitolo dedicato alla mia teoria quantistica di campo, la QCnD (Quantum Crono Dynamics), la cronodinamica quantistica (da non confondere, a causa della quasi omonimia, con la Cromodinamica di Murray Gell-Mann!).

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Capitolo ottavo

Le teorie quantistiche di campo

L’orologio è un oggetto fisico il tempo un soggetto psichico

Non credo si possa affrontare questo argomento fondamentale senza avere, a priori, un’idea precisa di cos’è un campo quantistico. A sviluppare il concetto classico di campo fu il grande Michael Faraday (1791-1867) padre anche delle “linee di forza”, in quanto responsabili della direzione e dell’intensità del campo stesso. Un veicolo, quindi, su cui l’interazione gravitazionale, elettrica e magnetica, viaggiano nello spazio verso i loro obiettivi di elezione. In realtà, è proprio il flusso delle linee di forza a dirigere il gioco e ad orientare le rispettive forze in quanto onde o particelle che “increspano” il campo stesso. Il concetto tradizionale di campo, comunque, appartiene più alla fisica classica mentre in quella quantistica si parla soprattutto di particelle virtuali, che trasmettono la forza durante gli scambi con le altre entità quantistiche, vedi anche i bosoni vettoriali intermedi, i fotoni, la materia, tutti definibili come quanti di campo, cioè stati eccitati del relativo campo di appartenenza. Non bisogna dimenticare, poi, che la teoria di campo per eccellenza, applicata alla gravità, è proprio la relatività generale di Einstein, dove il campo è rappresentato dalla distorsione dello spaziotempo. Inoltre, la sua definizione spaziale può essere ottenuta con una serie di 100

valori che caratterizzano ogni punto dello spaziotempo, indicandone l’intensità della forza. Detto questo, cioè il minimo indispensabile, veniamo adesso al sodo perché ci servirà a mettere insieme un piccolo bagaglio di conoscenze utili, che ci consentirà di capire meglio quel rompicapo logico che è la meccanica quantistica e le sue teorie di campo.

L’Elettrodinamica quantistica Direi, di iniziare la “passerella” con l’Elettrodinamica Quantistica o QED (Quantum Electro Dynamics). La QED descrive la meccanica con cui le particelle cariche elettricamente interagiscono fra loro e con i campi magnetici, scambiandosi i famosi quanti di luce: i fotoni. Si tratta di una battaglia pacifica fra elettroni e fotoni ma anche di una battaglia elettrochimica, vista l’importanza degli elettroni nei rapporti fra atomi e molecole. Quella cosa meravigliosa che chiamiamo luce, non è altro che un’onda elettromagnetica, il risultato di un campo elettromagnetico e la sua visibilità dipende dalla lunghezza d’onda più adatta per i nostri occhi, mentre lunghezze d’onda più piccole caratterizzano l’emissione di raggi X e dell’ultravioletto. L’infrarosso, le microonde e le onde radio, invece, hanno una lunghezza d’onda maggiore e risultano comunque invisibili all’occhio umano. Grazie a uomini come Faraday, Maxwell ed Hertz, l’elettromagnetismo è una certezza costante che accompagna la nostra vita dall’alba al tramonto (soprattutto al tramonto). Sono le cariche in movimento che oscillano attraverso il campo, a rendere possibile ogni tipo di comfort moderno ed a sollevarci dal peso di un’esistenza che senza l’energia elettrica sarebbe molto più dura. La differenza fondamentale fra campo e particella, consiste nell’estensione delle due entità: il campo presente in ogni punto dello spazio, la particella in un solo punto. In meccanica quantistica, però, tutto cambia e si complica irrimediabilmente: i campi elettromagnetici sono ovunque ma se 101

li esaminiamo ci accorgiamo che sono composti da particelle, i fotoni, i pacchetti discreti di luce, le ben note particelle bosoniche senza massa, che viaggiano naturalmente alla velocità della luce. Non illudiamoci troppo però, poiché la teoria quantistica dei campi è una vera guastafeste, afferma, infatti, anche che la luce è un’onda, una serie di oscillazioni che si diffondono nel campo elettromagnetico diffuso nello spazio. Questo è vero, per quanto riguarda i bosoni cioè le particelle mediatrici di forza ma circa le particelle di materia, cioè i fermioni, esse fanno parte di campi di tipo diverso, inoltre, sono distinte da ulteriori differenze, i bosoni ad esempio non occupano spazio mentre i fermioni lo occupano e, quindi, soggiacciono al Principio di Esclusione di Pauli. Secondo questo ferreo principio, elaborato dal fisico austriaco Wolfgang Pauli (1900-1958), due fermioni non possono trovarsi nello stesso stato quantistico cioè non possono essere identici e stare nello stesso posto. Continuando il discorso circa le particelle di materia, è doveroso ricordare ancora una volta, che i fermioni presero il nome dal nostro Enrico Fermi che, per primo, applicò loro infatti la teoria dei campi. Il fisico italiano, uno degli ex ragazzi di Via Panisperna, congetturò l’esistenza di fasi transitorie “di passaggio” per poi arrivare al decadimento ed alla conversione vera e propria di una particella in un’altra. Ciò è possibile, grazie al passaggio attraverso particelle e campi virtuali di brevissima durata, è il caso, ad esempio, di un neutrone isolato che decade in un protone emettendo un elettrone ed un antineutrino, qui, la carica elettrica non fa che obbedire ad una legge di conservazione che la riguarda direttamente. Esistono regole ferree che disciplinano come anche la materia possa comparire e scomparire come per incanto, in virtù di una forma particolarissima di “magia” quantistica, questa magia consiste proprio nelle leggi di conservazione, che stabiliscono quali interazioni fra particelle sono permesse e quali interdette. Queste leggi possono riguardare la conservazione dell’energia, della carica elettrica, del numero dei quark e dei leptoni (elettrone, muone, la particella tau ed i tre neutrini), in definitiva, le leggi di 102

conservazione sanciscono il principio secondo cui il totale delle quantità, circa le particelle appena elencate, non deve variare durante le interazioni. Risulta evidente da quanto appena detto, che l’intero Universo è fatto di campi, i quali hanno un valore diverso in ogni punto dello spazio e vibrano in forma di particelle ma che, comunque, nello spazio vuoto (che vuoto non è) hanno valore nullo (non proprio tutti) cioè sono assenti. Tutto nell’Universo, insomma, è prodotto da una combinazione di campi in interazione e quello elettromagnetico è uno dei fondamentali, con un raggio d’azione infinito. Fu il primo ad essere studiato, sotto il profilo quantistico, negli anni Venti dal fisico britannico Paul Dirac (1902-1984), “l’uomo più strano del mondo” come lo definì un suo biografo che lo conosceva bene. Dirac, è stato uno dei pionieri della fisica quantistica ed uno dei fisici più anticonformisti e geniali del Novecento, era però affetto dalla sindrome di Asperger, una forma di autismo minore che lo rendeva poco empatico, silenzioso e spesso incomprensibile nelle sue valutazioni. Ciò non gli impedì, comunque, di ricevere il Nobel nel 1933 e di penetrare i segreti reconditi dell’elettrone e dell’antimateria, su di lui e la sua incredibile avventura terrena di scienziato torneremo più avanti. Per chiudere almeno per ora l’argomento della QED, possiamo concludere con un’immagine che definirei, con un pizzico di suggestione, come caratterizzata da una sorta di spiritualità quantistica. Mi riferisco al fatto che la teoria di campo elettromagnetica rappresenta a tutti gli effetti il connubio, l’incontro e l’interazione universale fra la luce e la materia, un concetto quasi trascendentale se non stessimo parlando di fisica. Come se luce e materia fossero, cioè, l’una l’anima e l’altra il corpo della vastità del cosmo che ci sovrasta e ci circonda: forse, una considerazione un po’ stucchevole per un fisico!

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La Cromodinamica quantistica dove i colori non contano Passiamo adesso all’altra importante teoria quantistica di campo: la Cromodinamica quantistica o QCD (Quantum Cromo Dynamics). Si tratta di una teoria che risale agli anni Settanta, quando il fisico americano Murray Gell-Mann, fresco di Nobel, intuì l’esistenza dei quark, contenuti o meglio imprigionati nei protoni e nei neutroni del nucleo dell’atomo. I quark, che appartengono come già accennato a sei diverse tipologie o sapori, sono forse i mattoncini più intimi della materia, quelli fondamentali sotto il profilo componentistico. La particolarità dei quark è costituita dalla cosiddetta “carica di colore” che colore, come abbiamo già spiegato, non è affatto si tratta, invece, di un nuovo numero quantico da affiancare alla carica, allo spin, ecc. Lo scopo è quello di superare il problema dell’ormai noto Principio di Esclusione di Pauli, secondo cui due fermioni non possono trovarsi nello stesso stato e nello stesso posto. Grazie alla differenziazione della carica di colore, che è una sorta di similitudine della carica elettrica ed è articolata su tre colori fondamentali, rosso, verde e blu, due quark possono stare all’interno di un protone o di un neutrone se hanno colore diverso, con buona pace di Pauli. I mediatori della carica colore ma anche, in pratica, della “forza collante”, sono i gluoni che tengono uniti i quark con il reciproco scambio dei gluoni stessi. Queste particelle hanno una carica di colore che permette loro di interagire reciprocamente e negli esperimenti degli acceleratori assumono un particolare comportamento: la cosiddetta reazione “a tre getti”. Quando un elettrone ed un positrone collidono, si annichilano dando origine ad un quark ed un antiquark che, a loro volta, originano un gluone a testa, queste particelle sprigionano una cascata di altre particelle che procedono in maniera direzionale su tre direttive. L’unico modo per vedere i gluoni, quindi, è quello di osservare nell’apposito rilevatore lo sciame caratteristico di particelle a tre getti direzionali. Ciò che più conta, comunque, è sapere che non è possibile trovare quark isolati, poiché a tenerli prigionieri nei protoni e nei neutroni, è la forza colore ed i gluoni addirittura si 104

tendono come elastici per trattenerli al loro posto. Se i quark riescono a liberarsi da questa stretta, restano all’interno del nucleo e la forza colore li beffa comunque. Vorrei far notare, che l’ultimo dei quark identificati è il top, il più massivo di tutti i sei sapori ed è tra noi soltanto dal 1995. La sua enorme massa sembra quasi un errore del “Grande Vecchio”, si tratta di una massa sproporzionata, considerando che quella del quark bottom e del down, ad esempio, è enormemente inferiore! Sull’esistenza del quark top, pochi avrebbero scommesso al Fermilab di Chicago ma, come è avvenuto nel caso bizzarro della scoperta di fossili di dinosauri capaci di saltare come i canguri, la realtà scientifica è piena di sorprese e spesso gioca qualche tiro mancino inaspettato. Arrivati a questo punto, dopo aver passato in rassegna le teorie di campo “storiche”, sembrerebbe giunto il momento fatidico di rompere gli indugi e passare ad esporre la mia teoria quantistica di campo cioè la già citata QCnD, la cronodinamica quantistica. Una nuova teoria di campo che tenta di fornire le coordinate scientifiche per un approccio teorico all’esistenza di quello che ho battezzato come campo cronodinamico o cronocinetico, una teoria cronologica che vorrebbe spiegare cioè in chiave quantistica la natura della variabile tempo. Con tanto di bosoni messaggeri quali mediatori della quinta forza della natura esistente, cioè la cronodinamica, dopo la forza nucleare forte, quella debole, l’elettromagnetismo e la gravità, una nuova forza che assicura, in pratica, lo scorrimento temporale di tutte le entità ed i processi quantistici di ogni sistema nell’Universo. Ritengo però che manchi ancora qualche elemento per poter procedere poiché penso che sia necessario irrobustire ancora un po’ la conoscenza del lettore, con l’approfondimento di alcuni altri importanti oggetti quantistici. Tanto importanti da aver contribuito efficacemente all’equilibrio del Modello Standard della fisica contemporanea, così come la conosciamo da circa quarant’anni. Credo che sia necessario, quindi, procrastinare ancora un po’ l’argomento della cronodinamica, proprio per poter fornire al lettore qualche elemento in più tale da permettergli di seguirmi più agevolmente nei prossimi capitoli. 105

Capitolo nono

Singolarità ed altre storie

Il futuro è prevedibile il passato non sempre

In questo capitolo, come premesso, raggrupperò alcuni argomenti propedeutici circa gli aspetti forse più sorprendenti della meccanica quantistica. Aspetti che non finiscono di stupirci nella loro manifesta indeterminatezza logica, ma che ci permettono di entrare nel meccanismo controintuitivo ed olistico che li contraddistingue. Iniziamo dall’entanglement, uno strano fenomeno che turbò profondamente Einstein perché metteva in serio dubbio il limite invalicabile della velocità della luce. Il termine inglese sta per “intreccio” e rende con efficacia l’idea di un’intima connessione ed addirittura di una ipotetica azione a distanza fra due particelle, anche se remote fra loro. Fu il grande anticonformista del pensiero scientifico Erwin Schrödinger, di cui parlerò ancora diffusamente in occasione della sua formalizzazione della meccanica ondulatoria, ad usare questa dicitura significativa e un po’ misteriosa. In realtà, il termine sembra affermare il concetto di una realtà locale molto einsteiniana ma è esattamente l’opposto, poiché il termine entanglement sta a significare che la realtà quantistica è, invece, complessivamente “non locale”. Due particelle uguali ma anche lontanissime fra loro, sono automaticamente “intrecciate” ed interagiscono istantaneamente, dunque, cosa avviene in realtà fra di loro? È presto detto, semplice e sbalorditivo allo stesso 106

tempo: due particelle originate da un processo istantaneo, come il decadimento radioattivo oppure che hanno interagito fra loro per qualche ragione, sono entangled. Se viene misurato il valore di una proprietà per una delle due, ciò influenzerà istantaneamente il valore della proprietà corrispondente nell’altra anche se le particelle si trovassero a distanze cosmiche, questo accade che piaccia o no al nostro buonsenso e sono convinto che il concetto di fondo vada ben oltre la semplice fenomenologia quantistica fra particelle elementari. Cioè questa fattispecie complessa, bizzarra ed ormai ampiamente riscontrata che si chiama entanglement, a mio avviso, è come un grande sipario che cela una realtà universale olistica, onnicomprensiva ed interconnessa, che riguarda evidentemente la maggioranza degli stati quantici ed ha la tendenza a diffondersi per interazione. Forse, l’entanglement come lo conosciamo era inesistente ai primordi dell’Universo, ebbe inizio come il tempo e lo spazio al momento dell’esplosione fatidica del Big Bang ed attualmente si sta “assestando” per bilanciare le terrificanti distanze siderali del cosmo in espansione accelerata. Si tratta, comunque, sicuramente di un fenomeno per noi destabilizzante a livello psicologico, poiché si concretizza, in pratica, in una inconcepibile reazione istantanea, anche a distanze incredibili, da parte di una particella in occasione della misurazione, ad esempio dello spin, della sua omologa entangled. Non dobbiamo stupirci, quindi, se anche psicologi come Jung e neurofisiologi come Karl Pribram, si siano interessati a più riprese a questo fenomeno fra particelle elementari connesse e ne abbiano tratto delle conclusioni interessanti, anche se più apprezzabili sotto il profilo fisiologico e filosofico che in termini di fisica quantistica. Per sottolineare ulteriormente il carattere di eccezionalità che il fenomeno dell’entanglement riveste in termini di assoluta, paradossale fenomenologia quantistica, vorrei soffermarmi su un famoso esperimento effettuato all’Università di Baltimora nel Maryland. Intanto, premetto che creare due particelle entangled, ad esempio una coppia di fotoni, è relativamente semplice. Lo si può ottenere 107

“sparando” con un laser un fotone attraverso un cristallo non lineare che lo sdoppierà in due fotoni A e B perfettamente entangled, sia rispetto alla loro quantità di moto sia rispetto alla loro polarizzazione cioè, in pratica, la direzione stessa del fotone originario. Circa l’esperimento di Baltimora, di cui non è qui il caso di dettagliare le fasi complesse, vorrei riportare semplicemente le sorprendenti conclusioni. In pratica, si è verificato che i due fotoni sdoppiati hanno attraversato due diversi percorsi controllati da rilevatori fotografici ed hanno praticamente “vissuto”, però, la stessa esperienza. In definitiva, dopo numerosi passaggi dei due fotoni in due diversi fori del percorso, è accaduto che il rivelatore fotografico del fotone B, ha “visto” esattamente ciò che il rivelatore fotografico del fotone A ha rilevato nel suo percorso, cioè l’immagine e la forma del foro del percorso di A, che B però, in realtà, non aveva mai attraversato! Non so quanto sia riuscito a farmi capire ma, comunque, qui non si tratta solo di una questione spicciola di comprensione, il problema è in realtà che il nostro cervello si ribella al meccanismo logico del fenomeno. Si tratta di un fatto assolutamente sorprendente, perché è come se ci trovassimo di fronte ad una sorta di informazione trasmissibile, anche nel tempo, fra due particelle nate dalla stessa particella originaria e rimaste in qualche modo in sintonia perfetta (lo definisco come “dialogo informazionale”). E se questo “dialogo” di natura quantistica fosse esteso all’intero sistema Universo, noi compresi, se questo fenomeno di sintonia totale fra le componenti di sistema riguardasse da vicino anche noi? Ecco che l’entanglement, da rigoroso fenomeno quantistico acquisterebbe delle connotazioni quasi metafisiche. Un fenomeno, cioè, che delinea la realtà come un sistema quantistico globale, fatto di interazioni reciprocamente connesse e tali da sviluppare una sorta di coscienza unitaria dell’informazione quantistica nella dimensione spaziotemporale. Quello che il fisico e filosofo americano David Bohm (19171992), ha definito come un meccanismo fisico “sincronico”, in altre parole il cosiddetto “potenziale quantico”, che unirebbe materia e coscienza dell’informazione in un unicum olografico universale. Di Bohm e delle sue teorie, comunque, parleremo ancora. 108

Tornando con i piedi per terra (ma non troppo), bisogna considerare che le possibilità tecnologico-applicative del fenomeno dell’entanglement sono molto vaste e riguardano settori tecnologici primari. Come quello dei computer quantistici, non più basati sulla tecnologia del silicio e sulle cifre binarie o bit, ma sui “qubit” cioè stati sovrapposti dell’atomo. Un’altra area di applicazione è quella della “crittografia quantistica”, cioè la codificazione perfetta di qualunque tipo di messaggio sensibile segreto reso intraducibile ed, infine, l’applicazione quasi fantascientifica del teletrasporto quantistico. In quest’ultimo caso, Star Trek non c’entra affatto, perché qui non si tratta di duplicare individui o oggetti, ma di riuscire ad inviare uno stato quantico completo con tanto di particelle, da un luogo ad un altro. Scomporre cioè qualcuno o qualcosa alla dimensione atomicoparticellare e ricomporlo altrove. Fortunatamente, direi, le applicazioni pratiche del processo dell’entanglement non sono l’argomento di questo libro e perciò mi fermo qui, anche per permettere al lettore di riprendere fiato: presto ne avrà bisogno…

Il lato oscuro del cosmo Un altro argomento propedeutico alla comprensione della meccanica quantistica, quale unica logica universale capace di avvicinarci alla realtà cangiante dei quanti, è costituito dai buchi neri. Si tratta di stelle collassate sotto il loro stesso peso quando la fusione del nucleo al loro interno si arresta, ma solo le stelle con una massa superiore di almeno tre volte quella solare possono subire questo destino, mentre quelle con massa non inferiore ad 1,5 volte quella solare, vengono sostenute dalla loro pressione interna. Nel caso dei buchi neri passiamo direttamente da quello che sembra un paradosso della ragione ad un paradosso quantistico vero e proprio. Una singolarità assoluta anche sotto il profilo logico poiché, in fondo, i due concetti si somigliano nei loro aspetti 109

paradossali e questo dimostra quanto siano vaste le caratteristiche interdisciplinari degli argomenti che stiamo trattando. Il tutto, compreso in una visione logica che deve essere necessariamente olistica e non locale circa la natura misteriosa dell’intero Universo, non a caso, un mio precedente libro di fisica sull’argomento, finalista in una importante rassegna, si intitola: “Il paradosso coerente”! Questi bui divoratori cosmici, che ingoiano tutto senza quasi nulla restituire, si chiamano buchi neri perché non permettono neppure alla luce di sfuggire dalle loro fauci massive ed atemporali. Sono oggetti celesti per noi quasi inconcepibili poiché esprimono le condizioni più estreme di gravità, di massa e della stessa variabile temporale, cioè sono il fenomeno più controintuitivo che si possa immaginare, pur essendo pura realtà quantistica. Il tempo, in particolare, al loro centro addirittura si arresta cioè smette di scorrere e si ferma in una immobilità catartica che non appartiene alla nostra dimensione logica! Ma andiamo per ordine, perché quando si parla di buchi neri si è irrimediabilmente al limite estremo della nostra fragile, rassicurante logica percepita e fatta di ridicole certezze. Un quadro di riferimento fatto, cioè, di determinismo e di intenzioni razionali, che vorrebbero evitare ad ogni costo le stranezze e le singolarità cosmiche di questo genere paradossale. Incredibilmente, il primo astronomo a concepire l’idea cosmica di buco nero fu, addirittura nel 1784, un membro semisconosciuto della Royal Society, un tale reverendo John Michell che ritengo, e credo di non essere il solo, uno dei più grandi astrofisici misconosciuti della storia. Dopo di lui, per più di un centinaio di anni, cioè finché non arrivarono Einstein e Karl Schwarzschild con il suo “raggio critico”, nessuno riesumò le geniali conclusioni del povero e dimenticato reverendo, per farne una teoria organica. A battezzare così i buchi neri, però, fu nel 1967 John Wheeler, che con questo nome sinistro li rese noti al grande pubblico degli appassionati cosmologi. Tornando allo sfortunato astronomo Schwarzschild, che morì in gioventù per una malattia contratta al 110

fronte nella Prima guerra mondiale, fu lui a calcolare, come già accennato, il famoso, fondamentale raggio critico. Cioè, quel raggio di massima compressione di una massa oltre il quale lo spaziotempo, a causa della sua forte curvatura provocata dalla enorme gravità, si avvolgerebbe su se stesso in forma di toro (una ciambella). Tanto da avvolgersi, addirittura, intorno all’oggetto massivo facendolo, in pratica, diventare una sorta di piccolo Universo in miniatura, isolato da tutto il resto del rimanente grande Universo. Il raggio di Schwarzschild è, in altre parole, una distorsione dello spaziotempo ma è il caso di fare un esempio pratico per capire meglio. Consideriamo una massa pari a quella del nostro sole, il suo raggio di Schwarzschild è pari a 2,9 km. Se uno spazio sferico con questo raggio venisse compresso oltre tale limite, raggiungendo uno stato di densità estrema della materia stellare al suo interno, diverrebbe praticamente un buco nero. Quindi, il raggio critico, che va calcolato ogni volta, è il limite massimo oltre il quale si verifica il collasso gravitazionale che fa implodere la massa di materiale cosmico in esame. La formula, che riporto solo per completezza, è: 2GM/c2, dove G è la costante gravitazionale, M la massa e c la velocità della luce. Le candidate più probabili a diventare buchi neri sono le cosiddette stelle di neutroni, formate appunto da neutroni, con una massa vicina a quella del sole confinata in una sfera del diametro di soli circa 10 km. Ogni buco nero è un grande mistero cosmico di cui tentiamo di capire di più per poi capire, forse in futuro, il “Tutto”, cioè la logica dominante e complessiva dell’Universo in un domani che speriamo non troppo remoto. Una teoria realmente complessiva, insomma, dove dal paradosso, dalla singolarità si possa passare alla generalità logica e, in pratica, ad una agognata teoria del Tutto che ci spieghi sino in fondo l’Universo e la sua trama spaziotemporale. I buchi neri sono, peraltro, molto numerosi e solo nella nostra galassia potrebbero ammontare a circa un centinaio di milioni e, soprattutto, “non hanno peli”, come asseriscono gli addetti ai lavori con il loro consueto, problematico, senso dell’umorismo. 111

Il senso un po’ ermetico della battuta, è che i buchi neri possono essere definiti solo da pochi parametri come, ad esempio, la carica elettrica, il momento angolare e la massa. Questi, come afferma il fisico americano Kip Thorne, Premio Nobel 2017 e che incontreremo di nuovo più avanti, sono gli unici tre “peli”/parametri rilevabili nei tenebrosi giganti. La loro bocca divoratrice si chiama “orizzonte degli eventi” ed è il limite di non ritorno per ogni grano di polvere di stelle ed anche per la stessa luce, il “disco di accrescimento”, invece, è il vortice ruotante del materiale stellare che sta per essere ingoiato dal mostro. La sua temperatura, potrebbe salire sino a provocare l’emissione di raggi X da parte dei gas surriscaldati al suo interno e le sue dimensioni potrebbero raggiungere un diametro di centinaia di migliaia di anni luce. La sua velocità orbitale, inoltre, potrebbe ammontare a milioni di km orari, un autentico colosso stellare velocissimo e senza limiti di “ragionevolezza” in natura. Là fuori, nell’immensità degli spazi siderali, esistono anche i cosiddetti “Wormhole“ cioè dei buchi neri in miniatura che funzionerebbero, forse, come cunicoli spaziotemporali. Vere e proprie scorciatoie nello spazio e nel tempo fra due buchi neri, che permetterebbero, in teoria, di raggiungere anche zone lontanissime del cosmo con estrema facilità! Fantascienza a parte, l’aspetto più spettacolare ed inquietante di un buco nero consiste sicuramente nella sua capacità di annullare il tempo. Un osservatore immaginario del vortice di materia stellare che viene attratta dalla sua massa concentrata, vedrebbe il tempo rallentare già mentre si avvicina all’orizzonte degli eventi e quando avrà superato tale limite, lo vedrà fermarsi in un’eternità sospesa ed incommensurabile. Questa è ciò che si dice, a ragione, una singolarità spaziotemporale, una sorta di “sospensione” assoluta che è impossibile provare prima di essere dilaniati dalla gravità del buco nero. Sull’azione a senso unico di un buco nero nei confronti della materia stellare attratta, che può solo entrare senza mai uscirne, l’ormai scomparso Stephen Hawking ha espresso la sua opinione con una brillante 112

teoria, quella dell’evaporazione dei buchi neri, nota anche come “radiazione di Hawking”. Ma andiamo per ordine, perché la vicenda umana e scientifica di Hawking, affetto da SLA sin dai primi anni Sessanta e incapace anche di parlare oltre che di muoversi, è veramente degna di grande rispetto e non solo perché si è ormai conclusa definitivamente. È il rispetto dovuto nei confronti di un uomo coraggioso, che ha saputo trarre addirittura dei lati positivi da una malattia invalidante. Il suo adattamento esistenziale, infatti, è stato completo e persino il sintetizzatore vocale collegato ad un computer che gli permetteva di parlare, rendeva grazie alla sua capacità di sintesi, il suo linguaggio ancora più essenziale, esplicativo e chiaro. Anche l’umorismo un po’ graffiante della sua giovinezza era rimasto in fondo al suo posto, per continuare magari a scherzare e scommettere con uno dei suoi migliori amici, il recente premio Nobel Kip Thorne. Un umorismo meno evidente ma sempre vivo nello sguardo espressivo, che gli illuminava la faccia immobile e sofferente. Nel 1974 Hawking, partendo con qualche esitazione e molti dubbi, arrivò ad affermare che un buco nero non è affatto a senso unico ma che, oltre ad inglobare tutto ciò che attrae nel suo disco di accrescimento ruotante, emette radiazioni di ogni tipo cioè elettromagnetiche, gravitazionali, neutrini ecc. Ciò significa che ci troviamo di fronte ad una conversione continua di massa/energia, che porterebbe progressivamente il buco nero ad una riduzione sia della sua massa che della sua entropia, intesa qui come diminuzione dello stato generale di aleatorietà del sistema. In altre parole o meglio in termini matematici, l’entropia, di cui abbiamo già parlato, è rappresentata dal logaritmo delle varie, numerosissime modalità in cui gli atomi e le molecole possono distribuirsi in un determinato spazio, sulla base di una logica probabilistica. Per un buco nero, in particolare, l’entropia è rappresentata dal logaritmo delle varie modalità in cui si è potuto formare dal collasso di una stella. 113

Tale aspetto statistico è molto significativo, perché l’entropia di un sistema ha la tendenza ad aumentare sempre, nel caso dei buchi neri, invece, sembrerebbe seguire l’orientamento opposto, trasgredendo quasi alle regole della seconda legge della termodinamica. In realtà non è esattamente così, esiste infatti un preciso rapporto fra l’entropia di un buco nero e l’area della sua superficie e ciò significa, in termini di calcolo, un’entropia enorme. La formula di tale entropia, che riporto per i lettori più informati è la seguente:

In cui, A è l’area dell’orizzonte degli eventi del buco nero, ħ è la costante di Planck (h “tagliata” cioè divisa per il doppio del valore di π), k è la costante di Boltzmann (rapporto tra entropia e probabilità), G è la costante gravitazionale di Newton (intensità dell’interazione gravitazionale) e c naturalmente la velocità della luce. Una breve nota di costume a margine di questa formula: Ludwig Boltzmann (1844-1906) fisico austriaco e padre della termodinamica, morì suicida anche per l’incomprensione dei suoi colleghi viennesi e Planck, quasi a volerlo risarcire moralmente, volle incisa sulla sua tomba proprio la formula della “sua” entropia S = Kb log W, in suo ricordo perpetuo. Un omaggio doveroso ad uno scienziato a cui la fisica del Novecento deve moltissimo, senza avergli mai dato molto. Continuando con l’enigma dei buchi neri, bisogna notare che le leggi che regolano la loro dinamica sono in realtà proprio le leggi della termodinamica, riviste e corrette con l’introduzione di concetti specifici come l’area e la gravità dell’orizzonte degli eventi, oltre alle variabili classiche come l’entropia e la temperatura. Cioè, aspetti tipici che studiano le relazioni esistenti tra il calore ed altre energie, senza appartenere in maniera specifica solo alla meccanica dei buchi neri. Non a caso, qualsiasi corpo con una 114

temperatura appena superiore allo 0 emette radiazioni ed i buchi neri ne emettono addirittura di tutti i tipi e di varia natura. Questa emissione ha l’effetto di rallentare la rotazione del mostro, che inizia a contrarsi e a diventare sempre più caldo ma non gli basta, perché inizia anche ad evaporare lentamente ed in maniera enormemente più lenta che nei termini geologici a noi comprensibili. Questi tempi dipendono però dalla massa del buco nero, più è grande la sua massa più il buco evapora lentamente e la durata della sua vita è proporzionale al cubo della sua massa. In definitiva, il fenomeno dell’evaporazione è talmente lento (pari a moltissime vite dell’Universo) da essere totalmente irrilevante rispetto ad ogni tipo di computazione conosciuta e questo ci consola parecchio! Il prodigio successivo all’evaporazione intuita da Hawking, infatti, consisterà in una diminuzione della massa del buco nero con un aumento spaventoso della temperatura, tanto da farlo esplodere poi in un batter d’occhio. Dunque, i buchi neri come ha affermato Hawking, emettono qualcosa che esce dal loro ventre anziché solo entrarvi: la radiazione di Hawking, appunto. Si tratta, in realtà, di ciò che resta delle cosiddette fluttuazioni del vuoto cioè la creazione dal nulla di particelle virtuali di materia ed antimateria (fotoni e gravitoni virtuali), la loro comparsa all’improvviso avviene a coppie, vicino all’orizzonte degli eventi del buco nero. Da virtuali, queste particelle acquisendo energia dall’onda gravitazionale cui sono esposte, diventano reali e le coppie si dividono: una particella esce dal buco mentre l’altra vi precipita, è così che avviene il fenomeno dell’evaporazione e si materializza la radiazione di Hawking! Mi sono soffermato sui buchi neri perché questi oggetti cosmici, pur essendo in parte relativistici, rappresentano a mio avviso la quintessenza della fisica quantistica. Non ritengo possibile che si possa avere una visione complessiva, seppure superficiale, della realtà della meccanica dei quanti senza avere un minimo di dimestichezza con la sua logica paradossale, la sua indeterminatezza 115

fisiologica e le sue singolarità inquietanti. I buchi neri ne sono l’esempio forse più evidente, da essi tutto può aver avuto inizio e da essi tutto può probabilmente finire in un futuro remoto. Sono inquietanti e “meta-logici” al punto giusto, per rivelarci verità ancora assolutamente ermetiche da interpretare sino in fondo, come erano ermetiche, ad esempio, prima dello studio dei buchi neri le leggi della teoria quantistica dei campi nello spaziotempo curvo. Un argomento che coinvolge la gravità quantistica, i buchi neri stessi ed è essenziale per capire la mia nuova teoria circa la variabile temporale, che voglio illustrare in queste pagine.

Gravità e tempo Abbiamo già trattato l’argomento dell’interazione gravitazionale, ma qui vorrei riaprirlo brevemente in relazione all’ambito specifico della gravità quantistica. È troppo importante la dimensione squisitamente quantistica di questa forza che, grazie ad un campo dalle caratteristiche molto particolari, esplica una funzione fondamentale circa il ruolo dinamico dello spaziotempo ed in relazione alla sua curvatura, in cui si identifica pienamente come forza condizionante. La gravità, come sappiamo, è “maestra di vita” sia a livello macroscopico, nei confronti delle stelle e dei pianeti, sia a livello microscopico, nei confronti degli elettroni orbitanti intorno al nucleo dell’atomo, sia nei confronti delle altre particelle elementari. La storia della gravità, dopo Newton, è indissolubilmente legata ai disperati tentativi di unificare, una volta per tutte, la relatività generale e la meccanica quantistica in un’unica teoria organica. Un compito assolutamente ingrato visto che dal 1920 a tutt’oggi né Einstein né Bohr, né tanti altri illustri ingegni come loro ci sono ancora riusciti, anche se qualche bagliore lontano si comincia ad intravedere ma le difficoltà di tale matrimonio epocale fra le due teorie consistono, soprattutto, proprio nella diversa concezione del tempo. Quale variabile inscindibile dallo spazio, come quarta 116

dimensione oltre alle tre spaziali, e complessivamente curva come lo spazio stesso, nella teoria della relatività generale. Nella realtà quantistica, invece, il tempo è un valore determinato in una sorta di magma di particelle virtuali, che entrano ed escono dalla realtà in un andirivieni cangiante di interazioni. Ma le difficoltà non finiscono qui perché, mentre la relatività è in fondo una teoria classica fatta di oggetti massivi che deformano lo spaziotempo incurvandolo, la meccanica quantistica, invece, è fatta di casualità, imprevedibilità ed indeterminatezza. Ciò significa che i veri parametri sensibili della relatività sono la massa, la gravità e la velocità della luce mentre quelli della fisica quantistica, appunto, la casualità, l’imprevedibilità e l’indeterminatezza. Caratteristiche che, infatti, non lasciano spazio ad alcun tipo di determinismo, di conclusione deduttiva a priori o ad alcun potere predittivo: nel mondo dei quanti tutto è aleatorio e lo è anche la stessa coerenza degli stati quantistici sovrapposti di una particella. Quando interviene un processo umano di “decoerenza” (il calcolo delle probabilità di un risultato certo, ad esempio), gli stati sovrapposti si sciolgono e si produce un’unica versione della realtà anche a livello macroscopico. Eppure, la scala di grandezza in cui gli effetti quantistici diventano importanti è veramente minima mentre, al contrario, la gravità quantistica nei pressi di una singolarità come un buco nero, diviene grandiosa e determinante. Comunque sia, a tutt’oggi, è un fatto assodato che la relatività generale e la meccanica quantistica siano “ufficialmente” inconciliabili e neppure troppo vicine ad una riconciliazione consensuale. Fatta eccezione, beninteso, per alcune teorie come quella delle stringhe o M teoria, che sembrerebbe superare molti ostacoli tecnici e concettuali fra le due contendenti, oltre ad eliminare un mucchio di indesiderabili valori infiniti dai calcoli. Tornando alla gravità quantistica, dopo l’ennesima digressione, dobbiamo di nuovo ricordare che fu l’attivissimo e vitale John Wheeler, a metà degli anni Cinquanta, ad occuparsene con grande convinzione. All’Università di Princeton, infatti, si iniziò allora a 117

pensare alla gravità quantistica in termini di curvatura dello spaziotempo, il tutto inserito in un oceano di schiuma quantistica. Poi, nel 1986, in un convegno scientifico tenutosi a Santa Barbara in California, la gravità quantistica divenne definitivamente maggiorenne o meglio entrò nella maturità e fu introdotto il concetto di “loop”, che la fece diventare definitivamente “gravità quantistica a loop”. I loop, come già accennato, sarebbero in realtà quanti di spazio cioè la struttura stessa in forma di trama annodata dello spaziotempo, in pratica, un concetto geometrico di componentismo minimale dell’Universo. Pressappoco nello stesso periodo fu “inventato” il gravitone, cioè fu ipotizzato il bosone mediatore della forza corrispondente alla gravità, una particella che “deve” esserci ma che solo gli interferometri e gli acceleratori ad alta energia ci aiuteranno a trovare. Risulta chiaro, comunque, che probabilmente solo lo studio approfondito dei buchi neri e della radiazione cosmica di fondo, veri testimonial originari della nascita dell’Universo, potrà dirci con chiarezza ciò che ancora ignoriamo sulla funzione insostituibile ed esplicativa della gravità quantistica.

La particella di Dio Peter Higgs è un simpatico, timido vecchietto di ottantotto anni, attualmente molto soddisfatto del premio Nobel ricevuto nel 2013. Un Nobel meritatissimo per aver studiato e previsto nel lontano 1964 l’esistenza di qualcosa di fondamentale che mancava e che avrebbe dovuto chiamarsi, quanto prima, bosone di Higgs. Quando al CERN di Ginevra, il 4 luglio 2012, fu dato l’annuncio che il bosone esisteva veramente e conferiva la massa a quelle vagabonde delle particelle elementari, il fisico britannico Peter Higgs fu ancora più soddisfatto ed anche molto fiero del suo passato. Il vecchio Peter, infatti, sa di appartenere alla rara categoria scientifica dei precursori e, direi quasi, dei sensitivi razionali, quelli che come Einstein vedevano lontano, oltre la contemporaneità della ricerca e con la capacità 118

speciale di percepire con notevole anticipo sui tempi, la soluzione logica di un problema spinoso che sembrava irrisolvibile. L’aspetto singolare di tutta la vicenda è che Higgs, nel 1964, pensava di aver ipotizzato qualcosa di totalmente inutile e questo non fa che ricordarmi certe sonore cantonate prese anche dal grande Einstein. Fu probabilmente la fine del suo matrimonio ed il successivo stato depressivo che ne seguì, ad ostacolarlo nel perfezionare opportunamente la sua intuizione negli anni successivi, sino a fare del meccanismo di Higgs una teoria organica. È per questa ragione inaspettata, comunque, che l’attenzione di tutto il mondo si è concentrata nell’estate del 2012 sulla cosiddetta particella di Dio, che con Dio naturalmente non c’entra affatto ma con gli equilibri dell’Universo sicuramente. Tutto è iniziato per cercare di comprendere la ragione della disparità di massa fra le varie particelle, attraverso ben quattordici diverse grandezze. Soprattutto però ci si chiedeva perché i bosoni vettoriali intermedi γ (gamma: il fotone), W+, W- e Z°, mediatori della forza elettrodebole, fossero così diversi fra di loro. Prima di andare oltre, però, è il caso di ricordare che l’unificazione fra l’elettromagnetismo e l’interazione debole nell’interazione elettrodebole, può avvenire solo intorno a 1015 gradi di temperatura, corrispondenti ad un’energia media di scambio fra le particelle di circa 1TeV (un teraelettronvolt). Veramente un’alta energia in cui le differenze fra i quattro bosoni non esistono affatto, tutti mediano la forza elettrodebole ed anche i calcoli sono perfettamente identici. Si tratta, in miniatura, del tipico processo di unificazione da parte delle alte energie, avvenuto ai primordi dell’Universo nei confronti delle forze della natura, creando così una simmetria originaria perfetta. Solo al di sotto di questo limite energetico si verifica una rottura spontanea di simmetria e si verificano anche le notevoli differenze fra elettromagnetismo e forza debole e, quindi, anche le differenze fra i loro rispettivi bosoni diventano evidenti. Il fotone resta, infatti, sempre la stessa particella “onnivora” priva di massa e di carica elettrica, che non modifica in alcun modo 119

le particelle con cui interagisce e viaggia alla velocità della luce, i tre bosoni “deboli”, invece, diventano molto massivi ed inoltre W+ e W- hanno carica elettrica e massa pari a 80 GeV. Sono, inoltre, coinvolti nel decadimento beta, in cui un neutrone emette un elettrone ed un neutrino e poi si trasforma, come per incanto, in un protone! Il bosone Z°, invece, è elettricamente neutro ed ha una massa di 91 GeV. Ci si chiede da più parti e da tempo, come mai al momento della rottura della simmetria siano soprattutto le masse dei tre bosoni deboli a diventare così importanti: cosa conferisce loro questo appesantimento apparentemente così ingiustificato? Ecco allora, che il vecchio leone Peter Higgs entra in scena con la sua geniale intuizione, ma anche con i suoi complessi calcoli di anni. L’ipotesi, è che esista un campo particolare, un campo cosiddetto “scalare”, cioè uniforme, senza una vera direzione esteso in tutto l’Universo e dotato di una particella scalare con spin pari a 0, senza carica elettrica e molto massiva, quale mediatrice. Un bosone capace in qualche modo, magari per inglobamento, di conferire la massa alle particelle con cui, trasportato dal suo stesso campo, interagisce oppure, è la mia opinione, il campo di Higgs rallenta semplicemente tutte le particelle che lo attraversano. Comunque sia, se nel 2009 l’LHC (Large Hadron Collider) del CERN di Ginevra non fosse entrato in servizio operativo, il vecchio Peter, il Nobel non lo avrebbe mai ricevuto e noi saremmo ancora qui a chiederci se il suo bosone è realtà o fantasia. A tale proposito ed anche per non rinunciare al vizietto degli incisi, vorrei spendere a questo punto alcune parole proprio sul CERN di Ginevra e sul lavoro straordinario che sta portando avanti ormai da alcuni anni. Si tratta di un centro per la ricerca nucleare dotato di un anello lungo 27 km, a quasi 100 metri di profondità lungo il confine tra la Svizzera e la Francia. In questo enorme tunnel, dei grandi magneti accelerano due fasci di protoni che si scontrano, dando vita ad un getto di particelle di ogni genere. Per provocare la comparsa brevissima del “pesante” 120

bosone di Higgs (126 GeV di massa), sono state necessarie alte energie e l’incredibile pazienza di identificarlo in uno zoo di miliardi di particelle esotiche. L’efficientissima Fabiola Gianotti e il suo staff, però, ci sono riusciti brillantemente e, penso, che si siano anche resi conto di aver sviluppato quasi una sorta di attività di tipo archeologico, poiché le particelle “riesumate” con l’azione dell’LHC sono, in realtà, estinte da ben quattordici miliardi di anni! L’aspetto più significativo della vicenda a lieto fine della particella di Dio, comunque, è, secondo me, rappresentato dal fatto che il campo di Higgs, costellato dai suoi bosoni e dalle fluttuazioni quantistiche, si comporta soprattutto come una sorta di magma “appiccicoso” che rallenta in maniera diversa le varie particelle. L’Universo, che è notoriamente parsimonioso seguendo il noto adagio secondo cui “non esistono pasti gratis in natura”, tende a porsi sempre in uno stato di minima energia a cui contribuisce anche il campo di Higgs in termini di energia totale. Alle ormai basse temperature cosmiche odierne, questo livello di minima energia viene raggiunto quando il campo ha un valore superiore allo 0 e può così fornire per interazione la massa alle particelle. È la storia ricorrente della rottura spontanea della simmetria, cui si è già accennato, e che si verificò ai primordi conferendo al giovanissimo Universo la varietà e la bellezza che conosciamo. Caratteristiche prima soffocate da una simmetria perfetta delle forze della natura e poi sviluppate dalla differenziazione prodigiosa del mitico “fiat lux” (il Big Bang). So bene, che alcuni fisici sono un po’ ossessionati dal concetto di simmetria, che renderebbe tutto più facile e comodo da capire, ma lo stesso “principio antropico”, che sembra quasi “motivare” l’Universo a nostra immagine, è un concetto legato proprio alla varietà delle cause ed alla efficacia degli effetti nel costruire un habitat privo di uniformità estreme e perciò totalmente inadatte alla vita. Circa il principio antropico, appena citato, ritengo che meriti una brevissima riflessione. In effetti, afferma che l’Universo è 121

così perché se fosse diverso, noi non saremmo nella condizione di osservarlo e non saremmo neppure qui. Lapidario ed anche un po’ lapalissiano nella sua logica, questo principio afferma una verità così evidente da stupirci persino. Tutti i parametri fisici e l’intensità delle forze, sono così appropriati ed adatti a noi da permetterci di esistere, una coincidenza casuale che dura da circa 500 mila anni senza grossi intoppi, ma se così non fosse non potremmo saperlo mai perché, semplicemente, non ci saremmo! Tornando per un attimo solo alla simmetria, vorrei far notare che il fatto stesso che in meccanica quantistica di frequente sono gli “effetti molteplici” a precedere le “cause efficaci”, fa chiaramente comprendere come tutto ciò che è simmetrico sia, oggi, solo l’eccezione che conferma la regola quantistica dell’asimmetria. In meccanica quantistica persino la massa, che nella dimensione macroscopica è una caratteristica tipica, nella dimensione delle particelle elementari è un concetto aleatorio, dipendente da una certa fase e che può mutare a seguito di una successiva transizione di fase. In un certo senso, neppure la massa di una particella è simmetrica con se stessa. Si tratta del grande, salutare disordine articolato, che ha portato alla formazione dell’habitat universale di cui continuiamo a chiederci, affannosamente, il come ed il perché e che interpretiamo anche come principio antropico, appunto. A chiusura, per ora, dell’argomento Higgs e della sua felice conclusione, vorrei fare un po’ il guasta feste in questa idilliaca vicenda dell’affannosa ricerca e poi, finalmente, della scoperta del proverbiale ago nel pagliaio. Ebbene, ho il sospetto che il nostro bosone non sia una particella elementare ma formato da altre componenti più piccole come nel caso dei quark per gli adroni, ma è solo un sospetto “maligno” e perciò passerò oltre, dove ci conduce un altro enigma inquietante: le strane forme di materia esotica.

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L’antimateria Parlare di antimateria è come parlare di una nostra vecchia conoscenza e cioè di Paul Dirac: “l’uomo più strano del mondo”, come è stato definito da più parti, ma anche l’unico fisico inglese a poter essere paragonato ad Isaac Newton. Di lui, abbiamo già parlato e non è mai abbastanza per questo gigante della fisica del Novecento ma anche uomo molto problematico, dalla notevole incapacità empatica causata probabilmente dalla sindrome di Asperger. La sua difficoltà nel comunicare e nel comprendere le intenzioni altrui attraverso il linguaggio, la mimica e tutto il resto, è leggendaria, Dirac era in grado di capire i segreti della materia ma non un’affermazione banale del suo interlocutore di cui, a volte, non era in grado di comprendere neppure la differenza fra un’affermazione ed un semplice interrogativo da cui era lecito aspettarsi una risposta! La particolare forma di autismo che lo affliggeva, gli impediva il dialogo, la condivisione, la stessa capacità di capire chi aveva di fronte sotto il profilo psicologico. Ciò non gli impedì di pubblicare nel 1930 il primo trattato organico di fisica quantistica né di succedere nel 1932 a Newton, dopo due secoli, nella prestigiosa cattedra di “Professore Lucasiano” a Cambridge e neppure di conseguire il Nobel nel 1933, insieme ad Erwin Schrödinger. Dirac, inoltre, si occupò anche delle regole statistiche circa il comportamento dei fermioni e mise a punto contemporaneamente ad Enrico Fermi, ma in maniera del tutto autonoma, il “decalogo” della fenomenologia relativa ai fermioni che porta anche il loro nome: la statistica di Fermi-Dirac. Distinta, come è noto, dalla statistica di Bose-Einstein dedicata, invece, ai bosoni. In realtà, Dirac fece molto di più come, ad esempio, prevedere l’esistenza dell’antimateria, inoltre fondendo, in parte, la fisica quantistica e la relatività generale, riuscì a trovare una formalizzazione organica delle caratteristiche dell’elettrone. Con soluzioni valide sia per l’elettrone “canonico”, sia per una nuova tipologia di elettrone con carica elettrica positiva anziché negativa. Quello 123

che Carl Anderson, esaminando i raggi cosmici, avrebbe poi identificato e battezzato come positrone. La via verso la realtà parallela dell’antimateria era comunque aperta: nel 1955 Emilio Segre scoprì l’antiprotone poi fu la volta dell’antineutrone e finalmente, nel 1995, il CERN di Ginevra “diede alla luce” addirittura un antiatomo di idrogeno, formato da un positrone ed un antineutrone! Ai primordi del cosmo, la quantità di antimateria e di materia barionica dovevano quasi equivalersi, per poi rompere questa simmetria a tutto svantaggio della prima. Oggi, si calcola che la quantità di antimateria presente nell’Universo ammonti a meno dello 0,01%, a causa delle continue annichilazioni che avvengono quando le due cugine rivali si incontrano e si scontrano. Ogni particella possiede il suo lato oscuro, il suo alter ego di segno opposto ed insieme sembrano mimare, quasi, una sorta di parodia quantistica del bene e del male che si scontrano dalla notte dei tempi. Una danza di Shiva che si risolve, infatti, in un lampo di energia pura, direi quasi “purificatrice”, poiché materia ed antimateria non possono convivere insieme e questi incontri/scontri hanno lentamente riempito il cosmo di fotoni ed energia, privandolo però per sempre dell’altra faccia “materica” della realtà.

Il lato oscuro della materia L’altra materia “speciale” su cui vorrei soffermarmi in maniera un po’ più dettagliata rispetto a come ho già fatto, è quella “oscura”. È notevolmente più comune e misteriosa della materia barionica, fatta di fermioni e che forma le stelle e le galassie. Questa materia misteriosa, tradisce la sua invisibile ma ingombrante presenza, esclusivamente attraverso la sua azione gravitazionale. Poiché, come afferma la sua stessa definizione, non interagisce con la radiazione luminosa e quindi, non emette luce: è, appunto, completamente oscura. Incide per un buon 23% nell’Universo mentre la materia luminosa solo per un marginale 4%, il rimanente 124

73% è appannaggio dell’energia oscura, la misteriosa forza repulsiva che la accompagna ovunque e che è stata sicuramente cercata dai fisici di tutti i pianeti dell’Universo, ammesso che ce ne siano altri oltre quelli di questo pianeta! Tentare di capire da cosa in realtà è formata questa materia invisibile, è una sfida molto impegnativa più volte raccolta ma, a tutt’oggi, lontana dall’essere vinta, le ipotesi infatti si susseguono ma le componenti ipotizzate non bastano a spiegare le enormi masse esistenti di materia oscura. Non bastano i cosiddetti Macho che è l’acronimo inglese di “Oggetti compatti e massivi dell’alone”, cioè piccoli corpi celesti non luminosi e non meglio identificati. Non bastano neppure le cosiddette Wimp, altro acronimo inglese che sta per “Particelle massive debolmente interagenti”, cioè particelle sconosciute che non interagiscono né con la materia né con la luce. Qualcuno, ha scomodato a questo scopo persino i neutrini ma non bastano neppure loro, anche se una piccola massa in fondo ce l’hanno. Che dire poi dell’energia oscura, che con la sua forza repulsiva sembra contrastare addirittura la gravità, già Einstein nel 1915, aveva pensato a qualcosa del genere, inserendo l’espediente matematico della famosa “costante cosmologica”, nella sua teoria (errata) dell’Universo statico. Continuò a sbagliare anche con la costante cosmologica vista come bilanciatore naturale della gravità, per giustificare una improbabile staticità del cosmo ed “ingessare” così l’intero Universo nella stasi più totale. Sbagliò ancora, successivamente, considerando la costante cosmologica stessa come: “il più grande errore della mia vita”, quando la costante cosmologica è stata ormai riabilitata da tempo dalla comunità dei fisici, per giustificare in qualche modo la deriva accelerata dell’Universo! Einstein era evidentemente condannato ad aver ragione anche quando aveva torto, con la flemmatica ostinatezza di chi sa di essere sempre dalla parte giusta. Cantonate storiche a parte, l’idea di un’energia negativa collegata allo spazio vuoto, non è affatto peregrina ed, infatti, l’Universo attualmente sta accelerando la sua espansione come se qualcosa di repulsivo stesse vincendo la forza di gravità che agisce nel 125

cosmo. Ecco che l’energia oscura è finalmente uscita dall’ombra per diventare protagonista indiscussa, si tratta però, beninteso, di una particolare forma di energia, abbastanza forte e stranamente non legata alla materia ma al vuoto. Preferirei che si trattasse di una costante, un parametro fisso capace di fornire un punto d’appoggio per i calcoli, come la gravità e la velocità della luce. Una cosa però è certa, se non è una costante e aumenta con l’espansione, vincerà sulla gravità e ci farà a pezzi insieme a tutti gli ammassi galattici che ci circondano se, invece, sarà la gravità a prevalere nel braccio di ferro, ci farà a pezzi comunque in un remoto Big Crunch. La cosa, in fondo, non ci riguarda da vicino e comunque non sarà mai l’oggetto di una libera scelta!

Schrödinger il biologo e Bohm il metafisico Il titolo di questo paragrafo è volutamente un po’ provocatorio, perché vuole occuparsi di alcuni aspetti collaterali della fisica quantistica che, però, non vanno trascurati nella sua visione d’insieme. Schrödinger, infatti, non era esattamente un biologo e Bohm non esattamente un metafisico, ma entrambi seppero guardare oltre gli schemi ed affrontarono il lato più esotico della fisica quantistica con grande intuito ed una grande sensibilità interdisciplinare. La nascita, ipotizzata da più parti, di una biologia e di una medicina quantistica sta diventando una realtà, così come lo sviluppo di una dimensione metafisica ed olistica della fisica dei quanti in generale. Ecco in questo modo, che le intuizioni dei nostri due grandi precursori tornano ad essere di grande attualità. Erwin Schrödinger, di cui abbiamo già parlato e di cui parleremo ancora, sviluppò la meccanica ondulatoria, una versione fondamentale della meccanica quantistica dedicata alle onde e il conseguente concetto matematico di funzione d’onda, in pratica cioè, l’andamento progressivo della natura di onda di una particella. Ricorderete, infatti, che un’entità quantistica può comportarsi sia come una particella che come un’onda a tutti gli effetti. 126

L’interesse di Schrödinger per la biologia molecolare, lo portò a pubblicare nel 1944: “Che cos’è la vita”, un libro che riuscì a influenzare molti fisici e biologi della sua generazione. Mi è capitato di leggerlo in un’edizione del 2012 e l’ho trovato straordinario per la sua visione inedita della realtà dei quanti, c’è un parallelismo puntuale ed un dipanarsi continuo fra meccanismi biologici e fenomenologia quantistica che porta ad una profonda, insperata, riflessione anche sul piano metafisico. Fenomeni biologici come l’ereditarietà, lo sviluppo delle cellule, le mutazioni genetiche, vengono interpretate sotto un profilo fisiologico di chiaro indirizzo quantistico. Arrivando, addirittura, a paragonare le molecole organiche a certi cristalli aperiodici, dotati di sequenze “isomeriche” (genericamente composti formati da parti uguali) molto simili a quelle che costituiscono il nostro codice genetico. Non a caso, ne sono convinto, qualche anno dopo e dopo aver probabilmente letto il saggio di Schrödinger, Crick, Watson e Wilkins scoprirono il DNA! Questo nuovo volto della fisica quantistica, che esce dal laboratorio del fisico per entrare in quello del biologo, è illuminante e testimonia un’unicità integrata di fondo che pervade tutto l’Universo. Può provocarci comunque, innegabilmente, qualche problema psicologico di carattere etico perché risulta difficile pensare che nel mondo, regolato dalla costanza del suo andamento ciclico, possano trovare spazio l’indeterminatezza e la casualità più imprevedibili. Facciamo un esempio per capire meglio, l’entropia, cioè la complessità del disordine (così mi piace definirla), che è una quantità fisica oggettiva e misurabile, ebbene, alla temperatura dello 0 assoluto, (-273° C) è nulla in ogni dove. La sua formula è K log D, dove K è la costante di Boltzmann e D il disordine degli atomi del sistema in esame. Se lasciamo cadere un cucchiaino di zucchero in un bicchiere d’acqua, il suo scioglimento aumenterà il disordine D nell’acqua stessa e, quindi, il logaritmo di D cioè l’entropia del piccolo sistema. L’entropia massima, però, rappresenta lo stato di equilibrio termodinamico cioè, in pratica, la morte per un essere 127

vivente e la staticità assoluta ed inerte (l’equilibrio termico) per un sistema fisico isolato in ambiente uniforme. Gli esseri viventi però, non dimentichiamolo, rifuggono il decadimento verso gli stati di equilibrio termodinamico, cioè l’entropia massima, perché il loro unico scopo è vivere e riprodursi, ben oltre molte delle “fallacie” filosofiche inventate dal cervello umano e allora? Allora, ed è meraviglioso, tutto ciò che vive tende disperatamente a ridurre la propria entropia mangiando, bevendo e respirando, usando cioè l’arma del metabolismo per ingannare la morte! Poiché, però, tutto ciò che avviene in natura tende ad aumentare l’entropia complessiva, lo stesso avviene per gli esseri viventi che, vivendo, aumentano la propria entropia sino al limite di non ritorno. Vivere, insomma, in un certo senso ed anche se può sembrare paradossale, nuoce gravemente alla salute e solo il metabolismo può rallentare, temporaneamente, il processo! In fondo, il metabolismo non è altro che uno scambio continuo con l’ambiente di entropia dannosa contro entropia positiva. I paralleli funzionali fra biologia e meccanica quantistica, però, non finiscono qui. Esaminiamo, ad esempio, il cosiddetto “effetto tunnel”, il fenomeno quantistico secondo cui certe particelle possono penetrare ostacoli come le barriere intorno al nucleo atomico, oppure ostacoli come una barriera energetica senza averne, però, in pratica la possibilità cioè l’energia sufficiente. È il caso del decadimento radioattivo alfa, in cui una particella alfa riesce a sfuggire dal nucleo di un atomo di polonio, potendo disporre di un’energia di soli 9 MeV (9 megaelettronvolt), quando ne servirebbero almeno 26, per superare l’energia di legame del nucleo atomico stesso. Semplicemente, ciò accade ed è come se un uomo fosse capace di attraversare un muro senza sfondarlo! Esiste una reale probabilità che la funzione d’onda apra un tunnel attraverso la barriera energetica senza averne la reale possibilità, è inspiegabile ma questa è realmente la meccanica dei quanti! Ebbene, l’interesse del fenomeno è veramente enorme in termini 128

biologici e di fisiologia, l’effetto tunnel quantistico, infatti, permette che all’interno delle cellule i protoni passino da una molecola all’altra per favorire le reazioni provocate dagli enzimi. Lo stesso avviene, molto probabilmente, per gli elettroni che potenziano il nostro senso dell’olfatto nei ricettori della mucosa nasale. Ma, come al solito, non finisce qui perché anche l’entanglement quantistico è coinvolto in questo parallelo simbiotico con la biologia. Nel caso del mondo animale, ad esempio, è stata ipotizzata una precisa relazione fra elettroni in entanglement e i radicali liberi (quelli dello stress ossidativo delle cellule) in alcune specie di uccelli migratori. Anche nel regno vegetale accade qualcosa di altrettanto simbiotico. Quando i fotoni della luce solare colpiscono le molecole della clorofilla nelle foglie delle piante, rilasciano la loro energia che viene immediatamente diretta alle cellule preposte alle reazioni chimiche. La fotosintesi clorofilliana non è altro che un processo di elettrodinamica quantistica! In definitiva, gli effetti quantistici aiuterebbero gli organismi viventi nella loro lotta con le condizioni ambientali, favorendo anche le mutazioni genetiche più utili per superare il gap evolutivo con l’ambiente. Tali fenomeni di fisiologia non sarebbero altro che veri e propri salti quantici, cioè transizioni tra stati diversi di una particella con emissione o assorbimento di energia. Salti quantici e transizioni di fase anche negli organismi viventi, dunque, ma allora il cervello umano, la mente, che tipo di connessione simbiotica possiede con la meccanica quantistica? Il nostro cervello è più lento ed ha una memoria molto più limitata rispetto ad un computer, ma può fare cose che una macchina potrebbe solo sognare, se ne fosse capace. Il risultato più inimitabile e trascendentale della mente umana è sicuramente la coscienza, attraverso cui facciamo esperienze di vita e apprendiamo. Si tratta, in pratica, di una sorta di principio antropico applicato alle capacità funzionali della nostra mente, secondo cui il cervello umano sarebbe esattamente così com’è poiché, se fosse diverso, noi non avremmo coscienza né di possederlo né di esistere. 129

La verità è, che il nostro cervello non è affatto una forma evolutissima di computer e lo stato di coscienza non può essere il risultato solo di complicatissimi algoritmi in parallelo. C’è sicuramente dell’altro e la teoria dei quanti, come unica realtà autentica sottostante a quella macroscopica, può aiutarci nella ricerca di una spiegazione non solo percepibile attraverso i sensi. La gravità quantistica, ad esempio, secondo il fisico inglese Roger Penrose e il medico Stuart Hameroff, esplicherebbe i suoi effetti di geometria spaziotemporale sui neuroni del nostro cervello. Per essere precisi, ciò avverrebbe nelle strutture “polimeriche tubolari” dei neuroni e dei microtubuli, quindi, in sintonia diretta con i neurotrasmettitori del nostro cervello. Personalmente, sono convinto, che soprattutto il fenomeno del collasso della funzione d’onda, sia una chiave di lettura privilegiata per investigare anche i meccanismi cerebrali. Questo cosiddetto collasso, di cui parlerò più diffusamente in concomitanza con la mia teoria quantistica di campo, consiste in pratica in una “scelta” che avviene fra più stati sovrapposti di un’onda quantistica, grazie ad una particolare perturbazione esterna causata al sistema. Una scelta provocata ma assolutamente casuale ed incontrollabile. La seconda provocazione nel titolo di questo paragrafo era riferita al fisico americano David Bohm (1917-1992), definito in maniera, appunto provocatoria, come un metafisico. In realtà, Bohm era un idealista estremo ed un validissimo filosofo della scienza a tutti gli effetti, così ostinato nelle sue convinzioni da interferire nella sua stessa tormentata carriera di fisico. Ricercatore a Berkeley, professore a Princeton, impegnato in politica nella Lega Comunista Americana dal 1930, quando essere comunisti negli Stati Uniti era un reato ed infatti nel 1951 fu addirittura arrestato per le sue idee politiche. In piena era Mc Carthy, dovette riparare in Brasile e quindi in Israele per spostarsi, poi, definitivamente in Gran Bretagna, lontano dalla persecuzione ma anche dall’ideologia. La sua vita 130

movimentata lo privò sicuramente di molti riconoscimenti ufficiali, non gli impedì però un approccio umanistico e filosofico ma anche assolutamente originale alla meccanica quantistica. Concetti come quello “dell’ordine implicato” e del “modello olografico” affascinarono ed influenzarono tutta la generazione “new age” della fisica americana. Non a caso Bohm, sempre più interessato al misticismo orientale, fu un discepolo fedele dell’indiano Krishnamurti e della sua visione olistica dell’Universo. Una concezione che portava Bohm a considerare l’Universo stesso come una sorta di grande organismo pensante in connessione totale e continua con se stesso, la cui realtà non era solo racchiusa nella realtà formale delle cose, ma anche nel cosiddetto “potenziale quantico”. Una sorta di quinta, misteriosa forza della natura mediata da un “campo informativo”, capace di guidare le particelle fuori dalla logica della fisica classica dei campi e delle loro teorie. Il “potenziale quantico”, in altre parole, sarebbe responsabile della circolazione dell’informazione quantistica nella sua globalità ma anche della sua “non località”, inoltre, informazione, energia e materia sarebbero le componenti basilari di tutti i processi universali. Abbastanza chiaro, è il riferimento fra il potenziale quantico di Bohm e “l’energia di punto zero” classica, cioè l’enorme energia che pervade il vuoto quantistico ed è fonte inesauribile della vita virtuale delle particelle. La non località di Bohm, comunque, è molto più drastica di quella rilevata nella meccanica quantistica, è qualcosa che non ha nulla a che vedere con la velocità luminare di particolari segnali, di tipo entangled, fra particelle. La comunicazione istantanea fra particelle anche molto distanti sarebbe, invece, il frutto del cosiddetto “effetto Aharonov-Bohm” cioè, in pratica, l’effetto mediatore del “campo informativo”, una sorta di entanglement metafisico che qui non è il caso di approfondire. Bohm, arrivò persino a correggere la famosa equazione di Schrödinger con l’aggiunta del potenziale quantico, creando molte perplessità sul suo lavoro. Tanto che, a partire dagli anni Sessanta, il resto della sua vita lo impiegò facendo soprattutto il filosofo, ma 131

con un preciso imperativo concettuale di fondo ad accompagnarlo: la mente è materia e lo stato di coscienza una forma di autorealizzazione del sé!

Supersimmetria e superstringhe Abbiamo già spiegato il concetto di simmetria come una sorta di status quo originario, relativo quasi ad una vera e propria legge di natura, che impone alle forze ed alle particelle di possedere una sorta di equivalenza, di invarianza e di conservazione generalizzate. Un esempio di simmetria globale, è quello secondo cui le leggi di natura sono le stesse in ogni punto dell’Universo cioè, in pratica, il cosiddetto concetto di “invarianza translazionale”. La legge di conservazione dell’energia, di conservazione del momento angolare ecc. sono, in pratica, regole universali che richiamano il concetto di simmetria, l’immagine più evidente di simmetria però è offerta dalla sfera, che è dotata di “invarianza rotazionale” cioè è sempre uguale comunque la si faccia ruotare. Questo è vero nella fisica classica, in quella quantistica, come al solito, le cose si complicano ed i casi di rottura della simmetria sono molto frequenti. Agli albori dell’Universo, intorno a circa 10-35 secondi dall’esplosione del nucleo infinitesimale originario ad opera del Big Bang, quella che era stata una simmetria perfetta di forze e particelle unificate e di uguale intensità energetica, si spezza. Il fenomeno dell’inflazione provoca una vertiginosa dilatazione del piccolissimo nucleo iniziale e la separazione dello spaziotempo dalla materia, inoltre, modifica radicalmente ed amplifica la geometria del “neo universo” alla velocità della luce. È da questa frazione di tempo in poi, che la simmetria lascia spazio alla sua omologa opposta, poiché il brodo primordiale si sta velocemente trasformando in qualcosa di grande ed articolato, pur nella sua giovane complessità. Se l’affermazione non fosse un po’ spericolata, direi quasi, che la rottura della simmetria fu l’inizio di quel crescendo di disordine articolato e complesso di cui abbiamo 132

già parlato, e cioè l’entropia dell’Universo, una marea diversificata e progressiva che vediamo progredire tuttora e per sempre. Sono ripartito volutamente dal concetto di simmetria, per arrivare senza notevoli sussulti a quello più complicato di “supersimmetria”. Anche questo fenomeno dovrebbe essere frutto della commistione nel piccolo brodo primordiale, dove fermioni e bosoni si confondevano in uno scambio continuo di ruoli, tanto da dare origine a delle particelle supersimmetriche. L’idea nacque negli anni Settanta e ne scaturì una originale struttura geometrica ad otto dimensioni, battezzata per abbreviazione come “Susy”. Per applicare la supersimmetria alla realtà sono necessarie, come già accennato, le particelle supersimmetriche corrispondenti ad ogni bosone e ad ogni fermione conosciuti così avremo, tenetevi forte, per l’elettrone il selettrone, per il neutrino lo sneutrino, per il fotone il fotino, per il gravitone il gravitino e così via farneticando! Non esistono prove sperimentali di questa teoria poiché, essendo le particelle supersimmetriche molto più massive dei loro partner tradizionali, non possono essere rilevate che ad energie molto più elevate di quelle prodotte negli attuali acceleratori, quindi, la conferma di questa geniale intuizione è rimandata, purtroppo, a data da destinarsi. Ritengo la teoria supersimmetrica, soprattutto come una fase propedeutica ad un’altra teoria di grande unificazione, che potrebbe essere veramente risolutiva rispetto all’inclusione della gravità nella descrizione matematica di tutte le forze della natura. Si tratterebbe di una vera e propria “TOE”, cioè una “Teoria del Tutto” (gravità + forza forte + forza elettrodebole) per cui scalpitare veramente. La teoria delle superstringhe, del resto, lo prevede espressamente includendo addirittura la supergravità. Ma andiamo per ordine, perché supersimmetria, superstringhe e supergravità, sono le tre facce di un unico problema di grande unificazione in corso di sviluppo la TOE, appunto. Partita in sordina negli anni Ottanta, come teoria delle stringhe per descrivere il comportamento dei bosoni, fu poi estesa al comportamento dei fermioni, i quali necessitano 133

di un formalismo matematico particolare e spiccatamente quantistico, per essere descritti nel loro particolare comportamento “non commutativo”. Le funzioni quantistiche, che non sono semplici numeri, infatti, non commutano e quindi non sempre axb è uguale a bxa, con grande turbamento degli addetti ai lavori. Con l’inclusione della supersimmetria, la TOE diventò, in pratica, l’attuale teoria delle superstringhe, ma di cosa si occupa esattamente questa teoria e cosa vuole affermare che già non sappiamo? Propone un profondo cambiamento del concetto di particella elementare, non più vista come puntuale o come un’onda ma come una sottilissima stringa, cioè un filamento filiforme capace di vibrare come le corde di una chitarra. Ad ogni diversa vibrazione corrisponderebbe una particella specifica, dotata di una massa equiparata all’energia della stringa e fermioni e bosoni sarebbero semplicemente i diversi toni di vibrazione delle stringhe stesse. Questo, almeno nella visione originaria del fisico e matematico americano Edward Witten, il padre “padrone” della teoria, di cui ho già scritto nel mio precedente libro di fisica (Il paradosso coerente), disapprovando il tono vagamente confessionale dell’approccio alla teoria stessa da parte dei suoi sostenitori. In effetti, la teoria delle stringhe sembra in grado di poter digerire il rospo della gravità quantistica e quello ancora più indigesto dell’incompatibilità fra la meccanica quantistica e la relatività generale. Attualmente, l’evoluzione delle superstringhe ha ulteriormente affinato il modello iniziale, ponendo un ulteriore elemento costituente al centro dell’attenzione: la supergravità. Si tratta praticamente, come già accennato, di uno sviluppo del concetto di supersimmetria e delle superstringhe. La supergravità è associata ad un campo di bosoni di “gauge”, il termine significa “misura”, la gravità infatti è una teoria di gauge, cioè descrive un campo per cui tutte le equazioni che lo riguardano non mutano nelle caratteristiche, anche se ricalcolate in funzione di riferimenti diversi. In questo, la gravità è molto simile, come vedremo quando ne parlerò più avanti, alla mia teoria di campo cronodinamica, anch’essa una teoria di gauge 134

con l’apporto mediatore di bosoni di gauge: i crononi. I bosoni di gauge mediatori della gravità sono, come sappiamo, i gravitoni e la loro controparte supersimmetrica sono i gravitini che, quasi, non interagiscono con la materia e quindi sono difficilissimi da rilevare. Bisogna notare che, essendo le superstringhe di grandezza infinitesimale pari alla lunghezza di Planck, dunque, la gravità a questa scala è simmetrica con le altre interazioni, è come dire, quasi, che il problema quantistico della gravità è praticamente risolto con l’unificazione di tutte le forze fondamentali nella supergravità. Ciò, grazie anche a valori estremi come quelli di Planck, tipici come sappiamo dei fenomeni primordiali. Oggi, comunque, la teoria delle superstringhe si chiama “M Theory” e tratta soprattutto l’interazione fra le stringhe in una sorta di Universo a più dimensioni e dominato da un’unica teoria di campo unificata. Il tutto, sostenuto da un’impalcatura matematica efficace ma in attesa spasmodica di una verifica sperimentale diretta che però, come è prevedibile, si fa attendere.

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Capitolo decimo

Una nuova teoria quantistica di campo?

Il tempo è uno strano luogo fatto di adesso, di sempre e di mai

Dopo un capitolo oggettivamente complesso ed articolato come il precedente, in cui più teorie hanno trovato punti di incontro e spazi di domanda, vorrei iniziare questo nuovo capitolo tornando al punto di partenza che ha ispirato questo libro: quell’inquietante esperienza esistenziale che è la percezione del tempo. Stiamo parlando, di nuovo, dello spietato tiranno che ci “frusta” ogni giorno della nostra vita ma che, quando non guardiamo l’orologio o non abbiamo fretta, è solo una percezione sospesa e molto vaga. Una sensazione indefinibile, presente ma estranea, di mutamento intorno a noi, di accadimenti cronologici che in gran parte non rileviamo e perciò ci lasciano quasi indifferenti. Anche se vivessimo lontano da ogni forma di civiltà e di rapporto sociale, avremmo però comunque quella sensazione dello scorrimento temporale a causa, magari, del semplice susseguirsi del giorno e della notte e dei ritmi del nostro metabolismo, quali unici strumenti di misurazione empirica. Poi, osservando meglio intorno a noi, noteremmo piccoli inattesi cambiamenti che, insieme al coinvolgimento emotivo ed al relativo stress da attenzione, ci riporterebbero velocemente alla realtà in movimento. Dettagli infiniti mutati a nostra insaputa, appunto, con il trascorrere del tempo sino ai cambiamenti radicali che coinvolgono 136

anche la nostra dimensione esistenziale, sino agli accadimenti epocali complessi e definitivi. Nel nostro caso si tratta, naturalmente, di stati di coscienza cioè di percezioni coscienti che mutano progressivamente il quadro di riferimento complessivo della nostra vita. L’invecchiamento e la morte, ad esempio, non sono solo stati di coscienza soggettivi ma eventi temporali oggettivi ovviamente molto concreti, che emergono dall’esperienza e poi la cancellano progressivamente ed irrimediabilmente. La percezione cosciente della variabile tempo, comunque, continuerebbe a manifestarsi anche senza l’aiuto della misurazione cronologica per mezzo di un segnatempo meccanico, anche se fossimo segregati in una grotta buia avremmo comunque, magari in maniera diversa ed imprecisa, tale percezione “fisiologica”. La realtà, si concretizza nella nostra capacità di riuscire ad avere una percezione cosciente della cronologia “fattuale” intorno a noi in ogni condizione possibile, anche la più proibitiva ed estrema. Tutto questo, non può non far pensare ad una sorta di interazione sensoriale, magari deformata dalla stessa fisiologia del meccanismo percettivo, con la realtà oggettiva del tempo di cui siamo parte involontaria e non senziente. Una situazione di realtà soggettiva e contemporaneamente olistica ed interconnessa, simile a quella che caratterizza la meccanica dei quanti. Il tempo, infatti, nella dimensione quantistica è simile ad un motore “in folle” che non trasmette alcuna trazione alle ruote e si trova in una situazione neutra, che precede il segnale di attivazione cronologica. Può essere assimilato in questa fase alla sovrapposizione di stati di una funzione d’onda appena prima del fatidico collasso, che darà vita ad una forma possibile di realtà definita. Facendo poi superare a questa realtà definita la dimensione dei microstati delle particelle elementari, per farla penetrare anche nella dimensione macroscopica in cui viviamo. Il tutto, con la conseguenza di una ripercussione diretta ma assolutamente mediata dalle leggi dei microstati su di noi, una ripercussione diretta in senso complessivo però non rilevabile a pieno dai nostri sensi, imprecisi e ciechi nei confronti della dimensione dei microstati quantistici. 137

Una sorta di entanglement, insomma, fra il microsistema quantistico delle particelle ed il sistema Universo, entrambi perfettamente connessi e mediati da forze e particelle in empatia energetica continua nella dimensione dello spaziotempo. È allora, che scatta “l’interruttore” della realtà, il segnale di attivazione cronologica e si verifica l’accadimento oggettivo, l’evento quantistico, ormai fuori dalla pseudorealtà probabilistica tipica della dimensione quantistica. Ciò avverrà a scansioni temporali sequenziate, ad intervalli temporali minimi successivi dell’ordine del tempo di Planck, cioè 5.39 x 10-44 secondi. Il segmento di tempo infinitesimale che impiega la luce, alla velocità di circa 1010 cm al secondo per percorrere la lunghezza di Planck, un altro dei fatidici valori estremi pari a 1.62 x 10-33 cm! Il tempo di Planck, infatti, non è altro che il “quanto di tempo” cioè la frazione temporale più piccola misurabile, che abbia un senso. Per fare un esempio, circa l’uso di questi valori estremi, possiamo affermare che l’Universo quando ebbe origine dal Big Bang, aveva un’età di 5.39 x 10-44 secondi, una massa pari a 2.17 x 10-5 gm ed una temperatura di 1.42 x 1032 gradi Kelvin. Si tratta di costanti assolute chiamate, come sappiamo, valori di Planck che quantificano l’immensamente piccolo calcolabile, delle origini primigenie del cosmo. Il tempo di Planck, in particolare, ha un’importanza notevole in relazione alla tesi che sto sviluppando, perché rappresenta la linea di demarcazione fra ciò che accade veramente e ciò che non accade, fra ciò che è e ciò che non è e, forse, non sarà mai. In pratica, rappresenta il divario fra la realtà “sospesa” della sovrapposizione di stati quantistici e la realtà “compiuta”. Il quanto di tempo, tradotto in eventi di fattispecie progressiva ed in mutamenti su scala atomica e particellare, rappresenta l’unico esempio di scorrimento temporale possibile e contemporaneamente di evoluzione fenomenologica progressiva della dimensione del reale! Quello che utilizzo come quanto di tempo nella mia teoria, è l’unità di misura temporale che scandisce la realtà trasportandola, in tempo reale, dal micromondo quantistico al macromondo in cui viviamo ignari. 138

Non esiste il tempo senza mutamenti nei microstati quantistici e non esistono tali mutamenti senza il tempo. Ma è ancora più esatto affermare, che non esiste il tempo se non si verificano collassi delle funzioni d’onda e non ci sono collassi se non si verificano interazioni e perturbazioni nei sistemi quantistici, con cadenze temporali diverse ma sempre dell’ordine minimo del tempo di Planck. Si tratta quasi di un processo simmetrico fra causa ed effetto, che si rompe spontaneamente con l’accadere cronologico del fenomeno quantistico. Il tempo è, nella mia visione, un motore di energia inarrestabile che agisce attraverso un campo diffuso in tutto l’Universo come il campo gravitazionale. Caratterizzato da particelle mediatrici di forza, cioè bosoni, in grado di trasmettere energia cinetica e momento alle particelle elementari con cui interagiscono è, in parte, ciò che fanno il campo di Higgs ed il suo bosone, conferendo la massa alle particelle dell’Universo. Il campo cronodinamico conferisce, invece, energia di moto ed energia termica che favoriscono la reazione a catena delle interazioni fra le entità quantistiche ed, inoltre, le stesse fluttuazioni del vuoto. Non è esclusa neppure l’ipotesi di inglobamento da parte dei crononi circa le altre particelle interagenti. Non solo: questa similitudine un po’ vaga con il campo di Higgs, può essere ritenuta come molto più valida in relazione al campo gravitazionale ed ai suoi fantomatici gravitoni. La gravità quantistica è un fattore di componentismo addirittura dello spaziotempo e delle sue fluttuazioni del vuoto, che originano particelle virtuali dal “nulla” (forse lo stesso Universo è nato così). A proposito del vuoto, apro una parentesi che richiudo immediatamente: il vuoto, infatti, come già detto non è affatto vuoto ma è una sorta di sovrapposizione di campi quantistici “sospesi” e di particelle virtuali che sono più propense a scomparire che ad esistere. In fisica quantistica il vuoto ed il nulla non esistono, proprio come il buon senso nella casa dei fanatici, chiusa la parentesi! Tornando ad introdurre l’argomento di questo capitolo e prima di entrare definitivamente nel contesto, vorrei ricordare ancora 139

una volta che il supremo tiranno, il tempo, possiede una precisa direzione, una caratteristica che lo mette in relazione con il calore e con l’entropia. Si tratta della famosa “freccia del tempo” che non è però semplicemente un andamento che procede dal passato al futuro ma, piuttosto, la direzione dell’aumento dell’entropia, l’aumento del disordine complesso. Ciò, a riprova delle numerosissime implicazioni quantistiche che il tempo, lungi dall’essere solo una semplice percezione soggettiva, provoca e rende condizionanti a tutti gli effetti. Lo scorrimento temporale può essere considerato, in pratica, come un moto accelerato a velocità luminare, con l’aggiunta dell’andamento erratico del “moto browniano”. Il moto casuale, cioè, di particelle sospese in un fluido come l’acqua o l’aria, un argomento che interessò moltissimo il giovane Einstein, che vi riconosceva una logica statistica piena di significati quantistici. Nel nostro caso, quel fluido non sarebbe altro che la “schiuma quantistica” dello spaziotempo ai valori di Planck. In cui, la nostra particella/onda sarebbe solo una infinitesimale perturbazione in un mare di attività in ebollizione continua, dove zigzagare senza posa sino al fatidico collasso della sua funzione d’onda. Inoltre, lo “spazio di configurazione” (cioè la dimensione matematica in cui interagiscono tra loro le onde quantistiche) di un numero elevato di queste particelle erranti, dovrebbe tener conto nei calcoli delle tre dimensioni dello spazio. La quarta, la dimensione temporale, non c’entra perché siamo nella scala della lunghezza di Planck, cioè una dimensione solo spaziale, con la conseguenza evidente di una notevole complicazione a tutti gli effetti della questione temporale.

La mia cronodinamica quantistica Tornando alla mia visione della variabile tempo, vorrei soffermarmi ancora su quel “moto accelerato cronologico” cui ho già accennato. Per farlo, però, devo necessariamente anticipare almeno in parte la mia teoria quantistica di campo, cioè la cronodinamica 140

quantistica (QCnD), che nasce in una sorta di parallelo a posteriori con l’Elettrodinamica Quantistica (QED) e la Cromodinamica Quantistica (QCD). La QED, che studia l’interazione quantistica tra la luce e la materia, cioè più precisamente fra i fotoni e gli elettroni e la QCD, che studia l’interazione quantistica fra i quark tramite lo scambio di gluoni (ricordate? Glue significa colla: la forza collante che tiene uniti i quark). I gluoni nella QCD hanno la stessa funzione che hanno i fotoni nella QED. La “mia” cronodinamica quantistica vuole, invece, studiare le interazioni quantistiche fra la materia, intesa nella sua accezione più ampia sino a quella organica e il fenomeno quantistico del collasso della funzione d’onda delle particelle elementari che determina la vera dinamica spaziotemporale dell’Universo. Una relazione che, nel caso dell’uomo, è mediata dallo stato di coscienza ma comunque è causata da un’interazione fra le particelle, capace di provocare mutamenti nella struttura atomica della materia (anche organica) e, quindi, una fenomenologia cronologica determinante e generalizzata nell’Universo, un processo che chiamiamo tempo. Una fenomenologia temporale, cioè, che catalizza mutamenti continui al ritmo infinitesimale del tempo di Planck, nella struttura profonda del mondo fisico. La cronodinamica quantistica, quindi, si pone soprattutto l’obiettivo di interpretare la realtà temporale nell’unica maniera possibile e cioè in termini di interazione quantistica fra le particelle, i campi e le quattro forze conosciute. Cioè la gravità, l’elettromagnetismo, la forza nucleare forte e quella debole, con l’aggiunta teorica di una quinta forza: l’interazione cronodinamica, appunto. Di questa ipotetica quinta forza sto mettendo a regime la formalizzazione matematica specifica con l’aiuto determinante di alcuni validi matematici appartenenti al Gruppo Autonomo di Ricerca in Fisica Teorica Ettore Majorana. A mediare l’interazione cronodinamica è una particella bosonica non ancora identificata: il cronone, cioè il quanto del campo cronodinamico, proprio come per la forza gravitazionale il bosone mediatore è il fantomatico gravitone, cioè il quanto del campo gravitazionale. 141

Il cronone è, come già accennato, un bosone cioè una particella portatrice di forza che obbedisce alla statistica di Bose-Einstein, cioè a regole statistiche che riguardano il valore intero dello spin quantistico, in altre parole il momento angolare della particella stessa. Lo spin del cronone è, infatti, intero cioè, ritengo, pari a 2 unità, inoltre, nello stesso stato quantico possono esistere molti crononi identici ma non si conservano e vengono assorbiti dagli atomi. Sono quanti di pura energia cronocinetica o cronodinamica e trasportano questa energia di interazione nell’Universo, le loro “presunte” caratteristiche quantistiche possono essere riassunte con buona probabilità come sto per fare. Il cronone dovrebbe essere privo sia di massa che di carica elettrica, essere una particella stabile con un tempo di dimezzamento infinito (è il tempo del decadimento della metà dei nuclei radioattivi di un materiale). Inoltre, potrei definire il cronone come una particella “tensoriale” associata ad un campo tensoriale, cioè un campo che è definito esattamente in ogni suo punto da un tensore. Cos’è un tensore? Sicuramente un concetto matematico astratto fatto di coordinate, un’equazione tensoriale è valida in qualsiasi insieme di coordinate come si accorse Einstein, applicando tali equazioni alla sua teoria della relatività generale. Un tensore, è un metodo di controllo puntuale circa il tasso di variazione, ad esempio, dell’accelerazione in ogni punto del campo. Questo aspetto riguardante il tensore è importante e mi ha causato vari grattacapi nel cercare di definire la natura quantistica del cronone. Il problema riguardava proprio la natura del campo cronodinamico, se fosse stato cioè tensoriale o scalare, sono stato infatti in una grave empasse e per questa ragione ho ipotizzato lo spin intero del cronone sia come 2 che come 0. Schematizzando al massimo, possiamo affermare che un campo scalare è rappresentato da un singolo valore numerico ed una particella scalare ha spin uguale a 0. Un campo vettoriale è rappresentato, invece, da una serie di valori numerici mentre un campo tensoriale è simile ad una “matrice” ed è rappresentato da una griglia bidimensionale di valori (vedi la meccanica delle 142

matrici di Heisenberg). Con la differenza che l’equazione tensoriale è valida, come già accennato, in ogni sistema di coordinate, inoltre, una particella tensoriale, come ad esempio il gravitone, ha spin 2. Detto questo, dunque, il cronone a quale famiglia ristretta apparterrebbe? Ritengo ormai di poter propendere, in base alla concezione spiccatamente olistica e condizionante nella dimensione dello spaziotempo da parte della cronodinamica quantistica, per il campo tensoriale e quindi per la particella tensoriale con spin 2. Tra le mie considerazioni, ha pesato sicuramente anche quella relativa alla difficoltà di individuare un campo scalare e per il fatto che un campo scalare uniforme non ha praticamente effetto su ciò che lo circonda. Una caratteristica in assoluto contrasto con la natura probabile del campo cronodinamico capace, invece, di interagire e di catalizzare tutto ciò che lo circonda e con cui reagisce entro un raggio d’azione infinito! Inoltre, i crononi vengono emessi e riassorbiti dalle particelle fermioniche (la materia), che senza di loro non potrebbero interagire. I fermioni, è il caso di ricordarlo, obbediscono alla statistica di Fermi-Dirac, cioè quella riservata alle particelle con spin semintero (1/2) ed, inoltre, per il principio di esclusione di Pauli non possono esserci due fermioni identici nello stesso stato quantistico, devono avere almeno gli spin invertiti. L’interazione cronodinamica, l’ho già detto, è dotata di un raggio di azione praticamente infinito (infatti lo spin del cronone è 2) ed agisce sull’energia cinetica che conferisce ad ogni particella elementare, provocando una progressione cronologica dello stato quantistico, agli intervalli minimi del tempo di Planck. Cioè, il ritmo del mutamento relativo al fenomeno dello scorrimento temporale dei fenomeni quantistici, al di sotto di questa scansione minimale non c’è scorrimento ed il tempo (forse) si arresta addirittura! Ultimamente, ho citato spesso in modo generico in queste pagine lo spin e credo, quindi, che sia il caso di spiegare meglio il senso di questa tipica caratteristica quantistica fondamentale. In fisica classica, lo spin viene definito come la semplice rotazione 143

di una particella. In fisica quantistica tutto si complica e quello che era un movimento rotatorio, un semplice momento angolare, diventa una grandezza quantizzata in multipli di un’unità, che equivale alla metà della costante di Planck, cioè ½ ħ, lo spin è un tipico concetto quantistico, controintuivo e bizzarro. Un fermione, ad esempio, con spin semintero, se ruota su se stesso di 360° non torna mai al punto di partenza, per farlo deve ruotare di 720°, cioè fare due giri completi anziché uno. Il fermione, ad ogni rotazione vedrà, anzi si troverà, in un luogo diverso! Anche un elettrone che ruota intorno al nucleo atomico, ha spin quantizzato in due stati fondamentali: spin up e spin down, per ognuno dei livelli energetici disponibili intorno al nucleo (le sue orbite). Ricordate il principio di esclusione di Pauli, per cui il fisico austriaco ebbe il Nobel nel 1945? Secondo Pauli, due elettroni uguali non possono occupare lo stesso orbitale intorno al nucleo, a meno che non abbiano almeno gli spin invertiti: uno up verso l’altro, l’altro down verso il basso. In definitiva, comunque, lo spin serve soprattutto a localizzare la relativa particella nel panorama quantistico e, come abbiamo potuto capire, non è un concetto affatto semplice perché si tratta soprattutto di una differenziazione funzionale. Continuando ad ipotizzare sulle caratteristiche “probabili” dei crononi – ma non dimentichiamo che da anni non facciamo altro che ipotizzare su quelle dei gravitoni, dei bosoni di Higgs e di tante altre particelle esotiche – ebbene, approfondiamo ancora alcuni altri importanti aspetti identificativi del bosone cronodinamico per supportare ulteriormente la mia tesi e la relativa teoria quantistica di campo. L’aspetto forse più importante di questo bosone dalle caratteristiche affatto comuni, risiede nella sua capacità di agire su tutti i tipi di particelle elementari ma, in particolare, sui quark che compongono i protoni ed i neutroni. Cioè, la materia nella sua natura più intima, nella sua essenza recondita, provocandone un mutamento energetico con enormi ripercussioni anche nella dimensione macroscopica. Nell’Universo accade probabilmente a 144

ciclo continuo, che una parte della massa delle particelle venga convertita in energia cinetica, conferendo loro un moto accelerato luminare in grado di mettere in campo una miriade di interazioni. In pratica, è una delle cause primarie delle fluttuazioni quantistiche, fonti inesauribili di attimi di vita virtuale. L’apparizione, cioè, dal “nulla” di particelle energetiche dalla vita brevissima grazie anche all’indeterminatezza quantistica, che rende l’incertezza una caratteristica palpabile e “certa”, tanto da farne quasi un valore aggiunto nell’immensità del cosmo. Esistono coppie di parametri, le cosiddette “variabili coniugate”, come ad esempio l’energia e il tempo oppure la posizione e la velocità, che non permettono di avere un valore determinato contemporaneamente per entrambe le variabili (vedi principio di indeterminazione di Heisenberg). Più è preciso uno dei valori meno lo è l’altro e la causa risiede, oltre che nella dualità onda/particella, soprattutto, nella “divina” indeterminazione quantistica e nella sua natura probabilistica, dove la nostra affannosa ricerca di certezze è solo una chimera scientifica.

La strana coppia Prendiamo in esame per un attimo la coppia di parametri energia e tempo, che è la più producente rispetto alla mia teoria quantistica di campo. Si tratta di due variabili coniugate in una modalità molto più stretta di quanto non si possa pensare, infatti, la loro incertezza nei valori può originare addirittura delle particelle virtuali. Ne abbiamo già parlato ma ora che i nodi stanno finalmente venendo al pettine, è necessario spiegare meglio cos’è una particella virtuale: è il prodotto intermedio, per un tempo brevissimo, di un fenomeno di trasformazione di particelle reali. Ancora, è il decadimento di una particella elementare che dà origine alla particella virtuale in un contesto di altissima energia. L’esempio classico di particelle virtuali, è quello prodotto dalle fluttuazioni quantistiche del vuoto, di cui ci siamo già occupati, un altro esempio significativo 145

è quello dell’elettrone che interagisce con un neutrino ed emette una particella W- virtuale (le particelle reali W-,W+, e Z mediano l’interazione debole). Questa particella “debole” e virtuale viene assorbita immediatamente dal neutrino stesso, idem per i fotoni scambiati da particelle virtuali, sono infatti anch’essi virtuali. Un fotone virtuale è un pacchetto di energia che scaturisce dal vuoto e può vivere intorno ai 10-14 secondi, come dire, che trae energia dal vuoto per restituirla immediatamente. Un fotone reale nasce, invece, da un processo fisico reale e non è debitore di energia, la sua prospettiva anzi è una vita praticamente infinita. In definitiva, ogni particella reale può dirsi circondata da una miriade di particelle virtuali, che vengono “attivate” in emissione o in assorbimento dalle particelle reali che le hanno prodotte. Più la particella virtuale è massiva ed energetica, più brevi saranno la sua vita ed il raggio di azione entro cui spingersi. Questa è la relazione che sussiste fra le variabili coniugate energia/ tempo: ad una maggiore massa/energia corrisponde un tempo brevissimo, tanto da rendere la particella virtuale nell’impossibilità di essere anche solo osservata. Usando un eufemismo elegante, diremmo che tutto si conclude in un batter d’occhio ma non funziona così, perché la vita della particella è incredibilmente più breve. Inoltre, non dimentichiamo che la massa di una particella elementare dipende dalla sua velocità, secondo la formula:

in cui υ è la sua velocità, c la velocità della luce ed E la sua energia totale, mentre l’energia di una particella è data dalla somma dell’energia della sua massa a riposo e dell’energia cinetica. Tale relazione varia in funzione delle altissime o delle basse energie, nel primo caso: m0 < Ek, nel secondo: m0 > Ek, alle altissime energie tutto assume una forma “primordiale” di equivalenza 146

generalizzata, i bosoni si scambiano i ruoli e le simmetrie trionfano. È evidente, comunque, la relazione che esiste fra velocità, energia cinetica e tempo, cioè stiamo parlando in pratica proprio del quanto del campo cronodinamico: il cronone. Questo bosone ancora “inesistente” conferisce l’energia cronocinetica, vera catalizzatrice della realtà delle particelle, sia in forma reale che virtuale, a questo punto, però, è un po’ come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina. Cioè, se è il tempo a provocare la sequenza continua di stati quantistici a seguito dei collassi delle funzioni d’onda, oppure se sono i collassi, unici spartiacque fra la realtà e l’ipotesi, a provocare la sequenza temporale. In questo caso credo, come ho già accennato, che esista una forma di simmetria temporale perfetta fra causa ed effetto e se pensiamo che in fisica quantistica spesso l’effetto precede la causa, allora non dobbiamo stupirci di nulla. È la conversione continua della massa delle particelle in energia cronodinamica a far presupporre gli effetti prodotti da quella che nella fisica classica si chiama energia cinetica ed in quella quantistica, potrebbe chiamarsi cronocinetica o cronodinamica. Effetti clamorosi, che vanno dalle oscillazioni e dai mutamenti quantistici, come quelli dei neutrini, alle trasmutazioni come quella dell’uranio, che bombardato con elettroni diventa plutonio e, ancora, sino alle transizioni di fase con emissione o assorbimento di energia ed, in definitiva, sino a tutta una serie infinita di “attivazioni” quantistiche che hanno portato l’Universo ad essere ciò che è. Il tutto, per dare vita alla grande danza cosmica delle forze e delle particelle nella sequenza inarrestabile della realtà, quella realtà “autentica” che si manifesta in tutto il cosmo e che osserviamo anche noi ogni giorno, in forma di accadimenti e mutamenti progressivi anche di tipo biologico. Questo è, con ogni probabilità, ciò che noi chiamiamo inconsapevolmente il tempo ed il suo trascorrere direzionale inarrestabile. Naturalmente, questo concetto strettamente legato all’entropia non ha alcuna relazione con il tempo degli strumenti meccanici, né con quello dei comuni orologi che utilizziamo per conferire ordine e ritmo, ma non la felicità, alla nostra vita. 147

Questo concetto temporale entropico potrebbe, forse, avere qualche affinità con un precisissimo, incredibile, strumento di scansione temporale come “l’orologio maser a idrogeno” (analogo al laser, il maser produce un fascio di microonde, in emissione stimolata di radiazioni da atomi eccitati). Dotato di un livello di precisione addirittura pari all’errore di un secondo ogni 200 milioni di anni! Non esprime semplicemente un tempo meccanico convenzionale computabile, ma direi, quasi, il respiro profondo e ritmico della natura e registra, in pratica, la stima statistica di una grandezza cronologica infinitesimale, che possiede una notevole affinità con i valori esotici della funzione cronodinamica. Il tempo, lo ribadisco, è un concetto entropico legato a processi cosmici di trasformazione continua e connesso con l’entropia del disordine complesso in continua progressione ad ogni livello di grandezza. Una connessione entropica progressiva, cioè legata anche all’abbassamento della temperatura del cosmo e ad ogni evento quantistico su scala universale. L’ipotesi guida è che nel cosmo e al ritmo del tempo di Planck, avvenga in un numero infinitesimale di fenomeni quantistici, un numero infinitesimale di collassi delle funzioni d’onda, senza alcun sincronismo fra loro. Cioè, lampi continui di realtà cronologica e materica che anche noi, al nostro livello dimensionale ed organico, riusciamo a percepire seppure in maniera confusa. Basta guardare una vecchia foto di famiglia per capire che il tempo, non solo esiste, ma trascorre con un’inarrestabile sequenza di mutamenti di ogni genere nella nostra storia ed anche in quella di ogni particella elementare. La differenza fra questi due mondi, è sancita dalla lunghezza di Planck, uno dei valori estremi in natura che ci separano dal mondo dei quanti. Questa soglia critica dimensionale ed assoluta è pari, come ricorderete, a 1.62 x 10-33 cm per lo spazio e pari a 5.39 x 10-44 secondi per il tempo, oltre e più giù non si può andare ed a mala pena, forse, si potrebbe tornare! Al di sopra, a varie spanne di lunghezza, ci siamo praticamente noi e la nostra realtà percepita, al di sotto c’è il magma quantistico delle forze e delle particelle 148

che ballano la tragica danza di Shiva, l’eterna danza di creazione e di distruzione del creato. Non vorrei rischiare di essere troppo “lirico” in questa fase, ma è un fatto, che spesso la stessa complessa matematica necessaria per descrivere tanta bellezza è elegante. Raffinata al punto giusto e quasi lirica, appunto, e gli addetti ai lavori lo percepiscono traendone auspicio per concludere che, forse, sono finalmente sulla strada giusta. Quando parlavo precedentemente delle mie difficoltà di formalizzazione matematica relative alla teoria di campo cronodinamica, mi riferivo soprattutto a problemi inerenti la “topologia algebrica”. Cioè un’algebra che definirei come “non cartesiana” e non legata ai concetti spaziotemporali relativistici. Un tipo di formalizzazione abbastanza “invariante e simmetrico-commutativa” che, a causa del ricalcolo con riferimenti diversi, porta inevitabilmente alla malaugurata comparsa degli infiniti. Per la cronaca, qualche passo in avanti, comunque, sono riuscito a farlo grazie all’utilizzo dell’operatore hamiltoniano H, che è dato nel mio caso dalla somma dell’energia cinetica stimata, conferita dal cronone alle particelle e dall’energia potenziale delle particelle interessate dal campo cronodinamico, in un “brodo” di equazioni differenziali relative al momento p (p = mv). Anche l’ipotesi della funzione di Lagrange L, è stata percorsa con il relativo “integrale sui cammini”, più versatile sicuramente ma anch’essa zeppa di infiniti! Detto questo, ma solo per i più esperti, andiamo oltre perché la strada da percorrere si prospetta ancora complessa.

La particella di un dio minore Abbiamo già parlato di quello che è successo al CERN di Ginevra nel luglio del 2012. Fabiola Gianotti, responsabile dell’esperimento ATLAS, ha annunciato ufficialmente in una grande sala gremita di ospiti che il fantomatico bosone ipotizzato da Peter Higgs, era ormai una realtà scientifica osservata. Negli scontri ad 149

alta energia fra protoni, all’interno dell’anello circolare dell’LHC, capace di raggiungere livelli energetici pari a 7 TeV (teraelettronvolt), si era manifestato qualcosa di nuovo ma di molto atteso. La potenza utilizzata, di un’intensità senza precedenti, era stata capace addirittura di “mimare” uno scenario di energie d’urto e di scambio simile a quanto accadde circa 15 miliardi di anni fa agli albori dell’Universo. La potenza in questi esperimenti è fondamentale perché alle altissime energie l’energia cinetica impressa alle particelle, che mi interessa particolarmente ai fini della mia teoria quantistica di campo, supera enormemente la loro energia di massa. Rendendola insignificante ai fini dei calcoli e, quindi, semplificando sensibilmente il tutto e diventando la vera protagonista dinamica del processo. A questo proposito, non posso fare a meno dall’esimermi dal fare ancora una volta il guasta feste in ragione di una riflessione che, come si suol dire, mi è sorta spontanea da tempo: mi sono spesso chiesto e continuo a chiedermelo, infatti, perché ci si ostini a costruire potenti acceleratori di particelle circolari anziché lineari. Forse, per una banale ragione di spazio? È probabilmente l’unica spiegazione plausibile ma, a mio avviso, non è sufficiente. Negli acceleratori, fasci di particelle lanciati quasi alla velocità della luce si scontrano con altri fasci che provengono dalla direzione opposta, l’urto terribile li rallenta e la loro energia cinetica si converte in altre particelle completamente nuove e figlie dell’energia cinetica liberata. Ebbene, negli acceleratori circolari e non invece lineari, come lo SLAC di Stanford, i flussi energetici si “sporcano” a causa di una copiosa dispersione di raggi X emessi dagli elettroni, con conseguente detrimento dell’energia del fascio. Si tratta di una vera e propria radiazione parassita molto pericolosa, che limita la potenza erogabile e che non si tramuta in energia cinetica per le particelle che vengono accelerate. In pratica, accade che l’elettrone viaggiando all’interno delle linee di forza del campo magnetico generato, viene accelerato ed avrà la tendenza a ruotare emettendo raggi X e fotoni. 150

È la curvatura stessa dell’acceleratore a provocare il fenomeno, a causa della resistenza dinamica subita dalle particelle velocissime in curvatura continua. Questa pioggia parassita di raggi X e fotoni è definita come “radiazione di sincrotrone” ed è una radiazione poco rilevabile perché non termica. Negli acceleratori lineari, dove il tunnel è rettilineo, questa “sporcizia energetica” non verrebbe prodotta e tutto il potenziale dell’apparato verrebbe sfruttato con risultati molto più efficaci. Sinceramente, non so cosa dire in proposito, anche perché il più potente acceleratore di particelle del mondo, quello su cui si ripongono le maggiori speranze della comunità scientifica internazionale, è circolare e spreca in parte la sua potenza inutilmente. Comunque sia, torniamo con questo interrogativo irrisolto al titolo del nostro paragrafo, dedicato alla particella di Dio ed a quella di un dio minore. Come, forse, avrete capito la particella di Dio è evidentemente il bosone di Higgs, quella di un dio minore, naturalmente, il non ancora individuato cronone. Ho scelto Higgs, perché vorrei comparare i due bosoni, l’uno appena scoperto l’altro ancora da scoprire, ma simili tra loro almeno sotto alcuni aspetti teorici. Entrambi mediatori tramite i rispettivi campi di forze fondamentali per l’assetto strutturale dell’Universo intero un po’ come accade, fatti gli opportuni distinguo, anche per la gravità e il suo gravitone. Si può affermare, infatti, che il campo di Higgs, quello gravitazionale e quello cronodinamico, pur con le dovute notevoli differenziazioni che, però, nel caso della gravità e della forza cronodinamica sono molto più attenuate, sono complessivamente dotati di una capacità energetica aggregante che va oltre la semplice mediazione di forza. Per capire la loro funzione di generatori privilegiati di scenari quantistici molto generalizzati e, direi quasi, funzionali rispetto all’assetto generale del cosmo, basta ricordare la funzione complessiva della gravità sulle dinamiche dello spaziotempo. Inoltre, ricordare la funzione altrettanto generalizzata del campo di Higgs sulla massività delle particelle ed infine, la funzione totalizzante della forza cronodinamica nel provocare gli scorrimenti 151

fenomenologici e temporali continui delle entità quantistiche. La “creatura” di Peter Higgs, è un bosone scalare che conferisce la massa tramite il suo campo, senza di esso il mondo delle particelle sarebbe banale, piatto ed uniforme, privo di differenziazioni relative alla massa, all’energia, alla velocità ed alla durata. Ma l’aspetto più notevole della particella di Dio, è il suo contributo all’energia dell’Universo e l’energia in fisica quantistica è come l’impulso vitale in un organismo vivente. Alle alte temperature primordiali del cosmo, il campo di Higgs non conferiva nessuna massa ma con l’abbassarsi progressivo della temperatura e la tendenza naturale del cosmo ad attestarsi su livelli di minima energia il fenomeno massivo puntualmente si verifica e il minimo dell’energia viene raggiunto quando il valore del campo è diverso da zero. È allora, che le particelle interagendo con esso acquistano la massa, quelle stesse particelle che interagendo, invece, con il campo cronodinamico trasformano parte di questa massa in energia cinetica, che possiamo definire anche come “cronocinetica”. Il campo cronodinamico, però, è un campo tensoriale e non scalare come quello di Higgs, per cui i raffronti fra i due, direi, che possono finire qui. Inoltre, il campo cronodinamico è diffuso in tutto l’Universo e conferisce caratteristiche di alto dinamismo a tutte le entità quantistiche, provocando vere e proprie fluttuazioni energetiche generalizzate di tipo cronocinetico, appunto. È lo scorrere continuo dei microeventi in forma di fattispecie progressiva intorno a noi e dentro di noi, anche se i nostri sensi si limitano ad uno sguardo distratto all’orologio che portiamo al polso! La prova provata, che l’energia non è solo un motore ma anche un fattore di ampia capacità di catalizzazione per le forze e le particelle, risulta evidente considerando quanto i suoi valori siano determinanti in varie occasioni. Con un’energia di scambio intorno ai 103 GeV si ottiene l’unificazione elettrodebole, mentre con un’energia di circa 1014 GeV, addirittura, l’unificazione delle tre forze previste dal Modello Standard. Per la gravitazione ci vorrebbero almeno 1020 GeV ed una potenza molto simile, ma più elevata, 152

per la forza cronodinamica, in tal caso si avrebbe una simmetria ipotetica perfetta fra tutte le forze della natura cioè si verificherebbe una condizione simile ad un nuovo, ipotetico, inizio di Tutto!

Il cronone: la particella che non c’era Mi sembra giunto il momento a questo punto, di redigere una breve carta di identità del fantomatico cronone, che come il bosone di Higgs fino a poco tempo fa ed il gravitone, ancora oggi, non c’era ma doveva esserci da qualche parte, per avere un Modello Standard della fisica finalmente completo (o quasi). Il cronone, dunque, presentiamolo ufficialmente, ha come simbolo C, come antiparticella se stesso, carica elettrica pari a 0, spin 2, massa 0, tipo di interazione cronocinetica, raggio di azione infinito. Quando, forse fra due anni, l’LHC di Ginevra raggiungerà una potenza pari a 14 TeV (Teraelettronvolt), ci avvicineremo molto all’obbiettivo di identificare questo bosone tensoriale (come il gravitone) di cui stiamo elencando le caratteristiche ipotetiche. Circa il suo spin, preciso, che l’ho indicato come pari a 2 unità poiché, tra l’altro, presumibilmente il cronone può decadere in due fotoni. Un esempio di carica cronocinetica molto energica, è offerto dai quark, la parte più intima della materia, all’interno di un protone, infatti, i tre quark tenuti insieme dai gluoni, oscillano come indemoniati e sono perciò ricchi di energia cinetica che contribuisce abbondantemente a fornire la massa al protone stesso. Questo, in pratica, è una sorta di esempio “in vitro” del meccanismo cronodinamico e può essere riassunto nella formula m = E/ c2, cioè la famosa formula di Einstein in cui abbiamo un’energia a riposo associata ad una massa a riposo: E = mc2. Inoltre, poiché l’energia cinetica è: Ek = mv2/2, in cui v2 è la velocità al quadrato (non della luce), si potrebbe scrivere anche Ek = mc2/2 trasportando cioè il tutto sul piano relativistico? Non è possibile, per farlo bisogna scrivere Ek = (m – m°) c2, tenendo conto della differenza fondamentale fra massa accelerata e massa a riposo. In definitiva, 153

il concetto di energia in meccanica quantistica, sia essa cinetica, nucleare, di punto 0, a riposo, di legame, atomica, potenziale, ecc. è un concetto composito, multiforme e non semplicemente la capacità di compiere un generico quanto indeterminato e banale tipo di “lavoro”, come è scritto nei libri scolastici di fisica. L’energia, sorella gemella della massa e sua conversione, possiede in fisica quantistica un’eziologia molto più complessa, che spesso travalica i contesti specifici in cui si svolgono certi fenomeni. L’energia è una grande trasformista, che passa per ragioni diverse da una forma all’altra in relazione agli ambiti ed alle specializzazioni più diverse in cui si manifesta e di cui assume, di volta in volta, le sembianze: energia meccanica, termica, elettrica, e così via. Nella realtà dei quanti il fenomeno è particolarmente frequente. Ecco, dunque, che un concetto tipicamente astratto come l’energia diventa quasi materico, in forma concreta e multiforme a seconda delle circostanze e della fenomenologia quantistica. Circa l’origine dell’energia, invece, c’è ben poco da speculare perché in questo meraviglioso Universo, è la materia stessa con le sue evoluzioni relativistiche. L’energia è un’osservabile, cioè una delle quantità che possono descrivere un sistema fisico, attraverso il collegamento fra gli stati di quel sistema e le loro variabili. Insomma, l’energia è una funzione di stato del sistema che, se è isolato, è costante nel tempo mentre sia lo stato stesso che le sue variabili mutano, è il tempo quindi l’eterno tiranno alias l’energia cronocinetica, a condizionare l’evoluzione e le caratteristiche del sistema. In pratica, si potrebbe scrivere ipoteticamente: Eck = f [xi (t)] Si tratta di un’equazione di stato in cui Eck è l’energia cronocinetica e xi(t) la variazione delle osservabili in funzione del tempo. Naturalmente, l’energia cronocinetica può trasformarsi in funzione delle dinamiche quantistiche in un diverso tipo di energia, ad esempio in energia termica o di altro genere nella realtà dei quanti. Anche i prodotti della fissione nucleare sviluppano energia 154

cinetica ma è soprattutto l’energia potenziale, quella che dipende dalla posizione, dalla forma o dallo stato di un sistema e che è strettamente legata all’energia cinetica nell’essere parte integrante di un trasformismo energetico reale, ad essere una chiave di lettura primaria. È l’energia potenziale, dunque, ad essere fondamentale in vari contesti, come energia potenziale gravitazionale, elettrostatica, magnetica, chimica, raggiante, interna e libera, per poi trasformarsi in varie forme cronocinetiche o cronodinamiche. Tutto ciò, a riprova della funzione olistica che le due tipologie di energia meccanica (cinetica e potenziale, legate dalla legge di conservazione dell’energia), svolgono nell’inarrestabile danza cronodinamica dell’Universo. Per quanto riguarda infine l’energia termica, essa non è altro che un moto di agitazione termica degli atomi e delle molecole che compongono la materia, quindi, è evidente che siamo sempre nella dimensione cinetica e cronocinetica dell’energia.

Un motore universale Sotto il profilo meramente meccanico, per energia si intende l’energia cinetica e quella potenziale: la prima, come già accennato, proporzionale alla massa ed al quadrato della velocità, la seconda proporzionale al prodotto della massa per l’altezza dal suolo del corpo in esame. La prima dipende dalla velocità, la seconda dalla posizione e la loro somma costante costituisce il senso stesso del principio di conservazione dell’energia (primo principio della termodinamica). Mi sembra abbastanza credibile, che la loro funzione sia riconoscibile nell’ipotetico campo cronodinamico, su cui si basa la mia teoria quantistica di campo, la quale può contare su un bosone mediatore di forza, quale il cronone, messaggero della forza cronocinetica in tutto il vasto Universo. Una forza capace di convertire la massa delle particelle elementari in energia cronocinetica, attivando così una sorta di motore universale inarrestabile di interazioni, che si manifestano in una realtà 155

“meccanico cronologica” progressiva, che noi umani chiamiamo tempo e la fisica quantistica, per ora, fluttuazioni quantistiche. Anche la cosmologia quantistica può essere vista in quest’ottica cronodinamica, facciamolo con attenzione partendo da quando il cosmo aveva un volume pari a quello di un atomo e la grande inflazione dello spaziotempo (se c’è stata veramente) non era ancora iniziata. Un fenomeno in cui la forza cronocinetica si espresse al meglio, con una straordinaria violenza che portò in circa un millesimo di secondo, il cosmo ad essere una piccolissima parodia dell’Universo odierno. Successivamente ed in sequenza, l’inflazione portò la geometria dell’Universo ad espandersi ulteriormente e, forse, anche alla formazione di vari universi in accordo con la teoria accreditata del “multiverso”. Secondo cui, oltre al “nostro”, esisterebbero altri universi paralleli come componenti di un insieme molto più vasto ed onnicomprensivo di quello che conosciamo. Nel lasso di tempo che passò dal tempo di Planck cioè 10-43 secondi dal Big Bang, a 10-4 secondi, l’Universo si era intanto espanso sino ad assumere le dimensioni odierne del sistema solare. La temperatura, scesa sino a circa 1010 gradi Kelvin, permetteva finalmente una certa stabilità della materia, inoltre, le triplette di quark erano intente a dare origine ai protoni ed ai neutroni, cioè le componenti nucleari dei primi nuclei atomici. Subito dopo, fecero la loro comparsa anche gli elettroni per formare veri e propri atomi: la materia era ormai leader assoluta sia sull’antimateria che sull’energia. A 3 secondi dal Big Bang, era già presente quasi tutta la materia che osserviamo, nata dalla fusione nucleare degli elementi provocata nelle stelle in formazione. Appena dopo, ad una temperatura di soli 3 gradi Kelvin, i fotoni interagivano sempre meno con la materia per sfrecciare alla velocità della luce in ogni direzione dell’Universo, che diventava così limpido e trasparente. Era il momento della cosiddetta “radiazione fossile” a 3 Kelvin, che gli astrofisici studiano da tempo per carpire al cosmo i suoi segreti ancestrali ed il suo futuro incerto. Solo un “attimo” 156

dopo, circa 12 miliardi di anni fa, si formavano le galassie ed il loro prodotto più prezioso: le stelle. Il nostro Sole e la Terra iniziarono la loro storia circa 5 miliardi di anni fa e la vita “piovve” dalla polvere proveniente dalle stelle, dopo circa un altro miliardo e mezzo di anni, noi ominidi, arrivammo naturalmente in ritardo e di pessimo umore! Oggi, l’espansione dell’Universo continua in forma accelerata ma ad aumentare è soprattutto lo spaziotempo più che la materia ed a spingere in questo senso è l’energia oscura, con la sua gravità negativa che prevale sulla forza di gravità positiva. Il resto, a mio avviso, trova la sua ragione di essere nell’energia cronodinamica cioè quella forza cronocinetica, mediata dai crononi, che caratterizza la mia teoria quantistica di campo relativa alla natura del tempo e che rende possibile lo scorrimento temporale, con l’evolversi continuo della fenomenologia delle entità quantistiche.

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Capitolo undicesimo

Oscure presenze

Se l’eternità avesse un nome si chiamerebbe sempre se il tempo avesse un nome si chiamerebbe adesso

Abbiamo già accennato alla materia oscura e alla sua altrettanto oscura energia, ora però, in quanto argomento ed origine della mia teoria di campo, ne parlerò più diffusamente e con l’intenzione di trasportare il lettore nel mio ipotetico mondo della cronodinamica quantistica. La materia oscura, presente come una sorta di alone intorno alle galassie, costituisce praticamente una buona parte dell’Universo che non vediamo e che forma quasi tutta la materia non barionica, cioè quella che si contrappone alla materia “luminosa” che conosciamo. Poiché non possiamo vederla, la materia oscura tradisce la sua presenza, molto rilevante, con l’azione gravitazionale “negativa” che esercita sulla materia barionica (formata da barioni: protoni e neutroni) cioè le galassie e le stelle. Anche se, in realtà, non interagisce direttamente con la materia comune, fa sentire comunque i suoi effetti fortemente condizionanti. L’energia oscura, anch’essa molto presente nelle galassie e nello spazio intergalattico è, come già affermato, pari addirittura al 73% di tutto ciò che costituisce il cosmo, ciò significa che in pratica dell’Universo sappiamo pochissimo e solo in relazione a ciò che siamo in grado di vedere. Le “oscure presenze”, però, incombono 158

e dobbiamo deciderci ad indentificarle con precisione per capire meglio la natura stessa del grande sconosciuto: l’Universo. Per alcuni fisici, non riuscendo a spiegarsi l’ammontare della massa totale del cosmo in termini di particelle conosciute, sarebbero i neutrini dotati di piccolissima massa, a dare un contributo in questo senso ma questa teoria lascia perplessi e non basta sicuramente quale spiegazione convincente. Come non basta parlare delle cosiddette Wimp, di cui ci siamo già occupati, definite anche come materia oscura “fredda” non in grado di raggiungere un moto sostenuto, mentre la materia oscura “calda” sarebbe capace di raggiungere quasi la velocità della luce. Anche le Wimp, comunque, non sono abbastanza massive ed inoltre quasi incapaci di interagire con al materia e la luce, e allora? Allora, c’è bisogno di qualcos’altro, qualcosa in grado di interagire con tutto ciò che si trova nel cosmo, qualcosa che ritengo non possano essere certo i crononi, portatori dell’interazione cronocinetica ed ubiqui nel cosmo ma totalmente privi di massa. Circa l’energia oscura, invece, l’ipotesi teorica potrebbe essere diversa: e se fosse formata anche da energia cronodinamica? Non abbiamo ancora alcuna prova evidente di tutto ciò e bisognerà probabilmente sfoderare la stessa granitica pazienza di Peter Higgs in attesa di futuri, probabili sviluppi negli acceleratori ad alta energia, oppure nell’osservazione potenziata del cosmo. Per ora, con tutto il rispetto dovuto ad Albert Einstein, eviterei di resuscitare altri espedienti matematici come la famosa costante cosmologica, per spiegare l’espansione accelerata dell’Universo e la prevalenza della forza repulsiva su quella attrattiva. È l’energia oscura e non la sua materia oscura, comunque, a contrastare la gravità ed a scatenare l’energia cinetica nella corsa verso gli spazi esterni del cosmo. Non ci resta, probabilmente, che aspettare il 2020, quando la sonda della NASA “WFIRST” partirà alla caccia della natura misteriosa dell’energia oscura e della sua decisiva azione sulla massa degli astri e delle stelle. Non a caso, la forza repulsiva esercitata dall’energia oscura è stata definita come “quinta forza” ed, a mio avviso, potrebbe addirittura essere 159

proprio la forza cronodinamica ma forse mi sto facendo prendere troppo dall’entusiasmo!

Il vuoto ha fatto il pieno Un’altra pista promettente da seguire, per dare ulteriore impulso alla mia teoria quantistica di campo, è quella che riguarda un’altra oscura presenza nel cosmo: il vuoto. In meccanica quantistica, l’ho già accennato, il vuoto non è il nulla ma qualcosa che possiede una sua energia ed è definito da una equazione di stato, in grado di descriverne la natura ed il comportamento sotto il profilo dinamico. Ebbene, l’equazione di stato del vuoto è praticamente uguale all’equazione di stato della materia oscura: energia oscura ed energia del vuoto sono la stessa cosa? Non sembrerebbe, perché la densità energetica del vuoto è infinitamente superiore a quella dell’energia oscura, ma un nesso profondo fra le due deve pur esserci, qualcosa che metta sullo stesso piano originario le due energie ed i due tipi di materia. Iniziando dal vuoto, che conosciamo meglio, esso è in pratica una sovrapposizione di stati di vari campi quantistici, con una girandola di particelle virtuali che vanno e vengono incessantemente a causa delle fluttuazioni quantistiche. Nel vuoto, si verifica un fenomeno che somiglia ad una sorta di moto perpetuo delle particelle e delle onde, ad esempio, quelle elettromagnetiche e gravitazionali ed aggiungerei anche quelle cronodinamiche. Queste fluttuazioni del vuoto, sono provocate da un continuo andirivieni di energia che viene prestata e restituita ininterrottamente ed in maniera aleatoria e sono praticamente inarrestabili. Ciò provoca l’esistenza di zone ad energia positiva ed altre ad energia negativa che, però, secondo le leggi della fisica devono reintegrarla assorbendo da zone vicine l’energia positiva. È questo traffico energetico ad alimentare le fluttuazioni del vuoto delle onde elettromagnetiche, gravitazionali e cronodinamiche, tutte relativamente deboli ed imprevedibili. 160

Si tratterebbe, in pratica, di un fenomeno cronocinetico che può essere paragonato al cosiddetto “movimento claustrofobico degenere” degli elettroni, quando vengono confinati in uno spazio ristretto. Per quanto si tenti di arrestare il loro movimento caotico e irrefrenabile, gli elettroni continuano nella loro danza secondo una dinamica e manifestando un’energia cinetica sorprendente e tipicamente quantistica. I bosoni mediatori di forza in questione, potrebbero essere i crononi e la forza quella cronocinetica, capace di far agitare gli elettroni nel loro moto degenere ed imprevedibile. La stessa cosa deve avvenire nel caso delle fluttuazioni gravitazionali del vuoto, che sono vere e proprie fluttuazioni della curvatura dello spaziotempo, capaci di verificarsi anche quando lo spaziotempo è completamente vuoto e questo potrebbe essere l’effetto cronodinamico esercitato sulla geometria dello spaziotempo. Cioè, su quello sfondo dinamico e vitale, non certo statico ed estraneo alle vicende quantistiche del cosmo ed ai suoi tempi di scorrimento cronologico. È sulla base teorica relativa alle fluttuazioni del vuoto, che il fisico russo Jakov Zeldovič ipotizzò nel 1971, che i buchi neri potessero emettere radiazioni gravitazionali, elettromagnetiche, neutrini ecc., un buco nero ruotante, infatti, ora lo sappiamo per certo, emette radiazioni e rallenta la sua rotazione progressivamente. Quando ha esaurito il suo moto ruotante e la sua energia si contrae e diventa più caldo, cioè inizia ad evaporare prima lentamente poi sempre più velocemente, quando la sua massa sarà critica e la sua temperatura altissima, il buco nero esploderà in un magnifico fuoco d’artificio. Tutto questo, perché le fluttuazioni gravitazionali e quelle cronodinamiche del vuoto avranno sollecitato l’orizzonte degli eventi del buco nero ad emettere radiazioni. I tempi del fenomeno sono, al solito, per noi umani inconcepibili: nell’ordine di circa 1070 anni! Ma avverrà sicuramente, come tutto ciò che deve avvenire ed è puntualmente avvenuto nella storia infinita del cosmo! Ancora una volta, l’azione di bosoni mediatori come i gravitoni, i fotoni ed i crononi, ritengo, ha esercitato addirittura una sorta di 161

variazione nella geometria dello spaziotempo, catalizzando, inoltre, il ciclo autodistruttivo di quei vampiri cosmici che rispondono al nome di buchi neri. Naturalmente, le fluttuazioni del vuoto agiscono per mezzo di particelle virtuali che compaiono improvvisamente a coppie, utilizzando l’energia delle fluttuazioni stesse presa in prestito in zone limitrofe dello spazio. Questi fotoni, gravitoni e crononi virtuali, poi, si annichilano restituendo il mal tolto della loro energia ed, inoltre, il caratteristico dualismo quantistico onda/particella vale pienamente anche per loro. Abbiamo già detto, che lo spazio “vuoto” è costituito dall’ebollizione continua di particelle virtuali dalla vita brevissima, in particolare, però, sono le particelle di luce, i velocissimi fotoni privi di massa, a comparire e scomparire di continuo. Negli anni Quaranta, il fisico olandese Hendrik Casimir dimostrò che le fluttuazioni quantistiche del vuoto sono una realtà. Il suo esperimento si servì di due piastre metalliche parallele poste a breve distanza fra di loro, ebbene, la densità energetica delle fluttuazioni elettromagnetiche del vuoto fra le piastre risultò inferiore alla densità esterna e perciò le due piastre si attrassero. In pratica, il maggior numero dei fotoni/onde all’esterno delle piastre, aveva creato la pressione per avvicinarle, proprio come se si fosse trattato di un leggero effetto gravitazionale provocato dalla differenza di energia. Questo è il cosiddetto “effetto Casimir”, che permette di misurare l’energia prodotta dalle fluttuazioni quantistiche del vuoto, vera fucina di energia allo stato puro. Naturalmente, oltre che di fotoni avrebbe potuto trattarsi di gravitoni o di crononi, entità quantistiche che definirei ad “ampio spettro”, con il cui contributo la materia può convertirsi in energia ed ogni particella in un’onda.

L’energia cronocinetica Prendiamo in esame adesso un ipotetico cronone, che è contemporaneamente un quanto di energia ed una particella cronocinetica che nasce da un processo fisico reale. Ma un cronone 162

virtuale, allora, esattamente cos’è? È sempre un pacchetto di energia ma scaturito dal vuoto e con una vita che stimo al massimo, pari a 10-13 secondi circa. Anche se viaggia alla velocità della luce, in questo brevissimo lasso di tempo farà pochissima strada, nell’ordine di millesimi di millimetro e poi, se non troverà un partner con cui interagire e scambiare energia, se ne tornerà da dove è venuto. Anche in fisica, i debiti vanno onorati ed il cronone virtuale deve restituire l’energia presa in prestito dal vuoto (principio di conservazione dell’energia). In tutta questa storia di transiti incrociati di energia, come in una sorta di partita di tennis quantistica, entra a pieno diritto il principio di indeterminazione di Heisenberg, di cui abbiamo già parlato a suo tempo e su cui mi sembra superfluo ritornare. È appena il caso di ricordare, invece, che l’energia totale di una particella è il risultato della somma della sua massa a riposo più la sua energia cinetica e che alle basse energie, questa massa è maggiore dell’energia cinetica stessa, mentre alle altissime energie è enormemente inferiore. Torna prepotente a manifestarsi quella potente alchimia fra energia cinetica e massa che, secondo la mia teoria di campo, si concretizza con la conversione della massa a riposo delle particelle in una frenetica attività di interazione quantistica, con quegli effetti cronodinamici sullo spazio e sul tempo che definirei di portata universale. L’energia cinetica, o meglio in questo caso cronocinetica, non rappresenta, secondo me, semplicemente l’energia di un corpo in movimento che può decrescere dopo aver compiuto il suo “lavoro”. L’energia cronocinetica è qualcosa di molto più complesso e composito, possiede una capacità di attivazione, tramite i crononi, che può manifestarsi in energia termica, energia potenziale gravitazionale o elettrica, in virtù della posizione di una particella nei rispettivi campi e delle varie “alchimie” quantistiche in atto. Un altro caso “esotico”, è rappresentato dall’autointerazione cioè l’interazione fra, ad esempio, un cronone ed il campo cronocinetico a lui associato. Accade che il cronone interagisce praticamente 163

con se stesso e poiché la forza di interazione è inversamente proporzionale al quadrato della distanza dalla fonte del campo, l’autointerazione in teoria dovrebbe assumere un valore altissimo, con un cronone dotato di altissima energia cronocinetica. Ciò dovrebbe portare ad una situazione di “autostato” o autofunzione, cioè ad uno stato quantistico definito ed integro, del tutto diverso dalla classica sovrapposizione di stati dei sistemi quantistici. Questo dettaglio è fondamentale nella meccanica quantistica sotto l’aspetto dinamico definito e certo. Semplificando, si tratta di una situazione in cui un’unica funzione d’onda descrive un unico stato quantistico di una particella, che presenterà un autovalore specifico circa la caratteristica associata a quel particolare autostato. Un ulteriore approfondimento teorico di quella che è in realtà una complessa rappresentazione matematica, non chiarirebbe meglio al lettore meno esperto il processo e perciò mi fermo qui. Mi rendo conto, che il concetto è un po’ sfuggente e di non facile assimilazione, ma come spiegare diversamente una sorta di eccezione alla regola quantistica, circa la logica della sovrapposizione di stati prima del fatidico collasso della funzione d’onda?

L’interruttore della realtà Nel lontano 1926, il fisico austriaco Erwin Schrödinger, che abbiamo già incontrato più volte, sviluppò la meccanica ondulatoria trattando le particelle come onde. La sua genialità e la sua ricerca di certezze accettabili, lo portarono a formulare la sua famosa equazione con cui poter calcolare quella funzione d’onda (Ψ: psi), che descrive la probabilità di trovare una determinata particella in un determinato momento ed in un determinato luogo. In realtà, la funzione d’onda rappresenta, come già accennato, la vera e propria carta d’identità dinamica di una particella elementare vista come un’onda. L’idea venne al fisico austriaco sulla base degli studi del principe Louis de Broglie, che ipotizzò per primo il 164

dualismo onda/particella, aggiudicandosi così il Premio Nobel per la fisica nel 1929. Questa felice intuizione fruttò anche a Schrödinger il Nobel nel 1933 ed un posto di primo piano nella storia della fisica moderna. Lo sviluppo matematico della sua funzione d’onda, è caratterizzato da un approccio “hamiltoniano” cioè, come già accennato, basato sulla funzione hamiltoniana H, che descrive l’energia di un sistema in termini di posizione e di momento. Si tratta, in pratica, di equazioni differenziali che descrivono la meccanica di un sistema per intero, attraverso le variazioni del momento (quantità di moto) e senza considerare le forze che intervengono. È un approccio matematico in diretta concorrenza con quello “lagrangiano”, forse più completo, usato dal grande Richard Feynman (19181988), padre “padrone” della QED (Quantum Electro Dynamics, l’elettrodinamica quantistica). A proposito di Feynman, cedo alla tentazione di una brevissima divagazione su questo personaggio dalla mente e dal temperamento veramente incredibili. Figura di primissimo piano nella fisica del Novecento, era un insegnante insuperabile dalla simpatia contagiosa ma originale da non credere. Assiduo suonatore di “bongos” (proprio così!), era famoso per i suoi scherzi e le sue beffe graffianti. Durante la sua permanenza nel centro atomico di Los Alamos, per lo sviluppo della bomba atomica nel famoso Progetto Manhattan, pur se apprezzatissimo da tutti per la sua incisività e il suo talento, “torturò” letteralmente i suoi colleghi, fra cui Enrico Fermi, con beffe feroci di ogni genere. Come, ad esempio, quella di scassinare, senza uno scopo preciso, tutti gli armadietti blindati dei suoi compagni d’avventura ed alcune casseforti! Tutto questo può far capire, solo in parte, cosa può significare un genio bizzarro con una vena di bonaria follia, con cui dover convivere! Riprendendo il filo, dopo questa nota di colore, torniamo alla nostra fondamentale funzione d’onda ed all’altrettanto imprevedibile ma sicuramente più sobrio Schrödinger. Anche se, pure lui, 165

quanto ad originalità non era secondo a nessuno come testimoniavano i suoi colleghi di Oxford, vedendolo vivere soddisfatto in un perfetto “menage a trois” con la moglie e l’immancabile amante! L’importanza della funzione d’onda, comunque, va ben oltre l’equazione di Schrödinger nata per descrivere la propagazione di un singolo elettrone, in quanto onda tridimensionale e non particella. Nella sua trasformazione generalizzata operata da WheelerDeWitt nella loro famosa equazione, cui abbiamo già accennato, però, le cose si complicano moltissimo, non a caso i loro complessi calcoli sono stati battezzati come, addirittura, funzione d’onda dell’Universo. Consiste, infatti, in una sequenza matematica veramente complicata, capace di descrivere per ogni soluzione dell’equazione stessa un Universo alternativo. Schrödinger, comunque, andò oltre prendendo addirittura “per le orecchie” con l’accordo di Einstein, la famosa interpretazione di Copenaghen messa a punto da Niels Bohr. Una visione, come vorrei ricordare, altamente filosofica ed interpretativa della realtà quantistica in cui, prima dell’osservazione e della misurazione, la realtà stessa non avrebbe modo di manifestarsi in maniera compiuta. Il mondo dei quanti per Bohr, era non solo confuso e probabilistico ma anche in sospensione, in fieri, in attesa cioè del segnale “magico” dell’osservatore a catalizzare, fra innumerevoli possibilità, quella definitiva e certa. In pratica, un mondo concreto era “inesistente” ed alla mercè dell’osservatore di turno che operava le misurazioni sul sistema. Era abbastanza per rimanere almeno perplessi, anche se credo che il collasso della funzione d’onda, comunque provocato, sia il motore inarrestabile della realtà compiuta e del processo cronodinamico che coinvolge ogni entità quantistica. È il fondamentale collasso che rende la realtà “vera” e l’indeterminazione quantistica un po’ meno inafferrabile e problematica. La risoluzione provocata dalla funzione d’onda rappresenta la discriminante assoluta circa la sovrapposizione degli stati quantistici e tale sovrapposizione, che consiste in un misto inestricabile di caratteristiche fisiche non definibili, è il risultato di una tipica configurazione quantistica. 166

Si tratta, cioè, di uno stato composito in percentuali di più componenti e l’unica configurazione univoca e definitiva si ottiene solo con la misurazione, che provoca il risolutivo collasso della funzione d’onda. Con il “trauma” quantistico provocato dal collasso, una situazione aleatoria diviene certa e la particella o l’onda in questione, assume caratteristiche e posizione definite. Anche il vettore di stato, definisce l’insieme delle proprietà di un’entità quantistica, come lo spin o l’orbitale, ed è praticamente analogo alla funzione d’onda. È, in pratica, un’espressione matematica, un numero complesso, che permette di affrontare i calcoli probabilistici necessari per localizzare una particella, ma anche per descrivere le proprietà di un intero sistema quantistico. Come forse il lettore si sarà accorto, con l’approfondimento della fase fondamentale del collasso della funzione d’onda, siamo veramente giunti al punto cruciale della trattazione e stiamo percorrendo la strada che ci porterà diritti alla cronodinamica quantistica ed alla sua teoria di campo. Stiamo entrando, cioè, nel passaggio cruciale che fa della realtà probabilistica ed ipotetica in sovrapposizione di stati multipli, una vera ed univoca dimensione del reale nei confronti di tutto ciò che è vero. Che esiste e, quindi, ha assunto un’identità precisa, solo in questo caso avremo la certezza che la realtà è passata attraverso il risolutivo switch quantistico del collasso della funzione d’onda. In un tempo infinitesimale, dunque, un elettrone si scontra con un fotone, la sua funzione d’onda collassa e lui diventa reale con tanto di posizione precisa e misurabile. Ogni nuvola di probabilità quantistica, proprio come per il nostro elettrone, collassa e configura le particelle coinvolte che, poi, torneranno di nuovo a fluttuare nella loro indeterminatezza. Le fluttuazioni quantistiche sono lampi di realtà che si alternano a nuvole di probabilità indeterminate, è sorprendente rendersene conto ma è esattamente così. Come ho già affermato con una battuta, scusandomi con Einstein: Dio non solo gioca a dadi ma qualche volta bara persino ed il collasso quantistico è il suo barare sublime! 167

Il baro sublime Il collasso della funzione d’onda, mi sembra abbastanza chiaro a questo punto, è forse il vero nocciolo dell’intera questione spaziotemporale, relativa alla cronodinamica quantistica ed alla sua teoria di campo. L’Universo teorico della fisica quantistica, però, è notevolmente variegato e le sue interpretazioni sono molteplici, a riprova che ci si sta occupando di un Universo in gran parte ancora sconosciuto. La mente dei fisici cerca spiegazioni e dà interpretazioni spesso contrastanti nei confronti di una realtà che sembra rappresentare un vero e proprio caso “a priori”, circa la nostra percezione sensoriale come direbbe Kant. Una realtà che, invece, non possiede affatto e tantomeno “a priori” le caratteristiche fisiche che le riconosciamo e che la nostra percezione fisiologica limitata le attribuisce, a torto. Esistono, infatti, varie interpretazioni della realtà mediata del mondo dei quanti: l’interpretazione di Copenaghen, cui abbiamo già più volte accennato, poi quella ontologica, quella della somma delle storie, quella della logica quantistica e, finalmente, quella che ritengo la più credibile, cioè “l’interpretazione transazionale”. Si tratta naturalmente di tentativi ormai datati, per spiegare una logica estranea ai nostri meccanismi mentali, fatta di indeterminatezza e di sequenze non causali, che sfuggono alla percezione sensibile del nostro cervello. L’interpretazione transazionale, concepita da John Cramer all’Università di Washington, però, ha sicuramente il merito di semplificare almeno ciò che è più comprensibile nella meccanica quantistica. Si parte dalla teoria “dell’assorbitore/emettitore” formulata da due grandi del calibro di Wheeler e Feynman che, in pratica, amplia il concetto di entanglement sino ad estenderlo ad una sorta di rete elettromagnetica universale. Una rete interconnessa, capace di connettere ogni elettrone con le altre particelle cariche, ovunque si trovino, in un rapporto di reciproco scambio: il nostro elettrone è l’emettitore che lancia l’onda/messaggio verso l’assorbitore, il quale ricambia e perfeziona 168

la transazione nello spaziotempo. È un concetto un po’ duro da digerire e pecca anche di una certa dose di eccessiva “antropomorfizzazione”, a causa del nostro linguaggio inadeguato nei confronti della meccanica quantistica, ma è esattamente quello che l’interpretazione transazionale afferma. Inoltre, bisogna specificare che il processo è atemporale, cioè avviene istantaneamente ed emerge da quella zona buia al di sotto del tempo di Planck, in cui il tempo non è più computabile, ma di questo parleremo ancora più avanti. Ciò che accadrebbe, in definitiva, è che l’onda probabilistica/messaggio arriverebbe a destinazione nei confronti di tutte le altre possibili particelle “in ascolto”, ricevendone da ognuna una sorta di riscontro, di risposta/conferma energetica. Solo uno di questi riscontri/conferma, però, verrà recepito secondo la regola probabilistica dalla particella emettitrice e, quindi, tradotto in caratteristiche concrete che la contraddistingueranno. Si tratterebbe, in pratica, di un genere di esotico “entanglement transazionale” che non è il caso qui di approfondire. Tornando a Erwin Schrödinger, di cui abbiamo già parlato e non solo per i suoi meriti scientifici, dobbiamo doverosamente osservare che la sua funzione d’onda, non è solo in grado di fornire la descrizione matematica di come si propaga un’onda ma anche la descrizione della stessa natura d’onda, ad esempio di un elettrone. Le coordinate spaziotemporali dell’elettrone, risulteranno dal calcolo del quadrato del vettore di stato (o funzione d’onda) dell’elettrone stesso, in realtà, il processo non è proprio così schematico ma non è questa la sede per entrare nel dettaglio delle cosiddette “variabili complesse coniugate” e non ho intenzione di farlo. Il concetto di funzione d’onda nella sua versione completa ha più soluzioni, prende in considerazione sia le onde ritardate di energia positiva, cioè quelle che viaggiano verso il futuro, sia le onde avanzate di energia negativa, che viaggiano verso il passato. Basti pensare, senza scendere troppo nei dettagli, che ad esempio l’interpretazione di Copenaghen, pur con il suo “pedigree” di sponsor storici di altissimo livello, si basa su una visione molto 169

newtoniana sia della meccanica che del tempo. Peraltro, con una concezione dell’interazione possibile fra mente e materia, che non esiterei a definire come dai contorni vagamente metafisici. L’interpretazione transazionale, invece, racconta la storia di particelle remote la cui carta d’identità quantistica, cioè le loro funzioni d’onda ed i rispettivi vettori di stato, sono immersi nello spaziotempo relativistico e tenacemente sovrapposti, in una confusione indeterminata e probabilistica di stati. Tanto probabilistica ed indeterminata, da non permettere alle funzioni d’onda stesse di essere parte della realtà vera, sino al sopraggiungere del fatidico “barare sublime” del collasso! Con questa sorta di catarsi quantistica, la realtà sospesa si compie e tutto può finalmente avvenire! La transazione quantistica fra l’offerta della particella emettitore e la conferma della particella assorbitore, è la base ipotetica della realtà e di tutto ciò che accade nei microstati della materia. La scansione temporale con cui accade, inoltre, è frenetica e situata appena al di sopra dell’infinitesimale tempo di Planck, un tempo per noi razionalmente inconcepibile. Detto solo per inciso, anche se mi ero riproposto di evitare i dettagli, Max Planck il grande scienziato di Kiel, Nobel nel 1918, arrivò a formulare le sue costanti estreme dopo aver deciso, opportunamente, che le costanti assolute in fisica dovessero essere veramente universali e non basate su parametri esclusivamente “terrestri”. Così, Planck nel 1899 formulò le sue unità di misura come costanti intramontabili, che in breve tempo eliminarono tutte le vecchie dai calcoli. Ad esempio, la velocità della luce, secondo Planck, non è altro che la velocità che permette di percorrere la lunghezza di Planck in un lasso di tempo che corrisponde al tempo di Planck, grandezze di cui abbiamo già parlato. Tutto ciò che è al di sotto di questi valori infinitesimali, non è governato dalle leggi fisiche che conosciamo perché “laggiù” non hanno più alcun senso. Vengono poi, altrettanto preziose ed assolute, la massa di Planck (2.17 x 10-5 gm) pari anche alla massa di 1019 protoni, 170

l’energia di Planck (1.22 x 1019 GeV) pari all’energia di 12 protoni ed, infine, la temperatura di Planck (1.42 x 1032 K). È intuitivo, che anche appena al di sopra di queste grandezze costanti, le leggi della fisica acquistano progressivamente di significato e questo è per i fisici un grosso sollievo. Dopo questa breve intrusione nel mondo di Max Planck, che amava la musica e duettava spesso al piano con il violinista Einstein, eccoci di nuovo alle prese con la nostra transazione quantistica fra particelle remote. Come già detto più volte, il ritmo dei collassi delle funzioni d’onda delle particelle è continuo e frenetico ovunque, tanto da originare un vero e proprio palinsesto universale della realtà. Gli effetti di tutto questo accadere totalizzante fra particelle elementari, cioè annichilazioni e lampi di energia inarrestabili, si ripercuotono anche nella nostra dimensione macroscopica, ma noi siamo nella condizione sensoriale di rilevarne solo gli effetti mediati nella nostra vita quotidiana. Siamo praticamente quasi ciechi e sordi davanti a questo prodigio quantistico, davanti a questa colossale danza di Shiva che non si arresta mai, neppure davanti all’opera creatrice di Brahma. Induismo a parte, è abbastanza triste pensare che la realtà dell’accadere “intimo” di tutto ciò che avviene nell’Universo, ci sfugga quasi completamente. È solo grazie a dei “visionari” di grande valore scientifico, che riusciamo ad immaginare l’inimmaginabile ed a concepire un’alternativa oggettiva alla nostra realtà malferma ed approssimativa di esseri pensanti.

La danza di Shiva Perché ho scelto come titolo di questo paragrafo proprio la danza di Shiva? Perché proprio il grande “distruttore” della Trimurti a danzare nell’Universo? Poiché in fisica quantistica tutto ciò che accade proviene da una piccola, grande, sequenza di distruzioni e rigenerazioni successive. C’è distruzione, ad esempio, nello scontro fra materia e antimateria, nei collassi stellari, nell’evaporazione 171

dei buchi neri, nel decadimento radioattivo in tutto ciò, insomma, che dà inizio ad un ciclo di accadimenti ciclici continui. C’è sempre una reazione a catena dopo una distruzione, che origina infinite fattispecie progressive, prive di un senso preciso almeno per noi umani ma piene di significati scientifici profondi da scoprire. Einstein, Dirac, Bohr, Schrödinger, Heisenberg, Feynman, Planck e tanti altri, riuscirono a “scoprire”, in parte, cosa si nascondeva dietro il dubbio, l’ipotesi ardita ed eccoci qui a parlarne quasi con devozione. Dobbiamo, però, sforzarci di essere chiari anche se la meccanica dei quanti non essendo affatto deterministica ma esattamente il contrario, tende continuamente ad eludere il nostro concetto di chiarezza che poi, in fondo, significa soprattutto un bisogno innato di certezze. Chiarezza e certezza, però, sono termini sconosciuti o comunque molto mediati in fisica quantistica e non perché rifiutati, ma perché privi semplicemente di significato scientifico. Perciò, il rigore del metodo è fondamentale nell’affrontare problematiche come quelle del collasso della funzione d’onda, dell’entanglement e dell’interpretazione quantistica nella sua generalità. È facile, sconfinare nella terra di nessuno di una sorta di dimensione metafisica, quando si affrontano temi come, ad esempio, quello della violazione del “principio di località”. Secondo cui, i fenomeni e le interazioni possono avvenire a distanza ed in tempo reale, senza la necessità di quelle che Einstein definì “azioni spettrali a distanza” e che tanto lo turbarono nel tentativo di interpretarle nella maniera più razionale ed onestamente logica. La “non località” è una tipica caratteristica quantistica, capace di intervenire anche fra regioni remote dell’Universo e nel contesto delle particelle elementari correlate, senza l’ipotetico intervento di fantomatici algoritmi matematici autoreferenziali a regolare la realtà fenomenologica della materia e dell’energia. Fu, non a caso, un fisico “solido” ed estremamente concreto nel metodo come Werner Heisenberg a cercare, con le sue variabili nascoste e la teoria dell’onda pilota, di razionalizzare il concetto inquietante di non località, per metterlo soprattutto al riparo da interpretazioni 172

estemporanee, spesso al confine con il paranormale. L’interpretazione di Copenaghen, molto datata e interamente basata su una visione olistica del ruolo dell’osservatore, è un tipico esempio di questa visione un po’ inquietante che non convinse mai Einstein, inorridito dalla concezione antropomorfica promossa dalla scuola di Copenaghen. Sono convinto che, nel caso dei “danesi” si trattasse di una tendenza tipica che emerge dalla tradizione religiosa ebraico cristiana, quella cioè di porre l’uomo come causa ed effetto condizionante della realtà. Qualcosa del genere si intravede anche nel “principio antropico”, che si basa fondamentalmente su una visione analoga del ruolo centrale esercitato dalla nostra specie nell’Universo la cui presenza, però, è invece decisamente limitatissima e irrilevante. L’Universo è così come lo vediamo con le sue caratteristiche, afferma in pratica il principio antropico, perché altrimenti l’uomo e la vita animale, quella vegetale non esisterebbero e noi non saremmo qui ad osservarli. Come dire: ci interroghiamo sulla natura dell’Universo perché è fatto su misura per noi e per permettere lo sviluppo dell’intelligenza della nostra specie che, infatti, è capace di interrogarsi sul grande mistero. Mi sembra decisamente una visione un po’ pretenziosa per qualche miliardo di particolarissimi “primati” dalle straordinarie capacità evolutive, confinati su un pianetino alla deriva nella vastità del cosmo! Comunque sia e concezioni antropomorfiche a parte, il collasso della funzione d’onda delle particelle elementari, che popolano in vari stati sovrapposti l’Universo anche in forma di onde, è una realtà incontrovertibile e determinante. Appena al di sopra del tempo di Planck e probabilmente con una cadenza temporale analoga, i collassi avvengono progressivamente ovunque, dando vita a quella realtà macroscopica di cui anche noi siamo partecipi. Il meccanismo che provoca tanto scompiglio nei microstati, è legato ad interazioni, transazioni e fluttuazioni casuali che avvengono anche nel vuoto quantistico, che ribolle di particelle virtuali e di scambi continui di energia di campo. Il tutto si concretizza, poi, in una sorta di “creazione impropria” in cui però il “Grande Vecchio” non c’entra affatto, cioè, si concretizza 173

nel fatidico collasso della funzione d’onda che tutto risolve e che, in questo caso, somiglia molto ad una sorta di catarsi creativa quantistica. Dalle coppie di particelle virtuali si passa alle particelle/onde reali e, quindi, agli atomi ed alle molecole, in un crescendo dimensionale complesso di attività quantistica, dove i bosoni ed i fermioni giocano il loro ruolo risolutivo nel dare vita agli atomi. La danza di Shiva continua da circa 15 miliardi di anni fra costruzione e distruzione, materia ed energia, spaziotempo e forza gravitazionale, che poi sono complessivamente la stessa cosa, ma inesauribili ed “autoconservanti” nelle rispettive forme e stati.

Gravità quantistica e spaziotempo L’ultimo nato della grande e prolifica famiglia del CERN di Ginevra è il barione Xi (Ξ), emerso dalle collisioni ad altissima energia all’interno dell’LHC (Large Adron Collider) nel luglio del 2017, lo stesso acceleratore di particelle che circa cinque anni fa, come sappiamo, diede vita al bosone di Higgs. Il barione, è una particella formata da tre quark proprio come i protoni ed i neutroni, ben protetti all’interno del nucleo atomico dall’interazione forte, Xi, però, è un po’ diverso dagli altri barioni perché più pesante ed “elettrico”. Infatti, possiede una massa ben quattro volte superiore a quella del protone ed una carica elettrica doppia. Nel suo stomaco ci sono due quark “charm” pesanti ed un quark “top”, il risultato è una massa considerevole e l’ennesima conferma che la forza nucleare forte, la più energica delle quattro interazioni fondamentali, compie un prodigio nel tenere a freno i quark nei barioni ed i barioni nel nucleo dell’atomo. Senza questa autentica forza della natura, l’Universo sarebbe ancora nella mente del “Grande Vecchio”, irrisolto e privo di vita. Dico questo, perché nella fisica delle alte energie il tempo, quello della scienza, scorre più veloce e gli acceleratori di particelle come quello del CERN, contribuiscono egregiamente a questa corsa verso la conoscenza in maniera decisamente esaltante. Ciò ad 174

ulteriore riprova di quanto teorizzare con notevole anticipo, come nel caso del bosone di Higgs, sia fondamentale e notevolmente stimolante per tutto il grande “circo” internazionale della fisica. A tale proposito, forse, potremmo avere presto la conferma anche dell’esistenza di bosoni fantasma come il gravitone, mediatore della forza gravitazionale oppure del cronone, mediatore della forza cronodinamica e supporto indispensabile della rispettiva teoria quantistica di campo. In attesa che questo avvenga, ma nessun lasso di tempo è così lungo quanto l’attesa, prendiamo spunto proprio da questo parallelo, già fatto più volte, fra il bosone che esprime il campo gravitazionale e quello che esprime il campo cronodinamico. La gravità e lo spaziotempo posseggono un’affinità “elettiva” così profonda da poter essere definita addirittura come una sorta di identità impropria e sembrerebbe proprio esserlo: la loro interdipendenza di tipo dinamico ed energetico, infatti, è una realtà ancora da verificare ma molto probabile ed estremamente credibile. Lo spaziotempo relativistico ma anche quello dei quanti nelle continue tempeste energetiche di interazione, non è uno sfondo passivo in cui la gravità semplicemente si manifesta ma partecipa, invece, alle dinamiche che la caratterizzano nel gioco inarrestabile dell’attrazione reciproca che coinvolge tutti gli oggetti massivi. Lo spaziotempo, cioè, si curva e si modifica in funzione della gravità stessa, mutando addirittura la sua geometria e con essa le sue valenze quantistiche. È in questo contesto logico che i due bosoni ipotetici, cioè i gravitoni ed i crononi purtroppo non ancora identificati ufficialmente, manifesterebbero caratteristiche affini nel trasportare il loro “messaggio” gravitazionale e cronodinamico. Entrambi, capaci di agire su tutti i tipi di particelle con un raggio d’azione infinito, privi di carica elettrica e di massa e con spin pari a 2 unità. Una sorta di compatibilità estesa fra i mediatori di due forze, con i rispettivi campi, che pervadono interamente l’Universo, tanto, da poter essere identificati con lo stesso spaziotempo a quattro dimensioni (tre per lo spazio, una per il tempo). Inoltre, il gemellaggio di compatibilità fra i due bosoni può essere esteso, 175

con qualche variazione, anche alle due interazioni corrispondenti: quella gravitazionale e quella cronodinamica. La prima, più debole di qualunque altra interazione fondamentale almeno alle dimensioni microscopiche, agisce interamente sulla massa, mentre quella cronodinamica sull’energia cronocinetica di scorrimento temporale, che catalizza ogni accadimento cioè ogni sequenza temporale su cui si dipana la realtà cronologica. Proprio così, perché la mia opinione che credo di aver ormai abbondantemente chiarito, è che, contrariamente a quanto qualcuno da alcuni lustri va affermando, il tempo esista veramente. Quasi sicuramente al di sopra del limite temporale stabilito da Planck ma, comunque, non si tratta di certo di quel genere di tempo unico ed imperturbabile che Newton fece suo. Cioè, quella specie di nastro trasportatore a senso unico su cui tutto si dipana univocamente, si tratta, invece, di un tempo inteso come supporto cronologico mobile e vitale della realtà. Quello in cui credo, che è poi il tempo della mia cronodinamica quantistica, non è affatto l’immobile tiranno delle vecchie foto di famiglia a cui associamo la nostalgia ed il ricordo. È un tempo assolutamente non antropomorfizzato, è il cosiddetto “tempo proprio”, diverso in ogni luogo e per ogni evento quantistico infinitesimale. Esiste una rete infinita di questi tempi fattuali nell’Universo, che riguardano ogni particella elementare, ogni entità quantistica e le sue evoluzioni nel vuoto. L’unità di misura minimale della sua durata è quella calcolata da Planck, ma il ritmo del suo scorrimento è diverso in ogni luogo ed in ogni contesto quantistico, anche perché la velocità e la gravità rallentano il tempo nella sua corsa verso le realtà relative contingenti. Lo scorrere del tempo, infatti, è più lento se ti muovi ed il mio tempo è sempre diverso dal tuo! Persino il problema “dell’adesso”, la scansione temporale che di sicuro percepiamo più distintamente non ha alcun senso perché il vero adesso non esiste se non nel raggio di una distanza spaziale e temporale minima intorno a noi, a meno che non lo si voglia identificare con una sorta di improbabile eterno presente. Vi è mai capitato di riflettere sul fatto che gli astronomi sono in buona parte dei veri e propri archeologi del cosmo e del tempo? Proprio così, 176

perché con i loro strumenti osservano un tempo “altrui”, quello dei pianeti e delle stelle, com’erano nel loro passato ma la cui immagine luminosa giunge solo nell’adesso dell’astronomo che li osserva. Più sono distanti questi astri più sono antichi, perché la luce può impiegare anni (luce) per giungere sino a noi, quindi, l’adesso, il presente esteso, può riferirsi solo ad eventi molto vicini sia nel tempo che nello spazio. Che equivale a dire, con il mio solito gusto per gli aforismi: “il presente è solo nell’immediato, non nel recente passato”! Inoltre, il confine fisico del “nostro presente” può essere fatto risalire a pochi metri ed a pochi secondi intorno a noi, in una “gabbia” della realtà veramente molto angusta che non sospettavamo neppure! Una volta assodate certe compatibilità estese, quasi gemellari, fra la gravità e lo spaziotempo, cerchiamo di approfondirle con più attenzione allo scopo di trovare il nesso quantistico che le unisce indissolubilmente. Iniziamo dalla gravità o meglio dalle onde gravitazionali, che trasportano i gravitoni a destinazione. Ipotizzate da Einstein e rilevate per la prima volta solo nel 2015 dagli interferometri dei rivelatori di LIGO negli USA e VIRGO presso Pisa, provocano con il loro passaggio increspature nel tessuto dello spaziotempo, modificandone la geometria. È forse questo, il nesso profondo che cercavamo? Forse anche questo ma andiamo ancora più avanti, perché c’è dell’altro da sviscerare con attenzione per arrivare ad una risposta certa. Le onde gravitazionali sono prodotte da fenomeni celesti ad altissima energia, come collassi stellari, esplosioni di supernove e fusioni di buchi neri, anche il Big Bang primordiale ne ha provocate e si sta cercando di captarne il remoto segnale di fondo, per capire meglio il fenomeno dell’inflazione. Quel prodigio che, dopo appena 10-35 secondi dal grande Bang, avrebbe portato l’Universo ad una espansione esponenziale delle proprie dimensioni di un fattore pari a 1030! A questo proposito, bisogna notare che c’è qualcosa di molto significativo e producente da osservare proprio nei confronti della teoria cronocinetica. 177

Il fisico olandese Erik Verlinde ha ipotizzato, in un suo studio recente ed in maniera a mio avviso fondata, alcune strane difformità nelle caratteristiche fenomenologiche della gravità che si manifesta nella vastità del cosmo, rispetto alla gravità classica delineata da Newton. In particolare, Verlinde ha accostato la sua gravità “cosmica” ad una sorta di meccanismo entropico, ha, cioè, tirato in ballo l’entropia, la caratteristica che indica, come sappiamo ormai bene, il grado di disordine complesso di un sistema isolato come l’Universo. Ne abbiamo già parlato ma adesso, nel prossimo paragrafo, lo faremo di nuovo in una chiave diversa e con un approccio rivolto sia alla gravità quantistica che alla cronodinamica quantistica, che presentano, come abbiamo potuto notare, affinità molto significative.

Entropia e tempo La termodinamica, come ci raccontavano a scuola, studia il complesso rapporto che esiste fra il calore e le altre forme di energia ma contemporaneamente, grazie alla sua seconda legge, anche il rapporto costante con l’entropia e con la cosiddetta “freccia del tempo”. La seconda legge della termodinamica, infatti, afferma qualcosa che può apparire addirittura come “lapalissiano” ma che è invece una chiave di lettura dell’Universo: “il calore non può mai passare spontaneamente da un sistema più freddo ad uno più caldo”. Ciò non può accadere, infatti, senza compiere un lavoro cioè, in pratica, produrre calore: è il classico esempio del frigorifero che raffredda al suo interno e riscalda l’ambiente al suo esterno. Per quanto possa sembrare bizzarro, fra il nostro frigorifero che raffredda producendo calore, l’entropia e la stessa direzione del tempo, il passo è molto breve ed assolutamente coerente. Se esiste l’entropia, esiste la freccia del tempo cioè una progressione direzionale inarrestabile verso il futuro e verso il disordine che si tradurrà inevitabilmente, in un tempo incommensurabile, nella lenta morte termica dell’Universo: l’equilibrio termico. 178

Il calore, come il tempo, procede spontaneamente in un’unica direzione e così fa anche l’entropia, perché il disordine in un sistema chiuso può solo aumentare. La progressione temporale assume, a mio avviso, un andamento ritmico superiore ma, comunque, molto prossimo al tempo di Planck, in una misura del cambiamento che è assolutamente caotica e “granulare” cioè disposta in quanti di tempo. Il quanto di tempo per eccellenza, il cronone, è il risultato di un campo cronodinamico eccitato ed influisce sulla durata entro cui progrediscono gli eventi infinitesimali. Le coordinate spaziotemporali logiche di ogni singolo evento sono il “dove” ed il “quando”, in un accadere continuo che costruisce una realtà a diverse velocità ma comunque concreta, sia a livello microscopico che, di conseguenza, a livello macroscopico (il nostro). È in questa dimensione, che i nostri sensi percepiscono quella che ritengono la realtà vera e il nostro cervello vi esercita la sua capacità di interpretazione cosciente, travisando spesso tutta una serie di contenuti, di significati ed il senso stesso di ciò che viene percepito. È la nostra psiche a mediare tutti i significati, traducendoli in una logica antropomorfica molto diversa dalla dimensione quantistica della materia, dell’energia e del tempo. Direi quasi, che il problema maggiore del discernimento nella mente umana, risiede proprio nella sua predisposizione fisiologica ad interpretare ed elaborare, in funzione della propria psicologia, i segnali ricevuti dal mondo esterno ed interpretati esclusivamente secondo uno schema antropico (vedi principio antropico). Il tempo per un animale, ad esempio, è un susseguirsi di istinti ciclici, la realtà stessa della natura che lo circonda e che percepisce al suo livello evolutivo di specie. Lo riguarda in quanto teatro delle sue pulsioni vitali ritmate, magari, da eventi atmosferici o catastrofi geologiche. Per una semplice pietra, che ovviamente non può contare su alcuno stato di coscienza, il tempo è una serie di lentissime trasformazioni chimiche di cui ci accorgiamo solo noi. Sia l’animale che la pietra sono perfettamente inseriti, loro malgrado, in una natura cieca e sorda in cui trovano posto solo eventi 179

ed accadimenti caotici privi di senso apparente, ma tutti perfettamente coerenti con le logiche naturali. Per l’uomo è diverso, il tempo per lui è tutto ciò che la sua mente meravigliosa è in grado di concepire, compatibilmente con le sue capacità fisiologiche e cognitive ma è anche qualcos’altro, qualcosa di bellissimo o di terrificante ma anche di irrilevante ed estraneo, rispetto alle logiche naturali dell’Universo. Il tempo per l’uomo confina inevitabilmente con il sentimento, con l’emotività e può essere addirittura qualcosa di mistico: è nostalgia, ricordo, magari affetti perduti. Può trattarsi in assoluto di una percezione mediata, di una distorsione percettiva ed emotiva tipica della psiche dell’uomo, fondamentale per farci sentire più umani ma irrilevante ed estranea rispetto a tutto il resto dell’Universo ed alle leggi fisiche che lo governano. La specie umana, pur obbedendo sotto il profilo fisiologico alle leggi di natura come qualsiasi altra specie vivente, elabora con la sua psiche scenari esistenziali tipici del suo livello evolutivo, dimensioni della coscienza inedite in natura e proprio per questo estranee, aliene, in uno sterminato Universo alieno. Ecco perché stentiamo a comprendere la natura del tempo così come non riusciamo a capire, per ragioni analoghe, molti aspetti esotici della meccanica quantistica. Non riusciamo ad accettare la sua indeterminatezza e la sua imprevedibilità assolute, che inorridirono Einstein e non coincidono affatto con il determinismo spaziale e temporale della logica e dell’esperienza umana. Se affermassi semplicemente, senza approfondirne oltre le dinamiche, che spazio e tempo fluttuano in un limbo sospeso di stati sovrapposti, compresi il presente, il passato e il futuro, finché non accade l’evento di un’interazione qualsiasi a chiarire la situazione, cosa potrebbe pensare il lettore? Sicuramente, se possiede un po’ di buon senso oltre che magari essere un po’ a digiuno di fisica quantistica, che sto farneticando, che sto dando i numeri. Avrebbe tutte le ragioni per esserne convinto, visto che non ha probabilmente mai avuto l’esperienza né la percezione del genere di tempo a cui sto facendo riferimento ed, infatti, si tratta di un concetto controintuitivo ed al limite della nostra logica. Un concetto 180

sulla natura del tempo che ha bisogno, per essere condiviso, di una sorta di adattamento psicologico, di un condizionamento culturale e scientifico e che è in deciso contrasto con il nostro “buonsenso” di organismi pensanti appartenenti al macrostato della materia.

Il quanto di tempo Proprio in funzione di questa esigenza di adattamento psicologico all’idea di tempo quantistico, penso che valga la pena di spendere ancora qualche parola per spiegare e soprattutto per familiarizzarci meglio con questo concetto sfuggente. Un tempo reale che, pur con i vari distinguo che lo affliggono, esiste veramente e fa marciare gli eventi quantistici da un’interazione all’altra, da un collasso all’altro, per costruire quella realtà che poi è solo in parte la “nostra”. Il tempo quantistico, quello della cronodinamica quantistica legato al campo cronodinamico ed ai suoi stati eccitati: i crononi, dunque, è come già più volte accennato il ritmo supremo dell’accadere di tutti gli eventi che si verificano caoticamente nel microstato quantistico, malgrado la volontà ipotetica del “Grande Vecchio” e di noi stessi! Una corrispondenza concreta con questa mia teoria, è offerta dalla visione ormai abbastanza consolidata che prospetta la gravità quantistica a loop, di cui ci siamo già occupati. Si tratta di un tentativo valido di coniugare la relatività generale con la meccanica quantistica e, contemporaneamente, di delineare le caratteristiche della gravità come una teoria quantistica di campo. I gravitoni, come ormai sappiamo, mediano il rapporto fra oggetti dotati di massa e sono portatori di una forza che riesce a curvare persino lo spaziotempo relativistico, conferendogli un protagonismo rilevante. Fu il grande Richard Feynman negli anni Sessanta, il vero “profeta” della gravità quantistica. Questa debolissima forza che, forse, nessun acceleratore di particelle potrà mai investigare a fondo per la mancanza dell’enorme energia necessaria, possiede 181

una caratteristica inedita: i suoi gravitoni, pur se privi di massa, interagiscono fra loro. Ciò avviene perché si crea, come ho già accennato, una sorta di autointerazione in cui i gravitoni interagiscono con il proprio campo gravitazionale e questo causa nei calcoli, costellati di infiniti, l’impossibilità di “renormalizzare” come si fa comunemente in elettrodinamica quantistica. La cosiddetta “renormalizzazione di Kramers”, lo accenno appena, consiste in un trucchetto matematico capace di eliminare progressivamente i fastidiosi infiniti, che si presentano puntuali a confondere le idee dei ricercatori. Come sappiamo, esistono quanti di gravità, i gravitoni, quanti di spazio della dimensione della lunghezza di Planck e quanti di tempo, i crononi, al tempo minimale di Planck, tutti hanno la caratteristica di assumere solo certi valori discreti, un po’ come accade per gli orbitali dell’elettrone intorno al nucleo atomico. Quindi, anche la durata temporale è quantizzata, come quasi tutto nell’Universo, perché anche il tempo fluttua sul suo supporto gravitazionale e si concretizza realmente, cioè, “scatta” la cronosequenza, lo scorrimento temporale, quando il cronone interagisce con altre entità quantistiche e si materializza. È, però, una particella concreta solo nel contesto in cui si muove e la sua indeterminatezza quantistica permane per tutto il resto dell’Universo, lasciando interdetti anche i fisici! La realtà è che sono gli eventi quantistici caotici, alimentati da un’energia cinetica (cronocinetica) inesauribile ed autoregolante che muove, fa cozzare e sovrapporre i campi e le particelle, a provocare e sostenere un accadere ed un cambiamento continuo e totale. Anche un oggetto statico è, in pratica, un accadimento “in fieri” perché tutto è in moto, visto che anche la temperatura è energia cinetica. La struttura chimica dell’oggetto statico, quindi, è praticamente in una condizione di sovrapposizione di stati che vanno nella direzione inevitabile del collasso, per trasformarsi in una nuova concretezza materica (l’accadimento trasformazione) alla luce della realtà quantistica. Il vasto universo dei microstati è fatto di questo, di una sequenza ininterrotta di eventi di varia portata, che si dipanano ad un ritmo 182

temporale che è composto da miriadi di “tempi propri”. Uno per ogni microevento come già spiegato, relativi a realtà locali e temporali discrete, che rappresentano solo di riflesso un ordine globale. Attualmente, la gravità quantistica non considera una variabile tempo, forse perché neppure distingue il tempo dallo spazio e si limita a valutare l’evoluzione di un sistema in relazione ad altre variabili e campi interagenti. Non sono d’accordo circa questa visione incompleta, perché escludere il tempo significa anche escludere in parte lo spazio e cioè la dimensione fisica delineata da quelle che io definisco come “le coordinate del possibile”. Escludere il tempo significa, in altre parole, escludere il supporto dinamico dell’accadimento per tornare inevitabilmente alla visione, ormai superata, dello spazio visto solo come uno sfondo fisso dei fenomeni quantistici, una visione datata che ha preceduto la “rivoluzione gravitazionale” operata da Feynman negli anni Sessanta. Per tentare di chiarire meglio il concetto, vorrei spiegare che nel localizzare e definire una particella elementare, non si può parlare del “dove” senza parlare del “quando” insieme, infatti, rappresentano una sorta di “ovunque in tempo reale” cioè le sue coordinate logiche, cioè la realtà estesa del mondo dei quanti nella sua dimensione spaziotemporale completa. In definitiva, stiamo parlando dell’indeterminatezza caratteristica dello spazio e del tempo, che può evolversi con il collasso, solo per una frazione infinitesimale, in qualcosa di certo e determinato ed infatti ce ne accorgiamo continuamente, perché il tempo torna sempre prepotente a far sentire la sua presenza fattuale. Lo fa anche come quantità coniugata dell’energia, con cui ha un legame profondo di tipo cinetico (o meglio cronocinetico), non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’energia totale in un sistema chiuso si conserva, così come l’entropia aumenta: è cioè in progressione cronocinetica. Ecco, di nuovo il tempo a dialogare con l’energia ed a manifestarsi, direttamente, come energia cinetica (cronocinetica) nel fluttuare caotico delle particelle. Vorrei ricordare al lettore, per inciso, che l’energia meccanica di un sistema è 183

data dall’energia cinetica più l’energia potenziale e che l’energia potenziale non è altro che una riserva di energia cinetica pronta ad intervenire nella realtà quantistica ed infine, ma soprattutto, che l’energia cinetica, che nasce dalla temperatura, può persino conservarsi durante gli urti fra le particelle. Lo scopo di questo piccolo memo, è quello di far acquisire a chi sta leggendo gli elementi conoscitivi minimali per capire dove stiamo andando e, soprattutto, dove porterò gradualmente il lettore nel prosieguo.

I magnifici tre Una volta stabilita l’importanza della relazione cronologica esistente fra il tempo dei quanti e l’entropia, è il caso di approfondire ulteriormente questo parallelo basilare. Il primo principio della termodinamica, che afferma molto di più di quanto possa sembrare, ci trasmette un concetto assoluto: la quantità totale di energia in un sistema chiuso si conserva sempre. Significa che esiste un equilibrio energetico costante, che trasformazioni e variazioni non riescono ad intaccare, ad esempio, se aumenta l’energia cinetica diminuisce quella potenziale e viceversa, ma l’energia totale rimane costante. Il fisico tedesco Rudolf Clausius (1822-1888) padre del secondo principio della termodinamica intuì un brutto giorno, fra una gravidanza e l’altra di sua moglie, che l’Universo era in lentissimo ma reale pericolo di vita, ciò a causa di un “demone meschino” sempre in crescita che lui stesso battezzò come entropia (dal greco “tropè”: trasformazione più “en”: dentro). Questa corsa inarrestabile al disordine complesso, infatti, come già accennato più volte, ci porterà inevitabilmente ed in tempi molto più che geologici alla inarrestabile morte termica. Soprattutto, però, la seconda legge e le intuizioni di Clausius, non solo enunciano l’orientamento dei flussi di calore e la sua propensione al disordine molecolare, ma anche la direzione dello scorrimento del tempo: la cosiddetta “freccia del tempo”. A Clausius per questo 184

e molto altro, che non starò qui ad elencare, è stato dedicato addirittura un cratere sulla Luna: mai cratere fu più meritato! I fenomeni fisici, dunque, hanno una direzione precisa ed il tempo, che è un fenomeno fisico prima ancora che quantistico e percettivo, si dipana “ufficialmente” dal passato al futuro. Tornando ai magnifici tre del terzetto energia, calore, entropia, dobbiamo prendere atto di alcune differenze basilari ma anche dei loro legami solidi. L’entropia, è la dimensione del degrado dell’energia di un sistema isolato, ecco perché nell’Universo l’entropia aumenta e l’energia degrada: più c’è entropia in un sistema, minore sarà l’energia “pregiata” prodotta. L’entropia di un sistema, a differenza dell’energia, non si conserva perché aumenta sempre sino al famoso equilibrio termico. Il calore, che è una forma di energia scadente, fluisce in relazione diretta con l’entropia, infatti, ΔS = Q/T, cioè la variazione di entropia S è uguale al flusso di calore Q diviso per la temperatura T, in definitiva, l’intensità dell’energia contenuta nel flusso di entropia è data dalla temperatura. Ecco che ricompare la stretta relazione fra temperatura, entropia ed energia cinetica. In particolare, la direzione del flusso potrebbe essere: temperatura → energia “entropica” → energia cronocinetica oppure, in forma ancora più sintetica: gravità → entropia → tempo. Inoltre, è il caso di ricordarlo perché fondamentale in termini di dinamica dei sistemi, sempre dall’entropia discende anche il cosiddetto “potenziale termodinamico” cioè l’energia libera di Gibbs: G che indica, addirittura, quali possibilità ha una reazione chimica di avvenire realmente in un sistema quantistico, con gli sviluppi delle relative dinamiche energetiche. Questo piccolo memo di termodinamica, rispecchia la logica necessaria per stabilire il nesso esistente fra grandezze diverse e quelle che definisco come “ibridazioni” energetiche, in quest’ottica ci capiterà sorprendentemente di scoprire processi energetici da una parte e, addirittura, concetti pseudo filosofici applicati ad una grandezza fisica come l’entropia, dall’altra. Lo stesso contrasto apparente, che sembra esistere fra la meccanica, basata su 185

fenomeni ciclici e la termodinamica, che prevede esplicitamente una direzione anche del tempo, ci aiuta invece a capire l’orientamento da prendere nell’interpretare le due realtà dinamiche. Per la stessa ragione, dobbiamo cercare di comprendere l’abbinamento entropia/disordine e perché l’aumento dell’entropia equivale all’aumento del disordine. Se ci riflettiamo attentamente, anche il trascorrere del tempo nei microstati della materia e dell’energia, si traduce in un disordine crescente difficilmente quantificabile. L’unico fisico che può venirci incontro in questo ginepraio “disordinato” è sicuramente il grande, “tenero”, Ludwig Boltzmann, suicida in quel di Duino, vicino Trieste, a soli cinquantasei anni per l’incomprensione proterva nei suoi confronti ad opera dei colleghi dell’Università di Vienna. Il fisico austriaco, padre della meccanica statistica, di cui ci siamo già occupati, approfondì il problema dell’entropia con un dedizione maniacale sino al termine della sua vita. Capì che il concetto di disordine entropico, che io definisco puntualmente come disordine complesso, non poteva dipendere che da sequenze di configurazioni microscopiche diverse dello stato di un sistema, con una precisa rilevanza statistica. Più l’energia degenera in calore, meno è determinante e più aumenta l’entropia nel sistema “chiuso” chiamato Universo. Il disordine entropico può diminuire solo in un sistema “aperto”, cioè soggetto a scambi di materia e di energia con l’esterno. Come, ad esempio, nel caso di una pianta esposta ai raggi del Sole, ma solo a discapito “dell’ordine” nel Sole stesso che produce l’energia, solo allora l’ordine nella pianta crescerà e la sua entropia diminuirà progressivamente. Grazie alla “matematica combinatoria” (studia insiemi finiti di oggetti semplici, ordinati), Boltzmann riuscì a calcolare, nello stato dei gas, l’entropia di una sequenza appartenente ad una certa configurazione, per più classi di configurazioni microscopiche dello stato di quel sistema. Un giochino statistico di precisione su una grandezza additiva, proprio come per l’energia e la massa, in 186

cui l’entropia totale è la somma delle entropie parziali. La formula che scaturì dai suoi studi è sintetica ed elegante: S = K log W in cui, S è l’entropia, K la costante di Boltzmann e W il numero delle configurazioni microscopiche dello stato del sistema. L’entropia di un sistema, quindi, era per Boltzmann una grandezza proporzionale al logaritmo del numero delle configurazioni di stato microscopiche del sistema stesso. Dettaglio veramente toccante: la formula dell’entropia fu pietosamente scolpita sulla tomba del fisico austriaco, quasi a simboleggiare quella che fu per lui l’autentica ragione di una vita troppo breve ed infelice. Il metodo statistico di Boltzmann, attraverso la sua applicazione sistematica ha permesso alla meccanica statistica stessa, con il suo rigoroso formalismo matematico particolarmente mirato alla dimensione subatomica, di integrarsi egregiamente con la meccanica quantistica e diventarne uno strumento quasi insostituibile. Inoltre, ha fatto diventare la logica statistica delle cosiddette “proprietà medie” dei numerosissimi atomi contenuti nella materia in esame e lo stesso concetto quantistico di probabilità, come veri e propri metodi di investigazione e di descrizione fedele della natura a livello infinitesimale. Grazie, “tenero” ed onestissimo Boltzmann!

Non commuta! Oltre al flusso termico e all’entropia, un altro indizio significativo della temporalità insita nella natura e della sua progressione direzionale, è costituito dal fenomeno della “non commutatività” quantistica, che riguarda alcune variabili come, ad esempio, la posizione e la velocità di una particella come l’elettrone. Le due variabili non commutano fra loro e perciò non è indifferente misurare prima l’una o prima l’altra, l’ordine della sequenza 187

è anzi fondamentale, lo stato della particella, infatti, viene alterato sia dalla misurazione/interazione che dall’ordine della sequenza stessa. Identificare prima la velocità e poi la posizione dell’elettrone o fare il contrario, ha conseguenze diverse sullo stato della particella stessa e non è quindi equivalente. La progressione logica nella determinazione delle variabili fisiche possiede (guarda un po’) un ordine temporale e direzionale non commutativo, fisso ed implicito, che non può essere mutato impunemente. Quale migliore prova di questa, che il tempo, non quello unico dei nostri sensi offuscati, ma la miriade dei “tempi propri” di ogni microevento quantistico sia una caratteristica della realtà quantistica stessa: l’unica realtà vera, cioè, che governa con le sue leggi l’Universo? La progressione temporale in linea soprattutto con l’aumento incessante dell’entropia, entità rigorosamente cronologica ed energia vitale che muove il “creato”, origina catene infinite di accadimenti progressivi. Neppure il buon Boltzmann con la sua meccanica statistica, riuscirebbe in qualche modo ad ordinarli ed a calcolarli, persino l’inevitabile rapporto cronologico “non commutativo” fra causa ed effetto, è opera di un’entropia originariamente bassissima agli albori del Big Bang e poi in costante ascesa. Lo stesso concetto di “causazione logica”, richiama la marcia inarrestabile del tempo dal passato (meno entropico) al presente (o meglio ai “presenti propri”) e al futuro (l’equilibrio termico). Contemporaneamente, però, la nostra visione d’insieme è falsata ed è anche molto parziale a causa della nostra mancata sintonia sensoriale con la maggior parte delle variabili reali: velocità, quantità di moto, energia, momento angolare, posizione ecc. Tutte variabili fondamentali che prima dell’interazione non esistono neppure e subito dopo assumono valori discreti: per l’esattezza i cosiddetti “autovalori” relativi all’operatore abbinato alle varie variabili (nota per i più preparati ma di cui non preoccuparsi troppo). Il catalizzatore di tutto questo è, in termini più comprensibili, la funzione d’onda che descrive come sappiamo le probabilità di trovare in un certo punto nello spazio la particella in questione. 188

Schrödinger, elaborò la sua equazione a questo scopo ma la sua meccanica ondulatoria mal si adatta alla granularità di una particella, anziché alle caratteristiche di un’onda. La relazionalità fra enti e sistemi quantistici, comunque, è così generalizzata da costruire un coacervo di relazioni e processi olistici, in cui ben poco di quanto accade nei microstati non è parte di un tutto connesso e reattivo. Perciò campi, onde e particelle sono praticamente la stessa cosa, sia sotto il profilo relazionale che sotto quello energetico. Il nostro cervello, dal canto suo, riceve gli input che riflettono il mondo circostante e li interpreta secondo uno schema fisiologico che gli è proprio. Lo fa però con una grossa tara nell’elaborazione, che ci rende confusi e inadeguati di fronte alle complesse e controintuitive logiche universali che, ormai, possiamo definire come quantistiche. Ecco, da dove scaturisce lo “strano tempo” della nostra esperienza, quello unico ed incontrovertibile del grande Orso di Cambridge, Isaac Newton: un tempo che è una sorta di “tapis roulant” in movimento, sempre uguale ed alla stessa velocità ma soprattutto univoco in ogni dove. Quasi, lo sfondo inanimato di un palcoscenico dove tutti recitano una strana commedia degli equivoci, insieme agli “equivoci” non meno problematici delle interazioni fra le particelle elementari. A complicare ulteriormente le cose ci si mette, poi, anche il campo gravitazionale con le sue onde ormai catturate da VIRGO ed i suoi gravitoni ancora “a piede libero”. La trama del campo gravitazionale è, come ormai sappiamo, la trama dello spaziotempo relativistico più o meno rarefatta o concentrata, cioè un campo esteso gravitazionale e cronodinamico, in cui operano gravitoni e crononi, impegnati a mediare gravità e tempo e a portare a destinazione la forza gravitazionale e quella cronodinamica. Due forze che fanno muovere l’Universo dei microstati e poi quello dei macrostati, che conosciamo un po’ meglio e che è più congeniale alla nostra natura di esseri umani. Dobbiamo, però, essere consci del fatto che continuando a “caricare” il tempo di significati mistici, emotivi, filosofici ed addirittura religiosi, non faremo che snaturare ulteriormente ai nostri 189

occhi la sua vera essenza. Una natura, quella dello scorrimento temporale, sicuramente atipica, che non è certo quella di un feticcio rassicurante per le nostre coscienze dubbiose o di sostegno morale ai nostri abbandoni, ma un’entità quantistica fondamentale assolutamente senz’anima, proprio come non piace affatto a noi poveri umani! La cronodinamica ed i crononi, come i gravitoni, sono ancora come già accennato “a piede libero”, cioè nella dimensione teorica incompiuta che sto delineando in questo libro e posso solo sperare che lo restino ancora per poco. Soprattutto, se riuscirò a completare in tempi accettabili, insieme al Gruppo Autonomo di Ricerca “Ettore Majorana”, i calcoli della nuova teoria quantistica di campo e se l’acceleratore del CERN di Ginevra potrà aumentare ulteriormente la sua potenza di esercizio. Mentre l’interferometro VIRGO di Cascina continua a fare egregiamente il suo dovere con le magiche vibrazioni che lo spaziotempo gli invia. L’ultimo rilevamento di onde gravitazionali, infatti, è recentissimo e riguarda addirittura la fusione di due buchi neri nelle profondità del cosmo: un’ottima prospettiva di ricerca.

L’informazione quantistica Siamo giunti al punto, mi sembra, di poter completare finalmente il discorso circa l’entropia come veicolo direzionale della variabile tempo. Come spesso succede però in fisica quantistica, le cose sono più complicate di quanto possa sembrare ed infatti il rapporto entropia/tempo non è sufficiente da solo ad essere una vera spiegazione, semplicemente perché il quadro di riferimento non è ancora completo. Ebbene, appunto, l’elemento mancante è l’informazione quantistica intesa come misura delle alternative possibili circa le “osservabili” di un sistema (sono le grandezze dinamiche misurabili di uno stato quantico), che richiama direttamente il concetto direzionale del tempo. 190

Il padre dell’informazione è stato negli anni Quaranta l’americano Claude Shannon (1916-2001), lontano parente di Edison, matematico ed ingegnere elettronico di grande valore, attraverso la sua “teoria della comunicazione”, sviluppò una metodologia informatica sulle tecniche di raccolta, codifica, compressione e trasmissione dei dati. Fu Shannon, a coniare il termine di bit come unità di misura dell’informazione ma, soprattutto, come magico “apriti sesamo” del mondo futuro. Per creare il suo mostro, il genio dei laboratori Bell utilizzò la matematica sviluppata da Boltzmann nella termodinamica. Accostare, così, il concetto di entropia in termodinamica al concetto di entropia nella teoria della comunicazione, con numerose contaminazioni di carattere statistico, fu quasi inevitabile e molto redditizio sotto vari punti di vista per Shannon. Il parallelo fra i due disordini, esteso direttamente all’informazione in quanto rete di correlazione di dati, risultò coerente e consentì importanti deduzioni. Da una parte, l’entropia vista come informazione mancante con il Joule come sua unità di misura, dall’altra, l’informazione come dialogo fra sistemi quantistici con la sua insostituibile unità di misura, il bit. Quando il primo tipo di entropia aumenta (sempre), il secondo diminuisce ed entrambi imprimono così una direzionalità omologa agli eventi quantistici “informazionali” oltre che meramente temporali, in parole povere, una direzione alla progressione temporale dell’informazione degli eventi stessi. È questa, probabilmente, l’unica forma di tempo “reale” che ci viene concessa quando mettiamo da parte, per un attimo, la nostra natura emotiva di esseri psicologicamente condizionati sotto il profilo dell’esperienza umana. L’uomo, però, con questo tempo senza abbandoni, senza nostalgia o ricordi, non vuole avere nulla a che fare anche perché non riesce a comprenderlo e se ne costruisce uno su misura ed a sua immagine. Creiamo infatti continuamente fantasmi della realtà in funzione delle nostre esigenze psicologiche. Un tempo umanizzato e basato, come ho ribadito più volte, sulla nostra visione alterata 191

a causa della mancanza della percezione delle variabili fisiche, un tempo soggettivo imperniato più sull’essere cosciente e senziente che sul semplice accadere, cioè il moto universale delle entità quantistiche. Comunque, un tempo capace di soddisfare la nostra dimensione irrazionale, la nostra fantasia emotiva ed anche la nostra creatività astratta. Ciò che è assolutamente innegabile ed oggettivo, come unica testimonianza reale di questo tempo illusorio “a misura d’uomo” e del suo trascorrere sino all’estrema conseguenza, è forse proprio la morte fisica. Quale conclusione definitiva di un processo fisiologico naturale e contemporaneamente direzionale nello svolgimento, assolutamente privo delle strutture metafisiche che gli attribuiamo in quanto specie capace di pensare, di sognare e di soffrire. Il tempo dell’esperienza umana probabilmente non esiste, come anche alcuni autori ormai affermano, ma quello di Planck, quello del campo gravitazionale, dell’entropia e della termodinamica, è sicuramente una realtà relativistica e, per una volta, anche quantistica. Il ruolo fondamentale svolto dal tempo è globale e relazionale, come quello del calore, dell’entropia e dell’energia cronocinetica nella realtà dei microstati, dove questi valori rappresentano in pratica una media “motorio-energetica” fra le componenti molecolari e le numerose variabili. Per il tempo, in particolare, accade qualcosa di molto simile, la temperatura condiziona la maggior parte delle proprietà della materia, fino ad arrivare ai cambiamenti di stato e ad intervenire nelle interazioni, per poterlo fare ha bisogno di un apporto di energia termica: il calore. Quando si parla di energia termica, però, si fa sempre una grande confusione fra calore e temperatura che sono due cose profondamente diverse. Il calore, infatti, è l’energia totale dei movimenti molecolari di una certa quantità di materia, mentre la temperatura è esattamente l’energia cinetica media, per molecola, di una determinata sostanza. Dunque, praticamente, le due equazioni sono: energia del moto molecolare = calore e l’altra, temperatura media molecolare = energia cinetica. Un rapporto quest’ultimo che fa riflettere e 192

che dovrebbe essere, a mio avviso, preso in considerazione anche nell’ottica di quell’ibridazione quantistica delle forme energetiche, di cui abbiamo già parlato a suo tempo. Il calore, sostanzialmente, è una vibrazione molecolare che avviene nei liquidi, nei gas ed anche nei solidi ed è equivalente al moto delle molecole stesse, come la teoria cinetica dei gas afferma chiaramente. Quel che mi interessa di più, però, è la temperatura con la sua naturale caratteristica di conferire movimento e quindi una fattispecie progressiva e generalizzata di moto. La temperatura, inoltre, misura l’intensità del calore ma non la sua quantità e favorisce anche la produzione di energia chimica di legame che vincola gli atomi alle molecole, la sua funzione di catalizzatore energetico è vasta e generalizzata in maniera quasi insospettabile. Il flusso di calore Q è in relazione diretta con l’entropia S, secondo la formula Q = TΔS (Δ indica la variazione di S), ma anche la temperatura T è in relazione con S ed anche con Q, cioè:

Questa formula è la prova delle “affinità elettive” fra temperatura, calore ed entropia ma non è tutto, perché l’entropia è un processo che media il calore e lo trasporta nel suo flusso e la misura dell’intensità di questo fenomeno è rappresentato proprio dalla temperatura. Più è alta la temperatura, più sarà alto il passaggio di energia termica a parità di entropia trasferita, lo stesso accade per la quantità di moto che trasporta energia cinetica, il cui quantitativo è determinato dalla velocità: più è alta la velocità più sarà alta l’energia cinetica. Come dire, che il calore sta alla temperatura come la velocità sta all’energia cinetica, il tutto a parità di entropia trasferita. Mi chiedo, se alla luce di queste considerazioni e di tutte quelle fatte sinora, la formula dell’energia cronocinetica o cronodinamica, almeno in una formulazione ipotetica, non possa essere concepita come segue cioè come una sorta di prototipo di funzione sviluppato nel dettaglio delle sue componenti: 193

Per i lettori più esperti: si tratta di una funzione fra insiemi cioè il collegamento dei rispettivi elementi degli insiemi stessi, con prevalenza dell’elemento temporale (vedi i concetti di dominio e codominio). ΔQ è la variazione del flusso di calore, ΔS è la variazione dell’entropia, I (x, y, z, t) è l’informazione quantistica in natura nelle quattro dimensioni dello spaziotempo che, collegata all’entropia, rappresenta in pratica il “dialogo informazionale” continuo fra sistemi quantistici. Vengono poi, m che è la massa, c è la velocità della luce, tp il tempo infinitesimale di Planck come unità di misura cronologica ed infine gij che è il tensore metrico poiché siamo in un campo tensoriale e viene misurato il tempo in funzione delle osservabili fisiche del sistema (vedi anche operatori lineari cioè le grandezze dinamiche del sistema). Ciò che più conta in termini di generalizzazione matematica (vedi equazioni tensoriali), è che in questa formula i collegamenti dinamici fra temperatura, entropia e tempo ci sono tutti e c’è anche quello fatidico fra massa e velocità della luce. Inoltre, compare l’informazione quantistica riferita alle dimensioni spaziotemporali, il tutto in un campo tensoriale definito in ogni suo punto dai valori di un tensore, cioè una serie di coordinate che possono mutare. È una visione coerente da perfezionare oppure deve rimanere nel limbo delle ipotesi? Non ne sono ancora certo ma, comunque, per ora andiamo avanti e non preoccupiamocene perché, come si suol dire quando si esita troppo, il tempo “stringe”. A proposito del tempo, quello reale quantistico, in tutto questo scambio di affinità dov’è finito? Ebbene, è nascosto fra le pieghe della termodinamica, mi verrebbe quasi voglia di definirlo come un vero e proprio “potenziale termodinamico”, cioè, una grandezza fisica ricavata matematicamente dall’entropia e dall’energia di quel famoso sistema chiuso chiamato Universo! 194

A ben considerare con attenzione ed anche con un pizzico di astrazione, che in fisica non guasta mai, gli elementi ci sarebbero tutti per avere una visione più completa di quel tempo che inevitabilmente esiste e ci beffa ogni giorno. Ma andiamo per ordine, elencando quelli che vorrei definire con un termine poliziesco come gli “indiziati di reato” più determinanti a favore di questa ipotesi cronocinetica, che vorrei trasformare in una teoria di campo. Consideriamo i cinque maggiori “indiziati” quali eventuali colpevoli del “reato di scorrimento temporale”: il calore, la temperatura, l’entropia, l’energia cinetica ed anche l’informazione quantistica. Iniziamo ad esaminare l’indiziato forse meno coinvolto, sotto il profilo della responsabilità, circa il nostro ipotetico “reato” cronologico: il calore.

Gli indiziati di reato Il Calore: possiede una direzionalità precisa e sembra quasi scandire una temporalità irreversibile con la sua presenza. Si comporta, in fondo, come un fluido con le sue leggi di diffusione investigate prima con il calcolo infinitesimale (creatura dell’analisi matematica del grande Newton e del suo “nemico” Leibniz) ed attualmente con la meccanica statistica. Proprio in funzione dell’esigenza di frazionare arbitrariamente all’infinito una quantità in unità minime di misura, sulla falsariga di grandezze come il tempo e la lunghezza di Planck. In pratica, il limite minimale per una divisione in porzioni infinitesimali di una grandezza che abbia un senso, al di sotto infatti non c’è gara perché semplicemente non c’è fisica! Infine, il calore fluisce, non dimentichiamolo, in relazione diretta con l’entropia. La Temperatura: vista come arbitro degli scambi di calore fra sistemi in contatto termico. Può essere intesa più precisamente come il grado di agitazione delle molecole di un sistema: più è alta la temperatura più le molecole si agitano. C’è una straordinaria 195

affinità fra questo apporto di energia cinetica, dovuta alla temperatura, e l’agitarsi continuo sia dei microstati reali sia di quelli nel “vuoto virtuale”. La temperatura possiede, infatti, la capacità di potenziare il flusso dell’entropia e dell’energia cinetica, trasformandole in parte in energia cronocinetica. L’Entropia: che si conserva e fa da spartiacque fra il prima e il dopo, fra la causa e l’effetto, fra il passato il presente ed il futuro e che si esaurisce nella morte termica dell’Universo. Esattamente come si manifesta il trascorrere del tempo, inteso nella sua semplice fattispecie cronologica simile, per una volta, alla percezione ingannevole tipica dell’esperienza umana. L’Energia cinetica: è quell’energia che dipende dallo stato di moto di un sistema, secondo la formula classica:

(metà del prodotto della massa per la velocità al quadrato). Il problema vero, però, è come venga impressa alle particelle elementari nel loro instancabile movimento reattivo, visto che è inesatto parlare di semplice “lavoro” a livello microscopico, come se ci trovassimo alle prese con il solito esempio scolastico della sfera che rotola giù dalla collina. Ebbene, poiché l’energia si conserva ma si trasforma anche, quella cinetica può essere originata nel mondo dei microstati da rotazioni, traslazioni, semplici vibrazioni, debolissime onde gravitazionali e dalle stesse interazioni quantistiche con la loro vasta gamma di fenomeni fisici e motori. “Questa” energia cinetica, che io chiamo cronocinetica (Eck), quindi, deve essere vista come concausa di una cronologia temporale articolata in un numero infinitesimale di “tempi propri”, relativi esattamente ad ogni singola particella in ogni singolo evento ed in ogni singolo sistema. 196

L’Informazione quantistica: è direttamente legata all’entropia ed attualmente articolata su tecniche di calcolo informatico che utilizzano i quanti (i qubit cioè i quantum bit) per l’elaborazione di informazioni e dati. Nella gravità, ad esempio, l’informazione è ciò che viene scambiato fra le masse in gioco ed è una caratteristica istantanea che la relatività non permetterebbe. Ogni qualvolta esiste una correlazione fra eventi, deve esistere uno scambio di informazioni fra di essi e fra i sistemi da cui emergono. Non esiste in natura un processo di elaborazione specifico come nell’informatica, qualcosa di simile è una realtà nei processi biologici ma si tratta di una caratteristica dei sistemi vitali. L’informazione in assenza della vita, quindi, è un processo complesso, “automatico” simile a quello dell’entropia: stesso determinismo di fondo pur se nel contesto di un’indeterminatezza quantistica di sistema. Stessa mancanza apparente di supporto all’elaborazione, come se l’informazione in natura fosse in grado di autoorganizzarsi in virtù di algoritmi naturali spontanei. Questo tipo di algoritmo naturale misterioso forse si manifesta, per esempio, nel caso dell’esperimento della doppia fenditura che si può trovare in ogni testo di fisica e che non starò qui a descrivere. Soprattutto, però, si manifesta nel risolutivo ed altrettanto oscuro fenomeno del collasso della funzione d’onda che tramuta, come già accennato più volte, l’indeterminatezza degli stati sovrapposti di una particella in realtà autentica. In definitiva, sono convinto che se per noi l’informazione quantistica è il quantum bit, in natura invece è un “flusso informazionale” spontaneo degli eventi fra sistemi che si conserva. Una sorta di algoritmo auoregolante molto vicino al fenomeno dell’entanglement, privo ovviamente di qualsiasi supporto di elaborazione di origine senziente. Ciò che più mi interessa sottolineare qui, è proprio il rapporto stretto che esiste fra questa informazione in natura e quella cronologia temporale, dal profondo significato causale sugli eventi ed i cambiamenti nei sistemi quantistici, di cui ho in parte già trattato. 197

Un collasso salutare Abbiamo ripetuto più volte, che la realtà prima del collasso della funzione d’onda non è un fatto compiuto e che l’indeterminatezza degli stati sovrapposti di un’entità quantistica, rende indefinito questo stato “pre-reale” nei sistemi. La miscela indefinita e caotica degli stati quantici, inoltre, provoca l’impossibilità di una specificazione precisa delle caratteristiche fisiche delle entità quantistiche stesse. Deve necessariamente accadere qualcosa per sbloccare la situazione, qualcosa di casuale come un’interazione, una perturbazione del sistema o una misurazione in laboratorio che poi sono, in pratica e al fine degli effetti, la stessa cosa. Osservare il comportamento di una particella significa darle una configurazione precisa, ma non appena l’osservazione/misurazione termina, la particella si dà di nuovo alla pazza gioia, cioè scompare in uno stato sovrapposto fatto di una miscela imprevedibile di stati. Pura magia? No, solo meccanica quantistica! Le percentuali degli stati che compongono lo stato misto in sovrapposizione, cioè in un certo senso la dimensione dell’irrealtà, può indicarcele il cosiddetto “angolo di miscelazione”, un parametro che ci svela le dosi che compongono ciò che precede la realtà e, quindi, ciò che probabilmente sarà vero ma che “adesso” non lo è ancora. Tutte le proprietà quantistiche, comunque, sono condizionate in questa sorta di sospensione e risultano misurabili, appunto, servendosi dell’angolo di miscelazione. Chiarito questo aspetto un po’ inquietante di una realtà sospesa e multiforme, torniamo con i piedi per terra a parlare di una nostra vecchia conoscenza: Erwin Schrödinger. Oltre ad essere un gaudente sotto il profilo del temperamento, il garbato Erwin era un uomo di incredibile cultura, un pensatore ed un filosofo fine, oltre che un fisico di prim’ordine. Il Nobel nel 1933, gli fu assegnato proprio grazie al suo sviluppo della meccanica ondulatoria, che associa ad ogni particella una funzione d’onda (Ψ, psi) caratterizzata da un’evoluzione temporale 198

di stato continua. La funzione d’onda, in pratica, è, e rappresenta semplificando appena un po’, l’ampiezza di probabilità per una particella in relazione alla sua posizione o alla sua velocità, dove la particella collassa misurando ad esempio la posizione, là si concretizza la probabilità certa di trovare la particella stessa. Il prodotto risolutivo degli studi del fisico austriaco, fu un vero gioiello matematico, appunto, l’equazione di Schrödinger. Un’equazione “differenziale alle derivate parziali” – ma non preoccupiamoci troppo di cosa significa – in grado di fornire lo stato di un sistema quantistico, in altre parole, una funzione d’onda Ψ è capace di descrivere nel dettaglio lo stato completo di un oggetto quantistico. Ogni particella, infatti, è associata ad una funzione d’onda Ψ che ne descrive le caratteristiche per ogni stato, ma non le probabilità della posizione che risiedono, invece, nel suo cosiddetto “modulo quadro” (vedi più avanti). Avendo sottomano un sistema definito, di cui si possono conoscere le variabili dinamiche come la quantità di moto, l’energia ecc., l’insieme delle funzioni di ogni particella rispecchierà tutti gli stati possibili del sistema stesso, misurando le sue variabili. I valori in esame dipendono da variabili sia temporali (proprio così) che spaziali, con l’insieme delle informazioni circa l’evoluzione nello spaziotempo di un’onda/particella in un campo di forza. Naturalmente, la collocazione spaziale dell’oggetto quantistico, che è corpuscolare ma anche ondulatorio, è relativa ed è questo, forse, l’unico aspetto che crea qualche problema di perplessità sulla meccanica ondulatoria. Un esempio per spiegare il fenomeno e dare il senso matematico almeno al lettore più esperto di quanto avviene, è quello della formula che indica la probabilità di trovare in una determinata zona di volume la particella “spalmata” nell’onda:

In cui Ψ è la funzione d’onda, x, y e z le tre dimensioni dello spazio, Δv la zona di volume, t l’istante di tempo, il tutto in un integrale di quelli che piacevano ad Hilbert. Sezionando questa for199

mula avremo che │Ψ (x, y, z, t) │2 è il modulo quadro che ci indica la probabilità di trovare la particella nell’istante t e nella posizione spaziale (x, y, z). Mentre Ψ (x, y, z, t) rappresenta il collasso stesso della funzione d’onda a seguito della misurazione che perturba la funzione stessa, riducendone le probabilità di trovarsi in varie posizioni diverse oppure in una soltanto, quella vera. È chiaro che la funzione d’onda, vero “swich” della realtà, non ha nulla di materiale ed è soltanto un oggetto matematico che costruisce le probabilità di trovare un’entità quantistica in una determinata posizione. Un’onda di probabilità, insomma, che localizza la particella e la cancella così da tutti gli altri punti dello spazio, propagandosi invece nello spazio matematico delle configurazioni, che è uno spazio delle coordinate generalizzate su cui non è il caso di soffermarsi qui. Sperando di non aver annoiato troppo i lettori meno preparati, ho ritenuto utile intraprendere questo piccolo tuffo nel formalismo matematico di Ψ psi, per dare un’idea seppure vaga di cosa stiamo trattando, ben oltre le argomentazioni della teoria. Quello però che è fondamentale sapere, è che il collasso della funzione d’onda rappresenta una temporizzazione dinamica degli eventi reali. È questo collasso “salutare” ad attivare le realtà nei microstati quantistici ma, mentre in laboratorio ed in fase sperimentale di misurazione, è la misurazione stessa a farlo scattare in natura, invece, è il perturbarsi continuo e vicendevole dei sistemi quantistici a provocarlo continuamente, in una sorta di reazione a catena dinamica. C’è sempre una qualche forma di perturbazione fra sistemi, a catalizzare i collassi delle funzioni d’onda e, quindi, le realtà dei microstati. Mi sembra impensabile che possa essere lo stato di coscienza umano, con tutte le sue implicazioni di carattere psichico, a provocare il fenomeno come affermava l’interpretazione di Copenaghen. In questo caso si è trattato, a mio avviso, dell’ennesima antropomorfizzazione della scienza e dei suoi contenuti, assolutamente indipendenti ed estranei all’uomo, se non per la loro investigazione costante ad opera dell’uomo stesso. Il collasso è così automatico che 200

può avvenire ininterrottamente ogni 10-27 secondi cioè, forse, il ritmo di scansione di quel fenomeno irripetibile che chiamiamo realtà! L’Universo, quindi, avanza verso il suo destino temporale di morte termica, passando attraverso miriadi di collassi in soluzione di continuità. L’equazione di Schrödinger è la chiave di lettura di questo andamento e le sue soluzioni, le funzioni di stato, sono le descrizioni di ogni stato del sistema in un’evoluzione temporale e spaziale continua. La realtà, insomma, nel suo stato di sovrapposizione pre-collasso, è solo una descrizione di probabilità statistiche circa le grandezze di un sistema quantistico e le sue osservabili. Parlando della funzione d’onda, non ci si dovrebbe esimere dal parlare anche dello spazio complesso di Hilbert, uno spazio vettoriale infinito di cui la nostra funzione è parte integrante ma poiché non è questa la dimensione divulgativa più adatta, mi guarderò bene dal farlo. Quello che, invece, mi sembra degno di attenzione, è la centralità del fenomeno risolutivo del collasso visto da qualcuno, addirittura, (ma non condivido), come il risultato di uno stato di coscienza delle nostre funzioni mentali. Fisici del livello di John von Neumann, hanno ipotizzato che lo stato di coscienza del nostro cervello non sia altro che una sorta di collasso psichico, nel quadro dello sviluppo di una teoria “mentale” della meccanica quantistica. Nel nostro cervello, cioè, il risultato degli eventi rimarrebbe inconscio, in sovrapposizione di stati, sino a che il collasso psichico della funzione d’onda non lo introduce nello stato di coscienza, con cui prendiamo atto del mondo che ci circonda. Una teoria metafisica affascinante, che non è in contrasto con le logiche neuronali della nostra mente ma neppure, però, con quelle del funzionamento dei microstati quantistici. Che si manifestano ovunque nell’Universo mentre l’uomo è, sino a prova contraria, solo una presenza episodica su uno sperduto pianeta periferico e che può agire fra le mura di un laboratorio. Il fatidico collasso “mentale”, secondo von Neumann, sarebbe determinante al livello dei processi vitali ed estenderebbe il suo manifestarsi al cervello di tutti gli esseri viventi per farne, ovviamente in maniera diversa, un ricettore di realtà percepita. 201

Naturalmente ogni essere vivente lo farà al proprio livello di specie, che per l’uomo significa stato di coscienza causale e rappresentazione evoluta, sia del mondo fisico che di quello della psiche. Questo sconfinamento della meccanica quantistica nei processi mentali, confermerebbe anche il senso della temporalità innata, cioè l’orologio biologico di cui ogni essere vivente è dotato, per essere più “adatto” al proprio ambiente naturale di riferimento. Anche il collasso psichico della funzione d’onda, quindi, sarebbe un meccanismo molecolare che regola i meccanismi fisiologici e lo farebbe in sintonia con quella percezione del tempo che, nel caso dell’uomo, è un’esperienza mentale ma anche culturale prima ancora che oggettiva. Non esito a definire questo “nostro” tempo percepito come il tempo di una miope e sfocata coscienza collettiva di specie, ulteriormente falsata da condizionamenti sensoriali e culturali molto forti. Ho già chiarito che non condivido questa visione “metafisico-neuronale” della realtà quantistica, ad opera soprattutto dell’interpretazione di Copenaghen. Semplicemente perché, ancora una volta, l’uomo viene posto a torto al centro dell’Universo, mentre ne abita temporaneamente soltanto un’oscura, remota periferia. Detto questo, e non è poca cosa per il significato che assume, passiamo adesso a fare i conti finalmente con la mia nuova teoria quantistica di campo.

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Capitolo dodicesimo

La cronodinamica quantistica: una nuova teoria di campo

Gioisci ed ama nel fulgido mattino presto verrà il tramonto e il buio della sera questo è il demone che chiamiamo tempo!

Al punto in cui siamo giunti, dopo un breve viaggio nella fisica del Novecento con alcuni dei suoi protagonisti ed, inoltre, dopo aver ipotizzato una nuova concezione della variabile tempo, suffragata da ulteriori elementi “indiziari” che ritengo condivisibili, eccoci finalmente al salto finale. All’enunciazione, cioè, come promettente ipotesi di lavoro per chi vorrà occuparsene oltre me, della cronodinamica quantistica, la teoria di campo che può spiegare (forse) il tempo e la sua scansione incessante nella dimensione delle particelle elementari, dei campi, dell’energia e nella nostra banalissima vita. Ho già introdotto l’argomento in più parti del libro, per preparare il lettore ad entrare gradualmente in una delle tante realtà misteriose del mondo dei quanti, senza incontrare un’eccessiva difficoltà di adattamento psicologico. Naturalmente, una teoria di campo che si rispetti dovrebbe essere sostenuta da un formalismo matematico solido e completo, personalmente, però, sono un seguace del metodo einsteiniano secondo cui, come si diceva una volta a Princeton con un significativo adagio: “prima la visione poi l’equazione”! Comunque sia, poiché sono convinto che una valida premessa matematica 203

possa sicuramente favorire proprio la “visione” teorica complessiva, è esattamente il lavoro che con qualche difficoltà sto portando avanti. Iniziamo dagli elementi “indiziari” della nuova teoria di campo, dando la precedenza alla sua particella fondamentale: il quanto di tempo, il cronone. Ne ho parlato più volte ed ho scoperto recentemente che questa denominazione, quasi scontata parlando di tempo, era già stata usata nel 1927 dal fisico Robert Levi, facendo riferimento ad una unità discreta ed indivisibile di tempo non continuo. Anche il fisico italiano Piero Caldirola (1914-1984) ipotizzò, senza però particolari conseguenze teoriche, l’esistenza del quanto di tempo ma il suo interesse prese, poi, una direzione diversa. Il cronone, quindi, sarebbe, come già più volte accennato, un bosone non ancora rilevato, cioè uno stato eccitato del campo cronodinamico mediatore della forza cronodinamica o cronocinetica. La QCnD (Quantum Chrono Dynamics da non confondere, lo ribadisco, con la QCD e la QED), descriverebbe l’interazione cronocinetica, quella forza che manifesta i suoi effetti su tutti i tipi di particelle, con il risultato di trasmettere loro l’energia cinetica, o meglio cronocinetica, necessaria per interagire nei microstati ed avere, quindi, un riflesso inevitabile anche negli stati macroscopici. Si tratterebbe della quinta forza fondamentale, in grado di contribuire alla globalità strutturale di ciò che esiste nell’Universo, il tutto, almeno in teoria, secondo i dettami teorici ormai un po’ stagionati del Modello Standard della fisica delle particelle. Tuttora, sino a prova contraria, lo schema più condiviso dalla fisica contemporanea cioè, in pratica, un compromesso appena accettabile fra relatività e meccanica quantistica. Questa fusione, molto parziale, è già operativa fra l’elettrodinamica quantistica e l’interazione debole e fra la cromodinamica quantistica e l’interazione forte, aggiungerei a questo punto che qualcosa di simile potrebbe avvenire anche fra la gravità quantistica e l’interazione cronodinamica, entrambe teorie tensoriali di gauge (significa misura come già spiegato). 204

I rispettivi bosoni, entrambi tensoriali, trasportano l’energia di interazione con uno specifico raggio di azione illimitato e una specifica intensità, dopo essere stati emessi vengono assorbiti dai fermioni con cui interagiscono, cioè le particelle che, come ormai sappiamo, costituiscono la materia. Circa quello che abbiamo definito come il “compromesso accettabile” fra gravità quantistica e interazione cronodinamica, sono numerosi i punti di contatto che potrebbero stabilire un parallelo interessante, ma soprattutto producente ai fini fenomenologici anche fra gravità e tempo. Possiamo affermare infatti con buona approssimazione, che i rispettivi bosoni, il gravitone e il cronone, possiedono entrambi un raggio d’azione infinito, inoltre, un’intensità intorno a 10-38 per il gravitone, legato all’interazione più debole a livello microscopico, mentre per il cronone l’intensità probabilmente è superiore a 1, in quanto legato all’interazione ipoteticamente più forte fra le quattro conosciute. Entrambi i bosoni, sono caratterizzati da un’efficacia ad ampio spettro nei confronti di tutte le particelle e con un’azione diretta soprattutto sulla loro massa e sulla loro energia. Ma non finisce qui, hanno anche carica elettrica e massa nulle, sono particelle molto stabili e con un tempo di dimezzamento praticamente infinito, si tratterebbe, in pratica, di una sorta di parto gemellare se non ci fosse quell’enorme differenza circa le rispettive intensità di interazione (10-38 e 1,5 forse). L’interazione cronodimanica, infatti, possiede ipoteticamente una forza di interazione enorme, superiore a quella dell’interazione forte che, comunque, deve tenere sotto controllo entro un raggio d’azione di 10-15 metri quark e gluoni, cioè tenere insieme il nucleo dell’atomo. Questo deve farci riflettere sulle caratteristiche singolari della nuova interazione cronodinamica, nata per arrivare ovunque nei confronti di tutto, agendo su quanto c’è di più diffuso in natura cioè massa ed energia in ogni sua forma. Un’interazione dotata di una forza così travolgente da trasmettere energia cinetica (cronocinetica) a tutto ciò che “tocca”, farlo muovere, urtare, caricare energeticamente in un delirio di 205

interazioni ininterrotte, che scandiscono “le realtà” ed i loro ritmi temporali. La gravità, invece, è debole ma additiva, cioè somma i propri valori ed ha anch’essa un raggio d’azione vastissimo, da Newton in poi, la conosciamo molto bene in queste sue caratteristiche determinanti. La forza cronodinamica, così totalizzante, ubiqua e potente, forma un tessuto deformabile come lo spazio ed, anzi, è qualcosa che gli appartiene, che ne fa parte: è il tempo dei crononi e dell’energia cronocinetica che viene diretta in tutte le direzioni. Il tempo elastico del tessuto spaziotemporale della relatività di Einstein, il tempo dell’accadere spontaneo, casuale e progressivo, regolato da infiniti “tempi propri” quantistici. Noi, che riusciamo a percepire solo una parte minima del processo nella nostra dimensione, costruiamo un’immagine virtuale dell’accadere e dello scorrere degli eventi, un’immagine psichica che si chiama esperienza e che fa parte della realtà soggettiva in cui viviamo. È una visone rassicurante la nostra ma ingannevole, fatta di cicli vitali ma anche di sentimenti ed emozioni in una sequenza ininterrotta dove il tempo è ancora newtoniano, continuo, unidirezionale e che fa da sfondo amorfo alle azioni umane. Questa, è la nostra esperienza del tempo e qualcuno arriva ragionevolmente a negarlo proprio perché non può essere “così” e non può neppure essere “qui”. È celato, in realtà, nelle pieghe della materia e dell’energia ed agisce come qualsiasi altra forza fondamentale della natura, lontano da noi nei microstati quantistici. Tutto il resto è suggestione umana, è la mistica dell’esistenza di cui abbiamo bisogno per giustificare idealmente la nostra avventura terrena, troppo spesso priva di significati “guida”, di un senso metafisico compiuto e di una dimensione esistenziale comprensibile.

L’energia meccanica: questa sconosciuta Tornando alla nuova teoria del campo cronodinamico, diciamo subito che, innanzitutto, per campo dobbiamo necessariamente 206

intendere una grandezza in funzione della posizione assunta nello spazio e nel tempo. Questa affermazione, però, non significa poi molto in termini assoluti ed esplicativi ed è, sotto un certo aspetto, anche un po’ banale considerando che la famiglia quantistica delle teorie di campo raggruppa capolavori della fisica del Novecento, come l’elettrodinamica quantistica, la cromodinamica quantistica e la teoria elettrodebole, appunto, con le loro risolutive teorie di campo. Non dimentichiamo, inoltre, che anche la relatività generale di Einstein è una teoria di campo. Per quanto riguarda il campo gravitazionale e soprattutto per quello cronodinamico, legato alla temporalità, invece, non ci sono a disposizione teorie di campo accettabili, perciò, in considerazione del fatto che una teoria di campo descrive le dinamiche e la variazione nel tempo di un campo di forza, questa è sicuramente una grave lacuna da colmare con urgenza. La QFT (Quantum Field Theory) considera ogni particella come lo stato eccitato di un campo il quale, a sua volta, non è altro che un’entità quantistica che insiste in ogni punto dello spazio ed a cui si deve il ciclo vitale di ogni particella, cioè dalla sua “creazione” sino alla sua annichilazione. Una caratteristica tipica dei sistemi quantistici, è quella di essere caratterizzati sotto il profilo matematico dalla funzione hamiltoniana H nei calcoli, cui ho già a suo tempo accennato. La funzione di Hamilton trova applicazione soprattutto nella meccanica ondulatoria, mentre nella teoria di campo quantistica ci si serve soprattutto della funzione lagrangiana L distinguendo, però, l’energia cinetica da quella potenziale. A me interessa, per ovvie ragioni, in particolare quella cinetica: Ek = 1/2 mv2 (m è la massa e v2 la velocità della particella al quadrato), che può tranquillamente diventare Ek = p2/2m poiché p = mv (p è la quantità di moto, m è la massa e v la velocità). Per cui, l’energia cinetica di una particella si ottiene dividendo il quadrato della sua quantità di moto per il doppio della sua massa, in pratica, accade che l’energia cinetica è proporzionale al quadrato della quantità di moto. 207

Come mai tanta attenzione rivolta all’energia cinetica? Poiché, nella nuova denominazione di energia “cronocinetica”, è la vera chiave di volta della cronodinamica e rappresenta il vero “motore”, la vera forza dinamica che fa muovere l’Universo, lo spazio e il tempo e che si manifesta nei microstati e nella schermaglia quantistica continua dei campi di forza. Se varia la velocità di un corpo massivo, varia anche la sua energia cinetica che, quindi, è strettamente legata a valori come la massa, la velocità e la temperatura. Tutti i corpi in movimento possono compiere lavoro grazie alla propulsione della propria energia cinetica. È intuitivo, però, che questo lavoro, tipico concetto del contesto classico della fisica e che assolutamente non somiglia a quello della realtà quantistica, dove indeterminatezza, relazionalità e quantizzazione la fanno da padroni, sconvolgendo la scena e tramutando ciò che è cinetico in cronocinetico! Il concetto classico e banale di lavoro, in questo panorama complesso e scarsamente causale, equivale ad interazioni, fluttuazioni del vuoto, emissioni ed annichilazioni continue, tipici di una realtà microscopica autoreferenziale. Anche l’energia potenziale svolge un ruolo importante in questa economia del movimento, in particolare, può essere intesa come l’energia di un corpo che dipende dalla sua posizione in un campo di forza, ad esempio la gravità terrestre e, quindi, può essere addirittura anche un concetto gravitazionale. Come ho già accennato in precedenza, l’energia potenziale, in fondo, non è che una riserva di energia cinetica pronta a manifestarsi quando le condizioni quantistiche glielo permettono. Nella fisica classica, se un corpo è in bilico, è ricco di energia potenziale e la sua energia cinetica è nulla, non appena il corpo cade le parti si invertono per poi tornare come prima una volta al suolo (non esattamente). In meccanica quantistica, però, la complessità del movimento, della quantità di moto è molto più articolata, esiste infatti la meccanica ondulatoria, quella statistica, e tante altre complicazioni di sistema in termini di moto. Ad esempio, nella caduta nel vuoto senza attrito con l’aria, la somma fra le due energie 208

“sorelle” (potenziale e cinetica) non si modifica mai, ne sapeva qualcosa Galileo… Quella che vorrei sottolineare, comunque, è la profonda affinità quantistica fra le varie forme di energia, che poi hanno effetti diversi sulle particelle elementari, un esempio significativo, credo, sia quello dell’affinità fra l’energia meccanica potenziale e quella potenziale elettrica. Quest’ultima, non è che l’energia potenziale di un campo elettrico ed insieme all’energia magnetica, origina l’energia del campo elettromagnetico. Naturalmente, per convertire l’energia potenziale e quella cinetica in energia elettrica, ad esempio di un liquido, c’è bisogno di un processo tecnologico complesso, come l’azione di una turbina. In natura, certi processi di trasformazione energetica possono verificarsi spontaneamente ed in questi casi, addirittura, la conversione spontanea è pari al 100%, senza alcuna perdita, la conversione cioè è totale perché l’energia si conserva ma si trasforma. Tutte le forme di energia, inoltre, possono trasformarsi in energia termica ma non è possibile il contrario, infatti, l’energia termica è la più degradata e povera di tutte, originata dall’agitarsi degli atomi e delle molecole è, in un certo senso, un’energia “parassita”. La cinetica, invece, è una forma di energia nobile, classificata come di “prima specie”, convertibile in natura in più tipologie energetiche diverse. Il suo tasso di conversione o “exergia”, è quasi senza dissipazione e ciò ne denuncia l’attitudine ad un trasformismo energetico funzionale, che nella fisica quantistica è particolarmente determinante ma poco conosciuto. Questa funzione determinante dell’energia cinetica (ormai cronocinetica) si manifesta, soprattutto, nella cronodinamica quantistica dove la sua versatilità si traduce sotto il profilo matematico nell’operatore hamiltoniano H, che è definito come la somma dell’energia cinetica e di quella potenziale. Inoltre, lo preciso solo per i più esperti, l’operatore hamiltoniano corrisponde esattamente “all’osservabile” energia delle particelle elementari (è una grandezza misurabile, cioè anche un operatore, o anche una funzione). Senza scendere troppo in dettagli, mi limiterò a dire che tale energia è identificata 209

in una funzione scalare, appunto l’hamiltoniana, che consente di rendere compatibili probabilità e dinamica nel sistema in esame. Risulta fondamentale in quest’ottica, la caratteristica della meccanica hamiltoniana di essere un’ottima analisi dei sistemi altamente dinamici e, quindi, anche della cronodinamica. È questa la ragione per cui combatto la mia battaglia matematica, proprio su questo fronte e penso di non arrendermi tanto facilmente. Tornando alla cronodinamica quantistica ed ai suoi dati identificativi, seppure non ancora rilevati ufficialmente, ritengo questa teoria di campo come ormai in attesa di analisi e di riconoscimento. Proprio com’è già avvenuto, del resto con grande ritardo, per le onde gravitazionali ipotizzate da Einstein nel 1915 e “trovate” solo nel 2015 e per il gravitone, che tuttora manca all’appello proprio come il cronone. A proposito delle onde gravitazionali, il Nobel 2017 è andato a Kip Thorne, Barish e Rainer Weiss, a quest’ultimo con il maggiore merito ed a Thorne per le collaborazioni con gli interferometri americani LIGO e quello di Cascina VIRGO, che hanno avuto il grande merito di aver rilevato le onde. Kip Thorne, che è un vero personaggio, merita però qualche parola in più per la sua creatività scientifica ed il suo carattere esuberante. Vecchio amico di scherzi e scommesse dell’ormai scomparso Hawking, collabora dal Caltech anche a sceneggiature cinematografiche di fantascienza e si getta sempre con entusiasmo in tutte le avventure scientifiche che gli capitano a tiro. Non a caso, le onde gravitazionali sono un fenomeno impetuoso che gli è particolarmente congeniale, in quanto violente vibrazioni dello spaziotempo provocate da cataclismi stellari. Ho conosciuto personalmente il vulcanico Kip Thorne nell’estate del 2017 a Venezia, dov’era stato invitato per ritirare un premio, gli ho parlato della mia teoria di campo e l’ho visto spesso annuire, non so se per cortesia o forse a causa del mio inglese scadente oppure in funzione della mia tesi. La sua faccia barbuta da profeta biblico, si è animata quando gli ho detto che lo spin del “mio” cronone è, secondo me, pari a 2 unità proprio come quello del “suo” gravitone. 210

A settantasette anni suonati, Kip è un vecchio hippy ancora in cerca di novità eccitanti, di lui parlerò ancora.

Conversioni energetiche Nel capitolo VII al paragrafo dedicato ad “Una forza speciale”, ho parlato di una stranezza circa il comportamento della gravità quantistica. La stranezza consiste in un fenomeno noto: quando una massa più piccola è nel campo gravitazionale di una più grande, la forza gravitazionale e le relative accelerazioni subite, dipendono proprio dalla massa minore. In campo elettrico, ad esempio, accade il contrario: più carica elettrica più accelerazione per la relativa particella. Il nocciolo della questione deve risiedere nel “principio di equivalenza” di Einstein, secondo cui la massa gravitazionale coincide con quella inerziale ma la ragione di tutto ciò, comunque, non è ben chiara. Quello che conta, è che la massa più piccola dirige il gioco e determina l’accelerazione e la forza gravitazionale. Mi chiedo, se qualcosa di simile non accada anche nel caso dell’energia cronodinamica. Ciò potrebbe verificarsi al livello dei microstati che compongono lo spaziotempo e soprattutto nelle “vicinanze” dei valori estremi di Planck. Dove l’energia cinetica (cronocinetica) è una componente microscopica che potrebbe essere addirittura negativa. Con la conseguenza di ridurre la probabilità di trovare la particella, in un certo tempo ed in un certo luogo, ad una quantità finita di possibilità. In altre parole, nel tessuto microscopico dello spaziotempo, dove le forze gravitazionale e cronocinetica supportano e veicolano l’Universo, si verificherebbero i processi quantistici che governano i risolutivi collassi delle funzioni d’onda delle particelle. Inoltre è là che il tempo, o meglio i “tempi propri”, grazie alla forza propulsiva delle due energie, manifesterebbero il loro scorrimento cronologico e fattuale. Chiuso, anzi semiaperto, il capitolo della gravità, torniamo ai nostri “orfanelli”: i crononi, il campo cronodinamico o cronocinetico, 211

che dir si voglia, e le conversioni quantistiche dell’energia cinetica che diventa nella mia teoria di campo cronocinetica. Abbiamo detto che solo le trasformazioni spontanee in natura possono totalizzare una conversione totale e mai quelle indotte dall’uomo, inoltre le conversioni in natura rispondono alla logica secondo cui l’energia ha la tendenza a trasformarsi e non rimane quasi mai nella stessa forma. Così, ad esempio, in natura le piante attraverso la clorofilla contenuta nelle loro foglie trasformano l’energia radiante del sole in energia chimica. È significativo, come già accennato, che per ogni trasformazione spontanea il rendimento è pieno, pari al 100%, mentre nelle conversioni indotte dall’uomo si ha una notevole perdita di energia, che si può trasformare in calore parassita. Esiste cioè in natura, un senso dell’equilibrio e della conversione che favorisce una strana sorta di “ibridazioni” energetiche in tutte le direzioni possibili. Nel mondo dei quanti, questa sorta di “equivalenza impropria”, di simmetria energetica tra forme diverse di energia nata all’alba del Big Bang, deve essere tuttora in parte attiva anche se ritengo che non ne sappiamo ancora abbastanza per parlarne diffusamente e con cognizione di causa. In definitiva, in natura l’energia segue “l’istinto” irrefrenabile di trasformarsi ed in meccanica quantistica, per ragioni abbastanza misteriose e forse anche per il processo di quantizzazione dell’energia, il fenomeno sembrerebbe favorito e relativamente comune. La ragione risiede probabilmente nelle origini dell’Universo, quando nel brodo primordiale tutte le forze e le energie “vivevano in pace” in una simmetria totale, tutte le forme di energia, quindi, avrebbero la tendenza ad unirsi in una sorta di entanglement tipologico generalizzato in natura. Nel mondo dei quanti, in particolare, mi sembra di intravedere una parziale ibridazione delle forme energetiche, l’energia meccanica quantizzata, ad esempio, può essere considerata alla stregua dell’energia meccanica della teoria classica? Nel primo caso, ci troviamo di fronte solo a valori discontinui di energia, nel secondo solo a valori continui, ma è tutta qui la differenza? Qual è il ruolo dell’energia 212

meccanica nella sua doppia manifestazione di energia cinetica e potenziale quantizzata, nel contesto di un sistema quantistico formato, ad esempio, da elettroni soggetti al tira e molla continuo delle cariche elettriche? Ebbene, l’energia meccanica riveste un ruolo fondamentale in cui l’operatore hamiltoniano H rappresenta proprio l’energia meccanica totale. Inoltre ed è significativo, l’energia cinetica insieme alla potenziale, provocano la vibrazione vitale che si verifica, ad esempio, all’interno di un “oscillatore armonico”. Cioè un sistema in equilibrio stabile che, se sollecitato da una perturbazione, effettua oscillazioni di tipo armonico che lo spostano dal suo stato di equilibrio, es. un elettrone che oscilla nel campo del suo atomo. Un altro caso analogo è quello del genere di moto caotico provocato in un elettrone racchiuso in un conduttore metallico di cui, però, non ho intenzione di parlare in questa sede. Insomma, penso che ci si trovi di fronte a forme di vera e propria ibridazione energetica simile a quella registrata nel caso della forza elettrodebole, oppure nella più clamorosa equivalenza einsteiniana fra massa ed energia. Ed ancora, ma è un’ipotesi da appurare, nella futura, eventuale fusione fra la gravità quantistica e la cronodinamica quantistica nate, a mio avviso, per supportarsi a vicenda in uno scenario attivo fatto di spazio e di tempo ed in un continuum interattivo con la materia e l’energia. Entrambe, veicolate da bosoni molto simili, nel loro spaziare ubiquo in tutti gli angoli dell’Universo. Un’ipotesi già richiamata e presa in considerazione nel VII capitolo al paragrafo dedicato a “Una forza speciale”. Si potrebbe trattare di una fusione parziale, anche a livello di formalismo matematico, da far poi rientrare nel contesto complessivo della famosa Teoria del Tutto, dove le forze della natura sarebbero finalmente riunite in un’unica forza totalizzante ed onnicomprensiva. Anche la teoria delle Stringhe, dove alle particelle vengono sostituiti filamenti che si propagano e vibrano in uno spaziotempo fisso, del resto, non è che una forma di generalizzazione della teoria quantistica dei campi. 213

L’unico vero ostacolo a questi accorpamenti, è la nostra ignoranza circa la strada da percorrere per realizzarli, su una base credibile di solido formalismo matematico. L’altro grosso problema da superare e da far comprendere ad alcuni addetti ai lavori è che la meccanica quantistica per certi versi, ma soprattutto sotto l’aspetto dinamico, è molto più simile alla meccanica newtoniana di quanto non lo sia la relatività. Il suo sfondo fisso ed amorfo di newtoniana memoria, è lo spazio di Minkowski (il professore di Zurigo che chiamava Einstein “cane pigro”!), cioè un modello di spazio fatto su misura per la relatività ristretta, che non tiene conto della gravità e perciò neppure dello spaziotempo curvo e vitale. Un palcoscenico immobile, quindi, piatto e “locale” in cui il tempo, invece, con la sua cronologia “mobile”, funziona da catalizzatore cronologico dei vari aspetti dinamici e fenomenologici. Per questa ragione, la mia visione di un tempo causale è legata alla fisicità concreta di un bosone mediatore e può essere fatta rientrare in una vera teoria di campo. Il mio campo cronodinamico, veicolato e che veicola i crononi, è un campo in cui il tempo dei microstati si manifesta con il cambiamento progressivo dell’accadere (leggi modalità motorie delle entità quantistiche). È l’accadere stesso, che le trasformazioni dell’energia meccanica rendono possibile su materia ed energia, è un tempo cronologico fatto di eventi in successione relativa e non solo di entità quantistiche in corso di interazione reciproca, si tratta in definitiva dell’accadere non dell’essere! Se il tempo non esistesse veramente – ma nessuno potrà mai presentarci per una stretta di mano il “signor Tempo” – perché allora nella meccanica quantistica lo si trova ovunque a condizionare lo spazio ed in pratica la struttura dell’Universo? Sembra, da studi recenti, che anche l’entanglement quantistico abbia un ruolo nel meccanismo che fa emergere la struttura microscopica dello spaziotempo. I quanti di spazio ed i quanti di tempo, alla dimensione che conosciamo della lunghezza di Planck (1.62 X 10-33 cm), creano il famoso tessuto granulare che è la struttura dinamica portante dell’Universo. Più che di un tessuto granulare 214

però si tratterebbe, a mio avviso, di una “schiuma” infinitesimale molto simile a quella ipotizzata nel 1993 dai fisici Weaire e Phelan del Trinity College di Dublino. Cioè una struttura articolata in “celle di spaziotempo” composte come forme poliedriche di vario genere, “impacchettate” fra loro al massimo della razionalità geometrica nel riempire totalmente lo spazio senza lasciare vuoti. Una mirabile logica geometrica universale priva di “sprechi” spaziotemporali. Al contrario, è il caso di ribadirlo ancora una volta, non esistono né il genere di spazio né il genere di tempo continui ed univoci della teoria classica e neppure, a mio avviso, quelli dell’annoso esempio relativistico della palla da bowling poggiata sulla superficie elastica dello spaziotempo, che provoca le relative deformazioni, curvature ed attrazioni varie. Esiste un tempo quantistico non meno coinvolgente di quello dell’esperienza umana, ma molto più determinante perché reale ed oggettivo nel suo manifestarsi, anche se fuori dalla realtà indotta della nostra percezione. Si manifesta dall’inizio dei “tempi” in forma di eventi fattuali soprattutto nella dimensione subatomica. È la realtà impercettibile che avanza e condiziona quella percettibile alla nostra portata, si tratta del vero respiro dell’Universo che “accade” ininterrottamente dai primordi, con o senza di noi, ma sicuramente con l’apporto indispensabile di materia, energia, spazio e tempo. Anche la gravità quantistica, in fondo, “la pensa” in questo modo ed evoca un Universo fatto solo di campi quantistici in interazione continua, da questi campi, però, nasce qualcosa di prodigioso: proprio il tempo, in una forma indeterminata, discreta e relazionale proprio com’è tipico della meccanica quantistica. Questo quanto di tempo, che potremmo definire anche come atomo elementare di tempo, è prodotto sia dal campo gravitazionale che origina anche lo spazio, sia dal campo cronodinamico o cronocinetico. Facendo riferimento ed attingendo a quell’energia meccanica “quantistica”, che gli permette di attivare un percorso/ processo di eventi cronologici. Sono certo che investire sul tempo come stato puro, come variabile costante e grandezza osservabile di un sistema quantistico, 215

è fondamentale per ottenere un formalismo matematico coerente completo, e per aggiungere dimensioni di probabilità, ben oltre il consueto “modulo quadro sommabile” della funzione d’onda. Quella formulazione matematica, cioè, che rappresenta l’ampiezza di probabilità di trovare la particella in un certo tempo ed in una certa posizione spaziale (│Ψ (x, y, z, t) │2 ricordate?). Inoltre, il collasso della funzione d’onda o del vettore di stato o la riduzione del pacchetto d’onda, che dir si voglia, rappresenta una risoluzione reale, concreta e non semplicemente “filosofica” di un autostato sovrapposto, relativo o alla posizione o allo spin o alla velocità di una particella. Questa confusione sospesa si risolve puntualmente e diviene realtà con una cadenza infinitesimale, che rappresenta il respiro dell’accadere generalizzato ed ubiquo, cioè, la realtà dello scorrere del tempo. Una grandezza fisica che esiste e che governa “da sempre” con pugno di ferro l’Universo, le sue particelle elementari ed i suoi burattini inconsapevoli cioè noi poveri umani perduti nel tempo. Eppure, la chiave di lettura del grande mistero temporale risulta in fondo abbastanza comprensibile, più difficile è riuscire a percepirla come la spiegazione globale della realtà e crederci veramente. È la brevità inconsistente degli intervalli cronodinamici, la provvisorietà di ciò che non è eterno cioè praticamente tutto, a costruire una realtà estremamente dinamica e dotata di una “virulenza” creativa esponenziale. Questa caratteristica di diversità continua in tutto ciò che muta per non tornare mai più ad essere la stessa cosa, costituisce il senso stesso della precarietà logica che avvertiamo in ogni fenomeno quantistico. Credo che la realtà temporale, ma non quella fittizia dell’esperienza umana, può essere compresa solo in funzione della sua continua, concreta complessità fattuale. Di cui lo scorrimento cronologico, provocato dal processo cronodinamico, è il motore inarrestabile che conduce in quel luogo veramente estremo che continuiamo, con un po’ di naturale scetticismo, a chiamare tempo!

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Conclusione

Giunto alla conclusione di questo mio lavoro e sulla falsariga di quanto ho scritto circa la mia piccola ossessione sul tempo nella prefazione, penso di potermi rilassare con un’altra confessione finale che ritengo peraltro doverosa: ho scritto questo libro con un duplice scopo recondito. Da un lato, per ingenerare qualche dubbio ragionevole negli addetti ai lavori e nei lettori più esperti, dall’altro per infondere qualche piccola certezza rassicurante nel lettore meno preparato. L’ho fatto, perché ritengo che entrambi abbiano bisogno, per ragioni diverse, proprio di questo, in una materia che è allo stesso tempo scientifica e direi quasi anche in un certo senso “umanistica”, visto che cerca di svelare nel profondo il senso del “Tutto”, esistenza compresa. Questo Tutto, che dà anche il nome alla famosa teoria unificatrice, cui ho accennato, racchiude il concetto complessivo più vasto che sia mai stato immaginato da mente umana e potrebbe essere, in un futuro che spero non certo remoto, contemporaneamente una spiegazione e una ragione di vita. Questo libro, invece, è solo un tentativo, spero non troppo maldestro, di farla franca almeno per una volta nei confronti dell’ignoto il padre, cioè, di tutti i misteri, che resiste strenuamente ai nostri tentativi di conoscenza. La mia teoria quantistica di campo, che è anche una provocazione molto realistica tuttora priva però di una formalizzazione matematica completa, vuole essere soprattutto il classico sassolino 217

lanciato in piccionaia perché qualcuno lo raccolga e ci rifletta sopra. A questo punto, però, vorrei rivolgere anche un pensiero grato al lettore paziente che ha voluto seguirmi fino in fondo. Capisco che non deve essere stato sempre facile, come non è facile fare il divulgatore scientifico, sempre in bilico fra semplificazione e banalizzazione. Non so, se sono riuscito nel mio intento di presentare come “normali” fenomeni che non lo sono affatto, almeno sotto il profilo intuitivo. Spesso nella storia ma anche nella scienza, è stato il fraintendimento il vero protagonista degli eventi, con effetti problematici ed improbabili conclusioni. Non a caso, ad esempio, fu assegnato ad Einstein il Nobel per la Fisica nel 1922 per la ragione sbagliata e cioè per l’effetto fotoelettrico, un fenomeno relativamente modesto anche se ricco di potenzialità in senso quantistico. È accaduto semplicemente perché nessuno all’Accademia Reale svedese delle scienze aveva realmente compreso la grandiosità della relatività generale! Non è facile, quindi, rimanere nell’alveo tranquillo della divulgazione scientifica, trattando una materia “opinabile” come la meccanica quantistica. Appena al di sotto della superficie trasparente e tecnologica del mondo degli acceleratori di particelle, infatti, c’è una realtà fatta di logiche controintuitive, di non risposte o di risposte non causali. Questo è il regno di Oz in cui causa ed effetto non si rincorrono mai, le particelle hanno due nature diverse, posseggono il dono dell’ubiquità come i santi medievali della tradizione cristiana e compaiono dal nulla per poi rituffarvisi immediatamente! Provate a parlarne ad un profano (il migliore dei lettori) evitando di fare la figura del pazzo! La difficoltà maggiore per un autore, infatti, è quella di non perdere la via maestra della teoria, per smarrirsi nella dimensione del possibile. Penso di averlo fatto sicuramente in più di un’occasione e me ne rammarico, ma quella in cui sono stato immerso sino al collo è la logica quantistica delle forze e delle particelle, non quella prevedibile del pensiero umano. 218

Le particelle interagiscono e non capiscono, proprio come spesso succede a noi nonostante il nostro eccezionale pedigree di specie “evoluta”. Spero, comunque, che questo viaggio fatto insieme sia stato utile, magari con qualche battuta d’arresto nell’attenzione ma comunque interessante, tanto da spingere il lettore a tenere in futuro un canale di ricezione sempre attivo per saperne di più.

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Ringraziamenti

Un particolare ringraziamento, doveroso, è rivolto a Lorena Nurzia la mia impeccabile consulente informatica. Vengono poi per altri meriti ma soprattutto per la “sopportazione”, mia moglie Rossella, mia figlia Allegra e il mio nipotino Filippo per non aver caotizzato troppo la mia scrivania ed i fogli con la stesura del libro. Un ringraziamento particolare va all’Editore per l’interesse dimostrato ed i preziosi consigli, inoltre al Gruppo Majorana, di cui mi pregio essere il coordinatore scientifico ed il divulgatore, per i suoi contributi e lo stimolo ad andare avanti. Un ringraziamento atipico, concedetemelo, va anche ad un povero divulgatore scientifico per la particolarità del tema trattato cioè una nuova teoria quantistica di campo. Un progetto complesso, non ancora interamente formalizzato, ma abbastanza ambizioso per le prevedibili implicazioni scientifiche e gli eventuali sviluppi. Per concludere un ultimo ringraziamento va al lettore, la vera ragione di questo libro, sia al profano che a quello più esperto in materia. Entrambi pazienti e motivati dall’interesse ma anche dalla semplice curiosità: il vero motore della conoscenza.

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Dello stesso autore Sandro Pandolfi, Il tempo verticale. Aforismi, massime e dediche di pietra, 2011, pp. 176 ISBN 978-88-6081-958-1 Il tempo verticale è una piccola antologia di aforismi e di massime articolati dall’Autore secondo una tipologia tematica che abbraccia categorie logiche complesse e coinvolgenti. Fra le doverose “istruzioni per l’uso” di questo libro c’è sicuramente quella fondamentale di centellinarlo, di non leggerlo cioè ovunque e frettolosamente perché ciò che vuole esprimere è nemico dell’ansia e della fretta ma, soprattutto, di tutto ciò che affolla inutilmente e spesso in modo ossessivo la nostra mente. Ad arricchire il volume, “giochi di parole” e “dediche di pietra”, omaggi giocosi alla magia della parola e alle sue assonanze, godibili come note musicali.

Sandro Pandolfi, Il paradosso coerente. Il futuro teorico della nuova fisica, 2013, pp. 240 ISBN 978-88-6677-231-6 Il Paradosso coerente è un libro che si inserisce nel nuovo contesto della fisica teorica contemporanea. Un settore scientifico la cui complessità multidisciplinare è ormai manifesta e ne costituisce, anzi, il tratto dominante. Ai nostri giorni, non è possibile essere un buon fisico se non si è contemporaneamente un buon matematico con nozioni avanzate di biologia, ma anche un filosofo. È solo una visione complessiva della natura e dell’esistenza, infatti, a rendere finalistici ed esplicativi la Relatività ed i fenomeni Quantici, legati alle particelle elementari e alla loro funzione di componentismo essenziale della materia. La “nuova” fisica non si limita più alla formalizzazione matematica delle leggi che governano l’Universo, ma ne vuole comprendere la funzione insostituibile, in un contesto totalizzante ed esaustivo. Il volume rappresenta la riflessione più recente, in chiave critica, circa questo nuovo scenario scientifico in via di formazione, arricchita da una visione complessiva originale e stimolante. Finalista nel primo Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica 2013 promosso dall’Associazione Italiana del Libro, con il patrocinio del CNR e di Roma Capitale. Sandro Pandolfi, Le orme e la sabbia. Riflessioni corsare di un “professionista dell’esistenza” 2014, pp. 630 ISBN 978-88-6677-416-7 Le orme e la sabbia, oltre ad essere un piccolo vademecum esistenziale imperniato su riflessioni che spaziano dalla scienza alla filosofia, dalla politica alla storia, dalla natura alla cosiddetta morale, è un libro che fotografa con originalità le contraddizioni culturali ed etiche della realtà in cui viviamo. Una dimensione del reale mutevole e cangiante in cui l’uomo contemporaneo rischia di smarrire il proprio equilibrio interiore, pressato com’è da una miriade di input esterni dal significato problematico. Si tratta di un vero e proprio assordante rumore di fondo che finisce per atterrirlo anziché renderlo partecipe di un’esperienza collettiva, che sembra però non avere più un significato preciso. Queste “riflessioni corsare”, arricchite anche da aforismi e massime capaci di sintetizzare il nonsense diffuso della condizione umana, vogliono rivolgersi, senza enfasi, a chi ha il coraggio “temerario” di condividere il loro messaggio iconoclasta.