Il principio di ragione

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Il principio di ragione

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La

poesia di Hiilderlin Segnavia

Martin Heidegger

IL PRINCIPIO DI RAGIONE A cura di Franco Volpi Traduzione di Giovanni Gurisatti e Franco Volpi

ADELPHI EDIZIONI

Titolo originale: Der Satz vom Grund

@ 1 957

UNTHER

VERLAG G

@ 1 991

NESKE PFULLINGEN

ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO ISBN

88-459·0844·5

INDICE

Premessa

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Il principio di ragione. Corso universitario 1955·1956 13 15 Lezione prima 27 Lezione seconda 39 Lezione terza 52 Lezione quarta 63 Lezione quinta 77 Lezione sesta 92 Lezione settima 106 Lezione ottava 118 Lezione nona 130 Lezione decima 1 44 Lezione undicesima 159 Lezione dodicesima 174 Lezione tredicesima Il principio di ragione. Conferenza

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Nota del Curatore

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Glossario di Franco Volpi

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IL PRINCIPIO DI RAGIONE

PREMESSA

pensieri qui proferiti sul principio di ragione rien­ trano nel più vasto ambito di un tentativo la cui espo­ sizione richiederebbe altre forme. Nel testo immutato del corso universitario (profes­ sato nel semestre invernale 1955-1956 all'V niversità di Friburgo in Brisgovia) sono state volutamente mante­ nute le ripetizioni dello stesso ragionamento. La conferenza fu tenuta il 25 maggio 1956 nel Club di Brema e il 24 ottobre 1956 all'Università di Vienna. Le parti non lette e i ragguagli aggiunti successiva­ mente sono posti tra parentesi quadre. I

Friburgo in Brisgovia, marzo 1957

IL PRINCIPIO DI RAGIONE CORSO UNIVERSITARIO

1955-1956

LEZIONE PRIMA

Il principio di ragione, la tesi del fondamento,* di­ ce: nihil est sine ratione. Si traduce: niente è senza ragio­ ne, senza fondamento. Ciò che la tesi asserisce appare evidente. Evidente è ciò che comprendiamo senza bi­ sogno di altro. Il nostro intelletto non sente il bisogno di sforzarsi ulteriormente per comprendere la tesi del fondamento. Da che cosa dipende questo? Dal fatto che l'intelletto umano in quanto tale, ovunque e ogni qualvolta è in attività, mira subito a scovare il fonda­ mento in base al quale ciò che gli capita di incontrare è così com'è. L'intelletto mira a scovare il fondamento nella misura in cui esso stesso, in quanto intelletto, esi­ ge che il fondamento venga indicato. L'intelletto pre­ tende che per le sue asserzioni e per le sue affermazio­ ni si dia una fondazione. Soltanto le asserzioni fonda­ te sono comprensibili e ragionevoli. E tuttavia l'intel­ letto non esige fondamenti solo al momento di asseri­ re ; il rappresentare umano si pone già alla ricerca di fondamenti non appena ha a che fare con ciò di cui *

Satz vom Grund. Per la traduzione di questa espressione, in con­ formità con l'interpretazione datane da Heidegger, si veda sotto la Nota del Curatore e il Glossario.

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Il principio di ragione

solo in un secondo momento si deve asserire qualcosa. Esso cerca fondamenti in tutto ciò che lo circonda e lo riguarda: sovente si limita ai fondamenti più vicini, talvolta tenta pure di individuare i fondamenti più re­ moti, ma alla fine mira ai fondamenti primi e ultimi. Questa ricerca di fondamenti pervade il rappresen­ tare umano prima ancora che esso si occupi di dare fondazione alle sole asserzioni. L'onnipresente ricerca di fondamenti pretende di sondare il fondo di tutto ciò che ci capita di incontrare. In ogni sondare il fondo (Er-grilnden) e in ogni fon­ dare (Be-grilnden) ci troviamo su un cammino che porta al fondamento. Senza veramente saperlo, siamo sem­ pre in qualche modo chiamati ed esortati a prestare at­ tenzione ai fondamenti e al fondamento. Come se la cosa venisse da sé, nel nostro comportar­ ci e nel nostro rappresentare ci troviamo a essere in cammino verso il fondamento. Per così dire, abbiamo costantemente presente la tesi del fondamento: nihil est sine ratione. Niente è senza ragione, senza fonda­ mento. Il nostro comportamento tiene conto ovunque di ciò che la tesi del fondamento dice. In questo senso, quindi, non può sorprendere nem­ meno il fatto che, ovunque il rappresentare umano proceda in modo non solo ragionevole, ma riflessivo, col tempo si accorge pure espressamente di seguire ciò che asserisce la tesi del fondamento, posta esplici­ tamente solo più tardi. L'uomo diviene consapevole a poco a poco del fatto di trovarsi e di procedere al se­ guito della tesi del fondamento. Nella misura in cui il rappresentare umano si rende conto di sondare e di fondare ovunque e comunque tutto ciò che incontra, la tesi del fondamento risuona in esso come movente del suo comportamento. Dicia­ mo, con cautela: la tesi risuona. Essa non trova affatto una enunciazione così facile e ovvia come si potrebbe ritenere in base al suo contenuto. Persino là dove il rappresentare umano passa a riflettere sul suo stesso fare e si prende cura di tale riflessione, persino là do-

Lezione prima

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ve questa riflessione si eleva fino a diventare ciò che da tempo viene denominato con la parola greca qJLÀ.ooo­ qJ(a, persino nella stessa filosofia, dunque, la tesi del fondamento per lungo tempo risuona soltanto. Ci vo­ gliono secoli prima che essa venga enunciata nella for­ mula sintetica riportata all'inizio, e cioè come una tesi vera e propria, un principio. Questa formula parla in latino. La tesi del fondamento, come principio di ra­ gione sufficiente, venne per la prima volta formulata in questo modo e fu particolarmente discussa nell'am­ bito delle riflessioni che Leibniz riuscì a sviluppare nel XVI I secolo (si veda Opuscules et fragments inédits de Leibniz, a cura di Louis Couturat, Alcan, Paris, 1 903, p. 515). Ma la filosofia si è affermata e sviluppata in Occi­ dente già dal VI secolo avanti Cristo. Ci sono quindi voluti duemilatrecento anni prima che il pensiero eu­ ropeo occidentale riuscisse a individuare e a stabilire la semplice tesi del fondamento. È davvero strano che una tesi così ovvia, che ovun­ que guida implicitamente ogni rappresentare e ogni comportamento umani, abbia avuto bisogno di così tanti secoli per venire enunciata espressamente come principio nella formula riportata all'inizio. Ma più strano ancora è il fatto che continuiamo a non stupirei dell'estrema lentezza con cui la tesi del fondamento viene alla luce come principio di ragione. Il lungo pe­ riodo di cui ha avuto bisogno per venire alla luce po­ trebbe essere definito il suo tempo di incubazione: duemilatrecento anni per stabilire questa semplice te­ si. Dove e come la tesi del fondamento è rimasta tanto a lungo in letargo, sognando già ciò che in essa rima­ neva impensato? Questo non è ancora il momento giusto per riflettere su tale questione. Inoltre, adesso non siamo probabilmente ancora abbastanza vigili per comprendere adeguatamente lo strano fatto che si an­ nuncia non appena iniziamo a prestare la dovuta at­ tenzione al tempo di incubazione straordinariamente

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lun �o della tesi del fondamento, ossia del principio di ragtone. Dapprima non vi troviamo nulla di eccitante. La formulazione della tesi in termini di asserzione per lungo tempo non ebbe luogo. Quando poi la tesi ven­ ne enunciata esplicitamente, in apparenza nulla di es­ senziale mutò nel cammino del pensiero. Ma allora, perché meravigliarsi della strana storia della tesi del fondamento? Diciamolo pure: né la tesi né la sua sto­ ria ci stimolano particolarmente a soffermarci più di tanto. Abbiamo oggi ben altre cose da cui essere at­ tratti, per esempio la scoperta di nuovi elementi nelle scienze naturali, o l'invenzione di orologi di nuovo ti­ po che ci permettono di calcolare l'età della terra, op­ pure un libro su > .

LEZIONE SECONDA

Già dai primi passi richiesti dal cammino speculati­ vo di questa lezione, potrebbe essere utile considerare attentamente il filo conduttore che stiamo seguendo e la regione in cui questo cammino ci conduce. Il cam­ mino va verso la tesi del fondamento, verso ciò che es­ sa dice, ciò di cui dice e come lo dice. La tesi del fon­ damento dice: nihil est sine ratione; niente è senza ra­ gione, senza fondamento. Non ci siamo inoltrati nel contenuto della tesi : il cammino si è subito allontanato da questa che era la direzione più ovvia. Ci siamo piut­ tosto soffermati a chiederci a quale specie di tesi ap­ partiene la tesi del fondamento. La filosofia la annove­ ra fra le tesi fondamentali supreme, che vengono det­ te anche princìpi. Riflettendo sulla tesi del fondamen­ to in quanto tesi fondamentale, e cioè in quanto prin­ cipio, il filo conduttore assunto all'inizio ci ha condot­ to per così dire, seguendo la tesi, al suo esterno. Ab­ biamo evitato di toccare direttamente il suo interno, il suo contenuto. In questa tesi è sconcertante il fatto che già il cammino che le gira attorno all'esterno dà fin troppo da pensare. In seguito si vedrà se abbiamo fatto bene a procedere così, si vedrà cioè fino a che punto il nostro procedimento ci avvicina ugualmente,

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se non addirittura più rapidamente, al contenuto del­ la tesi, più di quanto non accadrebbe se volessimo ten­ tare di avviare subito una discussione sul suo conte­ nuto. Per questo motivo, non vorremmo lasciar cadere prematuramente il filo che abbiamo colto nella prima lezione. Esso deve condurci a una posizione dalla qua­ le possiamo anzitutto ottenere una conoscenza più precisa di come la tesi del fondamento si presenta nel­ l'ambito del pensiero occidentale. In questo modo co­ minciamo a fare conoscenza con la tesi del fondamen­ to in quanto tesi fondamentale, e cioè in quanto prin­ cipio. Tale conoscenza ci permette di cogliere il nostro rapporto abituale con la tesi. Ma con la cognizione di questo nostro rapporto cade contemporaneamente una luce su noi stessi e sul nostro modo di pensare corren­ te. Così potrebbe dunque accadere che la tesi del fon­ damento, pensata in questo modo, ci fornisca simulta­ neamente un chiarimento relativo alla nostra stessa es­ senza, senza che ci occupiamo direttamente di noi stessi. Che lo sappiamo oppure no, che vi prestiamo parti­ colare attenzione oppure no, il nostro soggi orno nel mondo e il nostro andare sulla terra sono ovunque in cammino verso delle ragioni, verso il fondamento. Ciò che ci capita di incontrare viene sondato: spesso ci li­ mitiamo a un sondaggio superficiale, talvolta osiamo spingerei anche a ciò che sta più in profondità e assai raramente giungiamo fino all'orlo degli abissi del pen­ siero. Tuttavia pretendiamo che si dia fondamento al­ le asserzioni che formuliamo su tutto ciò che ci circon­ da e ci riguarda. Sondare il fondo e fondare determi­ nano tutto il nostro fare e il nostro lasciar stare. Ma da che cosa dipende che noi siamo così? È sol­ tanto un dato di fatto di cui non abbiamo bisogno di curarci? Il mondo e la vita seguono il loro corso anche senza che riflettiamo sulla tesi del fondamento. Ma il nostro fare e il nostro lasciar stare sono animati dall'e­ sigenza di sondare e di fondare in qualche modo tut-

Lezione seconda

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to. Tuttavia, e in verità proprio e soltanto perché essi sono animati da una simile esigenza, possiamo anche porre la domanda seguente: per quale ragione il no­ stro fare e il nostro lasciar stare tendono al sondare e al fondare? La tesi del fondamento contiene la risposta a questa domanda. Contiene la risposta, ma non la dà, celan­ dola invece in ciò che dice. Nella sua formula abbre­ viata la tesi dice: nihil est sine ratione; niente è senza ra­ gione, senza fondamento. Nella formula affermativa questo significa: qualsiasi cosa che in qualche modo è, ha necessariamente un fondamento. Ciò che la tesi di­ ce è senz'altro comprensibile. Noi approviamo la sua enunciazione; e tuttavia non già soltanto perché rite­ niamo che la tesi sia stata finora confermata ovunque, e che lo sarà sempre anche in futuro, ma perché ab­ biamo, come si suoi dire, la sensazione certa che la tesi stessa deve essere giusta. Ma è davvero sufficiente far valere la tesi del fonda­ mento solo in questo modo assai blando? Un far valere così inteso non è in verità il più grossolano fraintendi­ mento della tesi stessa? La tesi, in quanto tesi, non è affatto un niente. La tesi stessa è un qualcosa. Ed è un qualcosa che, secondo la stessa enunciazione della tesi, deve avere un fondamento. Qual è il fondamento del­ la tesi del fondamento? La tesi stessa ci chiama a que­ sto domandare. Ma, da un lato, noi ci rifiutiamo di continuare a porre domande di questo tipo, poiché, al confronto con la semplicità della tesi, esse ci sembrano esagerate e cavillose; dall'altro lato, ci vediamo costret­ ti dalla tesi stessa a domandare, conformemente ad es­ sa, del suo stesso fondamento. Come possiamo toglier­ ci da questo imbarazzo? Siamo di fronte a due possibilità che inquietano en­ trambe in uguale misura il nostro pensiero. O la tesi del fondamento è l'unica tesi - in generale l'unico qualcosa - a cui non può essere riferito ciò che essa di­ ce, ossia che qualsiasi cosa, che in qualche modo è, ha necessariamente un fondamento. In questo caso la

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conseguenza assai strana sarebbe che proprio la tesi del fondamento - ed essa sola - cadrebbe fuori dal suo stesso ambito di validità: la tesi del fondamento ri­ marrebbe senza fondamento. Oppure anche la tesi del fondamento ha, necessa­ riamente, un fondamento. Stando così le cose, però, quest'ultimo, presumibilmente, non può nemmeno es­ sere soltanto un fondamento fra tanti altri. Dovrem­ mo aspettarci piuttosto che la tesi del fondamento, se si esprime davvero in tutta la sua portata, pretenda nel modo più rigoroso che proprio di se stessa si dia il fondamento. Il fondamento della tesi del fondamento sarebbe quindi, fra tutti i fondamenti, quello eccelso, sarebbe il fondamento del fondamento. Ma dove andiamo a finire se, prendendo in parola la tesi del fondamento, ci mettiamo alla ricerca del fondamento del fondamento? Il fondamento del fon­ damento non ci spinge forse oltre se stesso, verso il fondamento del fondamento del fondamento? Ma se insistiamo nel porci questa domanda, dove mai ci fer­ meremo e dove avremo una prospettiva di arrivare al fondamento? Se il pensiero proseguisse questo cam­ mino verso il fondamento, finirebbe per precipitare in modo inarrestabile in un abisso senza fondo. Vien fatto di osservare in termini ammonitori: il pensiero di chi si avventura sul cammino verso il fon­ damento corre il pericolo di andare a fondo. Tale am­ monimento contiene forse una profonda verità. Ma può anche essere soltanto una fragile difesa nei con­ fronti del reclamo del pensiero. In ogni caso, è chiaro che la tesi del fondamento e la sua fondazione, la tesi in quanto principio, è una questione speciale. Da un lato si comprende senz'altro la tesi e la si lascia valere senza bisogno di ulteriori verifiche; dall'altro lato, in­ vece, non appena prendiamo seriamente ciò che la tesi dice e la riferiamo alla tesi stessa, essa sembra far pre­ cip_j tare il nostro pensiero in un abisso senza fondo. E proprio la tesi del fondamento, quindi, che getta subito una strana luce sul cammino che porta al fon-

Lezione seconda

damento, e ci mostra che quando ci cimentiamo con tesi fondamentali e con princìpi, perveniamo in una contrada stranamente ambigua, per non dire perico­ losa. Questa contrada è nota ad alcuni pensatori, anche se essi, a ragione, non ne parlano molto. Per noi, che ci troviamo all'inizio del cammino che porta al princi­ pio del fondamento, e cioè al principio di ragione sufficiente, e che in questa contrada siamo stranieri, può essere d'aiuto sapere qualcosa di quei pochi pen­ satori. Ci guardiamo così, nella discussione della tesi del fondamento, tanto da pretese avventate ed eccessi­ ve,, quanto da una modestia stanca di pensare. E noto che Descartes volle riportare tutto il sapere umano a un fondamento incontrovertibile (fundamen­ tum inconcussum) dubitando in primo luogo di tutto e ammettendo poi come conoscenza certa soltanto ciò che si presenta in modo chiaro e distinto. Leibniz, considerando il modo di procedere di Descartes, an­ nota che questi avrebbe tralasciato di stabilire in che cosa consistano la chiarezza e la distinzione del rap­ presentare, che per lui valgono come princìpi guida. Secondo Leibniz, su questo punto Descartes ha dubi­ tato troppo poco. Per questo, in una lettera a Bernoul­ li del 23 agosto 1 696, scrive: sed ille dupliciter peccavit, nimis dubitando et nimis facile a dubitatione discedendo ; > , che costituiscono la denomi­ nazione del principio del fondamento. Ma il nostro giochetto di parole cessa immediatamente non appe­ na ci vediamo rinviati alla versione latina della tesi. Es­ sa dice: nihil est sine ratione. Ma qual è la denominazio-

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ne latina corrispondente? Leibniz chiama la tesi del fondamento principium rationis. Il modo migliore per arrivare a capire che cosa significa qui principium è fa­ re ricorso alla concisa definizione che ne dà Christian Wolff, il più influente allievo di Leibniz, nella sua On­ tologia. Scrive Wolff (par. 866): principium dicitur id, quod in se continet rationem alterius. Si dice principium ciò che contiene in sé la ratio di qualcos'altro. Perciò il principium rationis altro non è che la ratio rationis : la ra­ gione della ragione, il fondamento del fondamento. Anche la denominazione latina della tesi del fonda­ mento ci getta nella stessa confusione e complicazio­ ne: il fondamento del fondamento; il fondamento si rivolge su se stesso, come accade nella formulazione della tesi del fondamento come fondamento della tesi. Il fatto di non potere andare diritti alla tesi del fonda­ mento, e di venire subito attirati in un movimento cir­ colare, non dipende quindi dalla denominazione let­ terale della tesi, né da quella tedesca né da quella lati­ na. Rimane invero da considerare il fatto che la deno­ minazione tedesca Satz vom Grund è tutt'altro che la traduzione letterale della denominazione latina princi­ pium rationis, anche nel caso in cui, invece di Satz vom Grund, dicessimo più adeguatamente Grundsatz vom Grund. Infatti, né la parola tedesca Grund è la tradu­ zione letterale della parola ratio (raison), né la parola Grundsatz è la traduzione letterale della parola princi­ pium. Proprio questo aspetto appartiene al carattere enigmatico tanto del Satz vom Grund che del principium rationis, il fatto, cioè, che l'uno e l'altro ci mettono in confusione già con la loro denominazione, prima an­ cora che arriviamo a riflettere anche in misura mini­ ma sul loro contenuto. Ma l'enigma non sta nelle de­ nominazioni, come se con queste parole noi potessimo giocare. L'enigma della tesi sta nel fatto che la tesi in di�cu�si _one ha, in quanto tale, il rango e il ruolo di un pnnopto. Nell'uso linguistico tedesco la traduzione del termi­ ne latino principium con il neologismo Grundsatz si af-

Lezione seconda

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ferma soltanto all'inizio del XVI I I secolo; si tratta ap­ parentemente di un evento insignificante nella storia del linguaggio. Anche altre parole per noi assai comu­ ni come Absicht per intentio, Ausdruck per expressio, Ge­ genstand per obiectum, Dasein per praesentia, si formano soltanto nel XVIII secolo. Chi potrebbe contestare che queste parole tedesche sono cresciute bene? Da noi oggi non cresce più nulla. Perché? Perché ci man­ cano le possibilità di un colloquio pensante con una tradizione stimolante e benefica; perché noi, anziché dialogare con essa, immettiamo il nostro linguaggio nei calcolatori elettronici, un processo, questo, che condurrà la scienza e la tecnica moderne a modi di operare completamente nuovi e a conseguenze impre­ vedibili, ma che finirà probabilmente per accantonare il pensiero che medita come un che di inutile e quindi di non necessario. Nel significato del termine latino principium non si trova immediatamente nulla di quanto dice l'espres­ sione tedesca Grund-Satz. E tuttavia tanto nella filo­ sofia che nelle scienze adoperiamo le denominazioni principium, Prinzip, Grundsatz, senza ulteriori distinzio­ ni e con lo stesso significato. Ciò vale anche per l'e­ spressione Axiom, assioma, derivante dal greco. Si par­ la di assiomi della geometria. Euclide, nei suoi Elemen­ ti, elenca gruppi di a!;u.O�J.m:a. Per Euclide è un assioma, per esempio, la proposizione: « Tutte le grandezze uguali a una stessa grandezza sono uguali anche fra loro . I matematici greci non consideravano gli assio­ mi come princìpi; ciò che essi intendevano viene in lu­ ce nella perifrasi della parola '' assioma ,, : gli a!;uo�J.a't'a sono xmvai EVVOLm. Platone usa volentieri questa e­ spressione, che significa: visione, prendere visione, e precisamente con l'occhio spirituale. La perifrasi di a!;uo�J.a't'a con XOLVUL EvvOLUL viene solitamente tradotta con : « rappresentazioni universalmente accettate '' · An­ cora Leibniz si attiene in un certo senso a questa in­ terpretazione di ciò che un assioma è, anche se con l'essenziale differenza che egli lo determina come pro,,

Il principio di ragione

poslZlone: axiomata sunt proposztwnes, quae ab omnibus pro manifestis habentur; e Leibniz aggiunge: et attente considerata ex terminis constane (Couturat, p. 32) ; "gli as­ siomi sono proposizioni che da tutti vengono ritenute evidenti e che, considerate con attenzione, consistono di concetti-limite >> . Il principium rationis, il principio di ragione sufficiente, la tesi del fondamento, è, per Le!bniz, un assioma di questo tipo. E decisivo notare un fatto: i princìpi e gli assiomi hanno il carattere di proposizioni, di tesi. Sono le pro­ posizioni o tesi supreme, in quanto nella derivazione delle proposizioni l'una dall'altra, nelle dimostrazioni e nelle deduzioni, stanno in qualche modo al posto più alto. Già Aristotele è consapevole di ciò che appar­ tiene all'ambito degli assiomi. Fino a oggi, tuttavia, è mancata una chiarificazione sufficiente delle intuizio­ ni più profonde che Aristotele, non immediatamente, ma mediatamente, sviluppa riguardo all'essenza del­ l'assioma. Ciò avviene nel contesto della già menziona­ ta trattazione del principio di non contraddizione (Metaph. , r, 3 sgg.). A che cosa ci serve il riferimento ai termini assioma, principio e Grundsatz? Serve a ricordarci che da lungo tempo, tanto nella filosofia che nelle scienze, essi ven­ gono adoperati l'uno al posto dell'altro, nonostante ciascuno provenga da un ambito rappresentativo ri­ spettivamente diverso. Questi termini, tuttavia, anche se in maniera consunta, vogliono pur sempre dire la stessa cosa, altrimenti l'uno non potrebbe tradurre l'altro in un'altra lingua. La parola greca à!;(wf.ta deriva da à!;L6w, " io apprezzo qualcosa'' · Ma che cosa si­ gnifica '' apprezzare qualcosa >> ? Noi oggi non esitiamo a rispondere: apprezzare significa valutare qualcosa, stimare qualcosa per il suo valore. Ma a noi, ora, inte­ ressa sapere che cosa significa à!;LOuv nel senso greco di ,, apprezzare >> . Dobbiamo riflettere su ciò che potreb­ be significare il termine '' apprezzare ,, pensato in gre­ co; i Greci, infatti, non conoscono né l'idea del valuta­ re né il concetto di valore.

Lezione seconda

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Che cosa significa > (unheimlich), essa non è intesa in un senso patetico, ma va pensata, in termini letterali e obiettivi, in riferimento al fatto che lo scatenarsi, uni­ co nel suo genere, della pretesa alla fornitura del fon­ damento minaccia tutto ciò che vi è di familiare (hei­ misch) per l'uomo, privandolo di qualsiasi fondamento e di qualsiasi terreno per un radicamento nella propria terra, privandolo, cioè, di tutto ciò da cui sono cresciuti finora ogni grande epoca dell'umanità, ogni spirito ca­ pace di grandi aperture e ogni ben marcata configura­ zione dell'uomo. Vediamo dunque una situazione molto strana del­ l'uomo moderno, una situazione che va contro ogni opinione abituale legata alle rappresentazioni quoti­ diane, entro le quali ci aggiriamo come ciechi e sordi: la pretesa del grande e potente principio del fonda­ mento che va fornito sottrae all'uomo odierno il radi­ camento nella sua terra. Possiamo anche dire: con quan­ ta maggior decisione viene intrapresa la caccia volta a imbrigliare le gigantesche energie che consentiranno di coprire per sempre il fabbisogno energetico del­ l'uomo sulla terra, tanto più misera diviene la capacità dell'uomo di costruire e di abitare nell'ambito di ciò che è essenziale. V'è un enigmatico gioco di rimandi fra la pretesa alla fornitura del fondamento e la sot­ trazione del terreno. Bisogna vedere la dinamica di questo gioco ad alto rischio fra fornitura e sottrazione. Bisogna pensare sulla provenienza di tale gioco. Bisogna domandare in -

noi domandiamo del fondamento. La versione rigorosa della tesi del fonda­ mento, '' niente è senza il fondamento che va fornito >> , può quindi venire riportata alla forma: niente è senza perché. ,

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Se confrontiamo l'una con l'altra le forme abbrevia­ te delle due formulazioni, esse acquistano entrambe una incisività caratteristica, che ci consente una visio­ ne ancora più chiara della tesi del fondamento. Da un lato essa dice: niente è senza fondamento. Ma dice an­ che: niente è senza perché. Per contro, proviamo ad ascoltare ora le seguenti parole: Die Ros ist ohn warum; sie blilhet, weil sie blilhet, Sie acht nicht ihrer selbst, fragt nicht, ob man sie siehet. * Questi versi si trovano nel primo libro del poema religioso di Angelo Silesio, intitolato Der Cherubinische Wandersmann. Sinnliche B eschreibung der vier letzten Din­ ge [Il pellegrino cherubico. Descrizione sensibile delle quattro cose ultime]. L'opera apparve per la prima volta nel 1 657. I ver­ si recano il numero 289 e il titolo: Ohne Warum [Sen­ za perché ]. Angelo Silesio, il cui nome al secolo era Johann Scheffler, doctor philosophiae et medicinae, di professione medico, visse in Slesia dal 1 624 al 1 677. Leibniz ( 1 646- 1 7 1 6), anche se un po' più giovane, era un contemporaneo di Silesio e conosceva il Pellegrino cherubico. Silesio viene spesso nominato nei suoi scritti e nelle sue lettere. In una lettera del 28 gennaio 1 695 indirizzata a Paccio (Opera Omnia, a cura di Ludovicus Dutens, 6 voll. , Fratres de Tournes, Genevae, 1 768, vol. VI, p. 56), per esempio, Leibniz scrive: « Negli scritti di quei mistici vi sono alcuni passi straordinariamente audaci, colmi di metafore difficili e tendenti quasi all'ateismo, come talvolta mi è capita­ to di osservare nelle poesie tedesche - tra l'altro molto belle - di un tale che si chiama Ange�� Silesio E Hegel, nelle Vorlesungen uber die Asthetik, dice: « Ora, l'unità panteistica messa in rilievo in rapporto al soggetto che sente se stesso in questa unità con Dio, e sente Dio come tale presenza nella coscienza soggetti. . . >> .

* « La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce, l di sé non glie­ ne cale, non chiede d'esser vista >> .

Lezione quinta

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va, produce in generale la mistica quale si è sviluppata, in questo modo più soggettivo, anche all'interno del cristianesimo. Come esempio voglio qui citare soltanto Angelo Silesio, che ha espresso con meravigliosa forza mistica di rappresentazione e con la più grande auda­ cia e profondità di intuizione e sentimento l'esistenza sostanziale di Dio nelle cose e l'unione del Sé con Dio e di Dio con la soggettività umana ».* Con i giudizi di Leibniz e di Hegel su Angelo Sile­ sia, si vorrebbe soltanto indicare brevemente che i versi riportati, Senza perché, provengono da una fonte autorevole. Tuttavia, ci si affretta subito a controbat­ tere che tale fonte è pur sempre quella della mistica e della poesia. Sia l'una che l'altra non rientrano nel pensiero. Certo, esse non rientrano nel pensiero, ma forse in ciò che precede il pensiero stesso. Lo testimo­ niano Leibniz e Hegel, il cui pensiero difficilmente può essere superato in fatto di sobrietà e di rigore. Vediamo che ne è del detto mistico di Angelo Si­ lesio: La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce, di sé non gliene cale, non chiede d'esser vista. Dapprima ricordiamo ancora la formulazione ab­ breviata del principium reddendae rationis di Leibniz, che dice : niente è senza perché. Le parole di Angelo Silesio parlano seccamente nella direzione opposta: > e ratio. Da tale determinazione dipende in generale il modo in cui dobbiamo orientarci in tutta questa intrasparenza che, nonostante le conoscenze acquisite, si è ora raccolta attorno alla tesi del fonda­ mento. Questa oscura prospettiva apertasi sulla tesi del fon­ damento lascia tuttavia intatto qualcosa d'altro, e cioè il potere con cui domina il principium magnum, grande et nobilissimum. Il suo potere, infatti, connota e deter­ mina ciò che possiamo chiamare lo spirito dell'età mo­ derna, lo spirito del suo probabile compimento, lo spi­ rito dell'era atomica. Il principium rationis pensato da Leibniz, con il suo genere di pretesa, non soltanto determina il rappre­ sentare moderno in generale, ma connota anche in modo decisivo quel pensiero che conosciamo come pensiero dei pensatori, e cioè la filosofia. Dal momen­ to che, per quanto mi è dato di vedere, non si presta ancora sufficiente attenzione a questo fatto in tutta la sua portata, si rende ora necessario inserire qui una indicazione con la quale interrompiamo, pur senza af­ fatto concludere, un ulteriore approfondimento del pensiero di Leibniz; una simile conclusione, infatti, dovrebbe quanto meno contenere una indicazione su ciò che costituisce la visione più profonda e più nasco­ sta del pensiero di Leibniz. Gli sguardi profondi fan­ no luce soltanto nell'oscurità. Su questo fatto ci lascia­ mo facilmente ingannare. Spesso crediamo di avere scorto anche noi ciò che Leibniz è arrivato a vedere, allorquando ci atteniamo ai due scritti nei quali egli, come si suo) dire, espone in compendio le sue idee ca­ pitali. Leibniz li ha composti entrambi pochi anni pri­ ma della morte, senza però pubblicarli. Il primo con­ siste di 1 8 ampi paragrafi ; il secondo di 90 paragrafi più brevi ed è noto con il titolo di Monadologia, che

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Il principio di ragione

non è di Leibniz. Dal contenuto della Monadologia co­ loro che pensano impareranno sempre molto. Una co­ sa, però, va detta: il rapporto di questi paragrafi con il movimento più intimo del pensiero leibniziano - che viene alla luce in alcune lettere - somiglia a quello di fronte a cui ci troveremmo se Holderlin ci avesse la­ sciato un inno poetico soltanto in una serie ordinata di 20 paragrafi. Ciò vale ancora oggi che possiamo segui­ re l'inquietudine del movimento speculativo che per­ corre i manoscritti dei due testi, resi disponibili soltan­ to un anno fa dall'eccellente edizione a cura di André Robinet (Presses Universitaires de France, Paris, l 954) . La prima edizione del testo originale francese della Monadologia apparve soltanto 1 30 anni dopo la morte di Leibniz. La dobbiamo a un allievo di Hegel, Johann Eduard Erdmann (Opera philosophica, Eichler, Beroli­ ni, 1 839-40) . Guardando indietro al cammino finora percorso ve­ diamo che, se mai abbiamo già attribuito una partico­ lare accentazione alla tesi del fondamento, ci siamo at­ tenuti, non a caso, piuttosto alla prima delle due tona­ lità. Infatti, abbiamo seguito innanzitutto le rappre­ sentazioni, gli ordini di questioni e le prospettive cor­ renti in cui la filosofia - anche quella di Leibniz - trat­ ta la tesi del fondamento. Ora però, dal momento che dalla tesi del fondamento pretendiamo una indicazio­ ne sull'essenza del fondamento, dobbiamo anzitutto domandare di che cosa parla dunque la tesi del fonda­ mento. Ci mettiamo alla ricerca di ciò che, dal punto di vista grammaticale, in questa proposizione enuncia­ tiva costituisce il soggetto della proposizione e di ciò che ne costituisce il predicato. Per rispondere a questa domanda ci viene in aiuto la seconda delle due tonali­ tà menzionate, che rimane quindi la tonalità decisiva: « nihil est sine ratione Niente è senza fondamento. O­ gni ente ha un fondamento. Il soggetto della tesi del fondamento non è il fondamento, ma: « ogni ente >> ; a > viene attribuito il predicato di avere un fondamento. La tesi del fondamento, intesa nel modo abi».

Lezione sesta

tuale, non è una asserzione sul fondamento, bensì sull'essen­ te, nella misura in cui esso è di volta in volta un ente. Alcuni fra gli ascoltatori a questo punto staranno pensando in cuor loro : perché il contenuto manifesto della tesi del fondamento non ci è stato dichiarato su­ bito? Che bisogno c'era di farci girare attorno alla tesi per ore intere, lungo vie traverse? La risposta è facile a darsi: perché fino a oggi la trattazione della tesi del fondamento ha preso, e ancora prende, quest'ultima per una tesi, anzi, più precisamente, per una tesi fon­ damentale e per un principio. Il principio del fonda­ mento rappresenta sì il fondamento in una prospetti­ va essenziale, e tuttavia, proprio in tale prospettiva, fa una asserzione sull'ente e non sul fondamento. La rappresentazione del fondamento, non ulteriormente determinata, rende tuttavia possibile che la tesi del fondamento svolga il proprio ruolo in quanto tesi-gui­ da - e quindi in quanto principio - per la deduzione e la fondazione delle proposizioni. Da questo punto di vista, la rappresentazione predominante del fonda­ mento riceve per parte sua la connotazione della non deducibilità. Sebbene la tesi del fondamento ponga ciò che pone soltanto da una certa prospettiva sul fon­ damento, e sebbene non sia affatto un'asserzione di­ retta sul fondamento, la trattazione tradizionale del principium rationis rimane della massima importanza, non solo in riferimento al suo contenuto, ma anche in quanto tradizione. Se tentiamo di discutere la tesi del fondamento, tale tentativo, come ogni altro, è possibile soltanto come colloquio all'interno della tradizione e con essa. Ma la tradizione del pensiero precedente, e di ciò che in essa è pensato, non è un mero guazzabuglio di prospettive filosofiche ormai smesse. La tradizione è presente, po­ sto che andiamo a cercare il pensiero tramandato nel luogo da cui esso ci porta ben al di là di noi stessi, inse­ rendoci così espressamente nella tradizione. Per que­ sta ragione, e soltanto per questa, seguiamo le vie in-

Il principio di ragione

dirette che ci fanno girare attorno alla tesi del fonda­ mento. Ma se ora ci occupiamo direttamente della tesi del fondamento e, così facendo, troviamo che essa non dà ciò che il suo titolo ci porta a credere, con questa con­ statazione abbiamo certo compiuto un importante passo avanti ; esso non ci dà però ancora alcuna garan­ zia che la discussione della tesi del fondamento sia già giunta, con questo passo, su un cammino prometten­ te. La discussione della tesi del fondamento cerca quindi una prospettiva che si apra su ciò che nella tesi è detto del fondamento, pur senza essere espressa­ mente enunciato. Ma la prospettiva che ora stiamo cercando per il nostro pensiero è quella in cui già si muove il pensiero tradizionale; soltanto la tradizione è in grado di liberarci per tale prospettiva, sempre che riusciamo a vedere ciò che la tradizione ci apporta. Finora, però, tale prospettiva è rimasta sbarrata e bloccata. Il catenaccio che la blocca è la tesi del fonda­ mento che, come una catena di monti, si è messa di traverso impedendo la vista; una catena di monti che appare insormontabile; la tesi del fondamento, infatti, in quanto principio supremo è qualcosa di indeducibi­ le, qualcosa, cioè, che ingiunge al pensiero di fermarsi. Mettere in atto l'intuizione secondo cui la tesi del fondamento non fa direttamente un'asserzione sul fondamento, ma sull'ente, è un passo rischioso, che conduce in una zona critica del pensiero. E poiché il nostro pensiero, per quanto venga esercitato, nei pun­ ti decisivi rimane spesso impacciato, abbiamo bisogno di aiuto. Uno di essi è la meditazione che considera il cammino. Chiamiamo critica la zona in cui siamo ora entrati, poiché qui, nonostante si sia in vista di ciò di cui parla la tesi del fondamento, tutti i passi succes­ sivi della discussione possono portare fuori strada. Ciò vale per il mio trattato Vom Wesen des Grundes, ap­ parso per la prima volta nel l 929 come contributo al volume in onore di Edmund Husserl. Nel primo paragrafo della prima parte di questo te>

Lezione sesta

sto si trovano queste parole: >.* Queste spiegazioni rimangono corrette, eppure han­ no portato fuori strada : da un lato riguardo alle possi­ bili vie che la tesi del fondamento offre alla particola­ re domanda sull'essenza del fondamento; dall'altro la­ to, però, e soprattutto, riguardo a quella meditazione che stimola ogni pensare e al cui servizio anche il trat­ tato sopra ricordato tentava di porsi. In che cosa con­ siste, in quest'ultimo caso, il fuorviare? Com'è mai possibile un fuorviare nonostante constatazioni cor­ rette? Lo è in un modo semplice, e quindi doppiamen­ te fuorviante ; il pensiero ne rimane colpito fin troppo spesso. Per questa ragione, il cammino errato che ab­ biamo presente ci può insegnare qualcosa, non appe­ na prestiamo espressamente attenzione ad esso. Ci capita di vedere un certo stato di cose e di averlo chiaramente dinanzi agli occhi. Eppure, proprio in ciò che ci sta dinanzi non scorgiamo quanto ci è più vi­ cino. Vedere qualcosa e scorgere (er-blicken) espressa­ mente il veduto non sono la stessa cosa. Scorgere si­ gnifica in questo caso: guardare entro (ein-blicken) ciò che, dal veduto, cioè come suo elemento più peculia­ re, propriamente ci guarda. Noi vediamo molto ma scorgiamo poco. Perfino quando abbiamo scorto il ve­ duto siamo raramente in grado di resistere allo sguar­ do di ciò che abbiamo scorto, in modo da mantenerlo sotto il nostro sguardo. Per un mantenere autentico, infatti, i mortali hanno bisogno dell'appropriazione sempre rinnovata, sempre più originaria. Quando il pensiero non scorge, nel veduto, l'elemento più proM. Heidegger, Dell'essenza del fondamento, in Segnauia, Adelphi, Milano, 1987, p. 83.

*

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Il principio di ragione

prio di esso, allora si sbaglia, limitandosi a vedere ciò che gli sta dinanzi. Il pericolo che il pensiero si sbagli viene spesso accresciuto dal pensare stesso, e cioè dal fatto di urgere con troppa fretta verso una falsa pro­ fondità. Nel caso di una discussione della tesi del fon­ ?amen �o, tale urgenza può risultare particolarmente mcresoosa. Applichiamo ciò che abbiamo appena detto riguar­ do a vedere, scorgere e sbagliar-si (Sich-versehen) al ca­ so del trattato Dell'essenza del fondamento. Per questo trattato risulta evidente che la tesi " niente è senza fon­ damento >> asserisce qualcosa dell'ente e non fornisce alcun chiarimento su che cosa significa " fondamen­ to >> . Tale vista sul contenuto evidente della tesi, tutta­ via, non perviene affatto a una visione che penetri in ciò che è più vicino. Al contrario, essa si lascia trasci­ nare a un passo quasi inevitabile, che potremmo evin­ cere ed esporre così: La tesi del fondamento è un'asserzione sull'ente. Di conseguenza, essa non fornisce alcuna indicazione sul­ l'essenza del fondamento. Quindi, la tesi del fonda­ mento, tanto più se intesa nella sua formulazione tra­ dizionale, non è adatta a costituire il filo conduttore di una discussione di ciò a cui ci riferiamo quando pen­ siamo sull'essenza del fondamento. Vediamo che la te­ si del fondamento dice qualcosa sull'ente. Ma che cosa sfugge al nostro sguardo quando ci accontentiamo della constatazione precedente? Che cosa ancora può essere scorto in ciò che vediamo? Giungiamo più vici­ ni a ciò che, qui, può essere scorto, non appena udia­ mo ancora più chiaramente, e teniamo in orecchio, quell'accentazione della tesi che abbiamo preventiva­ mente detto essere determinante : nihil est sine ratio­ ne >> , niente è senza fondamento.Tale accentazione ci fa sentire una consonanza fra > e > , fra est e ratio. Questa consonanza l'abbiamo addirittura già udita prima ancora di stabilire che la tesi del fon­ damento fa un'asserzione sull'ente, cioè sul fatto che esso ha un fondamento. > . Es­ sa, infatti, determina la misura della nostra rappre»

* > dice qualco­ sa di completamente diverso dall'asserzione: l'ente ha un fondamento. > , bensì: l'essere è essenzialmente (west) in sé in quanto fondante. Certo, la tesi del fondamento non lo dice apertamente. Il contenuto immediatamente per­ cepibile della tesi lascia non detto ciò che essa propria­ mente dice. Ciò di cui la tesi del fondamento parla non perviene al linguaggio, non a quel linguaggio che corrisponde a ciò di cui la tesi del fondamento parla. La tesi del fondamento è un dire dell'essere. Essa lo è, ma nascostamente. Nascosto rimane non soltanto ciò di cui la tesi parla, ma anche il fatto stesso che essa parla dell'essere.

LEZIONE SETTIMA

Ora, e cioè nelle lezioni seguenti, tutto dipende dal­ la nostra capacità di rimanere raccolti in ciò che la tesi del fondamento dice in modo inesplicito. Se rimania­ mo sul cammino che porta a tale raccoglimento sare­ mo propriamente in grado di udire la tesi. La tesi del fondamento è una di quelle proposizioni che tacciono ciò che è loro più proprio. Il taciuto è ciò il cui suono non trapela. Per udire ciò che non ha suo­ no si rende necessario un udito che ciascuno di noi possiede, ma che nessuno adopera nel modo giusto. Questo udito non dipende solo dall'orecchio, ma al tempo stesso anche dall'appartenenza dell'uomo a ciò a cui la sua essenza è predisposta. L'uomo rimane di­ sposto (ge-stimmt) a ciò da cui la sua essenza viene pre­ disposta (be-stimmt). Nella pre-disposizione (Be-Stim­ mung) l'uomo viene colpito e chiamato da una voce (Stimme) che suona tanto più pura, quanto più senza suono essa risuona attraverso ciò che è sonoro. " Niente è senza fondamento >> , così suona la tesi del fondamento. Nihil est sine ratione Questa è la ver­ sione della tesi che abbiamo definito abituale. Essa comporta che in un primo momento e per lungo tem­ po la tesi non si sia mai messa in evidenza come una ,,

'' ·

Lezione settima

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tesi particolare. Ciò che la tesi asserisce rimane, nel corso del rappresentare umano, un qualcosa di non appariscente e di comune. Leibniz, al contrario, ha strappato la tesi del fondamento dalla sua condizione di indifferenza e ne ha fatto un principio supremo. Egli ha dato alla tesi del fondamento la formulazione rigorosa del principium reddendae rationis sufficientis. In conformità con questa formula, la tesi del fondamen­ to dice: niente è senza una ragione, un fondamento, sufficiente, che pretende la propria fornitura. Nella forma affermativa ciò significa che ogni ente ha la sua ragione sufficiente che va resa, il suo fondamento sufficiente che va fornito. In breve: niente è senza fon­ damento. Da ultimo, tuttavia, abbiamo udito la tesi del fonda­ mento in una tonalità diversa. Ora essa non suona più « niente è senza fondamento >> , bensì " niente è senza fondamento >> . L'accento si è spostato dal > al­ l'> e dal > al > . La parola > nomina sempre, in qualche modo, l'essere. Lo sposta­ mento dell'accento ci fa udire una consonanza fra es­ sere e fondamento. Udita nella nuova tonalità, la tesi del fondamento dice che all'essere appartiene qualco­ sa come il fondamento. La tesi, ora, parla dell'essere. Ciò che la tesi ora dice, incorre però subito facilmente in un malinteso. Si tenderebbe a comprendere la frase ) lo Stesso, ma non l'identico, come indica già la differenza fra i termini > e > . L'essere è nella sua essenza fondamento. Per questo l'essere non può avere ancora un ulteriore fondamen­ to che dovrebbe fondarlo. Quindi il fondamento ri­ mane via (weg, ab) dall'essere. Nel senso di un tale ri­ manere-via (Ab-bleiben) del fondamento dall'essere, l'essere > il fondo abissale, l'Ab-Grund. In quanto l'essere come tale è in sé fondante, rimane esso stesso privo di fondamento. L'> non rientra nel do­ minio della tesi del fondamento, bensì solo l'ente. Se prestiamo accuratamente attenzione al linguag­ gio in cui esprimiamo ciò che la tesi del fondamento dice in quanto tesi dell'essere, si vede allora che parlia­ mo dell'essere in un modo singolare, in verità non am­ missibile. Diciamo che essere e fondamento > lo stesso. L'essere > il fondo abissale. Se diciamo di qualcosa che > , oppure che ,, è questo e quello quel qualcosa, nel dirlo in questo modo, viene rappre­ sentato in quanto ente. Soltanto l'ente > ; l' « è >> stes­ so, l'> , non > . Questa parete da vanti a voi e dietro di me è. Essa si mostra a tutti noi immediata­ mente come un qualcosa di presente. Ma dov'è il suo > ? Dove dobbiamo cercare l'essere-presente della ''•

Lezione settima

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parete? Già queste domande, probabilmente, portano fuori strada. Eppure la parete >. Nel caso dell'> e dell''' essere >> le cose stanno dun­ que in un modo particolare. Per corrispondere a tale peculiarità, esprimiamo ciò che la tesi del fondamento dice in quanto tesi dell'essere nel modo seguente: es­ sere e fondamento: lo Stesso. Essere: il fondo abissale. Avevamo notato che non è ammissibile dire: ,, essere >> è fondamento. Questo modo di parlare, in un pri­ mo momento inevitabile, non tange l'> , non lo raggiunge nel suo proprio. Da un lato diciamo: essere e fondamento - lo Stes­ so. Dall'altro diciamo invece: essere - il fondo abissale. Bisogna pensare la consonanza di queste due nel senso proprio della parola. Questo esige niente di meno che un mutamento del nostro modo di pensare, un mutamento tale da corri­ spondere allo stato di cose di cui la tesi del fondamen­ to, in quanto tesi dell'essere, parla. Questo mutamen­ to del pensiero non lo otteniamo né mediante una teo­ ria pretenziosa né mediante una qualche stregoneria, ma soltanto prendendo un �ino e costruendoci una via che ci conduca in prossimità dello stato di cose che abbiamo menzionato. In questo modo si vede che anche tali �ie fanno parte di quello stato di cose. Quanto più èì avviciniamo alla cosa, tanto più in-dica­ tiva (be-deutend ) diventa la via. Se dunque nello stile delle esposizioni seguenti si parla così spesso della via, ciò significa allora che proprio così la cosa perviene al linguaggio. Le discussioni relative alla via non sono mere riflessioni metodologiche, e nemmeno un sem­ plice fare la punta a una matita che non comincia mai a tratteggiare il disegno vero e proprio. Bisogna giun­ gere nell'ambito dello stato di cose di cui la tesi del fondamento, in quanto tesi dell'essere, parla. Questo è il compito delle lezioni seguenti. In tal mo­ do arriviamo ad avere l'opportunità e la condizione per esperire e valutare noi stessi che cosa significano >

>> ,

Il principio di ragione

le parole: - non è senza fondamento. Il poiché » nomina il fonda­ mento, ma un fondamento singolare e, presumibil­ mente, eccelso. Che cosa vuol dire: la rosa '' fiorisce poiché fiorisce >>? Il '' poiché in questo caso, non ri­ manda, come d'abitudine, a qualcosa d'altro, a qualco­ sa, cioè, che non è un fiorire e che deve fondare il fiorire a partire da altro. I l '' poiché >> del detto riferisce il fiorire semplicemente a se stesso. Il fiorire si fonda in esso stesso, ha il proprio fondamento presso esso stes­ so e in esso stesso.* Il fiorire è puro schiudersi da se stesso, puro splendere. Was aber schon ist, selig scheint es in ihm selbst. Ma ciò che è bello, beatamente splende in esso stesso '' - così dice Morike nel verso conclusivo della sua poesia intitolata Auf eine Lampe [Su una lam­ pada] .** In questo senso, la bellezza non è una pro«

«

> e come « poi­ ché >> . 5. Il cambio di tonalità nella tesi del fondamento. .

.

.

La memoria raccoglie il nostro sguardo su un sem­ plice stato di cose di cui possiamo pensare l'unitarietà e l'unicità, se pensiamo la tesi del fondamento come salto (Satz) nell'essere in quanto tale - se, cioè, compia­ mo questo « salto >> .

LEZIONE OTTAVA

La tesi del fondamento, udita nell'altra tonalità, co­ me tesi dell'essere, dice: > ; > . I cammini del pen­ siero della localizzazione hanno di caratteristico il fat­ to che, mantenendoci in cammino su di essi, siamo più vicini al luogo di quando ci mettiamo in testa di esservi già giunti per insediarci in esso; il luogo, infatti, è es­ senzialmente diverso da un sito o da un posto nello spazio. Ciò che noi chiamiamo luogo - in questo caso il luogo della tesi del fondamento - è ciò che raccoglie in sé l'essenziale (das Wesende) di una cosa. Tutto sta nel cammino - significa dall'altro lato: tut­ to ciò che bisogna scorgere si mostra sempre e soltanto cammin facendo. Ciò che va scorto sta nel cammino. Entro il campo visivo che il cammino apre, e attraver­ so cui conduce, si raccoglie ciò che, dal cammino, è di volta in volta visibile. Eppure, per giungere sul cam­ mino della localizzazione della tesi del fondamento, dobbiamo saltare. Il salto si annuncia nel fatto stesso che seguiamo un cambio di tonalità della tesi del fon­ damento. Nelle considerazioni seguenti si chiarirà in

108

Il principio di ragione

che senso non è qui possibile un passaggio graduale da una tonalità all'altra, ma è invece necessario il salto. Stabilire in che senso c'è qualcosa che sta tra ciò che la tesi del fondamento, intesa nel senso abituale, dice, e ciò che la tesi del fondamento dice in quanto tesi del­ l'essere, rimane una questione che domanda al tempo stesso che cosa è questo « tra » che noi, nel salto, in un certo qual modo saltiamo via, o meglio, che saltiamo attraversandolo come se fosse una fiamma. Tuttavia, per non perdere di vista il cammino della localizzazione nell'intera estensione del suo tracciato, dobbiamo anzitutto tenere conto di un'altra cosa. Il salto è ogni volta un balzare via (Absprung). Ciò da cui il salto del pensiero balza via non viene, in tale salto, abbandonato; al contrario, soltanto a partire dal salto l'ambito da cui spiccare il balzo (Absprungbereich) risul­ ta individuabile, e in un modo diverso che in prece­ denza. Il salto del pensiero non lascia dietro di sé ciò da cui esso balza via, ma, anzi, se ne appropria in mo­ do più originario. Da questo punto di vista, il pensie­ ro, nel salto, diviene pensiero rammemorante (Anden­ ken), non di qualcosa che è genericamente « passato » (Vergangenes), ma del « gi.à stato » nel senso più pro­ prio (das Gewesene). Intendiamo con questo la raccolta di ciò che, per l'appunto, non passa, ma è per essenza (west), e cioè perdura (wiihrt) , concedendo (gewiihrt) vi­ sioni nuove al pensiero rammemorante. In ogni « già stato >> si cela un concedere i cui tesori spesso rimango­ no per lungo tempo sottoterra, ricchezze che tuttavia pongono sempre di nuovo il pensiero rammemorante di fronte a una fonte inesauribile. Pensata in termini destinali, la grandezza di un'epoca non si misura in base a ciò che di essa trapassa o rimane, ma in base a ciò che è in sé perituro, come per esempio tutto ciò che è soltanto pianificabile, e a ciò che, al contrario, prima ancora di essere divenuto, appartiene di per sé al « già stato >> in quanto è un qualcosa di concesso. So­ lo ciò che è concesso (das Gewiihrte) ha in sé la garanzia (die Gewiihr) di perdurare (wiihren). Qui, però, perdu-

Lezione ottava

ro9

rare significa rimanere in quanto concesso, anziché persistere soltanto come qualcosa di oltrepassato, nel­ la vuotezza del trapassare. Innumerevole è ciò che tra­ passa e che è passato, raro è invece il « già stato >> , più raro ancora è il suo concedere. Il riferimento ai cinque capisaldi doveva riportarci sul cammino il quale conduce attraverso un ambito che ora riconosciamo essere l'ambito per spiccare il sal­ to. Il salto conduce il pensiero fuori dall'ambito della tesi del fondamento quale principio supremo riferito all'ente e lo porta in un dire che parla dell'essere in quanto tale. Il quinto dei cinque capisaldi considerati individua il cambio di tonalità nella tesi del fondamento, riman­ da quindi già al salto. I quattro capisaldi esaminati prima, invece, contraddistinguono l'ambito da cui spic­ care il balzo soltanto per alcuni aspetti, ma, al tem­ po stesso, unitariamente. In che senso? Nel senso che si è qui ripetutamente parlato del destino e della sot­ trazione dell'essere, più precisamente del fatto che l'essere si destina a noi nel momento stesso in cui si sottrae. Ciò suona non soltanto strano, ma anzitutto incomprensibile, dal momento che va contro ogni abi­ tudine del nostro rappresentare. Eppure il riferimen­ to al destino dell'essere è stato proposto intenzional­ mente durante la presentazione dei primi quattro ca­ pisaldi. Ciò che si è chiamato destino dell'essere carat­ terizza la storia del pensiero occidentale fino a oggi, nella misura in cui, a partire dal salto, guardiamo in­ dietro verso di essa e in essa. Fino a che non compia­ mo il salto, non possiamo pensare a ciò che significa il destino dell'essere. Il salto è il balzo (Satz) fuori dal principio del fondamento, in quanto tesi dell'ente, nel dire dell'essere in quanto essere. Ma, se anche il pensiero che rammemora il destino dell'essere è possibile solo a partire dal salto, l'espe­ rienza della storia del pensiero occidentale fino a oggi, in relazione alla storia dell'essere, non può essere cer­ to qualcosa di completamente strano o addirittura che

IIO

Il principio di ragione

riposa su una costruzione storica arbitraria. La storia del pensiero occidentale deve dunque fornire a sua volta indicazioni che, se le seguiamo, ci consentono di scorgere, sia pure in modo velato, qualche aspetto di ciò che, qui, prende il nome di storia dell'essere. La storia dell'essere è il destino dell'essere, il quale si de­ stina a noi nel momento stesso in cui sottrae la propria essenza. Per quanto riguarda l'impiego della parola tedesca Geschick nel discorso sul destino dell'essere, va notato quanto segue: Di solito intendiamo per « destino '' (Geschick) ciò che è stato determinato e decretato dalla > , in greco, si dice 6Mç; J.tE'tO significa « secondo, dopo >> ;

Lezione ottava

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!J.É-froboç è il cammino seguendo il quale not per�e­

guiamo una cosa: il metodo. Si tratta di persegmre l'essere dell'ente. L'essere di ciò-che-si-schiude-e-si­ presenta-da-sé (das Sein des von-sich-her-Aufgehenden und -Anwesenden) si chiama cpumç. Ma come stanno le cose per quanto riguarda il cammino del pensiero che è in cammino verso la cpumç? Tale cammino riceve il suo carattere specifico dal modo in cui l'essere dell'en­ te è manifesto all'uomo che conosce. Ora, ovunque si vede facilmente che l'ente che di volta in volta è - per esempio la terra, il mare, le montagne, le piante e gli animali - si trova sempre manifesto di fronte a noi. Per questo ci è familiare e immediatamente accessibi­ le. Viceversa, ciò attraverso cui tutto questo che da-sé­ si-presenta, è a suo modo presente e si schiude, non sta mai di fronte a noi come ciò che è di volta in volta presente qui e là. L'essere, per noi, non è affatto così immediatamente familiare e manifesto come l'ente che di volta in volta è. Non che l'essere si mantenga completamente velato ; se ciò accadesse, allora nem­ meno l'ente potrebbe mai starei di fronte ed esserci fa­ miliare. Anzi, affinché l'ente che di volta in volta è possa apparire, l'essere deve rilucere da sé e già da prima. Se l'essere non rilucesse, non vi sarebbe alcuna contrada entro la quale potrebbe insediarsi un ,, di fronte '' · Da quanto detto, vediamo che l'essere, a pa­ ragone con l'ente immediatamente accessibile, mostra di avere il carattere del ritenersi in sé, del velarsi in qualche modo. Conformemente a questo tratto fonda­ mentale dell'essere, si definisce anche la natura del cammino che deve condurre alla determinazione del­ l'essere dell'ente. A contrassegnare il cammino che conduce il pensiero nella contrada dell'essere dell'ente, Aristotele, all'inizio della Fisica, dice: n:ÉcpuxE bÈ tx 1:&v

yvWQL!J.W"tÉQWV �!J.LV i] Mòç xat oacpEO'tÉQWV tnt 1:à oacpÉmEga "tfl cpuon xat yvwQt!J.W"tEQa ( 1 84 a 16 sgg.) . Tradotte in mo­

do da chiarirle, queste parole significano: " Il cammi­ no (che conduce all'essere dell'ente), però, per la sua stessa essenza, è fatto e tracciato in modo tale che, par-

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Il principio di ragione

tendo da ciò che è per noi più familiare perché per noi più manifesto, conduce a ciò che, in quanto si schiude da sé, è più manifesto in se stesso e, in tal sen­ so, già da prima fidato >> . Dobbiamo rinunciare, qui, a un'interpretazione com­ pleta di questo passo, il cui costrutto linguistico egua­ glia una composizione delle più belle pitture vascolari greche. L'interpretazione della frase richiederebbe un approfondimento del primo capitolo del primo libro della Fisica di Aristotele. Questo breve capitolo è l'in­ troduzione classica alla filosofia e rende ancora oggi superflue intere biblioteche di letteratura filosofica. Chi ha compreso questo capitolo può osare i primi passi sulla via del pensiero. Nel passo riportato, Aristotele distingue tà iJ�-ti:v oa­ > custodisce la propria essenza come sua proprietà (Ei­ gentum). Lo svelarsi appartiene al carattere proprio dell'essere. Ma anche questo discorso non calza. Pen­ sando in termini rigorosi, dobbiamo dire che l'essere appartiene al carattere proprio dello svelarsi. Ciò che " essere >> significa si rivolge a noi a partire dallo sve­ larsi e in quanto svelarsi. Ciò che « essere >> significa non lo possiamo stabilire a piacere nostro, da noi, né lo possiamo fissare in termini definitivi. Ciò che è chiamato (heijJt) « essere >> resta al sicuro nell'ingiun­ zione (GeheijJ) che parla dalle parole-guida del pensie­ ro greco. Ciò che tale ingiunzione dice non potremo mai dimostrarlo, né volerlo dimostrare scientifica­ mente. Possiamo udirlo oppure no. Possiamo prepa­ rare tale udire oppure trascurare la preparazione. Aristotele dice : l'essere è ciò che è da sé più mani­ festo. Al tempo stesso, però, ciò che è da sé più ma­ nifesto è per noi, e cioè dal punto di vista del carattere e della direzione del nostro percepire abituale, il me­ no manifesto. Per noi vale come più manifesto l'ente che di volta in volta è. Si potrebbe credere dunque che dipenda soltanto da noi uomini il fatto che l'essere, il più manifesto da sé, sia per noi il meno manifesto, e precisamente in favore dell'ente. Se ne potrebbe ar­ guire che il fatto che l'essere è il meno manifesto sia imputabile a noi uomini. Ma questa considerazione apparentemente corretta pensa in modo troppo mio­ pe. Che cosa mai può significare qui « imputabile a noi uomini >> , se l'essenza dell'uomo riposa proprio nel ve-

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nire reclamata dall'essere? Il fatto che per noi l'ente che di volta in volta è, è ciò che è più manifesto, men­ tre l'essere è il meno manifesto, può dipendere soltan­ to dall'essenza dell'essere, e non da noi, vale a dire « da noi » intesi come se, per così dire, ci collocassimo solipsisticamente nel vuoto e nell'assenza di riferimen­ ti. Al di fuori del reclamo dell'essere, infatti, noi uo­ mini non siamo mai gli uomini che siamo. Di conse­ guenza, non è affatto una qualche caratteristica con­ tingente dell'uomo rappresentato in termini antropo­ logici ciò che può far sì che l'essere sia per noi meno manifesto dell'ente che di volta in volta è. Ciò è insito piuttosto nell'essenza dell'essere, che, in quanto sve­ larsi, si svela in modo tale che allo svelare appartiene contemporaneamente un velarsi, cioè un sottrarsi. Questo è quanto dice il detto di Eraclito annoverato come frammento 1 23 : �umç xgu:rt'tEoitm > . L'essere, in quanto desti­ narsi che si dirada, è, al tempo stesso, sottrazione. Al destino dell'essere appartiene la sottrazione. Un secondo riferimento alla storia del pensiero occi­ dentale ci dovrebbe fornire una visione ulteriore che ci fa cogliere in che misura, nella storia di questo pen­ siero, il destino dell'essere si impone e domina in quanto sottrazione. Ma ciò che qui '' sottrazione >> si­ gnifica, non può essere posto mai abbastanza dinanzi al nostro sguardo interiore. Lo svelarsi non è affatto una caratteristica contingente che si aggiunge estrin­ secamente a un > altrimenti già in un certo qual modo sussistente, così come non lo sono la sottra­ zione e il sottrarsi. Se essi fossero soltanto una caratte­ ristica contingente dell'essere, ciò significherebbe che, con la sottrazione, l'essere verrebbe semplicemente a mancare. In seguito a una sottrazione così concepita non si darebbe allora più essere. Si finirebbe così per intendere la sottrazione nel senso di un procedimento analogo, per esempio, a quello con cui si toglie l'acidi­ tà a un vino, in modo che esso non ne abbia più. Ma l'essere non è una cosa che qualcuno ci porta via per : Kritik der reinen Vernunft [Critica della ragione pura], Kri­ tik der praktischen Vernunft [Critica della ragione pratica], Kritik der Urteilskraft [Critica del Giudizio] . La Urteilskraft [facoltà del giudizio] è la capacità di giudicare. La ra­ gione pura, e cioè non determinata dalla sensibilità, sia come ragione teoretica sia come ragione pratica, è una capacità di giudicare in base a princìpi a priori. Per questo, fa parte di una critica completa della ra­ gione pura (sia teoretica che pratica) anche una critica della facoltà del giudizio. Anche nella terza Critica il vero tema è la ragione. Ma Vernunft [ragione] si dice in latino ratio. Come la parola latina ratio, che significa calcolo e ragione, giunga ad avere significato di « fon­ damento Grund (Satz vom Grund principium ratio­ nis), lo sapremo presto. Il pensiero di Kant è critica della ragione pura, del­ la ratio pura. Secondo Kant la ragione è la facoltà dei princìpi, e cioè delle tesi fondamentali, del dare fon­ dazione. Già in base a questi accenni balza agli occhi il fatto che la tesi del fondamento, il principium rationis, domina nel pensiero di Kant in un modo eccelso. Pro­ prio per questo motivo Kant parla solo raramente del­ la tesi del fondamento. Critica della ragione pura qui non significa mai criticare nel senso di trovare da ridi­ re. La critica non va nemmeno intesa come mera ve­ rifica o esame. Né la critica pone alla ragione soltanto limiti (Schranken) . La critica, piuttosto, porta la ragio­ ne entro i suoi confini (Grenzen). Limiti e confini non sono la stessa cosa. Di solito diciamo che il confine è ciò dove qualcosa finisce. Ma, secondo l'antico si­ gnificato greco, il confine ha senz'altro il carattere del riunire, e non quello del rescindere. Confine è ciò da cui e in cui qualcosa incomincia e si schiude tale qual è. Chi non comprende questo significato di « confine non sarà mai in grado di arrivare a vedere, nella loro presenza, un tempio, una statua o un vaso greci. Nel>> ,

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l'uso kantiano del titolo Critica risuona ancora il senso greco del XQLVELV, che significa > , '' di­ stinguere >> ; questo, però, nel senso di uno staccare per mezzo del quale ciò che conta viene messo in risal­ to. Il confine non scherma, ma, piuttosto, mette in ri­ salto la forma nella luce della presenza e regge tale presenza. Kant conosceva l'alto senso della critica. Le sue tre Critiche mirano a individuare ciò che egli chia­ ma le '' condizioni della possibilità a priori >> . Il discorso delle « condizioni della possibilità a prio­ ri >> è il motivo conduttore che risuona attraverso l'in­ tera opera di Kant. La locuzione a priori - che significa '' già da prima >> - è l'eco tarda di ciò che Aristotele chiama ng6n:gov ,;fl qn)oEL, ciò che, rispetto allo svelarsi, è precedente, in quanto, essendo c�ò che è da sé più manifesto, viene prima di tutto. E in questo senso che per Kant le ,, condizioni della possibilità >> sono a priori. '' Possibilità >> equivale qui a « rendere possibile » (Ermoglichung). A che cosa si riferiscono le condizioni del rendere possibile a priori? Esattamente a ciò a cui già per Aristotele si riferisce il ng6n:gov ,;fl cpuoEL, e cioè a ,;à oacpÉonga ngòç �IJ.aç, a ciò che, in riferimen­ to a noi e per noi, è anzitutto manifesto rispetto alla cpumç, all'essere. Questo è l'ente. Sotto il titolo '' con­ dizioni della possibilità a priori >> , Kant pensa il rende­ re possibile ciò in base a cui l'ente in quanto tale, nel suo insieme, si determina per noi. In base a che cosa accade ciò? Evidentemente, in base a quegli ambiti dell'ente in cui noi, in quanto uomini, siamo posti. L'uomo è l'anima[ rationale. Egli, in quanto essere na­ turale, appartiene al dominio (Bereich) della natura e, in quanto essere razionale, al regno (Reich) della ra­ gione, vale a dire della volontà e, quindi, della libertà. La Critica della ragione pura, quindi, deve determina­ re la ragione nel suo rapporto con la natura e nel suo rapporto con la volontà, vale a dire con la causalità del volere, e cioè con la libertà. Il problema della critica è il problema delle condizioni della possibilità a priori della natura e della libertà. Tali condizioni forniscono

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il rispettivo fondamento che delimita natura e libertà nella loro essenza e che, in tal modo, ce le porge e for­ nisce (dar- und zureicht) nella completezza delle loro determinazioni. Dietro la formula " condizioni della possibilità a priori >> si nasconde la fornitura del fonda­ mento, della ragione sufficiente, della ratio sufficiens, che, in quanto ratio, è la ragione pura. Secondo Kant, solo facendo riferimento alla ragione (Vernunft, ratio) è possibile determinare qualcosa in quello che è, e nel modo in cui esso è ente per l'animale razionale chia­ mato " uomo >> . Ora, ciò non significa soltanto che, nel senso del pensiero dell'età moderna, l'ente è sempre e solo in quanto oggetto, e che l'oggetto è sempre e solo oggetto per un soggetto ; ora diviene invece più chiaro che questo soggetto, vale a dire la ragione, la ratio - e cioè la riunione delle condizioni della possibilità a priori della natura e della libertà - è questa riunione soltanto in quanto fornitura del fondamento, della ra­ gione sufficiente. In forma assai mutata viene ora in luce ciò che un detto del primo pensiero greco dice: 'tO YOQ O'U'tO VOEtV EO'tLV 'tE XOL ELVOL ,

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'' Lo Stesso infatti è percepire ed essere >> . Pensato nei termini dell'età moderna, ciò significa che il perce­ pire (Vernehmen), la ragione (Vernunft, ratio) e l'essere si coappartengono, e in modo tale che la ragione pu­ ra, la ratio, ora altro non è che il porre, il fornire il fondamento sufficiente di ogni cosa, in considerazio­ ne di come ogni cosa può apparire in quanto ente, e cioè può essere rappresentata e ordinata, trattata e scambiata. Nulla ci vieta di accontentarci di spiegare il titolo Critica della ragione pura come un titolo storicamente dato per designare il primo capolavoro di Kant. Ma possiamo anche riflettere in che senso, con questo ti­ tolo, il pensiero di Kant si sottopone nella sua interez­ za a una pretesa. Allora la ragione pura, sia teoretica sia pratica, si mostra come ratio pura nel senso che essa

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è la poslZlone del fondamento, vale a dire il fonda­ mento di ogni fondazione: la ragione pura è ciò che determina tutte le condizioni della possibilità dell'ente nella loro unità. La critica della ragione pura dà al fondamento di ogni fondazione la sua forma definita. Nella misura in cui, con Kant, il pensiero diviene criti­ ca della ragione pura, esso corrisponde alla pretesa del principium rationis sufficientis. In forza di tale corri­ spondenza, il pensiero di Kant porta alla luce la prete­ sa del principium rationis in tutta la sua ampiezza, e lo fa in modo tale che la ratio è fondamento soltanto in quanto è ratio nel senso della ragione (Vernunft) in quanto facoltà dei princìpi. Questa indicazione su ciò che si cela dietro il titolo Critica della ragione pura resta però insufficiente, fintan­ to che non abbiamo presente in una veduta complessi­ va, sinotticamente ripercorsa, l'insieme delle tre Criti­ che di Kant. Viste dall'esterno, queste tre opere giac­ ciono l'una accanto all'altra, come tre grandi blocchi senza connessioni fra loro. E vero che lo stesso Kant ha tentato ripetutamente di rendere visibile, mediante un'architettonica più che altro esterna, quell'unità in­ terna che egli certamente vedeva. Ma Kant sapeva più di quanto egli riuscisse a esporre mediante questa ar­ chitettonica delle sue opere. Tuttavia, ciò che soprattutto ci impedisce di vedere nell'essenza di ciò che, nella storia del pensiero occi­ dentale, si destina a noi con il titolo Critica della ragione pura, rimane il fatto che ancora non pensiamo suf­ ficientemente a fondo in che senso gli orizzonti deter­ minanti della problematica kantiana poterono aprirsi soltanto alla luce della formulazione ris-orosa e com­ pleta della tesi del fondamento a o pera di Leibniz. D'al­ tra parte, proprio con la filosofia di Kant o, più precisa­ mente, per il modo in cui essa influì, il tratto più intimo del pensiero lebniziano è stato posto in un'ombra in cui quest'ultimo è rimasto fino a oggi. A questo proposito va notato che lo stesso Kant ha sempre trattato con il massimo rispetto gli scritti « del Signor von Leibniz noti al suo tempo. »

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« Niente è senza fondamento >> . Questa formulazio­ ne abituale della tesi del fondamento, parafrasata, di­ ce: « ogni ente ha un fondamento >> . In questo modo il fondamento che ogni ente ha, viene esso stesso rap­ presentato come un ente. Un riferimento già fornito in precedenza a un testo di Leibniz dovrebbe mostrar­ lo. La tesi del fondamento è un'asserzione sull'ente. Nell'altra tonalità, la tesi del fondamento suona: nien­ te è senza fondamento >> . Parafrasando, ciò vuoi dire : in modo chiaro e uni­ voco nel senso seguente: « essere >> in quanto conces­ sione del lasco di spazio e di tempo che si dirada e si promette (Sein als sich-zusagendes, lichtendes Einriiumen des Zeit-Spiel-Raumes) a ciò che, in un modo o nell'al­ tro, sempre appare, l'ente. Rimanendo sulla difensiva, è possibile, ora, notare soltanto questo: Con il riferimento al destino dell'essere non ci si li­ mita affatto a introdurre dietro la storia del pensiero una sorta di strato più profondo, cosicché d'ora in poi, con la stessa facilità con cui si gira la leva di un in­ terruttore, si potrebbe parlare di > e « ciò che sta di fronte >> - Gegenuber e Gegen­ stand - non sono la stessa cosa. In « ciò che sta di fron­ te >> , nell'oggetto, il « di fronte >> si determina in base al « gettare di fronte a sé » che rappresenta, operato dal soggetto. Nell'« essere di fronte >> , invece, il « di fron­ te >> si manifesta in ciò che avviene all'uomo percipien­ te, vedente-udente, vale a dire in ciò che sopravviene l'uomo, lo coglie - coglie lui, che mai si è concepito in quanto soggetto per degli oggetti. Di conseguenza, ciò che è-presente non è ciò che un soggetto si getta di fronte come oggetto, bensì ciò che perviene al perce­ pire, e che il vedere e udire umano pone-là e rap-pre-

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senta (hin- und dar-stellt) come qualcosa che gli è soprav­ venuto. La statua (Stand-bild ) greca fornisce la veduta di una figura che sta in piedi, il cui stare, però, non ha nulla a che fare con uno ,, stare di fronte >> nel senso dell'oggetto. La parola greca àvttXELf..lEVOv che si­ gnifica il " di fronte >> , anzi, più precisamente, " ciò che nel suo essere di fronte giace-dinanzi >> (das im Gegen­ uber Vor-liegende) - è qualcosa di completamente diver­ so dallo " stare di fronte >> nel senso dell'oggetto. Nella presenza partecipe degli dèi, i Greci esperivano il > più inquietante e affascinante: -cò bEtv6v. Ep­ pure essi non conoscevano " le cose che stanno di fronte >> nel senso degli oggetti. Il > e l'in­ contrare (Be-gegnen) hanno qui un altro senso. Se dunque, come accade ora sempre più spesso, si riflette sul fenomeno dell'incontro, deve allora esse­ re soddisfatto un presupposto indispensabile alla net­ tezza di questo proposito. Deve regnare chiarezza su questa alternativa: o il fenomeno dell'incontro viene impostato nell'ambito della " relazione soggetto-og­ getto >> , e viene dunque rappresentato in termini mo­ derni a partire dal soggetto in quanto persona; oppu­ re l'incontro viene cercato nella dimensione dell'" es­ sere di fronte >> . Un esame che pensi la struttura di 9�e� to ambito è assai difficoltoso ed è appena ai suoi IniZI. Goethe, che nel 1 792 ha scritto un saggio dal titolo Der Versuch als Vermittler von Objekt und Subjekt [L'esperi­ mento come mediatore tra oggetto e soggetto], usa spes­ so e volentieri la parola Gegenstand; egli, però, conosce ancora l'antica forma dell'> e -

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come > . Ma la parola ilber diviene chiara nel verbo sorprendere (ilberraschen) : sopravvenire rapida­ mente, improvvisamente, repentinamente qualcuno (jdh ilb�r einen kommen). Non v'è luogo in cui le parole ilber e Uberraschung (sorpresa) parlano in modo più ric­ co, e forse anche in modo più greco, che nell'ultima strofa dell'inno di Holderlin intitolato Die Wanderung [La peregrinazione] del 1 80 1 . Esso comincia: Glilckse­ lig Suevien, meine Multer.. [Suevia, madre mia, beata ... ]. .

Wenn milder athmen die Lilfte, Und liebende Pfeile der Morgen Uns Allzugedultigen schikt, Und leichte Gewolke blilhn Uns ilber den schilchtemen Augen, Dann werden wir sagen, wie kommt Ihr, Charitinnen, zu Wilden? Die Dienerinnen des Himmels Sind aber wunderbar, Wie alles Gottlichgeborne. Zum Traume wirds ihm, will es Einer Beschleichen und straft den, der /hm gleichen will mit Gewalt; Oft ilberraschet es einen, Der e ben es kaum gedacht hat. * (Anziché gedacht [pensato], Holderlin aveva scritto dapprima gehofft [sperato]).

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> . L'ente, infatti, è qualcosa che è di volta in volta, e che quindi è molteplice; l'essere, al contrario, è unico, è il singolare assoluto nella singolarità incondizionata. Tentiamo di gettare uno sguardo nel destino del­ l'essere, seguendo un cammino che ci consente un col­ po d'occhio attraverso epoche diverse della storia del

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pensiero occidentale. Un tale cammino ha già assunto in anticipo che la storia del pensiero occidentale ripo­ sa nel destino dell'essere. Ma ciò in cui qualcosa d'al­ tro riposa, deve essere a sua volta la quiete. Di solito ci rappresentiamo la quiete come la cessazione del movi­ mento. In termini fisico-matematici, la quiete è soltan­ to un caso-limite del movimento, che, a sua volta, ri­ mane predeterminato come cambiamento di luogo misurabile secondo coordinate spazio-temporali. Se la quiete viene pensata come cessazione o come caso-li­ mite del movimento, allora il concetto di quiete risulta dalla negazione. Tuttavia, pensata in senso proprio, la quiete non è il venire meno, bensì il raccogliersi del movimento, quel raccogliersi che solo sprigiona da sé (entschickt) movi­ mento, e che, in tale sprigionare, non si limita sempli­ cemente a lasciarlo andare e a mandarlo fuori, ma lo trattiene in sé. È così che il movimento riposa nella quiete. Se, quindi, assumiamo che la storia del pensie­ ro occidentale riposa nel destino dell'essere, allora in ciò che chiamiamo destino dell'essere pensiamo una quiete, una raccolta, in cui rimane raccolto anche ogni movimento del pensiero, e ciò sia che il pensiero ne abbia direttamente conoscenza oppure no. Noi assumiamo che tra destino dell'essere e storia del pensiero vi sia un rapporto di questo tipo. I l di­ scorso dell'assumere (An-nehmen), in questo caso, si­ gnifica: accettare ciò che sopravviene il pensiero; ac­ cettare va inteso, qui, nel senso in cui si dice: accettare il confronto con un nemico (im Streit einen Gegner an­ nehmen) ; solo che qui l'accettare il confronto non ha nulla di ostile, e la contesa non è caratterizzata dall'o­ dio. L'accettare e l'assumere hanno, ora, il senso del corrispondere che ode e che scorge. Se assumiamo che la storia del pensiero occidentale riposa nel destino dell'essere che si sottrae, in questo caso non si tratta affatto di una assunzione avanzata soltanto di nostra iniziativa, nel senso, cioè, di una opinione che ci capita arbitrariamente di avere su una

Il principio di ragione

cosa, con cui catturiamo quest'ultima in un parere pre­ determinato. Il fatto che la suddetta assunzione, secondo cui la storia del pensiero riposa nel destino dell'essere, non sia un mero opinare da parte nostra, bensì un acco­ gliere qualcosa che proviene dall'essere, si spiega in modo abbastanza chiaro se meditiamo brevemente su qualcosa che abbiamo, sì, già considerato e anche già menzionato, ma che, tuttavia, non abbiamo finora di­ scusso espressamente. Di tutte le cose difficili da capi­ re di questo mondo, questa è la più difficilmente com­ prensibile, proprio perché ci sta più vicina di tutte le altre, in quanto noi stessi siamo quella cosa. Già all'inizio della prima lezione, e poi ripetutamen­ te anche in seguito, abbiamo parlato della pretesa del­ la tesi del fondamento e del fatto che noi seguiamo senz'altro il suo reclamo ; noi, infatti, siamo i « recla­ mati >> da questa pretesa. Soltanto in quanto così « re­ clamati >> siamo in grado di accettare, e cioè di acco­ gliere, ciò che ci si destina. Nel destino dell'essere noi siamo coloro che sono destinati dalla e con la '' radu­ ra >> dell'essere. In questo modo, però, siamo anche gli stessi che l'essere concerne nella sottrazione e median­ te la sottrazione, gli stessi a cui l'essere, in quanto è ta­ le destino, rifiuta la '' radura » della sua provenienza essenziale. A ciò sembrano opporsi le parole che Hegel pro­ nunciò il 22 ottobre 1 8 1 8 in occasione della lezio­ ne con la quale inaugurò i suoi corsi all'università di Berlino: '' Il coraggio della verità, la fede nella forza dello spirito, è la prima condizione dello studio filosofico; l'uomo deve onorare se stesso e ritenersi degno di ciò che è supremo. Egli non potrà mai pensare in termini abbastanza grandi la grandezza e la forza dello spirito; l'essenza conchiusa dell'universo non custodisce in sé energia alcuna in grado di opporre resistenza al co­ raggio del conoscere; essa deve schiudersi di fronte a

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esso e dispiegargli davanti agli occhi le proprie ric­ chezze e le proprie profondità, e recargli piacere >> . Se volessimo intendere queste parole nel senso di un'arroganza nei confronti dell'Assoluto da parte del­ la persona del pensatore, non penseremmo né in ter­ mini abba�tanza grandi né in modo sufficientemente obiettivo. E invece proprio il contrario: cioè la dispo­ nibilità a corrispondere alla pretesa - al reclamo - in cui l'essere, inteso nel senso del concetto assoluto, si destina al pensiero, predeterminando in modo decisi­ vo l'epoca del compimento della metafisica occidenta­ le. Nella misura in cui l'essere dell'ente si dà a cono­ scere assolutamente al pensiero metafisico-ontologico nella forma del concetto assoluto, si cela in tale desti­ nazione dell'essere la sua estrema sottrazione. Il moti­ vo per cui ciò coglie nel segno si chiarirà nella seguen­ te caratterizzazione conclusiva dell'epoca della storia dell'essere corrispondente alla filosofia kantiana. Ripetiamo la frase che precedeva la parentesi su Hegel: nel destino dell'essere, noi siamo coloro che so­ no destinati dalla e con la " radura >> dell'essere; in questo modo, siamo anche gli stessi che l'essere con­ cerne nella sottrazione e mediante la sottrazione, gli stessi a cui l'essere, in quanto è tale destino, rifiuta la > della sua provenienza essenziale. In quanto siamo coloro che, nel destino dell'essere, sono destina­ ti dall'essere, noi stiamo, secondo la nostra essenza, in una " radura >> dell'essere. Ma non ce ne stiamo affatto in questa " radura >> senza ricevere alcun appello; al contrario, noi stiamo nella " radura ,, in quanto " re­ clamati >> dalla pretesa dell'essere dell'ente. In quanto siamo coloro che stanno nella " radura >> dell'essere, noi siamo i destinati, e cioè coloro che sono stati predi­ sposti nel lasco dello spazio e del tempo. Ciò significa: noi siamo coloro dei quali si fruisce in questo orizzon­ te e per esso, allo scopo di costruire e di dare forma al­ la " radura dell'essere, ovvero, detto in un senso lato e molteplice, allo scopo di custodirla. Nel linguaggio ancora più impacciato e provvisorio ••

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di Essere e tempo ( l 927), tutto ciò è detto nei termini se­ guenti : il tratto fondamentale dell'esserci che l'uomo è viene determinato dalla comprensione dell'essere. « Comprensione dell'essere >> qui non significa mai che l'uomo possiede, in quanto soggetto, una rappresen­ tazione soggettiva dell'essere, e che quest'ultimo, l'es­ sere, è una mera rappresentazione. Ed è in questo senso che Nicolai Hartmann e molti contemporanei hanno inteso a modo loro l'impostazione di Essere e tempo. '' Comprensione dell'essere >> significa che l'uomo, secondo la sua essenza, sta (steht) nell'aperto del pro­ getto dell'essere e sopporta (aussteht) quel comprende­ re. Con una comprensione dell'essere esperita e pen­ sata in questo modo, la rappresentazione dell'uomo in quanto soggetto viene - per dirla con Hegel - accanto­ nata. Soltanto in quanto l'uomo, secondo la sua essen­ za, sta in una « radura >> dell'essere, egli è un essere pensante. Fin dai tempi più antichi, infatti, nella no­ stra storia pensare significa: corrispondere all'ingiun­ zione dell'essere e, in base a tale corrispondenza, di­ scutere dell'ente nel suo essere. Questo discutere (ota­ Myem'tm) si sviluppa, nella storia del pensiero occiden­ tale, in dialettica. A che scopo queste osservazioni, a prima vista fuor­ vianti in questo momento? Esse servono a illuminare il nostro sguardo sul fatto che, e sul modo in cui, la sto­ ria del pensiero rimane in riferimento al destino del­ l'essere. La storia (Geschichte) del pensiero è qualcosa di ben diverso dalla mera storiografia (Historie) delle mutevoli opinioni e dottrine dei filosofi. La storia del pensiero è la destinazione dell'essenza dell'uomo in base al destino dell'essere. L'essenza dell'uomo è desti­ nata (beschickt) ad avere la convenienza (das Schickliche) di portare al linguaggio l'ente nel suo essere. In fon­ do, ciò che si è appena detto altro non è che l'esplica­ zione - pensata a partire dalla questione dell'essere ­ dell'antica determinazione dell'essenza dell'uomo : ho-

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mo est animai rationale; l'uomo è l'animale dotato di ragtone. Soltanto nella misura in cui l'uomo ha dal destino (Geschick) il dono della convenienza (das Schickliche) di pensare l'ente in quanto tale, si ha che ciò che è con­ forme al destino (das Geschickliche) è in quanto storia (Geschichte) del pensiero. All'interno di questa storia, l'essere si è destinato al pensiero qi Kant come oggetti­ vità dell'oggetto dell'esperienza. E proprio di tale og­ gettività il fatto che ad essa si contrappone un rappre­ sentare, ed è soltanto in questa contrapposizione che l'oggettività ottiene la sua piena determinatezza. Que­ sta contrapposizione è quel modo del rappresentare che Kant definisce metodo trascendentale. Nell'introduzione alla seconda edizione della Critica della ragione pura, Kant, dando una formulazione più chiara alla medesima frase della prima edizione, dice (B 25) : " Chiamo trascendentale ogni conoscenza che, in generale, si occupa non tanto degli oggetti, quanto piuttosto del nostro modo di conoscere gli oggetti, nella misura in cui esso deve essere possibile a priori » . I l metodo trascendentale appartiene al modo i n cui gli oggetti possono essere oggetti per noi. Caratteriz­ zato come oggettività, l'essere si " dirada » in un modo nuovo. Per i pensatori greci, l'ente non era mai ogget­ to, bensì ciò che permane a partire dal suo " essere di fronte >> (das aus dem Gegenuber her An-wiihrende). L'ente era '' più essente >> dei nostri oggetti. Noi invero rite­ niamo che quando l'ente si mostra in quanto oggetto, e cioè in modo obbiettivo, esso appare allora nel modo più puro come > . Ma questa opinione è errata, posto che pensiamo in modo adeguato il concetto di oggetto. Dal punto di vista della storia dell'essere, ciò che è presente nell'> , la fornitura del fondamento sufficiente suona più nitidamente come un « gettare a >> (zuwerfen), un « getto a >> (Zuwurf) ope­ rato dal soggetto. Nel linguaggio dell'arte e degli arti­ sti si è conservata la parola lessinghiana Vorwurf per indicare il tema di un'opera. La parola tedesca Vor­ wurf è propriamente la traduzione letterale del termi­ ne greco :7q�6�À.TJ!.la. Oggi - e questo sia detto di passag­ gio, per fornire un motivo di riflessione - accade che nel nostro linguaggio ormai logoro chiunque si serve della parola « problema >> , così come avviene, per e­ sempio, quando il meccanico, uomo di tutto rispet­ to, pulisce le candele sporche dell'automobile e dice : « non è un problema >> . E non lo è, infatti. Per il fatto che l'essere dell'ente si destina come og­ gettività degli oggetti, il destino acquista una risolutez­ za e una esclusività in precedenza inaudite. A questo destinarsi, però, corrisponde anche la risolutezza con cui l'essere si sottrae nella sua provenienza essenziale. Infatti, se la ratio in quanto ragione, cioè in quanto soggettività, è l'ambito sorgivo della ratio nel senso del fondamento e della sua pretesa di fondamento, allora, all'interno dell'ambito della ratio, la questione riguar­ dante la provenienza essenziale dell'essere in quanto oggettività non può trovare alcuna collocazione. Per­ ché no? Perché mediante la ratio intesa come soggetti­ vità viene in luce il fatto che, e il modo in cui, la ragio­ ne racchiude in sé l'interezza delle possibili rationes, vale a dire dei fondamenti, ed è così il fondamento di

Lezione undicesima

ogni fondazione. Il trascendentale nel metodo tra­ scendentale di Kant è un rappresentare che corri­ sponde alla fornitura del fondamento sufficiente, che riposa, cioè, nella pretesa di tale fornitura. Il trascen­ dentale non è affatto un procedimento inventato dal pensiero umano. Così come il trascendentale del me­ todo rinvia con un cenno fino alla , ed è ri­ conoscibile soltanto in essi. Dobbiamo pensare, ripor­ tandolo all'indietro alla storia dell'essere, tutto ciò che è stato nominato nei primi quattro dei cinque capisal­ di ricordati sopra. Il quinto caposaldo riguarda il cambio di tonalità nella tesi del fondamento. Dietro il cambio di tonalità della tesi si cela il salto dalla tesi del fondamento in quanto principio supremo che riguar­ da l'ente, alla tesi del fondamento in quanto dire del­ l'essere. In questo senso, la tesi, in quanto pensa anco­ ra e pensa già (andenkend-vordenkend ), è un Satz nel senso del salto. Se poi pensiamo pienamente la parola plurivoca Satz non solo in quanto asserzione, non solo in quanto dire, non solo in quanto salto, ma anche, al tempo stesso, nel senso musicale - e cioè come > che incombe sul pensiero come qualcosa ancora da pensare. Eppure esso viene in luce in una forma particolare già con il pensiero metafisi­ co, e ciò accade, nel modo più puro, nella Logica di H egei. Se diciamo: > , allo­ ra l'essere e il fondamento non vengono gettati insie­ me nel grigiore di una vuota uniformità, sicché, a pia­ cimento, invece di essere si potrebbe dire anche fon­ damento, e invece di fondamento anche essere. En­ trambe le parole ci danno invece da pensare qualcosa di diverso, qualcosa che noi, al primo sguardo, nem­ meno connettiamo, benché la tesi del fondamento, nella seconda tonalità, dica: niente è senza fondamen­ to >> . Ciò significa: nell'> regna il fondamento. Il fondamento, però, fonda in modo tale che il suo fon­ dato è un qualcosa che è, cioè un ente. Quanto più nettamente teniamo distinti l'« essere >> e il '' fondamento >> , tanto più decisamente siamo tenuti a domandare: come si combinano, e come si coappar­ tengono, essere e fondamento? In che senso la tesi del fondamento, nella seconda tonalità, dice una verità di cui ancora non possiamo quasi misurare la portata? Nel frattempo, già da una serie di lezioni stiamo parlando di essere e di fondamento >> , senza avere soddisfatto l'esigenza più impellente, e cioè quella di cogliere in concetti rigorosi ciò di cui continuamente si parla, l'> e il fondamento >> , in modo tale da assicurare in anticipo la necessaria attendibilità al corso della discussione. A che cosa è dovuta questa omissione? Essa è dovuta a ciò di cui finora si è parlato nel ricordare la storia dell'essere e la tesi del fonda­ mento in quanto principio supremo. In tale contesto, l'essere è stato nominato sia nel senso della > , il " pro-durre >> . Nell'ambito del '' portare fuori >> e del « venire fuori >> il discorso è rife­ rito alla ratio, parola che noi, ora, non possiamo più tradurre con « fondamento >> e '' ragione >> ; se così fa­ cessimo, infatti, finiremmo per occluderei da soli il cammino in quella prospettiva che, oramai, è necessa­ rio mantenere. Ma, allora, come dobbiamo tradurre ratio efficiendi? La ratio è ratio per '' ciò che deve essere portato fuori >> , è la sua Ursache, la sua causa. Il riferi­ mento all'efficere contrassegna la ratio come causa. Tale causa rientra nell'ambito del « portare fuori >> , ambito in cui qualcosa > . In che senso la causa rientra in questo ambito? Nel senso che essa ha il ca­ rattere della ratio. Che cosa significa, qui, ratio? Forse che la ratio è assegnata all'ambito dell'effic_ere o addirit­ tura confinata al suo interno? Per nulla. E vero il con­ trario. È l'ambito dell'efficere e dell'eventus che appar­ tiene a quello della ratio. Ma, allora, non è certamente grazie al passo citato che esperiamo ciò che la parola nomina, dal momento che tutto ciò che Cicerone qui dice, viene ricondotto alla ratio. Nondimeno, l'asser­ zione di Cicerone rimane istruttiva. La parola ratio è collegata con il verbo reor, il cui senso preminente è « ritenere qualcosa per qualcosa d'altro >> ; ciò per cui qualcosa viene ritenuto, è ciò che viene sotto-posto (unterstellt), e cioè sub-posto, suppo­ sto (supponiert). In tale supporre, ciò di cui si suppone qualcosa, viene conformato e regolato su ciò che di es­ so è supposto. Questo « regolare qualcosa su qualcosa d'altro >> è il senso del verbo tedesco rechnen, contare. Tenere conto di qualcosa, significa: non perderlo di vista e regolarsi su di esso. Contare su qualcosa, si­ gnifica: aspettarselo, e, nel fare questo, aggiustarlo co­ me ciò su cui si deve costruire. Il senso autentico del verbo rechnen non è necessariamente riferito ai nume­ ri. Questo vale anche per ciò che è chiamato « calcolo >> (Kalkiil). Il calculus è il sassolino che fa da pedina in un gioco da tavolo, e poi anche la pietruzza per fare i con-

Lezione dodicesima

ti. Il calcolare è un contare che implica riflessione · e ponderazione: un qualcosa viene posto di fronte a un altro in termini comparativi e valutativi. Perciò il con­ tare inteso nel senso dell'operare con i numeri non è che una specie di calcolo del tutto particolare, caratte­ rizzata dall'essenza della quantità. Nel tenere conto di qualcosa e nel contare su qualcosa, ciò di cui e su cui in tal modo '' si fa conto >> (das Be-rechnete), viene « por­ tato fuori per il pensiero, e cioè viene portato in ciò che è manifesto. Mediante un .tale contare « viene fuo­ ri >> qualcosa; è così, dunque, che eventus ed efficere rientrano nell'ambito della ratio. Il senso proprio e perciò più ampio del verbo rechnen, che è stato breve­ mente delucidato, è nominato nel verbo latino reor. Ratio significa conto. Quando « facciamo conto >> , rappresentiamo ciò di cui e su cui, in una qualche co­ sa, si deve fare conto, e che, quindi, non deve essere perso di vista. Ciò che in tal modo viene calcolato e ri­ cavato, rende conto di ciò che, in una cosa, è impor­ tante, vale a dire di ciò che, in essa, è l'elemento deter­ minante. Nella resa dei conti viene alla luce ciò che fa sì che una cosa sia così com'è. Ratio significa conto; ma il termine « conto >> ha un senso duplice. Da un lato, « conto >> significa contare in quanto fare ; dall'altro la­ to, « conto >> significa ciò che si è ricavato in tale fare, vale a dire ciò che è stato contato, il conto che viene presentato, il conto che va reso. Noi diciamo: rendere conto. Il linguaggio dei Ro­ mani dice: rationem reddere. Nella misura in cui nel conto e nella resa del conto viene presentato ciò di cui e su cui, in una qualche cosa o azione, si fa conto, il reddere appartiene necessariamente alla ratio. Il fatto che il principium rationis sia un principium reddendae ra­ tionis è insito nell'essenza stessa della ratio. La ratio, in quanto conto che va reso, è in sé un reddendum. Questo tratto non viene attribuito e imposto alla ratio in modo arbitrario. Il reddere è già preformato e già preteso nel­ l'essenza della ratio intesa come conto. Il contare su qualcosa e il tenere conto di qualcosa è un porgere che »

Il principio di ragione

'' ci pensa su , , '' si mette sopra (ein uber-legendes Dar­ bieten) . Concentriamoci ora, per un attimo, su un pensiero incidentale, ma determinante. La tesi del fondamen­ to, udita nella seconda tonalità, dice: « essere e fonda­ mento: lo Stesso >> . Nel frattempo abbiamo anche udi­ to che l'essere si dirada ogni volta come un destino dell'essere. A ciò si connette, in quanto Stesso, una ri­ spettiva caratterizzazione destinale del fondamento, della ratio, del conto e della resa del conto. Se dunque il reddendum appartiene all'essenza della ratio, con il mutare di quest'ultima si trasf!Jrmano anche il modo e il senso del rationem reddere. E vero che l'espressione linguistica è la stessa sia presso gli antichi Romani sia in Leibniz, ma proprio questo Stesso si è mutato nella storia dell'essere in modo tale da inaugurare la carat­ terizzazione dell'epoca moderna, preparando ciò che, con il pensiero di Kant, venne portato alla luce con la denominazione di trascendentale >> . In Leibniz il red­ dere è riferito all'io che rappresenta e si compie per mezzo di quest'ultimo, e tale io viene determinato in quanto soggetto certo di se stesso. Una simile interpre­ tazione dell'essenza dell'uomo, e, quindi, di colui che riceve ciò che viene porto nel reddendum, sarebbe ap­ parsa strana alla romanità, anche se, in verità, non più così decisamente estranea come per il pensiero greco. Nel reddendum il pensiero leibniziano ode un carattere di reclamo destinalmente diverso. Qui, infatti, la ratio è il principium, la pretesa dominante e determinante che riguarda ogni ente in relazione al suo essere. Tale pretesa pretende la fornitura del conto per rendere possibile un calcolo esaustivo che computi tutto ciò che è in termini di ente. La ratio sufficiens, il solo e uni­ co fondamento propriamente sufficiente, la summa ra­ tio, la suprema resa dei conti per la calcolabilità totale, per il calcolo dell'universo, è Deus, Dio. Che cosa dice Leibniz di Dio in riferimento all'universo? Nel 1 677 (a 3 1 anni) Leibniz scrisse un dialogo sulla lingua rationa­ lis, (Gerhardt, vol . VII, pp. 1 90 sgg.) vale a dire sul cal,,

> , ma arriva persino a de­ terminare il modo stesso di pensare. In una nota ma­ noscritta a margine di una pagina di tale dialogo, Leibniz osserva: Cum Deus calculat fit mundus. Quando Diç> calcola, si genera il mondo. E sufficiente essere disposti a guardare alla nostra era atomica per vedere che se, secondo il detto di Nietzsche, Dio è morto, il mondo calcolato c'è ancora e, ovunque, mette l'uomo nel proprio conto, compu­ tando tutto sul principium rationis.

LEZIONE TREDICESIMA

Il principio di ragione, la tesi del fondamento (Satz vom Grund) , dice: nichts ist ohne Grund, niente è senza ragione, senza fondamento. Nihil est sine ratione. Grund è la traduzione di ratio. Là dove il parlare delle parole fondamentali viene tradotto (iibersetzt) da un linguag­ gio storico a un altro, la traduzione diventa tradizione. Se si irrigidisce, una tradizione può degenerare, tra­ mutandosi in peso e in ostacolo. Ciò può acca��re poi­ ché la tradizione, e cioè il " tramandare » ( Uberliefe­ rung) , come dice il nome stesso, è propriamente un " mandare » (liefern) nel senso latino del liberare, della liberazione. La tradizione, in quanto è un liberare, porta alla luce tesori nascosti del " già stato » , anche se tale luce è ancora soltanto quella di un'aurora esitan­ te. Il fatto che Grund sia la traduzione di ratio vuoi dire che la ratio si è tramandata nel Grund, tradizione, que­ sta, che già molto presto parla in un duplice senso. La tradizione della ratio nel doppio senso di fondamento e ragione ottiene in effetti la sua caratterizzazione de­ cisiva solo là dove il destino dell'essere determina quell'epoca che, secondo la cronologia storiografica, si chiama " età moderna » . Se è vero che essere e Grund - e cioè suolo e terra - rimanga lontano dal senso del ter­ mine ragione » (Vernunft) - e cioè percepire, appren­ dere (Vernehmen) e udire -, nel doppio senso della pa­ rola ratio i due significati si trovano insieme già molto presto, anche se non espressamente pensati nella loro coappartenenza. Per esprimerci in modo più appro­ priato, dobbiamo dire che in ciò che la parola ratio no­ mina sono prefigurate entrambe le direzioni di questo doppio senso: ragione e fondamento. Infatti, che cosa significa ratio? Rispondiamo con una traduzione della parola stessa. La traduzione dice: conto '' · Qui, però, la parola > deve essere intesa nel senso del ver­ bo reor, a cui il sostantivo ratio si collega. Contare, fa­ re conto, tenere conto, significa: regolare qualcosa su qualcosa d'altro, rappresentare qualcosa in quanto qualcosa. Quel qualcosa che, come tale, è ciò che di volta in volta viene rappresentato in quanto qualcosa, è il sotto-posto, il supposto (das Unterstellte). Il contare in­ teso in termini così ampi determina anche il senso del­ la parola calcolo (Kalkul ). Si parla di calcolo matemati­ co, ma ce n'è anche un altro. Ancora Holderlin, nelle Note alle sue traduzioni dell'Edipo re e dell'Antigone di Sofocle, usa la parola calcolo in un senso più profon­ do. Nelle Anmerkungen zum Oedipus (Stuttgarter Aus­ gabe, a cura di Friedrich Beifiner, 8 voli. , Kohlham­ mer, Stuttgart, 1 943- 1 985, vol. V, p. 1 96)* è detto: Anche ad altre opere d'arte manca, in confronto con quelle greche, l'affidabilità; almeno fino ad ora es­ se sono state giudicate più secondo le impressioni che suscitano che secondo il loro calcolo regolato da leg­ gi e gli altri procedimenti con cui viene prodotto il bello '' · E ancora: ••

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* Trad. it. Note all'« Edipo » , in Sul tragico, a cura di Remo Bodei, Feltrinelli, Milano, 1980, pp. 68 sgg.

Il principio di ragione

'' La legge, il calcolo, il modo come un sistema di sentimenti, l'uomo intero, quando si sviluppa sotto l'influenza dell'elemento, e la rappresentazione e il sentimento e il ragionamento scaturiscono l'uno dopo l'altro in diverse successioni, ma sempre secondo una regola .sicura, nel tragico è più equilibrio che pura successione E le Anmerkungen zur Antigone cominciano con que­ ste parole (ibid. , p. 265 [trad. it. Note all'« Antigone in Sul tragico, cit., p. 74]): « La regola, la legge calcolabile dell'Antigone, sta a quella dell Edipo come .:.. sta a .:., sicché l'equilibrio inclina di più dal principio verso la fine che dalla fine verso il principio '' · Nella misura in cui entrambe le Note parlano di « equilibrio >> , anche il calcolo che viene qui nominato sembra essere pensato in termini quantitativo-mecca­ nici, matematici. Ma l'equilibrio cui Holderlin si rife­ risce appartiene invece alla bilancia e all'armonia del­ l'opera d'arte, e cioè, in questo caso, alla rappresenta­ zione tragica nella tragedia (Trauer-Spiel). La ratio è calcolo, conto, sia nel senso ampio e alto del termine sia in quello abituale. Il contare, inteso co­ me regolare qualcosa su qualcosa d'altro, mette dinan­ zi, presenta di volta in volta qualcosa, e, in tal senso, è in sé un rendere, un reddere. Alla ratio appartiene il reddendum. Tuttavia, a seconda del contesto della sto­ ria dell'essere in base al quale la ratio parla in seguito in quanto ragione e fondamento, il reddendum acquista un senso diverso. In senso moderno, infatti, nel red­ dendum è insito il momento del reclamo incondiziona­ to e totale che pretende la fornitura dei fondamenti calcolabili in termini tecnico-matematici, ossia la « ra­ zionalizzazione >> totale. Anche se, quando parla del principium reddendae ra­ tionis, Leibniz si esprime in latino, egli non parla in ba­ se alla lingua dell'antica romanità. Nondimeno, il si­ gnificato romano del termine ratio si è tramandato nella rappresentazione di ciò che « ragione >> e « fon­ damento >>, in termini moderni, dicono. ».

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Lezione tredicesima

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Ma come è potuto accadere che la ratio, nel suo sen­ so antico, si sia biforcata in modo tale da parlare in un senso duplice, sia come fondamento sia come ragio­ ne? Come ciò sia potuto accadere dovrebbe ormai esse,­ re già chiaro a coloro che ascoltano con attenzione. E necessario però aggiungere ancora una indicazione specifica relativa a questo « come » . Parliamo, infatti, di una biforcazione della ratio nella ratio come ragione e nella ratio come fondamento. Il fatto che si parli di una biforcazione dovrebbe far capire che le due paro­ le, " ragione ,, e " fondamento >> , e ciò che in esse è det­ to, tendono a separarsi, ma che, d'altra parte, esse so­ no pur sempre mantenute nello stesso ceppo e nello stesso fusto, e che quindi, anche nella loro tendenza a separarsi, anzi, proprio in essa, stanno ancora in rap­ porto l'una con l'altra. L'antica parola alto tedesca che designa il ramo biforcato, il tronco biforcato dell'albe­ ro e l'intero albero che così è cresciuto, è die Zwiesel, « l'albero a doppio tronco >> , '' a tronco gemello >> . Tro­ viamo spesso questi tronchi gemelli nei vecchi abeti che svettano nell'alta Foresta Nera. In che senso la ra­ tio è un « albero a tronco gemello ,, ? La parola ratio si­ gnifica > in senso lato, un conto in base al qua­ le, in presenza di qualcosa, si tiene conto di qualcosa e si fa conto su qualcosa, che è come dire: si conta, senza tuttavia avere a che fare con numeri. Nel conto qual­ cosa viene sotto-posto, e cioè supposto, ma non arbi­ trariamente, e non nel senso di un sospetto; ciò che viene sotto-posto, supposto, è ciò su cui per l'appunto già si basa il fatto che le cose stanno così come stanno. Ciò che si trova così sotto-posto, supposto, calcolato in quanto è ciò in base a cui le cose stanno così come stanno - è > . Qualsiasi dizionario lo conferma. Si dà per scontato che, per i Greci, AÉyElv significhi '' dire >> . Per soprappiù ciò che queste due parole, dal tenore tanto diverso, dicono, vale come assolutamente ovvio. Eppure, dovrebbe es­ sere tempo di domandare: dove riposa, per i Greci, l'essenza del dire? Pensato in termini greci, '' dire >> significa: « portare alla luce '' fare apparire qualcosa nel suo aspetto >> , mostrarlo così come esso ci riguarda, motivo per cui il dire ci dà un quadro di esso. Ma allora, perché per i Greci il dire è un MyELv, un "A.6yoç? Perché AÉyEtv si­ gnifica: riunire, porre l'uno con l'altro (zueinander-le­ gen). Questo porre, però, in quanto riunisce, racco­ glie, custodisce e conserva, è un '' lasciar giacere-da­ vanti >> che porta alla luce '' ciò che giace-davanti » . '' Ciò che giace-davanti >> , però, è '' ciò che è-presente da sé >> ; il ÀÉyEtv e il Myoç sono il '' lasciar giacere-da­ vanti >> ciò che è-presente nel suo essere-presente. Il Myoç, in quanto ÀEYO!J.EVov, significa al tempo stesso il detto, il mostrato, '' ciò che giace-davanti >> in quanto tale, vale a dire ciò che è-presente nel suo essere-pre­ sente. Noi diciamo: l'ente nel suo essere. Il Myoç no­ mina l'essere. Il Myoç, tuttavia, in quanto è '' ciò che giace-davanti >> , '' il modello messo davanti >> (Vorlage), è al tempo stesso ciò su cui qualcosa d'altro giace e ri­ posa. Noi diciamo: il suolo, il fondo, il fondamento. Il Myoç nomina il fondamento. Il Myoç è, al tempo stes­ so, essere-presente e fondamento. Essere e fonda­ mento, nel Myoç, si coappartengono. Il Myoç nomina questa coappartenenza di essere e fondamento. La nomina in quanto dice in Uno e nello stesso tempo: ,, lasciar giacere-davanti >> in quanto " lasciar schiude­ re >> , " schiudere da sé >> : qrumç, essere; e: " lasciar gia­ cere-davanti >> in quanto « mettere-davanti >> , formare »

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il terreno, fondare: fondamento. Il Myoç, in Uno e nello stesso tempo, nomina essere e fondamento. In questo nominare, però, la differenza in essere e fondamento rimane velata, e, quindi, con la differen­ ziazione, si cela anche la coappartenenza di entrambi. Soltanto per un istante eccezionale - per un attimo che, nel destino dell'essere, è un momento alto e forse supremo - la coappartenenza di essere e fondamento giunge a quella parola che si chiama Myoç. Nella sto­ ria del primo pensiero greco questa parola, intesa nel senso che è stato illustrato, viene proferita da Eraclito. Ma la parola Myoç è al tempo stesso una parola che vela: essa non lascia che la coappartenenza di essere e fondamento venga alla luce in quanto tale. Ora, ci si po­ trebbe aspettare che nel prosieguo della storia del pensiero la coappartenenza di essere e fondamento venga sempre più in luce. Ma è proprio quello che non succede; anzi, accade esattamente il contrario. Evidente diviene dapprima la diversità fra essere e fondamento, ma, anche in questo caso, non come una differenziazione che, in quanto relazione fra essere e fondamento, rimanda entrambi a una coappartenen­ za. Essere e fondamento si mostrano soltanto come un che di diverso, nel senso dell'essere-diviso e dell'esse­ re-separato. Eppure, dal momento che la coapparte­ nenza di essere e fondamento domina ugualmente in ciò che è velato, i due elementi separati non cadono l'uno lontano dall'altro, nell'irrelatezza. Piuttosto, il fondamento viene pensato come qualcosa di diverso, non come essere, ma riferito invece a ciò che l'essere determina a partire da sé, e cioè all'ente. In questo modo, la coappartenenza di essere e fondamento ha il suo regno nella velatezza. Essa non viene mai alla luce, né a partire dall'essere e dalla sua caratterizzazione destinale né a partire dal fondamento e dalle sue for­ me né tanto meno a partire dal pensiero concettuale. Viceversa, nella storia del pensiero si afferma e si propaga qualcosa di ovvio, vale a dire ciò che è stato menzionato all'inizio della prima lezione: l'idea che

Lezione tredicesima

> . Questa affermazione è corrente per il pensiero rappresentativo. In che sen­ so ? Nel senso che il rappresentare - in quanto è un rappresentare l'ente in relazione al fatto che l'ente è, ed è in questo e quest'altro modo - ha in vista l'essere, e, quindi, benché senza saperlo, anche qualcosa come il fondamento. Per questo motivo, per il pensiero rap­ presentativo è naturale domandare dei fondamenti e risalire ai princìpi. Quando, più tardi, la tesi del fondamento viene for­ mulata come principio di ragione, in un primo mo­ mento essa altro non esprime se non questa ovvietà. Ma quella stessa tesi che, per così dire, sanziona questa ovviet�, reclama anche per se stessa una identica ov­ vietà. E così che, allora, la tesi del fondamento vale co­ me legge del pensiero immediatamente evidente. Co­ me può accadere? Accade perché essere e fondamen­ to « sono >> lo Stesso, e tuttavia la loro coappartenenza, in quanto tale, rimane dimenticata, e cioè, in termini greci, rimane « velata >> . Ma tutto questo non può esse­ re pensato finché noi comprendiamo il termine J..oyoç in base alla ratio e alla ragione, e a partire da esse. E in questo caso non notiamo nemmeno in che senso il ra­ tionem reddere dei Romani non significa lo stesso del M ­ yov btMvm dei Greci. Si può tradurre correttamente questa locuzione greca con : « rendere conto >> , addur­ re, indicare il fondamento; in questo modo, però, non si pensa in modo autenticamente greco. Pensata in termini propriamente greci, infatti, l'espressione Myov btMvm significa: porgere qualcosa che è-presente nel suo essere-presente e giacere-davanti in questo e in quest'altro modo, e precisamente all'apprendere che raccoglie. Nella misura in cui ogni ente rimane deter­ minato dall'essere, e cioè dal fondare, l'ente stesso è di volta in volta un ente fondato, e lo è in modi diversi, la cui molteplicità e provenienza non può essere trattata in questa sede. [In due soli riguardi mostriamo brevemente in che senso fin dagli inizi della storia del pensiero essere e

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fondamento vanno insieme, e precisamente in modo tale che la loro coappartenenza e la provenienza di es­ sa rimangono velate. L'andare insieme, ora, è un di­ sgregarsi. Certo, una volta che abbiamo scorto que­ sta strana coappartenenza, è poi cosa assai facile, co­ me sempre in questi casi, ritrovarla e dimostrarla ovunque. Essere » si dice, tra i vari nomi usati agli albori del pensiero occidentale, Myoç. Lo stesso pensatore che dice questa parola, Eraclito, chiama l'essere anche qnJOLç. L'essere, in quanto '' lasciar schiudere che raccoglie, cela e salva >> , è quel Primo, soltanto a partire dal quale ogni cosa, in quanto corrispettivo del suo raccolto, si schiude e viene fuori nel dischiuso-svelato. In quanto Myoç, l'essere è quel Primo donde '' ciò che è-presen­ te >> è-presente; in termini greci: tÒ 1tQWtOV otl-EV. I l '' Primo donde >> è ciò in base a cui ogni cosa che è ha preso principio, e a partire da cui, in quanto ha preso principio, rimane dominata. Prendere principio si di­ ce in greco > . Ora, ciò che abbiamo appena detto sta forse sem­ plicemente accanto a ciò che dicevamo prima, e cioè: > ? Oppure l'una cosa esclude l'altra? Se ragioniamo secondo il canone della logica abituale, le cose sembrano stare effettivamente così. Da questo punto di vista, infatti, . Ma allora, come può essere contemporaneamente va­ lida anche la tesi > il fondo abissale, l'abisso senza fondo, in quanto essere e fondamento > lo Stesso. In quanto e soltanto in quanto l'essere > fondare, in tanto esso non ha fondamento. Se pensiamo a tutto ciò e ci soffermiamo su questo pensiero, ci rendiamo conto che siamo balzati via dal­ l'ambito del pensiero finora praticato e che stiamo compiendo un salto. Ma con questo salto non andia­ mo forse a cadere nel > (ins Bodenlose)? Sì e no. Sì - nel senso che, ora, l'essere non può più venire posto su quel fondo che è costituito dall'ente, ed essere spiegato in base ad esso. No - nel senso che soltanto ora l'essere va pensato in quanto essere. L'es­ sere, in quanto è ciò che va-pensato, e in base alla sua verità, diventa ,, ciò che dona la misura >> (das MajJ-Ge­ bende). Il modo del pensiero deve commisurarsi (sich =

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anmessen) a questa « donazione di misura ,, (Mafl-Gabe). Ma questa misura e la sua donazione non le possiamo strappare da noi stessi e farle nostre mediante alcun calcolo e alcuna misurazione . Esse rimangono ciò che è per noi incalcolabile e incommensurabile. Il salto, tuttavia, lascia tanto poco cadere il pensiero nel sen­ za fondo >> inteso nel senso del vuoto assoluto, che, an­ zi, è proprio il salto a consentire anzitutto al pensiero di arrivare a corrispondere all'essere in quanto essere, vale a dire alla verità dell'essere. Se udiamo la tesi del fondamento nell'altra tonalità, e se pensiamo su ciò che abbiamo udito, questo ri-pen­ sare (nach-denken) si rivela essere un salto, e precisa­ mente un , nihil sine ratione, prende il nome di princi­ pium rationis. La tesi è ora un principio. La tesi del fon­ damento diventa una tesi fondamentale, un principio. Sennonché, essa non è solo un principio fra gli altri. Per Leibniz essa è uno dei princìpi supremi, se non addirittura il principio sommo. Per questo egli con­ traddistingue il principio di ragione, la tesi fonda­ mentale del fondamento, con alcuni attributi. Lo chia­ ma il principium magnum, grande et nobilissimum: il prin­ cipio grande, potente, sublime e universalmente noto. In che senso la tesi del fondamento merita tale distin­ zione? A questo proposito ci può illuminare il conte­ nuto stesso del principio. Leibniz eleva il nihil sine ratione, niente senza fonda­ mento, a principio sommo, mostrando in che misura la tesi del fondamento fonda tutte le proposizioni, fonda cioè anzitutto e in primo luogo ogni proposizione in quanto proposizione. Questo carattere della tesi del fondamento viene in luce nella denominazione latina completa che Leibniz dà al principio di ragione. Egli caratterizza la tesi del fondamento come principium reddendae rationis sufficientis. Traduciamo questa de­ nominazione delucidandone le singole determinazio­ ni. Il principium rationis è principium reddendae rationis. Rationem reddere significa: « rendere ragione >> , « rende­ re il fondamento >> . Chiediamo tre cose: l . Di che cosa il fondamento che va reso è di volta in volta il fondamento? 2. Perché il fondamento deve venire reso e cioè e­ spressamente apportato? 3. Dove, e a chi, viene reso il fondamento? Alla prima domanda Leibniz risponde con una os-

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servazione breve, ma di ampia portata. Il fondamento è un fondamento che va reso, quod omnis veritatis reddi ratio potest (Die philosophischen Schriften, a cura di Cari Immanuel Gerhardt, 7 voli. , Weidmann, Berlin, 1 87590, vol. VII, p. 309), « poiché una verità è verità sem­ pre e solo se le può essere resa la ragione, il fonda­ mento » . La verità, per Leibniz, è sempre - e ciò rima­ ne decisivo - una propositio vera, una proposizione ve­ ra, vale a dire un giudizio corretto. Il giudizio è conne­ xio praedicati cum subiecto, connessione del predicato con il soggetto di cui esso è predicato. Ciò che, in quanto unità unificante di soggetto e predicato, regge la loro connessione è il fondo (Boden), il fondamento del giudizio. È quest'ultimo che fornisce la giustifica­ zione del connettere. Il fondamento dà conto della ve­ rità del giudizio. > si dice in latino ratio. Il fon­ damento della ver�tà del giudizio viene presentato co­ me la ratio. In conformità con questo, Leibniz, in una lettera ad Arnauld, scrive : Hanovre le 1 4 juillet 1 686: . . il faut tousjours qu'il y ait quelque fondement de la conne­ xion cles termes d'une proposition qui se doit trouver dans leur notions. C'est là mon grand principe, dont je croy que tous les philosophes doivent demeurer d'accord, et dont un des corollaires est cet axiome vulgaire que rien n'ar­ rive sans raison, qu'on peut tousjours rendre pourquoy la chose est plustost allée ainsi qu'autrement . . . La traduzione dice: « E sempre necessario che ci sia un fondamento della connessione dei termini di una proposizione (Urteil), che de­ ve trovarsi nelle loro nozioni (Begriffe). Ecco il mio gran principio, su cui, credo, tutti i filosofi devono trovarsi d'accordo, e di cui uno dei corollari è l'assioma comu­ ne che niente accade senza ragione, e che si può sem­ pre rendere il perché la cosa è andata così piuttosto che in un altro modo >> . (Briefwechsel zwischen Leibniz, Arnauld und dem Langrafen Ernst von Hessen-Rheinfels, a cura di C.L. Grotefend, Hahn, Hannover, 1 846, p. 49 ; cfr. Gerhardt, vol. I I , p. 56). Il grande principio è il principium reddendae rationis, .

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il principio della ragione che va resa, del fondamento che va reso. Poniamo la seconda domanda: perché il fondamen­ to deve venire espressamente addotto in quanto fon­ damento? Perché il fondamento è ratio, cioè « conto '' · Se non si dà conto, il giudizio rimane senza giustifica­ zione. Viene a mancare la prova della correttezza. I l giudizio non è una verità. Esso lo è solo se viene pre­ sentato il fondamento della connessione, se cioè se ne dà ratio, se ne rende conto. Un simile « rendere con­ to '' necessita di un posto dove il conto venga posato, di una istanza davanti alla quale venga deposto, cioè reso. Poniamo la terza domanda a proposito della ratio reddenda: dove, e a chi, si deve rendere ragione, dove e a chi deve essere reso il fondamento? La risposta è: deve essere reso di ritorno all'uomo, che determina gli oggetti in quanto oggetti nella modalità del rappre­ sentare che giudica. Ma rappresentare (Vorstellen) è re­ praesentare fare presente qualcosa all'uomo, render­ glielo presente. Ora, però, a partire da Descartes, cui segue Leibniz e con lui l'intero pensiero dell'età mo­ derna, l'uomo viene esperito come quell'io che si pone in relazione con il mondo in modo da fornirselo in connessioni di rappresentazioni, cioè in giudizi cor­ retti, e da porselo così di fronte in quanto oggetto. I giudizi e le asserzioni sono corretti, vale a dire veri, soltanto se all'io che rappresenta viene fornito, e cioè reso, il fondamento della connessione di soggetto e predicato. Il fondamento è fondamento solo in quan­ to ratio, e cioè come conto di qualcosa che viene reso, deposto davanti all'uomo in quanto io giudicante. Il conto è conto solo in quanto è reso. Per questo la ratio è in sé ratio reddenda; il fondamento, in quanto tale, è il fondamento che va reso. Solo grazie al fondamento della connessione delle rappresentazioni dato di ritor­ no all'io, e ad esso espressamente fornito, ciò che è rappresentato viene a stare in modo tale da essere as­ sicurato come « ciò che sta di fronte '' (Gegenstand ), va-

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Il principio di ragione

le a dire in quanto oggetto (Objekt) per il soggetto che rappresenta. Ma il fondamento che è stato fornito " porta-a-sta­ re » gli oggetti solo quando dà un conto esauriente della loro assicurazione, e lo fa in modo sufficiente. La ragione che va fornita deve essere una ratio suf­ ficiens. Del principio di ragione Leibniz scrisse una volta: (principium rationis) quod dicere soleo nihil existere nisi cuius reddi potest ratio existentiae sufficiens. Il principio di ragione > . La ragione, il fonda­ mento, che in ogni giudizio relativo a un oggetto re­ clama la propria indispensabile fornitura, pretende al tempo stesso di essere, in quanto fondamento, suf­ ficiente, e cioè, in quanto conto, di rendere conto in modo completo. Sufficiente a qual fine? Al fine di far sì che un oggetto venga a stare in modo compiuto nell'insieme del suo stato, sotto ogni riguardo e per chiunque. Soltanto la completezza delle ragioni che devono essere -posto ( fest »-gestellt) e assicura­ to nel suo stato. Soltanto la compiutezza del conto, la perfezione, garantisce che ogni rappresentare, sem­ pre e ovunque, possa far conto sull'oggetto e tenere conto di esso. > . La tesi, ora, dice: qual­ siasi cosa vale come essente solo e soltanto se è assi­ curata per il rappresentare in quanto oggetto calco­ labile. In che cosa consiste dunque la grandezza della tesi del fondamento intesa in quanto principio di ragione, principium magnum, grande et nobilissimum, principio grande, potente, sublime e universalmente noto? La risposta è: nel fatto che questo principio dispone di ciò che deve poter valere universalmente come ogget­ to del rappresentare, come qualcosa che è, come ·un '' •

«

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ente. Nel principio di ragione parla la pretesa di di­ sporre di ciò che l'essere di un ente significa. Quando Leibniz pone per la prima volta la tesi del fondamento espressamente e compiutamente come un tale princi­ pio, esprime con ciò che il modo di pensare dell'uo­ mo, il rappresentare, nel frattempo è stato ormai sot­ toposto in modo tanto decisivo quanto inevitabile alla pretesa del principium rationis ed è dominato dalla sua potenza. Il principium rationis diventa con Leibniz il principio di ogni rappresentare. Ciò significa che il pensare, dominato in tutto e per tutto dal principium rationis, è ora un rappresentare dichiaratamente ra­ zionale, governato dalla ragione (Vernunft). Ratio, in­ fatti, fin dai tempi antichi, non significa soltanto , > si sottometta al ricco e inco­ raggiante appello del >. «

Tu attieniti al poiché, e perché? non domandare. La parola di Goethe è un cenno. I cenni restano cenni se il pensiero non li interpreta trasponendoli in asserzioni definitive alle quali si ferma. I cenni sono cenni soltanto finché il pensiero segue la loro indica­ zione, meditandola. Esso giunge così a un cammino che conduce a ciò che nella tradizione del nostro pen­ siero, fin dai tempi più antichi, si mostra e nel contem­ po si vela come ciò che è degno di essere pensato. Rientra in ciò che è degno di essere pensato il sem­ plice stato di cose che ora forse ci si è fatto un po' più vicino. Lo nominiamo dicendo: l'essere viene esperito come fondamento. Il fondamento viene inteso come ratio, come conto che va reso. Di conseguenza, l'uomo è l animai rationale, l'anima­ le che esige il conto e che rende conto. In base a que­ sta definizione l'uomo è l'animale calcolante, inten­ dendo qui il > nel senso ampio che la parola ratio - in origine un termine del linguaggio mercantile romano - assume già in Cicerone al tempo in cui il pensiero greco viene trasposto nel modo di pensare qei Romani. L'essere viene esperito come fondamento. Il fonda­ mento viene inteso come ratio, ragione, conto. L'uomo è l'animale calcolante. Tutto ciò vale in modo unani­ me, pur nelle variazioni più diverse, lungo l'intera storia del pensiero occidentale. Questo pensiero, in quanto pensiero europeo-moderno, ha condotto il mon­ do all'odierna età del mondo, l'era atomica. Al cospet­ to di questo stato di cose, semplice ma nel contempo inquietante per l'Europa, domandiamo: La suddetta determinazione, secondo la quale l'uo'

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Il principio di ragione

mo è l'animai rationale, esaurisce l'essenza dell'uomo? Essere significa fondamento >> : è questa l'ultima pa­ rola che può essere detta dell'essere? O forse l'essenza dell'uomo, la sua appartenenza all'essere, la stessa es­ senza dell'essere, rimangono sempre, e in modo sem­ pre più sconcertante, ciò che è degno di essere pensa­ to? Se le cose dovessero stare così, potremmo mai ab­ bandonare ciò che è degno di essere pensato in favore della furia del pensiero esclusivamente calcolante e dei suoi giganteschi successi? O non siamo piuttosto tenuti a cercare cammini per i quali il pensiero sia in grado di corrispondere a ciò che è degno di essere pensato, anziché pensare senza accorgerci di esso, stregati dal pensiero calco}ante? Questo è il problema. E la questione mondiale del pensiero. A seconda della risposta che ad essa si dà, si decide che ne sarà della terra e dell'esistenza dell'uo­ mo su questa terra. «

NOTA DEL CURATORE

La traduzione, realizzata in tutte le sue fasi a quat­ tro mani da Giovanni Gurisatti e dallo scrivente, si ba­ sa sull'edizione di Der Satz vom Grund pubblicata in vita da Heidegger presso l'editore Neske di Pfullingen, nel 1 957, cioè subito dopo avere tenuto il corso (nel semestre invernale 1 955- 1 956) e la conferenza (il 25 maggio 1956 a Brema, il 24 ottobre 1 956 a Vienna). Le citazioni sono state controllate, mantenendo però le lezioni o varianti testuali introdotte di proposito da Heidegger. I dati bibliografici, forniti in genere in modo abbreviato o incompleto, sono stati integrati al fine di renderli perspicui e accessibili al lettore italia­ no di oggi. Due evidenti sviste dell'edizione tedesca sono state tacitamente emendate: a p. 34, il paragrafo dell'Ontologia di Wo1ff in cui è data la definizione di principium è il numero 866, non 70 come erroneamen­ te indicato nel testo tedesco (p. 3 1 ) ; a p. 200, la lettera ad Arnauld si trova nell'edizione curata da C . I . Ger­ hardt a p. 56, non a p. 62 come riporta l'edizione tede­ sca (p. 1 94). Der Satz vom Grund verrà ripubblicato in forma im­ mutata come volume X della Gesamtausgabe (Kloster­ mann, Frankfurt a. M., 1 975-). Come è noto, nella Ce-

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Nota del Curatore

samtausgahe le opere pubblicate in vita da Heidegger vengono riedite con l'aggiunta delle note manoscritte di H> . Questa verità, questa norma, che governa nella sua evidenza il pensiero, è sancita da quello che i n filosofia è chiamato '' principio di ragione sufficiente >> . Esso ingiunge di pensare che ogni cosa, ogni ente, tutto ciò che in qualche modo è, ha una sua ragione, un suo fondamento e un suo per­ ché. Secondo una tradizione storiografica iniziata da Christian Wolff, la prima esplicita formulazione di ta­ le principio risale a Leibniz. Ma, come Heidegger ci fa notare, proprio un con­ temporaneo di Leibniz, Johannes Scheffler, alias An­ gelo Silesio, fornisce l'exemplum in contrarium che sem­ bra inficiare la validità del principio di ragione. Il ce­ lebre distico n. 289 del libro primo del Pellegrino che­ rubico, che Heidegger ricorda e commenta, recita in­ fatti: La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiori­ sce, l di sé non gliene cale, non chiede d'esser vista >> . 1 «

l . Il testo originale può essere ora letto in edizione critica : Ange­ lus Silesius (johannes Scheffler) , Cherubinischer Wandersmann, a cu­ ra di Louise Gnadinger, Reclam, Stuttgart, 1 984, sulla quale si basa la traduzione italiana (dalla quale ci siamo però scostati per tenere conto della esegesi heideggeriana): Il pellegrino cherubico, a cura di

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Nota del Curatore

Questo diretto accostamento del principio di Leib­ niz al verso di Angelo Silesio, con l'aporia che esso evoca, può bastare a riassumere in modo plastico e conciso il senso del problema con il quale Heidegger si cimenta nel volume sul Principio di ragione, ossia il pro­ blema del fondamento. In realtà, si tratta di una que­ stione che Heidegger aveva affrontato in maniera spe­ cifica già nel trattato Dell'essenza del fondamento (pubbli­ cato nel 1 929, poi incluso in Segnavia), quindi incon­ trata ed esplorata ripetutamente nel corso del suo cammino speculativo successivo e ripresa da ultimo, in grande stile, nel presente volume. Si può dire che il problema del fondamento attraversi da un capo all'al­ tro il pensiero heideggeriano e, connettendosi stretta­ mente con la questione in esso centrale, quella dell'es­ sere, risulti capitale per il suo configurarsi nel con­ fronto con la metafisica e nel suo prendere congedo da essa. La via che nel nostro testo Heidegger percorre per affrontare il problema del fondamento è quella di una analisi del principio di ragione sufficiente. Di qui il ti­ tolo del volume: Der Satz vom Grund, espressione che designa nel linguaggio filosofico tedesco, a partire da Wolff, quello che in latino è chiamato principium ratio­ nis. Ma già qui nasce il problema. Come Heidegger stesso avvisa « la denominazione tedesca Satz vom Grund è tutt'altro che la traduzione letterale della de­ nominazione latina principium rationis, anche nel caso in cui dicessimo più adeguatamente Grundsatz vom Grund >> / e questo perché « né la parola tedesca Grund è la traduzione letterale della parola ratio (raison), né la parola Grundsatz è la traduzione letterale della parola principium >> . 3 Che cosa è allora il Satz vom Grund? E perché esso non può essere considerato la traduzione Giovanna Fozzer e Marco Vannini, Edizioni Paoline, M ilano-Tori­ no, 1989. 2. Si veda sopra, p. 34.

3. Loc. cit.

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esatta di principium rationis? Che cosa dice di diverso Satz vom Grund rispetto a principium rationis? Si può rispondere intanto che l'espressione tedesca è qualcosa di diverso già nella sua lettera, che esibisce in modo tangibile, più di quanto non sia possibile nel­ l'espressione latina, il legame del principio da essa de­ signato con il problema del fondamento. Grund si­ gnifica appunto l'esigenza metafisica del fonda­ mento, cioè la volontà che di ogni ente, di tutto ciò che è, sia dato fondamento. Ma Heidegger fa capire inol­ tre che Satz vom Grund non indica semplicemente il principio di ragione, ma significa qualcosa di più, di più esteso, cioè rimanda a un problema più profondo, rispetto al quale il principio di ragione è solo, per così dire, un trampolino di lancio per poterlo affrontare. Per Heidegger, in effetti, l'espressione tedesca si presta a fornire un motivo di riflessione per pensare e per interrogarsi sul carattere > del princi­ pio di ragione. Tale motivo è costituito dai molteplici significati del termine Satz. Nel linguaggio filosofico tedesco Satz significa > : Satz der Identitiit è il > , Satz vom Widerspruch il > , e allo stesso modo Satz vom Grund è il > , Ma Satz si­ gnifica anche > : il che solleva subito la domanda del perché, e in quale senso, il principio di ragione abbia il carattere di una > , e Heidegger - come sappiamo - sviluppa nel testo tale domanda fino a mostrare che il Satz vom Grund è la > , cioè il fondamen­ to di ogni proposizione, ciò a cui ogni altra proposi­ zione deve conformarsi, e lo è in quanto nella me­ tafisica viene > e si > come tale. Il Satz vom Grund è > , > nel senso del ter­ mine greco 'frÉmç, cioè > ; è Satz come risul­ tato di una Setzung. Prima ancora che > , dunque, il Satz vom Grund è, alla lettera, la

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« tesi del fondamento In esso ha luogo la « posizione del fondamento >> , mediante la quale il fondamento viene posto come carattere fondamentale dell'essere di tutto ciò che è, come ciò che necessariamente si ac­ compagna a ogni ente affinché esso possa essere tale piuttosto che non esserlo. E questo avviene « già da sempre cioè prima che la filosofia arrivi, con Leib­ niz, a dare alla « tesi del fondamento >> la formulazione del principium rationis. Solo dunque traducendo alla lettera l'espressione tedesca Satz vom Grund con > anziché con del principio di ragione, nel senso che invita a ripercorre­ re all'indietro la sua storia fino alle sue radici metafisi­ che più remote, e a capirne la genesi attraverso la sua trasformazione, con Leibniz, da > a > . Ma non è tutto. L'espressione tedesca non fornisce a ».

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Heidegger solo l'occasione per fare un passo indietro verso l'origine del principio, ma gli offre pure lo spunto per saggiare in quale direzione la comprensio­ ne metafisica del fondamento, di cui il principio di ra­ gione è la formulazione, può essere oltrepassata. An­ che qui, Heidegger ricorre nuovamente alla polisemia della parola tedesca Satz. Oltre al senso di '' tesi >> , '' proposizione >> e '' principio >> , essa ne ha infatti un altro, quello di « balzo >> o '' salto >> - come, per esem­ pio, nell'espressione corrente mit einem Satz, « d'un balzo '' · Heidegger sfrutta anche questa accezione del­ la parola tedesca per trovare un appoggio linguistico, o se si vuole un pretesto, sul quale fare leva per mo­ strare come il principio di ragione non sia solo, in sen­ so metafisica, la '' tesi del fondamento >> , cioè una tesi che - dicendo nihil est sine ratione ovvero omne ens habet rationem - parla dell'ente e del suo modo di essere, cioè del suo essere fondato, ma anche una '' tesi del­ l'essere >> (Satz vom Sein), la quale, attraverso ciò che implicitamente fa capire dell'essere, può diventare un '' salto nell'essere >> (Satz in das Sein). La tesi del fondamento è dunque, da un lato, la struttura portante della metafisica dell'età moderna, di cui nell'essenza della tecnica il mondo moderno sta sperimentando l'inveramento storico-essenziale, ma dall'altro lato, nell'interpretazione heideggeriana, es­ sa diventa il punto da cui spiccare il balzo per '' salta­ re >> via dal fondamento, via dall'ente, oltre il principio di ragione, quindi via dalla metafisica, oltre la me­ tafisica, verso l'essere stesso. Nel Satz vom Grund, dun­ que, Satz può essere inteso anche nel senso di « salto >> , e in tal caso la tesi del fondamento, il principio di ra­ gione, diventa l'occasione per un'esperienza transme­ tafisica. Il '' salto >> a cui invita il Satz vom Grund trasporta così nell'ambito di quel problema, il problema dell'essere, a cui Heidegger mira ad arrivare, e che qui egli tratta nella sua relazione con il fondamento. Certo, nella tesi del fondamento, divenuta il principio di ragione del-

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l'età moderna, si consolida quella struttura metafisica che porta alla piena dimenticanza dell'essere, quindi alla dimenticanza di tale dimenticanza, che si compie nell'essenza della tecnica: « L'essere, nella sua sottra­ zione, si destina all'uomo in modo tale da velare la propria provenienza essenziale dietro lo spesso velo del fondamento concepito in termini razionali, non­ ché delle cause e delle loro forme » . 4 Ma proprio nel sottrarsi dell'essere è possibile percepire anche il suo darsi. La tesi del fondamento, con la possibilità del sal­ to nell'essere in essa latente, tiene infatti aperta la via a un pensiero rammemorativo capace di ascoltare l'ap­ pello incoraggiante che viene dall'essere, rievocando­ ne la provenienza essenziale e consentendo di soppor­ tare la pretesa vincolante del principio di ragione co� l'inevitabile destino (della tecnica) che essa riflette. E chiaro che in tal senso il salto nell'essere non equivale per Heidegger alla negazione romantica o all'ingenuo rifiuto del principio di ragione e del suo inveramento nella scienza e nella tecnica moderne. Certo, Heideg­ ger condivide la convinzione del giovane Nietzsche, che nel capitolo quindicesimo della Nascita della trage­ dia, in nome di una visione tragica della vita, parlava del principio di causalità e di ragione come di una della tesi. Occorre cioè saper udire e distinguere nell'intonazione comune della tesi, ap­ parentemente monotona e indifferenziata, due diver­ se tonalità, quindi saper provocare il cambio di tonali­ tà, operando lo scarto che consente di saltare dall'una all'altra: da quella comune, antica, la cui accentazione dice: e il ,, fondamen­ to >> : « niente è senza fondamento >> , e così facendo allu­ de a un rapporto di coappartenenza tra essere e fon­ damento. E tale scarto dal consueto all'inconsueto, dall'antico all'antologico, è al tempo stesso per Hei­ degger la preparazione del passaggio dal metafisica al post-metafisico. te­ Abbiamo qui - dopo quelli di « proposizione si ,, e « salto ,, - un quarto significato di Satz che Hei­ degger sente risuonare nel Satz vom Grund, e cioè il si­ gnificato di « tempo musicale '' · La tesi del fondamen­ to va in effetti ascoltata nella sua intonazione, secondo l'una o l'altra accentazione, come si ascolta la musica, e questo non solo nel senso che il riconoscere il cambio >> ,

6. Si veda sopra, p. 216.

«

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di tonalità apre all'esperienza di una e a > ciò che alla metafisica ri­ mane precluso. Un motivo tanto importante, al punto che alcuni hanno creduto di poter vedere nell'ascolto una sorta di attitudine e di disposizione quasi

Gesamtausgabe, vol. XII, p. 169 (trad. it. In cammino verso il linguag­ gio, a cura di Alberto Caracciolo, Mursia, Milano, 1 973, p. 1 42]. 9. Si veda sopra, p. 1 28. l O . Neske, Pfullingen, 1 957.

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che l'essere, in quanto presenza costante, diviene fon­ damento per l'ente-presente. Ma nella metafisica la possibilità di mantenere e di pensare la differenza an­ tologica tra essere ed ente, e quindi il rapporto tra es­ sere e pensiero (cioè essere umano), e quello tra esse­ re, fondamento e fondato, viene preclusa dalla strut­ tura ontoteologica che la metafisica stessa assume, cioè dal fatto che l'essere, che deve fungere da fondamen­ to dell'ente, viene pensato o come ente sommo, come Dio, e l'ente stesso come qualcosa da lui « prodotto '' o creato ; oppure l'essere viene pensato come essenza (stabile, immutabile) e l'ente come l'esistente soggetto al mutamento e alla corruzione. Ora, questo impianto ontoteologico della metafisica è funzionale per Hei­ degger alla volontà di quest'ultima di dirimere la dif­ ferenza di essere ed ente, fondamento e fondato, in modo da soggiogare e rendere disponibile a quell'ente che · è l'uomo sia l'essere, sia il fondamento. Ma con questo viene occultata la differenza di essere ed ente e si compie quella dimenticanza dell'essere che, in for­ me di volta in volta diverse, accade secondo una con­ nessione destinale unitaria che conduce fino all'essen­ za della tecnica moderna, cioè a quell'atteggiamento epocale in cui l'uomo non ha dinanzi a sé più niente all'infuori di se stesso. L'ontoteologia è la prima forma di tecnica, la tecnica l'ultima forma di ontoteologia. Ma ciò impedisce di pensare la coappartenenza, l'uni­ tà nella differenza, di essere ed ente, di essere come fondamento ed ente come fondato. Nel principio di ragione, e nella tesi metafisica del fondamento cui esso dà espressione, Heidegger vede dunque dapprima una dottrina-pilastro della me­ tafisica nella quale risuona questa impossibilità di pen­ sare l'unità, nella differenza, di essere ed ente, e al cui cospetto non si può che lasciare operare la potenza del richiamo che essa sprigiona. Ma in un secondo mo­ mento, attraverso la preparazione avveduta di un ascolto sottile, si tratta di riconoscere quella tonalità diversa, quel ,, tempo '' che ci fa saltare nell'essere. Se

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, allora l'essere di ogni ente ha qual­ cosa a che fare con il fondamento, l'essere stesso è fondamento. Il salto dalla tesi del fondamento come tesi che parla dell'ente alla tesi del fondamento come tesi che dice dell'essere porta a comprendere che > . 1 1 M a l'interrogazione di Heidegger, martellante quanto vertiginosa, non si arresta a questo risultato, cioè alla constatazione della coappartenenza di essere e fondamento. Una volta pervenuti a pensare l'essere come fondamento, in quanto esso è fondante rispetto all'ente da lui fondato, si è tentati di applicare all'esse­ re stesso il pensiero del fondamento, e supporre dun­ que che esso, nell'essere fondamento dell'ente, abbia a sua volta un fondamento ulteriore che lo fondi in que­ sto suo fondare. Ma se così fosse, fondato nel suo fon­ dare, l'essere verrebbe ridotto ad ente. L'essere è dun­ que, sì, fondamento, ma resta a sua volta senza fonda­ mento, è grundlos. La struttura del fondamento, così come lo statuto del principium rationis la definisce, è compiuta quando arriva a rovesciarsi nel suo opposto speculare, cioè a riconoscere di poggiare su una assen­ za di fondamento. Ma se l'essere è assenza di fonda­ mento, come è possibile allora pensarlo in modo ade­ guato? Altrove Heidegger si è accanito sull'etimologia del termine Grund e dei suoi derivati quali Ab-Grund, > , e Ungrund, > , rie­ vocando una terminologia già impiegata nella tradi­ zione della mistica tedesca, da Meister Eckhart a J acob Hohme, e poi soprattutto da Schelling. Nel presente testo, egli rinuncia a tutto questo e sceglie la forza di .

I I . Si veda sopra, pp. 90-9 I .

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un'immagine, per alludere almeno, senza azzardare altri passi su questo difficile cammino, alla vastità del problema. Se l'essere è assenza di fondamento, esso può essere evocato solo nei termini di un gioco: il gio­ co a cui gioca il fanciullo » di Eraclito, lo stesso gioco cosmico a cui gioca, per Heidegger, anche il Dio di Leibniz, se è vero, come egli suggerisce, che forse la frase di Leibniz cum Deus calculat, Jit mundus va tradot­ ta così: "quando Dio gioca, si genera il mondo" » . 12 Con questa sua paradossale traduzione, nella stessa identica frase in cui solitamente si vede racchiusa la quintessenza del matematismo, voglio dire il fonda­ mento metafisica della tecnica moderna, Heidegger legge l'indicazione di un cammino che dovrebbe con­ durre fuori di essa e oltre di essa. In ogni caso, se così si dovesse tradurre, allora quel principio che Leibniz e Wolff volevano mantenuto ben saldo affinché il mon­ do reale non svanisse nel mondo dell'irrealtà, della fantasia e del gioco,13 sarebbe esso stesso, già da sem­ pre, affidato a un gioco. «

«

F. V.

1 2 . Si veda sopra, pp. 1 74 e 1 9 1 . Cfr. la traduzione diversa che Heidegger dà della stessa proposizione nel corso del semestre in­ vernale 1 942-1943 su Parmmides, in Gesamtausgabe, vol. LIV, p. 164. 1 3 . Cfr. Christian Wolff, Philosophia prima, sive Ontologia, editio no­ va, Renger, Francofurti et Lipsiae, 1 736, par. 77, p. 58: « Tolto il principio di ragione sufficiente, il mondo vero se ne va in un mon­ do di favola nel quale la volontà dell'uomo sta al posto della ragio­ ne delle cose che accadono " · Subito dopo Wolff spiega che il mun­ dus fabulosus a cui l'eliminazione del principio di ragione portereb­ be è quella finzione quae lingua nobis vernacula • Das Schlaraffen­ land » [il paese della cuccagna] appellatur (loc. cit.) .

GLOSSARIO D I FRANCO VOLPI

I lemmi del Glossario registrano esclusivamente la termi­ nologia, le espressioni caratteristiche e gli stilemi ricorrenti nel corso universitario e nella conferenza sul Principio di ra­ gione. Si è mirato a ottenere nella traduzione non solo una coerenza interna in tutte le occorrenze del testo, ma anche una uniformità con le scelte terminologiche già adottate in Segnavia (Adelphi, Milano, 1 987; si veda il relativo Glossa­ rio), e seguite nella Poesia di Holderlin (a cura di Leonardo Amoroso, Adelphi, Milano, 1 988). Comunque, dato che il linguaggio non è mai mera somma di vocaboli, di uno stes­ so termine vengono indicate più traduzioni possibili, scelte di volta in volta tenendo conto del contesto in cui esse si tro­ vano. Il Glossario è quindi semplicemente un apparato pa­ ra-testuale che fissa l'attenzione su certe peculiarità della terminologia heideggeriana, per aiutare a capirla e per giu­ stificare le scelte terminologiche adottate in italiano. La si­ gla HGA sta per l'edizione ne varietur delle opere complete di Martin Heidegger (Gesamtausgabe, Klostermann, Frank­ furt a. M . , 1 975-).

ab-bleiben: > . anklingen: " risuonare ». ankommen: « arrivare '' • , Ankunft: « avvento >> . anmessen: " commisurare » . annehmen: " accettare >>, « assumere >> . Anschein: « sembianza '' · Cfr. Erscheinung ( >), Schein (" parvenza >> ). ansprechen: " chiamare » , " interpellare " • « reclamare >> . A nspruch: « pretesa >> , " reclamo >>, " richiamo >> . Antwort: « risposta >> . Ant-wort: « parola-risposta ». das Anwiihrende: « ciò che permane >>, anwenden: « applicare » . anwesen: > , « presentarsi >> , « venire alla presenza » . E per Heidegger il senso fondamentale che l'essere assume con i Greci, in quanto è esperito in u n orizzonte che privilegia l a dimensione temporale del pre­ sente. Di qui il carattere di > che caratterizza la filosofia occidentale. Il termine si­ gnifica il « presentarsi » , cioè il > , l'« es­ sere in modo durevole '' · La corrispondenza in greco è con ouo(a, :rmeouo(a e à.:rcouo(a. das Anwesen: > , in un certo « stato d'animo >> . Si veda ciò che Heidegger dice al riguardo in Was ist das die Philosophie ? (Neske, Pfullingen, 1 956, pp. 23 sgg.; [trad . it. di Carlo Angelino, Che cos'è la filosofia?, Il melan­ golo, Genova, 1 98 1 , pp. 37 sgg.]). bestilrzen: « sbigottire >> ; be-stilrzen: « precipitare nello sbigot­ timento >>. Bestilrzung: « sbigottimento >> ; Be-stilrzung: « il precipitare nello sbigottimento » . Betonung: « accentazione >> . Cfr. Ton (>), Tonart ( « to­ nalità >>) . betrachten: « considerare >> , > . .. Einstieg: '' entrata >> . Si veda l'assonanza con Uberstieg ( . einweisen: '' indirizzare ». einzig: '' unico " · Einzigartig: > . entbergen: « svelare '' • > . Entbergung: > .

Glossario entschieden: « risoluto

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). Cfr. Beweggrund ( > . Gang: « corso >> , « andamento » , > . gebrauchen: « usare >> , « utilizzare >> . Cfr. brauchen ( > , >), verwenden (>). Gedanke: > . Gegend: ), Platz (« posto >> , > ), Stelle (> . das Gegenilber: > , > , > . Geschichte: « storia >> . Heidegger la contrappone a Historie ( > ) . Geschichtlich: « storico >> , opposto a histo­ risch ( , nel sen­ so di « destino individuale » ) . Si veda sopra, p. 1 1 0. Ge­ schicklich: « destinale >> . Gestalt: > , , anche « formazione '' · ge-stimmt: « disposto >> . Cfr. Stimmung e be-stimmen. Gewiihr: > . gewiihren: « concedere >> . Gewalt: > , > . Gewaltig: > . gewesen: > . E il passato nella forma propria, au­ tentica, contrapposto all'inautentico vergangen ( > ) . das Gleiche: > . È l'> ripetitiva, contrapposta all' . I ndica la > in op.

Glossario

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posiziOne a Schranke (,, limite » , « barriera ,, ), che indica invece la « limitazione intrinseca '' · Grenze è una « deter­ minazione ,, dal carattere « positivo » , in quanto demarca due territori situati in uno spazio comune, senza implica­ re l'idea che ciò che è determinato da un confine poss�, in mancanza di quest'ultimo, estendersi ulteriormente. E in tal senso che Grenze va tenuto distinto da Schranke: que­ st'ultima è infatti una limitazione « negativa » , un ostacolo inerente a una determinata grandezza, che, per cosi dire, le afferisce dall'interno, e implica l'idea che senza tale li­ mitazione quella grandezza potrebbe estendersi e am­ pliarsi ulteriormente. La distinzione, richiamata da Hei­ degger nella nona lezione, e che corrisponde alla distin­ zione latina tra terminus (Grenze) e limes (Schranke), ha una sua storia nella filosofia tedesca. Essa nasce con l'esigenza di Leibniz di " definire » le monadi non come « determi­ nate » da altre monadi aventi la stessa natura (contro Spi­ noza, Ethica, parte I , def. l ) , ma in virtù di esse stesse. Ta­ le esigenza - di provenienza suareziana (cfr. Disputationes metaphysicae, disp. V, sez. I I I , par. 1 2 : res distinguitur ab

aliis per illud per quod in se constituitur, quia distinguitur per id quo est) viene ulteriormente approfondita in Chri­ stian Wolff (Deutsche Metaphysik, parr. 1 06 sgg. , sul con­ cetto di Schranke; Philosophia prima sive Ontologia, par. 468, su limes e terminus) e in Alexander G. Baumgarten (Metaphysica, parr. 248-249, che traduce limes con Schran­ ke). La distinzione tra i due termini è poi tracciata con la -

massima limpidità in Kant. Anzitutto nella dissertazione del 1 770 De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et prin­ cipiis, dove, al par. 1 5 , è detto che il confine (terminus, Grenze) è, in una quantità continua, ciò che contiene la ra­ gione dei limiti (quod rationem continet limitum) ; poi al par. 57 dei Prolegomena zu einer jeden kunftigen Metaphysik, do­ ve Kant propone la celebre « determinazione dei confini (Grenzbestimmung) della ragione pura » . I nfine, più volte, nelle sue lezioni e nelle Reflexionen, dove Schranke (limes) è considerato come concetto meramente « negativo ,, , ,, li­ mitativo ,, , mentre Grenze (terminus) come '' positivo " • nel senso che esso indica « negazioni che escludono la possi­ bilità di aggiungere un qualcosa in più » (Akademie-Aus­ gabe, vol. 1 7 , n. 4322). Nelle traduzioni italiane correnti si trova spesso l'inverso, cioè Grenze reso con . In Vom Wesen des Grundes (in HGA, vol. IX, p. 1 65 [trad. it. Dell'essenza del fondamento, in Se­ gnavia, cit., p. 1 2 1 ]) Heidegger distingue tre modi del grilnden: stiften (>), bodennehmen (>) e begrilnden ( > ). Cfr. anche er­ grilnden ( . Cfr. Abgrund, Ab-Grund. Non com­ pare in questo testo Ungrund (, ratio cognoscendi ), Be­ weggrund ( , > . È opposta a Geschichte (« storia >>). Historisch: « storiografico >>. E opposto a geschichtlich ('' sto­ rico >>). horen : « udire >>, '' sentire >> , " ascoltare >>, " prestare ascolto >> . horig: '' succube '' soggetto >>. Horigkeit: " soggezione >> . »

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jiih: « repentino '' · Cfr. plotzlich (« improvviso »), a cui il ter­ mine è associato nella dodicesima lezione. Kalkill: > . È in Heidegger il potenziamento di Rech­ nung (« conto >>), in quanto è accompagnato da un esplici­ to momento di riflessione e ponderazione. Si veda sopra, pp. 1 70- 1 7 1 . lassen: '' lasciare >> , '' far sì che >> . Sui diversi significati di las­ sen, specialmente in combinazione con anwesen o sein, si vedano le precisazioni di Heidegger in HGA, vol. XV, pp. 364 sgg. lautlos: « tacito >> , '' silente >>, '' atono >> . Lebewesen: « essere vivente >>, '' animale >> . legen: '' posare ». Cfr. liegen (>), stellen (« mettere >> , « porre >>), setzen (« porre >>). lichten, sich lichten: « diradare >>, '' diradarsi >> . Anche ,, rischia­ rare » . Il senso del « diradare >> risulta evidente special­ mente là dove Heidegger impiega il termine per descri­ vere il fatto che, nel darsi e nel manifestarsi, l'essere al tempo stesso si « sottrae >> . Lichtung: ,, radura >> . liefern: ,, fornire >>, > . liegen: >. Cfr. legen. Macht: ,, potenza >>, >.

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Mafl: ,, misura " · Maflgabe: ,, misura » . Mafl-Gabe: ,, donazio­ ne di misura '' · Maflgebend: ,, determinante ». Mitgift: '' dote '' · moglich: ,, possibile '' · Moglichkeit: ,, possibilità '' · nachdenken: ,, ripensare '' riflettere » . nachgehen: « ricercare » , « perseguire ». Nachliissigkeit: « negligenza " · nennen: « nominare », « chiamare » . Cfr. benennen ( '' deno­ minare »). Neuzeit: '' età moderna » . Si è tradotto di preferenza così riservando '' modernità , quale traduzione di Moderne per cercare di conservare anche in italiano la differenza tra Neuzeit (XVI-XVIII secolo) e Moderne (dalla seconda metà del XIX secolo), che scompare se si traducono en­ trambi i termini, come di solito si fa, con ,, modernità » . neuzeitlich: « dell'età moderna » . Dove questa traduzione non appesantiva troppo la frase, l'abbiamo preferita per man­ tenere la differenza sopra indicata. Altrimenti: '' moder­ no " · '' •

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offenbar, offenkundig: ,, manifesto » . Ort: luogo » . Cfr. Gegend (,, contrada »), Platz (,, sito » , '' po­ sto ») e Stelle (« posto »). «

Platz: « sito » , « posto » . Cfr. Ort ( '' luogo » ). plotzlich: « improvviso » . Cfr. jiih ('' repentino »). Prinzip: ,, principio " · Forestierismo tedesco da prinafnum (id quod primum cepit), usato in senso tecnico. La tesi del fondamento diventa ,, principio » (Prinzip) solo con la for­ mulazione che ne dà Leibniz. Cfr. Grundsatz. Riitsel: ,, enigma » . Riitselhaft, riitselvoll: ,, enigmatico » . Cfr. Geheimnis ( ,, mistero »). ratio: ' ragione » , ma con il duplice significato di Vernunft (la '' facoltà della ragione ») oppure di Grund ( fondamen­ to »). Si tratta in tal senso di una '' parola a doppio tron­ co un Zwieselwort, indicante sia il '' fondamento » , sia la capacità di fornirlo, la ,, ragione » . Heidegger rimanda ai parr. 29-32 della Monadologia di Leibniz come al testo che rende testimonianza della trasmissione al pensiero mo­ derno del termine latino nei due significati di Vernunft e '

. Cfr. einsehen. seiend: « essente >> . Il participio presente di sein è stato tra­ dotto con > quando Heidegger sottolinea espli­ citamente (non declinandolo) il valore participiale, e con « ente ,, dove prevale il significato nominale. das Seiende, Seiendes: « ente >> . Si noti che in tedesco il termi­ ne è generalmente usato solo al neutro singolare (non esiste dunque, nell'uso comune, il plurale), perciò das Seiende può essere reso anche con « gli enti >> ; è del resto la traduzione tedesca di -cà ov-ca, come Heidegger fa nota­ re all'inizio della undicesima lezione, p. l :14. das von-sich-her-Seiende: « ciò-che-è-da-sé >> . E la traduzione di qn)aEL ov-ca. Anche: das von-sich-her-Aufgehende-und-An­ wesende (« ciò-che-si-schiude-e-si-presenta-da-sé >>). Si ve­ da sopra, pp. 1 1 2 sgg. Sein: « essere » . Seinsgeschichte: « storia dell'essere '' · Seinsgeschichtlich: « con­ forme, relativo alla storia dell'essere >> . Seinsgeschick: « destino dell'essere » . Seinsgeschicklich: « con­ forme, relativo al destino dell'essere » . das Selbe: « lo Stesso » . È la « stessità >> , l'« identità >> essenziale, contrapposta all'« identicità >> del mere;_> « uguale e identi­ co » (das Gleiche). Selbigkeit: stessità >>. E il termine tedesco per identità. das Selbst: « il sé ,, . setzen: « porre » . Cfr. legen (« posare »), liegen (« giacere >>), stellen ( « porre >>, « mettere >> ). sichern: « assicurare » . sicherstellen: «. porre al sicuro » , « assicurare » . Sicherstellung: . « assiCurazione >> . Sinn: « senso » . Tenuto distinto da Bedeutung (« significato >>). «

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Sprache: >), durchspringen (« saltare attraverso >>). Uberstieg: « oltrepassamento » , anche « trascendimento >>. Il tema indicato dal termine sta al centro del trattato Vom Wesen des Grundes, in HGA, vol. IX, pp. 1 2 1- 1 75 [trad. it. cit. , pp. 79- 1 3 1 ]. uberstieghaft: " oltrepassativo ,, . Così Heidegger rende in te­ desco « trascendentale >> . ubertragen: -�· trasporre >> , « traslare >> . Traduce il greco f.U:�U­ q:>ÉQEtv. Ubertragung: « trasposizione » , « traslazione >> . E il calco tedesco di JJUaq:>OQU. umgrenzen: « circoscrivere, « delimitare « definire >>. Umsicht: « circospezione » . unabsehbar: « imprevedibile >> . unerhOrt: « inaudito >> . A volte, con la grafia un-erhort, Hei­ degger intende ricordare che il termine può significare anche « in-audito >> , cioè « in-ascoltato « in-esaudito >> . unfajJlich: « inconcepibile >> . das Ungedachte: « l'impensato >> . das Ungesagte: « il non detto >> . unheimlich: > , « spaesante >>. L'opposto è heimisch ( « di casa >> , « familiare >>). Unterbringung: « asilo ». unt�rlassen: « tralasciare >> , « omettere >>. Unterlassung: « omis­ Sione >> . unterscheidbar: « discernibile >> , « distinguibile >> . Ununterscheid­ barkeitssatz è il principium identitatis indiscernibilium. Unterscheidung: « differenzi?zione >> , « distinzione >> . Unterschied: « differenza >> . E la differenza determinata, i cui termini stanno in relazione fra di loro, mentre nella « di'' ·

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versità » assoluta (Verschiedenheit) essi sono irrelati. Unter­ schiedenheit: « distinzione >> , . versammeln: >, « riunire >> . È il termine con cui Heidegger traduce il greco ÀÉYELV. Versammlung: > , >. Nell'interpretazione di Eraclito, è la traduzione heideggeriana di Myoç. Cfr. Vortriige und Aufsiitze, Neske, Pfullingen, 1 954, pp. 207229 [trad. it. Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano, 1 976, pp. 1 5 1 - 1 57]. verschieden: « diverso >>. Verschiedenheit: « diversità >> . È la di­ versità assoluta, i cui termini restano irrelati (secondo quanto spiega Hegel nella Scienza della logica, in particola­ re nella « Logica dell'essenza >>). Cfr. Unterschied ( >). sich versehen: , « capire >> , > . verursachen: « causare >>. Cfr. bewirken (>, >). verwahren: >, anche >. Cfr. wahren ( ). verwenden: > . Cfr. brauchen (>, >) e gebrauchen ( ). vordenken: >. Cfr. zurilckdenken (>). Vorgang: > . vorgeben: > . Vorgabe: > . Vorlage: > . vorliegen: >, > , anche > . sich vor-nehmen: « pro-porsi >> . Anche >. vorstellen: > . Das Vorstellen è uno stilema di ,

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Heidegger usato spesso nel senso di « il modo di pensare (dell'uomo moderno) '' · Vorstellung: « rappresentazione "• « immagine " • « idea " · A ll­ gemein angenommene Vorstellungen, cioè ,, rappresentazioni universalmente accettate » , traduce xmvat E'VvmaL. vorzeichnen: « prefigurare " ·

Wiichter: « custode ,, . wiihren: « durare » , « permanere » , « rimanere » . wahren: '' salvaguardare ». Cfr. bewahren (« conservare » , « custodire »), verwahren (« custodire « preservare »). Wiirler: « guardiano ,, walten: « dominare ," regnare « imporsi » , « governare » . warum: « perché? " · E avverbio interrogativo e Heidegger lo "•

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tiene distinto dalla corrispondente congiunzione causale weil ( « poiché '' ) . Il warum allude infatti a una posizione consapevole ed esplicita della domanda relativa al fonda­ mento, mentre il weil indica la presenza di un fondamen­ to che non è consaputo, ma che dev� nondimeno esserci, giacché niente è senza fondamento. E il caso della rosa, la quale ha sì un fondamento, una ragione, ma non se lo pone come problema, ed è in tal senso senza « perché? '' · Weg: « cammino " • « via » . Nei composti anche « sentiero » : Holzweg ( « sentiero nel bosco » ) e Feldweg ( « sentiero di campagna » ) . Denkweg: « cammino di pensiero » , " cammi­ no speculativo " · Sulla fondamentalità del riferimento al concetto di Weg e sul carattere « viatico » del pensiero si veda, per tutti, il passo di Unterwegs zur Sprache, in HGA, vol. XII, p. 1 87 ; in questo corso, Lezione ottava, pp. 1 07 sgg. , weil: « poiché » . E la congiunzione che introduce una pro­ posizione causale e che, in quanto tale, viene distinta da Heidegger dall'avverbio interrogativo warum ( « per­ ché? »). Nel tedesco del XVII e del XVIII secolo ha non di rado lo stesso valore di dieweil (« finché "• « mentre »), il che è da tenere presente anche nell'interpretazione del distico di Angelo Silesio Senza perché, dove è detto che « la rosa fiorisce poiché fiorisce » , cioè fiorisce finché fiorisce, fiorisce fiorendo. Heidegger ha presente questo senso di weil come dieweil (si veda sopra, p. 2 1 4), e alla fine dell'ul­ tima lezione, quando parla del « gioco del mondo » , dice

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che il gioco è senza perché, in quanto " gioca giocando ,. (es spielt, dieweil es spielt) . Weisung: " indicazione " • " consegna " • « mandato " · Weitsprung: « salto in lungo » . Weltalter: " età del mondo , . welten: .. farsi mondo '' · Anche " divenire mondo ,. o " essere mondo " · Weltzeit: « tempo del cosmo " · È l a traduzione heideggeria­ na di atwv, si veda sopra, p. 192. Wesen: " essenza » . Heidegger dichiara ripetutamente che tale termine va inteso in senso verbale. wesen: " essere essenziahpente " • « dispiegare la propria es­ senza » . Cfr. anwesen. E usato da Heidegger come durati­ vo di essere, dunque nel senso di " essere durevolmen­ te " • e come equivalente di wiihren (" durare " • « perdu­ rare »). Wesensgrund: « fondamento dell'essere " · È la traduzione di ratio essendi. Cfr. Beweggrund (« fondamento movente »), Beweisgrund ( « fondamento probante ,.), Entstehungsgrund, ( « fondamento del divenire "). Widerspruch: « contraddizione » . Widersprilchlich: « contrad­ dittorio , . Widerstreit: « contrasto "· wirken: « operare " • « avere effetto " • anche " causare " · Traduce il latino efficere. wirklich: « reale » . Wirklichkeit: " realtà " • " realtà effettiva » . Wirkung: " effetto » , anche « incidenza » . wohnen: " abitare " · Wort: « parola » , " detto ,. . Wortgefuge: « insieme di parole " · Per Heidegger è l'imma­ gine che si ha comunemente del linguaggio. wurdigen : « apprezzare » . Traduc� a;L6w. Wurdigung: « apprezzamento » . E la traduzione heidegge­ riana di à!;(wf.la, che significa appunto " degnità " • cioè un qualcosa (un principio comune) che deve essere ammesso per la sua evidenza intrinseca. Cfr. Grundsatz. ziihlen: « contare » (nel senso di « numerare » ) . Zeit-Spiel-Raum: « lasco di spazio e di tempo » . zurechtrichten: « aggiustare » . zureichen: " essere sufficien�e » , anche « fomire " • « porgere » . zureichend: « sufficiente » . E detto del fondamento, cioè del-

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la ragione, in quanto la sua caratteristica è l'essere sufficiens, l'avere la suffectio. zurichten: " conformare " · zurilckdenlun: « pensare ancora •• , " pensare all'indietro " · Cfr. vordenlun ( " pensare già »). zusammengehoren: « coappartenere » . Zusammengehiirigkeit: « coappartenenza " · zuschicken : " destinare a » . Cfr. schicken (" destinare »). zuspielen: « lanciare " • « passare " • " fare avere » (nel senso in cui nel linguaggi