Il sistema di guerra: Studi sul bipolarismo
 8820427273, 9788820427276

Table of contents :
INDICE
1. INTRODUZIONE
Note
2. SISTEMA BIPOLARE E DIFFUSIONE DI POTENZA
La coppia opposizionale BP/DP
Le origini del «bipolarismo»
Effetti della DP sulle alleanze BP
Ritorno al sistema dell’equilibrio?
Asimmetria bipolare e diffusione di potenza
H nuovo scenario
BIBLIOGRAFIA
3. LA GUERRA POSSIBILE
BIBLIOGRAFIA
4. LE OPZIONI DELLA LOGICA BIPOLARE
5. ARON E LA GUERRA
BIBLIOGRAFIA
6. TEORIA E STRATEGIA DEL BIPOLARISMO
7. IL SISTEMA BIPOLARE COME SISTEMA DI GUERRA E LA LOGICA DEI REGIMI INTERNAZIONALI
D problema
D sistema internazionale contemporaneo
Sistema internazionale e regimi internazionali
Le fasi del «regime di dissuasione nucleare»
Conclusioni
BIBLIOGRAFIA
8. RIPENSARE L’IMPENSABILE?
BIBLIOGRAFIA
9. MODELLI DI SICUREZZA
I modelli di sicurezza
Le definizioni di «sicurezza» e di «sicurezza nazionale»
La «sicurezza di alleanza»
La «sicurezza collettiva»
La «sicurezza universale»
La «sicurezza di blocco»
La «sicurezza globale bipolare»
La «sicurezza regionale»
Il contesto internazionale della «sicurezza nazionale»
La «National Security» americana ovvero la sicurezza del leader di blocco
Altre teorie sulla «sicurezza nazionale»
Conclusioni
BIBLIOGRAFIA

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Carlo Maria Santoro

Il sistema di guerra Studi sul bipolarismo

FrancoAngeli

Finito di stampare nell’aprile 1988

Copyright © 1988 by Franco Angeli Libri s.r.l., Milano, Italy

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INDICE

Introduzione Sistema bipolare e diffusione di potenza La guerra possibile Le opzioni della logica bipolare Aron e la guerra Teoria e strategia del bipolarismo Il sistema bipolare come sistema di guerra e la logica dei regimi internazionali, di Luigi Boriante e Carlo Maria Santoro 8. Ripensare l’impensabile? 9. Modelli di sicurezza

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Per Ninni

1. INTRODUZIONE

Questa raccolta di saggi è dedicata all’analisi di una proposizione concettuale che abbiamo denominato «sistema di guerra». L’ipotesi maggiore del volume muove dall’assunto che il mondo attuale, diviso in due dalla rigida contrapposizione dei suoi principali attori, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, possa essere più agevolmente studiato se si parte dal presupposto che il sistema intemazionale bipolare è appunto un «sistema di guerra». In quanto tale esso si dota di regole di funzionamento particolari, che sono, in genere, alquanto diverse da quelle in uso nei sistemi politici intemazionali di tipo tradizionale (equilibrio di potenza, universale, imperiale, multipolare, intermedio, ecc.). Il «sistema di guerra» può quindi essere considerato, sia come un attrezzo analitico diretto a studiare la fenomenologia del sistema bipolare, sia come una sorta di provocazione intellettuale volta a contestare buona parte delle interpretazioni correnti sulla natura del sistema intemazionale bipolare. In quanto strumento analitico possiamo definire il «sistema di guerra» come quella categoria di modelli d’interazione intemazionale che si basa sulla premessa, implicitamente accettata, che gli attori egèmoni (in genere due), operino in un contesto, permanente e strutturale, di antagonismo inconciliabile. La provocazione risiede invece nel fatto che, in termini strettamente tecnici, il «sistema di guerra» bipolare è stato (finora) una struttura che ha dimostrato una considerevole stabilità e che, tutto sommato, ha reso meno probabile lo scoppio della terza guerra mondiale. Perché allora chiamarlo «sistema di guerra»? E come uscire da

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questo impasse concettuale? La nostra soluzione è stata quella di provare a tracciare i confini del «sistema di guerra», di individuarne le caratteristiche, classificando, mediante esempi e casi studio, le va­ riabili più significative, generalizzando quindi, ove possibile, i risultati di studi particolari. La storia di queste riflessioni è piuttosto lunga. Essa prende le mosse da un periodo di ricerca dedicato, nei primi anni ’80, all’analisi della politica estera americana postbellica presso il Center for Interna­ tional Affairs dell’università di Harvard (1). Del tutto convinto che la politica estera degli Stati Uniti fosse soprattutto il risultato dell’azione di un certo numero di variabili indipendenti, tutte di carattere «interno» - anzitutto quelle relative al funzionamento del sistema politico e del sottosistema dei partiti, poi quelle relative ai processi di formazione e implementazione delle decisioni, secondo i consueti modelli organizzativi e burocratici (2) avevo trascurato di considerare i fatto che i vincoli di ordine intemazionale (di contesto quindi) che imbrigliavano la politica estera americana erano molto più forti di quanto sulle prime ci si potesse attendere. Essi andavano ben al di là della comprensibile influenza, esercitata dall’interazione bilaterale con questa o quella Grande Potenza, con questo o quell’attore bilaterale, secondo le regole che sono alla base di ogni analisi della politica estera degli stati-nazione, la cui schematica rappresentazione è ritrovabile sia nel modello dell’attore razionale di Allison, sia sotto le sembianze del classico modello «action/reaction» (3). Avevo commesso, cioè, l’errore assai comune di espungere dall’orizzonte di ricerca alla «variabile sistemica» (4) sottovalutan­ done l’influenza quasi fosse un elemento che, agendo su tutti gli attori in modo costante, finiva per diventare sostanzialmente ininfluente. In realtà la variabile sistemica, cioè il calcolo degli effetti prodotti dall’environment globale (o sistemico) sul comportamento di ogni singolo attore nazionale, anche di una Grande Potenza (poi Superpotenza) come gli Stati Uniti, gioca sempre un molo, spesso molto differenziato, che influisce sia sulle caratteristiche dei singoli attori nazionali, sia sui tratti strutturali e funzionali del sistema inter­ nazionale in quanto tale. Di qui la variabilità dei gradi d’influenza e la

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gerarchia delle conseguenze che ne discendono, soprattutto in termini di politica estera nazionale. Verificai allora in che modo e fino a che punto, nel corso della seconda guerra mondiale, fra il settembre 1939 e l’agosto 1945, le successive trasformazioni subite dal sistema politico intemazionale, con la modifica radicale delle regole del gioco, avessero esercitato un’influenza nella determinazione della politica estera delle maggiori potenze, dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica, alla Gran Bretagna, fino ai paesi sconfitti, come la Germania e il Giappone. Il fatto che nel settembre 1939 il sistema fosse ancora quello dell’«equilibrio di potenza» - restaurato nel 1919 a Versailles e poi maldestramente gestito nei venti anni fra le due guerre - che fosse quindi legato ad un set di regole e procedure, previste e sperimentate da secoli, ebbe certamente un impatto di ambiguità sull’atteggiamento delle principali Potenze che, nel 1939, credevano ancora di poter evitare gli errori del 1914, adottando un meccanismo decisionale e una proiezione esterna (dalVoffensivismo alV appeasement) che erano esattamente l’opposto di quelli assunti all’inizio del primo conflitto mondiale. Pochi mesi dopo, nel giugno 1940, la dissoluzione definitiva del sistema dell’«equilibrio», a seguito della blitzkrieg tedesca in Francia, aprì un ventaglio di interrogativi cui i singoli attori non seppero - né poterono - dare risposta, proprio perché la mancanza di regole del gioco intemazionali conosciute - e riconosciute - da tutti ne impediva la comprensione. Eppure la scomparsa del sistema dell’«equilibrio di potenza» non aveva las ciato il mondo senza punti di riferimento concettuali. Nuovi abbozzi di «ordine» intemazionale si erano affacciati in quegli anni sulla scena imponendo ai singoli attori le loro «ragioni» strutturali. Ad esempio, il vuoto di potenza che si era creato alla periferia della Grande Germania, così come la forzata unificazione della volontà politica dell’Europa continentale sotto il controllo di Hitler, per quanto transitori e instabili, ebbero la forza di vincolare i singoli attori a comportamenti stesso determinati da un «vento sistemico» che ne guidava o impediva le mosse, invece che dal modello d’interazione fra le singole politiche estere di stampo tradizionale. Ma di che sostanza era composto quel vento? In altre parole, di che

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sistema si trattava, se al crollo del sistema dell’«equilibrio» non aveva fatto seguito un nuovo ordine intemazionale, ma invece una serie di formazioni parziali, contrapposte in uno scontro mortale che solo gli eventi bellici avrebbero potuto risolvere? Il quesito intellettuale non poteva non diventare quello di indivi­ duare, in che modo e con quali tratti, un nuovo sistema politico intemazionale si era fatto faticosamente strada fra le rovine di quello tradizionale, attraverso la lotta mortale contro le forme concorrenti alternative. Prima lottando contro la formula dell’«impero germanico» che, collocato al centro dell’Europa fra il 1940 e il 1944, sembrò per □qualche tempo prefigurare il futuro. Poi, verso la fine del conflitto, contro l’ipotesi idealista e «universalista» del Presidente F.D. Roo­ sevelt che parve, per qualche tempo, sostituire autorevolmente quello schema. Finché, negli anni dell’immediato dopoguerra, fallito il modello della «Grande Alleanza» di guerra, e quello da essa derivato delle Nazioni Unite, si andò organizzando una nuova struttura basata sul principio della divisione del mondo in due parti, una formula che era la diretta discendente degli eventi bellici della seconda guerra mon­ diale. L’Europa, e la Germania soprattutto, con le loro artificiali cesure, ma anche la Corea e il Vietnam, rappresentarono bene geopoliticamente - il paradigma originale del «duello» bipolare. La singolarità di questa nuova architettura istituzionale, rispetto alle altre forme possibili di sistema politico intemazionale: quella multipo­ lare dell’«equilibrio di potenza», quella gerarchica dell’«impero germanico in Europa», e quella «universalista» delle Nazioni Unite, fu evidente a tutti sin dalla fine degli anni ’40. Al di là della presa d’atto degli eventi, tuttavia, non si andò. Poco chiara era infatti la natura logica e concettuale di questa specifica, «forma storica» di sistema politico intemazionale. Nell’ombra ri­ masero per anni le caratteristiche e le regole che ne determinavano la funzionalità e che, in quanto tali, si impongono ora perfino ai principali attori nazionali, veri «padroni del mondo» che operano nel suo ambito, come gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica (5). Questa inesorabilità strutturale delle regole bipolari, caratterizzata da un connotato strutturale di tipo «strategico» per l’imponenza dei

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problemi di sicurezza che l’esigenza dell’arma atomica ha imposto alla politica intemazionale, la semplificazione del gioco interattivo fra le Superpotenze e dei rispettivi sottosistemi di blocco, sono tutti elementi che mettono bene in rilievo, sia la specificità del modello bipolare, sia la sua affinità con sistemi d’altra natura rispetto a quelli tradizionali. In effetti, lo studio del sistema bipolare ha svelato un arcano cui poco aveva riflettutto l’analisi internazionalistica, almeno fino agli anni del secondo dopoguerra, quello cioè della diversità strutturale dei sistemi intemazionali operanti durante una guerra «generale» o «globale», rispetto a quelli operanti durante i periodi di pace (6). La sterminata letteratura esistente sulle due guerre mondiale e sulle guerre napoleoniche, oltre alle ricerche sulle «guerre generali», fatte da una lunga serie di studiosi anglo-americani, da Toynbee a Singer, a Modelski e Thompson, a Wallerstein, a Gilpin, a Doran e a Levy (7), hanno consentito di descrivere, quantificare e perfino misurare la strettura delle guerre generali più recenti. E’ stato così possibile identificare le corrispondenze, le affinità e le permanenze, che caratterizzano i sistemi di guerra rispetto agli altri sistemi intemazion­ ali. La travagliata gestazione, che si può far risalire al giugno del 1940, e il difficile parto del sistema bipolare che si conclude solo nel 1955, hanno contribuito a dimostrare resistenza di una straordinaria ras­ somiglianza fra il sistema intemazionale attuale e i sistemi di guerra occorsi fra il 1792 e il 1815, poi di nuovo fra il 1914 e il 1918, e finalmente fra il 1939 e il 1945. In effetti le quattro caratteristiche salienti, comuni a tutti i sistemi di guerra, sono rintracciabili anche nel sistema bipolare che tutti li riassume: a) La prima è costituito dall’uso parallelo e contemporaneo della «forza» e della «diplomazia», con l’automatica acquisizione dei risultati bellici in termini di trasformazione del sistema. La guerra, in sostanza, materiata di eventi militari concreti, come vittorie e sconfitte sul campo, l’occupazione e la perdita di territori, l’accrescimento o la riduzione di risorse, produce effetti diretti sull’organizzazione stessa, e

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perfino sulla forma interna del sistema intemazionale. b) La seconda è data dalla «provvisorietà» esplicita che caratterizza ogni sistema di guerra. A differenza dei sistemi intemazionali di tipo classico, come il sistema dell’«equilibrio di potenza», destinati a sopravvivere in tempo di pace per un periodo indeterminato, il sistema di «guerra» si caratterizza per la sua transitorietà dichiarata, che dovrà cedere il passo al sistema di «pace» che scaturirà dall’esito del conflitto. Anche nel caso del sistema bipolare, peraltro, il carattere della provvisorietà sussiste. Il suo connotato primario - la conflittualità naturale fra le due Superpotenze e i due sottosistemi di blocco, cioè la sua «forma-duello» che ha fatto parlare fin dall’inizio di «guerra fredda» -, rende consapevoli anche le Superpotenze circa la sua intrattabilità strutturale, e quindi della necessità di uscire dallo stallo bipolare per raggiungere sponde meno rischiose. c) La terza caratteristica è quella della struttura «diadica», comune a tutti i sistemi di guerra, nella quale il molo degli attori periferici o neutrali è del tutto marginale perché l’azione si svolge sempre aH’intemo o alle frontiere dei due «fuochi» dell’ellisse, cioè nell’am­ bito di due alleanze frontalmente contrapposte. Ogni sistema di guerra è in sostanza un sistema bipolare e in quanto tale ogni sistema bipolare è per forza di cose anche un sistema di guerra (8). d) Il quarto fattore è costituito dalla «instabilità» strutturale che connota ogni sistema di guerra. Essa è documentata dal carattere conflittuale che la corrispondenza speculare, tipica del bipolarismo, di per sé comporta. Ogni sistema di guerra, quindi, tende per definizione alla pace, cioè alla sua negazione per trasformarsi in un sistema che non sia cioè diadico, né conflittuale per natura. Non può quindi beneficiare di quegli strumenti di autoconservazione e autoadattamen­ to che rendono flessibili gli altri sistemi politici intemazionali. In sostanza, l’operazione che abbiamo compiuto è stata sostanzial­ mente organizzata attorno alla dissezione analitica del corpo del «sistema di guerra», cercando di adattarne la prospettiva sull’esempio del sistema intemazionale bipolare. Ciò non vuol dire che per favorire l’anatomia si sia trascurata la fisiologia del sistema intemazionale attuale. Al contrario, si è cercato di analizzare anche gli aspetti innovativi e i numerosi fattori di

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variazione che, all’interno del sistema BP, paiono raffigurare o prefigurare nuove forme dinamiche e organizzative delle relazioni intemazionali. A partire dai «regimi intemazionali» fino alla rete di rapporti di tipo «interdipendente» e/o «transnazionale», a quelli di tipo «globale» o «universale». Sulla scorta di queste considerazioni il modello centrale della ricerca che ispira il volume si basa sull’analisi del sistema inter­ nazionale bipolare, inteso come sistema politico intemazionale anomalo, e, in quanto tale, come un vero e proprio «sistema di guerra», sia pure con tratti e particolarità che lo distinguano dai sistemi di guerra operanti durante il corso delle guerre «generali». L’idea che il sistema bipolare possa essere studiato come se fosse un sistema di guerra, fondato cioè su caratteri specifici di provvisori­ età, instabilità, di interazione fra forza e diplomazia, diadicità, di struttura costituente di altri sistemi intemazionali (di pace), è alla radice di quasi tutti i saggi contenuti in questa raccolta. Un altro obiettivo della nostra ricerca è stato quello di individuare le tracce, residuali ovvero affioranti, di altri sistemi intemazionali, e in particolare del sistema dell’«equilibric di potenza» e di quello «universale», all’interno della cornice bipolare del sistema contempo­ raneo. Permanente e/o insorgenze di balance ofpower sono identifica­ bili senza ombra di dubbio nelle forme di autorganizzazione che abbiamo definito con il concetto di «diffusione di potenza», così come un embrione di «universalismo» è identificabile nelle funzioni degli enti intemazionali e nei regimi di deterrenza. Tali fenomeni crescenti all’interno del sistema bipolare, tendono statisticamente a scardinarne la funzionalità attraverso l’attivazione di modelli d’interazione che sembrano riprodurre, im ambiente parziale e per periodi relativamente limitati, la complessa struttura operativa del sistema «multipolare», ovvero di quello «imperial-federale» dei secoli andati. Abbiamo cercato altresì di esaminare alcune delle modalità princi­ pali che caratterizzano il sistema di guerra bipolare, in particolare quella della «sicurezza» che, nell’analisi dei «tre giochi» (degli alleati, degli avversari, e degli armamenti), trova il suo modello teorico più convincente (9). La sicurezza è qui intesa come l’asse portante dell’intera strattura bipolare e insieme come un fattore di «militariz­

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zazione» della filosofia delle relazioni intemazionali, di cui le trattative per il controllo degli armamenti nucleari, - ormai quasi istituzionalizzate - sono l’esempio più evidente. Qualche attenzione è stata di conseguenza dedicata ai problemi di modulazione del supporto dottrinale e strategico del sistema bipolare: dalla identificazione del «regime di deterrenza nucleare» (Rdn), fino alla classificazione delle idee che la proliferazione teorica delle strategie nucleari, fra il 1980 e il 1987, dalla Countervailing Strategy alla Strategie Defense Initiative, alla «riconvenzionalizzazione» della guerra possibile in Europa, ha contribuito a elaborare. Sono state altresì prese in considerazione le differenze fra i concetti di «deterrenza» e di «difesa», così come quelli fra le due coppie concettuali in opposizione «pace/guerra» e «deterrenza/distensione», ovvero «sicurezza nazionale» e «sicurezza regionale» (sottosistemica), assunte come variabili specifiche di interpretazione del sistema bipolare, fino alla riflessioni che il maggiore studioso fra gli inter­ nazionalisti europei, Raymond Aron, ha suggerito intorno alla logica concettuale e alla struttura operativa dell’«equilibrio del terrore». Ovviamente si tratta di primi passi, stentatamente mossi all’interno di una giungla tutta da disboscare. L’autore si augura però che questo lavoro, per quanto modesto, possa essere di stimolo ad altri ricercatori e studiosi. La raccolta di saggi non è disposta secondo l’ordine cronologico della loro redazione, ma invece secondo un criterio logico diretto a mettere in evidenza l’evoluzione delle riflessioni in questa materia. I saggi sono stati redatti in momenti e per occasioni diverse, fra il 1981 e il 1987. Tuttavia sono tutti legati ad una fase particolare - e non ancora conclusa - delle relazioni intemazionali, che ha visto l’ondeggiamento pericoloso della stabilità bipolare, soprattutto nel biennio 1983-85, quando il tasso di comunicazione fra le due Superpotenze era ridotto al minimo. Fenomeni come l’apparente sovvertimento delle rispettive gerarchie di potenza (militare), fra la fine degli anni ’70 e la meta degli anni ’80, con l’ascesa dell’Unione Sovietica al rango di Superpotenza a tutti gli effetti, fino alla recentissima fase distensiva, che ha visto nel viaggio di Gorbaciov a Washington e nella firma del trattato per l’elimi­ nazione dei missili LRINF e SRINF, un momento di relativo rilancio

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bipolarista, hanno offerto il destro a riflessioni più generali. E’ stato questo un periodo cruciale che ha messo in luce l’evidente declino della capacità delle Superpotenze di controllare capillarmente, come nel passato, i rispettivi sottosistemi, nonché l’emergere di situazioni sempre più pericolose di «vuoto di potenza» in diverse aree del mondo, matrici di futuri squilibri cui il legame intra-fuochi dell’ellisse BP non dà più alcuna garanzia di soluzione. La griglia sitemica bipolare con il suo sottofondo «guerresco» e meccanismo, non nasconde infatti la moltiplicazione e la crescita di numerosi sottosistemi regionali, dotati di regole e procedure proprie, i cui poli o attori protagonisti sono ormai, accanto alle Superpotenze, delle vere e proprie Grandi Potenze di area, (come la Cina e l’india), ma anche delle Medie Potenze industriali (come il Giappone, la Germania Occ., la Francia, la Gran Bretagna, l’Italia) i cui compiti di surroga, nei confronti delle Superpotenze, sono di fase di espansione, anche se non sono stati per il momento ben definiti. Il tema della bipolarità, infatti, lascia spazio all’analisi delle relazioni fra «cerchi» e «sfere» d’influenza (10) e delle relative strutture sottosistemiche, in cui le regole «basiche» del sistema di guerra bipolare valgono a poco e non fanno neppure da cornice di metodo, come nel caso della interminabile guerra Iran-Iraq, primo esempio storico di contraddizione fondamentale delle regole bipolari, alle ragioni dei contendenti.

I saggi, anche se ordinati nell’indice in altro modo, posson esser suddivisi in tre gruppi:

a) quelli che più strettamente analizzano il sistema bipolare, in quanto sistema di guerra. Fanno parte di questo gruppo Sistema bipolare e diffusione di potenza, Aron e la guerra, e Teoria e strategia del bipolarismo. b) quelli che analizzano gli aspetti della guerra «possibile» e della scala gerarchica della «sicurezza». Fanno parte di questo gruppo La guerra possibile, Modelli di sicurezza e Ripensare l’impensabile. c) quelli che esaminano le prospettive evolutive e la dinamica di trasformazione del sistema bipolare, sia di fronte alle esigenze di integrazione universalistica, sia nei regimi di deterrenza, sia rispetto ai

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rischi della diffusione di potenza. Fanno parte di quest’ultimo gruppo: Il sitema bipolare come sistema di guerra, la logica dei regimi internazionali e Le opzioni della logica bipolare. Alcuni dei saggi sono stati precedentemente pubblicati nella versione che qui riproduciamo. Ci siamo limitati a qualche correzione grafica o di stile, evitando deliberatamente di aggiornarli. Altri invece, che pure erano stati pubblicati su riviste o in volumi collettanei, sono stati largamente modificati per l’inclusione in questa raccolta. Uno di essi è inedito in italiano. In particolare i saggi 2, 3, 6, 7 e 8 sono stati ripubblicati senza sostanziali variazioni del testo. I saggi 5, e 9 invece, sono stati ampliati. Il saggio 5 è stato altresì corredato di un apparato di note e bibliografico che mancava nella precedente edizione. Il saggio 4, infine, è inedito in Italia, in quanto scritto originariamente in lingua francese. Desidero ringraziare i collghi che mi hanno spronato a raccogliere i miei lavori di materia di sistemi di guerra, e in particolare gli amici Luigi Bonanate dell’università di Torino, Stefano Draghi dell’Università degli Studi di Milano e Angelo Panebianco dell’università di Catania, che collaborano con me ad un vasto progetto di ricerca su «Sicurezza nazionale e sistema politico in Italia», finanziato con fondi 40% del Ministero della Pubblica Istruzione, di cui questo volume è un primo prodotto. Ringrazio inoltre il Prof. Bonanate che ha consentito a ripubblicare il saggio (n. 7) che avevamo preparato in occasione del Xin Congresso mondiale dell’International Politicai Science Association, (Parigi luglio 1985). Milano, gennaio 1988

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Note 1. Il risultato di quel lavoro è ora pubblicato in volume C.M. Santoro, La perla e l’ostrica: alle fonti della politica globale degli Stati Uniti, F. Angeli, Milano, 1987. 2. Cfr. G.T. Allison (1971), Essence of Decision, Little Brown, Boston e M. Halperin, (1974), Bureaucratic Politics and Foreign Policy, Brookings, Wash­ ington, (1974). 3. Cfr. in L. Bonanate, C.M. Santoro (a cura di), Teoria e analisi nelle relazioni internazionali. Il Mulino, Bologna, 1986, la nostra introduzione alla seconda parte del volume dedicata ai «modelli» di politica estera, di crisi e di sicurezza. 4. Cfr. P.J. McGowan, H.B. Shapiro, The Comparative Study of Foreign Policy, Sage, Beverly Hills, 1973. 5. I primi studi sistematici sulla struttura del sistema bipolare inteso come «sistema di guerra», sono forse quelli di T.C. Schelling, The Stragegy of Conflict, Cambridge UP, Cambridge, 1960. 6. Cfr. J.S. Levy, War in the Modern Great Power System, 1495-1975, The University Press of Kentucky, Lexington, 1983. 7. Per un esame delle teorie sulla guerra generale si rimanda ancora a J.S. Levy, «Theories of General War», World Politics, 37,3,1985, pp. 344-374. 8. Com’è noto non tutti gli studiosi sostengono la nostra tesi della connaturata «bellicosità» del sistema bipolare rispetto ad altre forme di sistema inter­ nazionale. Ricordiamo qui, per fare un esempio, la vecchia disputa che contrappose negli anni *60, K.N. Waltz da una parte e J.D. Singer e K. Deutsch dall’altra sul grado di stabilità intemazionale offerto dal sistema bipolare rispetto al sistema multipolare. Per una lettura aggiornata di questo dilemma si rinvia al volume curato da A.N. Sabrosky, Polarity and War the Changing Structure of international Conflict, Westview, Boulder, 1985, e in particolare al saggio di J. A. Hart, pp. 25 e ss. 9. Cfr. G.H. Snyder, «The Security Dilemma in Alliance Politics», World Politics, 36,4,1985, pp. 461-495. 10. Cfr. sul concetto di «sfera» e di «cerchio» d’influenza J.F. Triska (a cura di), Dominant Powers and Subordinate Stetes, Duke UP, Durham, 1986.

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AVVERTENZA

I testi qui raccolti sono tratti dai seguenti volumi o riviste: «Sistema bipolare e diffusione di potenza». Politica Internazionale, nn. 4-5,1981; «La guerra possibile», in U. Curi, a cura di, Della guerra, Arsenale, Venezia, 1982; «La logique des options bipolaires», in Aa.Vv. Crise Internationale et Nouvel Internationalisme, Editions de la Rpp, Paris, 1983; «Politica e guerra nel pensiero di Raymond Aron», Politica Internazionale, 12, 7, 1984; «Il sistema di guerra: teoria e strategia del sistema bipolare», Il Mulino, 33,294, 1984; «H sistema bipolare come sistema di guerra e la logica dei regimi intemazionali» (con L. Bonanate), in C. Jean, (a cura di), Sicurezza e difesa, F. Angeli, Milano, 1986; «Ripensare l’impensabile», Teoria Politica, 1, 2, 1985; «Modelli di sicurezza», Rivista italiana di Scienza Politica, 17, 3, 1987.

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2. SISTEMA BIPOLARE E DIFFUSIONE DI POTENZA

«Come re sulla scacchiera essi seggono, quasi immobili dietro le pedine e i subalterni, pressoché incapaci di combattere direttamente, sorvegliando Tintela arena sulla quale il loro stesso destino viene gradualmente e indirettamente deciso». Questa suggestiva metafora di Peter Jay (1) rappresenta bene la condizione delle due superpotenze «inchiodate» nel loro ruolo, forti e deboli al tempo stesso. E’ questo forse il tratto dominante del sistema bipolare nella stagione del suo declino. «Viviamo in un mondo di Stati-nazione sovrani due dei quali sono predominanti nella potenza militare: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Ognuno di loro è condannato da questo semplice fatto ad essere costantemente attento al potenziale e alle intenzioni dell’altro. Le differenze ideologiche, per quanto significative, sono secondarie rispetto al fatto fondamentale della loro forza, straordinaria e contrap­ posta» (2). E’ già presente qui il nocciolo di un’analisi dell’interazione fra i due «poli» che contiene implicitamente, accanto alla «struttura» principale: il «bipolarismo» (BP), anche il suo sistema secondario: la «diffusione di potenza» (DP) da questi generata (3). Alcuni studiosi hanno definito la condizione ambivalente vissuta dalle due superpotenze come «il paradosso della potenza non realizza­ ta» (4). Secondo questa tesi, i travagli del sistema bipolare sono dovuti alle difficoltà incontrate dai due «poli» nel trasferire le «potenzialità» di potenza, in potenza «effettiva». Si tratterebbe, in sostanza di cattivo funzionamento dei «processi di conversione», qualcosa come avere buone carte e giocarle male (5). Questa premessa per giustificare la scelta di un approccio storico

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strutturale basato sul binomio bipolarismo e diffusione di potenza che dovrebbe evitare le secche di una soverchia confusione concettuale e imprecisione definitoria, quale sarebbe, a nostro parere, quella del rapporto fra «internazionalismo e nazionalismo». Questi ultimi due concetti, infatti, presentano consistenti difficoltà analitiche in quanto: (a) non rispecchiano una «coppia» opposizionale poiché non sono stati sempre intesi in alternativa l’uno rispetto all’altro, tranne che per qualche decina d’anni avanti la prima guerra mondiale e poi, fra le due guerre, ma solo in chiave della tradizione secondo e terz’intemazionalista; (b) ne discende che il frante entro cui si sviluppa l’uso dei due «discorsi» (internazionalismo e nazionalis­ mo) diventa ambiguo e non rispecchia l’intera tradizione delle relazioni intemazionali, né europee, né anglosassoni, né più latamente delle classi dirigenti occidentali. Non definisce cioè, come dovrebbe, un campo analitico delle relazioni intemazionali che sia globale e che ricomponga al suo interno tutte le variabili possibili (6). In effetti, in una concezione più occidentale, o «occidentalista», i due termini (e relativi discorsi) si sviluppano non già in chiave di «opposizione» ma invece di «correlazione». Tutto l’idealismo giusnaturalista wilsoniano (e le fondamenta culturali della «new diplomacy») (7), ma anche l’imperialismo statu­ nitense, da Cleveland a Me Kinley, a Th. Roosvelt in poi (8), leggevano i due termini l’uno come successione dell’altro, o addirit­ tura erano portati a descrivere l’internazionalismo come «ipertrofia del nazionalismo» americano (9) in funzione della riduzione del molo deH’imperialismo e del «peso» (10) della potenza europei. E’ certo vero che il concetto di «nazionalismo», soprattutto a partire dalla fine della prima guerra mondiale, e più ancora con il fascismo e il nazismo (11), assume connotati «idealtipici» in contrasto anzitutto con l’internazionalismo liberal-idealistico ovvero capitalistico-imperiale. Ma di connotati soprattutto ideologici si tratta, più che di attrezzi «descrittivi» (per non dire «esplicativi») delle strutture, delle funzioni (12), e del sistema di alimentazione culturale e tecnica delle relazioni intemazionali in questa fase storica. Ben poco del nazionalismo tradizionale è infatti rimasto nei paesi legati ai due subsistemi (Est-Ovest), così come ben poco dell’inter­ nazionalismo marxista o liberale fa ancora da supporto ideologico

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militante all’azione politica delle superpotenze o delle organizzazioni «universali» (Onu, ecc.). In ogni caso l’«equifinalità» (13) delle funzioni nel sistema delle relazioni intemazionali ha troppi padri e quindi poco vale accertarne più o meno puntigliosamente l’identità e la casualità storiche (14). D’altro canto, confondere lo «Stato-nazione», i suoi ruoli e la sua «natura», con il «nazionalismo» vuol dire perdere di vista il fatto che l’idea di Stato-nazione non è affatto, almeno concettualmente, uno schema obbligato del nazionalismo. Si pensi ad esempio all’Olp (nazionalismo senza Stato-nazione), ovvero a tutti i movomenti di liberazione nazionale del passato. Il nazionalismo spesso precede la formazione dello Stato-nazione e può, al limite, diventare premessa di imperialismo internazionalista, perfino ammantato di bandiere ideo­ logiche universalistiche (si pensi all’internazionalismo sionista o a certi aspetti della politica estera sovietica e cinese).

La coppia opposizionale BP/DP

Bipolarismo e diffusione di potenza (BP e DP), quindi, non sono che attrezzi, termini di un’equazione delle relazioni intemazionali presi ad assunto preanalitico, con i quali misurare la statica (15) (forma, ambito, potenza, peso) e la dinamica (velocità, direzione) del sistema mondiale (16). Ovviamente, i concetti di BP e DP sono essenzialmente descrittivi. Il primo definisce un’ipotesi interpretativa del sistema intemazionale postbellico strutturata secondo criteri e modalità che abbiamo desunto, nel suo scheletro concettuale, da M. Kaplan (17) e altri. Il secondo, invece esprime un trend, un fenomeno quindi in fase di espressione, dinamico e transitivo. La formula DP è tratta dal linguaggio delle discipline strategiche. Essa si applica più di sovente alla questione della DP nucleare, o «proliferazione» (18). Sintetizzando e generalizzando si potrebbe quindi definire il «bipolarismo» come un sistema delle relazioni intemazionali basato sul duopolio (asimmetrico e/o simmetrico) e flessibile delle due superpotenze in campo geopolitico, militare, economico, e culturale. Si potrebbe altresì definire la «diffusione di potenza» come un processo di dislocazione dei rapporti di potenza, dal duopolio Usa-Urss alla emersione parziale di nuovi centri di potenza che si

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pongono come: a) «punti» (non «poli») di aggregazione politica, economica o ideologica soprattutto a livello regionale e/o di area; b) come «Stati-nazione» che recuperano (o acquistano) la piena perso­ nalità intemazionale (sovranità), e quindi di autonomia crescente rispetto alle due superpotenze (con riduzione orizzontale e/o verticale delle relative zone d’influenza) (19). Il modello DP non è però identificabile nel cosiddetto sistema «tri o multipolare», il quale definisce invece l’ipotesi di un nuovo assetto delle relazioni intemazionali-che vede la riconosciuta presenza di più «poli» di potenza globale, sia unitari (Stati-nazione come Usa, Urss, Cina, Germania, Giappone, ecc.), sia regionali (Comnunità europea), e quindi perciò stesso postula la fine del duopolio Usa-Urss e del sistema BP. Il processo di DP rappresenta piuttosto - nel nostro quadro analitico una fase particolare del sistema BP. Tende, certo, a scardinarne le fondamenta, ma non è necessariamente una prefigurazione del futuro, né si discosta sostanzialmente dai modelli del sistema delle relazioni intemazionali fin qui sperimantati, se non per un punto essenziale, quello della «mondializzazione» delle regole di comportamento intemazionali (20). Potrebbe accadere, infatti, che l’intero processo si arrestasse o addirittura invertisse il segno di marcia. Come fu di quelle fasi di transizione apparente da un modo di produzione ad un altro (dal feudalesimo al capitalismo nell’Italia dei Comuni e delle Signorie), presto rientrate in un alveo di imprevista «rifeudalizzazione» (21). In effetti, il sistema BP, quantunque fin dalle origini (durante il secondo conflitto mondiale) si sia caratterizzato come sistema mon­ diale (world system), e più ancora oggi, con l’emergere di una maggioranza di paesi non europei e neppure occidentali, sia ormai altra cosa rispetto al sistema tradizionale (il «sistema dell’equilibrio» di stampo europeo), pure esso si è codificato attraverso istituzioni, procedure diplomatiche, forme del diritto intemazionale, e perfino dice Wight - «metodi di intelligence e di guerra» ereditati dal dominio e dell’esperienza occidentali (22). In questo senso il sistema BP è ancora parzialmente «eurocentrico», quello che Wight definì come «un impressionante monumento all’im­ patto occidentale sul resto del mondo» (23). Siffatta sottolineatura di Wight non è una semplice constatazione di fatto, ovvero una esi­ bizione d’orgoglio continentale. Essa sottintende invece che le regole

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del gioco nelle relazioni intemazionali sono ancora in gran parte occidentali. E chi fa le regole «meno spesso la danza». Tuttavia, i sistemi intemazionali non sono imperituri. Anche il più illustre e duraturo fra essi, quello dell’«equilibrio» {balance of power) basato sugli Stati sovrani, è stato una forma particolare di organizzazione delle relazioni intemazionali (e anche nazionali si potrebbe dire) (24). Talché anche il sistema BP può decadere e scadere. Il processo di DP potrebbe essere il più rilevante segnale di una radicale deocciden­ talizzazione del sistema BP. E ciò non tanto per la pur evidente dislocazione dei «pesi» di potenza fra aree geografiche e paesi, quanto per una graduale «deoccidentalizzazione delle regole». In questo senso, dunque, si può azzardare l’ipotesi della «mondializzazione» del bipolarismo attraverso il processo di diffusione di potenza (un esempio di questa mutazione è dato dall’evoluzione dei processi di formazione delle decisioni in seno alle Nazioni Unite) (25).

Le origini del «bipolarismo»

In realtà, ogni trasformazione di natura (o morfologia?) delle relazioni intemazionali nasce come una «malattia» dello schema che lo precede. Le origini del sistema BP, ad esempio, vanno ritrovate (non «causalisticamente» però) aH’intemo del «sistema dell’equilibrio» ottocentesco. Il «riallineamento delle potenze», fra il 1871 e il 1914 (e in specie fra il 1890 e il 1914), nonché, risalendo molto a ritroso, perfino le guerre napoleoniche, con il loro esplosivo contenuto innovativo (nazional-imperiale), potrebbero esser assunti a prefigu­ razioni, provvisorie, del sistema BP (26). In ogni caso, al di là del dibattito, tuttora aperto, sulle origini del bipolarismo, è certo che il periodo fra le due guerre (1919-40), che alcuni hanno chiamato 1’«Indian summer» dell’Europa (27), fu l’ulti­ mo tentativo di ripristinare il sistema dell’equilibrio colpito a morte dalla prima guerra mondiale. Il difetto di quella operazione di cosmesi risiedeva oltre che in ragioni profonde (28) anche nel fatto che la pietra angolare della restaurazione europea riposava sui trattati di Parigi, e che i trattati di Parigi riposavano su un fattore (meglio, su un «attore») non europeo (gli Stati Uniti), la cui presenza, in termini di

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nuovo «ago della bilancia» (29) del sistema, era data per scontata, anche in termini di sicurezza collettiva. La Società delle Nazioni, struttura anomala e innovativa, era quasi un di più senza potenza, che portava però nel linguaggio delle relazioni intereuropee un elemento di novità culturale e la voce (flebile) di nuovi paesi fino ad allora inesistenti o confinati al silenzio nelle assise intemazionali. V’erano dunque due condizioni da rispettare affinché la protesi/cosmesi del sistema dell’equilibrio potesse durare dopo il 1919: (a) che gli Stati Uniti assumessero la funzione (permanente) di garanti esterni del sistema europeo; (b) che i trattati di Parigi non fossero sottoposti a spinte «revisioniste» troppo laceranti, dovute al fatto che essi erano stati il frutto di un incerto e talvolta ridondante compromes­ so fra due linee concettuali: quella idealista wilsoniana dell’autodeter­ minazione e delle nazionalità, venata però di universalismo; e quella realista e nazionalista delle potenze europee. Talché i trattati furono fragili e senza garanzie, soggetti ad interpretazioni diverse (30). Inoltre - e questo è il punto - il conflitto prima, e i venti anni fra le due guerre poi, rilevarono altresì: 1. che le Grandi Potenze del 1914, tutte insieme, non erano in grado di sconfiggere la Germania; 2. che gli Stati Uniti erano ormai nel gioco europeo anche quando si defilavano in via ufficiale; 3. che l’Urss era praticamente un nuovo soggetto misterioso delle relazioni intemazionali i cui confini ad occidente erano inoltre così labili (come quelli della Germania ad oriente), data la sconfitta di entrambe nel conflitto, da rendere precario in partenza l’assetto postbellico di Versailles (31). La «pattomania» (32) che fece seguito ai trattati di Parigi, nonché la loro vacuità operativa, non si manifestò nella stessa misura dopo la seconda guerra mondiale (33). Il sistema BP, molto più semplificato e lineare, si mantenne essenzialmente in vita sulla scorta della fedeltà non scritta di entrambi i «poli» alle disposizioni di Jalta e Potsdam, cioè della guerra, nonché a quelle meno definite, ma altrettanto vincolanti, della strategia della guerra fredda (34). Il Patto di Monaco del 1938, tanto esecrato, nasceva dal tentativo illusorio di sistemare in ritardo, con una nuova Versailles, la questione aperta del «revisionismo» tedesco. Ma è più spesso la guerra (che non il negoziato) a risultare - come sostiene Bonanate (35) - l’evento fondante di un nuovo «ordine»

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intemazionale e come hanno dimostrato più volte i fatti. Il che giustifica la differenza di sostanza (e di struttura) che caratterizza il sistema BP, rispetto alle varie forme prese dal sistema dell’equilibrio, come unicum nelle relazioni intemazionali. Mentre le già ricordate prefigurazioni storiche erano piuttosto «anomalie» del sistema dell’equilibrio, il BP, nato fra il 1940 e il 1955, si è dimostrato a sua volta come un «sistema» permanente diverso da quello precedente dotato di norme e funzioni che si autoriproducono. L’«età napoleonica» e il «riallineamento» dopo il 1871 sono dunque semplici momenti o fasi di instabilità che conducono a rotture e poi a restaurazioni, perché le regole vigenti durante quegli interludi non erano autoriproducentisi, ma solo squilibri che potevano essere grosso modo compensati ricostituendo la pluralità degli «attori essen­ ziali». Il sistema BP postbellico garantisce invece un equilibrio che tende a durare, con regole che si è dato e che lo definiscono. Il processo di DP, oggi in atto nelle sue diverse forme (così come era accaduto nel 1939), getta però sul tavolo quesiti nuovi che in parte scalzano, ovvero depotenziano, il sistema delle regole e delle proce­ dure su cui il bipolarismo aveva fondato la sua capacità di sopravvi­ vere a quello dell’«equilibrio» o a quello (futuribile) dell’ordine interdipendente «universale» (36). Di fronte a questa preoccupante situazione, gli avversari di ieri (Usa e Urss) tendono oggi a perpetuare il sistema d’interazione bipolare, anche se in forme diverse (come «parità» l’Urss, come recupero del «primato» gli Usa), mentre gli alleati minori di ciascun polo mirano a sviluppare prudentemente le potenzialità offerte dalla DP, e quindi a conquistarsi crescenti spazi di autonomia, accentuando per questa via la crisi del sistema bipolare. Le «forme» che il processo di DP (37) può assumere sono sostanzialmente due: 1) individuali e/o 2) di area. Ciascuna di esse, a sua volta, può suddividersi in: la) DP individuale da parte di singoli Stati, il cui effetto è destabilizzante a livello di area regionale. Tale fenomeno è essenzialmente il prodotto di motivazioni di politica interna (rivoluzioni, colpi di stato, crisi economiche, tensioni micro­ nazionalistiche); lb) DP individuale esterna da parte dei singoli Stati, dovuta alla modifica dei rapporti (equilibri) di potenza (o di forza) in un’area regionale data (rafforzamento o indebolimento militare,

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proliferazione nucleare, industrializzazione forzata, monopolio di materie prime); 2a) DP di area, per anomalie o per rincorsa negli armamenti, sia convenzionali sia nucleari di teatro, da parte di uno o di entrambi i poli, in relazione a percezioni di vuoto di «sicurezza« e a seguito di squilibri di varia origine, ma di tipo «globale»; 2b) DP di area dovuto agli effetti dell’allentamento dei vincoli e degli impegni di «alleanza» nei due subsistemi bipolari (38).

Effetti della DP sulle alleanze BP

Prenderemo in esame in particolare questa ultima forma (2b) di «diffusione di potenza», quella cioè relativa allo svuotamento progres­ sivo delle «alleanze» (Nato, Patto di Varsavia). Durante il periodo postbellico questo processo, il più pericoloso, non ha mai assunto le specie di un fenomeno dirompente dando luogo a tensioni molto consistenti o durature. Il sistema BP non è stato quindi messo alla prova in modo cospicuo, se non per brevi periodi di tempo in occasione di crisi acute, ma ben presto rientrate, dei due subsistemi (Ungheria, Cecoslovacchia, Francia, Grecia, Turchia) (39). Tuttavia, negli ultimi anni, alcuni eventi (i più recenti in ordine di tempo sono i fatti dell’Iran, dell’Afghanistan e della Polonia) hanno indotto a una riflessione più sistematica circa il carattere vincolante per la sopravvivenza del sistema BP rappresentato dal fenomeno delle «alleanze», la. cui permanenza in forme strutturalmente definite è condizione essenziale per il mantenimento della «pace nucleare mondiale». Il concetto di «pace nucleare mondiale» corrisponde in termini uguali e contrari a quello di «olocausto nucleare». Esso sta a significare, cioè, uno stato tutto particolare di guerra «non guerreggia­ ta» fra le due superpotenze (40). Lo svuotamento eventuale delle alleanze, o meglio del sistema di «interdipendenza asimmetrica» (41) all’intemo di ciascun subsistema, fra potenze-leader (Usa -Urss) e medie o piccole potenze alleate, può procedere per diverse vie. In primo luogo esso può scaturire dalla graduale emergenza di contraddizioni e dalla divaricazione degli interessi economici, com­ merciali e finanziari «intra-area» fra la potenza-leader e i paesi della sua stessa zona, come è accaduto fra Stati Uniti ed Europa occidentale

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dopo il 1967, e poi ancora nel 1971-73. In secondo luogo, esso può invece discendere dall’esigenza di alcuni attori statuali di competere per l’acquisizione di forniture (petrolio, materie prime, ecc.) al di fuori della propria area, ovvero per la conquista di quote di mercato extra-area da parte di singoli membri dell’alleanza. Si pensi, per fare un esempio, al mercato e alla politica estera dei diversi acquirenti di greggio dei paesi Opec. In terzo luogo esso può derivare anche dall’indebolimento del «peso» relativo dello Stato-leader rispetto a paesi membri della propria zona sul terreno sia economico che finanziario o tecnologico. Si veda a questo proposito il problema della «reindustrializzazione dell’America» (42) e il declino relativo del potenziale produttivo americano rispetto ad alcuni grossi partners europei e giapponesi. In quarto luogo, tale svuotamento può aversi come conseguenza della caduta dei vincoli di interdipendenza economica che lubrificano il sistema BP nel suo insieme (o a livello di ciascun subsistema) (43), e quindi a causa del sovvertimento dei livelli di dipendenza strutturali del sistema nonché, con un processo di relazione «a pettine», di quelli politico-militari. Ora, quando non sono più gli interessi economici a determinare l’accettabilità dei rapporti di subalternità politico-militare, ecco che essi si percepiscono come ingiustificati, e quindi insostenibili. Se poi questi ultimi vengono usati dalla potenza egemone come strumenti di pressione diretti a ricondurre forzosamente (cioè senza che vi siano necessità d’ordine economico a darvi senso) i paesi membri alle regole del gioco precedente, quando le gerarchie veni­ vano stabilite in modo «oggettivo» dal dislivello del complesso dei rapporti di forza economici e militari, ecco che allora tale ricon­ duzione nella maglia delle procedure consuete della dipendenza politica si può fare davvero intollerabile (44). In quinto luogo, infine, lo svuotamento può avvenire perché la relazione fra le due superpotenze si è ormai irreversibilmente modifi­ cata sul terreno geopolitico, sia globale che regionale, nonché su quello dei rapporti di «influenza» (45) politico-militare (46). In questo caso, proprio per una questione di campi magnetici gravitazionali, alcuni paesi alleati dello Stato A (i più forti e i più deboli, o i più periferici geograficamente) tendono a risentire del potere d’attrazione (e/o di deterrenza) esercitato dall’altro Stato-leader B, creando le premesse di un ulteriore svuotamento del sistema di alleanze di A con

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(a-1), (a-2), (a-3)... (a-n). E ciò può accadere sia che lo Stato B adotti un comportamento minaccioso, sia che si presenti con una politica di blandizie, o al limite, che non esprima alcuna modifica di comporta­ mento.

Ritorno al sistema dell’equilibrio?

Tuttavia questi processi di svuotamento avvengono nell’arco di lunghi periodi di tempo e quasi indistintamente. La verifica dei guasti prodotti nei sistemi d’alleanza da questa serie di occorrenze avviene dunque solo quando la loro condensazione e frequenza si fanno troppo elevate. Essa coincide con il presentarsi sulla scena di fenomeni nuovi derivati da trasformazioni strutturali della morfologia delle relazioni intemazionali allorché, fra la generale sorpresa, i comportamenti dei membri delle due alleanze (o di alcuni di essi) possono di colpo risultare imprevedibili. Possiamo quindi giungere ad una prima constatazione d’ordine concetttuale. BP e DP sarebbero i termini di un’equazione (instabile?) la cui cerniera logica è data dal contenuto, peso, forma, valore e prospettive future dei «sistemi di alleanza» dei due subsistemi contrapposti o interdipendenti. Questo primo postulato concettuale è però da verificare meglio attraverso l’analisi storica del periodo postbellico, partendo dall’assunto che abbiamo detto. In termini comparativi il sistema BP, rispetto al suo predecessore (sistema dell’Equilibrio), sarebbe dunque caratterizzato dalla creazione di un sistema, o meglio di un frame politico (47) bipartitico a livello mondiale, strutturato attorno a coalizioni di potenza (e di forza) legate a criteri di alleanza, stabili e permanenti. Non così per il sistema dell’Equilibrio, che è invece ancorato al principio vitale della provvisorietà delle alleanze ovvero della loro settorialità (single-issue alliances). La DP sembra invece avere una duplice anima. Da una parte risveglia proprio il fantasma del «sistema dell’equilibrio» tradizionale, nel momento in cui si colloca in funzione eguale e contraria rispetto ai progetti di «ordine» delle relazioni intemazionali di tipo «universale» (48), o anche solo «interdipendente» attraverso il quale il «sistema degli Stati» (49) avrebbe gradualmente perso di valore e di funziona­

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lità. Ma, dall’altra parte, la dinamica della DP può anche finire per diventare premessa concettuale dell’emersione di un nuovo «ordine», meno idealistico e pacifista, ma più strutturato istituzionalmente e meno primitivo nella normazione e coercizione (50). Quindi, si potrebbe contemporaneamente avviare un’alternativa fra il rilancio del nuovo «nazionalismo» degli Stati e un altrettanto nuovo «internazionalismo» globale di interazione, più paritario e simmetrico, di tipo universale o almeno regionale. Questo processo ambiguo è tuttavia dominato da elementi di tensione che fanno aggio su quelli di stabilità. Il che accentua gli elementi di destabilizzazione invece di valorizzare quelli, pure presenti, di costruzione di un tessuto nuovo. Vale il caso di domandarsi allora perché il processo di DP tenda ad assumere un connotato piuttosto conflittuale e aperto, invece che non di restaurazione dei canoni e delle regole del sistema tradizionale dell’equilibrio, come molti osservatori sarebbero portati a ritenere. (51) Anzitutto va detto che il «fattore» nucleare, in quanto unicum, rende problematica una vera restaurazione del sistema dell’equilibrio. Esso scalza infatti una delle condizioni di base di quel modello: la impossibilità da parte di qualsiasi potenza (nel Concerto) di acquisire sulle altre, ovvero di provocare danni intollerabili a ciascuno degli altri «attori essenziali» fino alla loro sparizione (52). Ma c’è anche un altro punto più specifico che rende improbabile l’attribuzione ai fenomeni di «diffusione di potenza» di una funzione restauratrice del «principio dell’equilibrio» (53). Esso deriva dal fatto che l’odierna DP, caratterizzata dalla tendenza alla dislocazione dei sistemi e dei subsistemi di alleanza, non è accompagnata da una correlata instaurazione di coalizioni sempre più numerose di Stati pacifici e neutrali, gelosi della propria e dell’altrui sovranità, i quali potrebbero dunque di diventare fattori di stimolo del processo di cooperazione, e quindi della creazione di un «ordine» regionale e/o mondiale regolato da norme liberamente accettate. La moltiplicazione dei centri di autonomia (sia pure a diversi livelli di sovranità e di autogoverno) che abbiamo genericamente definito come «diffusione di potenza», non ha infatti un carattere essenzialmente «indipendentistico», cioè a dire «difensivo». Esso invece si definisce per il suo carattere «offensivo» (anche se talvolta dettato da esigenze di recu­ pero d’identità nazionale e politica) su scala eminentemente regionale,

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o almeno «deterrente», come dimostra anche la proliferazione nucle­ are. E’ possibile e frequente, inoltre, che questo carattere «offensivo», soprattutto nel Terzo mondo, acquisisca i tratti di un meccanismo compensativo da parte dei paesi in via di sviluppo per la manifesta incapacità di leverage da questi dimostrata nelle relazioni in materia economica e finanziaria con i paesi industrializzati. Ne discende che il modello dei singoli attori statuali, riconducibili al processo di DP (diverso è il caso per gli attori non statuali come le compagnie multinazionali e/o transnazionali), delle organizzazioni di ambito regionale, ovvero dei cartelli dei produttori di materie prime (come l’Opec), finisce per diventare solo quello della «moderniz­ zazione», militare, prima ancora che agricola, industriale o tecnologi­ ca, fino alla teorizzazione e/o alla pratica della guerra preventiva regionale (Cina/Vietnam; Vietnam/Cambogia; Iraq/Iran; Libia/Ciad; Algeria/Marocco; Grecia/Turchia; Etiopia/Somalia; India/Pakistan; Israele/Siria; ecc.).

Asimmetria bipolare e diffusione di potenza A questi fenomeni nuovi di «riconcentrazione» di potenza in stati o gruppi di stati non facenti parte, o solo marginalmente legati alle due grandi alleanze, che tipo di risposta danno le superpotenze? La tentazione più forte è di rispondere sul terreno dell’unica superiorità assoluta residuale di cui esse beneficiano: la forza militare e, subordinatamente, quella finanziaria, tecnologica e alimentare. Ma l’impiego della forza militare (o anche la sua minaccia) da parte dei due «poli» (Iran come minaccia e Afghanistan come impiego) comporta alcuni gravi costi, ed è sottoposta a precisi oneri operativi: a) la forza (limitata) da usare contro il paese o i paesi all’origine dei fenomeni di DP regionale, non è sempre di facile impiego né di successo sicuro (al di là del suo innegabile effetto di deterrenza). L’esempio dato dalla impotenza della forza di pronto intervento aeronavale statunitense nel Golfo Persico, oppure le difficoltà incon­ trate dal corpo di spedizione sovietico in Afghanistan stanno a provarlo (54); b) la forza inoltre non può neppure essere usata, altro che in casi estremi, come arma di pressione politica sugli alleati (o

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contro di essi). Il che indebolisce la «gamba» militare della potenza BP. L’Urss, per verità, ha già impiegato più di una volta la forza come strumento di pressione politica, essenzialmente sugli alleati (nel 1956 in Ungheria, nel 1968 in Cecoslovacchia, nel 1979-80 in Afghanistan). Tuttavia nei primi due casi l’impiego attivo è stato di brevissima durata e nel terzo il risultato sembra incerto e comunque precario. In ogni caso, il costo in termini politici, d’immagine e di credibilità dell’Urss, è stato più alto, rispetto ai vantaggi che essa ne ha tratto. Anche gli Stati Uniti, peraltro, non hanno sempre ricavato benefici dagli interventi militari effettuati nei confronti degli alleati (55). Di qui la necessità da parte delle superpotenze di argomentare politicamente l’uso della forza (o la minaccia del suo uso) con la valorizzazione di tesi ideologiche basate sul principio della «fedeltà» di blocco. Il principio della «fedeltà» di blocco è però assai gracile in quanto: a) non ha radici nella cultura intemazionale delle popolazioni e dei governi; b) la costituzione dei due blocchi dopo la guerra mondiale non fu mai proclamata come un evento voluto e soddis­ facente (quindi da difendere fedelmente), quanto piuttosto come il più «realistico» risultato possibile della pace mutilata. Il sistema BP è quindi un’architettura incompiuta, un ibrido stilistico, composto di parti e spezzoni di due diversi progetti di «ordine» mondiale, quello sovietico e quello americano (56). Il cemento unitario dei due blocchi imperfetti è stato sempre quello che focalizzava, proprio sugli sbrecciati confini delle due zone d’influen­ za, il momento della conflittualità bipolare, vincolando gli Stati membri di ciascun subsistema a stringersi attorno al proprio Sta­ to-leader. Ma per ottenere l’effetto di «fedeltà» di blocco, il sistema BP ha bisogno di surriscaldarsi, più o meno artificialmente, mediante lo sfregamento dei due «poli» in ordine all’obiettivo geopolitico di rallier gli alleati, intimidire gli attori della DP, redistribuire, per­ lomeno parzialmente, gli assetti geopolitici, garantendo ai due protag­ onisti il mantenimento di posizioni di supremazia. Si veda, per intendere bene la dinamica di questo processo, come si svolsero i fatti durante la prima fase della guerra fredda quando gli assetti iscritti nei trattati vennero integrati dagli assetti non scritti, fissati dall’esito dei conflitti nelle varie zone del mondo.

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Ma anche il meccanismo del «surriscaldamento dei poli» deve essere politicamente giustificato attraverso l’individuazione dei moventi (veri o presunti), nonché mediante la ricerca delle respon­ sabilità. Dopo la prima guerra mondiale e Versailles, le «responsabil­ ità» della Germania furono iscritte nei trattati, mentre dopo la seconda, con il processo di Norimberga, si ottenne praticamente lo stesso scopo (57). Fra il 1973 (guerra del Kippur e crisi del prezzo del petrolio) e il 1980 (Afghanistan, Iran, Polonia) non si contano gli episodi che hanno gradualmente riacceso le tensioni fra Est e Ovest, ponendo un fermo al processo di détente iniziato alla fine degli anni ’60, culminato poi nel 1972 con la firma a Mosca dell’accordo Salt-1. Alcuni di questi eventi hanno indubbiamente dato motivo all’accrescersi delle tensioni (crisi economica strutturale, petrolio, guerre fra paesi comunisti, rivoluzione iraniana, Afghanistan). Altri invece sono stati dilatati ad arte, per ragioni di politica interna, o per giustificare contromosse che, in assenza di fatti compiuti dall’altra parte, non avrebbero trovato consenso nell’opinione intemazionale (si pensi al troppo conclamato rafforzamento militare sovietico che, a partire dal 1977, gli Stati Uniti hanno brandito politicamente come una minaccia vitale all’equilibrio strategico fra Est e Ovest) (58). Ma se affrontiamo questo stesso punto in termini analitici teorici delle relazioni intemazionali del sistema BP, allora si può dire che la sola possibilità concreta di surriscaldare il meccanismo bipolare non poteva che essere quella di rimettere in moto la contraddizione di fondo, ineliminabile, di questo sistema di relazioni intemazionali, cioè l’«asimmetria» di potenza fra i due «poli» e la continua e necessaria rincorsa politica, economica, militare dell’uno con l’altro, che è garanzia ultima del suo mantenersi in vita (59). Come ha ampiamente dimostrato in quaranta anni di vita, il sistema BP, si regge su un principio che viene troppo spesso negato e pour cause dai governi nonché dagli stessi studiosi delle relazioni inter­ nazionali: quello della «gerarchia dei poli» contrapposti. Già nel 1940 un gruppo di osservatori americani di cose intemazionali (60) aveva individuato, prima ancora che la «teoria dei giochi» a due giocatori ne studiasse tutte le possibilità, il pericolo insito nella natura stessa del

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sistema BP: «Un simile allineamento comporterà certamente uno sforzo senza fine, da un lato per mantenere questa preponderanza immutata e dall’altro per rovesciarla completamente» (61). H sistema BP, in effetti (a differenza di quanto hanno teorizzato M. Kaplan, Young e Rosencrance) (62), non postula, per assicurarsi stabilità, la «parità» ovvero l’«equivalenza» delle forze in campo (come credeva invece Kissinger) (63), ma anzi funziona solo se il polo B, fin dall’inizio più debole del polo A, continua a mantenere una posizione in qualche misura subordinata, o almeno di secondo piano rispetto al primo. L’aspirazione all’«eguaglianza», non dico alla superiorità, da parte di B comporta quasi automaticamente la rincorsa agli armamen­ ti, moltiplicando per questa via i pericoli di guerra. Abbiamo la più ampia testimonianza di questa tendenza negli sviluppi della politica militare sovietica e americana, fra il 1975 e il 1980 (64). Il sistema BP, dunque, si mantiene relativamente stabile a patto che le distanze fra i due «poli» restino elevate fino a quando non si presenti concretamente il rischio del raggiungimento del più forte da parte del più debole. E’ quindi un sistema bipolare «zoppo» (65). Il processo di distensione ha avuto probabilmente una grave responsabilità, sia nello scatenamento (particolarmente accentuato negli anni ’70) dei meccanismi di DP, sia nel creare un clima di insicurezza, ovvero di ambizione pericolosa nei circoli politico-mili­ tari degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. In effetti, l’adozione da parte del governo americano del principio della «parity or essential equivalence» strategica fra Urss e Usa (Salt-1, 1972) scardinava un dato stabilito a Jalta, e successivamente ribadito nel corso delle numerose prove di forza della guerra fredda, secondo il quale all’Urss sarebbe toccato sempre di giocare il ruolo di «brillante secondo», mentre agli Stati Uniti (dato lo scarto di potenza allora esistente) sarebbe stato sostanzialmente confermato ogni volta il primato. Il gioco bipolare della «parità» ha dunque liberato le spinte alla «diffusione di potenza», e nel contempo ha. indebolito i pilastri concettuali del sistema bipolare. In Usa, dopo il 1972, è stata pubblicata un’ampia letteratura intesa a convincere gli americani del nuovo stato di cose. Perfino il concetto di interdependence nasce da

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ciò (66). D’altra parte era implicito nell’ideologia della distensione, sia nella versione ufficiale sovietica che in quella americana o europea, che tale processo avrebbe gradualmente e pacificamente smantellato la logica dei due blocchi Oggi gli Stati Uniti, a questo stimolati dall’attivismo della politica estera sovietica dopo il 1975 in diverse aree del mondo, nonché rassicurati dalla semi-alleanza con la Cina, tentano di ribaltare la situazione di quasi-parità raggiunta sul piano militare dai sovietici, per recuperare una posizione di «superiorità-primato» (67). Essa viene enunciata apertamente, sia nella piattaforma elettorale del Partito repubblicano, sia nella linea politica dell’Esecutivo cartellano. Con un rovesciamento di fronte, perfino dottrinario, l’Amministrazione demo­ cratica, nello scorcio di legislatura, ha teso a gettare le basi del riarmo accelerato e complesso degli Stati Uniti, utilizzando in modo massic­ cio e pericoloso tutta la potenzialità tecnologica accumulata. Ma quel che è ancora peggiore è la decisione di non ratificare il trattato Salt-2, e di modificare invece i capisaldi della dottrina strategica generale degli Stati Uniti, adottando una strategia nucleare counterforce (invece che countercity), nonché una linea di risposta nucleare limitata ad attacchi di teatro provenienti da Est, sia pure su scala conven­ zionale. Questa variazione non è tanto grave in quanto modifica il reticolo dei targets (bersagli) delle armi nucleari americane, il cui numero superava già da tempo le esigenze di un «secondo colpo», quanto perché denuncia una pericolosa trasformazione della strategia americana, da «difensiva » a «offensiva» (68).

H nuovo scenario Queste novità di fondo possono essere quindi attribuite all’azione di tre fattori che hanno operato congiuntamente: a) il processo di diffusione di potenza che ha indebolito la capacità di govemo-controllo dei due «poli»; b) il meccanismo della distensione Est-Ovest, che ha reso meno evidente la funzione essenziale dei due «poli» nella gestione del sistema BP; c) la dislocazione dei «pesi« di potenza fia

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Usa e Urss (sul terreno militare), nonché fra Usa e alleati o fra Urss e satelliti (sul terreno politico ed economico), che hanno prodotto la necessità di surriscaldare le reazioni fra i due «poli» nonostante che tale operazione possa risultare molto pericolosa per tutti. Certo è che fra i risultati più evidenti del processo di DP, qualunque sia stata la sua causa, dobbiamo registrare la fine (almeno provvisoria) di quella che P. Jay chiama la «dynamic instability» (69) delle due superpotenze, che opererebbe da contraltare sistemico, necessario a bilanciare la «very static stability» di fondo che il sistema BP tenderebbe per sua natura a raggiungere. Nella tradizione di funzionamento del sistema bipolare, fino alla fine degli anni ’70, infatti, i due «poli» erano costretti «...a guardarsi l’un l’altro come falchi, a negoziare costantemente di giorno per la parità e a complottare incessantemente di notte per i vantaggi strategici» (70). Ma se queste sono le regole basiche di comportamento delle superpotenze in regime bipolare, la situazione di tensione attuale ne ha reso inoperante almeno una, quella del «negoziato costante» fra le parti che, dopo l’Afghanistan è stato praticamente interrotto. Inoltre, la pur ammessa «instabilità dinamica» che definiva l’ambito di mobilità del sistema BP (rispetto alla statica architettura delle alleanze e dei trattati che regolano il grosso della struttura sistematica) tende ad accrescersi pericolosamente in correlazione con l’espandersi del processo di DP. E ciò perché: a) aumentando gli elementi di conflitto diminuiscono quelli di controllo (71), in correlazione con l’accresciuta diffusione di potenza e la diminuita capacità di ovviarvi mediante un più diretto confronto fra Usa e Urss; b) non esiste un set di procedure e regole di crisis management capace di operare in regime di accresciuta DP; c) si corre il rischio di stimolare l’avidità latente delle superpotenze ogni volta che la DP induce eventi che destabilizzano le zone marginali delle alleanze, provocando illusori o reali «vuoti di potenza». Tutto questo favorisce lo sfaldamento dei filtri e dei veli che proteggono le due superpotenze dal confronto diretto, al di fuori degli incontri di vertice o della routine, nelle sedi intemazionali istituzio­ nali. Eccetto alcuni casi, infatti, come nei negoziati per il controllo degli armamenti, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica «si affrontano non faccia a faccia, ma in territori di terze parti» (72). Peraltro, se

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questa delicata geopolitica del confronto (sia di cooperazione che di conflitto) è messa in ulteriore difficoltà dall’uso incontrollato delle quote di potere ottenute dalle «terze parti» (la DP), allora i pericoli di «errata percezione» reciproca dei due Grandi potrebbero certo au­ mentare. Di qui la modificazione dei criteri e delle modalità strategiche che vanno prendendo corpo, nonché le variazioni nell’efficacia dei princìpi della «deterrenza» finora in vigore (73). In questo clima di surriscaldamento delle relazioni strutturali fra i due poli quindi l’uso di concetti come «nazionalismo» e «internazion­ alismo» (universalistico e non bipolare) può contribuire a confondere le acque. Qualora infatti cresca la temperatura del primo in forme sue proprie (anche sotto le specie del fondamentalismo religioso), ovvero si deformi la retorica del secondo, passando da quella occidentalistica della tradizione originaria dell’Onu, a quella terzomondialista dell’Onu di oggi (e del Gruppo dei 77), ecco che ancora una volta saranno proprio i cardini del sistema BP a risentirne (74). Si potrebbe in questo caso passare da una situazione di bipolarismo «stabile» ad una di bipolarismo «instabile», laddove per instabilità s’intenda anzitutto una ragionevole soglia di rischio. In questo caso il problema diventerebbe quello di misurare, ove possibile, il grado di instabilità e di verificare la soglia di rottura delle strutture permanenti del sistema BP (ingegneria degli accordi e delle alleanze) istituite fra il 1940 e il 1945. Nell’ordine, questa verifica può avvenire a livelli diversi: 1) da quello più basso dei conflitti e/o processi destabilizzanti micronazionali all’interno di un singolo paese, ovvero limitati a tensioni nelle relazioni bilaterali fra una coppia di Stati (ed una sola); 2) a quello regionale di teatro o di area vasta; 3) fino a quello globale su scala mondiale che investa direttamente le fondazioni del sistema BP. La cronologia degli interventi diretti o indiretti delle superpotenze in situazioni di crisi, nonché le modalità del loro «controllo», a partire dalla metà degli anni ’60, danno la dimensione del graduale trapasso da episodi di «diffusione di potenza» attinenti al primo e più basso livello di instabilità, ad altri attinenti al gradino superiore e più ampio (regionale e/o di teatro). Ma dalla fine del 1979 l’estrema vulnerabilità dell’area detta dell«arco» dell’Oceano Indiano sembra pronosticare un ulteriore possibile passaggio da un livello di crisi del secondo tipo a

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quelle del terzo, che finora erano occorse solo nel periodo precedente il 1965 (Berlino, Cuba) (75). Già Kenneth Waltz (76) aveva sintetizzato i connotati della stabilità del sistema bipolare nella coppia di concetti «alta tensione-alta stabilità». Altri, come Kosaka (77), scrivendo nel 1976 ritenevano che «i tardi anni ’70 e gli ’80 avrebbero potuto essere caratterizzati da tensioni più basse e da instabilità più alta» (la coppia «più bassa tensione-più alta instabilità»). In effetti, il rischio che corrono oggi (1980) le relazioni intemazionali, e quindi in primo luogo il sistema BP, è quello di andare nel senso di «alta tensione-alta instabilità». Il che comporta un quoziente di pericolosità molto più elevata che nella gran parte degli anni del dopoguerra. I conflitti «regionali», nonostante questo, resteranno tuttavia ancora i più probabili, frequenti e minacciosi. E ciò perché il sistema dell’interdipendenza economica di area, crescente e competitiva, tende a trasformare gradualmente anche i conflitti del primo livello (micro­ nazionali e strettamente bilaterali) in conflitti del secondo tipo (regionali o di teatro) (78). Inoltre, la pericolosità dei conflitti region­ ali è accentuata dal fatto che i processi di DP hanno creato una sorta di «ecologia» delle relazioni intemazionali, una serie cioè di «microam­ bienti regionali» che vanno scalzando le antiche divisioni amministra­ tive coloniali e le tradizionali linee di ripartizione delle aree (79), nonché la loro «colorazione» politica, secondo quanto era andato definendosi dopo il conflitto mondiale (80). Secondo alcuni, come Kosaka, da questa situazione emerge la necessità di «una nuova divisione del lavoro fra le superpotenze e le potenze regionali» (81). Il problema centrale sarebbe dunque quello di mettere in relazione, per la prima volta al di fuori dello schema fisso Usa-Urss, gli interessi e la potenzialità delle superpotenze, delle potenze regionali, nonché gli interessi delle piccole potenze (82). Siffatto interrogativo metodologico e politico trovò una prima risposta operativa, elaborata unilateralmente negli Stati Uniti fin dalla fine degli anni ’60, che prese il nome di «dottrina Nixon» (1969). Dopo lo scacco subito dal fallimento dell’intervento militare diretto americano nel Vietnam, Kissinger (83) disegnò un modello di re­ lazione fra potenze regionali, piccole potenze e superpotenza statu­ nitense, tale da assicurare la sopravvivenza ad uno schema «delega di potenza» da parte di Washington ad alleati sicuri (Iran, ecc.) che si

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facevano garanti in prima persona dell’ordine regionale nell’area di loro spettanza, per conto e con l’aiuto americano. In altri casi, invece, la «dottrina Nixon» riconosceva i diritti acquisiti a qualunque titolo e quindi non consentiva agli Stati Uniti di intervenire negli equilibri, sia interni sia di influenza regionale, di alcuni paesi (potenze medie o anche grandi, ma di area), di orientamento neutrale o perfino contrario (se non ostile) alla linea di condotta statunitense (India, Cina, Egitto, Vietnam, Angola). Questi primi esempi di «delega di potenza» hanno solo parzial­ mente funzionato. Ma al di là dei risultati essi sono stati l’esempio di un tentativo, dettato dalla necessità, da parte di uno dei due «poli», di trasformare qualcosa della struttura del sistema bipolare, e con essa anche le regole dei subsistemi d’alleanza. Si può considerare il 1968 come l’anno-simbolo (Vietnam e Cecoslovacchia) della volontà manifesta delle superpotenze di gestire rigidamente le proprie zone d’influenza, e forse il 1980 come l’anno-test di una rinnovata necessità di condensazione delle alleanze attorno ai due «poli» (embargo americano all’Urss, Iran, Afghanistan, armi eurostrategiche, Polonia). Tuttavia, un’analisi diversificata e ravvicinata delle regional bal­ ances rivela una variopinta molteplicità di situazioni. Talché sembra che né l’approccio «universalistico» delle Nazioni Unite o dei fautori del nuovo ordine intemazionale (84), né quello egemonico-imperiale delle due superpotenze, riescano a dare risposte rassicuranti all’esi­ genza di conflict management che fa da sfondo alle tensioni. La creazione di un «regime» intemazionale basato su necessità funzionali piuttosto che su princìpi universali, ovvero su interessi di «potenza», intesa come unità di misura delle relazioni intemazionali e dei rapporti di forza (85), potrebbe forse evitare, nel breve periodo, l’esplosività di conflitti più drammatici, attraverso la stipula di una semplice normativa di accordo, ma non ne garantirebbe il buon esito nel medio-lungo termine (86). (1981)

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Note l.Cfr. Jay (1980), p. 485. 2.1bidem. 3. Con il termine «struttura» s’intende qui riferirsi, più che alla individuazione di un concetto scientificamente definito, all’assunto pregiudiziale che il sistema intemazionale contemporaneo è retto da un’architettura «generale» data, il BP, nel cui ambito «giocano» sub-sistemi, funzioni, linee di fuga, anche dotate di autonomia, come è il caso del processo di DP. In certo senso, la «struttura» bipolare del mondo appare come il «luogo» deputato alla «politica» delle relazioni intemazionali. Talché essa tende a configurarsi come «sistema aperto» (v. Luhmann in Gozzi, 1980) che riceve e fornisce, in quanto sistema «non-globale», inputs di «potere» dall’ambiente. Cfr. anche Luhmann (1979) e Von Bertalanffy (1968). 4.Cff. Baldwin (1979). Le radici teoriche dell’argomentazione di B. sono quelle attinenti al dibattito sul concetto di «power», inteso come «potere», ma anche, nel sistema delle relazioni intemazionali, come «potenza». Si rimanda, per una rassegna dei testi più significativi sulla questione, a partire dal classico volume di Lasswell e Kaplan (1950), alle note della prima parte del saggio di B. Indipendentemente da ogni altra considerazione ci sembra che il termine «potere» designi meglio, stando allo schema di Luhmann (1979), ma anche di Dahl (1968), Nagel (1968), Knorr (1975), l’esercizio della volontà di un soggetto all’intemo di un «sistema politico» definito come «nazionale» o «subnazionale». In altri termini, con «potere» s’intenderebbe la capacità, da parte di un «sistema politico» (cioè di uno Stato), di «ridurre la complessità» scegliendo alternative di comportamento per altri attraverso una propria decisione. Gli «altri», ovvia­ mente, non possono essere altro che «soggetti» operanti in una sfera che è compresa all’interno del «sistema politico», cioè dello Stato. Con il termine di «potenza», invece, si designa meglio lo stesso concetto di «potere», riferito però a «soggetti» o «attori» operanti all’intemo del «sistema di relazioni intemaziona­ li», e dei subsistemi «regionali». La differenza che intercorre fra i due concetti di «potere» e di «potenza» è quindi evidente. Essa risiede nel fatto che gli «attori» intemazionali, qualsiasi sia il loro grado di «potenza», stabiliranno un reticolo di relazioni sistemiche, nell’intento di «scegliere alternative di comportamento per altri attraverso le proprie decisioni», ma senza essere in grado di esercitare normativamente un «potere» d’autorità, da superiore a inferiore, come accade invece nei «sistemi politici» nazionali da parte dello Stato verso gli altri soggetti. Si userà, dunque, in queste note il termine «potenza» invece che quello di «potere», in quanto l’analisi che ci proponiamo di svolgere ha per oggetto la descrizione dell’interazione e delle linee probabili assunte dal «sistema» delle relazioni intemazionali a partire dalla metà degli anni ’70. 5.Ibidem, pp. 163 e ss. 6. Cfr. Bonanate (1979) e Frankel (1973).

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7. Per un esame dei tratti politico-ideali del«wilsonismo», si rinvia al classico Link (1954), mentre per la verifica storica di quelle posizioni teoriche si veda l’altrettanto noto volume di Mayer (1959). 8. Come guida alla sterminata letteratura sulle origini dell’imperialismo statu­ nitense si rinvia a due testi di Williams (1970) e (1980). Il primo, assai conosciuto, fornisce, insieme con il più famoso Williams (1959). una limpida enunciazione della storiografia «revisionista». Il secondo, invece, è un recentis­ simo saggio che sintetizza decenni di ricerche. Si veda anche l’ampia bibli­ ografia sullo stesso tema curata da Aquarone (1973). 9. Cfr. Santoro (1978), introduzione. 10. Cfr. Deutsch (1968), pp. 47 e ss dell’edizione italiana (Bologna, Il Mulino, 1970). Secondo D„ il «peso» del potere («potenza») è l’«influenza di un attore su qualche processo». Esso è dato da «la misura in cui egli può cambiare la probabilità dell’esito del processo stesso». 11. Cfr- fra gli altri Seton-Watson (1977), e anche Mosse (1974), per le radici culturali e storiche del nazionalismo europeo. 12. Cfr ancora Luhmann (1979). Invertendo la gerarchia di Talcott Parsons, L. premette il concetto di funzione a quello di struttura, mettendo così a fuoco più l’azione dei «sotto-sistemi» che non quella del «sistema» generale. Con qualche acrobazia metodologica, si potrebbe azzardare una comparazione fra «sistema politico» (cui fa capo la sociologia luhmanniana) e «sistema delle relazioni intemazionali». L’analisi delle funzioni, dei processi cioè (come quello di «diffusione di potenza») consentirebbe così di verificare la dinamica dei suoi sotto-sistemi, evitando di attribuire a quell’architettura il carattere di «dato». 13. Cfr. ancora per la definizione di questo concetto ed altri tratti dalla «teoria generale dei sistemi» Von Bertalanffy (1968). 14. Per gli aspetti di teoria e metodo delle «scienze storico-sociali» in generale si vedano Weber (1922) e Veca (1977), mentre per la teoria delle relazioni intemazionali in senso stretto si rimanda ancora a Bonanate (1979) e alla bibliografia in esso contenuta. 15. Sul concetto di assunto «preanalitico» o «nucleo metafisico», ovvero di «punto di vista», si rinvia ancora ai già citati Weber (1922) e Veca (1977). 16. Cfr. di nuovo Deutsch (196). Nel tentativo di definire il concetto di «potere» nelle relazioni intemazionali, D. non utilizza la bipartizione fra «statica» e «dinamica», che richiama per certi versi la distinzione fra «flow» e «stock» nella scienza economica. Tuttavia si sforza di individuare, al di là del molo «simbolico» di «currency» delle relazioni intemazionali assunto dal «potere» («potenza»), tutti i caratteri che esso assume, fra i quali appunto (oltre al già ricordato «peso»), «sfera», «ambito», e «portata». B nostro uso di alcuni di quei concetti s’intende mutuato da D. 17. Cfr. K. Kaplan (1957) pp. 36 e ss. K. è stato il primo studioso a «modellizzare» il sistema di relazioni intemazionali, fra cui il «bipolarismo» che egli definì come «the loose bipolar system». I tratti di questo modello rispondono grosso modo ai tratti del «bipolarismo» così come si è storicamente determinato.

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18. Cfr. Löwenthal (1977), ma anche Duchêne (1977). 19. Per «riduzione orizzontale» delle rispettive zone d’influenza s’intende un restringimento della «sfera» della »potenza» degli Stati leader, nonché la riduzione del «peso» della medesima. Per Deutsch (cit.), da cui traiamo questi concetti, «sfera» del potere rappresenta il gruppo di persone il cui «comporta­ mento probabile» viene mutato in modo significativo dall’impiego del «potere» (p. 53 ed. it.). Per «riduzione verticale» s’intende invece una diminuzione della «portata» e dell’«ambito» di «potenza» degli Stati leader, o di uno di essi. Il concetto di «portata», anch’esso tratto da Deutsch (cit.), si definisce come «la differenza tra la più alta ricompensa (o privilegio) e la peggiore punizione (o privazione) che chi detiene il potere può concedere (o infliggere) a qualcuno compreso nella sua «sfera». Quello di «ambito», invece, si definisce come «l’insieme o il raggrup­ pamento di tutti i tipi le classi particolari di rapporti di comportamento, e le cose che gli sono realmente soggette». V. Deutsch (1968), pp. 59-61 ed. it. 20. Sul problema della «mondializzazione» si veda l’ottimo studio di De Porte (1979), nonché i due numeri di Relations Internationales (Aa.Vv., 1980) dedicati al problema. 21. Cfr. Dobb (1954) e Kula (1962) per l’analisi dei processi di transizione dal feudalesimo al capitalismo. 22. Cfr. Wight (1978) p. 10 e sgg. Il testo di W. - ormai un classico della prima genarazione di teorici delle relazioni intemazionali, con Carr e Morgenthau - è di notevole interesse anche per le considerazioni che svolge in merito ai concetti di «nazionalismo» e «internazionalismo» (pp. 23-40). 23. Ibidem, pp. 12-13, introduzione. 24. Il vecchio libro di AJP. Taylor (1954) è ancora molto convincente nella rappresentazione storica della dinamica del sistema europeo dell’equilibrio fra il 1848 e il 1918. Il taglio è ovviamente storico-diplomatico più che struttural-funzionale. Per il periodo 1919 ad oggi si rinvia alla cronologia di Duroselle (1978). 25. Cfr. Nations Unies (1980). 26. Vedi ancora De Porte (1979), p. 4, e AJ.P. Taylor (1954), cit. 27. Cfr. De Porte (1979). 28. La ricerca di Maier (1975) sui caratteri e l’evoluzione della Francia, Germania e Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, individua chiara­ mente le forze motrici di ordine economico, sociale e istituzionale che stavano dietro alle debolezze del restaurato equilibrio. 29. Sulle funzioni svolte dall’attore nazionale essenziale, definito come l’«equilibratore» ovvero l’«ago della bilancia» si rinvia a M. Kaplan (1957) cit 30. Cfr. Grenville (1974). 31. Su Monaco lo studio più recente e più completo è di T. Taylor (1979). In effetti, il molo svolto dalla Germania nel corso del secolo XX è stato costantemente dirompente nei confronti del meccanismo di funzionamento del sistema delle relazioni intemazionali. Non solo e non tanto per le «responsabilità» che essa si

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è assunta scatenando due guerre mondiali, quanto perché essa, per il fatto stesso di esistere, ha creato problemi insolubili di instabilità in Europa. L’Impero tedesco prima e la Germania nazista poi, con le loro ambizioni di farsi «polo» di un sistema europeo integrato e diretto da Berlino, sono diventati leve di scardinamento del «sistema dell’equilibrio» nel 1914, e successivamente nel 1939. L’effetto principale di questa operazione, nata in funzione dell’egemonia tedesca in Europa, è stato quello di consentire l’ingresso permanente e definitivo nel continente di due potenze extra-europee, come gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Al punto tale che la Germania diventa, dopo il 1918, e con la breve parentesi nazista, l’asse portante della presenza extra-europea (americana e sovietica) in Europa. La Germania, dunque, quando è forte diventa «egemonista» sollecitando la reazione e l’intervento di «attori»non europei sul Vecchio Continente (nel 1917 e poi nel 1941). Quando invece è debole e vinta si fa pedana o testa di ponte permanente delle potenze vincitrici extra-europee (nel 1918 e poi nel 1945). Per la questione tedesca durante la prima guerra mondiale si rinvia a Fischer (1961). Per una sintesi di alto livello della storia germanica negli ultimi cento anni si vedano i volumi di Craig (1978) e di Calleo (1978). Sul ruolo della Germania, nelle sue relazioni con gli Stati Uniti fta il dopoguerra e oggi, si veda Santoro (1979). De Porte (1979) p. 28. A mano a mano che i tempi si allontanano e i fatti si telescopizzano anche le diversità più confliggenti, quelle per le quali sembrava si fossero scatenate le guerre, appaiono all’osservatore odierno quasi modulazioni sopra uno stesso tema. Una comune organizzazione produttiva, politica, sociale e culturale, che Maier (1975) ha definito come «corporata», sembrava che animasse amici ed avversari nel ventennio fra le due guerre. Si guardino ad esempio le politiche sociali rooseveltiane e naziste nel periodo 1933-36, per coglierne le affinità, v. Mason (1977) e L. Gardner (1964). Sotto il profilo delle relazioni intemazionali sembra quasi un concorrere alla formazione del sistema bipolare e alla fine del «sistema dell’equilibrio», cui contribuiscono tutti i paesi belligeranti, alleati e nemici, in singolare «finalismo» storico. Non è da escludere che anche oggi, come quarant’anni or sono, la crisi del sistema bipolare e del suo sistema di alleanze e trattati, scritti e non scritti, nonché l’emergenza di un processo di «diffusione di potenza», abbiano più elementi in comune di quanto non appare. E che le due superpotenze e la disseminazione di potenza non siano che le forme nuove di una fase di trasformazione della morfologia delle relazioni intemazionali analoga a quella intervenuta fra le due guerre. Cfr. Grenville (1974) per il repertorio dei testi degli accordi più significativi, ma anche Clemens (1970), Yergin (1977) e U. S. Department of State (1955). Cfr. Bonanate (1976), passim. Vedi ancora sia Bonanate (1976) cit., sia M. Kaplan (1957) che De Porte (1979) e Young (1980).

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37. Il processo di Dp, in effetti, può essere analizzato anche in termini di teoria dei giochi e/o di strategia del conflitto. Si veda a questo proposito la letteratura che prende le mosse dal volume di Schelling (1960). 38. Per un approfondimento dei caratteri del processo di Dp, nelle sue linee generali, si veda inoltre l’ottimo scritto di Gompert (1977) sui «vincoli» della potenza militare. La distinzione di G. fra «vincoli di potenza» (constraints of power) e «vincoli di forza» (constraints of force) può diventare una chiave interpretativa per comprendere meglio il ventaglio delle forme di Dp. Inoltre, la classificazione in tre categorie dei «vincoli» stessi (che, a contrariis, possono essere altresì definiti come causa/effetto della Dp) arricchisce di sfumature importanti una catalogazione altrimenti troppo schematica. 39. Per una verifica empirica della teoria delle crisi intemazionali si rimanda a Snyder e Diesing (1978), mentre per la più compiuta analisi dell’esperienza statunitense di uso della forza (o minaccia della medesima), come strumento di politica estera, si consulti il volume di Blechman e S. Kaplan (1978). 40. Si preferisce usare qui questo concetto, piuttosto del più noto «equilibrio nucleare», perché accentua il tratto «pacifico» della condizione di stallo atomico e la sua funzione attiva nelle relazioni intemazionali. 41. Sul concetto di «interdipendenza» il dibattito è oggi molto confuso proprio perché non esiste una definizione precisa del termine, né la sua attribuzione disciplinare. L’uso di «interdipendenza» nelle relazioni intemazionali risale probabilmente al «Quarantine Speech» tenuto dal presidente degli Stati Uniti, F.D. Roosevelt il 15 ottobre 1937 a Chicago. Dopo di allora una fitta vegetazione di significati è venuta a coprire i connotati originali di quel termine. In ogni caso il concetto di «interdipendenza asimmetrica» scaturisce dalla presa d’atto di molti studiosi soprattutto americani, che l’interdipendenza non era, come si credeva, un sistema di relazioni per sua natura equilibrato e vantaggioso per tutte le parti in causa. Cfr. su questo punto Waltz (1970) e Keohane e Nye (1977). Per un esame della letteratura sull’interdipendenza si veda Sassoon (1980) e anche Michalak Jr. (1979). 42. Cfr. Business Week (1980), pp. 55 e ss. 43. Sulla «filosofia» dell’«interdipendenza» economica americana il testo più significativo è ancora quello di Cooper (1968). 44. Cfr. Organski e Kugler (1980). 45. Sulle differenze fra «influenza» e «potere» si vedano i due volumi di Knorr (1966) e in particolare Knorr (1975) cit. 46. Un esempio macroscopico di quanto possa diventare importante questo fattore è dato dalla trasformazione delle relazioni di «potenza» in termini geopolitici fra Usa e Urss a seguito della quasi raggiunta «parità» o «equivalenza essenziale» strategico-militare da parte dell’Unione Sovietica. Tutto il sistema di pesi e contrappesi che per decenni aveva mantenuto quasi calmo l’«arco» dell’Oceano Indiano, si è gradualmente decomposto, squilibrando uno dopo l’altro gli assetti dell’intera area. 47. Cfr. Easton (1953, 1971) per le più note definizioni di «sistema» o frame politico.

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48. Il «sistema universale» è definito da M. Kaplan (1957) come «una conseguenza dell’estendersi delle funzioni di un attore universale ad esempio l’Onu in un sistema bipolare flessibile». 49. Cfr. Wight (1978), cit. p. 23. 50. Sul concetto di «prdine» intemazionale si rimanda a Bonanate (1976, 1979) e (1980). Sulla tesi della «primitività» del sistema di relazioni intemazionali si veda Masters (1964). 51. Cfr. Nordlinger (1972). 52. M. Kaplan (1957) elenca quelle che ritiene essere le «regole essenziali» per la conservazione in vita di un sistema intemazionale. Esse sono ovviamente diverse a seconda dei sistemi presi in esame. Cfr. pp. 22-36 del suo testo per le regole del sistema dell’equilibrio (balance ofpower). 53. Vedi ancora Bonanate (1980). 54. Cfr. Pranger e Tahtinen (1979). 55. Cfr. Chubin (1980) per l’Urss, e Blechman e Kaplan (1978) per gli Usa. 56. Cfr. Yergin (1977) cit., Clemens (1970) cit. e inoltre Council on Foreign Relations (1939-1945). 57. Cfr. Fischer (1961) per le «responsabilità» tedesche dopo la prima guerra mondiale, ma anche Mayer (1959) e Speer (1969) per il Processo di Norimberga dopo la seconda. Ma anche i già citati Craig (1978) e Calleo (1978). 58. Cfr. Iss (1980), Sipri (1980) e Rusi (1979) per i dati più recenti sui rapporti di forza Est-Ovest. 59. Cfr. Organski (1980), cit 60. Cfr. Council on Foreign Relations (1939-1945) cit. e in particolare il memoran­ dum P-B13 del 10 novembre 1940. 61. Ibidem. 62. Cfr. M. Kaplan (1957) cit, Young (1968), Rosencrance (1973). 63. Cfr. Kissinger (1977) e 1979). Sulle tesi di K. si veda altresì Santoro (1978 b). 64. Cfr. Windsor (1979) e anche Legevold (1979). 65. Cfr. Waltz (1964) e Aron (1962,1968). 66. In effetti, al di là del pionierismo rooseveltiano, il dibattito sull*«interdipen­ denza» si apre in modo nuovo solo quando gli Stati Uniti cominciano a percepire la instabilità della propria supremazia, anche ideologica, all’interno del mondo occidentale. Si pubblicano volumi che sottolineano questo concetto, come quello di George W. Ball (Diplomacy for A Crowded World), o il reading curato da Richard Rosencrance (America As An Ordinary Country), fino al più recente Hoffmann (1978) che pone la questione in termini alternativi di «Primacy or World Order». 67. Cfr. per alcuni dati sul riarmo statunitense e sulla logica che lo anima, Korb (1979).

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68. Cfr. Buchan (1970) per le linee del dibattito strategico in Occidente alla fine degli anni ’60 e Martin (1979) per la sua trattazione alla fine dello scorso decennio. In ogni caso l’evoluzione dei concetti strategici è stata particolar­ mente rapida in questi ultimi due anni, con rovesciamenti di opinione così bruschi da rendere incerto il quadro generale. Resta però ancora valido, nonostante tutto, il testo di Kahn (1960) sulla guerra termonucleare che ha fatto da sfondo «tecnico» - per così dire - a tutta la filosofia strategica americana degli ultimi venti anni. 69. Cfr. Jay (1979), cit. 70. Ibidem, p. 485. 71. Cfr. Kosaka (1977). 72. Cfr. Jay (1979) cit p. 486. 73. Cfr. International Herald Tribune del 16 agosto 1980. 74. Vedi in particolare, nella documentazione citata, Nations Unies (1980) i testi delle proposte per la «Strategia della terza decade» dei programmi di sviluppo dell’Onu, fra il 1945 e oggi, si vedano i due volumi di Russel del (1958) e (1968). 75. Vedi ancora Blechman e S. Kaplan (1978). 76. Cfr. Waltz (1964) cit. 77. Cfr. Kosaka (1977), citp. 29. 78. Cfr. ancora Sassoon (1980) e relativa bibliografia. 79. Cfr. Calchi Novati (1979). 80. Cfr. Louis (1978). 81. Cfr. Kosaka (1977) e anche Rothstein (1968) i quali, nell’esaminare il comportamento delle «small powers» nel sistema bipolare, fonte potenziale primaria (per questione di numero e per miopia d’ottica intemazionale) di «diffusione di potenza», avevano ben chiaro il concetto che alla radice del funzionamento del BP c’era: a) la volontà e capacità di comando da parte delle superpotenze; b) la necessità e il dovere di obbedire da parte delle piccole potenze. Senza una di queste condizioni il processo di «conflict control» è messo in pericolo. 82. Vedi ancora Kosaka (1977) p. 30. 83. Cfr. Kissinger (1977) p. 30. 84. Si veda ancora il materiale preparatorio per la Sessione speciale dell’Onu («Negoziati globali») Nord-Sud tenutasi a New York nell’agosto-settembre 1980. 85. Un punto di teoria da chiarire resta infine quello di sapere se il fenomeno della DP (nella interpretazione di Gompert) sia determinato da una crescita reale del «potential and actual power» delle potenze minori, se si tratti piuttosto di una pohtica di disgregazione o di indebolimento del «framework» istituzionale, tale da rendere inutilizzabile il «potential power» dei due poli descritto da Baldwin (1979) cit. in misura maggiore che in passato.

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86. In effetti, se come appare evidente, le ragioni dell’attuale processo di DP vanno ricercate, oltre che nelle regole stesse di funzionamento del sistema BP, anche nella gravità dei nuovi fenomeni emergenti, sia a livello economico sia politico-sociale (si veda a questo proposito il testo curato da Hirsch e Gold Thorpe 1978), allora è chiaro che qualsiasi soluzione strettamente legata a fattori «formali» del sistema intemazionale, risulterà insufficiente e provvisoria.

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3. LA GUERRA POSSIBILE

Il tentativo, inaudito e ineffabile, della «guerra possibile» (1), ovvero della «situazione intermedia abnorme» (2) si è realizzato nella prassi con la seconda guerra mondiale e la costituzione del sistemai bipolare. Esso ha avuto l’effetto di unificare (riunire, ricomporre) le diversità (specificità) della guerra classica, nelle sue varianti (che chiameremo «livelli») temporali (storiche: guerra «convenzionale», «assoluta», «totale»), e nelle sue varianti (che chiameremo «forme») spaziali (geopolitiche: «terrestre», «navale», «aerea») (3). Questo dato nuovo ha reso permanente lo stato di «guerra possibile» in senso clausewitziano. In effetti, la «guerra possibile» è oggi in corso come «status» (nel senso di Schmitt (4) in opposizione alla guerra come «azione») in quanto «guerra nucleare (globale) possibile». I vari livelli temporali della guerra sono infatti tutti contemporanea­ mente possibili (5), così come anche possibili sono tutte le forme spaziali della guerra (6). Al limite sono possibili, in questo stato di guerra «parziale» o «atipica», di volta in volta, perfino le varie opzioni della neutralità, in quanto funzione del concetto di guerra (7). La «Formula» (8) di Clausewitz («la guerra non è dunque sola­ mente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi») (9) , che nella seconda guerra mondiale era stata utilizzata ai fini del nuovo concetto di «politica» (10) - mai quindi una identità di guerra e politica ma piuttosto una variabile dipendente di quella da questa e quindi della relazione di questa con la «guerra» fino a confondere i due termini in uno (11) - nel dopoguerra tende a modificarsi (12). Tanto è vero che, mentre Ludendorff (13), l’unico vero teorico della

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totale Krieg, rovesciava il senso della «formula» clausewitziana attribuendo ai militari, in quanto depositari della tecnica più elevata di organizzazione, la gestione della nuova identità fra politica e guerra nella guerra totale (che annullava le differenze fra «combattenti» e «non combattenti»), Hitler dal canto suo accortamente raddrizzava quella inversione concettuale riaffidando alla politica della guerra senza limitazioni (cioè ideologia: e non alla guerra senza politica) il compito di dirigere e decidere (14). Affermando che «ogni soldato deve sentirsi un combattente politico e agire di conseguenza» (15), Hitler non andava tuttavia al di là di una concezione della guerra totale, arricchita dalla consegna di uccidere, addossata ideologicamente ai combattenti, al fine di «vincere» il conflitto. In sostanza il Führer si poneva il problema della fine della guerra totale al momento della vittoria, e quindi della pace che il «regime dei mille anni» (16) avrebbe garantito. L’assetto armistiziale stabilito a Jalta e Potsdam (il sistema bipo­ lare), nonché la presenza deH’arma atomica (17), hanno modificato radicalmente questa tradizione (18). La bomba A diventa contemporaneamente:

a. un’arma «assoluta» che modifica tecnicamente e qualitativamente la guerra futura (19); b. un’arma «speciale» che consente di praticare la guerra (essenzial­ mente come stato di ostilità, ma talvolta anche come azione) in quanto strumento della politica (20), pur senza combatterla mate­ rialmente come guerra totale («olocausto nucleare»).

Il conflitto nucleare «possibile» (qualcosa di più e di diverso dalla guerra totale) (21) tende da un lato a non esplodere in quanto tale perché evoca lo spettro dell’«olocausto nucleare» (struttura bellica nuova i cui effetti sono prevedibili ma incerti), mentre, daH’altro lato, unifica potenzialmente livelli e forme della «guerra possibile» poiché concentra in un solo istante (o in due fasi quasi contemporanee: first strike counterforce, second strike countervalue) (22) tutte le tipologie belliche conosciute (convenzionale, assoluta e totale), nonché le diverse morfologie della strategia e tattica geoterritoriali (terrestre, navale, aerea) (23). Questa contraddizione che è emersa fra il nuovo concetto di olocausto da un lato e quello di pace mondiale dall’altro non ha tuttavia semplificato fino a questo punto il meccanismo di

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relazione tradizionale fra guerra e pace, basato sulla esclusione dell’uno rispetto all’altra (24). Inoltre non ha fatto sparire (ma anzi ha potenziato) quell’incerto terreno «intermedio» fra guerra e pace che si è andato gradualmente organizzando nel dopoguerra con la evoluzione operativa del concetto di «deterrenza» strategica (25). E’ subentrata cioè una concezione da guerra «difensiva» e insieme «di posizione» in senso stretto, un assedio reciproco e bilaterale dei due imperi, permanente e inestricabile (26). I vantaggi e i guadagni di posizione di una Superpotenza sono dovuti, ad una prima lettura che vede in questo modello i tratti di un «gioco a somma zero», alle debolezze, disattenzioni o calcoli errati dell’altra (27). Una più attenta ricognizione permette invece di mettere in luce altre opzioni, dal gioco di conflitto-cooperazione alla gamma dei «giochi a somma non-zero» (28). Peraltro, questo sforzo massimo di concentrazione di potenza (tensione) nella istantaneità del conflitto nucleare possibile non si è sovrapposto, annullandolo, alla tradizionale compartimentazione delle forme spaziali-tecniche dei livelli temporali-quantitativi della guerra, come invece la scoperta di una modalità conflittuale originale poteva far supporre. La concentrazione della «guerra possibile» ha invece esaltato, unificandole e modulandole al tempo stesso, quelle suddivisioni tradizionali (29). La strategia dell’olocausto nucleare combina infatti insieme elementi dei tre livelli e forme (30). La panoplia nucleare delle Superpotenze nel sistema bipolare (BP) delle relazioni intemazionali discende pedissequamente dalle forme della guerra spaziale-tecnica (la Triade: ICBM, SSBN, bombardieri) (31) che, sia nella versione americana più recente (con la bomba N che restringe le differenze fra guerra nucleare e convenzionale) (32), sia nella concezione sovietica (assegnazione di armi atomiche tattiche a livello di reggimento) (33), si propone il recupero dei tre più graduati livelli storico-temporali (convenzionale, limitata nucleare, scambio strategico) (34). Si delinea quindi quella situazione che Virilio ha così definito: «Il redonne du lisse à l’issue du strié» (35). Restituisce cioè dell’indivisi­ bilità (du lisse), sommando le parti componibili dello spazio, al definibile e delimitabile (l’issue du strié), e in ciò che Deleuze e Guattari chiamano «il globale relativo» (36). Esiste però una differen­

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za considerevole rispetto al passato. Essa è determinata dal fatto che la strategia nucleare contemporanea (37) è basata sull’ipotesi che il conflitto non esploda perché il principio della «Mutual Assured Distraction» (Mad) funge da deterrente permanente (38).

Il principio della deterrenza/dissuasione (in grado di denotare sia la situazione di «equilibrio del terrore» sia la prassi della «diplomazia della violenza») (39), che sostituisce ormai il concetto di pace (non però quello di «equilibrio e/o stabilità») (40), nonché quello di vittoria/sconfitta attraverso la incorporazione deü’hostis vinto (41), è alimentato da due diverse matrici culturali. Da una parte, la deterrenza/dissuasione ha l’aspirazione, peren­ nemente delusa, di raggiungere la «stabilità», termine questo che rimpiazza - dice Aron (42) - quello di «equilibrio» (43). Essa è figlia delle teorie geopolitiche «oceaniche» di scuola anglosassone (da Mahan a Corbett, a Spykman, fino a Colin S. Gray) (44). Come tale essa fa dominare, nel contesto simbolico fra spazio liscio (il mare, il deserto, il nomadico, l’indistinguibile) e lo spazio striato (le costa, le foreste, l’agricoltura, le frontiere, gli insediamenti, lo stanziale, il divisibile), lo spazio liscio (45). Il mare - scrive Virilio - «sera le lieu du fleet in being où l’on ne va plus d’un point quelconque» (46). Lo status della «nuclearità» si misura dunque su questa valenza «oceanica» e nomade (47), da fleet in being, sullo spazio liquido (o aereo). Diventa cioè «un vecteur de déterritorialisation et mouvement perpétuel» che «au lieu de strier l’espace, l’oc­ cupe» (48). In sostanza, l’«oceanismo» del concetto di dissuasione è uno stimolo permanente all’espansione calcolata e misurata dell’industria degli armamenti, il cui tasso di crescita espansiva sarà dovuto a tre sole cause: a) obsolescenza rispetto allo sviluppo tecnologico dei sistemi d’arma avversari; b) modifica della dottrina strategica; c) percezione di un rafforzamento del potenziale nemico (49).

Ma questa «machine de guerre» mondiale (50), così storicamente determinata, frutto della vittoria americana nel 1945, potenza «oceani­ ca» per eccellenza dopo la Gran Bretagna (51), e della sua supre­

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mazia, è stata costretta a subire qualcosa anche dalla cultura dei «vinti» (la Germania nazista) e dei nuovi «nemici» (l’Urss). E’ infatti vero che il sommergibile strategico nucleare (SSBN) delle classi Poseidon e Trident non ha bisogno di recarsi da qualche parte. «Si contenta di tenere il mare, di restare invisibile» (52). Tuttavia, la deterrenza!dissuasione deve fare ancora i conti con il vecchio concet­ to «terrestre» clausewitziano (e poi di von Schlieffen) del Vernich­ tungsgedanke (dottrina dell’annientamento) e della relativa Vernich­ tungsschlacht (battaglia dell’annientamento) (53), che ritroviamo in blocco nella teoria strategica americana postbellica della «massive retaliation» (54), nel Mad (55) e, finalmente, nella «cultura dell’olo­ causto» (56), termine tratto dalla tradizione giudaica la cui evitabilità, continuamente messa alla prova e costantemente aggiornata, è l’unico elemento mobile di un corrusco quadro di guerra non guerreggiata permanente. In questo ambito di «evaporazione» della pace nella «guerra possibile» (e che guerra!), il fine della guerra (cioè la pace in quanto capacità di far fare all’avversario - nelle due forme della deterrenza o della compellenza (57) - ciò che si vuole) diventa qualcosa che si può ottenere almeno parzialmente solo a patto di evitare la «guerra nucleare» (o di vincerla senza troppi danni) (58). Alla pace, quindi, intesa come fine politico della guerra si sostitu­ isce la guerra il (gioco) della deterrenza/dissuasione, come fine politico (cornice) della «guerra possibile», non guerreggiata attiva­ mente. Tale condizione di stallo, che è continuazione ininterrotta (ma non soluzione) del conflitto, diventa (o funziona da) valvola di scarico bellico nella forma statica della «guerra fredda», della pace (appa­ rente) del sistema bipolare (59). Essa si trasforma in mezzo tecnico di gioco, quindi in mezzo per il fine di giocare, allo scopo di consentire la sopravvivenza di un sistema di relazioni intemazionali per natura instabile come è quello bipolare (BP), altrimenti destinato a risolversi nel reciproco Vernichtungsschlacht, a conclusione di una lunga rincorsa di armamenti e di preparazione (60). Preméssa e condizione dello statuto di «guerra nucleare possibile» è stata dunque per 35 anni la esistenza di un sistema (struttura) delle relazioni internazionali di tipo BP (61). La concentrazione di potenza e di funzioni nei due poli del sistema

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BP ha fatto sì che fosse applicabile (a differenza del sistema dell’«Equilibrio» (E) che lo aveva preceduto) (62) un modello di teoria dei giochi a due giocatori, anche all’analisi delle procedure «rinnovabili» (non giuridiche) di conflitto (63). Quando però, dopo il 1973, si è ridotto il livello di «polarizzazione» (64), inteso come l’insieme dei dati che prospettano dinamicamente la direzione l’ampiezza delle interazioni delle unità «polari» e «non polari» (detto: «indice di polarizzazione»: PZ) (65), allora anche il grado di contrazione di potenza ai due poli del sistema BP ha per forza di cose subito una concentrazione (66). L’indice di polarizzazione (PZ), che è metodo di misurazione più generale della condensazione di potenza (67) ai poli, nell’analisi del sistema bipolare postbellico diventa l’«indice di bipolarizzazione (BPZ) (68). Questo concetto sistemico, usato da Rapkin e altri, esamina partitamente le relazioni «interblocco» (cioè fra i due poli) per misurare il livello di conflitto, e quelle «intrablocco» (all’interno dello stesso polo) per misurare il livello di coesione/cooperazione raggiunto. Talché l’indice ricavato sarà BPZ = (Conflitto interblocco + Conflitto intrablocco + Cooperazione interblocco + Cooperazione intrablocco)/2 (diviso due) (69). La strategia della «guerra nucleare possibile», e quindi le forme della deterrenza/dissuasione, seguono costantemente l’andamento dell’indice BPZ (dato che l’indice di bipolarità - BPL - non è ovviamente in discussione) (70). Tale indice BPL, con un angolo di misurazione da 0 a 1, registra però trasformazioni di tipo strutturale qualora il parametro di bipolarizzazione (BPZ) passi da valori superiori allo 0,5 a valori inferiori (71). Secondo l’analisi empirico-quantitativa condotta da Rapkin, l’in­ dice BPZ, fra il 1948 ed il 1973, ha registrato una costante dimin­ uzione, passando dallo 0,891 allo 0,436 (72). La soglia dello 0,5 è stata quindi varcata. Ciò ha comportato una mutazione strutturale (una diminuzione) anche nell’«indice (non calcolato) di concentrazione di potenza» (CP) (73) che è lo strumento di misura teorico, da noi suggerito, per la «guerra nucleare possibile», il sistema di deterrenza/dissuasione, nonché le strategie sovietico-americane (74). Nel linguaggio dell’analisi politica ravvicinata, tale indice potrebbe essere utilmente impiegato alla valutazione dei processi di «Diffu­

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sione/dispersione di potenza» (DP) (75). La proliferazione dei fenomeni DP rappresenta forse il primo attentato strutturale al sistema BP, e quindi anche alla sopravvivenza della «guerra nucleare possi­ bile» di cui qui si argomenta (76).

All’origine dell’indebolimento dell’indice BPZ, e correlativamente di quello di «concentrazione di potenza» (tensione) CP, possono esservi state ragioni diverse. Non ci interessa in questa sede di esaminare quelle possibili concause che esulano da una analisi sistematica. Assumiamo dunque una sola di esse, per il fatto che essa sola appartiene, anche tipologicamente, alla stessa famiglia con­ cettuale del sistema BP, vale a dire il fenomeno, relativamente recente, della distensione (77). Questo termine esprime implicitamente, come anche l’analogo concetto di «interdipendenza» (78), una valenza «contrattualistico-operativa», in opposizione al termine di «deterrenza», che esprime invece una carica «conflittuale/opposizionale» (79). Storicamente il processo di distensione è nato con i tratti di un atto politico complesso che si è poi sostanziato in un progetto negoziale molto elaborato fra le due Superpotenze (80), metodologicamente precisato dai due partners attraverso la individuazione di «regole» (non scritte), cui si diede anzitutto il nome convenzionale di «arms control», e che soprattutto come tale si è parzialmente realizzato (81). Il processo di distensione aveva invece, nelle intenzioni di alcuni, fra cui Kissinger e i sovietici, la strategica ambizione di razionalizzare lo stallo nucleare, trasformandone la «stabilità» precaria dovuta alla dissuasione, in «equilibrio» stabile dovuto ad una nuova lettura reciproca della «diplomazia della violenza» (82). Articolata sul principio sperimentale e procedurale del crisis management (83), nonché sul già menzionato principio in evoluzione costante del «controllo degli armamenti» nucleari (prima strategici poi di teatro) e convenzionali (negoziati Mbfr, ecc.), la distensione tendeva a ridurre oggettivamente la validità e la credibilità del Mad (84). Comportava cioè la crisi di quella situazione - come scriveva Aron «in cui i duellanti sono imperiosamente incitati a non utilizzare le loro armi perché entrambi detengono la capacità di distruggersi a

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vicenda e non possiedono, né l’uno né l’altro, le capacità di disarmar­ si» (85). Ma una siffatta condizione, basata sulla stabilità «a livello superiore delle anni nucleari, riduce logicamente la stabilità al livello inferiore: in uno schema i due duellanti temono meno l’impiego delle armi classiche poiché ne conoscono meglio le conseguenze, per l’uno e per l’altn>, che non il ricorso alle armi nucleari» (86). La distensione, presentata quindi come una operazione di disin­ nesco dei conflitti e delle tensioni intemazionali, da un lato ha diminuito le opportunità di esplosione del conflitto diretto fra le Superpotenze in forma di «colpo d’annientamento» (Vernichtunsschlacht), ma ha ridotto nello stesso tempo anche la credibilità della deterrenza reciproca ai livelli di conflitto più bassi, aprendo il varco alla «diffusione di potenza» (DP), provocata dall’insorgere di micro e medio conflitti più tradizionali, sia indirettamente tra le Superpotenze, sia autonomamente ria attori intemazionali minori, in aree e regioni periferiche oppure meno controllate (87). La distensione ha diminuito, cioè, la «concentrazione di potenza» e di decisione della «guerra nucleare possibile». Ha dislocato di nuovo (almeno in parte) i tre livelli e le tre forme di conflitto, restituendo a ciascuno di essi uno spazio di manovra e di dispiegamento politi­ co-militare che offusca sensibilmente le capacità di comando-controllo complessivo delle due Superpotenze sul sistema intemazionale. Si sino così accentuati fenomeni di DP all’intemo dei due subsiste­ mi (occidentale e orientale), attraverso la costituzione di «centri di potenza», regionali o di area, parzialmente liberi da condizionamenti di blocco (88). Questo esito del processo di distensione è stato però anche il segnale della sua relativa incapacità «comunicativa» (89). Nel senso che la riduzione della distensione alle sole trattative per il controllo degli armamenti strategici (Salt I e II) (90) ha circoscritto il campo di espansione ad essa destinato, relegandola nell’ambito di una limitata, segreta e tecnica confrontazione delle Superpotenze su temi apparentemente astratti o poco noti (91). > In effetti, la distensione muoveva concettualmente dall’ipotesi che al controllo degli armamenti si sarebbe accompagnata quella varietà della teoria dei giochi, già ricordata, fondata sulla possibilità di applicare i «giochi a Somma non-zero» (diversi da zero: cioè di conflitto/cooperazione) fina i due poli del sistema BP (92).

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In sostanza, la distensione avrebbe dovuto funzionare come metodo di interazione fra i due poli per accentuare la «concentrazione di potenza» nelle loro mani, allargandone l’ambito ad issues non previste nella prima fase della «guerra possibile», quella della «guerra fredda», e quindi rendere permanente l’interdipendenza reciproca moltiplican­ done i legami (93). Una persistente concezione contrattualistica (anglosassone) faceva da sfondo anche a questa ipotesi, cui i Sovietici avevano dato spazio per motivi diversi (legittimazione occidentale delle frontiere postbel­ liche e del ruolo globale sovietico (94), equivalenza negli armamenti strategici (95), esigenze economico-tecnologiche) (96). Il risultato ottimale sarebbe stato quello di una riconosciuta ostilità regolata (97) in cui la «conflittualità interblocco» avrebbe funzionato da deterrente simbolico per le rispettive zone di influenza, mentre la «cooperazione interblocco» avrebbe accresciuto le distanze di potenza fra le Superpotenze da un lato ed i relativi sistemi d’alleanza «intrablocco» dall’altro (98). Questa combinazione sottostimava però il fatto che la deconcen­ trazione delle funzioni di guerra e di potenza, derivanti dalla disten­ sione militare (e geopolitica) (99) fra le due Superpotenze, avrebbe creato difficoltà crescenti sia politiche che militari nel crisis manage­ ment in quanto i tempi di reazione dei due leader di blocco, non stimolati dall’acutezza della minaccia diretta, ma anzi resi cauti dal timore di interrompere l’idillio distensivo, si sarebbero rivelati più lunghi e le misure adottate meno efficaci del previsto (100). Questo stato di cose ha indotto nelle Superpotenze vincoli e comportamenti sempre meno riconducibili al conflitto centralizzato (e governato) dalle due potenze maggiori (101). Piccoli focolai secondari, lasciati lievitare senza intervento, oppure alimentati unilateralmente da questa o quella Superpotenza, si sono gradualmente trasformati in cancri di area tali da obbligare (questa è la novità strutturale maggiore) Usa e Urss a prendere posizione su terreni già dissodati da altri e secondo modalità imprevedibili, sovente incontrollabili, se non a patto di gravi rischi e/o sacrifici politici (102). La distensione secondo Washington e Mosca, più ancora della deterrenza - questo è il punto di novità - aspirava erroneamente all’obiettivo della «neutralizzazione» della politica nelle relazioni intemazionali (103).

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In effetti, il fenomeno del «bipolarismo» e della logica guerresca che ne deriva (la «guerra possibile»), può essere rappresentato anche in termini «schmittiani», per assonanza di termini più che per analogia di concetti, come un’operazione di «neutralizzazione» (104) della «politica» nelle relazioni intemazionali che, secondo Miglio (105) sono ancora quelle, tradizionali e multipolari, del sistema detto dell’«Equilibrio» (balance of power) (106) di ottocentesca memoria, in cui il problema della «sovranità» acquisiva, giuridicisticamente, una funzione di validazione dell’identità degli attori (107). Il sistema BP, in realtà, - e Miglio lo ha messo in luce - nonché il processo di BPZ che ne costituisce il fondamento attivo e dinamico, aspirava quasi naturalmente e fin dal momento della sua fondazione storica e concettuale, alla massima «neutralizzazione» possibile della politica, attraverso la architettura di un «ordine mondiale» (world order) (108) che ponesse fine, illuministicamente e «americanamente» - si potrebbe aggiungere, da Wilson in poi - ai conflitti intemazionali (109). Questo obiettivo non fu raggiunto alla fine della seconda guerra mondiale perché i progetti ideologici (non politici) delle due Superpotenze, entrambi mondialistici (o «universalistici»: ciascuno nel suo proprio «ordine» del discorso) (110) contrastavano violentemente l’uno rispetto all’altro, e quindi erano destinati entrambi a fallire (111)

Tuttavia, la «guerra nucleare possibile» compensò grosso modo l’assenza di un «governo mondiale», neutrale perché dotato di poteri sovrani e sovranazionali, attraverso la istituzione di una struttura semi-permanente, un vero e proprio «potere straordinario», basata sul «contratto nucleare», silenziosamente stabilito fra Usa e Urss (112). L’interazione fra sistema BP e processi crescenti di diffusione/dispersione di potenza (DP) sono ormai diventati la forma intemazionale della «guerra civile mondiale» schmittiana (113) che si manifesta sotto le spoglie della «guerra politica esterna e interna» fra gli attori intemazionali in una comice di pace presunta (la guerra possibile), e nell’intento di conquistare alleati, ovvero nel timore di perderne (114). E ciò perché gli avvenimenti dal 1973 in poi hanno gradualmente liquidato i connotati di stabilità del sistema basato sulla «guerra possibile» (115).

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La crisi della «Mutual Assured Distinction» (Mad), ad esempio, risvolto sistemico-militare della stabilità bipolare politico-diplomatica (116), appare sempre più come crisi della neutralità e della pace presunta, accentuando nel processo di revisione delle dottrine strate­ giche oggi in corso negli Stati Uniti (e forse anche nell’Urss), i rischi di conversione della «guerra nucleare possibile», in «guerra nucleare» (117) tout court. L’estremo dinamismo della «bilancia nucleare» Est-Ovest, (118) in questa fase storica, è un ulteriore segnale di crisi del sistema BP e per giunta della codificazione delle regole di conflitto (119). Queste riflessioni inducono a porre il quesito su quale ampiezza di scala (a che livello-tempo e forma-spazio) il pericolo della «guerra reale» oggi si presenti. Per rispondere a questa domanda occorre stabilire analiticamente il rapporto di interazione e di vincolo reciproco esistente fra:

a. sviluppo tecnologico dei sistemi d’arma strategici; b. dottrine strategiche e tattiche delle Superpotenze; c. qualità e temi del conflitto diplomatico bipolare in rapporto ai processi di DP.

Donald Snow e Laurence Freedman, che hanno studiato recente­ mente questo problema, passando in rassegna le principali opzioni e dottrine del pensiero strategico oggi in via di revisione (120), ripren­ dono alcuni motivi clausewitziani, mettendo in luce che «the kind of deterrent strategy a country would like to follow will dictate certain on weapons development» (121). Il quesito è dunque il seguente: è la «politica della guerra» (cioè la strategia) a dettare le condizioni della «guerra possibile» (armamenti intesi come deterrente) (122)? Oppure è vero il contrario? Prosegue Snow: «At the same time the availability of certain weapons technologies may allow or force a country to adopt certain doctrines» (123). D’altra parte, però, «A third and somewhat related phenomenon occurs when technology accidentally produces a weapons innovation for which doctrinal justification must be fashioned after the fact» (124).

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Si avrebbe cioè un fenomeno assai complesso di interazione e di retroazione fra innovazione negli armamenti ed evoluzione della dottrina strategica, un rapporto cioè di interdipendenza, cui lo stesso Clausewitz esplicitamente si richiamava quando sosteneva che «la lotta ha determinato la natura deH’armamento e dell’equipaggiamento; questi modificano a loro volta la lotta; vi è dunque interdipendenza fra detti elementi» (125). Tornando così all’assunto che ci siamo posti all’inizio, la «preparazione» della «guerra possibile» (dal secondo dopoguerra ad oggi) è forse qualcosa di diverso dal combattimento/lotta di cui parlava Clausewitz? (126) Non sembrerebbe. Lo stesso Clausewitz, infatti (127), accenna alla eventualità di «combattimenti possibili», che nel nostro caso sareb­ bero la deterrenza e gli spiegamenti, anche verbali, delle forze, oltre alla permanente e diffusa microconflittualità indiretta. Egli dice testualmente: «... la semplice possibilità che avvenga il combattimento ha prodotto conseguenze: e perciò stesso è divenuto cosa reale...» (128). In effetti, la tensione permanente, gli scontri per interposta persona o per delega, e la «bilancia del terrore» non sono solo una preparazione alla guerra, ma in quanto «guerra possibile» (con modalità specifiche) (129), produttrice di conseguenze politiche e di spostamenti nei «pesi» di potenza (130), diventano una vera e propria «guerra reale». La deterrenza non va quindi interpretata solo come un concetto negativo, come un peace-game che si vince a patto di non compiere azioni (cioè di non vincere), ribaltando le regole e le mosse del war-games tradizionali (131). Essi possono essere bensì consider­ ate come un’azione bellica vera e propria, con gli stessi scopi (politici) della guerra reale (costringere/persuadere l’avversario a fare o non fare ciò che si vuole) (132), gli stessi mezzi (armi, strategie, tattiche, preparazione, spiegamento, offensiva e difensiva), inclusa eventual­ mente la «guerra reale», limitata però, come dottrina della «risposta flessibile» (133), valida sia per la «guerra possibile» sia per quella «reale». La teoria della guerra nucleare limitata, teorizzata da Kissinger fin dal 1957 (134), comincia oggi a diventare l’estrema frontiera della «guerra possibile», ipoteticamente praticabile per evitare la «guerra reale», intesa come «scambio strategico», cioè come olocausto (135).

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In un recente studio ufficiale dell’Amministrazione americana (136) sugli effetti della «guerra nucleare», un intero capitolo è infatti dedicato alla spiegazione dettagliata e tutorial (pedagogica) degli effetti che avrebbe lo scoppio di un ordigno nucleare su Detroit e di uno su Leningrado: un tipico caso di «guerra nucleare limitata». E’ un documento questo di notevole significato euristico e simbolico. Esso esamina infatti le diverse opzioni potenziali (inclusa la nuova elabo­ razione dottrinaria statunitense, in fase di perfezionamento tecnico e di discussione politica a Washington, sulla trasformazione del dispositi­ vo strategico americano dal principio controcittà a quello controforza nell’ipotesi di uno scambio strategico) (137), che la guerra possibile aveva invece concentrato e ristretto nel concetto, che ora sembra essere stato rimosso, di «olocausto» (138). Anche questo documento può essere dunque letto come un ulteriore segnale delle conseguenze potenziali provocate dal logoramento concettuale della «guerra possibile» e della sua cornice istituzionale (il sistema BP). Ci si allontana daH’orrore, implicito nel concetto e nella dottrina del Mad, cardine della «guerra possibile» nella sua fase più evoluta e della «deterrenza» postbellica, per un ritorno al più tradizionale metodo di misurazione della pace in termini di vittoria/sconfitta (139). Lo schema strutturale del sistema intemazionale che ha governato il mondo dal 1945 in poi si sta forse sfaldando. Quali sono a questo punto gli scenari rimasti? (1982)

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Note

1. Clausewitz (132-34,1942 ed. it.), p. 179. 2. Schmitt (1932,1934,1958,1963,1968,1972 ed. it), p. 198. 3. Per un’ampia disamina del concetto di «guerra classica» e delle sue varianti spaziali e temporali si vedano Earle (1943) e Lidell Hart (1954). 4. Schmitt (1972 ed. it),p. 193. 5. Cfr. Blechman e Kaplan (1978) e Kaplan (1981). 6. Ibidem. 7. Schmitt (1972 ed. it), p. 202. 8. Aron (1976), voi. I,p. 169. 9. Clausewitz (1942 ed. it), p. 38. 10. Cfr. Easton (1953,1963, ed. it.) per la definizione di «sistema politico». 11. Cfr. Tronti (1981). 12. La identificazione totale di guerra e politica nel corso della seconda guerra mondiale non è né credibile né praticabile. Infatti la permanenza di zone o aree di pace faceva sì che anche la «totalità» geografica della guerra restasse un concetto relativo. 13. Cfr. Ludendorff (1935). 14. Hitler (1925); vedi anche Baldwin (1981), p. 11. 15. Hitler (1925), parte II, cap. 9. 16. Ivi. 17. Sugli effetti politici della bomba atomica si rimanda ai testi di Alperowitz (1965, 1966 ed. it), Blackett (1948,1949 ed. it) ed al più recente Mandelbaum (1979). Si veda pure Virilio (1976). 18. Per la determinazione e la discussione delle modifiche apportate dall’arma nucleare alla tradizione ed allo stesso ruolo del militare si rimanda ad Huntington (1957), a Perlmutter (1977), ed infine a Miglio (1981b) per la questione della «professionalità» della guerra. 19. Vedi i concetti di «arma assoluta» in relazione a «guerra assoluta» in Pieri (1955). 20. Per il concetto di «diplomazia totale» e «new diplomacy» si veda Bacchus (1974), p. 4 nota. 21. Sulla guerra totale vedi anche Calvocoressi e Wint (1972,1980 ed. it). 22. Per le dottrine strategiche americana e sovietica sulla dinamica dello scambio nucleare strategico si veda Freedman (1981). 23. A questo proposito si vedano le analisi geopolitiche e geostrategiche contenute in Gray (1977). 24. Cfr. Bobbio (1966), Aron (1962,1968; 1970 ed. iL) e Carr (1939,1946II ed.). 25. Le tappe principali di questa evoluzione sono state scandite dagli scritti ormai classici di Wohlstetter (1959), Kahn (1960), Schelling (1960) e (1966,1969 ed. it) e Boulding (1962). Per una panoramica generale ed una discussione critica della produzione di questi analisti si veda, in italiano, Bonanate (1972).

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26. Al tema della «guerra difensiva» è dedicato tutto il libro VI del Vom Kriege. Si veda anche Virilio (1976), pp. 146-47. 27. Una delle più complete ed accurate presentazioni della teoria dei giochi nel suo complesso si trova in Luce e Raiffa (1957). 28. Per la discussione delle differenti capacità euristiche dei «giochi a somma zero» e dei «giochi a somma non-zero» si rimanda alle pp. 81-172 di Schelling (I960), significativamente intitolate A Reorientation of Game Theory. 29. Per alcuni esempi di evoluzione generativa di nuovi sistemi d’arma si veda Burt (1976). 30. Le fonti principali europee circa i livelli (qualitativi e quantitativi) di armamento nel mondo, e le linee di evoluzione dei diversi sistemi d’arma sono le pubblicazioni annuali dello «Stockolm International Peace Research Institute» (Sipri Yearbook on World Armament and Disarmament) e del londinese «International Institute for Strategic Studies» (The Military Balance e Strategic Survey). 31. La «Triade» strategica nucleare è composta di ICBM (Inter-Continental Ballis­ tic Missiles), SSBN (Submarine Launched Ballistic Missiles) e Bombardieri (B-52 e B-1B con bombe termonucleari). 32. Per una presentazione tecnica di questa arma ed una discussione dei suoi effetti politico-strategici si vedano, in italiano, F. Kaplan (1980) e Di Pasquantonio (1980). 33. Cfr. Erickson (1978). 34. Si può fare partire dal libro di Kissinger (1957a) - espressione di una ricerca sulle prospettive strategiche patrocinata dal Council of Foreign Relations - il dibattito sulla cosiddetta «guerra (nucleare) limitata». Questo concetto troverà diverse interpretazioni. Ricordiamo per tutte quelle contenute nei già citati Schelling (1960) e (1966) e in Halperin (1966), fino al tentativo di sistematiz­ zazione operato da Kahn (1964) attraverso il concetto di «Escalation». E’ da rilevare comunque che questo dibattito ha influenzato direttamente la elabo­ razione della dottrina strategica della «flexible response», che soppianta definitivamente, nel 1967, la vecchia dottrina della «massive retaliation» all’epoca dell’avvento di Me Namara al Ministero della Difesa. [Cfr. Kaufman (1964)]. 35. Virilio (1977), citato in Deleuze e Guattari (1980), p. 481. 36. Deleuze e Guattari (1980), p. 474. 37. Fino ad ora: vedi Snow (1979), p. 445. 38. Si veda il dibattito sul Mad fra il 1975 ed il 1981 nelle riviste Foreign Affairs e Foreign Policy, nonché in International Security, Survival ed Adelphi Papers. 39. Schelling (1966,1968 ed. it.), cap. 1. 40. Cfr. Miglio (1981a). 4L Cfr.Bonanate (1972), pp. 23-24. 42. Aron (1976), vol. Il, p. 149.

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43. Per una analisi del significato e del ruolo del concetto di «equilibrio» nell’ambito delle teorie delle relazioni intemazionali si rimanda a Bonanate (1974). 44. Per i titoli delle opere principali di questi autori cfr. bibliografia annessa, mentre si rimanda a Kristof (1960) per una rassegna del dibattito geopolitico dalle origini agli anni ’50 ed una buona bibliografia sull’argomento. 45. Deleuze e Guattari (1980), cit. 46. Virilio (1977) cit. in Deleuze e Guattari (1980), p. 481, ma anche gli scritti di Mahan e Mackinder. 47. Deleuze e Guattari (1980), p. 481. 48. Ivi. 49. Mahan, Mackinder e Virilio (1976) p. 102, ma anche Ruge (1955). 50. Deleuze e Guattari (1980), cap. 12, p. 434 e sgg. 51. Anche il pensiero geopolitico anglosassone del Novecento segue la linea della «successione necessaria» degli Stati Uniti alla Gran Bretagna, attraverso l’opéra di Mackinder prima e di Spykman successivamente. 52. Virilio (1977), pp. 46-49. 53. Clausewitz (1942 ed. it.), libro IV («Il combattimento»). La Vernichtungsstrate­ gie detta anche Niederwerfassungsstrategie strategia dell’annientamento) si accompagna alla Ermattungsstrategie (strategia d’usura) che ne rappresenta una forma particolare. Per il dibattito strategico sulle «due strategie» avviato da Delbrück nel 1878 si rimanda ad Aron (1976), vol. I, p. 123. 54. Si ricordi che la dottrina della «risposta o rappresaglia massiccia», elaborata durante I’amministrazione Truman, e poi perfezionata durante quella Eisenhow­ er, lasciò il posto a quella della «flexible response» quando il governo della politica di difesa passò nelle mani di J.F. Kennedy e di R. Me Namara. 55. Il Mad (Mutual Assured Distinction) indica un livello degli arsenali atomici delle due Superpotenze tale da provocare, se impiegato in uno scambio strategico nucleare, danni insostenibili ad entrambi. 56. Vedi l’uso di questa locuzione in autori come Blackett (1948) ed Alperowitz (1965). 57. Schelling (1966, 1968 ed. it), pp. 195 ss. "Risky behavior and «compellent» threats". 58. I capp. 9 e 10 del classico volume di Schelling (1960) relativi a «The Reciprocal Fear of Surprise Attack» ed a «Surprise Attack and Desarmament», nonostante siano modellati sulla situazione esistente nel 1960, rappresentano ancora uno sforzo teorico insuperato. 59. Si potrebbe azzardare l’ipotesi che la «guerra fredda» sia in ultima istanza una forma di guerra, non solo per le ragioni che abbiamo esposto, relative ai caratteri particolari della «guerra possibile», ma che si faccia «guerra possibile» proprio in quanto-versione aggiornata della Ermattungsstrategie, cioè della strategia d’usura un tempo praticata da potenze in conflitto aperto fra loro. L’usura può essere intesa in diversi modi. Anzitutto in termini reali come impiego di risorse a scopi bellici e di riarmo e quindi a detrimento di investimenti e consumi e

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sviluppo di paesi e classi sociali in tutto il mondo. Poi, come mezzo per logorare l’immagine e la credibilità dell’altra Superpotenza, il cui prolungato stato di allerta e di guardia induce un clima di sofferenza nelle rispettive aree di influenza. Non è casuale, a nostro avviso, che in più occasioni sia gli Americani sia i Sovietici abbiano pronosticato la disgregazione politica, culturale, sociale od economica dell’impero avversario. Si veda De Porte (1979) sulla graduale formazione del sistema bipolare, e sulla condizione armistiziale del periodo postbellico. Sui concetti di «bipolarità» rispetto a «bipolarizzazione» vedi Rapkin et al. (1979) p. 267 e Nogee (1915). Come schema metodologico di ricerca sul termine «bipolarità» può essere assunto quello proposto da Rapkin (analisi interrelata semantica, empirica e concettuale) ap. 262. Cfr. Bonanate (1974) e Carr- (1939,1946). Strutturali in Rapkin (1979), in senso dinamico e certo non istituzionale. Raspkin et al. (1979), p. 267. Il concetto di «polarità» implica operativamente - dice Rapkin - un esercizio tassonomico che Modelski (1974) definisce come attributo non relazionale (non basato cioè sull’interazione degli attori), mentre «polarizzazione» viene intesa come una proprietà relazionale che rientra meglio nel concetto più lato di struttura sistemica. Vedi Rapkin et al. (1979), p. 272 fig. 1 per le «fluttuazioni di bipolarità» fra il 1948 ed il 1973. Sul concetto di «power» si rimanda a quanto contenuto in Deutsch (1968,1970 ed. it) ed in Morgenthau (1948,1967 V ed.). Szalai (1966) e Brams 1968), cit. in Rapkin et al. (1979). Rapkin et al. (1979), p. 274 e ss. Ivi. Ivi. Rapkin et al. (1979), p. 284 tab. 5. Non entriamo qui nel merito della congruità metodologica, e tantomeno empirica, di questo «indice» in quanto esso ci serve come ipotesi possibile di lavoro piuttosto che come attrezzo d’analisi quantitativa. Rinviamo, per una elaborazione più sofisticata di concetti affini, al modello di Bonanate (1979c), pp. 355-62. Già Bernard Brodie aveva tracciato, appena dopo la fine della seconda guerra mondiale, le linee sulle quali ha poi marciato il pensiero strategico sia ad Est che ad Ovest I due nuovi principi indotti dalla bomba A erano e restano: a) «No adequate defense against the bomb exist»; e b) il pericolo della «proliferazione nucleare» [Brodie (1946), p. 52]: di qui nasce il dibattito e la strategia dissuasiva. Si veda anche il volume curato da Calogero e Devoto (1975). Questo concetto che riprenderemo è analizzato più ampiamente in Santoro (1981a), ora in questo volume.

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76. Non si intende in questo modo anticipare un problema di «successione» tra sistemi intemazionali (cfir. Bonanate (1979c), p. 359) - bensì enucleare, nella dinamica della interazione, gli elementi di fondo (strutturali) da quelli «evolu­ tivi» (congiunturali). 77. H termine/concetto «distensione» è qui indicato in contrapposizione al termine/concetto di «coesistenza». Storicamente e culturalmente i due termini si differenziano profondamente. Mentre «coesistenza» rappresenta la proiezione intemazionale del globalismo ideologico sovietico, e si fonda sulla convinzione, al di là della propaganda, che è possibile perseguire i propri obiettivi strategici «servendosi» della pace e appunto della «coesistenza», con «distensione» siamo invece nell’ambito di una manovra tattica diretta a ridurre la tensione che, neH’interpretazione statunitense, è generata dalla «naturale» aggressività del comuniSmo. In entrambi i casi la locuzione implica: a) la pace più o meno duratura; b) la comunicazione e potenzialmente il negoziato (bargaining); c) l’uso strumentale di essa al fine di ricondurre «l’altro» all’intemo della propria logica globalista. Impiegheremo in questa sede il termine «distensione» perché è il più usato nel linguaggio delle relazioni intemazionali che, come è noto, è di matrice essenzialmente occidentale. 78. Per un esame ravvicinato del problema d&W interdipendenza si rimanda agli atti del seminario su «L’interdipendenza nel sistema intemazionale» pubblicati nei quaderni della Fondazione G. Feltrinelli (J. Sassoon, a cura di, 1981). 79. Per la storia del concetto di «interdipendenza» vedi Santoro (1981c), nel volume cit. alla nota 80. 80. La storia della «distensione» è, lato sensu, la storia delle relazioni intemazionali Est-Ovest degli ultimi venti anni. Il tentativo di codificare le «regole» della distensione avviene nelle forme di un processo pragmatico e flessibile. La originalità storica e strutturale del sistema intemazionale bipolare fa sì che i percorsi negoziabili delle Superpotenze assumano formule innovative rispetto al passato. Dalla pratica dei Summit fra i Grandi ai vertici bilaterali sovietico-americani, ai dibattiti sul disarmo in sedi multilaterali, dalle Nazioni Unite ad organismi regionali e/o specializzati, la distensione assume i caratteri di un processo creativo ininterrotto. 81. In effetti, il solo terreno negoziale sul quale si sia sperimentata, in termini pattizi operativi, la distensione, resta quello del «controllo degli armamenti». Erede della tradizione multilaterale elaborata durante i venti anni tra le due guerre, quella delle Conferenze per il Disarmo, la dottrina e la pratica dell'arms control prende le mosse dal «disgelo» sovietico dopo il 1956 e si organizza, anche tecnicamente, negli Stati Uniti nello stesso periodo in correlazione con l’evoluzione del pensiero strategico. Per un introduzione all’argomento è ancora valida la vecchia collettanea di Brennan (1961, 1962 ed. it.) che raccoglie gli scritti più significativi di quel dibattito. 82. Cfr. Schelling (1966,1968 ed. it.).

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83. Il «controllo della crisi» (crisis management) è una aspirazione spesso frustrata che fa parte integrante del bagaglio culturale statunitense. In effetti, anche Varms control è parte di questo obiettivo. Su crisi e conflitto si veda il bel volume di Snyder e Diesing (1977), e inoltre Keohane e Nye (1977). 84. Ricordiamo in particolare, fra le critiche più recenti alla validità del Mad, l’articolo di Frye (1977), nonché quello, più ingegnoso, di Gray (1979). 85. Aron (1976), vol. Il, p. 149. Sarebbe da sviluppare il tema del «duello» come modalità di funzionamento del sistema BP. L’esito del duello veniva determina­ to in relazione alla sua convenzionale suddivisione in combattimenti al primo o all’ultimo sangue: il problema della distensione era forse quello di codificare il duello al primo sangue? Si veda anche Tucidide (1972 ed. it.) come testimonian­ za esemplare di conflitto «bipolare». 86. Aron (1976), vol II, p. 149 sgg. Vedi inoltre gli esempi citati nei due volumi di Blechman e Kaplan (1978) e di Kaplan e al. (1981) sull’uso politico della forza militare da parte delle due Superpotenze durante il periodo post-bellico, soprattutto in forma di minacce o dimostrazioni. I due studi della Brookings Institutions esaminano i casi più importanti di impiego delle Forze Armate ed elencano tutte le occasioni di intervento. Gli Stati Uniti hanno usato le forze armate «short of war» in 215 casi, l’Unione Sovietica in 190. 87. Cfr. i documenti presentati alla XVIII Conferenza Annuale dell’Iiss, tenuta a Vienna nel settembre 1976 e pubblicati in Aa.Vv. (1977). 88. Cfr. Santoro (1981b). 89. Cfr. Deutsch (1963,1972 ed. it.) nonché Wiener (1948,1965 II ed., 1968 ed. it.) sulla comunicazione come elemento coesivo delle organizzazioni, ma anche delle azioni bilaterali. 90. Per una descrizione accurata del meccanismo di negoziazione dei Salt si veda il volume di S. Talbott (1979) sulla storia (dall’interno) delle trattative Salt II fra il 1978 ed il 1979. 91. La tecnicità e la segretezza delle issues, così come la enormità della posta in gioco, fa sì che il controllo degli armamenti sia visto piuttosto come un «gioco di pura coordinazione» che non come un conflitto politicamente rilevante. 92. Cfr. Schelling (1960), pp. 87 sgg. 93. In particolare, si pensava al moltiplicarsi complementare di vincoli di ordine commerciale, tecnologico, e monetario e delle materie prime fra Stati Uniti ed Urss che potevano scaturire dagli accordi stipulati a latere del Salt I, fra il 1972 e il 1974. 94. Questo primo punto è quello essenziale. La sistemazione degli assetti postbellici in Europa è interdipendente con il concetto di globalità Usa-Urss riconosciuta a Mosca nel Maggio 1972 da Nixon. 95. La «parità» o «equivalenza» essenziale strategica della Unione Sovietica rispetto agli Usa sembrava dissolvere i resti della teoria del primato statunitense. Si veda per questo Hoffmann (1978,1979 ed. it).

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96. Dietro il contrattualismo americano persisteva il convincimento che l’interdipe­ ndenza economica avrebbe, alla lunga, modificato i caratteri dell’economia mista. Per Kissinger, in specie, la distensione doveva assumere una valenza analoga ai contenuti della politica di Metternich verso Napoleone I, fra il 1807 e il 1813 [cfr. lo studio di Kissinger (1975b) sulla diplomazia mettemichiana]. 97. Attraverso quella che Schelling (1960) chiama «la teoria delle decisioni interdipendenti», la razionalità dei comportamenti sarebbe stata accentuata dalle regole della distensione. 98. Convinto della maggiore stabilità del sistema BP rispetto al sistema dell’Equilibrio, Kissinger teorizzò, dopo il 1972, che l’emergere di nuovi «poli» (Cina, Europa Occidentale) avrebbe dovuto dar luogo ad un immediato «riallineamen­ to delle potenze» in modo da mantenere intatto lo schema bipolare del fronte contro fronte. Ciò spiega la sua radicata ostilità ad ogni allentamento del controllo sulle zone di influenza reciproche [cfr. Kissinger (1977, III ed.)]. 99. Cfr. Aa.Vv. (1977). 100. Gli esempi più significativi sono stati: la guerra del Kippur nell’ottobre 1973 e le vicende più recenti del conflitto Iran-Iraq. 101. Il conflitto Iran-Iraq è esemplare. Sia pure orientata a sostenere l’Iraq per motivi di alleanza, l’Urss, nei fatti, parteggia per gli Iraniani, mentre gli Stati Uniti si vedono costretti a malcelate le proprie simpatie per gli Irakeni. 102. Il sistema BP, cioè, obbliga le Superpotenze ad intervenire, ma non consente loro di scegliere né il terreno né l’arma. 103. Schmitt (1972, ed. it.), p. 176 sgg. La distensione, in realtà, tendeva a diventare, nelle intenzioni, una «tecnica» neutrale. Ma, come ricorda Miglio (1981a) p. 41, «è tesi fondamentale di Cari Schmitt che la storia dello Stato Moderno sia scandita da una drammatica successione di "neutralizzazioni"...». In realtà, l’aspirazione all’«ordine mondiale», sia pure perennemente delusa, sopravvive proprio mediante la persistenza dell’idea che un giorno si debba costituire uno «stato» mondiale. Di qui la adozione del concetto di «neutraliz­ zazione», anche a livello delle relazioni intemazionali. 104. Per il concetto schmittiano di «neutralizzazione» si rimanda alle pp. 163-183 («L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni») di Schmitt (1972 ed. it.). 105. Miglio (1981a) p. 43. 106. Cfr. Bonanate (1974) e (1979c). 107. Sul concetto e l’uso del termine «sovranità» nel sistema BP postbellico si vedano i classici volumi di Carr (1939), Morgenthau (1948, 1967 V ed.) ed Aron (1962,1968 n ed, 1970 ed. it.). 108. Cfr. Hoffmann (1978,1979 ed. it.). 109. Sulle idee di W. Wilson si veda la biografia di Link (1954). Sul pensiero statunitense in materia di «ordine mondiale» si vedano inoltre Russell (1958) e (1968) e Divine (1967). 110. Cfr. Foucault (1970,1972 ed. iL).

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111. Si pensi alla doppia interpretazione del concetto di Nazioni Unite, all’idea tradizionale di «Concerto delle Potenze», ai progetti di un sistema di «sicurezza collettiva» mutuato dall’esperienza successiva a Versailles, al problema della «rivoluzione comunista» mondiale, ovvero della «mondializzazione» del modello statunitense (il «mondo libero»). 112. Anche qui per analogia si può adottare il concetto di potere «straordinario» [Miglio (1981a), p. 44] derivante da uno patto politico, «potere che decide, con mezzi eccezionali, circa il caso di eccezione». Il contratto nucleare e la novità del sistema bipolare sono i cardini e gli strumenti di questa «straordinarietà». 113. Sulla relazione tra BP e DP si rinvia a Santoro (1981a). La «.Weltbuergerkrieg, cioè quella "guerra civile" che... è la più politica delle guerre» [Miglio (1972), p. 10] è l’unica «mondializzazione» che la realtà empirica ci offre. 114. Il problema delle «alleanze», risvolto politico della coppia di concetti amicus/hostis, nelle relazioni intemazionali postbelliche si connota di tratti nuovi rispetto al passato. Nel sistema BP, infatti, gli alleati instaurano un rapporto asimmetrico nei confronti della potenza leader. Emerge cioè un problema di «zone di influenza» in cui l’aspetto geopolitico diventa più importante di quello relativo all’interazione fra attori eguali per livello e condizione. Di qui il carattere di «guerra civile mondiale» latente che determina i rapporti tra attori, sia intrablocco che interblocco. 115. Assumiamo il 1973 come data limite di inversione di marcia del processo distensivo. Infatti nel corso di quell’anno la guerra del Kippur arabo-israeliana e la crisi energetica dettero il via ad una nuova fase delle relazioni Est-Ovest e Nord-Sud. 116. Cfr. Mandelbaum (1979) ed il già citato Frye (1977). 117. Cfr. Snow (1979), p. 449. 118. Dati aggiornati sulla «strategie balance» sono reperibili nelle più recenti edizioni dei già ricordati Sipri Yearbook e The Military Balance. 119. Cfr. Kahler (1980). 120. Snow (1979) e Freedman (1981) 121. Snow (1979), p. 448 122. Si vedano Waltz (1959) e (1964), Boulding (1962), ed il recente Gray (1978). 123. Snow (1979), p. 448. Su questo punto si veda altresì Burt (1976). 124. Snow (1979) ciL, ed inoltre Alperowitz (1965, 1966 ed. it.) e Mandelbaum (1979). 125. Clausewitz (1942 ed. iL), p. 95. 126. Clausewitz esemplifica alcuni tipi di «combattimenti possibili»: «Se una parte del nostro esercito occupa una posizione avversaria che era indifesa, e sottrae in tal modo al nemico una considerevole aliquota di forze che avrebbero invece accresciuto il suo esercito, è soltanto in grazia del combattimento che si prospetterebbe all’avversario qualora esso volesse riconquistare quella po­ sizione, che noi possiamo rimanere padroni di essa» [Clausewitz (1942 ed. it) p. 179]. 127. Ibidem.

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128. Idem. 129. Dice ancora Clausewitz, (op. cit, p. 179): «Dal semplice schieramento od accantonamento di forze in un punto determinato può derivare la possibilità di un combattimento: ma non sempre esso avviene realmente. Deve pertanto questa possibilità considerarsi qui come una realtà al pari di un fatto realmente avvenuto? Riteniamo di sì: la realtà è insita nelle conseguenze, le quali, di qualunque natura esse siano, non potranno mai mancare». 130. Gli attributi del concetto di «potenza», fra cui quello di «peso» (oltre a «sfera», «ambito», ecc.), sono in Deutsch (1968,1970 ed. it.). 131. Sui «peace-games» sta attualmente compiendo una ricerca Umberto Eco. Uno studio sulle diversità e somiglianze dei concetti di «paix-absolue» e «guerre froide» è in Beaufre (1966). Aron (1976) critica però severamente questa analisi sostenendo che si tratta di una differenza di «gradi» piuttosto che di «natura» (vol. II, p. 249). Ci sembra invece che queste forme di «non-guerra» (come la «guerra possibile») abbiano davvero una «natura» diversa sia rispetto alla «pace» sia alla «guerra» reali. 132. Dice Clausewitz in una sua notissima definizione: «La guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà» [Clausewitz (1942 ed. it) p. 19]. 133. Il concetto di «risposta flessibile» è assunto dal pensiero strategico americano aU’inizio degli anni ’60 ma viene adottato ufficialmente come Dottrina NATO nel 1967. 134. Oltre al già citato Kissinger (1957a) ricorderemo dello stesso autore i testi quasi contemporanei che trattano il problema della «guerra nucleare limitata»: The Necessity of Choice [Kissinger (1961)], nonché The Troubled Partnership [Kissinger (1965)]. 135. In effetti, come dimostra il dibattito tra Europei Occ. ed Americani, intercorso nella prima metà degli anni '60, l’elaborazione del nuovo concetto di «guerra nucleare limitata» apriva la strada alla «pensabilità» dell’attacco sovietico, e quindi della risposta (limitata) nucleare statunitense sul teatro europeo. All’inizio degli anni ’80, con la bomba N e le armi «eurostrategiche» o «di teatro», il problema si ripropone in termini ancor più allarmanti. 136. «A nuclear Weapon over Detroit or Leningrad: A Tutorial on the Effects of Nuclear Weapons». 137. A partire dall’inizio degli anni ’70, negli Stati Uniti si è andato dibattendo il problema di modificare il corpo concettuale delle dottrine strategiche della Amministrazione Federale. Dapprima James Schlesinger (allora Segretario alla Difesa), e poi altri politici ed esperti, si schierarono a favore di una maggiore elasticità nel targeting americano contro l’Urss in caso di attacco a sorpresa sovietico. Il «secondo colpo» statunitense avrebbe dovuto arricchire il ven­ taglio dei «bersagli» sovietici orientando la risposta anche verso obiettivi controforza oltre che controcittà. Nell’agosto 1980 queste tesi sono state ufficializzate nella «Presidential Directive 59» (PD-59) redatta dall’allora Segretario alla Difesa Harold Brown ed approvata dal Presidente Carter. Per una critica equilibrata della PD-59 si veda liss (1980), p. 4.

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138. Talvolta, nell’intento di impressionare gli alleati europei, il governo di Washington non esclude drasticamente le voci secondo cui, in caso di guerra nucleare, sarebbe possibile limitare il conflitto al territorio del Vecchio Continente, escludendo sia gli Usa che l’Urss. 139. Vedi Aron (1976), Bobbio (1966) e Bonanale (1979b) e (1979d). La guerra come costituente del sistema intemazionale, in assenza di un ordine mondiale funzionante e riconesciuto, ha quindi per obiettivo non già la «vittoria», che è scopo tattico, quanto la «pace» che è invece il vero scopo politico e strategico della guerra. La guerra dunque ha per scopo la pace. Ma una certa pace che la «guerra possibile» non può più dare. Finora invece lo stato di «guerra possibile» aveva prodotto effetti vantaggiosi sia per gli uni che per gli altri. Gli Stati Uniti hanno conservato il molo mondiale (sia pur ridimensionato) conquistato nel 1945. Ma anche l’Urss ha consolidato le proprie conquiste e, nel frattempo, ha scalato con successo molti gradini nell’ascesa alla «globalità» di potenza, alla sua mondializzazione.

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4. LE OPZIONI DELLA LOGICA BIPOLARE

1. La crisi del modello di analisi hobsoniano-leninista della società intemazionale (teoria classica dell’imperialismo) ha provocato, per conseguenza, la crisi dell’unica teoria globale di interpretazione delle relazioni intemazionali a disposizione della sinistra e del movimento operaio. Restavano solo altri due paradigmi analitici: a) quello dell’equili­ brio (balance of power) di tradizione hobbesiana; b) quello universa­ lista d’impronta groziana e giusnaturalista (ordine mondiale).

2. Nelle diverse e più aggiornate varianti postbelliche, il modello deh’equilibrio si è trasformato in sistema bipolare (BP), che è un ibrido di «simmetria» (interblocco) e al tempo stesso di «gerarchia» (intrablocco); mentre quello universalista si è graduamente «deocci­ dentalizzato» per farsi teoria delle relazioni intemazionali ter­ zomondista, egualitaria e sostanzialmente antagonistica rispetto all’os­ satura bipolare del mondo. Entrambe queste strutture concettuali, che operano secondo uno schema a croce, hanno in comune la virtù di interpretare la dinamica delle relazioni intemazionali in termini sistemici, basata sull’inte­ razione di fattori di origine essenzialmente intemazionale, più che sulle proiezioni esterne dei sistemi politici interni degli attori nazio­ nali. Rappresentano, inoltre, le due anime culturali della società intemazionale contemporanea: quella anarchico-autoritaria di tradizione «realista», e quella normativo-istituzionale di tradizione «idealista-comunitaria».

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3. Le forze della sinistra europea e intemazionale si muovono, da tempo ormai (con l’eccezione dei paesi del «socialismo reale», che si richiamano ancora al paradigma hobsoniano-leninista), all’interno di questi due criteri interpretativi, con oscillazioni e serpentine che testimoniano però della difficoltà a procedere senza referenti con­ cettuali esplicativi e previsionali predeterminati. Di qui una serie di difformità e posizioni conflittuali. Esse hanno avuto una doppia origine. Da una parte sono il risultato di una strutturale diversità, spaziale, storica, socio-culturale, economica e politica delle singole unità organizzate del movimento dei lavoratori nei diversi paesi. Dall’altra parte, però, sono anche il prodotto dell’azione di fattori d’ordine intemazionale. In particolare la inconciliabile dicotomia fra «tradizione» e «trasformazione» (statu quo contro revisionismo), su cui è fondato dinamicamente il sistema delle relazioni intemazionali contemporanee, ha reso molto difficile armonizzare teorie e fatti. Per ovviare a questo «incastro» strutturale non vale quindi assumere acriticamente - come si è talvolta fatto - l’una (quella bipolare) o l’altra (quella universalista) delle logiche e delle procedure del sistema intemazionale. Assurdo e controproducente sarebbe infatti accettare per data una linea «universalista» ad oltranza, che è ancora interstiziale e parzial­ mente futuribile, ovvero adattarsi pedissequamente alla linea bipolarista pura, ormai in seria difficoltà di funzionamento, immaginando che essa sia permanente e immutabile. E’ invece necessario tener conto di entrambi questi aspetti, as­ sumendo il sistema bipolare come comice generale e scheletro portante strategico del sistema intemazionale (senza indulgere ad illusioni multipolari), ma sviluppando al tempo stesso la rete di azioni molecolari di tipo normativo che ne rappresentano la dinamica evolutiva potenziale. E’ questo il significato che si deve attribuire al rispetto delle regole essenziali del sistema BP, nell’intento di evitare traumatici fenomeni di destabilizzazione, qualora l’improvviso rovesciamento delle al­ leanze all’interno di uno dei due subsistemi (del sistema Est-Ovest) facesse entrare in crisi il simmetrico «equilibrio» che ne consente la sopravvivenza. La salvaguardia dei meccanismi centrali di funzionamento del

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sistema BP è infatti precondizione indispensabile di ogni azione diretta alla trasformazione graduale della morfologia delle relazioni intemazionali. Solo in questo modo sarà possibile vincolare gradual­ mente a principi generali d’«ordine» intemazionale le Superpotenze, riducendo progressivamente il condizionamento del sistema dell’«equilibrio dissuasivo» basato sulla equivalenza degli arsenali nucleari, arricchendo cioè la trama delle relazioni interblocco di nuovi contenuti. Il rispetto reciproco delle alleanze, l’eguaglianza degli obblighi, così come dei diritti, non può però conchiudere l’intero arco di attività intemazionale degli attori, ovvero delle forze della sinistra che, all’intemo di ciascun paese, dovrebbero operare per il mantenimento della pace e la promozione della cooperazione intemazionale.

4. Agisce infatti nello stesso tempo, e dinamicamente, l’altro principio, quello universalista, che punta ad ampliare il numero degli attori nel sistema intemazionale, estendendone i moli al di là degli Stati-nazione, alle organizzazioni intemazionali pubbliche o private, alle minoranze etniche o nazionali, ai gruppi economici, sociali o di pressione, ai singoli individui. Funziona cioè da temperamento implicito della ferrea logica bipolare, disarmata, multilaterale e contrattualista, che germina dalla struttura interna dei sistemi politici fino a condizionare, frenare, deviare e perfino orientare, il semplicistico duello bipolare delle Superpotenze. Sono principi e metodi questi la cui ispirazione non è mai vincente, ma non è mai neppure del tutto perdente, la cui forza sta nella sua permanenza, vastità di consensi, sia pure generici, fra le moltitudini dei non specialisti, la cui organizzazione e precisazione potrebbe diventare compito precipuo delle forze della sinistra democratica e del movimento dei lavoratori. Essa ha infatti una potestà di «interdizione» più che di «iniziativa», un vero e proprio diritto di veto che conta nel calcolo della governabilità del sistema BP cui anche le Superpotenze sono sottomesse. 5. Allo stato attuale, il conflitto fra le «regole bipolari» e il «magma universalista» ha preso le forme di una tensione permanente fra livelli di «potenza» operanti nel sistema intemazionale. Da una parte, si ha quello che qualche studioso ha definito come

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«paradosso della potenza non realizzata» (Baldwin), cioè il fenomeno per cui crecono le difficoltà dei due poli del sistema BP a trasferire le «potenzialità» di potenza, in potenza «effettiva». Si tratterebbe, in sostanza, del cattivo funzionamento dei «processi di conversione» di potenza: qualcosa come avere buone carte e giocarle male. Dall’altra parte si moltiplicano invece i fenomeni di differenzia­ zione del sistema BP, la cui struttura portante, basata sull’asse strategico della superiorità e/o della dissuasione delle due Superpoten­ ze su tutti gli altri attori, viene resa sempre più complessa da fattori di disturbo che chiameremo di «diffusione di potenza» (DP). Tali fattori (DP) assumono generalmente l’aspetto di conflitti interni ai singoli attori che traboccano verso l’esterno, coinvolgendo altri attori (Afganistan, Etiopia, Polonia, Libano, El Salvador, Nicaragua), ovvero come tensioni dovute a processi di destabiliz­ zazione di potenza (politica, economica, militare) fra attori di una stessa area regionale con ridefinizione dei ruoli rispettivi (Iran-Irak), ovvero infine, quali residui funzionali di assetti storicamente obsoleti (Falklands). In senso lato si può parlare di insorgenze «neo-nazionali» che diventano agenti di dislocazione degli equilibri interni dei due ' subsistemi (Ovest e Est), costringendo le Superpotenze a intervenire in vari modi con compiti di arbitro-protettore. Nel decennio 1973-1982 il numero dei fenomeni di DP è andato paurosamente aumentando, mentre il numero e la qualità degli episodi di confronto diretto Usa/Urss sono, per converso, andati diminuendo e, con l’eccezione dell’attuale conflitto sugli equilibri strategici che è largamente artificioso, anche depotenziandosi. Assumendo per vera la teoria del «trasferimento di potenza» dalle Superpotenze agli attori medi e minori, si è così registrato quel declino delle capacità di comando/controllo, statunitense e sovietico, sulle rispettive zone d’influenza che ha spesso inceppato la funzionalità del sistema BP nel suo insieme. 6. La détente, secondo alcuni, avrebbe avuto un ruolo importante nell’accelerare questo pericoloso declino funzionale. Essa avrebbe ' sortito il doppio effetto di ridurre il livello di tensione fra i blocchi, ma nello stesso tempo avrebbe liberato i conflitti latenti intrablocco, inducendo le Superpotenze a riaccendere la tensione USA-URSS per

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recuperare l’egemonia perduta sulle proprie zone d’influenza. Ma la détente è responsabile di questo stato di cose solo nella misura in cui essa è stata un processo ristretto al territorio dei negoziati per il controllo degli armamenti strategici, subito interrotto quando poteva trasformarsi in meccanismo costituente di un codice normativo tale da creare un framework pre-istituzionale del bipolari­ smo, all’interno del quale potesse circolare più ordinatamente l’intera­ zione fra tutti gli attori del sistema. Indubbiamente, la détente ha ridotto il livello di guardia e lo stato di pericolosità permanente del sistema BP, sempre sull’orlo (brinkman­ ship) dell’olocausto nucleare. Ma, l’assenza di un corpus di regole di condotta (una specie di «crisalide istituzionale»), ha favorito anche il recupero delle componenti anarchiche neo-nazionali della tradizione del sistema dell’ equilibrio, e quindi delle relative rese dei conti in sospeso.

7. Ciò ha creato interrogativi sugli scenari opzionali rispetto a quelli auspicabili. In primo luogo ha fatto dire, a destra come a sinistra, che la soluzione più stabile poteva risiedere alternativamente: a) nel rafforza­ mento delle Superpotenze e nella loro intesa (Jalta II), ovvero b) nella liquidazione dei blocchi e nella macro-crescita delle indipendenze nazionali o regionali (estensione del non-allineamento). In alcuni casi si è giunti a proporre irrazionali soluzioni estreme: «disarmo unilaterale» ovvero «militarizzazione» generale delle società contrapposte. In altri, invece, si è argomentato che non esistono vie d’uscita praticabili perché, nel caso in cui la logica BP venisse consolidata (Jalta II) si avrebbe certo maggiore equilibrio fra i grandi e minor conflittualità intrablocco e interblocco (alla periferia) fra gli attori medi e minori, ma al prezzo della riduzione di sovranità dei paesi meno forti e deH’immobilismo di potenza generale. La competizione/collaborazione diretta Usa-Urss potrebbe inoltre tradursi in una nuova modalità dell’«equilibrio del terrore» che, dalla dottrina della reciproca «vulnerabilità nucleare» (Mad) oggi in vigore, si ribalterebbe nel suo rovescio speculare, cioè nella teoria della reciproca «invulnerabilità» che sottende la logica della vittoria possibile, ovvero la tesi, pericolosa in particolare per gli Europei, della

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guerra nucleare limitata, la cui eventualità è, in linea teorica, garantita dalle nuove tecnologie dei vettori delle armi strategiche e di teatro (Gray). Se, per converso, la logica BP s’indebolisse, sia per la conti­ nuazione del declino geopolitico delle Superpotenze, sia per lo spazio di potenza lasciato libero dall’eventuale ripresa del processo della détente bipolare (negoziati START, SDÌ o altro), il fenomeno della DP anarchica si estenderebbe fino alla moltiplicazione dei casi di proliferazione nucleare nazionale, con il rischio di trasformare episodi di conflitto convenzionale in catastrofi nucleari di area. 8. Questi scenari globali non possono essere accettati dalle forze della sinistra, perché lo schematismo concettuale che li anima trascura di tener conto delle opportunità alternative che il movimento demo­ cratico può utilizzare facendo leva su alcuni dati di fatto incontroverti­ bili. In primo luogo, non va sottovalutato il patrimonio di apprendimen­ to negoziale che oltre 40 anni di «guerra fredda» e di «distensione» (due modalità di funzionamento interrelate del sistema BP postbellico) hanno introiettato nel comportamento delle Superpotenze, la cui attuale fase di tensione non ha fatto dimenticare. Non è un caso, infatti, che di fronte al problema del riarmo nucleare, sia gli Stati Uniti sia l’Urss abbiano sentito la necessità di non chiudere la porta alla ripresa dei negoziati per la riduzione degli armamenti strategici, sotto la pressione dell’opinione pubblica interna e dell’immagine inter­ nazionale che attribuisce loro il ruolo di depositari istituzionali della guerra e della pace. In secondo luogo, non va neppure trascurato il fatto che il dualismo fra equilibrio bipolare e istanze normative non è più solo un’astra­ zione, ma è invece uno scenario futuribile delle relazioni fra Nord e Sud del mondo sul quale le Superpotenze sono sempre più costrette a meditare, e dal quale sono condizionate concretamente, anche per il moltiplicarsi degli episodi di DP. In terzo luogo perché, perfino all’interno delle Superpotenze e delle Medie Potenze «nordiste», all’Ovest come aH’Est, i movimenti popolari di taglio disarmista, pacifista, religioso, nazionalista e/o indipendentista, nonché la vasta gamma di iniziative delle forze democratiche, acquistano un peso crescente in correlazione con

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l’aumento della tensione bipolare e dei pericoli di conflitto nucleare. Per questi motivi, più che per esigenze politico-morali di stampo utopico o irenico, la strada da percorrere diventa quella della coordi­ nata pressione sui governi nazionali e in tutte le sedi in temazionali (da quelle regionali di area alle Nazioni Unite e sue agenzie), affinché le due logiche sistemiche (quella bipolare e quella normativa) trovino dei punti di contatto crescenti, obbligando alla revisione dei comporta­ menti strettamente nazionali delle Superpotenze, alla individuazione di regole di condotta concordate, verificabili e controllate, tali da moltiplicare i flussi obbligati di comunicazione fra gli attori maggiori, rafforzando così la struttura della interdipendenza reciproca, riducen­ do le asimmetrie esistenti anche attraverso il coinvolgimento delle società civili, delle economie, dell’informazione. Se tale processo, che è già largamente un portato della moderniz­ zazione e dello sviluppo economico globale, fosse affidato alla natura oggettiva delle relazioni intemazionali, al mercato dei rapporti di potenza, il risultato sarebbe quello della condensazione di alcune isole di forza in ambienti vasti sempre più deboli, con l’effetto di creare quell’«Effetto Fenice» secondo cui il conflitto rinascerebbe costantemente dalle ceneri della repressione, della sconfitta e delle gerarchie di molo fra gli attori. Se invece fosse possibile introdurre elementi di razionalità pro­ grammata, basati sulla crescita degli interessi reciproci, governati dalla stessa struttura interdipendente delle relazioni intemazionali, allora episodi che colpiscono la loro astratta irrazionalità, come la guerra per le Falklands, la cui lezione principale non è stata quella che anche il conflitto più assurdo è possibile, ma che invece le Superpotenze (in questo caso gli USA) non hanno più la forza per impedirne lo scatenamento, diventerebbero impensabili. (1982)

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5. ARON E LA GUERRA

1. Preso di per sé, il contributo di Raymond Aron allo studio della guerra non è così originale o innovativo come si potrebbe pensare, considerata la mole e l’autorevolezza degli scritti che ad essa ha dedicato, e, in particolare, i due volumi di analisi dell’opera di Clausewitz, pubblicati nel 1976, con il titolo emblematico di «Penser la guerre» quasi a conclusione di un ciclo di ricerche durato 50 anni. In effetti, se posta a confronto con l’opera di altri studiosi europei (Da Sorokin a Bouthoul, fino a Bobbio, Glucksmann e, per certi aspetti Schmitt) l’analisi di Aron sulla natura e la ragione dei conflitti sembra restare al di qua di un’approfondita indagine sistematica. D’altro canto, qualora la si compari, anche metodologicamente, alle ricerche degli scienzati sociali americani in materia, da quelli che per primi studiarono empiricamente il fenomeno (come Richardson e Wrigth) a quelli che hanno gettato le fondamenta concettuali della dottrina strategica statunitense nel dopoguerra (da Brodie a Wohlstetter a Schelling, Kahn e Boulding) fino ai più recenti (come Organski e Kugler, Bueno de Mesquita, Gray), le pagine di Aron sulla guerra sembrano far difetto di rigore analitico nell’approccio, di logica empirica nella dimostrazione, nonché di eleganza formale nella stesura delle ipotesi. Eppure, il valore scientifico delle ricerche di Aron sulla guerra e sul sistema intemazionale, da quelle pubblicate 22 anni orsono (Paix et Guerre, 1962) fino allo studio su Clausewitz, e da ultimo il grosso tomo delle «Mémoires» (1983), (senza peraltro trascurare «Les tensions et le guerre», 1957, nonché «La société industrielle et la guerre», 1959), non può essere disconosciuto. Così come non può essergli neppure tolto il merito indiscusso di

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essere stato, forse, l’unico studioso europeo «continentale» (perché al di là del mare, in Inghilterra, da Carr a Reynolds a Wright, la lista è lunga) a dare un contributo cospicuo alla definizione prima, e al consolidamento poi, della disciplina delle Relazioni Intemazionali, che proprio nell’analisi della guerra e della pace trova il suo fondamento. L’opera di Aron va, dunque, letta in una dimensione globale, come un vasto affresco rappresentativo della complessità dell’organiz­ zazione (ordine) e dell’anarchia che caratterizzano il sistema inter­ nazionale, anche quello contemporaneo, per la cui descrizione era necessario impiegare un approccio composito, un metodo mistilineo, che fosse storico, sociologico e politologico al tempo stesso. Il pensiero di Aron scaturisce proprio da questo apparentemente incerto, e spesso ridondante, muoversi fra gli scogli (delle classifi­ cazioni incomplete per categorie analitiche (come in Paix et Guerre) e le tentazioni della glossa e del commento testuale,che sa di filologia e d’invenzione (come in Penser la guerre). Ciò indubbiamente spiega i limiti dell’analisi, ma ne mette in luce la ricchezza tematica, lo spessore dei piani di lettura e la folla delle argomentazioni volte a enucleare, non tanto la «natura» o la «sociolo­ gia» della guerra, quanto la sua «funzionalità» politica, ma anche la sua «indeterminatezza» mercuriale, quindi la sua «subalternità» rispet­ to alla politica. In questo Aron è un esegeta convinto della «formula» di Clausewitz e su questa base costruisce tutto rimpianto concettuale e analitico della «sua» guerra. Ma se la guerra è la «continuazione della politica con altri mezzi» (Clausewitz, 1832, 1942:38), anzi «strumento stesso della politica», allora è necessario ricavarne il senso e le implicazioni, anche concettuali, dall’analisi del sistema politico (intemazionale) di cui la guerra è la struttura portante. Così Aron si fa più analista che teorico delle «forme» e dei «livelli» di guerra (Santoro, 1982) aH’intemo di quel sistema politico inter­ nazionale che egli ha visto morire nel 1940 (il sistema eurocentrico dell’Equilibrio di Potenza) nel corso di quella «Guerra dei Trenta anni del XX secolo» - come ha felicemente scritto Amo Mayer (1977) che va dal 1914 al 1945, e di quello che ha visto nascere, dopo il 1945, (il sistema planetario bipolare).

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2. La sua analisi della guerra corre fra questi due orizzonti storico-concettuali. Essa vive nell’opera di Aron in quanto «strumen­ to» della politica intemazionale degli stati, a cavallo fra due fasi temporali, la cui cesura egli ha direttamente sperimentato. Di qui nasce quell’ambivalente percezione della «novità qualitati­ va» rappresentata dall’introduzione dell’«arma nucleare» nell’arsenale delle potenze (che per molti come per Brodie (1946), primo fra tutti, è una variabile indipendente del sistema: l’«arma assoluta»), accompa­ gnata dalla convinzione che gli attrezzi della strategia siano tuttora quelli individuati da Clausewitz. La sua analisi ondeggia quindi costantemente fra una teoria della guerra, intesa come «forma della politica», e una teoria della guerra intesa come «dissuasione» (non guerra quindi), ovvero come «pace bellicosa» (Paix et guerre: 200 e sgg.): quella che egli definiva con il distico «Guerra impossibile, pace improbabile». Ne deriva certamente una qualche incongruenza concèttuale. Tut­ tavia l’ambiguità di questa condizione analitica, propria del sistema bipolare nucleare, non è stata risolta neppure altrove. Anzi, con singolare ciclicità essa si ripresenta periodicamente, come rovello della cultura politica occidentale, che oscilla costantemente fra interpretazioni diverse del «primato», ora della politica ora della strategia (Curi, 1982). Con l’aggiunta del paradosso costituito dal fatto che se nella guerra «classica» il primato della politica è «clausewitzianamente» assicurato dagli obbiettivi strategici, nella situazione nucleare invece, spesso sono i modelli strategici (alla H. Kahn, T. Schelling, o C.S. Gray) a prevalere sulla politica, determinandone gli orientamenti. (Freedman, 1981). Aron si colloca dunque al centro di un dibattito sulla guerra che è al tempo stesso una riflessione sulla struttura del mondo contemporaneo, sul suo ordine/anarchia, sull’«assolutezza» della condizione nucleare, e che finora non ha trovato risposte convincenti. Le sue simpatie culturali sono del tutto evidenti. Non è casua’e infatti che egli nel suo magnum opus (Paix et guerre), pubblicato quindici anni prima dello studio analitico su Clausewitz, dedicasse già nella prima parte di quel lavoro (teoria: concetti e sistemi) l’intero capitolo iniziale ad una parafrasi fedele del concetto di guerra così come viene esposto nel Vom Kriege. Accusato da Rapoport, fin dal

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1964 (Rapoport, 1964), di essere un «neo-clausewitziano» e, in quanto tale, inserito nella lista degli autori cui egli attribuisce quell’appellati­ vo critico nell’introduzione all’edizione ridotta di Clausewitz pubbli­ cata per la Penguin Books, Aron non si ribellerà (nel secondo volume di Penser la guerre: 137), anche se si sforzerà di prendere le distanze dal gruppo degli altri scienzati sociali ai quali era stato accomunato. Egli tenta infatti di ritrovare in Clausewitz quella coscienza del legame permanente fra le diverse forme di guerra, senza privilegiarne nessuna, che contraddistingue la sua ricerca. Egli si propone quindi non solo come sostenitore della «battaglia decisiva» (Vemichtungsschlacht) nella «guerra offensiva», ma anche dei vantaggi della «guerra difensiva» (Libro VI, Clausewitz) che, non a caso, è stata spesso trascurata dagli studiosi, se non addirittura espunta, come era accaduto proprio nella versione del Vom Kriege curata da Rapoport. Il ritornello concettuale resta però quello dell’interpretazione di Clausewitz in chiave di supremazia della «politica» sulla «strategia», e non viceversa come in Schmitt (1972: 117-120) per cui «la guerra è il presupposto della politica», in quanto alla base della contaminatio fra guerra e politica sta proprio il concetto di amico/nemico {Feind!Fre­ und), oppure nei clausewitziani del passato, da Moltke senior a Foch, a Schlieffen o Gibert, per i quali la religione dell’attacco e della «battaglia decisiva» era legge (si veda la bibliografia in Aron, 1976, II: 338 e sgg. In particolare l’articolo di Schmitt 1976, su «Clausewitz als politischer Denker, Bemerkungen und Hinweise»), D’altra parte, la sua appassionata difesa della modernità di Clause­ witz contro i suoi detrattori (a cominciare da Liddell Hart) è anche una difesa delle ragioni della politica intemazionale intesa come struttura razionale, basata sulla dinamica degli interessi certamente, ma non cinica o sanguinaria, la cui essenza «realista», da Hobbes a Morgenthau, è sostanzialmente pessimistica ma anche moderata. Stanley Hoffmann nel necrologio pubblicato sulla New York. Review of Books (1983:12) ne definiva in questo modo i tratti: «Aron’s vision of mankind was tragic: violence is the midwife of societies and states; the avoidance of nuclear war is no more than a wager. But the Kantian in him never gave up the hope of Reason prevailing en dépit de tout». La sua lettura di Clausewitz non è quindi quella dei fautori del dominio dèlia strategia, ma non è neppure quella di chi (Liddell Hart) ha rappresentato lo studioso prussiano come l’ispiratore della guerra

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d’urto centrale, senza manovra, teorico del Vernichtungsgedanke (dottrina dell’annientamento), oppure del macello sanguinoso della strategia d’usura (Ermattungsstrategie). Troppo continentale cioè per essere apprezzato dallo studioso inglese che, pur essendo un teorico della guerra terrestre, ha sempre avuto per referente culturale nel concetto di Indirect Strategy la manovrabilità e la liberta di azione tipiche della strategia marittima.

3. Per verificare questo assunto di lucida tragicità basterebbe riprendere la sua definizione di «sistema intemazionale» (Paix et Guerre: 124), così diversa da quella degli studiosi americani a lui contemporanei (Deutsch, Waltz, M. Kaplan, Rosenau), e così centrata sull’idea che la guerra faccia corpo indissolubile con il concetto di sistema; («Chiamo sistema intemazionale il complesso costituito da unità politiche che coltivano relazioni regolari e sono tutte suscettibili di venire coinvolte in una guerra generale»: 124). Ma se la guerra è appunto parte integrante (se non costituente: Bobbio) del sistema intemazionale, che è a sua volta il prodotto di «una competizione che si organizza in funzione del conflitto», in cui gli attori collettivi (gli stati) «sono in gara» fra di loro, come può allora Aron, studiando il sistema bipolare, presumere davvero che dopo il 1945, con la «bomba», il dispositivo intemazionale sia così cambiato da escludere la guerra? In realtà, su questo punto, Aron si scontra con il suo stesso Clausewitz. Non è senza ragione, infatti, che il secondo volume di Penser la guerre, quello su «l’âge planétaire», a detta dei critici, sia il meno riuscito dei due e che, nella sostanza, fallisca l’obbiettivo di reperire il nesso di continuità e una corrispondenza logica fra 1’«Europa» di Clausewitz e 1’«Universo» della competizione bipolare. L’anello mancante, tuttavia, a ben guardare, non è del tutto mancante. Secondo Aron la saldatura fra i due sistemi e il loro concetto di guerra avviene nell’ambito della «Teoria della Dissuasione» nucleare, e quindi nella trasformazione della guerra «combattuta» in guerra «virtuale», o «non-guerra». (Penser la guerre, II, 247 sgg.). Scriveva Glucksmann nel 1968 «al gioco delle possibilità si sostituisce l’impossibilità del gioco; la dose massiccia attuale di politica è una illusione ottica, un trompe-l’oeil». (Falcioni 1984: 15). Secondo questa ipotesi, la «dissuasione» impedirebbe non solo la

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guerra, ma muterebbe di senso la stessa strategia che non si ridurrebbe più ad essere la «scienza della vittoria» militare, ma diventerebbe invece l’arte del «vincolo», della «intimidazione» e/o della «persua­ sione» (o compellence come in Schelling, 1960 e 1966). «La guerra fredda - dice Aron esplicitamente - (Paix et guerre: 431) è una combinazione di dissuasione, persuasione, sovversione». E’ lo stesso Aron, d’altronde che, allo scadere degli anni cinquanta, proprio mentre gli Americani revisionano e mettono a punto il proprio apparato strategico (e la dottrina), elaborando due concetti-chiave, quello della Mutual Assured Destruction e quello della Limited Nuclear War, (Freedman: 245-256; 91-120; F. Kaplan: 315-327; 185-200) si pone il problema di interpretare il «sistema planetario dell’età nucleare» (Paix et guerre: 430) alle prese con un’ipotesi di guerra che, nella sua stessa definizione, diventa condizione perma­ nente, sospensiva o risolutiva, della funzionalità dell’intero dispositi­ vo. Egli si domandava, cioè, se la bomba avesse modificato «le relazioni fra strategia e diplomazia», obbligando quindi a rivedere la «Formula» di Clausewitz, e inoltre quali fossero le «condizioni della forza e della potenza» oggi, nonché quali avrebbero potuto essere «gli obiettivi degli attori» sulla scena intemazionale. (Paix et guerre: 430) Aron rilevava dunque la propria contraddizione, anche se non si dimostrava in grado di darvi una risposta adeguata. 4. In quanto studioso del sistema intemazionale bipolare (Paix et guerre: 172 sgg.) egli non può trascurare peraltro di prendere in esame anche l’ipotesi della guerra nucleare poiché la guerra, che egli definisce come «il pagamento in contanti con cui terminano le operazioni a credito» (Paix et guerre: 187), è, nonostante tutto, il last resort delle controversie intemazionali. Né il concetto di «pace di terrore» (Paix et guerre: 197), elaborato sulla scorta delle ricerche di Wohlstetter (1959), Schelling (1960), Snyder (1961), e Kahn (1960), del cui statuto teorico egli dubitava fox cernente (Penser la guerre, II; 247), soprattutto per il loro carattere formale di modelli applicabili a qualsiasi «standard of behavior», sembra fornire la giusta soluzione. In effetti, la «pace di terrore», che «è quella che regna (o regnerebbe) fra le unità politiche, se ciascuna di esse ha (o avesse) la capacità di colpire mortalmente l’altra» (Paix et guerre: 197), diventa

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una «pace di impotenza». Qualcosa cioè, che, invece di sedare e dirimere, alimenta la conflittualità latente fra gli attori principali, in quanto mette fine forzosamente al contenzioso e, nonostante il learning della dissuasione, costringe le Superpotenze ad aguzzare l’ingegno per trovare nuove opzioni strategiche o tecnologie innova­ tive che aggirino l’impotenza (la staticità), politica appunto, di quel tipo di «pace». La «pace di terrore», inoltre, proprio per il suo carattere di doppio stallo incrociato, favorisce la dispersione del controllo e dell’iniziativa dai due poli verso le periferie «imperiali» (nel senso di Liska, 1977), realizzando quel modello d’interazione fra «potential power» e «actual power» (Baldwin, 1979, 1980) che spesso modula le relazioni «intrablocco» dando luogo al fenomeno che abbiamo in altra occa­ sione definito come «Diffusione di Potenza» (Santoro, 1981,1982). Consapevole di tutto ciò, Aron non può quindi attribuire alla «pace del terrore» (MAD) altro che una valenza limitata, non generalizz­ abile. Non esita perciò ad accogliere la tesi di Glucksmann (1968) - che in fondo è sempre stata la sua - del recupero d’autonomia e di leadership della politica rispetto al circolo magico della strategia nucleare, trasformando i «modelli» teorici dei polemologi americani in «sce­ nari» politici, storicamente determinati, ovvero determinabili. (Penser la guerre, II; 247). Scriveva infatti Glucksmann «que l’essentiel de la stratégie nucléaire n’est pas stratégique et que la crédibilité des menaces dépend de la politique (qui menace qui? et pourquoi?) et non du calcul stratégique» (Glucksmann: 262, n. 2). Ma l’oscurità sui fondamenti concettuali del sistema «termonucle­ are» non è ancora dissipata del tutto. Perché il rinvio alla politica è un modo di sfuggire al fatto che la contrapposizione fra blocchi nel sistema bipolare, sia essa ideologica, politica, militare (dissuasione), economica, culturale (persuasione), e perfino di stabilità interna (sovversione), domanda una risposta all’interrogativo di fondo se la guerra sia (oppure no) uno strumento della politica ancora in vigore. Talché, se è vero che la «minaccia» militare, tecnologica o altro, è sempre politica («perché è la politica e non sono le armi a creare i pericoli» Penser la Guerre, II: 251), è altrettanto vero però che la non soluzione delle controversie, e anzi l’incancrenirsi di esse nel tempo, non può alla lunga non trovare uno sbocco violento.

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Tuttavia, l’espediente della «virtualità» della guerra ha un qualche significato solo a patto che tale «virtualità» venga riconosciuta in quanto guerra e, come tale, faccia parte della «natura» delle guerre, proprio in quanto «guerra possibile».

5. La «guerra possibile» è un concetto che ci siamo sforzati di sviluppare in altra sede (Santoro, 1982). Essa corrisponde sostanzial­ mente all’attuale condizione di speculiarità delle forze e di concen­ trazione potenziale di tutte le «forme» spaziali, (terrestre, navale, aerea) e di tutti i «livelli» storico-temporali (convenzionale, assoluta, nucleare) di guerra, nell’ipotesi suprema dello scambio strategico Usa-Urss, al termine del quale, secondo molti analisti, si avrebbe 1’«Olocausto» o 1’«Armageddon» nucleare. Nelle sue varianti di «guerra fredda», di «pace bellicosa», di «pace del terrore», ecc., a differenza di quanto faccia Aron, essa deve essere letta invece nel nostro modello, come forma o struttura specifica della guerra nell’età nucleare, le cui «forme» o «specie» - come dice Aronsono molteplici, poiché «la guerre est un camaléon» (Penser la guerre, II). Non già, quindi, come «un rapporto interstatale che si situa a mezzo fra pace e guerra» (Penser la guerre, II; 248), quella che il gen. Beauffe (1966: 57) chiama «non guerra», ma invece come un ritorno al modello della «guerra classica» o «convenzionale» del see. XVin, basata essenzialmente sulla «manovra», le «ruseries» e le «deceptions». In sostanza sotto le specie di un conflitto fondato sull’«elemento geometrico» che Clausewitz disdegna dopo Valmy (Clausewitz: 231-232), il cui tenore «scientifico» è conseguenza indiretta delle tecnologie e del loro reciproco annullarsi. In effetti, il generale prussiano non poteva non pensarla a quel modo. Filosofo e scienziato delle fulminee campagne napoleoniche, da cui trasse il concetto di «guerra assoluta», agli non poteva non percepire la povertà «decisionale» delle guerre settecentesche. Inoltre l’«elemento geometrico» era collegato ad una forma di guerra diretta ad economizzare le forze in nome della salvaguardia delle dinastie e dei Regni. Oggi questo principio si ritrova nell’idea di evitare l’olocausto nucleare, e quindi nella convinzione che la «manovra» possa sostituire l’«azione». La guerra possibile è dunque basata su un permanente «gioco di simulazione» fra le parti, con effetti politici reali. (Si veda a questo proposito la definizione di «combattimenti

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possibili» in Clausewitz: 179-180). Paradossalmente, nel momento in cui con l’arma nucleare la guerra è anche concettualmente possibile come «guerra assoluta» o «ideale» (Clausewitz: 774), quindi «totale» nel senso pieno del termine, riemerge il concetto di guerra intesa come corsa agli armamenti, fleets in being, sovversione, informazione, dépistage, «ordine obliquo» (Schlieffen; Rosinski, 1935), e «strategia indiretta» (Liddell Hart). Laddove Clausewitz ingiunge lo sviluppo della preparazione e della potenza per la «battaglia decisiva», nonché la «concentrazione delle forze», l’ordine di battaglia delle due Superpotenze si distende invece in una interminabile doppia linea difensiva, che affida alla «petite guerre» (Penser la guerre II: 475, sui vari modi di resistenza) un ruolo che è alternativo e surrogatorio rispetto allo scontro principale virtuale. Queste corrispondenze speculari, «difensive», degli schieramenti giustificano, tuttavia, anche in termini clausewitziani, la «guerrità» per così dire - della «guerra possibile», non tanto perchè la guerra di posizione o di logoramento è pur sempre guerra, quanto perchè essa appare come una forma specifica della «guerra difensiva», di cui Clausewitz tratta nel Libro VI del Vom Kriege (Clausewitz: 443 sgg.), cioè di una guerra a tutti gli effetti. Né vale a nostro avviso l’argomentazione di Aron secondo la quale la «guerra fredda» (o «guerra possibile») in quanto tale non rientra nel catalogo delle guerre, ma invece in quello delle «paci» di cui Aron aveva a suo tempo stilato una lista (Paix et guerre: 200). In effetti, il difetto della «guerra fredda» sarebbe quello, fondamen­ tale, di non ottemperare alla condizione indispensabile della guerra che è la «violenza» fisica e/o morale (diversa quindi da quella «violenza simbolica» che è fornita dalla «minaccia della violenza o della coercizione» (Penser la guerre II; 254). Ma perfino Clausewitz, che pur definisce la guerra come «un atto di forza», non la concepisce come «un atto decisivo unico», né la immagina come «una serie di atti decisivi contemporanei» (Clause­ witz: 25). «La realtà - dice Clausewitz - modera la tendenza all’estremo» che in ogni guerra è «assoluta» o «ideale».

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6. Il fatto è che la «guerra possibile» è appunto una guerra «reale», che si svolge attraverso una serie successiva di atti di forza, di vario genere (di attacco e/o di difesa) la cui natura è talvolta quella della «petite guerre» (Clausewitz, Libro VI, cap. 26: 630 sgg.), dell’uso della cavalleria leggera, degli auxilia, delle truppe alleate o neutrali, dell’intervento minaccioso, nelle tre forme della dissuasione, della compellenza e della sovversione. Questo Ersatz della guerra «assoluta» non è quindi meno guerra di quella, in quanto impiega mezzi e fini analoghi ad essa (lo «scopo politico» è identico, anche se la graduazione dei «mezzi» è più controllata; Clausewitz: 28), tende a scaricare le tensioni e ad aggiustare parzialmente i contrasti dell’intero sistema attraverso la «guerra possibile» che decide volta per volta le forme d’intervento commisurate agli obiettivi, sulla base di un rapporto costi/benefici che si aggancia ad una concezione strategica che, per ora, è essenzial­ mente «difensiva». In realtà - come sappiamo da Aron - il sistema intemazionale è quasi totalmente bipolarizzato. {Paix et guerre 441 sgg.) Le due Superpotenze esercitano più o meno bene il loro controllo su scala planetaria. Perché si dovrebbe allora intendere che i conflitti armati e la dissuasione manovrata, basati sulla modernizzazione periodica dei sistemi d’arma, politicamente e/o tecnologicamente obsoleti, ovvero sull’invenzione di «mosse» innovative (si pensi alle «Star Wars» di Reagan) non sono atti di guerra, se gli atti di forza vengono pur frequentemente consumati, e l’impegno {commitment) dei due blocchi a stornarne gli effetti è nei fatti così massiccio? La questione non è solo formale, ma di sostanza. Essa investe il cuore teorico dell’approccio aroniano alla politica intemazionale e mette in discussione la validità concettuale delle analisi modellate negli anni Sessanta sulla scorta della teoria dei giochi e delle decisioni razionali, che fanno da sfondo non solo alle teorie della dissuasione nucleare, ma anche ai principi operativi della dottrina strategica americana e dell’occidente. Se è vero infatti che la struttura speculare dei due poli (Usa-Urss) li inchioda in una posizione difensiva delle forze principali, che è. in linea teorica temporalmente indefinita, è però altresì verosimile che l’attuale situazione di doppio stallo non sia una condizione perma­ nente, solo perché esiste uno stato di «guerra possibile» che finora non

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si è trasformato in azione diretta di scontro fra i due avversari. Si può quindi concludere che l’evoluzione del sistema bipolare, basato sulla competizione Est-Ovest, sia conseguenza di una dinamica incrociata di guerra «perifèrica» e di manovra «centrale» (con le operazioni dissuasive e compulsive di cui il conflitto sugli Euromissili, è un esempio recente) che caratterizza lo stato di «guerra difensiva» già in corso fra le due Superpotenze.

7. Il sistema bipolare è dunque un «sistema di guerra», e non già di «pace armata». Caratterizzato da uno stato di preparazione e di allerta costante delle forze, da una corsa agli armamenti continuamente rinnovati e/o perfezionati, da un livello permanente di conflitto a «low/high intensity» nelle fasce esterne di ciascun sottosistema (Est-Ovest), nonché da fenomeni di sovversione e di guerra civile endemici. Il meccanismo bipolare appare dunque indubbiamente come un sistema politico intemazionale «di guerra» in senso stretto, anche se si maschera da guerra «virtuale», o si cela dietro quella formula ancor più attenuata che è 1’«osservazione armata». (Penser la guerre, II; 157, 238). In altri termini, il sistema bipolare è di «guerra» per definizione, e non per «esclusione» delle varie forme di «pace possibile». Potrebbe semmai descriversi meglio in termini militari, come una sorta di «tregua» d’armi, parziale, continuamente violata e riconfermata, ovvero di «armistizio», implicito fra due contendenti in guerra. Già Clausewitz (Clausewitz: 473) aveva chiarito il punto legitti­ mandone, anche concettualmente, l’ammissibilità quando scriveva che «l’origine della guerra non è nell’attacco, perché esso non ha per scopo assoluto la lotta quale presa di possesso, ma ha invece origine nella difesa poiché questa ha per scopo assoluto la lotta, essendo il respingere un attacco e combattere una cosa unica». Il carattere «armistiziale» della guerra possibile sta dunque in questa doppia relazione (provvisoria), speculare e difensiva, fra Stati Uniti e Unione Sovietica. E’ molto probabile che se l’approccio non fosse per entrambi difensivo (anche nella dottrina e nei piani di guerra operativi), la guerra «reale» sarebbe già scoppiata. Il seme della dissuasione non risiede quindi solo all’interno del dispositivo di Mutual Assured Destruction (MAD), secondo la lezione di Schelling o di Aron, ma anche nel fatto che entrambe le Super­

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potenze si sono create, ovvero hanno individuato, un nemico (hostis in senso schmittiano) su misura, inventando - per così dire - la «minac­ cia» dell’altro per armare se stessi. In questo equilibrio «difensivo», che Clausewitz identifica nell’idea fondamentale di «parare il colpo», e quindi di «attendere il colpo che si deve parare» (Clausewitz 443), la mobilità è ridotta la minimo, ma non è del tutto esclusa. «La difesa - scriveva il generale prussiano non può essere che relativa... una difensiva assoluta sarebbe in completa contraddizione con l’idea di guerra poiché equivarrebbe a supporre che uno solo degli avversari compia atti di guerra» (Clause­ witz; ibidem). La lettura del Libro VI di Vom Kriege conferma pienamente queste premesse. La rappresentazione delle caratteristiche di «attesa e reazione» che costituiscono il nucleo concettuale della «difesa» rivela pienamente la corrispondenza fra «stallo nucleare» e «guerra difensi­ va», che è sinonimo di «guerra possibile».

8. Che la «guerra possibile» del sistema nucleare bipolare sia classificabile all’interno del più vasto concetto clausewitziano di «guerra difensiva» comporta però alcune revisioni teoriche non secondarie. In primo luogo, il «travestimento» della guerra possibile sotto le specie di «pace di terrore», nasconde il fatto che gli obiettivi politici della guerra in atto (lo «scopo della guerra») sono quelli classici, volti cioè ad «imporre la nostra volontà al nemico» (Clausewitz: 20), oggi praticati mediante la «dissuasione», la «persuasione» (compellence) e la «sovversione». La constatazione che, allo stato attuale delle cose, la «guerra possibile» si mantiene al di qua della soglia dello scontro diretto Usa-Urss, non toglie nulla al suo stato di conflitto bellico. In secondo luogo, va messo in rilievo che le forme di questo conflitto, non sono solo «politiche» ma anche «strategiche», sia a livello «regionale» sia a livello «centrale». Basterebbe ricordare l’elenco delle «crisi» intemazionali postbelliche, da Berlino alla Corea, a Cuba, al Vietnam, all’Afghanistan, al Medio Oriente, per dimostrare il carattere di attesa e reazione militare che connota il funzionamento del bipolarismo. D’altronde, lo stesso Clausewitz aveva scritto che «risponde pienamente all’andamento naturale della guerra il cominciare con la

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difensiva e finire con l’offensiva» (Clausewitz: 445). Occorre sottolin­ eare infine, che le forme assunte dalla «guerra possibile» nel corso del quarantennio postbellico confermano tutte questa lettura dei fatti. I tre cardini operativi contemplati da Clausewitz per la guerra in campo tattico sono stati infatti tutti sperimentati: dalla sorpresa, al vantaggio offerto dal terreno, all'attacco da più lati. Questi «tre principi fondamentali della vittoria» (Clausewitz: 448) che nella guerra difensiva vengono più utilmente praticati (con l’eccezione della «sopresa iniziale») che non in quella offensiva, sono stati e sono tuttora componenti essenziali, integrati nella natura stessa del «confronto» bipolare. In effetti, «ci si metterebbe in contrad­ dizione con l’idea fondamentale della guerra, sia se si considerasse la difesa come fine a se stessa, sia se ritenessimo che la forma difensiva adottata per l’insieme dovesse estendersi a tutte le singole aliquote» (Clausewitz: 445). L’ottimismo filosofico dei teorici della «dissuasione», convinti che il «suicidio comune, che è possibilità costante di un duello a morte, sarà rifiutata dai duellanti», (Penser la guerre, II: 238), è fondato solo sul fatto che la guerra non è ancora scoppiata. Esso trascura però di considerare che in una «guerra difensiva», anche nel caso-limite che stiamo vivendo, (quello di una guerra difensiva «bilaterale»), la situazione non è da considerarsi permanente. Ma anzi, che essa evolve secondo parametri che, solo se si esamina la situazione come uno «scenario di guerra», potrà essere interpretata correttamente. Contin­ uando invece a leggere la congiuntura intemazionale essenzialmente in termini di pace e di minacce alla pace, il quadro delle variabili e dei dati, nonché il suo più recondito significato di trasformazione sistemi­ ca, sfuggono anche ad una lettura accurata. La soglia fra la guerra e la pace è infatti un discrimine di tipo essenzialmente psicologico. Tuttavia essa comporta conseguenze di grande rilievo effettuale. Il meccanismo delle percezioni e delle «mispercezioni» attraverso cui una «crisi» intemazionale può attraver­ sare quella frontiera, e quindi portare alla guerra, fa pensare ad essa soprattutto come ad un cambiamento di «status», che si può esprimere però solo in termini di «guerra offensiva». Tanto è vero che la strategia delle Superpotenze contempla esclusi­ vamente delle ipotesi di risposta del tipo controffensivo, mentre esclude recisamente (almeno ufficialmente) ogni ipotesi di attacco a

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sorpresa o di guerra preventiva (Jervis, 1977: Snyder-Diesing, 1976; Lebow, 1981). La guerra apparirà dunque nelle sembianze di una drammatica rottura deH’«equilibrio» esistente, una vera e propria «catastrofe» (Thom, 1972), come si evince bene anche dalla teoria della «brinkmanship» di Schelling, qualcosa di qualitativamente e strutturalmente diverso rispetto allo stato precedente di «pace». Se invece, come ci sembra più corretto scientificamente, si consi­ dera la «crisi» come un fattore potenziale di trasformazione della «forma» della guerra da difensiva in offensiva, allora la prevedibilità e la gravità delle crisi, nonché l’eventualità che esse mutino la «forma» della guerra potranno essere meglio calcolate, sia in termini di tecnologia, che di dottrina e di scopi tattici, in quanto il cambiamento di «forma» non comporta l’uso di parametri analitici incommensura­ bili fra loro, quali sono quelli di «guerra» e di «pace». 9. Questa lettura teorica della «condizione nucleare», come stato di «guerra possibile», sarebbe tuttavia incompleta se non si tenesse conto del problema della «vulnerabilità» reciproca agli attacchi nucleari. Il principio di «vulnerabilità», infatti, è il fondamento concettuale e di fatto su cui riposa l’intera architettura della dissuasione e del MAD. Essa presuppone che la «forma di attacco» non ci sarà perché la «risposta» dei difensori sarebbe così terribile da rendere intollerabili i livelli di distruzione. Questa teoria, che è diventata negli anni Sessanta il fondamento filosofico della dottrina strategica americana, poggia, a nostro parere, su fragili basi concettuali. Lo stesso Aron, in più occasioni (nel 1962 in Paix et guerre, nel 1976 in Penser la guerre, e finalmente nelle Mémoires, 1983) aveva manifestato dei dubbi circa la validità assoluta del MAD e della teoria della «vulnerabilità» recipro­ ca. Tuttavia, sia pure limitandone l’efficacia all’Aie et nunc, nella sostanza non aveva individuato delle alternative teoriche politicamente possibili e moralmente ammissibili. In effetti, il limite principale della teoria del MAD risiede nel suo carattere di derivazione non autonoma da dottrine strategiche prece­ denti, che erano state elaborate nel quadro di un orizzonte tecnologico e politico intemazionale molto diverso. L’origine concettuale del MAD risale infatti alle dottrine dell’Air Power, professate dai generali dello Strategie Bomber Command da Arnold, Spaatz e Le May, durante la seconda guerra mondiale

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(Quester, 1966: 52 sgg. cit. in Freedman p. 401). L’«entrata in servizio» della bomba atomica, nel 1945, non modificò concettual­ mente questo impianto teorico. Anzi, nei primi anni dopo la guerra, fintanto che l’Urss non ebbe la disponibilità deH’arma atomica, la strategia dissuasiva statunitense era a binario unico, basata sul criterio operativo riassumibile nella formula "delitto e castigo", anche perché la «vulnerabilità» stava tutta dalla parte sovietica (Freedman, 1981; Mandelbaum, 1979; F. Kaplan, 1983; Aron, 1954). Il che comportò un periodo di incertezza (1945-1960) fia difesa/reazione e la tentazione della sorpresa/attacco preventivo da parte di alcuni ambienti militari statunitensi (Rosenberg, 1983: 3-71). Nacque in quegli anni il concetto di «overkill», cioè di «ultramorte», che presiede tuttora al meccanismo della deterrenza. L’adattamento di questa dottrina alla condizione nucleare bilaterale fu quindi il risultato di una trasposizione dei criteri di «vulnerabilità» sovietici agli Stati Uniti. Di qui la creazione del «modello» schellinghiano e il relativo ottimismo degli scienzati sociali circa il suo funzionamento ai quali il processo di «distensione», sembrò, per alcuni anni, dare finalmente ragione. Nella sostanza, però, la dilatazione planetaria del concetto di «vulnerabilità», nonostante lo sforzo teorico compiuto, dipendeva dall’esistenza di tecnologie (testate, vettori, precisione) la cui evoluzione è, per definizione, rapida. Dipendeva inoltre da due concetti interattivi («overkill capability» e «vulnerabilità») la cui labilità potenziale era implicita fin dall’inizio. L’aver sostenuto, come premessa indiscussa, che la situazione nucleare fosse rappresentabile come una «pace di terrore» e non come una «guerra difensiva» di natura particolare (la «guerra possibile» e la posture difensiva bilaterale), ha avuto per conseguenza l’effetto di orientare tutto il dibattito sul falso problema della «parità» delle forze fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Il richiamo della «parità» - come già Liska (1977, 21 sgg.) ha ben dimostrato - e i problemi che essa solleva sono tipici delle fasi di «shifting alliances and protracted antagonism». Ad essa si tende sempre come ad un automatico status di equilibrio, ma da essa ci si allontana sempre più qualora la «non parità» (che è la situazione più frequente) venga percepita come «preeminence» o come aspirazione alla «preeminence» (Liska: 22).

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Il tentativo di sfuggire a questa altalena di «parità/superiorità» finisce per suggerire soluzioni che sembrano a prima vista più rassicuranti, come quella della «invulnerabilità», dirette cioè a man­ tenere la «pace», scalzando però i pilastri della «pace di terrore». La contraddizione fra i due termini è insanabile. Più la «pace di terrore», basata sul MAD, viene intaccata dalle misperceptions reciproche delle due Superpotenze relative al loro rapporto di «parità» (oppure di «equivalenza» ed «equilibrio quantitativo», che sono dei succedanei imperfetti di quella) poiché non esistono delle alternative politico-strategiche credibili, tanto più affiora l’aspirazione alla si­ curezza che solo 1’«invulnerabilità» può offrire. Ma così facendo è proprio il principio che governa il MAD ad entrare in crisi, la paura dell’olocausto reciproco, la sua componente millenaristica e terroriz­ zante. La «guerra», in quella chiave, diventa nuovamente ammissibile, in quanto 1’«invulnerabilità» propria può indurre ad accrescere le pressioni, le minacce o i ricatti sull’altro, fino a provocare lo scontro diretto, certi della propria presunta «impunità».

10. Ancora una volta, la dottrina strategica originaria (l’Azr Power) ha prodotto un’altra dottrina, tuttora in fase di prima elaborazione, quella che ipotizza il «raid» decisivo (la Vernichtungsschlacht) contro l’avversario. La «guerra possibile», considerata a torto come la sola forma di «pace possibile», si trasformerebbe gradualmente, mediante 1’«invulnerabilità» nella forma più classica della guerra, quella «offensiva» che sfrutta la sorpresa, la superiorità e la concentrazione delle forze. La dottrina seguirebbe dunque la tecnologia mentre la teoria inseguirebbe la dottrina? Sembrerebbe di sì qualora si analizzino le «evoluzioni» della teoria dissuasiva negli ultimi anni (Gray, 1979, ecc.), fino alle più recenti ipotesi concettuali e alle mosse politiche dell’Amministrazione Reagan. Alla teoria dell’«Armageddon» si sostituisce così la «teoria della vittoria possibile» (Gray e Payne, 1980), intesa quale «vittoria relativa». Ma che cosa significa «vittoria relativa» in un conflitto nucleare? A differenza degli Americani degli anni Sessanta, Aron aveva sempre nutrito il sospetto che la teoria del MAD nascondesse al suo interno delle falle invisibili che il tempo avrebbe potuto allargare. Già nel 1962 egli supponeva, infatti, «che ciascuno dei due duopolisti sapesse che se colpirà per primo subirà tre

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volte meno danni di quelli che subirebbe il vincitore relativo, e nessuno dei due lo ignorerebbe. Certo anche il vincitore sarebbe colpito duramente e preferirebbe, ove la scelta fosse possibile, la non guerra alla vittoria relativa. Ma preferirebbe anche la vittoria relativa alla sconfitta relativa» (Paix et guerre: 475). La decisione assunta dal governo degli Stati Uniti di studiare un programma di sistemi d’arma e dispositivi stranamente «difensivi», volti entro un ragionevole numero di anni (10-15) a rendere «invulnerabile» il meccanismo di risposta strategica, e quindi anche il territorio americano, indubbia­ mente solleva ulteriori interrogativi sul futuro della dissuasione. D’altra parte, anche l’Unione Sovietica, nel corso degli ultimi dieci anni, ha prodotto e installato dei sistemi d’arma, sia convenzionali che nucleari, tattici, di teatro e strategici, tali da dar ragione alla tesi secondo cui la «guerra possibile», come «guerra difensiva» in atto, necessita di una serie di iniziative differenziate al fine di raggiungere, nel tempo, i veri «scopi di guerra». Se questo è vero, allora la «guerra possibile», intesa nel senso di macchina complessa, dissuasiva e reattiva al tempo stesso, è ancora la sola «guerra possibile» nella condizione nucleare? In realtà, ancor prima che il programma d’«invulnerabilità» ameri­ cano (e quindi sovietico) si mettesse in moto, il problema di una trasformazione della «guerra possibile» esisteva già come eventualità concreta. Aron, che si era posto questo problema, in linea teorica, fin dal 1954 (The Century of Total War. 197 sgg.), aveva avuto molte incertezze. In Paix et Guerre aveva dichiarato che il controllo degli armamenti non era praticabile oltre un certo limite «perché la tecnologia avrebbe scavalcato in velocità la diplomazia. Il che avrebbe reso ancora più fragile la pace del terrore». In Penser la guerre, invece, nel pieno del processo di distensione e del controllo degli armamenti, sia pure a malincuore, sembrò ricredersi. Nelle Mémoires, ultimo atto della sua vita, è invece nuovamente pessimista. In effetti, partendo dalla convinzione che il mondo viva in uno stato di «non guerra», gli scenari di guerra ipotizzabili nei piani operativi o nei modelli di simulazione degli scienzati sociali, sono in qualche maniera grossolani. La loro «verosimiglianza» è limitata dal fatto che generalmente si tratta di ipotesi sempre e solo di «guerra nucleare globale», cioè di

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«battaglia decisiva» in senso clausewitziano. E’ vero che gli Stati Maggiori delle Superpotenze studiano e mettono a punto dei piani di guerra operativi che prevedono molte opzioni parziali e alternative rispetto all’ipotesi di «scambio strategico globale». Tuttavia, sotto il profilo concettuale, l’asse della dottrina resta sempre quello che prevede l’impiego della Triade nucleare come strumento principe per la conclusione del conflitto. Gli altri scenari, quindi, inclusi quelli della «guerra limitata nucleare» (Osgood, 1979), diventano complementari (non sostitutivi) dello scambio strategico. E ciò perché la convinzione di trovarsi in uno stato di «non guerra» focalizza la ricerca sull’opzione alternativa estrema (L’Olocausto), alzando una barriera anche concettuale allo studio dei modi per porre fine alla «guerra possibile» in atto. Accade cioè che, per essere negata in quanto guerra, la «guerra possibile» viene ufficialmente trattata solo con le armi della diplomazia, invece che non anche con quelle della strategia. Il che riduce il ventaglio delle opzioni utilizzabili e ne diminuisce la flessibilità. 11. Questo metodo di trattazione limita altresì le capacità analitiche dei due «attóri», quando la dinamica interattiva dia luogo a situazioni evolutive. In effetti, le variazioni intervenute negli ultimi anni in materia di «comportamento dissuasivo» delle due Superpotenze, non hanno trovato altra spiegazione se non nel futile gioco delle accuse reciproche e delle attribuite responsabilità. Non è peraltro semplice ovviare a siffatta semplificazione se non si tiene conto del fatto che, anche in un sistema di «guerra difensiva», possono avvenire delle modifiche d’intensità, senza che questo comporti, di rigore, una trasformazione qualitativa della forma del conflitto. E’ quindi ammissibile ipotizzare che si sia accentuato l’atteggia­ mento «compulsivo» dei due Grandi rispetto a quello «dissuasivo», a seguito di una trasformazione modale della «guerra possibile» in atto. La differenza fra «compellenza» e «deterrenza» consiste «nella diversità della minaccia volta a costringere un avversario a compiere un’azione determinata ed una tendente invece a prevenire qualche sua mossa» (Schelling, 1966: 69). Deterrenza e compellenza quindi suggerisce ancora Schelling - presentano un numero di caratteristiche che sembrano corrispondere in gran parte a quelle che distinguono la statica dalla dinamica.

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L’attuazione di una politica di «deterrenza» richiede una condotta sostanzialmente passiva: si tratta cioè di dichiarare la propria po­ sizione, stabilire i punti di crisi (le Dottrine Truman, Nixon, Carter, Reagan ecc., oppure Jalta per i Sovietici), assumere un obbligo, e aspettare. • Ma l’attesa, come sappiamo, è una delle caratteristiche della guerra difensiva secondo Clausewitz. Spetta perciò all’avversario di com­ piere la prima mossa: il che consente il prolungarsi indefinito di una situazione di stabilità. La politica di «compellenza», al contrario, comporta generalmente un atteggiamento attivo, ovvero un impegno irrevocabile ad agire, la cui efficacia e continuazione termina solo nel caso di una reazione avversaria. (Schelling: 71). C’è anche un’altra differenza. Mentre la «dissuasione» assume un carattere temporalmente indefinito, la «compellenza» è invece un’azione che pretende una definizione temporale precisa. La risposta dell’avversario alla nostra mossa deve avvenire entro tempi stabiliti, altrimenti non conta ma, anzi, aggrava la controversia. Date queste premesse, la modifica di comportamento delle due Superpotenze, da quello astrattamente dissuasivo a quello compulsivo, ha aperto nuovi interrogativi sulla natura «pacifica» della logica del terrore. L’esempio più recente di logica «compulsiva» è offerto dall’andamento della questione degli Euromissili fra il 1979 e il 1983. L’azione degli Stati Uniti contro l’installazione degli SS-20 sovietici in Russia Bianca e Ucraina, è stata indubbiamente di tipo compulsivo: se entro il 31 dicembre 1983 non ritirerete i missili, noi installeremo i nostri Pershing-II e Cruise. Altrettanto «compulsiva» è stata quella volta a chiedere il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afganistan, correlata alla istituzione delle «sanzioni» economiche contro l’Urss. In entrambi i casi (ma altri se ne potrebbero trovare, anche di segno opposto) la minaccia «compulsiva» non ha ottenuto alcun effetto. Tuttavia, ha certamente accresciuto i livelli di tensione esistenti fra i due Grandi. La «compellenza», infatti, a differenza della «deterrenza», è un’azione che ha tutti i tratti di un «atto di forza» il quale, proprio per la sua natura «attiva», acquista in modo più evidente il carattere di «atto di guerra», sia pure difensiva. Il rischio della «compellenza» è quello della perdita di credibilità per colui che inizia l’azione, qualora l’avversario non dia seguito alle

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minacce del primo, oppure quello di condurre l’altro in una situazione tale che questi non abbia più nulla da perdere, e quindi si senta indotto a reagire violentemente. L’uso della «compellenza», in sostanza, se frequente e accentuato, rivela una tendenza al mutamento della «forma» della «guerra possibile» in atto. Essa allarga il campo delle «reazioni» a dispo­ sizione dei due contendenti (che fanno parte come sappiamo dello strumentario della «guerra difensiva»), durante le «crisi» intemazion­ ali. Mentre la «dissuasione» consiste esclusivamente nel mantenimen­ to di uno status di «non azione» prolungato nel tempo, la «compellen­ za» risponde alle situazioni di crisi con minacce più ravvicinate e tempestive che lasciano però intrawedere la possibilità di transizione della guerra «difensiva» e quella «offensiva». La pericolosità generale di questi fenomeni è riconosciuta da tutti gli analisti. Essa appare ancora più allarmante qualora la si metta in rapporto con l’evolversi della «teoria dell’invulnerabilità» di cui si è già detto. 12. La novità concettuale che sta dietro la crisi dell’«equilibrio del terrore», potrebbe quindi, essere tutta qui: nella rinnovata forza della «compellenza» rispetto alla «deterrenza», cioè nella «possibilità» reale di scoppio della guerra nucleare (sia pure limitata nel tempo, nel luogo e nell’intensità). Prendiamo l’esempio, già ricordato, del «rinnovo» del parco missili di teatro (INF) in Europa da parte dei Sovietici, che ha provocato l’aspra reazione «compulsiva» degli Stati Uniti e poi la controreazione dell’Unione Sovietica», nonostante che, a detta degli specialisti, l’equilibrio strategico globale non si sia radicalmente modificato (IISS, ecc.). Il quesito può essere posto in questi termini: perché le Superpoten­ ze, dopo i progressi compiuti negli anni Settanta in materia di controllo degli armamenti strategici (Salt, I e II), hanno nuovamente irrigidito le loro posizioni soprattutto in materia di missili di teatro? Le risposte possono essere molte. Anzitutto che la teoria generale della dissuasione non copre col suo mantello tutte le specificazioni tematiche (INF) o regionali (Europa). In secondo luogo, che la strategia della dissuasione è accessibile a una pluralità di significati, spesso contrastanti fra loro. La teoria del MAD, ad esempio, ha

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sempre convissuto con la teoria della «guerra nucleare limitata», che ad essa, almeno concettualmente, si contrappone. All’interno dello stesso MAD, inoltre, si confrontano ipotesi di «secondo colpo» basate su una quota dell’arsenale che è orientato su bersagli controforza, che negano, anche sotto il profilo strategico, la stringente logica della risposta controcittà. Oggi poi stanno tornando di moda perfino delle teorie strategiche considerate da decenni obsolete, come quelle che prevedono una rinnovata «combattibilità» convenzionale della guerra moderna, anche su fronti regionali essenziali, in primo luogo quello centroeuropeo. Tali revival strategici, fra l’altro, trovano sostenitori indistintamente, sia fra i «falchi» sia fra le «colombe» della «comunità strategica» intemazionale come nel caso della «Dottrina Rogers» (o del «No Early Use») e quella del «No First Use» di Bundy, Kennan, Gerard e McNamara (Santoro, 1984: 230-275). Si fanno strada, infine, le nuove teorie sulla «vittoria possibile» di Gray e Payne, che ipotizzano scenari di war-fighting della guerra nucleare per periodi di tempo sinora considerati inimmaginabili (fino a 6 mesi). Si veda infine anche la pioneristica Dottrina Schlesinger del 1974 e la «Countervailing Strategy» dell’Amministrazione Carter. Le mutazioni di «forma» della guerra possibile, che possiamo provvisoriamente sintetizzare con la formula dello slittamento dalla «dissuasione» alla «compellenza», rendono insufficienti gli strumenti di analisi sui quali si era formata la generazione degli studiosi di relazioni intemazionali e dei polemologi degli anni Sessanta, di cui Aron era stato l’indiscusso caposcuola in Europa continentale. Per mantenere in piedi la «dissuasione», infatti, bastava una capacità «overkill» bilaterale, mentre per rendere credibili le odierne minacce «compulsive» sarebbe necessaria una panoplia molto più sofisticata: la capacità di colpire presto e bene, quella di eseguire delle vere e proprie operazioni di chirurgia nucleare, di concentrare la superiorità nel punto dato, secondo la regola napoleonica e la scienza clausewitziana della «battaglia decisiva». Rispetto all’equilibrio «dissuasivo», sempre oscillante su valori vicini al punto di equilibrio e mai sottoposto (per definizione) a scostamenti da esso troppo marcati (altrimenti salterebbe il principio), il ritorno ad uno stato di equilibrio, per via «compulsiva», è assai più complesso. La «compellenza», in effetti, viene impiegata essenzial­ mente per due ragioni: a) per smuovere un equilibrio preesistente; b)

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per restaurarne uno largamente compromesso. In entrambi i casi è necessario uno sforzo maggiore di quello necessario a dissuadere. Di qui la necessità di alimentare gli arsenali di «offesa» in modo più cospicuo di quanto non fosse necessario con la dissuasione, soprattutto se la dottrina strategica, la tecnologia, ovvero gli obiettivi politici vanno modificandosi, come è il caso attuale. Per un singolare paradosso, è verosimilmente stata proprio la «ipersicurezza» fornita dall’«equilibrio del terrore» degli anni 70 a preparare il terreno per questa svolta concettuale e operativa. Se la dottrina MAD funzionava in modo tale da garantire Y overkill recipro­ co, - si pensò - al punto da poter ridurre i sistemi d’arma strategici senza intaccarne il potenziale letale, allora la condizione di «non guerra» o di «guerra fredda» avrebbe finalmente potuto cedere il passo alla «pace» senza aggettivi. L’intesa dissuasiva avrebbe fatto da schermo ad ogni velleità bellica residuale delle stesse Superpotenze, ovvero dei «paesi terzi». Il gioco diplomatico, per di più, si sarebbe potuto sviluppare spregiudi­ catamente, senza preoccupazione per gli effetti perversi che, in ogni caso, non avrebbero mai condotto allo scontro nucleare globale.

13. La «dissuasione» MAD, in sostanza, aveva aperto un nuovo terreno di gioco, anche pesante, fra le Superpotenze, oltre che fra gli attori (diffusione di potenza), come accadeva nell’età pre-nucleare, quando la «posta» in gioco era, entro certi limiti, sempre giocabile. Gli anni fra il 1978 e il 1984 sono simbolicamente eloquenti a questo proposito. Convinti che il MAD fosse un sinonimo di «pace», sia i Sovietici che gli Americani hanno iniziato una competizione fra di loro in diverse aree e issues, di cui gli SS-20 sovietici e le speranze di «finlandizzazione» dell’Europa, ovvero i Pershing-n e l’attivismo militare statunitensi, sono gli esempi più significativi. Entrambe le Superpotenze, forti dell’equilibrio dissuasivo (e della «pace» che ne sarebbe automaticamente derivata) si posero obiettivi politici destabilizzanti che violavano sia le «regole» sia il «learning» della distensione. Si comportarono cioè come se la «bomba» non esistesse più. Non è del tutto chiaro quali siano state le singole cause dei singoli atti compiuti dai due Grandi: forse entrambi aspiravano a ristabilire opportunisticamente un nuovo equilibrio che andasse a vantaggio

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dell’uno o dell’altro, forse i fattori di determinazione del comporta­ mento sono altri. Certo il risultato di tutto questo è stato il riaprirsi di una fase dinamica, non all’interno della «pace», ma nel quadro di quell’interminabile «guerra difensiva» che abbiamo definito come «guerra possibile». Il futuro non è prevedibile. Lo stesso Aron chiudeva le sue Mémoires con un punto interrogativo su questo problema. E’ - diceva - «un pari sur la raison» (Aron, 1983: 657) quello di vedere il mondo che si abitua a convivere con le proprie contraddizioni. «L’espoir subsiste, peut-être, l’illusion, que la rivalité Est-Ovest finira par s’user sana une grande guerre menée avec des armes nucléaires» (M.: 657). I nostri tempi non promettono nulla di buono. La «guerra possibile» si fa guerra di movimento, «compulsiva» (ma sempre «difensiva» almeno per ora), rispetto alla guerra di posizione «dissuasiva» del passato. Di qui il moltiplicarsi delle nuove teorie, da quella del «war-fighting» e della «vittoria», a quelle della «superiorità» fino alla «countervailing strategy». Si riaffaccia all’orizzonte quella versione di Clausewitz, monca e imbarbarita nell’interpretazione dei suoi esegeti d’inizio secolo, da Moltke senjor, a Schlieffen, a Ludendorff e Foch, commista di teorie aggiornate dell’«Air-Power» di Douhet e Mitchell, e del «Sea-Power» di Mahan, Tirpitz e Gorshkov. La politica della «guerra assoluta» o «ideale» nucleare, in senso clausewitziano (quella del MAD), tende cioè a diventare politica della «guerra reale», nucleare ma limitata. E’, questa, la guerra più «politica» che si possa immaginare, in quanto proprio per la sua «eccessività», ma anche per la sua «parzial­ ità», dovrebbe restare il più possibile nelle mani della politica, sia prima dello scoppio (dissuasione e compellenza), sia durante (escala­ tion), sia dopo (obiettivi della guerra nella pace). Lo studio dei modi per combatterla (il «war-fighting»), infine, ne sdrammatizza psicologi­ camente la carica «assoluta» e «ideale», rendendola quasi accettabile. La «eccezionalità» della guerra nucleare si stempera quindi in una complessa gestione di scenari di guerra limitata, con limitato scambio di colpi, gestite in un intreccio parallelo o intimidatorio di attacchi nucleari e di trattative. Aron non coglie, neppure in extremis, questo arricchirsi della complessità della «guerra possibile» negli anni fra il 1960 e oggi.

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Gli sfuggono infatti alcune svolte importanti che hanno contribuito a determinarla: a) la distensione, b) la diffusione di potenza; c) la riduzione della soglia fra convenzionale e nucleare, con la miniaturiz­ zazione delle armi strategiche; d) la proliferazione; e) la modifica dell’equilibrio bipolare classico (basato sulla superiorità permanente degli Stati Uniti); f) la raggiunta «equivalenza» da parte dell’Unione Sovietica. In particolare, quest’ultimo punto, non è stato valutato a fondo. Il sistema bipolare, infatti, dal momento in cui gli Stati Uniti hanno ammesso 1’«equivalenza» strategica con l’Unione Sovietica (1972), è diventato «senza spalle», ovvero senza metri di misura. Chi potrà dire con certezza se l’altro attaccherà per primo quando non c’è più alcun limite alla capacità d’intervento spazio-temporale per entrambi i contendenti? Quali forme assumerà poi il conflitto se la tastiera delle risposte e la loro trattazione politica, durante l’azione militare, è imprevedibile, e per ciò stesso apre la strada ad un vasto percorso analitico quale è quello della «diplomazia bipolare di guerra»? 14. Il Leviatano hobbesiano, nato per contratto dall’emergenza è atteso al varco dell’«eccezione», che - come si sa - è data dalla guerra, dalla rivoluzione, oppure dalla «ritualizzazione» - si potrebbe aggiun­ gere, con gli etologi della guerra. In effetti, le ipotesi sono tante; alcune delle quali valide (almeno in prospettiva) perfino sul gigan­ tesco palcoscenico del sistema intemazionale bipolare. Dallo scontro «ritualizzato» alla «sottomissione», alla compressione della lite per «intervento di terzi» (come sarebbe se le Nazioni Unite, attore «universale per eccellenza, funzionassero nei loro compiti istituzion­ ali), alla costituzione di un «ordine gerarchico», all’individuazione di «moduli comportamentali associativi e pacificatori», alle tecniche per «evitare le provocazioni», allo sviluppo di un «codice di regole», alle «azioni evasive» come l’interruzione del contatto e il ripiegamento, alle «valvole di sicurezza» regolabili, perfino ai «vincoli matrimoniali» come un tempo, al mantenimento dì canali di «contatto», alla «coscienza umanitaria» e all’«integrazione politico-economica», quale doveva essere il principio dell’interdipendenza (Eibl-Eibesfeldt: 221, 226). La lista delle «forme» assumibili dalla «pace possibile» è lunga. E potrebbe allungarsi. Si tratta, tuttavia, di procedure essenzialmente

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comportamentali che non toccano la «sostanza» delle controversie intemazionali che potrebbero portare ai conflitti. Non si misurano cioè sul terreno degli «interessi», ovvero su quello, ancor più sdrucciolo, delle «percezioni» degli interessi in gioco, che fanno da sfondo ad ogni guerra (Carr, 1939; Morgenthau, 1948, Jervis, 1977). Cosicché, fintanto che il «learning» bipolare non si sarà fatto davvero strada, la parola decisiva resterà alla politica, e quindi alla guerra che di essa è uno strumento. Il sistema intemazionale contem­ poraneo, fondato su due poli di potenza, non può infatti non essere un «sistema transitivo». La sua logica è, per natura, di contrapposizione. Nato dalle ceneri di un sistema «multipolare» (quello Equilibrio di potenza), il sistema attuale è altresì il fratto di due «progetti» imperiali incompiuti, quello americano di rimodellizzazione univer­ sale del pianeta, e quello sovietico di rivoluzione mondiale. (Sui «war aims» dei belligeranti nella seconda guerra mondiale, si rinvia a Santoro, 1987) Questa doppia mutilazione degli obiettivi di guerra (war aims) sancita, anche fisicamente, sugli spalti di Berlino e sulle sponde dell’Elba, non poteva non generare un sistema ellittico a doppio fuoco, naturalmente competitivo, e al limite, un «sistema di guerra». La morfologia tendenziale dei sistemi intemazionali è infatti sostanzialmente duplice: a) quella «multipolare» dell’Equilibrio; b) quella «monopolare» dell’Ordine intemazionale, o più tradizional­ mente, dell’«Impero» (Liska, 1977: XI sgg.). Talvolta, però, gli stessi attori nazionali «essenziali» (M. Kaplan, 1957) perseguono, in tempi diversi, obiettivi che sono, volta a volta, di «Equilibrio» o di «Impero». In entrambi i casi, lo status del sistema è vissuto come «stabile», o relativamente «pacifico». La struttura del sistema «bipolare», invece, risponde alla legge storica del «duello» che - con Clausewitz - è la forma primogenita della «guerra». Ogni sistema bipolare storicamente consolidato, si è quindi organiz­ zato come «sistema di guerra» (Roma-Cartagine; Atene-Sparta; Geno­ va-Venezia; ecc.). La sua caratteristica, in particolare, è quella di agire in quanto tale anche in quella fase di confronto che formalmente precede lo scatenamento dello scontro diretto. Tucidide, nella Guerra del Peloponneso, descrive bene quel periodo di preparazione al conflitto che, nella sostanza, è già una situazione bellica. «Questi due

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stati (Atene e Sparta) disponevano evidentemente delle potenze maggiori: gli uni sulla terra, gli altri con la flotta. L’intesa fra loro non fu duratura. Presto i rapporti s’incrinarono. Spartani e Ateniesi entrarono in uno stato di guerra, con al fianco i rispettivi collegati. Gli altri Greci, poi, se insorgevano contrasti, si inserivano nell’orbita dell’una o dell’altra potenza. Di conseguenza il periodo tra il conflitto persiano e questa guerra fu tutto un avvicendarsi continuo di tregue e atti di ostilità, reciproci o sferrati contro i propri alleati dissidenti». (Tucidide, I, 26-27). La macchina bipolare, la struttura dei blocchi contrapposti, le coalizioni e le forme assunte dal conflitto sono oggi, come allora, della stessa sorte. Il problema, è quello di sapere se si tratti di duello al primo o all’ultimo sangue. La logica del terrore contempla essenzialmente delle soluzioni estreme, la cui pericolosità alla lunga non può non diventare intollerabile. L’odierna tendenza a privilegiare gli atti di forza parziali, il braccio di ferro regionale, invece della prova di resistenza, e quindi di logoramento, in ultima analisi, cerca di sfuggire aH’altematìva fra «tutto o nulla», che la teoria dissuasiva imporrebbe. Certo, i pericoli di questa deviazione che Aron viveva come una percezione di instabilità permanente, sono grandi. Tuttavia, la nuova dinamica dei rapporti intemazionali potrebbe tradursi in duelli «parziali», forse «ritualizzati», di aree regionali, la cui funzione di «valvola» andrebbe ben oltre la mera azione di restauro della «statica» bipolare e quindi dell’attesa dell’olocausto, per definirsi in «vittorie/sconfitte» parziali, ma definitive. In altri termini, si scomporrebbe la scacchiera centrale in più scacchiere parziali, di area o tematiche, sulle quali il conflitto potrebbe essere aspro, anche bellico (al limite anche nucleare), al termine del quale però i conflitti di area sarebbero risolti una volta per tutte, senza l’intervento dello scambio strategico. Nella sostanza, si tratterebbe di un processo di «divisibilità» della pace e della guerra, una deconcentrazione delle forze in campo, della volontà e dell’intensità della guerra (Clausewitz: 23). > 15. Aron non condivideva queste opzioni concettuali, temendone le implicazioni impreviste. Egli restò sempre un bipolarista convinto, anche se neppure il suo cielo era sgombro di nubi. Fra l’altro, egli aveva ben compreso che il rafforzamento militare sovietico dell’ultì-

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mo decennio aveva fatto saltar la cerniera fornita dalla «teoria dell’escalation», appendice concettuale integrata della dissuasione (ma su scala più ridotta), dal momento che anche l’Urss aveva ormai raggiunto la capability necessaria per «giocare» alla graduazione delle risposte, cosicché il lóro effetto dissuasivo ne risultava stemperato. Tuttavia Aron non intendeva che proprio nella maggiore flessibilità operativa di entrambe le Superpotenze si nascondesse il segreto risolutivo del «difetto di fabbricazione» originario del sistema bipo­ lare. Quando in Paix et guerre aveva scritto che «il Grande che vuol dissuadere dispone di due tattiche per eludere l’impegno del rivale, quella del carciofo e quella del/atto compiuto», egli non teneva conto che la novità strategica della «guerra possibile» sta proprio nella capacità di impiegarle entrambe su scala regionale, rischiando una posta che è e deve restare solo regionale. Tale eventualità non avrebbe potuto però occorrere qualora, alla flessibilità dell’arsenale americano, i Sovietici avessero potuto contrapporre esclusivamente una contro­ forza strategica nucleare, ovvero una massa di manovra solo conven­ zionale. La tattica del carciofo, in effetti, «consiste nel dividere l’aggressione in tante parti quante saranno necessarie affinché nessun passo giustifichi una replica violenta...», quella del fatto compiuto, invece ha lo scopo di capovolgere la situazione iniziale «l’aggressore sarebbe ormai sulla difensiva e il partito che inizialmente era sulla difensiva dovrebbe costringere l’altro a ritirarsi». (Paix et guerre: 500). Se queste due tattiche potessero essere mantenute entro limiti ben definiti, sia spazio-temporali che di intensità, potrebbero indubbia­ mente svolgere una funzione dinamica nel sistema bipolare, con l’ulteriore risultato di contribuire, nel lungo periodo, a «de-polarizzarlo» e, quindi a «de-bellicizzarlo». L’alternativa «naturale» a quest’ipotesi è invece data dal modello dello «stallo nucleare» che, apparentemente, congela il dispositivo della «Formula» clausewitziana, con l’argomentazione che nessuna posta vale la candela della guerra atomica, talché, se la guerra dovesse scoppiare davvero, si entrerebbe automaticamente in un’orbita metapolitica, senza scenari di sorta, né politici, né strategici. La conseguenza più grave di questo congelamento è data dal fatto che proprio la politica, in quanto sintesi decisionale, verrebbe esclusa, sia in pace che in guerra, dal giro delle relazioni intemazionali, con

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considerevoli conseguenze negative sulla capacità di soluzione dei contrasti di interesse per i quali in ultima analisi si fanno le guerre. D’altra parte è lo stesso Aron a dirci che lo «stallo nucleare», anche se basato sulla «pace di terrore», non è indefinito, perché «il costo e il profitto di una guerra non possono venire valutati rigorosamente... Che valore attribuire infatti, per l’uno o per l’altro dei Grandi, al fatto di potersi sbarazzare della minaccia costituita dall’altro?» (Paix et guerre: 507). Aron non riesce dunque a convincersi (o a convincerci) mai del tutto che la «dissuasione», più la «persuasione», e, se del caso la «sovversione», sono in grado di garantire la pace per sempre. Spentosi nei mezzo di un nuovo periodo di tensioni e conflitti fra Est e Ovest, Aron non aveva però perso l’occasione per schierarsi ancora una volta «dalla parte» del sistema bipolare, chiedendo un nuovo «equilibrio» strategico in Europa, come nel mondo, senza per questo staccarsi dal computo delle risorse, delle forze, delle «poste», dei «commitment», della geografia. Come studioso delle relazioni fra stati, in termini di diplomazia e di negoziato, di pressioni e influenze, e come teorico della struttura bipolare, Aron non può fare altro che ipotizzare la «guerra possibile» come una «non guerra». E ciò per ragioni di principio, oltre che psicologiche culturali, e morali. Ma, così facendo, commette l’errore di non vedere che l’architettura del MAD è basata su una posture di entrambi i contendenti che è al tempo stesso astratta (cioè senza un interlocutore reale, ma solo «inventato», attraverso la teoria dei comportamenti e delle decisioni razionali), e difensiva (entrambi devono crearsi una minaccia ed elaborare una dottrina ad essa adeguata di pura risposta). La forza d’interdizione della guerra che promana dalla teoria dissuasiva MAD riposa quindi sul «doppio commitment» dei due Grandi a difendersi da una minaccia che è indubbiamente reale e oggettiva (in quanto esistono e si misurano), ma anche da un attacco, che è invece immaginario e soggettivo,, (perché frutto di una proiezione speculare delle proprie percezioni) dal quale ci si può riparare solo attraverso quel processo di «guerra difensiva» che è la «guerra possibile». Questa coesistenza contraddittoria di pace e di guerra mina alla base la validità della cosiddetta «pace di terrore», anche perché

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diventa terreno di cultura di pericolose misperceptions reciproche nel caso di «crisi» intemazionali gravi (Allison, 1971; Lebow, 1981; Brecher 1979). La sua credibilità è in sostanza fondata su un «valore negativo», quello della staticità quasi assoluta del sistema bipolare nelle sue cerniere principali. La ragione ultima di questa immobilità, rivelata perfino visivamente dal congelamento delle frontiere europee uscite dalla seconda guerra mondiale e dei suoi regimi politici (mai un passaggio da un campo all’altro è avvenuto fra il 1945 e oggi: perfino la Jugoslavia è rimasta a metà, con una gamba di là e una di qua, della «cortina di ferro»), sta forse nella fragilità immensa dell’intero apparato dissuasivo, della quale sono consapevoli anche le Superpotenze. Ma la staticità non è evoluzione, anzi è compressione del conflitto latente. La fase dinamica di «suddivisione dei rischi» che sta oggi vivendo il sistema intemazionale potrebbe essere un tentativo, sia pure azzardato, di trovare una via d’uscita, senza mettere in gioco il destino di tutti con un solo colpo di dadi. (1984)

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6. TEORIA E STRATEGIA DEL BIPOLARISMO

1. Nella prima parte di questo saggio cercheremo di verificare l’ammissibilità logica e l’utilità funzionale dell’ipotesi concettuale che considera il sistema intemazionale bipolare come un «sistema di guerra». Nella seconda parte, invece, verranno esposte le linee del dibattito intellettuale e politico (in cinque fasi) che, fra il 1945 ed oggi, ha fornito il supporto dell’analisi strategica allo studio dei meccanismi di funzionamento del sistema intemazionale bipolare (BP). La correlazione fra la prima e la seconda parte è data dal fatto che la individuazione della natura «bellica» del sistema BP può a nostro avviso essere dimostrata, per deduzione, tramite la qualità innovativa del pensiero strategico postbellico rispetto alla tradizione precedente. In effetti la «componente strategica» si è rivelata essenziale, sia nella determinazione delle strutture concettuali ed operative del sistema intemazionale inteso come «sistema politico», sia nella condotta e negli atti dei principali attori che ne costituiscono le unità organizza­ tive. Per «sistema di guerra» s’intende quel modello particolare di funzionamento delle relazioni intemazionali che si realizza quando i principali attori si trovano ad operare in condizioni che, per la loro natura sistemica, non possono essere che inconciliabilmente antago­ niste. Tale «status» predetermina, almeno in linea teorica, il destino del sistema stesso. Esso, infatti, a differenza dei sistemi intemazionali «ordinari», come quello dell’Equilibrio o quello imperiale (1), oltre ad avere, come tutti, un principio costituente storico, avrà sempre lo stesso tipo di fine, quella che risulterà dall’esito del conflitto, in termini di vittoria/sconfitta, o meglio di «war termination» (2). La

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struttura di un «sistema di guerra», inoltre, è meno duratura di quella di un sistema intemazionale «ordinario» che presenta «configurazioni stabili» più marcate (3). Per questi motivi al «sistema di guerra» è più difficile applicare un’analisi struttural-funzionale del tipo di quella utilizzabile nello studio del comportamento «attuale e variabile» dei sistemi dotati di basic needs (autoconservazione) e di meccanismi di autoriproduzione, che sono presumibilmente più stabili (4). Se assumiamo, quindi, che il sistema BP sia un «sistema di guerra», la validazione/falsificazione dell’ipotesi potrà avvenire in più modi: a. adottando un metodo storico-comparativo che metta in relazione il sistema BP con i sistemi precedenti, misurando quindi la «belli­ cosità» intrinseca di quello rispetto agli altri; b. verificando se, e fino a che punto, esso dimostra una coerenza interna delle sue parti finalizzata alla «guerra», o meglio al «conflitto» (5); c. impostando modelli teorici di sistema intemazionale, alternativi o complementari, per rivelarne le affinità e/o le difformità (6); d. analizzando, in parallelo con l’evoluzione delle strutture del sistema BP, la dinamica del dibattito sulle «forme» della sicurezza, nonché sugli scenari della «guerra possibile», che ha animato il quaranten­ nio postbellico (7).

Abbiamo selezionato, fra gli altri, quest’ultimo approccio perché ci è sembrato il più adeguato, data la particolare ossatura del sistema BP che riposa sull’esistenza di un certo equilibrio degli arsenali nucleari delle due Superpotenze, a indagare sulle specificità di un sistema intemazionale largamente innovativo rispetto al passato (8). Come ogni sistema intemazionale, anche il sistema BP è nato, in quanto corpo di nonne e procedure, dalla guerra (la «guerra fonte» di Bobbio e Bonanate) (9). Tuttavia, nonostante che i suoi tratti siano stati definiti dalla sorte delle armi, il sistema BP non ha corrisposto, altro che, parzialmente, alle aspirazioni dei vincitori. I «War Aims» dei due maggiori attori (Stati Uniti e Unione Sovietica) erano di ben maggiore e più complessa portata di quanto il destino non avesse loro assegnato (10). Nelle intenzioni dei leader, infatti, il nuovo ardine intemazionale avrebbe dovuto basarsi su un

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sistema di sicurezza collettiva che avrebbe perpetuato la coalizione di guerra e l’egemonia dei vincitori (11). Nei fatti, invece, i connotati del sistema si fecero rapidamente bipolari, con la coStituzione di una struttura ellittica, quindi a due «fuochi» (Usa e Urss), ciascuno dei quali era al centro di un sottosistema d’«influenza» contrapposto. Il modello che ne derivò fu quello di un sistema intemazionale ambiguo e mutilo, senza i contrappesi del «sistema dell’Equilibrio» di potenza ottocentesco, né dotato di un «ordine» gerarchico e giuridico, come in una struttura di tipo imperiale (12). Assunse, anzi, la forma mercuriale del «duello», (e, più raramente quella del «gioco»), la cui instabilità è, per definizione, permanente, fintanto che il duello (o il gioco) non siano stati vinti o persi, una volta per tutte. Altrove abbiamo affrontato questo tema più diffusamente (13). Qui ci basterà asssumere che la «forma-duello», nelle relazioni inter­ nazionali (o non solo in quelle), è sinonimo di struttura di conflitto, o meglio di «sistema di guerra». Questa affermazione è legittima se si tien conto che il sistema BP si caratterizza - come abbiamo già ricordato - rispetto ai predecessori, proprio per la qualità innovativa del suo modello di sicurezza (lancia!scudo) che si fonda sulla gestione diadica delle armi nucleari e dei loro vettori. D’altro canto, la correlazione fra duello e guerra non è di oggi. Già Clausewitz aveva detto che «la guerra non è che un duello su vasta scala» (14). Anche se non è sempre vero il contrario, cioè che ogni duello è una guerra, è tuttavia possibile affermare, sulla scorta di quattro decenni di espe­ rienza, che nel caso di una struttura globale quale è quella del sistema BP, l’ipotesi che ci si trovi di fronte ad un sistema irrimediabilmente antagonistico, è del tutto verosimile. Questa inconciliabilità quasi assoluta non deriva solo dall’oggettività dei conflitti d’interesse, e neppure dalla incomunicabilità delle ideologie e/o delle culture rispettive. Scaturisce piuttosto da ragioni che dipendono dalla conformazione stessa del sistema diadico o bipolare, la cui specificità risiede nel sostanziale duopolio nucleare degli attori protagonisti. L’esistenza di arsenali atomici sovrabbondanti da entrambe le parti, determina lo spazio di manovra del sistema BP nel suo complesso. Il rischio dell’olocausto nucleare, che ha trattenuto finora i due Grandi dallo scontrarsi direttamente, dato il carattere bipolare del sistema,

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invece di ridurre il grado di antagonismo potenziale lo ha, nei fatti, accresciuto, perché ha impedito che le controversie insolubili per via diplomatica si risolvessero, con uno o più atti di forza, commisurati alla posta in gioco (15). La «nuclearità», in sostanza, ha fatto aumentare gradualmente la posta in gioco fra le due Superpotenze senza togliere nulla all’instabilità del sistema BP in quanto tale. In effetti, l’attribuzione, in via quasi esclusiva, dell’uso politico o militare delle armi nucleari ai due Grandi, ha concentrato in due soli centri di decisione l’intero carico di tensioni e conflitti che emergono dai quattro angoli del mondo, senza peraltro autorizzarli a «decidere» nuclearmente la partita (16). I rischi di «proliferazione», nonché la possibilità che in futuro possano aversi episodi di guerra nucleare fra attori medi e perfino minori, ovvero la constatazione che coU’andar del tempo la capacità di controllo delle Superpotenze sulle rispettive jone d’influenza è andata diminuemdo fino a mutarsi in forme di «Diffusione di Potenza» (17), non ha ridimensionato il carattere antagonistico del sistema BP. Semmai ne ha accentuato la pericolosità potenziale poiché potrebbe innestare sul modello «bipolare flessibile» che oggi sperimentiamo, quello più complesso e meno controllabile detto dell’«unit veto» (18). La «forma-duello», inoltre, proprio per il suo carattere di struttura intermedia e tronca di sistema intemazionale, nel «continuum» immaginario che vede ad un estremo la forma «Impero» e, all’altro estremo, la forma «Equilibrio», rispecchia in certo modo una soluzione tanto labile quanto provvisoria. E ciò perché il «duello» pretende sempre, per definizione (a differenza del «gioco», che contempla anche il «match nullo», ovvero una soluzione di «parità»), un vinto e un vincitore, cioè una «decisione» (19) che, nel momento stesso in cui avviene, modifica radicalmente la struttura stessa del sistema. In altri termini, il sistema «diadico» vive in funzione della sua dissoluzione in un sistema «monistico», ovvero «multipolare». Comunque nega una delle regole primarie dei «sistemi viventi», quella della «self-maintenance» o autoconservazione (20).

2. Il sistema PB non è dunque un sistema «stabile», né stabiliz­ zatole. Esso rappresenta una forma anòmala, e probabilmente transito­ ria, nella storia delle relazioni intemazionali, non tanto perché nel passato non si trovino casi di sistema PB di notevole durata storica. Al contrario, da Sparta a Atene, da Roma a Cartagine, fino a Genova e

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Venezia, gli esempi di simili rapporti diadici non mancano. Tuttavia, si è sempre trattato di strutture operanti all’interno di contesti regionali (il Mediterraneo nei casi ricordati) i cui livelli di comunicazione e di interazione erano relativamente limitati e intermittenti. Il che non alimentava in modo continuo il grado di conflittualità esistente fra i due poli. Nel caso del sistema centrato sui poli americano e sovietico, invece, il «contatto» spazio-temporale, nonché il carattere «globale» della relazione, sono molto più intensi e continui. I rapporti di interdipen­ denza, sia all’interno dei due sottosistemi d’influenza, occidentale e orientale, sia nelle relazioni dirette fra le due Superpotenze, sono incommensurabilmente più fitti di quanto non fossero nel passato. Gli effetti di retroazione sono molto più attivi e i fenomeni di adattività reciproca non sono sufficienti a evitare che il rimbalzo delle con­ seguenze accresca i livelli di tensione ad ogni mutamento di «peso» (21), vero o presunto, che il sistema subisce in uno dei due poli. Già queste diversità, rispetto agli esempi storici, basterebbero a indicare la specificità del sistema BP come «sistema di guerra». Per di più, il ciclo dei sistemi bipolari mediterranei dell’età antica e medievale comprova il fatto che quando si stabiliscano delle relazioni diadiche di contatto anche sporadico fra attori, la metafora che meglio ne rappresenta il comportamento politico, resta quella della «forma-duel­ lo». Ma se il sistema BP è un «duello», cioè un «sistema di guerra», allora lo «stato» di guerra ne caratterizza tutto il suo corso, anche quando non si faccia uso aperto delle armi, né s’impieghi in qualsiasi forma la forza. Le interruzioni del conflitto armato saranno, dunque, qualcosa di molto vicino alla «tregua», ovvero all’«armistìzio», piuttosto che non allo stato di «pace». Se questa premessa è logicamente coerente con quanto abbiamo fin qui detto, allora il concetto stesso di «pace», perfino nella sua forma più degradata, quale è quella che abbiamo vissuto nell’arco del periodo postbellico, cioè la «war avoidance», non avrebbe di per sé alcun senso nell’analisi del funzionamento del sistema BP, né come realtà, né come progetto. Qualora si aspiri alla pace, vivendo nel sistema bipolare, si deve perciò essere ben consapevoli che questo disegno comporta la radicale trasformazione del sistema intemazionale nel suo complesso, con tutti

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i rischi che essa implica. Hanno invece maggior significato euristico quei concetti, come «dissuasione» o «persuasione» (deterrence e compellence nel senso di Schelling) (22), che in un sistema BP, in quanto «sistema di guerra», hanno il più limitato compito di impedire la ripresa delle ostilità (23). L’enfasi che nel corso del quarantennio postbellico è stata posta sul termine-concetto di «dissuasione» è rivelatrice, insieme al fatto che la gran parte dei trattati di pace con i paesi vinti della seconda guerra mondiale sono giunti con trenta anni di ritardo (e in qualche caso sono ancora da firmare), della natura oggettivamente antagonista e «belli­ cosa» del sistema BP, nonché della sua permanente instabilità. D’altro canto, anche il conio della formula «guerra fredda» nella seconda metà degli anni ’40, dimostra quanto fosse evidente fin dall’inizio il senso di quei tratti distintivi. Tuttavia, sia pure con questi limiti, la correlazione esistente fra i concetti di Pace e di Dissuasione potrebbe aiutare a capire meglio il significato di quella struttura particolare delle relazioni intemazionali che è il sistema BP. Anzitutto va detto che il binomio Pace/Dissuasione (P/D) può essere analizzato in quanto tale, ovvero nei termini di cui è composto (P e D). In entrambi i casi il binomio P/D può assumere valori diversi a seconda che esso sia: (a.) un prodotto residuale dell’equilibrio di potenza all’intemo del sistema intemazionale, ovvero della conser­ vazione dello status quo, della ricerca e dell’ottenimento di vantaggi (parità, superiorità, ecc.); (b.) una finalità generale del sistema, condivisa dagli attori (come in un sistema di sicurezza collettiva), attorno al quale si organizza, secondo regole e procedure determinate, l’azione politica intemazionale, e quindi il sistema d’interazione delle unità organizzate. In altri termini nell’ipotesi (a) il sistema intemazionale in equilbrio stabile «produce», per derivazione, sia P che D, ovvero P e/o D, mentre nell’ipotesi (b) il sistema è «finalizzato» a raggiungere e mantenere P tramite D, e, a questo scopo, orienta le risorse e organizza, per quanto possibile, i due sottosistemi principali di interazione (Est-Ovest), gestendo o contenendo al tempo stesso gli attori minori per evitare fenomeni di Diffusione di Potenza (DP). Dalla scelta fra questi due approcci discende il modo in cui si articola quell’anima «oscura» della cultura «internazionalistica» post-

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bellica che è stato il pensiero strategico del sistema BP, sia nelle strutture portanti, sia nella sua dinamica storica. La tesi secondo la quale P e D sono il prodotto residuale (ovvero l’output) di un’equazione (equilibrio) comporta una serie di regole essenziali cui il sistema dovrebbe conformarsi (24), fra le quali non includeremo certo quelle relative al mantenimento di P e/o D. In effetti il sistema così concepito non esclude che qualora non venga garantito il quadro delle regole essenziali (status quo, vantaggi, ecc.) la P e la D possano essere abbandonate a favore della guerra. La tesi invece che P e D siano il fine stesso del sistema inter­ nazionale, come nel caso di un «ordine» universale, ovvero di un sistema di «sicurezza collettiva» globale, comporta di per sé una disponibilità degli attori a modificarsi e a comporre l’interazione fra le variabili in gioco secondo linee funzionali più elastiche. Questa «forma» di sistema intemazionale curerà di più il mantenimento della P, cercando di evitare raggravarsi delle «crisi», usando la D e la cooperazione con più frequenza, adeguandola alle necessità. Tuttavia, se nonostante tutto la guerra prendesse il sopravvento, la struttura stessa del sistema crollerebbe. In sostanza, un sistema intemazionale che ha per fine la «pace» e la «dissuasione» della guerra, nel momento in cui entra - per così dire - nell’area del conflitto, perde la sua ragion d’essere e si trasforma in qualcos’altro. Questa, che può sembrare una lunga disgressione rispetto al tema, in realtà, serve a sgombrare il campo dall’idea che il sistema BP possa essere considerato come un sistema tradizionale. In effetti, esso non è né il sistema dell’ipotesi (a) per la quale la «pace» e la «dissuasione» sono by-products del funzionamento del sistema, né quello dell’ipotesi (è) secondo cui la «pace» e la «dissuasione» sono il fine stesso, e quindi la causa fondante, del sistema. Il sistema BP è invece una terza «forma» (c) di sistema inter­ nazionale, in cui il rapporto fra «pace» (P) e «dissuasione» (D) è stato definitivamente tagliato. Avevamo già detto che i due termini del binomio potevano essere studiati, sia nella loro interazione sia nel caso in cui fossero scissi. Nel sistema BP, infatti, P e D non sono più funzione l’una dell’altra. Anzi, il concetto di dissuasione, così come si è andato formando e perfezionando nel sistema bipolare, ha gradual­ mente acquisito una valenza opposta a quello di pace. Esso misura infatti l’intensità della tensione in atto, limitandosi a sospenderne il

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violento scatenamento. D’altra parte, come si capirà più avanti quando parleremo delle teorie strategiche del «war fighting» o della «guerra nucleare limitata», vedremo come il concetto di dissuasione, nel contesto intemazionale contemporaneo e nella letteratura strategica postbellica, sia stato spesso inteso come uno strumento di manage­ ment politico che può essere impiegato non solo prima della guerra, con lo scopo di evitarla, ma anche durante il conflitto (intra-war deterrence), con lo scopo di graduarne l’escalation a fini politi­ co-diplomatici (25). Ne discende che il fine della dissuasione è solo accidentalmente preventivo del conflitto (War-avoidance), mentre la sua vera funzione è quella di accrescere i numero degli attrezzi a disposizione nel bargainig sistemico fra i «duellanti». Nel sistema intemazionale BP, insomma, esiste «dissuasione» senza «pace». Il che lo qualifica ulteriormente come «sistema di guerra». La principale obiezione che può esser rivolta alla «bellicosità» del sistema BP consiste semmai nel fatto che, a partire dal 1945, non si è mai verificato un confronto bellico diretto fra le Superpotenze leader di sottosistema (Usa e Urss). In effetti, il «duello» si è congelato in atteggiamenti minacciosi reciproci, ma non si è mai concretizzato in un conflitto aperto (26). L’obiezione non ci pare del tutto convincente. E’ ciò per almeno due ragioni. La prima è data dal fatto che la guerra in atto nel sistema BP si è manifestata lo stesso sul campo attraverso la serie di conflitti locali e regionali che hanno, volta per volta, coinvolto entrambe le Superpotenze contro avversari minori. Vi sono poi stati diversi conflitti avvenuti per delega, indotti o frenati dai due Grandi. La seconda ragione discende dall’ovvia constatazione dell’esistenza di arsenali nucleari la cui gestione operativa, nonostante decenni di studi e di esperimenti, è tuttora molto aleatoria e imprevedibile (27). Se si analizzano le maggiori «crisi» fra gli Stati Uniti e L’Unione Sovietica, nelle quali il rischio nucleare è sembrato elevato (Berlino, 1948, e 1961, Cuba, 1962, Medio Oriente, 1973), balza agli occhi evidente il fatto, che la «soglia» fra la guerra convenzionale e quella atomica non è stata veramente mai sfiorata, altro che propagandisticamente. Perfino la crisi dei missili sovietici a Cuba, nell’ottobre 1962, ovvero le minaccie di Bulganin contro la Francia e la Gran Bretagna, nel 1956, non hanno mai fatto incrociare in modo deciso le lame atomiche delle Superpotenze (28).

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3. Queste misure di autocontrollo nell’impiego dell’arma atomica da parte di entrambi i contendenti hanno però anche un significato strutturale che, a nostro avviso, va ben al di là della dissuasione dovuta alla più che legittima «paura» dell’olocausto nucleare, ovvero, come già Aron aveva messo in evidenza, al timore del «suicidio collettivo» (29). Ciò che ha trattenuto finora le Superpotenze dall’aggredirsi l’un l’altro con ordigni nucleari è stato soprattutto il fatto che, fin dagli anni ’40, era apparso chiaro che al sistema BP mancava uno dei capisaldi concettuali della ferrea logica del duello, quello della «risoluzione» del conflitto in termini di vittoria/sconfitta. Non si poteva raggiungere, cioè, la certezza che attraverso l’impiego dell’ar­ ma atomica si sarebbe potuto «concludere» il duello in modo definitivo dando vita, per questa via, ad un nuovo assetto istituzionale delle relazioni intemazionali. L’assenza di una «teoria della vittoria» (30) è stata per 40 anni il limite invalicabile che ha impedito al sistema BP, sia di equilibrarsi sia di destabilizzarsi irrimediabilmente. Partendo da quest’ultima costatazione ci è parso utile, ai fini della nostra ricerca, domandarci come mai un «sistema di guerra» quale è il sistema BP, avesse potuto funzionare per decenni senza mai raggiungere quella che avrebbe dovuto essere la sua finalità «naturale»: lo «spasmo» nucleare globale, ovvero l’«affondo» definitivo (31). In altra sede abbiamo avanzato l’ipotesi che una risposta a siffatto quesito poteva essere data considerando il sistema BP come un sistema di guerra speciale, da analizzare con l’ausilio degli schemi concettuali offertici dalla lezione di Clausewitz sulla «guerra difensi­ va» (32). Non entreremo nel merito di questa ipotesi che peraltro svilupperemo meglio altrove. Qui ci preme, invece, sottolineare come il modello bipolare, in quanto «sistema di guerra difensiva» in senso clausewitziano, sia un caso unico (o quasi) nell’esperienza storica delle forme di guerra. Si tratta infatti di una «guerra difensiva» caratterizzata dal fatto che invece di conformarsi allo schema classico fornito da un «attaccante» e da un «difensore», la sua morfologia sembra funzionare come se i «duellanti» avessero entrambi assunto il ruolo di «difensori». Saremmo cioè di fronte ad una «guerra difensiva bilaterale» che come s’arguisce facilmente non può disporre, per definizione, di una «teoria della vittoria» in senso tradizionale (33). Il concetto di «guerra difensiva bilaterale» potrebbe sulle prime

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apparire paradossale in quanto la difesa «risponde» in qualche modo ad un «attacco», e se l’attacco non c’è, non dovrebbe neppure esserci la difesa. Lo stesso Clausewitz scrive esplicitamente che «la difesa non esiste che contro l’attacco, e cioè presupponendolo necessaria­ mente; l’attacco invece non esiste in funzione della difesa, bensì della presa di possesso, e quindi non presuppone necessariamente la difesa» (34). Tuttavia, in un sistema intemazionale globale, come è quello BP a struttura diadica, talché ad ogni punto di «contatto» nelle varie regioni del mondo corrisponde una ipotesi di «duello» diretto o indiretto, il problema dell’«attacco» e della «difesa» in senso stretto diventa secondario. Ciascuna Superpotenza è, infatti, convinta di essere «attaccata» dall’altra, sia sotto specie di «duelli» locali o per interpo­ sta persona, sia sotto la specie di una «minaccia» potenziale il cui attento studio determinerà poi le «forme» concrete della difesa reciproca. Questa «guerra virtuale» (35) è in realtà una guerra tout court, poiché colui che introduce per primo nell’azione l’elemento della guerra da cui scaturisce resistenza iniziale di due antagonisti, stabilisce anche le prime leggi della guerra; e questi è il difensore... E’ quindi nella difesa che occorre cercare il punto fisso posto al di fuori della mutua relazione che esiste fra attacco e difesa (36). Le parole di Clausewitz si adattano perfettamente al contesto bipolare, e aiutano a capire la specificità delle relazioni fra i due «poli». In particolare disvelano l’apparente assurdo di un «sistema di guerra» immobilizzato in una interminabile operazione di «attesa» di un attacco che, nelle forme previste, non è ancora avvenuto. Ma l’attesa, come si sa, è uno dei due elementi essenziali della «difesa». Insieme all’«azione» rappresenta una parte integrante della guerra. Essa è dunque una «forma» propria della «guerra difensiva».

Poiché però la difensiva presuppone l’attesa, lo scopo di vincere il nemico non può esistere che condizionatamente, e cioè quando l’attacco avvenga; è naturale che nel caso contrario la difesa si ritenga soddisfatta dal manteni­ mento del possesso. Questo mantenimento è dunque lo scopo immediato

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della difensiva durante l’attesa, e, a condizione di contentarsi di quello scopo così modesto, essa può ottenere i vantaggi propri della forma di guerra più forte (37). Questa è proprio la rappresentazione sintetica della logica interna che ha animato il «duello» bipolare dal 1945 ad oggi. I vantaggi della «difesa», infatti, che Clausewitz aveva chiamato la forma di guerra più forte, accoppiati alla «debolezza» di entrambi i contendenti, rispetto alle incertezze della guerra nucleare, hanno fatto sì che, finora la «guerra possibile» (38) si sia mantenuta entro i binari di una «guerra difensiva». Infatti, come sottolineava ancora Clausewitz,

se è vero che la difensiva è la più forte delle due forme di condotta di guerra, ma che il suo scopo è negativo, ne consegue che si deve impiegarla solo fin quando se ne ha bisogno perché si è troppo deboli e che occorre al contrario abbandonarla appena si divenga così forti da potersi proporre lo scopo positivo (39).

Possiamo quindi azzardare l’idea che nel sistema BP, la guerra non abbia ancora assunto la forma della «guerra offensiva» solo perché l’arma nucleare rende «deboli» entrambe le Superpotenze che, allo stato attuale delle cose (in presenza di una capacità di «overkill» molto elevata di ambedue i contendenti), possono permettersi solo una «guerra difensiva». Tutto questo non spiega ancora, peraltro, come si sia prodotto quel fenomeno abnorme che abbiamo definito in termini di «bilateralità» della «guerra difensiva» (o «possibile») in atto tra Est e Ovest. La risposta a questo interrogativo è da ricercare, a nostro parere, nella dinamica evolutiva del pensiero strategico postbellico, nelle varianti americana e sovietica, dalla cui disanima è possibile trarre utili insegnamenti. Se il difensore deve adattare l’organizzazione dei mezzi alla lotta, alle «forme» probabili dell’attacco «anche quando non sa ancora assolutamente nulla di quanto l’attaccante farà» (40), allora diventa evidente il senso della corsa agli armamenti, delle accuse reciproche, l’affannosa ricerca di notizie e dati sulla dottrina e il dispositivo militare dell’altro, gli scenari veri o di propaganda, la individuazione di zone, punti e forme dell’attacco possibile, che hanno percorso l’intero quarantennio postbellico.

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In altre parole, si può dire che il mantenimento in vita di un «sistema di guerra», basato su una coppia di «difensori» contrapposti e reali, aveva bisogno dell’esistenza dell’altra coppia di «attaccanti» immaginari, specularmente uguali e contrari. Questa struttura a intreccio diagonale ha avuto il merito di consentire al sistema BP di sopravvivere come «sistema di guerra», anche se difensiva e bilat­ erale. La «guerra difensiva» ha infatti preso le forme dell’«attesa», ma nel contempo si andava attrezzando in modo sempre più sofisticato per la «reazione», cioè per quel «colpo reso» che caratterizza l’altro aspetto di essa (41 ). Fra il 1945 e il 1984 gli ingegni strategici delle due Superpotenze e di altri attori (Cina, Francia, Gran Bretagna) hanno cercato di dare ragioni forti all’azione politica intemazionale dei protagonisti del sistema BP, agendo molto pericolosamente fra gli scogli del conflitto di potenza e le rocce minacciose del «fuoco» nucleare. In alcuni casi, a partire dagli anni ’60, questa evoluzione concettuale ha raggiunto dei vertici analitici notevoli, anche se talvolta quelle ricerche parvero immerse in una dimensione così astratta che ne impoverì la credibilità oltre che il quoziente applicativo o operativo (42). Tuttavia, alcuni analisti strategici di quegli anni si sono cimentati nell’operazione più difficile che mai l’uomo abbia tentato, quella di esorcizzare il conflitto nucleare, nonché quella di regolarne le modalità trasformando il «duello» in «gioco» (43). Lo sforzo intellettuale più intenso, compiuto dal pensiero strategico dell’età nucleare, è stato successivamente quello di trasformare le regole essenziali di un «sistema di guerra» speciale come quello BP, in modo tale da procedere alla sua «ritualizzazione» nel modulo negoziale delle trattative per il controllo degli armamenti. Tale operazione concettuale, iniziata nei primi anni ’50 e poi successiva­ mente perfezionata, è ancora in corso, anche se i risultati non sono stati finora del tutto soddisfacenti (44). «Gioco» e «Rito» si sono rincorsi, spesso senza trovarsi. In effetti, le teorie della «dissuasione» dovevano svolgere compiti che, in altri tempi, quando la «possibilità» della guerra era solo convenzionale, sarebbero duvuti spettare, congiuntamente o alternati­ vamente, al cosiddetto «sistema di guerra/diplomazia» (45), in cui erano previsti «tempi» di guerra e quindi di vittoria/sconfitta, e «tempi» di pace. Il modello dissuasivo, nelle intenzioni degli esten­

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sori, era dunque un paradigma analitico la cui validità e durata sarebbero dipese dalla capacità che esso aveva di disinnescare il detonatore intrinseco al sistema BP, cambiandone la «forma» da quella del «duello» a quella del «gioco» e, finalmente, a quella del «rito». Questa sfida teorica e politica è alla base di tutta la storia delle scuole di dottrine che, soprattutto negli Stati Uniti, hanno formato l’opinione pubblica in materia di problemi strategici e - cosa ancora più importante - hanno determinato gli orientamenti dei governi, nonché la qualità e la quantità del dispositivo di sicurezza delle Superpotenze. Non tutti coloro che si sono cimentati con questi problemi avevano o hanno le stesse idee. Né la centralità del concetto di «dissuasione» è stata accolta senza obiezioni. Accanto al filone maggioritario, che puntava sulla sicurezza assicurata dall’uso politico degli arsenali militari nucleari in funzione dissuasiva, ha sempre convissuto, infatti, una linea di pensiero che invece puntava «neo-clausewitzianamente» al recupero dei concetti strategici tradizionali, fondati sulla «teoria della vittoria», nonché sull’ipotesi di quella forma di «guerra preventi­ va» che è la preemptive war (46). In alcuni casi poi la teoria dissuasiva generale si è accompagnata, e tuttora si accompagna, alla più ambigua dottrina della «guerra nucleare limitata», il cui livello e ambito sono ancora poco chiari. Nell’insieme, è però possibile dire che l’asse centrale della ricerca strategica, negli Stati Uniti, come in Unione Sovietica, è stato sempre quello diretto a prolungare l’«armistizio» in corso, senza perltro avere l’ambizione (tranne che nel breve periodo della «distensione») di trasformare gradualmente il «sistema di guerra» in sistema inter­ nazionale «ordinario». 4. Come detto all’inizio, nella seconda parte di questo saggio vengono esaminate le principali linee del dibattito culturale e politico sulla questione strategica che, fra il 1945 e oggi, ha fatto da contrappunto continuo al funzionamento del sistema intemazionale BP. Per comodità di esposizione abbiamo suddiviso la materia, per la quale esiste una sovrabbondante letteratura scientifica, cui rinviamo alle note a piè di pagina (47), in alcuni blocchi di argomenti seguen­ done lo sviluppo argomentativo, anche cronologicamente, attraverso

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la dinamica storica dei 40 anni di vita del sistema BP. Il primo gruppo di argomenti tratta delle origini concettuali della dottrina strategica del sistema BP fra la seconda guerra mondiale e la metà degli anni Cinquanta. («Airpower», Bomba atomica e missili tedeschi, il SAC, la «massive retaliation», la superiorità Usa). Il secondo gruppo di argomenti si riferisce, invece, alla prima esperienza di riesame critico delle dottrine precedenti, avvenuta a cavallo degli anni ’50 («missile gap», guerra nucleare limitata, «first strike» e «second strike»). Il terzo gruppo di argomenti riguarda il periodo di grande creatività strategica che ha inizio con la Presidenza Kennedy, nel 1961, e che si conclude con il varo, in sede Nato, della dottrina della risposta flessibile nel 1967 (Mad, teoria dei giochi, CF o CV, «Escalation», «Extended Deterrence»). Il quarto gruppo di argomenti affronta, in particolare, il problema della «distensione», e quello ad essa collegato del «controllo degli armamenti» (Salt, Mbfr, parità/equivalenza). Il quinto gruppo di argomenti, infine, si occupa della svolta concettuale e strategica in atto dalla seconda metà degli anni Settanta. Essa prende corpo fra il 1974 (riforma Schlesinger) e il 1978, ed evolve secondo linee che potremmmo chiamare di «neo-duellismo» (corsa agli armamenti, «teorie della vittoria», «war fighting», «re-tar­ geting», crisi del Mad, guerra nucleare limitata anche in aree extraeu­ ropee, ecc.), ovvero di controllo della «vulnerabilità» strategica delle Superpotenze (48) in termini di nuove capacità difensive (difesa civile, sistemi antimissile, «Star Wars»), ovvero di potenziamento degli strumenti della guerra convenzionale («Dottrina Rogers», «New Emerging Technologies», Bombardieri strategici convenzionali, «Pre­ cision Guided Munitions», armi stand off, Airland Battle e FOFA (49) »). La seconda guerra mondiale lasciò in eredità al dopoguerra e ai vincitori due compiti basilari. In primo luogo la costruzione di un sistema intemazionale che sostituisse quello che si era dissolto nell’estate del 1940 con la caduta della Francia. In secondo luogo, la questione della «sicurezza» del sistema, e quindi gli interrogativi sull’impiego politico e/o militare delle nuove tecnologie scaturite dalla ricerca bellica. Nonostante le illusioni di coloro che miravano al restauro dell’or­

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dine intemazionale prebellico (50), nonché di quelli che pensavano ad una «gendarmeria» intemazionale delle Grandi Potenze che garantisse il rispetto di un sistema di sicurezza collettiva di tipo Universale (51), fu ben presto chiaro che il trend era orientato al graduale prevalere e consolidarsi di un sistema conflittuale di tipo bipolare. I vincitori, per adeguare i propri dispositivi militari alla bisogna, attinsero allora ai segreti del Terzo Reich e agli uomini che vi stavano lavorando. In termini di analisi intemazionale, le «armi segrete», che vengono celate perché rappresentano un breakthrough qualitativo nello stato dell’arte, sono generalmente il prodotto del differenziale di potenza esistente fra gli avversari durante una guerra. Esse sono un Ersatz, o meglio una scorciatoia, destinata a compensare l’inferiorità di risorse e di uomini che il conflitto mette in evidenza. Come tali esse esercitano la doppia funzione, politica e strategica: (a.) di tonificare il morale del fronte interno; (b.) di aggirare, e talvolta superare, gli ostacoli tattici e quantitativi del conflitto, fornendo nuove carte di negoziato a chi ne ha il controllo. Ma le «armi segrete» non erano state il solo lascito della guerra. Accanto all’«invenzione» di nuovi sistemi d’arma, infatti, il conflitto aveva fatto la «scoperta» di nuovi percorsi, sia nel campo della dottrina operativa, sia in quello della concezione strategica. Più ampio è, o tende a diventare, il differenziale di potenza fra gli attori in conflitto, più frequenti sono allora le opzioni innovative, sia nel settore degli armamenti, sia in quello del pensiero strategico e tattico. La prima guerra mondiale, ad esempio, che aveva visto la concentrazione delle forze e delle risorse intorno a due sistemi d’alleanza (l’Intesa e la Triplice) di entità pressocché uguale, non dette luogo a quella ricchezza inventiva (con l’eccezione del carro armato, dei gas, dell’aereo e del sottomarino, il cui impiego, peraltro, fatto salvo di quest’ultimo, era del tutto rudimentale) che caratterizzò invece la seconda guerra mondiale, il cui tasso d’innovazione, sia tecnico-scientifica che concettuale, fu elevatissimo (52). Basti pen­ sare, per limitarci a quest’ultimo aspetto, alla Blitzkrieg aerocorazzata, alla guerra aeronavale nel Pacifico, al bombardamento strategico, alla catena degli sbarchi insulari e continentali, ovvero, in materia di produzione di nuovi sistemi d’arma, al radar, all’aereo a getto, al missile, alla bomba atomica, per rendersi conto di come la gran parte delle tematiche strategiche contemporanee siano la diretta conseguen­

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za di quelle scoperte tecnico-scientifiche, nonché di quelle modalità tattiche e di condotta generale che furono sperimentate nel conflitto 1939-1945. La descrizione, quindi, dell’evoluzione storica del pensiero strategi­ co dopo il 1945, non può non tener conto di queste premesse che sono, al tempo stesso, funzione e variabile dipendente di quei risultati indiscutibili che si erano registrati nel corso della guerra. Si potrebbe perfino sostenere che l’intero ciclo dell’analisi e del dibattito intellettuale sulle dottrine strategiche post-belliche non sia stato altro che il tentativo, perennemente rinnovato, di trovare, un metro di razionalità convincente, in termini di utilità politica, per quel gruppo di innovazioni scientifiche e concettuali (nei metodi di guerra) che dalla guerra erano state distillate (53). Talché la costellazione di studiosi e teorie che dal 1945 in poi si sono moltiplicati, via via raggruppandosi in scuole di pensiero, ufficiali o private, accademiche o in seno alle Forze Armate (negli Stati Uniti in particolare), hanno interagito in un contesto (l’environ­ ment intemazionale) che aveva come materia prima obbligata la gestione di un sistema intemazionale di guerra, avendo però a disposizione uno strumento potente e delicatissimo, costituito dalle due maggiori innovazioni del conflitto appena concluso: l’arma nucleare e i motori a razzo (54). L’intreccio permanente fra questi due momenti, quello concettuale strategico e quello delle tecnologie degli armamenti, diventerà rapida­ mente la modalità dinamica del sistema BP in quanto tale. La sua struttura «guerresca» dominò la scena, costituendo il vincolo essen­ ziale che ne condiziona il funzionamento. Non vi è stato, infatti, un solo caso di rilievo in cui, nel confronto diretto fra le Superpotenze, cioè fra i due «fuochi» del sistema intemazionale, altri aspetti della vita associata (economici, finanziari,culturali, sociali, ecc.) abbiano mai prevalso sul connotato centrale che era dato dalla simbiosi di «politica» e «strategia», la cui interazione ha, in ultima ratio, costantemente fatto premio su ogni altra considerazione o interesse. Ma anche il dibattito politico-strategico (nonché sulle tecnologie che spesso hanno svolto un’azione di feedback, rialimentandolo) si è mosso secondo paradigmi che, in quasi 40 anni, non si sono molto modificati. Scriveva Lawrence Freedman in quella che, probabilmente, è la

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migliore opera recente di sintesi sulla evoluzione concettuale della strategia nucleare, che «ciò che colpisce è il carattere ciclico dei dibattiti. Molto di quello che viene offerto oggi come se fosse un punto di vista più nuovo e profondo, in realtà era già stato detto ieri; e generalmente in un modo più conciso e letterario» (55). In effetti, l’esame delle diverse teorie e scuole non fa che girare intorno al modo migliore per rendere più stabile ciò che per definizione stabilizzabile non è: il sistema BP. Perfino i più accesi «falchi» muovono dallo stesso punto di partenza, cioè dalla ricerca della «stabilità». Perfino Colin S. Gray, che è ormai il caposcuola se non l’ispiratore di molti aspetti della linea raeganiana di attivismo militare e di riarmo globale, scriveva recentemente, criticando i fautori dell’equilibrio del terrore, che «il problema centrale della dissuasione è dato dal fatto che nessun deterrente offensivo, nonostante la sua "spaventosità", è in grado di funzionare a tempo indeterminato, mentre il suo fallimento in quanto tale sarebbe intollerabile per la civiltà» (56). Dietro questa frase si nasconde ancora una volta la teoria secondo la quale il sistema BP dovrebbe uscire una volta per tutte dalla sua forma di «duello» (che, come si sa, è ur.a degenerazione della parola «bellum»), attraverso la realizzazione di una barriera «difensiva» assoluta. E’ questa la tesi di tutti coloro che si propongono di superare la fase della «vulnerabilità» reciproca che dai primi anni ’60 ad oggi è stato il fattore di rischio più «rassicurante» - per così dire - dell’assetto bipolare. Dal «duello» al «gioco», quindi, se e finché si può, con in testa però il disegno apollineo di Sigfrido e di Achille, di diventare finalmente «invulnerabili» (57).

5. Questa fantasia d’invulnerabilità è, in effetti, una costante nel comportamento degli attori intemazionali durante tutto il XX secolo. Dalle illusorie speranze di «sicurezza collettiva» elaborate a Versailles nel 1919 fino ad oggi, la gamma semantica del concetto di «sicurezza» è stata molto variata e ampia. Si pensi alla definizione che della «sicurezza» danno gli Israeliani o a quella dei Sovietici nei confronti dell’Est europeo, fino al concetto di «sicurezza» statunitense che, nella versione odierna, si ribalta ancora una volta in garanzia di «superiorità». Anche i reggitori del sistema BP, nonché i sacerdoti della sua «teologia» strategica, hanno avuto sempre in mente questo obiettivo di sicurezza ben sapendo però che si tratteva di un desiderio

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utopistico, in quanto il binomio fra atomo e missile ha eliminato anche tecnicamente una siffatta opzione. Il quadro delle scelte non era così limitato, invece, alla fine della seconda guerra mondiale, quando gli unici vettori della «bomba» erano ancora gli aerei, e l’arsenale nucleare era molto ristretto. Nei primi anni dopo il conflitto, infatti, la crescita di una dottrina nucleare originale, distinta cioè dalle teorie della «guerra aerea» in uso negli anni precedenti, avvenne molto lentamente, fra contrasti e incompren­ sioni. E’ questa la prima fase di formazione del supporto concettuale strategico al funzionamento del sistema BP. Esso si manifesta come il prolungamento quasi automatico, nel dopoguerra, delle dottrine speri­ mentate durante la guerra. In particolare prevaleva l’idea che la «bomba» fosse un’arma come le altre, da sganciare come un qualsiasi blockbuster al tritolo, da un formazione di bombardieri. C’era, in quell’approccio, una corrispondenza piuttosto evidente con l’idea che il sistema intemazionale postbellico, nonostante tutto, fosse una specie di sistema deH’Equilibrio, semplificato e mondializ­ zato, ma che in sostanza fosse ancora un sistema «ordinario». Fino ai primi anni ’50 il sistema BP era, inoltre, fortemente asimmetrico, nel senso che i rapporti di forza fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica erano talmente a favore dei primi da garantirne l’invulnerabilità. Fino al 1949, gli Usa ebbero il monopolio dell’arma atomica e, fino al 1957, non ebbero alcun timore di subire un attacco diretto al loro territorio, data la scarsità e la qualità scadente dei vettori sovietici. Tenne il campo quindi molto a lungo la dottrina del «bombarda­ mento strategico» e del «dominio dell’aria», che da Douhet a Mitchell e De Severski, per il tramite del Maresciallo inglese Harris nonché dei generali americani, Arnold Spaatz e LeMay, era stata largamente sperimentata durante la guerra (58). Anzi, 1’esistenza della «bomba» garantiva, forse per la prima volta data l’enormità della sua potenza distruttiva materiale e morale, l’efficacia della teoria del «bombarda­ mento strategico» che durante il conflitto aveva dato dei risultati perlomeno dubbi (59). Contro le opinioni di coloro che per primi captarono la differenza qualitativa dell’arma atomica (60), l’Usaaf (poi USAF) si orientò invece in senso classico, costituendo uno Strategie Air Command (SAC) destinato a gestire il futuro conflitto con le formazioni di bombardieri guidati. D’altra parte, il missile

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come sistema d’arma affidabile, era ancora allo stadio sperimentale, dopo le prove date dalle armi tedesche di quel tipo (V-l e V-2) nel 1944 e 1945. Da parte sovietica, peraltro, il grado di insensibilità per la novità di quella che Brodie aveva chiamato «the absolute weapon», era ancora maggiore. La teoria dei «fattori permanenti», ideata da Stalin, conti­ nuò fino al 1956 e oltre. Essa si basava su una concezione tradizionale della guerra terrestre, integrata da alcuni elementi di carattere politi­ co-ideologico. La bomba atomica venne così sistematicamente ignora­ ta. Quando i Sovietici fecero esplodere la loro prima bomba (1949), le cose cominciarono a cambiare. Fra il 1949 e il 1953 la dottrina statunitense oscillò fra tentazioni di Blitz atomico (1948) e riconvenzionalizzazione della guerra (Corea). In sede Nato queste incertezze diedero luogo alla teoria della «difesa avanzata» (Lisbona, 1952) che è tuttora la dottrina ufficiale dell’Alleanza. Il fattore nucleare tornò ad essere un elemento in più di una strategia di «minaccia» che gradualmente diventava «dissuasiva» (61). Le scuole di dottrina avevano ancora, perfino negli Stati Uniti, un carattere di ricerca individuale, ovvero di interdipendenza stretta con le Forze Armate, e in particolare con L’Usaf. Il gruppo di scienziati (e studiosi) che avevano cominciato a lavorare per conto del governo sui concetti e sulle dottrine strategiche durante la guerra, nelle Università o in alcuni rari centri di ricerca specializzata, come VInstitute For Advanced Studies di Princeton, dove insegnavano Harold Sprout e Edward Meade Earle, autore della più famosa raccolta di testi classici e moderni del pensiero strategico (1943), oppure VInstitute ofInterna­ tional Studies di Yale dove approdarono, oltre a Nicholas Spykman, anche William T.R. Fox, Frederick Sherwood Dunn, Arnold Wolfers, Bernard Brodie e Klaus Knorr (62), si andava raccogliendo in Centri di ricerca ad hoc direttamente finanziati dalle Forze Armate. Primo fra questi la Rand Corporation di Santa Monica, che lavorava essenzial­ mente per l’Aeronautica, ideando soluzioni strategiche e risolvendo problemi tecnici e sistemici di notevole rilievo (63). A questi studiosi si affiancarono, in parallelo, molti di quegli scienziati (fisici soprattutto), che avevano acquisito una sensibilità politico-strategica lavorando nei laboratori di ricerca militare e atomica, durante e dopo la guerra. Dal gruppo che si raccolse intorno

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al Bulletin of the Atomic Scientists ai padri veri e propri della «bomba», (Einstein, Fermi, Oppenheim, Teller, ecc.) che, da posizioni diverse, cercavano anch’essi di rispondere al quesito apparentemente insolubile dell’uso politico dell’arma nucleare in presenza di un rapido sviluppo delle tecniche, all’inizio degli anni ’50 il dibattito si arricchì di voci nuove e salì di tono. Durante questo periodo il filo rosso della teoria corse attorno a pochi nuclei concettuali di base: la questione dell’«utilizzabilità» dell’ordigno atomico, quella della sua «credibil­ ità», quella del momento in cui essa poteva essere impiegata e per quali fini. Cadute le idee di attacco preventivo restò in vita solo l’ipotesi dell’uso dell’arma atomica nel caso di un attacco sovietico contro qualsiasi parte del globo coperta dalla garanzia americana (Nato, Giappone). Questa dottrina venne raffinata ed esposta compiutamente da John Foster Dulles nel gennaio 1954, e prese il nome di «massive retaliation» (64). Essa dimensionò il dibattito strategico di tutta l’«era di Eisenhower», fra il 1953 e il 1960. La concentrazione sull’impiego massiccio dell’arma nucleare americana in caso di attacco aveva il duplice scopo di ridurre gli oneri di spesa statunitensi per gli armamenti e di impiegare politicamente l’atomica, come strumento «punitivo» e «dissuasivo» al tempo stesso. Il risultato di questa conversione al nucleare aveva però anche un’altra valenza. Essa rappresentava uno sforzo per uscire dall’idea che la guerra potesse essere combattuta «con tutte le armi a dispo­ sizione» commisurate all’offesa ricevuta, oppure utilizzate per risol­ vere qualche crisi difficile. La «massive retaliation», cioè, concentrava l’attenzione sull’elemento di «rischio» rispetto a quello di «risposta» militare. Siamo di fronte al primo tentativo di trasformare il «sistema BP» da sistema «duello» in sistema «gioco», in cui però il gioco è ancora un gambling, un azzardo molto primitivo, affidato alla sorte, ovvero - come scriveva Anatol Rapoport - un «gioco a una persona», un «gioco contro la natura» (65). Non esistèva cioè una comparazione e una razionalizzazione dell’altro attore dei cui processi mentali non ci si curava se non per minacciare una rappresaglia di dimensioni tali che, data la nota superiorità statunitense, avrebbe dovuto impressio­ nare chiunque, anche il diavolo. La rozzezza concettuale del New Look nucleare, di cui la «massive

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retaliation» era il braccio armato, sollevò ben presto molti interroga­ tivi, sia negli Stati Uniti sia in Unione Sovietica, aprendo una seconda fase di ricerca del pensiero strategico, anche in relazione all’evoluzione delle tecnologie, nonché alla presa di coscienza che molti conflitti di «contatto» fra i due blocchi non potevano essere affrontati, neppure dissuasivamente, con la sola minaccia della «mas­ sive retaliation». In particolare, il consolidamento del sistema BP nei suoi tratti definitivi, attorno al 1955, con il riarmo tedesco, la «neutralizzazione» deH’Austria e la costituzione del Patto di Varsavia, nonché l’esperien­ za dei Francesi in Indocina (66), avevano lasciato capire che una strategia poco sofisticata avrebbe, nel medio termine, potuto provo­ care il logoramento di «credibilità» della capacità deterrente ameri­ cana. Quando poi, nel 1957, i Sovietici lanciarono nello spazio lo Sputnik dimostrando con questo di possedere la tecnologia per la costruzione di missili intercontinentali, gli Americani vissero, con il «missile gap», la sensazione che una teoria strategica basata sulla sola ritorsione nucleare massiccia non avrebbe dato una risposta adeguata all’eventuale seconda risposta sovietica al primo colpo statunitense. L’evoluzione successiva della dottrina seguì dunque contempo­ raneamente due strade principali: (a.) quella della «guerra nucleare limitata» e (b.) quella della «vulnerabilità reciproca». Il dibattito su questi due temi rivelò alcuni nuovi studiosi di strategia che pubbli­ carono i loro risultati a cavallo fra gli ultimi anni ’50 e i primi anni ’60. Fra questi c’erano uomini del calibro di Henry Kissinger, che scrisse nel 1957 il più famoso libro sulla guerra limitata (67), di Robert Osgood, che lavorò sullo stesso tema (68), di Albert Wohlstetter(69), che disegnò il primo schema di «bilancia del terrore», di Thomas C. Schelling (70), che applicò la teoria dei giochi al concetto di «deterrenza» e di «compellenza», fino a Bernard Brodie che, così come aveva fatto da pioniere nel 1946 riconoscendo la straordinarietà della «bomba», nel 1959 comprese in anticipo sugli altri le possibilità e i limiti dei nuovi vettori missilistici (71). Il problema della deterren­ za nucleare cominciò dunque a porsi non più solo in termini di «potenza», ma anche in termini di «credibilità». La offensività implicita nel New Look di Eisenhower e di Dulles lasciava gradual­ mente il campo ad un discorso più misurato e, tutto sommato, di carattere difensivo, basato sul concetto di «vulnerabilità» dei due

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attori maggiori, ciascuno agli attacchi dell’altro. Traspare, in questo lento mutamento concettuale, la consapevolezza da parte americana che i Sovietici stavano assicurandosi un ruolo crescente aH’intemo del sistema BP, che il problema della «simme­ tria» di potenza, perlomeno nella prospettiva, stava diventando un problema reale poiché il tempo della «superiorità» assoluta stava per finire né sarebbe stato più possibile tornare indietro, dato il livello degli arsenali e la capacità reciproca di «overkill» (72). Affiorava altresì la crescente complessità che il sistema delle relazioni intemazionali andava acquisendo, anche in rapporto al graduale smantellamento degli imperi coloniali europei e alla correlata moltiplicazione degli Stati nazionali. Di qui l’esigenza di elaborare una maggiore graduazione della dottrina, nonché l’idea di diversifi­ care gli strumenti bellici della risposta, sia nucleare che conven­ zionale, secondo i tempi, i luoghi e le modalità della «minaccia». Nasce in questi anni l’idea di dislocare sui sottomarini balistici nucleari una parte della forza nucleare strategica, nonché si delinea meglio l’adattabilità delle armi nucleari a seconda dei compiti da svolgere (tattiche o di campo di battaglia, intermedie o di teatro, strategiche e intercontinentali) e delle aree interessate (le armi tattiche ad esempio furono schierate in Europa Occidentale, ed erano state fabbricate essenzialmente per quel teatro). La terza fase del dibattito strategico corrisponde agli anni delle Amministrazioni democratiche americane Kennedy-Johnson (1961-1968). Durante questo periodo il sistema BP viene sottoposto ad una serie di tensioni culminate nella crisi di Cuba (1962), provocate certamente dagli Stati Uniti e dall’URSS, ma anche in qualche caso da potenze minori, come la Francia e la Cina, dirette in molti casi a dislocarne la granitica e semplificata specularità. Nel tentativo di aggiornare la corrispondenza fra dottrine strategiche ed evoluzioniste del contesto, sembrò per quelche anno farsi strada l’ipotesi della «debellicizzazione» del sistema BP, passando dal «duello» al «gioco», sublimandone così, almeno in parte, il suo carattere di «sistema di guerra». Asse intellettuale di tale operazione avrebbe dovuto essere l’impiego della «teoria delle decisioni interdipendenti» e dei «compor­ tamenti razionali», di cui la «teoria dei giochi» è parte essenziale. La modellizzazione della condizione di reciproca «vulnerabilità» nucle­

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are, che all’inizio degli anni ’60 sembrò chiara a tutti, venne espressa in termini di teoria dei giochi «a due giocatori» da T. Schelling (1960), ma anche da A. Rapoport (1960). Schelling, in particolare (73) ebbe il merito di individuare nello schema proposto le varie possibilità che esso offriva, sia in termini di «giochi a somma diversa da zero», sia nel classico gioco «a somma zero» (74). Nasce da queste elaborazioni la teoria della «reciproca distruzione assicurata» (MAD) che, pur senza diventare mai la dottrina ufficiale degli Stati Uniti, fornisce il gradino di marmo su cui poggia tutta la teoria della dissuasione nucleare e dell’equilibrio del terrore (75). Si chiarì finalmente, nello stesso periodo, anche il dubbio degli Stati Uniti se orientare il dispositivo strategico verso una dottrina di «primo» o di «secondo» colpo. La decisione fu quella di optare per una strategia di «secondo» colpo. Il che liquidava, almeno provvisori­ amente, il rischio di restare suggestionati dal fascino dell’attacco «preemptive» (76). Si definì, inoltre, l’acquisizione degli obiettivi (targeting), secondo una scala di priorità che privilegiava l’esigenza di organizzare l’arsenale nucleare sulla base di parametri che contem­ plassero, sempre e soprattutto, la possibilità di rispondere con un «secondo colpo» contro le città al «primo colpo» dell’avversario. Tale capacità, (countervalue) avrebbe dovuto avere un effetto deterrente maggiore di quanto non ne avrebbe avuto uno schieramento nucleare basato su un targeting diretto a distruggere l’arsenale e le forze armate avversarie (counterforce). Centro motore e attivatore principale di queste teorie, trasformate poi in dottrina ufficiale americana (Declara­ tory Policy) tuttora largamente in vigore, fu il Segretario alla Difesa Robert McNamara (1961-1968) il quale «intellettualizzò» sistematicamente la guerra applicando ad essa i criteri della gestione manageriale delle aziende. Sul terreno della «guerra possibile», cioè di quella nucleare, il cui significato concettuale e politico era ancora allo stato teorico, basato quindi esclusivamente sul confronto speculare delle dottrine, la sua amministrazione riuscì ad arricchire la strategia ufficiale servendosi di un team di studiosi molto capaci che diedero corpo non solo alla nuova teoria della dissuasione basata sul «secondo colpo» (counter­ value), ma altresì a gettare le basi di un’altra dottrina, quella della «flexible response» (1967) che rendeva formalmente operativa, con norme e procedure, la teoria sulla «guerra limitata» di Osgood e

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Kissinger, nella sua versione convenzionale e nucleare (77). Il sistema BP, in quegli anni, sembrò aver raggiunto un equilibrio, basato sulla paura dell’olocausto nucleare, garantito perltro dalle nuove generazioni di armi che assicuravano, sia pure per pochi anni ancora, la superiorità in termini globali degli Americani sui Sovietici (78). Tuttavia, uno dei due pilastri sui quali poggiava l’intero edificio dell’equilibrio appena raggiunto, quello della «guerra limitata», si rivelò rapidamente fragile, sia concettualmente sia operativamente. Nonostante la sofisticata elaborazione di Herman Kahn, uno dei padri della nuova strategia ed esponente di rilievo della seconda gene­ razione di studiosi di cose strategiche, che aveva ipotizzato un modello di controllo graduale dell’escalation dei conflitti, con l’obbiettivo di mantenere la guerra entro limiti prefissati e rispondere agli attacchi con graduate rappresaglie, gli eventi d’Indocina rivelarono subito le gravi difficoltà che incontravano quelle dottrine nel momento in cui passavano dalla teoria alla pratica (79). Pochi anni prima, la crisi dei missili sovietici a Cuba sembrava invece aver confortato l’idea ispiratrice del MAD secondo la quale, qualora lo scontro si faccia più ravvicinato e il «contatto» diretto fra le due Superpotenze diventi imminente, il deterrente basato sulla «vulnerabilità» tende a funzionare. La tassonomia degli «scenari» immaginati da Kahn (i 44 scalini e le 6 soglie) secondo i quali l’arma nucleare veniva introdotta progressi­ vamente (solo al gradino 15) (80), accompagnata dalla filosofia del MAD (Mutual Assured Destruction), sembrarono garantire il disin­ nesco graduale della pericolosità intrinseca del sistema BP, avviando­ lo verso l’equilibrio. Venne in soccorso di questa tesi l’avvio, dapprima lento poi più deciso, di un vasto programma di negoziati Usa-Urss per il «controllo degli armamenti», che negli anni Settanta dette dei buoni risultati. E’ questa la quarta fase dell’evoluzione del pensiero strategico postbellico che corrisponde al tentativo, di'breve durata, di mutare le regole del sistema BP, rimuovendo le logiche estreme del «duello», affinando le procedure di «gioco», fino ad immaginare l’istaurazione di un «ordine» di comportamenti «ritualizzati», di simulazione del conflitto e di soluzione delle controversie, attraverso la trattativa permanente e la progressiva «integrazione» dell’Unione Sovietica

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nella «società intemazionale». Gli anni di Nixon e di Kissinger, ma anche quelli di Ford e i primi tre di Carter, sono dominati da questa aspettativa che trova alcune conferme nella stipula degli accordi per la limitazione e il controllo degli armamenti strategici nucleari (vettori e testate) del 1972 (Mosca: maggio), del 1974 (Vladivostok: dicembre), del 1979 (Vienna: mag­ gio), nonché nell’apertura di negoziati Est-Ovest per la riduzione bilanciata delle forze convenzionali in Europa (Mbfr: Vienna). Nel 1968 si ebbe, inoltre, la firma del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), al quale aderirono un folto gruppo di paesi, che portava esplicitamente il segno politico di una cooperazione (com­ plicità) bipolare quale mai prima era stata registrata. Di fronte alla costatata «parità» o «equivalenza» strategica cui l’Unione Sovietica stava avviandosi, e in presenza di episodi frequenti di «diffusione di potenza» che mettevano a repentaglio 1’«ordine» bipolare, gli accordi per il controllo degli armamenti e le prospettive (poi fallite) di una «interdipendenza» economico-produttiva fra i due blocchi contrap­ posti (81), sembrarono aprire uno spiraglio all’eventualità che il sistema BP si trasformasse «pacificamente» in un sistema «multipo­ lare», regionale e integrato. Molti osservatori e studiosi formularono delle ipotesi sulla trasfor­ mazione del sistema, auspicando la formazione di aree regionali interagenti fra di loro (tripolarismo, pentapolarismo), tali da conferire al sistema una maggiore flessibilità, paragonabile in termini globali alla «forma» ottocentesca del Balance of Power eurocentrico. Il «clima» politico intemazionale che si instaurò in quel decennio, detto della «distensione», sembrò prefigurare ulteriori passi in avanti di carattere organizzativo e normativo. Il limite di questo tipo di ricerca, che sul terreno degli studi strategici aveva dato luogo ad una concezione sostanzialmente statica delle relazioni Est-Ovest, basata sulla certezza della vulnerabilità e sulla capacità «overkill» degli arsenali, risiedeva nella sua rigidità e astrattezza. Venne così trascura­ ta l’evoluzione dei rapporti di forza Usa-Urss in materia di bilancia degli armamenti convenzionali, di «modernizzazione» dei dispositivi già schierati, di nuove tecnologie emergenti, di ampiezza e funzionali­ tà della spesa per la difesa. D’altra parte, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’60, gli Stati Uniti ripiegarono su se stessi per digerire la sconfitta

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indocinese e la crisi di rappresentanza avvenuta con le forzate dimissioni del Presidente Nixon, tralasciando di fare i conti con le opportunità lasciate ai Sovietici in varie regioni del mondo, nonché con gli effetti destabilizzanti dovuti al dispiegamento dei nuovi sistemi d’arma che l’avversario aveva da anni programmato, ma che solo alla fine del decennio vennero effettivamente schierati. Si moltiplicarono infine i segnali dLlogoramento della capacità di controllo delle due Superpotenze all’interno di ciascuno dei due sottosistemi, occidentale e orientale, (fenomeni di «diffusione di potenza») e quindi del tasso (o indice) di «bipolarizzazione» che già nel 1973 aveva varcato la soglia minima dello 0.5 (82). La prima vittima di questa trasformazione degli scenari fu la speranza di «ritualizzare» la bellicosità innata del sistema BP. La seconda fu quella di poter mantenere i confini dell’interazione conflittuale, se non altro all’interno del perimetro concettuale e politico del «gioco» basato sulla dissuasione. La quinta fase dinamica, nella diacronia delle dottrine strategiche nel sistema BP, si apre nel triennio 1978-1980, allorché l’Amministrazione americana e il Presidente Carter decisero di accettare e poi di rispondere alla «sfida» che i Sovietici, con il loro prolungato atteggia­ mento opportunistico di sfruttamento delle occasioni favorevoli in alcune aree regionali «di contatto» fia i due sottosistemi (Angola, Como d’Africa, Yemen del Sud, Afghanistan), avevano implicita­ mente lanciato all’occidente. Ma sotto il profilo delle dottrine strategiche, come spesso accade, la teoria precorse e sopravanzò i fatti. Già nel 1974, infatti, in seno all’amministrazione statunitense era andato emergendo, in parallelo con il processo di distensione, un linguaggio strategico piuttosto innovativo, che prendeva le mosse dalla contraddizione insita nella dottrina MacNamara degli anni ’60 la quale lasciava coesistere, in improbabile relazione, sia la teoria della «mutua distruzione assicura­ ta» (MAD), sia quella della «guerra nucleare limitata» (LNW). L’anello di raccordo fra le due dottrine èra così debole che in più occasioni, soprattutto negli anni in cui la «distensione» era allo zenith, la dottrina «minore», cioè quella della «guerra limitata», venne messa volutamente in ombra, mentre la sua definizione operativa fu lasciata in sospeso, aumentando i margini di ambiguità che erano propri della dottrina Nato della «flexible response».

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L’esistenza di una dottrina che prevedeva la possibilità di condurre una «guerra nucleare limitata», non solo in funzione dissuasiva, cozzava logicamente contro la globalità del concetto di «deterrenza», delineato dalla teoria MAD. Anzi, ne diminuiva la credibilità poiché ammetteva l’impiego dell’arma nucleare, sia pure in scacchieri regionali limitati, lasciando aperte le opzioni de\V escalation possibile. Per di più, la letteratura in materia di condotta della guerra nucleare, anche nella sua versione più ristretta, tendeva in larga maggioranza a negare la capacità di comando e di controllo del conflitto qualora esso avesse varcato una pur minima soglia di attività (83). Desmond Ball scriveva recentemente che «una guerra nucleare strategica fra Stati Uniti e Unione Sovietica coinvolgerebbe così tante nuove variabili, tecniche ed emozionali, che ogni previsione circa il suo corso - e specialmente sul fatto se essa potrà o meno essere controllata - deve restare altamente speculativa» (84). La consapevolezza di questa contraddizione, tuttavia, animava altresì coloro che, dentro e fuori dell’Amministrazione, ritenevano indispensabile sapere cosa sarebbe accaduto qualora la «dissuasione» fosse fallita aprendo la via al conflitto armato. L’obiettivo politico che stava dietro questo interrogativo era di attrezzare gli Stati Uniti di strumenti adeguati, anche nel malaugurato caso in cui fosse necessario combattere una «guerra nucleare protratta» (85). Il punto era di identificare delle modalità tattiche di conflitto tali da continuare a trattare e dissuadere (intra-war deterrence) nel corso stesso della guerra. Le prime «opzioni» selettive furono elaborate da James Schlesinger, Segretario alla Difesa, ed esposte nel Rapporto al Congresso del 1974. Esse erano basate sull’idea di schierare una quota dell’arsenale nucleare americano contro bersagli counterforce, invece che countervalue. Lo scopo era quello di «colpire dei bersagli significativi con una combinazione di peso/precisione tale da distrug­ gere solo gli obiettivi previsti, evitando danni collaterali» (86). Il sistema BP tornava a discutere in termini di «duello», lasciando al «gioco» della dissuasione solo il compito di fornire la cornice concettuale generale. Da quella data ad oggi la linea di recupero della «forma-duello» del sistema BP è andata sviluppandosi senza soste. Paradossalmente, lo sviluppo di nuove tecnologie, sia nei vettori (testate multiple indipen­

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denti, riduzione dei CEP, missili cruise, missili mobili, ecc.), sia nelle testate (ordigni a radiazioni rafforzate, miniaturizzazione delle cariche, ecc.), ha favorito questo ritorno alla «combattibilità» della «guerra possibile». Dalla paura dell’olocausto la dottrina è tornata a valorizzare la precisione chirurgica degli attacchi, la possibilità di «limitare» i danni subiti e/o inferti, la credibilità dell’ipotesi di «controllo» dell’escalation. Le ragioni di questa regressione alla «forma-duello» del sistema BP non sono tanto da imputare alle «ambizioni» imperiali o alla «superio­ rità» dell’una o dell’altra Superpotenza, quanto alla insostenibilità della condizione precedente, basata quasi esclusivamente sulla statica della deterrenza e dell’olocausto. La «guerra difensiva bilaterale» (le cui componenti, secondo Clausewitz, sono 1’«attesa» e 1’«azione») dopo decenni di «attesa» tende oggi a prepararsi all’«azione», peraltro difensiva - si badi - contro eventuali attacchi dell’altra parte. L’ipotesi che l’altro attacchi, passi cioè da una condizione «difensi­ va» a una «offensiva», metta quindi in atto la «minaccia» sulla base della quale (ipotetica o reale che sia) si appronta lo strumento di risposta, nasce, oggi più di ieri, dal fatto che il moltiplicarsi dei fenomeni di «diffusione di potenza» nelle zone di contatto, o anche «interne» ai due sottosistemi, non possono essere controllati, né tantomeno risolti, solo in termini di controversia intemazionale fra i due blocchi (cfr. il «caso» del Libano o della guerra fra l’Iran e l’Iraq). Come arrivare alla «decisione», ovvero all’«Entscheidung» (soluzione definitiva), di clausewitziana memoria? Se non per il tramite di una forzatura degli schieramenti e delle dottrine fino a creare le condizioni di quella brinkmanship che sola - secondo T. Schelling (87) - con la sua danza sull’orlo dell’abisso, permette di portare a fondo il braccio di ferro dissuasivo? La tecnologia consente oggi varie forme di «microchirurgia nuclea­ re» cui dovrebbero corrispondere analoghe «microchirurgie dissua­ sive», a diversi livelli di pericolosità e di avvertimento. Questo è il senso dell’agghiacciante formula del «wàr-fighting», di cui si è discusso negli Stati Uniti, ma anche altrove, negli ultimi anni. La tesi secondo la quale è possibile combattere «in ambiente nucleare» perlomeno fino a sei mesi, spills-over da tale possibilità. Così come riaffiora altresì la «teoria della vittoria» portata avanti dai «falchi»

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della quarta generazione di studiosi (Gray, Payne) e quindi il mito di Achille e Sigfrido della «invulnerabilità», nella dottrina delle «Guerre stellari» (88). 6. Concludendo, dunque, questa analisi delle «fasi» storiche vissute dal pensiero strategico, nelle sue varie stagioni dottrinali, successive e spesso sovrapposte, non ci resta che tirare alcune somme cognitive. Il sistema BP, come «sistema di guerra» difensiva e bilaterale, ha constantemente oscillato fra tre «forme» simboliche alle quali ha cercato di avvicinarsi o di allontanarsi, senza mai riuscirvi comple­ tamente. La prima è quella del «duello», la seconda è quella del «gioco» e la terza è quella del «rito». Tutte e tre hanno avuto il loro momento di primato, ma tutte e tre sono state soppiantate dalle altre, in un complesso ciclo dinamico di lungo periodo che ha visto, volta a volta, prevalere anzitutto la «forma-duello» (nella prima e nella seconda fase storica della elaborazione dottrinale), poi la «forma-gioco» nel periodo centrale (terza fase), poi la «forma-rito» (nella quarta fase) con la distensione e la funzione quasi religiosa dei negoziati per l’«arms control», fino alla crisi degli ultimi sei-dieci anni (quinta fase) che ha visto la rivitalizzazione della «forma-duello», anche se in modo più sofisticato e, forse, più pericoloso. La «difensività» implicita in questo nuovo trend del ciclo bipolare non è, in linea di principio, compromessa. Anzi viene ufficialmente sottolineata ed enfatizzata. L’evoluzione dei mezzi della «guerra difensiva» contempla infatti la possibilità di una «battaglia difensiva» che, tatticamente, potrebbe dunque apparire come offensiva, ma che, nella sostanza, non lo è. Esistono, inoltre, «vari modi di resistenza» nella «guerra difensiva», alcuni dei quali non sono del tutto «passivi». Ciò che conta, per restare all’interno di un contesto «difensivo», è che il difensore attenda l’attaccante in una «posizione» (89). Peraltro, egli può - anzi deve predisporre delle reazioni offensive o controffensive che non si limiteranno, nelle intenzioni, a «restaurare la deterrenza» - secondo quanto ha scritto recentemente Colin S. Gray (90) - ma invece a conquistare la vittoria. D’altra parte, già Clausewitz aveva dichiarato a chiare lettere che «si è affermata un’idea fondamentalmente falsa della difesa, secondo la quale una battaglia difensiva mirerebbe solo a respingere l’avversario e non a distruggerlo» (91).

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L’ampiezza del ventaglio di opzioni che il sistema BP, in quanto «sistema di guerra», ha finora avuto a disposizione nel corso del quarantennio postbellico, è dunque stata considerevole. Esse sono andate da quelle più distensive della metà degli anni ’70, che aspiravano alla eliminazione dei contrasti, e anzi allo sviluppo di legami di «interdipendenza» pacifica tra Est e Ovest, fino alle posizioni più accese degli anni ’50, oggi rivisitate, che puntano al ristabilimento di un sistema BP, gerarchico e quindi non paritario, anche a costo dell’esplosione di un conflitto nucleare limitato. Le tre «forme» assunte dal sistema intemazionale (duello, gioco, rito) non hanno peraltro mai interagito in un rapporto di esclusione reciproca. Al contrario: esse si sono intrecciate l’una all’altra in più occasioni, dando luogo a periodi di crisi in cui prevalevano delle «forme miste». Si pensi all’ottobre 1962 e alla commistione di «duello/gioco» nella crisi di Cuba, oppure alla lunga trattativa Usa-Urss per la stipula dell’accordo SALT-2, nel 1979, che aveva assunto una tìpica forma di «gioco/rito» (92). La fase attuale è invece dominata dal rilancio di modelli di «duello/rito» in cui le sfide verbali, dottrinali e gli episodi di tensione coesistono insieme al tacito rispetto degli accordi SALT (anche se non ratificati) e del complesso di regole di condotta bipolare, sancite da una prassi ormai consolidata, anche se non scritta. Il learning process della convivenza bipolare è servito dunque a sdrammatizzare il significato delle crisi intemazionali, sia regionali sia fra i due blocchi, anche se non è riuscito ad evitarle. Dopo il lungo e rigido inverno della guerra fredda, cui fece seguito la dottrinaria fiducia nella distensione, si è aperta ora una nuova fase, più elastica e flessibile, nella quale il rischio del conflitto possibile viene cavalcato con spregiudicatezza. L’esperienza di 40 anni di «armistizio» ha forse convinto le Superpotenze a credere che i margini di manovra del sistema BP siano più ampi di quanto non lo siano in realtà. Ma soprattutto ha preso piede l’idea che la distanza tradizionale fra «declaratory policy» e «operational planning», cioè fra dottrine strategiche adottate ufficial­ mente a livello politico e pianificazione militare, debba essere ridotta fin quasi ad annullarsi. Le determinanti della «declaratory policy» in materia nucleare sono sempre state di tre ordini: (a.) tecnologiche, (b.) informative, (c.)

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teorico-strategiche (93). Nei primi decenni del dopoguerra, il ruolo principale veniva esercitato àalV informazione e dallo sviluppo delle tecnologie che offrivano nuove opzioni e ponevano sfide innovative. Minor contribu­ to davano invece i teorici della strategia, il cui ruolo, fino agli anni Sessanta, fu in sostanza considerevolmente limitato. Dopo di allora, però, la componente dottrinale acquistò sempre più spazio fino a diventare il metro di misura (soprattutto negli Stati Uniti, dove fiorivano le scuole di dottrina della credibilità, anche politica, delle strategie nucleari. Di qui una tendenza a separare gli aspetti teorici e dottrinali da quelli operativi. Con il risultato di creare dei veri e propri gap concettuali fra la teoria e la prassi. In alcuni momenti, questa crisi assunse le dimensioni di una contraddizione macroscopica, che solo in forza della natura segreta dei piani militari non venne allo scoperto. Si ebbero dei casi singolari. La dottrina del MAD, ad esempio, che per due decenni è stata il caposaldo filosofico della strategia nucleare americana, veniva regolarmente contraddetta nella pianificazione operativa, in quanto almeno una frazione del dispositivo missilistico statunitense fu sempre orientato contro bersagli counterforce, cioè di «primo colpo», invece di essere interamente diretto verso obiettivi countervalue, cioè di «secondo colpo» (94). Negli ultimi anni, però, le cose sono andate cambiando. La nuova fase di «duello/fortezza» tende infatti alla ricomposizione delle due anime della strategia nucleare, in quanto le tecnologie avanzate, oggi a disposizione di entrambe le Superpotenze, offrono l’occasione di una maggiore linearità. Il cardine politico che lega dottrina e pianifi­ cazione, spesso decisivo nella determinazione dell’interazione bipo­ lare, si è fortemente indebolito a seguito dell’introduzione di tecnolo­ gie che riducono all’osso i tempi di decisione e garantiscono risultati certi in termini di precisione ed efficacia. Il senso politico di una «declaratory policy» solo dissuasiva, ovvero la «scientificità» teorica della risposta graduata, cedono ormai il passo alla predeterminazione quasi automatica dei «colpi» successivi al primo e al secondo. Di qui l’aumento della pericolosità «verbale» delle dottrine strategiche contemporanee, le quali dicono ormai apertamente quello che in precedenza veniva scritto solo nei documenti segreti degli Stati Maggiori militari. Il passaggio da una politica strategica «segreta» ad una «rivelata»

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non è, di per sé, un segno di aggravamento delle tensioni intemazio­ nali. Il sistema BP, in quanto «sistema di guerra», non può non «giocare» con il crudo linguaggio della minaccia. Quello che conta è invece la direzione di marcia di questi «discorsi di guerra» che sempre più frequentamente vengono «rappresentati» sulla scena inter­ nazionale. Il quesito che resta aperto, al termine di queste note, è dunque quello di sapere se l’attuale periodo segnali un mutamento che è solo di «fase», anziché di «forma», nella dinamica del sistema BP. Si tratta cioè di sapere se siamo in presenza di un trasferimento di «posizione» da quella difensiva dell’attesa a quella sempre difensiva dell’azione, con tutti i rischi che ad essa sono connessi, oppure se si tratta di un vero mutamento di «forma», cioè di una graduale svolta in senso «offensivo» del conflitto, potenziale, fra le due Superpotenze? Una risposta a questa alternativa non esiste allo stato degli atti, perché non esiste neppure una misura delle capacità di tenuta del sistema BP qualora esso fosse sottoposto a sollecitazioni troppo marcate. Secondo Gray, che ormai si sforza di razionalizzare il succo teorico della politica strategica reaganiana, gli «scenari» globali possibili della dissuasione per una Superpotenza come gli Stati Uniti sono ormai cinque in altemativa/integrazione fra di loro. Essi si muovono secondo una linea di sviluppo che, partendo da quello classico della vulnerabilità reciproca assicurata (opzione-1), si pone l’obbiettivo finale di raggiungere la quasi vulnerabilità, cioè la limitazione dei danni con dominanza difensiva (opzione-5), ovvero quella che, in altra sede, ha definito come la transizione difensiva (95). Il miraggio della «vulnerabilità» e della «difensività» assolute rischia sempre, sia nella dottrina americana sia in quella sovietica, di ribaltarsi nel suo contrario, cioè in un atteggiamento «offensivo» che può esser concettualmente giustificato con la necessità di difendersi al confine, ovvero in anticipo, oppure sul territorio dell’altro, per evitare i costi di un attacco a sorpresa, ma che nei fatti riduce la credibilità della dissuasione a scalini. Se invece l’effetto dell’aspirazione all’«invulnerabilità» fosse quello di estendere il campo delibazione difensi­ va» fino a trasformarla in «preventiva», oppure in un’azione oggetti­ vamente «offensiva», allora saremmo di fronte ad una mutazione strutturale del sistema BP, che dalla fase «armistiziale» potrebbe

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entrare in una fase «guerreggiata». L’astrattezza del duello bipolare volgerebbe ben presto alla fine, e, con essa anche le illusioni deH’umanità. (1984)

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Note

1. Assumiamo qui la definizione di Liska sui «modelli classici» di «ordine» intemazionale, già espressa nelle sue opere meno recenti (International Eqilibrium, Nations in Alliance) ripresa successivamente in G. Liska, Quest For Equilibrium, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1977, pp. IX-XII. 2. Cfr. G. Snyder, Deterrence and Defense, Princeton, Princeton University Press, 1961. 3. Cfr. J.G. Miller, Living System: Basic Concepts, in «Behavioral Sciences», X (1965), n9 3, pp. 198-237, ora in La teoria generale dei sistemi viventi, Milano, Angeli, 1978, p. 68. 4. Cfr. P. Selznik, 1948, Foundation of the Theory of Organizations, in F.E. Emery (a cura di), Systems Thinking, Harmondsworth, Penguin, 1969, p. 267. 5. Cfr. fra gli altri, M. Haas, International Conflict, Indianapolis, Bobbs-Meril, 1974, pp. 3-37 per l’esame delle definizioni di «conflitto intemazionale», nonché per lo «stato dell’arte» in materia. Vedi anche F.A. Beer, Peace Against War, San Francisco, Freeman, 1981, passim. F. Attinà, I conflitti internazionali: analisi e misurazione, Milano, Angeli 1976, (parte II e III); cfr. altresì i dati dell’ampia ricerca, diretta da D. Singer nel quadro del progetto «Correlates of War», in D. Singer, M. Small, The Wages of War 1816-1965: A Statistical Handbook, New York, Wiley, 1972, e del suo aggiornamento in M. Small, D. Singer, Resort to Arms: International and Civil War, 1816-1980, Beverly-Hills, Sage, 1982. Nello stesso ambito si vedano anche le raccolte di saggi tratti dallo stesso progetto in D. Singer and Associates (a cura di), Explaining War, Beverly-Hills, Sage, 1979; D. Singer (a cura di), The Correlates of War: I, New York, The Free Press, 1980. 6. Cfr. Haas, Internationl Conflict, cit., pp. 301-356; K. Waltz, Theory of International Politics, Reading, Addison-Wasley, 1979, capp. II e III; M. Kaplan, System and Process in International Politics, New York, Wiley, 1957; L. Bonanate, Sistema Internazionale, in L. Bonanate (a cura di), Il mondo contemporaneo. Politica internazionale. Voi. VII, tomo I, Firenze, La Nuova Italia, 1979. 7. Cfr. C.M. Santoro, La guerra possibile, in U. Curi (a cura di), Della guerra, Venezia, Arsenale, 1982, ora in questo volume. 8. Cfr. A.W. De Porte, Europe Between the Superpowers, New Haven, Yale UP., 1979. 9. Cfr. N. Bobbio, Il problema della pace e le vie della guerra, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 97-106; L. Bonanate, Teoria politica e relazioni internazio­ nali, Milano, Comunità, 1976, pp. 26-64. 10. Per l’analisi degli «obiettivi di guerra» dei paesi belligeranti nel corso del conflitto si rinvia alla nostra ricerca sulle origini concettuali delle categorie analitiche del sistema intemazionale bipolare, ora in C.M. Santoro La perla e l’ostrica, Milano, F. Angeli, 1987.

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11. Della vasta produzione storiografica in materia segnaliamo qui solo R. Dallek, Franklin D. Roosevelt and American Foreign Policy, New York, Oxford, 1979; F. Yergin, The Shattered Peace, Boston, Houghton Mifflin, 1977, nonché la recente raccolta di testi, curata e introdotta da E. Aga Rossi (a cura di), Gli Stati Uniti e le origini della guerrafredda, Bologna, H Mulino, 1984. 12. Cfr. M. Kaplan, System and Process, cit., pp. 113-146, per i «modelli» di sistema intemazionale, nonché G. Liska, Careeer of Empire, Baltimore, The Johns Hopkins U.P., 1978, pp. 108 ss. 13. Cfr. C.M. Santoro, Raymond Aron e la guerra, in «Politica Intemazionale», XII (1984), n. 5, ora in questo volume. 14. Cfr. K. von Clausewitz (1832), Vom Kriege, trad. it. Della guerra, Milano, Mondadori, 1970, p. 19. 15. Cfr. gli elenchi di atti di forza (short of war) a fini politici, compiuti nel dopoguerra, fino alla fine degli anni ’70, dalle sue Superpotenze, in B.M. Blechman, S.S. Kaplan, Force Without War: U.S. Armed Forces as a Political Instrument, Washington, Brookings, 1978, nonché in S.S. Kaplan, Diplomacy of Power: Soviet Armed Forces as a Political Instrument, Washington, Brookings, 1981. 16. Il modello che meglio rappresenta questo intreccio di «potenza» e «vincolo» resta sempre quello, ormai classico, di Th.C. Schelling, The Strategy of Conflict, London, Oxford U.P., 1960. 17. Il fenomeno della «Diffusione di potenza» (DP) in diverse aree regionali del mondo si accompagna al fenomeno, corrispondente, di allargamento della forbice fra «potential power» e «actual power» di cui parla D.A: Baldwin, Power Analysis and World Polites: New Trends Versus Old Tendencies, in «World Politics», voi. 31, 1979, n8 2. Il concetto di «Diffusione di potenza» è più ampiamente precisato in C.M. Santoro, Bipolarismo e diffusione di potenza, in «Politica Intemazionale», IX (1981), n8 4-5, ora in questo volume. 18. Cfr. M. Kaplan, System and Process, cit., pp. 50-52. L’autore definisce il sistema «unit veto» come quello che corrisponde di più allo «hobbesiano stato di natura in cui gli interessi di tutti sono in contrapposizione - come se fossero in guerra - ma nel quale ciascun attore rispetta la regola aurea negativa del diritto naturale, non facendo agli altri ciò che non vorrebbe venisse fatto a lui». 19. Clausewitz parla di «soluzione» in termini di «decisione» (Entscheidung) nel senso di «venire ad una decisione, a una soluzione definitiva», anziché in quello di «prendere una decisione». Cfr. Clausewitz, Della guerra, cit., p. 482, n81. 20. Cfr. Miller, Living Systems, cit., pp. 56 ss., nonché p. 107. 21. Il concetto di «peso di potenza» è in K.W. Deutsch, The Analysis of Internation­ al Relations, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1968,1978. L’Autore definisce il «Weight of Power» come «l’influenza di un attore su qualche processo» e, in particolare, la capacità che esso ha «di cambiare la probabilità del suo esito» (p. 28).

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22. La distinzione fra «deterrenza» e «compellenza» è in T.C. Shelling, Arms and Influence, New Haven, Yale U.P., 1966; Cfr. la trad. it. La diplomazia della violenza, Bologna, 11 Mulino, 1968, pp. 69-92. 23. Cfr. ancora ibidem, pp. 78 ss., nonché R. Aron, Penser la Guerre: Clausewitz, Paris, Gallimard, 1976, vol. II, pp. 161 ss. 24. Secondo M. Kaplan, le «regole essenziali» di un sistema intemazionale sono quelle che descrivono il comportamento specifico degli attori nel sistema, e i limiti della loro azione interattiva. Per il «sistema deU’Equilibrio» (o Balance of Power), Kaplan prevedeva sei regole, mentre per quello «bipolare» ne elencava dodici. Cfr. M. Kaplan, System and Process, cit., pp. 23 e 38-39. 25. Il quadro storico generale dell’evoluzione di queste teorie è in L. Freedman, The Evolution of Nuclear Stategy, New York, St. Martin, 1981, pp. 93-119. 1 testi ormai classici, relativi alla «guerra limitata», sono quelli di H. Kissinger, Nuclear Weapons and Foreign Plicy, New York, Harper, 1957, e di R.E. Osgood, Limited War, Chicago, Chicago U.P. Un’originale interpretazione del concetto di «Deterrence» nella politica nucleare americana è in C.S. Gray, Nuclear Stategy and Strategic Planning, Philadelphia, Foreign Policy Institute, 1984. 26. Cfr. R.N. Lebow, Between Peace and War: the Nature of International Deterrence and Defense, cit., pp. 451-454. 27. Cfr. K. Waltz, The Spread of Nuclear Weapons: More May Be Better, in «Adelphi Papers» n2 171 London, The International Institute for Strategic Studies, 1981. 28. Vedi, su questo punto, oltre al notissimo G.T. Allison, Essence of Decision, Boston, Little, Brown, 1971, anche R. Jervis, Perception and Misperception in International Politics, Princeton, Princeton U.P., 1976; G. Snyder, P. Diesing Conflict Among Nations, Princeton, Princeton U.P., 1977. 29. Cfr. R. Aron, Paix et guerre entre les nations, Paris, Caiman-Levy, 1962, pp 494 ss. 30. Il recupero della «teoria della vittoria» è recente e molto controverso. Si rimanda, in particolare, al noto articolo di C.S. Gray, Nuclear Strategy: the Case for a Theory of Victor, in «International Security», vol. 4,1979, n2 1 che aprì la nuova fase del dibattito in materia. 31. Cfr. H. Kahn, On Escalation: Metaphors and Scenarios, New York, Praeger, 1965, trad. it, Filosofia della guerra atomica, Milano, Il Borghese, 1966, pp. 263 ss. Il termine «guerra spasmodica o insensata» viene attribuito da Kahn al gradino 44 del suo «schema generalizzato di escalation». Lo stesso K., peraltro, ricostruisce le origini del concetto di «spasmo» legandolo al gioco di parole fra «wargame» e «war-gasm» (cioè una parola composta di war e orgasm) da lui impiegata nel corso di alcune conferenze tenute nei primi anni ’60. 32. Al tema della «guerra difensiva» Clausewitz dedica l’intero libro VI della sua opera maggiore, per un complesso di oltre 250 pagine. Cfr. Clausewitz, Della guerra, cit., pp. 443-690.

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33. Si veda l’articolo di C.S. Gray e K. Payne, Victory is Possible, in «Foreign Policy», 1980, n8 39 in cui i concetti espressi dal solo Gray l’anno prima nell’articolo su «International Security» (di cui alla nota 30) vennero rielaborati e riaffermarti con provocatorio vigore, sollevando un dibattito molto acceso fra gli specialisti. Si veda, per una tesi opposta a quella di Gray e PayneJ’articolo di R. Jervis, VWry Nuclear Superiority Doesn’t Matter, in «Polical Science Quarterly», XCIV (1979), n8 4, pp. 617-633, oppure quello dello storico inglese M. Howard, On Fighting a Nuclear War, in «International Security», V (1981), n84. 34. Cfr. Clausewitz, Della guerra, ciL, p. 473. 35. Cfr. Aron, Penser la guerre, cit., II, pp. 157,238. 36. Cfr. Clausewitz, Della guerra, cit., pp. 473-474. 37. Ibidem, p. 477. 38. Cfr. Santoro, La guerra possibile, cit., p. 60. La condizione di apparente «stallo» entro la quale sembra galleggiare il sistema BP non ha però impedito che i rapporti di forza fra le due Superpotenze, nonché quelli fra i due «poli» e le rispettive zone di influenza, si modificassero sensibilmente nel corso del tempo. Non sappiano quale potrebbe essere la soglia massima di «mutazione» consenti­ ta al sistema BP prima che esso si avviti in una destabilizzazione senza ritomo. Il rischio della guerra nucleare «possibile» è dunque funzione diretta della sua stabilità e funzione inversa della sua immutabilità. 39. Cfr. Clausewitz, Della guerra, ciL, p. 445. 40. Ibidem, p. 474. 41. Ibidem, p. 467. 42. Per una scelta di testi recenti di storia del pensiero strategico postbellico si rinvia alle bibliografie contenute in L. Freedman, The Evolution of Nuclear Strategy, cit., pp. 440-459; D.N. Snow, Nuclear Strategy in a Dynamic World, University, Ala., University of Alabama Press, 1981, pp. 274-281, nonché all’imponente raccolta di indicazioni bibliografiche in F. Beer, Peace against War, cit., pp. 361-421. Cfr. altresì il classico volume di R. Gilpin, American Scientist and Nuclear Weapons, Princeton U.P., 1962. 43. Si vedano in particolare le opere di quegli studiosi che, fra la fine degli anni ’50 e la prima metà degli anni ’60, fecero compiere un salto di qualità nella elaborazione delle teorie strategiche degli Stati Uniti. In particolare, oltre al già ricordato H. Kissinger, Nuclear Weapons, cit., cfr. anche H. Kahn, On Thermonuclear War, Princeton, Princeton UJ*. 1960; A. Whoistetter, The Delicate Balance of Terror, in «Foreign Affairs», 1959, n8 2; B. Brodie, Strategy in the Missile Age, Princeton, Princeton U.P., 1959. 44. Per un esame delle principali posizioni, lette secondo una ottica «europea» fino alla fine degli anni ’60, si rimanda a L. Bonanate, La politica della dissuasione, Torino, Giappichelli, 1971, oltre a R. Aron, Paix et guerre, cit. 45. Per un’analisi del funzionamento del sistema «guerra/diplomazia», si veda il bel volume scritto a quattro mani da G.A: Craig e A.L. George, Force and Statecraft: Diplomatic Problems of Our Time, New York, Oxford U.P., 1983.

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46. Cfr. Freedman, The Evolution of Nuclear Strategy, cit., pp. 123-138; P. Nitze, Atoms, Strategy and Policy, in «Foreign Affairs» XXXIV, (1956), n® 2, pp. 190-191. Comunque, il più efficace critico di questa forma di guerra fu certo Brodie, Strategy, cit., (pp. 228-291). 47. Cfr. la nota 42 e inoltre M. Mandelbaum, The Nuclear Question: United States and Nuclear Weapons, Cambridge, Cambridge U.P., 1979. 48. Sul problema della «vulnerabilità» si è aperto un dibattito a più livelli, sia negli Stati Uniti sia in sede Nato. Fra i lavori più recenti si vedano i saggi d K. Payne e C.S. Gray, Nuclear Policy and the Defensive Transition, in «Foreign Affairs», LXII (1984), nB 4, pp. 820-842; di W.E. Burrows, Ballistic Missile Defense: The Illusion of Security, Ibidem, n® 4, pp. 843-856; di RJ. Woolesey, The politics of Vulnerability: 1980-83, ibidem, n® 4, pp. 805-819. Si veda altresì il testo di C. Jean, Vulnerabilità nei conflitti militari, in L. Di Sopra, C. Pelanda (a cura di), Teoria della vulnerabilità, Milano, Angeli, 1984, pp. 99-135. Il tema è stato autorevolmente «lanciato» anche dal Presidente degli Stati Uniti R. Reagan in un discorso del 23 marzo 1983, che, per il suo carattere avveniristico (program­ mi a lungo termine, antimissile e antisatellite), venne definito dalla stampa come il discorso delle «guerre stellari» (Star Wars). 49. Le direttrici di tendenza verso la «riconvenzionalizzazione» della guerra, soprattutto in relazione al teatro europeo, sono esposte negli ultimi tre Defence Reports che il Segretario alla Difesa americano C. Weinberger ha presentato al Congresso in occasione dei più recenti esercizi finanziari (Fiscal Years) Washington: Usgpo, 1982,1983,1984. Si vedano altresì i tre fascicoli preparati dal Department of Defense degli Stati Uniti, relativi al Soviet Military Power per gli anni 1982,1983, 1984. Sui trends delle dottrine strategiche si consultino anche gli Strategie Survey dell’I.I.S.S. di Londra per gli anni 1982-83 e 1983-84. Il senso di questo processo di revisione delle teorie sulla guerra in Europa (e altrove) è ben rappresentato in un articolo del gen. Curtis LeMay, già comandante dello Strategie Air Command statunitense (SAC), e autorevole esponente della linea «dura» della US Air Force, in «Aviation Week and Space Technology», vol. 120, 1984, n® 22, p. 11. Nello scritto di LeMay riaffiorano tutte le argomentazioni dei sostenitori del «bombardamento strategico», da Douhet in poi, che avevano digerito a fatica la fine dell’aeroplano quale vettore nucleare privilegiato. 50. Assumiamo, per comodità d’esposizione, che il sistema intemazionale prebelli­ co, cioè quello che procede dal Trattato di Versailles e che si conclude con la caduta della Francia nel giugno 1940, sia definibile come sistema «intermedio», ovvero di transizione dal sistema deH’Equilibrio ottocentesco ad altra morfolo­ gia delle relazioni intemazionali, che in linea teorica avrebbe potuto anche essere diversa da quella bipolare. Il sistema «intermedio» si caratterizzava per essere anomalo rispetto a quello dell’Equilibrio, in quanto non assicurava il funzionamento di tutte le sue «regole essenziali». Cfr. E.H. Carr, The 20 Years' Crisis, 1919-1939, London, Macmilian, 1939,1946.

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51. Cfr. H. Feis, Churchill, Roosevelt, Stalin: The War They Waged and the Peace They Sought, Princeton, Princeton U.P., 1957, per un testo «ortodosso» americano sulla diplomazia della guerra. Vedi, altresì, Yergin, The Shattered Peace, cit, per una «revisione» equilibrata di quelle tesi. 52. Cfr. G. Hardlach, Der Erste Weltkrieg, ed. am., London, Penguin, 1973-1977, pp. 53-107; A.S. Milward, War, Economy and Society, 1939-45, London, Penguin, 1977, pp. 169-207. 53. Cfr. Freedman, The Evolution of Nuclear Strategy, cit., pp. 12-13. 54. Si veda, per la vicenda delle «scuole» di pensiero strategico, il recente volume di F. Kaplan, The Wizard of Armageddon, New York, Simon and Schuster, 1983, che ricostruisce con molta attenzione la storia delle prime due generazioni di studiosi, da Bernard Brodie a Herman Kahn, attraverso le «avventure» del più importante «think-tank» costituito negli Stati Uniti dopo il 1945: la Rand Corporation di Santa Monica. Cfr. anche il libro di P. Dickson, Think-Tanks, New York, Atheneum, 1972, che sviluppa un’ampia panoramica dell’intero settore. Sulla traduzione e l’evoluzione degli studi strategici si rimanda, inoltre, al già più volte citato Freedman, The Evolution of Nuclear Strategy, nonché al recente manuale di C.S. Gray, Strategie Studies: A Critical Assessment, Westport, Greenwood Press, 1982. 55. Cfr. Freedman, The Evolution ofNuclear Strategy, cit., p. XV. 56. Cfr. Payne, Gray, Nuclear Policy, cit., p. 820. 57. A proposito del dibattito sulla «vulnerabilità» si vedano anche le tesi contrarie di D.M. Snow, The Nuclear Future: Toward a Strategy of Uncertainty, University, Ala., The University of Alabama, Press, 1983. In particolare si veda il cap. 3 «The Challenges: Revival of Defense» (pp. 83-121). 58. Cfr. G. Quester, Deterrence Before Hiroshima: The Influence of Air Power on Modern Strategy, New York, Wiley, 1966, p. 52. 59. Sugli esiti della strategia del bombardamento di «area» e di «previsione» si vedano gli atti della Commissione d’inchiesta ad hoc che, dopo la guerra, valutò gli effetti delfiniera operazione. Cfr. U.S. Strategie Bombing Survey, 10 vol., New York, Garland, 1976. 60. Il primo studioso, in senso assoluto, che riconobbe, con solidi argomenti,la novità qualitativa dell’arma atomica, immaginandone le conseguenze sulla politica intemazionale e sulle dottrine strategiche, fu proprio B. Brodie, in The Absolute Weapon, New York, Harcourt Brace, 1946. Poco prima però, in Inghilterra (B.H. Liddell Hart, The Revolution in Warfare, London, Faber and Faber, 1946) c’era stato già chi aveva individuato le potenzialità insite nei razzi tedeschi (V-l e V-2), affermando che la loro apparizione «il 15 giugno 1944 doveva essere considerata come l’inizio di nuova era». Liddell Hart (cit., in Freedman, The Evolution ofNuclear Strategy, cit., p. 21) comprese, quindi, non solo l’importanza della «bomba», ma anche l’effetto di sinergia che l’unione con i vettori a razzo (missili) avrebbe dato all’intera macchina della guerra.

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61. La declassificazione di numerosi documenti segreti del Defense Department, ha consentito allo storico D.A. Rosenberg di esaminare l’evoluzione della pianifi­ cazione nucleare statunitense fra il 1945 e il 1960. Si tratta del primo esame analitico degli «operational issues» strategici, la cui differenza rispetto alla «declaratory policy» dell’Amministrazione è evidente. Cfr. D.A. Rosenberg, The Origins of Overkill: Nuclear Weapons and American Strategy, in «Interna­ tional Security», VII (1983), n8 4, pp. 3-71. 62. Cfr. F. Kaplan, The Wizard, cit., pp. 16-23. 63. Ibidem, pp. 51-73. 64. Dulles aveva parlato al Council on Foreign Relations di New York. Il testo del suo discorso, con alcune modifiche, venne poi pubblicato dalla rivista del Council, «Foreign Affairs», nel suo numero di aprile. Cfr. J.F. Dulles, Policy for Security and Peace, in «Foreign Affairs», XXXII (1954), 3. 65. Cfr. A. Rapoport, Fight, Games and Debates, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 1960, pp. Ill ss. 66. Cfr. DePorte, Europe, cit., pp. 166 ss. 67. Cfr. Kissinger, Nuclear Weapons, cit. 68. Cfr. Osgood, Limited War, cit. Nel 1979 lo stesso autore aggiornò le sue idee alla luce degli eventi. Cfr. R. Osgood, Limited War Revisited, Boulder, Westview Press, 1979. 69. Cfr. Whoistetter, The Delicate Balance, cit. 70. Cfr. Schelling, The Strategy of Conflict, cit., e Arms and Influence, cit. 71. Cfr. Brodie, The Absolute Weapon, cit., nonché Strategy, cit. 72. Sul concetto di «overkill», si rimanda al già menzionato Rosenberg, The Origins of Overkill, cit., nonché a Freedman, The Evolution of Nuclear Strategy, cit., p. 207. 73. Cfr. S. Perini, L’analisi strategica di Thomas C. Schelling (tesi di laurea), Università di Bologna, 1982. 74. Cfr., fra gli altri, il classico testo di R. Luce, H. Raiffa, Games and Decisions, New York, Wiley, 1957. 75. Sulla teoria della vulnerabilità e i concetti di «danno» e «rischio» vedi ancora il saggio di Jean, Vulnerabilità, cit. (pp. 99-135), ma anche Snow, The Nuclear Future, cit., pp. 35 ss., sulla questione della vulnerabilità degli ICBM americani. 76. Cfr. Freedman, The Evolution ofNuclear Strategy, cit., pp. 125-127. 77. La strategia della «risposta flessibile» venne adottata ufficialmente dalla Nato alla riunione ministeriale del Consiglio Atlantico del 14 dicembre 1967. Il comunicato finale cosi si esprimeva: «Questo concetto... si basa su un ventaglio, flessibile e bilanciato, di risposte appropriate, convenzionali e nucleari, per tutti i livelli di aggressione o di minaccia di aggressione. Queste risposte, sottoposte ad un appropriato controllo politico, sono destinate, in primo luogo, a dissuadere l’aggressione e quindi a preservare la pace; ma, qualora sfortunatamente l’aggressione dovesse occorrere, esse dovranno mantenere la sicurezza dell’area

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del Trattato Nord-Atlantico, nell’ambito del concetto di difesa avanzata». Cfr., per la storia e le teorie sulla «guerra limitata», il volume di Jan Clark, Limited Nuclear War, Oxford, Martin Robertson, 1982, pp. 39-67 e 142-202. Alla fine del 1969, i vettori di lancio «offensivi» a lungo raggio degli Stati Uniti erano 1.054 (ICBM), 230 (SLBM), 150 (bombardieri). La superiorità americana era ancora più considerevole nel campo delle «testate nucleari»: 4.235 contro 1.880. (Cfr. Strategie Survey 1969, London, The International Institute of Strategie Studies, 1970, pp. 35-36). Secondo McNamara gli Stati Uniti avevano bisogno di una forza equivalente a 400 megatoni per tenere in piedi la deterrenza fondata sul MAD. Cfr. Gray (1984), cit. (pp. 2-3). Il miglior volume d’insieme sulla guerra del Vietnam è quello di S. Kamow, Vietnam: A History, New York, Viking, 1983. Lo sviluppo del processo decisionale e della strategia bellica americana in Indocina, radiografata da due analisti critici della Amministrazione, è ben descritto in L.H. Gelb, R.K. Betts, The Irony of Vietnam: The System Worked, Washington, Brookings, 1979. Si veda, in particolare, la parte relativa alle «quattro strategie vincenti» messe in atto successivamente dagli Stati Uniti nei confronti del conflitto, fin dall’epoca «francese», (pp. 252-267). Secondo lo «schema» di H. Kahn, On Escalation, cit., pp. 64-65, il gradino-15 fa parte del gruppo «Crisi intense», che prevede minacce, ma il «non uso» di armi nucleari. Esso viene definito come «guerra para-nucleare». In effetti, secondo il modello di Kahn, già nei gradini dall’11 al 14 potrebbe accadere che uno, o un piccolo numero, di ordigni nucleari venissero esplosi «senza intenzione», come risultato di una diminuzione dei dispositivi di sicurezza e «dell’orgasmo derivante da una crisi intensa». Tuttavia, con il gradino 15, si varca una soglia, poiché «una parte usa le armi nucleari per distruggere effettivamente qualcosa all’avversario, ma tenta di mascherare questa azione in modo che l’avversario non la consideri un vero passo verso il conflitto nucleare» (pp. 121-122). La «guerra para-nucleare», in sostanza, non contempla l’impiego di armi nucleari al solo scopo «simbolico e comunicativo» dei gradini inferiori, ma invece per fini politici ben definiti, anche se formalmente negati. Sul concetto di «interdipendenza» e sulla sua funzione ideologica nella politica estera americana postbellica, si rinvia al nostro C.M. Santoro, Lo stile dell’aqui­ la, Milano, Angeli, 1984, pp. 67-132. Sul problema del controllo degli armamenti si vedano: D. Brennan (a cura di). Arms Control. Disarmament and National Security, New York, Braziller, 1961 e E. Luard (a cura di), First Steps to Disarmament, New York, Basic Books, 1965. Cfr. D.P. Rapkin, W.R. Thompson, J. A. Christopherson, Bipolarity and Bipolar­ ization in the Cold War Era, in «The Journal of Conflict Resolution», vol. 23, 1979, ns 2, pp. 274 ss. I data base per questo calcolo sono stati elaborati sulla scorta dello studio di Azar e Sloan (1975), su dati fomiti dalla Copdab (Conflict and Peace Data Bank). Cfr. P. Bracken, The Command and Control of Nuclear Forces, New Haven, Yale, 1983, pp. 238-247.

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84. Cfr. D. Ball, Can Nuclear War Be Controlled?, in «Adelphi Papers», na 169, 1981, London, The International Institute for Strategic Studies, p. 35. Vedi altresì Clark, Limited Nuclear War, cit., pp. 203 ss. 85. Sulla «protracted limited nuclear war» si veda il testo della dichiarazione dell’allora Segretario alla Difesa statunitense, Harold Brown, in occasione della emanazione della direttiva presidenziale PD-59 del luglio 1980 che aprì la strada a questa eventualità strategico-tattica. Si veda inoltre la bibliografìa relativa all’evoluzione della dottrina americana nell’ultimo decennio in Santoro, Lo stile dell'aquila, cit., pp. 269-275. Cfr., infine, Caspar W. Weinberger, Annual Report to the Congress, FY-1984, Febbraio 1983, p. 35 e p. 51. Il termine, più commestibile, che viene oggi usato, al posto di «protracted war» è «enduring deterrence». Il significato è il medesimo. Nel rapporto di Weinberger per il FY-1985, Feb. 1984, si parla (p. 37) di «restoring the peace». 86. Cfr. Report of The Secretary of Defense, James Schlesinger, to the Congress on the FY, 1975 Defense Budget, and FY, 1975-79 Defense Program (4 marzo 1974), passim. 87. Cfr. Schelling, The Strategy of Conflict, cit., p. 16; e La diplomazia della violenza, ciL, p. 9. 88. Per un esame dei «requisiti» per una «teoria della vittoria» di parte sovietica, si rimanda a J. Dziak, Soviet Perceptions of Miltary Doctrine and Military Power: The Interaction of Theory and Practice, New York, National Strategy Informa­ tion Center, 1981, pp. 28 ss. Sulle 4 generazioni di studiosi americani di strategia si veda ancora Freedman, The Evolutiony ofNuclear Strategy, cit. 89. Cfr. Clausewitz, Della guerra, ciL, pp. 493-494. 90. Cfr. Gray, Nuclear Strategy, cit., p. 80. 91. Cfr. Clausewitz, Della guerra, cit, p. 497. 92. Cfr. S. Talbott Endgame: The Inside Story of Salt II, New York, Haiper and Row, 1979. In questa eccellente ricostruzione dei negoziati sovietico-americani per la stipula dell’accordo di limitazione degli armamenti strategici, balza agli occhi il carattere «mistico» e al tempo stesso di ferrea «ritualità», che animava i negoziatori di entrambe le parti. 93. La tripartizione è in Rosenberg, The Origins of Overkill, cit, p. 10. 94. Cfr. E. Ravenal, Counterforce and Alliance: The Ultimate Connection, in «International Security», VI (1982), n 4, per una versione «unilateralista» e inoltre W. Slocombe, The Countervailing Strategy, in «International Security», V (1981), 4 per le tesi carteriane sul significato della «svolta» assunta con al PD-59 del luglio 1980. 95. Gray, Nuclear Strategy, cit, p. 58, nonché Payne e Gray, Nuclear Policy, cit, p. 820. Secondo G. le 5 opzioni di strategia nucleare a disposizione degli Stati Uniti sarebbero: 1. Mutual Assured Vulnerability; 2. Mutual Assured Vulnera­ bility with Targeting Flexibility; 3. Counterforce and Countercontrol Preemi­ nence with Recovery Denial; 4. Damage Limitation for Deterrence and Coercion; 5. Damage Limitation with Defense Dominance. L’attuale strategia statunitense è in una fase di passaggio dalla Opzione 2 all’Opzione 3.

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7. IL SISTEMA BIPOLARE COME SISTEMA DI GUERRA E LA LOGICA DEI REGIMI INTERNAZIONALI di l'ligi Bonanate, Carlo Maria Santoro

D problema Scopo di questo saggio* è l’identificazione del vincolo esistente fra due problemi teorici importanti che sono presenti nello studio delle Relazioni Intemazionali contemporanee: (a.) quello della natura «bellicosa» del sistema intemazionale bipolare e, (b.) quello della struttura logica e funzionale dei «regimi intemazionali» nell’ambito dello stesso sistema. Sulla scorta di questo doppio quesito, l’articolo è stato diviso in due parti. La prima parte si fonda sul presupposto che il sistema inter­ nazionale, nell’attuale forma bipolare, sia definibile come un sistema intemazionale di guerra. Verrà quindi declinato il concetto generale di «sistema di guerra», sia nel contesto delle caratteristiche specifiche di qualsiasi struttura delle relazioni intemazionali, sia nell’ambito dei modelli di comportamento principale (duello/logico/rito/assedio) e dell’interazione funzionale fra i due maggiori attori operanti nel sistema intemazionale bipolare: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Seguendo una variante della tradizione di scuola «neorealista», che raffigura i «regimi intemazionali» quasi fossero «un insieme di *Una prima versione in lingua inglese di questo articolo è stata presentata al XIII Congresso mondiale della «International Politicai Science Association», tenutosi a Parigi dal 12 al 15 luglio 1985.

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principi impliciti ed espliciti, di norme, di regole e di procedure di "decision making"» (Krasner, 1982: 186), prenderemo successiva­ mente in esame uno dei più importanti regimi esistenti all’interno del contesto bipolare, quello che abbiamo definito come il «regime di dissuasione nucleare» (RDN). Nella seconda parte viene quindi descritto il RDN, come un caso specifico di «regime intemazionale», cercando di scoprire i principi e le norme che ne guidano il processo, insieme alle regole e alle procedure che ne rendono operativa la complessa struttura. A questo fine saranno presi in considerazione, sia l’analisi del concetto di «dissuasione» (Morgan, 1977), sia alcuni dati empirici (Huth e Russett, 1984; Kugler, 1984, Zinnes e Muncaste, 1984), nell’intento di verificare se la dissuasione possa essere considerata come una variabile che si inserisce (intervening variable) fra i «fattori di base casuali» (potere, interesse, ecc.) e gli «effetti di comportamento» degli attori dominanti in ambito intemazionale, ovvero sia solo più generi­ camente definibile come una «struttura sociale» elementare del sistema intemazionale (Young, 1982: 277). Il problema è quindi quello di scoprire se il «regime intemazionale» vada considerato come un modello generale di comportamento all’interno del sistema intemazionale, o se invece costituisca uno schema d’azione specifico che il sistema intemazionale adotta di volta in volta, e in situazioni critiche strutturali particolari, come è il caso del RDN. La nostra conclusione è che entrambe queste ipotesi sono accettabili, poiché si tratta di modalità operative interdipendenti. L’articolo cerca infine di dimostrare che il RDN può essere altresì considerato come una variabile autonoma, in altri termini come un «quantum» di pace che agisce all’interno di un sistema strutturalmente conflittuale, e che interessa non solo il comportamento delle due Superpotenze, ma anche i fattori casuali di base che hanno portato alla sua creazione nel periodo postbellico.

D sistema internazionale contemporaneo

Un «sistema» è «un insieme di unità interagenti» (Waltz 1979: 40). Tuttavia, osserva Raymond Aron (1962: 103), il sistema inter­ nazionale è anche qualcosa di notevolmente diverso. Vale a dire che è

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«un insieme di unità politiche che stabiliscono regolari interazioni fra di loro, ma che sono tutte suscettibili di essere coinvolte in un conflitto generale». Tale definizione contempla quindi un conflitto fra funzioni legit­ time del sistema intemazionale. La guerra è infatti un metodo di «soluzione dei problemi» quando la contrattazione pacifica fra unità politiche (gli attori) diventa impossibile, poiché la guerra è sempre «l’ultima risorsa» nei conflitti e/o nelle dispute intemazionali. «Il sistema intemazionale bipolare è infatti fondamentalmente basato sui meccanismi d’interazione operanti fra due «superatati» che coesistono in attesa della loro distruzione reciproca con strumenti di guerra» (Bonanate, 1971: 53). Un sistema strutturato in questo modo ha le sembianze di un «sistema di guerra», nel senso che la distruzione reciproca è un evento atteso e possibile in quanto, nella peggiore delle ipotesi, lo strumento a cui si dovrebbe ricorrere per risolvere le controversie intemazionali più radicate, non potrebbe essere altro che il conflitto armato, malgrado il fatto che la guerra venga ormai generalmente considerata come un attrezzo, sia razionalmente che moralmente, improponibile. Da questo postulato di ordine generale è nata l’ipotesi di considerare il sistema bipolare alla stregua di un «sistema di guerra» (Santoro, 1984: 622). Definiamo infatti come «sistema di guerra» quella particolare categoria di modelli d’interazione intemazionale, che si basa sulla premessa, implicitamente accettata da tutti, che gli attori egemoni (in genere due: nel nostro caso gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, ma ci sono stati numerosi esempi storici importanti di bipolarismo nel passato: Atene/Sparta; Roma/Cartagine; Genova/Venezia; ecc.) operi­ no in un contesto, permanente e strutturale, di antagonismo reciproco. In teoria una simile condizione dovrebbe predeterminare il destino di ogni forma di sistema bipolare. La sua natura antagonista nega, infatti, la possibilità strutturale che esso possa mantenersi in equilibrio per un lungo periodo di tempo (per le posizioni critiche si vedano: Waltz, 1964; Deutsch e Singer, 1964; Rosencrance, 1966). A differenza di altri modelli di sistema intemazionale (Kaplan, 1957) e in particolare di quelli descritti nella semplificazione dei due idealtipi classici ddV equilibrio e dell’impero (Liska, 1977: 9-12), il sistema di guerra può evolvere, o meglio dissolversi, in un unico modo: con la fine della guerra, in termini di vittoria ovvero di

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sconfitta di una parte sull’altra. Per queste ragioni di struttura il «sistema di guerra» non avrebbe le stesse caratteristiche funzionali di altri sistemi intemazionali molto più stabili, perché dotati della capacità di corrispondere a bisogni essenziali quali sono l’«autoconservazione» e 1’«autoriproduzione» (Selzinck, 1948: 267, in Emery, 1969). Se queste sono le precondizioni per l’esistenza di un sistema intemazionale di guerra, allora il sistema bipolare ne possiede chiaramente i connotati. E ciò per molteplici ragioni, sia di ordine storico che strutturale. In primo luogo perché la conclusione della seconda guerra mondia­ le non aveva appagato gli ambiziosi «obiettivi di guerra» (war aims) delle due maggiori potenze vittoriose: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Venne alla luce infatti, gradualmente, un nuovo assetto delle relazioni intemazionali, che fu piuttosto l’effetto delle operazioni militari e del loro esito che non il risultato di una conferenza di pace lungamente discussa e negoziata. In secondo luogo perché la guerra aveva posto fine al precedente sistema intemazionale (dell’«equilibrio» o «intermedio»: 1919-1939) senza che nel frattempo si gettassero le basi di un nuovo «ordine» (o sistema di sicurezza collettiva) in grado di mantenere e garantire una forma stabile di pace fra gli attori in gioco, mediante l’adozione di una serie di regole, procedure e vincoli, riconosciuti e rispettati da tutti. In terzo luogo perché la «Grande Alleanza» fra le potenze vittoriose (Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna), invece di diventare la spina dorsale di un nuovo ordine «universale», basato Sull’Organiz­ zazione delle Nazioni Unite, è sfociata in due coalizioni contrapposte che sono andate confrontandosi sul problema generale della gestione del mondo uscito dalla guerra. In quarto luogo perché la capacità di distruzione dell’arsenale nucleare di entrambi gli attori egemoni, ha sortito l’effetto paraliz­ zante di limitare la manovrabilità del sistema. Il rischio nucleare è così diventato al tempo stesso, sia l’elemento frenante di maggiore efficacia nei confronti delle ambizioni e dell’aggressività reciproca delle due Superpotenze, sia uno dei più importanti motivi di antago­ nismo fra di loro. La minaccia nucleare permanente nega infatti oggi l’opportunità, esistente nel passato, di risolvere con un atto di forza le controversie

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intemazionali che non era possibile risolvere con la diplomazìa. Di conseguenza, il contesto intemazionale risulta nel suo complesso più instabile e tendenzialmente orientato a squilibrarsi per un eccesso di domanda che non trova soluzione e/o risposta. Il nuovo sistema intemazionale si è così gradualmente assestato su un modulo fun­ zionale molto instabile: ha acquistato cioè una struttura ellittiva per blocchi, centrata su due fuochi (Usa e Urss), ciascuno dei quali è attorniato da un complesso sottosistema regionale o multiregionale di attori medi e minori. Le zone o aree «grigie» fra i due blocchi non ‘ hanno più la possibilità di svolgere quella funzione di lubrificazione ; dei meccanismi del sistema principale basato sui sottosistemi di j blocco, ma anzi diventano sovente degli elementi di surriscaldamento * e/o di inceppo per l’intero contesto che li circonda. Una simile configurazione non ha acquisito, per forza di cose, le medesime caratteristiche dei due idealtipi («equilibrio» e «impero») di sistema intemazionale che l’avevano preceduta. Non si è rivelata cioè una costruzione flessibile, egualitaria e normativa, dotata delle proprietà di «check and balance» che erano proprie del sistema dell’«equilibrio di potenza» del Concerto europeo, né ha avuto la struttura stabile e ordinata, gerarchica e istituzionale, propria dei modelli dell’imperia­ lismo. Il sistema bipolare ha assunto invece la strana configurazione speculare di un «sistema/duello» (e molto più raramente la forma di un «sistema/gioco»), che è per definizione assolutamente incerto fino alla sua conclusione prevista in termini di vittoria/sconfitta. «Duello» è infatti un termine che anche etimologicamente significa «guerra», poiché effettivamente «duellum» e «bellum» sono versioni diverse della medesima parola. Anche Clausewitz fece uso di una simile metafora per definire la guerra quando affermò, all’inizio della sua opera maggiore, che «la guerra non è che un duello su più ampia scala» (Clausewitz, 1832,1970: 19). Attraverso la metafora del duello possiamo quindi desumere che il sistema intemazionale, fondato sul bipolarismo speculare e l’antago­ nismo strutturale, possa essere considerato come un «sistema di guerra», sia pure di tipo anomalo rispetto ai sistemi di guerra classici, come quelli rivoluzionario-napoleonico (1792-1815), ovvero della prima (1914-1918) e della seconda (1939-1945) guerra mondiale. Il suddetto antagonismo quindi non è attribuibile solo alla presenza

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di interessi nazionali o imperiali in competizione che dividono le due Superpotenze a livello di conflitti o tensioni politiche, militari, ideologiche, economiche e culturali. La ragione prioritaria di questa «bellicosità» strutturale del sistema sta piuttosto nelle sue caratteristi­ che peculiari già menzionate: (a.) la «forma/duello» del sistema e (b.) la presenza delle armi nucleari. Ma se il sistema bipolare è un «sistema di guerra», allora la normale procedura del suo funzionamento è quella tipica dello «stato di guerra» permanente. Ogni intervallo apparente in questo stato di guerra può essere perciò considerato come una «tregua» piuttosto che come un vero e proprio «stato di pace». Una definizione simile risulta più utile di altre formule più attenuate, come «guerra fredda» (Lippmann, 1947), «pace del terrore» (Schelling, 1966; Aron, 1962), «guerra possibile» (Santoro, 1982) e «non guerra» (Beaufre, 1965), per spiegare l’attuale sistema inter­ nazionale. Un valido argomento a sostegno del modello di «sistema di guerra» si può trovare nel cosiddetto «dilemma della sicurezza», cioè nel concetto che « definisce gli aspetti dell’autodifesa nella ricerca della sicurezza in un sistema anarchico» e in un sistema bipolare (Snyder, 1984: 461). In effetti, in un sistema bellicoso come quello bipolare, la ricerca della sicurezza è un problema molto più difficile da risolvere di quanto non lo sia in un sistema multipolare, anche se la coesione esistente all’interno dei due sottosistemi di blocco è di molto superiore a quella che si stabilisce fra attori alleati in un sistema di alleanze tradizionali. Questo perché entrambi gli alleati in un sottosistema di attori dominanti sanno (o percepiscono) che la «maggior parte degli strumenti con cui uno stato cerca di incrementare la propria sicurezza riduce la sicurezza degli altri» (Jervis, 1978: 169). In altre parole il meccanismo d’interazione fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica tende alla lunga ad assumere la forma, o di un «gioco a somma zero», in cui al guadagno dell’uno corrisponde una perdita eguale dell’altro giocatore, oppure quella di un «gioco a somma diversa da zero», nel senso che ogni mossa compiuta dalle due parti si può alternativamente risolvere in un doppio danno o in un doppio vantaggio per ciascuno di essi. D’altro canto, il sistema bipolare - come abbiamo già detto - è un

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tipo particolare di «sistema di guerra». Esso si differenzia dagli altri sistemi di guerra, in cui l’uso effettivo della forza militare è il principale generatore di effetti sul sistema, perché la guerra aperta fra le due Superpotenze e i rispettivi sottosistemi di blocco, nel suo significato complessivo di azioni e di strategie di attacco/difesa, per diverse ragioni che qui non staremo ad esaminare, non è ancora scoppiata. Per descrivere questo caso anòmalo di «sistema di guerra» bipolare, è però necessaria l’adozione di una serie di strumenti analitici specifici che abbiamo ritenuto di individuare in alcuni concetti generali mutuati dallo studio dell’opera di Clausewitz «Della guerra», e in particolare dal Libro VI dedicato alla formulazione dei principi della guerra difensiva (Clausewitz, 1832,1970:443-694). Clausewitz definì in questi termini il problema: «Qual è l’idea fondamentale della difesa? Parare un colpo. Qual è la sua caratteristi­ ca? Attendere il colpo che si deve parare. E’ dunque questo il carattere distintivo di ogni azione difensiva» (Clausewitz, 1832, 1970: 443). I due verbi sui quali vale la pena di soffermarsi un momento sono dunque quello di «parare» e quello di «attendere». Si tratta in entrambi i casi di corollari del concetto più generale di guerra. Il verbo «parare» sottintende più significati (prevenire, fermare, reagire, ecc.). Nel significato di «prevenire» esso può essere accostato per analogia al concetto moderno di «dissuasione» (nelle due forme di «deterrence by denial» e «deterrence by punishment»), che è un punto di forza essenziale nella struttura di funzionamento del sistema bipolare, soprattutto in relazione al carattere nucleare della «guerra possibile». Il verbo «attendere», poi, che a quello di «parare» è intimamente collegato, è uno strumento analitico decisivo da usare nella costruzione di un modello di guerra «difensiva» applicabile al meccanismo d’interazione del sistema bipolare. E’ stata questa, infatti, la guerra che il sistema intemazionale, basato sui due blocchi contrapposti, ha combattuto dal 1945 in poi. «Vi sono pertanto due parti distinte nella difesa: l'attesa e l’azione... Ma un periodo difensivo, soprattutto se è grande come tutta una campagna od una intera guerra, non si compone, relativamente al tempo, di due grandi metà, l’una trascorsa esclusivamente nell’attesa e l’altra nell’azione, bensì di un alternarsi di questi due stati, nei quali

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l’attesa può considerarsi come la direttiva protratta lungo tutta l’azione difensiva» (Clausewitz, 1832,1970: 475-476). Lo schema di guerra difensiva delineato da Clausewitz può essere parzialmente applicato, per analogia, al meccanismo funzionale del sistema intemazionale bipolare. Tuttavia il bipolarismo è un «sistema di guerra» difensiva notevolmente diverso rispetto all’usuale modello di guerra che si costituisce come una struttura mista, intrecciata di difesa e di attacco. Il sistema bipolare può essere quindi meglio definito come una categoria anòmala di «sistema di guerra» basata sull’immagine speculare delle due Superpotenze, le quali si confrontano creando una doppia struttura difensiva, fondata sull’attesa. Il risultato di questa operazione è stata la costruzione di un sistema di «guerra difensiva» che potrebbe essere altresì definito come un’architettura bellica difensiva bilaterale. Il «duello» fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si è dunque istituzionalizzato nella morfologia delle relazioni intemazionali con­ temporanee come una modalità comportamentale naturalmente belli­ cosa. Esso è dunque l’effetto di un insieme complesso di percezioni e di travisamenti attraverso i quali ciascuna parte è convinta di essere minacciata (ed anche attaccata), direttamente o indirettamente, dall’al­ tra (Jervis, 1976). Un atteggiamento oscillante di questa natura, basato su una corrispondenza biunivoca permanente fra paura/attesa dell’attacco e aggressività/potenza per «parare un colpo» che non arriva mai, è stato la modalità costante sulla cui base il sistema bipolare ha funzionato nel corso del quarantennio postbellico. La «guerra difensiva» è stata gestita con cura estrema e sottile abilità così che non potesse esplodere in un sanguinoso attacco reciproco. Tutto questo è avvenuto, nono­ stante che il dispositivo militare e le dottrine strategiche, soprattutto nucleari, di entrambe le Superpotenze fossero del tutto orientate all’azione «offensiva», in termini di dissuasione, piuttosto che a quella «difensiva». Solo negli ultimi anni, con il progetto di difesa strategica (SDÌ) proposto dagli Stati Uniti si pone, per la prima volta nella storia del sistema bipolare, un problema di omologazione fra la natura difensiva del sistema e la «posture» strategica degli attori maggiori. Malgrado questa serie di premesse potenzialmente negative, il rischio permanente di un olocausto nucleare ha finora ristretto la

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«guerra possibile» nel limbo di un conflitto «difensivo bilaterale» fondato sull’«attesa» che ha congelato l’«azione» spostandone l’even­ tuale attuazione in un futuro sempre più distante. Se assumiamo questo modello semplificato di sistema inter­ nazionale dobbiamo allora altresì identificare i fattori casuali fonda­ mentali che hanno impedito la trasformazione del «sistema di guerra» bipolare, da uno schema di tipo difensivo ad uno di tipo offensivo. La supremazia della difesa «bilaterale», impostata in termini di «dissuasione/attesa», rispetto all’offensiva e all’«attacco/azione» si comprenderà più facilmente se si considera che, a partire dal 1945, entrambi gli attori protagonisti hanno fatto evolvere il loro pensiero politìco/strategico attorno al concetto cardinale di «minaccia» recipro­ ca. Questo paradigma analitico, per essere normalmente impiegato, deve in qualche modo essere giustificato da una interpretazione della struttura intemazionale che sia basata sulla ideazione e sulla materia­ lizzazione di un attaccante potenziale (possibilmente a sorpresa), fittizio ma credibile, che minacci la reciproca esistenza e gli interessi vitali di entrambi gli attori principali (Nuechterlein, 1973). Senza la presenza permanente di uno spettro politico/strategico di questa natura, nessuna delle due Superpotenze avrebbe avuto la possibilità e la credibilità per gestire un «sistema di guerra» basato sullo schema della guerra difensiva bilaterale. L’«aggressore» è stato continuamente percepito, descritto e studiato in sintonia con tutti i mezzi culturali, ideologici e analitici disponibili a entrambe le Superpotenze. Il pensiero strategico di entrambi gli attori, e tutti i principi organizzativi del sistema intemazionale e dei suoi sottosistemi di blocco, sono stati influenzati dalla precondizione presuntiva della minaccia di «attacco», nonché dall’evoluzione strategica e geopolitica della doppia immagine riflessa del potenziale aggressore, che è stata a sua volta adattata alle successive modificazioni intervenute nella struttura delle relazioni intemazionali. Nel frattempo, un nuovo insieme di «principi, norme, regole, e procedure decisionali» (Krasner, 1982, cit.), ovvero più semplicemente di «strutture sociali» (Young, 1982, cit.), si è andato gradual­ mente creando al fine di gestire, nonché di conservare, in parallelo con le premesse bipolari, un ambiente intemazionale complesso, tenden­ zialmente dotato di spinte entropiche crescenti, che facesse da filtro, evitando il coinvolgimento della struttura portante del sistema basato

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sul modello della «guerra difensiva». Un continuo processo di apprendimento, insieme ad una serie di fragili strutture di supporto, che possiamo definire come «sotto-ordi­ ni» o «regimi» intemazionali derivati dal modello globale e sempli­ ficato (sistema/duello) su cui è stato fondato il sistema intemazionale bipolare, hanno preparato la strada al consolidamento di un’infrastruttura di relazioni intemazionali capaci di «gestire» in modo quasi pacifico la bellicosità naturale del sistema.

Sistema internazionale e regimi internazionali Così come era avvenuto nel caso del concetto di sistema, esposto da D. Easton nel 1953 prima che M. Kaplan (1957) lo introducesse nella teoria delle relazioni intemazionali, analogamente il dibattito contem­ poraneo sui regimi intemazionali trova il suo punto di partenza più fecondo nell’impostazione proposta ancora da Easton in «A System Analysis of Politicai Life» (1965). L’attenta lettura del cap. 12 di quell’opera avrebbe forse potuto meglio orientare anche l’applicazio­ ne internazionalistica di una parola fino a pochissimi anni fa tipica esclusivamente del linguaggio politologico interno (solo Puchala e Hopkins, se non sbagliamo, ricordano il nome di Easton, ma di passaggio, vedi Puchala e Hopkins, 1982: 246). In sostanza due aspetti si rivelano particolarmente interessanti ai fini dell’estensione alle relazioni intemazionali del concetto di regime. Il primo - di carattere metodologico - è relativo a questa affermazione: l’altemativa (al non tener conto del concetto di sistema) costringerebbe a un’immagine delle regole e degli scopi dell’interazione alTintemo del sistema politico, laicamente casuale e indeterminata (Easton, 1965: 171).

Questa affermazione consente di andare al di là del dibattito - (da Krasner, 1982a, 1982b, a più riprese evocato) - tra le interpretazioni groziana e realistica deH’importanza dei regimi: l’osservazione di Easton mette infatti in evidenza che ogni qual volta si fa riferimento all’esistenza di un regime si accetta implicitamente anche che il sistema a cui lò si riferisce non sia più del tutto anarchico (Keohane, 1982: 325). Ciò significa che entrambe le impostazioni (realistica o

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groziana) devono lasciar posto a una più complessa e strutturata immagine delle relazioni intemazionali fondata sulla prevedibilità dei comportamenti tenuti dagli stati, in situazioni di ordinaria ammini­ strazione (vedremo più aventi che più complesso - o meglio diverso è il problema della formazione dei regimi). Il secondo aspetto da evidenziare riguarda la giustificazione che Easton propone dell’esistenza dei regimi. Il regime serve innanzitutto a organizzare il supporto necessario alla sopravvivenza di un sistema; quindi l’utilità del concetto di regime sgorga da un aspetto elementare dell’organizzazione umana, per incompleta che possa essere. In fondo, affinché i suoi risultati siano considerati vincolanti, i membri devono accettare alcune procedure e regole fondamentali per quanto riguarda i modi in cui le controversie sugli obiettivi devono essere regolate e portare a un qualche esito largamente e generalmente idoneo a condurre a una soluzione (Easton, 1965: 191). In altri termini, se un sistema esiste, esso è contestualmente dotato di strutture di sostegno in base alle quali l’analisi globale del sistema stesso appare più ricca e comprensibile. Su questa base è quindi possibile proporre una sistematizzazione delle diverse posizioni emerse nel dibattito internazionalistico sui regimi. Innanzitutto, la parola «regime» può voler dire almeno due diverse cose. I regimi si riferiscono a situazioni globali oppure rinviano a singole «issue-areas»? Non esiste incompatibilità tra le due possibilità, ma diverso è definire «regime» l’epoca del Concerto europeo dal riferirsi al «regime del petrolio». In entrambi i casi opera un insieme di principi, impliciti o espliciti, di norme, regole e procedure decisionali (Krasner, 1982a: 186); la portata è diversa però a secondo che ci si riferisca al funzionamento in generale di un sistema, oppure a quello di un suo sottosistema. Nelle parole di Puchala-Hopkins (1982: 248) si parlerà di «sovrastrutture» e di «substrutture» rispettivamente, intendendo che nel primo caso il regime è «spontaneo», e che nel secondo si è invece di fronte a regimi «negoziati» o «imposti» (Young, 1982: 282-84), o ancora «domandati» (Keohane, 1982). Nei termini della classica impostazione di D. Singer (1961) si potrebbe ricondurre la distinzione a quella tra diversi «livelli di analisi». Dal punto di vista genetico, la formazione di regimi all’interno di un determinato sistema intemazionale può essere così immaginata: alla conclusione di una grande guerra tra gli stati vittoriosi e quelli

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vinti - una volta conclusi gli eventuali trattati di pace - si viene a determinare la necessità di un insieme di regole del gioco di portata universale. Questo in generale. Una volta realizzatasi questa sorta di intesa diffusa sulla conservazione del sistema (il supporto eastoniano) - e in questo senso si può pensare che si tratti di un consenso che è contemporaneamente spontaneo ma necessario - attorno alle singole difficoltà che possono emergere (innovazioni, richieste di mutuai agreements, etc.) da qualunque parte vengano, si costituiscono dei regimi ad hoc, «imposti», quando alcuni stati ( quelli vincitori della guerra precedente) siano in grado di farlo; «negoziati» se tra vincitori e vinti prevale piuttosto l’interesse comune di regolamentare in modo efficiente e chiaro una determinata «issue-area», non necessariamente oggetto di controversia. In termini generali dunque teoria del sistema intemazionale e teoria dei regimi intemazionali non devono venir disgiunte nel quadro dell’analisi del sistema bipolare, inteso come sistema di guerra, perché da sole risulterebbero monche, o meglio difficilmente operazionalizzabili. Il sistema intemazionale sarà quindi l’insieme delle condizioni a cui il singolo attore deve fare riferimento nella sua azione - per adeguarvisi o ribellarsi. Ciascun sistema intemazionale storicamente delimitato dunque esprimerà un suo regime generale. Si potrà con­ seguentemente dire - come del regime politico di uno stato in un suo certo periodo storico (il regime fascista in Italia, che dura dal 1922 al 1943 - che anche di un sistema intemazionale si può determinare il regime - in termini ideologici, ma anche di funzionamento (Aron, 1965; Duverger, 1978). E così come determinati, eccezionali, eventi provocano una successione di regimi, o addirittura una successione di sistemi (esempio del primo caso è il passaggio dalla Germania di Weimar al regime nazista; del secondo il passaggio dalla Russia zarista all’unione Sovietica), così sarà anche del sistema inter­ nazionale, nella logica del quale finalmente la guerra viene a collocar­ si in un quadro generale coerente - non come inevitabile e periodico evento inerente alla vita degli stati, ma come unico grande strumento di mutamento strutturale di un sistema intemazionale. Si potrebbe sollevare, a questo punto, un dubbio per quanto riguarda l’effettiva utilità di continuare a distinguere un sistema intemazionale dal suo regime (Duverger, 1978 discute i rapporti tra sistema politico e regime politico). La discussione di questo dubbio

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consente di chiarire un punto di grande rilievo. La teoria del sistema intemazionale si è andata, negli anni recenti, da un lato inaridendo dopo che la battaglia per introdurla nel bagaglio culturale e linguistico degli studiosi era stata vinta; ma nello stesso tempo la riflessione sulla sua utilità euristica aveva finito per restare sullo sfondo, o essere trascurata, come se si fosse trattato di un luogo comune. D’altra parte, l’analisi neo-realistica, con la drastica limitazione della portata del concetto di sistema intemazionale («i sistemi intemazionali sono decentrati e anarchici», Waltz, 1979: 88), aveva, sottovalutato le potenzialità della teoria del sistema intemazionale nel mettere in evidenza gli elementi che nei rapporti tra gli stati vanno al di là della pura e semplice coordinazione (Waltz, 1979: 88). Alla teoria del sistema intemazionale va invece assegnato un posto analogo a quello che si assegna al sistema politico in riferimento alla politica interna. Il sistema politico è l’insieme di istituzioni, gruppi, processi tra i quali si sviluppano reti di interdipendenze (come è noto questa definizione si fonda sull’ipotesi che «il funzionamento di nessuna parte può essere compreso pienamente senza riferirsi al modo in cui funziona la totalità» Easton, 1957: 280). A sua volta, il sistema intemazionale rappresenta il punto di incontro di tutte le interdipen­ denze che legano tra loro stati e non stati (Bertelsen, 1977), governi e imprese multinazionali, Ministeri degli Esteri e movimenti pacifisti, etc. Qualsiasi sistema politico ha un regime, che ne definisce specificamente le regole del gioco (regime democratico, dittatoriale, di polizia, etc.). Il sistema intemazionale avrà un regime tipico (pluripo­ lare o bipolare, ad esempio, oppure dispotico o egualitario, e così via), che organizza la vita normale del sistema stesso (è il support di Easton). Infine, all’interno di un sistema politico dotato di un suo regime, su specifici, importanti «issues» si concentrano tensioni, difficoltà di controllo, etc. - il che dà vita a regimi speciali, come nel caso del cosiddetto «corporatism» che, nell’ambito dei regimi demo­ cratico-parlamentari, si propone di regolare i rapporti tra i rappresen­ tanti di interessi differenti, governo, imprenditori e sindacati, ad esempio - in un’età di difficile governabilità (Schmitter-Lehmbmch 1979; Berger, 1981). Analogamente succede nel sistema inter­ nazionale: in esso, attorno a particolari «issues» si può venire a formare un regime «ad hoc» (non necessariamente coerente con il regime generale) per regolamentare i rapporti tra gli stati interessati.

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Un punto particolarmente interessante da analizzare riguarda la possibile influenza dei regimi speciali sul regime generale: si dubita ad esempio che il corporativismo (o il neo-corporativismo) sia compatibile con il regime democratico dei paesi europei; così può essere discusso se il commercio intemazionale di armi sia coerente con il regime intemazionale (o con altri regimi speciali), o se i tentativi di sviluppare l’interscambio commerciale tra Est e Ovest siano compatibili con la competizione strategica, e così via. Pur senza considerare obbligatoria l’applicazione analogica alle relazioni intemazionali dell’apparto concettuale già elaborato dalla scienza politica, suggeriamo infine che l’allargamento della teoria dei regimi rappresenti un notevole passo avanti nell’utilizzazione del concetto di sistema intemazionale e quindi nella costruzione delle relazioni intemazionali come scienza. Le applicazioni di questa impostazione sono molteplici, specie se si pensa alla loro traduzione storiografica: ricercando il regime caratte­ ristico di un sistema si troverà facilmente il criterio della sua periodizzazione - sia interna, sia in successione con altri sistemi - che avviene sulla base delle guerre sperimentate dal sistema stesso (Krasner, 1982b: 499). In vista dell’indubbio passo in avanti rispetto al tradizionale giudizio di precarietà che siamo abituati a dare sulla vita intemazionale, dovremo dunque cercare ora di indicare in quale modo effettivamente un sistema operi, o quanto meno di evidenziare empiricamente la differenza di funzionalità che emerge se si compara­ no sistemi diversi. La convalida di questa proposizione è ovviamente la condizione preliminare di questo saggio: per discutere se la dissuasione nucleare possa esser considerata un regime intemazionale, è necessario infatti assicurarsi prima che l’epoca storica a cui si fa riferimento abbia una sua specificità - possa cioè essere considerata autonoma. Confronteremo ora - allo scopo di far emergere l’individua­ lità del sistema intemazionale contemporaneo - i comportamenti bellici tenuti dagli stati nel corso del periodo 1914-1980: risulterà, come vedremo, che il modello del comportamento bellicoso degli stati è radicalmente differente. Che i periodi 1919-39 e 1945-80 possano esser considerati come sistemi intemazionali differenti può esser dedotto da diverse osser­ vazioni, che potrebbero anche esser quantificate. Basta pensare alla grande diversità nel numero degli stati esistenti, alla diversa compo­ sizione del blocco degli stati dominanti, alla diversa fiducia riposta nelle organizzazioni intemazionali (sia governative sia non). Più complessa - ma anche più feconda e suggestiva - l’analisi empirica

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dell’indicatore che misura la conflittualità espressa nel periodo storico indicato sulla base del numero dei conflitti in corso (intemazionali e civili) in ciascun anno (i dàti che verranno ora utilizzati ed elaborati provengono da Small-Singer, 1982, che ne discutono anche l’affi­ dabilità). Secondo questi dati, nel periodo 1919-1939 le guerre intemazionali furono 13 e le guerre civili 11, mentre nel periodo 1945-1980 esso sono state, rispettivamente 30 e 44. Se ora si guarda a questi due periodi storici alla ricerca di una loro specifica differenza il loro regime caratteristico - la differenza sembra consistere principal­ mente nell’incapacità di dotare il sistema intemazionale di principi condivisi nel periodo 1919-39, producendo così un regime di im­ prevedibilità (come è mostrato dalla tav. 1 che, per mezzo di un’autoregressione, verifica se, servendosi dei dati relativi a ciascun anno, sia possibile prevedere anche l’andamento dell’anno successi­ vo). Nel nostro caso il diagramma mostra - in base al conteggio dei il «nation-month» trascorsi in guerra dagli stati esistenti in ciascun anno - che se la prevedibilità dei comportamenti bellici degli stati apparte­ nenti al primo periodo è scarsa e oscillante, essa diventa molto affidabile e costante dopo il 1954 (lo sarebbe già a partire dal 1945 se i dati utilizzati, che moltiplicano «nation-month» per il numero degli stati, non avessero sovrastimato il peso relativo della guerra di Corea, formalmente combattuta da 16 paesi, ma in pratica da soli 5). Tav. 1

Fonte: Bonanate, 1986

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Concludendo la discussione sugli indicatori proposti, emerge così oltre alla diversità di dimensioni e di fiducia nell’azione dell» organizzazioni intemazionali - un risultato che conforta il programmi di ricerca prima delineato: il regime del sistema intemazional» successivo alla Seconda guerra mondiale è molto più prevedibile eh» non quello del periodo precedente la stessa guerra, ed è cioè pii solido, più strutturato, caratterizzato da un più diffuso sostegno - il eh« non significa naturalmente che sia anche più pacifico - meno anar­ chico dunque e più ordinato, più facilmente analizzabile per mezze della teoria dei regimi. Prima di passare all’esame del caso proposto, possiamo concludere che la teoria dei regimi deve svilupparsi sulla base del chiarimento dei suoi due possibili impieghi: il regime globale (superstructure) e i regimi speciali (substructures) differiscono tra loro per il grado di generalità. Se si parla in generale del regime che contraddistingue l’epoca 1945-1980 ci si riferirà al «regime intemazionale»; riferendosi invece - come ora si farà - alla regolamentazione di una specifica «issue-area», sarà più opportuno accompagnare alla parola «regime» la sua specificazione problematica («food regime»; «Gatt regime», etc.). La ragione della diversità è anche teoretica: mentre il regime intemazionale - in quanto indicatore del funzionamento di un sistema intemazionale - non può non esistere, tutti i regimi «locali» (specifici, settoriali) sono il risultato di una «domanda» formulata da alcuni attori interessati a stabilire dei regimi attraverso una negoziazione che si conclude in un accordo (libero o imposto che sia) (Keohane, 1982: 325, 331-32).

Le fasi del «regime di dissuasione nucleare» A questo punto dell’analisi è possibile individuare diverse forme di «regime intemazionale» che operano come «sottosistemi» o come «sotto-ordini» nei differenti campi dell’attività intemazionale. Abbi­ amo quindi enucleato quattro modelli di regime «strategico», che hanno connotato quattro periodi successivi del quarantennio postbelli­ co, e che costituiscono l’effetto diretto (e/o le «variabili intervenien­ ti») delle dinamiche concrete del «sistema di guerra» bipolare nato dalla seconda guerra mondiale.

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Ciascuno di essi può essere definito mediante una formula linguisti­ ca, o meglio con una metafora, che sintetizza il carattere essenziale di ciascuna fase: (a.) duello, (b.) gioco, (c.) rito, (d.) assedio. Questa quadripartizione, che pure sottolinea i tratti differenziati di ciascuna fase, non coglie tuttavia il principio strutturale dato dal funzionamento ininterrotto di un regime che potremmo chiamare «generale», operante all’intemo del sistema di guerra bipolare, basato sul principio della dissuasione nucleare, che è presente in tutte le fasi e che tutte le collega. E’ stata proprio la continuità temporale di quel «regime di dissua­ sione nucleare» (RDN) a rappresentare il fattore veramente innovativo e strutturale che ha caratterizzato l’intero periodo preso in esame (1945-86). Le quattro fasi, in questa cornice, più che come «regimi strategici» distinti, vanno considerate come trasformazioni morfo­ logiche di un unico regime intemazionale, quello che abbiamo appunto definito con la formulazione RDN (Morgan, 1977; Huth e Russet, 1984, ecc.). L’RDN ha assunto ruoli e funzioni che in altri tempi, quando solamente la guerra convenzionale (cioè non nucleare) era possibile, sarebbero spettati al meccanismo tradizionale interattivo e alternativo fra «guerra» e «diplomazia» (Craig e George, 1983). La dissuasione e la guerra, infatti, funzionavano allora come le due facce della stessa medaglia: l’una sostituiva l’altra e viceversa nel momento in cui si transitava dallo stato di guerra allo stato di pace e viceversa. In seguito all’attivazione di questi meccanismi, il tempo della guerra e il tempo della pace erano entrambi legittimamente accettati, e alla lunga diventavano quasi intercambiabili, come le stagioni dell’an­ no. Oggi non è più così. La «guerra possibile» (Santoro, 1982) nel sistema bipolare, altrimenti definita come «guerra generale» (Levy, 1985), diventerebbe ben presto incontrollabile per ragioni nucleari, nonostante le teorizzazioni sulla «guerra nucleare limitata» (Osgood, 1979; Clark, 1982, ecc.). Il modello di dissuasione che abbiamo descritto è così diventato un vero e proprio «regime intemazionale» (RDN), trasformandosi in un paradigma analitico essenziale per la comprensione del funzionamento del sistema bipolare nel suo comp­ lesso. La sua utilità ed efficacia dipendono, infatti, dalla capacità che esso ha dimostrato, grazie alle continue modificazioni della sua forma

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(le 4 fasi) assunte nel corso del tempo, nell’impedire lo scoppio del conflitto generale e nel disinnescare il detonatore che è intrinseco al sistema intemazionale bipolare in quanto sistema di guerra (Huth e Russet, 1984: 506-508, tab. 1). In questo contesto il RDN, considerato come «regime generale» del sistema bipolare, si è in certo modo specializzato, acquisendo progres­ sivamente le quattro forme simboliche descritte dalle metafore sum­ menzionate (duello/gioco/rito/assedio). La prima fase, che è stata anche quella più prossima alla natura stessa del sistema bipolare, ha trovato espressione nella bellicosa metafora del «duello». Durante questa fase, che corrisponde più o meno agli anni della «guerra fredda», fra il 1945 eil 1960, il RDN ha assunto l’aspetto di un duello statico ma minaccioso fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Fu solo la schiacciante superiorità strategica e nucleare degli Stati Uniti, prolungatasi anche negli anni Sessanta, ad agire come deterrente principale nei confronti della presunta aggres­ sività dell’avversario sovietico. La seconda fase, che copre il decennio degli anni Sessanta, segna l’evoluzione dei rapporti politici fra Est e Ovest, e corrisponde al graduale bilanciamento degli arsenali nucleari sovietico-americani. Durante questo periodo il RDN ha perfezionato i suoi strumenti di gestione e di controllo della pericolosità del sistema, dando vita ad un processo di riduzione dei rischi di guerra aperta, guidando così una trasformazione, anche concettuale, dalla logica del «duello» a quella del «gioco». Nel corso di questo periodo il pensiero strategico statunitense definì scientificamente, con l’ausilio della teoria dei giochi e delle decisioni razionali, l’area analitica spettante alla cosiddetta «dissuasione ortodossa», che ha trovato il suo momento culminante nella dottrina strategica detta della «reciproca distruzione assicurata» (Mad) (Shelling, 1960: 66 e ss.). La terza fase, ma va dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta, è stata dominata dal meccanismo giuridico/politico delle tornate negoziali per il controllo degli armamenti strategici. In questo periodo, il processo di distensione ha operato come uno strumento capace di sofisticare ulteriormente il già complesso meccanismo del RDN, nonché come una modificazione delle leggi che regolavano il sistema di guerra bipolare. Si è così gradualmente passati dall’espe­ rienza del «gioco» a quella del «rito» negoziale, sia attraverso

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l’istituzione di codici, regole e procedure di comportamento inter­ nazionale, sia mediante lo sviluppo di sedi negoziali semi-permanenti dirette a trattare, politicamente e tecnicamente, i problemi del control­ lo dei sistemi d’arma strategici. Tale flusso di comunicazione costante fra le due Superpotenze si è così trasformato in una sorta di rituale diplomatico, i cui sacerdoti officianti erano diventati anche i depositari della garanzia di salvaguardia della situazione non direttamente conflittuale fra Est e Ovest, e come tale venivano percepiti da tutti gli attori, anche da quelli che non facevano parte del gioco. Il «rito» divenne quindi la principale modalità di comportamento dei due attori protagonisti nelle relazioni fra di loro, in un contesto temporale che per qualche anno, nella fase della distensione, sembrò aver definitiva­ mente allontanato la minaccia della guerra nucleare, e perfino quella della «guerra possibile», intesa come guerra difensiva permanente. La quarta fase, che ha inizio alla fine degli anni Settanta ed è tuttora in atto, si è aperta invece con una brusca inversione di tendenza nel processo di regolazione degli anni precedenti. Il RDN venne messo apertamente in discussione soprattutto nella sua forma di «reciproca distruzione assicurata» (Mad). Sopravvenne un confuso periodo di instabilità che pareva introdurre l’esperienza già vissuta del «duello», o meglio di un «neo-duello», anche se di carattere alquanto diverso rispetto agli anni dell’immediato dopoguerra. Ci fu chi tentò di rimettere in forse un principio acquisito fin dai primi anni Settanta, e cioè quello della «parità» o dell’«equivalenza» sul terreno strategico e militare fra le due Superpotenze, sancita dal trattato Salt-I, rista­ bilendo al suo posto il principio postbellico della «superiorità» dell’una sull’altra come garanzia di stabilità del sistema. Allo stato attuale la linea prevalente è quella di ridefinire le strutture concettuali e i contenuti strategici della teoria dissuasiva per passare dall’«orto­ dossia» della minaccia duale «offesa/difesa» del possibile scambio nucleare (Mad) al principio, «eretico» per la strategia nucleare, basato sulla reciproca minaccia espressa nei termini rovesciati di «difesa/offesa» (SDÌ) in altri termini il RDN potrebbe continuare a mantenere la sua funzione di «regime generale» del «sistema di guerra» bipolare, solo a patto che la dottrina strategica e la tecnologia siano in grado di sviluppare concretamente un efficace dispositivo «difensivo» antimissile antisatellite, limitando al tempo stesso l’arse­ nale missilistico e nucleare basato sull’approccio «controforza/con­

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trovatore» della dissuasione «ortodossa». Nel giro di alcuni anni il regime RDN dovrebbe così confrontarsi con una nuova metafora interpretativa, quella dell’«assedio» bilaterale reciproco fra Est e Ovest che nel futuro potrebbe sostituire le precedenti forme di dissuasione attenuando, anche sul terreno della dottrina e quindi dei codici di comunicazione fra le Superpotenze, la vulnerabilità reciproca che - come abbiamo già visto - connota il sistema di guerra bipolare. Questo modello relativamente semplificato del regime generale della dissuasione nucleare, nelle sue quattro forme (duello/gioco/rito/assedio), non è tuttavia da considerare come uno schema tattico fondato sulla pura e semplice successione cronologica di fasi diverse. Al contrario, le quattro formule simboliche hanno interagito l’una con l’altra e l’una dentro l’altra in diverse occasioni, provocando momenti complessi e spazi di crisi del RDN quando sono prevalse delle forme «miste» di dissuasione, che ne hanno però dimostrato anche la flessibilità. Si può pensare, per fare qualche esempio, alla crisi dei missili a Cuba nel 1962 (Allison, 1971), quando si verificò una relativa commistione di elementi propri sia del «duello» che del «gioco», ovvero all’interminabile negoziato fra Stati Uniti e Unione Sovietica per i trattati Salt-I e poi Salt-II, che ha assunto la morfologia tipica di una «contaminati©» fra «gioco» e «rito». Oggi si stanno sperimentando invece nuove forme di comportamen­ to che tendono a basarsi su modelli misti di «duello» e di «rito», a cavallo fra atti aggressivi (minacce, pressioni, sanzioni, rappresaglie limitate, atti di forza parziali, ecc.) e sostanziali proposte negoziali dirette alla riduzione degli armamenti strategici e di teatro (START e LRINF). I conflitti verbali e le provocazioni dottrinali possono quindi coesistere con il tacito consenso di tutti sulle regole fondamentali del bipolarismo e del RDN, cioè di un «regime» la cui specificazione è il risultato di un lungo processo di apprendimento, ma che non si è ancora istituzionalizzata nelle forme stabili di un vero e proprio «ordine» intemazionale (Talbott, 1983).

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Conclusioni

Il nostro tentativo di semplificare una realtà tanto complessa non può non richiedere una serie di cautele e di precisazioni. L’«intrattabilità» del tema è tale che, ad esempio, un autore - niente affatto privo di argomenti - ha recentemente sostenuto che il ruolo delle armi nucleari deve essere «reassessed», dato che non si deve alla loro presenza la pace di cui il sistema generale attualmente gode (Kugler, 1984). In un altro caso, relativo all’analisi di come la dissuasione ha funzionato e tuttora funziona, la conclusione è stata che «il possesso delle armi termonucleari ha dato un contributo soltanto marginale» al mantenimento della pace fredda (Huth-Russet, 1984: 523). Dovremo dunque concludere che - invece che un sistema di guerra - quello attuale sia un sistema di pace. E’ indubbio che le relazioni intemazionali contemporanee conoscono una quantità di pace abbastanza alta; non è invece escluso però che questa maggior pace sia prodotta, invece che da una volontà effettivamente pacifica, dal timore delle conseguenze (via «esclation») dello scoppio di ostilità militari. In questo caso, indubbiamente, la dissuasione funzionerebbe non al livello del caso singolo, ma piuttosto come strumento generale di prevenzione: proprio come nel caso in cui di fronte a una «issue-area», che a tutti gli interessati sta a cuore di risolvere, viene a formarsi una base di accordo (tacito) che produce regole di comportamento capaci non di annullare 1’«issue-area» ma di evitarne la complicazione. Avevamo suggerito - all’inizio - che l’accoppiamento tra la logica dei regimi intemazionali e l’ipotesi che il sistema intemazionale attuale potesse esser definito come un «Nuclear Deterrence Regime» avrebbe forse finito per farci raggiungere risultati contraddittori. Potremmo dire piuttosto che contraddittoria è la strettura del sistema intemazionale contemporaneo, che possiamo ben definire alla luce del peso che la presenza delle armi nucleari ha avuto in tutte le decisioni di politica estera prese da Stati Uniti e Unione Sovietica a partire dal 1945 in poi. Non c’è però dubbio anche che i problemi della sicurezza non siano stati gli unici affrontati in un quarantennio dalle due Superpotenze (e dai loro rispettivi alleati): basta pensare che nel periodo 1970-80 l’interscambio commerciale Usa-Urss è stato di 13.207 milioni di dollari (Ocde). E’ possibile dunque pensare che la

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logica del sistema intemazionale contemporaneo sia contraddistìnta dalla contemporanea presenza di uno sfondo bellico e semplificato sul quale si è innestato un accordo relativo all’autoconservazione e all’autoriproduzione dei rapporti di potere formatisi alla fine della Seconda guerra mondiale. Si potrebbe ancora riflettere sulle varie fasi che scandiscono la storia intemazionale contemporanea: la nostra periodizzazione in 4 fasi intende offrire un indicatore per ricordare che la struttura del sistema intemazionale non si è formata in un sol giorno, né che è restata sempre immutabile. Anzi, sua caratteristica è di essere un processo contìnuo e contìnuamente iniziarne da capo. Forse è proprio la mancanza di immobilità a evitare una «major crisis» e a produrre un regime «ad hoc» destinato al «crisis management». Un ulteriore aspetto potrebbe essere ancora introdotto nella teoria generale dei regimi, relativo al giudizio sulla qualità di funzionamento del regime o delle sue «substructures» («sub-regimes»). Ma in questo modo si entrerebbe in un altro campo - fino a poco tempo fa rarissimamente affrontato dagli studiosi di relazioni intemazionali - e che ha a che fare con il giudizio etico che su una politica regolata dalla minaccia della distruzione dell’umanità si deve dare (Lackey, 1982; Blake-Pole, 1983; Russet, 1984). E’ possibile che proprio questa sia una delle linee principali lungo cui la teoria delle relazioni intemazionali nei prossimi anni - grazie al passaggio attraverso la problematica dei regimi politici - potrà svilupparsi. (1985)

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8. RIPENSARE L’IMPENSABILE?

Nello sconfinato mare della letteratura strategica che, dalla fine degli anni ’70, ha ripreso ad inondare l’America, è difficile ri­ conoscere il vecchio dal nuovo. Molte ipotesi dottrinali che paiono, a prima vista, avveniristiche, quasi sempre appoggiate sulle capaci spalle delle nuove tecnologie degli armamenti, sia convenzionali che nucleari, quando scendono da quei bastioni si riducono a ben poca cosa. L’originalità delle teorie sul «war-fighting», sulla guerra guerreg­ giata, le ipotesi delle «guerre stellari» e della Ballistic Missile Defense (BMD), come anche il rilancio delle dottrine di «riconvenzionalizzazione» del conflitto in Europa risultano, a ben guardare, delle operazioni politico-culturali molto meno innovative di quanto non sembrino. Sul terreno della teoria strategica, poi, esse non sono altro che la dimensione «applicata» delle intuizioni pure degli anni ’50 e ’60, che il livello tecnico dell’epoca non consentiva allora di speri­ mentare in moduli operativi e logistici. Questo non vuol dire però che l’attuale dibattito sia un semplice revival di quello che aveva animato la comunità scientifica un quarto di secolo fa. Al contrario la realtà delle nuove opzioni tecnologiche a disposizione delle superpotenze, la polivalenza degli impieghi possi­ bili e la sofisticazione dei dispositivi, nonché la gamma graduata dei sistemi (lanciatoti, vettori, testate, miniaturizzazione, precisione, laser, ecc.) hanno reso molto più complessa e ricca di sfumature una discussione che, tutto sommato, alle sue origini era proceduta per grandi schemi astratti di razionalizzazione del reale.

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Si pensi alle grandi semplificazioni logiche della teoria dei giochi a due giocatori, ovvero alla metafora dei «due scorpioni in una bottiglia» e alle ridotte alternative offerte dal «gioco del pollo» o dal «dilemma del prigioniero», per rendersi conto di quanta parte della tradizione del pensiero strategico classico fosse stata tagliata fuori dal campo dell’analisi possibile, nonché dai modelli previsionali di quegli anni, impoverendone le opzioni (Freedman, 1981, 175-189). Ciò non toglie, tuttavia, che il quoziente d’invenzione in senso stretto delle prime scuole di analisti, fosse indubbiamente più elevato di quello dei loro successori. In particolare, fra le quattro generazioni di analisti in cui possono essere suddivisi i quaranta anni dal 1945 ad oggi (Santoro, 1984, 622-659), la seconda, quella che ha operato nella decade ideale a cavallo fra gli anni ’50 e i primi ’60, resta ancora oggi la più vitale e feconda, sia per forza immaginativa che per profondità di pensiero. Le opere di studiosi come William W. Kaufmann, Thomas C. Schelling e Herman Kahn, che ebbero un ruolo di primissimo piano, sopratutto in quell’arco di tempo pur nella diversità radicale degli orientamenti di ricerca, forniscono ancora oggi degli strumenti operativi la cui utilizzabilità e affidabilità come attrezzi di lavoro è molto alta. Da quando Kaufmann, nel 1954, pubblicò la classica monografia su The Requirements of Deterrence nella quale, battendosi contro le grossolane tesi della «rappresaglia massiccia», sosteneva la validità di una strategia convenzionale che avrebbe meglio funzionato di quella nucleare nel compito di scoraggiare la minaccia dell’avversario potenziale, il dibattito su questo tema non si è mai più trasformato nei suoi connotati essenziali (Kaufmann, 1954, ma anche Brodie, 1954). Anzi si potrebbe dire che ancora oggi i termini teorici di quell’alternativa (si pensi alla recentissima «dottrina Rogers»), sono rimasti pressoché immutati (Survival, March-April 1984). Non diversamente, il quadro teorico e concettuale della strategia della dissuasione, intesa come Mutual Assured Destruction che è tuttora il fondamento, nonostante gli scossóni subiti, della dottrina nucleare sovietico/americana, è nelle sue grandi linee il prodotto della elaborazione di Thomas C. Schelling in The Strategy of Conflict, che è del 1960, e in Arms and Influence, che è del 1966 (Schelling, 1960, 1966). Herman Kahn, in particolare, sembra aver lasciato più di una traccia

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sulle nuove generazioni di analisti strategici. Il suo apporto scientifico, che prese corpo fra il 1960 e il 1965 con la pubblicazione dei suoi più importanti contributi alla dottrina strategica nucleare (On Thermonu­ clear War, nel 1960, Thinking the Unthinkable nel 1962 e On Escalation nel 1965), non è stato certamente dimenticato. Al con­ trario, buona parte della sua tematica sulla guerra limitata, sul concetto di «intra-war deterrence», ovvero sui «tre livelli» della dissuasione, così come le argomentazioni sulla «difesa civile», sono, nelle loro linee di fondo, perfettamente attuali. Alcune sue «esortazioni e profezie» che, all’epoca in cui venivano profferite, sembravano quasi opus diaboli, sono oggi dei luoghi comuni accettati praticamente da tutti, nella singolare comunità intemazionale degli studiosi di polemologia. Quando nel 1960 egli scriveva che «la guerra è una cosa terribile, ma che lo è anche la pace e che la differenza fra le due è piuttosto di tipo quantitativo, una questione di gradi e di standards» (Kahn, 1960,45-46), non faceva che impiegare una metafora, certo provocatoria, ma anche didascalica, diretta ad insegnare ai politici e anche aH’opinione pubblica il modo in cui trattare razionalmente argomenti così terribili. Aveva infatti scritto che si proponeva di «creare un vocabolario» per le questioni strate­ giche (anche nucleari) «abbastanza limitato e abbastanza semplice da essere appreso, abbastanza preciso da consentire la comunicazione, e abbastanza ampio da poter descrivere tutte le idee importanti che vengono discusse in quell’ambito, in modo esatto e facile» (Kahn, 1960,5). Kahn si serviva infatti delle parole in almeno due modi diversi. Da un lato le impiegava come armi della provocazione e dello scandalo, avvolgendole nella stagnola della metafora e del paradosso. Dall’altro lato però - e qui sta la sua originalità - le definiva secondo una scala quantitativa di attribuzioni, e perfino di pesi relativi, che le rendevano sovente ordinabili in gerarchie alfanumeriche. Si pensi alla differenza fra l’aggettivo «implausibile» e «non plausibile», che Kahn ha enunciato nel suo ultimo libro (Kahn, 1984, 17), ovvero al più noto paradosso di «pensare l’impensabile», che lo rese famoso nel 1962. Questa «modernità» di Herman Kahn, ad oltre vent’anni dalla pubblicazione delle sue opere strategiche fondamentali, aveva però bisogno di qualche verifica. Né Schelling, che è tornato da tempo ai suoi studi di economia e di microcomportamenti economici (Schel-

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ling, 1980), né Kaufmann, che si limita ad analizzare molto empirica­ mente la dinamica delle spese per la difesa dell’Amministrazione statunitense (Kaufmann, 1984), senza più riflettere sui grandi principi, hanno avuto il coraggio di cimentarsi con il presente strategico. Non hanno così offerto il destro alle critiche, ovvero ad un’analisi comparata della evoluzione del proprio pensiero in relazione alla dinamica del sistema intemazionale. Non così Kahn, morto prematuramente nell’estate del 1983, che ha lasciato dietro di sé uno scritto pubblicato postumo a cura della sua vedova, Carol. Si tratta infatti dell’ambizioso tentativo di riprendere tutti i temi teorici sviluppati negli anni ’60, aggiornandoli all’oggi per riproporsi alcuni interrogativi e rispondere a certe domande che erano rimase in sospeso fin da allora. Egli rivisita quindi, a 22 anni dall’uscita in libreria del volume che lo rese famoso, gli scenari della guerra nucleare possibile con un libro dallo stesso titolo (Thinking the Unthinkable), integrato però da una coda «in the 1980s», che si sforza di avanzare sullo stesso percorso degli anni ’60, con l’aspirazione ad andare oltre e battere perfino i propri records infilandosi nel futuro (Kahn, 1984). Non ci sembra tuttavia che il volume abbia raggiunto questi ambiziosi traguardi. Indubbiamente l’argomento, quello della «combattibilità» della guerra nucleare, è di sconcertante attualità. Una parte considerevole del pensiero strategico contemporaneo disserta solo su questo punto, sia a livello teorico sia a livello operativo e di pianificazione. Basterà seguire le pubblicazioni specializzate più note, come International Security, Survival, The Journal of Conflict Resolution, The Washing­ ton Quarterly, International Studies Quarterly, Foreign Affairs, Foreign Policy, Orbis, World Politics, Strategic Review, ecc. per accertarsene. Leggendo il nuovo libro di Kahn, però, non è facile trovarvi gli echi di quel dibattito, né il suo spessore culturale, né il recupero cui esso sta dando luogo, di discipline diverse e interagenti rispetto alla sola analisi sistematica, ovvero alla modellistica Semplificata di cui Kahn è stato un maestro insuperato. Gli analisti odierni, infatti, dimostrano molta più attenzione alla storia, ai classici del pensiero strategico, da Clausewitz a Jomini a Delbrück (Gray, 1982), più occhio alle variabili interne del sistema politico, ai meccanismi di percezione e «mispercezione» (Jervis, 1977), alla gestione delle «crisi» in termini

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normativi e previsionali (Snyder-Diesing, 1976; Lebow, 1981), all’identificazione dell’avversario nella sua realtà socio-culturale (Nye, 1984; Bialer, 1980), di quanto il libro postumo di Kahn non sia in grado di fare. Eppure, nonostante tutto, la componente profetica, che nel fondatore dell’Hudson Institute è sempre stata un elemento essenziale della sua polivalente tematica di ricerca, al punto tale che i suoi libri principali, dopo il 1965, furono tutti (o quasi) dedicati alla «futurologia» (Kahn, 1967; 1972; 1976; 1979), s’intrawede ancora fra le righe dell’ultimo lavoro. I cinque scenari «non implausibili» (Kahn, 1984, 129) di apertura delle ostilità nucleari che egli descrive, addossando l’onere della prova - come ingenuamente ammette - al critico, hanno ancora un certo potere di suggestione in quanto modelli di conflitto possibile. Essi vanno da un «attacco a sorpresa» (out of the blue), all’opzione di una «Early Eruption to Nuclear War from an Intense Crisis». In entrambi i casi esiste però una recente letteratura molto più solida, sia scientificamente che nell’esame dei casi studio, cui Kahn non fa mai riferimento. Si vedano ad esempio la collettanea di Klaus Knorr e Patrick Morgan, nonché il volume di Richard K. Betts, per il primo scenario, ovvero i già citati libri di Jervis, Lebow e Snyder-Diesing, ma anche quelli di Janis sul groupthink nelle fasi di crisi, per il secondo (Knorr, Morgan, 1984; Betts, 1982; Janis, 1972; Brecher-Wilkenfeld, 1982). Gli altri tre scenari propongono invece delle opzioni classiche, come il first strike (forma aggravata di first use nucleare) scatenato dagli Stati Uniti per difendere l’Europa Occidentale contro un attacco sovietico convenzionale (Dottrina Nato), oppure l'escalation nucleare che fa seguito ad una «crisi protratta» e, da ultimo, una escalation nucleare derivante da una «guerra di mobilitazione», come accadde nell’estate del 1914. In effetti, esaminati in dettaglio uno per uno, gli scenari proposti da Kahn rivelano una dinamica logica che non è molto convincente. Le assunzioni preanalitiche da cui muove l’ipotesi, il «punto di vista» insemina, sono troppo atipiche e in certa misura culturalmente datate. Esse risalgono, infatti, alle dottrine della guerra fredda che attribuiva­ no all’Unione Sovietica una carica, oggettivamente e soggettivamente, aggressiva e espansiva, dettata non tanto da ambizioni «imperiali» quanto da moventi essenzialmente ideologici. Il che accreditava all’Urss una strategia molto diversa da quella, più concreta e

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pragmatica, che solo una politica di potenza tradizionale può permet­ tersi. Un altro errore d’impostazione, che traspare dalla descrizione degli scenari di Kahn, è quello di continuare a credere che l’Urss, in quanto nemico potenziale, si debba necessariamente comportare in modo speculare rispetto agli Stati Uniti, secondo una logica di «duello», che è primitiva e ormai largamente superata dalla sovietologia contempo­ ranea e dagli studi strategici più recenti, anche di scuola conservatrice (Bialer, 1980 e Luttwak, 1983). Perfino il documento riportato in appendice al volume (e forse non ancora rifinito dall’autore al momento della morte) che prospetta una vera e propria checklist, suddivisa in 5 diversi schemi, da fornire ai militari, agli esperti e agli studiosi quasi fosse un manuale di controllo delle possibili occorrenze in tema di «guerra nucleare centrale», cioè di scambio strategico globale, rivela il limite ormai invalicabile dell’analisi e dello strumen­ tario culturale dell’autore. Si arriva così al paradosso logico di rendersi conto che mentre Kahn, venti anni fa, aveva grosso modo previsto tutto, ora che il tempo gli ha dato ragione non tiene più il passo perché il linguaggio è superato, gli scenari sono troppo poveri e si basano, in genere, su assunti indimostrati e indimostrabili. Anche le provocazioni, che un tempo scandalizzavano, sembrano ormai macchinette senza carica, mentre le funamboliche metafore degli anni ’60, vengono stancamente ripetute come battute di un vecchio copione. Il libro dunque, perfino per ragioni di stile, oltre che per difetti analitici, appare davvero come la malinconica conclusione di una carriera intellettuale che era stata scintillante. In effetti, già nel 1960, quando ancora andava faticosa­ mente elaborando, attraverso l’impiego della teoria dei giochi, la sostanza strutturale della dottrina della dissuasione e dell’escalation (Bonanate, 1972, 268-275) e Schelling non aveva ancora scritto Arms and Influence, Kahn così anticipava i tempi: «Mi rendo naturalmente conto - scriveva - che l’intera teoria dell’equilibrio del terrore risiede nel fatto di rendere la guerra sempre più distruttiva. Tuttavia è arduo per me credere che questo sia uno stato permanente. O elimineremo l’equilibrio del terrore eliminandone la necessità, oppure, se questa necessità non potrà essere eliminata, troveremo delle "forme più ragionevoli d’impiego della violenza"» (Kahn, 1960, 240). Questa frase, così illuminante, ci riconduce all’essenziale, cioè al fatto che il

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dibattito strategico postbellico negli Stati Uniti, del quale Kahn ha fatto parte in veste di protagonista, resta paralizzato, oggi come ieri, da una contraddizione profonda delle strutture di coerenza dell’intera impalcatura teorica, quella che oppone i sostenitori dell’«impensabilità» della guerra nucleare ai sostenitori della sua «guerreggiabilità». Kahn era, ed è stato fino alla fine, dalla parte dei secondi. Tuttavia, qualcosa lo legava, non solo per questioni di ordine generazionale, agli altri scienzati del suo tempo che pure, come Schelling e Kaufmann, Boulding (Boulding, 1962) e Brodie, ritenevano «impen­ sabile» combattere una guerra nucleare e puntavano tutto sulla prevenzione. Ciò che li univa era un principio comune a tutti, la coscienza cioè che per vivere o «sopravvivere» (come recita il fatidico titolo della rivista dell’«International Institute for Strategie Studies» di Londra, Survival) in un sistema intemazionale bipolare è assolutamente indispensabile destrutturare il sedimentato concetto della «ir­ razionalità» della guèrra, del suo carattere di «malattia» sociale, ovvero deporre l’illusoria aspirazione di espungerla dal ruolo di strumento principe di soluzione delle controversie intemazionali. Il sistema bipolare (sistema-duello per definizione) è con tutta evidenza, e per ragioni funzional-strutturali, un sistema di «guerra possibile», più di quanto non lo sia qualsiasi altro sistema intemazionale (dell’equilibrio, universale, imperiale, ecc.). Di qui la necessità di contemplare la possibilità della guerra all’interno delle mosse possibili che gli attori hanno la facoltà di compiere sulla scacchiera delle relazioni intemazionali (Paul Huth, Bruce Russett, 1984,496-526). Per Schelling, come per Kaufmann, Brodie, Boulding e Kahn, la guerra non è quindi «impensabile», ma solo «evitabile». Per Kahn è anche «guerreggiabile» perché, se la dissuasione e il suo sistema di pericolosi contrappesi non dovesse più funzionare, diventerebbe quasi certamente inevitabile. Tanto vale allora sapere cosa succederà dopo che la prevenzione sarà fallita. Nell’un caso (dissuasione preventiva) come nell’altro (intra-war deterrence), la guerra ha perduto il suo «mistero». Perfino l’ignota e minacciosa guerra nucleare è diventata un oggetto maneggevole e studiabile mediante modelli e scenari. Essa può trasformarsi ancora una volta in una «scatola razionale» la cui esplosione è possibile prevenire, oppure controllare e limitare nei suoi effetti, con l’ausilio di un corpo di concetti e di teorie che facciano da battistrada e vincolo al tempo stesso, nei confonti della dottrina, della

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politica, delle tecnologie, degli arsenali. Il problema era quello di costruire una fitta rete di regole del gioco, di procedure tali da rendere chiari e prevedibili, sia il linguaggio che i comportamenti relativi, cercando di impedire il conflitto, o almeno di ricondurlo, se proprio inevitabile, al livello più basso di pericolosità. Questa «filosofia della guerra», che contrastava profondamente con la tradizione culturale ed etica della filosofia politica americana accomunava in una consapevole partita di razionalizzazione della politica e della strategia nell’era atomica, uomini come Kahn e uomini come Schelling. Essa aveva però prodotto, al suo interno, due diverse linee di tendenze che, in termini di teoria strategica, neppure la «seconda» generazione di analisti riuscì mai a ricomporre logica­ mente. Da un lato prevaleva la linea che si fondava sull’essenzialità della «dissuasione» globale (MAD), dall’altro quella che riteneva possibile graduare i livelli di tensione e/o di conflitto attraverso un processo parallelo di escalation politico-militare. L’assunzione pragmatica di entrambe queste linee di pensiero da parte dell’Amministrazione statunitense, durante la gestione McNamara (1961-1967), le quali coesistevano nella pianificazione militare, non fece che consolidare quella contraddizione a livello teorico, rendendola quasi insormontabile a livello operativo. Per garantirsi una copertura dissuasiva efficace mediante il principio del MAD, non avrebbe dovuto infatti esistere la pericolosa scappatoia della dottrina della «risposta flessibile». La funzionalità del MAD è fondata sull’idea che l’altra parte sarà scoraggiata dall’attaccare per prima per il fatto che la risposta dell’assalito sarà così distruttiva da risultare insostenibile, quasi un reciproco suicidio. La minaccia di suicidio comune però deve essere credibile, altrimenti non otterrà l’effetto voluto. Ma la capacità di dissuadere la «guerra nucleare centrale» non è più credibile se è possibile individuare (e combattere contro) un’ampia serie di minacce e di conflitti di minore entità, ordinati secondo una scala di 44 gradini (come teorizzò Kahn nel 1965), sulla cima della quale e solo a quel livello, si colloca la «Spasm War» che è l’oggetto unico della teoria MAD. Tutti gli altri gradini, dal numero 1 al numero 43, sono invece «giocabili», nella forma della «guerra limitata» (Clark, 1982), nono­ stante che si tratti di conflitti via via più gravi. D’altro canto, sosteneva Kahn con indubbia logica, per aversi una buona deterrenza preventiva, e se del caso anche «intra-war», attraverso un «ragionev­

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ole impiego della forza» con V escalation, la minaccia dell’olocausto nucleare, che è alla base della credibilità del MAD, non avrebbe mai dovuto essere brandita, altrimenti le regole del gioco della guerra limitata, fosse essa convenzionale o nucleare, si sarebbero dissolte e l’irrazionalità del conflitto senza leggi avrebbe potuto prendere il sopravvento. Dal dilemma fra le forme della prevenzione e della gradualità non si è ancora usciti nonostante il trascorrere del tempo, l’evoluzione delle tecnologie e delle dottrine, e il mutare del quadro mondiale. Neppure Kahn, peraltro, nel suo libro postumo, riesce a rispondere a questo interrogativo. I suoi interlocutori immaginari, vent’anni dopo, sono gli stessi che lo attaccarono allora, affibbiandogli il soprannome di «Dr Strangelove», cioè i pacifisti, i gruppi disarmati e ideologici di varia origine, i movimenti religiosi o radicali, contro la cui semplifica­ ta filosofia della pace ebbe sempre buon gioco Kahn, con la sua rutilante grammatica della guerra. La sola cosa che colpisca ancora in questo volume, come nei suoi precedenti, è l’inconsapevole assun­ zione di una logica interna al sistema intemazionale che è quella tradizionale della Realpolitik ottocentesca. In molte occasioni, di fronte a problemi di scenario, nonostante l’apparato avveniristico della Rand Corporation prima e d&WHudson Institute poi, le opzioni che egli suggerisce, sono straordinariamente simili a quelle che avevano travagliato i sonni degli strateghi europei prima della guerra mondiale 1914-18. La distribuzione della «potenza» mondiale nell’anno 2000, che vedrebbe la rinascita di un sistema di Balance of Power multipolare a sette (nell’ordine: Stati Uniti, Giappone, Unione Sovietica, Cina Germania, Francia, Brasile), con un corteggio di medie potenze i distanza intermedia (India, Gran Bretagna, Messico, Italia, Corea de Sud) (Kahn, 1984, 201), non si discosta molto da quell’immagine dell’Europa pre-1914 che faceva da modello alle analisi dei diplomati­ ci e dei politici dell’epoca. I capitoli del libro dedicati a problemi come la mobilitazione, la difesa civile e il controllo degli armamenti, confermano questa impressione di rudimentalità istituzionale del lavoro di Kahn, in quanto trattano con disinvoltura contemporanea, ma con una sostanziale identità di orientamento, argomenti periodica­ mente studiati dagli analisti intemazionali, almeno dalla fine del secolo scorso. Per alcuni concetti specifici, come è quello della

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«mobilitazione», la ricchezza della pubblicistica recente è tale da lasciare indietro gli schemi elementari di Kahn. Si veda ad esempio il numero di International Security dedicato per intero alla rivisitazione critica del ruolo dell’offensiva, o meglio dell’«offensivismo», nello scoppio del conflitto nel 1914 (cfr. in particolare Kennedy, 1984; nonché Howard, 1984; Van Everal, 1984; Snyder, 1984; Lebow, 1984, tutti in International Security, XI, 1, 1984, pp. 7-186). L’uso della mobilitazione come deterrente, il problema delle forme che essa può assumere, il linguaggio che essa vuole o deve esprimere, sono tutte manifestazioni della consapevole continuità politica che esiste fra la pace e la guerra, secondo la «formula» di Clausewitz. Ma per Kahn sono anche delle categorie analitiche che possono essere applicate senza ritocchi alle possibilità concrete del sistema politico intemazionale contemporaneo. Tirando le somme, quindi, anche il volume postumo di Kahn non fa che confermare la tesi secondo la quale il pomo della discordia fra «falchi» e «colombe» strategiche, negli Stati Uniti come altrove, continua a risiedere nel fatto che, mentre gli uni credono alla politicità intrinseca della guerra e quindi al suo possibile uso, sia come minaccia sia come azione, gli altri invece cercano di esorcizzarla, depoliticiz­ zarla, sostituendo alla sua aggressiva decisività un delicato laboratorio tecnico e normativo, talvolta istituzionale, il cui cuore concettuale sta nella barriera insormontabile che dovrebbe essere interposta fra lo «stato di pace» e lo «stato di guerra», e quindi nella costruzione di un ordine mondiale regolato su questo schema di precisione. Sono queste le due anime inconciliabili del sistema intemazionale contemporaneo, che assumono volta a volta le sembianze di uomini, scuole di dottrina e cavalieri in campo, con vessilli e trombe, gli uni contro gli altri armati. Dopo oltre un decennio di stasi, durante la fragile tregua della distensione, a partire da qualche anno l’arena si è di nuovo affollata. La fine del processo di riduzione calcolata delle tensioni fra Est e Ovest, che ha accompagnato e seguito il periodo dei negoziati per il controllo degli armamenti strategici (con tutto il ricamo degli accordi parziali firmati dalle due Superpotenze), ha riaperto anche le ostilità teoriche fra le due fazioni. Purtroppo il volume postumo di Kahn, a fronte dei lavori di Colin S. Gray e di Keith Payne (Gray, 1984; Payne, 1982), di David N. Schwartz (Schwartz, 1983), di Brace M. Russet (Russet, 1984, pp.

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36-54), di Charles L. Glaser (Glaser, 1984, pp. 92-123), che af­ frontano, seriamente e nel merito, i problemi sollevati dall’attuale fase di «transizione alla difesa», durante la quale il triangolo dell’inter­ azione «politica/tecnologia/dottrina» è in continuo moto rotatorio, non riesce a tener loro testa e appare come un prodotto residuale. Gli scenari che abbiamo ricordato, su cui Kahn insisteva molto, e che come tali sono riportati nel volume, erano probabilmente solo delle «scalette» di lavoro per conferenze o seminari ai quali l’autore aveva partecipato negli ultimi mesi della sua vita. Alcuni di essi, come ricorda anche il Gen. Brent Scowcroft, uno dei massimi esperti militari dell’Amministrazione Reagan che ha introdotto il volume, dovevano essere stati la traccia dei briefings che egli aveva recente­ mente organizzato a Washington in seno al cosiddetto Breakfast Group, un organo informale di consulenza dell’Amministrazione. L’attuale presidenza degli Stati Uniti aveva indubbiamente offerto a Kahn un’eccezionale opportunità per fare valere le sue idee, come quelle sulla mobilitazione e sulla difesa civile. Sembrava finalmente che il governo di Washington, sia in tema di guerra convenzionale, con VAirland Battle 2000, nuova dottrina d’impiego dell’esercito, ovvero con la tattica del deep strike, adottata nelle sue grandi linee in sede Nato, sia in tema di guerra nucleare, con la transizione alla difesa di cui le Star Wars rappresentano l’ultimo ritrovato, avesse aperto la strada alla realizzazione pratica degli scenari di controllo dei conflitti che Kahn aveva elaborato. La morte che l’ha colpito, a meno di sessantanni, ha forse impedito che un’esperienza trentennale (aveva lavorato con Teller alla prima bomba termonucleare) e la singolare genialità di un uomo come Kahn, messe a servizio della politica militare del governo, potessero moltiplicare i confini e infittire le maglie di quella rete di protezione minacciosa che tutti ci avvolge, ma che finora ha vietato alla terza guerra mondiale di scoppiare.

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9. MODELLI DI SICUREZZA

I modelli di sicurezza

L’impiego di modelli consente di ordinare concettualmente una teoria, oppure una pre-teoria, nel senso che per le sue caratteristiche di rappresentazione schematica (e talvolta anche grossolana) della realtà facilita l’identificazione di tutti gli elementi necessari alla sua im­ postazione. D’altra parte opera un raccordo fra classi o idealtipi la cui affinità affiora indirettamente, per metodo comparativo, proprio nel quadro della loro diversità. Infine, attraverso la loro potenza esplicati­ va, per le proprietà di raffigurare una teoria, nonché per la loro semplicità, riduzione di scala, e omissione dei dettagli, i modelli possono far da crocicchio, ovvero da intersezione, anche in seno all’analisi delle Relazioni Intemazionali (1). La letteratura sui modelli è molto vasta. Da quelli di simulazione a quelli globali, a quelli settoriali (2), la ricerca in materia si è sviluppata secondo linee diverse il cui solo collegamento è dato dal fatto che tutti adottano un approccio basato sulla coerenza sistemica e sulla schematizzazione della realtà. Ne è derivato un ricco arcipelago di isole e di attracchi teorici, talvolta molto distanti l’uno dall’altro. L’organizzazione dei numerosi modelli in gruppi secondo criteri di attribuzione per materia, ovvero per livello di analisi (3), è così diventato un compito ordinatorio e scientifico di notevole impegno teorico. In altra sede abbiamo cercato di descrivere e di ordinare, sia pure in modo sommario, in tre serie le principali classi di modelli utilizzati nello studio delle Relazioni Intemazionali (4), indipendentemente dalla loro coerenza formale o dal grado di raffinatezza concettuale,

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tenendo conto solo del carattere immediatamente sistemico del loro impianto teorico, dell’oggetto della loro analisi, nonché della loro relativa autonomia analitica. Qui ci si pone invece il problema di raffigurare una serie di modelli il cui cemento logico è dato dalla loro comune appartenenza all’am­ bito specifico dell’analisi che ha per oggetto le dottrine strategiche e quelle della «sicurezza». I modelli «strategici» o di «sicurezza» costituiscono peraltro un’area di ricerca molto significativa e in fase d’espansione. H fatto che abbia per campo d’indagine un ampio orizzonte tematico, la cui appartenenza logica e concettuale alla teoria delle relazioni inter­ nazionali è indiscutibile, non esclude tuttavia l’utilizzo di metodi e procedure tratte da altre scienze sociali. Anzitutto perché il problema della «sicurezza» scavalca diagonalmente molte frontiere, in quanto si definisce in relazione ad una serie di attori operanti a diversi livelli d’analisi (intemo/estemo) e attraversa quindi molti territori di­ sciplinari. Inoltre perché è ormai interpretabile come una chiave di lettura aggiornata della politica interna e intemazionale degli stati-nazione molto più illuminante, dal punto di vista euristico, di quanto non siano altri paradigmi interpretativi più tradizionali (pace o guerra, forza o diplomazia) (5). In questo saggio esamineremo quindi il problema della sicurezza sulla base di un’analisi «macro», partendo cioè dal livello dei modelli «globali» o di sistema intemazionale, per giungere poi a quelli nazionali dei singoli attori statuali. In un ulteriore lavoro verranno invece esaminati i modelli di sicurezza di tipo «micro», partendo da quelli a livello «sub-nazionale» fino a quelli «individuali», la cui valenza metodologica sconfina nell’etica pubblica. Sarà quindi oppor­ tuno cominciare dal contesto ambientale al cui interno abbiamo ritagliato lo spazio analitico per quei «modelli» di studio delle relazioni intemazionali che si pongono il problema della «sicurezza» dal punto di vista del comportamento dei singoli attori, piuttosto che in termini di interpretazione «sistemica» (6). L’analisi dei modelli in generale, e quindi anche quella dei «modelli di sicurezza» o «strategici», può essere condotta seguendo due approcci di metodo sostanzialmente diversi (7). H primo si basa sulla ricognizione etimologica del termine «sicurez­

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za» nella tradizione della cultura politica dei «sistemi intemazionali» che hanno preceduto il sistema attuale, oltre che attraverso l’indivi­ duazione dei «livelli» analitici (da quelli «imperiali» o «universali» a quelli «nazionali») sulla base dei quali sono state storicamente impostate le architetture dei modelli stessi, fino alla specificità di quello bipolare in tutte le sue componenti e subcomponenti (8). Il secondo sviluppa invece il tema analizzando le diverse teorie della sicurezza, intesa come successione e/o comparazione di «paradigmi» enucleati dalla teoria delle relazioni intemazionali (9), a partire da quelle pre-bipolari, fino a quelle più specifiche proprie del sistema intemazionale bipolare (10). Invece di assumere il metodo comparativo del confronto fra paradigmi teorici, abbiamo addottalo in questo saggio il primo dei due criteri epistemologici sopra menzionati, cioè quello della giustappo­ sizione dei diversi livelli analitici. A questo scopo abbiamo quindi ritenuto opportuno partire dalle origini, verificando in che modo il termine/concetto di «sicurezza», quasi un traslato semantico volto verso l’esterno del classico concetto di «Ragion di Stato» (11), sia stato generato nell’ambito di uno specifico contesto storico e sistemi­ co intemazionale (il sistema dell’«Equilibrio di Potenza»), congegnato secondo una struttura poliarchica del potere, decentrata e semi-anar­ chica, fondata su un sistema interattivo di attori che all’epoca erano quasi esclusivamente gli stati-nazione.

Le definizioni di «sicurezza» e di «sicurezza nazionale»

Fra le molte definizioni di «sicurezza nazionale», da Walter Lippmann in poi, assumiamo qui la formula usata da Brennan (12). Essa si definisce come «la protezione della sopravvivenza nazionale in tutti e tre i suoi significati (fisica, politica, degli standards di vita), nonché l’appoggio ai fini della politica estera, le proporzioni dei due elementi restando variabili». Nessuna delle definizioni che conosci­ amo risponde meglio di questa ai nostri scopi (13). La classica definizione di Berkowitz e Bock «la capacità di una nazione di proteggere i suoi valori interni da minacce esterne» (14), infatti, non mette in evidenza l’interdipendenza esistente fra «esterno» e «interno» nel concetto di «sicurezza nazionale» e, neppure coglie la

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contraddizione fra l’obiettivo legittimo della «sopravvivenza» e quello opinabile dei «valori», o peggio dei «fini» della politica estera dei singoli attori. Più convincente, anche se non del tutto completa, è invece la definzione di Cohen e Tuttle (15) laddove enuncia che «la sicurezza può esser definita come una condizione protettiva che gli uomini di stato cercano di acquisire o preservare al fine di salvaguardare le diverse componenti delle loro politiche (polities) da interessi esterni o interni». Resta tuttavia nel vago per quanto riguarda la definizione delle politiche in gioco. Non è chiaro infatti se con il termine di «polities» gli autori intendano comprendere sia gli «atti» che i «valori». Né, d’altra parte, vengono esplicitate le «componenti» che formano le «polities». In relazione alla nozione di politica estera, il concetto di «sicurez­ za» potrebbe forse esser meglio precisato seguendo la formula di Lasswell e Kaplan (16) che così recita: «la sicurezza è un’aspettativa, una posizione, un potenziale di valore elevato: è la realistica aspettati­ va di conservare l’influenza». Secondo Hermann, infine, che ne completa il senso integrandolo (17), «la sicurezza può essere definita più formalmente come l’aspettativa di possedere e incrementare la capacità di condividere, liberamente e senza vincoli, risultati di valore (value outcomes) altamente considerati. La Sicurezza Nazionale diventa quindi sicurezza in relazione ai risultati di valore desiderati da coloro che rappresentano la base politica effettiva della nazione». Questa dizione, troppo complessa per essere una definizione, potrebbe avere un senso solo a patto che con il concetto di value outcomes s’intendesse parlare di national interest nel senso specificato da Morgenthau e poi da Neuchterlein (18). Ma torniamo alla definizione di Brennan. Secondo questa interpre­ tazione i due elementi centrali della formula «sicurezza nazionale», per essere determinati da concetti difficilmente omogenei, come «sopravvivenza» e «fini politici», dovrebbero essere governati, nell’ambito delle scelte politiche dei singoli attori nazionali (o regionali), anzitutto dal rapporto primario «forza/diplomazia» (19), ma anche da altri fattori convergenti di non minore importanza, come quello della «cultura» politica nazionale e dell’environment inter­ nazionale (20). In effetti, la giungla sematica che rende spesso arduo lo studio

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sistematico dei concetti specifici delle relazioni intemazionali, nel caso in questione è particolarmente fitta e intricata. La contraddizione fra nuclei concettuali relativamente definibili con indicatori empirici (come quello di «sopravvivenza» fisica, politica e degli standards di vita) e aree conoscitive molto volatili (com’è quella dei «fini» della politica o degli «interessi» delle politiche nazionali), sarebbe insor­ montabile se non si individuasse un criterio, sufficientemente oggetti­ vo e storicamente determinabile, tale da rendere compatibili due unità analitiche altrimenti incommensurabili (21).

La «sicurezza di alleanza»

Ma prima di affrontare l’esame del livello analitico della «sicurezza mondiale», è necessario rivisitare alcuni campi problematici e defini­ tori che a quel concetto introducono. I concetti affini di «indipendenza», «nazionalità», «sovranità», ecc. costituivano, nel XIX secolo, l’età del consolidamento del sistema degli stati-nazione, il presupposto indispensabile della «sicurezza», e ne erano al tempo stesso le condizioni elementari di validità (22). Questa interpretazione del concetto di «sicurezza», intesa come garanzia dell’indipendenza, della nazionalità e della sovranità nazionale (23), ebbe modo di campeggiare, dopo una serie di traversie storiche, soprattutto a partire dalla seconda fase del sistema dell’Equilibrio di Potenza, fino al 1871 (24). Fino a quel momento (dopo il 1815), la «sicurezza» di un attore nazionale era misurabile in termini di scontro fra la sicurezza complessiva degli attori maggiori e le esigenze nazionali degli attori minori, ovvero dei quasi-attori, dimezzati o in fase di unificazione (25). La conclusione dei conflitti continentali intra-europei e il consolida­ mento del «Concerto» delle Potenze, cui si era aggiunta nel decennio 1861-1871 una coppia di nuovi attori «essenziali» (26) come l’Italia e la Germania (27), emersi per estensione e irraggiamento dal corpo della Sardegna e della Prussia, a spese dell’egemonia imperiale austriaca e francese, ebbero il merito di dislocare il problema della «sicurezza» dal centro del sistema (l’Europa) alla immensa periferia del mondo coloniale (28).

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La sicurezza delle frontiere e la garanzia dell’indipendenza nazionale erano ormai fattori acquisiti per la gran parte degli attori europei, anche se permanevano delle questioni territoriali aperte, soprattutto nella parte orientale del Vecchio Continente. Il principio di nazionalità aveva comunque prevalso, talché non era più facilmente immaginabile, come nel passato, la cancellazione di uno stato europeo della mappa. Durante questa fase, il significato di «sicurezza nazionale» per gli attori maggiori diventò una formula molto indiretta, misurata sul potere derivato che l’espansione economico/finanziaria e quella militar/coloniale, attribuivano (o, viceversa, toglievano) alla «sicurez­ za imperiale» delle Grandi Potenze europee, nonché al corpo di norme e procedure implicite che regolavano il funzionamento del sistema dell’«Equilibrio di potenza» fra gli attori essenziali del Concerto (29). Con una svolta concettuale incongrua, il principio di nazionalità che aveva dominato il quadro della politica europea fra il 1815 e il 1871, si mutò rapidamente in una corsa alla colonizzazione che smentiva, nei territori d’oltremare, proprio quello che aveva affermato in Europa: il principio della sovranità e dell’indipendenza nazionale. Tale meccanismo ebbe modo di funzionare con una certa «norma­ lità» processuale fintanto che i rapporti fra i partners del Concerto furono guidati dal codice di comportamento della «Santa Alleanza» (1815-1848), ovvero si mantennero flessibili attraverso l’aggregazione di sottosistemi di alleanza di carattere provvisorio, destinati volta a volta a risolvere specifici problemi di congiuntura (single-issues alliances) sul Vecchio Continente, per fini limitati e mediante l’adozione di mezzi altrettanto limitati (30). La «sicurezza» delle alleanze provvisorie (o di guerra) con scopi limitati non ebbe tuttavia una vita troppo lunga. Verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso, infatti, l’architettura semi-istituzionale del «sistema bismarckiano» (31), dall’alleanza permanente (o di pace) austro-tedesca (1879-1981), al Dreikaiserbund (1881), alla Triplice Alleanza, (1882-1914), al Trattato di Contrassicurazione russo-tedesco (1887), indubbiamente consolidò l’assetto intemazionale, ma al tempo stesso ne ridusse il grado di flessibilità. Il modello di «sicurezza», basato sull’elasticità e la provvisorietà delle alleanze (di guerra), che aveva governato l’Europa per i primi due terzi del secolo XIX, venne definitivamente «imbustato» in una doppia camicia di forza isti­

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tuzionale con il «riallineamento» delle Potenze avvenuto fra il 1890 e il 1907, attraverso l’alleanza franco-russa del 1891-1894, l’Entente franco-inglese del 1904 e l’intesa anglo-russa del 1907. Né furono sufficienti a contraddire questa tendenza alla concen­ trazione degli schieramenti in due fronti gli Accordi mediterranei italo-inglesi e italo-francesi, del 1887, 1900, 1902, 1912, ovvero gli altri accordi parziali o bilaterali stipulati fra potenze appartenenti a campi opposti (32). Lo schieramento che ne derivò, ancor prima dello scoppio del conflitto nel 1914, aveva già una struttura che potremmo oggi definire come «pre-bipolare». Nell’insieme, comunque, la complessità istituzionale delle alleanze permanenti di pace dell’età del «riallineamento» delle Grandi Potenze europee fra il 1879 e il 1907, gettò le premesse di una illusoria potenzialità espansiva del sistema di «sicurezza nazionale» e «imperiale» di attori essenziali (e non essenziali) meno forti di altri, che per il solo fatto di partecipare, in quanto junior partners, ad un’alleanza con un alleato più potente, ritenevano di essere autorizzati a muoversi politicamente e strategicamente in modo aggressivo o arrogante (33).

La «sicurezza collettiva» Solo con il «sistema di guerra» 1914-1918, e la conseguente semi-militarizzazione della politica intemazionale, nonché con la creazione di organizzazioni intemazionali di tipo «universale» (So­ cietà delle Nazioni), o «regionale» (Organizzazione degli Stati Ameri­ cani) o «settoriale» (Unione Postale Universale), il problema della «sicurezza naizonale», dopo il fallimento dei sistemi di alleanza permanenti dell’età del «riallineamento» e del confronto, tornò nuovamente alla ribalta. Questa volta però la formula dell’alleanza era intesa in modo molto più ristretto di quanto non la interpretassero i partners delle due «Triplici» fra il 1904-07 e il 1914. Il concetto di «sicurezza» descritto nel Trattato di Versailles, sostenuto soprattutto dalla Francia e dalla Gran Bretagna, e poi quello più astratto sottostante alla normativa del «Covenant» della Società delle Nazioni, si limitava infatti a prefigu-

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rare un quadro di riferimento sostanzialmente ridotto, fondato sulla garanzia di «difesa» contro le eventuali aggressioni o minacce di aggressione provenienti da paesi terzi. Si trattava, nel caso della Società delle Nazioni, di una concezione delle relazioni intemazionali ufficialmente diretta a salvaguardare anzitutto i diritti e gli interessi di «sopravvivenza» e «vitali» (34) di questi attori minori che nella prima guerra mondiale erano stati penalizzati più degli altri, come era accaduto al Belgio, alla Romania e alla Serbia. Nel caso, invece, del Trattato di Versailles, era del tutto evidente il malcelato obiettivo politico delle Potenze vittoriose, soprattutto della Francia e della Gran Bretagna, di escogitare una risposta istituzionale mediante la quale ingabbiare nel futuro la «guerra totale» (35), mettendo così un freno, anche giuridico, aH’asimmetria ormai evi­ dente che si era creata in Europa fra la potenza della Germania e quella delle altre Grandi Potenze (36). L’operazione, tentata ma non riuscita fra le due guerre mondiali, fu quindi quella di operare la «multilateralizzazione», ovvero la «globalizzazione» del problema della «sicurezza nazionale» attraver­ so: (a) l’istituzione di meccanismi di garanzia, contrassicurati dalla prevalenza cooperativa delle Grandi Potenze, contro ogni turbativa o minaccia alla pace; (b) la riduzione, implicita anche se non codificata, dei livelli medi di sovranità delle potenze «minori»; (c) il cui suggello avrebbe dovuto essere dato da un sistema, complesso quanto ineffi­ cace, di sanzioni collettive. Si tendeva, in linea di massima a generalizzare, con la Società delle Nazioni, oltre che con i Trattati di Pace del 1919 e il Patto di Locamo del 1925, i codici di comportamento «intra-alleanza» prevalenti nei sistemi di alleanza permanente (di pace) degli anni fino al 1914, organizzando quindi le relazioni fra gli attori secondo parametri di eguaglianza formale, nell’intento di eliminare cioè i rischi del «gioco degli alleati» e del «gioco degli avversari» che l’asimmetria fra i partners aveva creato nel passato, immettendo però al loro posto una pericolosa, quanto paralizzante, filosofia assembleare (37).

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La «sicurezza universale» Nel secondo esperimento postbellico di «sicurezza collettiva» istituzionale universale (le Nazioni Unite), nonostante il tentativo di aggiustare la formula introducendo, in luogo del solo meccanismo dell’eguaglianza formale fra gli attori (F Assemblea Generale), anche un sistema di controllo e di gestione esecutiva di tipo asimmetrico (Consiglio di Sicurezza e i 5 membri permanenti) (38), i risultati furono del pari deludenti. Non tanto perché le relazioni intra-alleanza venivano deformate dal «gioco degli alleati», cioè dalla capacità d’influenza dei partners deboli su quelli forti (e non solo - come sarebbe stato naturale - di quelli forti su quello deboli) (39), quanto perché i criteri normativi stabiliti all’interno del sistema di «sicurezza collettiva» delle Nazioni Unite non rispondevano alla funzione primaria per la quale esso era stato istituito, quella cioè di garantire costantemente la «sicurezza» degli attori che vi aderivano. Di qui la ricostituzione di sottosistemi «riallineati» e di confronto, basati essenzialmente sul rapporto fra potenza «egemone» (di blocco) e alleati/clienti dipendenti da questa (come nelle partnerships Nato/Patto), salvaguardati nel loro bisogno di «sicurezza/difesa» dai rispettivi leader di blocco (40). Questa forma di alleanze egemoniche contrapposte, specifica del dopoguerra bipolare, si differenzia da quelle permanenti dell’età del «riallineamento» delle Grandi Potenze europee per più ragioni. Anzitutto perché la relazione fra alleato maggiore (leader di blocco) e alleati medi o minori si era costruita sulla scontata premessa di una diseguaglianza anche formale degli attori. In secondo luogo perché il differenziale di potenza fra il leader di blocco e gli alleati è sempre stato così alto da impedire (o rendere molto improbabile, fino all’esplosione di fenomeni di «diffusione di potenza» incontrollabili) il condizionamento dell’alleato maggiore da parte dei partners meno potenti. In terzo luogo perché l’impronta, o meglio il sottinteso nucleare di ogni discorso sulla «sicurezza», assicura nelle mani dei due leader di blocco una «marcia in più» nel processo interattivo all’interno dell’alleanza. Infine, perché le caratteristiche specifiche del sistema politico

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intemazionale bipolare fanno sì che l’interfaccia Stati Uniti/Unione Sovietica costituisca sempre un a priori rispetto a ogni altra considera­ zione, anche nella formazione delle decisioni intra-blocco. Il che in ultima analisi si trasforma nell’unico foro di delibazione finale di ogni controversia intemazionale (41). L’architettura della «sicurezza collettiva» lasciava inoltre aperto il problema della identificazione, in termini definiti e riconoscibili, dell’oggetto della «sicurezza» per potersene all’occorrenza servire come embrione di «ordine» intemazionale da sostituire alla semi-anar­ chia dei sistemi precedenti. In altri termini, lo statuto dell’Onu lasciava del tutto impregiudicata la questione dell’individuazione della figura dell’«aggressore», disponendo molto poco in materia di sanzioni automatiche o di analoghe misure cautelative. Nei fatti, invece, il principio, politico e non giuridico, della «sicurezza collettiva», cardine metodologico dell’intera macchina normativoAstituzionale, è stato attivato sempre e solo in termini politici, cioè «contro» qualcuno, ovvero a favore di qualcun altro, sulla base delle maggioranze in Assemblea, ovvero sulla scorta delle dichiarazioni di «veto» dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Mai quindi secondo parametri giuridici definiti, e neppure con l’obiettivo di operare secondo principi creativi, destinati a favorire la trasformazione costituente dell’ordine sistemico esistente (42). Non è mai esistito dunque un «oggetto», ovvero un «contenuto» specifico, con cui riempire il contenitore vuoto della «sicurezza collettiva», che fosse redimibile in termini di «interessi» invece che di «ideali» (43). Né poteva essere altrimenti, poiché non c’è «sicurezza» senza «sovranità» diretta o delegata (come nei sistemi di alleanza permanente), salvo che in strutture sistemiche di tipo «imperiale» o «federale». Né le istituzioni collettive di questa natura, come la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite, hanno mai avuto abbastanza «sovranità» da poter garantire sufficiente «sicurezza» (44). Questa incongruenza logica è alla radice del doppio fallimento delle organizzazioni di tipo «universale» e «regiònale» (minore invece è stato il fiasco delle organizzazioni di «settore»), proprio sul terreno della «sicurezza», che pure avrebbe dovuto essere l’ambito primario della loro attività in quanto strutture istituzionali (e quasi-attori) innovative. Sintetizzando, si potrebbe quindi concludere che il sistema di

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«sicurezza collettiva» della Lega delle Nazioni o dell’organizzazione delle Nazioni Unite, non è stato altro che una forma aggiornata (e militarizzata, almeno nelle intenzioni, sotto le specie della gendarme­ ria intemazionajp con obiettivi di «peace-keeping») delle alleanze tradizionali di tipo multilaterale, cui faceva però difetto quella funzionalità operativa e quel potere di deterrenza che queste ultime hanno esercitato nella gran parte delle situazioni. Ciò deriva essenzialmente da due ordini di fattori. In primo luogo dal fatto che gli enti di tipo «universale» tendono ad annullare, in termini funzional-organicisti, resistenza della conflittualità d’interessi fra attori e sistemi politico-sociali interni, trasferendo all’intemo dell’organizzazione, sia pure con un linguaggio specializzato che formalmente salvaguarda le norme statutarie, la contrapposizione che aH’estemo si traduce spesso in tensioni e guerre. In secondo luogo, perché gli enti «universali» non hanno un vero obiettivo (o ragione sociale) comune tranne quello, molto generico, di difendere la pace. Nessuna alleanza tradizionale invece si sarebbe mai costituita qualora non avesse avuto degli scopi ben precisi e degli interessi concreti da difendere. L’interesse per la pace, per la sicurezza e per la difesa contro le aggressioni è indubbiamente un obiettivo prioritario. Manca tuttavia nelle Nazioni Unite, non tanto la possibilità di esercitare le sanzioni e di far applicare le risoluzioni, quanto la capacità di individuare (e poi di escludere) l’aggressore dal consesso, in modo da poter organizzare in concreto l’aiuto degli altri paesi membri all’aggredito. E’ come se in sostanza si organizzasse un processo al quale partecipano, in veste di giudici, sia le vittime che gli imputati. Tale differenza radicale rispetto alla logica classica delle alleanze tradizionali ha conferito a queste strutture (SdN e Onu) una dinamica evolutiva confinata all’intemo di due opzioni principali, entrambe implicite nel funzionamento stesso del meccanismo istituzionale: (a) l’impotenza e/o la paralisi operativa delle strutture e degli organi in caso di crisi intemazionale; (b) il fatale «riallineamento» degli attori principali su campi avversi, ciascuno dei quali tende poi ad esercitare il controllo sull’organizzazione formale della «sicurezza collettiva», per propri fini d’interesse «nazionale» o di sottosistema di «blocco» (45). La vita della Lega fra il 1919 e il 1935, ma in particolare quella

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delle Nazioni Unite fra il 1947 e il 1965, testimoniano della periodica oscillazione fra questi due percorsi alternativi. I meccanismi automati­ ci o semi-automatici di sostegno e di intervento reciproco, tipici delle alleanze tradizionali più strutturate (i c.d. «casus foederis») previsti dai trattati bi-multilaterali (Triplice Alleanza, Patto d’Acciaio), avreb­ bero dovuto tornare a funzionare nelle ipotesi di «sicurezza collettiva» previste dai Covenant e dagli Statuti, attraverso l’ambivalente definizione dei concetti di «aggressore» e di «minaccia alla pace», ovvero di modifica dello status quo intemazionale (46). Tutto ciò non è accaduto, perché l’interpretazione autentica delle situazioni di crisi è stata sempre affidata al parere delle maggioranze assembleali, ovvero al diritto di «veto» dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Tale procedura decisionale dell’istituzione ha avuto altresì l’effetto secondario (dopo quello della paralisi operativa) di frenare la dinamica naturale dei conflitti e l’eventuale soluzione negoziata dalle controversie (47), aumentando così i livelli di gravità potenziale delle tensioni irrisolte (48). D’altra parte, gli automatismi teorici degli interventi volti, al ripristino della «sicurezza collettiva» minacciata, non scattavano mai, oppure scattavano a vuoto, ricoprendo di un falso velo la continua­ zione della prassi semianarchica sottostante, fondata sul clandestino recupero in termini di potenza del concetto di «sicurezza nazionale» di tipo classico (nella migliore delle ipotesi, di «sicurezza regionale»), ovvero puntando sulle funzionalità gerarchiche fra attori nazionali dei sottosistemi di blocco (egemonia/subaltemità; patronage/clientela) (49).

La «sicurezza di blocco»

Una prima conclusione può essere tratta da quanto abbiamo fin qui detto. Nell’insieme, dall’età del «riallineamento» (1882-1914) in poi, la tendenza di fondo del sistema delle relazioni intemazionali è stata sempre quella diretta alla costituzione di alleanze multilaterali con­ trapposte, sia informali che formalizzate in trattati e strutture organiz­ zate. In sostanza si è trattato di una linea tendenziale verso la «bipolarità», alimentata anche dal corpo dottrinale delle teorie geopolitiche che, a cavallo del secolo, avevano contribuito a «giustifi­

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care» quelle azioni politiche (50). Anche lo sviluppo delle dottrine «internazionalistiche» di derivazione marxista o radicale, legate alla necessità di rispondere concettualmente all’espansione del capitale finanziario europeo e americano nel mondo coloniale, ebbe peraltro un ruolo nel combinare fattori diversi, apparentemente inconciliabili, come il socialismo e il nazionalismo, la modernizzazione autoritaria e la rivoluzione totalitaria, favorendo per questa via la contrapposizione ideologica di tipo «pre-bipolare» e poi «bipolare» (51). In ogni caso è stato necessario che si consolidasse, anche in forme semi-istituzionalizzate, il «sistema bipolare» perché venisse modifica­ ta, almeno parzialmente, la tradizionale altalena fra uno stato di anarchia «multipolare» e l’aspirazione a quell’ottimistico «universali­ smo» che aveva caratterizzato soprattutto il periodo fra le due guerre mondiali (sistema «intermedio»). Data la struttura genetica, mutuata quasi per intero dalla logica strutturale dei «sistemi di guerra» che l’avevano attivata, fra il 1914 e il 1945, il dibattito sulla «sicurezza» nel dopoguerra, esaurita l’illu­ sione istituzionale, ha quindi recuperato la vecchia formula della «sicurezza nazionale», estendendone però i confini e il significato fino a comprendervi il concetto più attuale di sicurezza del «sottosistema di blocco», inteso nel senso di «difesa nazionale allargata» (52). La «sicurezza», in altri termini, si è ridotta al modulo dell’intera­ zione bilaterale (a due giocatori), che fa da contesto a se stessa, come in un «duello» (53). Il potere della «sicurezza» si concentra cioè nei leader di blocco che, per delega degli alleati minori, garantiscono (o dovrebbero garantire) la «sicurezza nazionale» di tutti gli attori facenti parte del blocco stesso, in caso di scenari di crisi globale con l’altro blocco. La premessa dell’adesione al blocco è data proprio da questa garanzia unilaterale del leader di blocco, in cambio della quale gli attori minori gli riconoscono una rappresentanza e una delega di poteri, funzioni e sovranità, nell’interazione diretta fra le due Superpotenze (54). Infatti, il perimetro territoriale e concettuale della «sicurezza nazionale» del leader di blocco si è andato definendo in termini sistemici, proprio come una relazione interattiva permanente con l’altro leader di blocco (Usa/Urss), temperata dalla necessità di tenere conto anche delle forme di controllo/egemonia da questi esercitate sul proprio sottosistema.

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La «sicurezza nazionale» di blocco così concepita non è quindi la sommatoria elementare delle «sicurezze nazionali» dei singoli attori facenti parte di ciascun sottosistema. Così come anche le grandi suddivisioni geopolitiche e geostrategiche di ciascun blocco in «si­ curezze regionali», o sub-subsistemiche, non corrispondono necessariamente alle funzioni interattive, nazionali e regionali, che si creano fia gli attori in gioco nell’area, ma invece rappresentano gli «interessi» globali della Potenza leader e, semmai, la media ponderata degli «interessi» dell’alleanza presa nel suo insieme. Il sistema delle alleanze di blocco trascura perciò di studiare in modo ravvicinato le forme storiche e le specificità funzionali dei diversi attori o degli «insiemi» regionali, così come si sono storica­ mente determinati, lasciando per questa via molti spazi vuoti di «in-sicurezza», potenziale o latente, che talvolta rischiano di trasfor­ marsi in vera e propria conflittualità «intra-blocco» o «trans-blocco» (55). Deriva anche da questa finalizzazione eccessiva dell’interazione fra i due leader di blocco (Est/Ovest), quella disfunzionalità della «sicurezza» ai livelli minori (diffusione di potenza) che sempre più frequentemente si va manifestando (56). La decolonizzazione degli imperi coloniali europei nel secondo dopoguerra ha in effetti posto in chiara evidenza l’intrattabilità strutturale della «sicurezza» espressa in termini regionali, aggravandone i difetti, anche per ragioni di retaggio storico (confini coloniali, ecc.), nonché di labile identità nazionale di molti nuovi attori. Le analisi regionali, con i relativi bisogni di «sicurezza», si sono perciò limitate a studiare le zone d’interazione (e di sovrapposizione) fra «sicurezza regionale» e «sicurezza di blocco», ovvero a distinguere e identificare gli elementi di «ordine» e di «regime» (57) inter­ nazionale derivanti dai meccanismi di funzionamento di ciascun sottosistema bipolare.

La «sicurezza globale bipolare» I caratteri della «sicurezza globale bipolare» possono essere definiti essenzialmente attraverso l’analisi del corpus di comportamenti, norme, regole, procedure, processi decisionali ripetuti, che ne hanno

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connotato il funzionamento dal 1945 in poi. Si tratta, in sostanza, dell’elaborazione compiuta dai due maggiori attori (Usa e Urss) nei 40 anni trascorsi dalla fine del secondo conflitto mondiale, per stabilire un flusso di comunicazione e di interazione permanente, leggibile da entrambe le parti, diretto a contenere le tensioni e i conflitti entro un ambito controllabile, al fine di evitare lo scoppio della guerra nucleare. Cronologicamente, il periodo della «sicurezza globale bipolare» può essere suddiviso in più fasi, determinate dal tipo di comuni­ cazione e di interazione che si stabiliva fra i due attori maggiori. La prima fase, che corrisponde grosso modo al quindicennio 1945-1960, abbraccia il periodo iniziale di formazione e consolida­ mento del sistema BP, detto della «guerra fredda». In questa fase, il problema della «sicurezza» bipolare era sostanzialmente il risultato di un rapporto di forza asimmetrico fra i due avversari potenziali, basato sul monopolio nucleare prima e la larga supremazia poi, degli Stati Uniti nei confronti dell’unione Sovietica, sia in termini di testate sia di vettori. Durante circa quindici anni, quindi, la sicurezza bipolare derivava dal fatto che la deterrenza americana impediva ai Sovietici di utilizzare la propria superiorità convenzionale per risolvere le contro­ versie nelle aree regionali di confronto più rilevanti (Europa Occiden­ tale, Giappone e Corea del Sud), evitando per questa via l’impiego bellico dell’arma atomica anche in un conflitto limitato. E’ una fase questa che, in altra sede, abbiamo definito di «duello» bipolare (58). Non si trattava però di un duello ad armi pari, poiché l’egemonia nucleare statunitense e la relativa arretratezza sovietica rendevano meno «bipolare» di quanto potesse sembrare il funziona­ mento dell’interazione sistemica a due giocatori (59). In un certo senso si trattava di una sorta di «monopolarismo», zoppo e provviso­ rio, che verso la fine degli anni ’50, fra il 1957 e il 1960, si era definitivamente dissolto (60). La seconda fase è quella che copre invece la decade degli anni ’60. Durante questo periodo, all’ammodernamento degli arsenali nucleari delle due Superpotenze aveva corrisposto una capacità nucleare sovietica, in termini di testate e di vettori (missili intercontinentali Icbm e sottomarini balistici Slbm), sufficienti a rendere tecnicamente obsoleta e concettualmente inefficace la dottrina statunitense della

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«massive retaliation» elaborata durante il «New Look» eisenhoweriano sulla base di una interpretazione estensiva delle teorie del bombardamento strategico (61). Venne così avviato un dibattito creativo intorno al concetto di «sicurezza globale» espresso in termini di teoria della deterrenza, che determinò un processo di profonda ridefinizione delle dottrine strate­ giche, sia americane che sovietiche. La forma del «duello» asimmetri­ co, assunta dal sistema nei quindici anni precedenti, non poteva essere più sostenuta poiché la sua credibilità era in declino, dal momento che entrambi gli avversari erano in possesso di un arsenale nucleare sovrabbondante (overkill capacity) e pressocché equivalente. Quindi il grado di «sicurezza» assicurato dalla teoria della «rappre­ saglia massiccia» si era ridotto a livelli minimi. Chi avrebbe infatti potuto pensare che gli Stati Uniti avrebbero risposto ad un eventuale attacco sovietico contro l’Europa Occidentale con una rappresaglia nucleare massiccia contro il territorio stesso dell’unione Sovietica, sapendo in partenza che vi sarebbe stata una risposta sovietica quasi altrettanto grave sul territorio degli Stati Uniti? La necessità di eludere questo dilemma indusse le Superpotenze ad elaborare delle strategie parallele (anche se non coincidenti concettualmente) per la «sicurezza globale BP», quella della deterrenza basata sul rischio del reciproco olocausto (Mad: mutual assured destruction) e quella della «risposta flessibile», basata sulle teorie della «guerra limitata», nonché sul principio dell’escalation dal convenzionale ai tre gradini del nucleare (tattico, intermedio, strategico) in caso di attacco a sorpresa. Dietro queste teorie c’erano i modelli elaborati negli Stati Uniti da Thomas C. Schelling, Kenneth Boulding ed Herman Kahn, fondati sulla teoria dei giochi e dei comportamenti razionali, mentre in Unione Sovietica c’erano gli scritti del Maresciallo Sokolovsky (62). La transizione dal «duello» al «gioco», di abilità e/o di coordinazione, rivalutò le dottrine clausewitziane sulla «guerra difensiva», giocata appunto sulla corda acrobatica dell’uso politico della forza (brinkman­ ship) (63). ä Durante la terza fase, che copre il decennio Settanta, il problema della «sicurezza globale» venne affrontato soprattutto in termini di negoziati per il disarmo e per il controllo degli armamenti. Il risvolto politico della comunicazione fra le due Superpotenze (processo di distensione) si concretò nell’impostazione di un’interminabile succes­

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sione di trattative, sia in sede «universale» (Nazioni Unite), sia in sede «regionale» (Csce), sia in sede «bipolare» (Salt, Abm, Mbfr, eco.). Il tentativo di costruire un’architettura pattizia diretta al controllo degli armamenti nucleari e convenzionali, si accompagnò allo sforzo per la creazione di una rete di norme e di procedure tali da impedire la «proliferazione» nucleare (Tnp), organizzare un sistema di nuclear free zones, stabilire una serie di diritti individuali e degli attori nazionali alla «sicurezza». Questa fase complessa, che assunse i tratti di una vera e propria liturgia della sicurezza, sia a livello «globale» che a livelli minori, prendeva le mosse dalla teoria della deterrenza strategica basata sul Mad, ma ne dinamicizzava le prospettive (64). Si fu così in presenza di una sorta di «ritualizzazione» delle funzioni competitive strutturali inerenti al sistema BP, diretta a prevenire il conflitto nucleare e a ridurne gradualmente la eventualità, riducendo l’ampiezza degli arsenali atomici delle Superpotenze. Il tratto comune a queste tre prime fasi era dato dal carattere «offensivo» del possibile impiego dell’arma nucleare, sia in funzione di deterrenza sia in quello di «war-fighting», cioè di guerra realmente combattuta. Secondo questo principio, che concepiva l’arma atomica come arma «assoluta» (65), la bellicosità «naturale» del sistema di guerra BP poteva essere fienaia solo in tre modi: (a) mediante la «superiorità» di un contendente sull’altro (Fase-1), (b) attraverso l’uso politico e dissuasivo della forza (Fase-2), (c) oppure con una rete di negoziati permanenti per il controllo degli armamenti nucleari e convenzionali (Fase-3). In altri termini, durante le prime tre fasi, il «sistema bipolare», nonostante i suoi connotati strutturali di «sistema di guerra», era riuscito a costruire al suo interno una sorta di rete di sicurezza che si potrebbe anche definire come un «regime» (66) di dissuasione nucle­ are che ne moderava la pericolosità, attraverso una costante terapia di raffreddamento che l’evoluzione del sistema è andata continuamente aggiornando (67). La quarta fase, invece, iniziata alla fine degli anni ’70, e ancora oggi in atto, venne attivata dalla costatazione che una delle due Superpotenze (l’Urss) stava incrementando quantitativamente, e diver­ sificando qualitativamente, il proprio arsenale strategico. Di qui la rincorsa americana, diretta non solo a recuperare il tempo perduto durante la Fase-3, ma anche ad acquisire un margine di superiorità che

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restituisse agli Stati Uniti l’iniziativa nella gestione della «sicurezza globale BP». E’ questa la fase in cui viene rovesciato, da parte statunitense, il concetto chiave della «sicurezza globale» basata sulla deterrenza strategica di tipo «offensivo» (MAD), e viene impostata la dottrina della «Difesa strategica» (SDÌ) fondata sulla teoria dello «scudo» difensivo antimissile da contrapporre alla «spada» offensiva costituita dagli Icbm e dai Slbm (68). Questa filosofia della sicurezza si radica nella convinzione che un sistema intemazionale il quale si affidi esclusivamente al potere dissuasivo di enormi arsenali nucleari offensivi, non ha molte probabilità di funzionare a lungo, perché lo spettro dell’olocausto, alla lunga, non riesce ad essere uno scenario tecnicamente accettabile né politicamente credibile, soprattutto qualo­ ra ci si trovi di fronte a conflitti limitati o a scenari di crisi di scacchiere. La deterrenza MAD, sarebbe quindi incapace di garantire la «sicurezza globale» necessaria, senza peraltro assicurare una gestione non conflittuale delle tensioni nei teatri regionali, accentuando anzi il rischio di una crisi incontrollabile per mancanza di strumenti di gestione adatti. L’unica soluzione possibile dovrebbe allora ipotizzare la transizione da una dottrina basata sulla reciproca «vulnerabilità» dei due protagonisti ad una fondata sulla loro reciproca «invulnerabilità». Tale ipotesi di transizione potrebbe realizzarsi in primo luogo attraver­ so la costruzione di uno «scudo» difensivo antimissile, tale da trasformare il proprio territorio in una «fortezza», e nel contempo riducendo fino a zero, mediante negoziati ad hoc, gli arsenali nucleari offensivi di entrambe le Superpotenze (69). Le quattro fasi (duello, gioco, rito, assedio) della macroteoria della «sicurezza globale bipolare» così descritta non potevano né volevano, ovviamente, tener conto dell’ampio ventaglio di opzioni lasciate scoperte dalle varie teorie globaliste nei confronti dei livelli inferiori di «sicurezza», come quella «regionale» o «nazionale». Di qui è scaturita l’insoddisfazione per i limiti delle macroteorie «globaliste». Di qui si sono aperti gli spazi di manovra e di autonomia che l’elaborazione teorica ha lasciato alla fondazione di microteorie sulla sicurezza «regionale» e quindi «nazionale».

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La «sicurezza regionale» I tentativi messi in atto da alcune Medie Potenze di organizzare, con o senza l’autorizzazione del leader di blocco, dei sistemi di «sicurezza regionale» relativamente autonomi, e soprattutto funzionali al miglioramento *del livello e della qualità della «sicurezza» della propria area d’interesse strategico, come hanno fatto la Francia in Europa alla metà degli anni Sessanta, ovvero l’india e la Cina in Asia meridionale e orientale negli anni Settanta, il Vietnam in Indocina dopo il 1975 e l’Iran nel Golfo prima del 1979, hanno cozzato sempre contro gli stessi ostacoli derivanti dalla scarsa «capability» aggregante (espressa in termini di potenza) degli attori che promuovevano questo processo (70). Per di più, la malcelata ostilità delle Superpotenze e l’invadenza dei processi di interazione «globalista» fra Est e Ovest, la cui elabo­ razione anche dottrinale era più complessa di quella dei regimi «regionali», in quanto travalicava i confini territoriali di area, ha reso la vita difficile alle formule di questo tipo (71). Ne derivò che spesso queste aspirazioni centripete e aggregative a livello regionale si trasformassero in processi centrifughi, non sempre sotto le specie della dislocazione degli assetti di area, ma piuttosto come fenomeni di «diffusione di potenza» e di instabilità di attori singoli, sia a livello nazionale, subnazionale o transnazionale, che in alcuni casi hanno coinvolto, loro malgrado, anche le due Superpotenze, insidiando gli equilibri bipolari, soprattutto nelle regioni di frontiera dei blocchi (72)

Lo sforzo più sistematico per costruire, con una logica e una filosofia diverse, un sistema di «sicurezza globale», è stato quello basato sulla teoria dell’«arms control» e sui negoziati per il controllo degli armamenti strategici fica le due Superpotenze, sfociato nei trattati Salt I e II (1972 e 1979), nonché nel Trattato di non proliferazione nucleare (1968-75) (73). La permanenza di fori negoziali diretti fra Stati Uniti e Unione Sovietica ha creato, pur tra difficoltà e incertezze, quella sorta di «regime» intemazionale (Regime di Dissuasione Nucleare, RDN) che si propone di attenuare almeno parzialmente il carattere «bellicoso» del sistema bipolare. Un tentativo concettualmente alternativo a questo della «sicurezza globale» è venuto dal movimento dei paesi «non allineati», ovvero

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della intersezione degli «assi» Est/Ovest e Nord/Sud. Anch’esso però si è scontrato con le medesime difficoltà incontrate dai «sottosistemi di blocco» e dai «sistemi regionali», accresciute per sopramercato dalla mancanza di attori «essenziali» (o realmente egemoni), tali da addensare attorno a sé il pulviscolo degli attori minori e/o legare, con patti vincolanti, quelli di medio livello (74).

Il contesto internazionale della «sicurezza nazionale»

Il concetto di «sicurezza» ha dato così luogo a molte usurpate interpretazioni, perdendo in scientificità quanto guadagnava in ideolo­ gia e in propaganda politica. Riassumendo, si potrebbe dire che una definizione del modello di «sicurezza nazionale», adeguato alla realtà intemazionale contempo­ ranea, non potrebbe non tenere nel debito conto la duplice precon­ dizione analitica costituita da: a) il fallimento dei modelli di «sicurez­ za collettiva» di impronta universalistica, al di fuori delle tradizionali architetture di alleanza fra attori nazionali sovrani; b) la indetermi­ natezza, ovvero l’indeterminabilità, del significato di base della «sicurezza» nelle sue diverse forme di sicurezza «nazionale», «re­ gionale», di «sottosistema di blocco» e «globale» (75). Tuttavia, lo spazio analitico per una migliore conoscenza e una più puntuale definizione di questo tema è notevolmente più ampio di quanto non si potrebbe pensare. Nell’attuale contesto, infatti, è proprio l’esiguità e la rudimentalità dell’analisi fin qui svolta sui modelli di «sicurezza regionale» in aree periferiche o marginali, di cerniera o di confine fra i due «sottosistemi di blocco» (dette anche «aree grigie»), come è il caso dell’«insieme» mediterraneo (76), ad aprire più di una opportunità interpretativa. Il che consente di prendere in esame ruoli e comportamenti dei singoli attori nazionali, nell’ambito di environ­ ments plurimi, per ciascuno dei quali possono funzionare regole del gioco e procedure normative fortemente differenziate. Queste prime riflessioni si riferiscono ovviamente solo agli aspetti «esterni» dell’azione politica intemazionale dei singoli attori statuali (77). Non investono invece i processi di formazione delle decisioni e degli atti di politica estera o della sicurezza (che della politica estera è componente essenziale, anche se non esclusiva) all’interno del sistema

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politico (78), né denunciano i contenuti che il concetto di «sicurezza» è venuto assumendo nel corso del tempo, sulla base dell’interazione permanente fra politica interna, tecnologie militari e dottrine strate­ giche (79). Basterà un esempio per tutti. Si pensi all’evoluzione del concetto di «dissuasione», originariamente mutuato dalla criminologia e dal diritto penale (80), successivamente adattato alla strategia conven­ zionale e nucleare dell’età bipolare, per rendersi conto di quanta latitudine interpretativa sia consentita nella determinazione del concet­ to di «sicurezza», se alla dottrina nucleare della «reciproca distruzione assicurata» (Mad) è stata assegnata una così elevata credibilità in quanto forma suprema di «sicurezza», nonostante il suo terrificante potenziale di morte (81).

La «National Security» americana ovvero la sicurezza del leader di blocco Il criterio operativo più fertile di risultati euristici è probabilmente quello che muove dalla lettura ragionata e storico-etimologica delle principali famiglie concettuali. Nel caso della storia della formula della «National Security», intesa come uno dei due pilastri concettuali della politica estera statunitense postbellica (82), l’accoppiamento dei due termini di garanzia della «sopravvivenza» e di realizzazione dei «fini» denuncia un approccio «misto», comune a molti scienziati politici americani, che nei decenni postbellici cercarono di conciliare i vincoli dovuti alla struttura portante del sistema bipolare e nuclearizzato, con la fedeltà agli obiettivi della presenza americana nel mondo (cioè della sua politica estera «globale»), che una consolidata tradizione intellettuale e politica, oltre che il ruolo da poco acquisito di Superpotenza, consentiva loro di perseguire (83). In ogni caso, dopo il 1945, la letteratura in materia di «sicurezza nazionale», soprattutto quella di matrice politologica (84), ha privile­ giato lo studio dell’esperienza statunitense che ha per contesto di riferimento obbligato il sistema intemazionale bipolare e il molo globale degli Stati Uniti. Tale precondizione strutturale, secondo la quale ogni scenario di «sicurezza nazionale» deve essere collocato all’interno della cornice di «sicurezza bipolare», regola - come

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abbiamo visto - l’insieme dei rapporti di «sicurezza», sia nazionale che regionale da essa dipendenti, circoscrivendone il perimetro in una scala di priorità gerarchiche ben definite. Il volume crescente delle ricerche che vengono effettuate in materia di «sicurezza nazionale», nonché i loro limiti epistemologici derivano quindi, con tutta probabilità, dal fatto che gli Stati Uniti sono stati costretti ad «inventare» quasi dal nulla una disciplina autonoma che rispondesse alle esigenze, mai prima sperimentate nel mondo contem­ poraneo, di una Superpotenza globale senza passato e di un sistema intemazionale semplificato come quello bipolare. Tale operazione comportò l’impiego di tutti gli strumenti tratti dalle scienze sociali capaci di ridisegnare il proprio profilo politico intemazionale e quello del mondo contemporaneo, secondo parametri che fossero al tempo stesso credibili e funzionali (85). In particolare, l’analisi globale delle relazioni sistemiche bipolari si è sempre strutturata, negli studi di origine statunitense, secondo una immutabile gerarchia «americocentrica» (o a corona circolare) dei livelli d’interesse nelle questioni della «sicurezza», la cui estensione avrebbe dovuto, in linea teorica, raggiungere i confini estremi del proprio sottosistema di blocco (occidentale), coinvolgendo in quella filosofia delle priorità l’intero gruppo dei paesi amici ed alleati (86). Essa si è ordinata secondo delle linee geostrategiche ben definite, sulla scorta di una scala d’importanza a quattro gradini dei cosiddetti «interessi nazionali»: (1) di sopravvivenza, (2) vitali, (3) maggiori, (4) periferici. Le aree tematiche e i teatri geopolitici della «National Security» statunitense risultano quindi a tutt’oggi essere, nell’ordine, i seguenti:

a. sicurezza nucleare «globale» (deterrenza e altre dottrine); b. sicurezza «nazionale» e «continentale» degli Stati Uniti e del Western Hemisphere (continente americano e aree di rispetto); c. «extended deterrence» americana in Europa Occidentale e in Asia (Giappone/Corea del Sud); d. sicurezze «regionali» e/o di «area» (America Centrale; Golfo, ecc.); e. sicurezza di «controllo» (traffico, comunicazioni, risorse, trasferi­ menti);

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f. sicurezza «nazionale» esterna e interna degli alleati e di altri attori, amici o non allineati, che rivesta un interesse geostrategico per gli Stati Uniti (87).

Altre teorie sulla «sicurezza nazionale»

La lettura statunitense sul concetto di «National Security» è dunque essenzialmente orientata in senso «americocentrico», con l’Europa Occidentale e l’Asia Orientale collocate alle due estreme periferie del sottosistema di blocco che fa perno sul «Western Hemisphere» (88). Per queste ragioni quindi, anche all’intemo del sottosistema di blocco a «stabilità egemonica» (89) statunitense, la concezione di «sicurezza nazionale», propria dei partners medi e minori dell’alleanza, non poteva rispondere interamente ai bisogni e agli interessi «nazionali» e/o «regionali» particolari dei singoli attori. Ciò perché la «suzeraineté» statunitense e bipolare impedisce di fatto l’esercizio assoluto della sovranità da parte degli attori meno influenti. Questa condizione di base non ostacola tuttavia radicalmente la creazione di spazi di manovra e il consolidamento di autonomie crescenti rispetto alla stretta gerarchia strategica prevista dall’elenco delle aree di «sicurezza» americane. L’ambito di questi spazi e di queste autonomie, ritagliato all’intemo della comice bipolare non è necessariamente alternativo e/o conflittuale rispetto alla comice di riferimento bipolare, in quanto oltrepassa (o meglio attraversa diago­ nalmente) sia la relazione sistemica fondamentale fra Stati Uniti e Unione Sovietica, sia quella sottosistemica fra Stati Uniti e paesi alleati (90). Esiste infatti ormai un territorio analitico particolare che, rispetto al «continuum» ideale che Liska individuava nell’alternanza costante di «Impero» e di «Equilibrio», cioè nella doppia relazione interattiva della Superpotenza con l’altro polo, e insieme con il proprio sotto­ sistema di egemonia, occupa uno spazio intermedio (91), mobile e di difficile definizione tanto concettuale quanto operativa, che possiamo chiamare dei sottosistemi di «sicurezza regionale» delle potenze medie e minori (92). Non si tratta quindi di strutture definibili esclusivamente in termini di destabilizzazione degli equilibri di area, ovvero di dislocazione

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entropica degli assetti intemazionali di area o globali, come nel caso del fenomeno della «diffusione di potenza». Non si tratta peraltro neppure dell’embrione di un nuovo «ordine» o «regime» inter­ nazionale che tenda a identificare i propri criteri di «autonomia» all’interno dell’impero e quelli di «sicurezza» all’interno del sistema bipolare, in modo alternativo rispetto agli interessi di sicurezza dei leader di blocco (93). Non sono infine neppure dei processi diretti a determinare l’ampiezza del proprio campo di manovra, in relazione ad operazioni «revisioniste» e/o «revanchiste» nei confronti di altri attori dell’area, come è il caso dell’instabilità mediorientale, sia «mediter­ ranea» che «persica» (94). Si tratta invece di forme intermedie di gestione del complesso concetto di «sicurezza», in termini regionali, subregionali e/o naziona­ li, che derivano la loro legittimità funzionale dalla divisione inter­ nazionale del lavoro e dei moli fra i diversi attori di area, all’interno dei rispettivi blocchi o in «prossimità» di essi (95).

Conclusioni

La rapida scorsa data alle diverse forme «pure» e forme «storiche» di sicurezza che abbiamo fin qui tentato ci sembra giustificare qualche conclusione preliminare, e in specie la conferma di qualcuna delle ipotesi fondamentali che erano implicite all’inizio di questo saggio. In particolare quella secondo cui l’evoluzione teorica e storica del concetto di sicurezza può diventare un criterio di valutazione e di misura analitica importante per riconoscere le strutture, le arene politiche e le regole di funzionamento dell’interazione sistemica intemazionale nel suo complesso. In effetti, il criterio della «sicurez­ za» potrebbe fungere da passepartout concettuale (così come in altro contesto lo è certamente quello dell’«interdipendenza» economica (96)) per cogliere le procedure di trasformazione del contesto intemazionale. La dimensione della sicurezza nazionale degli attori statuali, quindi, potrebbe essere analizzata, nell’ambito del sistema politico inter­ nazionale bipolare, tenendo conto del fatto che l’attrezzo concettuale fornito dalla «sicurezza» può svolgere compiti di raccordo fra i diversi livelli analitici.

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In primo luogo fra il livello dei sottosistemi di blocco (Est/Ovest, oppure Nord/Sud), che viene offerto dall’esame delle collocazioni dei singoli attori nazionali all’interno dei quattro quadranti geopolitici e di appartenenza stabiliti dalla intersezione degli assi (Nord-Ovest, Nord-Est, Sud-Ovest e Sud-Est). In secondo luogo, dovrebbe essere messa in relazione alla sfuggente questione della sicurezza strategica delle diverse aree regionali, le cui regole di funzionamento sono sovente diverse rispetto a quelle dei due sottosistemi di blocco, al punto da configurare modelli di funziona­ mento dell’area di tipo multipolare, o a frammentazione, con fenomeni di allineamento e/o di riallineamento più flessibili di quello tipico del sistema bipolare. In terzo luogo, infine, l’analisi della sicurezza dovrebbe volgersi all’intemo del sistema politico nazionale (97), per un esame delle relazioni fra attori statuali e la serie di attori (e quasi-attori) che operano a livello sub-nazionale (micronazionalismi, autonomie regionali interne, ernie, minoranze linguistiche e razziali, aree di sottosviluppo economico, ecc.), ovvero che si manifestano come espressione di gruppi o individui (organizzazioni non governative, terrorismo, ecc.), fino alle forme di sicurezza individuale, legittima o illegittima (diritti umani, criminalità, devianza, ecc.) (98). Non è questa la sede per addentrarci nell’intrico della variegata tematica intrasistemica che, con l’ausilio del paradigma della «si­ curezza», attraversa in diagonale più livelli d’analisi, e soprattutto investe l’ardua questione dei rapporti fra «interno» ed «esterno». Anche se non si può tacere il fatto che il metro della sicurezza può essere usato soprattutto nelle forme storiche di sistema intemazionale più recenti (bipolare, di blocco o regionale), come un termometro dei processi di penetrazione politica che attraversano il confine fra «esterno» e «interno». Nelle due varianti possibili: (a) quella della penetrazione verso l’esterno, anche mediante l’impiego di politiche pubbliche nazionali (politiche estere, della difesa, energetica), la cui influenza sul sistema intemazionale in quanto tale può essere determi­ nante; e (b) quella della penetrazione dall’estemo verso l’interno attraverso l’influenza e i vincoli che impongono i «regimi» inter­ nazionali di sicurezza, ovvero il tasso di conflittualità esistente nell’ environment (99). Per ora sarà sufficiente aver verificato, sia pure in modo sommario,

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che l’interazione fia forme «storiche» del sistema intemazionale e il problema delle forme «pure» di sicurezza, sta gradualmente sostituen­ do alcuni parametri concettuali, considerati in precedenza come inconciliabili fra loro: quello «realista/classico» e quello «idealista/normativo», avviando così l’unificazione concettuale, e parzial­ mente operativa, delle due più tradizionali linee di ricerca della teoria delle Relazioni Intemazionali. I «modelli di sicurezza» tendono quindi ad inglobare dialetticamente al loro interno, non solo una pluralità di livelli d’analisi, ma a combinare in una sintesi superiore l’eterna contraddizione fra i due poli dell’«anarchia» e dell’«ordine» del sistema politico inter­ nazionale. Essi agiscono infatti come strumenti di integrazione delle diverse esigenze, quelle della sovranità nazionale degli stati (di alleanza o di blocco), e quelle della costruzione di una rete di vincoli che garanti­ scano appunto a tutti gli attori il massimo di sicurezza compatibile con le relazioni di potenza esistenti tira loro, e con i principi d’ordine intemazionale che l’esperienza del secolo (due guerre mondiali, decine di guerre regionali, l’arma atomica) e le sperimentazioni universaliste d’interdipendenza e d’integrazione (Lega delle Nazioni, Nazioni Unite, Comunità Europea, ecc.) hanno indotto nella coscienza collettiva del mondo (100). La domanda di sicurezza non si arresta dunque alle frontiere degli Stati, ma invece agisce come un cuneo di penetrazione anche al loro interno, «intemazionalizzando» - per così dire - il sistema politico dei singoli attori nazionali. Al tempo stesso, però, «intemizza» il sistema politico intemazionale, attribuendogli quel «tantum» di ordine e di regole che nella teoria dei regimi intemazionali ha trovato oggi la sua prima timida espressione normativa (101).

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Note 1. Cfr. J. Miller (1978), pp. 973 e sgg., nonché Ward (1985) pp. 1-9; e Geymonat e Giorello (1980) pp.. 383 e sgg. 2. Cfr. Guetzkow (1968), pp. 9-10. 3. Sul problema dei livelli si rinvia al classico saggio di Sinfer (1961), pp. 77-92, ma anche a Waltz (1979) p. 18. 4. Per un esame più ravvicinato delle tre serie di modelli si rinvia all’introduzione alla seconda parte della raccolta di saggi curata da Bonanate e Santoro (1986a), pp. 275 e sgg. Vedi anche la successiva nota 20. 5. Cfr. Craig e George (1983). 6. Per un’analisi della differenza fra teorie «sistemiche» e teorie «riduzioniste» delle relazioni intemazionali si rimanda a Waltz (1979). 7. Con questa formula abbiamo descritto sinteticamente quella serie di teorie, quasi-teorie o pre-teorie basate essenzialmente su tre serie di «modelli»; (a) di «politica estera», (b) di «crisis management» e (c) di «sicurezza» o «strategici». La suddivisione in tre serie è alquanto arbitraria, anche se esiste la possibilità di individuare alcuni possibili fattori di differenziazione. In ogni caso, essa svolge una funzione importante di semplificazione e di organizzazione nell’ordinamen­ to dei comportamenti degli attori nazionali, la cui diversità e complessità renderebbero altrimenti insormontabili le difficoltà dell’analisi scientifica. Ciascuno dei tre gruppi raccoglie un certo numero di «modelli» o «paradigmi», più o meno elaborati, che sintetizzano le principali ipotesi interpretative ed esplicative della teoria delle relazioni intemazionali in materia di comportamen­ to esterno degli attrai nazionali. Per il concetto di «ambiente» vedi ancora Easton (1965,1979a), pp. 92 e sgg. 8. In un quadro diacronico la successione delle forme storiche di «sistema intemazionale» nel corso del sec. XIX è la seguente: 1) Balance of Power; 2) Intermedio; 3) Bipolare. In un quadro nomotetico, invece, gli idealtipi di «sistema politico intemazionale» sono almeno sei. Ai tre citati possono essere infatti aggiunti il sistema «universale», quello «imperiale», e quello di «guerra» (Santoro (1984b) ora in questo volume). Altri Autori individuano un numero più alto o più basso di tipi di sistema intemazionale. Per esempio, Liska (1978) ne individua sostanzialmente due (Empire e Equilibrium), mentre M. Kaplan (1957) ne descrive sei principali e, in un successivo saggio ne aggiunge altri quattro secondari. Cfr. M. Kaplan (1966). 9. Cfr. Santoro in Bonanate e Santoro (1986a), pp. 157-205, ora in questo volume. 10. Per i concetti di «teoria», «modello», «paradigma», ecc. si veda a, ma anche Popper (1934, 1959, 1968), pp. 11 e sgg. ed. iL, Resse (1966), e Kuhn (1962, 1970), pp. 29 e sgg, ed. it. 11. Cfr. Beard (1934), ma anche Berkowitz e Bock (1968). Sulle origini del concetto di «Ragion di Stato» si rinvia a Chabod (1964), passim. 12. La prima definizione è in Lippmann (1943), mentre l’altra è in Brennan (1961).

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13. Andrebbe meglio analizzata l’incompatibilità fra «mezzi/fini» e «sopravviven­ za» ma non è questa la sede per approfondire la questione. Vedi comunque Jordan e Taylor (1984); Reichart e Sturm (1982); nonché la bibliografia in Russett e Stepan (1973). 14. Cfr. Berkowitz e Bock (1968) p. 40 e sgg. 15. La definizione è citata in Reichart e Sturm (1982) p. 61. 16. Cit. in Reichart e Sturm (1982) p. 61. 17. Cfr. Herman (1977) p. 19. 18. Cfr. Morgenthau (1948) passim, nonché Nuechterlein (1973) e (1979). 19. Cfr. Craig e George cit. (1983). 20. Cfr. le fig. 5,6 e 7 in McGowan e Shapiro (1973). 21. Si veda, a questo proposito, il volume di studi in onore di Harold Guetzkow che sviluppa, essenzialmente con metodologia empirico-quantitativa, la tesi della costruzione di «ponti» fra le galleggianti «isole» di teoria nell’oscuro mare dei dati e dell’ignoto. Cfr. Ward (1985) a cura di. 22. Cfr. Machlup (1977) e Santoro (1982) e relative bibliografie. 23. Cfr. lo studio di Breuilly (1982), sul nazionalismo pp. 250-278. 24. Il sistema dell’Equilibrio (E) può essere suddiviso in più fasi. La prima va dai Trattati di Westfalia alla Rivoluzione francese, dal 1648 al 1789. La seconda, dopo l'intervallo del «sistema di guerra» napoleonico, dal 1815 al 1871. La terza, infine, procede da quella data fino al 1917, anno di svolta della prima guerra mondiale. 25. Cfr. ancora Breuilly (1982), capp. 2 e 3. 26. Secondo la dizione di M. Kaplan (1957) cit 27. Cfr. fra gli altri Bollati (1983); Seton Watson (1977). 28. Si veda, su questo punto, la teoria di Wallerstein (1974) sul «world-system», ma anche quella di Boulding (1985) sul «total-system». 29. Nascono proprio in quegli anni le prime teorie dellTmperialismo. Cfr. anzitutto Hobson (1903), ma anche Hilferding (1910), Luxemburg (1911) e Lenin (1916). Per una sintesi delle diverse teorie si veda Kemp (1969). 30. Esempi classici di questa fase furono le alleanze anglo-franco-turca contro la Russia nella Guerra di Crimea, ovvero l’alleanza franco-piemontese contro l’Austria nel 1859, e l’alleanza italo-prussiana, sempre contro l’Austria, nel 1866. Cfr. Liska (1963) e Riker (1962). 31. Per una descrizione storica di sintesi dell’evoluzione del Concerto negli anni fra il 1879 e il 1907, si veda il classico volume di Taylor (1954). 32. Cfr. Taylor (1954, 1961 ed. it.), pp. 614-656 dell’efl. iL, nonché Langer (1936, 1942ed.it.). 33. Un esempio storico chiave di questa condotta, per quanto riguarda gli attori «essenziali», è stata la politica estera deU’Austria-Ungheria nei Balcani fra il 1878 e fi 1914. Cfr. Snyder (1984) nonché Taylor (1954), pp. 330-339; 647-655; 745-779.

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34. Nel senso della gerarchia degli «interessi nazionali» esposta da Nuechterlein (1973), (1979) e (1983). Cfr. anche il saggio di Thomas W. Robinson (1967), ora in Rosenau (1969) pp. 182-190, che analizza il concetto di «national interest» nell’ottica della teoria «tradizionale», e in particolare alla luce dell’opera di Hans Morgenthau. 35. Cfr. Ludendorff (1935). 36. La prima guerra mondiale aveva chiaramente rivelato che il sistema dell’Equilibrio di Potenza non avrebbe più potuto essere restaurato nella vecchia forma in quanto non ne sussistevano più i presupposti. In particolare era chiaro a tutti che la Germania, da sola, era potenzialmente più forte dell’insieme delle altre maggiori Potenze europee. 37. Vedi ancora Snyder (1984) per la teoria dei «giochi degli alleati e degli avversari», pp. 480 e sgg. 38. Si vedano in particolare le procedure di votazione in seno all’Assemnlea Generale e nel Consiglio di Sicurezza, nonché la distribuzione delle materie di competenza dei due organi, per comprendere quali e quanti fossero gli equivoci potenziali cui tale regolazione normativa avrebbe potuto dar luogo. Cfr. Russell (1958) e (1968). 39. La più pericolosa conseguenza del «gioco degli alleati», caratteristico del sistema E, era quello di creare dei «teatri di crisi» subordinati rispetto ai principali in cui prevalenza il «gioco degli avversari». Cfr. ancora Snyder (1984). La distanza anche logica dal fenomeno attuale della cosiddetta «diffu­ sione di potenza» è evidente. Mentre nel primo caso si trattava di creare «teatri» di crisi periferici rispetto agli attori principali, nel secondo caso, invece, si verificano dei processi di dislocazione delle alleanze bipolari che procedono senza direzioni e/o aggregazioni preordinate. Cfr. Santoro (1981), ora in questo volume. 40. Sul concetto di «egemonia» si rimanda a Keohane (1984). La struttura «bipolare» del sistema intemazionale ha dunque semplificato la complessità funzionale dell’ordine «universale» delle Nazioni Unite, riorganizzando i sistemi di sicurezza attorno ai due «fuochi» dell’ellisse bipolare, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Cfr. Santoro (1984b) e Bonanate e Santoro (1986a), entrambi in questo volume. 41. Cfr. Nye Jr. (1984), per un esame dei meccanismi di formazione delle decisioni interne al sistema politico, e in seno all’alleanza adantica, nella politica americana verso l’Unione Sovietica, e viceversa, per l’analisi dei processi decisionali sovietici cfr. i due volumi curati da Hoffmann e Fleron Jr. (1980) e da Laird e Hoffmann (1986), nonché la raccolta di Valenta e Potter (1984). 42. Sul concetto di «sistema», di «sistema politico» e di «sistema politico inter­ nazionale», si vedano rispettivamente Miller (1978). Easton (1965, 1979) e Waltz (1979). 43. Cfr. Harsany (1965), nonché Morgenthau (1948). Sul contrasto fra «ideali» e «istituzioni» si veda invece Huntington (1981).

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44. n problema, per le Nazioni Unite, - come dimostra la storiografia relativa al processo di formazione dell’Onu - esisteva fin dalle origini. Cfr. Russell (1958) e (1968). 45. Alle due opzioni principali ne va aggiunta una terza, che si evince dalla funzione «costituente» che le organizzazioni di tipo «universale» hanno assunto, prefigurando un «ordine» intemazionale di carattere federale che pone dei vincoli alla libertà d’azione degli Stati-nazione. Non si tratta cioè solo di progetti ideali, ma anche della formulazione di codici normativi, dello stabili­ mento di procedure e dell’attivazione di pratiche che arricchiscono indubbia­ mente il corpo originario delle norme del diritto intemazionale e della convivenza fra gli Stati. Ovviamente i limiti di questa azione sono molto ampi, soprattutto in rapporto alle funzioni primarie per le quali gli enti intemazionali erano stati creati, cioè per impedire minacce e violazioni della pace. Cfr. Berkowitz e Bock (1968), nonché Rapisca (1986). 46. Mettendo a confronto le dizioni dei diversi testi dei principali trattati di alleanza o istitutivi di organizzazioni intemazionali, stipulati fra il 1879 e il 1957, per identificare le differenze di «contenuto» espresse nelle diverse formule impie­ gate per definire il concetto di «sicurezza» e quello di «aggressione» è possibile rilevare una differenza sostanziale fra i due tipi di documenti. Nei trattati di alleanza, ad esempio, la formula è quasi sempre accompagnata da condizioni e specificazioni di tempo e di luogo che rendono applicabili gli impegni assunti, mentre nei trattati multilaterali istitutivi di organizzazioni intemazionali, il «casus foederis» è il più delle volte indicato in termini vaghi e non impegnativi. Perfino in trattati difensivi d’integrazione militare, come la Nato, l’automatismo dell’intervento degli alleati nel caso di attacco subito da uno dei paesi membri dell’alleanza, ai sensi dell’arL 5, è molto discusso e considerato non assoluto. 47. Si vedano, in particolare, i casi studio più significativi relativi ai conflitti in Etiopia, 1935, Corea, 1950, Cambogia, 1970, ecc. Cfr. altresì James (1969), che analizza tutti i casi di intervento diretto delle Nazioni Unite in funzione di «peace-keeping» fino al 1968, nonché le disparate forme che tale intervento aveva assunto. 48. Uno dei casi-studio più significativi di questo effetto di rimbalzo delle procedure decisionali delle Nazioni Unite è quello del Libano, fra il 1975 e il 1986. L’incrocio di veti contrapposti, nonché il prolungarsi del dibattito e l’invio di troppe (Unifil), non hanno avuto l’effetto di interporre un diaframma di «sicurezza» fra gli attori e i quasi-attori in conflitto, ma invece di nascondere i preparativi offensivi dell’una o dell’altra parte. Cfr. Snyder e Diesing (1977), nonché Haas (1974). 49. Cfr. Rapkin et. al. (1980) e inoltre ancora Snyder (1984): in particolare la diade di concetti «abbandono/intrappolamento». 50. Ci si riferisce qui alle dottrine geopolitiche «navaliste» (Mahan, Corbett, ecc.), a quelle «terrestri» (Ratzel, Mackinder, Kjéllen, Spykman, Haushofer, ecc.) e a quelle «aeree» (Douhet, Mitehell, De Severski, ecc.), nonché alle contrappo­ sizioni teoriche, in termini di orso/balena, tigre/squalo, ecc., che avevano

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alimentato il dibattito fino alla seconda guerra mondiale. Cfr. Earle (1943), Weigert (1942), Whittlesey (1942), Spykman (1942) ecc. Per un aggiornamento recente della classica antologia di testi curata da Earle si veda Paret (1986). Cfr. ad esempio, in Rosa Luxemburg (1911), il concetto di «terze persone» che fu poi ripreso, anche linguisticamente, dalle diverse scuole neo-marxiste del secondo dopoguerra, come una anticipazione profetica delle formule «terzomondistiche». Tale concetto è indirettamente confermato dalla formula americana della «extended deterrence», che vuole significare l’assunzione da parte degli Stati Uniti dell’impegno di copertura convenzionale e/o nucleare dell’Europa occi­ dentale (Nato) in caso di attacco da Est L’«ombrello atomico» statunitense è appunto una «estensione» della «difesa nazionale» americana. Su questo punto cfr. Kennedy e Wemsten (1984), nonché Rapkin et al. (1979), nonché Santoro (1984b) ora in questo volume. Cfr. Brams (1985) sul rapporto bipolare come duello/gioco a due giocatori, oltre ai già citati volumi di Schelling (1960) e (1966), ma anche Brewer e Shubik (1979). Per verità, come si evince dai documenti relativi al dibattito sulla fondazione dell’Alleanza Atlantica, la «garanzia» di protezione americana agli alleati europei, data la ridotta disponibilità di cariche e di vettori nucleari era, all’epoca della Erma del trattato che istituiva la Nato, limitata all’aiuto militare in caso di attacco sovietico e a una rappresaglia nucleare di risposta, ma non contemplava ancora quel concetto di «extended deterrence» in senso stretto, che vincolerà (almeno in linea teorica con la formula del «coupling»), il destino degli Stati Uniti al destino dell’Europa occidentale, a partire dagli anni ’50. Cfr. Gimbel (1976) e Mee (1984). Cfr. ancora Rapkin et. al. (1979), nonché i casi studio delle relazioni fra l’Italia e gli Stati Uniti nel biennio 1985-86 di fronte alla crisi libica. Cfr. Santoro (1986b) per un esame della politica estera del Presidente del Consiglio italiano Craxi nello stesso periodo. Per una definizione del concetto di «diffusione di potenza» si rimanda a Santoro (1981) e relativa bibliografìa, ora in questo volume. Cfr. ancora il volume a cura di Krasner (1982) sulle caratteristiche dei «regimi intemazionali», intesi come un set di norme e di regole che si collocano a cavaliere della diade logica fra «anarchia» e »ordine» nel sistema politico intemazionale. Nella raccolta di saggi curata da Krasner si tenga presente quanto scrive Robert Jervis a proposito dei «Security Regimes», che rileva l’estrema difficoltà ad individuare resistenza di veri e propri «regimi» in questo campo, mentre più agevole sembra essere la identificazione di regimi inter­ nazionali in materia economica (International Economie Regimes). Il connotato di fondo sul quale si misura la vitalità di un regime sta nella loro capacità di funzionare come fattori di mutamento del sistema, in quanto variabili «au­ tonome» invece che «incidentali» (cfr. Krasner, ibidem, p. 497-510). Cfr. Santoro (1984b) sulla ripartizione in fasi del sistema BP ora in questo volume. Per la fase «duello» si vedano le pp. 88 e sgg.

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59. Cfr. ancora Brams (1985) pp. 19-16, nonché Freedman (1981), pp. 45-90. 60. Cfr. Ambrose (1983) e (1985) che, nella sua biografìa di Eisenhower, descrive bene il clima di smarrimento degli Stati Uniti messi di fronte alla quasi evidenza della parità strategica sovietica. 61. Cfr. F. Kaplan (1983), Freedman (1981) e Herken (1985). 62. Cfr. Schelling (1960) e (1966); Boulding (1962) e Kahn (1960) (1962) (1965) e, per le dottrine sovietiche, la raccolta di saggi curata da Silvestri (1975). 63. Sul concetto di «guerra difensiva» vedi Clausewitz (1832,1970) nonché Santoro (1984b). Per quello di «brinkmanship» vedi Schelling (1960) e (1966). 64. Cfr. Talbott (1979) e (1984) per un esame dettagliato delle trattative Salt I e II, nonché nella prima fase (fino al 1983) dei negoziati Inf e Start. 65. Cfr. Brodie (1946) che per primo la definì in questi termini, ma vedi anche Aron (1976) voi. 2. 66. Sul concetto di «regime» in generale si rimanda ancora a Krasner (1982). 67. Sul concetto di «regime» di deterrenza nucleare si veda ancora il saggio di Bonanate e Santoro (1986b), ora in questo volume. 68. Cfr. Payne e Gray (1984). 69. Per una sintetica trattazione del «rationale» del progetto Sdi si rimanda alla dichiarazione del Gen. Abrahamson del 9 maggio 1984, nonché al rapporto del «Comitato degli scienziati sovietici» del 1984, e inoltre agli articoli di Gray (1985) e di Brown (1985), pp. 50-64 e 75-90. La trattativa in corso fra Stati Uniti e Unione Sovietica sui due pacchetti negoziali, quello sulle armi offensive e quello sullo scudo difensivo, è quindi molto difficile proimo perché la loro difformità concettuale non consente una previsione accurata, in termini di sicurezza bipolare, delle conseguenze che l’eventuale accordo potrebbe avere sui rapporti politici e di potenza reciproci. L’accordo sovietico-americano per la graduale (e totale) eliminazione dei sistemi intermedi o di teatro (INF), stipulato 1’8 Dicembre 1987, a Washington, è stato raggiunto solo perché il collegamento fra negoziati sulle armi offensive e difensive strategiche, è stato prowisoriamenta sospeso. 70. L’emergenza delle «Medie Potenze» è un risultato della bipolarizzazione e della creazione della nuova categoria di attori nazionali detta delle «Superpotenze» che hanno messo in ombra le tradizionali «Grandi Potenze». Per una trattazione più estesa della questione vedi Caligaris e Santoro (1986), pp. 14-30, nonché Handel (1981) e relativa bibliografia nonché Santoro (1988). 71. La stentata navigazione del processo di unificazione europea nei suoi aspetti politici ed economico-monetari ha incontrato e incontra tuttora, nel campo della sicurezza e della difesa, degli ostacoli che sembrano insormontabili. In effetti, dopo il fallito esperimento della «Comunità Europea di Difesa» (Ced) nel 1954, non si è più avuto un dibattito approfondito in materia nell’ambito della Cee. Solo nel 1987, in correlazione con la prospettiva della eliminazione dei sistemi d’arma nucleari a raggio intermedio (LRINF e SRINF), il dibattito sulla sicurezza europea è tornato d’attualità, anche in termini di deterrenza conven­ zionale. Cfr. Abshire (1987).

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72. Gli esempi di questo tipo sono molteplici. Basterà qui ricordare la situazione del Golfo Persico fra il 1973 e oggi. Ma anche gli eventi occorsi nel Mediterraneo meridionale e orientale. Cfr. Cordesman (1984). Vedi altresì Baldwin (1979) e (1980) e relativa bibliografìa generale, Cfr. ancora Caligaris e Santoro (1986b) e Santoro (1988). 73. Sulle fonti concettuali della teoria dell’«arms control», si veda l’antologia curata da Brennan nel lontano (1961). 74. L’esempio più evidente di questa impotenza organica del movimento dei «non allineati» è data dalla sua sostanziale inefficienza operativa (tranne che nella palestra di retorica verbale delle Nazioni Unite) dopo la scomparsa dei suoi padri fondatori (Nehru, Tito, Nasser e Sukarno). L’incapacità del Gruppo dei 77, anche in quella sede, è stata poi dimostrata dal fallimento di tutti i grandi progetti di riordino strutturale del sistema intemazionale, dal New International Economie Order (Nieo) del 1974 ai Negoziati Globali Nord-Sud del 1980, fino ai tentativi successivi. 75. Perfino il concetto di «interesse nazionale», che è una componente essenziale per la definizione del concetto di «sicurezza nazionale», è ancora oggetto di contrastanti interpretazioni. Cfr. in DSS (1968), le voci dedicate a «National Security», «National Interest», ecc. 76. L*«insieme» mediterraneo è un caso-studio illuminante. L’area del bacino, infatti, non costituisce un «sistema» interattivo e organizzato, ma invece un «insieme» e quasi una «collezione» di attesi nazionali e di quasi-attori, articolati secondo sotto-insiemi o sotto-sistemi regionali indipendenti fra leso (Paesi Nato e Patto; Neutrali; Paesi Arabi; Israele; Superpotenze; ecc.). Le modalità interattive dei singoli attori all’intemo dei rispettivi sottosistemi non possono quindi essere le stesse di quelle che vengono impiegate nell’interazione fra attori appartenenti a sottosistemi diversi. In altri termini, le relazioni Italia-Francia non potranno mai essere dello stesso tipo di quelle che intercorrono fra l’Italia e la Libia. L’azione intemazionale dei singoli stati all’intemo di un contesto regionale complesso come questo, non può essere quindi sempre univoca e coerente, ma deve invece tener conto delle differenze di «appartenenza» (alleanze, ecc.) e al tempo stesso delle affinità «geopolitiche» di area (contigui­ tà, ecc.). Cfr. Santoro (1988). 77. Nel senso del primo «modello» (rational actor) interpretativo della politica estera di Allison (1971). 78. Cfr. Wilkenfeld et. al. (1980) e Callahan et. al. (1982). Taluno interpreta la politica della sicurezza come la sommatoria della politica estera e della politica di difesa di ciascuno stato nazionale. In effetti, la politica della sicurezza copre una parte del territorio della politica estera e anche una parte della politica di difesa, ma non ne esaurisce la portata che è molto più vasta. Il termine-concetto di «sicurezza» rappresenta infatti una «condizione oggettiva esente da pericoli, o garantita contro eventuali pericoli». Cfr. Devoto e Oli (1971), p. 2121. Si tratta cioè di uno status di assenza dei pericoli o delle minacce, che di per sé non ha una valenza positiva se non come condizione «préalable» per l’avvio di politiche attive di miglioramento e di sviluppo del sistema sociopolitico,

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economico e culturale di uno stato o di un’area regionale. Neppure il concetto di «sicurezza globale »nel senso inteso da Beaufre (1966) e da altri, modifica sensibilmente questa premessa logica. Cfr. IISS (1985) e (1986). Si rimanda altresì all’esame della relazione fra caratteri strutturali del sistema politico italiano e all’influenza del sistema intemazionale sulla politica estera, in Santoro (1987b). Cfr. Beyleveld (1980) per la letteratura anglosassone sul concetto di deterrenza nell’ambito della «criminal law». Per una critica severa al concetto di «deterrenza» nucleare Mad si rimanda a Payne (1982), mentre per un esame del concetto di «deterrenza», applicato alla guerra convenzionale in alternativa all’escalation nucleare, si veda il noto volume di Mearsheimer (1983). Cfr. Knorr (1976), a cura di, che tratta della storia del concetto di «National Security», mentre sulle origini e sul processo di determinazione graduale di quel principio negli Stati Uniti durante il biennio della neutralità 1940-41, si rimanda alla nostra monografia sull’argomento. Cfr. Santoro (1987a). Cfr. Meric (1963); Hofstadter (1956), Williams (1969), ecc. sulle radici culturali del «globalismo». Quasi per intero di fonte americana o britannica, come si evince anche da Smith (1985) e da Freedman (1981). Cfr. Olson e Onuf (1985) pp. 1-28. Cfr. Knorr (1976); Jordan e Taylor (1981 e 1984). Come nel caso di Uscentcom, cioè del Comando di teatro istituito dal Presidente Carter e definito dal Presidente Reagan, relativo all’area di controllo detta «centrale» che copre i paesi del Medio Oriente e quelli asiatici e africani che si specchiano nell’oceano Indiano, ovvero nel caso degli accordi bilaterali di sicurezza con singoli paesi (Egitto, Somalia, Israele, ecc.). L’ordinamento della «National Security» e dei «National Interests» secondo questa graduatoria è in Nuechterlein (1973) pp. 1-19, nonché (1979) e anche (1983). Su questa visione geopolitica globalista della concezione statunitense si veda ancora Santoro (1987a). In particolare i capp. 7-10 che prendono in considera­ zione la progressiva estensione dell’area d’interesse degli Stati Uniti in relazione aU’evolversi degli avvenimenti bellici in Europa, prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbor. Cfr. su questo concetto Keohane (1984). Cfr. Nye Jr. (1984) a cura di, sulle modalità di formazione e di esecuzione della politica «sovietica» degli Stati Uniti, nonché Keohane (1984) sui caratteri del rapporto «egemonico» delle Superpotenze fra di loro e nei rispettivi sottosistemi di blocco. Cfr. Liska (1978) sulla definizione del «continuum» EmpirelEquilibrium. □ «caso» dell’Italia e dell’«insieme» mediterraneo, inteso come sottosistema di «sicurezza regionale» di questo tipo è in Caligaris e Santoro (1986b), nonché in Santoro (1988).

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93. Come sarebbe stato invece il caso qualora il New International Economie Order (Nieo) promosso dal Gruppo dei 77, ovvero il movimento dei paesi «non allineati», avessero avuto maggiore successo. 94. Il «sistema» mediòrientale può essere per comodità analitica ripartito in due «sottosistemi», definibili rispettivamente come «mediterraneo» e «persico». Il sottosistema mediterraneo è centrato sul «fuoco» costituito dallo Stato d’Israele, che rappresenta la cerniera di tutte le contraddizioni esistenti nell’area. Il sottosistema «persico», invece, ha il suo «fuoco» nell’Iran, che è di gran lunga il maggiore attore della regione del Golfo. Svolge funzioni di «cerniera» fra i due sottosistemi l’Iraq, la cui collocazione geostrategica diventa la chiave di volta della loro interazione. Di qui la particolare instabilità e funzione geopolitica dello stato irakeno. Si noti altresì che entrambi i «fuochi» del sistema mediorientale sono rappresentati da paesi che non appartengono alla cosiddetta «nazione araba» (Israele a Iran), ma che esercitano delle funzioni potenziali di controllo/egemonia sulla moltitudine dei paesi arabi della regione. Cfr. ancora Cordesman (1984) per il sottosistema «persico», nonché Moss Helms (1984) sul ruolo dell’Iraq. 95. Un esempio interessante di questa sub-ripartizione dei compiti all’intemo di un sottosistema di blocco è dato dalla complessità delle funzioni assegnate agli stati membri della Nato operanti sul Fianco Sud dell’alleanza (Italia, Grecia, Turchia), e dalle eventuali responsabilità che essi potrebbero assumere all’inter­ no del bacino mediterraneo, anche nelle cosidette «outer areas», con o senza l’approvazione formale degli organi dell’alleanza. Cfr. a questo proposito Komer (1986), Caligaris e Santoro (1986a) sul Fianco Sud e sulle possibili «missioni» dell’Italia nell’area. Un altro esempio che risponde bene a questo schema è dato dal ruolo «regionale», e perfino «intercontinentale», attribuito negli ultimi dieci anni a Cuba, sia in America Centrale che in Africa, dalla divisione dei compiti fra paesi del sottosistema sovietico. Cfr. Simon (1985); Arlinghaus e Baker (1986). 96. Su questo punto si veda il nostro saggio sulle teorie dell’«interdipendenza» ora in Santoro (1984a). 97. Per l’analisi del caso-studio italiano nell’interazione fra sistema politico intemo e sistema intemazionale, con la politica estera intesa come cerniera fra i due livelli, si rinvia al nostro Santoro (1987b). 98. Cfr. la vasta letteratura sui diritti umani e in particolare Papisca (1986). 99. Sul concetto di «penetrazione politica», nella teoria delle relazioni intemazionali vedi Rosenau (1966) (1969). Sul rapporto intemo/estemo cfr. il saggio di L. Bonanate in Bonanate e Santoro (1986a), pp. 85-107, nonché Putnam (1986) e Panebianco (1986). lOO.Si pensi alle forme specifiche di «regime intemazionale» nel sistema bipolare, fra le quali primeggia, nel campo della sicurezza, quella definita come il «Regime di deterrenza nucleare (Rdn), che fa da rete generale di protezione alla bellicosità implicita die sistema intemazionale bipolare. Cfr. ancora, Bonanate e Santoro (1986b) cit., pp. 17-45, ora in questo volume.

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101.Per un’analisi del caso studio italiano relativamente a questo processo di penetrazione reciproca, si rimanda ancora a Santoro (1987b), pp. 109-132.

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