Il senso del nudo
 8884836158, 9788884836151

Table of contents :
nudity, nakedness, Martin Heidegger, Jean-Luc Nancy, aesthetics

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l’occhio e lo spirito estetica, fenomenologia, testi plurilingui collana diretta da Mauro Carbone L’occhio non è solo occhio. Vedere è più che soltanto vedere. Vedere è anche sentire, vedere è già pensare. Per questo l’arte dà da pensare. Per questo l’estetica non pensa solo l’arte, ma il sentire stesso. Per questo sta al fondo dell’intera filosofia. La fenomenologia non smette d’insegnarlo. Il dibattito attuale d’affermarlo. Questa collana cerca di darne conto. Con l’occhio e lo spirito all’Europa e oltre.

COMITATO SCIENTIFICO Renaud Barbaras (Université Paris I-Sorbonne), Patrick Burke (Seattle University), Fabio Ciaramelli (Università degli Studi di Napoli “Federico II”), Elio Franzini (Università degli Studi di Milano), Jacques Garelli (Université d’Amiens), Leonard Lawlor (The University of Memphis), David Michael Levin (Northwestern University), Isabel Matos Dias (Universidade de Lisboa), Franco Paracchini (Université de Genève), Mario Teodoro Ramírez Cobián (Universidad Michoacana de San Nicolás de Hildalgo), Pierre Rodrigo (Université de Bourgogne), Gabriele Scaramuzza (Università degli Studi di Milano), Hans Rainer Sepp (Univerzita Karlova v Praze), Philippe Van Haute (Katholieke Universiteit Nijmegen).

TOMMASO ARIEMMA

IL SENSO DEL NUDO

Mimesis

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INDICE

PREMESSA

p.

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INTRODUZIONE I. L’ENIGMA DEL VELO II. INVENZIONI DEL NUDO III. POETICA DEL NUDO IV. LA VERTIGINE DELLA NUDITÀ V. MACCHINA NUDA CONCLUSIONE

p. p. p. p. p. p. p.

11 17 33 43 53 65 73

APPENDICI I. LA NUDITÀ DI VENERE II. NUDITÀ E GIOCO IN GEORGES BATAILLE

p. 79 p. 89

Volume pubblicato con un contributo del Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e della Carlo Rendano Association.

a Franco, Katià e Valeria

PREMESSA

Il contenuto del presente testo intorno al senso della nudità è il frutto di una ricerca condotta in forma seminariale presso la sede del Trip della Carlo Rendano Association dal 13 gennaio al 1 giugno 2007. La ricerca è stata strutturata in otto incontri tematici sotto il tema-guida “Pensare l’esposizione”, il cui calendario è reperibile sul sito dell’associazione www.cra.na.it. Questo ciclo di incontri, che ha visto tra i suoi partecipanti studiosi e studenti di filosofia, artisti e storici dell’arte, psicoanalisti, antropologi, attenti curiosi, nonché esperti di diverse discipline, ha offerto alla mia ricerca un pubblico variegato e stimolante, e dunque non pochi spunti per gli argomenti filosofici esposti in questo libro. Colgo qui l’occasione per ringraziare il presidente dell’Associazione, Franco Rendano, per aver creduto e sostenuto questa ricerca dall’inizio alla fine. Gran parte del contenuto di questo volume ha potuto, poi, parallelamente alla ricerca svolta presso il Trip, essere discusso durante il corso di Estetica (Università degli Studi di Napoli “Federico II”) della Prof.ssa Clementina Gily, cui va la mia profonda gratitudine. Il testo inoltre offre in appendice relazioni tenute in occasione di convegni di studio, che hanno influito positivamente sull’articolazione del contenuto nel suo complesso. 9

In questo modo, la ricerca ha potuto entrare ed uscire dall’Università, logorando confini ormai inadeguati per il sapere filosofico, che necessita sempre più di un affrancamento produttivo dallo specialismo e dall’accademismo. Mai come oggi la filosofia deve esporsi, ritrovare la metropoli e il tessuto sociale vivo e concreto. Il suo domandare non può separarsi dall’esposizione.

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INTRODUZIONE

La questione della nudità […] quando c’è lui, mi sembra sempre di essere nuda. Mi ha preso per il braccio, aveva l’aria cattiva, e mi ha detto: “Tu mi hai nella pelle!”. E io avevo paura, ho detto: “Si”.1

Le parole del personaggio femminile del racconto di Sartre sembrano superflue: la sua nudità ha già risposto per lei. Perché la nudità è ciò che fa sì che ogni cosa accada, che ogni cosa sia sentita sulla pelle, attraverso i suoi pori, come occhi senza palpebre.2 Siamo nudi, siamo esposti, ma non ne sappiamo nulla. In ogni istante veniamo distratti dalla nostra nudità, da questa esperienza collettiva, fondamento di ogni moltitudine, perché per essere nudi bisogna essere sempre più di uno. Veniamo distratti da questa esperienza sovversiva, perchè niente è più temuto della nudità nel momento in cui si fa vertigine. 1 2

J.-P. Sartre, Il muro (1939), trad. it. di E. Giolitti, Einuadi, Torino 1995, p. 93. La bella espressione è di P. Quignard, citata in J. -L. Nancy, All’ascolto (2002), trad. it. di E. Lisciani Petrini, Cortina, Milano 2002, p. 24.

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Quando Baudelaire annuncerà il suo libro più crudele, più inquietante, non potrà avere altro titolo che Il mio cuore messo a nudo. Oggi, sembra che la nudità sia oggetto delle filosofie più radicali. Un buon segno, dato che, come emergerà nel corso della trattazione, fino a quando non pensiamo i corpi nudi, esposti, che agiscono, soffrono, desiderano, non abbiamo mai veramente cominciato a pensare il nostro mondo. La questione della nudità potrebbe apparire frivola o marginale all’interno di una riflessione filosofica. A ben vedere, però, tale questione reclama sempre più attenzione, non solo per la carica spettacolare che oggi riveste il giovane corpo nudo, ma soprattutto perché la nudità è progressivamente divenuta oggetto di vivo interesse all’interno del dibattito filosofico contemporaneo. Espressioni come quella di “nuda vita” che tanta fortuna ha dato al pensiero di Giorgio Agamben,3 ricognizioni come quelle di François Jullien4 sull’essenza del nudo occidentale in relazione al pensiero orientale, riflessioni sull’esposizione come quelle di Jean-Luc Nancy,5 pongono con forza la questione della nudità all’attenzione di un pensiero che vuole rendere conto del proprio tempo, ma soprattutto della propria tradizione, poiché non si può avviare una riflessione critica sul nudo se non partendo dalla sua invenzione metafisica. Rispondere della nudità: come diverrà chiaro nel corso della trattazione, non vi è questione filosofica più intensa e, 3 4 5

Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995. Cfr. F. Jullien, Il nudo impossibile (2001), trad. it. di M. Tommasi, Sossella, Roma 2003. Cfr. J. -L. Nancy, Il pensiero sottratto (2001), trad. it. di M. Vergani, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

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nello stesso tempo, più imbarazzante. Fin dalle sue origini, la filosofia ha strategicamente aggirato la questione dell’esposizione, dell’essere al mondo, nudi. Alla sua origine vi sarebbe, infatti, una singolare rimozione della nudità. Singolare, perché la filosofia non ha cancellato la nudità. Quasi come se si trattasse di un ordigno, la filosofia, a partire da Platone, non ha fatto che disinnescare l’effetto del nudo, ovvero la minaccia della purezza che questo implicava. Bisognava tamponare la nudità, l’esposizione al mondo, come se si trattasse di una ferita da cui il sangue sgorga a fiotti. La ricerca della pura forma, dell’essenza, lo esige. Più che di nozze, tra la filosofia e la nudità si è trattato subito di un divorzio, di un curioso divorzio, perché, in modi differenti, essa non ha fatto che parlare della nudità. Eppure, pochi sanno che quest’ultima è sempre stata una nuova compagna, più austera e composta, rispetto a quella nudità che la filosofia non ha realmente accettato: la nudità dell’esistenza, il suo contatto con l’altro. La filosofia rimpiazza la nudità con un Nudo ideale, oppure, considerandola come mancanza interrompe l’apertura, le contaminazioni, le relazioni che la nudità implica, e la dichiara questione sepolta. Il mondo dei corpi Parlare della nudità significa parlare dei corpi, al plurale. Non del corpo in generale, che non esiste, ma dei corpi che fanno il mondo, tutto il mondo che c’è. I corpi sono sempre esposti: toccati, esibiti, costruiti, mutilati, goduti, nascosti, umiliati, morti, vivi, pesanti. Essere al mondo significa fare esperienza della moltitudine delle esposizioni. 13

Tutto ciò che accade, accade tra i corpi, nei corpi. Non c’è corpo che non venga al mondo in un altro corpo, come il seme nella terra, come il bambino nel ventre. Non c’è corpo che non sia grembo, che non contenga corpi, che non introduca in sé corpi ancora. La nudità dei corpi è il loro essere continuamente attraversati dai corpi stessi, ed è ciò che si tratta di pensare. Non c’è, in queste parole, nessun risentimento verso la filosofia come passione della verità. Ma ci pare che questa passione sia stata tradita, e che essa appaia sporadicamente nelle pagine dei filosofi, non a caso quando il pensatore sembra mettersi a nudo, schierarsi dalla parte della nudità. La verità non è altro che la nudità, come ci ricorda il suo nome greco aletheia (disvelamento). Quando c’è esposizione, c’è verità. “È tutto quello che abbiamo”. Quando trattenni il respiro per guardarlo in faccia capii che lo amavo: percepivo un suono, come l’attimo di silenzio prima del sorgere del sole, o il ticchettio della pioggia limpida. “Che dici, posso toccarti un’altra volta?”. “Se vuoi”. “Lo voglio”. E per un momento perfetto “lo voglio” fu la verità assoluta.6

La nostra ricerca si muove pertanto nella direzione del domandare indicata da Heidegger (anche se mantiene, nei confronti del suo pensiero, delle riserve decostruttive) che suggeriva di riattivare il senso greco della verità come aletheia, dunque come nudità, piuttosto che seguire il senso di veritas, che indicava il contrario, ovvero «la chiusura e la copertura […] riparo finalizzato all’assicurazione-contro».7 6 7

A. L. Kennedy, Stati di grazia (1997), trad. it. di F. Aceto, Minimum Fax, Roma 2007, p. 60. M. Heidegger, Parmenide (1982), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1999, p. 106.

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Heidegger, a partire dalla Dottrina platonica della verità e in modo compiuto nel corso dedicato a Parmenide del ‘42/43, nota come un mutamento nell’essenza della verità fosse già operante in seno al mondo greco e in particolare con Platone. Seguendo Heidegger, allora, l’origine della filosofia, e in particolare del regime filosofico inaugurato da Platone, consiste nel rimuovere la relazione tra verità e nudità, confinando quest’ultima all’interno di ambiti marginali o rendendola oggetto di una particolare teoria dell’arte, di cui discuteremo all’interno della trattazione.

Fino alle stelle Phisiognomia coelestis (Per Adalgisa) è un’opera di Claudio Parmiggiani del 1975. Un corpo nudo di donna, di spalle, seduto, affianca l’immagine di un cielo stellato. Tra i due, si direbbe, non vi è alcuna somiglianza. Ogni paragone cadrebbe. Tra Adalgisa e le stelle. La donna, la si direbbe nuda, eppure il viso non lo vediamo. C’è qualcosa nel nudo che funziona da velo. Come la schiena, il corpo stesso, di Adalgisa. L’opera di Parmiggiani è stata esposta al Centro Pompidou di Parigi, all’interno di una manifestazione sul tema dell’impronta. I nei sulla schiena della donna evocano il cielo stellato, come se si trattasse di una traccia. Del legame tra il corpo e le stelle. Il mio corpo si estende fino alle stelle8: è una frase del filosofo Maurice Merleau-Ponty. Una frase smisurata. A una prima impressione, una cosa stupida, inverosimile. Soprat8

Cfr. F. Leoni, «Il mio corpo va fino alle stelle», «Anterem», 73, 2006, pp. 36-38.

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tutto per chi, recluso, isolato, non raggiunge i propri cari, la vita vera. Soprattutto per chi, in un modo o nell’altro, sa di dover morire, che la sua morte è imminente. Sa che sarà sgozzato, ferito a morte o divorato da una malattia. Il suo corpo non arriverà nemmeno fino a domani. Come potrebbe sfiorare le stelle? Forse la frase del filosofo va intesa in un altro modo. Le stelle sono la cosa più lontana a vedersi, eppure l’occhio le vede, la mente le percepisce. In un modo o nell’altro raggiungiamo le stelle, e pure queste non disdegnano di raggiungerci. La frase enuncia, implicitamente, pure qualcosa di comune sia al corpo che alle stelle. Forse la ragione più profonda del corpo stesso: l’esposizione. Un corpo si estende fino a toccarne un altro: anche a grande distanza. Un corpo emette se stesso: si mette fuori, si esprime. Si estende. Il mio corpo si estende fino alle stelle, con gli occhi, con la mente, con tutto ciò che ha per toccare e raggiungere. Le stelle, anch’esse, non stanno lì ferme, immobili: con la luce ci toccano e si consumano. Ciò che vi è di più straordinario in un corpo è la strategia miracolosa della sua estensione. Fin dove può arrivare un grido, un motivo, un pensiero? Fin dove può arrivare un contagio? Niente è al riparo, ogni cosa può essere raggiunta, ogni cosa può raggiungerci. È l’inquieto senso dell’infinita disponibilità a lasciarsi toccare che ogni corpo esibisce. È questo il senso del nudo.

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I. L’ENIGMA DEL VELO

1. Corpi velati I corpi che oggi inquietano l’Occidente, apparentemente, sono tutt’altro che nudi. I corpi velati dal burqa, in modo esemplare, pongono interrogativi fondamentali per comprendere la dinamica dell’esposizione. Al di là delle retoriche femministe, al di là delle retoriche sulle violazioni di diritti umani e quant’altro, il velo del burqa mostra più di ogni altro velo quanto, per noi, quest’ultimo non sia fatto solo per proteggere. Anzi, esso fa ben altro che proteggere. Perché inquieta. L’effetto del velo è innanzitutto un effetto di ostensione. Si direbbe che, per noi occidentali, il velo che copre un volto abbia, senza dubbio, un significato rilevante. La nostra cultura nega la nudità e l’esposizione, scongiurandone in ogni modo il potere, eppure essa pretende il volto nudo secondo un’economia della nudità, apparentemente contraddittoria: noi ci muoviamo a volto scoperto, mentre teniamo ben celate altre parti del corpo, soprattutto gli organi sessuali. Tuttavia, contrariamente a quanto possa sembrare evidente, il volto scoperto non concede nulla alla nudità, perché il faccia a faccia è sempre una forma di controllo, perché solo in questo modo uno sguardo può intercettare le linee di fuga 17

che un altro sguardo apre: gli occhi, le espressioni del viso, e tutto ciò che sostiene lo sguardo in un corpo, inseguono sempre l’avvenire. Catturare lo sguardo serve una particolare strategia di individuazione, che, venendo meno, farebbe dell’altro qualcosa di spettrale. Non vedere chi ci guarda crea angoscia, inquietudine, ci fa sentire vulnerabili, al di là degli altri elementi che ogni velo sempre ostende (un’altra cultura, un’altra legge).

2. Tramare Il velo è stato in Occidente sempre oggetto di scongiuro e, lo vedremo, di un curioso trattamento. Anche perché il velo, ad un’analisi approfondita, nasconde il segreto di ogni azione autentica. Un velo è la condizione dell’azione stessa, dell’azione che vuole sottrarsi ad ogni calcolo. Fin dalle lacrime. Insopportabili, esse fanno del nostro volto una maschera. «Ulisse rimase nascosto agli altri in quanto versante lacrime».9 Così Heidegger traduce il verso dell’Odissea di Omero e spiega come intorno a questo volto «si sia depositata una velatezza, la quale fa sì che gli astanti siano per così dire separati da Ulisse».10 Heidegger sembra dirci che proprio quando piange l’uomo non viene visto, nel senso che intorno a lui si raccoglie un potere di agire che non si lascia intravedere. Heidegger ricorda ancora come simile sia un’altra situazione, anche se 9 10

M. Heidegger, Parmenide, cit., p. 67. Ivi, p. 73.

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apparentemente diversa: «Un altro passo dall’Iliade (XXII, v. 277) nomina la medesima situazione. Nel duello con Ettore, Achille al primo tiro di lancia ha mancato l’avversario, poiché questi l’ha schivato. La lancia si è conficcata nel terreno […] Atena, non notata da Ettore, rende la lancia ad Achille. Ma se si pensa in modo greco si deve dire: Atena rimase nascosta a Ettore nel suo rendere la lancia. Anche in questo caso è il termine “nascosta” a definire il tratto fondamentale del comportamento della dea, giacché è anzitutto il tratto del velamento che dà al suo particolare agire il carattere del suo “essere”».11 L’intervento del dio, l’intervento improvviso, raro, non viene visto arrivare, come se un velo lo circondasse. È il modo in cui Atena rende la lancia ad Achille a renderla nascosta. Un velo c’è sempre. Velo è il corpo stesso quando cela pensieri, sogni, desideri. Un corpo trema, non fa che tremare, eppure soprattutto trama, non smette di tramare. Cartesio fu schietto: larvatus prodeo, avanzo mascherato. Forse aveva intuito la condizione di ogni autentico agire: di non lasciarsi vedere, di non lasciarsi vedere arrivare. Rilke diceva che gli amanti non fanno che velarsi l’un l’altro il proprio destino. Curioso, dato che niente come l’amore coinvolge la nudità. Il velo, dunque, non la contraddice. 3. Benvenuti nella pornografia del reale L’esperienza occidentale della realtà ha sempre rifiutato il velo, il velo che lascia intendere, il velo che trama con la nudità, che annuncia e ci costringe a decifrare. Questo rifiu11

Ivi, pp. 67-68.

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to si è esteso al punto che la nostra esperienza della realtà e del mondo acquista sempre di più i caratteri dell’esperienza pornografica, di una realtà integrale, esplicita fino all’orrore. Con la solita acutezza che lo contraddistingue, Baudrillard ha scritto: “Chiamo ‘Realtà Integrale’ il perpetrare sul mondo un progetto operazionale senza limiti: che tutto divenga reale, che tutto si faccia visibile e trasparente, che tutto sia ‘liberato’ […] Che non ci sia più nulla di cui non ci sia nulla da dire”.12 La ricerca della realtà integrale, il desiderio dell’integro e dell’integrità, ha contraddistinto tutto il sapere dell’Occidente come sapere della totalità, conducendo all’esibizione pornografica del reale, dove tutti i veli sembrano caduti, e dove soprattutto ci si sente sempre più distanti da una realtà che viene rifiutata oppure osservata da “guardoni”. In definitiva, si diviene estranei, assicurati: rendiamo grazie per non essere stati fatti partecipi di massacri, stragi, ingiustizie, a cui partecipiamo comunque, ma solo nella misura in cui a tali eventi possiamo dare una definitiva esorcizzazione, attraverso il rituale del commento, del distacco critico, del disgusto. 4. Il velo inquietante Indagare la reazione occidentale dinanzi al velo significa indagare come e in che modo la nostra tradizione ha potuto isolare il nudo. Il velo ci inquieta, oggi come agli albori della tradizione filosofica occidentale. Quest’ultima vorrebbe i veli ormai estinti, o quantomeno i suoi effetti: da millenni non ha desi12

J. Baudrillard, Il Patto di lucidità o l’intelligenza del Male (2005), trad. it. di A. Serra, Cortina, Milano 2006, p. 11.

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derato altro. Essa prova nei confronti del velo un’ancestrale inquietudine. Non potrebbe essere più esemplare la novella di Hawthorne, Il velo nero del pastore, dove un velo nero che copre il volto può turbare l’intera vita di una comunità: Il signor Hooper, una persona dall’aspetto distinto, sui trent’anni, sebbene ancora scapolo era vestito con tutto il decoro confacente ad un sacerdote, come se una premurosa moglie gli avesse rinsaldato il colletto e rimosso la polvere della settimana dal vestito domenicale. Nel suo aspetto non vi era che una cosa notevole. Stretto attorno alla fronte gli pendeva davanti alla faccia un velo nero, che era mosso dal respiro del pastore.[…] Con quella cupa ombra dinanzi agli occhi, il buon signor Hooper continuò dunque a procedere, come al solito, lento e tranquillo, un po’ curvo e con lo sguardo rivolto a terra, siccome usano le persone astratte, senza però dimenticare di rivolgere un gentile cenno di saluto a quanti dei suoi parrocchiani ancora si trovassero sui gradini della chiesa. Ma questi erano così stupefatti, che quasi si dimenticavano di rispondergli. – Mi pare quasi impossibile che il volto del nostro buon signor Hooper si trovi dietro quel velo di crespo, – disse il sacrestano. – È una cosa che non mi piace, – mormorò una vecchia mentre zoppicando entrava in chiesa. – Si è trasformato in qualcosa di tremendo, con quel semplice velo che gli nasconde la faccia.13

In ogni modo, lo vedremo, la tradizione occidentale ha tentato di farla finita con il velo. Perché il velo, ogni velo, testimonia che qualcosa non funziona nella logica occidentale, a partire dal suo principio fondamentale di non contraddizione. Il velo, infatti, mostra e nasconde, mostra più che

13

N. Howthorne, Il velo nero del pastore (1836), in L’io e l’altro. Racconti fantastici sul doppio, a cura di G. D. Bonino, Einaudi, Torino 2004, pp. 58-59.

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nascondere, non si oppone affatto alla nudità, anzi trama con essa. Scrive acutamente Jacques Derrida, ossia il filosofo che più di ogni altro ha pensato in modo radicale il fenomeno del velo: […] Andare a toccare “quello” che si chiama “velo” significa andare a toccare tutto. Non lascerai niente di intatto, sano e salvo, né nella tua cultura, né nella tua memoria, né nella tua lingua, dall’istante in cui comincerai a prendertela con la parola “velo”.14

Un velo non si toglie mai, eppure, nello stesso tempo, non fa che togliersi. Il velo indica, fa da traccia, depista, ogni volta mostra. È essenziale all’apparizione stessa di qualsiasi cosa: Ah mio caro, mio caro, farla finita con il velo è sempre stato il movimento stesso del velo: s-velare, svelarsi, riaffermare il velo nello svelamento. […] Vuoi farla finita con il velo, e ci riuscirai senza dubbio, ma senza farla finita con lui. Ti sopravviverà sempre.15

Le parole di Derrida invitano implicitamente a superare la dialettica nudo/velo, la loro opposizione, e a considerare la nudità immanente al velo stesso, non al di là, né dietro. È il fatto che il velo sia, in un certo senso, nudo, che esso mostri oscuramente, a inquietare il desiderio di trasparenza, ossia il desiderio di integrità, dell’avventura occidentale della conoscenza. La psicoanalisi esistenziale di Jean-Paul Sartre arrivava addirittura a tematizzare un complesso di Atteone, ossia un 14 15

H. Cixous, J. Derrida, Veli (1998), trad. it. di M. Fiorini, Alinea, Firenze 2004, p. 25. Ibidem.

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complesso che descrive il desiderio profondo, metastorico, di farla finita con il velo: Si strappano i veli della natura, la si svela, (cfr. Il velo di Sais, di Schiller) ogni ricerca comprende sempre la ricerca di una nudità che si mette in evidenza scartando gli ostacoli che la coprono, come Atteone allontana i rami per meglio vedere Diana al bagno. D’altra parte la conoscenza è una caccia. Bacone la chiama la caccia di Pan. Il sapiente è un cacciatore che sorprende una candida nudità e che la viola con il suo sguardo. Così l’insieme di queste immagini ci rivela qualche cosa che chiameremo il complesso di Atteone.16

Il complesso di Atteone, ovvero la ricerca di una pura nudità e il desiderio dell’assenza del velo, deve essere inserito in una più ampia e complessa articolazione di atteggiamenti nei confronti del velo. Il riferimento a Schiller e al velo di Sais, fatto da Sartre nella citazione, è decisamente significativo. Il velo di Sais e i differenti atteggiamenti nei suoi confronti, che a breve discuteremo, sono esemplari del desiderio della tradizione occidentale di farla finita con il velo. Strappare il velo o arrestarsi al velo sono due atteggiamenti opposti solo all’apparenza. Sono due modi di farla finita con il velo. Con il velo può cessare tutto, oppure la sua sottrazione può farci accedere alla verità. Possiamo arrestarci ad esso, o privarcene. In entrambi i casi, bisognerà farla finita. L’importante è che non bisogna farlo funzionare.

16

J. -P. Sartre, L’essere e il nulla (1943), trad. it. di G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 642.

23

L’ambiguo atteggiamento di farla finita con il velo non fa che preservare l’integro, l’integrità del velo o del nudo, la loro dialettica e la loro opposizione. O il velo o il nudo. Ma il velo, la sua logica, dice altro. Il doppio atteggiamento della tradizione occidentale (l’arresto, la negazione), che mira a disinnescare il potere del velo, trova due figure esemplari nelle opere di Schiller e di Novalis, proprio a proposito dell’immagine velata di Sais (la dea egizia Iside), che rappresenta la natura nella sua totalità, la sua verità. Questi i versi di Schiller: […] una gigantesca immagine velata colpì la vista del giovane. Stupito volge lo sguardo alla guida e dice: “Che cosa mai si cela dietro questo velo?” “La verità” è la risposta. […] Egli le si accosta con passo incerto; subito la mano sfrontata vuole toccare il sacro, brividi e vampate percorrono il suo corpo e lo respingono con mano invisibile. Sciagurato che cosa intendi fare? Grida Nel suo intimo una voce devota. Intendi forse tentare il santissimo? Nessun mortale, disse la bocca dell’oracolo, solleverà questo velo finché io non lo solleverò. Ma quella stessa voce non ha anche aggiunto: Chi solleverà questo velo vedrà la verità? “Qualunque cosa ci sia dietro io lo sollevo”. (Grida questo a gran voce). “Voglio vederla”. Vederla! Gli rimanda, schernendolo, una lunga eco. Lo dice ed ecco ha sollevato il velo. Allora, chiederete, che cosa gli è apparso?

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Non lo so! Privo di sensi e pallido, così l’han rinvenuto l’indomani i sacerdoti steso ai piedi del basamento di Iside. Quanto qui egli ha visto ed appreso La sua lingua non l’ha mai confessato. Per sempre La serenità della sua vita era svanita, una pena profonda lo trascinò ad una tomba precoce.17

Se l’esito della spoliazione in Schiller è tragico, la versione dell’esperienza del velo di Iside in Novalis sembra avere, invece, tutt’altro esito: positivo, neutralizzante. Se Schiller ammonisce di arrestarsi al velo, pena la morte, Novalis scrive: «A uno riuscì – egli sollevò il velo della dea di Sais – Ma che cosa vide? vide – miracolo dei miracoli – Se stesso».18 Il motivo dell’immagine velata di Iside non riguarda però solo Schiller o Novalis. Sorprendentemente, esso costituisce un motivo fondamentale della tradizione occidentale, ed è ciò che ci proponiamo di analizzare. 5. Aporia del pudore: la natura velata «La natura ama nascondersi»: è questa, secondo Pierre Hadot, l’interpretazione tradizionale dell’enigmatica sentenza di Eraclito, physis kryptesthai philei, nonché il principio-guida del suo volume Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura. 19 La sentenza, come apprendiamo da Diogene 17 18 19

F. Schiller, L’immagine velata di Sais, in Novalis, I discepoli di Sais (1798-99), a cura di A. Reale, Bompiani, Milano 2001, pp. 234-239. Novalis, I discepoli di Sais, cit., p. 225. P. Hadot, Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura (2004), trad. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2006.

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Laerzio, appare nel libro in cui Eraclito aveva raccolto tutto il suo sapere e che andò a deporre nel tempio della dea Artemide di Efeso. Allo stesso tempo divinità della vita e della morte, della natura in generale, Artemide, secondo la mitologia, la si incontra tra i boschi in qualità di cacciatrice. Essa è, essenzialmente, ciò che sorprende la vita e la rende esposta. Esposta innanzitutto alla luce, in quanto Artemide, oltre alla lira e all’arco, stringe nelle mani delle fiaccole. La luce, origine delle cose visibili, non può a sua volta essere vista, pena l’accecamento. Si dà solo una via indiretta, velata. Che la natura si mostri essenzialmente velata è un’immagine di pensiero che domina tutta la tradizione occidentale fino a Merleau-Ponty ed è ciò che il testo di Hadot mostra esplicitamente come costante. Un principio di pudore sembra, allora, caratterizzare l’idea di natura. Idea che non manca certo di rappresentazioni pittoriche. Ora impersonificata dalla divinità egizia Iside, ora da Artemide di Efeso – la sua versione greca20 –, un motivo iconografico riguardante la natura è certo dominante: una donna nuda, spesso con molti seni, gonfi di latte, a volte in compagnia di un avvoltoio o di altri animali, coperta parzialmente da un velo. A partire dal Quattrocento, questo motivo diviene sempre più diffuso, per raggiungere il suo apice nel Settecento e nell’Ottocento: tale motivo ha nel testo un ruolo centrale, oggetto di molte analisi. Nell’Iconologia di Jean-Baptiste Boudard del 1759 si legge: La Natura, essendo assemblaggio e la perpetuazione di tutti gli esseri creati, viene raffigurata come una giovane donna la

20

Cfr. Ivi, p. 229.

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cui parte inferiore è stretta in una guaina ornata di molte specie animali terrestri, mentre sulle braccia stese si vedono molte specie di uccelli. La testa coperta da un velo significa, secondo l’opinione degli egizi, che i più reconditi segreti della Natura, sono riservati al Creatore.21

Il lavoro di Hadot è prezioso proprio in quanto mostra la tendenza più o meno uniforme della tradizione occidentale a considerare la natura essenzialmente velata, attraverso l’immagine di una donna. Molto significativa è l’affermazione di Nietzsche secondo cui si dovrebbe onorare maggiormente il pudore con cui la natura si è nascosta: è una donna che ha buone ragioni per non far vedere le sue ragioni.22 Nonostante abbia presente la sentenza di Nietzsche,23 Hadot non ci dice quasi nulla di questa femminilità, né della femminilità del femminile in generale. Fa solo un rapido accenno al fatto che la natura venga personificata, qualora il lettore distratto, dando una rapida occhiata alle molte immagini di cui il libro è corredato, non se ne fosse accorto. Tuttavia sulla donna tace del tutto o quasi. È significativo. Tale reticenza rientra forse anch’essa in quel principio di pudore che Hadot rivela implicitamente, senza mai tematizzarlo, in quanto ne è a sua volta dominato. Acutamente Derrida ha sottolineato, invece, come il velo rimandi ad un’operazione femminina.24 Su questo tema Freud ha scritto parole esemplari e significative, che Derrida non manca di registrare e rielaborare in modo originale: 21 22 23 24

J.-B. Boudard, Iconologie tirée de divers auteurs, Parma 1759, Wien 17662 , III, p. I. cit. in P. Hadot, op. cit., p. 232. Cfr. P. Hadot, op. cit., p. 282. Cfr. ivi, pp. 181-194. Cfr. J. Derrida, Sproni (1978), a cura di S. Agosti, Adelphi, Milano 1991, pp. 56-57.

27

[…] le donne hanno scoperto (erfunden), messo allo scoperto, almeno una “tecnica”, quella di intrecciare e del tessere. Motivo inconscio di questa “scoperta”? Dissimulare, velare “il difetto degli organi genitali”. Hanno dunque scoperto allo scopo di velare. Hanno svelato il mezzo per velare. In verità, a guardar meglio, al di sopra della spalla di Freud, non hanno scoperto niente, non hanno fatto altro che imitare, perché la Natura, nostra signora la “Natura”, facendo crescere il pelo pubico durante la maturità aveva già “offerto” loro, dice lui, il modello, il paradigma (Vorbild) per quella che, insomma, non fu altro che “imitazione” (Nachahmung). Questo pelo pubico nasconde già, dissimula, vela (verhüllt) gli organi genitali. Per questa “tecnica” femminile, un solo “passo”, allora, era ancora necessario: far aderire gli uni agli altri, intrecciare i fili o le fibre (Fasern) piantate sul corpo, conficcate nella pelle, scarmigliate, aggrovigliate, infeltrite (verfilzt).25

Tale velare, con tecnica femminile, perturbante, violerebbe già sempre ogni principio di pudore, e la stessa sentenza di Eraclito, la natura ama nascondersi, direbbe in verità di un certo potere femminile del velo, senza tuttavia che questo implichi alcuna caratterizzazione di genere: Si tratta […] di un’arte o di un artificio, è una scoperta, questa cosiddetta “tecnica” che non inventa altro che il mezzo per imitare la natura, e in verità per dispiegare, esplicitare, svelare, un movimento naturale della natura? E svelare così un movimento che consiste esso stesso nel velare decriptando una natura che, come si sa, ama essere criptica, phusis kruptesthai philei? Questa “tecnica” rompe meno con la phusis di quanto non la prolunghi imitandola, e confermando così, forse, una certa animalità della donna fin nei suoi artifici.26

25 26

H. Cixous, J. Derrida, Veli, cit., p. 51. Ibidem.

28

Il velo direbbe dell’animalità (il pelo, la peluria) e in verità della stessa pelle: il velo è, soprattutto, una pellicola. Una piccola pelle. La fonte femminile di ogni corpo: protegge, lascia passare, trasuda, sempre esposta. Ritorniamo a Hadot. Non avanzando alcuna pretesa teorica – il sottotitolo mette quasi in guardia: «storia dell’idea di natura» – il testo funziona bene sia da bilancio che da sintomo. Tutte le posizioni riportate, da Omero a Heidegger, rivelano un medesimo impensato: all’origine c’è del nudo, il differimento del nudo. Tale nudità si rivela impensata, soprattutto il suo differimento, in quanto l’attenzione sembra tutta concentrata sul velo della natura, ovvero sulla tendenza a sottrarsi. Un ritegno fondamentale, che pare cancellare il fatto originario: ossia che il velo, ogni velo, è impossibile, a causa dello scarto del nudo a cui il velo pure partecipa. Come acutamente nota Derrida: […] occhiali sugli occhi, benda sulla testa – non gli occhi bendati, ma questa volta la testa bendata, espressione che può sempre far pensare, tra l’altro, a una ferita: direttamente sul viso a cui non appartengono, staccabili dal corpo proprio come feticci, la benda e gli occhiali a stringinaso restano i supplenti illustri e meglio esibiti di questi autoritratti. Essi tanto distraggono quanto concentrano. Il viso non vi si mostra – soprattutto – nudo, il che, beninteso, smaschera la nudità stessa. È ciò che si chiama mostrarsi nudo, mostrare la nudità, il nudo che non è niente senza il pudore, l’arte del velo, del vetro o del vestito. D’altra parte, è anche possibile sorprendere ciò che non si lascia sorprendere […].27

Anche se si dà la sottrazione, questa deve, appunto, sempre darsi. Essa può sussistere solo entro un dominio del nudo. 27

J. Derrida, Memorie di cieco (1990), trad. it. di A. Cariolato e F. Ferrari, Abscondita, Milano 2003, pp. 94-98.

29

Qualcosa si mostra nonostante il velo, è nudo nonostante sia occultato e viceversa. Come la donna, da sempre considerata l’animale più pudico e nello stesso tempo il più indecente. Il pudore è un sentimento aporetico e contraddittorio, poiché, per quanto sia reattivo, esso esibisce sempre più di ciò che nasconde. Si tratta di un paradosso che Roland Barthes ben evidenzia quando scrive a proposito di una passione velata: […] nascondere totalmente una passione (o anzi semplicemente il suo eccesso) è inconcepibile: non tanto perché il soggetto umano è troppo debole, ma perché, nella sua essenza, la passione è fatta per essere vista: bisogna che il nascondere si veda: sappiate che io sto nascondendovi qualcosa, questo è il paradosso attivo che devo risolvere: bisogna che insieme la cosa si sappia e non si sappia: che si sappia che io non voglio darlo a vedere: ecco il mio messaggio che rivolgo all’altro. Lavatus prodeo […] il segno è sempre vincitore.28

Le immagini che impersonificano la natura mostrano proprio questo: l’offerta muta della verità del nudo, dell’impossibilità del velo integrale. L’aporia del pudore, il fatto che ciò che si nasconde – l’ignoto – “tocchi” da sempre l’umanità, sembra essere il motore dell’avventura della conoscenza, poiché la natura – una donna – provoca il desiderio dell’umano di denudarla o di preservarne i segreti. Hanno così luogo quelli che Hadot definisce i grandi atteggiamenti nei confronti del pudore della natura: l’atteggiamento prometeico e quello orfico.29 Sotto il patrocinio di Prometeo, che ruba con la sua astuzia i segreti degli dei per mettersi al servizio degli uomini, il 28 29

R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso (1977), a cura di R. Guidieri, Einaudi, Torino 2001, p. 139. Cfr. P. Hadot, op. cit., pp. 89-222.

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primo atteggiamento coincide con la volontà dell’uomo di dominare la natura, di violentarla e torturarla se necessario. È celebre la metafora dell’interrogatorio avanzata da Francesco Bacone e ripresa successivamente da altri pensatori. Maghi e scienziati si sono sforzati di strappare il velo della natura, nonostante le opposizioni e le critiche che venivano mosse a questo atteggiamento, in difesa dei segreti divini. Un tale atteggiamento apre la strada irrimediabilmente al mondo industrializzato in cui attualmente viviamo. Pur accostandosi alla natura in maniera radicalmente diversa, l’atteggiamento orfico, invece, utilizzando piuttosto le risorse del discorso filosofico e dell’arte, vuole anch’esso strappare il velo, accedere alla pura nudità, mostrandosi critico dell’approccio scientifico che rischia di turbare il decorso della natura. Il motivo iconografico dello svelamento di Iside simboleggia lo svelamento ora a opera dei progressi della scienza, ora a opera dell’approccio estetico. Un terzo atteggiamento sembra inoltre venire timidamente alla luce: l’arresto dinanzi al segreto della natura, che rende complici di un mistero che non va svelato. Il totale svelamento sarebbe insopportabile, letale, oppure semplicemente irrispettoso. Alla fine il testo di Hadot descrive maggiormente gli atteggiamenti dinanzi alla natura pudica e velata piuttosto che approfondire la questione del velo e del pudore che contraddistingue la natura stessa nel suo essere. Heidegger avrebbe detto che il problema resta “precompreso”, ovvero non oggetto di un’esplicita tematizzazione, pur restando il riferimento principale del testo. Per esplicita ammissione dello stesso Hadot nella conclusione del suo lavoro, ciò che caratterizza il suo racconto è un discorso non sulla natura in sé, ma sull’idea dei segreti della natura. Il discorso, sotteso a tutti gli atteggiamenti, della natura che tende a nascondersi si articola intorno all’opposizione 31

velato/svelato, senza che venga pensato che questa stessa opposizione non sarebbe possibile se non a partire da ciò che viola l’opposizione. Non c’è l’integro, né l’integrale. La nudità non è che l’indefinita fuoriuscita di sé, da sé. Hadot, nel capitolo che chiude la sua ricostruzione, ricorda come Heidegger legasse la nozione di physis di Eraclito all’aletheia, ovvero allo svelamento come verità. Un tale svelamento viene pensato sempre a partire da un nascondimento originario, dunque ancora secondo un principio di pudore. Tuttavia Heidegger, legando natura e verità, ci conduce più lontano dello stesso Hadot, indicando la strada verso ciò che eccede ogni pudore, ovvero verso l’evento della verità. Dalla decostruzione del velo della natura, che ha mostrato come differenti atteggiamenti possono prendere vita nei suoi confronti senza che venga posta la questione radicale dell’esposizione della nudità, è necessario passare alla considerazione del nudo che questi atteggiamenti necessariamente presuppongono, mostrandone la fondamentale negatività, come pure un differente senso del nudo che invece è stato prontamente e sistematicamente occultato. La tradizione occidentale ha inventato il nudo per separarsene. Bisogna indagare ora il motivo di questa separazione e ciò che essa ha inventato.

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II. INVENZIONI DEL NUDO!

1. L’invenzione della nudità Una delle nostre tesi principali è che non si può avviare una riflessione critica sul nudo se non partendo dalla sua invenzione metafisica. Per invenzione metafisica del nudo intendiamo il comune denominatore delle molte strategie pratiche, concettuali, mitiche, messe in atto dalla nostra tradizione greco-ebraico-cristiana per rimuovere la nudità come tratto irreparabile dell’esistenza, tanto da porre a volte in termini oppositivi il nudo e ciò che diverrebbe addirittura il suo rovescio, ossia la nudità.1 Tali strategie possono essere ricondotte a due dispositivi fondamentali: l’invenzione greca del Nudo ideale e la concezione ebraico-cristiana della nudità come stato privativo a cui è possibile porre rimedio. Tali dispositivi sono complementari e per nulla contraddittori. !

1

Una versione modificata di questo capitolo è apparsa con il titolo La soglia del nudo, in M. Meletti Bertolini (a cura di) Percorsi etici. Studi in memoria di Antonio Lambertino, Angeli, Milano 2007, pp. 291-296. Cfr. F. Jullien, Il nudo impossibile, cit., p. 10.

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Nel suo studio sulla forma ideale del nudo, Kenneth Clark, individuando nella grecità il momento della sua fondazione, evidenzia in modo particolare come tale nudità sia essenzialmente costruita: Nudità [nakedness], nell’accezione comune del termine, significa essere privi di vestiti, e allo stesso tempo suggerisce quel senso di imbarazzo che quasi tutti in codesta condizione proviamo. La parola «nudo» [nude], al contrario, usata in arte, non implica questo secondo significato di disagio. L’immagine indistinta che essa proietta nella mente non è quella di un corpo informe e indifeso, ma quella di un corpo armonioso, fiorente e fiducioso: il corpo cioè riplasmato. […] Il nudo è una forma d’arte [art form] scoperta dai Greci nel V secolo a. C., esattamente come l’opera in musica è una forma d’arte creata nel Seicento in Italia.2

Clark riprende una considerazione già avanzata da Winckelmann, secondo il quale anche il corpo più armonioso, nella sua nudità, era insufficiente a costituire una nudità ideale per l’artista greco: «La natura e la struttura dei bei corpi sono però raramente prive di difetti, e presentavano forme o particolari che si possono trovare o concepire più perfetti in altri corpi; sulla base di tale esperienza, questi saggi artisti agivano come un bravo giardiniere che innesta su un fusto diverse margotte di qualità pregiata».3 Il Nudo ideale greco esprime così l’occultamento, il rivestimento della nudità concreta, corporea, contingente. Il Nudo ideale esprime la rimozione progressiva e indefinita dell’alterità, di ciò che eccede il modello, nell’esperienza del 2 3

K. Clark, Il Nudo. Uno studio della forma ideale (1956), Neri Pozza, Vicenza, 1995, pp. 11,12 J. J. Winckelmann, Storia dell’arte dell’antichità (1764), a cura di F. Cicero, Bompiani, Milano 2003, p. 393

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nudo. Con i suoi muscoli in evidenza, mostrando uno stato di salute e di fierezza, al riparo da ogni malattia, come pure da ogni invecchiamento, una tale costruzione del nudo appare come ciò che non ha bisogno che di se stessa, perfettamente invulnerabile. Primariamente nuda, secondo Platone, è l’anima (Gorgia 524 d). E l’anima è ciò che non è mossa da altro, perciò immortale, in quanto niente può così cessare il suo movimento. La grecità ci consegna una nudità impenetrabile, formale. Alla nudità come esposizione viene sovrapposto un costrutto ideale, che si rivela una vera e propria istituzione morale, per porre rimedio alla contingenza dell’altro incarnata dal nudo. L’invenzione ebraico-cristiana della nudità è solo apparentemente contrapposta alla spoliazione greca. Nel famoso episodio biblico della Genesi,4 Adamo e Eva, ormai coscienti della propria nudità, vengono coperti da Dio con abiti di pelle,5 poco prima di essere cacciati dal paradiso. Come se bastasse coprirsi per tenere a bada l’effetto del nudo. Una metafisica dell’abito potrebbe facilmente dimostrare che l’abito tanto copre quanto scopre, esercitando l’effetto del velo analizzato nel precedente capitolo. Un abito che non garantisse uno scambio tra l’interno e l’esterno sarebbe un abito mortale. Sia l’invenzione greca che quella ebraicocristiana sono dispositivi di redenzione dal nudo come esposizione perturbante. La nudità plastica greca ha lo stesso obiettivo della vestizione della Genesi. Per questo motivo si può ben dire che «La Chiesa ha potuto rivestire il sesso, ma ha conservato il nudo».6 4 5 6

Cfr. Genesi, III, 7-21 e IX, 21 sgg. Su questo punto cfr. Q. Conti, Mai il mondo saprà, Feltrinelli, Milano 2005, in particolare il capitolo 1. F. Jullien, Il nudo impossibile, cit., p. 7.

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La tradizione ebraico-cristiana presenta una nudità originaria dalla quale è possibile liberarsi. Essa esprime l’idea fondamentale che al nudo possa esserci rimedio, teorizzando addirittura una nudità ascetica come pratica di liberazione dalla nudità stessa. L’esortazione di San Girolamo a seguire nudi il Cristo nudo agisce all’interno di questo preciso cammino di redenzione: la nudità del servitore di Dio attende la sua «veste di gloria».7 La doppia invenzione greco-ebraico-cristiana spiega anche l’ambivalenza della nudità come motivo iconografico.8 Tale ambiguità trova nel Rinascimento e in modo particolare in un pittore come Tiziano la sua massima espressione: nella celebre versione dell’Amor sacro e profano la nudità è sinonimo di perfezione, di innocenza, mentre nell’opera Diana e Atteone l’essere nudi è scandaloso, perturbante, offensivo. 2. A partire da Georges Bataille La tradizione occidentale ci consegna dunque un’immagine essenzialmente negativa della nudità, alla quale ha anteposto la superiorità morale del pudore, ovvero del sentimento reattivo, individuale e culturale, nei confronti dell’esposizione del nudo. Tuttavia il pudore non cancella l’esposizione, affermandola anche nella negazione. Il dramma di Pirandello Vestire gli ignudi è esemplare per la rappresentazione di tale meccanismo, soprattutto per la 7 8

Cfr. J. Chatillon, Nudum Christum nudus sequere, in S. Bonaventura, 1274-1974, IV. Theologica, Collegio S. Bonaventura, Grottaferrata 1974, pp. 719-772. Cfr. E. Panofsky, Studi di iconologia (1939), trad. it. di R. Pedio, Einaudi, Torino 1999, 208-235.

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sua fallibilità. La protagonista del dramma, Ersilia, non riesce a “vestirsi” attraverso l’invenzione del suo passato, e si scopre essenzialmente compromessa al mondo, all’irreparabilità dell’esistenza umana. Come affermerà nella sua battuta finale: «Volli farmela per la morte una vestina decente Ecco, vedete perché mentii? Per questo, vi giuro! Non avevo potuto averne una per la vita da poter figurare in qualche modo, che non mi fosse strappata dai tanti cani… dai tanti che mi sono saltati sempre addosso, per ogni via, che non mi fosse imbrattata da tutte le miserie più basse e vili – me ne volli fare una – bella – per la morte […] Ebbene, no! No! Non ho potuto avere neanche questa! Lacerata addosso, stappata anche questa!».9 Il pudore non cancella l’esposizione: può solo cercare di trattenerla, senza riuscirci mai totalmente. Infatti si è esposti anche al pudore, come qualcosa di cui bisogna in un certo modo dar conto. E se il pudore è senza dubbio un’istanza morale,10 la nudità appare invece come il luogo originario dell’etica, in quanto rapporto a-priori con l’altro. Se il pudore esprime una sorta di compensazione morale attraverso la quale l’individuo si costituisce e si identifica, l’essere nudi incarna l’indecidibilità e la responsabilità dell’etico, l’esperienza fondamentale in cui ogni individuo deve dar conto dell’altro, in sé e fuori di sé. Tale dimensione etica del nudo può manifestarsi per il pensiero solo quando la nudità acquista uno statuto affermativo, e un tratto ontologico fondamentale. È un pensatore come Georges Bataille a tentare una prima riabilitazione radicale del nudo. La nudità è per Bataille 9 10

L. Pirandello, Vestire gli ignudi. L’altro figlio. L’uomo dal fiore in bocca, Mondadori, Milano 2002, p. 83. Per una descrizione storico-critica del fenomeno del pudore si veda A. Tagliapietra, La forza del pudore, Rizzoli, Milano 2006.

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ciò attraverso cui l’animalità dell’uomo viene affermata invece che negata.11 L’animalità come passione fondamentale dell’umano, come apertura sensibile all’irruzione dell’altro. Didi-Huberman, analizzando il celebre racconto di Bataille Madame Edwarda, racconto dove l’affermazione della nudità coincide con una radicale spudoratezza, sottolinea come per Bataille la nudità coincida con la nostra stessa apertura al mondo. Secondo Didi-Huberman, infatti, «l’atto di denudarsi, in Madame Edwarda, non riguarda soltanto la giovane che fa cadere le sue vesti, ma anche il narratore e la sua stessa scrittura […] Non è dunque il nudo come genere erotico – e ancor meno come genere artistico o forma plastica ‘ideale’ – ad interessare Bataille, ma proprio la nudità in quanto ‘tratto ontologico fondamentale’».12 L’indiscernibilità tra il nudo e l’animale di matrice batailleana è ribadita soprattutto da Jacques Derrida, che pone l’essere nudi come esperienza fondamentale, anteriore alla costituzione dell’identità del soggetto: Gli sono presentato ancor prima di presentarmi. Non vi è nudità se non in questa passività, in questa esposizione involontaria di sé. […] Ho appena riferito la passività alla nudità. Questa nuda passività potremmo chiamarla […] la passione dell’animale […].13 11

12 13

Cfr. G. Bataille, Histoire de l’érotisme (1951), trad. it. di S. Mati, Storia dell’erotismo, Fazi, Roma 2006, pp. 37-43. Va precisato che tale affermazione in Bataille è sempre trasgressiva e mai interamente affermativa, in quanto mantiene il divieto che cerca di oltrepassare, in questo caso la negazione dell’animalità. Bataille pone, secondo noi, solo un primo tassello di una riabilitazione della nudità che Didi-Huberman, Derrida e Nancy svilupperanno in maniera affermativa. G. Didi-Huberman, Aprire venere. Nudità, sogno, crudeltà (1997), trad. it. di S. Chiodi, Einaudi, Torino 2001, p. 73. J. Derrida, L’animal que donc je suis (à suivre), in Aa. Vv., L’a-

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L’animale non si distingue dall’essere nudo e tuttavia l’essere nudo non si esaurisce nell’animale:14 ogni cosa è nuda, è esposta. Un altro esponente della decostruzione come Jean-Luc Nancy marca la nudità esibita in Madame Edwarda come carattere fondamentale dell’esistenza.15 Proprio Nancy è l’erede della nuova concezione del nudo inaugurata da Bataille: nel saggio Nudità, che apre una sua raccolta di scritti, eleva la nudità a carattere fondamentale dell’essere stesso, definendola, inoltre, il più vivo dei movimenti: “il vestito segnala che raggiungere la nudità è sempre più e altra cosa da raggiungerla: la nudità si ritira sempre più lontano di ogni messa a nudo, e proprio in tal modo che essa è nudità. Non è uno stato, ma un movimento e il più vivo dei movimenti – vivo fin nella morte, ultima nudità”.16 Pensando la nudità come irrimediabile ouverture, Nancy pone tale apertura come un a priori. Una tale concezione dell’a-priori esprime il luogo del senso stesso, non come astratto significato, ma come essere-a, come apertura a singolarità inanticipabili. Il senso esprime una tangenza a priori, che è un altro modo per dire la nudità.

14

15 16

nimal autobiographique, Galilèe, Paris 1999; trad. it. di G. Motta, L’animale che, dunque, sono (segue), in «Rivista di Estetica», XXXVIII, n. 8, 1998, p. 38. È ciò che tuttavia non abbiamo esplicitato nel nostro Il nudo e l’animale (Editori Riuniti, Roma 2006). In questo testo l’animalità rappresentava una nudità critica che indicava una nudità dell’essere, più ampia. La nudità è l’esposizione, e ovviamente non solo il vivente è esposto. Questi argomenti, tuttavia, restano sullo sfondo di una riabilitazione dell’animalità come nudità affermativa. Cfr. J.-L. Nancy, Une pensée finie, Galilée, Paris 1990, p. 63. J.-L. Nancy, Il pensiero sottratto (2001), trad. it. di M. Vergani, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 20.

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Infatti, il senso, per Nancy, non è altro che “la nudità dell’esistere”.17 Nudità di cui viene sottolineata implicitamente l’eticità: Non vedo la nudità se non entrando in essa, o lasciandola entrare in me. Questo vuol dire immediatamente che la nudità non può essere che apertura, o piuttosto che essa è l’apertura. E questo vuol dire, con lo stesso gesto, che la nudità tocca l’altro. Non c’è nudità solitaria. Se sono nudo e solo, sono già altro da me stesso, un altro con me stesso. Una nudità tocca per essenza un’altra nudità: vuole toccare, non vuole più vedere, vuole entrare nella notte della nudità.18

La nudità è dunque luogo dell’etica, luogo del senso, luogo del toccare. Ma anche e soprattutto luogo dell’arte come sintesi di ogni declinazione del luogo prima elencata (dell’etica, del senso, del toccare). Proprio su questa straordinaria correlazione tra arte e nudità sembra indirizzarci Nancy affermando che il soggetto dell’arte è la nudità stessa.19 Il pensiero di Nancy è anche un radicale ripensamento dell’estensione proprio a partire dalla nudità, ovvero dalla finitudine come esposizione: Extensa non significa una qualità di larghezza, di ampiezza di superficie: è esteso ciò che non è uno, ed è uno soltanto ciò che non è esteso, il punto, che è precisamente l’uno che non si trova affatto nello spazio, di cui è la negazione. L’estensione non è in rapporto, è in esposizione: tutto, della sua

17 18 19

J.-L. Nancy, Il senso del mondo (1993), trad. it. a cura di F. Ferrari, Lanfranchi, Milano 1997, p. 159. J.-L. Nancy, Il pensiero sottratto, cit., p. 44. J.-L. Nancy, Il senso del mondo, cit., p. 237.

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cosa, non è che esposto, messo davanti, girato al di fuori e senza dentro, da nessuna parte rigirato verso di sé, e di conseguenza privato di “sé”.20

La nudità appare dunque come la negazione di ogni unità conchiusa, di ogni integrità, esprimendo di fatto una genialità. Essa è il luogo dell’uno con l’altro. È il venire dell’altro e in tale venuta consiste la sua genialità, la sua com-posizione. Una composizione come tenuta, in cui il senso del tenere è profondamente lontano da ogni appropriazione, da ogni afferramento. È un tenere che con-tiene, una disponibilità indefinita a essere toccati dall’altro. La nudità non è che la tenerezza dell’essere.

20

J.-L. Nancy, Il pensiero sottratto, cit., p. 192.

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III. POETICA DEL NUDO

1. Cura e sicurezza In relazione al nudo la nostra tradizione, greca e cristiana insieme, sembra dunque parlarci con una sola voce: al nudo vi è rimedio. Generalmente vista come qualcosa di negativo, per lo più limitata agli organi sessuali e regolata dal pudore, fenomeno di costume, la nudità non viene interrogata come corporeità ogni volta violabile, materia incisa e incisiva. Per la nostra tradizione il solo nudo tollerabile è il nudo artistico. E, in particolare, un ben preciso nudo artistico. Come abbiamo visto, il solo nudo tollerabile è quello relativo a un’arte che lo presenti sotto una veste ideale, secondo proporzioni e modelli. Nata in Grecia, l’arte del nudo ideale tenta di rimpiazzare l’esperienza del nudo – esperienza destabilizzante, passionale – con le posture dure e impenetrabili delle statue, create “su misura” dagli artisti. Impossibile, a questo punto, non notare come la strategia sottesa alla teoria dell’arte ideale non sia molto distante, in linea di principio, dal massiccio intervento estetico-chirurgico sui corpi, oggi tanto diffuso, dettato da desideri di resistenza al tempo o allo sguardo dell’altro, come pure dal desiderio di corrispondenza a un modello ben preciso, che possa far senti43

re “adeguati”, corrispondenza dettata dall’ostensione del giovane corpo nudo, propria del corpo spettacolare. Il nudo è stato sempre addomesticato più che abolito. Dall’arte ideale al corpo spettacolare una medesima esorcizzazione del nudo ha luogo. Esorcizzazione che sogna l’immortalità, la sicurezza. Da quando l’arte, soprattutto quella che oggi si chiama arte contemporanea, si è svincolata da ogni idealismo, praticando il sentiero del perturbante, lo spettacolo ha raccolto la domanda di immortalità e di esorcizzazione del nudo propria della teoria dell’arte ideale. Scrive acutamente Roland Barthes: La pubblicità, che utilizza molte fotografie di corpi umani, è uno straordinario medium, un mezzo di diffusione, e conseguentemente di elaborazione, di un nuovo corpo umano, che è un vero e proprio corpo glorioso, un corpo sempre giovane. O se, per i bisogni della pubblicità, si tratta di un corpo che non è più molto giovane, è comunque sempre un corpo sano, un corpo appetitoso, se così posso dire, e che è reso tale dai prodotti di bellezza, dai prodotti alimentari, dai prodotti igienici. Il che fa sì che il corpo umano sia ora veramente offerto a una sorta di consumo al contempo erotico – beninteso, un erotismo diffuso, non immorale, non contro la legge, ma tuttavia comunque un erotismo – e a una sorta di sogno di immortalità. Il corpo che vediamo nella pubblicità non ci appare mai come un corpo destinato a morire. E appunto ciò che si potrebbe chiamare un corpo glorioso.1

Il sogno di sicurezza – medesimo sogno dell’assoluto, proprio della passione filosofica occidentale – sogna la ri1

R. Barthes, Il corpo, ancora (1982), in Il senso della moda, a cura di G. Marrone, Einaudi, Torino 2005, p. 142.

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mozione dell’irrimediabile cura a cui l’esistenza è consegnata, gode di questo emendamento a venire, ovvero della promessa di un corpo glorioso. Sicuro, nel senso etimologico del termine, è colui il quale è senza cura, chi si è sottratto a ogni rischio, all’esposizione, chi si è sottratto all’altro. La cura di sé in vista di una sicurezza, paradossalmente, pone in secondo piano la cura dell’altro, la vera cura, che permane, irrimediabile. Ogni rimedio al nudo, strategico e ideologico, non cancella, infatti, mai del tutto il potere esponente della nudità. Resta nudo il volto, nude le mani, il respiro stesso, ogni cosa. Scambio vitale tra l’anima e il mondo, tra le cose: la nudità non è che questo. Basta uno sguardo per sentirsi penetrati fino nell’anima. Come se fossimo dal principio l’uno nell’altro. Come se tale condivisione fosse la ragione più profonda dell’esistenza. Forse per tale motivo i nudi non ideali del pittore Gustav Klimt furono ritenuti scandalosi: perché presentano la nudità come esperienza collettiva, in cui ognuno a suo modo prende parte esponendosi. Alla sicurezza Klimt oppone la tenerezza, il tenere l’altro, il tenere all’altro. Stretto tra le mani in un bacio, trattenuto nel desiderio, oggetto di passioni. Non ha altro senso il suo famoso motivo pittorico della “corrente della vita”: corpi intrecciati che esprimono l’esistenza condivisa alla quale non vi è riparo. La vita ci tocca, ci inclina in modo imprevedibile, come nella postura dei due amanti nella sua opera più famosa: Il bacio (1907). La tenerezza richiama il motivo fondamentale della carne: tenera, non si regge mai da sola, ha sempre bisogno di qualcos’altro per vivere. È la sola cosa che gli amanti sanno. La tenerezza dice la cura, e questa è innanzitutto cura della verità, ovvero, per quanto detto nei capitoli precedenti, cura dell’esposizione all’altro, cura dell’avvenire. Non si 45

può non averne. È la cosa più considerevole dell’esistenza, ossia l’e-sistenza stessa, il suo essere avvenire. Heidegger, il filosofo che in Essere e tempo ha definito la cura come il carattere fondamentale dell’esserci,2 distingueva pure delle modalità di cura. Distingueva tra l’aver cura e il prendersi cura (par. 26). Senza ripetere lo schema di Heidegger, è importante anche per noi distinguere tra diversi modi della cura (con significati altri da quelli heideggeriani) dove soltanto uno è originale, ovvero prossimo all’origine, alla cura dell’avvenire, alla cura della verità. La cura orientata all’esenzione della cura stessa, ovvero la ricerca della sicurezza, noi la chiamiamo l’assicurarsi. È la negazione della cura. La cura originale è invece un farsi carico della cura, un prendersi cura, è l’etica della nudità. Abbiamo visto inoltre, citando Klimt, che esiste un’arte che non presenta la nudità intrappolata in un canone, cioè in una forma ideale. Vi sono delle modalità della messa in opera dell’arte che riflettono quelle della cura prima individuate. Così come vi sono diverse manifestazioni della bellezza, di cui solo una è originale. 2. Origine della filosofia Una delle tesi dell’opera di Jullien, De l’essence ou du nu (in italiano tradotta col titolo fuorviante Il nudo impossibile), è che l’origine della filosofia coincida con la produzione del nudo ideale.3

2 3

Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo (1927), trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, sezione prima, capitolo VI. F. Jullien, op. cit., p. 9.

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Come abbiamo cercato di sostenere nel capitolo precedente, la filosofia inaugurata da Platone e la teoria dell’arte ideale manifestano più di un’analogia e un intimo legame.4 4

Delle precisazioni sono, però, necessarie. Secondo Kenneth Clark, la teoria del nudo ideale è databile intorno al V secolo a.C. (K. Clark, op. cit., p.12), il che rende lecito ipotizzare la (quasi) cooriginarietà della nascita della filosofia istituita da Socrate e Platone, ovvero del platonismo, e della dottrina praticoartistica dell’ideale del nudo. Apparentemente il platonismo, almeno ai suoi inizi, sembra prendere le distanze da una teoria dell’arte figurativa che forgia il nudo ideale. Com’è ben noto, Platone ritiene che l’arte, nelle sue diverse forme, sia lontana dalla verità espressa dall’idea. Non c’è niente di più antiplatonico che confondere l’immagine con l’idea. Eppure, quasi come se questo muro eretto da Platone mostrasse la sua inconsistenza e la sua ipocrisia, a partire dal Cinquecento (erede delle importanti trasformazioni del platonismo maturate fino a quel periodo), come si può ben ricavare dall’importante ricognizione di Panofsky, «sembra naturale di vedere le Idee palesarsi di preferenza nell’attività artistica. È il pittore, e non più il dialettico, quegli a cui si pensa in prima linea, allorché si parla d’‘Idea’» (E.Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica (1924), a cura di M. Ghelardi, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p.4). Proprio riferendosi a questa ricerca, afferma Ernst Cassirer: «A partire dal Rinascimento sorge ora una nuova forma di estetica e di teoria dell’arte che, basandosi sullo stesso Platone e sempre ritornando a lui, ottiene rivendicando anche per il mondo dell’arte quella “giustificazione” teoretica e sistematica che Platone le aveva rifiutato e che doveva rifiutare a partire dalle premesse sistematiche della propria dottrina.» (E. Cassirer, Eidos ed Eidolon. Il problema del bello e dell’arte nei dialoghi di Platone (1924), in A. Warburg, E. Cassirer, Il mondo di ieri, a cura di M. Ghelardi, Aragno, Torino 2003, p. 168). La teoria dell’arte ideale, che raggiunge nel Rinascimento il suo culmine (teorici come Alberti e Vasari richiameranno esplicitamente la teoria dell’arte antica) e le cui forme non solo imitavano il sensibile, ma lo perfezionavano, lo correggevano, si sposa con una certa metamorfosi del pla-

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Nella Repubblica (472 d) Platone paragona il filosofo, che espone la dottrina di uno stato ideale, all’opera, di indiscutibile validità, del pittore che produce un nudo “metafisico”, cioè ideale, senza un corrispettivo reale, così come imponeva la teoria dell’arte ideale greca. Quasi come se avesse colto questa origine, Agamben scrive: “Nuda”, nel sintagma “nuda vita”, corrisponde qui al termine greco haplos, con cui la filosofia prima definisce l’essere puro. L’isolamento della sfera dell’essere puro […] costituisce la prestazione fondamentale della metafisica dell’occidente.5

L’origine della filosofia consiste nel desiderio del puro, ossia nella rimozione della nudità, attraverso la sua inven-

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tonismo, che ne ammorbidirà i divieti e le rigidità, mostrando chiaramente la loro convergenza. Come abbiamo accennato, Platone ha negato all’arte, soprattutto all’arte figurativa, ogni validità e ha posto una distanza incolmabile tra eidos ed eidolon, tra l’idea e l’immagine. Tuttavia, Platone stesso teorizzava pure un regime dell’arte che potesse essere funzionale all’idea: “Platone non si limita a scoprire le insufficienze dell’arte; al contrario, egli cerca di porre rimedio a quelle che, secondo lui, sono inevitabili. Vi è un’arte cattiva, ma ci può essere anche un’arte buona: questa, però, richiede guida e controllo” (W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica (1970), vol. I, a cura di G. Cavaglià, Einaudi, Torino 1979, p.163.) Già in Platone, dunque, soprattutto nel Fedro, la distanza tra l’arte, produttrice del bello, e l’idea è una distanza che può diventare consonanza e condurre dal sensibile all’intelligibile. Teoria dell’arte ideale e platonismo non sono antitetici proprio perchè servono la medesima causa: prevenire l’esposizione dell’arte, ogni suo possibile schierarsi dalla parte del nudo non ideale, come se fosse possibile restare fedeli alla bellezza e alla caducità dell’esistere. G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 203.

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zione. Platone teme la nudità non ideale, perché in primo luogo essa minaccia ogni identità individuata. Farebbe apparire ogni volta lo spettro di un’identità illimitata o migrante, come il suo Parmenide lascia ben intendere.6

3. L’identità migrante Ciò che motiva l’invenzione del nudo come nudità ideale è la fuga dell’identità che ogni nudità esistenziale comporta, in quanto continuo contatto con l’altro, esposizione. Che ogni cosa sia nuda, che ogni cosa sia sempre esposta all’altra, non significa affatto che stia ferma. Ogni cosa si sposta, si muove, ne tocca altre. Anche noi, pur senza muovere un passo, avanziamo nel tempo. Essere è migrare. Con troppa sufficienza consideriamo migranti solo coloro che arrivano nel nostro paese, quasi l’assediassero, e la cui esistenza, secondo la logica perversa delle frontiere, si rivela sempre, in un modo o in un altro, abusiva. Invece, al di là delle apparenze, migranti lo siamo tutti. Questo significa che non può esserci alcuna differenza reale tra migranti e sedentari, semmai tra diversi tipi di migrazione: quella inapparente, e quella che muove da una zona della terra a un’altra caratterizzata da una differente cultura. Tutti i migranti sono nudi, esposti all’altro. Anche l’ospite, colui che accoglie, fa una sorta di viaggio sul posto. Anche colui che muore parte. Tutto avviene su un piano di composizione continua, di incontri e coinvolgimenti. Combinazioni, ricombinazioni. 6

Su questo punto cfr. G. Deleuze, Logica del senso (1969), a cura di M. De Stefanis, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 9-11.

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Non vi è identità che non sia migrante, ogni volta fuori di sé, in cerca di altro o soggetta all’irruzione dell’altro. Si potrebbe parlare, traducendo il neologismo francese irrué, coniato da Edouard Glissant nella sua opera Poetica del diverso7, di identità irrotta, per indicare nello stesso tempo tanto l’irruzione dell’altro (irrotta, come participio passato di irrompere), quanto il movimento verso l’avvenire (irrotta, come fusione della locuzione in rotta, in partenza). Chi siamo è ciò che non cessa di patire, ciò che non cessa di partire. È banale affermare che tutto si trasforma; tuttavia mai riflettiamo sul fatto che tale proposizione significa che tutto è esposto, che tutto migra. A ben vedere, sembra che l’esperienza dell’arte, sottratta ad ogni ideale, sia un’eccellente testimonianza dell’erranza che ci costituisce. Glissant, ad esempio, parla giustamente di una «violenza erratica della poesia», come se poetare significasse vagabondare, partire senza sapere. Non vi è creazione che non sia silenziosamente clandestina, che non voglia ogni volta abitare una partenza, soggiornarvi senza aver ottenuto alcun permesso. Non vi è verso poetico che non faccia partire il poeta, proprio in quanto verso, direzione senza meta, abitazione della bellezza. Una poetica del nudo che intende la nudità secondo il suo senso radicale, in quanto verso, si imbatte necessariamente in ciò che costituisce in primo luogo questo verso, in ciò che lo e-moziona: ovvero nell’evento del bello, come pure in ciò che sembra impedirne l’esperienza.

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Cfr. E. Glissant, Poetica del diverso (1995), a cura di F. Neri, Meltemi, Roma 2004, pp. 11 e sgg.

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4. L’erranza della bellezza L’origine della filosofia, la sua invenzione del nudo, ovvero il suo desiderio di purezza e inviolabilità, implica anche, e in maniera non secondaria, un certo regime della bellezza. Così come alla nudità esistenziale si è sovrapposta una nudità ideale, allo stesso modo, una bellezza ideale, una bellezza come modello, ha rimpiazzato, o messo in ombra, l’evento della bellezza. «Quale bellezza salverà il mondo?». Così Dostoevskij faceva dire ad uno dei suoi personaggi ne L’Idiota. La domanda è tutta da pensare, perché sostiene implicitamente che una particolare bellezza possa salvare il mondo. Come se non ce ne fosse una sola. Come se, innanzitutto, fosse primo compito scovare la vera bellezza, quella che salva. Un compito inquietante, perché ormai siamo quasi del tutto immuni al bello. Difficilmente, infatti, consideriamo la bellezza per ciò che essa è, ovvero un evento raro, poiché temiamo la rarità. Per più di duemila anni, i nostri sistemi di pensiero hanno avanzato il primato della stabilità, dell’immutabile. Da sempre la filosofia ha definito la bellezza, e la nudità, come proporzione delle parti, come armonia e simmetria, secondo quella che, a ragione, è stata definita la Grande Teoria8 europea del bello. Il bello, in verità, è un eccesso raro su me stesso. La rarità è un ospite furtivo: minaccia le abitudini che ci identificano, innesca le nostre emozioni non secondo programmi o strategie sensazionali. Meglio avere a che fare con dei criteri per giudicare la bellezza, piuttosto che con la bellezza stessa. 8

Cfr. W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee (1976), a cura di K. Jaworska, Aesthetica, Palermo 2004, pp. 136-141.

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Così la nostra tradizione ci ha fornito modelli e dottrine per riconoscere la bellezza, nel tentativo di scongiurare la sua prima caratteristica, ossia la rottura di ogni riconoscimento: essa afferma ciò che mai si è visto prima. Che il nostro tempo intrattenga un rapporto privilegiato con la bellezza sembra evidente. Oggi si è come condannati ad essere belli. Tuttavia sorge la domanda fondamentale dell’Idiota: di quale bellezza stiamo parlando? La bellezza forzata, questo spasmodico conformarsi ad un modello quasi studiato tavolino, è una falsa bellezza. Piuttosto una convenienza, un modo per proteggere se stessi. La vera bellezza espone, libera. Ma, oggi, tutto sembra dispensarci dalla partecipazione, dalla responsabilità, dall’attenzione e dalla dedizione che l’esperienza del bello invece esige in quanto esperienza disarmante e nello stesso tempo entusiasmante. I giovani corpi nudi, o la merce accattivante, come pure il turismo diffuso alla ricerca di esotiche bellezze, sono un surrogato. La vera bellezza, quella che libera, quella che salva, è sempre accidentale, è dell’ordine dell’evento. Una bellezza che abbandona modelli e che ci lega a sé fino a renderci “invincibili”. Non che ci renda invulnerabili, sia ben chiaro, perché invincibile è qui inteso come ciò che è talmente vinto, da non poterlo essere ulteriormente. Vinti i pregiudizi, vinti gli schemi che ci pervadono: quando la bellezza accade si è come posseduti, se così si può dire, dalla libertà. L’esperienza del bello è ciò che più ci mette a nudo. A differenza del brutto che mobilita il disgusto e quindi una reattività, una riluttanza, la bellezza sguarnisce totalmente, ci attira per slegarci. “Legame che slega”: è la formula della bellezza, che sembra indicare all’uomo la cura del raro, la cura di ciò che lo rende libero.

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IV. LA VERTIGINE DELLA NUDITÀ

1. Il culmine del nudo L’esperienza della bellezza è sempre stata un’esperienza erotica: ci trascina, ci trasporta. E può farlo, perché si introduce in noi per insolite vie, perché siamo nudi. Ci attraversa: è, per eccellenza, l’intrusione dell’altro. L’erotismo è qualcosa che accade ai corpi, umani senza dubbio. Scrive Bataille: In quanto animale erotico, l’uomo costituisce un problema ai suoi stessi occhi. L’erotismo è, in noi, l’elemento più problematico. […] Di tutti i problemi, l’erotismo è il più misterioso, il più generale, il più celato. Per colui che non può sottrarsi, per colui che conduce una vita aperta all’esuberanza, l’erotismo è il problema personale per eccellenza.1

Poiché avviene, non c’è niente che nell’erotismo rimandi a qualche unità perduta da ricomporre. L’esperienza erotica non completa, non chiude. Non dischiude neppure, perché non vi è chiusura da negare, perché siamo già aperti. Piuttosto, questa apertura che siamo, il nostro essere nudi, diventa 1

G. Bataille, L’erotismo (1957), trad. it. di A. Dell’Orto, ES, Milano 1991, p. 251.

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un immenso fermento per ciò che la tocca. L’erotismo riguarda un certo modo del corpo di essere toccato, una certa disposizione a lasciarsi toccare dall’avvenire. L’erotismo è la vertigine della nudità: la condivisione, che la nudità impone, diviene esplicita, intensa, e il senso, la nostra apertura al mondo, diviene sensualità. L’erotismo espone la nudità in quanto tale. Nessuno sa, pertanto, cosa può l’eros. La letteratura, i casi della cronaca, non smettono di ricordarcelo: dell’eros non vi è scienza, ma solo stupore. Perché è scaturigine e ospitalità senza riserve. Scrive Bataille ne L’impossibile: «All’improvviso il cuore di B. è nel mio cuore». L’erotismo afferma la nudità per ciò che essa è: improprietà, condivisione. In quanto contatto con l’altro, compromissione, la nudità è al di là della persona e al di là dell’individuo che, senza successo se non ideologico, sembrano contenere la nudità. Poiché ogni cosa è traboccante, si versa, è verso (qualcuno, qualcosa). Accade e vive solo espropriandosi, accedendo all’altro di cui si nutre per essere. Nell’erotismo, la nudità è desiderata: non è solo senso dell’esistenza, per lo più rimosso, ma oggetto del desiderio. L’individuo che si è voluto integro, che si crede non esposto benché soffra di fame e di sete, dinanzi al culmine della nudità è portato allo scoperto. La nudità non sempre è erotica, ma l’erotismo esalta l’insistenza, la penetrazione, ovvero la nudità in tutta la sua potenza. Andiamo al di là di noi stessi fino a formare un altro corpo. Ci intratteniamo in questa corporeità fatta di corpi che chiamiamo corpo erotico. Il corpo erotico non è semplicemente un corpo a due. Anche se è necessario avere più di un corpo per fare un corpo erotico, e che spesso questo prenda avvio come relazione a due, il “due”, per dirla con Nancy, «è solo l’indice di uno 54

scarto polimorfico».2 Il corpo erotico è un corpo esploso e, nello stesso tempo, un corpo esteso: un territorio che si condivide, popolato da zone: terra di nessuno. Non c’è niente nel corpo erotico che sia già dato, tutto in esso è avvenire. I seni di lei si schiacciarono contro di lui, la bocca le riuscì tutta nuova e tiepida, posseduta in comune. Smisero di pensare con un sollievo quasi penoso, smisero di vedere; si limitarono a respirare e a cercarsi. Erano entrambi nel grigio mondo gentile di una dolce cappa di fatica, quando i nervi si rilassano in fasci che paiono le corde di un pianoforte e scricchiolano improvvisamente come sedie di vimini. Nervi così crudi e teneri devono per forza congiungersi ad altri nervi, le labbra alle labbra, il seno al seno.3

Seno, labbra, nervi: il corpo erotico è questo singolare accesso ai corpi che lo fanno e che si fanno. Nancy coglie con parole suggestive la dimensione autentica del corpo erotico quando scrive ciò che esso è: Un corpo che non smette mai di comporsi e di decomporsi, di nascere e di morire, di configurarsi nell’assunzione di un’identità e di demoltiplicarsi in zone di desiderio, di piacere e di dolore, in pezzi e in schegge di godimento, perché godere fa esplodere e nient’altro. Godere fa esplodere la propria immagine (l’immagine del proprio e l’immagine propria del godere).4

Il riferimento all’esplosione propria del godimento ci indirizza verso quel rischio fondamentale che l’erotismo porta con sé. 2 3 4

J.-L. Nancy, Corpus (1992), trad. it di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2004, p. 33. F.S. Fitzgerald, Tenera è la notte (1934), a cura di F. Pivano, Einaudi, Torino 2006, pp.90-91. J.-L. Nancy, Icona dell’accanimento, trad. it. di M. Machì, «Eutropia», 3, 2003, p. 202.

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Ciò che accade nell’erotismo, infatti, è l’accettazione della nudità fino alla morte, ovvero fino alla messa in questione della nudità stessa.5 In questo consiste la sua vertigine. Ogni esperienza erotica, secondo Georges Bataille, è una piccola morte.6 Il corpo erotico promuove un aumento dell’impersonale, perché disimpariamo chi siamo. L’erotismo non fa che abitare il limite: dove la morte non è data fino in fondo, ma ci sentiamo morire di piacere. L’erotismo si compie solo nell’eccesso. Eccesso che potrebbe desiderare qualsiasi cosa. È la sua licenziosità ad essere, ogni volta, imperdonabile. Eppure l’ossessione potrebbe travolgerci, l’accanimento potrebbe diventare insopportabile. Il piccolo delirio potrebbe diventare un delirio mostruoso. La vertigine della nudità può in ogni momento essere mancata o fallire, non vi è luogo più scivoloso. Celebre esempio letterario di questo baratro aperto dall’erotismo è la Pentesilea di Kleist. In questa tragedia di fine Settecento, ambientata nell’antica Grecia, Pentesilea è alla testa delle Amazzoni, in lotta contro i Greci e i Troiani. Si innamora sul campo di battaglia di Achille, ma tra i due l’amore è presto impossibile. L’ossessione, l’accanimento, prevalgono e Pentesilea uccide in un duello proprio l’amato Achille, fino a dilaniarlo. Molto significative sono le sue parole dopo aver compiuto il gesto: 5 6

Così decliniamo la felice affermazione di Georges Bataille, secondo il quale l’erotismo è approvazione della vita fin dentro la morte. Cfr. L’erotismo, cit., p.13. Cfr. in particolare, G. Bataille, Le lacrime di Eros, trad. it di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 3; pp. 24-30.

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Amore, orrore: fa rima, e chi ama di cuore può scambiare l’uno con l’altro. […] Quante, attaccate al collo dell’amante, ripetono di continuo queste parole, oh che l’amano, l’amano così tanto, che per amore potrebbero anche mangiarlo; e dopo, ripensando alla parola, le pazze! Scoprono di essere sazie fino alla nausea. Vedi, mio amato, per me non fu così. Guarda: quando io mi avvinghiai al tuo collo, lo feci davvero, nel senso autentico della parola; non ero così pazza come sembravo. […] mi sciolgo dalla legge delle donne e seguo questo giovane. […] Perché adesso mi calo nel mio petto, come in un pozzo, e per me scavo, freddo come minerale, un sentimento annichilente. E questo minerale, lo tempro nella brace del dolore, duro come l’acciaio; e poi lo imbevo da cima a fondo del veleno rovente e corrosivo del rimorso; lo pongo sull’incudine eterna della speranza e lo trasformo in un pugnale affilato e appuntito; a questo pugnale, adesso porgo il mio petto: così, Così! Così! Così! E ancora!… Adesso è fatto! (Cade e muore).7

2. Ciò che dà vita L’erotismo complica ciò che credevamo semplicemente disgiunto, è la crisi desiderante dell’individuo. Tuttavia, come l’erotismo sembra dare la morte, una piccola morte, così può, allo stesso modo, dare la vita, una piccola vita. Animerebbe l’inerte, amerebbe ciò che, impenetrabile come una statua, non potrebbe nemmeno sapere cos’è desiderare. Le leggende e le letterature sono piene di amori incredibili. Celebre e arcinoto è il mito di Pigmalione, lo scultore che ama la propria scultura fino a desiderare, e a ottenere per buona sorte, che essa divenga effettivamente viva. Eppure, nota

7

H. Von Kleist, Pentesilea, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1989, pp. 89-91.

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Maurizio Bettini, pare che, in verità, «Pigmalione fosse un re di Cipro, il quale si innamorò perdutamente della statua di Afrodite. Arnobio, nella sua impavida fantasia cristiana, non ha vergogna di accendere i colori e di descrivercelo a letto, demens, mentre con vana libido si concede le dolcezze di amplessi immaginari. Solo il delirio erotico del re riuscì a trasformare una statua scolpita nella più perfetta delle donne».8 La vertigine della nudità mostra qui il suo potere: essa mette in questione ogni essere dato, così come è creduto. Logora soglie e frontiere. Il senso ultimo dell’erotismo non è tanto la morte,9 perché anche questa, da sola, annienterebbe la nudità. Il senso dell’erotismo è piuttosto una resistenza, una tenuta dell’intensità del nudo. Gli amanti sono funamboli, vorrebbero permanere in questo accesso, in questo eccesso che li torce fino all’intollerabile. Ma desiderare stanca, quando non irrita. Congiungere vita e morte, avere sempre una certa combinazione di questa pozione, è lo scopo faticoso dell’erotismo. Proprio per questo motivo, l’esperienza erotica è sempre spettrale. Come lo spettro, confonde la vita e la morte, e si capisce che quella dello spettro non è una semplice analogia. Non vi è esperienza erotica, infatti, che non faccia uso di spettri, che non li produca. Arte della congiunzione, delle 8 9

M. Bettini, Il ritratto dell’amante, Einaudi, Torino 1997, p. 72. In questo la nostra concezione dell’erotismo si distingue da quella di Bataille, per il quale il potere del fantasmatico, dell’immagine e dell’assenza, giocano un ruolo decisamente minore. La concezione di Bataille andrebbe discussa in maniera più approfondita. Non possiamo svolgere tuttavia in questa sede una disamina che richiederebbe un lavoro a parte. Per un buon riferimento critico cfr. M. Perniola, Philosofia sexualis. Scritti su Georges Bataille, Ombre Corte, Verona 1998.

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congiunzioni più incredibili, l’erotismo è dominio dello spettro, ovvero della vita e della morte. L’esperienza erotica è esperienza dell’incorporeo, ovvero della soglia dischiusa tra il corpo e ciò che penetra, a sua volta penetrato. Nel corpo, oltre il corpo. Un’esperienza smisurata e febbrile, in cui il corpo si perde in immagini e contatti.

3. Eros e filosofia Anche se, per Bataille, “il supremo interrogativo filosofico coincide […] con la sommità dell’erotismo»,10 una certa reticenza circa l’erotismo ha sempre attraversato la filosofia, o, nel migliore dei casi, un discorso strategico. Esso rientrerebbe di sfuggita anche nei sistemi più comprensivi. Ma, come nel caso della bellezza, il discorso per eccellenza intorno all’eros è sempre quello platonico. Comanda tutta una storia, istituisce un vero e proprio dispositivo. Quando i filosofi non ne parlano è perché acconsentono a Platone. La filosofia domanda dell’eros con Platone, eppure proprio con lui quest’esperienza diventa paradossalmente neutralizzante. Gli amanti sarebbero mancanti l’uno dell’altro, essi mancherebbero di un’interezza che desiderano. Le celebri parole del Simposio sono chiare: «da un tempo così remoto, dunque, è connaturato negli uomini l’amore degli uni per gli altri; esso ricongiunge la natura antica, e si sforza di fare di due, uno, e di guarire la natura umana. Ciascuno di noi è quindi un complemento di uomo, in quanto è stato ta10

L’erotismo, cit., p. 251.

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gliato – come avviene ai rombi – da uno in due; ciascuno, dunque, cerca sempre il proprio complemento» (191d [trad. it. di G. Colli]). Il movimento che Platone lascia intravedere è ben evidente: nell’esperienza erotica si va dal più differenziato al meno differenziato. L’erotismo fonderebbe, semplificherebbe. Secondo Platone vi sarebbe una mancanza costitutiva da colmare, un’esposizione, una ferita che va sanata. Invece, come abbiamo finora mostrato, l’erotismo complica, assilla, corrode l’uno, l’unità, l’integrità. Uno è esposto fin dal suo primo manifestarsi. Preziose ci sembrano, a tal proposito, le osservazioni di Nancy, che riprende e radicalizza la questione posta da Platone, l’essere fuori di sé che l’esperienza erotica comporta. L’analisi del corpo erotico, per il filosofo francese, prende avvio dal suo godere, pensando il non detto dell’erotica platonica, poiché «Qualcosa, che si è aperto e chiuso con il Simposio, come un appuntamento mancato, chiede ancora la sua ripetizione».11 È noto come, sia nel Simposio che nel Fedro, Platone parli dell’amore e del bello come esperienza destabilizzante ed estatica, ma si è rapiti dalla misura, dall’ordine e dalla proporzione, da quello che Platone chiama il più bello dei legami (Timeo, 30 b8 - c7), che è il divenire “uno” dei differenti, il loro non essere più esposti. Un’estasi controllata, dunque, quella platonica, che fa dire a Nancy: Nel Simposio, Platone tocca i limiti, e tutto il suo pensiero vi si mostra in un ritegno che altrove non sempre conosce: tocca il proprio limite, cioè la sua scaturigine, e si fa da parte da11

J.-L. Nancy, Un pensiero finito (1990), trad. it. parz. di L. Bonesio, Marcos y Marcos 1992, pp.175-176.

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vanti all’amore (o nell’amore?) che riconosce come la propria verità, e così pensa la propria nascita e il proprio sparire, ma in questo modo pensa, rimettendosi all’amore, al proprio limite, al proprio compito e alla propria destinazione. […] Ma questo accade una volta sola, nell’inaugurazione della filosofia, e anche questa volta non è veramente accaduto fino alla fine. Con tutta la sua generosità, il Simposio esercita anche una padronanza dell’amore, o perlomeno, non si è mancato di leggervi o di dedurne, in base all’ordine e alle scelte del sapere filosofico, una verità dell’amore, che assegna la sua esperienza, gerarchizza le sue istanze, sostituendo al suo gioioso abbandono l’impazienza e il conatus del desiderio. Così, con Platone, il pensiero avrà detto e avrà mancato di dire di essere amore – e quanto questo vuol dire.12

Secondo Nancy, Platone manca ciò che è in gioco nell’erotismo, ciò che questo porta alla superficie. L’esperienza erotica deve essere analizzata in quanto tale, non come tramite verso ciò che, in un secondo momento, la rimuoverà, secondo il dettato di Platone. Per Nancy, nell’esperienza del godimento, l’essere fuori di sé, la nudità, si esprime senza riserve: “Godere è la traversata dell’altro. L’altro mi attraversa, io lo attraverso. Ognuno è l’altro per l’altro – ma anche per sé. In questo senso, si gode nell’altro per sé: di essere passato all’altro».13 Pensare in questi termini il godimento implica, per Nancy, anche il ripensamento dell’intimità: non più una separatezza, quasi che l’intimo sia ciò che l’individuo nasconde, la cosa più riparata. Invece l’intimità è l’esposizione che ha luogo intensamente, e il rapporto sessuale, il sessuale

12 13

Ivi, p. 165. Ivi, p. 105.

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stesso diviene il momento in cui il proprio sé viene maggiormente violato: Bisognerà dire allora che quel che accade nel rapporto intimo non è affatto la messa in rapporto di due intimità come due cose date da una parte e dall’altra (come se potessi avere un’intimità per parte mia, cioè a parte dell’altro): è al contrario il rapporto stesso in quanto intimità. Ma l’intimità, a sua volta, deve essere compresa secondo la sua natura propria, che è quella del superlativo: intimus, è il più intus, il più al di dentro. È il dentro rispetto al quale non c’è più dentro, più avanti o più a fondo.14

Il discorso di Nancy è rigoroso, quanto descrittivo e ontologico. Pertanto non viene colto ciò che pure si annuncia con Platone e che, in un modo o nell’altro, agisce sulle nostre vite. Non un semplice errore di valutazione, quello platonico, ma un preciso programma filosofico-politico. Come è stato giustamente osservato, è proprio sul terreno dell’erotismo e della bellezza, che, in Platone, si gioca la sfida per una neutralizzazione del corpo.15 Sul terreno di maggiore turbolenza affettiva e linguistica, nonché strettamente filosofica. Platone capisce che l’esperienza erotica è un’esperienza affermativa, destabilizzante quanto produttiva, e, se lasciata libera, rovinosa per gli amanti e potenzialmente pericolosa per qualsiasi ordine costituito. Ecco perché, insieme al mito dell’androgino, compare un altro mito nel Simposio: quello della nascita di Eros (203b e ss.), che lo vuole demone mediatore, un fenomeno di comunicazione, tra gli uomini e le idee. Come se la manifestazione dell’erotismo, la sua forza,

14 15

J.-L. Nancy, Il “c’è” del rapporto sessuale (2001), trad. it. di G. Berto, «aut aut», n. 307-308, 2002, p. 81. Cfr. M. Vegetti, Il coltello e lo stilo, Il Saggiatore, Milano 1996, p. 96.

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divenisse «un vettore decisivo nella conversione dello sguardo dal corpo all’idea».16 Platone comprende, dunque, che la forza erotica va orientata e diretta, convogliata e contenuta, per mantenersi nell’ordine delle idee, ovvero dei netti confini delle cose. Nella Repubblica (402 d - 403 d), dove Platone discute dello stato ideale, l’intento è più che mai chiaro. Dirigere, contenere la forza eversiva del nudo e del desiderio è lo scopo di ogni dispositivo di potere. Contenere il desiderio è lo scopo di ogni regime che prova orrore dinanzi allo spettro di una democrazia radicale insita nel desiderio stesso. La Repubblica di Platone condanna l’uomo democratico per un motivo affine all’uomo pazzo d’amore. Questi uomini potrebbero desiderare qualsiasi cosa, potrebbero pretendere qualsiasi cosa. Potrebbero pretendere persino la felicità.

16

Ivi, p. 97.

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V. MACCHINA NUDA Note sulla questione della tecnica

1. Macchine Tra nudità e desiderio non è vi è alcuna differenza reale: il desiderio erotico non esprime altro che la nudità venuta alla scoperto, cioè a se stessa come desiderio. Nudità e desiderio sono ovviamente liberi da ogni mancanza, esprimono, ogni volta, una produzione. La nudità tesse, trama. Non ha niente a che vedere con una privazione da colmare, un vuoto da riempire. Essa è perfettamente eccessiva. I suoi vuoti, i suoi pori, la sua stessa apertura che dona quanto accoglie, esprimono disponibilità, capienza, capacità. Dobbiamo a pensatori come Deleuze e Guattari l’idea fondamentale di un desiderio produttivo e per nulla mancante. Decisiva è la critica diretta nel loro volume L’Anti-Edipo contro pratica e teoria della psicoanalisi: essa scopre sì l’enorme potenza del desiderio, ma lo schiaccia su figure (il rapporto fondamentale padre-madre-bambino) che ne indeboliscono la potenza di legame, la portata sociale. Ricollegandosi così a un’antica tradizione che risale a Platone, per la psicoanalisi il desiderio sarebbe la conseguenza della mancanza o della perdita dell’oggetto del desiderio. Per Deleuze e Guattari, invece, «In qualsiasi luogo avvenga, sia pure in una piccola famiglia o una scuola di quartiere, non c’è uno sbocciare, un dischiudersi del desiderio, 65

che non metta in questione le strutture stabilite. Il desiderio è rivoluzionario in quanto vuole un numero sempre maggiore di connessioni e concatenamenti. Ma la psicoanalisi taglia e schiaccia tutte le connessioni, tutti i concatenamenti, odia il desiderio, odia la politica».1 Il desiderio, oltre a non essere mancante, mostra ogni volta una natura macchinica. Macchina e desiderio, per Deleuze e Guattari, non vanno in alcun modo disgiunti: Lo sapete voi com’è semplice un desiderio? Dormire è un desiderio. Andare a spasso è un desiderio. Ascoltare della musica, o scrivere, sono dei desideri. Una primavera, un inverno, lo sono. Pure la vecchiaia lo è. Anche la morte. Il desiderio non è mai da interpretare, è lui che sperimenta. […] non c’è desiderio se non in un concatenamento o in una macchina.2

E ancora: Ovunque sono macchine, per niente metaforicamente: macchine di macchine, coi loro accoppiamenti, colle loro connessioni. Una macchina-organo è innestata su una macchina-sorgente: l’una emette un flusso, che l’altra interrompe. Il seno è una macchina che produce latte, e la bocca una macchina accoppiata con quella. […] Tutto fa macchina. […] Non vive la natura come natura, ma come processo di produzione. Non c’è più uomo né natura, ma unicamente processo che produce l’uno nell’altra e accoppia le macchine. Ovunque macchine produttrici o desideranti […] Il desiderio non manca di nulla, non manca del suo oggetto. […] Il desiderio è macchina, anche l’oggetto di desiderio è macchina.3 1 2 3

G. Deleuze - C. Parnet, Conversazioni (1977), trad. it. di G. Comolli, ombre corte, Verona 2007, p. 87. Ivi, pp. 104-105. G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Edipo (1972), a cura di A. Fontana, Einaudi, Torino 1972, pp. 3-4; 29.

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2. Diritto all’accesso Stando a quanto affermato da Deleuze e Guattari, non vi sarebbe differenza tra natura e artificio, non vi sarebbe differenza tra desiderio e artificio e dunque tra quest’ultimo e la nudità. Invece, un comune discorso, mitico e ideologico, attraversa il pensiero dell’artificiale, e cioè della tecnica. La tecnica sarebbe un rimedio all’esistenza mancante, nuda, come se l’essere nudi significasse mancare. Scrive Galimberti riprendendo il pensiero di A. Gehlen: A differenza degli animali, infatti, l’uomo dispone solo di generiche e imprecise pulsioni e non degli istinti che, articolando un determinato modo di essere al mondo, garantiscono ad ogni specie animale la propria sopravvivenza. Per effetto di questa carenza, l’uomo, per vivere, è costretto a costruire quel complesso di artifici, o tecniche, capaci di supplire all’insufficienza di quei codici naturali, che, per gli animali, sono gli istinti.4

Il discorso di Galimberti, come quello di Gehlen, riprende una tesi antica, una tesi platonica, che instaura, ancora una volta, il discorso principe tra la tecnica e la nudità, e che, in una sola volta, definisce la nudità come mancanza e la tecnica come compensazione. È noto il mito di Prometeo esposto nel Protagora di Platone (321a - 322a): nel mito, la razza umana viene considerata sprovvista di tutto, mancante rispetto alle altre specie animali, che, invece, avevano ricevuto i mezzi per la loro sopravvivenza: unghie affilate, zanne, peli etc. Prometeo, allora, per rimediare a tale imbarazzante e iniqua distribuzione, dona agli uo4

U. Galimberti, Psiche e tecne, Feltrinelli, Milano 1999, p. 89.

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mini la sapienza tecnica necessaria alla vita. Secondo il mito, dunque, tecnica e nudità si oppongono. Invece, nella nostra prospettiva, proprio la nudità sarebbe tecnica. La nostra tesi in merito alla questione della tecnica è, pertanto, che la sua sfera, nella quale viene di solito confinato il suo concetto, debba essere allargata. La tecnica non è semplicemente incarnata dall’oggetto tecnico, non è rappresentata dall’utensile e da ciò che produce l’utensile, ma è la condizione di contatto, di accesso, già insita nell’esistenza, il fare corpo con altri corpi. Su questo punto, la posizione di Nancy è molto interessante. Scrive: Il nostro mondo è il mondo della «tecnica», il mondo il cui cosmo, la natura, gli dei, il sistema completo della sua intima articolazione si espongono come «tecnica»: mondo di una ecotecnia. […] Finché non avremo pensato fino in fondo la creazione ecotecnica dei corpi come la verità del nostro mondo, – e come una verità che non è affatto da meno di quelle che i miti, le religioni, gli umanesimi hanno rappresentato –, non potremo dire di aver cominciato a pensare questo mondo qui.5

5

J.-L. Nancy, Corpus, cit., p.73. Roberto Esposito ha recentemente colto la portata di questo discorso soprattutto opponendolo aldiscorso proprio dell’antropologia filosofica, che scinde tecnica e natura, e che pensa la tecnica in termini compensativi, riparativi, nei confronti di una “natura umana” considerata mancante, incompiuta, “nuda”: «Il filosofo che ha pensato più a fondo il rapporto tra il corpo e il supplemento tecnico è certamente JeanLuc Nancy. Già parlare di ‘rapporto’, dal suo punto di vista, appare inadeguato. Bisognerebbe piuttosto fare riferimento al carattere di per sé supplementare – o tecnico – dello stesso corpo […] Contrariamente ad una linea interpretativa che tende a vedere nella tecnica un grande apparato omologante contrapposto all’esistenza in quanto tale, per Nancy le due cose coincidono. […]

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Il corpo erotico sarebbe anch’esso una macchina, la macchina più bella, un evento di comunicazione piuttosto che un meccanismo. Macchina e meccanismo vanno, infatti, distinti nella misura in cui il meccanismo è una macchina fallita, chiusa, perchè il suo compito è ripetere un medesimo processo già stabilito. Il suo scopo è funzionare, il suo male è il guasto. La macchina, invece, è un fattore di comunicazione, collega eventi e corpi, si sviluppa e avviluppa, muta in base a ciò che riesce ad attrarre, procede per fratture e contingenze, diviene per contatti e contrazioni. Un meccanismo è un dispositivo di cui una macchina si appropria: fa macchina, ma non è la macchina. Tutta la questione della tecnica sarebbe una questione di accessi, di connessioni produttive. Accedere o non accedere, questo è, ogni volta, il problema che il vivente deve fronteggiare. Un problema che concerne la nudità, e nient’altro. Testimoniare, ricordare, amare, soffrire non sono che accessi: il corpo assume una postura diversa ogni volta, innesca una procedura. Se vi è un diritto del desiderio è un diritto all’accesso, un diritto alla nudità.

Tecnico è il modo di essere non essenziale, non teleologico, non presupposto di ciò che esiste. Non ciò che modifica – violenta o salva – la natura: ma il fatto che non c’è natura. In questo senso la tecnica riguarda sempre i corpi – tutti i corpi e ogni corpo. […] la tecnica – o la tecnicità dell’esistenza – coincide con la partizione dei corpi, con il loro essere sempre partes extra partes, con il loro continuo ‘corpo a corpo’: non c’è corpo che non sia ‘a corpo’. Mai come oggi abbiamo l’esatta percezione di questa comunità dei corpi – del contagio senza fine che li accosta, sovrappone, impregna, coagula, mescola, clona» (R. Esposito, Immunitas, Einaudi, Torino 2001, pp. 179-180).

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3. Nudità dei movimenti Il diritto alla nudità, che è un diritto di apertura, diritto di accesso, oggi si incarna bene nel fenomeno del Web, e, al suo interno, nei movimenti Open Source e Free Software, che permettono e promuovono un continuo rinnovamento del codice sorgente dei software, e di tutto ciò che viene protetto dalle leggi sulla proprietà dell’intelletto.6 Tutto, in questo spazio, desidera raggiungere ed essere raggiunto. Fare collegamenti, creare connessioni. È la risposta alle alienazioni, alle molteplici catture del desiderio dei dispositivi di potere: libera continuamente linee di fuga, per quanto queste linee siano sempre poi rincorse dagli apparati di cattura del desiderio. Nel mondo fluido della rete, i collegamenti rischiano sempre di essere continuamente vincolati a dei grandi “nodi”, a degli hub, che possono attingere dalla forza comunicante per trattenerla e consolidare il loro potere. Oltre al movimento della rete, sotto gli occhi di tutti, è il movimento dei migranti quello che maggiormente mette in luce il fenomeno costituente della nudità e il suo diritto all’accesso. Proprio il rapporto che questo movimento intrattiene con lo Stato-nazione mostra come quest’ultimo si realizzi come controllo della sua nudità e della nudità del migrante, del suo desiderio di fuga, che è un’altra espressione per dire il senso della nudità. Ma la questione non è soltanto antropologica, e risulta evidente proprio con il concetto di immigrazione, che non riguarda solo i migranti umani. Anche se utilizza un concetto ristretto di macchina, rispetto a quello che finora abbiamo

6

Su questo cfr. Gruppo Laser, Il sapere liberato. Il movimento dell’open source e la ricerca scientifica, Feltrinelli, Milano 2005.

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cercato di proporre, Peter Sloterdijk coglie bene la problematica, quando scrive: Il concetto di immigrazione finora è stato inteso in chiave esclusivamente antropologica, con riferimento allo spostamento di esseri umani da un angolo all’altro di una nazione o da una zona all’altra del pianeta. Al contrario, la maggior parte dei migranti che partecipano alla strutturazione della nostra realtà non sono degli agenti umani […] non sono degli agenti umani a varcare i confini della realtà da noi conosciuta e a stabilirsi in mezzo a noi: si tratta anzitutto di macchine, di segni, di particelle di sapere, che ieri non erano ancora state scoperte e con cui oggi dobbiamo condividere il nostro spazio vitale.[…] L’uomo di oggi non ha ancora smaltito del tutto l’attacco di questi migranti cognitivi che hanno sconvolto la sua tradizionale visione del mondo.7

La riflessione di Sloterdijk è preziosa nella misura in cui ci pone di fronte a una condizione di permeabilità costitutiva, che solo ipocritamente possiamo rigettare. Anzi, sempre una migrazione ci sorprende, e noi stessi siamo a nostra volta, in un modo o nell’altro, migranti. Ogni cosa pretende l’accesso.

7

P. Sloterdijk, La catastrofe della latenza e la carriera del non percepibile, Fondazione Collegio San Carlo, Modena 2006, pp. 5-6.

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CONCLUSIONE

Abbandonati Abbandonati: scritto così, senza accento, resterebbe un’espressione indecidibile. Non si saprebbe come pronunciarla, che senso darle. Eppure quest’espressione custodisce il senso del nudo, riassumerebbe quanto abbiamo inseguito in queste pagine. Abbandonàti: noi, abbandonati a questo mondo, e, in primo luogo, a questo stesso abbandono, che è l’esistenza. Un viaggio senza ritorno, dai molteplici accessi, dalle mille aperture. Infinitamente nudi, esposti, abbandonati. La nostra ricerca è partita dalle stelle e da una frase curiosa. Essa pure si conclude su qualcosa di stellare. Su una frase ancora smisurata, questa volta di Heidegger: La notte, egli dice, resta sempre Colei che approssima le stelle.1 È una delle frasi conclusive di uno scritto insolito, un dialogo alla ricerca di un luogo dell’abbandono. Il luogo dell’abbandono sarebbe la notte. Ciò grazie a cui le stelle si “toccano”, comunicano, con noi innanzitutto. Quando guardiamo le stelle, non facciamo caso alla notte, 1

M. Heidegger, L’abbandono (1959), trad. it. di A. Fabris, Il melangolo, Genova 1998, p. 77.

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né all’aria, né all’apertura stessa dei nostri occhi, alla loro nudità. Occhi abbandonati. Notturni, perché, come la notte, essi ci sono già sfuggiti. Perché, come la notte, hanno tutti quel fondo nero, che approssima un’anima all’altra. Il senso della nudità è il fondo oscuro da cui sorge, apparendo nello scomparire. Siamo abbandonati alla notte, a non sapere dell’avvenire. Non siamo abbandonati da nessuno, perché ci abbandoniamo, senza volerlo, senza saperlo. L’uno all’altro. Un abbandono implacabile. Ogni volta toccante, impressionante, grazie alla pelle nuda di cui siamo fatti, di cui solo gli immortali possono sbarazzarsi, e che è nera, per metafora, come la pellicola che cattura luce e immagini nei vecchi dispositivi fotografici. L’anima stessa è nera, l’intimità una camera oscura. Abbando´nati: può suonare come un imperativo. Rifuggi da te stesso, da tutto ciò che sembra identificarti: abbandonati. Divieni ciò che sei: abbandonato, al mondo, alle cose. Sempre verso, secondo quella poetica del nudo che ci è parso rintracciare nell’esistenza. La nudità, è questa una delle tesi che abbiamo sostenuto con più forza, non è mai uno stato, ma un movimento: va attuata, tramata, intensificata. Come se si potesse penetrare di più l’aperta nudità altrui, approfondirla, facendoci sentire. Il senso, il sentire si fa, come l’amore. La nudità, l’abbandono: è ciò che va fatto, che già si va facendo. Scrive Nancy: “Io” esige una bocca che si apra, e che io mi sia spinto, gettato fuori di me, che mi sia abbandonato. La voce è già un abbandono.2

2

J.-L. Nancy, L’essere abbandonato (1981), in L’essere abbandonato, trad. it. di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 1995, p. 11.

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L’orizzonte della nudità Né purezza, né povertà: la nudità ci è parsa appartenere ad una dimensione relazionale e costitutiva. Anzi, essa si è rivelata l’essenza di ogni condivisione. La nudità esprime il contrario dell’uno e dell’integro. Non vi è mai nudità integrale. Il senso del nudo consiste nel contatto, nell’offerta, nell’esposizione. La nudità non è solo umana, anche se quest’ultima è pur sempre il nostro punto di vista, ciò da cui ha origine l’interrogazione intorno al nudo. Consideriamo, per questo motivo, un dogma la restrizione della nudità alla nudità dell’essere umano.3 Perché ogni cosa è nuda. La nudità eccede l’opposizione nudo/velo entro la quale la nostra tradizione sembra confinarla. Essa viola inoltre tutte le opposizioni classiche della metafisica: proprio/improprio, presenza/assenza, universale/singolare. 3

È questo, secondo noi, il limite dell’opera di Jean Brun La nudità umana (trad. it. di D. Iannotta, Sei, Torino 1995, ed. or. 1973): qui la nudità è pensata come individualità, liberata da ogni abito, ossia da ogni velo. Emerge una certa considerazione del nudo che coincide con la persona umana nella sua finitezza. È questa, secondo noi, una concezione negativa della nudità, che pensa la nudità come il termine di un processo di caduta dei veli, il senza velo. La nudità resta, così, prigioniera del dispositivo che attraversa tutto il pensiero occidentale, da Eraclito ad Heidegger, ossia della dialettica nudo/velo, dove l’uno si oppone all’altro. Un tale dispositivo impedisce di pensare ciò che la nudità in sé manifesta. Intendiamo l’espressione nudità in sé nel suo senso letterale, come nudità nel sé, nell’individuo, ossia come la sua irrimediabile apertura, oltre ogni presunta integrità. Accompagna ogni pensiero della nudità, intesa nel suo senso genuino, dunque, una critica dell’integrità individuale.

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La nudità ha mostrato un nuovo orizzonte per il pensiero. Un orizzonte costituente, perché l’esposizione è ciò che sempre ci precede. A ragione Bousquet scriveva «la mia ferita esisteva prima di me»,4 perché è grazie a un’apertura, alla mia non integrità, alla mia estremità – che mi eccede e che mi invita a essere – che io sono, che noi siamo. L’avventura occidentale della conoscenza si è sempre posta come obiettivo fondamentale la rimozione della nudità, dell’esposizione. Il sapere occidentale ha sempre sognato la fine del corpo nudo, esposto, vulnerabile, anche quando lo ha esplicitamente esibito. Esso, fin dalle sue origini, ha rimosso e disprezzato l’evidenza della nudità, l’esposizione necessaria, per vaneggiare l’integrità dell’individuo. La nostra ricerca ha voluto mostrare l’immagine di pensiero che sostiene tale sapere, la sua doppia invenzione del nudo, che ha fatto della nudità qualcosa di inerte, di isolato, svincolata dal suo movimento, il disvelamento, che è il movimento più autentico della verità. Ancora oggi, nei nostri appartamenti, non facciamo che esorcizzare il nudo. L’appartarsi degli amanti non pare avere altro motivo che il non riversare nel mondo ciò che già trattiene a fatica e che lo dissolverebbe: il contatto non regolato dei corpi, il desiderio che sovverte la legge. Un pensiero della nudità, un pensiero che mette a nudo, è un pensiero che si schiera dalla sua parte. Solo se restiamo dalla parte della nudità, e cioè, in fin dei conti, della verità, l’avvenire non è già visto, annullato, ma ancora da svelare, aperto. È questo il senso del nudo: che l’avvenire resti aperto, che il suo acceso resti sgombro.

4

Su Bousquet e la ferita cfr. le belle pagine di G. Deleuze, Logica del senso, cit., pp. 133-137.

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APPENDICI

I. LA NUDITÀ DI VENERE*

Una figura per la storicità Pensare la storia, pensare la storicità, è stata sempre una delle grandi sfide della filosofia. Per agevolarsi il compito, ma soprattutto per facilitare la comprensione, capita che i filosofi ricorrano a delle figure. Celebre è quella dell’Angelus Novus di Klee, richiamata da Walter Benjamin: C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il *

La presente appendice riprende, aggiungendovi diverse modifiche, la comunicazione presentata al convegno internazionale Max Weber. Un nuovo sguardo (Università degli Studi di Napoli “Federico II”, 13-14 ottobre 2005) con il titolo “Grenzgebiete. Aby Warburg e Max Weber”.

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cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.1

Benjamin propone con tale figura un’immagine della storicità come qualcosa di irreparabile, che investe sempre un corpo, fosse pure quello senza carne dell’angelo. La storia ci travolge, ci espone all’avvenire, al suo arrivo imprevedibile, scagliati dal passato. Ogni presenza sarebbe allora il toccarsi di questa doppia eredità, del passato e del futuro. Un toccarsi che attraversa i corpi, che risuona in ogni esistenza. Tuttavia la figura dell’angelo non ci sembra incarnare la storicità pienamente, proprio perché pare trascurare la nudità del corpo che interviene nella storicità. Per tale motivo ci indirizziamo piuttosto a un’altra figura, una figura nuda. Grenzgebiete. Territori di confine In una pagina di diario del 1907, Aby Warburg si esprime in questi termini a proposito del saggio di Weber L’etica protestante e lo spirito del capitalismo: Leggo il meraviglioso saggio di Max Weber sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo. […] Grazie a questo contributo ho di nuovo il coraggio di credere nel mio saggio su Sassetti, visto e considerato che la problematica è simile: il tradizionale senso della vita (“intramondano-ascetico”) in quanto causa della nuova dedizione al mondo fiduciosa di sé.2

1 2

W. Benjamin, Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 80. Warburg Institute Archive, III.15.1.3, Tagebuch, 25 marzo 1907, trad. it. di M. Ghelardi, «aut aut», n. 321-322, p. 8.

80

Queste brevi righe mostrano come Warburg stesso abbia colto una convergenza preziosa tra uno dei suoi saggi più originali, ossia Le ultime volontà di Francesco Sassetti3 e l’opera fondamentale di Weber. Tale singolare prossimità diviene per Warburg l’attestazione che egli non è il solo a muoversi su dei Grenzgebiete, ossia su dei territori di confine. Nella lettera del settembre 1907 così scrive a Max Weber: Egregio Professore, il professor Hensel mi ha incoraggiato a inviarLe il mio studio su un banchiere fiorentino del primo Rinascimento. La pregherei di accettare questo scritto come segno di ringraziamento amichevole per il Suo saggio sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Ero sul punto di finire il mio lavoro, il cui metodo così poco convenzionale mi aveva fatto sentire all’opera su territori di confine [Grenzgebiete], finchè ho trovato nei Suoi ragionamenti il sostegno confortante che anche qualcun altro stava scavando dall’altra parte del tunnel.4

Il termine che Warburg utilizza nella lettera, ossia Grenzgebiete, indica il comune piano su cui agiscono le differenti ricerche dei due studiosi, come pure la natura più profonda della realtà storica che i loro studi vogliono svelare. Al di là dei loro rispettivi risultati, sia Warburg che Weber dischiudono una particolare natura dell’oggetto storico. Le due visioni convergenti offrono elementi preziosi per una filosofia della storia anti-idealistica, e in generale per la metodologia storiografica. Nelle loro ricerche l’oggetto storico è pensato al di là 3 4

Cfr. A. Warburg, Le ultime volontà di Francesco Sassetti (1907), in La rinascita del paganesimo antico, trad. it. di E. Cantimori, La Nuova Italia, Firenze 1996, pp. 211-246. Warburg Institute Archive, GC, Warburg a Weber, 9 settembre 1907, trad. it. di M. Ghelardi, «aut aut», n. 321-322, p. 9 .

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di un’ideale identità, e piuttosto come un nodo di rimandi, di differenze, come problema, non come entità definita e pura. Così le problematiche dell’individualità del Rinascimento in Warburg e del Capitalismo moderno in Weber mostrano tali idealità non come semplici raccoglitori né come tappe di un processo teleologico, quanto piuttosto come nessi differenziali, Grenzgebiete appunto, di elementi a prima vista, e in una prospettiva strettamente identitaria e opposizionale, inconciliabili. Nel suo saggio Le ultime volontà di Francesco Sassetti Warburg dimostra come gli aspetti religiosi fossero aspetti di non poco conto nella vita del banchiere rinascimentale incarnato da Sassetti e che dunque la percezione abituale del Rinascimento, come manifestazione di uno spirito ottimistico e secolarizzato, era errata. L’immagine del superuomo rinascimentale legato alla grecità viene decostruita da Warburg per rivelare una realtà inquieta dove il conflitto tra il banchiere Sassetti – che voleva per la sua cappella di famiglia affreschi dedicati a San Francesco – e i domenicani del santuario di Santa Maria Novella a Firenze, appariva un caso esemplare. Domenicani e francescani erano infatti ordini rivali e Sassetti fa spostare la cappella nella chiesa di Santa Trinità pur di non rinunciare a onorare il suo patrono. Ma le volontà di Sassetti lasciano trasparire un altro elemento fondamentale: la coesistenza di un paganesimo mondano – che aveva nella Fortuna il suo valore centrale – e di una devozione religiosa cristiana e ascetica.5 Del resto, lo stemma della famiglia Sassetti, un centauro che scaglia una pietra, non sembrava incompatibile con una

5

Cfr. E. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale (1970), trad. it. di A. Dal Lago e P. A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2003 pp. 148-152.

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prospettiva religiosa cristiana. L’individualità del Rinascimento si presenta, pertanto, come una contrazione di eterogeneità, di caratteri che nella contrazione sopravvivono al loro tempo e ingravidano il nuovo. Un tale processo, che Warburg chiama Nachleben, è totalmente differente dall’Aufebung hegeliano. Mentre quest’ultimo è il movimento stesso dello spirito, dell’unico e medesimo spirito, che supera e conserva, l’espressione Nachleben indica la contaminazione furtiva, di più di un’eredità, di più di uno spirito, ovvero delle sopravvivenze.6 Tali spiriti popolano i Grenzgebiete, come le zone nude della storia, ossia aperte alle più insospettabili irruzioni e contaminazioni.

La nudità di venere La Nascita di Venere di Botticelli, a cui Warburg ha dedicato un importante studio,7 non potrebbe essere più esplicativa di una tale nudità. E non solo perché essa è già in sé una contrazione di elementi eterogenei, essendo la parafrasi di versi del Poliziano, a loro volta parafrasi di quelli di Omero. Warburg stesso non sembra notare nel dipinto una polarizzazione a partire dalla centrale nudità di Venere: a sinistra infatti viene rappresentata la componente greca incarnata dal soffio di Zefiro, abbracciato alla ninfa Clori, ma a destra Ve-

6 7

Cfr. G. Agamben, Aby Warburg e la scienza senza nome, in La potenza del pensiero, Neri Pozza,Vicenza 2005, pp. 123-146; G. Didi-Huberman, L’image survivante, Minuit, Paris 2002. A. Warburg, La “Nascita di Venere” e la “Primavera” di Sandro Botticelli (1893), in La rinascita del paganesimo antico, cit., pp. 1-58.

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nere sta per essere coperta da un elemento assente sia in Poliziano che in Omero, ovvero una ninfa che per la sua rappresentazione delle vesti, come pure della sua stessa costituzione, ha caratteri decisamente nuovi, differenti dalle ninfe greche, che sia in Poliziano che in Omero erano, inoltre, tre. Dunque Botticelli sembrerebbe mettere in scena uno schema della temporalità storica e la genesi dell’individualità del Rinascimento. Dal passato giunge lo “spirito” della grecità, e il soffio di Zefiro per incarnare questo spirito non potrebbe essere più simbolico; nello stesso tempo anche il “nuovo” sopraggiunge su Venere: una ninfa dagli abiti svolazzanti che sembra incarnare un altro spirito. Ma non bisogna dimenticare il pudore di Venere, poiché non vi sono solo spiriti esteriori, ma anche interiori. Venere infatti, a differenza del suo corrispettivo in Omero, si copre prima di essere coperta, si copre con i suoi lunghi capelli, e il suo coprirsi mostra certo lo spirito della cristianità ascetica. La dimensione dello spirito come Nachleben e la natura dell’oggetto storico come contrazione differenziale, avvicina Warburg a Weber. Per quest’ultimo, infatti, il problema dell’individualità del capitalismo moderno diventa il problema della sua genesi in una prospettiva di contrazioni differenziali. È nota la tesi di Weber che il capitalismo moderno deriverebbe da un’etica protestante, in particolare quella calvinista. Tuttavia che il capitalismo moderno “derivi” da un tale ethos non rende giustizia al processo, che di fatto contrae degli elementi del protestantesimo e non altri. Una tale contrazione differenziale attesta infatti la presenza di uno spirito particolare all’interno della genesi del capitalismo moderno. Questo spirito presenta tutte le caratteristiche di ciò che Warburg chiama Nachleben. Infatti, il problema che lo studio di Weber pone, al di là delle sue stesse dichiarazioni, non è il problema circa l’identità del capitalismo (che cosa es84

so sia o che cosa rappresenti), quanto piuttosto il problema circa che cosa nel capitalismo sopravviva e venga rilanciato, perché, proprio in virtù di questa sopravvivenza, il capitalismo moderno diventa un fenomeno unico. Lo storico del capitalismo moderno dovrà infatti riconoscere che un tale fenomeno incorpora selettivamente differenti soluzioni e sfere di valore, per costruire una nuova soluzione delle tensioni dell’avvenire. Il diffondersi della razionalizzazione nel mondo occidentale non ha prodotto in ogni luogo il capitalismo moderno. Quest’ultimo ha avuto luogo grazie a delle condizioni a prima vista inconciliabili con l’incremento dell’attività economica. La contingenza del capitalismo moderno esprime, insomma, il suo essere una combinazione di elementi, non spiegabile se non in termini di evento, ossia di assoluta inanticipabilità. Il confronto tentato tra Warburg e Weber ha non poche conseguenze soprattutto in merito alle nozioni di esposizione e di ermeneutica. La nudità della Venere di Botticelli dice la porosità dell’individualità storica, la sua apertura verso altro. L’individualità storica diviene pertanto una contrazione di elementi espropriativi, diviene la paradossale convergenza di tratti che tentano in ogni istante di decentrare una concentrazione. L’individualità è così solo nominale, perché essa di fatto si presenta come una dividualità. È il paradosso del dato di ogni esperienza: ciò che si presenta è uno, e nello stesso tempo ciò che si presenta è molteplice. La nudità dell’individualità storica, che la Venere incarna, esprime l’eccesso d’uno costitutivo del reale, essendo l’esposizione insieme vulnerabilità e offerta. L’identità non dura: essa è in ogni momento sempre perduta proprio perché sempre esposta. Un tale stato rappresenta in un certo senso ciò che Heidegger chiamava l’ermeneutico.8 8

Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio (1959), trad.

85

Oggi l’ermeneutica, in particolare l’ermeneutica filosofica,9 rappresenta la dottrina dell’inter-pretazione o il riconoscimento del carattere esistenziale del comprendere umano attraverso l’orizzonte del linguaggio. L’ermeneutico, al contrario, dice la contrazione come carattere fondamentale degli enti, l’essere più d’uno dell’essere stesso. L’ermeneutico diviene l’oggetto di una filosofia dell’esposizione, non già una dottrina o una pratica. Ermeneutica è la nudità, perché essa dice l’apertura alla venuta inanticipabile dell’altro. Ermeneutica è la Venere di Botticelli, ermeneutici il Rinascimento di Warburg e il capitalismo di Weber. Riferendosi spesso alla mitologia del dio Hermes per indagare l’origine greca dell’ermeneutica, quasi mai viene notato che Hermes è anche il protettore dei ladri. Ermeneutica è la disposizione all’irruzione, al divenir altro. Ma l’ermeneutica filosofica, invece, così come si è storicamente costituita, presuppone ciò che dovrebbe spiegare: non la dinamica dell’applicazione del comprendere, ma il cum implicato nell’espressione com-prendere e negli oggetti che essa di volta in volta studia. Nella sua opera Le partage des voix10 il filosofo Jean-Luc Nancy riprende l’indicazione di Heidegger di intendere la parola “ermeneutica” nel senso dell’annuncio. Entrambi fanno riferimento allo Jone di Platone e all’hermeneuein platonico, dove il rapsodo Jone interpreta Omero, non perché lo capisca, bensì perché si lascia attraversare da lui.

9 10

it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1973, p. 91. Il riferimento privilegiato, cardine dell’ontologia ermeneutica, è H. G. Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Mohr, Tübingen 1960. Cfr. J.-L. Nancy, La partizione delle voci (1982), trad. it. di A. Folin, Il poligrafo, Padova 1993.

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Con Warburg, Weber, Botticelli si può affermare che Omero ritorna in Jone (così come ritorna nella Venere). Nel rapsodo si manifesta l’ermeneutico, perché egli stesso si fa luogo di confine. Ciò che accade è una com-prensione, non in senso intellettualistico, ma nei termini di ciò che abbiamo chiamato contrazione differenziale. È sempre la nostra esposizione che ci fa comprendere, che ci fa essere compresi. Essa esprime la nostra capacità di contrarre situazioni, abitudini, concetti, passioni, ovvero sopravvivenze e sopravvenienze. La Venere di Botticelli, secondo un’acuta lettura di DidiHuberman11 mette in opera l’apertura del sé, la storicità che giace sul limitare dei corpi, al di là di ogni eucronia. Il passato, l’avvenire, la presenza accadono in quanto eventi, ecceità: essi non esprimono forme di un tempo omogeneo a priori, ma i modi in cui gli eventi si ripetono e risuonano nell’individuo. Quest’ultimo si risolve, secondo il concetto di contrazione differenziale che abbiamo proposto, nell’orizzonte di una in-dividualità, entro un ambito di composizione ermeneutica, di nudità permanente.

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Cfr. G. Didi-Huberman, Aprire venere. Nudità, sogno, crudeltà, cit.

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II. NUDITÀ E GIOCO IN GEORGES BATAILLE

Nudità, gioco, comunicazione Nel corso della nostra trattazione abbiamo attribuito a Bataille il merito di aver dato luogo a un nuovo senso della nudità, un senso affermativo, che fa della nudità un vero e proprio orizzonte dell’esistenza. Interessante è rilevare, in sede di approfondimento, come questo senso si intrecci per Bataille con altre due nozioni fondamentali del suo pensiero: quelle di gioco e di comunicazione. Bataille collega la nudità all’esperienza del gioco, ovvero dell’essere messo in gioco. Essere radicalmente esposti, per Bataille, non è che il gioco più grande. Gioco e nudità vanno, inoltre, pensati insieme all’attività preindividuale e transindividuale della comunicazione. Bataille congiunge i tre termini nelle seguenti affermazioni: La “comunicazione” non può avvenire da un essere pieno e intatto a un altro, essa vuole esseri in cui si trovi posto in gioco l’essere […] La comunicazione avviene solo tra due esseri messi in gioco – lacerati, sospesi […] Il nudo casto è l’estremo limite dell’imbecillità […] Perché una volta nudo, ciascuno di noi si apre a qualche cosa di più che se stesso, si inabissa dap-

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prima nell’assenza di limiti animali. Ci inabissiamo, allargando le gambe, spalancati il più possibile a ciò che non è più se stessi ma l’esistenza impersonale, paludosa, della carne. La comunicazione dei due esseri che passano attraverso una perdita di se stessi nel dolce fango che è loro comune...1

Comunicazione, nudità, gioco: indicano il comune orizzonte dell’esposizione, insieme inquietante e ricco. Il gioco, il mettersi in gioco, è un modo affermativo di praticare la nudità, di essere dalla parte del nudo. Al di là dell’economia dell’utile, il gioco esalta il dispendio, comunica il proprio eccesso, perché solo l’eccesso è comunicato e comunicabile. L’agire in vista della propria assicurazione non fa che rendere la nudità casta e il proprio essere nel mondo mancato e mancante. Il gioco è dedizione dispendiosa contraria a ogni speculazione: La differenza tra speculazione e messa in gioco spartisce atteggiamenti umani diversi […] Nel primo caso, la speculazione sul futuro subordina il presente al passato. Riferisco la mia attività ad un essere futuro, ma il limite di quest’essere è tutto determinato nel passato. Si tratta di un essere chiuso, che si vuole immutabile e che si limita al suo interesse. Nel secondo caso, lo scopo indefinito è l’apertura, superamento dei limiti dell’essere: l’attività presente ha come fine ciò che nel tempo futuro è incognito. I dadi sono gettati in relazione a un aldilà dell’essere: a ciò che ancora non è.2

Sulla scorta di Nietzsche, il gioco, secondo Bataille, può raggiungere il culmine dell’immanenza, ovvero il culmine 1 2

G. Bataille, Su Nietzsche (1945), a cura di A. Zanzotto, SE, Milano 1994, pp. 50-51; 124. Ivi, p. 178.

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dell’esposizione, uno stato al di là del bene e del male: «Lo stato di immanenza indica una completa esposizione di sé al gioco, tale che soltanto un evento indipendente dalla volontà possa disporre di un essere così a fondo. Appena dissipato l’inganno della trascendenza, la serietà è dissipata per sempre. Tuttavia, nell’assenza di serietà sfugge ancora l’infinita profondità del gioco: il gioco è la ricerca, di sorte in sorte, degli infiniti possibili».3 Quello del gioco è un diverso atteggiamento nei confronti del possibile, dove il possibile non è previsto, anticipato, ma piuttosto impossibile, cioè inatteso: il gioco non è che desiderio della possibilità dell’impossibile, desiderio dell’avvento del miracoloso che l’umanità sembra, in ogni istante, bramare. Il gioco non ha obiettivo, né fine: è, per essenza, rovinoso, struggente. Nel gioco si mostra la chance, concetto fondamentale di Bataille, ovvero l’apertura attraverso la quale è data da provare la soddisfazione, l’incontro con l’impossibile.4 Nel gioco, non vi è altro in palio che la felicità. Il gioco sovrano La concezione batailleana del gioco urta ogni concezione riduttiva del gioco, come divertimento o distensione. Tuttavia, nonostante il concetto di gioco attraversi tutta la sua opera, è solo nella recensione alla celebre opera di Huizinga Homo ludens. Saggio sulla funzione sociale del gioco5 che 3 4 5

Ivi, p.180. Cfr. ivi, p. 130. G. Bataille, Siamo qui per giocare o per fare sul serio? (1951), in L’aldilà del serio e altri saggi, a cura di F. C. Papparo, Guida, Napoli 2000, pp. 327-351.

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Bataille affronterà criticamente la nozione, distinguendo la sua concezione estrema dalle altre correnti. Nell’analisi dedicata al testo di Huizinga, che Bataille recensisce sviluppando però un discorso autonomo e per certi versi critico, vengono individuati due tipi di gioco: […] Ci sono due tipi di gioco, maggiore e minore; solo il minore è riconosciuto in un mondo in cui l’utile e non il gioco è sovrano; per questa ragione, niente è meno familiare al nostro pensiero del gioco maggiore, che non può servire e in cui si manifesta la verità profonda: di sovrano c’è solo il gioco e il gioco che non è sovrano è solo la messinscena del gioco. […] Devo chiedermi […] come potrebbe il fatto di affrontare la morte avere più chiaramente di così il senso del gioco, del gioco supremo, che non differisce più da una consacrazione sovrana, e che ne espone esplicitamente il senso.6

Per Bataille gioco e sovranità sono inseparabili, al punto che il primo rivela l’agire sovrano autentico, ovvero l’agire che non teme la morte. Il gioco sovrano sfida il mondo del lavoro, la sua tristezza, per opporvi l’accettazione del rischio della morte e un senso dell’esistenza che vada lontano il più possibile, in direzione opposta al proprio interesse. Il gioco sovrano è dono, di sé, delle proprie risorse. Tutt’altro dal gioco minore, distensivo e utile, tollerato dal mondo del lavoro in cui l’unica sovranità è data alla paura della morte, che restringe ogni possibilità di gioco. Perché, per Bataille, il giocatore autentico è al contrario colui che mette la propria vita in gioco, che il gioco vero è quello che pone il problema della vita e della morte.7

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Ivi, pp. 344; 347. Ivi, p. 337.

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È interessante notare come, nella sua analisi dell’arte parietale delle grotte di Lascaux, Bataille veda l’arte, la nascita dell’arte, all’interno della dimensione del gioco.8 L’arte incarnerebbe non il gioco minore, ma il gioco sovrano, perché proprio dell’arte è la sfida della morte, l’accesso sovrano alla morte, la festa senza fine per ciò che è meraviglioso.

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G. Bataille, Lascaux. La nascita dell’arte(1955), a cura di S. Mati, Mimesis, Milano 2007, p. 34 e sgg.

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