Il segreto del Tuffatore. Vita e morte nell'antica Paestum 9788820768768, 9788820768775

Nel '68 non c'è stato solo il Sessantotto. È stata anche scoperta, il 3 giugno, a Tempa del Prete, nella zona

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Il segreto del Tuffatore. Vita e morte nell'antica Paestum
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Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
Premessa/Avvertenza
Il segreto del Tuffatore
Note ai singoli punti/paragrafi
Quarta di copertina

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Gigi Spina

Il segreto del Tuffatore Documento acquistato da () il 2023/04/27.

Vita e morte nell’antica Paestum

Liguori Editore

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Il paesaggio e la bellezza

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Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2020 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Aprile 2020 Spina, Gigi : Il segreto del Tuffatore. Vita e morte nell’antica Paestum / Gigi Spina Napoli : Liguori, 2020  

ISBN 978 – 88 – 207 – 6876 – 8 (a stampa) eISBN 978 – 88 – 207 – 6877 – 5 (eBook)

1. Archeologia  2. Mitologia  I. Titolo  II. Collana  III. Serie Aggiornamenti: ————————————————————————————————

2024 2023 2022 2021 2020     8 7 6 5 4 3 2 1 0

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 Premessa/Avvertenza Provo a mettermi nei panni di lettrici e lettori di questo libro, dandovi subito qualche istruzione per l’uso. La trama narrativa è fatta di racconti antichi, per la maggior parte, ma anche di citazioni moderne. Vi rassicuro subito: nelle pagine finali troverete le note ai singoli punti/paragrafi. Le note cercano di spiegare tutto quello che non risulta abbastanza chiaro nel testo. Quando trovate un asterisco, potete essere sicure/i che la parola o l’espressione viene spiegata nella nota. Se proprio dovesse rimanervi qualche dubbio, potete contattarmi all’indirizzo mail [email protected]. Come studioso del mondo antico greco e romano e della sua ricezione nelle culture moderne, ho spesso affrontato il tema delle riscritture o riadattamenti di testi classici, ma non avrei mai avuto l’idea di raccontare, facendo massiccio ricorso alla fantasia, l’origine di un monumento come la Tomba del Tuffatore se una cara amica, con la v

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quale condividiamo da molti anni entusiasmanti imprese di diffusione della cultura, non me lo avesse esplicitamente chiesto, facendomi improvvisamente scoprire che mi sarebbe piaciuto farlo. So che non ama i ringraziamenti, per cui mi limito a sottolineare che questa è solo una delle nostre condivisioni, la più inattesa, forse, in attesa delle prossime.

vi

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0 … È un bellissimo giorno di primavera, di quelli che sembrano voler regalare solo fiori e odori. Sul terrazzo, all’ombra, sto leggendo un libro che devo recensire per una rivista. C’è una voce che mi sta disturbando da un po’. Non riesco a capire da dove viene. Non è nessuno dei miei vicini, le loro voci le conosco fin troppo bene. Provo ad affacciarmi. No, non viene neanche dalla strada. Una voce cupa, come se venisse … no, che vado a pensare? Allora chiudo il libro e mi concentro. Magari riesco a capire qualche parola. Niente. Entro in casa, fa un po’ più caldo, ma almeno riprendo la lettura …. Paestum … Ora la voce è più chiara, dentro casa è più chiara. Non viene da un punto preciso, è come se venisse da tutte e quattro le pareti contemporaneamente e anche dal soffitto. Dal pavimento, no! Non faccio in tempo a chiedermi seriamente cosa mi stia capitando, che sento: Paestum, antica Poseidonia, Paestum, antica Poseidonia … con il tono di quelli che provano il microfono prima di una conferenza: ‘Mi sentite? Prova, Saaa, Saaaa …’. Ma come mi viene in mente una cosa del genere? La voce continua con quella che sembra una formula di presentazione e di contatto. Poi silenzio assoluto. 1

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All’improvviso, come se si fosse sbloccato qualcosa, come se fosse stato eliminato un filtro o la sordina di una tromba, la voce comincia a parlare con una chiarezza e una fluidità incredibili. Non ci penso un momento. Attivo la registrazione con il primo marchingegno che mi trovo a portata di mano sul mio tavolo di studio e rimango lì, ad ascoltare, senza neanche il tempo di chiedermi altro. So solo che cercherò di capire e spiegare tutto, quando riascolterò la registrazione, e che non dovrò rimanere il solo a sapere cosa è successo a Paestum, antica Poseidonia. Sempre che questa voce continui a parlare.

1 … se fossi il personaggio di un romanzo di Murakami Haruki, non avrei nessuna difficoltà a convincervi che, rimasto sepolto per anni in una tomba sigillata, sono riuscito, magari attraverso una piccola apertura in un angolo del sepolcro, a ritrovarmi fuori e a raccontare la mia esperienza. Storia incredibile, eppure creduta senza difficoltà da umani come voi, che già vi starete chiedendo di chi è questa voce narrante e dove voglio arrivare con questo inizio accattivante. Allora è meglio dirlo subito, spiazzarvi con un nuovo inizio, ma vero, non comparativo. 2

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2 Ero uno dei partecipanti al simposio funebre che da un po’ più di cinquant’anni tutto il mondo può ammirare a Paestum, antica Poseidonia, proprio nella sala del Museo Archeologico, ma anche nei libri o addirittura attraverso immagini in rete. Sono uno di quelli della cosiddetta lastra nord – meglio essere precisi con voi moderni: la lastra di una tomba –, quello di sinistra della coppia che gioca al cottabo. Ero abbastanza giovane, allora, poca barba, occhi chiari e muscoli bene allenati. Le mie dita, disse chi mi vide fra i primi, sembravano appena sfiorare la coppa quasi sospesa nel vuoto. Vero, ed è vero anche che il mio sguardo, fisso e intenso, anticipava quasi la tensione del lancio. L’amico che giocava con me, mentre aspettava il suo turno, fu distratto dalla coppia di amanti sdraiati sulla destra. Non posso dirvi cosa stava sussurrando l’amante anziano all’efebo privo di barba, tenendogli la mano dietro la nuca quasi per orientarlo. Vi dico solo che il mio amico, poi, ancora eccitato, sbagliò il colpo. Vi spiegherò, in questo intervento, tutto di me, della mia vita a Paestum; vi parlerò di cosa stavamo facendo – quindi anche del gioco del cottabo – quel giorno che un pittore ci chiese di posare per un affresco funebre, dedicato a un giovane amico, 3

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il più giovane del gruppo, che voi conoscete come il Tuffatore. Vi parlerò, naturalmente, anche di lui e della sua Tomba. E vi dirò chi era il pittore. So che vi starete chiedendo come mai possa parlare di lui, del Tuffatore, e di Murakami Haruki nello stesso momento. Se cioè io sia uno di voi moderni o uno degli antichi. Il fatto è che io sono entrambi, nulla di strano: ho vissuto per qualche anno fuori da quella tomba, dopo che fu sigillata per chi doveva abitarla da defunto; poi ho avuto anche io la mia, non saprei dire dove, ma senza affreschi, senza epigrafi, mio padre era già morto; solo un segno funebre, una sirena a marcare il territorio, con le ali da uccello bene spiegate. Io sono rimasto vivo nel mio ritratto, dentro la tomba.

3 Funziona così per la maggior parte di noi. Se siamo stati ritratti, diventiamo immortali, possiamo continuare a pensare e parlare. Il tempo viene neutralizzato in un continuo presente, un’unica dimensione che annulla passato e futuro. Conosciamo tutto quello che è accaduto dal momento del ritratto e continueremo così anche se il tempo o qualche iconoclasta dovesse distruggerci. Lo stesso vale per chi ha scritto molto ed è stato 4

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letto nel tempo, anche se non è stato mai ritratto. Risulta un po’ più complicato da capire, è vero, e comunque non riguarda me e quindi non vedo perché dovrei annoiarvi con un trattato sulla sopravvivenza dell’antico, che alcuni chiamano fortuna. Vi basti sapere che chi scrive può continuare a parlare con le sue parole, cui si aggiungono, però, quelle dei suoi lettori e dei suoi critici. Noi, ritratti, abbiamo solo una voce. Che a volte può essere ascoltata. Vi chiedo subito di non stupirvi di anacronismi, sovrapposizioni temporali, inversioni cronologiche sparse qua e là. Sono gli inconvenienti della diacultura*. La chiamo così, invece che col nome che voi preferite, ricezione, perché mi sembra faccia capire meglio. Non si tratta solo di ricevere, di accogliere il passato, ma di sviluppare una cultura diacronica, accumulata nel tempo e attiva, dinamica, i cui strati quasi non si riconoscono più: vale l’ultimo come risultato arricchito, nel presente, dei vari strati del passato.

4 Per esempio, a un certo punto della mia vita immortale, si aprì un dibattito fra professori sul rapporto fra poesia e pittura, entrambe arti del riprodurre e quindi del creare: se cioè la pittura 5

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fosse come una poesia muta e, viceversa, la poesia come una pittura parlante. Un dibattito antico, che in realtà riguardava il rapporto fra la vista e l’udito. Lo sintetizzò bene una donna, una poetessa di nome Erinna, dedicando un epigramma a un’altra donna, morta in giovane età: Se chi raffigurò questa ragazza le avesse dato anche la voce, allora Agatarchide avremmo in carne e ossa.

Qualcuno tentò di spiegare meglio: quelle azioni che i pittori mostrano come fissate nel momento in cui avvengono, i discorsi le ripercorrono come già avvenute e le fissano nella scrittura; differiscono, quindi, per la materia che usano e per il modo, ma il fine imitativo è lo stesso. Poi, però, arrivò Platone, che non si accontentava delle spiegazioni semplici e, per sostenere le sue ragioni, criticò sia pittura che discorso: sì, disse, le immagini sono vive, ma tacciono; i discorsi ragionano, ma tacciono anche loro. Roba da intellettuali, insomma, che, per quanto antichi, non conoscevano a fondo neanche loro i nostri segreti. D’altra parte, meglio lasciarli discutere e litigare, hanno diritto anche loro a sentirsi vivi. 6

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5 E ora provo a presentarmi meglio. Mi chiamo Bute, sono nato a Elea, insomma Velia, poi ho seguito mio padre che trovò da lavorare a Poseidonia – d’ora in poi chiamatela con me Paestum, sarà più facile – perché era un bravo pittore, un Maestro. In realtà, appena nato mi chiamarono Parmenide, a Velia da un certo momento in poi chiamavano quasi tutti così; poi, giunto a Paestum, mio padre mi cambiò il nome: Bute. Il mio nuovo nome non era molto diffuso; mio padre l’aveva sentito da un mitologo, uno di quei raccontastorie che arrivavano in paese e ti facevano vedere il mondo. State pensando a Nuovo cinema paradiso o a L’uomo delle stelle? Be’, non siete lontani dal vero: prima del cinema, che è parola nostra e indica il movimento, il movimento lo creavano le parole, che mettevano dinanzi agli occhi le storie. Il cinema lo avevamo in mente, lo aveva capito anche Italo Calvino, per cui scrisse: Questo «cinema mentale» è sempre in funzione in tutti noi, – e lo è sempre stato, anche prima dell’invenzione del cinema – e non cessa mai di proiettare immagini alla nostra vista interiore. 7

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Il mitologo che piaceva a mio padre raccontava la storia degli Argonauti, un manipolo di eroi che seguì Giasone in Colchide, sulla nave Argo, alla conquista del vello d’oro. Lo so, voi conoscete Giasone per quello che hanno raccontato poi di lui e di Medea, la sua sposa barbara, del matrimonio e del tradimento, del suo razzismo e dei figli uccisi da Medea. Film anche quelli, potrei dire: vi basterà il nome di Pasolini. Ma Giasone, dalle nostre parti, voleva dire la costruzione di un Heraion, un tempio in onore di Era Argiva, la sposa di Zeus, a una cinquantina di stadi – circa dieci dei vostri chilometri – da Paestum, vicino alla foce del fiume Sele. So che in molti ci passano vicino senza accorgersene, perché la loro méta sono le famose bufale in cattività e i meravigliosi prodotti, ottimi da mangiare, che valenti mani di artigiani confezionano dinanzi ai vostri occhi. Bene, in quel tempio c’era un’iscrizione con la dedica di Giasone a Era. Solo che qualcuno, magari uno studente sfuggito al suo pedagogo durante una gita, aveva inciso sotto il nome di Giasone quelli di tutti gli Argonauti, come i nostri nonni li elencavano, avendoli sentiti dai loro nonni: Eracle, Orfeo, Bute… Quest’ultimo nome aveva colpito subito mio padre, anche perché si raccontava che Bute, il for8

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tissimo Bute, figlio di Teleonte, venuto dall’Attica, era stato l’unico a ignorare Orfeo quando la nave Argo era passata davanti all’isola delle sirene, ben prima di Odisseo legato all’albero maestro e dei suoi marinai con la cera dentro le orecchie. Orfeo, che era un famoso poeta, un musico, un uomo dalla vita misteriosa e fonte di misteri, aveva suonato con veemenza la sua cetra per soffocare il canto ammaliante delle sirene e c’era riuscito … con tutti tranne che con Bute, che invece aveva lasciato il suo banco di rematore e si era tuffato dalla poppa di Argo, incurante delle urla dei compagni. Voleva raggiungere le sirene e cantare con loro. Poi, certo, l’aveva salvato una dea, mi pare Afrodite, ma intanto Bute si portava la fama di uno che non aveva paura di nulla, che andava dove lo portava il cuore (o le orecchie?), curioso del mondo e pronto a ogni sfida. E può un padre non augurarsi un futuro così per suo figlio?

6 Quindi, giunto da piccolo nella nuova città, non lontano, pensate un po’, dai luoghi delle sirene, due delle quali si chiamavano Leucosia e Partenope, fui ribattezzato (pardon!) Bute. Ecco, se gli Argonauti di cui sto parlando erano quel gruppo di eroi abituati a fare impresa insieme, 9

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ad aiutarsi a vicenda, e le donne, tranne quelle che governavano la casa, c’entravano poco, a meno che non fossero valenti musiciste o provette etere, diciamo dame di compagnia, o poetesse … noi ragazzi di Paestum eravamo un gruppo così: abituati, sin da bambini, a correre davanti ai templi, a nasconderci per mettere ansia alle nostre madri, a imitare gli eroi omerici nelle nostre lotte furibonde. Alcuni di noi sapevano leggere e scrivere, altri erano bravi con l’arco, altri nella corsa. A nuotare eravamo bravi tutti; anche a tuffarci in mare; ma certo io, col mio nome, ero il più spericolato, portavo impresso sicuramente nel mio DNA mitologico un tuffo da incosciente, non tanto per l’altezza della poppa di Argo, quanto per la mèta che mi prefiggevo. Con Poseidonio – ora posso dirvi il nome del Tuffatore, che portava il nome antico della sua città perché la sua stirpe la abitava quasi dalla fondazione – non eravamo proprio amici stretti, ma certo ci intendevamo appena vedevamo l’acqua del mare. Anche lui bravo a tuffarsi, ma più calcolatore, meno improvvisatore: un tuffo doveva avere una ragione, un motivo valido. Per questo, forse, notavo spesso in lui una insistita rivalità nei miei confronti: citava a memoria Omero appena io facevo il nome di un eroe, cantava appena io provavo a pizzicare la lira, quando mi nascondevo faceva di tutto per farmi scoprire. 10

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Poi arrivò lei. La vedemmo la prima volta in processione al tempio di Zeus, con le donne della famiglia, lei piccola e magra, ma con occhi azzurri come il nostro mare. Forse era originaria della Grecia. Cantava abbastanza bene dando voce alle note delle flautiste, con cadenze tenui e delicate; certo non avrebbe mai potuto sovrastare il canto delle sirene, ma questa è una riflessione da Bute, Poseidonio non faceva comparazioni. Poseidonio disse subito, ad alta voce, perché tutto il gruppo registrasse e ricordasse: “Eros ha già colpito me, prima di tutti voi!”. In realtà lo disse modulando le sillabe, quelle di lunga e quelle di breve durata, perché Poseidonio era anche un poeta, un versificatore nato; il ritmo gli veniva spontaneo, quasi come a un improvvisatore jazz… Ricordo che io abbozzai, ma divenni subito rosso in volto. Gli altri non se ne accorsero, perché presi la rincorsa verso l’orizzonte, gridando: “all’ultimo!” … Poseidonio dimostrò subito la forza di Eros. Nei giorni e nelle settimane seguenti non fece mancare la sua presenza ai festeggiamenti in onore di Zeus, di Apollo, di Era, degli dèi locali, greci e non, all’agorà e al mercato, ai rari spettacoli teatrali e ginnici, districandosi fra le varie opportunità che una città ‘meticcia’ come la nostra offriva ai 11

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ragazzi che sentivano di esserne i cittadini per eccellenza. Non perché fosse interessato o coinvolto, no: solo perché, l’avevo scoperto subito, lì c’era la sua Thalàssia, la cantante dagli occhi azzurri. Un nome che ricordava il mare, e quindi i tuffi: a lui! A me, invece, ricordava il trigone, quel pesce velenoso che aveva portato la morte a Odisseo, i pericoli del mare, l’onda improvvisa che spazza via una barca felice. Purché tutto questo si rivolgesse contro Poseidonio! Pregai Zeus, non posso negarlo: “Volgi verso di me lo sguardo di Thalàssia, fa’ che mi guardi almeno una volta. So come farla innamorare di me”. Il tempo passava e Zeus non sembrava avermi ascoltato. Paestum s’ingrandiva, noi stessi eravamo più grandi, io fingevo di essere ancora amico di Poseidonio, anche se cercavo continuamente di rubargli l’amata. Mi mettevo in mostra ogni volta che lei passava, ma lei sembrava riservare i suoi occhi azzurri solo a Poseidonio, anche se il loro amore si limitava unicamente a sguardi intensi. Soltanto una volta si volse verso di me, mentre tentavo invano una piroetta come l’avevo vista raffigurare da mio padre su un grande vaso destinato a contenere olio. Un danzatore festeggiava la raccolta delle olive improvvisando una danza 12

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acrobatica, mentre un corteo di donne, offrendo in fila il profilo destro, trasportava vasi sicuramente pieni d’olio – una perfetta mise en abîme, direbbero i più sofisticati di voi. Il danzatore sembrava danzare in aria perché i suoi piedi erano sollevati da terra, la gamba destra era ripiegata all’indietro con un perfetto angolo retto, mentre la sinistra sembrava allungarsi dritta, contro ogni legge fisica, verso la testa. A casa avevo tentato e ritentato, di nascosto da mio padre, di riprodurre la riproduzione – la vita, a volte, tenta di imitare l’arte – fin quando non ero riuscito a comporre in aria un incrocio di gambe, non proprio come quello del vaso, ma abbastanza complicato e suggestivo. E così Thalàssia si voltò mentre tentavo la piroetta al suo passaggio e, purtroppo, rimase a guardarmi mentre finivo rovinosamente a terra con le gambe intrecciate alle braccia, non so ancora come, e il naso che cominciava a perdere sangue. Non capii se aveva preso a ridere o a piangere, scuoteva la testa come in preda a un’emozione incontrollata, finché non si girò di spalle e corse via, seguita dalle amiche. Poseidonio, che la seguiva a poca distanza – era il loro modo di frequentarsi, ogni tanto si scambiavano qualche parola di corteggiamento e di risposta incoraggiante –, venne verso di me e mi aiutò a rialzarmi. 13

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Gli altri amici mi presero in giro: “Bute casca, Bute casca!”. E improvvisarono una sorta di piccola processione festosa. Gli amici! Non vidi più Thalàssia per qualche settimana; in realtà feci di tutto per non vederla, spinto dalla vergogna sia per la mia fallita piroetta, sia per il desiderato, ma ancora virtuale, tradimento dell’amico. Ma non sapevo che Eros, che opera indipendentemente dalla volontà e dai sentimenti dei mortali, aveva già fissato il nostro destino.

7 Era una bellissima giornata, di quelle che a Paestum chiamiamo antologiche*: quando, cioè, i fiori sembrano invadere le strade, i templi, le case, le menti umane e le tombe, per ridurre tutte le sensazioni a odori e colori. Qualcuno, giunto a Paestum dal nord, voleva festeggiare non so quanti decenni passati da quando era stata fondata una città che vantava origini troiane e destini luminosi, tracciati da intese di divinità polietniche. Il gruppo di stranieri aveva allestito un fuoco sacro intorno al quale una compagnia di mimi avrebbe dovuto rappresentare la storia di due bambinetti allattati da una lupa, uno dei quali era più forte e democratico, l’altro malaticcio e 14

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sovranista. Pare fossero, alla fine, venuti a contesa e avesse vinto il secondo, contro ogni aspettativa; ma qui forse potrei sbagliarmi, i miei ricordi sono spesso confusi. Fatto sta che l’Evento era stato pubblicizzato da un uomo che era andato in giro per i decumani della città invitando la popolazione a partecipare, portare primizie e offrire sacrifici agli dèi delle due città, che forse le volevano gemelle, come i due bambinetti. Noi ragazzi non ci avevamo capito niente, ma la rappresentazione ci incuriosiva e corremmo in gruppo portando ciascuno una mela, magari da lanciare sui mimi, se ci avessero delusi. Poseidonio era con noi, come sempre. Ci piazzammo a poca distanza dal fuoco, mentre i mimi davano inizio allo spettacolo, quando sentii prendermi la mano, mentre una voce indimenticabile, flautata, mi chiedeva: “Come sta il tuo naso?”. Mi voltai e gli occhi azzurri di Thalàssia mi folgorarono. Eros aveva raccolto le mie preghiere a Zeus e ora si divertiva a realizzarle, inesorabile. Tenni stretta quella mano per otto momenti, li contai, poi lei si divincolò, dicendo: “Per oggi basta”. E corse via ridendo. Poseidonio era impallidito, come me, del resto. Eppure non ero stato io a tradire l’amico, era stato Eros a decidere; Eros che li aveva messi alla 15

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prova e non si era sentito appagato; Eros voleva altro. Eros ha bisogno, lo sapete anche voi, di Thanatos! Tutto questo posso dirlo adesso; allora eravamo solo ragazzi in balìa delle passioni ispirate dagli dèi e di una vita di cui non immaginavamo il futuro. Passarono mesi per me bellissimi, fin quando Thalàssia partì da Paestum per nessuno-seppe-dove. Non l’ho rivista più. Rimasi solo, a piangere sulla riva del mare come un eroe omerico. Ma non ero il solo a piangere. C’era chi aveva cominciato nel giorno dell’Evento e sembrava non aver smesso mai. Diventava sempre più spento, come un olivo cui un malefico insetto mangiasse i succhi vitali. Sto parlando di Poseidonio, naturalmente, che continuò a venire con noi, intendo col gruppo dei ragazzi – Thalàssia la vidi raramente, prima che scomparisse, e le strette di mano sostituivano i baci desiderati – ma sembrava non vivere più, non godere più dei nostri scherzi. Solo l’idea del mare e dei tuffi lo risvegliava. I suoi occhi scrutavano l’orizzonte mentre mormorava, qualche volta: “Ci vorrebbe la colonna di un tempio, una rupe, uno strapiombo, e sarebbe il tuffo perfetto, il mio tuffo”.

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8 Lo so, tuffo è parola gioiosa per voi, vi fa venire in mente spruzzi, scogli, muscoli tesi, forse gare olimpiche e medaglie d’oro. A noi, agli antichi, tuffo faceva venire in mente salto, il salto nel vuoto per incontrare la morte, per i più vari motivi. Lo so, qui entriamo nel mondo complicato della diacultura e del gossip antico, costruito da chi si divertiva a manipolare storie per farne storielle. Ma come fate a essere sicuri, voi, che tutti i vostri sforzi di inventarvi irresponsabilmente vite antiche altrui non fossero già scritti – si fa per dire – nelle favole che ci raccontavano le nonne, nelle piroette dei mimi e nelle cantilene dei ditirambi? Prendete Saffo, la celebre poetessa di Lesbo: fu Ovidio, un collega poeta, ma romano, più giovane di qualche secolo, a farle scrivere una lettera d’amore disperato a Faone, un barcaiolo dell’isola, che aveva già avuto a che fare con la dea Afrodite. Storia complicatissima, che sicuramente altri avevano già raccontato, ma che voi conoscete solo perché conoscete meglio Ovidio … lasciamo stare. Ebbene, Saffo si innamora perdutamente di Faone, non corrisposta. Una Naiade, una ninfa delle acque, le dà un consiglio solidale, da sorella: “Lui non ti ama, Saffo, vai ad Ambracia [fate attenzione a questo nome, lo risentirete ben presto!], 17

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nell’Epiro meridionale. Lì c’è un tempio di Febo Apollo che sovrasta il mare, il mare che chiamano, quelli del posto, mare di Azio e di Leucade. Un tempo si gettò da lì Deucalione, innamorato di Pirra, e fu miracolato. Non si fece nulla, anzi l’immersione nell’acqua lo liberò dalla passione amorosa, magicamente. Non aver paura, vai subito sulla rupe di Leucade e buttati giù!”. Di più non sappiamo: rimase un desiderio, quello suggerito dalla Naiade? Finì realmente di amare Faone, la poetessa Saffo? Fatto sta che, qualche secolo più tardi, un cittadino di Ambracia, tale Cleombroto, si buttò veramente in uno strapiombo. Non per amore, però: semplicemente perché aveva letto Fedone o l’anima, un dialogo di Platone che in qualche modo celebrava la bellezza della discesa nell’Ade, nell’aldilà, quasi suggerendo di fare di tutto per anticiparla. Lasciare il corpo per pensare all’anima! Anche in questo caso, la storia di Cleombroto è stata raccontata per secoli, in greco e in latino, e non solo. Io vorrei farvi sentire come tradurrei nella vostra lingua l’epigramma di Callimaco, un famoso poeta di Cirene, che ne parlò per primo. Guardate che so versificare anche io! Disse: “Sole, salute!” Cleombroto, nato ad Ambracia, 18

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da un alto muro saltò, dritto nell’Ade piombò. Degno di morte nessun male vide, però di Platone un libro sol divorò, L’anima, e si suicidò.

Noi conoscevamo sostanzialmente tre modi per darsi la morte: impiccarsi, ingerire del veleno, saltare nel vuoto da una torre. Cicerone, il famoso e sfortunato politico romano, quando volle raccontare di Cleombroto, non era molto convinto del salto nel vuoto, con destinazione Ade, per cui si inventò che da un muro si era buttato in mare! Cominciate a capire dove voglio arrivare? No, vi illudete, siete ancora lontani.

9 Perché devo ancora parlarvi di quelli che tentarono di raggiungere l’Ade e ritornarono indietro, quasi come rinati o risorti. E non parlo solo di Orfeo, sempre quello degli Argonauti, che comunque perse, per ingenuità, per distrazione, la sua Euridice. Storia notissima, da romanzo, da film, da poema. Euridice l’ha uccisa il morso di un serpente, mentre tentava di sfuggire a una violenza, inseguita dall’apicultore Aristeo; Orfeo riesce ad avere il permesso di scendere nell’Ade a prenderla per riportarla sulla terra, purché, però, non si volti 19

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indietro a guardarla. Sapete anche che non riuscì a trattenersi e quindi la perse per sempre. No, non voglio parlarvi di Orfeo e di Euridice. Conoscete sicuramente la favola di Amore e Psiche, chissà quante volte ve l’hanno raccontata a scuola, per farvi piacere i classici e le loro lingue, che alcuni definiscono morte. E allora ricorderete anche che Psiche, questa ragazza che si chiamava come l’anima, venne data in moglie proprio a Eros, ad Amore in persona, ma, come dire, a sua insaputa, tanto che lo costrinse a fuggire per averne scoperto l’identità e dovette affrontare numerose prove per riaverlo, prove dettate dalla divina suocera Venere, la nostra Afrodite. E qual è la prova più incredibile che le impone Venere? Andare nell’Ade e chiedere a Proserpina, la regina dell’Ade, un po’ della sua bellezza per curare il figlio che l’ha persa. Psiche pensa di dover morire, cos’altro poteva pensare? Andare coi propri piedi nell’Ade, nel regno dei morti! E allora sale su una torre altissima per buttarsi a capofitto da quella. Quale modo migliore, pensava, per arrivare direttamente agli Inferi. Solo che, essendo parte di una favola, la torre le suggerisce un modo diverso … ma questo, se volete, lo scoprirete voi: libri delle Metamorfosi di Apuleio di Madaura, che ha raccontato questa meravigliosa favola, ne avete sicuramente a portata di mano, basta scegliere. 20

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E poi c’è il valoroso Er, figlio di Arminio, proveniente dalla Panfilia. Anche lui, secondo Platone, scese nell’Ade da morto e ritornò vivo ed è fra i pochi che ce l’ha raccontato per filo e per segno, generosamente. Come anche Tespesio di Soli, uno strascinafaccenne* – direbbe qualche pestano – che ebbe da un oracolo una strana predizione: gli sarebbe andata meglio dopo la morte. E fu proprio così: Tespesio cadde a capofitto da un luogo molto elevato, morì ma senza alcuna ferita. Infatti, dopo tre giorni, durante i funerali, tornò in vita. E raccontò che la sua sensazione, quando, per così dire, la mente si era staccata dal corpo, era stata quella di un tuffatore che si getta in acqua da una barca e poi riemerge respirando a pieni polmoni; la sua anima era stata capace di vedere tutto intorno come un unico occhio. Insomma, era capitato anche lui nell’Ade e ne era tornato. Di nuovo un tuffatore, starete pensando illuminandovi in volto. Attenzione, però, perché i testi tramandati nel corso di molti secoli fanno brutti scherzi: per essere onesti fino in fondo, non sono certo neanche io che lì si parlasse di un tuffatore, una sorta di palombaro, oppure di un semplice timoniere, come pensano alcuni. Per non parlare dell’eroe nazionale dei Greci, Teseo, che col suo amico Piritoo scendeva nell’Ade e risaliva a suo piacere, certo, con l’aiuto di Eracle. 21

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E per portare a termine questa piccola rassegna di tuffi poetici, semidivini e mortali, quasi una parentesi per prendere fiato, vorrei parlare delle sirene, quelle che tentarono di catturare Orfeo e gli Argonauti e poi Odisseo e i suoi compagni, ma invano. Per cui si buttarono a capofitto a mare per suicidarsi, dopo il passaggio vittorioso di Orfeo – anche se, concedetemelo, in quanto Bute non dovrei essere proprio fiero di questa vittoria e vi ho già raccontato perché. Della loro sorte dopo il passaggio di Odisseo non sappiamo nulla; d’altra parte, Omero è molto avaro di particolari sulle sirene: non ci dice se sono donne metà uccelli o metà pesci, non ci dice quante sono, non ci dice come si chiamano, per lui sono solo le sirene. Però qualcuno raccontò, poi, che le sirene si suicidarono anche in un’altra occasione: quando persero una gara di canto con le Muse, le dee di tutte le arti, figlie di Zeus e di Memoria, una delle quali forse era la loro madre! Le Muse le spennarono (quindi le sirene erano metà uccelli!) e le sirene, per la vergogna, divennero bianche e si buttarono in mare, trasformandosi in scogli. Direi che quanto a fantasia non ci batteva nessuno! Ah, dimenticavo, noi chiamavamo tutto questo katapontismòs, annegamento in mare. Perché si trattava, all’origine, di un rituale, di una sorta di verifica di innocenza o colpevolezza. L’accusato 22

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di qualcosa veniva buttato in mare: se i delfini lo raccoglievano, se gli dèi volevano salvarlo, era innocente; altrimenti annegava giustamente. Ecco la nostra idea arcaica di giustizia. Spero davvero non sia la vostra.

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10 Intanto, sono sicuro di avervi distratto, perché ora devo riprendere il racconto di Paestum e tornare a Poseidonio e alla sua morte disperata. Un salto da un gigantesco olivo, probabilmente, non nell’Ade, ma sulla terra dura e impietosa. Lo trovammo così, una mattina grigia e piovosa, il gruppo degli amici sempre compatto, già preoccupati per le sue parole e per il suo colorito sempre più pallido. Accanto ai gradini di un tempio, il più maestoso, al punto che qualcuno pensò che si fosse buttato dal frontone. Ma no, doveva essersi buttato da uno dei rami più alti dell’olivo e poi si era trascinato fino ai gradini del tempio, forse per lasciare un segno di sottomissione a un destino che non gli aveva concesso di diventare adulto. Così lo trovammo, e non saprei descrivere meglio quello che provai se non usando le parole di un vostro cantante maledetto, che ho leggermente riadattate, per sentirle più mie: 23

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Ritornato il silenzio, Zeus si assicurò che fosse morto. Lo era ormai per sempre, lasciando su questa terra un dolore in più.

Non so se il mio fosse solo dolore, o che tipo di dolore. Lo era certamente quello degli amici e, neanche a dirlo, quello dei genitori, anche dei nostri, non estranei, ma mai del tutto abituati, alle morti precoci. Non ho mai saputo se la notizia fosse giunta a Thalàssia e se avesse, lei, provato dolore. Il mio era dolore e vergogna, inquietudine perché non riuscivo ad attribuire a Eros tutta la colpa. Io ero stato l’amico invidioso e infido, comunque: una parte della colpa era sicuramente mia. Mi chiedevo come avesse fatto Poseidonio a meditare il suicidio e a portare fino in fondo il suo progetto, come avesse trovato il coraggio di arrampicarsi sull’albero e buttarsi di lì. Pensando a cosa? Diciamo pure dolore, ma anche rabbia. Perché non c’era più neanche Thalàssia e quindi avevo ‘vinto’ invano. Avevo finito per uccidere Poseidonio senza ricavarne nulla. Paestum pianse, anche se si tentò in tutti i modi – parlo di noi compagni e dei genitori – di tenere nascosta la causa della morte. Cadere da un albero non era proprio cosa di tutti i giorni, ma, si sa, i ragazzi ne fanno di tutti i colori. E noi non negammo e non confermammo. 24

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11 C’era solo da decidere dove seppellirlo, secondo il rito. Le voci, che comunque giravano, su un possibile suicidio, consigliarono ai genitori prudenza. I suicidi non hanno mai avuto lo stesso trattamento di tutti gli altri morti, e per motivi diversi, per via della diacultura: tabù che si sommano, divieti che confliggono, dèi, singoli o plurali, che, al momento della pietà, dimostrano invece rancore. Levar la mano su di sé, un gesto che sembra così ‘personale’ e di nessun danno per gli altri, viene, starei per dire da sempre, guardato con rabbia, sospetto, disprezzo. Meglio piangere Poseidonio un po’ fuori del centro della città, pensarono i genitori, e ce lo comunicarono con la loro mestizia di persone provate dalla sorte. Alcuni, lo so, pensano che si trattasse di pestani non proprio integrati nella comunità cittadina, forse perché stranieri, forse perché addirittura barbari. Avere a che fare con le città-macedonia [con la m minuscola, attenzione!] è sempre un problema, perché non si riesce mai a capire se le varie etnie che si avvicendavano nel tempo si sostituivano le une alle altre o convivevano. Da noi a Paestum, e parlo da straniero anche io, non si poteva certo fare a meno di sentire la presenza degli Etruschi e dei loro riti, ma la forza del mare – Poseidonia è una città maledettamente 25

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d’acqua – e il sotterraneo canto delle sirene portava sempre alla ribalta i Greci, da qualsiasi colonia venissero, tanto che anche quando poi arrivarono i popoli selvaggi dell’entroterra, Lucani, la mescolanza continuò senza problemi. No, i genitori di Poseidonio erano di lì ed erano solo preoccupati che del figlio non si dicesse nulla che potesse danneggiarne la memoria. E fu a questo punto che intervenne mio padre, il Maestro. Mi piace chiamarlo così, come se fosse questo il suo nome, perché fu, per il nostro dolore – sì, meglio che lo definisca così, ormai: dolore – un Maestro, e non solo di pittura. Non so se e cosa avesse capito, ma so che il suo intervento fu determinante e, come voi stessi state testimoniando, lungimirante. Mi chiese, qualche giorno dopo la morte di Poseidonio, di riunire il gruppo degli amici. Voleva sapere tutto di noi, dei nostri discorsi, dei nostri divertimenti, del nostro modo di passare il tempo insieme, perché, ci disse, pensava che l’unico modo per prolungare la vita giovane di Poseidonio fosse dipingere nella sua tomba una scena di simposio, con tutti noi come comprimari di quel rito. Sapeva come fare, ne aveva anche accennato ai genitori del nostro amico, che avevano acconsentito subito. Mio padre era, come sapete, un Maestro pittore. Anche se al tempo di Troia la pittura non esisteva, 26

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e questo poneva un bel problema a chi avesse voluto raffigurare gli eroi, perché lo costringeva a basarsi sulle descrizioni degli aedi, ai nostri tempi si mescolavano le tradizioni, soprattutto dove popolazioni diverse si incontravano. Mio padre pensava di lavorare prendendo tutti noi come modelli per ricostruire una scena di simposio che si svolgesse sui quattro lati della tomba. Ci avrebbe lavorato alla luce del sole, il caldo sole pestano, facendosi magari aiutare da qualche apprendista, fin quando, terminata l’opera, il sepolcro sarebbe stato chiuso e sigillato, lasciando ai superstiti il ricordo oculare delle scene dipinte, così che ne potessero parlare, descrivendole, ai posteri. Quanto al fatto che il defunto potesse godere di quelle immagini anche da morto, nel buio della tomba, rimaneva un mistero in cui credere o non credere, ma che, in ogni caso, spingeva a lavorare al meglio.

12 Questo particolare, però, mi aveva sempre turbato. Mio nonno mi aveva raccontato della tomba di suo nonno in cui avevano deciso di dipingere, addirittura sulla lastra di copertura, ma dalla parte del morto, per così dire, il ritratto di tutta la famiglia 27

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superstite, in modo che il mio antenato potesse ogni tanto ricordare i suoi affetti e dimorare più felice nell’Ade. Tutto questo a me sembrava strano, dico la verità, ma un’idea cominciò a ossessionarmi, quella di trovare il modo di espiare la mia (presunta) colpa verso Poseidonio facendo qualcosa di memorabile per la sua tomba. Per chi di voi ha letto Espiazione, l’idea non dovrebbe sembrare peregrina. Lasciai, però, che l’idea maturasse, tenendomela per me, mentre mio padre ci distribuiva le parti per l’inizio dell’opera. Partì dal simposio, il tradizionale incontro di mortali che comprendeva parole, musica, giochi, e che gli dèi vedevano di buon occhio, perché spesso li si invocava con religioso rispetto. Un simposio bisogna vederlo in atto per capire cos’è. Solo dei grandi filosofi e scrittori, come Platone e Senofonte, tutti e due allievi di Socrate, va’ a capire quale fu il preferito, tentarono di affidarsi alle parole per darne un’idea. Ma anche loro sapevano di non aver risolto il problema principale: si può immaginare di vedere il personaggio che parla e magari si pensa di cogliere addirittura il tono della sua voce, ma non si sa cosa fanno gli altri, intanto. Il raccontare in contemporanea è precluso alla voce, anche alla voce messa per iscritto. Bisogna 28

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essere testimoni, oculari e auditivi, per sentire e vedere contemporaneamente le varie fasi che si intrecciano. A stento ci riesce il cinema, e quindi falliscono anche la fotografia e la pittura, a meno che tutto non si svolga nello stesso spazio. Come erano, in realtà, i quattro lati, le quattro lastre di quella tomba. Mio padre, dunque, aveva a disposizione quattro pareti, su cui disporre al massimo quattordici figure, di varia dimensione e in atteggiamenti diversi, chi in piedi, chi sdraiato. Noi amici in grado di ‘posare’ per mio padre eravamo nove, c’era poi da aggiungere una figura che ricordasse Poseidonio e qualche adulto per rendere meglio l’atmosfera del simposio. A quel punto a me venne l’idea di aggiungere una figura femminile. Mio padre non sapeva nulla di Thalàssia, gli amici sì, ma esitai lo stesso. Perché volevo lasciare alla vista dell’amico morto la ragazza che avevo amato, tradendolo? E poi, si poteva immaginare una donna, una ragazza qualunque in un simposio di soli uomini? Intanto i miei amici si divertivano ad assumere le pose che indicava mio padre, che andava invece a memoria per quanto riguardava gli adulti e riusciva anche a ritoccare le figure e adattarle con uno stile che non era certo pienamente realista. Non so se avesse già in mente una sequenza narrativa, so che voleva raffigurare bene il gioco 29

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del cottabo, un gioco tipico del simposio, statico, perché si sta sdraiati sulla kline, una sorta di letto comodo, mono- o biposto, ma allo stesso tempo dinamico, perché si compiono azioni che fra poco spiegherò. Quanto alla figura femminile, mi bastò poco per convincerlo: fargli immaginare cosa avrebbero detto i posteri quando, per una ragione o per un’altra, avessero trovato la tomba. “Questo pittore”, gli suggerii con fare insinuante, “doveva essere davvero bravo e originale. Introdurre una flautista in un corteo e in una piccola comunità di uomini ne fa davvero un originale, fedele e acuto testimone della sua epoca!”. E fu questo, appunto, l’elogio che lo fece cedere.

13 Ora proverò a farvi da guida, anche se penso che ne sappiate certo più di me, ma lo faccio soltanto per rendere l’omaggio filiale al Maestro del Tuffatore. Se partiamo da uno dei lati corti, vediamo subito un corteo di tre persone [foto 1]. C’è Thalàssia, ecco perché mi piace partire da lì: precede, suonando il flauto, due amici, che avevano saccheggiato le loro case per trovare i vestiti adatti. Ho detto Thalàssia anche se non le somiglia per niente. Intanto non si vedono gli occhi azzurri. E poi 30

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lei era piccola, sì, ma un po’ più alta e i capelli non erano così scuri. Anche se suona il flauto – dovevo depistare in qualche modo il Maestro – e non apre la bocca per cantare, a me basta ci sia quella figura per riconoscerla e per essere fiero di averle fatto attraversare il tempo fino a oggi. I tre in corteo sembrano dirigersi verso il primo gruppo di sdraiati [foto 2]. Io li chiamo il Cinquecon, perché è qui che mi trovate. Il Cinque-senza è sulla parete di fronte [foto 3]. Nel Cinque-con sono il secondo da sinistra. Vi ho già parlato della coppia degli amanti, e quindi possiamo passare all’altro lato corto, dove campeggia una figura singola [foto 4]. Tutti abbiamo pensato che il Maestro volesse mettere lì Poseidonio, nell’atto di ricevere gli amici con un buon vino. Infatti non prese nessuno come modello; lo vedemmo lavorare per più giorni, mischiando colori e fermandosi spesso, non so se per asciugarsi il sudore o qualche lacrima. Fatto sta che, quando finì, nessuno riconobbe Poseidonio, ma fummo tutti certi che quello fosse il Poseidonio che mio padre aveva in mente, gioioso e disponibile come quand’era ragazzino. I Cinque-senza fanno la loro bella figura: c’è chi suona, chi discute, chi medita, insomma tutto quello che di un simposio poteva sapere, magari per esperienza diretta, uno come il Maestro, che ci aveva dato le dritte necessarie perché ci im31

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medesimassimo nella parte dei simposiasti. Poi aggiunse, di suo, alcuni particolari iconografici dei quali non ci spiegò nulla. Perdonatemi, quindi, se su quelli non posso esservi d’aiuto!

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14 Ora, però, devo illustrare la mia parte, che alcuni amici mi invidiarono, quella del giocatore di cottabo. Vi prego di stare attenti. Si trattava di una sorta di tiro al bersaglio, solo che l’elemento che veniva tirato e il bersaglio da colpire erano di tipo particolare. Era un tipico gioco da simposio, da bevuta collettiva. Perché era proprio la bevuta di vino che dava origine al tutto. Avrete notato che ho in mano, nel ritratto del Maestro, una piccola coppa, che impugno con la mano destra, in posizione da lancio. Ma non lancio la coppa – cosa avete capito? – lancio il residuo di vino rimasto nella coppa. Lo lancio, dopo aver roteato bene il braccio destro, verso il cottabo, che è una sorta di bacinella, un contenitore a volte già pieno d’acqua, al centro della sala del simposio. Una gara di precisione, che prevedeva alcune varianti che non vi posso spiegare, anche perché, come forse sapete, quando si parla del nostro mondo spesso sembra non si sia sicuri di niente, un po’ per colpa nostra, che non abbiamo mai selezionato 32

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le notizie, separando le vere dalle false, un po’ per colpa della diacultura, che per principio dà retta a tutto. Per esempio, c’era chi, fra i nostri professori, sosteneva che il vino non si lanciasse con la coppa ma sputandolo dalla bocca, avendo sempre come bersaglio il cottabo. Io e gli amici ci divertimmo a giocare veramente durante le pause delle prove da modelli. Avevo cominciato da poco a bere anche io il vino, ma questa faccenda del cottabo mi giungeva nuova e quindi ne sperimentai tutte le potenzialità. Bevevo a sorsi piccoli, calcolando bene la misura da lasciare nella coppa: la kylix, meglio dire come la chiamavamo, non vorrei che qualcuno pensasse che non conosco bene la mia lingua. A volte era troppo poco, e il tiro rischiava di perdersi sul pavimento, senza raggiungere il cottabo, oppure di spargersi un po’ dovunque, anche sulla veste del mio vicino, se ne era rimasto troppo. Allora, cosa facevo? Ingoiavo e tenevo in bocca la quantità finale di vino, dopo l’abbondante bevuta, facendone scendere, con un’apertura accorta delle labbra, la parte giusta per il lancio, detto latax o latàghe. Solo che, mentre ero intento a dosare la giusta quantità, un giorno un mio amico mi fece una smorfia per farmi ridere … gli spruzzai tutto il vino in faccia! Venimmo alle mani e mio padre, il Maestro, dovette correre a dividerci. 33

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15 C’era poi chi suonava, ma parlare della nostra musica sarebbe come danzare di architettura*! E poi c’erano i discorsi. Il Maestro volle che provassimo a intavolare una discussione filosofica, quasi fossero dei provini per un cortometraggio o uno spot pubblicitario. Forse voleva cogliere l’espressione rapita che prende un filosofo quando sentenzia sulla vita e sulla morte, sull’uomo e sugli dèi, e riprodurla su una parete della tomba. Voleva forse lasciare a Poseidonio argomenti su cui meditare nell’Ade. O forse provare per la prima volta, da padre, a farmi riflettere sul fatto che stavo crescendo e che quello era sicuramente il mio primo dolore. Non sapeva, però, quanto più complicati erano i miei pensieri. Ora che avevo rivisto Thalàssia, anche se non era lei, grazie al trucco di farla raffigurare, il rimorso mi tormentava di nuovo. Gli scherzi con gli amici, l’avventura dei ritratti, il tempo che scorreva, separandoci sempre più dal drammatico ritrovamento del corpo di Poseidonio, riuscivano solo per pochi momenti della giornata a restituirmi la gioia di vivere, a non farmi pensare a un destino che mi sembrava ancora incombere minaccioso sulla mia vita, quasi come una vendetta divina o un oracolo implacabile. 34

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16 Ci voleva qualcosa che cancellasse tutto questo dolore; bisognava, non sapevo ancora come, costruire, con una immagine forte e simbolica, eloquente, una nuova realtà che sostituisse quella che il fato ci aveva assegnato. Una fantasia capace di espiazione. Ripensai alla lastra superiore, affrescata dall’interno, della tomba di cui mi aveva parlato mio nonno. Era stata una sua invenzione o era esistita realmente? Non dovevo rispondere a questa domanda, capii, dovevo semplicemente realizzarla, costringendo mio padre a esserne l’artefice, il Maestro! Dovevo partire dal simposio, però; non poteva esserci disarmonia fra le scene sui lati e quelle che forse Poseidonio – ma sicuramente i posteri – avrebbe visto per l’eternità della morte sul soffitto della sua tomba. Eros e Thanatos, certo, ma forse ancora più esaltante poteva essere, per il Maestro, e per la mia espiazione, raffigurare Bios e Thanatos, Vita e Morte e il loro intreccio inesorabile. Cominciai a pensare ad alta voce; mi recavo sempre più spesso presso l’olivo da cui Poseidonio si era buttato, quasi volessi dialogare finalmente con lui ad armi pari, io da vivo, lui da morto. Il nulla dopo la morte ci spaventa, certo, ma c’è stato un nulla anche prima di essere nati. La 35

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nostra vita è come un intervallo fra due nulla. E perché, allora, ci distrugge di più l’idea di essere assenti dal futuro che quella di non aver mai fatto parte di un passato? Potrei augurarmi, caro Poseidonio, amico mio, una vita eterna, d’ora in poi, che non culmini nella morte? E che ce ne faremmo? Tu ci vedrai, fra qualche giorno, tutt’intorno, intenti ai giochi e alle parole del simposio, vedrai anche sfilare Thalàssia – sì, è lei, anche se non la riconoscerai –, ma per quanto potrà rimanere così giovane? Ricordi la storia di Titono, il bellissimo eroe troiano di cui la dea Aurora si era innamorata? Per lui chiese a Zeus l’immortalità, solo che dimenticò di chiedergli che non invecchiasse. E quindi se lo ritrovò immortale ma vecchio, raggrinzito, incartapecorito, inguardabile e quindi non più affascinante come quando aveva cominciato ad amarlo. E non può darsi che Orfeo si sia voltato indietro solo perché voleva essere sicuro che Euridice non fosse invecchiata, nell’Ade? Potremmo reggere, caro amico, a un’immortalità che ci ripresenti in eterno la vita quotidiana, sempre più uguale, sempre meno imprevedibile? Se la vita è come una festa, un simposio … lo so, potresti obiettarmi che tu continuerai a vederci in eterno, intorno a te, a bere vino, a giocare al cottabo, a cantare e suonare … ma fammi completare il mio pensiero: se la vita è come un 36

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simposio, allora è bella proprio perché a un certo punto finisce, proprio perché dobbiamo lasciarla e possiamo godere ricordando di averla vissuta. E solo tu puoi capirlo, proprio tu che sai che il tuo simposio hai dovuto lasciarlo, altrimenti saresti diventato insensibile, abituato all’eterno, alla noia dell’uguale. Di questo parlavo con Poseidonio, davanti al mare dei nostri tuffi, e lo sentivo finalmente amico, perché accomunato, anche se in anticipo rispetto a me, dalla conquista della perdita, della fine.

17 Il tuffo, Poseidonio, il tuffo! Il Maestro dovrebbe regalarti, sulla lastra di copertura della tomba, un ultimo e definitivo tuffo, che, in sintonia e in armonia con il simposio laterale, con gli amici che ti hanno ricordato prestandosi a essere se stessi senza più esserlo realmente, possa celebrare il momento di passaggio fra la vita e la morte, fra il cielo e l’Ade, un attimo di tempo sospeso fra passato e futuro. Il trionfo dell’aspetto verbale, direbbe uno dei vostri linguisti: la duratività memore della vita nel momento della puntualità della morte. Cerco di spiegare meglio; a me stesso, innanzitutto, perché quando noi usavamo i verbi non li facevamo solo funzionare 37

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nel tempo: mi tuffo ora, mi tuffai ieri. Presente e passato, facile. Ma se dico, durante un simposio: “bevo un bicchiere di vino e assaggio la capra”, converrete con me che a bere il vino ci metto un po’ di tempo, ad assaggiare basta un momento; poi, certo, mastico a lungo. E accade tutto nel presente, solo che queste due azioni hanno, dicono alcuni, una qualità diversa, un aspetto: bere, come mangiare, richiede del tempo, dura nel tempo; assaggiare si fa in un momento, in un punto. Devo avere avuto un bravo grammatico a insegnarmi queste cose a Paestum, perché penso di essermela cavata bene. Il silenzio totale. Fa caldo. Le lenzuola stropicciate, appallottolate ai piedi del letto. Jep, i cerotti ortopedici bianchi che gli arrivano sopra le spalle come delle bretelle, supino, fissa il soffitto con gli occhi immobili. Sul soffitto, gli appare il calmo mare blu. E poi passa soave, sbattendo nell’acqua, sempre rovesciato, un Riva Aquarama, da destra a sinistra. … Jep guarda il suo soffitto bianco col lampadario al centro. Con un sorriso sardonico dice: Lo vedi il mare? E Ramona: Dove? 38

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Sul soffitto! Allora Ramona apre gli occhi, si dispone supina vicino a Jep. Guarda il soffitto insieme a lui. C’è solo e semplicemente il soffitto bianco e il lampadario, ma Ramona dice: Sì, lo vedo, il mare.

Scusami, caro Poseidonio, se rubo parole altrui, ma non avrei saputo dirlo meglio. In fondo, anche noi antichi abbiamo sempre mirato alla grande bellezza con i tuffi, con Eros, con la guerra, con l’organizzazione delle nostre poleis, le nostre città. Il tuo soffitto, amico mio per sempre, sarà il tuo mare, perché, come me, sei nato in Mediterraneo … e in Mediterraneo è nato anche Dudù – so che lo chiamavano così – capace di tuffarsi dalla terrazza di un’antica villa nella città di Partenope. Lui lo racconta così, anche se qualcuno ha tentato di sottrargli il mare, sostenendo che non bagna più quella città porosa: A volte passavano gli amici con la barca sotto la terrazza, e mi chiamavano perché mi unissi a loro, e io senza farmi pregare con un bel tuffo a volo d’angelo volavo dalla terrazza e li raggiungevo.

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18 Prima di salutarti, però – penso non verrò più sotto quest’olivo, ho capito come convincere mio padre a terminare il lavoro di copertura della tomba, poi seguirò la mia vita, per quello che ne rimane –, voglio condividere con te due immagini, due fantasie che serviranno anche al Maestro, ne sono sicuro. La diacultura mi permette di vedere uno strano tuffo, fissato in un solo fotogramma, come, in fondo, vorrei facesse il Maestro. La prima fantasia. A tuffarsi è Gianni Perego e la storia, italiana, è un po’ complicata. Un gruppo di amici, un po’ più piccolo del nostro, ha condiviso la vita del partigiano e si è ritrovato a Roma dopo la liberazione dal fascismo. Sono Gianni, Nicola e Antonio. Nicola e Antonio sono rimasti fedeli ai loro ideali di resistenti; Gianni, cinicamente, ha fatto carriera nell’Italia del boom. Ed è proprio Gianni che, sotto lo sguardo incredulo dei due amici e di Luciana, finalmente moglie di Antonio, che lo credono povero e disoccupato e vanno a restituirgli la carta d’identità scambiata con quella di Nicola, si accinge a un tuffo dal trampolino della sua piscina di ricco e disilluso faccendiere togliendosi l’accappatoio e spiccando un salto verso l’alto, che sembra preludere a un tuffo di piedi [foto 5]. 40

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Ma la successiva immagine, che tornerà identica alla fine del racconto all’indietro che occupa quasi tutto il film, vede Gianni con i piedi perfettamente allineati al trampolino mentre si produce in un tuffo ad angelo [foto 6], come quello che vorrei il Maestro immortalasse. Una distrazione del creatore di immagini? Non saprei, gli esperti sono altri. Secondo me, Gianni che tenta di spiccare il volo verso l’alto, magari approdando sull’acqua di piedi, ma a testa alta, non è il Gianni che conosceremo nel seguito della storia, abile a tuffarsi di testa, certo, ma capace solo di sprofondare nel cinismo e nell’egoismo, affondando anche gli ideali con cui aveva scelto di fare il partigiano. Ecco, a me piacerebbe che il Maestro fosse capace di una simbologia così forte. E poi c’è il tuffatore seriale d’oltre Oceano, la seconda fantasia. Tuffatore e nuotatore, in realtà, anzi tuffatore in quanto nuotatore. Si chiama Neddy Merrill; qualcuno gli attribuirà il volto rude di Burt Lancaster e giocherà sulla sua nudità di nuotatore per presentarlo come un uomo a nudo. Ma lui indossa un golf sopra il costume, mentre è sdraiato, come un simposiasta, vicino all’acqua verdognola, una mano immersa nell’acqua e l’altra stretta intorno a un bicchiere di gin. Credo non sappia nulla del gioco del cottabo, eppure ne ha il fisico e il piacere del bere: è un 41

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uomo snello, con quella particolare snellezza della gioventù e pur essendo tutt’altro che giovane; la prima volta che l’ho visto con la mia fantasia diaculturale è scivolato giù dalla ringhiera di casa sua. Non solo: mentre trotterellava verso l’odore del caffè in sala da pranzo, ha dato una pacca sul sedere della statua in bronzo di Afrodite sul tavolino nell’atrio. Afrodite! Ne capisce di donne e di dee, Merrill, per questo ti sarebbe stato subito simpatico. Anche perché ha deciso di tornare a casa a nuoto, tuffandosi in una catena di piscine che coprono una quindicina di chilometri – calcola tu quanti stadi – creando quasi un corso d’acqua continuo cui ha voluto dare, pensa un po’, il nome della moglie, Lucinda. Sembra il nome di una dea romana. Neddy Merrill si tuffa e nuota, esce e si rituffa, e nuota e si rituffa … e forse alla fine giunge all’Ade, anche se gli sembra una casa disabitata.

19 Ecco, questi pensieri mi portavo dietro di giorno e di notte, parlandone con Poseidonio sotto l’olivo, quasi per prepararmi meglio all’incontro col Maestro, con mio padre. Era intento agli ultimi ritocchi sulle lastre: colori, particolari, si concedeva anche qualche pen42

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timento, per esempio la figura della flautista non lo convinceva ancora … Quando gli fui davanti, ebbi la tentazione di confessargli tutto: del vero motivo del suicidio, del mio tradimento, della mia cattiveria, dei miei dialoghi con l’amico. Poi mi feci coraggio: “Padre, Maestro, ci ho pensato a lungo, vorrei che il nostro amico Poseidonio, il migliore di noi, avesse da te qualcosa di più che un simposio. Lo so, tu vuoi che rimanga per sempre avvolto dal calore del vino, dei discorsi e dei giochi degli amici. Ma la sua passione era il mare: tuffarsi per trasformarsi nell’altro elemento. Se potesse continuare a tuffarsi, immortalato nella posa più elegante che un tuffatore può assumere, sospeso fra un trampolino e l’acqua, con i muscoli tesi e lo sguardo assorto, e se il mare nel quale si tuffa sovrastasse la terra che lo ricopre, quasi in un rovesciamento contro natura, penso che la morte gli peserebbe di meno, penso che potremmo ricordarlo per sempre nel gesto che lui faceva meglio di tutti noi, come il dio del mare che portava nel nome”. Mio padre, il Maestro, parve commuoversi, poi mi chiese di lasciarlo solo per un po’. Doveva riflettere sulla mia proposta, valutarne bene le conseguenze. Accettò. Ci convocò tutti, il giorno dopo, con i familiari di Poseidonio, per dare l’annunzio del 43

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supplemento di lavoro: aveva bisogno del loro assenso, perché immaginava che molti avrebbero avuto da ridire se avessero visto la tomba, prima della chiusura definitiva, arricchita dal tuffo della lastra di chiusura. I Pestani sembrano persone interessate solo ai commerci e alla bellezza del loro territorio, ma sanno anche essere cattivi, quando qualcosa non è di loro gradimento. Il Maestro sembrava intenzionato a prendere tutte le precauzioni del caso, ci chiese solo di lasciarlo lavorare in pace perché doveva ben meditare sul modo di trasferire in immagine tutte quelle parole confuse, così disse, con cui suo figlio lo aveva convinto. Si trattava di una sorta di antiékphrasis. Sapete, a noi insegnavano un esercizio retorico complicato, ma a mio parere più difficile di una traduzione dalla nostra lingua. La descrizione, a parole, di un’opera d’arte, un quadro, una statua: questa è l’ékphrasis. Bisogna dare prima uno sguardo d’insieme e poi, come procedendo a cerchi concentrici, centripeti, arrivare ai più piccoli dettagli, ma facendo in modo che il discorso rimanga sempre armonico e non spezzato, cioè che si abbia sempre di vista l’insieme, il quadro dalla cui contemplazione si è partiti. Altrimenti capita come a quel signore che riceve in eredità un bellissimo dipinto e un giorno 44

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scopre che ha un piccolo difetto. Allora si mette a studiare la tecnica del Maestro (no, non di mio padre: dell’autore di quel quadro) e dopo un certo tempo rimedia a quel difetto ripristinando quella che a lui sembra la regola, il modo di dipingere del Maestro. Vengono a saperlo i suoi amici, i quali, va da sé, scoprono difetti anche nei meravigliosi quadri di loro proprietà. E così il signore, divenuto esperto di correzioni di quadri difettosi, li corregge tutti. Dopo mesi di lavoro di questo tipo, si prende una vacanza e va a visitare una mostra. Ma ormai non è più capace di ammirare un quadro nel suo insieme: ne vede solo i piccoli difetti. Come Re Mida, aggiungerei, che a un certo punto non riuscì più a sopportare di vedere trasformarsi in oro tutto quello che toccava: oggetti, natura, persone, cibo. E chiese di perdere il suo famoso tocco! Insomma, mi sono lasciato trasportare dai ricordi, ma ribadisco che ascoltare parole e tramutarle in immagini è lavoro delicato e non da tutti. Mio padre, il Maestro, ci riuscì.

20 Non devo, a mia volta, descrivere la sua realizzazione. L’avete, l’abbiamo ormai sotto gli occhi tutti, per l’eternità. [Foto 7 e 8] 45

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La Tomba del Tuffatore venne alla luce, per i soliti paradossi della storia, in una località che si chiama Tempa del Prete ma è la frazione di Santa Venere: sempre Afrodite! Ebbene, quel giorno cominciò la nostra nuova vita, quella che mi consente di parlarvi e raccontare, facendo riferimento a qualcosa che potete controllare anche voi. Non so come il Maestro sia riuscito a fissare così bene il momento del tuffo: mi piace immaginare che abbia preso alla lettera le mie appassionate parole. In ogni caso, inventò una base di partenza abbastanza ambigua per poter essere definita un trampolino, le porte dell’Ade, una torre, un muro; e una superficie di arrivo che potrebbe essere il lago d’Averno, il mare in quanto tale, la palude dello Stige. Poseidonio sembra essere nel pieno vigore dei suoi anni giovanili, deciso a immergersi nell’altro elemento ma forse capace di rimanere sospeso in aria per l’eternità. E poi, forse, la firma del Maestro: le palmette che suggellano i quattro vertici della lastra. Senza quella copertura il simposio sarebbe inutile, senza senso; senza il simposio, quel Tuffatore sarebbe solo il fotogramma di un fumetto, se non di un fotoromanzo. Un’armonia perfetta. E poi l’anno della scoperta. Pare quasi che mio padre, il Maestro, l’abbia fatto apposta, forse in46

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dicando, non so in quale punto della tomba, una sorta di data di scadenza, un congegno virtuale, magico, in base al quale a qualcuno sarebbe venuto in mente di scavare proprio lì. Era il 3 giugno del 1968. Nel vostro paese avevate votato per ricostituire la vostra boulé, l’assemblea ristretta, insomma il vostro Parlamento, appena una quindicina di giorni prima. Magari qualcuno di voi, in divisa, impegnato in un temporaneo servizio militare, era di guardia ai seggi, con un mitra in mano e le munizioni sigillate, pronte perché non le si usasse. Il ’68! Anno iconoclasta, con le piazze piene e vocianti, e forse qualcosa di più pericoloso e temibile. E fu durante questo sommovimento mondiale che in un angolo della Campania felix, sotto gli occhi di uno studioso che si chiamava Napoli, e magari con gli auspici della sirena Partenope a completare il quadro, tornò a riveder le stelle una scena di vita e di morte, non necessariamente silenziosa, ma sicuramente antica, misurata: era lì a ricordare a tutti che nulla è separato, che la vita è fatta di morte e viceversa, che ci sono i mortali e gli immortali, che si può bere e giocare e piangere e suonare. E, soprattutto, che ogni cosa passa e che sta a noi farla rimanere eterna. Quando il Maestro finì l’opera, ci riunì tutti in forma solenne, anche con un gran numero di 47

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pestani che volevano ammirare quel capolavoro. Bisognava sigillare la tomba e in quel momento fummo gli ultimi a vedere tutto in un sol colpo d’occhio. Il Maestro ci ricordò che dovevamo osservare bene, il complesso e i dettagli, perché da allora in poi avremmo dovuto far ricorso solo agli occhi della mente per poter descrivere la tomba ai nostri discendenti. Forse aveva già in mente il 3 giugno 1968, ma sono sicuro che allora non ce ne parlò.

21 Dal giorno in cui la Tomba del Tuffatore fu scoperta, prima ancora che avessi la possibilità di comunicare con voi, io mi chiedo cosa sarebbe stato, quel monumento, senza la mia idea del tuffo. Ne volete una prova? So che se vi proponessi di chiamarla, ora che lo sapete, la Tomba di Poseidonio, la sua fama diminuirebbe di colpo. Ai miei tempi non esisteva il diritto d’autore, e quindi generosamente suggerii la mia idea al Maestro che, a sua volta, non rivendicò mai la sua opera, preferendo rimanere anonimo. Però pensate quanto avrei guadagnato se tutti quelli che hanno dedicato qualcosa (una poesia, una canzone, un libro, magari solo una foto o una 48

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copertina) al Tuffatore di Paestum avessero dovuto pagarmi i diritti d’autore per la mia invenzione; anche se, lo so, avrei dovuto dividerli con mio padre. E tutto ciò sia prima che dopo il ’68, per così dire. Prendiamo il dopo, più sicuro e certificato: Il tuffatore preso au ralenti disegna un arabesco ragniforme e in quella cifra forse si identifica la sua vita. Chi sta sul trampolino è ancora morto, morto chi ritorna a nuoto alla scaletta dopo il tuffo, morto chi lo fotografa, mai nato chi celebra l’impresa. …

Geniale! Un po’ il discorso della vita come intervallo fra due nulla, ve lo ricordate? E il tuffo come unica realtà vivibile e vissuta fra arrampicata e risalita. Come, del resto, salire su un treno lasciando il mare per guardarlo un’ultima volta. A vacanza conclusa dal treno vedere chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna la loro vacanza non è ancora finita: sarà così sarà così lasciare la vita? 49

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Perché poi, sulla spiaggia c’è anche chi si tuffa, entrando e uscendo dal mare. E allora, risalire sul treno è già la morte? O non essere mai nati? Devo dire che il mio Tuffatore me lo sarei aspettato, visto che voi moderni pensate di saperne sempre di più di noi, in bella mostra sulla copertina di Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente. Invece lo trovo su Una passeggiata nell’aldilà in compagnia degli antichi e leggo, poi, in un titolo allusivo, quello che volle essere sicuramente un omaggio al mio amico Poseidonio: La tombe du divin plongeur, come lotta contro tutte le morti. E poi, esito a dirlo quasi temendo il conflitto d’interessi, trovo il mio amico Poseidonio ritratto come Tuffatore sulla fascetta di un libro d’oltralpe il cui titolo non credo possiate indovinare: Boutès! Cioè Bute, cioè io! Roba da pazzi. E prima del ’68? Qualcuno di voi penserà sicuramente a un tuffatore perfettamente orizzontale, quasi l’asse di una bilancia in cui vita e morte, tuffo e risalita pareggiano per sempre, nell’attimo dello scatto (o dell’affresco?) i loro conti. Ma nessuno – sono sicuro, perché voi ancora non credete a quello che state leggendo – penserà che, appena dieci anni prima della scoperta della tomba, durante una gara di inni, un uomo coi baffi e uno con la faccia da bambino anche a 80 anni riuscissero a intonare una melodia per volare 50

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nel blu dipinto di blu solo perché erano riusciti a captare, traendone ispirazione, i miei ricordi su Poseidonio ben prima di questo mio racconto.

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22 So bene che vorreste interrogarmi per conoscere tante altre cose: invece di essere soddisfatti di poter leggere tanti libri, visitare tante mostre, apprendere da tanti siti, pensate che io possa svelarvi la verità della verità. Forse neanche mio padre, il Maestro, ne sarebbe capace: neanche se si fosse autoritratto, e non lo fece per modestia. Non posso rispondere alle vostre domande: e non perché sia, in quanto pittura, come una poesia muta; sono, in realtà, sordo alle domande del vostro mondo. La diacultura ha continuato ad accumulare nella mia mente dati contraddittori o giustapposti senza filtrarli e senza ordinarli; dati che posso solo comunicare, incapace come sono di reggere a una dialettica, a un botta e risposta, a un’indagine approfondita. Da antico gigante, mi sento come un nano appollaiato sulle spalle del nano che sono diventato durante questi secoli … … 51

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0 …La voce ha finito di raccontare. Ho provato a chiedere ancora qualcosa io, che ho avuto il privilegio di ascoltare, ma invano. Ho aspettato qualche minuto, poi ho smesso di registrare. Altre eventuali parole di Bute, giocatore di cottabo e amico di Poseidonio, figlio del Maestro pittore, innamorato di Thalàssia, rimangono inascoltabili e invisibili, come è stato per tanti secoli quel prodigio della Tomba del Tuffatore. Forse, in un nuovo cinquantenario, ritorneranno sonore e chiare, sempre che la diacultura non le renda straniere e incomprensibili. Ho avuto il privilegio di essere l’unico ascoltatore di una storia incredibile, anche se Bute, forse, credeva di rivolgersi a un pubblico ben più vasto. Ora non mi resta che riascoltare tutto e condividere questo privilegio con chi mi leggerà, a patto che io riesca a imitare gli antichi grammatici, spiegando citazioni, allusioni, parole rare, luoghi, nomi, etimologie, analogie, in vista del giudizio critico. E di questo mi sento capace, anche perché ho un sito, Filologia dal volto umano (= FVU), nel quale ho raccolto la maggior parte dei miei studi, che mi serviranno a interpretare meglio le parole di Bute. Lo trovate qui: www.luigigigispina.altervista.org.

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Note ai singoli punti/paragrafi

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1. Il riferimento più probabile è a Murakami Haruki, L’assassinio del Commendatore, 2 voll., Torino 2019, in cui si racconta di un misterioso tumulo di pietre. 2. Qui è il primo accenno alla identità del narratore, ritratto in una delle lastre della cosiddetta Tomba del Tuffatore, portata alla luce a Paestum nel 1968. Il volume di riferimento sulla tomba è dello scopritore, Mario Napoli, La tomba del tuffatore, Bari 1970. Da ultimo, in occasione della mostra per il cinquantenario, il catalogo a cura di Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco Archeologico e del Museo, L’immagine invisibile. La tomba del tuffatore nel cinquantesimo dalla scoperta, Napoli 2018, con numerosi contributi, l’ultimo dei quali, di M. E. Oddo, pp. 137-145, contiene una bibliografia ragionata cui lettrici e lettori potranno attingere a loro piacere. Gabriel Zuchtrigel è anche autore di un’agile guida dal titolo La tomba del tuffatore. Iniziati e artigiani nella Paestum di età greca, Napoli 2016. Segnalo qui solo qualche altro scritto che ho potuto controllare, stimolato dalle parole di Bute: C. Ampolo, Il tuffo e l’oltretomba. Una nota sulla tomba del tuffatore e Plut., Mor., 563 E, in “La Parola del Passato” 47, 1993, pp. 104-108. B. D’Agostino e L. Cerchiai, Il mare, la morte, l’amore. Gli Etruschi, i Greci e l’immagine, Roma 1999, soprattutto i contributi alle pp. 52-88. M. Castiglione, La tomba del tuffatore: nostalgia etrusca in Magna Grecia. Ancora sulla figura del defunto, in “Italia Antiqua”, Orvieto 2008, pp. 147-179.

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A. Pontrandolfo, A. Rouveret, M. Cipriani, F. Longo, La Tomba del Tuffatore e le altre tombe dipinte di Paestum, Paestum 2015. A. Pontrandolfo, La tomba del tuffatore: forza evocatrice di un’immagine, in I mille volti del passato. Scritti in onore di Francesca Ghedini, a cura di J. Bonetto, M.S. Busana, A.R. Ghiotto, M. Salvadori, P. Zanovello, Roma 2016, pp. 157-163. C. Rescigno, Il viaggio del tuffatore e i giocatori di dama: breve nota a margine di due tombe campane, in Dialogando. Studi in onore di Mario Torelli, a cura di C. Masseria ed E. Marroni, Pisa 2017, pp. 321-332. 3. Per ricezione, o reception studies, si intendono le pratiche attraverso le quali le culture antiche, in particolare greca e romana, sono studiate, interpretate, riadattate, raffigurate, trasmesse e diffuse nelle culture moderne. Si può consultare un mio articolo, Il futuro della ricezione dell’antico, del 2015, sul sito FVU nella sezione Ricezione (n. 222). * La diacultura è termine che si incontra qui per la prima volta e non ha altre attestazioni. 4. A Erinna, misteriosa poetessa greca di V-IV sec. a.C., di cui si sa e si conserva davvero poco, ha dedicato una monografia C. Neri, Erinna. Testimonianze e frammenti, Bologna 2003 (la citazione a p. 165). Si fa qui riferimento alla comparazione suggerita da un poeta greco del VI secolo, Simonide di Ceo, e tramandata in alcune operette di Plutarco. Su questo aspetto e sugli altri testi citati si può consultare il mio articolo: L’enàrgeia prima

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del cinema: parole per vedere, del 2005; lo si trova sul sito FVU, nella sezione Retorica al n. 109. 5. Su Elea (Velia), Poseidonia (Paestum) e altri siti geografici valgono i repertori a portata di mano, anche in rete. Per il mito degli Argonauti, come per i vari miti cui Bute fa riferimento, si può consultare un qualsiasi Dizionario di Mitologia classica e anche, ma con cautela, le voci di Wikipedia. Il richiamo ai due film di Giuseppe Tornatore è frutto della diacultura, come anche quello a Italo Calvino, che appare in esergo nell’articolo citato al punto 4, tratto dalla lezione sulla visibilità, nelle Lezioni americane. Per quanto riguarda le sirene, che sono citate da Bute anche in altri punti, non posso che rinviare al mio volume con M. Bettini, Il mito delle sirene, Torino 2007, esaurito e ormai recuperabile solo nelle biblioteche (almeno per il momento). La vicinanza fra l’Heraion di foce Sele, Paestum e ben noti caseifici consente un sano rapporto fra turismo, gastronomia e cultura. 6. Sarebbe bello ritrovare in qualche Museo il vaso cui si riferisce Bute, con la scena del danzatore. La caccia è aperta. 7. * Antologiche: Bute lo spiega, ma a primo acchito verrebbe da interpretare come ‘da antologia, memorabili’. Poi però bisogna ricordarsi che Bute è greco e che in greco anthos è il fiore. Quindi: una giornata in cui viene da parlare solo di fiori, perché logos, anche se viene tradotto in tanti modi, ha alla base il parlare, il dire qualcosa.

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Qui Bute sembra alludere al mito della fondazione di Roma e anche al film Il primo re di Matteo Rovere (2019).

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8. Per chi voglia approfondire, sul tema del suicidio e su Cleombroto può valere quello che ne dico nel mio libro La forma breve del dolore, Amsterdam 2000. La lettera di Saffo a Faone è nelle Eroidi di Ovidio, per la precisione è la n. 15. 9. Sull’Ade, sui vari miti che lo riguardano e sui relativi testi in traduzione, val la pena leggere un volume di T. Braccini e S. Romani, Una passeggiata nell’aldilà in compagnia degli antichi, Torino 2017. * strascinafaccenne (lo si incontra anche come strascinafacenne, o strascinafacente): si tratta di una voce del dialetto napoletano, che indica colui che prolunga, trascina nel tempo, le faccende, le cose da fare. Si usa in genere per quei tuttofare che si interessano di pratiche di vario tipo, ma le portano per le lunghe per guadagnare qualcosa di più dai committenti. Nell’uso che qui ne fa Bute potrebbe riferirsi a un perditempo, assimilabile alla mitica, ormai, ragazza del film di Nanni Moretti Ecce bombo (1978) che, a chi le chiede cosa faccia nella vita, risponde: “giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose …”. Sulle sirene qui citate rinvio al volume del punto 5. Sul katapontismòs si può recuperare una voce d’enciclopedia di G. Glotz: http://dagr.univ-tlse2.fr/feuilleter/tome_3/ partie_1/page_808, che prosegue fino a p. 810.

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10. Il cantante maledetto dovrebbe essere Piero Ciampi (19341980) e la canzone Non Dio, decido io, rilanciata anche da Gino Paoli in un album dedicato all’autore: Ha tutte le carte in regola (1980). Naturalmente per Ciampi “Dio si assicurò” ecc. 11. Che la pittura non esistesse al tempo di Troia lo dice Plinio il Giovane nei capitoli della Storia naturale (libro XXXV) dedicati alla pittura. Sulle varie fasi della vita di Poseidonia-Paestum e sulla sua collocazione geografica sono molto utili i contributi del Catalogo della Mostra, aperta a Paestum fra 2019 e 2020, Poseidonia città d’acqua. Archeologia e cambiamenti climatici, curato da G. Zuchtriegel, P. Carter, M.E. Oddo, Paestum 2019. 12 e 13. Il romanzo Espiazione è di Ian McEwan, Torino 2002. Lì è la letteratura, qui sarebbe la pittura a redimere dalla colpa. Di Platone e Senofonte abbiamo due opere dallo stesso titolo, Simposio. I particolari della tomba e dei suoi dipinti sui quali si sofferma a lungo Bute possono essere seguiti bene nei volumi citati al punto 2. 14. Sul gioco del cottabo e in genere sui giochi nell’antichità, con molte e sorprendenti coincidenze con giochi moderni, consiglio un bel volume di G. Carbone, Tabliope. Ricerche su gioco e letteratura nel mondo greco-romano, Napoli 2005 (il cottabo è alle pp. 416-419).

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15. * “Scrivere di musica è come danzare di architettura” è un aforisma moderno sulla cui primogenitura si discute. Ci si può divertire a fare una ricerca in rete. 16. Qualche spunto per le considerazioni filosofiche di Bute si trova in un recente volume di M. Bonazzi, Creature di un sol giorno. I Greci e il mistero dell’esistenza, Torino 2020. Il mito di Aurora e Titono è raccontato nell’Inno ad Afrodite pseudoomerico. 17. Dell’aspetto verbale greco in particolare si è innamorata Andrea Marcolongo, autrice de La lingua geniale, RomaBari 2016. La scena descritta da Bute appartiene al film di Paolo Sorrentino La grande bellezza (2013), vincitore di un Oscar nel 2014. La sceneggiatura del film, di P. Sorrentino e U. Contarello, è nell’omonimo volume, Ginevra-Milano 2013. ‘Nato in Mediterraneo’ mi sembra alludere a Mediterraneo, un brano di Jean Manuel Serrat, che conosco nell’interpretazione di Gino Paoli. Quanto a Dudù – mi ci ha fatto pensare una cara amica, Maria – sicuramente si tratta di Raffaele La Capria, il noto scrittore. Ho rintracciato il passo in R. La Capria, S. Perrella, Di terra e mare, Roma-Bari 2018, p. 17. Forse è pedante citare una singola opera, perché dei tuffi da Palazzo Donn’Anna a Posillipo La Capria ha fatto la metafora della scrittura e del romanzo, come si può vedere qui: https://www. youtube.com/watch?v=BVCB16SH0nk. E poi, nella resa teatrale delle sue opere, il tuffo e il convito viaggiano spesso insieme, come per Poseidonio. 58

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Anna Maria Ortese ha scritto, suscitando polemiche e un intenso dibattito, Il mare non bagna Napoli (1953). La città porosa è una definizione, per Napoli, di Walter Benjamin, rilanciata da Claudio Velardi nel volume omonimo a più voci (Napoli 1992) e recentemente ripresa da Paolo Macry, Napoli. Nostalgia di domani, Bologna 2018. 18. Le due fantasie di Bute sono sicuramente relative, la prima, al film di Ettore Scola C’eravamo tanto amati (1974), con Vittorio Gassman (Gianni Perego), Stefano Satta Flores (Nicola), Nino Manfredi (Antonio) e Stefania Sandrelli (Luciana); la seconda, al racconto Il nuotatore (The swimmer), di John Cheever, compreso ne I Racconti, Milano 2012, dal quale fu tratto il film Un uomo a nudo (titolo italiano di The Swimmer) di Frank Perry, uscito nello stesso anno della scoperta della tomba, il 1968. 19. Il nesso ‘l’altro elemento’, che ritorna anche al punto 20, mi ricorda il titolo del primo dei quattro romanzi che costituiscono l’omonimo libro di Giovanni Pirelli, Torino 1952. Per una stranissima coincidenza, usai la stessa allusione in un mio racconto, 1500 metri, della raccolta Gare, Napoli 1997, prefazione di L. Canfora. La si trova nella sezione Curiositas/ Varietas del sito FVU al n. 63. L’aneddoto sul correttore di quadri è la testimonianza, raccolta da Karl Reinhardt, della risposta di Friedrich Nietzsche a un giovane che desiderava darsi alla filologia classica. Dove l’avrà presa Bute? Non saprei, io so che campeggiava, incorniciata in bella mostra, nella mia stanza di professore all’Università di Napoli Federico II.

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Quanto a Re Mida, rinvierei al mio Mida, una leggenda davvero aurea, nella sezione Antropologica del sito FVU, al n. 193. 20. Per le varie interpretazioni circa la simbologia del tuffo, ci sono alcuni contributi indicati al punto 2. Nel 1968, inutile che sottolinei il valore di questa coincidenza, si votò a maggio per il rinnovo del Parlamento; anche a me capitò di votare (per la prima volta) a Orvieto, dove facevo il servizio militare! 21. La prima poesia è di Eugenio Montale e fa parte di Diario del ’71 e ’72. La seconda è di Vivian Lamarque, tratta da Una quieta polvere, 1996. Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente è di M. Barbagli, Bologna 2009, mentre di Una passeggiata nell’aldilà ho già parlato al punto 9. La tombe du divin plongeur raccoglie gli scritti di Claude Lanzmann (1925-2018), autore del celebre documentario, di 9 ore, Shoah. Quanto a Boutès, Paris 2008, tradotto in Italia come Bute, Asti 2014, con il Tuffatore promosso in copertina, è di Pascal Quignard. Il tuffo orizzontale è in una celebre foto di Nino Migliori del 1951, sul molo di Rimini. Al festival di Sanremo del 1958 vinsero Domenico Modugno e Johnny Dorelli con Nel blu dipinto di blu (Volare), di Modugno e Migliacci. Deve trattarsi sicuramente di loro. Due piccole annotazioni: Bute – peccato non possa ascoltarmi – sembra non essersi accorto che anche il primo dei

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due volumi della monumentale opera di M.A. Manacorda, Diana e le Muse. Tremila anni di sport nella letteratura, Roma 2016, dedicato a Grecia e Roma, presenta Poseidonio il Tuffatore sulla copertina. La seconda: anche se se ne fosse accorto, a Bute sarebbe certo sembrato strano trovare una tuffatrice come immagine speculare a quella dipinta dal Maestro, suo padre [foto 9]. L’avevano proposta le femministe riunite a Paestum nel 2012 per l’evento Primum vivere: http://marinaterragni.it/ primum-vivere-femministe-a-paestum/ E poi, naturalmente, chi volesse potrà divertirsi a cercare in rete altri coinvolgimenti e usi dello stesso tipo. 22. Anche su nani e giganti posso rinviare a un mio scritto: Nani e giganti, una dialettica antica, che si può rintracciare sul sito FVU nella sezione Antropologica, al n. 93.

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Foto 1 - Tomba del Tuffatore, lastra ovest.

Foto 2 - Tromba del Tuffatore, lastra nord.

Foto 3 - Tomba del Tuffatore, lastra sud.

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Foto 4 - Tomba del Tuffatore, lastra est.

5 Foto 5 C’eravamo tanto amati (Italia Foto 5 - Fotogramma da Ettore Foto Scola, 1974), 2'50".

6 Foto 6 - Fotogramma da Ettore Foto Scola, Foto 6 C’eravamo tanto amati (Italia 1974), 2'53".

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Foto 7 - Tomba del Tuffatore, lastra di copertura.

Foto 8 - Tomba del Tuffatore, totale.

Foto 9 - Pat Carra, La Tuffatrice - Paestum XXI sec., locandina per l’incontro nazionale Primum Vivere anche nella crisi. La rivoluzione necessaria. La sfida femminista nel cuore della politica (5-6-7 ottobre 2012).

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Il paesaggio e la bellezza

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1. 2. 3. 4.

Silvia Croce, Là dove finisce il dolore. Posillipo nella letteratura, a cura di Marta Herling Luisa Cavaliere, Sotto la giacaranda in fiore. Racconti, fantasie e ricordi dal Cilento Luisa Cavaliere, Le Cucinelle. A tavola nel Cilento, premessa di Marco Sabellico Gigi Spina, Il segreto del tuffatore. Vita e morte nell’antica Paestum

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Una scena di vita e di morte: era lì a ricordare a tutti che nulla è separato, che la vita è fatta di morte e viceversa, che ci sono i mortali e gli immortali, che si può bere e giocare e piangere e suonare. E, soprattutto, che ogni cosa passa e che sta a noi farla rimanere eterna.

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