Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna
 880600414X

Table of contents :
Indice......Page 270
Copertina......Page 1
Frontespizio......Page 2
Il Libro......Page 3
Prefazione di Giovanni Jervis......Page 5
Nota bio-bibliografica......Page 17
Prefazione dell'autore......Page 19
Prefazione dell'autore alla seconda edizione......Page 20
Nota dell'autore alla terza edizione italiana......Page 21
I. I problemi della psicoterapia moderna......Page 22
II. La psicologia analitica nei suoi rapporti con l'arte poetica......Page 44
III. Freud e Jung. Contrasti......Page 63
IV. Scopi della psicoterapia......Page 71
V. Tipi psicologici......Page 87
VI. La struttura dell'anima......Page 104
VII. Anima e Terra......Page 122
VIII. L'uomo arcaico......Page 141
IX. Le diverse età dell'uomo......Page 162
X. Il matrimonio quale relazione psicologica......Page 178
XI. Psicologia analitica e «Weltanschauung»......Page 190
XII. «Complesso» e mito (Dott. W.M. Kranefeldt, Berlino)......Page 212
XIII. Spirito e vita......Page 230
XIV. Il problema psichico dell'uomo moderno......Page 247
Indice dei nomi......Page 268

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Questo libro che in italiano prende il titolo dal problema dell'inconscio, costituisce in tutti i sensi la più efficace e piena introduzione per la lettura di Jung e il testo che meglio ne indica l'evoluzione del pensiero. I primi capitoli, forse i più interessanti e i più validi, dimostrano come la maggiore aderenza ai temi della psicologia venga espressa in primo luogo da un linguaggio cauto, spesso dubitativo, estremamente critico e problematico nei confronti delle sue stesse asserzioni. Gli ultimi saggi contenuti in questo volume indicano invece la via per speculazioni più ardite, pur senza staccarsi completamente da una terminologia psicologica (dalla Prefazione di Giovanni Jervis).

Prefazione di Giovanni Jervis Titolo originale Seelenprobleme der Gegenwart Rascher, Zurich Traduzione di Arrigo Vita e Giovanni Bollea.

Prefazione di Giovanni Jervis

L'idea e la pratica della divulgazione scientifica suscitano spesso il malcontento degli specialisti, in particolare nel campo della psicologia. D'altro lato quello che un tempo si chiamava «volgarizzazione» è divenuto, sempre più, linguaggio e comunicazione di cultura fra persone colte, o fra specialisti di formazioni diverse. La esigenza di combattere la crescente specializzazione con una rete sempre migliore di pubblicazioni accessibili ai non specialisti ha favorito lo sviluppo di un linguaggio divulgativo di buona qualità: non di rado è stato raggiunto un felice equilibrio fra la popolarizzazione un po' sciatta di certi testi di ieri, e i fasti a volte compiaciuti della cultura politecnica ad alto livello. I rischi rimangono, e sono evidenti: da un lato i testi di divulgazione continuano a creare l'illusione di una scienza digeribile senza sforzo, mentre per un altro lato fanno intravedere gli aspetti più straordinari delle conquiste umane come qualcosa di perpetuamente inafferrabile ai non iniziati. Nella psicologia, gli equivoci che sono nati da questo duplice trabocchetto sono purtroppo numerosi, tanto che sarà bene considerarli più da vicino. Innanzitutto è sintomatico notare come la psicologia sperimentale sia rimasta in gran parte esente da questi malintesi. La psicologia sperimentale si basa infatti sulla neurofisiologia e sulla statistica, con il risultato che il discorso specialistico è per lo più incomprensibile e noioso per i non competenti, mentre il discorso divulgativo è costretto a dichiarare in modo esplicito i propri limiti. In breve, è probabile che qui gli equivoci non sorgano in primo luogo perché ogni lettore sa fino a che punto il [p. ]Viii campo di studio che gli sta davanti è veramente accessibile alla sua competenza. Gli equivoci nascono con la psicologia umana. Il motivo è forse lo stesso, ma la situazione è opposta: la psicologia umana è poco scientifica. In essa, il soggetto e l'oggetto della ricerca si identificano nell'uomo, e ciò crea notevoli difficoltà metodologiche; fra l'altro, ne risulta incoraggiata l'introspezione come strumento di conoscenza, laddove la stessa psicologia umana ha provveduto a dimostrare che l'introspezione tende a essere autoillusoria e, in definitiva, fallace per la sua arbitrarietà.

Come ogni psicologia, la psicologia umana vuole essere scienza del comportamento; in quanto tale si differenzia dalla fisiologia (che può essere definita scienza del funzionamento degli organismi) e dalle scienze patologiche corrispettive che sono la fisiopatologia (funzionamenti alterati) e la psichiatria (comportamenti abnormi). Il comportamento umano sfugge però largamente all'indagine scientifica. Le ragioni principali sono di due ordini: in primo luogo, l'uomo ha il privilegio di creare la sua storia, cioè di creare una serie di rapporti politici che per definizione non possono essere scissi nella loro stessa totalità, né possono venir resi oggetto di esperimento senza che il loro significato divenga artificiosamente astratto e neutrale; in secondo luogo, gli aspetti neurofisiologici della psicologia umana sono molto complessi e ancora poco noti. I risultati di questa situazione divengono più evidenti quando si pensi al fatto che per motivi pratici è necessario avere, comunque, una psicologia umana che funzioni. Non si può attendere che essa divenga scientifica, ma bisogna servirsene subito nella pedagogia, nella psichiatria, nella sociologia, o anche nei campi più lontani dalla scienza come in pubblicità o nei rapporti di lavoro. La psicologia umana esiste comunque, ma cresce nella confusione delle lingue. Cresce, soprattutto, in parte lontana dal cauto e rigoroso indagare della scienza, e a volte si esprime tumultuosamente in discorsi forzatamente approssimativi, e in argomenti che risentono delle convinzioni ideologiche di chi li pronunzia. Esistono gli specialisti, [p. ]Ix ma non si mettono d'accordo fra loro: altri esprimono le proprie idee, e chiunque può venire ascoltato, dal momento che il soggettivismo dell'introspezione e l'indimostrabilità del giudizio hanno portato la psicologia umana a pronunziarsi su problemi per i quali manca ogni verifica oggettiva. Alcune correnti, come la filosofia di Jung e un ramo dell'esistenzialismo di lingua tedesca, hanno probabilmente portato una nota di chiarezza e di onestà quando hanno dichiarato di avere assunto, su certi temi, un atteggiamento programmaticamente non scientifico. Tutto ciò contribuisce visibilmente a complicare il problema della divulgazione, cioè il problema del discorso portato a livello non specialistico, o a livello interdisciplinare. Si è detto più sopra che in fatto di divulgazione non sorgono equivoci finché ogni lettore sa fino a che punto il campo di studi che gli sta davanti è veramente accessibile alla sua competenza. Forse bisogna correggere la frase dicendo che gli equivoci non sorgono finché ogni lettore sa fino a che punto la trattazione che gli sta davanti è veramente

accessibile a un suo giudizio critico. In altre parole, la esposizione dei problemi per il non specialista deve essere sufficientemente cauta da permettergli il dubbio, e tale da evitargli certezze non giustificate dai fatti. Non si devono quindi spacciare come sicure e facilmente accessibili teorie che sono invece malcerte, non provate, spesso arbitrarie e comunque pienamente valutabili in sede critica solo a condizione di possedere quella cautela e quello scetticismo che derivano da una preparazione scientifica professionale e da una conoscenza della letteratura precedente. Purtroppo esistono opere di psicologia umana che hanno conquistato la loro popolarità con una argomentazione abile e letterariamente affascinante, e con una esposizione sicura di sé ed estremamente convincente sul piano emotivo, ma in realtà incauta nelle affermazioni e perfino priva di seri riferimenti storicocritici agli altri studi riguardanti lo stesso argomento. Che tutto ciò abbia contribuito a moltiplicare i malintesi, è ovvio: ma esistono anche delle scusanti, ed è bene ricordarle. In primo luogo, bisogna notare che la psicologia [p. ]X umana, proprio a causa della sua situazione di arretratezza rispetto alle altre scienze, non si vale se non di rado di un linguaggio veramente specializzato: ne deriva che molti dei suoi testi sono apparentemente accessibili alle persone di media cultura pur senza esser stati scritti per loro, e senza che nessuno abbia colpa dei fraintendimenti che ne derivano. In secondo luogo, vi è il fatto già accennato, per cui la psicologia umana è in molti suoi aspetti prescientifica o non scientifica, e invita perciò alcuni autori che prediligono proprio questi aspetti a non usare le cautele che sono invece necessarie in quegli altri campi, dove il rigore del metodo è condizione necessaria per un discorso attendibile. Come si vedrà, tutti questi problemi divengono particolarmente seri quando ci si limiti a quella parte della psicologia umana che ha a che fare con l'inconscio. La nozione di inconscio, pur trovando nella teoria psicoanalitica creata da Freud la sua sistematizzazione più nota, ha una lunga storia precedente, e notevoli sviluppi successivi. Oggi la nozione di una attività psichica inconscia ci è divenuta familiare, è entrata nella cultura e nel linguaggio di tutti i giorni, è stata accettata dalla psicologia e dalla psichiatria. Proprio per questo l'idea dell'inconscio ha forse finito con l'appiattirsi, o è stata resa popolare quasi esclusivamente nella sua interpretazione freudiana, senza che altre ipotesi venissero adeguatamente conosciute: in breve, l'inconscio ha cessato troppo presto di essere un problema. In realtà, se vi sono ancora molte incertezze e dubbi, questi riguardano non tanto la nozione

di inconscio, quanto la sua definizione e il suo significato; non tanto l'esistenza di atti, ragionamenti o sentimenti immediatamente accessibili alla coscienza del soggetto, quanto le difficoltà metodologiche relative al loro studio. Alcune delle pagine più affascinanti della psicologia e della filosofia moderna sono state scritte sul problema della coscienza, forse più difficile e sfuggente del problema stesso dell'inconscio: ma quest'ultimo è stato illuminato indirettamente, e ha perso una parte della dimensione romantica acquistata con Freud.[p. ]Xi L'origine della nozione di inconscio è dibattuta. Già in Platone vi è qualche intuizione riconducibile a questo tema, ma bisogna attendere fino a Leibniz per avere un riferimento più chiaro. Il concetto filosofico di inconscio viene però varato dai grandi metafisici postkantiani, in particolare Schelling, Hegel e Schopenhauer, ed è ripreso in pieno da Carl Gustav Carus e da von Hartmann, ciascuno dei quali fonda una vera e propria filosofia dell'inconscio, di estremo interesse anche alla luce delle vedute successive. Si deve a Carus, fra l'altro, una prima chiara distinzione fra preconscio e inconscio. Alla fine dell'Ottocento, e prima dell'inizio dell'opera di Freud, l'inconscio aveva già una sua storia: nella letteratura romantica, in filosofia, in pedagogia (con Herbart, che scoprì la rimozione), e infine nella psicologia francese con Binet, Ribot, Charcot, Bernheim, ma soprattutto con Janet, al quale si deve la prima definizione di azione inconscia e la prima formulazione dell'inconscio in termini rigorosamente psicologici. Nel 1884, Galton aveva inventato e reso noto il metodo di indagine psicologica della «associazione di parole» (in seguito ripreso da Freud e Jung), con piena coscienza del suo significato; prima della fine del secolo, Nietzsche era ormai celebre con una teoria filosofica in cui venivano anticipate molte delle successive idee freudiane, fra cui la nozione di Es. Il sorgere del genio di Freud raccolse una eredità ormai matura, e oscurò tutti i contributi precedenti, che vennero ben presto dimenticati dai suoi successori più entusiasti e meno colti. Sarebbe interessante notare con più cura come non solo nella teoria dell'inconscio, ma in tutti gli aspetti della sua dottrina, il grande viennese sia stato studioso e interprete coltissimo, discreto e infaticabile dei fermenti culturali della sua epoca. L'originalità di Freud è indiscutibile in certe teorizzazioni, come quella, forse la più importante, del Super-Io, ma la sua grandezza sta piuttosto nell'aver saputo creare una sintesi polemica e convincente, una teoria vasta, comprensiva e, per quell'epoca, arditissima, coinvolgente non solo un nuovo metodo di cura e una nuova

sistemazione teorica dei disturbi [p. ]Xii psichici, ma anche, e soprattutto, una intiera dottrina psicologica, sociologica e anche metafisica dell'uomo e di tutti i rapporti umani. Al momento del crollo della vecchia Europa, la dottrina freudiana della psicoanalisi assunse agli occhi del pubblico colto tutto il valore di una teoria rivoluzionaria. La psicoanalisi ebbe un significato di rottura nei confronti della moralità vittoriana, riuscì a realizzare la distruzione del rispettabilismo ottocentesco, fu un atto di accusa contro le falsità e l'ipocrisia sessuale della società borghese, una provocazione nei confronti di gran parte della stagnante psicologia dei circoli accademici. Al suo centro sta la concezione freudiana dell'inconscio, cioè la teorizzazione di una attività psichica oscura e istintuale, non solo ignota alla coscienza, ma anche attivamente repressa e negata dal buon senso, e tanto più viva, operante e ribelle quanto più contrariata e inibita nel nome delle convenzioni sociali. La teoria freudiana lasciò al mondo occidentale e alla cultura una eredità che può essere considerata da tre punti di vista. In primo luogo, è necessario considerare il contributo della psicoanalisi al progresso della psicologia e della psichiatria. Al contrario di quanto si ritiene comunemente, questo contributo fu modesto, con l'eccezione di alcuni settori della psichiatria. La psicologia animale proseguì le sue ricerche con tutt'altre preoccupazioni, e la psicologia umana trovò estreme difficoltà metodologiche nel verificare le ipotesi freudiane. Il metodo obiettivo di Pavlov, sia in oriente che in occidente, divenne col passare del tempo sempre più importante, e altre scuole, come ilbehaviorismo e il gestaltismo, si contesero i favori degli studiosi. Una delle principali difficoltà in cui incorse la psicoanalisi può essere spiegata con un esempio. Se una persona parlando distrattamente dice una cosa per l'altra essa commette un lapsus. Orbene, se questa persona dice di aver commesso una svista senza significato (o con un significato del tutto innocente), la sua opinione vale esattamente (da un punto di vista metodologico) quanto l'ipotesi del freudiano che, al contrario, sostiene il recondito [p. ]Xiii significato sessuale dell'errore. Ambedue le tesi sono rigorosamente ed egualmente inverificabili, con la sola differenza che la prima tesi viene in genere tacciata di ingenuità, e la seconda di arbitrarietà. E' utile precisare che, se l'autore del lapsus decide di accettare una delle molte possibili interpretazioni del suo errore, questa accettazione non costituisce una prova. Si può aggiungere incidentalmente che per analoghi motivi, se è lecito ritenere che i sogni abbiano delle cause, l'ipotesi che essi debbano sempre avere un significato è metodologicamente mal fondata.

Per quanto riguarda la psichiatria, il discorso è molto diverso. Più empirica e meno preoccupata da problemi di metodo scientifico, la psichiatria moderna ha finito con l'utilizzare e accettare molti aspetti della dottrina freudiana dell'inconscio. Una sola scuola, quella statunitense, accettò Freud quasi incondizionatamente: le scuole psichiatriche europee furono, senza eccezioni, molto più caute. Nell'insieme, si può dire che il bilancio del contributo freudiano alla psichiatria è da considerarsi positivo in diversi campi. D'altro lato è bene non dimenticare che le teorie di Freud sull'eziologia dei disturbi mentali sono oggi accettate solo in piccola parte e non da tutti; che il problema della schizofrenia è rimasto insoluto e che, paradossalmente, il primo grande passo nel trattamento delle malattie mentali è stato portato da metodi empirici e - se si vuole - grossolani, come l'elettroshock e i neuroplegici. Dobbiamo a questi ultimi se oggi sono fortemente diminuiti sia il numero degli ingressi negli istituti psichiatrici, sia, soprattutto, le durate delle degenze. Malgrado tutto ciò, dobbiamo invece in buona parte alla psicoanalisi l'interesse per la vita emotiva del malato di mente, la comprensione di molti problemi del nevrotico, e l'attenzione per il peso che possono assumere in molti casi la presenza e la parola dello psichiatra. Il secondo aspetto dell'eredità freudiana concerne il movimento psicoanalitico. Oggi come ieri, esso è formato dall'insieme di coloro che applicano il metodo terapeutico elaborato da Freud. Richiamandosi sempre direttamente a Freud, il movimento psicoanalitico ha mantenuto in tutto [p. ]Xiv il mondo la propria compattezza, malgrado numerose scissioni: purtroppo questa compattezza è stata conservata al prezzo di non poche incomprensioni reciproche nei confronti della psichiatria. Oggi il metodo psicoanalitico viene impiegato quasi esclusivamente nella terapia di alcune forme di psiconevrosi e disordini della personalità. Alcuni studiosi hanno messo in dubbio la reale efficacia terapeutica del trattamento sulla base di ricerche eseguite con gruppi di controllo (Denker, Zutt, Ernst, Eysenck). Malgrado queste perplessità siano condivise dalla maggioranza degli psichiatri più seri, è esperienza non rara incontrare persone, spesso soggetti giovani dalla personalità insicura, del tutto trasformate dopo alcuni anni di intensa terapia psicoanalitica. Secondo il parere più accreditato, in molti casi questa trasformazione non è dovuta allo spontaneo risolversi del disturbo, ma proprio al nuovo orientamento ideologico e morale e alla riconciliazione interiore procurati dal trattamento.

Ciò che interessa notare ai fini del nostro tema è il fatto che l'importanza dell'inconscio sia stata considerevolmente ridimensionata, nel corso degli ultimi trent'anni, dagli psicoanalisti stessi. Col passare del tempo, l'attenzione degli analisti si è spostata dal passato del paziente ai suoi problemi attuali, dai problemi dell'inconscio allo studio dell'Io, dalla immutabile simbolica sessuale (cara ormai solo ai freudiani da salotto) alla viva e variabile problematica, conscia e inconscia, di ogni soggetto. La tendenza delle correnti più moderne della psicoanalisi è di considerare il potere terapeutico del trattamento psicoanalitico non più tanto come una conseguenza della interpretazione e esplicitazione dei messaggi cifrati dell'inconscio (interpretazione di cui si riconosce il carattere variabile, inverificabile e largamente arbitrario), quanto piuttosto come la conseguenza del particolare vincolo affettivo e razionale che si viene a creare fra il paziente e l'analista. Il terzo aspetto del lascito di Freud al mondo occidentale è quello culturale. Qui veramente l'importanza di Freud può essere difficilmente sopravvalutata. Si è già accennato al successo della psicoanalisi dopo la prima guerra [p. ]Xv mondiale: tuttora la dottrina freudiana ha un ruolo di primo piano nella cultura occidentale proprio nel suo aspetto teorico più che in quello di terapia. I principi della psicoanalisi sono stati resi noti in primo luogo dalle opere stesse di Freud, ma anche dai libri dei suoi seguaci, da romanzi e novelle di grandi scrittori, e infine da una miriade di articoli e saggi divulgativi a volte ben fatti, ma molto spesso scritti in tono salottiero e più o meno superficialmente saccente. La psicoanalisi è giunta direttamente e indirettamente a permeare di sé il modo stesso di pensare della borghesia colta dell'ovest civilizzato e, implicitamente, di tutta la sua classe dirigente. Si può dire che se Freud non scoprì l'inconscio, lo fece certamente scoprire all'occidente: e con l'inconscio il sesso, la repressione, le nevrosi, la psicologia delle masse e altri concetti che sebbene non fossero nuovi, né tutti ignoti al pubblico, furono da allora in poi associati al suo nome e alla sua teoria. Così, scoprire l'inconscio fu ed è per molti scoprire la psicoanalisi, cioè uno strumento critico che, malgrado i suoi aspetti apparentemente scandalosi e esoterici, è facilmente orecchiabile e sembra fornire una chiave e una spiegazione per tutte le azioni umane. Ciò che non sempre è stato compreso è il carattere scientificamente malcerto di gran parte della costruzione freudiana. La psicoanalisi come teoria generale dell'uomo assume i suoi caratteri più chiaramente non scientifici nelle opere freudiane della maturità e della vecchiaia: sono queste ultime le opere che illuminano con

maggior chiarezza i presupposti ideologici delle teorie giovanili, la filosofia e il credo politico di Freud. Sarebbe ingiusto e ingenuo ridurre il successo della psicoanalisi a questioni di costume. Forse l'aspetto più valido del contributo portato dalla psicoanalisi alla nascita di una moderna coscienza critica è stato messo in luce da Sartre; secondo quest'ultimo è merito di Freud aver dimostrato che il movente delle azioni dell'uomo è ambiguo alla sua stessa coscienza: ciò ha messo in crisi la moralità tradizionale, e ha favorito la nascita di un più fecondo concetto di responsabilità. D'altro lato, se la psicoanalisi assunse una importanza storica [p. ]Xvi fu anche perché seppe fornire una teoria psicologica non solo critica ma esplicativa, e un modulo per interpretare le azioni umane sia nella vita quotidiana, sia nei grandi problemi politici. Alcuni moralisti hanno notato a questo proposito come la separazione fra vita pubblica e vita privata, sancita dall'Ottocento, sia stata in seguito distrutta nel nome dell'inconscio. Se vi è un rimpianto in questa osservazione, esso riguarda pur sempre la fine della vita privata. In realtà è probabile che l'influenza maggiore della psicoanalisi si sia esplicata proprio attraverso la dissoluzione della sfera pubblica, cioè attraverso una riduzione della sfera politica a problemi di psicologia personale. Nella psicoanalisi, la protesta civile tende sempre a ridursi a una dimensione privata: a ogni forma di vita politica viene rinfacciato senza possibilità di difesa l'oscuro egoismo di moventi psichici inconsci e perenni, e ogni forma di violenza politica diviene equiparabile all'altra in quanto manifestazione di interiore aggressività. Così, in un'opera pubblicata di recente in Italia, la rivolta attuale del colonizzato contro il colonizzatore rimane sempre la rivolta dell'infante contro l'immagine paterna dell'uomo bianco, poiché quest'ultima è colpevole in primo luogo di aver violato con le armi (in quanto simboli fallici) il seno della terra, simbolo della madre. Più duttile, la psicoanalisi americana ha contribuito alla nascita di una vera scienza psico-politica, già operante sul terreno pedagogico, nelle industrie, a livello nazionale e persino (con la presidenza Kennedy) a livello internazionale. Anche qui, la proposta di una pacificazione degli animi è divenuta strumento per la difesa dello status quo, e si è attuata attraverso la negazione della validità della sfera politica. In sintesi, la sostituzione della politica con una problematica strettamente e tecnicamente psicologica è stata teorizzata sia da Freud, sia dai freudiani moderni al di fuori e contro una visione storica dei problemi umani.

L'impostazione data da C'G' Jung al problema dell'inconscio è correttamente interpretabile solo sullo sfondo [p. ]Xvii della psicoanalisi freudiana, e purché si tenga conto di alcune cautele metodologiche alle quali si è accennato nelle pagine precedenti. La situazione di Jung nei confronti della psicologia è particolare e difficile. In un certo senso, Jung è un isolato; in un altro senso, è fra gli studiosi che più hanno contribuito a mettere in luce il significato e i limiti della impostazione psicoanalitica. Nella dottrina di Jung, alcuni importanti aspetti della psicoanalisi freudiana vengono spogliati della loro veste di razionalismo ottocentesco, e riportati al terreno filosofico al quale, forse, appartengono in modo più legittimo. Della eredità freudiana, Jung raccolse per così dire l'ala di estrema destra, alcuni degli aspetti meno razionalmente verificabili, le ipotesi più audaci sul valore di verità del sottofondo irrazionale dell'inconscio. Avendo iniziato la sua ricerca secondo le direttive della psicoanalisi, Jung si venne accorgendo che proprio questa via lo portava ben al di là della stessa metapsicologia freudiana, in un campo ormai del tutto separato dalle preoccupazioni e dai metodi della scienza moderna. Questa evoluzione può venire esemplificata prendendo in considerazione la teoria dell'inconscio collettivo e degli archetipi, che sta al centro della costruzione junghiana, ma che ha in Freud il suo precursore. L'idea di una ereditarietà collettiva e inconscia dei ricordi ancestrali e tutt'altro che secondaria nella dottrina di Freud, e garantisce anzi l'universalità degli istinti e degli stadi di sviluppo dell'uomo. Ipotesi oggi superate, come il lamarckismo, la filosofia di Spencer, l'etnologia di Frazer e di Robertson Smith fornirono a Freud i dati e la giustificazione «scientifica» di cui aveva bisogno in questo campo. Più tardi, all'epoca di Jung, e ancor più oggi stesso, la genetica e la scienza moderna dell'evoluzionismo hanno negato invece in modo reciso che i ricordi possano venire ereditati o sedimentati in qualche modo nella serie dei successori. Jung però, con maggiore coerenza, non si preoccupa più, come Freud, di essere in regola con il razionalismo scientifico, ma dichiara senza reticenze di trarre le proprie certezze dall'intuizione [p. ]Xviii diretta di verità irrazionali che emergono dalle profondità stesse dell'inconscio. Qui sta la grande differenza fra Freud e Jung. Secondo Jung, il razionalismo della scienza e della psicologia moderna (e della stessa psicoanalisi freudiana) è fonte di sfiducia nelle capacità conoscitive dirette dello spirito, immiserisce la personalità dell'uomo, e in definitiva ne allontana

l'anima dalle prospettive della religione. Ciò che importa notare in tutto questo non è che il comportamento umano sia a volte incline alla magia, all'irrazionalismo o alla religione: si tratta di un fatto sulla realtà del quale Jung troverebbe ben pochi oppositori. In realtà quel che importa osservare è che in Jung questo volto magico dell'inconscio dell'uomo è portatore di verità segrete: poiché dall'inconscio salgono contenuti irrazionali e antirazionali che in un certo senso sono sempre veri, diviene giustificabile accettare come fonti di verità generali anche metodi e atteggiamenti antiscientifici e oscurantisti come l'astrologia e le superstizioni primitive. D'altro lato la teoria dell'inconscio di Jung non è così semplice, né può venire liquidata con l'accusa di irrazionalismo: per altri versi Jung ha già il suo posto nella storia della psicologia, e questo diritto gli è oggi riconosciuto per la teoria tipologica che fa perno sui concetti di introversione e extraversione. Così, nell'ambito della psicoanalisi vengono riconosciuti a Jung i meriti della prima interpretazione culturale del fenomeno freudiano e il primo richiamo ai problemi attuali del paziente, in contrapposizione alla ricerca predominante dei ricordi repressi dell'infanzia. Nella cultura umanistica europea Jung è stato ed è presente con il peso di una serie di libri affascinanti. Eppure, la scuola junghiana è oggi isolata in primo luogo nei confronti della psicologia. Gli analisti che usano, per i loro pazienti, il metodo e le idee direttrici di Jung si raggruppano in scuole che hanno limitati contatti con i freudiani, e ancor minori contatti con gli ambienti psicologici e psichiatrici. Queste scuole sono attive particolarmente in Svizzera e in Gran Bretagna, ma anche in quelle nazioni si trovano in minoranza, e vivono nell'ambito di [p. ]Xix una problematica che non è condivisa, si può dire, da nessun altro gruppo. E' ancora presto per esprimere un giudizio sul contributo di Jung alla cultura europea: quello che è certo è che questo giudizio non sarà facile. La difficoltà del giudizio su Jung nasce dal fatto che la sua opera presenta aspetti molto complessi, spesso sfuggenti, e apparentemente contraddittori. Per certi lati il discepolo di Freud rimane legato alla psicoanalisi, alla psicologia, alla psichiatria, mentre in gran parte dei suoi scritti se ne allontana in modo radicale fino a costituire una dottrina sui generis. Viene da chiedersi dunque chi mai, fra filosofi, teologi, umanisti, storici delle religioni, psicologi, potrà esprimere su Jung un giudizio che superi la parzialità della propria disciplina. In un certo senso,

Jung si situa al di fuori di tutte le moderne correnti di pensiero scientifiche e culturali; per un altro verso, si colloca nel filone più oscuro dell'irrazionalismo tedesco. I rapporti di Jung nei confronti di quest'ultimo aspettano uno studio approfondito e serio, anche per quanto concerne gli aspetti filosofici e alcuni curiosi lati mistici del nazismo, verso cui Jung non nascose aperte simpatie. Altre difficoltà nascono da una valutazione dell'opera di Jung nel tempo. Esiste una notevole differenza di impostazione fra le opere giovanili di Jung e quelle, più note, della maturità e della vecchiaia: di qui la difficoltà non indifferente di scegliere fra l'impostazione delle prime, indubbiamente più accettabile ma meno originale, e quella delle seconde, forse più caduca ma sicuramente più rappresentativa. In un certo senso è impossibile identificare un punto di passaggio fra lo Jung più aderente all'osservazione clinica, e lo Jung dedito allo studio dell'alchimia e delle religioni orientali. Eppure è bene compiere un continuo tentativo di separare fra loro, nella lettura delle sue opere, questi due aspetti: ciò che si riallaccia ai grandi problemi della psicologia e della psichiatria, e ciò che, al contrario, se ne discosta e vi si oppone. Questo libro, che in italiano prende il titolo dal problema dell'inconscio, costituisce in tutti i sensi la più efficacee piana introduzione per la lettura di Jung, e il testo che meglio ne indica l'evoluzione del pensiero. I primi capitoli, forse i più interessanti e i più validi, dimostrano come la maggiore aderenza ai temi della psicologia venga espressa in primo luogo da un linguaggio cauto, spesso dubitativo, estremamente critico e problematico nei confronti delle sue stesse asserzioni. Gli ultimi saggi contenuti in questo volume indicano invece la via per speculazioni più ardite, pur senza staccarsi completamente da una terminologia psicologica. A proposito di questi ultimi saggi si può segnalare che se vi è un pericolo nella lettura di Jung, è quello di scambiare per psicologia ciò che non lo è affatto: la parte maggiore e più nota delle teorie junghiane non solo non ha a che fare con il metodo scientifico, ma neppure, per quanto possa sembrare strano, con lo studio delle leggi che regolano il comportamento umano. In Jung, la psicologia finisce per meritare questo nome solo nel suo senso etimologico, cioè come dottrina della struttura dell'anima; in questo senso la teoria junghiana assume anzi un significato restrittivo e propriamente religioso che fa di Jung l'unico grande discepolo moderno del pensiero gnostico medievale. Gli scritti più celebri di Jung volgono la loro attenzione a

una architettura spirituale di essenze e di categorie che superano lo stesso studio dell'anima e aspirano a significati universali. D'altro lato esiste sempre, anche in queste opere, un legame con la psicoanalisi freudiana la cui importanza non è stata finora valutata pienamente. E' lecito rammaricarsi del fatto che un giudizio definitivo sulle implicazioni ultime delle dottrina junghiana debba ancora essere pronunziato. Al lettore italiano, questo libro offre la possibilità di una prima lettura critica di Jung in quelle che sono forse le sue pagine più esemplari e affascinanti.

Giovanni Jervis

Nota bio-bibliografica

Figlio di un pastore protestante, Carl Gustav Jung nacque a Kesswyl (cantone di Thurgau) in Svizzera il 26 luglio 1875. Studiò medicina a Basilea e nel 1900 cominciò la sua carriera come assistente nella clinica psichiatrica dell'università di Zurigo. Recatosi a Parigi nel 1902, seguì i corsi di psicopatologia tenuti da Pierre Janet alla Salpetrière. Tornato a Zurigo, lavorò alla clinica Burgholzli, dove, sotto la guida di Eugen Bleuler, compì numerosi studi che lo resero notissimo nel campo scientifico. Nel 1905 conseguì la libera docenza in psichiatria. Nel 1907, a Zurigo, conobbe Sigmund Freud col quale iniziò una feconda collaborazione dedicandosi allo studio della psicanalisi. Fu redattore del «Jahrbuch fur psychoanalytische und psychopathologische Forschungan» diretto da Bleuler e Freud, e nel 1911 fu nominato presidente dell'Associazione psicanalitica internazionale da poco fondata. Nel 1912 Jung pubblicò a Vienna il suo primo libro sulla psicanalisi, Wandlungen und Symbole der Libido (Trasformazioni e simboli della «libido»), dove già cominciarono a manifestarsi le divergenze fra il suo pensiero e quello di Freud, divergenze che andarono man mano approfondendosi fino alla rottura definitiva che avvenne nel 1913: Jung chiamò la propria dottrina «psicologia analitica», e più tardi «psicologia complessa» per distinguerla, anche nel nome, dalla psicanalisi freudiana. Nel 1921 uscì Psychologische Typen (Tipi psicologici), che resta una delle opere più importanti di Jung. Viaggi di studio ed esplorazioni etno-psicologiche lo portarono in Africa, in America, nell'Estremo Oriente e in India, collaborando in diversi lavori col sinologo R' Wilhelm, con l'indologo H' Zimmer, col mitologo K' Kerényi. Nel 1933 Jung fu nominato presidente della Internationale Allgemeine Gesell-schaft fur Psychotherapie e nel 1935 presidente della Schweizerische Gesellschaft fur praktische Psychologie. Dal 1933 al 1942 fu professore al Politecnico di Zurigo, lasciando poi l'insegnamento per ragioni di salute. Per le stesse ragioni rinunciò, nel 1946, alla cattedra di psicologia medica dell'Università di Basilea. Nel 1948 fu creato a Zurigo l'Istituto C'G' Jung. Morì a Kusnacht (Lago di Zurigo) nel 1961. Tra le altre sue opere più importanti ricordiamo: Die Psychologie der

unbewussten Prozesse, Zurich 1917, edizione più tardi ampliata col titolo Uber die Psychologie des Unbewussten, Zurich 1948 (trad' it' Sulla psicologia dell'inconscio, Roma 1947); Die Beziehungen zwischen dem Ich und dem Unbewussten, Darm-stadt 1928 e Zurich 1945 (trad'it' L'io e [p. ]Xxii l'inconscio, Torino 1948); Uber die Energetik derSeele und andere psychologische Abhandlungen, Zurich 1928, ed' ampliata 1948; Seelenprobleme der Gegenwart, Zurich 1931, 5a ed' riveduta 1950 (trad' it' Il problema dell'inconscio nella psicologia moderna, Torino 1942, 1950); Wirklichkeit der Seele, Zurich 1934, 1939 (trad' it' La realtà dell'anima, Roma 1949); Psychologie und Religion, Zurich 1940, 1947 (trad' it' Psicologia e religione, Milano 1948); Einfuhrung in das Wesen der Mythologie, con K' Kerényi, Amsterdam 1941, Zurich 1951 (trad' it' Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino 1948); Psychologie und Alchemie, Zurich 1944, ed' riveduta 1942 (trad' it' Psicologia e alchimia, Roma 1949); Psychologie und Erziehung, Zurich 1946 (trad' it' Psicologia e educazione, Roma 1947); Die Psychologie der Ubertragung, Zurich 1946 (trad' it' La psicologia del transfert, Milano 1962); Symbolik des Geistes, Zurich 1948, 1953 (trad' it' La simbolica dello spirito, Torino 1959); Naturerklarung und Psyche, Zurich 1952; Von den Wurzeln des Bewusstseins, Zurich 1954.

Prefazione dell'autore

Le conferenze ed i saggi pubblicati in questo volume derivano soprattutto da domande rivoltemi dal pubblico, la natura delle quali già di per sé dà una certa idea dei problemi psicologici del nostro tempo. E, come le domande, anche le risposte sono il risultato della mia esperienza personale e professionale sulla vita psichica dei nostri tempi così singolari. Il pubblico commette l'errore fondamentale di ritenere che esistano risposte, «soluzioni» o maniere di vedere determinate, e che basti enunciarle per diffondere la luce di cui si sente il bisogno. Ma la più bella verità non giova a nulla - come la storia esaurientemente dimostra - se non è divenuta esperienza interiore e personalissima del singolo. Ogni risposta univoca e «chiara», come si suol dire, si arresta sempre alla mente, e solo in rarissimi casi giunge fino al cuore. Non ci occorre «sapere», la verità, ma farne esperienza. Non avere una visione intellettuale, ma trovare la via all'esperienza interiore irrazionale, forse inesprimibile: ecco il grande problema. Nulla è più vano che discutere come le cose dovrebbero essere, e nulla è più importante che trovar la via che conduce a queste mete lontane. Come le cose dovrebbero essere, quasi tutti lo sanno, ma chi mostra il cammino per arrivarci? Questo libro, come dice il suo titolo, tratta di problemi, non di soluzioni. La psicologia contemporanea è ancora impigliata in problemi; noi ne cerchiamo ancora la migliore impostazione, e il trovarla equivarrebbe ad averli già per metà risolti. Così questi saggi informano il lettore [p. ]Xxiv attento sugli sforzi compiuti attorno al poderoso problema dell'anima, che tormenta in misura assai maggiore l'uomo moderno che non i suoi avi prossimi o remoti. C.G.J. Kusnacht-Zurich, dicembre 1930.

Prefazione dell'autore alla seconda edizione

Poiché dalla pubblicazione della prima edizione è passato solo un anno e mezzo, non c'è motivo di apportare considerevoli variazioni al testo. La raccolta dei miei saggi appare dunque in forma invariata. Non essendo venute a mia conoscenza obbiezioni di principio o malintesi tali da indurmi ad una risposta esplicativa, non c'è neppur ragione di allungare la prefazione. L'accusa di psicologismo, che spesso mi è stata fatta, non sarebbe certo motivo di più lunghe discussioni, perché nessun uomo sensato attenderà da me che io cambi il mio atteggiamento di psicologo con quello del metafisico o del teologo. Non sarà mai un errore, da parte mia, osservare tutti i fenomeni psichici osservabili e giudicarli. Ogni uomo ragionevole sa che in tal modo non si pronunciano verità ultime e definitive. Le affermazioni assolute sono di pertinenza della fede, o dell'immodestia. C.G.J. Kusnacht-Zurich, luglio 1932.

Nota dell'autore alla terza edizione italiana

Questo libro è una raccolta di conferenze e di studi composti tra il '20 e il '30 e che formano il III volume delle mie Psychologische Abhandlungen. Sono soprattutto esposizioni divulgative di certe questioni fondamentali connesse con una psicologia pratica che non vuole occuparsi soltanto dell'uomo malato ma anche di quello sano. Pure quest'ultimo ha dei «problemi» che sono, in linea di principio, gli stessi del nevrotico, ma poiché sono problemi che quasi tutti hanno e conoscono, essi assurgono al valore di una «problematica del nostro tempo», mentre nella loro versione nevrotica prendono piuttosto l'aspetto di curiosità biografiche. Il trattamento delle nevrosi pose i medici com'era naturale, davanti a numerose questioni alle quali non potevano rispondere con il solo ausilio della medicina. Essi si rivolsero allora alla psicologia accademica del tempo, che però non si era mai occupata dell'uomo vivo oppure l'aveva fatto soltanto subendo condizioni sperimentali limitatrici, fatte apposta per impedire la naturale espressione unitaria della psiche. Poiché i medici non ottennero pressoché alcun aiuto dalle altre discipline (se non forse da qualche filosofo come C'G' Carus, Schopenhauer, Eduard von Hartmann, Nietz-sche), si videro costretti a elaborare una psicologia medica dell'uomo quale realmente è. Testimonianze di questi sforzi sono gli studi raccolti nel presente volume.

C.G.J. Settembre 1959.

I. I problemi della psicoterapia moderna

La psicoterapia, cioè la cura dell'anima e la cura per mezzo dell'anima, è oggi, nell'opinione popolare, identica alla psicoanalisi. La parola «psicoanalisi» è divenuta a tal punto patrimonio di tutti, che chiunque la usi crede anche di capire che cosa essa significhi. Ma il vero significato di questo termine è per lo più ignoto al profano: esso indica opportunamente, secondo la volontà del suo creatore, soltanto il metodo, inaugurato da Freud, di ridurre i complessi sintomatici psichici a certi impulsi repressi; e siccome questa procedura non è possibile senza un corrispondente fondamento dottrinale, il concetto di psicoanalisi include anche certe premesse teoriche, e precisamente la teoria sessuale di Freud, come pretende esplicitamente il suo autore. Viceversa il profano adopera il concetto di psicoanalisi per tutti i moderni tentativi di indagare i processi psichici in modo scientifico e metodico. Così anche la scuola di Adler ha dovuto adattarsi a venir catalogata sotto l'etichetta di «psicoanalisi», sebbene le idee ed i metodi di Adler appaiano inconciliabilmente contrari a quelli di Freud. Per conseguenza lo stesso Adler designa la sua psicologia non come «psicoanalisi», ma come «psicologia individuale», mentre io preferisco per il mio sistema l'espressione «psicologia analitica», intendendo con ciò qualcosa come un concetto generale, che comprende la «psicoanalisi», la «psicologia individuale» e altre tendenze nel campo della psicologia dei complessi. Ma siccome c'è una sola anima umana, così deve esserci una sola psicologia, dirà il profano; e perciò quelle distinzioni gli parranno sottigliezze soggettive, oppure mezzucci [p. 4] come quelli che la piccola gente suole usare per costruirsi un piccolo trono. Potrei allungare la lista delle «psicologie» se menzionassi anche altri tentativi che non vanno compresi sotto il nome di «psicologia analitica». Ci sono effettivamente molti e svariati metodi e punti di vista, molte opinioni e convinzioni che si combattono a vicenda, soprattutto perché non si comprendono vicendevolmente e non vogliono permettere agli altri di esistere. La molteplicità e la varietà delle opinioni psicologiche del nostro tempo sono davvero sorprendenti, ed il

profano, che tutte non le può abbracciare, ne resta confuso. Se leggiamo in un trattato di patologia che per una malattia sono indicati molti rimedi di svariatissima natura ne possiamo concludere che nessuno di questi rimedi è particolarmente attivo. E se vengono indicate parecchie vie che ci debbono condurre entro l'anima, possiamo tranquillamente ammettere che nessuna di queste molte vie raggiunge con assoluta sicurezza il suo intento, e tanto meno quelle che vengono decantate con fanatismo. Effettivamente la molteplicità delle psicologie contemporanee è un'espressione di imbarazzo. L'accesso all'anima ci si presenta via via come una grave difficoltà, come un «problema colle corna», per usare l'espressione di Nietzsche; nessuna meraviglia quindi che si accumulino i tentativi per affrontare da nuovi lati l'insolubile enigma. Ne risulta necessariamente la contraddittoria molteplicità dei punti di vista e delle opinioni. Mi si concederà che, quando parliamo di psicoanalisi noi non ci limitiamo alla sua stretta definizione, ma trattiamo in generale dei successi e degli insuccessi di tutti quegli sforzi che oggi vengono fatti per risolvere il problema dell'anima, e che noi comprendiamo sotto il concetto di psicologia analitica. E d'altronde, perché l'anima umana, come dato di esperienza, è divenuta oggi d'un subito così interessante? Per millenni questo interesse non è stato sentito. Ecco un problema apparentemente secondario e che sembra esulare dal nostro campo, ed io mi limito a porlo senza aver la pretesa di risolverlo. Ma è invece un problema di nostra [p. 5] spettanza, perché le intenzioni ultime dell'odierna psicologia sono con esso collegate, per via in certo qual modo sotterranea. Tutto ciò che oggi va sotto il nome profano di «psicoanalisi» ha la sua origine nella pratica medica, ed è per massima parte psicologica medica. Il gabinetto di consultazione del medico ha impresso a questa psicologia la sua inconfondibile impronta, e lo si vede non soltanto nella terminologia, ma anche nella formazione dei concetti teorici. Dappertutto ci imbattiamo in primo luogo nella premessa biologico-naturalistica del medico. Ne è derivato per gran parte l'estraniamento delle scienze dello spirito accademiche dalla moderna psicologia, perché questa si dichiara in fondo di natura irrazionale, quelle invece si fondano sullo spirito. Questo divario, difficilmente colmabile, fra natura e spirito è ancora ingrandito da una nomenclatura medico-biologica, che spesso suona troppo professionale, e più spesso ancora eleva eccessive pretese di benevola comprensione.

Nella fiducia che le osservazioni generali che precedono non siano inopportune, data la confusione di concetti che regna in questo campo, mi volgerò ora al nostro vero e proprio compito, che è quello di dare uno sguardo a quanto ha prodotto sin qui la psicologia analitica. Data la straordinaria varietà delle tendenze della nostra psicologia, occorre un grandissimo sforzo per fissare punti di vista generali. Se quindi io tenterò di suddividere le intenzioni ed i risultati in classi, o, per meglio dire, in stadi, lo farò coll'esplicita riserva che si tratta di un'impresa provvisoria, alla quale forse può essere mosso il rimprovero di essere arbitraria come una rete trigonometrica stesa sopra un territorio. In ogni caso io vorrei tentare di studiare il risultato complessivo considerando quattro stadi, cioè la confessione, la chiarificazione, l'educazione e la trasformazione. Spiegherò ora meglio il significato di questi termini alquanto strani. Il primo inizio e il modello di ogni cura analitica dell'anima è la confessione, intesa come pratica religiosa. Ma siccome questa origine non costituisce un legame causale, [p. 6] bensì un nesso psichico, una radice irrazionale, così non è senz'altro possibile, a chi non è addentro nell'argomento mettere in rapporto le basi della psicoanalisi coll'istituto religioso della confessione. Non appena la mente umana riuscì a trovare l'idea del peccato, ebbe origine quello che in linguaggio analitico si chiama la rimozione (Verdrangung) cioè l'occultamento psichico. Ciò che è occulto è un segreto, un mistero. L'esser custode di un mistero agisce come un veleno psichico che rende estraneo alla comunità chi lo custodisce. Questo veleno, in piccola dose, può essere tuttavia un inestimabile medicamento, o addirittura una condizione indispensabile per ogni differenziazione individuale, tanto che l'uomo, già nel suo stadio primitivo, sente perfino l'insopprimibile bisogno di inventare dei misteri, per difendersi mediante il loro possesso dal pericolo, mortale per l'anima, di naufragare nell'incosciente della mera comunità. A questo istinto di differenziazione servono, come è noto, le diffusissime e antichissime iniziazioni nei misteri rituali. Perfino i sacramenti cristiani, nella Chiesa originaria, eran considerati misteri; venivano celebrati, come il battesimo, in stanze separate e menzionati soltanto con un linguaggio allusivo e allegorico. Mentre un segreto diviso con altri è giovevole, un segreto esclusivamente personale è invece nefasto, e agisce come una colpa, che esclude l'infelice possessore dalla comunione cogli altri uomini. Chi conosce il mistero che

nasconde ne riceve un danno molto minore che chi, ignorandolo, neppur sa di averlo rimosso dalla sua coscienza. In quest'ultimo caso il contenuto occulto non è più tenuto segreto coscientemente, ma lo si nasconde perfino di fronte a se stessi; esso si stacca dalla coscienza come un complesso indipendente, e nel campo dell'anima incosciente conduce una specie di esistenza indipendente, senz'esser disturbato dall'intromissione e dalla correzione della coscienza. Il complesso costituisce, per così dire, una piccola psiche chiusa in sé, la quale, come ha mostrato l'esperienza, svolge per conto proprio una sua propria attività di fantasia. La fantasia è infatti l'attività autonoma dell'anima, [p. 7] che prorompe dovunque diminuisce o cessa l'inibizione esercitata dalla coscienza, come nel sonno. Nel sonno la fantasia diventa sogno. Ma anche nella veglia noi continuiamo a sognare al di sotto della soglia della coscienza e questo avviene specialmente grazie a complessi rimossi o altri incoscienti. Si noti, a questo proposito, che nell'incosciente non sono contenuti esclusivamente complessi che una volta erano coscienti e poi divennero incoscienti per rimozione; l'incosciente ha anche un contenuto suo proprio, che germina da profondità sconosciute, per raggiungere via via la coscienza. Non dobbiamo quindi rappresentarci la psiche incosciente come un semplice ricettacolo di contenuti respinti dalla coscienza. Tutti i contenuti incoscienti che si avvicinano alla soglia della coscienza dal basso, oppure si sono solo di poco affondati sotto di essa, agiscono di regola sulla coscienza. Queste azioni sono necessariamente indirette, perché il contenuto non appare come tale nella coscienza. La maggior parte dei cosidetti lapsus o «atti mancati» sono riconducibili a perturbazioni di tal genere, così come tutti i cosidetti sintomi nevrotici, che sono tutti - secondo il linguaggio medico - di natura psicogena. (Fanno eccezione le cosidette azioni di choc come quelle provocate da esplosioni di granata o simili). Le forme più attenuate della nevrosi sono gli atti mancanti della coscienza: per esempio i lapsus linguae, le repentine dimenticanze di nomi e di date, le inattese sbadataggini che provocano ferite o simili, gli equivoci e le cosidette allucinazioni mnemoniche (quando si ritiene falsamente di aver detto o fatto la tal cosa), le inesatte interpretazioni di ciò che si è udito o letto, e così via. In tutti questi casi si può dimostrare, mediante un'accurata indagine, l'esistenza di un contenuto che in maniera indiretta ed incosciente ha alterato, disturbandolo, l'atto cosciente. In generale dunque i danni prodotti da un segreto incosciente sono maggiori che quelli prodotti da un segreto cosciente. Ho visto molti malati

che in conseguenza di penose vicissitudini della vita, nelle quali caratteri più deboli [p. 8] difficilmente avrebbero potuto resistere all'impulso al suicidio, soffersero normalmente di impulso al suicidio ma gli impedirono col raziocinio di diventar cosciente, e generarono in tal guisa un complesso suicida incosciente. L'impulso incosciente al suicidio causò a sua volta una quantità di pericolosi incidenti, per esempio un improvviso attacco di vertigine di fronte a un precipizio, un'esitazione di fronte a un'automobile, il prendere per errore la boccetta del sublimato invece della medicina per la tosse, un improvviso gusto per le pericolose acrobazie, ed altri ancora. Se in questi casi si riusciva a rendere cosciente l'impulso al suicidio, allora il raziocinio cosciente poteva intervenire colla sua azione inibitrice e salvatrice, in quanto la scelta cosciente riconosceva le possibilità di suicidio e le evitava. Ogni segreto personale agisce come peccato e colpa, anche se tale non è dal punto di vista della morale usuale. Un'altra forma di occultamento è la ritenzione. Ciò che di solito è ritenuto sono gli affetti. Anche qui bisogna anzitutto rilevare che la ritenzione è una virtù utile e salutare; per questo motivo l'autodisciplina è una delle più precoci arti morali, e la si riscontra anche fra i popoli primitivi, dove fa parte del rituale di iniziazione, soprattutto nella forma della sopportazione stoica del dolore fisico e morale e dell'astinenza ascetica. Ma qui l'astinenza è praticata entro l'ambito della lega segreta, è una regola di condotta condivisa con altri. Ma se l'astinenza è solamente personale - anche senza nesso con una concezione religiosa - può diventar dannosa, come il segreto personale. Da ciò derivano il notorio cattivo umore e l'irritabilità dei troppo virtuosi. L'affetto ritenuto è parimenti qualcosa che viene celato, che può essere occultato anche di fronte a se stessi; arte questa nella quale eccellono soprattutto gli uomini, mentre le donne, salvo poche eccezioni, temono per loro natura di offendere un affetto trattenendolo. L'affetto ritenuto ha, come il segreto incosciente, un effetto isolatore e perturbatore, e crea anch'esso una sensazione di colpa. Sembra che la natura, in certo qual modo, se l'abbia a male se noi custodiamo un segreto ignoto agli altri [p. 9] uomini, e si indigni pure se noi celiamo la nostra emozione ai nostri simili. La natura ha a questo proposito un marcato orrore del vuoto, perciò, alla lunga, nulla è più insopportabile che una tiepida armonia sulla base di affetti ritenuti. Le emozioni ritenute sono spesso la stessa cosa che il segreto. Ma più spesso non c'è alcun segreto degno di nota, bensì soltanto degli affetti incoscientemente trattenuti, che hanno origine da una situazione perfettamente cosciente.

A seconda che prevale il segreto o l'affetto si hanno verosimilmente differenti forme di nevrosi. L'isteria, assai generosa di affetti, è ad ogni modo basata principalmente sul segreto, mentre il psicastenico indurito soffre di una disturbata digestione degli affetti. All'azione nociva del segreto e della ritenzione la natura reagisce colla malattia; e, beninteso, il segreto e la ritenzione riescono nocivi solo quando sono esclusivamente personali. Ma se sono comuni ad altri la natura non se ne adonta, ed essi possono perfino diventare utili virtù. Intollerabile è soltanto la ritenzione personale. E' come se l'umanità avesse un imprescindibile diritto su ciò che vi è di oscuro, di incompleto, di sciocco e di colpevole nell'animo dell'uomo, giacché tali sono le cose che vengono tenute segrete a scopo di autodifesa. L'occultare la propria inferiorità sembra sia un peccato naturale altrettanto grave quanto il vivere esclusivamente la propria inferiorità. Sembra che l'umanità tutta intera possegga una specie di coscienza, la quale punisce gravemente chiunque non rinunci di quando in quando al virtuoso orgoglio mirante alla conservazione ed alla affermazione della propria persona e non confessi i propri difetti umani. Senza di ciò un impenetrabile muro lo separa dal vitale sentimento di essere uomo fra uomini. Così si spiega la straordinaria importanza della confessione veridica e non legata a clausole, verità ben nota a tutte le iniziazioni ed a tutti i culti misterici dell'antichità, come dimostra l'antico detto misterico: «abbandona ciò che tu hai, se vuoi ricevere». Questa sentenza può servire di motto per il primo stadio della problematica psicoterapeutica, perché gli inizi della psicoanalisi non sono in fondo nient'altro che la [p. 10] riscoperta scientifica di una vecchia verità; perfino il nome che fu dato al primo metodo (catarsi, ovvero epurazione) è un termine usuale delle antiche iniziazioni. L'originario metodo catartico consiste essenzialmente nel trasferire il malato, se è possibile, nel retrofondo della sua coscienza, con o senza parafernali ipnotici, in uno stato dunque che i sistemi orientali Yoga considerano come stato meditativo o contemplativo. Ma, a differenza di quanto avviene nel sistema Yoga, l'oggetto dell'osservazione è lo sporadico emergere di tracce crepuscolari di rappresentazioni, si tratti di immagini o si tratti di sentimenti, che nell'oscuro sfondo si staccano dall'invisibilità dell'incosciente per apparire, almeno come ombre, allo sguardo introvertito. In questa guisa riaffiora ciò che era stato rimosso e sembrava perduto. Già questo è un vantaggio (sebbene talvolta riesca tormentoso), perché anche i rifiuti scadenti della mia personalità mi

appartengono, mi dànno essenza e corpo, sono la mia ombra. Come posso io esistere senza gettare un'ombra? Anche ciò che in me è oscuro appartiene al mio tutto, ed acquistando coscienza della mia ombra io giungo a rammentarmi che sono un uomo come tutti gli altri. Ad ogni modo con questa riscoperta, dapprima tacita, del proprio tutto, è ristabilito lo stato precedente da cui è nata la nevrosi, cioè il complesso distaccato. Mediante il silenzio l'isolamento può essere prolungato, con una diminuzione soltanto parziale dell'effetto nocivo. Mediante la confessione invece io mi rigetto in braccio all'umanità, liberato dal Carlco dell'esilio morale. Il metodo catartico mira alla completa confessione, e cioè non soltanto alla constatazione intellettuale di uno stato di fatto mediante la mente, ma anche alla liberazione degli affetti rattenuti, alla constatazione dello stato di fatto mediante il cuore. Grande è l'effetto di tali confessioni sull'animo ingenuo, come ben si può pensare, stupefacente ne è spesso l'azione salutare. Ma in questo stadio il risultato principale della nostra psicologia non è tanto, secondo me, la guarigione di alcuni malati, quanto la sistematica dimostrazione che essa dà dell'importanza della confessione, [p. 11] che interessa noi tutti. Ognuno di noi è separato da tutti gli altri da qualche segreto, e sopra gli abissi che dividono gli uomini sono tesi gli ingannevoli ponti delle opinioni e delle illusioni, tenue surrogato del solido ponte della confessione. Così dicendo non voglio affatto, per nulla al mondo, avanzare una pretesa. Si pensi quanto sarebbe insulsa una reciproca e generale confessione dei peccati. La psicologia constata soltanto che qui c'è un punto nevralgico di estrema importanza. Questo punto non può essere direttamente oggetto di cura, perché costituisce a sua volta un problema colle corna assai puntute, come ci chiarirà l'esame del prossimo stadio, o stadio della chiarificazione. E' senz'altro evidente che la nuova psicologia si sarebbe fermata allo stadio della confessione, se la catarsi si fosse dimostrata un mezzo infallibile di cura. Anzitutto non si riesce sempre a fare accostare i pazienti all'incosciente fino al punto di far loro percepire le ombre. Molti - e questo vale per le nature particolarmente complicate e ricche di coscienza - sono anzi tanto ancorati nella coscienza, che nulla riesce a staccameli. Costoro offrono una tenacissima resistenza contro ogni tentativo di respingere la coscienza, vogliono parlare coscientemente col medico ed esporre e discutere intellettivamente le loro difficoltà. Dicono che hanno già abbastanza da confessare, senza dover ricorrere all'incosciente. Sono malati che esigono tutta una tecnica speciale, per essere avvicinati all'incosciente.

Questo è uno dei fatti che limitano considerevolmente a priori l'applicazione del metodo catartico. L'altra limitazione vien dopo, e conduce subito nella problematica del secondo stadio, o stadio della chiarificazione. Ammettiamo che in un determinato caso la confessione catartica abbia avuto luogo, la nevrosi sia scomparsa, i sintomi cioè siano divenuti invisibili. Il paziente potrebbe venir licenziato come guarito, se si trattasse soltanto del medico. Ma egli non può andar via. Il paziente sembra legato al medico dalla confessione. Se questo legame apparentemente insensato viene violentemente reciso, si verifica una ricaduta maligna. Più caratteristici e, vorrei dire, più sorprendenti [p. 12] sono quei casi in cui non si verifica alcun legame, ed il paziente se ne va apparentemente guarito, ma talmente affascinato dal fondo della sua anima, che continua a far della catarsi per conto suo a spese del suo adattamento alla vita. E' legato al proprio incosciente per se stesso, e non al medico. A quest'ultima categoria di ammalati è evidentemente accaduto quanto avvenne una volta a Teseo ed al suo amico Peritoo che, discesi nell'Ade per portarne fuori la Dea dell'Averno, e sedutisi un momento per riposarsi, non si poterono più alzare, perché erano rimasti saldati alla roccia. Questi casi singolari ed imprevisti esigono altrettanta chiarificazione quanto i casi prima citati, che si sono dimostrati refrattari alle buone intenzioni della catarsi. Benché le due categorie di pazienti siano apparentemente assai diverse, la chiarificazione comincia per entrambi allo stesso punto, comincia cioè colla fissazione, come giustamente ha capito Freud. Questo fatto diventa senz'altro chiaro nell'ultima categoria, e specialmente in quei casi che dopo avvenuta la catarsi restano legati al medico. Qualcosa di simile era già stato osservato come sgradita conseguenza di cure ipnotiche, ma senza comprendere quale fosse l'intimo meccanismo di tale legame. Orbene, è risultato che questo legame corrisponde press'a poco, nella sua essenza, alla relazione fra padre e figlio. Il paziente viene a trovarsi in una specie di dipendenza infantile, da cui non sa difendersi neppure colla sua intelligenza razionale. La fissazione può anche avere una forza straordinaria, tanto sorprendente da far sospettare motivi assolutamente inconsueti. Siccome il legame è un processo che si svolge al di fuori della coscienza, la coscienza del paziente non ci può dir nulla in proposito, e perciò sorge il problema del come venire a capo di questa nuova difficoltà. Evidentemente si tratta di una formazione nevrotica, di un nuovo sintomo prodotto proprio dalla cura. L'indice esteriore inconfondibile della situazione è che l'immagine mnemonica del padre, a tinta affettiva, fu trasferita sul

medico, cosicché il medico, volente o nolente, appare come padre e come tale fa in certo qual modo del paziente un bambino. [p. 13] Naturalmente l'infantilità del paziente non è sorta adesso, era sempre esistita, solo che prima veniva repressa. Ora essa compare alla superficie e vuol ristabilire la situazione familiare infantile, perché è stato ritrovato il padre da tempo perduto. Freud chiamò questo sintomo, con opportuna espressione, transfert (Uebertragung). Il fatto che si manifesti una certa dipendenza dal soccorrevole medico può sembrare del tutto normale e umanamente comprensibile. Abnorme ed inattesa è qui soltanto la sua straordinaria tenacità, refrattaria alla correzione cosciente. Uno dei principali meriti di Freud è quello di aver chiarito la natura di questo legame nei suoi aspetti biologici, permettendo così un considerevole progresso delle nostre conoscenze psicologiche. Oggi è dimostrato in maniera indubbia che il legame è causato dall'esistenza di fantasie incoscienti. Queste fantasie hanno sostanzialmente un carattere cosidetto incestuoso. Così sembra sufficientemente chiarito il fatto che tali fantasie restino incoscienti, perché neppure nella più scrupolosa confessione ci si può attendere che vengano confessate fantasie che quasi non erano coscienti. Sebbene Freud parli delle fantasie incestuose come se fossero state rimosse, la successiva esperienza ha tuttavia dimostrato che in moltissimi casi esse non fecero mai parte del contenuto della coscienza, oppure furono coscienti soltanto come oscurissimi accenni, e quindi non poterono venir rimosse dall'intenzione cosciente. Secondo le più recenti indagini è quindi più verosimile che sostanzialmente le fantasie incestuose siano sempre state e rimaste incoscienti, fino a quando furono proprio strappate fuori e poste alla luce del giorno dal metodo analitico. Ma con ciò non si vuol dire che l'esumazione dell'inconscio sia una riprovevole intrusione nella natura. E', naturalmente, qualcosa come un'operazione chirurgica sull'anima, che però è assolutamente necessaria, in quanto le fantasie incestuose cagionano il complesso sintomatico transfert che è bensì un prodotto artificiale, ma ciò nonpertanto abnorme. Mentre il metodo catartico riconduce in sostanza all'io contenuti capaci di coscienza, che normalmente dovrebbero [p. 14] essere parti della coscienza, la chiarificazione del transfert esuma contenuti che in tale forma non furono forse mai capaci di coscienza. Ecco la differenza principale fra lo stadio della confessione e lo stadio della chiarificazione. Abbiamo parlato poco fa di due categorie di casi: quelli che si dimostrano refrattari alla catarsi, e quelli che, avvenuta la catarsi, cadono nella fissazione.

Di quelli in cui si verificano la fissazione ed il transfert abbiamo già trattato. Ma accanto a questi, come già dicemmo, ci sono coloro che finiscono col legarsi non al medico, ma al proprio incosciente, e vi si rinchiudono come in un bozzolo. In questi casi l'immagine dei genitori non viene trasferita sopra un oggetto umano, ma resta una rappresentazione della fantasia, ed esercita una forza di attrazione e di fissazione uguale a quella del transfert. La prima categoria, che non può arrendersi senza condizioni alla catarsi, si spiega, alla luce delle ricerche di Freud, col fatto che i pazienti in questione, prima ancora di esser presi in cura, sono in rapporto di identità coi genitori, rapporto che procura loro quell'autorità, quell'indipendenza e quella critica in forza delle quali essi si oppongono con successo alla catarsi. Si tratta per lo più di persone colte e differenziate, che non caddero vittime, come gli altri, dell'inconscia attività dell'immagine dei genitori, ma si impossessarono di questa attività identificandosi inconsciamente coi genitori. Di fronte al fenomeno del trans-fert la semplice confessione fallisce, e perciò Freud si vide indotto a modificare sostanzialmente l'originario metodo catartico di Breuer. A ciò egli diede il nome di «metodo interpretativo». Questo sviluppo è assolutamente logico, perché il rapporto di transfert richiede la chiarificazione. Il profano non può capire quanto ciò sia vero, ma se ne rende ben conto il medico, che si trova improvvisamente impigliato in un tessuto di idee incomprensibili e fantastiche. Ciò che il paziente trasferisce sul medico deve essere interpretato e chiarificato. Siccome il malato non sa neppure ciò che trasferisce, il medico è costretto a sottoporre all'analisi interpretativa quei frammenti fantastici che riesce a [p. 15] ottenere dal paziente. I prodotti più immediati e più importanti di questa specie sono i sogni. Freud ha perciò esaminato il regno dei sogni esclusivamente riguardo al suo contenuto in desideri rimossi perché incompatibili, e in questo lavoro ha scoperto quei contenuti incestuosi di cui prima ho parlato. Naturalmente da queste indagini non sono risultati soltanto materiali incestuosi in senso stretto, ma tutte le immaginabili porcherie di cui la natura umana è capace. E questa lista è notoriamente assai lunga. Occorre il lavoro di tutta una vita, per esaurirla. Il risultato del metodo chiarificatore di Freud è una minuziosa elaborazione, ignota alle età precedenti la nostra, di quei lati dell'animo umano che si celano nell'ombra. E' questo l'antidoto più efficace che possiamo immaginare contro tutte le illusioni idealistiche sulla natura dell'uomo. Non c'è quindi da meravigliarsi che dappertutto si sia levata una

violentissima resistenza contro Freud e la sua scuola. Non voglio parlare degli illusionisti per principio, ma vorrei solo rilevare che fra gli avversari del metodo chiarificatore ce ne sono anche molti che non hanno alcuna illusione sulle ombre umane, e tuttavia muovono l'obbiezione che non è lecito spiegare l'uomo unilateralmente dalla sua parte in ombra. L'essenziale, tutto sommato, non è già l'ombra, ma il corpo che genera l'ombra. Il metodo interpretativo di Freud è una spiegazione che può esser detta riduttiva, ed è distruttore quando è esagerato ed unilaterale. Ma il grande guadagno che l'intuizione psicologica ha tratto dal lavoro chiarificatore di Freud è la constatazione che la natura umana ha anche un lato nero, e non solo l'uomo, ma anche le sue opere, le sue istituzioni e le sue convenzioni. Perfino le nostre idee più pure e più sacre poggiano su di una base profonda ed oscura; una casa, insomma, può essere illuminata non solo dal tetto in giù, ma anche dalla cantina in su, e la seconda maniera di illuminare ha il vantaggio di essere geneticamente più giusta, perché le case non vengono costruite dal tetto, ma dalle fondamenta, ed inoltre tutto ciò che diviene comincia dal semplice e dal rozzo. Nessun uomo pensante può negare che sia sensata l'applicazione, fatta da [p. 16] Salomone Reinach, delle primitive intuizioni totemistiche all'EuCarlstia. E neppure ricuserà di applicare l'ipotesi dell'incesto alla mitologia greca. Certo è doloroso per il sentimento interpretare cose luminose dal loro lato in ombra, e dissolverle quindi, in certo qual modo, nel triste fango degli inizi. Ma io ritengo che le cose belle provino soltanto la loro debolezza e la miseria umana, se vengono distrutte quando se ne illuminano le ombre. L'orrore per le interpretazioni di Freud proviene esclusivamente dalla nostra barbarica o infantile ingenuità, la quale ignora ancora che l'alto sta sempre sopra il basso, e che il detto «gli, estremi si toccano» è veramente una verità definitiva. Ingiusto è soltanto il credere che ciò che è luminoso più non esista perché ne è stato rischiarato il lato in ombra. E' questo un deplorevole errore, nel quale è caduto lo stesso Freud. L'ombra fa parte della luce, il bene fa parte del male, e inversamente. Perciò io non deploro la scossa che la chiarificazione ha dato alle nostre illusioni e limitatezze occidentali, ma la saluto come una necessaria rettifica storica di quasi incalcolabile importanza, poiché con essa si fa strada un relativismo filosofico che, sotto l'aspetto fisico-matematico, ha preso corpo nel nostro contemporaneo Einstein, ma è in fondo una antica verità orientale, di cui ancora non si possono prevedere tutti gli effetti. Niente è più inefficace che le idee intellettuali. Ma se una idea è un fatto

psichico che si insinua in campi differenti, apparentemente senza nesso causale storico, allora mette il conto di porvi attenzione. Quando infatti le idee sono fatti psichici esse rappresentano forze logicamente e moralmente irrefutabili e inattaccabili, più forti dell'uomo e della sua mente. L'uomo crede bensì di fare queste idee ma in realtà sono le idee che fanno l'uomo, sicché egli diventa inconsapevolmente il loro portavoce. Per ritornare al nostro problema della fissazione, vorrei ora trattare dell'efficacia della chiarificazione. Il ricondurre la fissazione ai suoi retrofondi oscuri svaluta la posizione del paziente. Questi non può fare a meno di vedere la dappocaggine e l'infantilità della sua pretesa, per cui egli [p. 17] in un caso discende dall'altezza di un'arbitraria autorità al più modesto livello di una certa insicurezza, forse salutare, nell'altro caso riconoscerà necessariamente come il pretendere da altri sia una comodità infantile, che deve essere sostituita da una maggiore responsabilità personale. Chi apprezza il valore di ciò che ha compreso ne trarrà le sue conclusioni morali, e, armato della convinzione della sua insufficienza, si precipiterà nella lotta per l'esistenza per distruggere, vivendo e lavorando, quelle forze e quelle aspirazioni che finora lo avevano indotto a restare attaccato ostinatamente al paradiso della fanciullezza, o almeno a guardarvi indietro con nostalgia. L'adattamento normale e la tolleranza della inettitudine saranno le sue idee morali direttive, ed egli cercherà possibilmente di perdere i suoi sentimentalismi e le sue illusioni. Ne seguirà necessariamente l'abbandono dell'incosciente, che egli riconoscerà come il luogo della debolezza e del traviamento, come il campo della sconfitta morale e sociale. Il problema che ormai si pone al paziente è quello della sua educazione a uomo sociale. Veniamo così a parlare del terzo stadio. La pura e semplice comprensione, che per molte nature moralmente sensibili possiede sufficiente forza motrice, fallisce invece negli uomini di scarsa fantasia morale. In costoro, se una necessità esteriore ed urgente non leva la frusta, la comprensione non basta, anche se sono profondissimamente convinti della verità di ciò che hanno compreso: per non parlare di tutti quelli che hanno bensì compreso l'evidente interpretazione, ma in fondo ne dubitano. E sono proprio gli uomini spiritualmente più differenziati, quelli che capiscono bensì la verità di una chiarificazione riduttiva, ma non si possono accontentare di una semplice svalutazione delle loro aspettazioni e dei loro ideali. Anche in questi casi la forza della comprensione fallirà. Il metodo chiarificatore presuppone appunto nature sensibili, che da quanto

hanno capito possano trarre da sé conclusioni morali. Certamente la chiarificazione ottiene di più che la semplice confessione non interpretata, perché essa forma almeno la mente e perciò forse ridesta forze sonnecchianti che possono intervenire a prestare il [p. 18] loro aiuto. Ma resta il fatto che in molti casi anche la chiarificazione lascia dietro di sé un bambino, saggio, ma ciò nonpertanto inetto. Inoltre il principale motivo chiarificatore di Freud, rappresentato dalla libido e dal suo soddisfacimento, è unilaterale e perciò insufficiente, come ha mostrato lo sviluppo ulteriore. Non tutti gli uomini possono essere illuminati da questo lato. Tutti hanno indubbiamente questo lato, ma esso non è per tutti la cosa principale. Regalate un bel quadro ad un affamato: egli preferirà che gli diate del pane. Nominate un innamorato presidente degli Stati Uniti: egli sarà ben più contento di stringere fra le braccia la sua bella. In genere tutti quegli uomini che non hanno difficoltà relative al loro adattamento ed alla loro posizione sociale sono molto meglio rischiarabili dal lato della libido che non quelli che stanno al di sotto dell'adattamento, che cioè, in altre parole, per la loro insufficienza sociale sentono un bisogno di valorizzazione e di potenza. Il fratello maggiore, che seguendo le orme del padre acquista potenza sociale, sarà tormentato dalla sua libido, mentre il fratello minore, che si sente posto in sott'ordine dal padre e dal fratello maggiore, sarà punto dall'ambizione e dal bisogno di mettersi in valore, e subordinerà ogni altra cosa a questa passione, cosicché la libido non rappresenterà per lui un problema, o per lo meno non rappresenterà un problema vitale. Qui c'è, nel sistema di chiarificazione, una evidente lacuna, di cui si è occupato Adler, antico allievo di Freud. Egli ha convincentemente dimostrato che numerosi casi di nevrosi possono esser spiegati molto meglio e più soddisfacentemente colla volontà di potenza che col principio della libido. Colla sua interpretazione Ad-ler intende quindi mostrare al paziente che per raggiungere una valorizzazione fittizia egli si costruisce dei sintomi e sfrutta la propria nevrosi; che anche il suo transfert e le altre sue fissazioni servono il suo desiderio di potenza, ed in questo senso rappresentano una «protesta virile» contro un'immaginaria oppressione. Adler ha evidentemente sott'occhio la psicologia dell'avvilito o del socialmente fallito, la cui unica passione è il desiderio di valorizzazione. Questi [p. 19] individui sono nevrotici perché vaneggiano di esser sempre conculcati, e conducono mediante finzioni una lotta contro mulini a vento, rendendo in tal modo irraggiungibile proprio la meta a cui più aspirano.

Adler si inserisce essenzialmente nello stadio della chiarificazione, e cioè della chiarificazione nel senso sopra accennato, ed in questo senso fa appello a sua volta alla comprensione. Ma è caratteristico di Adler che egli non attende troppo dalla semplice comprensione, bensì superandola riconosce chiaramente la necessità dell'educazione sociale. Mentre Freud è l'indagatore e l'interprete, Adler è soprattutto l'educatore. Egli eredita quindi il retaggio negativo di Freud, perché non abbandona senza aiuto il malato quando ne ha fatto un bambino dotato d'una sia pur preziosa saggezza, ma cerca di far del bambino, con tutti i mezzi dell'educazione, un uomo normalmente adatto. Questo avviene evidentemente in base alla convinzione che l'adattamento sociale e la normalizzazione sociale siano la meta a cui si deve tendere, siano ciò che v'è di più necessario, siano il completamento che deve desiderare ogni essere umano. Da questo atteggiamento fondamentale della scuola di Adler provengono la sua diffusa efficacia sociale ed anche il suo abbandono dell'incosciente, abbandono che talora sembra giungere fino alla negazione. Il cambiamento di rotta di fronte al rilievo in cui Freud pone l'incosciente è una razione inevitabile che, come ho già detto prima, corrisponde al naturale abbandono dell'incosciente da parte di ogni malato che aneli all'adattamento ed alla guarigione. Infatti, se l'incosciente non dovesse esser davvero altro che un mero recipiente di tutti gli aspetti cattivi ed oscuri della natura umana, compresi i depositi di limo preistorico, non si capisce proprio perché si debba rimanere più a lungo del necessario in questa palude nella quale si è caduti. Per lo scienziato il pantano può essere un mondo pieno di meraviglie, ma l'uomo comune preferisce lasciarselo dietro le spalle. Come il buddismo originario non aveva dei, perché doveva staccarsi dallo sfondo di un pantheon di circa due milioni di dei, così anche la psicologia nel suo progressivo sviluppo deve [p. 20] necessariamente allontanarsi da una cosa sostanzialmente negativa quale è l'incosciente di Freud. Le intenzioni educatrici dell'indirizzo di Adler cominciano proprio là dove Freud finisce, e rispondono così al comprensibile bisogno del malato di trovare infine, dopo aver compreso l'origine della sua nevrosi, anche la via che conduce alla vita normale. Al malato evidentemente non basta sapere come e donde venga la sua malattia, perché è raro che la comprensione delle cause abbia senz'altro portato con sé la soppressione del male. Non bisogna trascurare il fatto che le false vie della nevrosi diventano altrettante tenaci abitudini, le quali non scompaiono, nonostante ogni comprensione, finché non vengano sostituite da altre abitudini che possono essere acquistate soltanto coll'esercizio. Questo

lavoro può essere prodotto solamente mediante una vera e propria educazione. Il paziente deve essere «educato», nel significato etimologico della parola, cioè condotto in altre vie, e ciò può essere ottenuto soltanto grazie ad una volontà educativa. E perciò si capisce perché l'indirizzo di Adler abbia trovato maggior eco proprio fra gli insegnanti ed i preti, mentre l'indirizzo di Freud piace soprattutto ai medici ed agli intellettuali, che in complesso sono cattivi infermieri e cattivi educatori. Ogni stadio dell'evoluzione della nostra psicologia ha in sé qualcosa di caratteristicamente definitivo. La catarsi col suo sistema di far vuotare il sacco fino in fondo fa dire: ecco fatto, tutto è uscito fuori, tutto è rivelato, ogni angoscia è passata, ogni lacrima è versata, ora tutto andrà bene. La chiarificazione dice, in maniera altrettanto convincente: ora noi sappiamo donde viene la nevrosi, i primitivi ricordi sono scovati, le ultime radici sono estratte ed il trans-fert non era altro che una fantasia di paradiso infantile che esaudiva dei desideri o una ricaduta nel romanzo familiare; la via alla vita disillusa, cioè alla normalità, è libera. L'educazione viene per ultima e dimostra che l'albero cresciuto storto non può raddrizzarsi con confessioni o chiarificazioni, ma soltanto grazie all'arte del giardiniere che lo appoggia alla spalliera della normalità. Soltanto adesso e raggiunto l'adattamento normale. Questa singolare parvenza di cosa definitiva, che è propria di ogni stadio, ha fatto sì che oggi esistono medici catartisti che, a quanto sembra, non hanno mai sentito parlare di interpretazione dei sogni, freudiani che non capiscono una parola di Adler, e adleriani che non vogliono saperne dell'incosciente. Ognuno è afferrato dalla parvenza singolarmente conclusiva del suo stadio, e da ciò proviene quella confusione di opinioni e di concetti che rende così difficile l'orientarsi in questo campo. Ma donde viene questo senso di definitività, che causa tanta ostinazione autoritaria da tutte le parti? Io non lo posso spiegare altrimenti se non col fatto che in ogni stadio è proprio implicita anche una verità definitiva, e che quindi ci sono sempre dei casi che dimostrano in modo schiacciante quella particolare verità. Una verità è cosa tanto preziosa, nel nostro mondo ricchissimo di illusioni, che nessuno si adatta a rinunciarvi solo per quel paio di cosidette eccezioni che con essa non concordano. E chi mette in dubbio la verità fa inevitabilmente la figura di un perfido guastafeste; perciò nella discussione si mescola dappertutto una nota di fanatismo e di intolleranza.

Eppure ciascuno non fa che portare innanzi di un certo tratto la fiaccola della conoscenza, finché un altro la raccoglie. Se si potesse comprendere questo processo in una maniera non personale, se per esempio si riuscisse ad ammettere che noi non siamo creatori personali delle nostre verità ma i loro esponenti, semplici portavoce delle necessità spirituali contemporanee, allora molto veleno e molta asprezza sarebbero evitati, ed il nostro sguardo sarebbe libero di vedere i nessi soprapersonali e profondi dell'anima dell'umanità. In generale non ci si rende conto che il medico catartista non è soltanto un'idea astratta, d'altro incapace che di produrre automaticamente catarsi. Anche il catartista è un uomo, che certo nella sua sfera pensa limitatamente, ma nel suo agire agisce come un uomo completo. Senza chiamarlo così e senza esserne chiaramente consapevole, egli compie involontariamente molta chiarificazione e molta [p. 22] educazione, così come anche gli altri fanno della catarsi, senza affermarlo per principio. Tutto ciò che vive è storia vivente: perfino l'animale a sangue freddo continua a vivere, come sottinteso, in noi. E così pure i tre stadi della psicologia analitica discussi fin qui non sono affatto verità di cui l'ultima abbia divorato e sostituito le due prime, ma sono piuttosto aspetti di un medesimo problema, e non si contraddicono intrinsecamente in nessuna maniera, così come l'assoluzione non contraddice la confessione. E lo stesso dicasi del quarto stadio, la trasformazione. Anche esso non può pretendere di essere la verità ormai raggiunta e la sola valida. Certo anch'esso si inserisce in una lacuna lasciata dagli stadi precedenti, ma non fa che adempire ad un ulteriore bisogno, che supera le possibilità degli altri metodi. Per chiarire a che miri lo stadio della trasformazione (Verwandlung) e che significhi questo termine, che forse suona alquanto strano, dobbiamo in primo luogo comprendere quale sia il bisogno dell'anima umana che sfuggì agli stadi precedenti. In altre parole, quale ulteriore e più elevata esigenza può esistere, oltre a quella di essere un individuo sociale normalmente adatto? Essere un uomo normale è la cosa più utile e più opportuna che si possa immaginare. Ma già nel concetto di «uomo normale», come nel concetto di adattamento, è insita una limitazione alla media, limitazione che appare un desiderabile miglioramento solo a colui che già fatica a stare alla pari col mondo usuale, che cioè in conseguenza della sua nevrosi è inadatto a fondare un'esistenza normale. L'«uomo normale» è la meta ideale per tutti coloro che non hanno successo, che stanno ancora sotto il livello generale di

adattamento. Ma per quegli uomini che hanno attitudini superiori alla media, ai quali non è mai riuscito difficile conseguire successi ed esser più che sufficienti nel loro lavoro, per tutti costoro l'idea o l'obbligo morale di non dover esser altro che uomini normali costituisce un letto di Procuste, una noia mortale e intollerabile, un inferno sterile e senza speranza. Ci sono quindi altrettanti nevrotici che [p. 23] ammalano perché sono soltanto normali quanti ce ne sono che ammalano perché non possono diventar normali. Il pensiero che ci sia qualcuno che li vuole educare alla normalità è per i primi un brutto sogno, perché la loro più profonda necessità è proprio quella di poter condurre una vita anormale. L'uomo può trovare soddisfazione ed esaudimento solo in ciò che egli ancora non ha; non ci si può saziare con ciò di cui si è già sazi. Essere un individuo sociale ed adatto non presenta alcuna attrattiva, per chi trova che ciò è facile come un giuoco da bambini. Chi fa tutto bene, alla lunga finisce sempre coll'annoiarsi, mentre per chi è eternamente incompleto la perfezione è una meta lontana segretamente agognata. I bisogni e le necessità degli uomini sono differenti. Ciò che per l'uno è liberazione per l'altro è prigionia. Così succede anche per ciò che riguarda la normalità e l'adattamento. Benché una massima biologica dica che l'uomo è un animale da gregge e raggiunge il completo benessere soltanto nella sua vita sociale, ci sono casi in cui questa massima appare rovesciata, e che dimostrano che c'è chi sta perfettamente bene solo quando vive in modo abnorme e asociale. E' una disperazione il constatare che nella psicologia reale non esistono norme o ricette valide per tutti. Esistono solamente casi individuali colle necessità ed esigenze più disparate, tanto disparate che in fondo non si può mai sapere in antecedenza che via seguirà un determinato caso; e meglio quindi che il medico rinunci a qualunque opinione preconcetta. Ciò vuol dire non che queste opinioni debbano esser gettate a mare, ma che occorre applicarle caso per caso come ipotesi, per giungere possibilmente ad una spiegazione. E ciò deve farsi nell'intento non di insegnare o di convincere, ma di mostrare al malato come il medico reagisce al suo caso particolare. Infatti, comunque la si voglia rivoltare o girare, la relazione fra medico e paziente è una relazione personale entro la cornice impersonale del trattamento medico. Nessun artificio può evitare che il trattamento sia il prodotto di un reciproco influenzamento, al quale partecipa l'intera [p. 24] personalità sia del paziente sia del medico. Nel trattamento ha luogo l'incontro di due dati di fatto irrazionali, cioè di due uomini, che non

sono grandezze delimitate e determinabili, ma portano con sé accanto alla loro coscienza, forse determinata, una sfera di incosciente di indeterminata estensione. Quindi anche per il risultato di una cura psichica la personalità del medico, come quella del paziente, è spesso infinitamente più importante delle cose che il medico dice e crede, sebbene queste ultime possano essere un non disprezzabile fattore di perturbazione o di guarigione. Il confluire di due personalità è come la miscela di due sostanze chimiche differenti: se interviene un legame, ambedue sono trasformate. Come dobbiamo attendere in ogni reale cura psichica, il medico ha un'influenza sul paziente: ma questa influenza può solo aver luogo se anche il medico subisce l'influenza del paziente. Non giova al medico nascondersi l'influenza del paziente e circondarsi della nube vaporosa di una autorità paterna e professionale. In tal modo egli non fa che precludersi l'uso di un essenzialissimo organo di conoscenza. Il paziente esplica sul medico un'influenza inconscia, ed opera nell'incosciente di lui quelle perturbazioni (vere lesioni professionali psichiche), che sono ben note a molti psicoterapisti, e dimostrano in maniera evidentissima l'azione per così dire chimica del paziente. Uno dei più noti fenomeni di questo genere è il controtransfert operato dal trans-fert. Ma spesso gli effetti sono di natura assai più sottile, e non possono essere altrimenti formulati che colla vecchia idea della trasmissione di una malattia ad un sano, il quale poi colla sua salute deve vincere il demone della malattia, e non senza un effetto negativo sul proprio benessere. Fra medico e paziente esiste un rapporto irrazionale, che opera trasformazioni da ambo le parti. In questa lotta la personalità più forte e stabile darà il colpo decisivo. Ho già avuto sott'occhio molti casi in cui il paziente ha assimilato il medico, in barba ad ogni teoria e ad ogni intenzione professionale, e per lo più, ma non sempre, con svantaggio del medico. Lo stadio della trasformazione si fonda su questi fatti, [p. 25] per riconoscere i quali è occorsa una vasta esperienza pratica di più di un quarto di secolo. Lo stesso Freud, riconoscendoli, ha accolto la mia esigenza che anche il medico debba essere analizzato. Orbene, che significa questa esigenza? Nient'altro se non che il medico è altrettanto «in analisi» quanto il paziente. Il medico è, come il paziente, un elemento del processo psichico della cura, e perciò è esposto, come quest'ultimo, alle influenze trasformatrici. Anzi, quanto più il medico si dimostra inaccessibile all'influenza del paziente, tanto più egli è anche privato della possibilità di influire sul paziente, e se egli è solo inconsciamente

influenzato sorge nel campo della sua coscienza una lacuna che gli rende impossibile di capir bene il paziente. In ambo i casi il risultato della cura è compromesso. Incombe quindi al medico lo stesso compito che egli vorrebbe imporre al paziente, cioè quello di essere adatto alla vita sociale oppure, nell'altro caso, opportunamente non adatto. L'esigenza terapeutica può naturalmente essere ammantata di mille formule differenti, secondo l'orientamento dottrinale del medico. L'uno crede al superamento dell'infantilismo, e deve perciò aver superato il proprio infantilismo. Un altro crede alla sCarlca degli affetti, e deve quindi aver sCarlcato tutti i propri affetti. Un terzo crede alla piena consapevolezza, e deve quindi aver raggiunto egli stesso la consapevolezza del suo io, o per lo meno deve tendere continuamente ad assolvere al suo compito terapeutico, se vuole esser sicuro di esplicare la giusta influenza sui suoi pazienti. Tutte queste idee direttive terapeutiche implicano notevoli esigenze etiche, che tutte insieme culminano nell'unica massima: devi essere conforme al modo con cui vuoi agire. Delle chiacchiere si è sempre detto che son vuote, e non c'è artificio, per quanto abile, che possa velare, alla lunga, questa semplice verità. Da che mondo è mondo è l'esser convinti che conta, e non la cosa di cui si è convinti. Il quarto stadio della psicologia analitica richiede dunque l'applicazione retrograda allo stesso medico del sistema a cui egli crede, ciò che deve avvenire colla stessa [p. 26] inesorabilità, conseguenza e perseveranza che il medico manifesta nei riguardi del paziente. Si pensi con quanta attenzione e con quanta critica il psichiatra deve seguire il suo paziente per scoprirne le false vie, gli errati sillogismi, le infantili saggezze: non è certamente un lavoro da poco far la stessa cosa anche per se stesso! Noi non siamo di solito abbastanza interessanti per noi stessi, e nessun ci paga le nostre fatiche introspettive. Ed inoltre il disprezzo per la reale anima umana è ancor dappertutto talmente grande che l'osservar se stessi o l'occuparsi di se stessi sembran cose morbose. Evidentemente non si subodora molta salute nella propria anima, e quindi già l'occuparsi di lei puzza di gabinetto medico. Queste resistenze il medico deve vincerle da sé, chi infatti può educare, se non è egli stesso educato? Chi può illuminare, se è all'oscuro quanto a se stesso? E chi può purificare, se è ancora impuro? Il passo dall'educazione all'autoeducazione è un passo logico, che completa tutti gli stadi precedenti. L'esigenza dello stadio della trasformazione, cioè che il medico si trasformi per diventar capace di

trasformare anche il malato, è un'esigenza, come ben si comprende, alquanto impopolare; prima di tutto perché non sembra pratica, in secondo luogo perché l'occuparsi di sé cade sotto la sanzione di uno spiacevole pregiudizio, e in terzo luogo perché talora è assai doloroso far tutto ciò che si richiede ai propri pazienti. Specialmente l'ultimo punto contribuisce molto all'impopolarità di questa esigenza, perché il coscienzioso medico di se stesso non tarderà a scoprire che ci sono in lui cose che si oppongono definitivamente alla tendenza normalizzatrice, o che spuntano sempre fuori in maniera disturbatrice nonostante un persistente lavoro di chiarificazione o una radicale sCarlca. Che farà di queste cose? E' vero che egli sa (ne ha l'obbligo professionale) che cosa il paziente ne deve fare. Ma che ne farà lui, e per profonda convinzione, quando si tratti di sé, o dei suoi prossimi parenti? Scoprirà in sé colle sue indagini una inferiorità che lo avvicina considerevolmente ai suoi pazienti e forse lede la sua autorità. Come se la caverà quando [p. 27] avrà fatto questa penosa scoperta? Questo problema «nevrotico» lo preoccuperà profondamente, per quanto egli si ritenga normale. Egli scoprirà pure che gli ultimi problemi, che opprimono lui tanto quanto i suoi pazienti, non possono essere risolti da alcuna cura, che la soluzione datane da altri è ancor sempre infantile e mantiene infantili, e che, se non si può trovare alcuna soluzione, non c'è che da rimuovere un'altra volta il problema. Non voglio perseguire ulteriormente la serie di problemi posti dall'indagine di se stessi, perché oggi tali problemi, data la nostra grande ignoranza dell'anima, avrebbero ancora troppo scarso interesse. Preferirei invece rilevare che la più recente evoluzione della psicologia analitica conduce alla grande questione dei fattori irrazionali delle personalità umane, e pone in primo piano la personalità del medico stesso come fattore salutare o nocivo, esigendo la sua trasformazione, cioè l'autoeducazione dell'educatore. Così tutto ciò che di obbiettivo è accaduto nella storia della nostra psicologia- la confessione, la chiarificazione e l'educazione - si solleva allo stadio soggettivo; in altri termini, ciò che si è fatto sul paziente deve farsi anche sul medico, affinché la personalità di questo non si ripercuota sfavorevolmente su quello. Il medico non deve più sfuggire alle proprie difficoltà per il fatto che tratta le difficoltà degli altri; come se, per essere buon chirurgo, occorresse essere affetto da un processo suppurativo. Come prima la scuola di Freud, grazie alla grande scoperta

dell'incosciente, si trovò improvvisamente in condizione di dover discutere problemi di psicologia religiosa, così il più recente indirizzo pone inevitabilmente il problema dell'atteggiamento etico del medico. L'autocritica e l'autoindagine indissolubilmente legate a questo problema renderanno necessaria una maniera di concepire l'anima completamente differente dall'attuale maniera esclusivamente biologica, perché l'anima dell'uomo non è solo un oggetto della medicina ad orientamento scientifico, non è soltanto il malato ma anche il medico, non è solo l'oggetto ma anche il soggetto, non è solo una funzione cerebrale [p. 28] ma è l'assoluta condizione della nostra consapevolezza. Ciò che prima era un metodo di cura medica diventa un metodo di autoeducazione, e così l'orizzonte della nostra psicologia si allarga improvvisamente verso regioni sconosciute. Ciò che più conta non è più la laurea in medicina, ma la qualità umana. Questo nuovo orientamento è importante perché pone al servizio dell'autoeducazione e del perfezionamento di se stessi l'intero arsenale dell'arte psicoterapica, che si è sviluppato, affinato e sistematizzato nel continuo esercizio sul malato; così la psicologia analitica spezza i vincoli che finora la fissavano al gabinetto di consultazione del medico. Essa supera se stessa e penetra in quella grande lacuna che finora era lo svantaggio spirituale delle civiltà occidentali rispetto alle civiltà orientali. Noi sapevamo solo sottomettere e domare l'anima, ma non sapevamo sviluppare metodicamente l'anima e le sue funzioni. La nostra civiltà è ancor giovane, ed alle civiltà giovani occorrono tutte le arti del domatore di animali per mettere almeno in forma, per così dire, quanto c'è in loro di riottoso, di barbarico e di feroce. Ma ad uno stadio più alto della civiltà l'evoluzione deve sostituire la costrizione e la sostituirà. Per questo ci occorre una via, un metodo, che, come abbiamo detto, finora ci mancava. Mi pare che le conoscenze e le esperienze della psicologia analitica possano se non altro fornire la base, perché dal momento in cui una psicologia originariamente medica prende lo stesso medico per oggetto, essa cessa di essere un mero metodo di cura per malati. Essa tratta ora i sani o almeno quelli che avanzano la pretesa morale alla sanità dell'anima, la cui malattia quindi può essere tutt'al più il male che tutti tormenta. Perciò questa psicologia pretende di diventare patrimonio comune, ed in misura assai maggiore che gli stadi precedenti, i quali sono già portatori, ognuno per sé, di una verità generale. Ma tra questa pretesa e la realtà di oggi c'è ancora un abisso, sul quale nessun ponte è teso.

Il ponte deve ancora venir costruito pietra per pietra.(1929).

II. La psicologia analitica nei suoi rapporti con l'arte poetica

Nonostante la difficoltà dell'argomento, sono assai lieto dell'occasione che mi si presenta, di poter parlare dei rapporti tra la psicologia analitica e l'arte poetica, e di chiarire il mio punto di vista sulla questione tanto dibattuta delle relazioni tra psicologia ed arte. Tra di esse, malgrado la loro incommensurabilità, esistono indubbiamente dei rapporti molto stretti, che è necessario spiegare chiaramente. Questi rapporti poggiano sul fatto che l'esercizio dell'arte è un'attività psicologica, o un'attività umana dovuta a motivi psicologici, e come tale è e dev'essere sottoposta all'analisi psicologica. Questa constatazione determina nettamente, al tempo stesso, i limiti entro ai quali è possibile applicare i punti di vista di questa scienza: soltanto quella parte dell'arte che comprende i processi di formazione artistica può essere oggetto di studi di tale genere, ma non quella che rappresenta l'essenza medesima dell'arte. Questa seconda parte, che cerca di sapere in che cosa consista l'arte in se stessa, non può divenire oggetto di indagine psicologica, ma soltanto di un esame estetico-artistico. Nel campo della religione siamo costretti a fare una distinzione analoga; giacché la psicologia può considerare solo il fenomeno emozionale e simbolico di una religione, il che non ha niente a che fare con l'essenza della religione stessa, essenza che è impossibile cogliere per via psicologica. Se ciò fosse possibile, non solo la religione, ma anche l'arte potrebbe essere considerata come una sezione della psicologia. Non si esclude, con questo, che tali soprusi non abbiano avuto luogo. Ma colui che li compie dimentica evidentemente che si potrebbe fare altrettanto per la psicologia ed annientare il suo valore specifico e la [p. 30] sua propria essenza, trattandola come una semplice attività cerebrale a fianco delle altre attività glandolari, in un capitolo secondario della fisiologia. Si sa peraltro che ciò è già stato fatto. L'arte nella sua essenza non è una scienza, e la scienza nella sua essenza non è un'arte; perciò questi due domini spirituali hanno un loro proprio territorio riservato. Se noi quindi vogliamo parlare dei rapporti tra psicologia ed arte, dobbiamo occuparci solamente di quella parte dell'arte che può, senza

soprusi, essere sottoposta ad un simile esame. Ciò che la psicologia potrà dire dell'arte si limiterà sempre ai processi psicologici dell'attività artistica, senza raggiungere mai la sua essenza più intima. Ciò è cosa tanto impossibile, quanto è impossibile per l'intelletto rappresentarsi o persino comprendere l'essenza del sentimento. Questi due fenomeni psicologici non esisterebbero separati, se da lungo tempo la loro differenza intima non si fosse imposta all'intuizione. E' vero che nel bambino la «lotta delle facoltà» non è ancora scoppiata, e che le possibilità artistiche, scientifiche, religiose, sonnecchiano ancora tranquillamente le une presso le altre; che presso i primitivi i rudimenti dell'arte, della scienza e della religione sono confusi ancora nel caos della mentalità magica, e, infine, che nell'animale non si osserva ancora nessuna traccia di «spirito», ma semplicemente «l'istinto naturale»; ma tutto ciò non dimostra un'unità originaria dell'essenza dell'arte e della scienza, unità che sola giustificherebbe una dipendenza reciproca tra di esse, o una riduzione di una all'altra. Pur potendo risalire nell'evoluzione spirituale fin dove spariscono le sostanziali differenze tra i vari campi dello spirito, non di meno non possiamo raggiungere la conoscenza di un più profondo principio della loro unità, ma semplicemente quella di uno stato più primitivo della loro evoluzione storica, stato di non differenziazione in cui essi non esistevano. Ora questo stato più elementare non costituisce un principio dal quale possiamo trarre conclusioni sulle caratteristiche di periodi ulteriori più sviluppati, anche se questi derivano da esso direttamente, come in genere accade. L'atteggiamento [p. 31] scientifico tenderà sempre a non riconoscere l'essenza di una differenziazione e a vedere soprattutto la derivazione causale, sforzandosi di subordinarla ad un concetto più generale, forse, ma anche più elementare. Tali riflessioni sembrano qui del tutto appropriate, giacché ultimamente abbiamo spesso visto interpretare la poesia con questo sistema di riduzione a stati più elementari. Indubbiamente si possono far risalire le condizioni della creazione artistica, il soggetto e la maniera individuale di trattarlo, ai rapporti personali del poeta con i suoi genitori; ma con ciò nulla s'è guadagnato circa la comprensione della sua arte. La stessa riduzione si può praticare, invero, in moltissimi altri casi, e in special modo nei disturbi psichici. Anche la nevrosi e la psicosi si possono ridurre ai rapporti dei figli coi genitori; lo stesso dicasi delle buone e delle cattive abitudini, delle convinzioni, delle particolarità del carattere, delle passioni e degli interessi particolari. Ma non si può ammettere che tutte queste cose, tanto diverse, abbiano un'unica spiegazione; altrimenti

bisognerebbe concludere che, in definitiva, esse non sono che un'unica cosa. Poiché, se si spiega un'opera d'arte nello stesso modo con cui si spiega una nevrosi, si può concludere che l'opera d'arte è una nevrosi, o la nevrosi un'opera d'arte. Si potrebbe considerare un simile gioco di parole come un modo di dire, ma il buonsenso si rifiuta di mettere su di uno stesso piano l'opera d'arte e la nevrosi. Un medico analista, tutt'al più, guardando attraverso le lenti dei suoi pregiudizi professionali, potrebbe giungere a fare della nevrosi un'opera d'arte; ma il profano intelligente si guarderà bene dal confondere un fenomeno morboso con l'arte, per quanto non possa negare che spesso l'opera d'arte sia condizionata da fenomeni psicologici analoghi a quelli che condizionano la nevrosi. Ma è naturale che ciò avvenga, poiché certi particolari stati psicologici si riscontrano dappertutto e, data la relativa rassomiglianza delle condizioni della vita umana, sono sempre gli stessi che si presentano, si tratti di un sapiente nervoso, di un poeta o di un uomo normale. Tutti hanno avuto dei genitori, tutti hanno avuto ciò che si chiama un complesso [p. 32] paterno o materno, tutti hanno una sessualità e con questa alcune tipiche difficoltà comuni a tutti gli esseri umani. Che su quel poeta abbiano influito specialmente le sue relazioni col padre, e su quell'altro il suo attaccamento alla madre, e che un terzo manifesti tracce incontestabili di inibizione sessuale, sono osservazioni che si possono fare ugualmente nei riguardi di qualsiasi nevrosi e persino di ogni individuo normale. Con ciò non si è appreso nulla di specifico che ci aiuti a giudicare un'opera d'arte. Nel migliore dei casi, si riesce in tal modo ad estendere e ad approfondire la conoscenza dei precedenti storici dell'opera d'arte. Sta di fatto che l'indirizzo psicologico inaugurato da Freud ha dato nuovi slanci agli storici della letteratura, incitandoli a mettere in rapporto alcune particolarità dell'opera d'arte individuale con le esperienze intime e personali del poeta. Non pretendo affermare con ciò che lo studio scientifico dell'opera poetica non avesse già scoperto da lungo tempo che spesso, intenzionalmente o no, la vita intima personale del poeta è legata a tutta la sua opera. Ma i metodi di Freud permettono di vedere in modo più profondo e completo le influenze che esercitano sulla creazione artistica gli avvenimenti che risalgono sino alla prima infanzia. Impiegati con tatto e con misura, essi offrono sovente un quadro d'insieme piacevole circa la maniera in cui la creazione artistica è da una parte intessuta nella vita dell'artista, e dall'altra parte si libera da tale groviglio. In questo senso la cosidetta psicoanalisi dell'opera d'arte non si distingue, in sostanza, in nessun modo da un'analisi psicologica letteraria,

profonda ed abilmente tratteggiata. Al massimo v'è una differenza di grado, sorprendente talvolta per le indiscrete conclusioni e constatazioni, che una maggiore delicatezza di sentimento tralascerebbe. Tale assenza di ritegno di fronte all'«umano - troppo umano», è proprio la particolarità professionale di una psicologia medica che, come giustamente Mefistofele ha già osservato, «si permette volentieri ogni genere di cose, per le quali un altro si affanna durante molti anni», ma disgraziatamente non sempre ciò è a suo vantaggio. La possibilità di conclusioni audaci conduce [p. 33] facilmente a violenze. Un sospetto di chronique scandaleuse costituisce sovente il sale di una biografia, ma se si supera, anche di poco, il giusto limite, ciò si trasforma in un'indagine poco pulita, in un fallimento del buon gusto, dissimulato sotto il mantello della scienza. Insensibilmente l'interesse si distoglie dall'opera d'arte, per perdersi nel caos indistricabile degli antecedenti psicologici, ed il poeta diviene un caso clinico, un esempio che si inquadra in un determinato capitolo della Psychopathia sexualis. In tal guisa la psicoanalisi dell'opera d'arte si allontana dal suo soggetto, spostando la discussione su di un campo del tutto umano, che non è affatto specifico per l'artista ed evidentemente è privo d'ogni importanza per la sua arte. Questo tipo di analisi pone l'opera d'arte nella sfera della psicologia umana generale. Le spiegazioni dell'opera d'arte, che da questo tipo di analisi si traggono, sono assai dozzinali; come per esempio l'affermazione che «ogni artista è un narcisista». Chiunque segua, per quanto gli sia possibile, la propria linea di vita, è un «narcisista», se è lecito impiegare in modo tanto esteso un concetto così particolare della patologia della nevrosi; perciò, appunto, una simile frase non significa nulla; essa stupisce semplicemente come un motto arguto, o qualcosa del genere. Questo tipo di analisi, non preoccupandosi minimamente dell'opera d'arte di per se stessa, ma cercando di penetrare subito, a guisa di una talpa, sino alle cause retrostanti e profonde, finisce col condurre sempre allo stesso terreno comune a tutta l'umanità; perciò le sue spiegazioni sono di una sorprendente monotonia. Si ha l'impressione di assistere ad una consultazione medica. Il metodo riduttivo di Freud non è che un procedimento curativo medico, che ha per oggetto un quadro morboso. Tale quadro morboso prende il posto di un'attività normale, e occorre quindi distruggerlo per lasciare via libera ad un sano adattamento. In un simile caso la riduzione a una base generalmente umana si trova perfettamente al suo posto. Ma se applicata all'opera d'arte, essa conduce al risultato che noi abbiamo segnalato: essa strappa dal mantello scintillante dell'opera d'arte la nudità [p. 34] quotidiana dell'homo sapiens

elementare, alla cui specie appartiene anche il poeta. L'oro scintillante della creazione suprema, di cui si voleva parlare, si spegne, poiché è stato esposto al metodo dissolvente che si applica alla fantasia malata dell'isterico. Un tale procedimento è di certo assai interessante e forse ha altrettanto valore scientifico quanto l'autopsia del cervello di Nietzsche, che ci ha solo permesso di conoscere la forma atipica di paralisi progressiva di cui egli è morto. Ma tutto ciò ha rapporto col suo Zarathustra? Quali ne possano essere state le cause lontane e profonde, non si tratta forse di un mondo che è tutto al di là dell'insufficienza «umana, troppo umana», di un mondo al di là delle emicranie e delle atrofie delle cellule cerebrali? In che consiste il metodo riduttivo di Freud? Esso consiste in una tecnica medico-psicologica per l'esame psichico del malato; si occupa esclusivamente dei procedimenti e dei mezzi che permettono di raggirare il primo piano cosciente, o di penetrarlo per giungere ai retropiani psichici chiamati incosciente. Questa tecnica poggia sull'ipotesi che il nevrotico reprima alcuni elementi psichici, a causa della loro incompatibilità colla coscienza. Questa incompatibilità avrebbe un carattere morale; gli elementi psichici repressi avrebbero invece un carattere negativo, infantile, sessuale, osceno, criminale, che li rende inaccettabili alla coscienza. Dato che non esistono uomini perfetti, ciascuno possiede dei retropiani di tal genere, sia che lo confessi o no. E' perciò possibile scoprirli dappertutto, alla condizione però che si applichi la tecnica di interpretazione ideata da Freud. Non esporremo i particolari di questa tecnica. Alcuni accenni saranno sufficienti. I retropiani dell'incosciente non restano inattivi, essi si tradiscono sempre per l'influenza caratteristica che esercitano sul contenuto della coscienza. Essi producono, per esempio, delle fantasie di natura particolare, che talvolta si spiegano facilmente in base a certe rappresentazioni sessuali dei retropiani. Oppure provocano alcuni turbamenti dei processi coscienti, che si possono egualmente ridurre a fatti di repressione psichica. Fonte [p. 35] veramente importante per la conoscenza del contenuto incosciente sono i sogni, prodotti diretti dell'attività incosciente. L'essenziale, nel metodo riduttivo di Freud, è che esso raccoglie gli indizi delle cause subcoscienti e precoscienti e ricostruisce i processi elementari incoscienti per mezzo dell'analisi e dell'interpretazione. Gli elementi coscienti che lasciano intravedere i retropiani incoscienti sono chiamati da Freud simboli, ma impropriamente, perché nella sua dottrina essi hanno solamente l'ufficio di

indizi o di sintomi di processi del subcosciente, e niente affatto l'ufficio di simboli propriamente detti. Infatti per simbolo bisogna intendere un mezzo atto ad esprimere un'intuizione, per la quale non si possano trovare altre o migliori espressioni. Quando Platone con la parabola della caverna esprime il problema della teoria della conoscenza, o quando Gesù Cristo esprime con parabole la sua idea del Regno di Dio, noi abbiamo dei veri e propri simboli, cioè dei tentativi di esprimere ciò per cui non esiste nessun concetto verbale. Se noi interpretassimo secondo Freud la parabola di Platone, arriveremmo naturalmente all'utero, dimostrando che persino lo spirito di Platone era ancora profondamente immerso nella primitività della sessualità infantile. Ma con ciò avremmo trascurato completamente quanto Platone ha creato dalle premesse primitive della sua intuizione filosofica, lasciando così da parte, senza osservarlo, ciò che di essenziale v'è in lui, per scoprire semplicemente che egli aveva delle fantasie infantili, come tutti i semplici mortali. Una simile constatazione avrebbe valore soltanto per chi, avendo visto in Platone un essere superumano, avesse poi la soddisfazione di scoprire che anche Platone, dopo tutto, era un uomo anche lui. Ma chi mai potrebbe considerare Platone come un Dio? Soltanto chi è dominato da fantasie infantili e per conseguenza ha una mentalità da nevrotico. Per una persona del genere, la riduzione a comuni verità umane è utile per ragioni mediche. Ma tutto ciò non ha minimamente a che vedere col significato della parabola platonica. Mi sono soffermato a bella posta lungamente sui rapporti della psicoanalisi con l'opera d'arte, poiché questo [p. 36] tipo di psicoanalisi è al tempo stesso la dottrina di Freud. Col suo rigido dogmatismo, Freud ha fatto sì che queste due cose, così diverse in sostanza, fossero dal pubblico considerate come identiche. In molti casi medici si può adottare con vantaggio questa tecnica, senza però, al tempo stesso, elevarla a dottrina. Anzi, contro questa dottrina bisogna sollevare energiche obbiezioni. Essa poggia su supposizioni arbitrarie; per esempio, non è vero che le nevrosi e le psicosi si basino esclusivamente su repressioni sessuali. Non è vero che i sogni contengano soltanto desideri inadeguati e quindi repressi, che si presentano velati da un'ipotetica censura onirica. La tecnica freudiana d'interpretazione dei sogni, finché è sottoposta all'influenza delle sue ipotesi unilaterali e quindi inesatte, è di un'evidente arbitrarietà. Per dare all'opera d'arte ciò che le è dovuto, è necessario che la psicologia analitica escluda completamente ogni pregiudizio di carattere medico, poiché l'opera d'arte non è una malattia e quindi richiede un orientamento del tutto

diverso da quello medico. Se il medico deve ricercare le cause di una malattia per eliminarla il più completamente possibile, lo psicologo invece deve prendere, dinanzi all'opera d'arte, un atteggiamento del tutto opposto. Egli non cercherà minimamente di sapere quali sono le condizioni umane che l'hanno immediatamente preceduta, perché ciò è superfluo, ma cercherà invece il senso dell'opera stessa, e tutt'al più s'informerà delle condizioni umane precedenti solo nella misura di cui esse possono essergli utili per comprendere il significato dell'opera stessa. La causalità personale ha con l'opera d'arte la medesima relazione che ha il terreno con la pianta che gli cresce sopra. E' ovvio che potremo comprendere determinate particolarità della pianta solo conoscendo le caratteristiche del suolo su cui essa cresce. Senza dubbio questo è un fattore importante per uno studioso di botanica. Ma nessuno vorrà sostenere che in tal modo si giungerà a conoscere quanto di essenziale v'è nella pianta. L'orientamento esclusivo verso i fattori personali, che è richiesto dalla ricerca della causalità personale, non è assolutamente ammissibile per [p. 37] l'opera d'arte, poiché qui non si tratta di un essere umano, ma di una produzione che va oltre l'individuo. Si tratta di una cosa che non ha personalità e per la quale quanto è personale non può essere un criterio di giudizio. La vera opera d'arte trae il suo significato particolare dal fatto che è riuscita a liberarsi dalla stretta e dall'ostacolo di quanto è personale, lasciando lungi da sé ogni elemento caduco e contingente della pura personalità. Debbo confessare, per esperienza personale, che per il medico non è cosa facile il deporre, in presenza di un'opera d'arte, il proprio sguardo professionale, escludendo così dal suo pensiero la causalità biologica corrente. Ma ho finito col comprendere che una psicologia, il cui orientamento sia esclusivamente biologico, potrà essere applicata forse con ragione all'uomo, ma mai all'opera d'arte; perciò non la si può applicare all'uomo quale creatore. Una psicologia puramente causale non può far altro che ridurre ciascun essere umano a membro della specie homo sapiens, poiché per essa non vi sono che derivazioni e riduzioni. Ma l'opera d'arte non è soltanto questo, essa è anche una nuova creazione sorta da quelle condizioni dalle quali la psicologia causalista voleva, a buon diritto, farla derivare. La pianta non è semplicemente un prodotto della terra, essa è anche un processo che sta a sé, vivente e creatore, la cui essenza nulla ha a che vedere col carattere del terreno. Così pure bisogna considerare l'opera d'arte come una creazione che utilizza liberamente ogni condizione precedente. Il suo senso e il suo carattere sono in essa e non nelle condizioni umane che l'hanno

preceduta; quasi si potrebbe dire che essa utilizza l'uomo e le sue disposizioni personali semplicemente come terreno nutritivo, impiegandone le energie secondo leggi proprie, e modellando se stessa secondo ciò che vuole divenire. Ma io sto anticipando quanto vorrei dire, perché parlo di un genere particolare d'opera d'arte che non ho ancora specificato. Non tutte le opere d'arte infatti si presentano sotto questo aspetto. Vi sono opere, in poesia e in prosa, nate dall'intenzione e dalla decisione cosciente dell'autore di provocare tale o tal altro effetto. In tal caso l'autore [p. 38] sottopone il suo soggetto ad un trattamento di cui l'orientamento è stato intenzionalmente determinato, vi aggiunge o vi toglie qualcosa, sottolinea un effetto, ne attenua un altro, qui mette un colore, là un altro, pesando con la massima cura i possibili effetti, osservando continuamente le leggi e la bella forma dello stile. L'autore utilizza in tale lavoro il suo giudizio più acuto, e sceglie le sue espressioni in piena libertà. La materia che egli tratta è sottoposta alla sua intenzione artistica, egli vuole rappresentare ciò e non altro. In una simile attività, il poeta è un tutto unico con il processo creatore: o egli si è volontariamente messo a capo del movimento creatore, o questo si è così completamente impossessato di lui, come istrumento, da impedirgli di rendersene conto. Egli stesso è il processo creatore, in cui si è interamente immerso, e non se ne differenzia malgrado tutte le sue intenzioni ed il suo talento. Non è necessario, credo, portare esempi presi dalla storia della letteratura o dalle confessioni dei poeti stessi. Senza dubbio non dirò nulla di nuovo anche parlando dell'altro tipo d'opera d'arte, che appare più o meno come un atto unico sgorgato dalla penna dell'autore, e che viene alla luce del giorno tutto completo come Minerva sortì tutt'armata dal capo di Zeus. Queste opere s'impongono all'autore, c'è qualcosa che in certo qual modo si è impossessato della sua mano, la sua penna scrive cose che stupiscono l'animo suo. L'opera porta con sé la propria forma; ciò che l'autore vorrebbe aggiungervi viene respinto; ciò che egli vorrebbe respingere gli viene imposto. Mentre la sua coscienza trovasi come annientata e vuota di fronte al fenomeno, egli viene sommerso da un fiume di idee e di immagini che non sono, in alcun modo, il prodotto della sua intenzione, e che la sua volontà mai avrebbe voluto creare. Tuttavia egli deve riconoscere a malincuore che in tutto ciò è il suo Io che si esprime, è la sua natura più profonda che si rivela, proclamando ad alta voce quanto egli non avrebbe mai osato confidare alla sua lingua. Non gli resta che obbedire e seguire questo impulso apparentemente estraneo, rendendosi conto

che la sua opera è più grande di lui, e perciò ha su di lui un potere al quale egli [p. 39] non può sottrarsi. Egli non si identifica col processo creativo, è conscio di trovarsi al di sotto dell'opera sua o, almeno, a lato di essa, come una seconda persona che è entrata a far parte della sfera di una volontà estranea alla sua. Quando noi parliamo della psicologia dell'opera d'arte, è necessario innanzi tutto avere sott'occhio le due maniere del tutto diverse in cui essa si manifesta, giacché molti fattori importanti per il giudizio psicologico dipendono da questa distinzione. Schiller aveva già avvertito tale contrasto; è noto che egli cercò di esprimerlo con i concetti della sentimentalità e dell'ingenuità. La scelta di queste sue espressioni proviene, senza dubbio, dal fatto che egli aveva soprattutto sott'occhio l'attività poetica. Dal punto di vista psicologico, noi diciamo che gli artisti della prima categoria sono introvertiti e che quelli della seconda categoria sono extravertiti. L'atteggiamento introvertito è caratterizzato dall'affermazione del soggetto e delle sue intenzioni e scopi coscienti di fronte alle esigenze dell'oggetto; al contrario, l'atteggiamento extravertito è caratterizzato dalla sottomissione del soggetto alle esigenze dell'oggetto. I drammi di Schiller danno, a parer mio, una idea chiara dell'atteggiamento dell'introvertito verso l'oggetto; e altrettanto la maggior parte dei suoi poemi. L'argomento è dominato dall'intenzione del poeta. Un buon esempio dell'atteggiamento opposto ci vien dato dalla seconda parte del Faust. Qui l'argomento oppone una tenace resistenza. Un esempio ancora più notevole ci è dato dal Zarathustra di Nietzsche. L'autore stesso ha affermato che «la sua personalità s'era sdoppiata». Nel corso stesso della mia esposizione avete compreso quale spostamento del punto di vista psicologico vi sia stato, quando abbiamo considerato non più il poeta come persona, ma il processo creativo. Il centro dell'interesse s'è spostato verso quest'ultimo, mentre il primo, in certo modo, non appare più che come un oggetto che reagisce. Dove la coscienza dell'autore non si identifica più col processo creatore, la cosa si comprende facilmente, ma nel primo caso discusso sembrerebbe, a prima vista, trattarsi completamente del [p. 40] contrario: l'autore appare come un creatore del tutto indipendente, libero da ogni costrizione. Forse egli stesso è del tutto convinto della sua libertà, e non vorrà mai ammettere che la sua creazione non sia frutto della sua volontà, che non provenga esclusivamente da questa e dal suo talento. Qui ci imbattiamo in una questione alla quale non possiamo rispondere colle confessioni dei poeti circa il loro modo di creare, e non lo possiamo fare poiché si tratta di un

problema di natura scientifica, che solo la psicologia può risolvere. Potrebbe in effetti accadere, e vi ho già velatamente accennato, che anche il poeta il quale sembra crei coscientemente e liberamente, e che vuol creare ciò che crea, sia invece, nonostante la sua consapevolezza, talmente preso dall'impulso creativo, da non potersi ricordare di aver voluto qualcosa di diverso da quanto ha prodotto; così come il poeta appartenente all'altro tipo non può più riconoscere immediatamente la propria volontà nell'ispirazione che in apparenza gli è estranea, per quanto il suo io gli parli chiaramente. In tal modo la convinzione della totale libertà della sua creazione non sarebbe che un'illusione della sua coscienza: egli crede di nuotare, quando invece è una corrente invisibile che lo porta avanti. Questo dubbio non è certo campato in aria, ma sorge dall'esperienza della psicologia analitica, le cui ricerche sull'incosciente hanno scoperto in quanti modi la coscienza può essere non solo influenzata, ma perfino guidata dall'incosciente; il dubbio è quindi giustificato. Ma come potremo provare la nostra ipotesi che un poeta, pure essendo cosciente possa esser afferrato dalla sua opera stessa? Le prove possono essere di natura diretta o indiretta. Come prove dirette, noi avremmo quei casi in cui il poeta, più o meno palesemente, dice nella sua opera più di quanto crede. Questi casi non sono tanto rari. Come prove indirette, noi avremmo quei casi in cui l'apparente spontaneità della produzione nasconderebbe dietro di sé un «imperativo» superiore, il quale farebbe sentire con autorità le sue esigenze, non appena vi fosse una rinunzia volontaria all'attività creatrice, oppure quei casi, nei quali si hanno immediatamente gravi manifestazioni psichiche, [p. 41] quando la produzione viene ad essere involontariamente interrotta. L'analisi psicologica degli artisti mette sempre in evidenza la potenza dell'impulso creativo artistico proveniente dall'incosciente, e ci mostra quanto esso sia irregolare e dispotico. Quante biografie di grandi artisti, da tempo, ci hanno rivelato che il loro impulso creativo era così potente da accaparrarsi tutto ciò che di umano era in loro, per metterlo a servizio dell'opera d'arte, sia pure sacrificando la loro salute e la loro felicità umana! L'opera non creata è, nell'animo dell'artista, una forza naturale che si realizza o con potenza tirannica, o con sottile scaltrezza, senza tener alcun conto del benessere personale dell'uomo che porta in sé la forza creatrice. Tale forza creatrice vive e cresce nell'uomo, come un albero cresce nel suolo da cui assorbe il suo nutrimento. E'quindi giusto considerare il processo della formazione creatrice

come un essere vivente piantato nell'animo dell'uomo. La psicologia analitica lo definisce come complesso autonomo, il quale, come anima parziale dissociata, ha una vita psichica indipendente al di fuori della gerarchia della coscienza, ed appare, secondo il suo valore energetico e la sua forza, o come un turbamento del processo cosciente guidato dalla volontà, o come una istanza di carattere superiore che può sottoporre l'Io al suo servizio. Di conseguenza, quel poeta che si identifica con il processo creatore sarebbe come chi si sottomette immediatamente alla minaccia dell'imperativo incosciente. Ma quell'altro poeta, al quale la forza creatrice si presenta come una potenza estranea, è uno che per qualche ragione non poté sottomettersi, e perciò fu preso alla sprovvista dall'«imperativo». Ci si potrebbe aspettare che la diversa origine si facesse sentire anche nell'opera. Nel primo caso si tratta di una produzione intenzionale, accompagnata e diretta dalla coscienza, che per mezzo della riflessione giunge alla forma e all'effetto voluti; nell'altro caso si tratta, al contrario, di un fenomeno che sorge dalla natura incosciente, si realizza senza l'intervento della coscienza umana, anzi, all'occasione, insorge persino contro di essa, per conquistarsi in modo dispotico la propria [p. 42] forma ed il proprio effetto. Ci attenderemmo dunque, nel primo caso, che l'opera d'arte non trasgredisca minimamente i limiti posti dalla comprensione cosciente, che l'effetto da essa prodotto non superi mai le intenzioni dell'autore, e che non dica nulla di più di quanto questi abbia voluto esprimere. Nell'altro caso dovremmo aspettarci invece qualcosa che superi l'individuo, trasgredendo tanto più alle limitazioni della comprensione cosciente, quanto più la coscienza dell'autore è estranea allo sviluppo della sua opera. Dovremmo attenderci immagini e forme strane, idee afferrabili solo intuitivamente, un linguaggio gravido di significati, le cui espressioni avrebbero valore di veri simboli, poiché esse esprimono nel modo migliore cose ancora sconosciute, e sono come ponti gettati verso una riva invisibile. Questi criteri sono in sostanza esatti. Quando si tratta di un'opera veramente intenzionale, su di un soggetto scelto coscientemente, le caratteristiche indicate nel primo caso sono giuste; altrettanto per il secondo caso. I drammi di Schiller, che già conosciamo, da una parte; dall'altra la seconda parte del Faust, o meglio ancora Zarathustra, possono servirci quali esempi. Tuttavia, dovremmo guardarci dal collocare con troppa facilità nell'uno o nell'altro gruppo l'opera di un poeta sconosciuto, senza avere prima studiato a fondo i rapporti personali del poeta con la sua opera. Non basta neppure sapere che un poeta appartiene al tipo umano introvertito o al tipo

extravertito, giacché ognuno può assumere ora l'atteggiamento extravertito, ora quello introvertito. Ciò si osserva in modo particolare nella differenza esistente tra le opere poetiche e le opere filosofiche di Schiller; in Goethe lo si osserva nella differenza che c'è tra i suoi poemi di forma perfetta, e il lungo travaglio che gli costò la seconda parte del Faust; in Nietzsche, nella differenza che esiste tra i suoi aforismi ed il coerente fluire di Zarathustra. Uno stesso poeta può avere un diverso atteggiamento a seconda delle sue diverse opere, ed è in base a questi diversi atteggiamenti che si dovrebbe dedurre, in ogni singolo caso, quale sia il criterio da adottare. Questo è un problema assai complesso, e la [p. 43] complessità cresce se consideriamo più da presso il ragionamento fatto poc'anzi nei riguardi del poeta che si identifica con la forza creatrice. Se anche il metodo di produzione cosciente e intenzionale non fosse che un apparenza, un'illusione soggettiva del poeta, anche la sua opera avrebbe proprietà simboliche tali da giungere sino all'indefinito e superare la coscienza della sua epoca. Esse sarebbero soltanto assai più segrete, poiché anche il lettore non potrebbe andare oltre il limite fissato alla coscienza dell'autore dallo spirito del tempo in cui vive. Poiché, chiuso anch'egli nei limiti della coscienza contemporanea, il lettore non sarebbe in alcun modo capace di trovare, fuori del suo mondo, un punto d'appoggio per mezzo del quale poter scardinare la sua coscienza contemporanea; in altri termini, egli non potrebbe riconoscere il simbolo contenuto in un'opera di tal genere. Il simbolo significherebbe: possibilità e indizio di un significato ancor più ampio ed elevato, al di là delle attuali capacità di comprensione. Il problema è molto delicato. Mi limito a porlo per non creare un ostacolo, con la mia definizione di tipi, alla comprensione del senso possibile di un'opera d'arte, anche quando in apparenza non vuole essere e non vuol dire nient'altro che quanto apertamente è e dice. Capita spesso che un poeta venga improvvisamente riscoperto. Ciò avviene quando la nostra coscienza ha raggiunto un grado più alto, da cui ci pare di sentire che l'antico poeta dica qualcosa di nuovo. Questo qualcosa di nuovo era già nella sua opera, ma sotto forma di simbolo nascosto, che ci è permesso di comprendere grazie ad un rinnovamento dello spirito dell'epoca. Occorrevano, per questo, altri occhi, occhi nuovi, poiché quelli di prima non potevano distinguere che ciò che avevano l'abitudine di vedere. Tali esperienze debbono indurci alla prudenza, poiché esse confermano l'opinione ora esposta. L'opera deliberatamente simbolica non ha alcun bisogno di tali sottigliezze; il suo linguaggio, che

lascia supporre tutto un mondo di idee, ci dice: «Le mie parole dicono in realtà di più di quanto sembri». Noi possiamo allora toccar con mano il simbolo, anche se non riuscissimo a risolvere l'enigma in modo [p. 44] soddisfacente. Il simbolo resta di continuo un soggetto di studio per la nostra riflessione e per il nostro sentimento. E' senza dubbio per questo, che l'opera simbolica stimola maggiormente, poiché essa penetra più profondamente in noi, e ci procura raramente un piacere estetico che sia del tutto puro; mentre l'opera che manifestamente non ha nulla di simbolico parla con maggior purezza al sentimento estetico, giacché essa ci permette la visione armoniosa della perfezione. Ma - ci sarà chiesto - come può la psicologia analitica contribuire a risolvere il problema centrale della creazione artistica? Che ci può insegnare circa il mistero della creazione? Tutto quanto abbiamo trattato fin qui, insomma, non è che fenomenologia psicologica. Come «nessuno spirito creato può penetrare nell'intimo della natura», non aspettiamoci che la psicologia realizzi l'impossibile e dia una spiegazione soddisfacente del gran segreto della vita di cui abbiamo l'intuizione immediata nella forza creatrice. La psicologia, come ogni altra scienza, non reca che un modesto contributo ad una conoscenza migliore e più profonda dei fenomeni della vita, ma essa è lontana dall'assoluto, tanto quanto tutte le sue sorelle. Abbiamo parlato così spesso del senso e del significato dell'opera d'arte, che ci si difende con difficoltà da un primo dubbio: l'«arte» significa realmente qualche cosa? Forse l'arte non «significa» nulla; forse non ha alcun «senso», almeno nell'accezione che noi diamo qui a questa parola. Forse essa è come la natura, che semplicemente «è» e non «significa» nulla. Il «significato» è forse necessariamente qualcosa di più di una semplice interpretazione, segretamente riposta entro le cose da un intelletto desideroso di dar loro un senso? Si potrebbe dire che l'arte è bellezza e che nella bellezza essa si realizza e si soddisfa. Essa non ha bisogno di alcun senso. La questione del senso non ha nulla a che fare con l'arte. Se io mi pongo dal punto di vista puramente artistico, debbo sottomettermi alla verità di questa affermazione. Ma quando si tratta del rapporto tra psicologia ed opera d'arte, noi ci troviamo fuori dell'arte, e non possiamo fare altro che [p. 45] teorizzare e interpretare affinché le cose abbiano un senso, altrimenti non potremmo fare alcuna considerazione sull'arte. Noi dobbiamo risolvere in immagini, in significati e in concetti la vita e i fenomeni che si realizzano di per se stessi, e così facendo ci allontaniamo sempre più dal mistero della vita. Fintanto che

noi siamo presi dalla forza creatrice, noi non vediamo e non conosciamo nulla, non ci è concesso neppure di conoscere, poiché nulla è più pernicioso e pericoloso, in quel momento, della conoscenza. Per potere conoscere, bisogna uscire dal processo creatore e considerarlo dal di fuori; solo allora esso diviene un'immagine che esprime significati. A questo punto, non solo ci è permesso di parlare di «senso», ma anzi è un obbligo per noi il farlo. Ciò che prima era un puro fenomeno si trasforma ora in qualcosa che ha un significato, in qualcosa che è in relazione con altri fenomeni, che serve a particolari scopi e produce effetti sensati. Quando riusciamo a vedere tutto ciò, abbiamo la netta sensazione di essere riusciti a scoprire e a spiegare qualcosa. In tal modo ci rendiamo conto della necessità della scienza. Per ciò che riguarda quanto abbiamo detto prima, anziché fare il paragone dell'albero che cresce sul suolo dal quale prende il nutrimento, avremmo potuto fare quello più comune del bambino nel grembo materno. Ma siccome tutti i paragoni sono inesatti, è preferibile impiegare la precisa terminologia scientifica, al posto della metafora. E' opportuno ricordare che più sopra abbiamo considerato l'opera d'arte in statu nascendi come un complesso autonomo. In genere si designano con questo termine tutte quelle strutture psichiche che dapprima si sviluppano in modo del tutto incosciente, e che solo dal momento in cui giungono alla soglia della coscienza irrompono in essa. L'associazione che avviene poi tra loro e la coscienza non ha il valore di un'assimilazione ma di una percezione, il che significa che il complesso autonomo viene di certo percepito, ma che non può essere sottoposto né al controllo cosciente, né alla inibizione, né alla riproduzione volontaria. Il complesso esprime la sua autonomia apparendo e sparendo nel modo proprio alla sua tendenza [p. 46] intima; esso è indipendente dal potere arbitrario della coscienza. Anche il complesso creatore ha questo carattere comune a tutti i complessi autonomi. E' proprio qui che si delinea la possibilità d'una analogia coi processi mentali morbosi, poiché la loro caratteristica consiste precisamente nell'apparizione di complessi autonomi, almeno per la maggior parte dei perturbamenti psichici. Il divino furore dell'artista presenta con la malattia un rapporto veramente impressionante, ma senza essere per nulla identico a questa. L'analogia consiste nella presenza di un complesso autonomo. Il fatto di questa presenza non significa che vi sia qualcosa di morboso, poiché anche individui normali sono momentaneamente o durevolmente sotto l'influenza di complessi autonomi. Questo fatto è semplicemente una delle normali particolarità della psiche, e bisogna essere

in possesso di una forte misura di incoscienza, per non rendersi conto dell'esistenza di tale complesso. Ogni atteggiamento tipico, un po' differenziato, ha, per esempio una certa quale tendenza a trasformarsi in complesso autonomo; ciò accade nella maggior parte dei casi. Ogni istinto ha anche, più o meno, le medesime proprietà. Il complesso autonomo, quindi, non è un fenomeno di per se stesso morboso; solo se esso appare troppo frequentemente crea la sofferenza e la malattia. Come si forma un complesso autonomo? Per una ragione qualsiasi, di cui non si possono qui discutere i dettagli, entra in attività una regione della psiche fino allora incosciente; una volta animata, essa si sviluppa e cresce attirando verso di sé le associazioni con lei affini. L'energia che a ciò occorre viene naturalmente sottratta alla coscienza, a meno che la coscienza stessa non preferisca identificarsi col complesso. In caso diverso, vediamo apparire ciò che Janet definisce: «l'abbassamento del livello mentale». L'intensità degli interessi e delle attività coscienti svanisce a poco a poco, producendo o una inattività apatica, stato frequente negli artisti, oppure un'evoluzione regressiva delle funzioni coscienti, cioè un abbassarsi di queste funzioni verso i loro stadi infantili ed arcaici, una specie di degenerazione. Le parties inférieures des fonctions si [p. 47] spingono avanti, l'istinto si pone di fronte all'etica, l'ingenuità infantile di fronte alla riflessività dell'adulto, l'inadattabilità di fronte all'adattabilità. La vita di molti artisti ci ha fatto conoscere tutto ciò. E' da questa energia sottratta alla guida della personalità cosciente, che sorge il complesso autonomo. Quali sono le componenti del complesso creatore autonomo? Non è possibile assolutamente saperlo al principio, finché l'opera portata a termine non ci avrà aperto le vie che ci conducono alle sue fondamenta. L'opera ci offre una perfetta immagine, nel senso più vasto della parola. Questa immagine possiamo sottoporla alla analisi, purché si possa scorgere in essa il simbolo. Ma fin quando non siamo capaci di scoprirvi alcun valore simbolico, noi constatiamo che, almeno per noi, l'opera non ha altro significato di quello che manifesta esplicitamente; in altre parole, constatiamo che essa per noi non è nulla di più di ciò che sembra essere. Io dico «sembra» poiché può darsi che sia la nostra prevenzione a non permetterci di intuire di più. Comunque, noi non troviamo in quest'ultimo caso nessuna opportunità, nessun punto d'appoggio per fare un'analisi. Invece nel primo caso ci ricorderemo di una frase di Gerhart Hauptmann, come di un principio fondamentale: «esser poeta significa far risuonare dietro le parole la parola

primordiale». Se traduciamo ciò in linguaggio psicologico, dobbiamo formulare così la nostra prima questione: a quale immagine primordiale dell'incosciente collettivo si può far risalire l'immagine sviluppata nell'opera d'arte? Questa questione richiede una spiegazione da diversi punti di vista. Ho considerato qui, come ho già detto, il caso di un'opera d'arte simbolica, e per di più, di un'opera d'arte le cui origini non sono da cercarsi nel subcosciente personale dell'autore, ma in quella sfera della mitologia incosciente, le cui immagini primordiali sono proprietà comune dell'umanità. Ho per questa ragione definito tale sfera col termine di incosciente collettivo, allo scopo di distinguerla dal subcosciente personale, che considero come la totalità di quegli avvenimenti psichici che di per se [p. 48] stessi sarebbero suscettibili di essere coscienti, e che tal volta lo sono stati, ma che a causa della loro incompatibilità sono stati repressi, e tenuti artificialmente al di sotto della soglia della coscienza. Anche da questa sfera sgorgano energie artistiche, ma sono torbide, e quando prendono il sopravvento l'opera d'arte che esse producono non è simbolica, ma sintomatica. Noi lasceremo, certo senza timore e senza rimpianto, questo genere d'arte al metodo «purgativo» di Freud. Contrariamente al subcosciente personale, che occupa in certo modo un piano relativamente superficiale, appena al di sotto della soglia della coscienza, l'incosciente collettivo in condizioni normali non può assolutamente divenire cosciente, e quindi non v'è nessuna tecnica analitica che possa farlo ricordare, dato che esso non è né represso né dimenticato. Di per se stesso l'incosciente collettivo non esiste neppure, in quanto esso non è altro che una possibilità, quella possibilità appunto che noi ereditiamo da epoche remote in forme determinate di immagini mnemoniche, o, per parlare dal punto di vista anatomico, quella possibilità che ci è trasmessa nella struttura del nostro cervello. Non esistono rappresentazioni innate, ma possibilità innate di rappresentazioni, che pongono limiti definiti anche alla fantasia più audace, cioè esistono categorie dell'attività della fantasia, in certo qual modo idee a priori di cui l'esistenza non è dimostrabile senza l'esperienza. Esse appaiono solamente nella materia formata, quali principi regolatori della sua formazione; il che significa che noi non possiamo ricostruire il modello primitivo dell'immagine primordiale se non per mezzo di conclusioni tratte dall'opera finita. L'immagine primordiale o archetipo è una figura, demone, uomo, o processo, che si ripete nel corso della storia,

ogni qualvolta la fantasia creatrice si esercita liberamente. Essa è in prima linea una figura mitologica. Esaminandola da presso, notiamo che essa è in certo qual modo la risultante di innumerevoli esperienze tipiche di tutte le generazioni passate. Si potrebbero scorgere in essa i residui psichici di innumerevoli avvenimenti dello stesso tipo. Essa rappresenta una media di milioni [p. 49] di esperienze individuali e dà un'immagine della vita psichica, suddivisa e proiettata nelle forme multiple del pandemonium mitologico. Ma anche le figure mitologiche sono di per se stesse già dei prodotti elaborati della fantasia creatrice, esse attendono di essere tradotte in un linguaggio concettuale di cui per ora non abbiamo che dei penosi inizi. Quei concetti, che in maggior parte sono ancora da creare, potrebbero procurarci una conoscenza astratta e scientifica dei processi dell'incosciente, processi che costituiscono la radice delle immagini primordiali. In ciascuna di queste immagini è racchiuso un frammento di psicologia e di destino umano, un frammento dei dolori e delle gioie che si sono succedute infinite volte, secondo un ritmo su per giù sempre uguale, nelle schiere dei nostri antenati. Sembra quasi che nell'anima si sia formato come il letto di un fiume, in cui la vita che prima tentennava nell'incertezza e si spandeva su superfici vaste, ma poco profonde, all'improvviso riesce a fluire con forza, se si è avverato quel particolare concatenarsi di circostanze, che contribuì sempre alla produzione delle immagini primordiali. Il momento in cui appare la situazione mitologica è sempre contrassegnato da una particolare intensità emotiva, come se in noi fossero toccate corde che ordinariamente non risuonano mai, o come se si scatenassero potenze di cui non supponevamo l'esistenza. La lotta per l'adattamento è assai penosa, poiché abbiamo sempre a che fare con condizioni individuali, cioè con condizioni atipiche. Perciò non deve stupirci il fatto, che nel momento preciso in cui giungiamo ad una situazione tipica, proviamo un improvviso sentimento di liberazione, sentimento del tutto speciale, né deve stupirci di sentirci come trasportati o afferrati da una specie di potenza sovrumana. In tali momenti non siamo più degli esseri particolari, noi siamo la specie, ed è la voce dell'umanità che risuona in noi. E' per questa ragione che l'individuo isolato non è adatto assolutamente ad utilizzare la piena misura delle sue forze, a meno che una di quelle rappresentazioni collettive, che si chiamano ideali, non accorra in suo soccorso, liberando in lui tutte le sue forze istintive, a cui la volontà ordinaria cosciente [p. 50] non può da sola trovar accesso. Gli ideali più efficaci sono sempre varianti, più o meno trasparenti, di un

archetipo; lo si riconosce facilmente per il fatto che tali ideali sono spesso e volentieri rappresentati da allegorie, per esempio la patria è rappresentata come madre; e in questo caso l'allegoria non ha una propria forza di motivazione, ma la trae dal valore simbolico dell'idea di patria. L'archetipo corrispondente è la cosidetta participation mystique del primitivo col suolo che abita e che non contiene che gli spiriti dei suoi antenati. Lo straniero rappresenta per lui la miseria. Ogni relazione con l'archetipo, vissuta o semplicemente espressa, è «commovente», cioè essa agisce poiché sprigiona in noi una voce più potente della nostra. Colui che parla con immagini primordiali, è come se parlasse con mille voci; egli afferra e domina, e al tempo stesso eleva, ciò che ha designato dallo stato di preCarletà e di caducità alla sfera delle cose eterne; egli innalza il destino personale a destino dell'umanità e al tempo stesso libera in noi tutte quelle forze soccorritrici, che sempre hanno reso possibile all'umanità di sfuggire ad ogni pericolo e di sopravvivere persino alle notti più lunghe. Questo è il segreto dell'azione che può compiere l'arte. Il processo creatore, per quanto possiamo seguirlo, consiste in una animazione incosciente dell'archetipo, nel suo sviluppo e nella sua formazione, fino alla realizzazione dell'opera perfetta. Il dar forma all'immagine primordiale è in certo modo un tradurla nella lingua di oggi, ed è per mezzo di questa traduzione che ognuno può ritrovare l'accesso alle fonti più profonde della vita, accesso che fino a quel momento gli era stato interdetto. In ciò sta l'importanza sociale dell'arte: essa lavora continuamente all'educazione dello spirito contemporaneo facendo sorgere le forme che più gli difettano. Volgendo le spalle alla manchevolezza presente, l'aspirazione dell'artista si ritrae, sino a raggiungere nel suo incosciente l'immagine primordiale che potrà compensare nel modo più efficace l'imperfezione e la parzialità dello spirito contemporaneo. Essa s'impossessa di questa immagine, e traendola dalla più [p. 51] profonda incoscienza per ravvicinarla alla coscienza, ne modifica la forma in modo che essa possa essere accetta all'uomo d'oggi, a seconda delle sue capacità. Il tipo dell'opera d'arte ci permette di trarre conclusioni sul carattere dell'epoca in cui essa è apparsa. Che cosa rappresentano per la loro epoca, il naturalismo ed il realismo? Che cos'è il romanticismo? Che cos'è l'ellenismo? Sono orientamenti dell'arte che misero in luce quanto vi era di più necessario per l'atmosfera spirituale di ogni epoca. L'artista come educatore della sua

epoca, ecco un soggetto sul quale oggi ci si potrebbe a lungo intrattenere. I popoli e le epoche hanno, come i singoli individui, i loro orientamenti ed i loro caratteristici atteggiamenti interiori. L'espressione «atteggiamento» tradisce già la parzialità inevitabile di ogni orientamento determinato. Orientamento significa esclusione; l'esclusione sta a significare che una determinata quantità di elemento psichico, che potrebbe anche esso vivere, non è autorizzato a manifestarsi, poiché non corrisponde più all'atteggiamento generale. L'uomo normale può tollerare senza danno l'indirizzo generale; ma l'uomo che segue le vie secondarie o le vie traverse, che non può come l'uomo normale seguire le grandi strade militari, scoprirà per primo ciò che si trova al di fuori della grande strada e che attende il diritto di manifestarsi. Il vero vantaggio, per l'artista, è la sua relativa incapacità di adattamento; essa gli permette di tenersi lontano dalle grandi vie, di seguire la propria aspirazione e di scoprire ciò che manca agli altri, senza che essi lo sappiano. Come nel singolo individuo l'unilateralità dell'atteggiamento cosciente è corretta da reazioni incoscienti di autoregolazione, così l'arte rappresenta, nella vita delle nazioni e delle diverse epoche, un processo di autoregolazione spirituale.(1922).

III. Freud e Jung. Contrasti

Le divergenze tra il punto di vista di Freud e il mio dovrebbero essere trattate da qualcuno che fosse al di fuori della cerchia di influenza delle idee che vanno sotto i nostri rispettivi nomi Si potrà credere che, con sufficiente imparzialità, io possa sollevarmi al di sopra delle mie proprie idee? Può un uomo far ciò? Ne dubito. E se qualcuno riuscisse apparentemente a compiere questo gesto degno del barone Munchhausen, sarei pronto a scommettere che le idee che egli pretende sue sono in realtà idee altrui. Le idee largamente accettate non sono mai proprietà personale del loro cosidetto autore; al contrario, egli è lo schiavo delle sue idee. Le idee che colpiscono e che sono accolte come verità hanno in sé qualcosa di particolare; benché si realizzino in un determinato momento, esse sono sempre esistite, al di fuori del tempo; sorgono da quel regno di vita procreativa, di vita psichica, dal quale la mente effimera di ogni singolo uomo trae origine, come una pianta che fiorisce, reca frutti e semi, e poi appassisce e muore. Le idee scaturiscono da una sorgente che non è contenuta nella vita personale di un singolo individuo. Noi non creiamo le idee, sono esse che si creano. Quando esprimiamo delle idee facciamo una confessione, poiché esse portano alla luce del giorno non solo il meglio che è in noi, ma anche le nostre peggiori insufficienze e deficienze personali. Questo è il caso specialmente per le idee riguardanti la psicologia. Da dove dovrebbero esse sorgere, se non dalla parte più soggettiva della vita? Può l'esperienza col mondo oggettivo proteggerci da pregiudizi soggettivi? Ogni esperienza, persino nelle circostanze più favorevoli, non è forse in gran parte un'interpretazione soggettiva? [p. 53] D'altronde anche il soggetto è un fatto oggettivo, una parte del mondo; e ciò che esso produce è, dopo tutto, prodotto dal suolo universale, se si considera che il più raro e più strano organismo è pur esso sostentato e nutrito dalla terra a noi tutti comune. E' precisamente l'idea più soggettiva che, essendo più vicina alla natura e all'essere umano, merita d'essere chiamata la più vera. Ma cos'è la verità? Per gli scopi che la psicologia si propone, penso sia meglio abbandonare l'idea che noi oggi possiamo essere in grado di fare affermazioni «vere» o «giuste» sulla natura

della psiche. Quanto di meglio possiamo raggiungere è la giusta espressione: per giusta espressione intendo una aperta dichiarazione e una descrizione dettagliata di quanto viene osservato soggettivamente. Vi sarà chi darà importanza alla forma in cui tali osservazioni potranno essere elaborate, e perciò crederà di essere il creatore di quanto ha trovato in se stesso. Un altro darà invece maggior importanza al proprio ruolo di osservatore; sarà conscio del proprio atteggiamento ricettivo ed insisterà sul fatto che le sue osservazioni soggettive gli si presentano spontaneamente quali rivelazioni. La verità sta tra i due. La giusta espressione consiste nel dar forma adeguata a quanto viene osservato interiormente. Il psicologo moderno, per quanto ardite siano le sue speranze, può appena vantarsi di aver raggiunto poco più del giusto grado di recettività ed una sufficiente adeguatezza di espressione. La psicologia che presentemente possediamo è la testimonianza di pochi individui, che qua e là osservano quanto hanno scoperto in loro stessi. La forma, di cui si sono serviti per esprimere ciò, è a volte adeguata e a volte no. Siccome ogni individuo appartiene ad un tipo psicologico più che ad un altro, la sua testimonianza può essere pienamente condivisa da tutti quelli del suo tipo. E poiché coloro i quali si conformano ad altri tipi appartengono ciò non di meno alla specie umana, noi possiamo concludere che tale testimonianza si può applicare, benché meno pienamente, anche ad essi. Ciò che Freud ci dice sugli istinti sessuali dell'adulto e del fanciullo, sul conflitto che ne consegue con il «principio della realtà», sull'incesto e su [p. 54] simili cose, può essere preso come la più giusta espressione della sua psicologia personale. Egli ha dato forma adeguata a quanto ha osservato in se stesso. Io non sono un oppositore di Freud, benché sia stato presentato sotto questo aspetto dalla sua miopia e da quella dei suoi allievi. Nessun psicoterapeuta esperto può negare di aver incontrato almeno dozzine di casi che corrispondono esattamente alle descrizioni di Freud. Con la confessione di quanto ha scoperto in se stesso, Freud ha collaborato alla nascita di una grande verità umana. Egli ha dedicato la sua vita e la sua energia alla costruzione di una psicologia che è la formulazione del suo essere stesso. Il nostro modo di considerare le cose è condizionato a ciò che siamo: gli individui di diversa costituzione vedono diversamente le cose e diversamente esprimono se stessi. Adler, uno dei primi allievi di Freud, ne è un esempio. Lavorando con lo stesso materiale di Freud, egli raggiunse un punto di vista totalmente diverso. Il suo modo di vedere è almeno altrettanto convincente quanto quello di Freud, poiché egli pure rappresenta un tipo psicologico ben

conosciuto. So bene che i seguaci di entrambe le scuole asseriscono apertamente che io sono nell'errore, ma spero che la storia e tutte le persone assennate mi daranno ragione. Ambedue le scuole, secondo il mio modo di pensare, meritano l'appunto di aver esagerato l'aspetto patologico della vita, e di aver considerato l'uomo esclusivamente alla luce dei suoi difetti. Un esempio convincente di ciò, nel caso di Freud, è la sua incapacità a comprendere l'esperienza religiosa, come chiaramente ha dimostrato nel suo libro Il futuro di un'illusione. Da parte mia, preferisco considerare l'uomo alla luce di quanto in lui è sano e forte, e liberare anche il malato da quella psicologia che colora ogni pagina degli scritti di Freud. Io non riesco a vedere dove Freud esca dalla sua psicologia personale e come possa liberare il malato da quel male di cui soffre lo stesso medico. L'insegnamento di Freud, in definitiva, è unilaterale, poiché esso generalizza fatti che sono rilevanti soltanto in una costituzione psicopatica; la validità di tale insegnamento è realmente limitata a questi [p. 55] stati. In questi limiti l'insegnamento di Freud è vero e valido perfino quando egli dice cose non vere, poiché anche l'errore rientra nel quadro e, in quanto confessione, è una verità. In ogni caso, la psicologia di Freud non è una psicologia sana, ed inoltre - e questo è sintomo di morbosità - è basata su una visione del mondo inconscia, che non è stata sottoposta ad una critica esauriente, il che porta a restringere notevolmente il campo dell'umana esperienza e comprensione. E' stato un grande errore da parte di Freud, il volgere le spalle alla filosofia. Non critica mai le sue premesse, e neppure le ipotesi che sono alla base del suo punto di vista personale; e questo proviene da quanto ho espresso nelle mie precedenti osservazioni, poiché se egli avesse esaminato con senso critico le sue ipotesi, non avrebbe mai messo in luce, come ingenuamente ha fatto nel suo libro Interpretazione dei sogni, il suo particolare atteggiamento mentale. Comunque si sarebbe fatto un'idea delle difficoltà con le quali io mi sono incontrato. Io non ho mai rifiutato l'agrodolce bevanda della critica filosofica, ma l'ho sorseggiata con precauzione, un poco alla volta. Troppo poco, diranno i miei oppositori; anche troppo, per conto mio. Troppo facilmente l'autocritica avvelena la spontaneità, inestimabile ricchezza o, per meglio dire, dote indispensabile ad ogni mente creativa. In ogni modo, il criticismo filosofico mi ha aiutato a rendermi conto che ogni psicologia, la mia inclusa, ha il carattere di una confessione soggettiva. Ma io debbo impedire ai miei poteri critici di distruggere la mia capacità creativa. So bene che ogni parola che pronunzio porta in sé qualcosa di me stesso, del mio unico e particolare

Io, con la sua particolare storia e col suo particolare mondo. Perfino quando tratto dati empirici, necessariamente mi trovo a parlare di me stesso. Ma solo accettando ciò come cosa inevitabile posso servire la causa della conoscenza dell'uomo sull'uomo, la causa che anche Freud desidera servire, e che, malgrado tutto, ha servito. La conoscenza poggia non solo sulla verità, bensì anche sull'errore. Io mi rendo conto del carattere soggettivo di ogni dottrina psicologica prodotta dalla mente di un uomo; e questo è [p. 56] forse il punto di più netta separazione tra Freud e me. Un'altra differenza tra noi mi sembra consista in questo, che io cerco, nella mia concezione del mondo, di liberarmi da ogni premessa incosciente e quindi non criticabile. Dico «io cerco», poiché chi può liberarsi da tutte le sue ipotesi inconscie? Cerco di difendermi, almeno, dai più grossolani pregiudizi e sono perciò incline a riconoscere tutti i possibili «credo», purché agiscano sulla psiche umana. Non dubito che gli istinti naturali siano forze di propulsione nella vita umana, sia che li chiamiamo «libido», sia che li chiamiamo volontà di potenza: ma neppure dubito che questi istinti urtino contro lo spirito; ché essi sono continuamente in conflitto con qualche cosa, e questo qualche cosa perché non dovrebbe chiamarsi spirito? Sono ben lungi dal sapere che cosa sia lo spirito per se stesso, ed altrettanto lontano dal sapere che cosa siano gli istinti. L'uno è per me un mistero, tanto quanto gli altri, e quindi sono incapace di spiegare l'uno come un errore degli altri perché non è un errore il fatto che la terra ha solo una luna. Non vi sono errori nella natura; essi si trovano solo in quel regno che l'uomo chiama intelletto. Istinti e spirito sono in ogni caso al di là della mia comprensione. Sono termini che noi usiamo per esprimere forze potenti, la cui natura ci è sconosciuta. Come si può constatare, io attribuisco un valore positivo a tutte le religioni, nei cui contenuti dottrinali riconosco quelle figure che già ho incontrato nei sogni e nelle fantasie dei miei pazienti. Nella loro morale scorgo uno sforzo analogo a quello fatto dai miei pazienti, quando, guidati dalla loro intuizione o dalla loro ispirazione, cercano il modo adeguato per trattare le forze della loro psiche. Cerimonie e funzioni, riti, iniziazioni e pratiche ascetiche, in ogni loro forma e varietà, mi interessano come metodi e tecniche per venire in contatto con queste forze. Per la stessa ragione attribuisco un valore positivo alla biologia e all'empirismo delle scienze naturali in genere, poiché in esse vedo uno sforzo erculeo fatto allo scopo di comprendere la psiche umana, accostandosi ad

essa dal mondo esterno. Considero le religioni gnostiche imprese [p. 57] altrettanto prodigiose compiute in direzione opposta: cioè, come un tentativo di raggiungere la conoscenza del cosmo per via interiore. Nella mia visione del mondo vi è un vasto regno esteriore, ed un altrettanto vasto regno interiore; tra questi due, rivolto ora all'uno, ora all'altro, sta l'uomo, che secondo il suo stato d'animo o la sua disposizione considera ora l'uno ora l'altro come verità assoluta, negando o sacrificando l'uno a favore dell'altro. Questo quadro è un'ipotesi, certo, ma un'ipotesi così preziosa che non vi rinuncio. E' verificabile a parer mio euristicamente ed empiricamente; e per di più è sostenuto dal consensus gentium. Questa ipotesi, certamente, mi viene da una fonte interiore, anche se io immagino di esservi giunto per mezzo dell'esperienza. Da essa sono stato condotto alla teoria dei tipi ed anche alla conciliazione di punti di vista tanto diversi, come i miei propri e quelli di Freud. Vedo in ogni avvenimento il gioco degli opposti, e da questa concezione deriva la mia idea sulla energia psichica. Ritengo che l'energia psichica provenga da coppie di contrari, così come l'energia fisica presuppone differenze di potenziale, cioè coppie di contrari quali il caldo e il freddo, l'alto e il basso, ecc'. Freud cominciò a rappresentare la sessualità come l'unico potere psichico che anima l'uomo, e solo dopo la mia rottura con lui egli concesse uguale importanza anche alle altre attività psichiche. Da parte mia, sotto questo concetto di energia, ho racchiuso i vari impulsi e le varie forze psichiche allo scopo di evitare l'arbitrarietà di una psicologia che tratti soltanto di impulsi. Perciò parlo non di impulsi e forze separate, ma di «intensità di valutazione». Ma, come ho detto, non penso di negare l'importanza della sessualità nella vita psichica, benché Freud ostinatamente sostenga che io l'abbia negata. Ciò che cerco, è di frenare la troppo estesa terminologia sessuale, che minaccia di viziare ogni discussione sulla psiche umana; desidero porre la sessualità al suo posto giusto. Il senso comune ci riporterà a vedere nella sessualità soltanto uno degli istinti della vita, soltanto una delle funzioni psico-fisiologiche, per quanto essa sia, senza dubbio, [p. 58] una delle più estese ed importanti. Che avverrebbe se non potessimo più mangiare? Indubbiamente v'è oggi un evidente disordine nel campo della vita sessuale, ed è cosa nota che, quando abbiamo un forte mal di denti, non possiamo pensare ad altro se non ad esso. La sessualità che Freud descrive è certamente quell'ossessione sessuale che si incontra ogni qualvolta il paziente

ha bisogno di essere liberato o distolto da un'attitudine o situazione errata. Si tratta di una specie di sessualità ingorgata, che però si riduce subito a proporzioni normali, non appena le venga aperta una via di esplicazione. Essa si trova nei vecchi rancori verso i genitori ed i parenti ed in certi opprimenti legami affettivi dovuti a determinate situazioni familiari, che spesso ostacolano le energie vitali. Ed è proprio questo l'ostacolo, che si nota infallibilmente in quel tipo di sessualità che è detto infantile. Non è una vera e propria sessualità ma uno sfogo non naturale di tensioni che appartengono completamente ad un'altra sfera della vita. Ciò posto, quale utilità v'è nello sguazzare per questi pantani? Sicuramente, avendo una giusta visione delle cose, bisogna ammettere che è assai più utile aprire dei canali di drenaggio. Mutando la nostra attitudine o assumendo nuovi modi di vita, noi dobbiamo trovare quella differenza di potenziale che la suddescritta energia richiede. Se ciò non si ottiene, verrà a crearsi un circolo vizioso, ed è questa in vero la minaccia che presenta la psicologia freudiana. Essa non indica nessuna via che conduca al di là del ciclo inesorabile degli eventi biologici. Tale disperata situazione porterebbe ad esclamare con Paolo: «Miserabile uomo che sono, chi mi libererà da questo corpo di morte?» Qui l'uomo intellettuale si avanza scuotendo la testa, e dice con le parole di Faust: «Tu sei conscio solo di un unico impulso». Cioè del legame carnale che risale al padre e alla madre, o discende ai figli nati dalla nostra carne; incesto col passato, incesto col futuro, il peccato originale si perpetua nella situazione familiare. Nulla v'è che possa liberarci da questo legame, se non quella esigenza vitale che sta agli antipodi: lo spirito. Non sono i figli della carne ma i «figli di Dio», che conoscono [p. 59] la libertà. Nel tragico romanzo di Ernesto Barlach sulla vita familiare, Der tote Tag, il demone materno dice alla fine: «La cosa strana è che l'uomo non vuole apprendere che Dio è suo padre». Questo è ciò che Freud e coloro che condividono il suo punto di vista non vogliono apprendere, o tutt'al più bisogna ammettere che essi non trovano la chiave che li porta a tale conoscenza. La teologia non aiuta coloro che cercano tale chiave, poiché la teologia richiede la fede e la fede non si può creare; essa è, nel senso più vero della parola, un dono della grazia. Noi moderni ci troviamo ad affrontare la necessità di riscoprire la vita dello spirito, dobbiamo farne in noi stessi nuovamente l'esperienza. Così soltanto possiamo rompere l'incanto che ci lega al ciclo degli eventi biologici. La mia posizione, a questo riguardo, rappresenta il terzo punto di divergenza tra Freud e me. Ed è per essa che mi accusano di misticismo. Ma

non sono io il responsabile del fatto che l'uomo abbia, ovunque e sempre, spontaneamente sviluppato forme religiose, e che, da tempi immemorabili, idee e sentimenti religiosi abbiano pervaso l'anima umana. Chi non vede questo aspetto dell'anima umana è cieco, e chi vuol liberarsene con una spiegazione razionale non ha il senso dei fatti. Oppure dobbiamo scorgere, nel complesso paterno che è evidente in tutti i membri della scuola freudiana come anche nel suo fondatore, una prova convincente, degna di essere menzionata, di una liberazione dall'inesorabile situazione familiare? Questo «complesso paterno», fanaticamente difeso con tanta caparbia ipersensibilità, è una malintesa funzione religiosa, è una forma di misticismo, espresso nei termini della biologia e dei rapporti familiari. In quanto all'idea di Freud sul super-Io, essa è un tentativo nascosto di mascherare con l'abito della teoria psicologica, l'immagine di Dio. In tal caso sarebbe meglio parlare apertamente. Da parte mia preferisco chiamare le cose col nome sotto il quale sono sempre state conosciute. Non dobbiamo fare girare la ruota della storia in senso inverso e non dobbiamo disconoscere l'avanzare dell'uomo verso la vita spirituale, che cominciò colle primitive iniziazioni. E' concesso alla scienza di dividere il suo campo di ricerca e di fare ipotesi limitate, giacché la scienza deve lavorare in questo modo; ma la psiche umana non deve essere divisa in piccole parti. Essa è un tutto unico che abbraccia la coscienza ed è origine e condizione della coscienza. Il pensiero scientifico, che è soltanto una delle sue funzioni, non può soddisfare tutte le possibilità della vita. Il medico dell'anima deve evitare di guardare esclusivamente attraverso le lenti della patologia, non deve mai dimenticare che l'anima malata è ciò non di meno un'anima umana, e che, nonostante la sua malattia, essa è incoscientemente parte della complessiva vita psichica dell'umanità. Egli deve persino giungere ad ammettere che l'io è malato, per la precisa ragione che esso è tagliato fuori dall'insieme della psiche, ed ha perso il suo rapporto sia con l'umanità che con lo spirito. L'io è invero il «luogo del timore», come dice Freud nel Das Ich und das Es; ma solo fino a quando esso non è tornato al «Padre» e alla «Madre» (1). Freud naufraga sulla questione di Nicodemo: «Può un uomo rientrare nel grembo materno e rinascere?» Volendo confrontare cose piccole con cose grandi, potremmo dire che la storia qui si ripete sotto l'aspetto di una disputa nel campo della moderna psicologia. Per migliaia di anni i riti iniziatici ci hanno insegnato la rinascita spirituale, eppure, cosa abbastanza strana, l'uomo dimentica sempre nuovamente il senso della divina procreazione; il che evidentemente non

dimostra una forte vita spirituale, ma la pena di tale incomprensione è grave, poiché consiste nientemeno che nel decadimento nervoso, nell'inasprimento, nell'atrofia e nella sterilità. E' facile scacciare lo spirito fuori dalla porta, ma allora la vita diviene insulsa, la Terra perde il suo «sale». Fortunatamente abbiamo la prova che lo spirito rinnova sempre la sua forza, per il fatto che l'insegnamento fondamentale delle antiche iniziazioni è tramandato da generazione a generazione. Ci sono ancor sempre esseri umani i quali comprendono cosa s'intenda per Dio nostro [p. 61] padre. L'equilibrio della carne e dello spirito non è andato perso nel mondo. Il contrasto tra Freud e me risale alle differenze essenziali delle nostre premesse fondamentali. Le premesse sono inevitabili, e perciò è erroneo il far credere di non averne. Ecco perché ho trattato problemi fondamentali; solo prendendo questi come punto di partenza, si possono meglio comprendere le molteplici e dettagliate differenze tra i nostri due punti di vista.(1929).

NOTE:... (1) Spirito e natura [N.d.T.].

IV. Scopi della psicoterapia

Siamo tutti d'accordo oggigiorno nell'affermare che le nevrosi sono disturbi funzionali della psiche e devono essere trattate con metodi di cura psichici. Ma quando arriviamo al problema della formazione della nevrosi e dei principi della terapia, l'accordo finisce e siamo costretti a riconoscere che fino ad ora non abbiamo nessuna concezione che sia del tutto soddisfacente, né sulla natura della nevrosi, né sui principi della cura. Mentre è vero che due correnti di pensiero hanno raggiunto una certa notorietà, è altrettanto vero che i loro insegnamenti non esauriscono in nessun modo le numerose divergenti opinioni che sono state espresse in proposito. Fra noi vi sono anche molti studiosi, che in mezzo al conflitto generale di opinioni hanno formulato i loro punti di vista personali. Se pertanto noi volessimo fare un quadro esatto ed esauriente della situazione, dovremmo poter disporre, sulla nostra tavolozza, di tutte le più sottili sfumature dell'arcobaleno. Mi piacerebbe se fosse possibile fare un simile quadro, poiché ho sempre sentito il bisogno di confrontare tra loro le varie opinioni. A lungo andare son sempre riuscito a riconoscere il valore dei diversi punti di vista. Tali punti di vista non potrebbero sorgere ed ancor meno essere accettati, se non corrispondessero a qualche speciale disposizione, a qualche speciale carattere, a qualche esperienza psichica fondamentale, più o meno prevalente. Se noi dovessimo respingerli considerandoli errati o senza valore, rinucieremmo a particolari disposizioni ed esperienze psichiche; cioè dovremmo rinnegare in parte il nostro materiale d'esperienza. La larga approvazione incontrata dalla teoria di Freud [p. 63] sulla genesi sessuale della nevrosi e dalla sua convinzione che il principio del piacere domina ogni avvenimento della psiche infantile, dovrebbe essere istruttiva per gli psicologi, e insegnar loro che tale maniera di pensare e di sentire coincide con una tendenza relativamente diffusa, cioè con una corrente spirituale, manifestazione della psiche collettiva che, indipendentemente dalle teorie di Freud, è apparsa contemporaneamente in altri luoghi, in altre circostanze, in menti diverse ed in forme differenti. Segnalo, prima di tutto, le opere di Havelock Ellis e di Augusto Forel e dei collaboratori della

Anthropophyteia ed inoltre tanto gli esperimenti sessuali nei paesi anglosassoni durante il periodo post-vittoriano, quanto le numerose discussioni in materia sessuale, trattate dalla cosidetta buona letteratura e dai realisti francesi. Freud è uno degli esponenti della predisposizione psichica odierna, la quale ha una storia a parte; ma per ragioni ovvie noi non possiamo qui intrattenerci su questa storia. L'approvazione che Adler non meno di Freud ha incontrato dalle due parti dell'oceano, permette la stessa induzione. E' innegabile che i turbamenti psichici di molte persone si possono spiegare col desiderio di potenza originato da un complesso di inferiorità. Né si può contestare che questo punto di vista spieghi alcuni eventi psichici attuali, ai quali non è data la dovuta importanza nel sistema freudiano. Non è necessario che ricordi in dettaglio quali condizioni della psiche collettiva e quali fattori sociali siano alla base del punto di vista adleriano. Questa materia è sufficientemente chiara. Sarebbe un errore imperdonabile trascurare in ambedue i punti di vista, freudiano e adleriano, quanto vi è di vero, ma sarebbe non meno imperdonabile accettare l'uno o l'altro come unica verità. Ambedue le verità corrispondono a realtà psichiche; vi sono casi che, nella loro parte essenziale, sono meglio spiegati dall'una o dall'altra delle due teorie. Non posso accusare di errore né l'uno né l'altro di questi ricercatori; al contrario cerco di applicare il più possibile le loro ipotesi ed accetto interamente la loro relativa validità. Non mi sarebbe certamente mai successo [p. 64] di staccarmi dal sentiero tracciato da Freud, se non mi fossi imbattuto in fatti che mi hanno forzato a modificare la sua teoria; altrettanto posso dire perAdler. E' appena necessario aggiungere che io ritengo che la verità del mio punto di vista sia altrettanto relativa, e considero anche me stesso come esponente di una certa predisposizione psichica, tanto che potrei esclamare con Coleridge: «Credo in una unica Chiesa Salvatrice di cui sono per il momento l'unico membro». In psicologia applicata, oggigiorno noi dovremmo essere modesti, ed accordare validità a un gran numero di opinioni apparentemente contraddittorie; poiché noi siamo ancora lontani dall'avere una profonda conoscenza della psiche umana, che è il più nobile oggetto della ricerca scientifica. Per il momento noi abbiamo soltanto opinioni più o meno plausibili, che sfuggono ad una possibilità di accordo. Pertanto, se io intraprendo l'esposizione dei miei punti di vista, spero di non essere frainteso; non voglio postulare una nuova verità e meno ancora bandire un Vangelo

definitivo. Parlerò soltanto di tentativi per portar luce su fatti psichici che mi sono oscuri o per superare difficoltà terapeutiche. E' proprio da questo ultimo problema che voglio cominciare, poiché è qui che sentiamo il bisogno più urgente di modifiche. Come ben sappiamo, si può tirare avanti molto tempo con una teoria inadeguata ma non con inadeguati metodi di cura. Nella mia pratica psicoterapeutica, che è di circa trent'anni, ho avuto un gran numero di sconfitte che mi sono rimaste molto più impresse dei miei successi. Chiunque può ottenere successi nella psicoterapia, anche il medico primitivo o il taumaturgo. Ma lo psicoterapeuta impara poco o niente dai suoi successi; questi non fanno altro che confermarlo nei suoi errori, mentre i suoi insuccessi sono utili esperienze, poiché non soltanto aprono la via ad una verità più profonda, ma lo forzano a cambiare le sue opinioni ed i suoi metodi. Riconosco che la mia opera è stata avvantaggiata prima da Freud e poi da Adler, tanto che per quanto possibile applico i loro punti di vista nel trattamento pratico dei [p. 65] miei pazienti; però insisto sul fatto che mi sono imbattuto in insuccessi che sento che avrei potuto evitare, se avessi preso in considerazione quei dati empirici che più tardi mi hanno forzato a modificare le loro opinioni. E' impossibile descrivere tutte le situazioni con le quali mi sono trovato a confronto, e devo accontentarmi di scegliere qualche caso tipico. E' stato coi pazienti più vecchi che ho avuto le più grandi difficoltà, cioè con persone sopra la quarantina. Nel trattare le persone più giovani, trovo in genere che i punti di vista di Freud e di Adler sono abbastanza applicabili, poiché essi offrono un metodo di cura che porta il paziente ad un certo livello di adattamento e di normalità, senza lasciare apparentemente disturbi postumi. Con le persone più anziane, secondo la mia esperienza, molto spesso ciò non avviene. Mi sembra che gli elementi della psiche, durante il corso della vita, subiscano un notevole cambiamento, tanto che noi possiamo distinguere tra una psicologia del mattino ed una psicologia del pomeriggio della vita. Come regola, la vita di un giovane è caratterizzata da una forza espansiva che lo porta a lottare per fini concreti; la nevrosi, se si sviluppa, può essere dovuta alla sua esitazione o al suo ricalcitrare a queste necessità interiori. Ma la vita di una persona più anziana è caratterizzata da una contrazione di forze, dall'affermazione di ciò che è stato raggiunto e dallo stroncamento di ogni sviluppo successivo. La sua nevrosi dipende soprattutto dall'attaccamento ad un'attitudine giovanile che è ormai fuori stagione. Proprio come il giovane nevrotico ha paura della vita, così il più

vecchio ha paura della morte. Ciò che costituisce il fine normale per un giovane, diventa inevitabilmente un ostacolo nevrotico per la persona più anziana; come, nel caso del giovane nevrotico, ciò che una volta era una normale dipendenza dai suoi genitori diventa inevitabilmente, attraverso la sua esitazione nell'affrontare il mondo, una relazione incestuosa che è ostile alla vita. E' naturale che la resistenza, la repressione, il transfert, le finzioni ecc', abbiano un significato quando le troviamo in un giovane, mentre ne hanno uno opposto nella persona più anziana e ciò nonostante tutte le apparenti affinità. [p. 66] Il fine della terapia dovrebbe in questo caso essere indubbiamente modificato. L'età del paziente mi sembra perciò l'elemento più importante. Ma ci sono altri elementi che noi dovremmo tenere presenti anche nel periodo della stessa giovinezza. Così, secondo il mio modo di vedere, è un errore tecnico grossolano trattare col metodo freudiano un paziente al quale si applica meglio la psicologia adleriana e cioè un individuo fallito con un bisogno infantile di affermazione. Al contrario sarebbe un grande errore applicare il metodo adleriano ad un uomo riuscito nel quale prevale la libido. In casi dubbi, le resistenze del paziente possono servire da valido punto di riferimento. Sono incline, per principio, a prendere sul serio le più profonde resistenze, per quanto strano ciò possa sembrare, poiché sono convinto che il medico non ne sa più del paziente, anche se questo ignora le proprie condizioni psichiche. Questa modestia da parte del medico è soprattutto adatta alla situazione attuale, poiché non soltanto noi non abbiamo ancora una psicologia di validità generale, ma, ciò che è peggio, la varietà delle costituzioni psichiche è innumerevole, ed esistono inoltre temperamenti psichici più o meno individuali, che non possono essere inquadrati in uno schema generale. Quanto al problema della costituzione psichica, è ben noto che io postulo due differenti tendenze fondamentali secondo le tipiche differenze note a molti studiosi della natura umana: le tendenze all'extraversione e all'introversione. Considero queste tendenze come elementi importanti, tanto quanto la predominanza di una particolare funzione psichica sopra altre funzioni. La grande variabilità della vita individuale porta a continue modificazioni che sono spesso applicate inconsciamente dal medico stesso, ma che, per principio, non coincidono affatto col suo Credo teorico. Giacché siamo sul problema della costituzione psichica non posso fare a

meno di far notare che vi sono individui a tendenza essenzialmente spirituale ed altri a tendenza essenzialmente materialistica. Non si deve ritenere che tale comportamento sorga [p. 67] accidentalmente o dipenda da qualche malinteso. E' spesso una passione congenita, che né critica né persuasione possono estirpare. Vi sono inoltre casi in cui un ostentato materialismo ha la sua origine nella negazione di una disposizione religiosa. Casi del tipo opposto sono oggi meglio conosciuti, sebbene non siano affatto più frequenti degli altri. Queste attitudini sono anche indicazioni, che, secondo me, non vanno trascurate. Quando noi usiamo la parola indicazione, abbiamo l'aria di voler dire, come generalmente si fa in linguaggio medico, che è indicata questa o quella cura; forse dovrebbe essere così, ma certamente la psicoterapia non ha raggiunto un tale grado di certezza, perciò le nostre indicazioni non sono purtroppo molto di più che semplici avvertimenti contro la unilateralità. La psiche umana induce molto facilmente in errore. In ogni caso singolo, noi dobbiamo porci il problema se si tratti di una tendenza, o di un habitus, o forse soltanto di una compensazione di correnti opposte. Devo confessare che mi sono ingannato tanto spesso in questa materia, che in ogni caso concreto cerco di evitare ogni presupposto teorico sulla struttura della nevrosi, e tengo presente soprattutto le varie possibilità e necessità del paziente. Quasi sempre lascio decidere alla pura esperienza la scelta dei mezzi terapeutici. Ciò può forse sembrare strano, poiché si presume generalmente che il medico curante debba avere una linea di condotta. Ma mi sembra che, specialmente per la psicoterapia, sia consigliabile che il medico non si prefigga una meta troppo precisa. E' difficile che egli sappia, meglio della natura e della volontà di vivere della persona malata, ciò che è necessario. Le grandi decisioni della vita umana nascono normalmente molto di più dagli istinti e da altri misteriosi fattori subcoscienti, che da una volontà cosciente e ragionevole. La scarpa che va bene per un piede, può andar male per un altro; non esistono quindi prescrizioni di vita universalmente applicabili; ognuno di noi vive la propria forma di vita, una forma irrazionale, che non può essere sostituita da nessun'altra. Nessuna di queste considerazioni [p. 68] naturalmente c'impedisce di fare tutto il possibile per rendere la vita dei pazienti ragionevole e normale. Se ciò porta ad un risultato soddisfacente, allora possiamo seguire quella strada; ma, se ciò è insufficiente, il medico curante deve lasciarsi guidare, bene o male, dai dati irrazionali che il malato gli offre. Qui noi dobbiamo

lasciarci guidare dalla natura, e la strada che il medico adotterà non consiste tanto nella cura, quanto, e soprattutto, nello sviluppo delle possibilità creative che si trovano nel paziente stesso. L'argomento che io tratterò comincia appunto là dove la cura cessa e dove s'inizia questo sviluppo. Il mio contributo alla psicoterapia è limitato a quei casi nei quali la cura razionale non dà risultati soddisfacenti. Il materiale clinico a mia disposizione è di natura speciale; i casi nuovi sono decisamente in minoranza. Molti dei miei pazienti sono già passati attraverso alcune forme di psicoterapia, in genere con risultati parzialmente o totalmente negativi. Quasi un terzo dei miei casi soffre di nevrosi non clinicamente definibili ma caratterizzate da mancanza di senso e di contenuto della loro vita. Mi sembra del resto che questa possa benissimo essere definita come la nevrosi generale del nostro tempo. Più di due terzi dei miei pazienti si trovano nella seconda metà della loro vita. E' difficile trattare pazienti di questo genere con metodi razionali, poiché essi sono per lo più individui socialmente bene adattati e di abilità considerevole, per i quali la normalizzazione non significa niente. Per le cosidette persone normali io non sono in grado di porger loro una visione bella e fatta della vita. Nella maggioranza dei miei casi le risorse del cosciente sono state esaurite; l'espressione ordinaria inglese per questa situazione è la frase «I am stuck». E' soprattutto questo fatto che mi spinge a cercare possibilità nascoste. Poiché io non so che debbo rispondere al paziente quando mi domanda: «Che cosa devo fare? Che cosa mi consigliate?» Non lo so meglio di lui; so soltanto una cosa, che quando la mia coscienza non vede innanzi a sé una via aperta, e quindi rimane inattiva, il mio subcosciente reagirà alla insopportabile [p. 69] inazione. Questo restare inattivo è un accidente psichico, che si ripete innumerevoli volte nella evoluzione della specie umana, tanto da diventare tema di molte favole e miti, dove si parla d'erbe magiche che aprono una porta chiusa, o di industriosi animali che sanno trovare il sentiero nascosto. Ciò vuol dire, in altri termini: la inattività è un evento tipico che nel corso del tempo ha prodotto reazioni e compensazioni caratteristiche. Noi dobbiamo pertanto aspettarci, con molta probabilità, che qualcosa di simile appaia nelle reazioni del subcosciente, per esempio nei sogni. In questi casi, infatti, la mia attenzione è diretta più particolarmente ai sogni. E ciò non perché io sia legato al principio che i sogni debbano sempre essere chiamati in aiuto, o perché io possegga una chiave misteriosa che mi

permetta di tradurre in forma concreta gli elementi che sono in essi, ma molto semplicemente per perplessità. Non so dove rivolgermi in cerca di aiuto e quindi mi rivolgo ai sogni. Questi almeno ci presentano immagini che significano qualcosa e ciò ad ogni modo è meglio che niente. Non ho teorie intorno ai sogni. Non so come i sogni si formino, e sono del tutto in dubbio se la mia maniera di trattare i sogni possa meritare il nome di «metodo». Condivido tutte le obbiezioni dei miei lettori contro l'interpretazione dei sogni, che considero la quintessenza della incertezza e dell'arbitrarietà. Ma d'altro canto so che, se noi meditiamo a lungo su di un sogno e se lo analizziamo con sufficiente profondità, ne otteniamo, quasi sempre, qualche cosa. Questo qualche cosa non è naturalmente un risultato scientifico di cui ci possiamo vantare, né si lascia razionalizzare, ma è un suggerimento pratico ed importante che mostra al paziente verso quale direzione il suo subcosciente lo guida. Può anche non importarmi se il nostro studio sui sogni dia un risultato scientificamente verificabile perché in tal caso avrei un secondo fine esclusivamente autoerotico. Debbo invece accontentarmi che il risultato significhi qualcosa per il paziente e dia un nuovo impulso alla sua vita. L'unico criterio valido è rappresentato per me [p. 70] dall'efficacia del mio sforzo. Penserò più tardi, quando avrò tempo, a soddisfare la mia passione scientifica e il mio desiderio di conoscere perché ho ottenuto un risultato. Il contenuto dei sogni, all'inizio, è infinitamente vario; intendo di quei sogni che il paziente mi racconta al principio della cura. In molti casi essi si riferiscono direttamente al passato e riportano alla memoria ciò che è dimenticato e perduto. Sovente l'inazione ed il disorientamento sorgono proprio quando il corso della vita del paziente è divenuto unilaterale; allora può sopraggiungere improvvisamente la perdita della libido. Tutte le attività precedenti appaiono senza interesse e persino i loro scopi perdono ad un tratto ogni attrattiva. Ciò che in un individuo è soltanto uno stato d'animo passeggero può in un altro divenire uno stato cronico. In questi casi avviene spesso che altre possibilità di sviluppo della personalità restino nascoste nel passato del paziente, e che nessuno, nemmeno il paziente stesso, ne sappia nulla; il sogno però può darne la chiave. In altri casi il sogno si riferisce a circostanze del presente, quali per esempio il matrimonio o la posizione sociale, che non sono state mai coscientemente accettate come fonti di problemi e di conflitti. Queste possibilità fanno ancora parte del regno della razionalità e non mi sarebbe

difficile rendere plausibili al lettore tali sogni iniziali. La vera difficoltà comincia quando i sogni non si riferiscono a nulla di controllabile, e ciò avviene spesso, specialmente quando essi tentano di presentare elementi del futuro. Non intendo parlare di sogni veramente profetici, ma puramente di sogni di presentimento o di ricognizione. Tali sogni contengono indizi di possibilità latenti e perciò non potranno mai essere resi plausibili ad un osservatore esterno: spesso non sono neppure plausibili per me, perciò dico ai miei pazienti: «Non ci credo, ma cerchiamo il bandolo della matassa». Come ho già detto, l'azione stimolante è il solo criterio valido in materia, anche se per ora non è necessario sapere perché si verifichi. Questo è specialmente vero per i sogni che contengono una «metafisica incosciente» cioè delle analogie mitiche per cui si sognano [p. 71] forme di una bizzarria inaudita, e a tutta prima sconcertante. Mi chiederete certo perché io dico che i sogni contengono qualcosa come una «metafisica incosciente». Vi confesserò che non so se i sogni la contengono. Conosco troppo poco i sogni, per saperlo. Io vedo soltanto l'effetto nel paziente. E ve ne vorrei dare un piccolo esempio. In un lungo sogno iniziale di uno dei miei pazienti «normali», la parte principale era rappresentata dalla malattia di una bambina di due anni, figlia di sua sorella. Qualche tempo prima la sorella aveva realmente perso un bambino, ma, a parte questo, nessuno degli altri figli stava male. L'immagine della bambina ammalata, nel sogno, dapprima apparve inspiegabile, perché non si accordava con la realtà. Egli non poteva trovare in essa alcun elemento personale, dato che i rapporti con la sorella non erano stretti. Poi, improvvisamente, gli venne in mente che due anni prima aveva iniziato lo studio dell'occultismo, seguendo il quale aveva scoperto, per la prima volta, la psicologia. La bambina rappresentava, evidentemente, il suo interesse per le cose della psiche, idea alla quale non sarei mai arrivato da solo. Considerata da un punto di vista teorico, questa immagine del sogno può significar tutto e non significar nulla. Che cosa in tale materia ha significato in sé e per sé? Di vero non vi è che questo: che è sempre l'essere umano che interpreta, cioè che attribuisce un significato ad un fatto. Ciò è essenziale in psicologia. Il paziente fu fortemente colpito dall'idea che l'occultismo potesse contenere degli elementi malsani: tale idea gli apparve nuova e decisiva. Un'idea, comunque noi la consideriamo, produce sempre un effetto. Infatti per il paziente questo pensiero conteneva un elemento di critica, che causò un certo cambiamento di attitudine in lui. Grazie a questi insignificanti cambiamenti, che non si potrebbero mai razionalmente prendere in

considerazione, le cose cominciano a muoversi ed il punto morto viene superato. Come commento a questo esempio potrei dire che il sogno significa che gli studi sull'occultismo del paziente contenevano qualcosa di malsano. In tale senso posso anche parlare di «metafisica incosciente» se il sognatore è stato portato [p. 72] dal suo sogno a tale constatazione. Ma vado anche oltre e non solo offro al paziente l'opportunità che il sogno gli sveli qualcosa, ma do anche a me stesso questa possibilità. Gli do poi anche l'aiuto delle mie congetture e delle mie opinioni. Se così facendo riuscissi ad aprire la porta della cosidetta «suggestione», non vedo perché dovrei dolermene; è ben noto che agiscono in noi solo quelle suggestioni per le quali nel nostro intimo siamo già predisposti. Nulla di male se di tanto in tanto siamo condotti in errore da esse, perché presto o tardi la psiche rifiuta gli errori, più di quello che non faccia un organismo con un corpo estraneo. Non ho bisogno di provare che la mia interpretazione del sogno sia giusta - sarebbe un'impresa senza scopo - ma semplicemente devo cercare ciò che nel paziente agisce efficacemente, starei per dire, ciò che per lui è «il vero». E' assai importante, per me, aver il maggior numero di cognizioni possibili intorno alla psicologia primitiva, alla mitologia, alla archeologia e alle religioni comparate, poiché questi campi mi forniscono inapprezzabili analogie colle quali posso arricchire le associazioni dei miei pazienti. Lavorando insieme noi riusciamo a trovare il significato completo, apparentemente secondario, del sogno, ed aumentiamo smisuratamente l'efficacia della sua azione. Per coloro che hanno fatto del loro meglio nella sfera della loro possibilità razionale e non vi hanno trovato né significato né soddisfazione, è infinitamente importante potere incontrare una sfera irrazionale di vita e di esperienza. In questo modo anche la comune realtà quotidiana si trasforma e può acquistare un nuovo fascino. Poiché tutto dipende da come vediamo le cose, e non da come esse sono in se stesse. Anche una minima cosa che abbia un significato ha molto più valore, nella vita, di una cosa grande senza significato. Non ritengo con ciò di svalutare il rischio di questa impresa: è come lanciare un ponte nello spazio. Infatti si potrebbe anche sostenere, come spesso è stato fatto ironicamente, che, seguendo tal metodo, il medico ed il suo paziente indulgono entrambi a mere fantasie. Questa non la [p. 73] considero un'obbiezione, ma un'osservazione molto giusta. Io mi sforzo appunto di unirmi al paziente nelle sue fantasie, perché ho un'opinione molto

alta della fantasia. Per me essa è, in ultima analisi, la forza materna creatrice dello spirito umano. In fondo noi non siamo mai del tutto al di fuori della fantasia. E' vero che vi sono fantasie prive di ogni valore, inadeguate, morbose ed insoddisfacenti, la cui sterile natura viene immediatamente riconosciuta da chiunque sia provvisto di senso comune; ma ciò naturalmente nulla prova contro il valore della immaginazione creativa. Tutte le opere dell'uomo hanno la loro origine nella fantasia creativa. Che diritto abbiamo allora di disprezzare la forza immaginativa? Nel corso normale delle cose la fantasia non cade facilmente in errore, essa è troppo strettamente legata alle radici dell'istinto umano ed animale. Riesce sempre in maniera sorprendente a farsi giustizia. L'attività creativa dell'immaginazione libera l'uomo dalla sua schiavitù dal «senso del nulla», e lo eleva allo stato d'animo di colui che gioca, perché, come dice Schiller: «L'uomo è completamente umano, solo quando gioca». Lo scopo a cui miro è di provocare uno stato psichico nel quale il mio paziente cominci ad esperimentare la propria natura, e cerchi di ottenere uno stato di fluidità, di dinamismo e di superamento in cui non vi sia più nulla di eternamente fisso e di disperatamente fossilizzato. Posso naturalmente presentare qui la mia tecnica solo nei suoi principi generali: quando cerco di interpretare un sogno o una fantasia, non vado oltre a quel significato che ritengo possa avere un effetto sul paziente, e mi sforzo sempre, per quanto è possibile, di spiegargli tale significato, affinché egli possa rendersi conto dei rapporti di esso che trascendono la sua personalità. Ciò è importante, perché quando un uomo fa un'esperienza universale, considerandola invece del tutto personale, assume naturalmente una posizione errata, perché troppo limitata, e ciò tende ad escluderlo dalla società umana. Così pure è necessario non avere soltanto una coscienza personale dell'oggi, ma averne anche una ultrapersonale, che sia aperta al senso della continuità storica. Per quanto ciò possa sembrare [p. 74] un'astrazione, l'esperienza dimostra che spesso le nevrosi sono causate dal fatto che molti non considerano più i richiami religiosi dell'anima a causa della loro infantile smania di pretendere sempre una spiegazione razionale. Il psicologo moderno dovrebbe persuadersi, una volta per tutte, che non si tratta più di questioni di dogma o di credo, ma di una tendenza religiosa che ha una funzione psichica, la cui importanza è difficilmente valutabile e per la quale è indispensabile il senso della continuità storica. Per tornare alla questione della mia tecnica, io mi domando sino a qual punto la debbo a Freud. E' certo che ho imparato da Freud il metodo della

libera associazione e considero la mia tecnica come un ulteriore sviluppo di questo metodo. Fintanto che io aiuto il paziente a scoprire gli elementi efficaci del suo sogno e cerco di mostrargli il significato universale dei suoi simboli, egli è, psicologicamente parlando, in uno stato simile alla infanzia, poiché per il momento dipende dal suo sogno e si domanda sempre se il sogno seguente apporterà una nuova luce. Egli è sotto l'influenza dell'interpretazione che do ai suoi sogni e della mia abilità di sviluppare con profondità la sua autoanalisi. Così è ancora in una condizione passiva poco desiderabile nella quale tutto è incerto e pieno di interrogativi; né lui né io conosciamo ancora la fine del processo, spesso ciò che facciamo non è molto di più che un andare a tentoni nell'oscurità di un mistero egiziano. In tali condizioni non dobbiamo aspettarci effetti notevoli, poiché la incertezza è troppo grande. Per di più, noi corriamo costantemente il rischio di veder distrutto durante la notte ciò che costruiamo durante il giorno. Il pericolo sta nel fatto che non vi è nulla che sia stabile. A questo punto, il paziente ha spesso sogni in cui vede colori o figure strane, e mi dice: «se fossi pittore ne farei un quadro», oppure sogna fotografie, pitture, disegni, manoscritti illuminati ed anche film. Ho voluto utilizzare questi fatti, e spingere i miei pazienti, che si trovano in tali condizioni, a dipingere fedelmente ciò che essi avevano visto nei loro sogni o nella loro fantasia. Di solito mi obbiettano: [p. 75] «non sono un pittore». Rispondo che nessun pittore moderno è pittore nel senso tradizionale, poiché la pittura moderna è assolutamente libera e che in ogni caso non si tratta di fare un'opera d'arte; ciò che importa è lo sforzo richiesto per dipingere. Ho visto recentemente quanto ciò sia vero, in un caso di una ritrattista di talento. Essa dovette, per seguire il mio metodo, ricominciare daccapo con sforzi quasi infantili, letteralmente come se non avesse mai preso un pennello in mano. Dipingere ciò che vediamo davanti a noi, è cosa ben diversa dal dipingere ciò che vediamo dentro di noi. Molti dei miei pazienti più evoluti dunque cominciano a dipingere. Capisco che alcuni considerano ciò come un dilettantismo completamente inutile, ma occorre ricordare che non parliamo di persone che debbano ancor dimostrare la loro utilità sociale, ma di persone che non possono più trovare un senso alla utilità sociale e che sono state attratte da un problema più profondo e pericoloso: quello che ricerca il senso della propria vita individuale. Essere una particella di una massa, ha senso e fascino solo per

l'individuo che non ha ancora raggiunto questo stadio, ma non ne ha affatto per colui che ha già esperimentato ciò a sazietà. Chi sta sotto il livello medio, oppure ha l'ambizione di formare uomini di massa, negherà sempre l'importanza della vita individuale, ma qualunque altro sarà, presto o tardi, portato a considerare questo problema. Ogni tanto i miei pazienti producono creazioni artisticamente belle che potrebbero benissimo figurare in moderne esposizioni d'arte, ma io le considero sempre senza valore, e ritengo indispensabile fare ciò, altrimenti i miei pazienti potrebbero immaginarsi di essere artisti e ciò infirmerebbe il buon effetto dell'esercizio. Non si tratta di arte e non si deve trattare di ciò, ma di qualcosa di più e di diverso dalla pura arte, cioè di un'azione vitale sul paziente stesso. Il significato della vita individuale, che dal punto di vista sociale è trascurabile, ha qui il più alto valore, e perciò il paziente si sforza di dare una forma sia pure goffa ed infantile all'inesprimibile che è in lui. Ma perché io incoraggio i miei pazienti, giunti ad un certo stadio di sviluppo, ad esprimersi col pennello, colla matita o colla penna? Il mio scopo è qui lo stesso che per i sogni: si tratta di produrre uno stimolo. Nelle condizioni infantili, più sopra descritte, in cui si trova il paziente, egli resta in uno stato passivo; ma ora egli incomincia ad avere una parte attiva. Dapprima espone ciò che ha visto passivamente, ed in questa maniera compie un atto deliberato. In un secondo tempo egli non solo ne parla ma gli dà forma. Psicologicamente parlando, è cosa assai diversa avere una conversazione interessante col medico alcune volte alla settimana ed anche ottenere così dei risultati più o meno vaghi, di quanto non sia l'affannarsi per ore con pennelli e colori riluttanti, per produrre qualcosa che, considerato superficialmente, è assolutamente senza valore. Se la fantasia del paziente fosse realmente senza valore, lo sforzo di riprodurla sarebbe così penoso che ben difficilmente egli intraprenderebbe tale esercizio una seconda volta. Ma siccome essa gli sembra tutt'altro che insensata egli esprimendola ne aumenta l'effetto. Per di più, lo sforzo di dare una forma visibile all'immagine obbliga a studiarla in tutte le sue parti, di modo che la sua azione può svilupparsi completamente. La disciplina del disegnare apporta un elemento di realtà alla fantasia, conferendole così un maggior peso ed una maggior potenza direttiva. Realmente queste rozze pitture danno degli effetti, che, debbo ammetterlo, sono alquanto difficili da descrivere. Per esempio è sufficiente che il paziente abbia notato per una volta o due di essersi liberato da uno stato angoscioso, lavorando ad una pittura

simbolica, perché egli ricorra sempre, da allora in poi, a tale mezzo, ogni qualvolta si trovi in cattive condizioni psichiche. In tal modo si è ottenuto qualcosa di inapprezzabile, uno sviluppo del senso di indipendenza, un passo avanti verso la maturità psichica. Il paziente può, con questo metodo, mi si permetta l'espressione, rendersi creativamente indipendente. Egli non è più schiavo dei suoi sogni e della sapienza del suo medico, ma è in grado, dipingendola, di dar forma alla propria esperienza interiore; poiché le [p. 77] fantasie che egli dipinge hanno in loro un'energia che agisce su di lui. L'impulso, quindi, proviene dal suo Io stesso, ma non più nel senso errato di prima, quando egli confondeva il suo Io personale con il suo vero Io, ma in nuovo senso, in cui il suo Io gli appare come un oggetto realizzato dalle forze che agiscono in lui. Egli, nelle sue molteplici pitture, si sforza di realizzare nel modo più completo ciò che lavora in lui, per scoprire, alla fine, l'eterno sconosciuto o l'eterno straniero, che costituisce in noi la base più profonda della nostra anima. Non mi è possibile descrivere sino a qual punto queste scoperte modifichino le valutazioni ed i punti di vista del paziente, e quanto spostino il centro di gravità della sua personalità. E' come se la terra avesse ad un certo punto scoperto che il sole è il centro delle orbite dei pianeti e della sua stessa orbita. Ma non sapevamo ciò da lungo tempo? Credo effettivamente che lo abbiamo sempre saputo. Ma posso sapere intellettualmente qualcosa che l'altro che è in me è lungi dal conoscere, e quindi in realtà è come se non lo sapessi. La maggior parte dei miei pazienti conoscevano anch'essi le più profonde verità, ma non le vivevano. E perché non le vivevano? Appunto per la ragione che ci fa mettere l'Io personale al centro della nostra vita; questa ragione è la sopravvalutazione della coscienza. Per un giovane, che non è ancora del tutto formato, è di grande importanza foggiare il proprio Io cosciente nel modo migliore, cioè educare la volontà. A meno che egli non sia veramente un genio, non potrà mai credere in qualcosa di attivo in se stesso che non si identifichi colla sua volontà. Egli deve sentire se stesso come uomo di volontà, allora potrà con sicurezza svalutare qualunque altra cosa in lui o almeno considerarla soggetta alla sua volontà poiché senza questa illusione egli potrà difficilmente accettare l'adattamento sociale. Diversamente avviene per l'uomo che, raggiunta la seconda metà della vita, non ha più bisogno di educare la sua volontà cosciente, e che, per

comprendere il significato della sua vita individuale, deve fare l'esperienza del suo [p. 78] proprio essere interiore. L'utilità sociale non è più uno scopo per lui, quantunque non ne neghi i vantaggi. Egli sa che la sua attività creativa non ha nessuna importanza sociale, perciò la considera come mezzo per perfezionare il proprio sviluppo e beneficare in tal modo se stesso. Questa attività parimenti lo libera man mano da un morboso senso di dipendenza, e così egli acquista una fermezza interna ed una nuova fiducia in se stesso. Queste ultime conquiste servono successivamente a far progredire il paziente nelle manifestazioni della sua vita sociale. Poiché una persona interiormente sana e che ha fede in se stessa sarà più adatta ai suoi compiti sociali di un'altra che non sia in buoni rapporti con il proprio inconscio. Ho evitato a bella posta di sovracCarlcare di teorie i miei scritti, perciò molte cose dovranno forzatamente restare oscure ed inspiegate. Occorre però menzionare alcuni punti di vista teorici per poter rendere intelligibili le pitture fatte dai miei pazienti. Una caratteristica comune a tutti questi dipinti è un simbolismo primitivo, rilevabile tanto nel disegno quanto nel colore: i colori hanno di solito una vivezza barbarica, spesso anche sono presenti innegabili elementi arcaici. Queste particolarità indicano la natura delle energie creative che hanno prodotto tali dipinti; esse sono tendenze irrazionali e simboliche ed il loro carattere storico ed arcaico è facilmente paragonabile alle manifestazioni analoghe nei campi dell'archeologia e della storia delle religioni comparate. Possiamo quindi dedurre che queste pitture hanno origine principalmente in quel campo della vita psichica che ho chiamato l'incosciente collettivo, termine con cui voglio indicare un'attività psichica incosciente, presente in tutti gli esseri umani, la quale non solo dà origine oggi a pitture simboliche, ma che fu la sorgente di tutte le produzioni consimili nel passato. Tali pitture sgorgano da un bisogno naturale e lo soddisfano. E' come se, attraverso ad esse, si esprimesse quella parte della psiche che si ricollega alle epoche primitive; esprimendosi essa si riconcilia con la coscienza attuale, mitigando così i suoi effetti perturbatori su quest'ultima. Occorre aggiungere che la pura e semplice esecuzione dei [p. 79] dipinti non è del tutto sufficiente; è necessario che si trovi in essi un contenuto intellettuale ed emotivo, non solo, ma essi devono essere resi comprensibili, e anche moralmente assimilati. Dobbiamo assoggettarli ad un processo di integrazione sintetica. Quantunque io abbia così spesso seguito questa via con i miei pazienti, non sono mai riuscito a rendere il processo chiaro per una cerchia più ampia di persone, e ad elaborarlo in una forma

suscettibile di pubblicazione. Ciò è stato fatto finora solo in modo frammentario. La verità è che noi ci troviamo su un terreno assolutamente vergine, al quale si giunge con la maturazione dell'esperienza. Per varie ed importanti ragioni, vorrei evitare conclusioni troppo affrettate. Lavoriamo in una regione della vita psichica al di là della coscienza ed il nostro mezzo di osservarla è indiretto. Per ora non sappiamo quali profondità sconosciute si presentano al nostro sguardo. Come ho accennato sopra, ritengo si tratti di un processo di messa a punto; a questo sembra che mirino le pitture che i miei pazienti considerano decisive. E' un processo per cui ciò che chiamiamo l'Io sembra trasferirsi in una posizione periferica, e si forma un nuovo centro di equilibrio; questa trasformazione sembra agire per mezzo dell'affiorare del lato storico della psiche. Quale possa essere lo scopo di questo processo, resta in un primo tempo oscuro. Possiamo solo osservare i suoi effetti importanti sulla personalità cosciente. Per il fatto che il cambiamento dà un nuovo senso alla vita e rinforza le energie vitali, dobbiamo concludere che è inerente ad esso certa finalità. Si può forse chiamare ciò una nuova illusione? Ma che cos'è un'illusione? Esiste qualcosa per la psiche che noi possiamo chiamare «illusione»? Ciò che ci piace chiamare così, può essere per la psiche un importantissimo fattore vitale; qualcosa di così indispensabile come è l'ossigeno per l'organismo, un fatto psichico di primaria importanza. Presumibilmente la psiche non si preoccupa delle nostre categorie di realtà; per essa è vero tutto ciò che agisce. Colui che vuole scandagliare la psiche non deve confonderla con la coscienza, altrimenti egli nasconde alla propria [p. 80] vista quanto desidera conoscere. Al contrario, per riconoscere la psiche, egli anzi deve apprendere quanto essa differisca dalla coscienza. Nulla di più probabile che ciò che noi chiamiamo illusione sia realtà per la psiche; per tale motivo non possiamo pretendere di misurare la realtà psichica con la nostra realtà cosciente. Per il psicologo nulla v'è di più insensato del punto di vista del missionario che spiega ai «poveri pagani» l'illusorietà dei loro dèi. Ma sfortunatamente si procede sempre in maniera dogmatica; come se ciò che noi chiamiamo il vero non fosse ugualmente pieno di illusione. Nella vita psichica, come sempre nella nostra esperienza, tutte le cose che agiscono sono reali, e ciò è importante per noi, non il tentativo di dare ad essa un nome piuttosto che un altro. Per la psiche lo spirito, anche se viene chiamato sessualità, è sempre spirito.

Ripeto ancora che i vari termini tecnici ed i cambiamenti a loro apportati non devono intaccare l'essenza del processo descritto più sopra. La vita non può assolutamente essere misurata coi razionali concetti della coscienza. Perciò i miei pazienti si orientano verso l'esperienza simbolica, interpretazione più adeguata e più efficace di quanto non sia la spiegazione razionale.(1929).

V. Tipi psicologici

Il carattere è la forma individuale stabile dell'uomo. La forma può essere di natura sia fisica che psichica, perciò la caratterologia generale deve interessarsi del contenuto dell'uomo in entrambi i suoi aspetti, fisico e psichico. L'enigmatica unità dell'essere vivente porta con sé che i tratti fisici non sono semplicemente fisici e quelli psichici non sono semplicemente psichici, poiché la continuità della natura non conosce quelle distinzioni antitetiche che l'intelletto umano è costretto a porsi, per poter conoscere. La distinzione fra mente e corpo è una dicotomia artificiale, una discriminazione, che si basa indubbiamente molto più sulla peculiarità dell'intelletto umano che sulla natura delle cose. Infatti, è così intima la reciproca compenetrazione degli aspetti fisici e psichici, che non solo noi possiamo giungere alla costituzione psichica partendo da quella fisica, ma anche, partendo da peculiarità psichiche, dedurre le corrispondenti caratteristiche fisiche. E' vero che questo secondo processo è più difficile, ma non perché esista una maggiore influenza del corpo sulla psiche, ma perché nel prendere la psiche come punto di partenza noi ci muoviamo da qualche cosa di relativamente ignoto verso qualche cosa di noto; mentre nel caso opposto abbiamo il vantaggio di partire da qualche cosa che conosciamo, che è il corpo visibile. Nonostante tutta la psicologia che noi crediamo di possedere oggi, la psiche è ancora per noi infinitamente più oscura che la superficie visibile del corpo. La psiche è ancora per noi un territorio straniero quasi inesplorato, di cui abbiamo soltanto una conoscenza indiretta, che ci giunge attraverso funzioni della coscienza che sono soggette ad infinite possibilità di inganno. [p. 82] Stando così le cose, appare più sicuro per noi il procedere dal mondo esterno all'interno, dal noto all'ignoto, dal corpo alla psiche. Perciò tutti i tentativi di studio della caratterologia sono partiti dal mondo esteriore; l'astrologia nei tempi antichi si rivolgeva anche allo spazio stellare per determinare quelle linee del destino le cui origini sono contenute nell'uomo

stesso, come dice Seni a Wallenstein nel dramma di Schiller. Alla stessa classe appartengono la chiromanzia, la frenologia di Gall, lo studio della fisionomia di Lavater e più recentemente la grafologia, lo studio fisiologico dei tipi di Kretschmer e il metodo clexografico di Rorschach. Come possiamo vedere, ci sono parecchie vie che conducono dall'esterno all'interno, dal mondo fisico al mondo psichico, ed è necessario che la ricerca debba seguire questa direzione fino a che certi fatti psichici elementari siano stabiliti con sufficiente certezza, ma, una volta stabiliti questi, possiamo invertire il procedimento. Possiamo quindi porre il problema: quali sono i corrispondenti fisici di una data condizione psichica? Purtroppo non siamo ancora abbastanza progrediti in materia per poter rispondere anche vagamente a questa domanda. La prima condizione sta nel determinare i fatti principali della vita psichica, e questo finora non è stato compiuto. Solo adesso si comincia a compilare un inventario della psiche ed i risultati sono stati più o meno soddisfacenti. Inoltre, stabilire il fatto che certe persone presentano questi o quei dati caratteristici, è cosa senza significato se non ci permette di trarne conclusioni circa i corrispondenti caratteri psichici. Noi siamo soddisfatti soltanto quando riusciamo a determinare quali attributi psichici accompagnino una data costituzione fisica. Il corpo non ci dice nulla senza la psiche, ma questa può dirci qualcosa anche senza il corpo. Quando cerchiamo di dedurre il corrispondente psichico di una caratteristica fisica, noi procediamo, come abbiamo stabilito più sopra, dal noto all'ignoto. Devo purtroppo insistere su questo punto, poiché la psicologia è la più giovane di tutte le scienze, e perciò è quella che più soffre di opinioni preconcette. Il fatto che la [p. 83] psicologia è stata scoperta solo recentemente dimostra abbastanza chiaramente che ci è voluto tutto questo tempo per riuscire a fare una chiara distinzione tra noi stessi ed il contenuto della nostra psiche. Fino a che ciò non era stato fatto era impossibile studiare obiettivamente la psiche. La psicologia come scienza naturale è attualmente la nostra più recente acquisizione; prima d'ora è stata altrettanto fantastica ed arbitraria quanto nel Medioevo la scienza naturale. Si credeva di poter dettar legge in materia di psicologia e tale pregiudizio ci perseguita tuttora. I fatti della vita psichica sono per noi ciò che vi è di più immediato ed in apparenza ciò che crediamo conoscere meglio. Infatti essi ci sono più che familiari, ci annoiano con il loro monotono ed incessante ripetersi, in breve ci fanno persino soffrire e noi facciamo tutto ciò che è in nostro potere per evitare di

pensarci. La psiche è essa stessa quanto c'è di immediato in noi, e noi stessi siamo la psiche, siamo per conseguenza portati a presumere di conoscerla nel modo più profondo, duraturo ed indubitabile. Da ciò consegue che ciascuno di noi oltre ad avere sulla psicologia la sua opinione personale, è per di più convinto di saperne più di qualunque altro. Gli psichiatri dovendo lottare con le famiglie ed i tutori dei pazienti la cui «comprensione» è proverbiale, sono forse i primi, come gruppo professionale, ad accorgersi di tale cieco pregiudizio che spinge ogni uomo a considerare se stesso come la più alta autorità in materia psicologica. Ma ciò naturalmente non impedisce anche allo psichiatra di cadere nel medesimo errore, fino al punto che uno di essi diceva: «Ci sono soltanto due persone normali in questa città, il Prof' B' ed io». Nella psicologia attuale dobbiamo ammettere, in primo luogo, che la cosa che ci è più vicina è proprio quella che conosciamo meno, sebbene ci sembri di conoscerla più di tutte; ed in secondo luogo che qualsiasi altro ci capisce probabilmente di più di quello che noi non capiamo noi stessi. Ad ogni modo come punto di partenza questo sarebbe un utilissimo principio euristico. La psicologia è stata scoperta tanto tardi, appunto perché la psiche ci è tanto vicina; e poiché siamo nello stadio iniziale di questa scienza, [p. 84] manchiamo di quei concetti e di quelle definizioni che occorrono per afferrare i fatti della vita psichica. Se ci mancano i concetti, non ci mancano però i fatti, al contrario, siamo circondati e quasi sepolti da essi. E' un contrasto sorprendente con ciò che avviene nelle altre scienze, dove i fatti debbono prima essere dissepolti. Qui il raggruppamento naturale dei fatti, come quello degli elementi chimici e delle specie botaniche, ci permette la formazione di concetti intuitivi e posteriori. Ma trattandosi della psiche la cosa è del tutto differente; in questo caso un punto di vista empirico e descrittivo ci lascia alla mercé del flusso incessante dei nostri fenomeni psichici subbiettivi, e qualunque concetto generale emerga da questo groviglio, in genere non è altro che un sintomo. Giacché noi stessi siamo psiche, ci è quasi impossibile dare libero corso agli eventi della psiche senza confonderci praticamente con questi, ed essere così defraudati della nostra capacità di riconoscere i caratteri distintivi e di fare paragoni. Questa è una delle difficoltà. L'altra consiste nel fatto che quanto più ci allontaniamo dai fenomeni concreti e procediamo verso l'inconcretezza della psiche, tanto più diventa impossibile avere mezzi adatti di misura. Diventa

difficile persino stabilire i fatti. Se per esempio voglio mettere in evidenza la irrealtà di qualche avvenimento, dico di averlo semplicemente pensato, ma poi aggiungo dubbioso: «non avrei mai neppure pensato ciò se questo e questo non fosse accaduto; e per di più io non penso mai cose simili». Osservazioni di questo genere sono comunissime e mostrano come sono nebulosi i fenomeni psichici, o piuttosto come appaiono vaghi, dal punto di vista subbiettivo: in realtà però essi sono altrettanto obbiettivi e definiti quanto qualsiasi fatto storico. Io ho realmente pensato così o così, quali che siano le condizioni che hanno determinato questo pensiero. Molte persone debbono lottare con se stesse per ammettere una verità così ovvia, e molto spesso ciò costa loro un grande sforzo morale. Queste sono le difficoltà in cui ci imbattiamo quando dalle nostre conoscenze del mondo esterno vogliamo trarre deduzioni sulla entità della psiche. Ora il mio campo di lavoro più [p. 85] limitato non è la constatazione clinica di caratteristiche esteriori ma lo studio e la classificazione dei dati psichici svelatici dall'indagine psicologica. Come primo risultato di questo lavoro si mettono in evidenza fenomeni psichici che ci permettono di formulare certe teorie sulla struttura della psiche stessa. Dall'applicazione empirica di queste teorie trae origine infine una tipologia psicologica. La fenomenologia clinica è sintomatologia. Il passo dalla sintomatologia alla fenomenologia psichica è paragonabile al passo da una patologia puramente sintomatica alla patologia cellulare e del metabolismo. Questo equivale a dire che la fenomenologia psichica porta a vedere quei processi psichici interiori che producono sintomi clinici. Come sappiamo tale evoluzione è il risultato dell'applicazione di metodi analitici. Noi abbiamo oggi una conoscenza sostanziale di quei processi psichici che producono sintomi nevrotici, per cui il nostro studio descrittivo della psiche è abbastanza avanzato da renderci capaci di definire determinati complessi. Qualunque altra cosa possa avvenire negli oscuri recessi della psiche, - e ci sono notoriamente molte opinioni a questo proposito - una cosa è certa: che soprattutto hanno una grande importanza i cosidetti complessi a tonalità affettiva che hanno una certa autonomia. L'espressione «complesso autonomo» spesso incontra una opposizione che a mio parere è ingiustificata. Il contenuto attivo dell'incosciente si comporta in una maniera che non saprei esprimere meglio che con la parola «autonomo». Il termine è usato per indicare il fatto che i complessi offrono una resistenza alle intenzioni coscienti e vanno e vengono a loro piacere. Secondo le nostre migliori

conoscenze su di essi, i complessi sono contenuti psichici che sono fuori dal controllo della nostra mente cosciente. Essi sono rigettati dal cosciente e conducono un'esistenza separata nell'incosciente, restando sempre pronti ad ostacolare o rinforzare le intenzioni coscienti. Uno studio ulteriore dei complessi conduce inevitabilmente al problema della loro origine ed anche su questo vi è un gran numero di teorie. Indipendentemente dalle teorie, l'esperienza ci mostra che i complessi contengono [p. 86] sempre qualcosa come un conflitto, essi sono o la causa o la conseguenza di tale conflitto. Ad ogni modo, le caratteristiche del conflitto, cioè choc, esaltazione, angoscia, lotta interiore, sono proprie dei complessi. Sono «punti vulnerabili», le betes noires francesi, gli skeletons in the cupboard inglesi, che noi non amiamo ricordare e che ancora meno desideriamo siano ricordati da altri, ma che molto spesso rivengono alla mente spontaneamente e nella maniera più sgradevole. Essi contengono sempre ricordi, desideri, timori, obblighi, bisogni o punti di vista, di cui non ci possiamo liberare, e che per questa ragione interferiscono costantemente con la nostra vita cosciente, in maniera spiacevole ed abitualmente nociva. I complessi evidentemente rappresentano una specie di inferiorità nel senso più largo della espressione, ma occorre dichiarare subito che avere dei complessi non significa necessariamente avere uno stato di inferiorità, bensì sta ad attestare che esiste qualcosa di disarmonico, di inassimilato e di discordante, che forse è un ostacolo ma che è anche uno stimolo per compiere un più grande sforzo ed in questo può rappresentare una nuova possibilità di successo. I complessi sotto questo aspetto sono proprio i punti focali e nodali della vita psichica, che non debbono mancare, altrimenti l'attività psichica cadrebbe in un fatale letargo. Ma essi indicano i problemi non risolti dell'individuo, il punto dove egli ha subito una disfatta, dove vi è qualcosa che egli non può sistemare o superare; indicano, senza dubbio, il punto debole, nel vero senso della parola. Questo carattere del complesso è importante e getta luce sulla sua origine. Esso senza dubbio sorge dal cozzo tra il bisogno di adattamento e l'incapacità costituzionale dell'individuo ad accettarlo. Così, per noi, il complesso diviene un importante sintomo per diagnosticare una disposizione individuale. L'esperienza ci presenta dapprima un numero infinitamente vario di complessi, ma se si fanno accurati confronti, risultano relativamente poche forme tipiche fondamentali, originate dalle prime esperienze dell'infanzia. Così deve essere necessariamente, poiché già dall'infanzia si rivela [p. 87] la

disposizione individuale, dato che essa è un elemento innato e non acquisito durante il corso della vita. Il complesso per i genitori non è altro se non la prima manifestazione del cozzo tra la realtà e l'impossibilità dell'individuo ad adattarsi ad essa. Il primo complesso deve quindi essere quello per i genitori, poiché questi sono la prima realtà con la quale il fanciullo si trova in conflitto. L'esistenza di un complesso per i genitori ci dice quindi ben poco della particolare costituzione dell'individuo. L'esperienza ci insegna presto che ciò che vi è d'importante non è rappresentato dal complesso per i genitori, ma dal modo particolare in cui questo complesso agisce sull'individuo. Qui si presentano le più diverse varietà, che si possono solo in minima parte far risalire alle particolari caratteristiche dell'influenza familiare, per la semplice ragione che vi sono fanciulli che, pur avendo subito lo stesso influsso da parte dei genitori, reagiscono nei modi più diversi. Ho approfondito a bella posta queste diversità, poiché mi sembra che proprio esse ci rivelino le disposizioni individuali nei loro tratti caratteristici. Perché in una famiglia di nevropatici, un figlio reagisce con l'isteria, un altro con una nevrosi da repressione, il terzo con una psicosi, ed il quarto, apparentemente forse, non reagisce affatto? Questo problema della «scelta della nevrosi», problema che anche Freud si è posto, priva il complesso dei genitori, come tale, di ogni contenuto eziologico, poiché ciò che importa sono le reazioni dell'individuo e le sue particolari disposizioni. Benché i tentativi di Freud di risolvere questo problema mi lascino insoddisfatto, tuttavia mi trovo io stesso nell'incapacità di giungere ad una soluzione. Invero, considero cosa assai prematura il porsi ora il problema della scelta della nevrosi. Poiché, prima di affrontare tale arduo argomento, dobbiamo avere acquisito un numero molto maggiore di cognizioni sul modo di reagire dell'individuo. La domanda che ci dobbiamo fare è: «come si reagisce ad un ostacolo?» Per esempio: noi ci troviamo sulla sponda di un ruscello che non ha ponti e che è troppo largo per essere [p. 88] attraversato con un passo. Dobbiamo quindi saltare. A tale scopo abbiamo a nostra disposizione un complicato sistema funzionale, vale a dire il sistema psicomotorio completamente sviluppato e pronto ad essere utilizzato. Ma, prima che ciò avvenga, accade qualcosa in noi di puramente psichico, cioè noi decidiamo ciò che dobbiamo fare; e qui entrano in gioco quei fattori individuali decisivi che in genere raramente o mai il soggetto riconosce come elementi caratteristici, poiché il

soggetto non vede se stesso, o si vede a malapena all'ultimo momento. Come il sistema psicomotorio si mette automaticamente a nostra disposizione quando vogliamo saltare, così, per decidere che cosa dobbiamo fare, abbiamo un apposito apparato psichico, che anche esso agisce automaticamente e quindi inconsciamente. Le opinioni sono quanto mai confuse quando si tratta di stabilire in che consiste tale sistema, di certo non v'è che questo: ogni individuo ha una sua determinata maniera di prendere le decisioni e di affrontare le difficoltà. C'è chi affermerà di aver saltato il ruscello per puro divertimento, chi invece sosterrà d'averlo fatto perché non v'erano altre possibilità; un terzo dirà che davanti agli ostacoli egli si sente spronato a superarli, un quarto pretenderà di non aver saltato poiché aborre gli inutili sforzi, ed un quinto perché non aveva un'urgente necessità di attraversare il ruscello. Ho scelto intenzionalmente questo esempio banale, per dimostrare quanto possano sembrare irrilevanti i motivi che spingono gli uomini a compiere o no una determinata azione; essi sembrano persino così futili, che siamo portati a metterli da parte e a sostituirli con la nostra propria interpretazione. Invece sono proprio queste diversità - anche apparentemente secondarie - che ci mostrano il sistema psichico di adattamento di ciascun individuo. Osserviamo dunque il primo caso, di colui che ha attraversato il ruscello per puro divertimento; in altre situazioni della sua vita troveremo che, molto probabilmente, la maggior parte delle sue azioni o delle sue rinunce dipendono dal maggiore o minore piacere che esse gli procurano. Il secondo, [p. 89] quello che ha saltato perché non poteva fare altrimenti, sarà, attraverso il corso della sua vita, sempre preoccupato e svogliato, e prenderà sempre le sue decisioni in mancanza di meglio. In ognuno di questi casi v'è un sistema psichico particolare, atto a provocare determinate decisioni. E' chiaro che questi atteggiamenti interiori sono numerosissimi; le loro varietà sono inesauribili quanto quelle dei cristalli, che pure appartengono indubbiamente a questo o a quel sistema. Ma come i cristalli appartengono a pochi sistemi fondamentali così queste caratteristiche interiori presentano dei tratti fondamentali, che ci permettono di raggrupparle in determinate categorie. Fin dai tempi più remoti lo spirito umano ha cercato di classificare i vari tipi e di portar ordine in tal modo nel caos della vita individuale. Il primo tentativo che ci sia noto in tal campo è quello compiuto dagli antichi astrologi orientali nella cosidetta Trigonia dei quattro elementi, aria, acqua, terra,

fuoco. Nell'oroscopo la trigonia dell'aria consiste nei tre segni zodiacali ad essa appartenenti, cioè: Acquario, Gemelli e Libra; quella del fuoco, nei segni dell'Ariete, del Leone, del Sagittario, ecc'. Secondo quest'antica suddivisione, chi è nato in una di queste trigonie condivide nella sua natura gli elementi che esse rappresentano e che influiscono sul suo carattere e sul suo destino. A questo antichissimo schema cosmologico dei tipi è affine quell'altro schema fisiologico dell'antichità che suddivideva i vari tipi in quattro temperamenti umorali, cosicché quei tipi che prima venivano rappresentati dai simboli dei segni zodiacali furono in seguito dagli antichi medici indicati in termini fisiologici; e precisamente si distinsero tipi flemmatici, sanguigni, collerici e melanconici, termini corrispondenti ai presupposti quattro umori del corpo. Come ben si sa, questa teoria si mantenne valida fino al Settecento. Quanto poi alla teoria astrologica, essa si è conservata intatta a dispetto dell'illuminismo, ed oggi è più in voga che mai. Questo sguardo storico retrospettivo ci tranquillizza circa i nostri tentativi di creare una nuova tipologia e ci [p. 90] dimostra che tali tentativi non sono né nuovi, né inauditi, anche se la coscienza scientifica moderna ci impedisce di usare gli antichi procedimenti intuitivi. Dobbiamo trovare una risposta a questi problemi e una risposta che soddisfi le esigenze della scienza. Qui sorge la difficoltà principale del problema della tipologia, che consiste nella questione delle unità di misura e dei criteri fondamentali. Il criterio astrologico era semplice, era un criterio obbiettivo dato dalle costellazioni zodiacali al momento della nascita. Come i segni zodiacali ed i pianeti possano influire sul temperamento dell'individuo è una questione che risale alle nebbie dei primordi e alla quale non si può rispondere. Il vecchio criterio dei quattro temperamenti si basava sull'aspetto e sul comportamento dell'individuo, proprio come si fa oggi nella tipologia fisiologica. Ma quale deve essere in sostanza il criterio di una tipologia psicologica? Ricordiamoci gli esempi precedenti dei quattro diversi individui che dovevano attraversare il ruscello. Come e su quale punto di vista dobbiamo basarci per classificare i loro moventi abituali? L'uno agisce per piacere, l'altro agisce perché se non facesse così sarebbe peggio, l'altro ancora, non agisce perché si è riservato un'altra via di uscita. Il numero delle possibilità ci appare infinito ed inutile agli scopi della classificazione. Non so come altri risolveranno questa questione; potrò dirvi soltanto come mi sono accostato a tale argomento, e debbo accettare il rimprovero che mi vien fatto di aver risolto il problema

esclusivamente secondo i miei pregiudizi personali; obbiezione tanto giusta che non ho mai saputo come difendermene. Posso solo consolarmi col pensiero di Cristoforo Colombo che, basandosi su presupposti soggettivi, su un'ipotesi sbagliata, e seguendo una via abbandonata dai navigatori moderni, ciò non di meno scoprì l'America. Qualunque cosa guardiamo e comunque noi possiamo osservarla, la vediamo sempre con i nostri occhi. Perciò la scienza non è mai opera di un solo uomo, ma di parecchi. Ognuno apporta il suo contributo, e solo in questo senso posso osare di descrivere il mio modo di vedere le cose. La mia professione mi ha costretto a rendermi conto [p. 91] delle caratteristiche degli individui, e sono stato portato a stabilire e a mettere in evidenza certe verità anche dalla particolare circostanza di aver dovuto, nel corso della mia vita, trattare innumerevoli coppie di sposi, aiutandoli a comprendersi a vicenda. Quante volte ho dovuto dire: «Vedete, vostra moglie ha una natura molto attiva, e non si può pretendere che l'accudire ai lavori domestici basti a riempirle la vita». Con ciò si comincia a definire un tipo, si stabilisce un dato di fatto statistico. Vi sono nature attive e nature passive. Ma tale elastica verità non poteva soddisfarmi. Le mie ulteriori ricerche mi portarono a dire che vi sono nature riflessive e nature irriflessive, poiché m'ero accorto che i cosidetti tipi passivi in realtà non erano tanto passivi, quanto inclini alla meditazione. Essi riflettono a lungo sulle situazioni che loro si presentano e poi agiscono, e siccome fanno ciò abitualmente, perdono quelle opportunità per cui è necessario agire immediatamente senza riflettere, e così vengono considerati come individui passivi. Gli irriflessivi mi sembrano invece persone che si buttano a capofitto in una situazione senza pensarci prima, per accorgersi soltanto dopo di essere andati a finire in una palude. Perciò si possono definire come irriflessivi, espressione più appropriata, a parer mio, che «attivi», poiché la riflessività degli altri è indubbiamente un'attività altrettanto importante, è un agire ragionevole, in confronto agli improvvisi impulsi di una persona che vuole agire ad ogni costo. Ma presto mi accorsi che l'esitazione degli uni non era sempre dovuta alla riflessività, come il rapido agire degli altri non era dovuto a spensieratezza. L'esitazione degli uni poggia sovente su un abituale senso di paura, o per lo meno su una tendenza a sottrarsi ad un compito che sembra gravoso, e l'attività degli altri dipende da una predominante fiducia in se stessi, nei confronti dell'oggetto che si deve affrontare. Queste osservazioni mi condussero a formulare la seguente classificazione dei vari tipi.

V'è un'intera categoria di uomini che, al momento di reagire ad una determinata circostanza, si ritrae; qualcosa in essi dice «no» e solo in un secondo tempo comincia la [p. 92] fase di reazione; v'è un'altra categoria, invece, che in situazioni analoghe reagisce immediatamente, sicura del suo modo di procedere. I primi si troverebbero dunque in rapporti negativi con l'oggetto, i secondi invece in rapporti positivi. Come è noto, la prima categoria è quella degli introvertiti, la seconda quella degli extravertiti. Ma con questi due termini poco si è ottenuto, così come poco ottenne il bourgeois gentilhomme di Molière quando scoperse ch'egli abitualmente parlava in prosa. Questi tipi hanno senso e valore solo quando si conoscono tutte le altre caratteristiche che li distinguono. Non si può essere introvertiti, senza esserlo ad ogni riguardo: «introvertito» è colui nel quale tutti gli avvenimenti psichici si svolgono secondo le caratteristiche dell'introversione. Se così non fosse, l'affermare che un individuo è extravertito sarebbe cosa altrettanto insignificante quanto l'affermare che la sua statura e di m 1,75, o che i suoi capelli sono castani, o che egli è un brachicefalo. Queste affermazioni non contengono evidentemente niente di più del dato di fatto che esse attestano. Invece, l'espressione «extravertito» ha pretese molto maggiori. Essa vuol dire che, quando un individuo è extravertito, tanto il suo cosciente quanto il suo incosciente debbono avere qualità definite che si rivelano nel suo comportamento, nei suoi rapporti con gli altri uomini; persino il corso della sua vita mostra le particolari caratteristiche del suo tipo. L'introversione e l'extraversione, quali caratteri tipici, rappresentano una base essenziale per l'intero processo psichico, in quanto stabiliscono il modo di reagire abituale e non solo determinano il modo di comportarsi, ma anche la natura delle esperienze soggettive. Oltre a ciò esse mettono in luce le compensazioni prodotte dall'incosciente. Una volta determinate le reazioni abituali, possiamo quasi essere certi di avere colto nel segno, poiché esse non solo regolano il comportamento esterno, ma creano le esperienze specifiche; cioè a determinati modi di comportamento corrispondono determinati risultati, e dalla interpretazione soggettiva di essi derivano le varie esperienze, che a [p. 93] loro volta influiscono sul comportamento e determinano così il destino di un individuo, secondo il proverbio faber est suae quisque fortunae. Per quanto non vi sia dubbio che, trattando il tema delle reazioni abituali, abbiamo toccato l'argomento centrale, sorge però una delicata questione:

siamo riusciti o no a caratterizzare tali reazioni? A questo proposito si possono avere, in buona fede, diverse opinioni, anche se si ha una profonda conoscenza in questo campo di studi. Nel mio libro sui tipi psicologici (1) ho raccolto tutti gli argomenti atti a sostenere la mia concezione, mettendo però bene in chiaro che non pretendo affatto che essa sia la sola teoria sui tipi psicologici vera e possibile. Essa si basa semplicemente sul contrasto tra introversione ed extraversione, ma le distinzioni, purtroppo, più sono semplici e più sono sospette. Esse troppo facilmente ci deludono, poiché nascondono le vere complicazioni. Parlo per esperienza, poiché circa venti anni fa pubblicai la prima formulazione dei miei principi e mi accorsi poi, con rammarico, d'aver errato. V'era nel mio calcolo qualcosa che non tornava. Avevo fatto il tentativo di spiegare troppe cose con metodi troppo semplici, e ciò accade spesso, nell'entusiasmo delle prime scoperte. Ciò che allora più mi colpì, fu appunto il fatto innegabile che tra i vari tipi di introvertiti vi sono enormi differenze, e altrettante tra gli extravertiti; differenze così grandi, che cominciai a dubitare di aver visto giustamente. Per poter dissipare questo dubbio mi sono occorsi ben dieci anni di lavoro e di confronti. Il problema di queste grandi differenze esistenti in uno stesso tipo mi metteva di fronte a difficoltà impreviste. L'osservare e il riconoscere tali differenze era relativamente facile, ma la vera difficoltà, allora come ora, stava nei criteri differenziali, nella loro giusta definizione. Allora compresi per la prima volta chiaramente quanto sia giovane la psicologia. Essa non è altro che un caos di opinioni arbitrarie. Pur non volendo essere irriverente, non posso [p. 94] fare a meno di confrontare la mentalità del professore di psicologia con la mentalità della donna, dei cinesi e dei negri australiani. La nostra psicologia deve riguardare la vita, altrimenti restiamo fermi al Medioevo. Mi accorsi che nessun criterio stabile si poteva dedurre dal caos della psicologia contemporanea. Tali criteri non potevano scendere dal cielo, ma dall'inestimabile lavoro preparatorio di molti uomini, il cui nome non potrà essere taciuto dalla storia della psicologia. I limiti della presente conferenza non mi concedono di menzionare tutte le singole osservazioni che mi hanno condotto ai criteri atti a stabilire le summenzionate differenze di certe funzioni psichiche. Posso constatare che, in genere, la differenza, per quanto finora mi risulta, consiste essenzialmente in ciò: un introvertito non solo si ritrae ed esita innanzi ad un oggetto, ma fa

ciò in una maniera del tutto particolare, e per di più egli non agisce come ogni introvertito, ma in modo del tutto speciale. Come il leone abbatte la sua preda non con la coda come il coccodrillo, ma con le zampe anteriori, in cui risiede la sua forza specifica così le nostre reazioni abituali sono normalmente caratterizzate dall'applicazione delle nostre più sicure ed efficienti funzioni, cioè della nostra forza. Tuttavia occasionalmente noi reagiamo in modo tale da rivelare le nostre debolezze specifiche. Siccome scegliamo prevalentemente date situazioni e ne scartiamo altre, siamo portati a fare un tipo di esperienze specifiche per noi, ma diverse da quelle degli altri. Un uomo intelligente si adatta al mondo per mezzo della sua intelligenza, e non col sistema di un pugilatore di ultima categoria, per quanto talvolta egli possa aver usato, in momenti di collera, i suoi pugni. Nella lotta per l'esistenza e per l'adattamento alla vita ognuno adopera istintivamente la sua funzione più sviluppata, che perciò diventa il criterio delle sue reazioni abituali. II problema è ora questo: come si possono riunire tutte queste funzioni in concetti generali in modo che esse si distinguano dai fatti puramente contingenti? Nel campo della vita sociale una suddivisione di tal sorta è stata fatta da tempo, ma in modo rudimentale, e come risultato [p. 95] noi abbiamo i tipi dei contadini, degli operai, degli artisti, dei dotti, dei guerrieri ecc', in breve la lista delle varie professioni. Ma questo genere di tipologia non ha nulla a che vedere con la psicologia, poiché, come un noto studioso ha detto una volta malignamente, vi sono anche tra gli uomini dotti individui che appartengono alla categoria dei facchini, «facchini intellettuali». Ciò che noi intendiamo è assai più sottile, poiché non basta parlare di intelligenza; tale concetto è troppo comune e troppo vago, poiché intelligenti possono essere quasi tutti coloro che raggiungono in modo rapido ed efficace lo scopo prefisso. L'intelligenza, come la stupidità, non è una funzione, ma una modalità, il termine non ci descrive mai che cosa sia in essenza una funzione, ma bensì come essa agisca. Altrettanto si può asserire per i criteri estetici e morali. Noi dobbiamo poter determinare qual'è l'elemento che agisce principalmente nelle reazioni abituali. Dobbiamo ricorrere a qualcosa che, a prima vista, assomiglia molto alla vecchia psicologia delle varie facoltà individuali del secolo Xviii; ma in verità noi torniamo a concetti di dominio pubblico, accessibili e comprensibili ad ognuno. Quando, per esempio, io parlo di «pensare», nessun filosofo capirà che cosa io intenda con questa espressione, ma l'uomo comune invece non la riterrà affatto incomprensibile, poiché tutti adoperano tale termine, abitualmente, dandogli sempre press'a

poco lo stesso significato. E' vero però che egli sarebbe non poco imbarazzato, se all'improvviso gli si chiedesse una definizione esatta del pensiero. Altrettanto dicasi per i termini «memoria» o «sentimento». E' cosa estremamente ardua definire scientificamente questi concetti psicologici, mentre è assai facile comprenderli. Il linguaggio è soprattutto un insieme di immagini fondate sull'esperienza, e perciò i concetti troppo astratti non vi trovano facilmente posto e facilmente periscono per non aver avuto sufficiente contatto con la realtà. Ma il «pensare» ed il «sentire» sono verità che s'impongono talmente, che ogni lingua non primitiva le definisce con termini assolutamente inequivocabili. Possiamo essere certi che questi termini corrispondono a fatti psichici ben definiti, [p. 96] comunque la scienza li consideri. Ognuno sa, per esempio che cosa sia la «coscienza», eppure la scienza non lo sa ancora, benché nessuno dubiti che il concetto di «coscienza» corrisponda a una particolare condizione psichica. Così io formai i miei concetti sulle funzioni della psiche traendoli semplicemente dalle nozioni espresse dal linguaggio comune, e li usai come criteri miei per giudicare le differenze tra persone appartenenti allo stesso tipo psicologico. Usai, per esempio, il «pensare» come è comunemente inteso, poiché mi accorsi che alcune persone pensano più di altre e danno maggior valore al pensiero quando prendono decisioni importanti. Esse si servono del pensiero anche per comprendere il mondo e per adattarcisi, e qualunque cosa accada loro è sempre soggetta a riflessione, o almeno a qualche principio precedentemente pensato ed accettato. Altre persone, invece, trascurano spesso il pensare, in favore di fattori emotivi, cioè in favore del sentimento. Esse seguono continuamente una «politica» dettata dal sentimento, e solo circostanze eccezionali possono indurle a riflettere. Queste persone stanno in forte contrasto con le prime, contrasto che diviene ancor più evidente quando sono unite le une alle altre in società commerciale o in matrimonio. Però sia gli introvertiti sia gli extravertiti possono dar la preferenza al pensiero, ma se ne serviranno sempre nella maniera corrispondente al loro tipo psicologico. La predominanza dell'una o dell'altra di queste funzioni non è sufficiente a chiarire tutte le eventuali differenze che possono essere notate. A quei tipi che io definisco come «riflessivi» e «affettivi» appartengono individui che hanno tra loro qualcosa di comune, il che non posso definire altrimenti se non con la parola «razionalità». Nessuno potrà contestare che il pensiero sia essenzialmente razionale, ma quando si tratta del sentimento sorgono

obbiezioni che non posso respingere facilmente; anzi dichiaro che il problema del sentimento ha rappresentato per me una non lieve difficoltà, intorno alla quale mi sono molto affaticato. Per non appesantire troppo questo saggio con le molte opinioni espresse in proposito, mi limiterò ad esporre in [p. 97] breve le conclusioni a cui sono giunto. La maggior difficoltà consiste nel fatto che alla parola «sentimento» si possono attribuire i significati più diversi. Innanzi tutto dovremmo distinguere nettamente in questa parola il concetto di sentimento da quello di sensazione, intesa come funzione sensoria. In secondo luogo dobbiamo comprendere bene che il sentire rammarico è qualcosa di ben differente dal sentire che il tempo cambierà, o che il prezzo dell'alluminio dovrà aumentare. Perciò dunque ho proposto di adoperare nel primo caso il termine sentimento e di eliminarlo invece dalla terminologia psicologica negli altri due casi, sostituendolo con la parola sensazione quando ci si riferisce all'esperienza sensoriale, e colla parola intuizione quando invece ci riferiamo a percezioni che non si possono attribuire ad esperienze sensoriali coscienti. Ho perciò definito la sensazione come una percezione dovuta alla funzione sensoriale cosciente, e l'intuizione come una percezione per mezzo dell'incosciente. Naturalmente sull'esattezza di queste definizioni si possono fare discussioni senza fine; perché in ultima analisi è questione di termini, come per esempio si può discutere se un determinato animale si chiami ciuco o somaro, mentre in sostanza quanto ci interessa è il contenuto di ciò che cerchiamo di definire. La psicologia è un campo di studio inesplorato e non possiede ancora una sua propria terminologia. Sappiamo bene che la temperatura si può misurare secondo il sistema di Réaumur, di Celsius, o di Fahrenheit; bisogna soltanto indicare quale sistema usiamo. Come è evidente, io considero il sentimento come una funzione a sé e la distinguo dalla sensazione e dall'intuizione. Colui che confonde queste ultime col sentimento sensu strictiori non può certo riconoscere la razionalità del sentimento. Chi invece le separa da esso, riconoscerà il fatto che i valori affettivi e i giudizi affettivi, in poche parole i nostri sentimenti, non sono soltanto ragionevoli ma anche logici, conseguenti, discriminativi, proprio come il pensiero. Una simile affermazione può sembrare strana all'individuo che appartiene al tipo pensante, e ciò si comprende, poiché in una persona che ha una funzione pensante [p. 98] differenziata la funzione del sentimento è sempre meno sviluppata, è più primitiva, e perciò viene alterata da altre funzioni che non sono razionali, logiche e discriminative e precisamente dalla

sensazione e dall'intuizione. Queste due ultime funzioni, per la loro natura stessa, sono opposte alla funzione razionale. Quando pensiamo è sempre per giungere ad un giudizio o ad una conclusione, quando proviamo un sentimento è per dar valore a qualcosa, mentre la sensazione e l'intuizione sono funzioni del tutto percettive: esse ci rendono consci solo di ciò che accade, ma né l'interpretano, né lo giudicano. Esse non compiono nessun processo selettivo, ricettano soltanto ciò che accade, ma ciò che è o accade è essenzialmente non-razionale, perché non esiste alcun metodo logico col quale si possa dimostrare che ci sono tanti pianeti o tante specie di animali a sangue caldo. L'irrazionalità è un'imperfezione del pensiero e del sentimento, e la razionalità è un'imperfezione della sensazione e dell'intuizione. Vi sono molte persone le cui reazioni abituali sono irrazionali, fondate cioè o sulla sensazione o sull'intuizione, ma mai su entrambe al tempo stesso, infatti la sensazione è rispetto all'intuizione in posizione antagonistica, tanto quanto il pensiero rispetto al sentimento. Quando voglio accertarmi con i miei occhi e colle mie orecchie di ciò che accade intorno a me, non posso al tempo stesso dedicarmi ai miei sogni e alle mie fantasie, né a ciò che si nasconde alla mia vista abituale; a queste cose si dedica l'intuitivo per poter creare il campo adatto allo sviluppo del suo incosciente. E' quindi evidente che colui che appartiene al tipo sensitivo si trova agli antipodi dell'intuitivo. Purtroppo, per mancanza di tempo, non posso qui descrivere le interessanti varietà prodotte dall'atteggiamento extravertito o introvertito dei soggetti appartenenti al tipo irrazionale. Desidero invece dire ancora una parola circa le regolarità degli effetti prodotti su di una funzione quando si dà la preferenza ad un'altra. Si sa che l'uomo non può fare tutto in una volta, né essere completo. Egli spesso sviluppa soltanto particolari qualità e ne trascura altre; non raggiunge mai la completezza. Ma che accade di [p. 99] quelle funzioni che egli non usa quotidianamente in modo cosciente, e che non sviluppa con l'esercizio? Esse rimangono in uno stato più o meno primitivo ed infantile, spesso soltanto semicosciente o del tutto incosciente; e costituiscono quindi, per ogni tipo, quelle specifiche inferiorità, che sono parte integrante di un carattere. La preferenza esclusiva per il pensiero è sempre accompagnata da un'inferiorità del sentimento e altrettanto per la sensazione e l'intuizione: la differenziazione dell'una causa il danno dell'altra. Se una funzione è differenziata o no, lo si riconosce facilmente dalla sua forza, dalla sua intensità, stabilità, ed adattabilità. Ma l'inferiorità di una

funzione non è così facilmente riconoscibile e descrivibile; un criterio essenziale, a tale scopo, è il nostro non bastare a noi stessi, e la conseguente dipendenza da persone e da circostanze; per di più, ciò ci predispone ad una sensibilità lunatica, all'irresponsabilità, alla suggestionabilità e all'incertezza. Siamo sempre in posizione di svantaggio, se usiamo la funzione inferiore, poiché non sappiamo guidarla, ed anzi siamo le sue vittime. Poiché mi debbo accontentare di tracciare un semplice abbozzo delle idee fondamentali di una teoria psicologica dei tipi, non posso purtroppo fare una descrizione particolareggiata delle caratteristiche dei singoli tipi, secondo questa teoria. Il risultato del mio lavoro su questo argomento consiste per ora nella descrizione di due attitudini generali, l'extraversione e l'introversione, e di quattro tipi che corrispondono alle funzioni del «pensiero», del «sentimento», della «sensazione», e dell'«intuizione». Ciascuna di queste funzioni varia secondo l'attitudine generale (introversione ed extraversione) producendo così otto varianti. Mi è stato chiesto, con tono di rimprovero, perché io parlo soltanto di quattro funzioni e non di un numero minore o maggiore. Che esse siano esattamente quattro è un dato del tutto empirico. Ma che con quattro si sia raggiunta una visione abbastanza completa possono dimostrarlo le seguenti considerazioni. La sensazione capta gli avvenimenti che hanno luogo intorno a noi, il pensiero ci permette di comprendere il loro significato, il sentimento ci rivela il loro valore e l'intuizione infine ci indica l'origine e lo scopo delle possibilità nascoste negli avvenimenti. In tal modo, il nostro orientamento nel presente può essere perfetto come l'indicazione geografica di un luogo secondo la latitudine e la longitudine. Le quattro funzioni sono come i quattro punti cardinali, e sono altrettanto arbitrarie e altrettanto indispensabili. Nulla ci impedisce di spostare i punti cardinali di parecchi gradi a piacer nostro da una parte o dall'altra, e di chiamarli con altri nomi. Si tratta soltanto di una questione di convenzione e di comprensibilità. Ma una cosa debbo riconoscere, che in nessun caso farei più a meno di questa bussola nelle mie esplorazioni psicologiche, e non per l'ovvia e troppo umana ragione che ciascuno si innamora delle proprie idee, ma per il fatto obbiettivo che essa offre un sistema di paragone e di orientamento che rende possibile una psicologia critica, che per troppo tempo ci è mancata.(1928).

NOTE: (1) Psycologische Typen, Rascher Verlag, Zurich.

VI. La struttura dell'anima

L'anima, specchio del mondo e dell'uomo, presenta una tale molteplicità che la si può considerare e giudicare da infinite parti. Ci succede, nei riguardi della psiche, quello che ci succede nei riguardi del mondo: una sistematica del mondo è al di là della portata umana, e perciò non abbiamo che regole da artigiani e aspetti di interessi. Ognuno si ritaglia dal mondo il suo proprio settore, ed istituisce per il suo mondo privato il suo sistema privato, sovente con pareti impermeabili, cosicché dopo qualche tempo gli sembra di aver compreso il senso e la struttura del mondo. Ma ciò che è finito non comprenderà mai ciò che è infinito. Sebbene il mondo, quale appare alla psiche, sia solo una parte del mondo, a qualcuno esso potrebbe tuttavia sembrare, appunto perché parte, più comprensibile che il mondo intero. Chi così pensasse non si renderebbe conto che l'anima è l'unica immediata apparenza del mondo, ed è quindi la condizione indispensabile di una esperienza del mondo. Le sole cose del mondo direttamente accessibili all'esperienza sono i contenuti della coscienza. Non già che io voglia ridurre il mondo ad una rappresentazione del mondo; io voglio rilevare con ciò qualcosa di simile a quello che direi affermando che la vita è una funzione dell'atomo di carbonio. Questa analogia mostra la limitatezza degli occhiali professionali di cui sono schiavo non appena voglio dare una qualche spiegazione del mondo o anche soltanto di una sua parte. Il mio è naturalmente un punto di vista psicologico, e più precisamente il punto di vista del psicologo pratico, il cui compito è di orientarsi nel caotico groviglio dei più [p. 102] complicati stati psichici. Differente dal mio deve essere necessariamente il punto di vista di quel psicologo che può studiare sperimentalmente con tutta calma, nella quiete del suo laboratorio, un processo psichico isolato. La differenza è press'a poco come quella fra il chirurgo e l'istologo. E poi io non sono un metafisico che abbia da pronunciarsi sopra l'esistenza in sé e per sé delle cose, sul loro carattere assoluto o meno, e su simili problemi. I miei oggetti sono situati entro i limiti della sperimentabilità.

Mi è anzitutto necessario comprendere condizioni complesse e poterne parlare. Devo definire cose complicate in maniera afferrabile, e poter distinguere gruppi di fatti psichici. Queste distinzioni non possono essere arbitrarie, perché io debbo raggiungere un'intesa col mio oggetto, cioè col mio paziente. Quindi sono costretto ad usare schemi semplici, che da un lato riproducano soddisfacentemente i fatti empirici, e dell'altro si ricolleghino a quanto è universalmente noto e trovino perciò comprensione. Orbene, quando noi ci disponiamo a raggruppare i contenuti della coscienza, cominciamo, secondo una regola tradizionale, colla massima: Nihil est in intellectu, quod antea non fuerit in sensu. Ciò che è cosciente sembra fluire in noi come percezione dei sensi. Noi vediamo, ascoltiamo, palpiamo e odoriamo il mondo, e così siamo coscienti del mondo. La percezione sensoriale ci dice che qualcosa è. Ma non ci dice che cosa è. Questo non ce lo dice il processo percettivo ma il processo appercettivo, che è una funzione assai complessa. Non che la percezione sensoriale sia cosa semplice, ma la sua complessità è meno psichica che fisiologica. La complessità dell'appercezione invece è psichica. Possiamo scoprire in essa la collaborazione di differenti processi psichici. Ammettiamo di udire un rumore la cui natura ci sembra ignota. Dopo qualche tempo ci diventa chiaro che il singolare rumore deve essere dovuto a bolle d'aria che salgono nei tubi di conduttura del termosifone. Noi abbiamo in tal modo riconosciuto il rumore. Questo riconoscimento origina da un processo che è detto pensiero. Il pensiero ci dice che cosa è qualche cosa. Poc'anzi ho chiamato «singolare» quel rumore. Quando io definisco qualcosa come «singolare» intendo con ciò un particolare tono affettivo. Il tono affettivo implica una valutazione. Il riconoscere può essere essenzialmente considerato come un confronto ed una distinzione coll'aiuto del ricordo: se io per esempio vedo un fuoco, lo stimolo luminoso produce in me la rappresentazione del fuoco. Siccome poi nella mia memoria sono già pronte innumerevoli immagini mnemoniche del fuoco, queste entrano in relazione coll'immagine del fuoco testè ricevuta, e per mezzo di confronti e distinzioni fra e da queste immagini mnemoniche ha origine il riconoscimento, cioè la constatazione definitiva della natura dell'immagine or ora percepita. Questo processo è definito, nel linguaggio usuale, pensiero. Altra cosa è il processo di valutazione. Il fuoco che io vedo suscita reazioni emotive di natura gradevole o sgradevole, e parimenti le immagini

mnemoniche evocate portano con sé fenomeni emotivi concomitanti, chiamati toni affettivi. In questa maniera un oggetto ci appare gradevole, desiderabile, bello, oppure brutto, cattivo, riprovevole, ecc'. Il linguaggio usuale definisce questo processo sentimento. L'intuizione non è né una sensazione, né un pensiero né un sentimento, benché il linguaggio qui dimostri un potere di distinzione considerevolmente minore. Si può cioè esclamare: «Oh! vedo già che tutta la casa brucia»; oppure: «E' sicuro, come due e due fan quattro, che se questo punto piglia fuoco capita una disgrazia»; oppure ancora: «Sento che questo fuoco può produrre una catastrofe». Secondo il temperamento individuale l'uno chiamerà la sua intuizione vedere, ne farà quindi una sensazione. L'altro la definirà pensare: «Basta pensarci per capire quali saranno le conseguenze», egli dirà. Il terzo, infine sotto l'impressione del suo stato emotivo, chiamerà l'intuizione un sentimento. L'intuizione è però, secondo la mia concezione (che non pretendo debba far testo), una funzione fondamentale della mente, cioè la percezione delle possibilità contenute in una situazione. Come ulteriori contenuti della coscienza si possono distinguere i processi volitivi ed i processi istintivi. Quelli sono definiti come impulsi dotati di una direzione, derivanti da processi appercettivi, la cui natura è affidata a un cosidetto libero arbitrio. Questi sono impulsi che sorgono dall'incosciente o direttamente dal corpo, col carattere della non libertà e dell'obbligatorietà. I processi appercettivi possono essere indirizzati o non indirizzati. Nel primo caso parliamo di attenzione, nel secondo caso di fantasticherie o sogni. Gli uni sono razionali, gli altri irrazionali. A questi ultimi appartiene, come settima categoria dei contenuti coscienti, il sogno. Esso somiglia sotto un certo aspetto alle fantasie coscienti, in quanto ha carattere irrazionale e non indirizzato. Ma se ne distingue perché, nelle sue cause, nelle sue vie e nei suoi intenti, riesce dapprima oscuro al nostro intelletto. Ma gli riconosco la dignità di categoria di contenuto di coscienza, perché è la più chiara e più importante risultante di processi psichici incoscienti che affiori nella coscienza. Queste sette classi dovrebbero esaurire, in maniera superficiale ma sufficiente per i nostri scopi, l'enumerazione dei contenuti della coscienza. Alcuni, come è noto, vorrebbero limitare la psiche alla coscienza, e identificarla con questa. Io non credo che in tal modo ci possiamo cavare di impaccio. Ammettendo che esistano cose che sono al di là della nostra percezione possiamo parlare anche di fatti psichici la cui esistenza non ci è direttamente accessibile. Chiunque conosca la psicologia dell'ipnotismo e del

sonnambulismo sa che una coscienza artificialmente o morbosamente alterata in tal maniera non contiene certe rappresentazioni, ma si comporta proprio come se le contenesse. Una persona affetta da sordità isterica soleva cantare. Il medico, senza farsene accorgere, si pose al piano, e accompagnò il verso successivo su di un altro tono: immediatamente la malata continuò a cantare nel nuovo tono. Un paziente aveva la singolarità di cadere in preda a convulsioni istero-epilettiche alla vista del fuoco. Aveva un campo visivo assai ristretto, una vera cecità periferica (quello che si chiama campo visivo «a [p. 105] tubo»). Ma se si teneva una luce nella zona cieca del suo campo visivo, avveniva l'accesso come se egli avesse visto il fuoco. Nella sintomatologia di questi stati ci sono innumerevoli casi di questo genere, dove con tutta la buona volontà non si può dir altro se non che c'è chi incoscientemente percepisce, pensa, sente, ricorda, decide ed agisce, in altre parole fa incoscientemente ciò che altri fa coscientemente. Questi processi hanno luogo benché la coscienza non li percepisca. A questi processi psichici incoscienti appartiene il non trascurabile lavoro di composizione che è a base del sogno. Il sonno è uno stato di coscienza considerevolmente limitata, nel quale tuttavia l'anima non cessa affatto di esistere e di operare. La coscienza se ne è semplicemente ritirata, ed è divenuta, per mancanza di oggetto, una relativa incoscienza. Ma la vita psichica evidentemente continua, ed analogamente ha luogo una vita psichica incosciente anche durante lo stato di veglia. Le prove di ciò non sono difficili da trovare. Questo speciale campo di esperienza è quello che Freud chiama la «psicopatologia della vita quotidiana». Le nostre intenzioni ed azioni coscienti vengono cioè sovente attraversate da processi incoscienti della cui esistenza noi stessi siamo alquanto sorpresi. Noi ci promettiamo, ci prescriviamo, facciamo cose incoscienti, che tradiscono proprio ciò che vorremmo tener nascosto o che neppure sappiamo. Lingua lapsa verum dicit, dice un vecchio proverbio. Sulla frequenza con cui succedono questi fenomeni si fonda l'esperimento di associazione a scopo diagnostico, che si applica sempre con vantaggio là dove qualcosa non può o non vuole essere detto. Ma gli esempi classici di attività psichica incosciente sono forniti dagli stati patologici. Possiamo dire che tutta la sintomatologia dell'isterismo, delle nevrosi coatte, delle fobie ed in gran parte anche della demenza precoce o schizofrenia, la più frequente fra le malattie mentali, poggia sulla attività psichica incosciente. E' quindi ben lecito parlare dell'esistenza di una psiche

incosciente. Certamente essa non è direttamente accessibile alla nostra osservazione [p. 106] - altrimenti non sarebbe incosciente - ma può soltanto venir dedotta. Ed in conclusione non possiamo dire altro se non che «è come se fosse così». Dell'anima fa parte anche l'incosciente. E' lecito, per analogia coi vari contenuti della coscienza, parlare anche di contenuti dell'incosciente? In tal modo noi dovremmo per così dire, postulare un'altra consapevolezza nell'incosciente. Non voglio qui addentrarmi in questa delicata questione, che ho già trattato sotto un altro aspetto, ma limitarmi al quesito se nell'incosciente possiamo distinguere qualche cosa oppure no. A questo quesito si può rispondere solo empiricamente, cioè col controquesito se esistano ragioni plausibili per tale distinzione oppure no. Per me non v'ha dubbio che tutte le attività che abitualmente hanno luogo nella coscienza possono svolgersi anche nell'incosciente. Ci sono molti esempi in cui un problema intellettuale rimasto insoluto nella veglia fu risolto nel sonno. Conosco un perito commerciale che tentò inutilmente per molti giorni di veder chiaro in una bancarotta fraudolenta. Aveva lavorato fino a mezzanotte senza trovare la soluzione. Poi andò a letto. Alle tre del mattino sua moglie lo udì alzarsi e andare nella sua stanza di lavoro. Lo seguì e lo vide al tavolino tutto occupato a prendere appunti. Dopo circa un quarto d'ora tornò a letto. Al mattino dopo non si ricordava più nulla. Si recò di nuovo al tavolino e scoperse, scritti di sua mano, una serie di appunti che chiarivano pienamente e definitivamente il difficile caso. Nella mia pratica da più di vent'anni ho da fare coi sogni. Ho visto innumerevoli volte che pensieri o sentimenti che non furono pensati o sentiti di giorno comparvero poi nel sogno ed in questa maniera raggiunsero indirettamente la coscienza. Il sogno come tale è certamente un contenuto della coscienza, altrimenti non potrebbe essere oggetto di immediata esperienza. Ma siccome mette in luce materiali che prima erano incoscienti, siamo ben costretti ad ammettere che questi contenuti, in qualche maniera, esistevano psichicamente anche prima in uno stato incosciente, ed apparvero solo in sogno nella coscienza ridotta, [p. 107] nel cosidetto «residuo di coscienza». Il sogno fa parte dei contenuti normali e dovrebbe essere considerato una risultante di processi incoscienti che affiora nella coscienza. Se in base all'esperienza siamo indotti ad ammettere che tutte le categorie di contenuti di coscienza possano in dati casi essere anche incoscienti ed agire sulla coscienza come processi incoscienti, perveniamo allora al quesito,

forse inatteso, se l'incosciente abbia anche sogni, in altre parole, se anche nel campo oscuro della psiche affiorino risultanti di processi ancor più profondi e, se possibile, ancor più incoscienti. Dovrei ben respingere questo paradossale quesito come troppo avventuroso, se effettivamente non esistessero ragioni che fanno rientrare una simile ipotesi nel campo della possibilità. Dobbiamo anzitutto tener presente di quale natura dovrebbe essere una prova che potesse dimostrarci che anche l'incosciente ha sogni. Per fornire la prova che i sogni possono costituire un contenuto della coscienza, dobbiamo semplicemente dimostrare che esistono contenuti i quali, per loro natura ed il loro senso, si contrappongono estranei ed incomparabili agli altri contenuti razionalmente spiegabili e comprensibili. Se ora vogliamo dimostrare che anche l'incosciente ha sogni, dobbiamo fare la stessa cosa anche coi suoi contenuti. Mi spiegherò meglio con un esempio pratico. Si tratta di un ufficiale di ventisette anni, il quale soffre di violente crisi dolorose alla regione cardiaca, di una sensazione di soffocamento come se avesse ficcata una palla in gola, e di dolori lancinanti al tallone sinistro. Non è rilevabile nulla di organico. Le crisi erano cominciate circa due mesi prima, ed il paziente, che ogni tanto non poteva più camminare, aveva ottenuto una licenza. Svariate cure non servirono a nulla. Un minuto interrogatorio sopra i precedenti della sua malattia non fornì alcun indizio, ed egli stesso non sapeva quale potesse esserne la causa. Faceva l'impressione di una natura fresca e alquanto leggera con una certa burbanza teatrale; uno di quei tipi che han l'aria di dire «non ci lasciamo mettere i piedi sul collo da nessuno». Siccome dall'anamnesi non risultava nulla, lo interrogai sui suoi sogni. Ed allora la causa venne subito fuori. Poco prima dell'inizio della sua nevrosi la ragazza di cui era innamorato lo aveva piantato per fidanzarsi con un altro. Raccontandomi questa storia cercava di farla passare per cosa di poco conto: «una stupida, - se quella non vuole ce ne son tante altre, -un tipo come me non si spaventa per questo». Era questa la maniera con cui cercava di mascherare la sua delusione ed il suo reale dolore. Ma in tal modo, essendo i suoi affetti venuti alla superficie, scomparvero i dolori al cuore e dopo alcune lacrime scomparve anche il globo in gola. Il «male al cuore» è un modo di dire poetico, divenuto qui realtà perché il suo orgoglio non gli permetteva di soffrire i suoi dolori come un male morale. Il senso di soffocamento in gola (il cosidetto «bolo isterico») deriva, come ognuno può sapere, da lacrime inghiottite. La sua coscienza si era semplicemente ritirata dai contenuti ad

essa penosi, sicché questi, lasciati a sé, poterono raggiungere la coscienza solo indirettamente come sintomi. Sono processi razionalmente ben comprensibili e quindi senz'altro chiari, che, se non ci fosse stato il suo orgoglio virile, avrebbero potuto svolgersi altrettanto bene nella coscienza. Ma non scomparvero i dolori al calcagno, evidentemente estranei al quadro ora abbozzato. Non c'è nessun rapporto fra il cuore e il calcagno, e neppur si usa esprimere il proprio dolore parlando del calcagno. Da un punto di vista razionale non si capisce assolutamente perché non bastassero gli altri due complessi sintomatici. Era più che sufficiente, anche teoricamente, che col tornare alla coscienza del dolore morale rimosso fosse comparsa una tristezza normale e con essa la guarigione. Non trovando nella coscienza del paziente alcuno spunto relativo al calcagno, ritornai al metodo precedente, cioè ai sogni. Orbene, il paziente aveva avuto un sogno in cui era stato morso da un serpente al calcagno, restando immediatamente paralizzato. Questo sogno è evidentemente la spiegazione del sintomo del calcagno. Il calcagno gli duole perché un serpente lo ha punto. E' questo un contenuto estraneo, di cui la coscienza razionale non sa che farsi. Avevamo potuto capire subito perché il cuore gli doleva, [p. 109] ma che anche il calcagno dovesse dolergli era cosa che superava l'aspettazione razionale. Il paziente era disorientato di fronte a questo fatto. Qui avremmo dunque un contenuto che affiora estraneo nella zona incosciente e proviene da un altro strato più profondo e non più indagabile razionalmente. L'analogia più prossima a questo sogno è evidentemente la sua stessa nevrosi. La ragazza respingendolo lo aveva ferito in modo da paralizzarlo e farlo ammalare. Dall'ulteriore analisi del sogno risultò un altro elemento della storia, che divenne chiaro al paziente soltanto adesso: egli era stato il beniamino di una madre alquanto isterica. Essa lo aveva troppo compassionato, ammirato, coccolato, facendo di lui una femminuccia, e per questa ragione egli non era mai riuscito bene a scuola. Più tardi ebbe improvvisamente uno slancio virile ed entrò nell'esercito, dove colla sua burbanza poté nascondere l'intima mollezza. Anche la madre lo aveva in certo qual modo paralizzato. Si tratta evidentemente del medesimo serpente antico che era stato il particolare amico di Eva. «Tu calpesterai la testa del serpente, ed egli ti pungerà nel calcagno», è detto nella Genesi, e ciò ricorda un assai più antico inno egiziano che si soleva leggere o cantare, per guarirlo, a chi era stato

morso da un serpente: La vecchiaia del Dio gli mosse la bocca, Gli gettò la saliva a terra E ciò che egli sputò cadde sul suolo. Iside di sua mano lo impastò Insieme alla terra che v'era commista; Ne fece un venerabile verme E gli diede forma di lancia. Non lo avvolse vivo attorno al suo viso, Ma lo gettò arrotolato sulla strada Sulla quale il gran Dio camminava A suo piacimento per i suoi due paesi. Splendido uscì fuori il venerabile Iddio, Gli dèi che servivano Faraone lo accompagnavano, Ed egli passeggiò come tutti i giorni. Allor lo punse il venerabile verme. Le sue mascelle scricchiolarono, [p. 110] Tutte le sue membra tremarono E il veleno gli si sparse per le carni come il Nilo si spande pei campi. La cultura biblica cosciente del paziente era deplorevolmente scarsa. Probabilmente una volta aveva udito, senza pensarci, la storia del serpente che morde il tallone, e poi l'aveva dimenticata. Ma qualcosa di profondamente incosciente in lui l'aveva udita e non dimenticata, per rievocarla quando si era presentata l'occasione opportuna; era un frammento d'incosciente che evidentemente amava esprimersi in forma mitologica, perché questo modo di esprimersi corrispondeva alla sua natura. Ma a quale mentalità corrisponde la maniera di esprimersi simbolica o metaforica? Essa corrisponde ad una mentalità primitiva, la cui lingua non conosce astrattezze, ma soltanto analogie naturali e innaturali. Questa mentalità venerabilmente antica è tanto estranea a quella psiche che provoca i dolori cardiaci ed il bolo isterico quanto un brontosauro ad un cavallo da corsa. Il sogno del serpente ci svela un frammento di una attività psichica che non ha più nulla a che fare coll'individualità moderna del sognatore. Essa sembra svolgersi in uno strato più profondo, se così si può dire, e solo la sua risultante affiora in uno strato più alto, dove sono gli affetti rimossi, e nel quale è altrettanto estranea quanto un sogno di fronte alla coscienza. Quando dobbiamo adoperare una certa tecnica analitica per capire un sogno, ci occorre conoscere la mitologia, se vogliamo comprendere il senso di un frammento che germina da strati più profondi. Il motivo del serpente non è certo un'acquisizione individuale del sognatore, perché il sognar serpenti è cosa frequentissima anche fra gli abitanti delle grandi città, che forse non hanno mai visto un vero serpente. Ma si potrebbe obbiettare: il serpente nel sogno non è che una figura retorica che ha preso forma concreta: si dice infatti che certe donne sono false come serpenti, si parla del serpe della tentazione, e così via. Questa

obbiezione nel caso presente mi pare non regga, ma sarebbe ben [p. 111] difficile fornirne rigorosamente la prova, perché il serpente è effettivamente una usuale figura retorica. Una prova sicura può solo essere addotta se si riesce a scovare un caso in cui il simbolo mitologico non sia né una figura retorica né una criptomnesia, in cui cioè il sognatore non abbia comunque già letto, visto o udito il motivo del sogno, per poi dimenticarlo e rievocarlo daccapo incoscientemente. Questa prova mi pare essere di grande importanza, perché dimostrerebbe che l'incosciente razionalmente comprensibile, che consiste per così dire di materiali artificialmente incoscienti, è solo uno strato superficiale, e che sotto di questo vi è ancora un incosciente assoluto, che non ha nulla a che fare colla nostra personale esperienza, che dunque sarebbe un'attività psichica autonoma, opposta all'anima cosciente e perfino agli strati superiori dell'incosciente, non tocca e forse non toccabile - dall'esperienza personale, una specie di attività psichica superindividuale, un incosciente collettivo, come io l'ho chiamato, in contrapposto con un incosciente superficiale, relativo o personale. Prima di cercare questa prova, vorrei ancor fare per completezza alcune osservazioni integratrici sul sogno dei serpenti. Si direbbe che quegli ipotetici strati profondi dell'incosciente (dell'incosciente collettivo) abbiano tradotto le esperienze erotiche nel morso del serpente, elevandole così veramente a motivo mitologico. La ragione, o meglio, lo scopo di ciò è a prima vista oscuro. Ma se teniamo conto del principio che la sintomatologia di una malattia rappresenta in pari tempo un tentativo naturale di guarigione - i dolori al cuore per esempio sono un tentativo di sfogo emotivo - dobbiamo considerare anche il sintomo del calcagno come un tentativo di guarigione. Come mostra il sogno, mediante questo sintomo vengono elevate al grado di avvenimento mitico non solo la recente delusione amorosa, ma tutte le altre delusioni, scolastiche o di altra natura, come se ciò giovasse in qualche maniera al paziente. A noi tutto ciò sembra ben poco credibile. Ma gli antichi medici-sacerdoti dell'Egitto, che cantavano il morso [p. 112] del serpente nell'inno del serpente di Iside, credevano a questa teoria, e non ci credevano soltanto loro, ma tutto il mondo antico e primitivo credeva e crede ancora all'incantesimo per analogia; poiché qui si tratta del fenomeno psicologico che sta a base dell'incantesimo per analogia. Non dobbiamo già credere che questa sia una vecchia superstizione da noi superata da tempo. Se leggete attentamente il testo della messa, vi imbatterete continuamente in quel celebre «sicut» che

inizia ogni volta un'analogia, per mezzo della quale deve essere operata una trasmutazione. Per citare un esempio assai efficace, vorrei ricordare la produzione del fuoco del sabato santo. Si sa che una volta il fuoco si otteneva battendo le pietre, e prima ancora forando il legno, il che era una prerogativa della Chiesa. Nella preghiera del prete si legge quindi: «Deus, qui per Filium tuum, angularem scilicet lapidem, charitatis tuae fidelibus ignem contulisti productum ex silice, nostris profuturum usibus, novum hunc ignem sanctifica» (Dio, che per mezzo di tuo Figlio, che è chiamato la pietra angolare, recasti ai fedeli il fuoco della tua Carltà, santifica questo nuovo fuoco sprizzato dalla selce per il nostro futuro giovamento). Mediante l'analogia di Cristo colla pietra angolare, la pietra focaia è in certo qual modo sublimata fino a identificarsi con Cristo stesso, che a sua volta accende un nuovo fuoco. Il razionalista può ridere di queste cose. Ma all'udirle c'è qualcosa di profondo che si agita in noi, e non solo in noi, ma in milioni di cristiani, anche se vogliamo chiamarlo soltanto bellezza. Ciò che in noi si agita sono quei lontani sfondi, quelle antichissime forme dello spirito umano che noi non abbiamo acquisite, ma ereditate da nebulosi tempi preistorici. Se dovesse esistere quest'anima superindividuale, tutto ciò che è tradotto nel suo immaginoso linguaggio perderebbe il suo carattere personale, e divenendo coscienti ci apparirebbe sub specie aeternitatis, non più come sofferenza mia ma come la sofferenza del mondo, non più come dolore personale che isola, ma come dolore senza asprezza, che unisce tutti noi uomini. Che ciò possa guarire è cosa di cui non occorre cercar le prove. Ma finora non ho ancora recato alcuna prova, tale da soddisfare ad ogni esigenza, che quest'attività psichica superindividuale esista. Vorrei farlo ancora sotto forma d'esempio. Si tratta di un malato di mente sulla trentina, affetto da una forma paranoide di demenza precoce. Si era ammalato poco dopo i vent'anni. Era sempre stato uno strano misto di intelligenza, stravaganza e fantasticheria. Era un modesto impiegato e faceva lo scritturale presso un consolato. Evidentemente, a compensazione della sua modestissima esistenza, si ammalò di delirio di grandezza e credette di essere il Redentore. Soffriva di parecchie allucinazioni e talora era assai agitato. Nei periodi tranquilli poteva passeggiare liberamente nel corridoio. Lo trovai qui una volta affacciato alla finestra mentre guardava il sole muovendo stranamente il capo. Mi prese subito per un braccio e disse di volermi mostrare una cosa: strizzando gli

occhi verso il sole, disse, avrei visto il pene del sole. Muovendo poi il capo in qua ed in là, avrei visto muoversi anche il pene del sole, e questa era l'origine del vento. Feci questa osservazione nel 1906. Nel corso dell'anno 1910, mentre mi occupavo di studi mitologici, mi capitò fra le mani un libro di Dieterich dedicato allo studio di una parte del cosidetto papiro magico di Parigi. Dieterich ritiene che il pezzo da lui studiato sia una liturgia del culto di Mitra. Esso consta di una serie di prescrizioni, invocazioni e visioni. Una di queste visioni è descritta letteralmente nella seguente maniera: «Similmente sarà visibile anche la cosidetta canna, l'origine del benefico vento. Tu vedrai infatti come una canna che pende dal disco del sole. E verso le regioni occidentali, come se fosse un infinito vento dell'oriente. Ma se la sorte tocca all'altro vento, verso le regioni orientali, vedrai in simil guisa che il volto si volge verso oriente». La parola greca 45aulos, qui usata per canna, indica un istrumento a fiato, e 45aulos 45pagus vuol dire, in Omero, «grosso fiume di sangue». Evidentemente il sole soffia la corrente del vento attraverso la canna. La visione del mio paziente risale al 1906, il testo greco fu edito nel 1910; si tratta quindi di fatti abbastanza lontani da escludere il sospetto tanto di una criptomnesia [p. 114] da parte del paziente quanto di una trasmissione di pensiero da parte mia. Non si può negare il palese parallelismo delle due visioni, ma si potrebbe sostenere trattarsi di una somiglianza puramente casuale. In questo caso non dovremmo attenderci né legami con analoghe rappresentazioni né un intimo senso della visione. Ma così non è, perché l'arte medioevale ha perfino raffigurato queste canne in certi quadri, come una specie di tubo che nell'Immacolata Concezione scende dal cielo per andar sotto le vesti di Maria. In esso vola giù lo Spirito Santo sotto forma di colomba per fecondare la Vergine. Nella rappresentazione più antica, come sappiamo dal miracolo della Pentecoste, lo Spirito Santo è un vento violento, il 45pnevma, - «il vento soffia dove vuole 45tò 45pnevma 45pnei 45hopou 45oelei». Animo descensus per orbem solis tribuitur: si dice dello spirito che discenda per il disco del sole; quest'idea è patrimonio comune di tutta la filosofia del tardo classicismo e del Medioevo. Non posso quindi scorgere in queste visioni nulla di accidentale, ma soltanto il ravvivarsi delle possibilità rappresentative presenti fin dall'antichità, che possono venir riscoperte dalle più svariate teste e nei più svariati tempi, e non son dunque rappresentazioni tramandate.

Sono entrato apposta nei particolari di questo caso per darvi un'idea concreta di quella più profonda attività psichica incosciente che ho chiamato incosciente collettivo. Riassumendo vorrei dunque osservare che dobbiamo distinguere nella psiche tre strati: 1) la coscienza, 2) l'incosciente personale, che consiste di tutti quei contenuti che sono divenuti incoscienti o perché hanno perduto la loro intensità e quindi sono caduti in dimenticanza, o perché la coscienza si è ritirata da loro (rimozione), e di quei contenuti, in parte percezioni sensoriali, che per la loro troppo scarsa intensità non hanno mai raggiunto la coscienza eppure sono penetrati in qualche maniera nella psiche; 3) l'incosciente collettivo, che è un patrimonio ereditario di possibilità rappresentative non individuale, ma comune a tutti gli uomini e forse a tutti gli animali, e costituisce la vera e propria base dell'anima individuale. C'è una perfetta analogia fra questo organismo psichico ed il corpo, che varia bensì individualmente, ma nei suoi caratteri essenziali è il corpo umano in generale, che tutti hanno, e che nel suo sviluppo e nella sua struttura possiede ancor vivi quegli elementi che lo collegano cogli invertebrati e perfino coi protozoi. Teoricamente dovrebbe addirittura esser possibile far sgusciar fuori dall'incosciente collettivo non solo la psicologia del verme, ma anche quella della cellula isolata. Siamo tutti convinti che sarebbe del tutto impossibile capire l'organismo vivente senza i suoi rapporti colle condizioni ambientali. Ci sono innumerevoli fatti biologici che possono essere spiegati solo come reazioni alle condizioni ambientali, come la cecità del proteo delle grotte, i caratteri dei parassiti intestinali, la particolare anatomia dei vertebrati riadattati alla vita acquatica. Orbene, la stessa cosa vale per l'anima. Anche la sua caratteristica organizzazione deve essere intimissimamente collegata alle condizioni ambientali. Dalla coscienza possiamo attenderci reazioni e fenomeni di adattamento all'ambiente attuale, perché la coscienza è in certo qual modo quella parte dell'anima che è precipuamente limitata agli avvenimenti del momento; invece dall'incosciente collettivo, anima generale e senza tempo, possiamo attenderci reazioni a condizioni più generali e sempre presenti, di natura psicologica, fisiologica e fisica. L'incosciente collettivo - se possiamo permetterci un giudizio in proposito - sembra consistere di motivi e immagini mitologici, e perciò i miti dei popoli sono gli autentici esponenti dell'incosciente collettivo. Tutta la mitologia sarebbe una specie di proiezione dell'incosciente collettivo. Lo vediamo

chiarissimamente nel cielo stellato, le cui caotiche forme furono ordinate mediante proiezione di immagini. Così si spiegano le influenze stellari sostenute dagli astrologi; esse non sono altro che percezioni introspettive incoscienti dell'attività dell'incosciente collettivo. Come le immagini delle costellazioni furono proiettate nel cielo, così figure simili e differenti furono proiettate in leggende od in favole o su personaggi [p. 116] storici. Possiamo quindi studiare l'incosciente collettivo in due maniere, o nella mitologia o nell'analisi dell'individuo. Siccome non è facile rendere accessibile qui quest'ultimo materiale, debbo limitarmi alla mitologia. Questa è un campo talmente vasto che non possiamo metterne in rilievo che alcuni pochi tipi. E parimenti il numero delle condizioni ambientali è infinito, cosicché anche qui possiamo intrattenerci soltanto su alcuni tipi. Come il corpo vivente colle sue particolari proprietà è un sistema di funzioni di adattamento a condizioni ambientali, così anche l'anima deve presentare quegli organi e sistemi di funzioni che corrispondono a regolari eventi fisici. Non intendo parlare con ciò delle funzioni sensoriali legate ad un organo, ma di una categoria di fenomeni psichici paralleli a fenomeni fisici che regolarmente si succedono. Così, per esempio, il corso giornaliero del sole e l'alternarsi del giorno e della notte dovettero venir raffigurati nella psiche in forma di un'immagine impressavi fin dai tempi primordiali. Non possiamo ora dimostrare quest'immagine; ma ciò che troviamo in sua vece sono analogie più o meno fantastiche col processo fisico. Ogni mattina un semidio nasce dal mare e monta sul carro del sole. A occidente lo attende una grande madre, che alla sera lo inghiotte. Racchiuso nel ventre di un drago egli percorre il fondo del mare di mezzanotte. Dopo una terribile lotta col serpente della notte egli rinasce il mattino seguente. Questo conglomerato di miti contiene indubbiamente l'immagine del processo fisico, e in forma tanto chiara che molti ricercatori, come è noto, ammettono che i primitivi abbiano inventato simili miti per spiegare i processi fisici. E' almeno indubbio che la scienza della natura e la filosofia naturale sono nate da questo terreno. Ma io ritengo piuttosto improbabile che il primitivo inventi tali cose come una specie di teoria fisica o astronomica, esclusivamente per il bisogno di trovare una spiegazione. Ma ciò che possiamo senz'altro dire riguardo alle figure mitiche è che il processo fisico evidentemente entrò nella psiche e vi fu trattenuto sotto l'aspetto di questa [p. 117] fantastica deformazione, cosicché l'incosciente anche oggi riproduce immagini simili. Ci si può naturalmente domandare:

perché la psiche non registra il processo effettivo, ma soltanto la fantasia sul processo fisico? Se cercate di trasferirvi nell'anima del primitivo, comprenderete subito perché ciò avvenga. Il primitivo vive nel suo mondo con una tale participation mystique (come Lévy-Bruhl chiama questo fatto psicologico), che fra soggetto e oggetto non esiste affatto quella assoluta differenza che c'è nel nostro intelletto razionale. Ciò che avviene fuori di lui avviene anche in lui, e ciò che avviene in lui avviene anche fuori di lui. Ne ho osservato un bellissimo esempio durante un mio soggiorno in Africa Orientale presso gli Elgoini, stirpe primitiva che abita sul monte Elgon. Quando sorge il sole costoro si sputano nelle mani e le tengono poi rivolte verso il sole che sta spuntando all'orizzonte. Siccome la parola adhista significa in pari tempo Dio e sole, io domandai loro: «E' un Dio il sole?» Mi risposero ridendo, come se avessi detto una grande sciocchezza. Accennai al sole che era già alto sull'orizzonte e dissi ancora: «Quando il sole è qui sopra voi dite che non è Dio, ma quando è là a levante dite che è Dio». Seguì un silenzio imbarazzato, finché un vecchio capo prese la parola e disse: «Proprio così. E' vero, quando il sole è qui sopra non è Dio, ma quando sorge è Dio». Per la mente primitiva è indifferente quale delle due versioni sia la giusta. Il sorger del sole ed il suo senso di liberazione sono per lui lo stesso evento divino, così come la notte e la sua angoscia sono la medesima cosa. I suoi affetti gli importano naturalmente di più che la fisica, e perciò egli registra le sue fantasie affettive; così la notte significa per lui serpente e freddo alito di spiriti, il mattino invece la nascita di un bel Dio. Come ci sono teorie mitologiche che vogliono derivare tutto dal sole, così ci sono anche teorie lunari che vogliono fare la stessa cosa colla luna. Ciò proviene semplicemente dal fatto che vi sono realmente innumerevoli miti lunari, in moltissimi dei quali la luna è la moglie del sole. La luna è l'evento cangiante della notte. [p. 118] Coincide quindi coll'esperienza sessuale del primitivo, colla donna, che per lui è parimenti l'evento della notte. Ma la luna può anche essere il fratello spodestato del sole, perché di notte malvagi pensieri di potenza e di vendetta turbano il sonno. La luna è la disturbatrice del sonno, ed è anche il ricettacolo delle anime dei defunti, perché nei sogni notturni i morti ritornano e nell'insonnia ansiosa appaiono i fantasmi del passato. Così la luna significa anche follia (lunacy). Sono questi i fatti che vengono fissati nell'anima invece della cangiante immagine della luna. Non restano attaccate all'anima le immagini delle tempeste, dei tuoni, dei

lampi, della pioggia e delle nuvole, ma le fantasie emotive che esse suscitano. Una volta fui colpito da un terremoto e la mia prima immediata sensazione fu quella di trovarmi non sulla terraferma ma sul dorso di un gigantesco animale che si scuoteva. Questa immagine è quella che si imprime, non quella del fatto fisico. Le maledizioni degli uomini contro le tempeste devastatrici e la loro paura degli elementi scatenati dànno forma umana alla passione della natura, e l'elemento puramente fisico diventa un dio irato. Similmente alle condizioni ambientali fisiche anche le condizioni fisiologiche, gli impulsi ghiandolari, suscitano fantasie Carlche di affetti. La sessualità appare come un dio della fecondità, come un demonio femminile crudelmente voluttuoso, come il diavolo stesso con zampe di capro dionisiache e gesti sconci, o come un serpente terrificante che si avvolge attorno all'uomo. La fame divinizza gli alimenti, e alcuni Indiani del Messico dànno persino a questi dèi delle ferie annuali, astenendosi per un certo tempo dal mangiare gli alimenti usuali. Gli antichi Faraoni erano cantati come mangiatori di dèi. Osiride è il grano, il figlio della terra, e perciò l'ostia deve ancor sempre esser fatta di farina di grano, è un dio che viene mangiato, come Jacco, il misterioso dio dei misteri eleusini. Il toro di Mitra è la commestibile fecondità della terra. Le condizioni ambientali psicologiche lasciano naturalmente [p. 119] le medesime tracce mitiche. I pericoli, riguardino essi il corpo o l'anima, suscitano fantasie affettive, e ripetendosi in maniera tipica dànno luogo alla formazione di uguali archetipi, come io ho chiamato i motivi mitici. I draghi vivono nei corsi d'acqua, nei guadi o in altri passaggi pericolosi, i diavoli negli aridi deserti o in pericolosi crepacci fra le rocce, gli spiriti dei morti abitano nel sinistro folto delle foreste di bambù, le sirene traditrici ed i serpenti acquatici nelle profondità marine o nei gorghi delle acque. Potenti spiriti di antenati e potenti dèi vivono nell'uomo autorevole, sinistre forze di feticci risiedono nello straniero ed in chi è fuori dell'ordinario. La malattia e la morte non sono mai naturali, ma causate sempre da spiriti o stregoneria. Anche l'arma che ha ucciso è mana, cioè dotata di forza straordinaria. E che ne è, si chiederà, degli oggetti di più usuale e prossima e diretta esperienza, come l'uomo, la donna, il padre, la madre, il bambino? Questi fatti comunissimi ed eternamente ripetuti generano i più potenti archetipi, la cui continua attività è direttamente riconoscibile in ogni dove

anche nel nostro tempo razionalistico. Prendiamo ad esempio la dogmatica cristiana: la Trinità è formata dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, che è rappresentato dalla colomba, l'uccello di Astarte, e nei primi tempi del Cristianesimo veniva chiamato anche Sophia ed era di genere femminile. L'adorazione di Maria nella Chiesa più moderna ne è una palese sostituzione. Qui abbiamo l'archetipo familiare «in luogo celeste», come dice Platone, posto in trono come formulazione dell'estremo mistero. Cristo lo sposo, la Chiesa la sposa, il fonte battesimale l'uterus ecclesiae, come ancor sempre lo si chiama nel testo della benedictio fontis. All'acqua benedetta si aggiunge del sale: è una specie di acqua fecondatrice o acqua di mare. Nella suddetta benedizione del sabato santo si solennizza un sacro sponsale, immergendo tre volte una candela accesa, simbolo fallico, nel fonte battesimale, per fecondare l'acqua battesimale e partorire nuovamente il battezzando (quasimodogenitus). La personalità mana, il medico, è il Pontifex Maximus, il [p. 120] Papa, la Chiesa è la mater ecclesia, gli uomini sono i figli bisognosi di soccorso e di grazia. II deposito residuato dalle potentissime esperienze immaginose ed affettive di tutti gli antenati, riguardanti il padre, la madre, il bambino, l'uomo e la donna, la personalità magica, i pericoli del corpo e dell'anima, ha elevato questo gruppo di archetipi, riconoscendone inconsciamente le potenti forze psichiche, al grado di supremi principi formulatori e regolatori della vita religiosa e perfino politica. Io ho trovato che la comprensione intellettiva di queste cose non toglie nulla del loro valore, ed aiuta non solo a sentirne, ma a capirne l'enorme importanza. Questa poderosa proiezione permette al cattolico di vivere in palpabile realtà una parte notevole del suo incosciente collettivo. Egli non ha bisogno di cercare un'autorità, una superiorità, una rivelazione, un'associazione coll'eterno e l'infinito, ma le trova presenti ed a portata di mano: nel Santissimo di ogni altare abita il suo Dio. La ricerca è riserbata al protestante e all'ebreo, perché l'uno ha in certo qual modo distrutto il corpo terreno della divinità, e l'altro non lo ha mai trovato. Gli archetipi che per la cristianità cattolica sono divenuti realtà visibile e vivibile, per il protestante e l'ebreo sono nell'incosciente. Purtroppo non posso qui dilungarmi ad esporre la notevole differenza dell'atteggiamento del cosciente rispetto all'incosciente nella nostra civiltà. Vorrei solo mostrare che tale atteggiamento costituisce una questione controversa, ed è evidentemente uno dei massimi problemi dell'umanità.

Ciò è anche senz'altro comprensibile se ci si rende conto che l'incosciente, come complesso di tutti gli archetipi, è il deposito di tutte le esperienze umane fino ai più oscuri primordi, non un deposito morto né un desolato campo di ruderi, ma un sistema vivo e pronto a reagire, che per vie invisibili ed appunto per ciò attivissime regola la vita individuale. Non è soltanto un gigantesco pregiudizio storico, ma è in pari tempo la sorgente degli istinti, perché gli archetipi non sono altro che le forme [p. 121] di manifestazione degli istinti. Dalla sorgente vitale degli istinti fluisce tutto ciò che è creativo, cosicché l'incosciente non è solo limitatezza storica, ma genera in pari tempo l'impulso creatore, come la natura, che è enormemente conservatrice e nei suoi atti creatori neutralizza la propria limitatezza storica. Non c'è quindi da meravigliarsi che il modo di comportarsi di fronte a questa invisibile limitazione sia stato una questione scottante per gli uomini di tutti i tempi e di tutte le regioni. Se la coscienza non si fosse mai scissa dall'incosciente evento simbolizzato dalla caduta degli angeli e dalla disubbidienza dei primi genitori, e che eternamente si ripete - questo problema non sarebbe mai nato, come non sarebbe mai nata la questione dell'adattamento alle condizioni dell'ambiente. Per effetto dell'esistenza di una coscienza individuale diventano appunto coscienti le difficoltà non solo della vita esteriore ma anche della vita interiore. Come all'uomo primitivo l'ambiente esterno si presenta amico o nemico, così gli influssi dell'incosciente gli sembrano una forza a lui contrapposta, con la quale egli ha da fare i conti altrettanto quanto col suo mondo visibile. I suoi innumerevoli usi magici servono a questo scopo. Nei gradi più alti della civiltà la religione e la filosofia adempiono al medesimo ufficio, ed ogni qual volta uno di questi sistemi di adattamento comincia a dimostrarsi insufficiente nasce una generale inquietudine, e cominciano i tentativi per trovare nuove adatte forme di rapporto coll'incosciente. Queste cose sembrano molto lontane dal nostro illuminismo moderno. Quando parlo delle potenze degli sfondi psichici e dell'incosciente, confrontando la loro realtà col mondo visibile, incontro spesso un incredulo sorriso. Ma quanti sono gli uomini del mondo colto che rendono ancora omaggio alla teoria del mana e degli spiriti? In altre parole, quanti sono i milioni di adepti alla ChristianScience e di spiritisti? Non voglio accumulare queste domande. Vorrei soltanto che esse illustrassero il fatto che il problema dell'invisibile condizione dell'anima è ancor oggi più vivo che mai. L'incosciente collettivo è la poderosa massa ereditaria spirituale dello

sviluppo umano, che rinasce in ogni struttura cerebrale individuale. La coscienza invece è un fenomeno effimero, che serve agli adattamenti ed orientamenti momentanei; perciò la sua funzione può essere paragonata a quella dell'orientamento nello spazio. L'incosciente contiene la sorgente delle forze motrici spirituali e le forme o categorie che le regolano, cioè gli archetipi. Tutte le più forti idee e rappresentazioni dell'umanità risalgono ad archetipi. Specialmente chiaro è ciò nelle idee religiose. Ma neppure i concetti centrali della scienza, della filosofia e della morale fanno eccezione. Nella loro forma presente esse sono varianti, sorte per applicazione e adattamento coscienti, delle rappresentazioni originarie, poiché la funzione della coscienza non è soltanto quella di accogliere e riconoscere il mondo esterno attraverso la porta dei sensi, ma anche quella di tradurre il mondo interiore all'esterno sotto forma creativa.(1927).

VII. Anima e Terra

«Anima e terra»: l'argomento sa alquanto di poesia. Vien fatto di pensare, per riscontro, anche ad un legame fra l'anima e il cielo; e invero la dottrina animistica cinese distingue un'anima scen e un'anima gui, la prima pertinente al cielo e la seconda alla terra. Ma siccome noi occidentali non conosciamo nulla della sostanza dell'anima, e quindi non possiamo neppure sapere se nell'anima ci sia qualcosa di natura celeste e qualcos'altro di natura terrestre, così dobbiamo accontentarci di parlare di due differenti maniere di considerare il complicato fenomeno che chiamiamo anima, o di due suoi apparenti aspetti. Invece di trattare di una anima celeste, si può considerare l'anima come un ente creatore senza causa; e invece di postulare un'anima gui o terrestre, si può concepir l'anima come un ente derivato da cause e costituito da effetti. Nei riguardi del nostro argomento la seconda maniera sarebbe certo la più adatta; l'anima cioè sarebbe da intendere come un sistema di adattamento derivante dalle condizioni ambientali terrestri. Non occorre rilevare che questa maniera di considerare l'anima ha da essere causalisticamente unilaterale, se deve adempiere al suo ufficio, ma che in tal modo si comprende esattamente solo un lato dell'anima. L'altro lato del problema non può esser qui preso in considerazione, perché non pertinente al mio argomento. Non dovrebbe essere superfluo definire che cosa si deve intendere per «anima». C'è chi vorrebbe limitare l'anima esclusivamente alla coscienza. Ma se ci attenessimo a questa limitazione oggi non ce la caveremmo più. La psicopatologia moderna dispone di una quantità di osservazioni [p. 124] di attività psichiche che sono del tutto analoghe alle funzioni della coscienza eppure sono incoscienti. Si può percepire, pensare, sentire, ricordare, decidere ed agire incoscientemente. Tutto ciò che accade nella coscienza può, in date circostanze, avvenire anche incoscientemente. Per comprendere come ciò sia possibile, possiamo rappresentare le funzioni e i contenuti dell'anima come un paesaggio notturno su cui cade il fascio di luce di un proiettore. Ciò che in questa luce appare alla percezione è cosciente; ciò che giace al di fuori, al buio, è bensì incosciente, ma tuttavia vivo e operante. Se il fascio di luce si

sposta, i contenuti finora coscienti si sprofondano nell'incosciente, e nuovi contenuti entrano nel campo luminoso della coscienza. I contenuti scomparsi nel buio continuano ad agire, e si fanno notare indirettamente sintomaticamente, per lo più nella maniera descritta da Freud nella Psicopatologia della vita quotidiana. Possiamo dimostrare anche sperimentalmente le attitudini e le inibizioni incoscienti per mezzo dell'esperimento associativo. Se dunque teniamo anche conto delle esperienze della psicopatologia, l'anima ci appare come un esteso campo di cosidetti fenomeni psichici, che sono in parte coscienti, in parte incoscienti. La zona incosciente dell'anima non è tuttavia direttamente accessibile all'osservazione - altrimenti non sarebbe più incosciente - ma può essere soltanto arguita dagli effetti che i processi incoscienti esplicano sulla coscienza. E le nostre deduzioni non possono mai dirci altro se non che «è come se... » Qui debbo addentrarmi un po' di più nello studio della natura e della struttura dell'incosciente, perché altrimenti non mi sarebbe possibile trattare debitamente la questione della dipendenza dell'anima dalla terra. E' una questione che concerne gli inizi ed i fondamenti dell'anima, cose dunque che fin dai primissimi primordi giacciono sepolte nel buio, e non i fatti banali delle sensazioni e dell'adattamento cosciente all'ambiente. Questi ultimi appartengono alla psicologia della coscienza, ed io non vorrei - come ho detto -equiparare coscienza e anima. L'anima è un campo di esperienza assai più vasto e oscuro [p. 125] che non la ristretta zona luminosa della coscienza. Dell'anima fa parte anche l'incosciente. Nel saggio precedente ho cercato di dare un'idea generale della struttura dell'incosciente. I suoi contenuti, gli archetipi, sono come le fondamenta dell'anima cosciente nascoste in profondità, oppure - per usare un altro paragone - come le sue radici, che essa ha affondato non solo nella terra in senso stretto, ma nel mondo. Gli archetipi sono sistemi potenziali che sono insieme immagine ed emozione. Si ereditano colla struttura cerebrale, anzi, ne sono l'aspetto psichico. Formano da una parte un fortissimo pregiudizio istintivo, e sono d'altra parte il più efficace aiuto per gli adattamenti istintivi. Sono veramente la parte ctonica dell'anima -se ci è lecito usare quest'espressione - quella parte per cui essa è attaccata alla natura, o in cui almeno appare nel modo più comprensibile il suo legame colla terra e col mondo. In queste immagini primordiali ci si presenta chiarissimo l'effetto psichico della terra e delle sue leggi.

Questo problema, oltre che assai complesso, è anche assai sottile. Studiandolo dobbiamo tener conto di difficoltà inconsuete, soprattutto del fatto che l'archetipo e la sua funzione sono da intendere piuttosto come un frammento di psicologia irrazionale preistorica che come un sistema razionalmente pensabile. Mi si permetta il seguente paragone: noi abbiamo da descrivere un edificio i cui piani superiori furono costruiti nel secolo Xix; il pianterreno invece data dal secolo Xvi, e lo studio accurato dei muri maestri rivela che essi derivano dalla trasformazione di una torre del secolo Xi. Nella cantina scopriamo fondamenta romane e sotto la cantina una caverna interrata; sul fondo di questa si rinvengono nello strato superiore strumenti dell'età della pietra, e nello strato più profondo resti di fauna della medesima età. Tale sarebbe all'incirca l'immagine della nostra struttura psichica: noi abitiamo nel piano superiore e siamo coscienti solo in modo crepuscolare dell'antichità del piano inferiore. Di ciò che giace sotto terra non abbiamo alcuna coscienza. E' naturalmente un paragone che zoppica, come ogni [p. 126] paragone, perché nell'anima non ci sono relitti morti, ma tutto è vivo, e la coscienza - il nostro piano superiore - è sotto l'influenza continua delle fondamenta vive ed operanti. Ne è sorretta, come la casa. E come la casa si eleva libera sopra la terra, così la nostra coscienza sta sopra la terra nell'atmosfera ed il suo sguardo spazia liberamente attorno. Ma quanto più in basso scendiamo, tanto più ristretto diventa l'orizzonte, e tanto più ci immergiamo nell'oscurità delle cose più prossime, fino a toccare la nuda roccia e con essa quel tempo primordiale in cui i cacciatori difendevano la loro misera esistenza contro le forze elementari di una rozza natura. Quegli uomini erano ancora nel pieno possesso dei loro istinti animali, senza i quali l'esistenza sarebbe stata impossibile. Il libero dominio degli istinti non è compatibile con una coscienza forte ed estesa. La coscienza del primitivo è di natura sporadica come quella del bambino, ed il suo mondo è limitato come quello del bambino. Sì, nella nostra infanzia riecheggia secondo la legge della filogenesi, la preistoria della razza e dell'umanità. Filogeneticamente ed ontogeneticamente noi siamo cresciuti dalla buia strettezza della terra. Perciò i fattori più prossimi sono divenuti archetipi, e queste immagini primordiali sono quelle che ci influenzano più direttamente, e quindi appaiono anche come le più importanti. Dico «appaiono» perché ciò che psichicamente ci appare come la cosa più importante non è detto debba necessariamente anche essere o almeno rimaner la cosa più importante.

Quali sono gli archetipi relativamente più immediati? Questo quesito ci conduce direttamente al problema delle funzioni degli archetipi e quindi nel cuore della difficoltà. Da che punto infatti dobbiamo affrontare la questione per risolverla? Dal punto di vista del bambino e del primitivo o da quello della coscienza adulta e moderna? Come possiamo riconoscere un archetipo? E quando siamo costretti a rifugiarci in questa ipotesi? Io proporrei di indagare se ogni reazione psichica sproporzionata alla causa che l'ha provocata non sia in pari tempo dovuta anche ad un archetipo. Mi spiegherò con un esempio. Un bambino ha paura di sua madre. Se ci siamo accertati che questa paura non ha un motivo razionale (cattiva coscienza del bambino, violenze della madre e simili) e che comunque non è successo nulla al bambino che possa spiegare la sua paura, allora io proporrei di considerare la situazione sotto il punto di vista dell'archetipo. Di solito questi terrori compaiono di notte e sogliono mostrarsi anche in sogno. Il bimbo sogna la madre come una strega che perseguita i bambini. Il materiale cosciente di questi sogni è talora la favola di Hansel e Gretel. Si dice allora che non bisognava raccontare la favola al bambino, perché si crede che essa sia la causa della paura. Questa è certamente una razionalizzazione errata, ma contiene pure un nucleo di verità, perché la strega è ed è sempre stata l'espressione più adatta dell'angoscia infantile. Perciò ci sono questi racconti. L'angoscia notturna dei bambini è tipica, si ripete in ogni tempo ed in ogni luogo nella stessa maniera, ed è sempre stata espressa da favole tipiche. Ma le favole non sono altro che forme infantili delle leggende e superstizioni della «religione della notte» dei primitivi. Ciò che io chiamo «religione della notte» è la forma di religione magica che ha per senso e scopo il rapporto colle potenze oscure, coi diavoli, le streghe, i maghi e gli spiriti. Come la favola infantile è una ripetizione filogenetica dell'antica religione della notte, così l'angoscia infantile è una ripetizione della psicologia primitiva, un relitto filogenetico. Che questo relitto esplichi una certa vitalità non è affatto cosa anormale, perché una certa angoscia notturna non è un fenomeno necessariamente anormale neppur nell'adulto civile. Solo un'angoscia notturna eccessiva può esser considerata abnorme. La questione è questa: in quali circostanze l'angoscia diventa eccessiva? Può l'esagerazione dell'angoscia esser spiegata soltanto dall'archetipo della strega espresso dalla favola, o bisogna ricorrere ad altre spiegazioni? Possiamo far responsabile l'archetipo solo di una determinata e scarsa

misura normale di angoscia; un aumento [p. 128] notevole e avvertito come abnorme deve invece avere particolari motivi. Freud, come è noto, spiega questa angoscia come un urto della tendenza incestuosa del bambino contro il divieto dell'incesto. La spiega dunque dal punto di vista del bambino. Che i bambini possano avere tendenze «incestuose» nel senso lato usato da Freud è per me fuori dubbio. Ma è dubbio, secondo me, che sia senz'altro lecito attribuire queste tendenze alla psicologia sui generis del bambino. Esistono infatti eccellenti motivi per ammettere che la psiche del bambino sia ancora nella sfera della psiche dei genitori, specialmente di quella materna, tanto da poterne essere considerata come un'appendice funzionale. L'individualità psichica del fanciullo si sviluppa solo più tardi, quando si è costituita una sufficiente continuità della coscienza. Il fatto che il bambino parla dapprima in terza persona di se stesso è secondo me una prova evidente dell'impersonalità della sua psicologia. Io sono quindi incline piuttosto a ritenere che le eventuali tendenze incestuose del bambino siano dovute alla psicologia dei genitori, ed in genere che ogni nevrosi infantile sia da considerare in primo luogo nella luce della psicologia dei genitori. L'esagerazione dell'angoscia infantile è spesso dovuta al fatto che i genitori soffrono di «complessi», in quanto hanno rimosso e non considerano alcuni problemi vitali. Tutto ciò che cade nell'incosciente assume forme più o meno arcaiche. Se per esempio la madre rimuove un complesso penoso ed angoscioso, essa lo sente come uno spirito maligno, a skeleton in the cupboard, dicono gli inglesi. Questa formulazione mostra che il complesso ha già assunto una forma archetipica. Esso grava su di lei come un incubo tormentoso. Sia che racconti o no «favole notturne» (cioè angosciose) al suo bambino, essa comunque lo contagia, e colla propria psicologia ravviva immagini angosciose archetipiche nell'anima del bambino. Essa ha forse fantasie erotiche riguardanti un altro uomo. Il bimbo è il segno visibile del suo legame coniugale. La sua resistenza contro il legame si dirige inconsciamente contro il bambino, che deve esser negato. Nello stadio arcaico ciò corrisponde all'infanticidio. In tal modo la madre [p. 129] diventa la strega malvagia che si rimangia i propri bambini. Anche nel bambino, come nella madre, esistono possibilità arcaiche di rappresentazione pronte ad entrare in azione, e il movente che nel corso di tutta la storia umana ha generato una prima volta l'archetipo ed ha continuato poi sempre a ricrearlo, è quel medesimo che ancor oggi ravviva l'archetipo presente da tempo immemorabile.

Non a caso ho scelto questo esempio di manifestazione infantile dell'archetipo. L'immagine primordiale più immediata è ben la madre, poiché essa è sotto ogni rapporto l'esperienza più prossima e più forte, che ha luogo inoltre nell'età umana più malleabile. Nell'infanzia, essendo la coscienza ancor debolissimamente sviluppata, non si può parlare di esperienza individuale: la madre è, al contrario, un'esperienza archetipica; un'esperienza vissuta in uno stato più o meno crepuscolare, non come determinata personalità individuale, ma come «la madre», archetipo pieno di inaudite possibilità di significato. Nell'ulteriore corso della vita l'immagine primordiale impallidisce e viene sostituita da un'immagine cosciente, relativamente individuale, che si ammette esser la sola immagine materna che uno abbia. Nell'incosciente, invece, la madre continua ad essere una potente immagine primordiale, che nel corso della vita individuale e cosciente colora e perfino determina le relazioni colla donna, colla società, col sentimento e colla materia, per quanto in maniera così sottile che la coscienza di regola non se ne accorge. E non si dica che si tratta solo di metafore. E' invece un fatto ben concreto che c'è chi sposa una donna solo perché è simile alla madre, oppure proprio perché non le assomiglia affatto. La madre Germania è, per i Tedeschi, come la douce France per i Francesi, un fondamento recondito della politica, che non deve esser sottovalutato, e che può essere trascurato solo da intellettuali estranei al mondo. Il grembo della madre Chiesa, che tutto abbraccia, è tutt'altro che una metafora, come non sono metafore la madre terra, la madre natura e la «materia» in genere. L'archetipo della madre è per il bambino ciò che v'è di più immediato. Ma collo sviluppo della sua coscienza anche [p. 130] il padre entra nel suo campo visivo e ravviva un archetipo la cui natura è sotto molti rispetti contraria a quella della madre. L'archetipo materno corrisponde alla definizione del yin dei Cinesi, il tipo paterno alla definizione del yang. Esso determina la relazione col maschio, colla legge e collo stato, coll'intelletto e colla mente, e colla dinamica della natura. «Patria» vuol dir confini, vuol dir precisa localizzazione, ma il suolo è terra materna, quieta e feconda. il Reno è un padre, come il Nilo, come il vento, l'uragano, il lampo e il tuono. Il padre è autore e autorità, e quindi legge e stato. E' ciò che nel mondo si muove, come il vento, è ciò che crea e guida con idee invisibili immagini aeree. E' il soffio del vento creatore, pneuma, atman, spirito. Così anche il padre è un potente archetipo che vive nell'anima del

bambino. Anche il padre è anzitutto «il padre»; immagine divina che tutto abbraccia, principio dinamico. Nel corso della vita anche questa immagine autoritaria passa in secondo piano: il padre diventa una personalità delimitata, spesso troppo umana. L'immagine paterna invece si amplia in tutte le sue possibilità significative. L'uomo, che ha scoperto tardivamente la natura, ha pure scoperto solo gradualmente lo stato, la legge, il dovere, la responsabilità e lo spirito. A mano a mano che la coscienza, crescendo, diventa atta a conoscere, l'importanza della personalità dei genitori diminuisce. Ma in luogo del padre subentra la società maschile, in luogo della madre la famiglia. Sarebbe inesatto, a mio parere, dire che tutto ciò che compare al posto dei genitori non sia altro che un surrogato per l'inevitabile perdita dell'immagine primordiale dei genitori. Infatti ciò che li sostituisce non è un semplice surrogato, ma una realtà già legata ai genitori, la quale con e mediante l'immagine primordiale dei genitori ha agito sull'anima del bambino. La madre, che dispensa calore protezione, nutrimento, è anche il focolare, la caverna o capanna protettiva e la piantagione che la attornia. La madre è anche il campo che dà l'alimento, e suo figlio è il divino frumento, fratello e amico dell'uomo. La madre è [p. 131] la mucca dispensatrice di latte ed il gregge. Il padre va attorno, parla ad altri uomini, caccia, migra, mena guerra, smette i suoi malumori come un temporale, per pensieri invisibili modifica, come sùbita tempesta di vento, tutta la situazione. E' la lotta e l'arma, la causa di ogni cangiamento, è il toro eccitato e violento oppure apatico, pigro. E' l'immagine di tutte le potenze elementari soccorrevoli o dannose. Tutte queste cose si appressano assai precocemente al bambino, con o mediante i genitori. Quanto più l'immagine dei genitori si impicciolisce e si fa umana, tanto più intensamente spiccano tutte quelle cose che dapprima sembravano sfondo ed effetto collaterale. Il suolo su cui il bambino giocava, il fuoco a cui si scaldava, la pioggia e l'uragano che lo facevano gelare eran sempre realtà, le quali però, a causa della crepuscolarità della sua coscienza, eran viste e intese come proprietà dei genitori. Ora gli elementi materiali e dinamici della terra escono come da un velo e si palesano come le vere potenze, che prima portavano la maschera dei genitori. Non sono quindi un surrogato, ma la realtà, che corrisponde ad una più alta consapevolezza. Ma qualcosa va perduto collo sviluppo: il senso insostituibile dell'unità e del legame diretto coi genitori. Questo non è solo un sentimento, ma un fatto psicologico importante, definito da Lévy-Bruhl, a tutt'altro proposito, «partecipazione mistica». Il fatto designato da questa espressione, di per sé

non facilmente comprensibile, ha grande importanza non solo nella psicologia primitiva, ma anche nella nostra psicologia analitica. Questo fatto consiste - in poche parole - nell'essere una cosa sola in una comune inconsapevolezza. Forse occorre che mi spieghi un po' meglio: se in due uomini predomina in pari tempo lo stesso complesso incosciente, nasce un particolare effetto emozionale, cioè una proiezione, che produce o un'attrazione o una repulsione fra i due. Se io ed un altro uomo siamo insieme incoscienti di un medesimo fatto importante, io divento parzialmente identico a quest'uomo, e per conseguenza assumerò nei suoi riguardi lo stesso atteggiamento [p. 132] che assumerei di fronte al complesso in questione se ne fossi cosciente. Questa «partecipazione mistica» esiste fra genitori e figli. Esempio notissimo è la suocera, che si identifica colla figlia e attraverso di lei sposa il genero, o il padre che crede di provvedere al bene del figlio costringendolo ingenuamente ad esaudire quelli che sono i desideri non di suo figlio ma suoi, per esempio nella scelta della professione o nel matrimonio. E inversamente è altrettanto nota la figura del figlio che si identifica col padre. Particolarmente stretto è il legame fra madre e figlia, che talora è perfin dimostrabile mediante l'esperimento associativo (1). Benché la partecipazione mistica sia un fatto di cui l'individuo non ha coscienza, egli però sente quando essa non esiste più. C'è sempre, per così dire, una certa differenza fra la psicologia di un uomo il cui padre è ancor vivo e quella dell'uomo il cui padre è morto. Fino a quando esiste una partecipazione mistica coi genitori, può essere mantenuto uno stile di vita relativamente infantile. Mediante la partecipazione mistica si ha infatti un apporto di vita dall'esterno in forma di motivazioni incoscienti, per le quali non esiste responsabilità, perché sono incoscienti. Il Carlco della vita è più leggero, o almeno sembra essere più leggero, a causa dell'inconsapevolezza infantile. Non si è soli, ma si conduce inconsapevolmente un'esistenza a due o a tre. Il figlio è immaginariamente nel grembo materno, protetto dal padre. Il padre rinasce nel figlio, almeno al principio della vita eterna. La madre ha ringiovanito il padre a giovane sposo, e così non ha perduto la propria gioventù. Non occorre che io adduca prove tratte dalla psicologia dei primitivi. Quest'accenno dovrebbe bastare. Tutto ciò cade coll'ampliarsi e col crescere della coscienza. L'estensione al mondo delle immagini dei genitori, che in tal modo avviene, o meglio, l'irruzione del mondo nella nebbia infantile sopprime l'inconscia sensazione

di essere una cosa sola coi genitori. Questo processo si compie in [p. 133] modo perfino cosciente nei primitivi riti di iniziazione che consacrano l'entrata del fanciullo nell'età adulta. Così l'archetipo dei genitori passa in secondo piano. Residua comunque una certa partecipazione mistica colla stirpe, colla società, colla chiesa o colla nazione. Ma questa partecipazione è generale e impersonale e soprattutto non lascia eccessivo margine all'incosciente. Se qualcuno dovesse essere troppo inconsciamente e ingenuamente fiducioso, la legge e la società lo scuoterebbero riconducendolo alla consapevolezza. Colla pubertà nasce anche la possibilità di una nuova partecipazione mistica personale, e quindi anche la possibilità di una sostituzione della parte personale, andata perduta, dell'identità coi genitori. Passa in primo piano un nuovo archetipo: nell'uomo quello della donna, nella donna quello dell'uomo. Anche queste due figure erano nascoste dietro la maschera dell'immagine dei genitori, ed ora escono dai loro veli, benché subiscano tuttora l'influenza notevole, e spesso predominante, dell'immagine dei genitori. All'archetipo femminile nell'uomo ho dato il nome latino anima (2), ed all'archetipo maschile nella donna il nome animus, per ragioni ben determinate che spiegherò in seguito. Quanto più forte è l'influenza incosciente esercitata dall'immagine dei genitori, tanto più la figura della persona amata è scelta come sostituto, positivo o negativo dei genitori (3). La grande influenza esercitata dall'immagine dei genitori non è un fenomeno abnorme, è anzi un fenomeno normalissimo e perciò assai generale. Ed è molto importante che sia così, perché altrimenti i genitori non rinascono nei figli, e la loro immagine va completamente perduta, tanto che cessa anche ogni continuità nella vita dell'individuo. Questi non può portar con sé la sua fanciullezza nella sua vita adulta, e quindi rimane inconsciamente un bambino: [p. 134] ottima base per una futura nevrosi. Soffrirà di tutte quelle malattie che colpiscono gli innovatori antistorici, si tratti di singoli o di gruppi sociali. E' normale che i fanciulli risposino più o meno i loro genitori; fatto psicologicamente tanto importante quanto lo è biologicamente una certa perdita di antenati, necessaria per lo sviluppo di una buona razza. Ne nasce continuità, ed il passato prosegue ragionevolmente a vivere nel presente. In questo senso solo un eccesso o un difetto sono malsani. Quando la somiglianza positiva o negativa coi genitori è stata decisiva nella scelta amorosa, anche il distacco dall'immagine dei genitori e quindi

dalla fanciullezza non è stato completo. La continuazione storica della fanciullezza nell'età adulta non deve però avvenire a spese dello sviluppo ulteriore. Verso la metà della vita l'ultimo barlume delle illusioni infantili finisce collo spegnersi - naturalmente solo in una vita ideale; non pochi scendono nella tomba con menti di fanciullo - e dall'immagine dei genitori sorge l'archetipo dell'uomo adulto, un'immagine dell'uomo come quella che la donna conobbe fin dai primordi, e un'immagine della donna quale l'uomo porta in sé da tempo immemorabile. Ci sono molti uomini che possono descrivere esattamente, fin nei particolari, l'immagine femminile che portano in sé. Ma ho incontrato poche donne che fossero in grado di tracciare un'altrettanto esatta immagine maschile. Come l'archetipo della madre è un'immagine complessiva di tutte le madri del passato, così anche l'anima è un'immagine superindividuale, che in molti maschi individualmente differentissimi presenta tratti esattamente concordanti, tanto che se ne potrebbe quasi ricostruire un determinato tipo di donna. E' sorprendente che a questo tipo di donna manca del tutto il carattere materno nel senso usuale della parola. Essa è compagna ed amica nel caso favorevole, nel caso sfavorevole è prostituta. Questi tipi si trovano spesso compiutamente descritti nel romanzo fantastico, con tutte le loro proprietà umane e demoniache, come nel She e nel Wisdoms daughter diRider Haggard, nell'Atlantide di [p. 135] Benoit, frammentariamente nell'Elena della seconda parte del Faust, e nel modo più breve e concettoso nella leggenda gnostica di Simon Mago, la cui Carlcatura appare anche nella storia degli Apostoli. Simon Mago nei suoi viaggi era sempre accompagnato da una ragazza di nome Elena. Simone l'aveva scoperta in un bordello di Tiro. Essa era una reincarnazione dell'Elena troiana. Io non so fino a che punto il motivo goethiano di Elena e Faust si ricolleghi alla leggenda di Simone. Si ritrova un nesso simile in Wisdoms daughter, dove siamo sicuri che non esiste alcuna continuità cosciente. L'assenza dell'abituale carattere materno dimostra da una parte il completo distacco dall'immagine materna, e dall'altra l'idea di una relazione puramente umana e individuale, senza intenzioni naturali di propagazione della specie. La stragrande maggioranza dei maschi, nell'attuale stadio della civiltà, si ferma al significato materno della donna, e perciò l'anima non si sviluppa mai al di là dello stadio primitivo-infantile della prostituta. Da ciò viene che la prostituzione è un prodotto collaterale importantissimo del

matrimonio nei popoli civili. Ma nella leggenda di Simone e nella seconda parte del Faust si trovano i simboli della condizione pienamente adulta. Il monachesimo cristiano e buddista si cimenta nello stesso problema, ma sacrificando la carne. Dee e semidee sostituiscono qui la personalità umana che dovrebbe accogliere la proiezione dell'anima. Con ciò giungiamo in un campo enormemente controverso, nel quale qui non vorrei arrischiarmi più oltre. E' meglio che torniamo al problema più elementare, domandandoci cioè da che possiamo riconoscere l'esistenza di un tale archetipo femminile. Finché un archetipo non è proiettato e non è amato o odiato in un oggetto, esso è ancora del tutto identico all'individuo, e costringe questo a rappresentarlo. In queste circostanze dunque un maschio rappresenterà la sua anima. La nostra lingua possiede da tempo una parola che caratterizza questo particolare atteggiamento: «animosità». Questo termine può essere opportunamente interpretato [p. 136] come un «essere invasato dall'anima». Si tratta cioè di emozioni non dominate. E' vero che si usa il termine «animosità» solo nel senso di sgradevole emozionalità, ma in realtà l'anima può produrre anche sentimenti positivi. Il dominio di sé è un tipico ideale virile. Lo si raggiunge reprimendo le emozioni. Il sentimento è virtù specificamente femminile, e poiché l'uomo per raggiungere il suo ideale di virilità reprime tutti i caratteri femminili, che egli possiede come la donna possiede caratteri maschili, così egli reprime certe emozioni come femminea debolezza. In tal modo egli accumula nell'incosciente l'effeminatezza o sentimentalità che, quando prorompe, tradisce in lui l'esistenza di un essere femminile. Si sa che sono proprio gli uomini più virili quelli che internamente più sono soggetti al sentimento femminile. Questo fatto dovrebbe spiegare da un lato il numero assai maggiore di suicidi nei maschi, e dall'altro lato la straordinaria forza e tenacità di cui dànno prova proprio le donne più femminili. Se noi studiamo accuratamente le emozioni non dominate di un uomo, cercando di ricostruire la probabile personalità da cui esse originano, giungiamo per lo più ad una figura femminile, che io ho appunto definito anima. Perciò la religione degli antichi ha posto sugli altari un'anima femminile, cioè una «Psiche» o anima, e il medioevo ecclesiastico, non senza ragione psicologica, ha posto il quesito: habet mulier animam? Nella donna il caso è inverso. Se nella donna prorompe l'animus, non si tratta di sentimenti come nell'uomo; anzi essa comincia a discutere ed a

sofisticare. E come i sentimenti dell'anima sono arbitrari e lunatici, così gli argomenti femminili sono illogici e irragionevoli. Si può veramente dire che esiste un modo di pensare caratteristico dell'animus, che ha sempre ragione, ha sempre l'ultima parola, e termina sempre con un «proprio per questo». L'anima è sentimento irrazionale, l'animus è concetto irrazionale. Secondo la mia esperienza, un uomo comprende sempre più facilmente che cosa si intende per anima, anzi, talora ne ha un'immagine ben definita, sicché fra un gran numero [p. 137] di donne può sempre indicare quella che è più prossima al tipo anima: ma di regola ho sempre trovato difficilissimo far capire ad una donna che cosa è l'animus, e non ho mai trovato una donna che mi abbia potuto dare precise indicazioni sulla personalità dell'animus. Ne ho concluso che l'animus evidentemente non ha una personalità nettamente afferrabile, in altre parole che esso non è un'unità, ma forse una molteplicità. Questo fatto deve stare in connessione colla particolare psicologia maschile e femminile. Biologicamente la donna ha interesse soprattutto a tener fermo un dato uomo, mentre per l'uomo l'interesse principale consiste nel conquistare una donna, e per natura egli si ferma di rado ad una sola conquista. Così una determinata personalità maschile è per la donna di estrema importanza; la relazione dell'uomo colla donna è meno determinata, cioè egli può vedere la sua donna anche come una fra le altre. Perciò egli insiste sempre sul carattere legale e sociale del matrimonio, mentre la donna vi vede esclusivamente una relazione personale. Così di regola la coscienza della donna è sempre limitata a un dato uomo, mentre la coscienza dell'uomo possiede una tendenza ampliatrice che va oltre il personale, che talora può essere avversa a tutto ciò che è personale. Nell'incosciente dobbiamo quindi attenderci una compensazione mediante il contrario. Con ciò concordano benissimo la relativamente netta delimitazione della figura dell'anima nell'uomo e l'indeterminato polimorfismo dell'animus nella donna. La descrizione dell'anima e dell'animus, che qui posso abbozzare, è necessariamente limitata. Ma spingerei tropp'oltre questa limitazione se descrivessi l'anima soltanto come un archetipo di donna consistente essenzialmente di sentimento irrazionale, e l'animus soltanto come un archetipo di uomo consistente di concetti. Entrambe le figure implicano estesi problemi, perché sono le forme originarie di quei fenomeni psichici che da tempo immemorabile furono definiti anima, e sono anche le cause del bisogno umano di parlare di anime e demoni. Niente che sia psichicamente autonomo è impersonale o oggettivo.

Questa è una categoria della coscienza. Tutti i fattori psichici autonomi hanno carattere di personalità, dalle voci che odono gli alienati fino agli spiriti di controllo dei medium ed alle visioni dei mistici. Così anche l'anima e l'animus hanno carattere di personalità, il che non si può esprimere altrimenti che colla parola anima. Qui però vorrei mettere in guardia da un equivoco: il concetto di anima, che io qui uso, è comparabile coll'intuizione primitiva, per esempio coll'anima Ba e Ka degli Egiziani, piuttosto che colle idee cristiane di anima, nelle quali è già insito un tentativo di concepire filosoficamente una sostanza individuale metafisica. Con queste la mia concezione puramente fenomenologica dell'anima non ha assolutamente nulla da fare. Io non faccio del misticismo psicologico, ma cerco soltanto di intendere scientificamente i fenomeni psicologici primordiali sui quali si fonda la fede nelle anime. Siccome il complesso dei fatti che ho chiamato animus e anima corrisponde assai bene a ciò che tutti i tempi e tutti i popoli hanno descritto come anima, così non stupisce che ambedue i complessi portino con sé una atmosfera straordinariamente mistica, non appena si penetra un po' più addentro nei loro contenuti. Dove l'anima è proiettata nasce subito una singolare sensazione storica, che Goethe riveste delle parole: «Ahimè, tu mi fosti in tempi trascorsi sorella e donna». Rider Haggard e Benoit risalgono alla Grecia ed all'Egitto, per soddisfare l'inevitabile senso storico. Secondo la mia esperienza, all'animus manca, cosa assai singolare, questa specie di storicismo mistico. Vorrei quasi dire che esso si occupa maggiormente del presente e del futuro. Ha piuttosto tendenze nomotetiche, parla volentieri delle cose come dovrebbero essere, o per lo meno esprime concetti apodittici su cose che sono per l'appunto alquanto oscure e controverse, ed in maniera talmente determinata da liberare la donna da ogni ulteriore e forse troppo penosa riflessione. Ancora una volta io non mi posso spiegare questa differenza se non come una compensazione per contrasto. L'uomo nella sua coscienza fa piani e cerca di creare il futuro, [p. 139] mentre è specificamente femminile rompersi la testa per sapere chi era la prozia di quel Tizio. Questa tendenza femminile alle genealogie è assai chiara nel libro di Rider Haggard, dove è espressa con sentimento inglese, mentre in Benoit la stessa tendenza va unita al sapore piccante della cronique familiale et scandaleuse. L'accenno all'idea di reincarnazione in forma di sentimento irrazionale è assai fortemente legata coll'anima, mentre la donna, se è il caso, confessa tali sentimenti a se stessa

coscientemente, se non è troppo soggetta al razionalismo dell'uomo. Il senso storico ha sempre il carattere dell'importanza e della fatalità, e perciò conduce direttamente ai problemi dell'immortalità e del divino. Perfino nel razionalista e scettico Benoit i morti per amore vengono conservati per l'eternità mediante un metodo di mummificazione particolarmente attivo, per non parlare del fiorente misticismo di Rider Haggard in The return of she, documento psicologico di prim'ordine. Siccome l'animus di per sé non è un sentimento né una tendenza, l'aspetto qui descritto gli manca completamente, eppure, nella sua più profonda essenza, è anch'esso storico. Per l'animus non ci sono, purtroppo, buoni esempi letterari, perché le donne scrivono meno che gli uomini, e inoltre, anche quando scrivono, sembrano mancare di una certa sincera introspezione, o per lo meno preferiscono conservare i risultati di questa introspezione in un altro cassetto, forse proprio perché non vi è legato alcun sentimento. Io conosco solo un documento impregiudicato di questo genere, la novella The Evil Vineyard diMarie Hay. In questo racconto senza pretese spicca il momento storico dell'animus, sebbene sia abilmente velato in una maniera che nell'autrice non era certo intenzionale. L'animus consiste nella promessa incosciente, esistente a priori, di un giudizio non pensato. L'esistenza di questo giudizio può esser riconosciuta soltanto dall'atteggiamento che la coscienza assume rispetto a certe cose. Ve ne darò un piccolo esempio. Una madre circondava suo figlio di solenni cure e gli attribuiva una sproporzionata importanza, col risultato che poco dopo la pubertà egli divenne un [p. 140] nevrotico. Il motivo di questo atteggiamento insensato non era a prima vista riconoscibile. Solo ad una più precisa indagine risultò l'esistenza di un dogma incosciente che suonava così: mio figlio è il Messia. E' questo un caso comunissimo dell'archetipo eroico assai diffuso fra le donne, che viene proiettato o sul padre, o sul marito, o sul figlio, in forma di una concezione che poi regola inconsciamente la condotta. Esempio assai bello e universalmente conosciuto è AnnieBesant, che aveva pure scoperto un redentore. Nel racconto di Marie Hay l'eroina fa impazzire suo marito col proprio contegno, fondato sulla premessa incosciente e mai espressa che egli sia un orribile tiranno che la tiene prigioniera, press'a poco come... Chi si nasconda dietro questo «come» lasciato in sospeso essa lo lascia immaginare a suo marito, il quale poi scova la figura di un tiranno del Cinquecento adatta all'uopo e ci perde il senno. All'animus non manca dunque affatto il carattere

storico. Ma esso si manifesta in una forma fondamentalmente differente da quella dell'anima. E parimenti nel problema religioso dell'animus ciò che nel maschio è giudizio prevale su ciò che in lui è sentimento. Per concludere vorrei ancora osservare che l'animus e l'anima non sono le sole figure autonome o anime dell'incosciente. Ma in pratica sono le più immediate e le più importanti. Tuttavia, siccome mi preme di illuminare ancora un altro lato del problema del legame colla terra, mi sarà forse lecito abbandonare questo difficile terreno di sottilissima esperienza interiore e volgermi a quell'altro lato, dove non scruteremo più a fatica entro retrofondi oscuri, ma guarderemo fuori nel vasto mondo delle cose quotidiane. Il legame colla terra, che nel corso dello sviluppo ha formato l'anima umana, esplica ancor oggi, quasi sotto i nostri occhi, la stessa azione. Trasferiamo col pensiero una considerevole frazione di una razza europea su suolo straniero ed in altro clima: dovremo attenderci che questo gruppo umano, anche senza mescolarsi con sangue straniero, subirà nel corso di alcune generazioni certi mutamenti di natura psichica e forse anche fisica. L'esempio più prossimo a noi sono gli Ebrei, che nei vari paesi europei presentano notevoli [p. 141] differenze, attribuibili al carattere del popolo ospite. Non è difficile distinguere gli ebrei spagnuoli da quelli nord-africani, gli ebrei tedeschi dagli ebrei russi. Si possono perfino distinguere fra di loro gli ebrei delle varie regioni della Russia, il tipo polacco dal tipo cosacco e dal tipo della Russia del Nord. Malgrado la somiglianza razziale esistono notevoli differenze, le cui ragioni sono oscure. E' assai difficile determinare esattamente queste differenze, benché un buon conoscitore di uomini le avverta immediatamente. Ma il massimo esperimento di trapianto di una razza è nell'età moderna la colonizzazione del continente nordamericano con popolazioni prevalentemente germaniche. Essendo alquanto differenti le condizioni climatiche ci si dovrebbero attendere le più svariate modificazioni del primitivo tipo razziale. La mescolanza col sangue indiano è scarsissima e non ha importanza. Boas crede di aver dimostrato che già nella seconda generazione degli immigrati si siano manifestate modificazioni autonome, soprattutto della massa cranica. Si forma comunque, negli immigrati, il tipo Yankee, la cui somiglianza col tipo indiano è tale che io quando mi recai per la prima volta nel Middlewest, vedendo uscire da una fabbrica una folla di molte centinaia di operai, dissi al mio accompagnatore di non aver mai pensato che fosse così

alta la percentuale di sangue indiano. Al che quello rispose ridendo di esser pronto a scommettere quel che volevo che in tutte quelle centinaia di persone non c'era una sola goccia di sangue indiano. Ciò avvenne molti anni fa, quando io non avevo ancora alcuna idea della singolare indianizzazione della popolazione americana. Questo segreto mi fu rivelato quando ebbi a curare analiticamente moltissimi americani. Mi risultarono allora notevoli differenze rispetto agli europei. Fui anzitutto colpito dalla grande influenza del negro, influenza psicologica indubbiamente, senza mescolanza di sangue. Le manifestazioni emotive dell'americano, ed in primo luogo il suo riso, possono esser ben studiate nei supplementi illustrati dei giornali americani. L'inimitabile riso di Roosevelt si trova nella sua forma originaria presso il [p. 142] negro americano. La caratteristica andatura colle giunture relativamente sciolte e l'ondeggiamento dell'anca che si osservano così frequentemente fra le americane provengono pure dal negro. La musica americana trae la sua principale ispirazione dal negro, ed anche la danza. Le manifestazioni del sentimento religioso quali i revival meetings (gli holy rollers e simili abnormità) subiscono fortemente l'influenza del negro; e la famosa ingenuità americana nelle sue forme gradevoli e sgradevoli può esser facilmente paragonata coll'infantilità del negro. Il temperamento di solito straordinariamente vivace, che si palesa non solo nel gioco del baseball, ma anche in un singolarissimo gusto per le espressioni verbali, di cui è esempio l'infinito fiume di chiacchiere dei giornali americani, non deriva certo dagli antenati germanici, ma somiglia piuttosto al chattering del villaggio negro. La quasi assoluta mancanza di intimità e la socievolezza di massa, che tutto inghiotte, ricordano la vita primitiva nelle capanne aperte, con piena identità di tutti gli appartenenti alla stessa stirpe. A me pareva che in tutte le case americane tutte le porte fossero sempre aperte, così come nelle campagne americane non si trovano siepi fra i giardini. Tutto sembra strada. E' certo difficile distinguere particolarmente che cosa è da mettere in conto della simbiosi col negro e che cosa sia da attribuire alla circostanza che l'America è ancor sempre una nazione di pionieri su suolo vergine. Ma tutto sommato è innegabile la notevole importanza del negro sul carattere generale del popolo. Anche in altri paesi si può osservare questo contagio da parte dei primitivi, ma non in questa misura e non in questa forma. In Africa, per esempio, il bianco è in trascurabile minoranza e deve difendersi, osservando

rigide forme sociali, dal pericolo di assimilarsi al negro. Se soggiace alla influenza dei primitivi è senz'altro perduto. Invece in America i negri, per il loro scarso numero, non costituiscono un fattore degenerativo, ma esplicano un'influenza caratteristica, che in complesso non può affatto esser detta sfavorevole, se proprio non si ha una fobia per il jazz. Lo strano è che non si nota che poco o nulla di indiano. [p. 143] Eppure le somiglianze fisionomiche a cui abbiamo accennato prima non ricordano l'Africa, ma sono specialmente americane. Forse che il corpo reagisce all'America e l'anima all'Africa? A questa domanda debbo rispondere che solo le maniere risentono l'influsso negro, ma che quanto all'anima la questione è ancora da studiare. E' naturale che nei sogni dei miei malati americani il negro avesse non poca importanza, quale espressione del lato inferiore della loro personalità. Un europeo, in casi simili, sognerebbe vagabondi o altri rappresentanti dei bassi strati sociali. Ma la grande maggioranza dei sogni, specialmente quelli che vengon fuori al principio della cura analitica, sono superficiali. Solo nel corso di analisi più estese e più profonde ci si imbatte in simboli che sono in relazione coll'indiano. La tendenza progressiva dell'incosciente (il suo motivo eroico, in altre parole) sceglie per simbolo l'indiano. Così alcune monete dell'Unione recano una testa d'indiano, che ha il significato di un omaggio reso all'indiano, prima odiato ed ora indifferente. Ed è in pari tempo un'espressione del fatto or ora citato, che il motivo eroico americano ha scelto l'indiano come figura ideale. Non verrebbe certo in mente a nessun governo americano di mettere sulle monete la testa di Cetewayo o di un altro eroe negro. Gli stati monarchici metton volentieri la testa del sovrano sulle loro monete, gli stati democratici preferiscono altri simboli del loro ideale. Ho pubblicato un esempio particolareggiato di tale fantasia eroica americana nel mio libro: Wand-lungen und Symbole der Libido. A questo potrei aggiungere dozzine di esempi simili. L'eroe incorpora sempre l'aspirazione più alta e più forte, o almeno ciò che questa aspirazione dovrebbe essere e quindi anche ciò che si vorrebbe soprattutto effettuare. Le fantasie di cui è pieno il motivo eroico sono quindi essenziali. Il concetto americano dello sport è ben lontano dal concetto bonario che se ne ha in Europa. Soltanto le iniziazioni indiane possono gareggiare colla crudeltà e l'assenza di riguardi di un rigoroso training americano. Le gesta degli sportivi americani sono perciò meravigliose. In tutto ciò che l'americano realmente vuole compare l'indiano; nella [p. 144]

straordinaria concentrazione su un certo scopo, nella tenacità con cui lo si persegue, nella sopportazione imperterrita di gravissime difficoltà si manifestano nel loro pieno valore tutte le leggendarie virtù dell'indiano (4). Il motivo eroico ha a che fare non solo coll'atteggiamento generico riguardo alla vita, ma anche col problema religioso. Un atteggiamento assoluto è sempre un atteggiamento religioso, e dovunque un uomo diventa assoluto appare la sua religione. Nei miei pazienti americani ho trovato che la loro figura dell'eroe possiede anche l'aspetto religioso indiano. La più importante figura delle forme religiose indiane è lo shaman, dottore e scongiuratore di spiriti. La prima invenzione americana in questo campo, divenuta importante anche per l'Europa, fu lo spiritismo, la seconda fu la Christian Science, colle forme analoghe di mental heal-ing. La Christian Science è un rituale di scongiuri: i demoni della malattia vengono esorcizzati, al corpo riluttante vengono cantate le formule opportune, e la religione cristiana, che corrisponde ad un grado di cultura superiore, viene sfruttata per ottenere guarigioni magiche. La povertà di contenuto spirituale è spaventevole, ma la Christian Science è viva, possiede un vigore profondamente radicato nel suolo, e opera quei miracoli che invano si richiederebbero alle chiese ufficiali. Non c'è paese al mondo dove la frase ad effetto o formula magica chiamata slogan possegga maggiore efficacia che in America. L'europeo ne ride, ma dimentica che la potenza magica della parola muove le montagne. Perfino il suo Cristo fu una parola, il Verbo. A noi questa psicologia è divenuta estranea, ma nell'americano è viva. Perciò non sappiamo che cosa farà ancora l'America. L'americano ci offre quindi uno strano quadro: un europeo con maniere di negro e con anima di indiano. Divide la sorte di tutti gli usurpatori di terre straniere: certi primitivi australiani ritengono che non ci si possa appropriare del suolo altrui, perché qui abitano gli spiriti degli [p. 145] antenati dello straniero, e questi spiriti potrebbero incarnarsi nei bambini dell'invasore nati nel paese conquistato. C'è qui una grande verità psicologica. La terra straniera assimila i conquistatori. Diversamente dai conquistatori latini dell'America Centrale e Meridionale, gli Americani del Nord mantennero con rigorosissimo puritanismo il livello europeo, ma non poterono impedire che le anime dei loro nemici indiani divenissero le loro anime. La terra vergine ha dappertutto la proprietà di far scendere almeno l'incosciente del conquistatore al livello dell'abitante autoctono. Così nell'americano esiste una distanza fra

cosciente ed incosciente quale non si riscontra nell'europeo, una tensione fra alta cultura cosciente e immediata primitività incosciente. Ma questa tensione è un potenziale psichico che conferisce all'americano uno spirito di intraprendenza non ostacolato da nulla, e un entusiasmo veramente invidiabile, ignoto a noi europei. Appunto perché siamo ancora in possesso degli spiriti dei nostri antenati, cioè perché tutto in noi è storicamente condizionato, noi siamo bensì in contatto col nostro incosciente, ma siamo prigionieri proprio di questo contatto e talmente impigliati nella nostra condizionatezza storica, che occorrono gravissime catastrofi perché ci decidiamo, per esempio, a non comportarci più in politica come cinquecento anni fa. Il contatto coll'incosciente ci avvince alla nostra terra e ci rende duri da smuovere, il che certamente non è un vantaggio nei riguardi della capacità a progredire e di ogni altra forma di desiderabile mobilità. Ma non vorrei dir troppo male della nostra relazione colla buona madre terra. Plurimi pertransibunt, ma chi rimane attaccato alla sua terra ha durata. Esser lontani dall'incosciente e quindi dalla condizionatezza storica significa mancar di radici. Questo è il pericolo che minaccia il conquistatore di suolo straniero; ma è anche un pericolo per il singolo se, impigliandosi unilateralmente in qualche «-ismo», perde il nesso coll'oscuro fondo originario materno della terra da cui è cresciuto.(1927).

NOTE: (1) Cfr' Jung, Diagnost' Assoc' Stud', vol' Ii. (2) Per evitare equivoci si tenga presente che i termini latini anima, ed animus, che scriveremo sempre in corsivo, hanno qui soltanto il particolarissimo significato postulato dell'autore, e non vanno confusi coi termini italiani anima ed animo (Seele e Gemut in tedesco) che continueremo a scrivere in caratteri ordinari [N'd'T']. (3) Die Beziehungen zwischen dem Ich und dem Unbewussten, Reichl, Darmstadt. (4) Cfr' Jung, Your Negroid and Indian Behaviour, «Forum», 1930.

VIII. L'uomo arcaico

Arcaico significa iniziale, originario. Dire qualcosa di fondamentale sull'uomo civile di oggi è uno dei compiti più difficili e ingrati che si possano immaginare. Chi parla è limitato dalle stesse premesse e abbagliato dagli stessi pregiudizi di coloro sui quali dovrebbe dire qualche cosa di elevato. Ma nei riguardi dell'uomo arcaico siamo, a quanto pare, in una situazione più favorevole. Siamo lontani nel tempo dal suo mondo, siamo superiori a lui quanto a differenziazione spirituale, cosicché abbiamo una possibilità di abbracciare col nostro sguardo da una più alta specola la sua mente e il suo mondo. Così dicendo ho dato in pari tempo all'argomento una limitazione senza la quale sarebbe impossibile abbozzare un quadro sufficientemente comprensivo delle manifestazioni psichiche dell'uomo arcaico. A questo quadro infatti io mi vorrei limitare, escludendo dalla mia trattazione l'antropologia del primitivo. Quando parliamo dell'uomo in generale, non intendiamo parlare della sua anatomia, della forma del suo cranio e del colore della sua pelle, ma ci riferiamo al suo mondo psichico e umano, alla sua coscienza e alla sua condotta di vita. Questi però sono oggetti della psicologia. Perciò avremo da occuparci essenzialmente di psicologia arcaica, cioè di psicologia del primitivo. Nonostante questa limitazione noi ampliamo in tal modo il nostro tema, perché la psicologia arcaica è psicologia non solo del primitivo, ma anche dell'uomo moderno civile; non già quella di alcune isolate manifestazioni regressive della società moderna, ma piuttosto quella di ogni uomo civile che, nonostante l'altezza della sua coscienza, negli strati più profondi della sua psiche è ancora uomo arcaico. Come il nostro corpo è ancora [p. 147] un corpo di mammifero che contiene in sé un'intera serie di relitti di condizioni assai più antiche simili a quelle degli animali a sangue freddo, così anche la nostra anima è un prodotto evolutivo che, studiato nelle sue origini, mette ancor sempre in evidenza innumerevoli arcaismi. Certamente quando si viene in contatto per la prima volta col primitivo, o quando si studiano opere scientifiche sulla psicologia primitiva, non ci si può sottrarre a una profonda impressione di estraneità di natura dell'uomo arcaico.

Anzi Lévy-Bruhl, un'autorità nel campo della psicologia primitiva, non si stanca di rilevare questa straordinaria differenza dell'état prélogique dalla nostra coscienza. A lui, uomo civile, sembra assolutamente incomprensibile il modo con cui il primitivo trascura semplicemente la palese esperienza e, negando senz'altro le cause evidenti, invece di spiegare le cose col puro caso o colla ragionevole causalità, ritiene eo ipso valevoli le sue représentations collectives. Per représentations collectives Lévy-Bruhl intende certe idee grandemente diffuse con carattere aprioristico di verità, quali gli spiriti, la stregoneria, la forza della medicina, ecc'. Il fatto, per esempio, che gli uomini muoiono per età avanzata o per malattie notoriamente mortali, per noi è ovvio, ma non lo è per il primitivo. Nessun uomo, secondo lui, muore di vecchiaia. Egli obbietta che c'è chi ha raggiunto un'età ancora più avanzata. Nessuno muore di malattia, perché tanta gente ne è guarita e non ne ha mai neppure sofferto. La vera spiegazione per lui è sempre la magia. L'uomo è stato ucciso o da uno spirito o da un incantesimo. Molti fanno senz'altro entrare in campo la Morte come ente naturale. Altri però considerano artificiale anche questa Morte, sostenendo che l'avversario era un mago o che portava un'arma stregata. Talora quest'idea grottesca assume forme assai più impressionanti. Una volta un europeo uccise un coccodrillo, nel cui stomaco furono trovati due anelli per le caviglie; gli indigeni li riconobbero come appartenenti a due donne che qualche tempo prima erano state divorate da un coccodrillo. Subito gridarono alla magia: questo caso naturalissimo, che per nessun europeo sarebbe stato sospetto, fu spiegato dal [p. 148] presupposto mentale dei primitivi (la représentation collective di Lévy-Bruhl) in modo assolutamente inatteso. Uno sconosciuto incantatore avrebbe chiamato il coccodrillo ordinandogli di prendere le due donne e di portargliele; e il coccodrillo avrebbe eseguito l'ordine. Ma i due anelli nello stomaco dell'animale? I coccodrilli, dissero, non mangiano gli uomini se non sono provocati; e quel coccodrillo aveva ricevuto gli anelli dal mago come compenso. Questo caso prezioso è un tipico esempio dell'arbitrarietà delle spiegazioni che si dànno nell'état prélogique; prelogico evidentemente perché queste spiegazioni ci sembrano assurdamente illogiche. Ma esse ci appaiono tali solo perché noi partiamo da tutt'altre premesse che il primitivo. Se noi fossimo convinti come lui dell'esistenza di maghi e di altre forze misteriose, così come siamo convinti dell'esistenza delle cosidette cause naturali, le sue deduzioni ci sembrerebbero del tutto logiche.

Effettivamente il primitivo non è né più logico né meno logico di noi. Solo le sue premesse sono diverse, e qui sta il carattere distintivo. Il primitivo pensa e vive con premesse completamente differenti dalle nostre. Tutto ciò che non è in regola, tutto ciò che inquieta, spaventa o stupisce, è dovuto secondo lui a quello che noi chiamiamo soprannaturale. Ma per lui non è soprannaturale, anzi appartiene al mondo della sua esperienza. Per noi è naturale dire: questa casa è bruciata perché il fulmine l'ha incendiata. Per il primitivo è altrettanto naturale dire: un mago si è servito del fulmine proprio per incendiare questa casa. Tutti gli avvenimenti del mondo del primitivo, pur che siano in qualche modo inconsueti o impressionanti, sono sottoposti a questa o ad altre simili spiegazioni. Così facendo, egli si comporta proprio come noi: non riflette sulle sue premesse. Egli è a priori certo che la malattia è prodotta dagli spiriti o dalla stregoneria, così come noi siamo a priori convinti che la malattia ha una cosidetta causa naturale. Noi non pensiamo a magie, e lui non pensa a cause naturali. Il funzionamento della sua mente in sé e [p. 149] per sé non è in sostanza differente dal nostro. La differenza sta, come ho già detto, esclusivamente nella premessa. Si è anche sospettato che i primitivi abbiano altri sentimenti e un'altra morale, che abbiano cioè, in certo qual modo, un animo prelogico. Che abbiano una morale differente dalla nostra è certo. Un capo negro, interrogato circa la differenza fra bene e male, disse: se io rubo al mio nemico le sue donne, è bene; ma se egli le ruba a me, è male. In molti luoghi è un'orribile offesa pestar l'ombra a qualcuno, in altri è un peccato imperdonabile raschiare una pelle di foca con un coltello di ferro invece che con una selce. Ma siamo sinceri: non è forse peccato, per noi, mangiare il pesce col coltello? o tenere il cappello in casa, o salutare una signora col sigaro in bocca? Queste cose, per noi come per il primitivo, non hanno nulla a che fare coll'ethos. Ci sono cacciatori di teste valorosi e leali, ci sono selvaggi che compiono piamente e coscienziosamente riti crudeli, assassini per sacra convinzione; e tutto ciò che noi ammiriamo come contegno etico è apprezzato anche dal primitivo. Il suo bene è altrettanto buono quanto il nostro, il suo male è cattivo tanto quanto il nostro. Solo le forme sono diverse, ma la funzione etica è la stessa. Si è anche detto che i suoi sensi siano più acuti o diversi dai nostri. Ma egli non ha che una differenziazione professionale del senso locale o

dell'udito e della vista. Posto di fronte a cose situate fuori della sua portata, è incredibilmente lento e inetto. Ho mostrato a cacciatori indigeni, dagli occhi di falco, dei giornali illustrati dove da noi ogni bambino avrebbe subito riconosciuto delle figure umane. Ma i miei cacciatori giravano le figure per ogni verso finché uno di loro, seguendo i contorni col dito, d'un tratto esclamò: «Sono uomini bianchi!», il che fu festeggiato da tutti come una grande scoperta. Il senso locale spesso addirittura incredibile di molti primitivi è essenzialmente professionale, e si spiega coll'assoluta necessità di orientarsi nelle foreste e nelle praterie. Anche l'europeo - per paura di perdersi irreparabilmente [p. 150] - comincia dopo un po' di tempo a badare a cose di cui prima non si sognava nemmeno. Niente dimostra che il primitivo, in linea di principio, pensi, senta o percepisca diversamente da noi. La funzione psichica è in sostanza la stessa. Ma le premesse sono diverse. Di fronte a ciò ha poca importanza che l'ampiezza della coscienza sia o sembri minore della nostra, o che egli non possa concentrarsi che poco o nulla sul lavoro mentale. E' quest'ultimo fatto quello che sorprende l'europeo come cosa strana. Io non potei mai continuare i miei colloqui per più di due ore, perché dopo questo tempo ogni volta gli interlocutori si dichiaravano stanchi. Dicevano che era troppo difficile, eppure io mi limitavo a far loro semplicissime domande, in una conversazione assai pigra. Ma questa stessa gente, a caccia ed in marcia, dava prova di una concentrazione e di una perseveranza che facevan stupire. Il mio portalettere faceva ogni volta 120 chilometri di corsa senza fermarsi. Vidi una donna gravida di sei mesi, che portava un bambino sul dorso e fumava una lunga pipa di tabacco, danzare per una notte intera a 34° intorno al fuoco senza cadere esausta. Non si può dunque negar loro la capacità di concentrarsi in cose che li interessano. Se noi ci dobbiamo concentrare su cose che non ci interessano, ci accorgiamo subito anche noi che la nostra capacità di concentrazione è assai scarsa. Neppur noi siamo indipendenti dall'impulso emotivo. Certo i primitivi sono più semplici e più infantili di noi, nel bene come nel male. Ma ciò non ci sembra strano. Eppure sentiamo, se veniamo in contatto col mondo dell'uomo arcaico, qualcosa di enormemente estraneo a noi. Quando ho potuto analizzare questo sentimento, mi sono reso conto che esso deriva in massima parte dal fatto che le premesse arcaiche differiscono dalle nostre in punti essenziali, dal fatto cioè che il primitivo vive, per così

dire, in un mondo differente dal nostro. Ciò ne fa un enigma difficilmente comprensibile finché non conosciamo le sue premesse. Allora tutto è abbastanza semplice. Potremmo dire altrettanto bene che non appena conosciamo le nostre premesse, il primitivo non ci presenta più problemi. La nostra premessa razionale è che tutto deve avere le sue cause naturali e percepibili. Di ciò siamo convinti a priori. La causalità, in questo senso, è uno dei nostri dogmi più sacri. Nel nostro mondo non c'è spazio legittimo per l'invisibile, per l'arbitrario, per le cosidette forze soprannaturali, salvo che scendiamo coi fisici moderni nel mondo minutissimo ed oscuro dell'interno degli atomi dove, a quanto pare, succedono strane cose. Ma queste son cose lontane. Noi abbiamo un accentuato risentimento contro le forze arbitrarie invisibili, perché non è molto che siamo sfuggiti da quel mondo pauroso di sogno e di superstizione e ci siamo costruita un'immagine del mondo degna della nostra coscienza razionale, immagine che è la più recente e più grande creazione dell'uomo. Ci circonda un universo che ubbidisce a leggi razionali. E' vero che non conosciamo tutte le cause, ma le scopriremo, ed esse corrisponderanno alla nostra aspettazione razionale. Tale almeno è la nostra ben comprensibile speranza. Ed è anche vero che esistono i casi fortuiti, ma questi sono per l'appunto semplicemente casuali, e la casualità loro propria non può esser messa in dubbio. I casi fortuiti ripugnano alla nostra coscienza amante dell'ordine, disturbano in modo ridicolo e quindi irritante il corso regolare del mondo. Il nostro risentimento contro i casi è simile a quello che abbiamo contro le forze arbitrarie invisibili. Essi ci ricordano troppo i diavoletti o l'arbitrio di un deus ex machina. Sono il peggiore nemico dei nostri calcoli accurati ed il continuo pericolo che minaccia tutte le nostre imprese. Sono per comune ammissione irragionevoli e meritano ogni insulto, ma non bisognerebbe mancar loro di rispetto. L'arabo è a questo proposito più riguardoso, e scrive su ogni lettera: Insciallah (se a Dio piacerà), la lettera arriverà. Perché con tutto il nostro risentimento e in barba a tutte le leggi è indiscutibilmente vero che noi siamo sempre e dappertutto esposti all'incalcolabile caso. E che c'è di più invisibile e più arbitrario che il caso? Che c'è di più inevitabile e fatale?

In fondo potremmo anche dire così: il decorso causale, conforme alle leggi, è una teoria che in pratica si [p. 152] dimostra vera nel 50 per cento dei casi, il rimanente 50 per cento è in balìa del demone caso. Certamente anche il caso ha le sue cause del tutto naturali, di cui troppo spesso, con nostro dispetto, dobbiamo scoprire la futilità. Ma alla causalità noi rinuncieremmo volentieri, perché ciò che ci dispiace nel caso è qualcosa di ben diverso: è, cioè, che esso debba avvenire proprio qui e adesso, in altre parole, che esso sia, per così dire, arbitrario. Tale almeno è l'effetto che ci fa, e talora lo maledice anche il razionalista più spinto. Comunque si voglia spiegare il caso, non si toglie il fatto della sua potenza. Quanto più regolari sono le condizioni dell'esistenza, tanto più è escluso il caso, e tanto meno occorre difendersene. In pratica, però, ognuno si guarda dal caso o spera nel caso, benché la confessione di fede ufficiale non abbia una clausola che riguardi il caso. Tale è la nostra premessa: una convinzione positiva che tutto quanto, almeno in teoria, è percepibile, abbia cause cosidette naturali. La premessa dell'uomo primitivo è invece la seguente: tutto origina da potenze arbitrarie invisibili, in altre parole, tutto è caso, solo che egli non lo chiama caso ma intenzione. La causalità naturale è mera apparenza e non merita che se ne parli. Se tre donne vanno al fiume per attingere acqua, e un coccodrillo acchiappa quella di mezzo e la trascina sott'acqua, noi diciamo: che sia stata presa proprio quella di mezzo è un puro caso ma che il coccodrillo abbia acchiappato la donna è ben naturale, perché i coccodrilli, quando capita, mangiano carne umana. Con questa spiegazione tutta la situazione si confonde. L'emozionante istoria non è affatto chiarita. L'uomo arcaico trova con ragione che tale spiegazione è superficiale o addirittura assurda, perché secondo questo modo di vedere sarebbe anche potuto non succedere nulla, ed anche allora la medesima spiegazione sarebbe stata ugualmente valida. L'europeo non capisce quanto poco egli dice con simili spiegazioni. Questo è il suo pregiudizio. Il primitivo invece ha ben maggiori pretese. Per lui ciò che noi chiamiamo caso è arbitrio. Il coccodrillo ebbe evidentemente l'intenzione di acchiappare quella di mezzo [p. 153] delle tre donne, come ognuno poté vedere. Se non avesse avuto questa intenzione, avrebbe potuto prendere una delle altre due. Ma perché il coccodrillo ebbe quest'intenzione? I coccodrilli di solito non mangiano uomini. Ciò è verissimo, tanto quanto il fatto che nel

Sahara di solito non piove. I coccodrilli sono animali timidi, facilmente spaventabili. In confronto col numero enorme dei coccodrilli il numero degli uomini da loro uccisi è piccolissimo. E' dunque un fatto inatteso e innaturale che un uomo venga da loro divorato. Bisogna spiegarlo: da chi ha ricevuto il coccodrillo l'ordine di uccidere? Ché per sua natura di regola egli non lo fa. Il primitivo si fonda moltissimo sui fatti del mondo che lo attornia, ed è giustamente stupito e chiede cause specifiche, quando avviene un fatto inatteso. Fin qui si comporta proprio come noi. Ma va ancor più in là di noi. Ha una o parecchie teorie sulla potenza arbitraria del caso. Noi diciamo: non è che un caso. Egli dice: è una volontà ben calcolata. Egli dà il maggior peso all'altro 50 per cento del divenire mondiale, cioè non ai puri nessi causali della scienza naturale, ma al complicato e complicante groviglio delle catene causali che si chiama caso. Alle leggi della natura è da tempo abituato, perciò teme la potenza dell'imprevedibile caso come quella di un agente arbitrario, incalcolabile. Anche in ciò ha ragione. E' quindi comprensibile che tutto quanto è inconsueto gli incuta terrore. Nelle regioni a sud dell'Elgon, dove mi sono trattenuto qualche tempo, ci sono molti formichieri. Il formichiere è un animale notturno assai pauroso, e perciò lo si vede di rado. Ma se una volta tanto capita di vedere un formichiere di giorno, è un fatto straordinario e innaturale, che suscita lo stesso stupore che proveremmo noi se vedessimo un torrente che risale verso la montagna. Se davvero si scoprissero casi in cui l'acqua di punto in bianco presentasse una forza di gravità negativa, sarebbe certo una scoperta assai preoccupante. Noi sappiamo infatti quali enormi quantità d'acqua ci circondano, e possiamo figurarci facilmente che cosa avverrebbe se l'acqua non si comportasse più secondo le leggi usuali. Il primitivo è press'a poco [p. 154] in questa situazione. Egli conosce molto bene le abitudini di vita del formichiere, ma non sa quale sarebbe il campo d'azione di questo animale, se d'improvviso spezzasse l'ordine del mondo. Il primitivo è talmente sotto l'impressione di ciò che esiste, che una rottura dell'ordine del suo mondo presenta per lui incalcolabili possibilità. E' un portento, un presagio, come una cometa o un'eclisse. Siccome per lui questa innaturalezza non ha cause naturali, deve essere una forza arbitraria invisibile quella che spinge il formichiere a comparire di giorno. La terrificante manifestazione di un arbitrio che può spezzare l'ordine del mondo richiede naturalmente straordinarie misure per difendersene o per placarlo. I villaggi vicini vengono mobilitati ed il formichiere è scovato con gran cura e ucciso. Poi il più vecchio zio materno dell'uomo che ha visto l'animale deve

sacrificare un toro. L'uomo scende nella caverna e riceve il primo pezzo di carne dell'animale. Poi anche lo zio e gli altri partecipanti alla cerimonia si mettono a mangiare. In questa guisa viene espiato il pericoloso atto arbitrario della natura. Noi ci commuoveremmo molto se d'improvviso per cause sconosciute l'acqua si mettesse a risalire la montagna, ma non certo se vediamo un formichiere di giorno o se nasce un albino, o se ha luogo un'eclisse solare. Noi conosciamo il significato di simili eventi ed il loro raggio di azione, ma il primitivo non li conosce. Ciò che di solito avviene è per lui un tutto ben solido in cui egli è incluso con tutti gli altri esseri. Perciò egli è assai conservatore e fa le cose che furono sempre fatte. Se ora avviene in qualche luogo qualche cosa che rompe questo tutto abituale, per lui si è prodotta una lacuna nell'ordine dell'universo. E allora Dio sa che cosa può succedere. Subito tutti gli avvenimenti in qualche modo notevoli sono messi in relazione col fatto nuovo. Un missionario aveva montato davanti alla sua casa un pennone di bandiera, per potervi issare l'Union Jack alla domenica. Questo innocente piacere gli costò molto caro, perché poco dopo il suo atto ribelle scoppiò una tempesta devastatrice, che naturalmente fu posta in relazione col pennone della [p. 155] bandiera. Ciò bastò a scatenare contro di lui una rivolta generale. La sicurezza del mondo consiste per il primitivo nella regolarità degli avvenimenti usuali. Ogni eccezione gli sembra un pericoloso atto arbitrario, che deve essere adeguatamente espiato, perché non è soltanto una momentanea infrazione della regola, ma è in pari tempo il presagio di altri indebiti eventi. A noi questo sembra assurdo, ma noi dimentichiamo completamente come sentivano i nostri nonni e bisnonni. Nasce un vitello con due teste e cinque gambe: nel villaggio vicino un gallo ha fatto un uovo, una vecchia ha avuto un sogno, una cometa compare in cielo, nella città vicina avviene un grave incendio, l'anno dopo scoppia la guerra. Così si scriveva la storia nei tempi passati, dalla più remota antichità fino al secolo Xviii. Questo raggruppamento per noi senza senso è per il primitivo assolutamente sensato e convincente. E in ciò egli ha inaspettatamente ragione. La sua osservazione è sicura. Egli sa per antichissima esperienza che quei nessi sono reali. Ciò che per noi, che badiamo al senso ed alla causalità propria dei singoli eventi, è un affastellamento del tutto insensato di singole accidentalità, per il primitivo è una logicissima successione di presagi e di avvenimenti da questi indicati, un

irrompere fatale, ma del tutto conseguente, dell'arbitrio demoniaco. Il vitello con due teste e la guerra sono la stessa cosa, non essendo il vitello altro che un'anticipazione della guerra. Questo rapporto appare al primitivo tanto sicuro e convincente perché per lui l'arbitrio del caso è un fattore assai più importante che non le leggi che regolano il corso del mondo, e perché egli, appunto per questo, ha scoperto molto prima di noi, notando con cura gli eventi straordinari, la legge del raggruppamento in serie dei casi. Ogni clinica conosce, da noi, la legge della duplicità dei casi. Un vecchio professore psichiatra a Wurzburg soleva dire, ogni volta che presentava a lezione un caso particolarmente raro: «Eccovi un caso ben singolare. Domani ne vedremo un altro». Anche a me capitò spesso di osservare qualcosa di simile. Durante gli otto anni della mia pratica manicomiale entrò in ospedale un caso assai raro di stato crepuscolare, il primo che avessi mai visto. Due giorni dopo ne entrò un secondo e poi non ne vennero più. La «duplicità dei casi», frase scherzosa per il clinico, per il selvaggio è invece l'oggetto primo della scienza. Uno scienziato moderno ha perfin coniato la frase: «Magic is the science of the jungle». Certamente l'astrologia e gli altri metodi divinatori erano la scienza dell'antichità. Ciò che avviene regolarmente lo si capisce senz'altro: la mente è già orientata in quel senso. Occorre dunque intervenire col sapere e coll'arte solo là dove un oscuro arbitrio perturba l'ordine preesistente. Molte volte l'inCarlco di studiare la meteorologia degli eventi è affidato ad uno degli uomini più saggi e più scaltriti della tribù, il medico, il quale deve spiegare col suo sapere e combattere colle sue arti tutti i fatti inusitati. Egli è il dotto, lo specialista, l'esperto del caso, ed insieme l'archivista della tradizione erudita della tribù. Circondato da rispetto e da timore, gode di grandissima autorità, non così grande però che la sua tribù non sia segretamente convinta che la tribù vicina ha un mago migliore. La miglior medicina non è mai quella a portata di mano, ma bisogna andarla a prendere il più lontano possibile. Nonostante la straordinaria venerazione che la tribù presso cui io abitai per qualche tempo sentiva per il suo vecchio medico, questi però non veniva chiamato che per lievi malattie del bestiame e degli uomini; in tutti i casi più gravi si consultava un'autorità di fuori, un m'ganga (mago), che si faceva venire dall'Uganda compensandolo lautamente. Proprio come da noi. I casi avvengono di preferenza in piccole o grandi serie o gruppi. E' vecchia regola della prognosi meteorologica che, quando ha piovuto per

diversi giorni, pioverà anche domani. Il proverbio dice: «le disgrazie non vengono mai sole», oppure: «non c'è il due senza il tre». Questa saggezza proverbiale è scienza primitiva, creduta e temuta ancora dal popolo, derisa dalla persona colta, purché non gli capiti niente di speciale. Vi voglio raccontare una storia [p. 157] poco piacevole. Una signora di mia conoscenza è svegliata una mattina alle 7 da uno strano scricchiolio sul tavolino da notte. Cerca un po' e scopre la causa: l'orlo superiore del suo bicchiere è saltato via tutt'in giro per l'altezza di circa un centimetro. Suona e chiede un altro bicchiere. Cinque minuti dopo lo stesso scricchiolio, e il bordo superiore del bicchiere è saltato un'altra volta. Inquieta, si fa dare un terzo bicchiere. Dopo venti minuti lo stesso scricchiolio, e il bordo è ancora saltato via. Tre casi di seguito; troppo per la sua immaginazione. Essa abbandonò subito la fede nelle cause naturali e andò a ripescare la sua primitiva représentation collective, la credenza nelle forze arbitrarie. Così succede a molti moderni non ostinati, se vengon posti a confronto con eventi in cui la causalità naturale fallisce. Perciò si negano tali eventi. Essi sono sgradevoli perché- e ciò conferma la nostra ancor viva primitività - rompono il nostro ordine del mondo; e allora, che cosa non è mai possibile? La fede del primitivo nella potenza dell'arbitrio non è affatto campata in aria, come si credeva finora, ma è fondata sull'esperienza. Il raggruppamento dei casi giustifica ciò che noi chiamiamo la sua superstizione, perché è effettivamente verosimile che le cose inconsuete coincidano nel tempo e nel luogo. Non dimentichiamo che la nostra esperienza qui ci lascia piuttosto in asso. Noi osserviamo insufficientemente, perché siamo diversamente orientati. Non ci verrebbe mai in mente sul serio di considerare come una sequela logica la seguente serie di fatti: al mattino un uccello vola nella stanza, un'ora più tardi si assiste ad una disgrazia stradale, nel pomeriggio muore un parente prossimo, la sera la cuoca lascia cadere la zuppiera, e rincasando a notte tarda ci si accorge di aver perduto la chiave di casa. Ma al primitivo nessun anello di questa catena sarebbe sfuggito. Ogni nuovo anello avrebbe confermato la sua aspettazione, ed in ciò egli ha ragione, molto più di quanto noi non saremmo disposti senz'altro a concedere. La sua aspettazione ansiosa è perfettamente giustificata, anzi, opportuna. E' un giorno che porta disgrazia, nel quale non si può intraprender nulla. Nel nostro mondo questa [p. 158] sarebbe una biasimevole superstizione, ma nel mondo primitivo è saggezza opportunissima, perché colà l'uomo è in balìa del caso in misura molto maggiore che nella nostra esistenza protetta e regolata. Non si

possono rischiare troppi incidenti, quando ci si trova nella selvaggia natura. Anche l'europeo lo sente. Se un pueblo non si sente intimamente d'accordo con se stesso, non va all'assemblea degli uomini. Se un antico romano inciampava sulla soglia nell'uscir di casa, rinunciava a fare quel che si proponeva. A noi sembra insensato, ma in condizioni primitive un tal presagio induce per lo meno alla prudenza. Se io non mi sento intimamente d'accordo con me stesso, i miei movimenti sono facilmente inibiti, la mia attenzione è disturbata, sono un po' distratto, e per conseguenza urto da qualche parte, inciampo, lascio cadere qualcosa, dimentico qualcosa. In condizioni civili son cose da nulla, ma nella foresta vergine sono pericoli gravissimi! Inciampare colà vuol dire scivolare sopra un tronco d'albero reso viscido dalla pioggia, teso come ponte sopra un fiume pieno di coccodrilli. Io perdo la mia bussola nell'alta erba. Dimentico di Carlcare il mio fucile e capito nella giungla in un sentiero di rinoceronti. Sono assorto nei miei pensieri e calpesto una vipera. A sera dimentico di calzare a tempo i miei stivali contro le zanzare e undici giorni dopo muoio del primo attacco di malaria tropicale. Anzi, basta dimenticare di tener la bocca chiusa nel bagnarsi e ci si ammala di dissenteria mortale. Certo, incidenti di questa specie hanno per noi la loro riconoscibile causa naturale in uno stato psicologico alquanto distratto ma per il primitivo sono presagi obbiettivi oppure magia. Ma può anche non esser così. Nella regione Kitoshi a sud dell'Elgon io feci un'escursione nella foresta vergine di Kabra. Qui, nella densa erba, per poco non calpestai una vipera. All'ultimo momento riuscii ancora a scavalcarla. Nel pomeriggio il mio amico torna dalla caccia ai polli pallido come la morte e tremante in tutte le membra: era sfuggito per un pelo al morso sicuramente mortale di un mamba lungo sette piedi, che gli si era proiettato [p. 159] addosso da un termitaio alle sue spalle. All'ultimo momento, da pochi passi, aveva ancor potuto sparare sull'animale e ferirlo. La sera verso le nove il nostro campo fu assalito da una torma di jene affamate, che il giorno prima avevan già sorpreso un uomo nel sonno e l'avevan sbranato. Nonostante il fuoco entrarono nella capanna del nostro cuciniere, che fuggì gridando e scavalcando il muro. Poi, per tutto il viaggio, non capitò più nient'altro. Una giornata come quella fece molto parlare i miei negri. Quello che per noi era un semplice accumulo di incidenti, per loro era il naturale avverarsi di un presagio manifestatosi il giorno stesso della nostra

partenza, nella foresta. Eravamo infatti precipitati in un ruscello, colla nostra Ford e col ponte su cui stavamo transitando. I miei ragazzi si erano guardati in faccia, come per dire: «Cominciamo bene!» Poi fummo sorpresi da una tempesta tropicale che ci bagnò tutti e ci lasciò per parecchi giorni colla febbre. La sera di quel giorno noi bianchi ci guardammo in faccia ed io non potei fare a meno di dire al mio amico cacciatore: «Mi par quasi che tu abbia cominciato molto prima. Ti ricordi quel sogno che mi hai raccontato poco prima della nostra partenza, a Zurigo?» Allora infatti egli aveva avuto, in sogno, un incubo impressionante. Aveva sognato di essere a caccia in Africa e di venir assalito da un gigantesco mamba. Si era destato con un grido d'angoscia. Il sogno gli aveva fatto una forte impressione ed egli ora mi confessò che aveva pensato volesse dire la morte per uno di noi. La morte mia, naturalmente, perché il buon camerata è, nelle nostre speranze, sempre l'altro. Ma fu lui che più tardi si ammalò di una grave malaria che lo portò proprio all'orlo della tomba. Questo colloquio, riferito qui dove non ci sono né serpenti né anofeli, sembra un nonnulla. Ma immaginatevi una azzurra e vellutata notte tropicale, dove incombono neri i giganteschi alberi della foresta vergine, e risuonano in lontananza le misteriose voci della notte; e il fuoco solitario, e i fucili Carlchi appoggiati là presso, e l'acqua delle paludi, che bisogna bollire per poterla bere; aggiungetevi la convinzione che un vecchio africano, pratico del paese, [p. 160] ha espresso colle parole: «Sapete, questa non è terra dell'uomo, è terra di Dio». Là non l'uomo è re, ma la natura, gli animali, le piante e i microbi. Lo stato d'animo di cui ho parlato è inevitabile in questo ambiente, e si comprende come possano affiorare confusamente dei nessi di cui prima avremmo riso. Questo è il mondo delle illimitate potenze arbitrarie con cui il primitivo è in contatto ogni giorno. L'inconsueto non è uno scherzo, per lui. Egli ne trae le sue conclusioni: «il luogo non è adatto», «la giornata è sfavorevole», e chissà quanti pericoli egli evita seguendo questo ammonimento! «Magic is the science of thejungle». Il portento produce subitanee modificazioni dell'attività usuale, abbandono di imprese progettate, cambiamento dell'attitudine psicologica. Son tutte misure molto opportune, se si tien conto del raggruppamento degli incidenti, e del fatto che i primitivi ignorano completamente la causalità psichica. Noi abbiamo imparato, per l'unilaterale preferenza che diamo alle cosidette cause naturali, a separare ciò che è soggettivo e psichico da ciò che è obbiettivo e naturale. Il primitivo

invece ha la sua psiche fuori, negli oggetti. Non è lui che è stupito, ma è l'oggetto che è mana, cioè dotato di forza magica, e quindi tutti gli effetti invisibili, che noi attribuiremmo alla suggestione ed alla immaginazione, per lui vengon di fuori. Il suo paese non è né geografico né geologico né politico; contiene la sua mitologia e la sua religione e tutti i suoi pensieri ed i suoi sentimenti, perché egli non sa che sono pensieri e sentimenti suoi. La sua paura è localizzata in certi luoghi che non sono «buoni». In quella foresta abitano gli spiriti dei trapassati. Quella caverna contiene diavoli che strangolano chiunque entri. In quel monte abita il grande serpente, in quel colle è sepolto il re leggendario, quella fonte, quella roccia o quell'albero rendon gravide le donne, a quel guado vigilano demoni in forma di serpenti, quel grande albero ha una voce che chiama certe persone. Il primitivo non ha psicologia. Lo psichico è obbiettivo ed avviene fuori. Perfino i suoi sogni sono realtà, oppure non ne tien conto. I miei Elgoini credevan sul serio di non aver sogni: solo il mago [p. 161] ne ha. Costui, interrogato da me, disse che non aveva più sogni da quando gli Inglesi erano nel paese; che suo padre aveva ancora avuto i grandi sogni, e sapeva dove eran migrati i greggi, dov'erano le vacche coi vitelli, quando doveva venire la guerra e quando la peste; ma ora il dis-trict commissioner sapeva tutto, ed essi non sapevano nulla. Era rassegnato, come certi abitanti della Papuasia i quali credono che gran parte dei coccodrilli siano passati all'amministrazione inglese. Un delinquente indigeno era sfuggito alle autorità e, nel tentativo di attraversare un fiume, era stato gravemente storpiato da un coccodrillo. Essi ammisero quindi che dovesse essere un coccodrillo della polizia. Adesso Dio parla in sogno agli Inglesi, ma non col medico degli Elgoini, perché quelli hanno la forza. La funzione di sognare è passata ad altri. Così anche le loro anime talvolta migrano fuori, e il medico le acchiappa e le mette in gabbia come uccelli. Oppure anime estranee migrano entro di loro, e causano malattie. Questa proiezione di ciò che è psichico crea naturalmente relazioni fra uomo e uomo, e fra uomini e animali e cose, che ci sembrano del tutto incomprensibili. Un cacciatore bianco uccide un coccodrillo. Subito dopo molta gente vien fuori di corsa dal villaggio vicino e chiede, in grande agitazione, un indennizzo, perché il coccodrillo è una certa vecchia del villaggio morta proprio nel momento in cui il cacciatore ha sparato. La sua anima boschiva era evidentemente questo coccodrillo. Un altro uccise un leopardo che minacciava il suo bestiame. Contemporaneamente moriva una donna in un villaggio vicino. Anche essa era identica a questo leopardo.

Lévy-Bruhl, per queste strane relazioni, ha coniato l'espressione participation mystique. La scelta dell'aggettivo «mistico» non mi pare felice, giacché per il primitivo qui non c'è niente di mistico, ma si tratta di una cosa del tutto naturale. Sembra strana solo a noi, che apparentemente ignoriamo queste scissioni psichiche. In realtà esse avvengono anche in noi, certo non in questa forma ingenua, ma in forma più adeguata al nostro grado di civiltà. In pratica, per esempio, va da sé che noi presupponiamo [p. 162] in un altro la nostra stessa psicologia, ammettendo che gli piacciano o gli sembrino desiderabili le stesse cose che piacciono a noi; ciò che per noi è cattivo, deve esser cattivo anche per lui. Solo negli ultimi tempi la nostra magistratura si è lasciata indurre a mettere un po' di relativismo psicologico nelle sue sentenze. La massima quod licet Jovi non licet bovi invelenisce ancor sempre tutti gli animi semplici. L'uguaglianza di fronte alla legge ha ancor sempre il significato di una preziosa conquista. Si è certi che l'altro ha tutte quelle qualità malvage e inferiori che non si vorrebbe vedere in se stessi, e perciò bisogna criticarlo e combatterlo, mentre non è successo altro se non che un'anima inferiore è trasmigrata dall'uno all'altro. Il mondo è ancor sempre pieno di bestie nere e di capri espiatori, così come prima formicolava di streghe e di lupi mannari. La proiezione psicologica, o partecipazione mistica di Lévy-Bruhl, che questi ebbe il gran merito di mettere in rilievo come una qualità caratteristica dell'uomo primitivo, è uno dei fenomeni psicologici più generali ed abituali; solo che noi lo definiamo con altre parole e di regola non vogliamo crederlo vero. Noi scopriamo nel vicino tutto ciò che in noi è incosciente; perciò trattiamo male il vicino. Non lo sottoponiamo più alla prova del veleno, non lo bruciamo e non lo torturiamo, ma lo offendiamo moralmente in tono di profonda convinzione. Ciò che in lui combattiamo è di solito la nostra inferiorità. Per la sua coscienza indifferenziata e la completa mancanza di autocritica che ne consegue il primitivo proietta semplicemente più di noi. E siccome ciò che proietta gli pare assolutamente obbiettivo, il suo linguaggio è anche corrispondentemente drastico. Con un po' di spirito ci si può ben rappresentar qualcosa sotto la specie di donna-leopardo: non usiamo noi forse gli epiteti, non proprio laudativi, di oca, di vacca, di serpente, di bue, di asino ecc'? Soltanto il sapore morale col suo veleno manca alla primitiva anima della giungla; l'uomo arcaico è troppo naturalistico per ciò, e soggiace troppo all'impressione degli eventi, che lo stimolano al giudicare molto meno di

quanto [p. 163] non stimolino noi. I pueblos mi spiegarono con grande obbiettività che io appartengo al totem degli orsi, che dunque sono un orso, perché non scendo da una scala a pioli stando in piedi liberamente come un uomo, ma all'indietro, a quattro gambe come un orso. Se qualcuno in Europa dicesse che io sono un orso abitatore delle caverne, sarebbe la stessa cosa, ma con una sfumatura alquanto diversa. Il motivo dell'anima nella giungla, che nel primitivo ci sembra tanto strano, è divenuto presso di noi figura retorica, come tante altre cose. Traduciamo la metafora in concreto, ed abbiamo l'intuizione primitiva. L'espressione tedesca arztlich behand-eln (curare, letteralmente trattare o maneggiare medicamente), tradotta in termini primitivi corrisponde a Handauflegen o imporre le mani: che è proprio quello che fa il medico primitivo coi suoi pazienti. A noi questa storia dell'anima nella giungla riesce difficilmente comprensibile, perché siamo sconcertati dall'idea concreta che un'anima possa staccarsi completamente e andare a soggiornar in un animale feroce. Ma se noi diciamo che qualcuno è un asino, intendiamo dire non che egli sia sotto ogni rapporto un mammifero della specie asino, ma che egli è un asino solo sotto un certo aspetto. In tal modo noi distacchiamo un pezzo di personalità o di anima da quel tale e personifichiamo il frammento come asino. E similmente anche la donna-leopardo è un essere umano, solo la sua anima che sta nella giungla è un leopardo. Essendo per il primitivo cosa concreta tutto ciò che in lui è inconsciamente psichico, quegli che viene indicato come leopardo ha effettivamente l'anima di un leopardo, oppure, se la scissione è più profonda, l'anima di leopardo vive, come vero leopardo, nella giungla. L'identificazione effettuata mediante proiezione crea un mondo in cui l'uomo è completamente incluso non solo fisicamente, ma anche moralmente; egli scorre, fluisce, in certo qual modo, con questo mondo. Non ne è mai il signore, ma soltanto un elemento. Perciò i primitivi sono ancor ben lontani dal particolarismo umano. Non sognano [p. 164] di essere i signori della creazione. La loro classificazione zoologica non culmina nell'homo sapiens: l'essere più elevato è l'elefante, poi viene il leone, poi il serpente boa o il coccodrillo, poi l'uomo e poi gli esseri inferiori. L'uomo è ancora subordinato alla natura. Non pensa di poter dominare la natura, perciò la sua aspirazione suprema è quella di difendersi dagli incidenti pericolosi che la natura gli presenta. L'uomo civile invece cerca di dominare la natura, perciò la sua

massima aspirazione è quella di conoscere le cause naturali, chiave delle recondite fucine della natura. E' contrarissimo alla idea che esistano forze arbitrarie, perché vi subodora, e con ragione, la prova che al postutto sia sforzo vano voler dominare la natura. Caratteristico dell'uomo arcaico è il suo atteggiamento di fronte all'arbitrio del caso, perché questo fattore è per lui di assai maggiore importanza che le cause naturali. L'arbitrio del caso consiste da un lato nell'effettivo raggruppamento dei casi, e da un altro lato nella proiezione della psiche incosciente, nella cosidetta partecipazione mistica. Per l'uomo arcaico questa differenza, a dire il vero non esiste, perché il psichico è in lui così completamente proiettato che non si distingue dal fatto fisico. Per lui i casi sono quindi interventi animati, cioè atti arbitrari intenzionali, perché egli non si accorge che lo straordinario lo scuote solo perché egli gli impresta la forza del suo stupore o del suo terrore. Qui ci troviamo tuttavia su di un terreno pericoloso. E' una cosa bella perché io le do bellezza? Oppure la bellezza obbiettiva delle cose mi costringe a riconoscerla? Sappiamo quali grandi menti si sono cimentate attorno al problema se i mondi siano illuminati dal sacro sole o dall'occhio solare dell'uomo. L'uomo arcaico crede al sole, l'uomo civile crede agli occhi, se proprio non soffre di morbo poetico e se è uso a riflettere. Deve disanimare la natura, per poterla dominare, cioè deve prendersi indietro tutte le proiezioni arcaiche, almeno là dove cerca di essere obbiettivo. Nel mondo arcaico tutto ha un'anima, l'anima dell'uomo, o meglio l'anima dell'umanità, l'incosciente collettivo, perché il singolo non ha ancora anima. Non dimentichiamo [p. 165] che il battesimo cristiano ha il significato di una pietra miliare di altissima importanza nello sviluppo della umanità. Il battesimo conferisce un'anima essenziale; e questo è opera non già del singolo e magico rito battesimale, ma dell'idea del battesimo, che toglie l'uomo dall'identità col mondo e lo trasforma in un essere superiore al mondo. Il fatto che l'umanità sia salita all'altezza di questa idea costituisce, nel suo senso più profondo, il battesimo e la nascita dell'uomo spirituale, non naturale. Nella psicologia dell'incosciente vale il principio che ogni parte relativamente indipendente dell'anima ha carattere di personalità, cioè si personifica non appena le si offre occasione di manifestarsi come elemento autonomo. I più begli esempi di ciò sono le allucinazioni degli alienati e le comunicazioni medianiche. Dove si proietta una parte autonoma dell'anima,

nasce una persona invisibile. Così nascono nello spiritismo usuale gli spiriti, e la stessa cosa succede nel primitivo. Quando un elemento essenziale dell'anima viene proiettato su di un uomo, questo diventa mana, cioè inconsuetamente attivo: mago, strega, lupo mannaro e così via. L'idea primitiva che il medico acchiappi le anime migrate di nottetempo e le metta in gabbia, illustra chiarissimamente quanto abbiamo detto. Queste proiezioni fanno il medico mana, fanno parlare gli animali, le piante e le pietre e ottengono, appunto perché sono parti dell'anima, l'obbedienza incondizionata dell'individuo. Per questa ragione l'alienato cade senza speranza di salvezza in preda alle sue voci, perché le proiezioni sono la sua propria attività psichica, di cui egli in tanto è il soggetto incosciente, in quanto le ode, le vede e ubbidisce loro. Psicologicamente considerata, la teoria che la potenza arbitraria del caso promani da intenzioni di spiriti e di maghi è dunque la più naturale di tutte, perché deriva da un ragionamento inevitabile. Ma non abbandoniamoci a illusioni, a questo riguardo! Se infatti esponessimo ad un primitivo intelligente la nostra spiegazione assolutamente scientifica, egli ci accuserebbe di prestar fede ad una ridicola superstizione e di mancare spaventosamente di logica, [p. 166] giacché secondo lui il sole e non l'occhio illumina il mondo. Una volta ricevetti dal mio amico «Lago montano», capo di un pueblo, un richiamo all'ordine tale da farmi vergognare, per aver insinuato l'argomento di sant'Agostino: Non est hic sol dominus noster, sed qui illum fecit. Mi gridò indignato: «Quello là, e - indicava il sole, -è il nostro padre. Lo puoi vedere. Da lui viene tutta la luce, tutta la vita, non c'è nulla che egli non abbia fatto». Eccitatissimo, cercò le parole ed esclamò: «Nemmeno un uomo che cammini solo per le montagne può accendere il suo fuoco senza di lui». Il punto di vista arcaico non può esser meglio caratterizzato che con queste parole. Ogni potenza è esteriore, e solo per essa noi possiamo vivere. Vedete senz'altro che il pensiero religioso anche nei nostri tempi sdivinizzati mantiene vivo lo stato d'animo arcaico. Innumerevoli milioni di uomini pensano ancora così. Parlando dell'atteggiamento fondamentale del primitivo rispetto all'arbitrio del caso, ho affermato che questo atteggiamento dello spirito è opportuno e quindi sensato. Vogliamo- almeno per un momento - arrischiare l'ipotesi che la teoria primitiva delle potenze arbitrarie non sia soltanto psicologica, ma abbia anche una effettiva giustificazione?

Non spaventatevi: non voglio proprio convincervi della realtà della stregoneria. Vorrei solo considerare a quali conclusioni si giungerebbe se si ammettesse coi primitivi che tutta la luce viene dal sole, che le cose sono belle, che un frammento di anima umana è un leopardo, se dunque - in una parola - si desse ragione alla primitiva teoria del mana. Secondo questa teoria è la bellezza che commuove noi, non siamo noi che generiamo la bellezza. C'è qualcuno che è veramente un diavolo, non siamo noi che abbiamo proiettato in lui la nostra malvagità e ne abbiamo fatto un diavolo. Ci sono degli uomini, i cosidetti mana che son tali di per sé e non debbono affatto la loro esistenza alla nostra fantasia. La teoria del mana dice infatti che c'è qualcosa come una forza diffusa dappertutto, che produce obbiettivamente gli effetti inconsueti. Tutto ciò che è agisce, altrimenti non è reale. Può essere soltanto [p. 167] grazie alla sua energia. Ciò che è, è un campo di forza. La primitiva idea del mana è dunque lo spunto di un'energetica. In questo senso si può ben seguire senza difficoltà la concezione dei primitivi. Ma se, procedendo oltre in questo modo di vedere di per sé conseguente, e rovesciando le proiezioni psichiche di cui abbiamo testè parlato, affermiamo: non la mia fantasia o la mia emozione fanno del medico un mago, al contrario, egli è veramente un mago e proietta effetti magici su di me; gli spiriti non sono una mia allucinazione, ma mi appaiono per impulso proprio; se affermiamo questi, ripeto, che sono derivati logici della teoria del mana, allora cominciamo ad esitare e non ritroviamo più la nostra bella teoria psicologica delle proiezioni. Si tratta infatti nientemeno che del quesito: nascono forse la funzione psichica, l'anima o spirito o l'incosciente in noi, oppure agli inizi della formazione della coscienza la psiche è effettivamente fuori, in forma di intenzioni e di potenze arbitrarie, per poi penetrare gradatamente dentro l'uomo nel corso dello sviluppo psichico? Erano una volta i cosidetti elementi distaccati dell'anima parte veramente di un'intera anima individuale, o erano piuttosto unità psichiche esistenti da sé (in termini primitivi: spiriti, anime di antenati e simili) che nel corso dello sviluppo si incarnarono nell'uomo, componendo in lui gradatamente quel mondo che noi ora chiamiamo psiche? Questo ragionamento suona alquanto paradossale, ma non è, in fondo, del tutto incomprensibile. L'idea che si possa infondere nell'uomo qualche elemento psichico che prima non c'era è sostenuta, oltre che dalla religione, anche dalla pedagogia. La suggestione e l'influenza esistono, ed il behaviourism moderno ha speranze addirittura stravaganti, a questo riguardo.

L'idea che la psiche cresca mediante il saldarsi insieme di elementi disparati si esprime presso i primitivi in molte forme, quali la diffusa credenza nell'invasamento, nell'incarnazione delle anime degli antenati, nella immigrazione delle anime, per esempio durante lo starnuto (ed anche noi diciamo ancora «salute!», il che significa: «spero che la nuova anima non ti rechi danno»). La nostra sensazione di giungere gradatamente, [p. 168] nel corso dello sviluppo individuale, da una contraddittoria molteplicità all'unità della nostra personalità, è pure il risultato di un accrescimento mediante la saldatura di elementi disparati. Il nostro corpo è composto dalle molteplici unità ereditarie mendeliane; che la nostra psiche abbia forse un simile destino non pare quindi del tutto impossibile. La concezione materialistica del nostro tempo e la concezione arcaica hanno uguali tendenze, cioè conducono a uguali soluzioni finali: ossia l'individuo è un mero risultato, dovuto in un caso alla confluenza di cause naturali, e nato nell'altro da accidenti arbitrari. In ambo i casi l'individualità umana appare un prodotto accidentale non essenziale di sostanze operanti nell'ambiente. Questa concezione è assolutamente conseguente alla luce dell'immagine che ha del mondo l'uomo arcaico, nella quale l'uomo singolo comune non è mai essenziale, ma illimitatamente intercambiabile e transitorio. Il materialismo, attraverso il lungo giro di un rigidissimo causalismo, è ritornato alla concezione dei primitivi. Ma il materialista è più radicale, perché più sistematico del primitivo. Quest'ultimo ha il vantaggio dell'inconseguenza: fa eccezione per la personalità mana la quale, nel corso dello sviluppo storico, si è sollevata alla dignità di figure divine, di eroi e di re divini che, mangiando il cibo degli dèi che mantiene eterni, sono partecipi dell'immortalità. Sì, quest'idea dell'immortalità dell'individuo e quindi del suo valore insopprimibile si trova già in precoci stadi arcaici, prima di tutto nella fede negli spiriti, poi nei miti del tempo in cui non c'era ancora la morte, la quale ultima è venuta nel mondo per qualche sciocco malinteso o per trascuranza. Il primitivo non è cosciente di questa contraddizione nel suo modo di pensare. I miei negri mi assicuravano di non sapere nulla di ciò che sarebbe avvenuto di loro dopo la morte: dopo la morte non si respira più, ed il cadavere è portato nella giungla, dove le jene lo mangiano. Così pensano di giorno, ma le notti son piene di spiriti dei morti, che fanno ammalare uomini ed animali, assalgono viandanti notturni e li strozzano, e così via. Contraddizioni [p. 169] simili, di cui brulica la mente del primitivo, potrebbero quasi far uscir di senno l'europeo. Egli non pensa che il nostro

mondo civile fa ancora la stessa cosa. Ci sono università le quali rifiutano perfin di discutere il pensiero di un intervento divino, e poi hanno facoltà teologiche. Uno scienziato materialista, che riterrebbe cosa oscena il ricondurre anche la più piccola variazione di una specie animale a un atto di volontà divina, ha nell'altro cassetto una religione cristiana completamente sviluppata, che quando è possibile, dà visibilmente segno di sé ogni domenica. Perché dovremmo irritarci per le inconseguenze dei primitivi? Dalle idee primordiali dell'umanità non sono deducibili sistemi filosofici, ma soltanto antinomie, le quali però, in tutti i tempi ed in tutte le civiltà, sono l'inesauribile fondamento di tutti i problemi spirituali. Le rappresentazioni collettive dell'uomo arcaico sono profonde o appaiono soltanto tali? Il loro senso esisteva all'inizio o fu creato più tardi dagli uomini? Io non posso risolvere questo difficilissimo problema, ma vorrei, per concludere, raccontare un'osservazione che ho fatto presso la tribù montana degli Elgoini. Andavo alla ricerca, in lungo e in largo, di qualche traccia di idee o cerimonie religiose, e per parecchie settimane non trovai proprio nulla. La gente mi lasciava veder tutto e mi dava volonterosamente informazioni su tutto. Potevo conversar con loro direttamente senza l'ostacolo di un interprete indigeno perché molti dei vecchi parlavano la lingua Suaheli. In principio erano riservati, ma, rotto il ghiaccio, trovai la più amichevole accoglienza. Non sapevano nulla di usi religiosi. Ma io non mi diedi per vinto, e una volta, a conclusione di uno dei molti convegni senza risultato, un vecchio improvvisamente esclamò: «La mattina quando sorge il sole noi usciamo dalle capanne, ci sputiamo nelle mani e le volgiamo verso il sole». Lo pregai di ripetere e di descrivere esattamente la cerimonia. Essi sputano o soffiano fortemente nelle mani tenute davanti alla bocca e poi rivolgono le palme verso il sole. Io domandai che cosa ciò volesse dire, perché lo facessero, perché soffiavano [p. 170] e sputavano nelle mani. Invano. «Si è sempre fatto così» dissero. Fu impossibile ottenere qualunque spiegazione, e capii benissimo che essi sanno solo che lo fanno, ma non che cosa fanno. In quest'atto non vedono alcun senso. Salutano anche la luna nuova collo stesso gesto. Ammettiamo ora che io sia uno straniero nel senso più assoluto, venuto a Zurigo per studiare gli usi locali. Prendo alloggio in un quartiere signorile e stringo relazione con qualcuno dei suoi abitanti. Domando ai signori Muller e Mayer: «Per cortesia, raccontatemi qualche cosa dei vostri usi religiosi». I due signori sono sconcertati. Non vanno mai in chiesa, non sanno nulla e

negano enfaticamente di avere usi del genere. E' primavera e viene la Pasqua. Un mattino sorprendo il signor Muller in un'attività alquanto strana: corre tutto indaffarato per il giardino, nasconde alcune uova colorate e vi mette sopra dei curiosi idoli in forma di lepre. E' colto in flagrante. «Perché mi avete taciuto questa interessantissima cerimonia?» gli domando. «Che cerimonia! Non è nulla. Si fa sempre così, a Pasqua». «Ma che significano allora queste uova, questi idoli, questi nascondigli?» Il signor Muller casca dalle nuvole. Non lo sa neppur lui, così come non sa che cosa significhi l'albero di Natale, eppure lo fa, proprio come i primitivi. Hanno forse i lontani antenati dei primitivi saputo meglio ciò che facevano? E' assai improbabile. L'uomo arcaico si limita a farlo, e solo l'uomo civile sa ciò che egli fa. Orbene, che cosa significa la cerimonia degli Elgoini, che ho riferito più sopra? Evidentemente è un'offerta al sole, che per questa gente, nel momento in cui sorge, e solo allora, è mungu, cioè mana, divino. La saliva è la sostanza che secondo la concezione primordiale contiene il mana personale, la forza salutare, magica, vitale. Il fiato è zoho, in arabo ruch, in ebraico ruach, in greco pneuma: vento e spirito. Quell'atto dice dunque: io offro a Dio la mia anima vivente. E' una preghiera senza parole, mimica, che potrebbe anche [p. 171] essere espressa così: «Signore, nelle tue mani io affido il mio spirito». E' soltanto così? Oppure questo pensiero è già stato pensato e voluto prima dell'uomo?(1930).

IX. Le diverse età dell'uomo

Parlare dei problemi psichici delle diverse età dell'uomo, è un compito assai complesso, poiché consiste niente meno che nello svolgere un quadro di tutta la vita psichica, dalla culla sino alla tomba. Un tale compito non potrà essere svolto, nei limiti concessi da una conferenza, che nelle sue linee generali; naturalmente non si tratta di fare qui una descrizione della psicologia normale delle differenti età; dobbiamo invece trattare dei «problemi», cioè dobbiamo trattare questioni piene di difficoltà, di dubbi, di ambiguità, in breve questioni alle quali si può dare più di una risposta, e per di più, risposte che non sono mai sufficientemente sicure e fuori di dubbio. Dovremo quindi, sovente, pensare in forma interrogativa, e quel che è peggio, accettare alcune cose senza discuterle, teorizzando quando sarà necessario. Se la vita psichica consistesse soltanto di dati di fatto, come è il caso ancora per chi si trova allo stadio primitivo, potremmo accontentarci di un solido empirismo. Ma la vita psichica dell'uomo civile è ricca di problemi: non solo, ma non la si potrebbe concepire senza di essi. I nostri processi psichici sono per la maggior parte riflessioni, dubbi, esperienze; fenomeni tutti che l'anima istintiva incosciente del primitivo, si può dire, non conosce affatto. Dobbiamo l'esistenza di questi problemi all'allargamento del campo della coscienza; tali sono i doni funesti della civiltà. L'allontanarsi dall'istinto, o l'erigersi contro di esso, crea la coscienza. L'istinto è natura e vuole natura. Al contrario, la coscienza non può volere che la civiltà, o la negazione di essa, e ogni qual volta, animata da un'aspirazione alla Rousseau, cerca di ritornare alla natura, finisce col «coltivarla». [p. 173] Quanto più noi apparteniamo ancora alla natura, tanto più siamo incoscienti e viviamo nella sicurezza dell'istinto privo di problemi. Tutto quanto in noi è ancora natura, teme ogni problema, poiché problema significa dubbio, incertezza, possibilità di diverse strade. Ma quando diverse strade ci appaiono possibili, noi abbandoniamo la guida sicura dell'istinto e diamo libero ingresso alla paura. A questo punto bisognerebbe che la nostra coscienza facesse ciò che la natura ha sempre fatto verso i suoi figli: cioè che essa prendesse una decisione sicura, priva di qualsiasi dubbio, univoca. Allora ci coglie il timore, troppo

umano, che la nostra coscienza, conquista prometeica dell'uomo, non possa alla fine mai eguagliare la natura. Il problema ci conduce ad una solitudine in cui non troviamo più né padre, né madre, in un abbandono in cui non ci sorregge più la natura, in cui siamo ridotti alla coscienza di noi stessi, alla sola coscienza di noi stessi. Non possiamo far altro che porre decisioni e soluzioni coscienti al posto dello svolgimento naturale dei fenomeni. Ogni problema è, al tempo stesso, una possibilità di espansione della coscienza, unita all'obbligo di dire addio a tutto quanto in noi v'è ancora di incoscienza infantile ed istintiva. Tale obbligo costituisce un fatto psichico di così enorme importanza, che esso forma una delle dottrine simboliche essenziali della religione cristiana. Esso è il sacrificio di quanto v'è in noi di puramente istintivo, dell'essere incosciente conforme alla natura, il cui tragico destino cominciò quando Eva mangiò il pomo del Paradiso. Questo peccato biblico fa della presa di coscienza una specie di maledizione. E tale, infatti, ci appare ogni problema che ci costringa ad una più vasta coscienza e che respinga in zone ancor più remote il paradiso dell'incoscienza infantile. Ognuno si allontana volentieri dai problemi e quando è possibile preferisce non menzionarli; o meglio negare la loro esistenza. Ognuno desidera che la vita sia semplice, sicura e senza ostacoli; ecco perché i problemi sono tabù. L'uomo vuole certezze e non dubbi, risultati e non esperienze, senza accorgersi che le certezze non possono provenire che dai dubbi e i risultati dalle esperienze. [p. 174] Così la negazione forzata dei problemi non crea delle convinzioni, al contrario, occorre una coscienza più vasta e più alta per stabilire la sicurezza e la chiarezza. Questa lunga introduzione era necessaria per dare un'idea dell'essenza del nostro soggetto. Quando si tratta di problemi, noi ci rifiutiamo istintivamente ad avventurarci nelle tenebre prive di luce. Il nostro desiderio è di non sentir parlare altro che di risultati univoci, dimenticando completamente che i risultati non possono mai aversi se non quando la zona di oscurità è stata attraversata. Ora, per penetrarla, dobbiamo mettere in opera tutti i mezzi di illuminazione che la nostra coscienza possiede, non esclusa la speculazione teoretica. Nel trattare problemi psichici ci imbattiamo continuamente in questioni di principio che le facoltà più diverse affermano essere di loro esclusivo dominio. Noi diamo preoccupazione ed irritiamo i teologi non meno che i filosofi, ed i medici non meno che gli educatori; osiamo spingerci persino nel campo dei biologi e degli storici. Tali stravaganze non derivano

minimamente dalla nostra indiscrezione, ma dal fatto che l'anima umana è uno strano amalgama di elementi che al tempo stesso sono oggetto di studio di vaste scienze, giacché è da se stesso e dalle sue disposizioni particolari, che l'uomo ha creato le sue scienze. Esse rappresentano i sintomi dell'anima sua. Se dunque noi ci facciamo la seguente inevitabile domanda: «perché l'uomo, contrariamente a tutto il mondo animale, si pone dei problemi?» veniamo a trovarci in quell'inestricabile groviglio di pensieri, a cui migliaia di spiriti molto acuti hanno dato origine nel corso dei millenni. Intorno a questa opera meravigliosa non intraprenderò un lavoro di Sisifo; mi sforzerò solamente di esporre, con tutta semplicità, il contributo che posso apportare alla soluzione di questa importante questione. Non esistono problemi senza coscienza. Perciò dobbiamo porre la questione sotto un'altra forma: «Come mai l'uomo possiede una coscienza?» Non so, dato che non c'ero, come i primi uomini divennero coscienti. Ma oggigiorno possiamo ancora osservare nei fanciulli l'apparire della coscienza. Ciò può essere osservato da ogni genitore, se si dà la pena di farlo. Ecco quanto notiamo: quando il fanciullo riconosce qualcuno o qualche cosa, noi ci rendiamo conto che egli ha coscienza. Senza dubbio, è per questa ragione che l'albero della conoscenza del paradiso produsse frutti così funesti. Che cos'è conoscere? Noi parliamo di conoscenza, quando riusciamo a riallacciare una percezione nuova ad una serie di percezioni già esistenti, in modo d'avere al tempo stesso non solo la percezione nuova, ma anche frammenti dei contenuti psichici preesistenti. La conoscenza consiste quindi nella rappresentazione di una relazione tra contenuti psichici. Noi non possiamo conoscere alcun contenuto senza relazione, ma per di più non possiamo neppure esserne coscienti, se la nostra coscienza si trova ancora alla fase iniziale. La prima forma di coscienza che sia accessibile alla nostra osservazione e alla nostra conoscenza sembra dunque essere la semplice relazione tra due o più contenuti psichici. A questo stadio, di conseguenza, la coscienza è ancora interamente legata alla rappresentazione di alcune rare serie di relazioni; inoltre essa è sporadica e sparisce dalla memoria. Difatti non esiste memoria continua nei primi anni di vita. In questo periodo non esistono che isolotti di coscienza analoghi a rare luci o ad oggetti illuminati in una notte profonda. Queste isole di ricordi non costituiscono però soltanto le prime relazioni tra i contenuti rappresentati; esse racchiudono una nuova e molto importante sequela di contenuti, quelli che si riferiscono al soggetto

che si rappresenta e che si chiama l'Io. Anche questa serie, come la precedente, dapprima non è altro che rappresentazione, ed è perciò che il fanciullo, con una conseguenza perfetta, parla in principio di se stesso in terza persona. Non è che dopo, quando la serie dell'io, o, come suol dirsi, il complesso dell'io, ha acquistato energia propria, probabilmente dopo un lungo esercizio, che appare nel fanciullo la sensazione d'essere un soggetto, un io. E' senza dubbio a questo punto che il bambino comincia a parlare di se stesso in prima persona. A questo stadio comincia la continuità della memoria. Essa non sarebbe in ultima analisi che una continuità di ricordi dell'io. Allo stadio della coscienza infantile non esistono ancora problemi, poiché nulla dipende dal soggetto, essendo il fanciullo del tutto dipendente dai suoi genitori. E' come se, non essendo ancora completamente nato, l'atmosfera psichica dei genitori lo sorreggesse. La nascita psichica, che segna la separazione completa dai genitori, non si produce normalmente che all'epoca della pubertà con l'apparire della sessualità. Tale rivoluzione fisiologica è accompagnata da una rivoluzione psichica. I fenomeni fisici mettono l'io tanto in rilievo, ch'esso sovente si fa valere in modo del tutto eccessivo. Da qui la definizione di «età ingrata». Sino a quest'epoca la psicologia dell'individuo è soprattutto istintiva, e quindi priva di problemi. Persino se degli ostacoli esterni s'oppongono alle tendenze soggettive, le repressioni che ne risultano non provocano alcuna disarmonia dell'individuo con se stesso. Esso ignora ancora la disarmonia intima dello stato problematico. Questa non può prodursi che al momento in cui l'ostacolo esterno diviene interno, cioè, quando un istinto si erige contro l'altro. Per esprimerci con termini psicologici, diremo che lo stato problematico e la disarmonia intima non si producono che all'istante in cui appare, a fianco della serie dell'io, una seconda serie di contenuti di un'analoga intensità; questa seconda serie, dato il suo valore energetico, ha un'importanza funzionale pari a quella del complesso dell'io; è, per così dire, un secondo io che, in caso di fallimento del primo, potrebbe togliergli la direzione della vita psichica. Ne segue il disaccordo con se stessi, lo stato problematico. Diamo a questo punto un breve sguardo su quanto abbiamo ora detto: la prima forma di coscienza, quella del semplice riconoscere, rappresenta una condizione anarchica [p. 177] o caotica. Il secondo stadio, cioè quello del complesso dell'io, è una fase monarchica o monistica. Il terzo stadio

rappresenta un progresso della coscienza verso una concezione dualistica. Eccoci dunque giunti al nostro argomento vero e proprio, cioè ai problemi delle diverse età. Consideriamo dapprima quelli della giovinezza. Questo stadio va dall'epoca che segue immediatamente la pubertà fino alla metà della vita, press'a poco verso i 35-40 anni. A questo punto ci potrà venir chiesto perché cominciamo dalla seconda fase della vita, come se l'infanzia non avesse problemi. Il fanciullo, normalmente, è ancora senza problemi, ma, data la sua psiche complessa, è egli stesso un problema importantissimo per i genitori, per gli educatori e per i medici. Solo l'adulto può trovarsi in dubbio, in disaccordo con se medesimo. Per la maggior parte degli uomini, sono le esigenze della vita che spesso spezzano brutalmente i sogni dell'infanzia. Se l'individuo è sufficientemente preparato, il passaggio alla vita professionale può aver luogo senza difficoltà. Ma se egli ha illusioni in contrasto con la realtà, allora sorgono dei problemi. Non v'è dubbio che nessuno entra nella vita senza idee preconcette, talvolta false, cioè idee che sono in disaccordo con le condizioni esterne. Sovente si tratta di grandi speranze, di sottovalutazioni di difficoltà esterne, di un ottimismo non giustificato oppure di negativismo. Si potrebbe fare una lunga lista di queste idee false che provocano i primi problemi coscienti. Il conflitto tra le premesse subbiettive e le condizioni esterne non sempre rappresenta l'unica causa dei problemi; questi provengono forse altrettanto spesso da difficoltà psichiche intime, esistenti anche quando all'esterno tutto procede bene. Molto spesso è il turbamento dell'equilibrio psichico causato dalla sessualità e, forse altrettanto sovente, dal senso di inferiorità, a provocare una insopportabile sensibilità. Tali conflitti interiori possono esistere anche quando l'adattamento esterno sembra compiersi senza difficoltà; infatti sembra che i giovani che debbono lottare molto nella vita esterna siano risparmiati dai problemi [p. 178] interiori, mentre quelli che, per delle ragioni qualsiasi, hanno un facile adattamento, sviluppano problemi sessuali o conflitti d'inferiorità. Le nature problematiche sono di frequente nevrotiche, ma sarebbe un grave errore il confondere questo carattere problematico con la nevrosi; tra essi esiste effettivamente una differenza essenziale: il nevrotico è ammalato in quanto non ha coscienza dei propri problemi, mentre il problematico soffre dei suoi problemi coscienti, senza essere malato. Quando si tenta di estrarre dalla molteplicità quasi inesauribile

dei problemi della gioventù ciò che vi è di comune e di essenziale, si trova una caratteristica che sembra essere comune a tutti i problemi di questo stadio: è un attaccamento più o meno netto al grado di coscienza proprio dell'infanzia, è una resistenza alle potenze del destino in noi ed intorno a noi, potenze che vogliono trascinarci nel mondo. Qualcosa in noi vorrebbe restare infantile, del tutto incosciente, o almeno vorrebbe non essere cosciente che del suo io, respingere tutto quanto è estraneo ad esso o per lo meno sottometterlo alla propria volontà; vorrebbe essere privo di responsabilità o almeno poter realizzare il proprio desiderio o la propria potenza. V'è in ciò una certa analogia con l'inerzia della materia; è un persistere nello stadio anteriore, stadio in cui la coscienza è più limitata, più ristretta, più egoista di quella della fase dualista nella quale l'individuo si trova costretto a riconoscere e ad ammettere che il non io, l'estraneo, è anch'esso parte della sua vita, e parte di se medesimo. La resistenza insorge contro l'espansione della vita, che è il carattere essenziale di questa fase. Questa espansione della vita, questa diastole, per esprimerci come Goethe, è già cominciata molto tempo prima. Essa si inizia già alla nascita quando il fanciullo abbandona il grembo materno, e aumenta continuamente, fin quando raggiunge il massimo nello stadio problematico, stadio da cui l'individuo cerca difendersi. Che cosa accadrebbe se egli si trasformasse semplicemente in quell'altro essere estraneo, che tuttavia è anche un io, e lasciasse sparire l'io che aveva avuto sino ad allora? [p. 179] Tale strada potrebbe anche apparire buona. Lo scopo dell'educazione religiosa -dalla cacciata del vecchio Adamo fino ai riti di rinascita dei popoli primitivi - non consiste forse nel trasformare l'uomo in un nuovo uomo e nel lasciare morire l'antico? La psicologia ci insegna che nell'anima non v'è nulla di vecchio, nulla che possa morire davvero e definitivamente; san Paolo stesso conservò uno spino nella sua carne. Colui che si tiene lontano da ciò che è nuovo e da ciò che gli è estraneo, per ritornare al passato, si trova nella medesima disposizione nevrotica di colui che, identificandosi col nuovo, fugge dinanzi al passato. L'unica differenza è che l'uno è estraneo al passato e l'altro all'avvenire. Entrambi fanno sostanzialmente la stessa cosa: essi mettono al sicuro la limitazione delle loro coscienze, invece di spezzarla con l'opposizione dei contrari e costruire così uno stato di coscienza più ampio e più elevato. Questo sarebbe un punto d'arrivo ideale, se lo si potesse realizzare in

questa fase dell'esistenza. Ma la natura sembra non interessarsi minimamente a stati di coscienza superiori, al contrario; la società stessa non sa valutare nel modo dovuto queste opere d'arte psichiche; essa apprezza sempre in primo luogo la produzione e non la personalità. Quest'ultima è onorata, in genere, post mortem. Tutto ciò conduce ad un risultato determinato, cioè a limitarsi a ciò che può essere raggiunto, a differenziare determinate capacità, che formano la vera essenza dell'individuo socialmente produttivo. Produzione, utilità, ecc' sono ideali che sembra vogliano indicare la via per sfuggire alla complicazione dei problemi; che ci guidano ad espandere e consolidare la nostra esistenza fisica, ed a radicarci nel mondo; ma che sono privi di utilità per lo sviluppo della coscienza umana, di ciò che si chiama la civiltà. E' certo che, per la gioventù, questi ideali sono normali e preferibili comunque all'atteggiamento problematico duraturo. Il problema viene risolto adattando le condizioni del passato alle possibilità e alle esigenze dell'avvenire. Ci si limita a ciò che può essere raggiunto; psicologicamente è [p. 180] una rinunzia a tutte le altre possibilità psichiche. Vi sono di quelli che perdono in tal modo una parte preziosa del passato, e c'è chi perde invece una parte preziosa dell'avvenire. Chi non ricorda certi amici e compagni di scuola, che da giovani erano esemplari e promettenti, e che, dopo molti anni, si ritrovano inariditi e limitati dal monotono andazzo della loro vita quotidiana? I grandi problemi della vita non sono mai risolti definitivamente. Se essi talvolta lo sembrano, è sempre a nostro danno. Si direbbe che il loro significato ed il loro scopo non siano nella loro soluzione, ma nell'attività che infaticabilmente noi spendiamo a risolverli. Soltanto ciò serve a preservarci dall'abbrutimento e dalla fossilizzazione. Anche la soluzione dei problemi della gioventù, data la loro limitazione a quanto è a portata di mano, non ha che un valore momentaneo che non presenta nulla di duraturo. In tutti i casi, è un lavoro enorme il crearsi, per mezzo della lotta, un'esistenza sociale e trasformare la propria natura primitiva al punto che essa possa adattarsi più o meno a questa forma di esistenza. E' un conflitto interiore ed esteriore al tempo stesso, comparabile soltanto a quello che fa il bambino per la formazione dell'io. E' vero che questa lotta, per la maggior parte di noi, si svolge nell'ombra; ma, quando vediamo con quale ostinazione persistono le illusioni, le idee preconcette, le abitudini egoistiche dell'infanzia, siamo in grado di misurare quale grande forza occorse a produrle. Altrettanto per gli ideali, le convinzioni, le idee direttrici, le attitudini, ecc' che ci conducono nella vita, durante la nostra

giovinezza, e per i quali lottiamo, soffriamo e forse vinciamo; essi si incarnano in noi e noi ci trasformiamo in essi, ed è perciò che noi li continuiamo ad libitum con quella naturalezza con cui il giovane, volente o nolente, fa valere il proprio io dinanzi al mondo o a se stesso. Più ci si avvicina al mezzogiorno della vita, più si riesce a consolidarsi nel proprio orientamento personale e nella propria situazione sociale e più sembra di avere scoperto il corso normale della vita, gli ideali e gli esatti principi della condotta. Perciò si presuppone il loro valore [p. 181] eterno e si considera virtù il restarvi per sempre attaccati. Si dimentica una cosa essenziale: cioè che non si raggiunge lo scopo sociale, se non a scapito della intera personalità. Molta, troppa vita che avrebbe anche potuto esser vissuta è restata forse nel ripostiglio dei ricordi polverosi; spesso son carboni ardenti sotto la cenere grigia. Le statistiche mostrano che le depressioni aumentano molto negli uomini intorno alla quarantina. Nelle donne turbamenti nevrotici iniziano comunemente prima. Durante questa fase della vita, fra i trentacinque e i quarant'anni, si prepara una profonda modificazione dell'anima umana. Non si tratta dapprima di una modificazione cosciente, che si possa osservare; ma si tratta piuttosto di indizi indiretti di trasformazioni che sembrano partire dall'incosciente. Talvolta avviene come una lenta modificazione del carattere; tal altra ricompaiono tratti spariti fin dall'infanzia, oppure accade che inclinazioni ed interessi avuti e manifestati sino ad allora comincino ad impallidire, facendo posto ad altri, o, ciò che è frequente, che le convinzioni ed i principi soprattutto morali, avuti sino ad allora, assumano una durezza ed una rigidità che può giungere, verso i cinquant'anni, sino all'intolleranza ed al fanatismo, come se questi principi fossero minacciati nella loro esistenza e bisognasse perciò accentuarli maggiormente. Il vino della gioventù non sempre si chiarifica nella maturità; anzi talvolta si intorbida. Tali fenomeni si osservano soprattutto negli individui esclusivisti e possono apparire talvolta presto, talvolta tardi. Sovente la loro comparsa è ritardata dal fatto che i genitori della persona in questione sono ancora in vita. Si ha allora l'impressione che il periodo della gioventù si prolunghi oltre misura. Ho notato ciò con maggiore evidenza in quegli uomini il cui padre era vissuto molto a lungo. La morte del padre provocava una maturità precipitosa, per così dire catastrofica. Ho conosciuto un uomo molto religioso, fabbriciere di una chiesa, nel quale, dopo i quarant'anni, si acuì sensibilmente la già insopportabile intolleranza morale e religiosa. [p. 182] Al

tempo stesso l'animo suo si incupiva a vista d'occhio. Alla fine non era altro che un pilastro di chiesa dallo sguardo tetro. Così giunse ai cinquantacinque anni. Una notte egli si drizzò improvvisamente sul letto e disse alla moglie: «Ho capito finalmente, io sono un miserabile». Il riconoscimento di ciò che egli era, non fu privo di conseguenze pratiche. Infatti passò in bagordi gli ultimi anni della sua vita, il che gli costò una gran parte del suo patrimonio. Era evidentemente un tipo di uomo tutt'altro che antipatico, che aveva in sé la possibilità dei due estremi. I turbamenti nevrotici, molto frequenti nell'età adulta, si assomigliano in quanto tutti hanno la caratteristica di portare la psicologia propria della gioventù oltre la soglia dei quarant'anni. Chi non conosce quei vecchi tipi patetici, che non cessano di rivivere i ricordi dei tempi in cui erano studenti, e non possono risvegliare la fiamma della loro vita, se non volgendo l'attenzione verso l'epoca del loro omerico eroismo, ma restando, tuttavia, attaccati alla loro vita da filistei, vita priva di speranze e di vicende? Essi presentano il vantaggio, non privo di valore, di non essere dei nevrotici, non offrendo altro lato negativo in genere se non quello di una noiosa monotonia. Il nevrotico è, invece, colui che non riesce mai nel presente come vorrebbe e che non può neppure mai rallegrarsi del passato. Prima non riusciva a staccarsi dall'infanzia; ora non può liberarsi dal periodo della gioventù. Sembra che egli non possa abituarsi ai grigi pensieri della imminente vecchiaia e cerchi di attaccarsi al passato poiché la prospettiva dell'avvenire è per lui insopportabile. Come il fanciullo indietreggia spaventato davanti alle incognite del mondo e della vita, così l'adulto indietreggia davanti alla seconda metà dell'esistenza, come se lo attendessero compiti sconosciuti e pericolosi, come se fosse minacciato di sacrifici e di perdite che non potrebbe sopportare o come se la vita passata gli fosse apparsa fino ad allora così bella e preziosa, da non poterne più fare a meno. Si tratta forse, in ultima analisi, della paura della morte? Ciò è poco verosimile, poiché la morte è, in genere, ancora lontana e, per conseguenza, ancora astratta. L'esperienza invece mostra che una profonda modificazione dell'animo è la ragione e la causa di tutte le difficoltà di questa transizione. Per caratterizzarla prendiamo come allegoria il corso quotidiano del sole. Immaginate un sole animato dal sentimento umano e dalla coscienza momentanea dell'uomo. Al mattino esso sorge dal mare notturno dell'incosciente, e guarda il vasto mondo variopinto, la cui estensione si accresce a mano a mano che esso s'innalza nel cielo. Da questo estendersi del

suo cerchio di azione, prodotto dall'ascensione, il sole riconoscerà la sua importanza e vedrà la sua meta ultima nel punto più elevato possibile, quindi anche nella massima estensione della sua influenza. Con questa convinzione, egli raggiungerà all'improvviso lo zenit al quale non aveva sognato, poiché la sua esistenza individuale, che avviene una volta sola, non poteva conoscere precedentemente il suo punto culminante. A mezzogiorno si inizia la fase decrescente, il rovesciamento di ogni valore, di ogni ideale del mattino. Il sole diviene inconseguente. Si direbbe che esso ritragga indietro i suoi raggi. La luce ed il calore diminuiscono sino all'estinzione definitiva. Tutti i paragoni sono imperfetti. Tuttavia questo non lo è più di un altro. V'è un proverbio francese che racchiude in modo cinico, e al tempo stesso rassegnato, la verità di questo raffronto. Esso dice: Si jeunesse savait, si vieillesse pouvait... Fortunatamente noi uomini non siamo dei soli, altrimenti i nostri valori culturali si troverebbero a mal partito. Ma in noi v'è qualcosa di simile al sole, e il mattino e la primavera, la sera e l'autunno della vita non sono semplici discorsi sentimentali, ma bensì verità psicologiche, anzi ancor più, essi sono persino realtà fisiologiche, poiché quando si oltrepassa il mezzogiorno della vita anche i [p. 184] caratteri fisici mutano. Soprattutto nei popoli del Sud le donne, invecchiando, assumono voci rudi e gravi, divengono baffute, i tratti del loro viso s'induriscono, e, anche da altri punti di vista, acquistano caratteristiche mascoline. Viceversa l'habitus fisico dei maschi viene temperato da tratti femminili, essi ingrassano ed il loro volto acquista un'espressione più dolce. Troviamo, nella letteratura etnologica, la storia interessante di un capo guerriero indiano, che, verso la metà della sua vita, ebbe un sogno in cui gli apparve il grande Spirito per annunziargli che da quel momento in poi egli avrebbe dovuto trascorrere il suo tempo con le donne e coi fanciulli, indossare abiti femminili e mangiare cibi femminili. Egli obbedì a questa visione onirica e la sua reputazione non ne soffrì. Questa visione è l'esatta espressione della rivoluzione psichica che avviene alla metà della vita, al principio della discesa. I valori psichici e il corpo stesso si trasformano nei loro contrari; non fosse altro che con accenni. L'elemento maschile e quello femminile ed i loro corrispondenti caratteri psichici potrebbero, per esempio, essere paragonati ad una provvista di sostanze che, nella prima metà della vita, fosse stata, in certo qual modo, inegualmente spesa. L'uomo spende il suo grande patrimonio di sostanza

maschile e non gli resta che la piccola quantità di sostanza femminile, che utilizza ora. La donna, inversamente, fa entrare in attività, ora, la sua parte di mascolinità inutilizzata. La trasformazione fa sentire i suoi effetti nel campo psichico ancor più che in quello fisico. Quante volte si dà il caso che, a 45 o 50 anni, l'uomo lasci le redini degli affari e la donna indossi i pantaloni ed apra un negozio in cui l'uomo fa un lavoro da manovale! Molte donne non si risvegliano che dopo la quarantina al senso di responsabilità e alla coscienza sociale. Nel mondo moderno degli affari, specie in America, il cosidetto break down, il crollo nervoso, è frequente dopo i quarant'anni. Esaminando le vittime più da presso, si nota che ciò che è crollato è il comportamento maschile di prima; sopravvive un uomo [p. 185] femminilizzato. Negli stessi ambienti si osservano, al contrario, donne che sviluppano alla stessa età una straordinaria virilità e rudezza di principi e che respingono indietro il cuore ed il sentimento. Queste trasformazioni sono spesso accompagnate da catastrofi coniugali d'ogni genere; infatti non è difficile immaginarsi ciò che accade quando l'uomo s'accorge dei suoi teneri sentimenti e la donna del suo giudizio. Il peggio è, in questi casi, che vi sono uomini intelligenti e colti, i quali vivono ignorando la possibilità di simili cambiamenti. Essi giungono impreparati alla seconda metà della vita. Vi sono forse scuole in qualche luogo, scuole non dico superiori ma di grado ancor più elevato, che preparino i quarantenni ad affrontare il loro domani colle sue esigenze, come le scuole superiori comuni conferiscono ai giovani una prima conoscenza del mondo e della vita? Non ve ne sono. Noi giungiamo alla metà della vita con la più completa impreparazione, e, quel che è peggio, vi giungiamo provvisti di preconcetti, di ideali, di verità buoni sino a quel momento. Non è possibile vivere la sera della vita seguendo lo stesso programma del mattino, poiché ciò che sino ad allora aveva grande importanza ne avrà ora ben poca, e la verità del mattino costituisce l'errore della sera. Ho curato troppe persone anziane e troppo sovente ho guardato nei recessi segreti delle loro anime, per non essere più che fermamente convinto della verità di questa regola fondamentale. Invecchiando, l'uomo dovrebbe sapere che la sua vita non sale né si estende, ma che un inesorabile processo interno la limita. Per il giovane, l'occuparsi troppo di se stesso costituisce quasi un peccato od un pericolo; per colui che invecchia, il considerare seriamente se stesso rappresenta un dovere ed una necessità. Il sole ritira i suoi raggi per illuminare se stesso, dopo aver

diffuso la sua luce sul mondo. Invece, molti uomini anziani preferiscono essere ipocondriaci, avari, rigidi, laudatores temporis acti, o eterni giovani; miserabile sostituzione dell'illuminazione di se stesso, e conseguenza inevitabile della follia che pretenderebbe che la seconda metà della vita fosse sorretta dai [p. 186] medesimi principi della prima. Ho affermato or ora che non abbiamo scuole per quarantenni. Ciò non è del tutto esatto. Le nostre religioni sono delle scuole simili, o per lo meno lo furono un tempo. Ma lo sono esse ancora? Quanti tra noi, persone di mezza età, siamo stati realmente preparati, da una di queste scuole, ai segreti della seconda metà della vita, in vista della vecchiaia, della morte e dell'eternità? L'uomo non raggiungerebbe di certo i settanta o gli ottant'anni, se questa durata della vita non corrispondesse al senso della sua specie. Così il pomeriggio della vita deve parimenti avere il suo proprio significato ed il suo scopo, e non può essere una misera appendice del mattino. Il senso di quest'ultimo consiste di certo nello sviluppo dell'individuo, nel suo consolidarsi e propagarsi nel mondo esterno e nella cura della prole. Tale, evidentemente, è il suo scopo naturale. Ma una volta che questo scopo è stato conseguito, largamente conseguito, è forse necessario continuare a guadagnar danaro senza tregua, a conquistare ancora la propria vita e ad estenderla oltre ogni limite ragionevole? Colui che trascina così oltre la prima metà della vita, nel pomeriggio, e per conseguenza oltre il suo scopo naturale, la legge del mattino, ne subirà dei danni psichici, esattamente come il giovane, che vuole conservare nell'età adulta il suo egoismo infantile, paga il suo errore con insuccessi sociali. Il guadagnare danaro, l'esistenza sociale, la famiglia, la prole, rientrano ancora nel campo della pura natura, non sono ancora frutti della civiltà. La civiltà va oltre gli scopi naturali. E' forse la civiltà il senso e lo scopo della seconda metà della vita? Noi notiamo che, presso i popoli primitivi, i vecchi sono sempre i guardiani dei misteri e delle leggi; ed è proprio nei misteri e nelle leggi che si esprime la civiltà del clan. Avviene altrettanto tra noi? Dov'è la saggezza dei nostri vecchi? Dove sono i loro segreti e le visioni dei loro sogni? I nostri vecchi preferirebbero esser uguali ai giovani. In America, a quanto sembra, l'ideale è che il padre sia il fratello del figlio, e la madre, se possibile, la sorella minore della figlia. Non so [p. 187] in quale misura questo errore derivi da una reazione contro l'antica esagerata venerazione della vecchiaia, e non so in quale misura esso poggi su di un ideale errato. Quest'ultimo ha certamente la sua parte: lo scopo che queste persone

vogliono raggiungere, non è dinanzi ma dietro a loro. Perciò cercano di ritornare ad esso. Bisogna conceder loro che è difficile scorgere quali altri scopi potrebbe avere la seconda metà della vita, all'infuori di quelli della prima: espansione della vita, utilità, attività, riuscita nella vita sociale, educazione premurosa della prole per condurla a fare matrimoni convenienti e a conseguire buone posizioni; non sono forse questi scopi sufficienti nella vita? Disgraziatamente non sempre presentano abbastanza interesse per coloro che non vedono nella vecchiaia che una diminuzione della vita, e che si accorgono quanto i loro ideali di un tempo siano impalliditi e consunti. E' certo che se questi uomini in altri tempi avessero colmato sino all'orlo la coppa della loro vita e l'avessero poi vuotata sino in fondo, avrebbero ora una ben diversa impressione: nulla avrebbero conservato, ciò che doveva essere consumato lo sarebbe stato e la calma della vecchiaia sarebbe la ben venuta. Non dimentichiamo che sono molto pochi gli artisti della vita; l'arte di vivere è la più nobile e la più rara di tutte; chi riesce a vuotare in bellezza tutto il contenuto della coppa? Troppe cose restano che molti non hanno vissuto e che del resto colla miglior volontà del mondo non avrebbero potuto vivere, di modo che essi arrivano alla soglia della vecchiaia Carlchi di desideri non realizzati, che li costringono a volgere involontariamente lo sguardo verso il passato. Per uomini simili il volgersi indietro è particolarmente dannoso. Essi hanno bisogno di avere una prospettiva pel domani, uno scopo per l'avvenire. Perciò tutte le grandi religioni hanno le loro promesse dell'al di là, pongono uno scopo ultraterreno da raggiungere, permettendo così ai mortali di tendere verso una meta nella seconda metà della vita, come nella prima. Ma se mete quali l'espansione e l'elevazione suprema della vita appaiono plausibili all'uomo odierno, l'idea della continuazione dopo la morte gli [p. 188] sembra dubbia ed oltremodo incredibile. La fine della vita, cioè la morte, non può essere uno scopo ragionevole se non quando la vita è così penosa, che si è contenti di vederla finire, oppure se si è convinti che il sole cerchi il suo declino «per illuminare popoli lontani» per la stessa ragione per cui si innalzava verso il mezzogiorno. Ai nostri giorni, disgraziatamente, la fede è divenuta un'arte così difficile, da essere quasi inaccessibile, soprattutto per la parte colta dell'umanità. Si è troppo abituati a pensare che sull'immortalità esistano una quantità di idee contraddittorie senza prove decisive. Siccome la parola scienza è il solo grande termine contemporaneo che sembri avere un'assoluta forza persuasiva, si esigono prove «scientifiche». Ma le persone

colte e che pensano sanno perfettamente che una simile prova è filosoficamente impossibile. Non si può sapere assolutamente nulla a questo proposito. Mi sarà però concesso di osservare che, per le stesse ragioni, non possiamo sapere se non accade nulla dopo la morte? La risposta è un non liquet, né positiva, né negativa. In realtà non sappiamo in proposito nulla di scientificamente determinato; di fronte a questo problema ci troviamo come di fronte alla questione di sapere se Marte è o non è abitato; e per gli abitanti di Marte, se ve ne sono, è del tutto indifferente che noi affermiamo o neghiamo la loro esistenza. Essi possono esserci o no. Altrettanto dicasi per ciò che riguarda l'immortalità. Potremmo dunque lasciare da parte questo problema. Ma a questo punto si ridesta la mia coscienza di medico, per portare a questo problema un contributo essenziale. In effetti, ho osservato che una vita orientata verso uno scopo è, in genere, migliore, più ricca, più seria di una vita senza scopo, ed ho pure osservato che è preferibile avanzare seguendo il cammino del tempo, anziché volerne risalire il corso. Per lo psichiatra, il vecchio che non vuole rinunciare alla vita è altrettanto debole e malato quanto il giovane incapace di evolversi. Si tratta infatti, tanto nell'un caso quanto nell'altro, in genere, della medesima brama infantile, del medesimo orgoglio e capriccio. [p. 189] Come medico, io sono convinto che è più igienico, per così dire, vedere nella morte una meta a cui tendere, e che vi è qualcosa di insano nella resistenza che noi le opponiamo e che toglie alla seconda metà della vita il suo scopo. Perciò trovo molto ragionevoli tutte quelle religioni che hanno una meta ultraterrena, non foss'altro che dal punto di vista dell'igiene psichica. Se vivo in una casa sapendo che dopo quindici giorni crollerà sul mio capo, ogni mia funzione vitale sarà disturbata da questa idea, se invece io mi ci sento al sicuro, posso viverci a mio agio e normalmente. Per la salute mentale sarebbe bene poter pensare che la morte non è che un passaggio, una parte di un grande, lungo e sconosciuto processo vitale. Sebbene la maggior parte degli uomini ignori la ragione per cui il corpo abbisogna di sale, cerchiamo tutti di procurarcene, per un bisogno istintivo. Altrettanto accade per le cose psichiche. La maggior parte degli uomini, in ogni tempo, ha sentito la necessità di credere alla sopravvivenza. Questa constatazione non ci porta al di fuori, ma nel bel mezzo della grande via strategica della vita umana. Pensando che la vita oltrepassi i confini della

morte, noi agiamo secondo il senso della vita, anche se il significato di questa idea ci sfugge. Riusciamo noi a comprendere ciò che pensiamo? Noi comprendiamo appena quel pensiero che altro non è che una equazione, da cui non esce mai nulla di più di quanto vi abbiamo messo. Tale è il nostro intelletto. Ma al di sopra di esso esiste un pensiero che riveste la forma delle grandi immagini primitive simboliche, più antiche dell'uomo storico, innate in lui sin dalle più remote epoche, che sopravvivono a tutte le generazioni e ricolmano della loro vita eterna le più recondite profondità della nostra anima. Non è possibile che la vita si realizzi in tutta la sua pienezza, se non in accordo con esse; la saggezza è un ritorno verso di esse. Non si tratta in realtà né di fede, né di sapienza, ma dell'accordo del nostro pensiero con le immagini primordiali del nostro incosciente, irrappresentabili progenitrici di ogni idea che possa affiorare alla nostra coscienza. L'idea di una vita oltre la morte è una di queste [p. 190] immagini. La scienza non ha alcuna misura in comune con queste immagini primordiali. Esse sono dati irrazionali, condizioni a priori dell'immaginazione, che semplicemente sono e di cui la scienza non può scrutare lo scopo o la giusta direzione che a posteriori, come per la funzione della glandola tiroide, che prima del Xix secolo avrebbe potuto essere considerata un organo privo d'importanza. Le immagini primordiali sono, a parer mio, organi psichici, di cui ho il massimo rispetto; onde ai malati più anziani uso dire: la vostra immagine di Dio o la vostra idea della immortalità sono atrofiche, di conseguenza la vostra nutrizione psichica non è in regola. Il 45farmakon 45aoanasias, il farmaco dell'immortalità degli antichi, è più saggio e più profondo di quanto supponiamo. Ritorniamo, per finire, alla similitudine del sole. I 180 gradi del ciclo della nostra vita si suddividono in quattro parti. Il primo quarto, ad oriente, è l'infanzia; è uno stato senza problemi durante il quale noi siamo problemi per gli altri, ma non abbiamo ancora coscienza dei nostri problemi. La coscienza dei problemi si estende al secondo e al terzo quarto, e nell'ultimo quarto, costituito dalla vecchiaia, noi ritorniamo in quelle condizioni in cui, senza preoccuparci della disposizione della nostra coscienza, diveniamo nuovamente un problema per gli altri. L'infanzia e la vecchiaia sono indubbiamente assai diverse, ma hanno in comune il fatto d'essere immerse entrambe nell'incosciente psichico. Poiché il fanciullo si sviluppa uscendo dall'incosciente, la sua psicologia, per quanto difficile, è sempre meno difficile della psicologia del vecchio, che rientra a poco a poco

nell'incosciente ove alla fine sparisce. L'infanzia e la vecchiaia sono le due età della vita che non presentano problemi: è per questo che qui non le ho considerate.(1930).

X. Il matrimonio quale relazione psicologica

Il matrimonio, come relazione psicologica, presenta un quadro assai complicato. Esso è composto di una serie di elementi soggettivi ed obbiettivi, di natura spesso molto eterogenea. Dato che in questo saggio desidero limitarmi al problema psicologico del matrimonio, sono costretto ad escludere completamente gli elementi giuridici e sociali, per quanto essi abbiano un'influenza enorme sui rapporti psicologici tra i coniugi. Ogni qualvolta noi parliamo di «relazione psicologica», supponiamo l'esistenza della coscienza. Non vi sono «relazioni psicologiche» tra due individui in istato di incoscienza. Da un punto di vista psicologico non avrebbero possibilità di essere. Ma se ci ponessimo da un altro punto di vista, da quello fisiologico per esempio, si potrebbe trovare che tra due individui vi sono relazioni d'altro genere, senza essere psicologiche. Evidentemente questa incoscienza non si presenta mai in modo assoluto; vi sono incoscienze parziali di considerevole estensione. Più questi stati di incoscienza si estendono e più viene limitato il campo della relazione psicologica. Nel fanciullo la coscienza emerge dalle profondità della vita psichica incosciente, dapprima come isolotti staccati, che si uniscono poi a poco a poco, per formare un «continente», una coscienza unitaria. Il processo progressivo dello sviluppo spirituale rappresenta una estensione della coscienza. Dal momento in cui è comparsa la coscienza unitaria, è apparsa anche la possibilità di una relazione psicologica. La coscienza è, a parer nostro, sempre coscienza dell'io. Per essere cosciente di me stesso debbo distinguermi dagli altri. Senza tale distinzione, nessuna relazione può [p. 192] esistere. E per quanto essa generalmente esista, presenta sempre delle lacune, cosa del resto normale se si considera che intere regioni della vita psichica, forse molto estese, restano nell'inconscio. Il contenuto dell'incosciente non può dar luogo ad alcuna distinzione, e quindi in questo campo non possono esistere relazioni psicologiche; in esso regna ancora l'antico stato incosciente di un'identità primitiva del soggetto e dell'oggetto con assenza totale di ogni relazione.

All'età del matrimonio ogni giovane possiede la coscienza dell'io (la donna in genere più dell'uomo), ma è da poco tempo che questa coscienza è sorta dalle brume dell'incosciente primitivo; vaste regioni sono ancora immerse nell'ombra dell'incosciente, ed ostacolano, ovunque esse giungano, le possibilità di una relazione psicologica. In pratica, ciò vuol dire che il giovane non possiede che una conoscenza incompleta degli altri e di se stesso; è quindi insufficientemente conscio tanto dei moventi di coloro che lo circondano, quanto dei propri. Sono generalmente e soprattutto dei moventi inconsci che determinano i suoi atti. Naturalmente la sua impressione soggettiva è d'essere del tutto cosciente, dato che si supervaluta sempre il contenuto momentaneo della coscienza, ed è e resta sempre una sorprendente scoperta il vedere che ciò che consideriamo come il vertice faticosamente raggiunto, in realtà non è altro che il gradino più basso di una lunga scala. Più è esteso il campo dell'incosciente, e più è ristretta la libertà di scelta in fatto di matrimonio. La manifestazione soggettiva di ciò è la fatalità che con tanta chiarezza si osserva nelle passioni amorose; questa fatalità può non di meno esistere anche quando non v'è la passione, in una forma, è vero, meno piacevole. I moventi ancora incoscienti sono di natura personale e generale. Sono, dapprima, quelli che provengono dall'influenza dei genitori. Per il giovane, è il rapporto che l'unisce alla madre, che esercita un'influenza determinante; per la ragazza invece è quello che l'unisce al padre. E' in prima linea il grado del legame coi genitori, che influenza, favorisce od ostacola la scelta del coniuge. Un affetto cosciente per i genitori favorisce la scelta di un coniuge che rassomiglia [p. 193] al padre od alla madre. Invece un legame incosciente (che non si manifesta necessariamente per mezzo dell'affetto cosciente) renderà tale scelta più difficile e determinerà modificazioni particolari. Per comprendere queste ultime, sarà dapprima necessario sapere da dove proviene il legame incosciente coi genitori ed in quali condizioni esso esercita la sua azione costrittiva modificando e persino impedendo la scelta cosciente. Di regola, quel tipo di vita che i genitori avrebbero potuto vivere, se ragioni artificiali non l'avessero loro impedita, si trasmette ai figli in forma contraria, e cioè, la vita dei figli si trova inconsciamente orientata in modo tale, che essa compensa quanto i genitori non hanno potuto realizzare nella loro. Da ciò deriva il fatto che genitori di moralità esagerata abbiano figli cosidetti immorali; che un padre irresponsabile e indolente abbia un figlio animato da un'ambizione morbosa,

e così di seguito. Le conseguenze più nefaste hanno per origine l'incoscienza artificiosa dei genitori. E' il caso della madre che, mantenendosi artificiosamente incosciente per salvaguardare le apparenze di una buona vita coniugale, incatena a sé suo figlio senza saperlo, in certo modo come sostituto del marito. Se questo atteggiamento non porta sempre il giovane all'omosessualità, esso lo spinge, in ogni caso, ad una scelta diversa da quella che corrisponderebbe alla sua vera natura. Egli sposerà, per esempio, una giovane evidentemente inferiore a sua madre, e che non potrà quindi farle concorrenza, oppure cadrà nelle mani di una donna tirannica e presuntuosa, che lo strapperà, per così dire, a sua madre. Quando l'istinto non è stato mutilato, la scelta del coniuge può restare al di fuori di queste influenze; ma presto o tardi, tuttavia, queste si faranno sentire sotto forma di inibizioni. Dal punto di vista della specie, una scelta istintiva più o meno pura sarebbe indubbiamente la migliore; ma, dal punto di vista psicologico, tale scelta non è sempre felice, poiché v'è spesso una differenza assai grande tra la personalità puramente istintiva e la personalità differenziata nella sua individualità. In un simile caso può accadere che la scelta puramente istintiva serva a migliorare la razza e a rigenerarla, mentre annienta la felicità individuale. L'«istinto» [p. 194] non è altro che un insieme di ogni sorta di fattori organici e psichici di cui noi ignoriamo quasi completamente la natura. Se l'individuo dovesse essere considerato soltanto come istrumento per la conservazione della specie, la scelta matrimoniale puramente istintiva sarebbe di gran lunga la migliore. Ma dato che le fondamenta di questa sono incoscienti, su di essa non si può costruire che una specie di rapporti di carattere impersonale, analoghi a quelli che si osservano tra gli uomini primitivi. Se in tal caso si può parlare di «relazione», non si tratta che di un pallido e distante rapporto, di natura affatto impersonale, del tutto regolato dai costumi e dai pregiudizi tradizionali, prototipo di ogni matrimonio convenzionale. Quando la ragione o l'abilità o la cosidetta affettuosa sollecitudine dei genitori non combinano i matrimoni dei figli, e l'istinto primitivo non è stato rovinato in essi da una falsa educazione o dall'influenza incosciente di complessi familiari, la scelta del coniuge avverrà normalmente, sotto la spinta di fattori istintivi incoscienti. L'incosciente abolisce la differenziazione e crea la non-differenziazione, l'identità incosciente. La conseguenza pratica che ne risulta è che ciascuno dei coniugi suppone che l'altro abbia una struttura psichica analoga alla sua. La sessualità normale, esperienza che essi

condividono, e che sembra avere in loro lo stesso orientamento, rafforza questo sentimento di unità e di identità. Questo stato è «l'armonia totale»; i poeti la cantano come una grande felicità («un cuore ed un'anima»), e con ragione indubbiamente, poiché il ritorno a questo stato di incoscienza e d'unità istintiva d'altri tempi è come un ritorno all'infanzia (di qui i gesti puerili di tutti gli innamorati), e ancora, è come un ritorno nel grembo materno, nelle acque misteriose piene di elementi creatori, ancora allo stato incosciente. Infatti tale stato è una pura ed innegabile esperienza del divino la cui onnipotenza spegne ed annienta ogni elemento personale. E persino la tenace volontà di conservazione individuale viene spezzata, la donna diviene madre, l'uomo diviene padre, e così sono entrambi privati della loro libertà, per [p. 195] divenire gli istrumenti della vita in cammino. La relazione tra coniugi si mantiene nei limiti dello scopo biologico istintivo: la conservazione della specie. Poiché questo scopo è di natura collettiva, anche la relazione psicologica dei coniugi è, in sostanza, della stessa natura collettiva, e dal punto di vista psicologico essa non potrà essere considerata come una relazione individuale. Potremo parlare di questa ultima solo quando la natura dei fattori incoscienti sarà riconosciuta, e quando la identità primitiva sarà in larga misura abolita. Raramente - per non dire mai - un matrimonio giunge senza urti e senza crisi alla relazione individuale. La presa di coscienza non si ottiene senza dolore. Le strade che conducono ad essa sono molte, ma tutte seguono determinate leggi. La trasformazione comincia in genere al principio della seconda metà della vita. La metà della vita è un periodo di grande importanza psicologica. Il fanciullo comincia la sua vita psicologica in un ambiente ristretto, nella cerchia formata dalla madre e dalla famiglia. A mano a mano che egli matura si estendono il suo orizzonte e al tempo stesso la sua sfera di influenza. Le sue intenzioni e le sue speranze mirano alla estensione della sua sfera personale di potenza e di possesso, il suo desiderio tende, in modo sempre crescente, verso il mondo esteriore. La volontà individuale si identifica sempre più con gli scopi naturali dei fattori incoscienti. Così l'uomo, in certo qual modo, infonde alle cose la sua vita, finché esse, alla fine, cominciano a vivere da sole e a moltiplicarsi; ed insensibilmente egli si trova ad esserne superato. Le madri vengono superate dai loro figli; gli uomini dalle loro opere; ciò che in un primo tempo fu creato con tanta pena e forse a prezzo di grandi sforzi non può più essere arrestato nel suo cammino. In principio esso rappresentò il frutto della passione, poi divenne un obbligo e, infine, un peso insopportabile, un vampiro che succhia

la vita del suo creatore. La metà della vita è il momento della massima fioritura, il momento in cui l'uomo con tutte le sue forze, e con tutta la sua volontà, è assorbito dalla sua opera. Ma è anche il momento in cui nasce il crepuscolo; comincia la seconda metà della vita. La passione cambia aspetto e prende il nome [p. 196] di obbligo, la volontà si trasforma spietatamente in dovere, e le svolte del cammino, che prima recavano sorprese e scoperte, divengono abitudini. Il vino ha cessato di fermentare e comincia a chiarificarsi. Se tutto va bene l'uomo sviluppa delle tendenze conservatrici. Invece di guardare in avanti, involontariamente spesso guarda indietro, e comincia a divenire consapevole di come la vita si è svolta finora. Ne cerca i veri motivi e così fa delle scoperte. Le riflessioni critiche, che l'uomo fa su se stesso e sul suo destino, gli svelano la particolarità della sua natura. Egli giunge a tali conoscenze non certo facilmente, ma attraverso violente e potenti scosse e rivolgimenti. Gli scopi della seconda metà della vita sono diversi di quelli della prima, e si verifica quindi, per chi s'indugia troppo a lungo nell'atteggiamento giovanile, una disarmonia della volontà. La coscienza tende sempre a progredire obbedendo per così dire alle leggi della propria inerzia, ma l'incosciente invece la trattiene, poiché la forza e l'intima volontà di uno sviluppo ulteriore sono esaurite. Tale disarmonia con se stessi provoca lo scontento, e siccome non si ha minimamente coscienza dello stato in cui ci si trova, se ne proiettano di solito le cause sul proprio coniuge. Da qui si genera un'atmosfera critica, condizione necessaria per qualsiasi presa di coscienza. Ordinariamente questo stato non è contemporaneo nei due coniugi. Anche la vita coniugale più perfetta non può eliminare le differenze individuali dei coniugi, fino a raggiungere un'identità assoluta del loro atteggiamento interiore. Sovente uno dei due si adatta più presto dell'altro alla vita coniugale. Quello dei coniugi che è unito ai propri genitori da rapporti normali si adatterà al proprio compagno con scarsa o con nessuna difficoltà; quello invece che è unito ai propri genitori da rapporti più profondi ed incoscienti si troverà di fronte a maggiori ostacoli. Egli non potrà giungere se non più tardi ad un completo adattamento che, essendo stato realizzato più difficilmente, durerà forse più a lungo. La differenza del tempo di adattamento, da un lato, e l'estensione della personalità spirituale dall'altro, sono i fattori determinanti quelle difficoltà che faranno sentire il loro effetto [p. 197] nel momento critico. Non desidero che si creda che parlando di «grande estensione della personalità spirituale» io intenda parlare di una

natura particolarmente ricca e generosa. Non si tratta di ciò, ma piuttosto di una certa complessità della natura spirituale, paragonabile ad un cristallo molto sfaccettato confrontato con un semplice cubo. Si tratta di nature complesse, in genere problematiche, aggravate da eredità psicologiche più o meno difficili a conciliarsi. Non è facile adattarsi a simili nature, come per esse non è facile adattarsi a nature più semplici. Spesso queste persone dotate di disposizioni più o meno dissociate hanno la capacità di fare sparire, per un periodo di tempo abbastanza lungo, i lati incompatibili del loro carattere, e di assumere, in tal maniera, un aspetto più semplice; sovente la loro «molteplicità» e il loro carattere mutevole possono conferir loro un fascino del tutto particolare. Di fronte a queste nature un po' labirintiche, l'altro coniuge può sentirsi sovente come smarrito; egli vi trova una tale abbondanza di possibilità di esperienze vitali, che il suo interesse personale ne viene completamente assorbito; il che non è sempre piacevole, perché talvolta la sua occupazione principale consiste nel seguire il proprio compagno per cammini tortuosi e per false strade. Tuttavia vi è in esse una tale ricchezza di possibili esperienze, che la personalità più semplice ne viene sommersa ed in certo modo fatta prigioniera; essa è, per così dire, assorbita dalla personalità più vasta e non vede più nulla all'infuori di quella. E' un fenomeno che si constata quasi regolarmente: una donna spiritualmente assorbita dal marito; un uomo affettivamente assorbito dalla moglie. Si potrebbe chiamare questo problema il problema del contenuto e del contenente. Il contenuto si mantiene essenzialmente nella cerchia del matrimonio. Egli si volge tutto intero verso il coniuge; all'infuori di questo non esiste per lui nessun obbligo degno di importanza, nessun interesse che lo leghi. Il lato sgradevole di questo stato «ideale» è l'inquietante dipendenza da una personalità piuttosto inafferrabile, che non dà fiducia, né sicurezza. Il vantaggio invece è l'unità dell'io, - fattore assai importante per la economia psichica. Il contenente, data la sua tendenza alla disarmonia, avrebbe bisogno di ritrovare la sua unità per mezzo dell'amore integrale. Questa aspirazione si realizza difficilmente, poiché l'essere complesso viene presto superato da quello con la personalità più semplice. Mentre egli cerca nel compagno le sottigliezze e le complessità complementari e corrispondenti alle sue faccette, disturba la semplicità dell'altro. Ora siccome la semplicità, nelle circostanze ordinarie di vita, è più vantaggiosa della complessità, l'individuo complesso deve ben presto rinunciare ai suoi tentativi di portare il semplice ad avere reazioni sottili e problematiche. Ed il coniuge che, seguendo la sua natura

semplice, cerca in lui risposte semplici, gli darà non poco filo da torcere, proprio perché cercando risposte semplici «costellerà» (secondo il termine tecnico) le complessità del suo compagno. Di fronte alla forza persuasiva dell'essere semplice, l'essere complesso deve, volente o nolente ripiegarsi su se stesso. Ciò che è spirituale (il processo della coscienza in genere) costituisce per l'uomo una tale fatica, che egli preferisce, in ogni caso, la semplicità, sia pure illusoria. E se essa presenta sia pure una mezza verità, egli ne è completamente soddisfatto. La natura semplice, agisce su quella complessa come una camera troppo piccola, che non gli offre spazio sufficiente. D'altra parte l'essere più semplice, di fronte a quello complesso, ha l'impressione di trovarsi in un appartamento con troppe stanze e senza poter comprendere quale sia la camera in cui gli convenga abitare. Da ciò risulta naturalmente che il più complesso dei due contiene il più semplice dal quale non può essere né contenuto né assorbito; egli lo avvolge senza poter però esserne avvolto. Siccome egli forse ha ancora più dell'altro il bisogno di sentirsi circondato, si sente quindi ai margini del matrimonio; la sua posizione è parecchio difficile. Più il contenuto è saldo, più il contenente si sente spinto verso l'esterno. Con la sua fermezza il primo penetra vieppiù nel cuore stesso dell'unione matrimoniale, e quanto più egli vi penetra, tanto meno l'altro può seguirlo. Il contenente volge continuamente il [p. 199] suo sguardo fuori dalla finestra; dapprima egli fa ciò inconsciamente, ma giunto alla metà della vita si desta in lui un desiderio ardente di unità e di integrità, di cui avrebbe particolarmente bisogno data la sua natura disarmonica, e al contempo si producono degli avvenimenti che gli fanno prendere coscienza del conflitto. Egli comprende infine di cercare un complemento, o un contenente, o una integrità, che gli sono sempre mancati. Per il contenuto tutto ciò è una conferma della sua mancanza di sicurezza, da lui sempre dolorosamente sentita. Egli s'accorge che le molte camere, che egli credeva fossero a sua disposizione, sono invece occupate da ospiti indesiderati. La speranza nella sicurezza scompare, e questa delusione lo costringe a ripiegarsi su se stesso, a meno che egli non riesca con potenti e disperati sforzi a piegare il suo compagno costringendolo ad ammettere che la sua aspirazione ardente all'unità in definitiva non era altro che una fantasia puerile e morbosa. Se questo colpo di forza non riesce, non gli rimane altro che accettare la rinunzia; e questa sarebbe la migliore soluzione, poiché riconoscerebbe infine che la sicurezza che egli ha sempre cercato nell'altro deve trovarla in se stesso. In tal modo egli troverebbe se stesso e

comprenderebbe quindi, nella sua semplice natura, tutte quelle complicazioni, che il contenente aveva invano cercato in lui. Se il contenente non crollerà nella constatazione di ciò che comunemente si chiama «l'errore matrimoniale», e se si persuaderà invece che il suo desiderio di unità ha la sua ragione d'essere, egli si assumerà allora il peso di questa rottura. Non è con la separazione che si guarisce una dissociazione, ma con una rottura. Tutte le forze che tendono verso l'unità, tutte le sane volontà di affermazione di sé, insorgeranno contro questa rottura. In tal modo egli diverrà consapevole della possibilità di trovare in se stesso l'armonia che prima cercava sempre al di fuori. L'integrità ch'egli scopre in se stesso è la sua salvezza. Ecco ciò che sovente avviene verso la metà della vita; ed in tal modo la strana natura umana forza il passaggio dalla prima alla seconda metà della vita: l'uomo, che prima non era altro che lo strumento della sua natura istintiva, [p. 200] prende coscienza di sé, e si ha così il passaggio dalla natura alla cultura, dall'istinto allo spirito. Bisognerebbe guardarsi bene dall'interrompere con violenze morali tale necessaria evoluzione; poiché l'atteggiamento mentale dovuto alla scissione e alla repressione degli istinti è una falsificazione. Niente è più ripugnante di una spiritualità segretamente sessualizzata; è altrettanto malsana quanto la sopravvalutazione della sensualità. Ma il passaggio è lungo, e la maggior parte delle persone si arresta lungo la strada. Se si potesse nel matrimonio e per mezzo del matrimonio lasciare nell'incosciente questo processo di evoluzione psichica, come avviene presso i primitivi, tali modificazioni potrebbero compiersi in modo più completo e senza tanti urti. Si incontrano, tra i cosidetti primitivi, delle personalità talmente spirituali da incutere quel rispetto che si sente per le opere complete e mature di un destino che nulla ha turbato. Parlo per esperienza personale. Dove si trovano oggi, tra gli europei, quelle figure che nessuna violenza morale ha mutilato? Noi siamo sempre ancora abbastanza barbari per credere all'ascetismo e al suo contrario. La storia non torna indietro. Non possiamo camminare che in avanti, verso quella mentalità che ci permetterà di vivere come vuole il tranquillo destino dell'uomo primitivo. Soltanto a questa condizione potremo essere in grado di non pervertire lo spirito in sensualità, né la sensualità in ispirito; poiché entrambi hanno diritto alla esistenza per la ragione che traggono l'esistenza reciprocamente l'uno dall'altro. Il contenuto essenziale della relazione psicologica nel matrimonio è proprio questa trasformazione da noi

sommariamente ora descritta. Molto vi sarebbe da dire delle illusioni di cui si serve la natura, e che provocano le trasformazioni caratteristiche della metà della vita. L'armonia coniugale della prima metà della vita (ammettendo che un simile adattamento sia mai esistito) poggia essenzialmente, come risulta chiaramente nella fase critica ulteriore, sulla proiezione di certe immagini tipiche. L'uomo ha sempre portato in sé l'immagine della donna, non l'immagine di una determinata donna, ma di un [p. 201] determinato tipo di donna. Questa immagine è, in fondo, un insieme ereditario incosciente d'origine molto remota, innestato nel sistema vivente, un «archetipo» sintesi di tutte le esperienze ancestrali intorno all'animo femminile e di tutte le impressioni fornite dalla donna; un sistema d'adattamento psichico ereditario. Anche se non esistessero le donne, questa immagine incosciente ci permetterebbe sempre di determinare quelle caratteristiche psichiche che una donna dovrebbe avere. Ciò vale anche per la donna: anch'essa ha un'immagine innata dell'uomo. L'esperienza ci insegna che sarebbe più esatto dire: un'immagine degli uomini, mentre per l'uomo si tratta piuttosto dell'immagine della donna. Siccome quest'immagine è inconscia, essa viene inconsciamente proiettata sulla persona amata ed è una delle cause principali dell'attrazione passionale e del suo contrario: la repulsione. Ho dato a questa immagine il nome latino di anima (1), e trovo quindi molto interessante la questione posta dagli scolastici: habet mulier animam?, poiché sono del parere che questa sia una domanda intelligente, sembrandomi un simile dubbio giustificato. La donna non ha un'anima, ella ha un animus. L'anima ha un carattere erotico, emozionale, l'animus invece ha un carattere raziocinante; da ciò deriva il fatto, che l'immagine che gli uomini si fanno dell'erotismo femminile, ed in genere della vita sentimentale delle donne, consiste in massima parte nella proiezione della loro propria anima, donde la falsità di detta immagine. Le straordinarie supposizioni e fantasie femminili intorno agli uomini sono fondate sull'attività dell'animus, che di continuo produce giudizi illogici e false interpretazioni causali. Tanto l'anima quanto l'animus si distinguono per una straordinaria molteplicità di caratteri. Nel matrimonio è sempre il contenuto che proietta questa immagine sul contenente, mentre quest'ultimo non riesce che a proiettare parzialmente questa immagine sul coniuge. Più questo è semplice, più è difficile che la proiezione riesca. In tal caso, l'immagine tanto affascinante resta come sospesa nel [p. 202] vuoto, attendendo, per così dire,

che un essere reale venga a darle forma. Vi sono tipi di donne, che per natura loro sembrano fatte per raccogliere queste proiezioni dell'anima. Rappresentano quasi un tipo determinato, un tipo che possiede inevitabilmente il cosidetto carattere di «sfinge», carattere a duplice o a molteplice significato, senz'essere perciò vago e confuso. Al contrario, esso è invece di un'indeterminatezza ricca di promesse e presenta l'eloquente silenzio di Monna Lisa, vecchia e giovane, figlia e madre al tempo stesso, di una dubbia castità, e di un'infantile ingenuità, tale da sconcertare gli uomini (2). Non è dato ad ogni uomo realmente intelligente d'essere un animus, a questo scopo gli occorre un minor numero di buoni pensieri che di belle parole, parole ricche di contenuto, in cui si possono scoprire molti significati inespressi. Inoltre, l'uomo animus deve essere un po' incompreso, o per lo meno deve, in certo qual modo, trovarsi in opposizione con l'ambiente che lo circonda, affinché l'idea del sacrificio possa avere la sua parte. Egli deve essere un eroe con due aspetti, con possibilità mitiche, e può darsi benissimo che una proiezione dell'animus abbia spesso scoperto con maggior rapidità un eroe, di quanto non abbia fatto la lenta comprensione del cosidetto uomo di media intelligenza (3). Per l'uomo, come per la donna, se essi sono dei contenenti, la realizzazione di quest'immagine è piena di gravi conseguenze, poiché in tal modo essi hanno la possibilità di trovare nella corrispondente moltiplicità una risposta alla propria complessità. Allora sembrano aprirsi innanzi ad essi dei vasti spazi, dai quali essi si sentono contenuti e circondati. Dico «sembra» intenzionalmente, poiché non si tratta che di una possibilità equivoca. Come una proiezione dell'animus femminile può indurre la donna a scoprire un uomo di valore, sconosciuto alla massa, e ad aiutarlo, [p. 203] col suo appoggio morale, alla realizzazione del suo destino, così l'uomo può, per mezzo della proiezione dell'anima, destare per sé la femme inspiratrice. Forse spesso ciò non è che illusione, con effetto negativo, un insuccesso dovuto a debolezza di fede. Ai pessimisti dico di solito che in questi archetipi psichici si trovano valori sommamente positivi, mentre metto in guardia gli ottimisti contro le fantasmagorie abbaglianti e le possibili deviazioni assurde. Non bisogna però considerare questa proiezione come una specie di rapporto individuale e cosciente. Da principio non lo è assolutamente. Essa crea una certa costrizione e dipendenza, in base a fattori incoscienti, ma che non hanno nulla a che vedere coi fattori biologici. Rider Haggard in She ci

mostra approssimativamente le strane rappresentazioni che servono di base alle proiezioni dell'anima. Esse sono di contenuto essenzialmente spirituale, spesso con travestimento erotico, frammenti evidenti di una mentalità mitologica primitiva composta da archetipi, ed il cui insieme costituisce l'incosciente collettivo. Questa relazione è dunque più collettiva che individuale. (Benoit, che nell'Atlantide ha creato una figura immaginaria corrispondente a She fino ai minimi dettagli, afferma di non aver plagiato Rider Haggard). Se accade ad uno dei coniugi di subire una tale proiezione, alla relazione biologica collettiva si oppone una relazione spirituale collettiva, provocando quella scissione del contenente da noi più sopra osservata. Ma se egli riuscirà a superarla, il conflitto da essa provocato gli permetterà di scoprire se stesso; in tal caso la proiezione, pericolosa di per sé, lo avrà aiutato a passare da una relazione collettiva ad una relazione individuale, cioè ad una piena coscienza della relazione coniugale. Lo scopo di questo articolo è la delucidazione della psicologia coniugale, non mi trattengo quindi sulla psicologia delle proiezioni reciproche, ma mi accontento di segnalarle. Non si può parlare della relazione psicologica del matrimonio senza segnalare almeno brevemente la natura delle transizioni critiche, anche a rischio di essere mal compresi. Si sa che in materia di psicologia noi nulla comprendiamo all'infuori delle nostre esperienze personali; il che non [p. 204] impedisce a nessuno d'essere persuaso che il proprio giudizio sia l'unico vero e giusto. Questo strano fenomeno dipende dal fatto che in genere si sopravvaluta il contenuto attuale della coscienza. (Se non si concentrasse così l'attenzione, tal contenuto non potrebbe divenire cosciente). Ne risulta che ogni età ha la sua propria verità psicologica, il suo programma di verità; altrettanto accade per ogni grado dell'evoluzione psicologica. Esistono persino gradi che non vengono raggiunti che da una minoranza; è una questione di razza, di famiglia, di educazione, di doti e di passione. La natura è aristocratica. L'uomo normale è una finzione ad onta di certe leggi universali. La vita psichica ha un'evoluzione che può arrestarsi ai primi stadi. Si direbbe che ogni individuo abbia un peso specifico, per cui egli si eleva e si abbassa, fino al livello che segna il suo limite. Altrettanto avviene per ciò che riguarda i suoi giudizi e le sue convinzioni. Niente di strano, allora, se la maggior parte dei matrimoni raggiunge, col fine biologico, il suo estremo limite psicologico, senza danno per la salute spirituale e morale. Raramente si produce un disaccordo interiore più grave. Quando la miseria esteriore è grande, la conseguente mancanza di energia

non permette che il conflitto raggiunga alcuna tensione drammatica. Ma, a mano a mano che aumenta la sicurezza sociale, aumenta anche la nonsicurezza psicologica, dapprima inconsciamente, provocando delle nevrosi, in seguito coscientemente provocando separazioni, liti, divorzi, ed altri malintesi coniugali. Su gradini ancora più elevati si notano altre possibilità di evoluzione psicologica, che toccano la sfera religiosa, e lì cessa ogni possibilità di giudizio critico. Ad ognuno di questi stadi può aver luogo un arresto duraturo, il che avviene nella ignoranza completa di ciò che rappresenta lo stadio successivo. In genere, l'accesso allo stadio successivo è impedito da pregiudizi e da timori superstiziosi; cosa senza dubbio assai utile; poiché l'uomo, che dal caso fosse condotto a vivere su di un piano per lui troppo elevato, potrebbe divenire un pazzo pericoloso. La natura non è solo aristocratica, è anche esoterica. Ma nessun uomo saggio si lascerà per questo indurre a occultare [p. 205] tali misteri, poiché egli sa bene che il mistero dell'evoluzione psichica non potrà mai essere svelato, per il semplice fatto che l'evoluzione è una questione di capacità individuale.(1925).

NOTE: (1) Cfr' nota 2 di p' 133. (2) Si troveranno eccellenti descrizioni di questo tipo in She di Rider Haggard e nell'Atlantide di Pierre Benoit. (3) Si troveranno belle descrizioni dell'«anima» nel The EvilVineyard di Marie Hay; in Jennifer Lorn, A Sedate Extravaganza di Elinor Wylie e infine in Gosta Berling di Selma Lagerlof.

XI. Psicologia analitica e «Weltanschauung»

Il termine tedesco Weltanschauung è difficilmente traducibile nelle altre lingue. Già da questo fatto si può riconoscere che esso ha una sua particolare struttura psicologica: esso esprime non soltanto un concetto di mondo - che sarebbe traducibile senza difficoltà - ma anche la maniera con cui si guarda il mondo: visione del mondo e della vita, dunque. Nella parola «filosofia» è contenuto un concetto simile, ma intellettualmente più limitato, mentre la parola Weltanschauung abbraccia tutte le specie di orientamenti di fronte al mondo, compresi gli orientamenti filosofici. Così, per citarne soltanto alcune, ci sono Weltanschauungen o visioni del mondo estetiche e religiose, idealistiche, realistiche, romantiche, pratiche, e così via. In questo senso, il concetto di Weltanschauung ha molto di comune col concetto di «orientamento» (Einstellung); si potrebbe quindi anche definire la Weltanschauung come un orientamento concettualmente formulato. Che cosa si intende per orientamento? Orientamento è un concetto psicologico, che indica un particolare ordinamento dei contenuti psichici, diretto a uno scopo o orientato secondo una cosidetta idea superiore. Paragoniamo i nostri contenuti psichici con un esercito, ed esprimiamo le diverse forme di orientamento mediante particolari condizioni dell'esercito: allora, per esempio, l'attenzione sarebbe rappresentata da un esercito accampato in assetto di battaglia e circondato da reparti di truppe di ricognizione. Non appena la forza e la posizione del nemico sono sufficientemente note, si modifica la condizione dell'esercito, il quale si pone in movimento dirigendosi verso un determinato obbiettivo da assalire. In maniera del tutto simile si [p. 207] modifica l'orientamento psichico. Mentre nello stato di pura e semplice attenzione l'idea direttiva era quella della percezione, di modo che venivano repressi sia il proprio lavoro mentale, sia gli altri contenuti soggettivi, quando invece si passa ad un orientamento attivo compaiono nella coscienza contenuti soggettivi, che consistono in rappresentazioni finalistiche e in impulsi all'azione. E come l'esercito ha un comandante col suo stato maggiore, così l'orientamento psichico ha un'idea

direttiva generale, appoggiata e fondata su abbondanti materiali, quali le esperienze, i principi, gli affetti, e simili. Non si agisce infatti reagendo semplicemente e isolatamente a un determinato stimolo; tutte le nostre reazioni e tutti i nostri atti avvengono, al contrario, sotto l'influenza di complicate condizioni psichiche. Per ritornare alla metafora militare, potremmo paragonare questi processi con quanto avviene nel gran quartier generale. Il soldato semplice può credere che si contrattacchi semplicemente perché si è stati attaccati, o che si attacchi semplicemente perché si è visto il nemico. La nostra coscienza è sempre incline a far la parte del soldato semplice, ed a credere alla semplicità della sua azione. Ma in realtà si combatte in questo luogo ed in questo momento perché esiste un piano d'attacco generale, che già qualche giorno prima ha fatto avanzare il soldato fino a questo punto. E questo piano generale a sua volta non è soltanto una reazione alle informazioni ricevute, ma è una iniziativa creativa del comandante, a produrre la quale collaborano l'azione del nemico e forse anche considerazioni politiche che non hanno nulla di militare e che sono ignote al soldato semplice. Questi ultimi fattori sono di natura assai complessa, e molto al di là della comprensione del soldato, per quanto siano fin troppo chiari al comandante in capo. Ma anche a lui sono ignoti certi fattori, quali le sue predisposizioni personali e le loro complicate premesse. Così l'azione dell'esercito dipende, è vero, da un comando semplice ed unico, ma questo a sua volta non è che il risultato della cooperazione di complicatissimi fattori. Anche l'azione psichica avviene in base a premesse parimenti [p. 208] complicate. Per quanto l'impulso possa esser semplice, tuttavia ogni sua particolare sfumatura (l'intensità, la direzione, il decorso nel tempo e nello spazio, l'intenzionalità ecc') riposa su particolari premesse psichiche, e cioè proprio sull'orientamento, il quale a sua volta consta di una costellazione di contenuti di enorme complessità. L'io è il comandante dell'esercito; le sue riflessioni e le sue decisioni, le sue ragioni ed i suoi dubbi, i suoi intenti e le sue aspettazioni sono il suo stato maggiore, e la sua dipendenza dai fattori esterni è la dipendenza del comandante dalle incalcolabili influenze del quartier generale e della politica, che opera di là, al buio. Sono certo che non sforziamo troppo la nostra metafora, se ce ne serviamo per esprimere anche la relazione fra l'uomo e il mondo; l'io umano è il comandante di un piccolo esercito in lotta coll'ambiente, e non di rado conduce una guerra su due fronti: davanti a sé ha la lotta per l'esistenza,

dietro di sé la lotta contro la propria ribelle natura istintiva. Anche senz'essere pessimisti noi ravvisiamo nella nostra esistenza, più che altro, una lotta. Lo stato di pace è un desiderio, e la conclusione della pace col mondo o con se stessi è sempre un fatto assai notevole. Lo stato di guerra più o meno cronico richiede un orientamento organizzato con cura, e se qualche uomo perfetto dovesse aver trovato una durevole pace dell'anima, il suo orientamento dovrebbe possedere un grado ancor maggiore di accuratissima preparazione e di finissima elaborazione, perché il suo stato di pace possa avere una durata anche solo modesta. E' infatti assai più facile, per l'anima, vivere in uno stato di moto, in un flusso e riflusso continuo degli eventi, piuttosto che in un eterno equilibrio, perché in quest'ultimo stato -nonostante la sua forse mirabile altezza e perfezione - c'è il pericolo di venir soffocati dall'intollerabile noia. Non ci inganniamo quindi se ammettiamo che gli stati d'animo pacifici - cioè senza conflitti, sereni, superiori, equilibrati - riposino sempre, quando sono durevoli, su orientamenti particolarmente evoluti. Forse vi meraviglierete che io preferisca la parola «orientamento» alla parola Weltanschauung o visione del [p. 209] mondo. Col concetto di «orientamento» ho semplicemente lasciata aperta la questione se si tratti di una visione del mondo cosciente o incosciente. Si può essere infatti il proprio comandante in capo, e superare con successo la lotta per l'esistenza all'esterno e all'interno, raggiungendo perfino uno stato di pace relativamente sicuro, senza possedere una cosciente visione del mondo. Ma non vi si riesce senza orientamento. E' lecito parlare di visione del mondo solo quando si è almeno fatto seriamente il tentativo di formulare concettualmente o intuitivamente il proprio orientamento, cioè di comprendere perché ed a quale scopo si agisce e si vive in questa o in quella maniera. A che scopo dunque una visione del mondo, mi chiederete, se è così facile farne a meno? Ma allora mi potreste ugualmente chiedere: a che serve la coscienza, se è così facile farne a meno? Che cos'è infatti, tutto sommato, la visione del mondo? Nient'altro che una coscienza ampliata e approfondita. La ragione per cui la coscienza esiste e tende ad ampliarsi e ad approfondirsi è assai semplice: senza coscienza si tira avanti lo stesso, ma meno bene. Ecco perché madre natura ha creato questa curiosissima fra tutte le inaudite curiosità naturali, la coscienza. Anche il primitivo, pur essendo quasi senza coscienza, può adattarsi ed affermarsi, ma solo nel suo mondo primitivo, e in altre circostanze egli cade vittima di infiniti pericoli che noi, grazie al nostro più alto grado di coscienza, evitiamo con estrema

facilità. Certamente, quando è più alta, la coscienza è esposta a pericoli di cui il primitivo non ha neppur l'idea, ma resta il fatto che l'uomo cosciente ha conquistato la terra, non l'uomo incosciente. Non è affar nostro decidere se questa, per gli intenti ultimi e superumani, sia una circostanza sfavorevole o favorevole. Ogni più alto stato di coscienza è condizione di una visione del mondo. Ogni coscienza di ragioni e di intenti è, in germe, una visione del mondo. Ogni accrescimento dell'esperienza e della conoscenza significa un ulteriore passo nell'evoluzione della visione del mondo. Modificando l'immagine che egli si crea del mondo, l'uomo pensante modifica anche se stesso. L'uomo il cui sole gira ancora attorno [p. 210] alla terra è diverso da quello la cui terra è satellite del sole. Non per nulla il pensiero dell'infinito di Giordano Bruno rappresenta uno degli inizi più importanti della coscienza moderna. L'uomo il cui cosmo è appeso all'empireo è diverso da quello il cui spirito è illuminato dalla visuale di Keplero. Colui che ancor si domanda quanto facciano due più due è diverso da colui per il quale nulla è più certo che le verità a priori della matematica. In altri termini, non è indifferente avere una visione del mondo e avere l'una piuttosto che l'altra, poiché non soltanto noi creiamo un'immagine del mondo, ma questa, di rimando, modifica anche noi. Il concetto che noi ci facciamo del mondo è l'immagine di ciò che noi chiamiamo mondo. Ed è secondo la natura di quest'immagine che noi orientiamo il nostro adattamento. Il soldato semplice nelle trincee non sa nulla dell'attività dello stato maggiore. E' vero che noi siamo anche stato maggiore e comandante in capo; ma occorre quasi sempre una violenta decisione per strappare la coscienza alle sue occupazioni momentanee e forse urgenti, e dirigerla sui problemi più generali dell'orientamento. Non facendolo, non acquistiamo coscienza del nostro orientamento e perciò non abbiamo una visione del mondo, ma soltanto un orientamento incosciente. Se non ce ne rendiamo conto i motivi e gli intenti direttivi restano incoscienti, cioè sembra che tutto sia semplicissimo e che avvenga solo così o così. Ma in realtà i motivi e gli intenti sono collegati, nei retrofondi dell'anima, a complicati processi di estrema sottigliezza. Ci son molti scienziati i quali evitano di avere una visione del mondo, pretendendo che ciò non sia scientifico. Ma è evidente che costoro non comprendono ciò che in tal modo fanno. In realtà lasciano se stessi intenzionalmente all'oscuro circa le loro idee direttrici, si mantengono, in altre parole, in uno stadio di coscienza più basso e più primitivo di quello che corrisponderebbe alle attitudini della loro

coscienza. La critica e lo scetticismo non sono sempre espressione di intelligenza, ma ben spesso del contrario, specie quando ci si finge scettici per mascherare la mancanza di una visione del mondo. Non di rado ciò [p. 211] che manca, più che l'intelligenza, è il coraggio morale. Non si può infatti vedere il mondo senza vedere se stessi, e così come noi vediamo il mondo vediamo anche noi stessi, per il che occorre non poco coraggio. Perciò è sempre un nefasto errore non avere una visione del mondo. Avere una visione del mondo significa creare un'immagine del mondo e di sé, sapere che cosa è il mondo e che cosa noi siamo. Preso alla lettera, ciò sarebbe troppo. Nessuno può sapere che cosa è il mondo, e tanto meno che cosa egli è. Ma, inteso cum grano salis, ciò vuol dire: avere la migliore conoscenza possibile. La migliore conoscenza possibile esige il sapere, ed ha orrore delle ipotesi infondate, delle affermazioni arbitrarie, delle opinioni autoritarie. Ma essa cerca le ipotesi ben fondate, senza dimenticare che ogni sapere è limitato e soggetto all'errore. Se l'immagine del mondo da noi creata non agisce di rimando su di noi, ci si potrebbe accontentare di qualche bella o comunque dilettevole apparenza. Ma l'illusione a cui volontariamente ci abbandoniamo si ripercuote su di noi, ci fa irreali, pazzi ed inetti. Lottando con una falsa immagine del mondo soggiaciamo al prepotere della realtà. In tal modo apprendiamo quanto sia importante ed essenziale possedere una visione del mondo fondata e costruita con cura. Ogni visione del mondo è ipotesi, e non articolo di fede. Il mondo muta il suo volto - tempora mutantur et nos in illis - perché il mondo ci è comprensibile solo come immagine psichica in noi, e quando l'immagine muta non è sempre facile capire se è mutato il mondo, o noi, o tutti e due. L'immagine del mondo può mutare in qualunque momento, così come può mutare in qualunque momento la nostra idea di noi stessi. Ogni nuova scoperta, ogni nuovo pensiero può imporre al mondo un nuovo volto. Bisogna tenerne conto, se non ci vogliamo trovare a vivere improvvisamente in un mondo antiquato, residui noi stessi di stadi di coscienza più bassi e superati. Verrà il momento in cui ognuno di noi sarà superato, ma per restar vivi occorre rimandare questo momento quanto più si può, non lasciando mai irrigidire la nostra immagine del mondo, [p. 212] e saggiando ogni nuovo pensiero per comprendere se alla nostra immagine del mondo esso aggiunge qualche cosa oppure no. Mi accingo ora a discutere il problema dei rapporti fra psicologia analitica

e visione del mondo, e lo farò appunto ponendomi nel punto di vista che sopra ho spiegato, cioè domandandomi per prima cosa: le conoscenze della psicologia analitica aggiungono qualche cosa di nuovo alla nostra visione del mondo oppure no? Per trattare con profitto questa questione dobbiamo anzitutto sapere che cosa sia la psicologia analitica. Io indico con questo nome un particolare indirizzo della psicologia, che si occupa principalmente dei cosidetti fenomeni psichici complessi, contrariamente alla psicologia fisiologica o sperimentale, che tende a risolvere i fenomeni complessi nei loro elementi. Chiamo «analitico» questo indirizzo della psicologia perché esso si è sviluppato dalla «psicoanalisi» di Freud. Freud ha identificato la psicoanalisi colla sua teoria della rimozione dei complessi sessuali, e così l'ha dottrinariamente fissata. Io evito quindi l'espressione «psicoanalisi», quando discuto cose che non siano puramente tecniche. La psicoanalisi di Freud consiste in una tecnica che ci permette di ricondurre alla coscienza i cosidetti contenuti repressi o «rimossi», divenuti incoscienti. Questa tecnica è un metodo terapeutico destinato a curare e guarire le nevrosi. Alla luce di questo metodo sembrerebbe che le nevrosi si verifichino perché tendenze o ricordi penosi, i cosidetti contenuti incompatibili, vengono rimossi dalla coscienza per una specie di risentimento morale dovuto ad influenze educative, e divengono incoscienti. Così considerata, l'attività psichica incosciente ci appare come un ricettacolo di tutti i contenuti sgraditi alla coscienza e di tutte le impressioni dimenticate. Ma d'altra parte non si può non voler vedere che i contenuti incompatibili provengono appunto da impulsi incoscienti, che dunque l'incosciente non è soltanto un ricettacolo, ma addirittura la matrice di quelle [p. 213] cose di cui la coscienza vorrebbe liberarsi. Possiamo andare ancora un passo avanti: l'incosciente crea anche contenuti nuovi. Tutto ciò che lo spirito umano crea è provenuto da contenuti che in ultima analisi erano germi incoscienti. Mentre Freud insistette particolarmente sul primo di questi due aspetti, io ho messo in rilievo il secondo, senza negare il primo. Sebbene non sia irrilevante il fatto che l'uomo fa il possibile per schivare ed evitare tutto ciò che è sgradevole e quindi dimentica volentieri ciò che non gli accomoda, mi pare tuttavia assai più importante constatare quale è propriamente l'attività positiva dell'incosciente. Osservato da questo lato l'incosciente ci appare il complesso di tutti i contenuti psichici in statu nascendi. Questa indubbia funzione dell'incosciente è in sostanza solamente disturbata dai contenuti rimossi dalla

coscienza, e questa perturbazione dell'attività naturale dell'incosciente è ben la sorgente essenziale delle cosidette malattie psicogene. L'incosciente è forse meglio compreso se lo consideriamo come un organo dotato di una sua specifica energia produttiva. Se, a causa della rimozione, i suoi prodotti non vengono accolti nella coscienza, nasce una specie di stasi, una innaturale inibizione di una funzione opportuna, proprio come se la bile, prodotto naturale della funzione del fegato, trovasse impedito il deflusso nell'intestino. La bile passa nel sangue, e parimenti il contenuto rimosso si irradia in altre zone psichiche e fisiologiche. Nell'isteria sono disturbate principalmente le funzioni fisiologiche, nelle altre nevrosi, come le fobie, le ossessioni e le nevrosi coatte, sono disturbate soprattutto le funzioni psichiche, compresi i sogni. L'attività dei contenuti rimossi, rilevabile nei sintomi somatici dell'isteria e nei sintomi psichici di altre nevrosi (ed anche delle psicosi), è dimostrabile anche per i sogni. Il sogno è in sé una funzione normale, che può essere alterata dalla stasi tanto quanto altre funzioni. La teoria freudiana del sogno considera, e anzi spiega i sogni solo sotto questo aspetto, cioè come se non fossero altro che sintomi. E' noto che la psicoanalisi tratta alla stessa maniera anche altri ben diversi campi dello spirito, quali le opere d'arte; ma l'opera d'arte, mi spiace dirlo, non è [p. 214] un sintomo, bensì una creazione genuina. Una produzione creativa non può essere intesa che per se stessa. Qualunque tentativo di concepirla come un malinteso patologico e di spiegarla come una nevrosi la riduce a una compassionevole curiosità. Lo stesso vale per il sogno, creazione caratteristica dell'incosciente, che la rimozione può solo svisare e deformare. Spiegando il sogno come un mero sintomo di rimozione non si coglie certo nel segno. Limitiamoci per un istante ai risultati della psicoanalisi di Freud. Secondo la teoria della psicoanalisi l'uomo è un essere istintivo, che urta per molti riguardi contro le barriere delle leggi, dei comandamenti morali e della propria saggezza, ed è perciò costretto a rimuovere in tutto o in parte alcuni istinti. Lo scopo del metodo è di addurre alla coscienza questi contenuti istintivi, e di sopprimere la loro rimozione mediante una correzione cosciente. Alla minaccia rappresentata dal loro scatenamento viene opposta la spiegazione che essi non siano altro che fantasie e desideri infantili, i quali, ragionevolmente, possono soltanto venir repressi. Si ammette anche che essi possano essere «sublimati» - secondo l'espressione tecnica - intendendo con ciò una specie di deviazione in un'opportuna forma di adattamento. Ma chi crede che questa possa essere volontariamente ottenuta si sbaglia. Solo

l'assoluta necessità può inibire efficacemente un istinto naturale. Dove non esiste questa inesorabile necessità la sublimazione non è che un'illusione, una rimozione nuova, e questa volta alquanto più sottile. C'è in questa teoria e in questa concezione dell'uomo qualcosa che giovi alla nostra visione del mondo? Io non lo credo. L'idea direttiva della psicologia interpretativa della psicoanalisi freudiana è il ben noto materialismo razionalista della fine del secolo scorso. Non ne vien fuori un'altra immagine del mondo e quindi neppure un altro orientamento dell'uomo rispetto al mondo. Ma non si può dimenticare che solo in pochissimi casi l'orientamento subisce l'influenza delle teorie. Assai più efficace è la via che passa per il fattore sentimento. Ma io non capisco come [p. 215] una secca esposizione teorica possa toccare il sentimento. Vi potrei leggere una minuta statistica carceraria e voi vi addormentereste. Se però vi guidassi per una prigione o per un manicomio non vi addormentereste, e ne ricevereste una profonda impressione. Fu forse una dottrina quella che formò il Budda? No, fu la visione della vecchiaia, della malattia e della morte, quella che gli bruciò nell'anima. In realtà le concezioni in parte unilaterali, in parte errate della psicoanalisi freudiana non ci dicono nulla. Ma se gettiamo uno sguardo nella psicoanalisi di reali casi di nevrosi e vediamo quali devastazioni causano le cosidette rimozioni, quali distruzioni seguono alla non osservanza di istinti elementari, allora sì ne riceviamo, per dir poco, una impressione duratura. Non c'è forma della tragedia umana che non possa scaturire da questa lotta dell'io contro l'incosciente. Chi vede per la prima volta gli orrori di un carcere, di un manicomio o di un ospedale arricchisce notevolmente, per l'impressione che suscitano in lui queste cose, la propria visione del mondo. La medesima cosa gli succede gettando uno sguardo nell'abisso di sofferenza umana che si apre dietro una nevrosi. Quante volte ho udito esclamare: «Ma è spaventevole! Chi vi avrebbe pensato?» e così via. Non lo si può davvero negare, è una impressione poderosa quella che si riceve dell'attività dell'incosciente, quando si cerca di indagare colla debita profonda scrupolosità la struttura di una nevrosi. E' anche un merito mostrare a qualcuno gli slums di Londra, e chi li ha visti ha visto di più che chi non li ha visti. Ma non si tratta che di un urto violento, e la domanda: che cosa si deve fare? rimane ancora senza risposta. La psicoanalisi ha tolto l'involucro che ricopriva fatti noti a poche persone, ed ha perfino fatto il tentativo di trarne partito. Ma quale

atteggiamento ha essa nei loro riguardi? E' un atteggiamento nuovo? E' stata feconda, in altre parole, la grande impressione? Ha essa mutato l'immagine del mondo migliorando così la nostra visione del mondo? La visione del mondo della psicoanalisi è un materialismo razionalista, è la visione del mondo di una [p. 216] scienza naturale essenzialmente pratica. E noi sentiamo che questa visione è insufficiente. I tentativi di derivare una poesia di Goethe dal suo complesso materno, o di spiegare Napoleone come un caso di protesta virile, e san Francesco come un caso di rimozione sessuale, ci lasciano profondamente insoddisfatti. Sono tentativi insufficienti, che non rendono conto della significativa realtà delle cose. Dove vanno a finire la bellezza, la grandezza e la santità? Queste sono pure vivissime realtà, senza le quali la vita umana sarebbe estremamente ottusa. Dov'è la giusta risposta ai quesiti che ci sono posti da inauditi dolori e conflitti? In questa risposta dovrebbe almeno risuonar qualcosa che ci ricordi la grandezza della sofferenza. L'atteggiamento puramente razionalista, per quanto sia spesso opportuno, trascura il significato del dolore. Il dolore è messo da parte e dichiarato irrilevante. Fu un gran rumore per nulla. Molto ricade in questa categoria, ma non tutto. L'errore sta nel fatto che, come abbiamo detto, la cosidetta psicoanalisi ha un concetto scientifico, è vero, ma puramente razionalistico dell'incosciente. Parlando di istinti, si crede di riferirsi a cose note. In realtà si parla di cose ignote. In realtà sappiamo soltanto che dalla buia sfera della psiche ci giungono influssi che debbono venir comunque accolti nella coscienza, per evitare devastatrici perturbazioni di altre funzioni. E' assolutamente impossibile dire senz'altro di che natura sono questi influssi, se essi sono dovuti alla sessualità, alla volontà di potenza o ad altri istinti. Sono influssi ambigui, o addirittura di significato molteplice, come l'incosciente stesso. Ho già spiegato prima che l'incosciente è bensì il ricettacolo di tutti i contenuti dimenticati, passati o rimossi, ma è anche la sfera in cui hanno luogo tutti i processi subliminali, come le percezioni sensoriali troppo deboli per raggiunger la coscienza, e finalmente è anche la matrice da cui cresce il futuro psichico. Come sappiamo che si può reprimere un desiderio incomodo e costringerne in tal modo l'energia ad immischiarsi in altre funzioni, così sappiamo pure che c'è chi non può acquistar coscienza di [p. 217] una nuova idea che gli viene in mente e gli è assai lontana, la cui energia, per conseguenza, fluisce in altre funzioni perturbandole. Ho visto molti casi in cui abnormi fantasie sessuali cessarono di colpo e completamente nell'istante

in cui un nuovo pensiero o contenuto divenne cosciente, o una emicrania scomparve improvvisamente quando divenne cosciente una poesia incosciente. Come la sessualità si può esprimere impropriamente in fantasie, così anche una fantasia creatrice si può esprimere impropriamente in sessualità. En étymologie n'importe quoi peut désigner n'importe quoi, disse Voltaire; e la stessa cosa bisogna dire dell'incosciente. In ogni caso non sappiamo mai in antecedenza di che cosa si tratta. Per ciò che riguarda l'incosciente abbiamo soltanto la facoltà di saper le cose dopo, ed inoltre è a priori impossibile saper qualcosa su quanto avviene nell'incosciente. Ogni conclusione a questo riguardo è un confessato come se. In questa situazione l'incosciente ci appare come una grande X, da cui promanano considerevoli influssi, l'unica cosa su cui non ci sia dubbio. Uno sguardo alle religioni del passato ci mostra l'importanza storica di questi influssi. Uno sguardo alle sofferenze dell'uomo d'oggi ci mostra la stessa cosa. Solo che oggi noi ci esprimiamo un po'diversamente. Cinquecent'anni fa si diceva: è posseduta dal diavolo; oggi si dice: è una isterica; una volta era stregoneria, oggi è una nevrosi gastrica. I fatti sono gli stessi, ma l'antica spiegazione, psicologicamente, era quasi esatta. Adesso, per indicare i sintomi, abbiamo dei termini razionalistici che a dire il vero sono privi di contenuto. Quando infatti io dico che un tale è posseduto da uno spirito maligno, indico con ciò il fatto che il posseduto non è legittimamente malato, ma soffre di un influsso spirituale invisibile di cui non può rendersi padrone in nessun modo. Questo ente invisibile è un cosidetto complesso autonomo, un contenuto incosciente sottratto all'impero della volontà cosciente. Analizzando la psicologia di una nevrosi si scopre infatti un cosidetto complesso, che non si comporta come un contenuto cosciente andando o venendo come noi comandiamo, ma segue leggi proprie, [p. 218] è in altre parole indipendente, autonomo, come dice l'espressione tecnica. Esso si comporta proprio come un coboldo che non si lascia dominare. E se l'analisi riesce a rendere cosciente il complesso, il malato dice forse con sollievo: ah! ecco quello che mi disturbava! e apparentemente abbiamo guadagnato qualche cosa, perché i sintomi scompaiono: il complesso, come si suol dire, è sciolto. Possiamo esclamare con Goethe: «Wir haben ja aufgeklart!», or tutto è chiaro! Ma con Goethe dobbiamo continuare: «Und dennoch spukt's in Tegel!», eppure a Tegel ci sono gli spettri! Soltanto adesso si rivela la vera situazione; noi ci accorgiamo che questo complesso non avrebbe dovuto esistere, se la nostra natura non gli avesse conferito una

segreta forza propulsiva. Voglio spiegarmi con un breve esempio: un paziente soffre di sintomi nervosi gastrici, consistenti in contrazioni dolorose, come se avesse fame. L'analisi rivela una passione infantile per la madre, un cosidetto complesso materno. Appena il malato ne prende coscienza i sintomi scompaiono ma rimane al loro posto uno stato nostalgico a calmare il quale non vale la constatazione che esso non è altro che un complesso materno infantile. Quella che prima era fame quasi fisica e dolore fisico, ora è fame psichica e dolore psichico. Si aspira a qualche cosa e si sa che a torto ci si riferiva alla madre. Il fatto di un'aspirazione ancora inappagabile rimane, e risolvere questo problema è assai più difficile che ricondurre la nevrosi al complesso materno. Questa vaga bramosia è un'esigenza continua, un vuoto tormentoso, attivo, che può esser dimenticato solo per qualche tempo, ma non può mai esser vinto colla forza della volontà. Ricompare continuamente. Non si sa da che proviene, forse non si sa nemmeno che cosa si desidera. Si possono sospettare molte cose, ma certo è soltanto che al di là del complesso materno c'è qualcosa di incosciente che manifesta quest'esigenza ed eleva continuamente la sua voce, indipendentemente dalla nostra coscienza inattaccabile dalla nostra critica. Questo qualcosa è ciò che io chiamo complesso autonomo. Da questa fonte scaturisce la forza istintiva che originariamente nutrì l'anelito [p. 219] infantile verso la madre e poi causò la nevrosi perché la coscienza adulta dovette ricusare l'anelito infantile e reprimerlo come incompatibile. Tutti i complessi infantili risalgono in ultima analisi a contenuti autonomi dell'incosciente. La mente dei primitivi ha personificato questi contenuti, che sentiva estranei e incomprensibili, dando loro forma di spiriti, di demoni o di dèi, ed ha tentato di assolvere alle loro esigenze con riti sacri e magici. Accortasi, e giustamente, che questa fame o sete non può esser saziata né da cibo né da bevanda, né dal ritorno nel grembo materno, la mente del primitivo ha creato immagini di esseri invisibili, gelosi ed esigenti, più autorevoli, più forti e più pericolosi che l'uomo, cittadini di un mondo invisibile, ma fusi tanto intimamente col mondo visibile, da abitare perfino nelle pentole di cucina. Spiriti e magia sono, per il primitivo, le cause delle malattie. I contenuti autonomi si sono in lui proiettati in queste figure soprannaturali. Il nostro mondo invece è libero da demoni, salvo alcuni residui significativi. Ma i contenuti autonomi e le loro esigenze sono rimasti. Potrebbero esprimersi in parte nelle religioni, ma quanto più le religioni si razionalizzano e si diluiscono - sorte quasi inevitabile - tanto più confuse e

misteriose divengono le vie per le quali i contenuti dell'incosciente pur ci raggiungono. Una delle vie più comuni, e a tutta prima non lo si sospetterebbe, è la nevrosi. Il pubblico crede di solito che le nevrosi siano bazzecole, quantités négligeables della medicina, ma ha torto, come abbiamo visto. Ché dietro la nevrosi si celano quei potenti influssi psichici che stanno a base del nostro atteggiamento spirituale e delle nostre più autorevoli idee direttive. Il materialismo razionalistico, atteggiamento mentale in apparenza non sospetto, è un movimento psicologico opposto al misticismo. Questo è il recondito antagonista che deve essere combattuto. Materialismo e misticismo non sono, psicologicamente, che una coppia di contrari, proprio come l'ateismo e il teismo. Sono fratelli nemici, due metodi differenti per venire comunque a capo dei dominanti influssi incoscienti, l'uno negando, l'altro affermando. Il contributo più importante che la psicologia analitica ha potuto recare alla nostra visione del mondo è dunque, secondo me, la nozione che esistono contenuti incoscienti i quali pongono irrecusabili esigenze o irraggiano influssi con cui la coscienza, volente o nolente, deve fare i conti. L'esposizione che io ho fatto finora sarebbe certo insufficiente, se io lasciassi in questa forma indeterminata ciò che ho chiamato contenuto autonomo dell'incosciente, e non tentassi almeno di descrivere ciò che la nostra psicologia ha empiricamente scoperto in questi contenuti. Se, come ammette la psicoanalisi, ci si potesse definitivamente accontentare dicendo che l'originaria dipendenza infantile dalla madre è la causa di quella vaga bramosia di cui sopra ho parlato, questa nozione dovrebbe costituire anche una soluzione. E ci sono infatti dipendenze infantili che scompaiono davvero quando si acquista piena coscienza della loro natura. Ma non bisogna credere che avvenga così in tutti i casi. Residua sempre qualche cosa, talora così poco, apparentemente, che il caso sembra praticamente risolto, ma talora il residuo è così abbondante da lasciare insoddisfatti sia il medico sia il paziente, e spesso sembra che non si sia ottenuto proprio nulla. D'altronde molti malati curati da me, benché conoscessero minutamente il complesso che causava i loro disturbi, non ne avevano tratto alcun reale vantaggio. Una spiegazione causale può dare una relativa soddisfazione scientifica, ma psicologicamente non soddisfa, poiché non rivela lo scopo della forza istintiva a cui è dovuto il disturbo (il significato della bramosia, per esempio), e tanto meno insegna che cosa si deve fare per rimediarvi. Quand'anche io

sappia che un'epidemia di tifo è dovuta all'acqua infetta, non per questo ho eliminato l'inquinamento delle sorgenti. Una risposta adeguata è data soltanto quando si sa che cosa sia e dove tenda quella forza ignota che mantiene viva nell'età adulta la dipendenza infantile. Se la mente umana alla nascita fosse una tabula rasa, questi problemi non esisterebbero, perché tutto ciò che la mente contiene sarebbe stato acquisito, o vi sarebbe stato innestato. Ma nell'anima umana ci son molte cose [p. 221] che non sono state acquisite, perché la mente umana non nasce come tabula rasa, né ogni uomo ha un cervello del tutto nuovo ed a lui peculiare. Il cervello con cui l'uomo nasce è il risultato dell'evoluzione di un'infinita serie di antenati, si costituisce compiutamente differenziato di ogni embrione, e dà immancabilmente, quando entra in funzione, risultati già prodottisi infinite volte nella serie degli antenati. L'intera struttura anatomica dell'uomo è un sistema ereditario, identico alla costituzione ancestrale, che immancabilmente funzionerà nella stessa maniera di prima. E' quindi minima la possibilità che si produca qualcosa di nuovo, sostanzialmente differente da quanto è stato prodotto in antico. Tutti quei fattori, dunque, che furono essenziali per i nostri avi prossimi e remoti, saranno essenziali anche per noi, perché corrispondono al sistema organico ereditario. Essi sono necessità, che si paleseranno come bisogni. Non temete che io vi parli di idee ataviche. Me ne guardo bene. I contenuti autonomi dell'incosciente (o dominanti dell'incosciente, come io li ho anche chiamati), non sono idee ereditate, ma possibilità ereditate, o meglio sono necessità di generare ancora quelle idee che le dominanti dell'incosciente hanno sempre espresso. Certamente ogni regione della terra ed ogni epoca ha il suo particolare linguaggio che può variare infinitamente. Ma non importa che nella mitologia l'eroe vinca ora un drago, ora un pesce, ora un altro mostro; il motivo fondamentale resta il medesimo, ed è questo il patrimonio comune dell'umanità, non le transitorie formulazioni delle diverse regioni e delle varie età. L'uomo nasce dunque con una disposizione mentale complicata, ben diversa da una tabula rasa. L'eredità mentale pone limiti precisi anche alla più ardita fantasia, ed attraverso il velo della più sfrenata fantasticheria traspaiono quelle dominanti che fin dalla più remota antichità furono inerenti allo spirito umano. Ci stupisce scoprire in un alienato fantasie quasi identiche a quelle che possiamo ritrovare nei primitivi. Ma dovremmo stupirci se così non fosse.

Alla sfera della massa ereditaria psichica ho dato il nome di incosciente collettivo. I contenuti della nostra coscienza sono tutti individualmente acquisiti. Ora, se la psiche umana fosse costituita esclusivamente dalla coscienza, non ci sarebbe nulla di psichico che non fosse sorto nel corso della vita individuale. In questo caso sarebbe vano cercare qualche condizione o qualche influsso dietro un semplice complesso paterno o materno. Riconducendo il complesso al padre o alla madre avremmo detto l'ultima parola, perché queste sono le figure che prime hanno agito sulla nostra psiche cosciente. Ma in realtà i contenuti della nostra coscienza non sono dovuti soltanto all'azione dell'ambiente individuale, sono invece anche influenzati e ordinati dalla massa psichica ereditaria, dall'incosciente collettivo. E' certo, per esempio, che l'immagine della madre individuale è assai significativa, ma essa è tale perché è fusa con una disposizione incosciente, cioè con un'immagine congenita che deve la sua esistenza al fatto che madre e bambino, da tempo immemorabile, stettero in un rapporto simbiotico. Là dove, in qualunque senso, manca la madre individuale, si avverte una perdita, e l'immagine materna collettiva fa sentire le sue esigenze. Un istinto, per così dire, non riesce a coglier nel segno. Ne nascono assai spesso disturbi nevrotici o almeno singolarità del carattere. Se non esistesse l'incosciente collettivo si potrebbe ottenere tutto coll'educazione, e senza danno storpiar l'uomo a macchina psichica o allevarlo al culto di un ideale. Ma a tutti questi sforzi sono tracciati stretti limiti, perché ci sono dominanti dell'incosciente che elevano invincibili richieste di esaudimento. Se dunque, nel caso del paziente colla nevrosi gastrica, mi si chiede di definire esattamente che cosa sia quell'oscuro fattore incosciente che trascendendo il complesso materno personale alimenta una bramosia altrettanto indistinta quanto tormentosa, debbo rispondere: è l'immagine collettiva della madre, non di questa madre personale, ma della madre in genere. Ma perché, mi si domanderà, quest'immagine collettiva deve suscitare una simile bramosia? Rispondere a questa [p. 223] domanda non è facile. Anzi, se potessimo rappresentarci direttamente che cos'è e che cosa significa l'immagine collettiva (che io ho anche chiamato archetipo), sarebbe assai semplice capirne l'azione. Mi spiegherò meglio nel modo che segue: La relazione da madre a bambino è la più profonda e la più netta che noi

conosciamo; non è forse il bambino, per qualche tempo, parte del corpo materno? Poi egli diventa, per lunghi anni, un elemento dell'atmosfera psichica della madre, e in questa guisa tutto ciò che nel bambino è originario si fonde indissolubilmente, per così dire, coll'immagine materna. Quanto io dico non è vero soltanto per il caso singolo, ma è ancor più vero storicamente. E' l'esperienza vissuta dalla serie degli antenati, è una verità organica come il rapporto fra i sessi. Anche l'archetipo, immagine materna collettiva ereditaria, è dotato di una forza attrattiva straordinariamente intensa, che spinge il bambino a aggrapparsi istintivamente a sua madre. Coll'andar degli anni l'uomo si sottrae naturalmente alla madre (non altrettanto naturalmente all'archetipo), purché egli non sia più in uno stato di primitività quasi animalesca, ma abbia già acquistato una certa consapevolezza e quindi una certa civiltà. Se egli è puramente istintivo, la sua vita scorre senza volontà, perché volontà presuppone sempre coscienza; scorre secondo leggi incoscienti e non si scosta mai dall'archetipo. Ma se esiste una certa consapevolezza il contenuto cosciente è valutato più che l'incosciente, e ne nasce l'illusione di aver cessato, separandosi dalla madre, di essere il figlio di questa madre individuale. La coscienza non conosce contenuti individualmente acquisiti, non conosce, per conseguenza, che la madre individuale, e non sa che questa è in pari tempo la portatrice dell'archetipo, e rappresenta, per così dire, la madre eterna. Ma il distacco dalla madre è sufficiente solo se è in pari tempo un distacco dall'archetipo. Lo stesso dicasi per il distacco dal padre. Il sorgere della coscienza e quindi di una relativa libertà di volere permise naturalmente lo scostamento dall'archetipo e quindi dall'istinto. Avvenuto lo scostamento, il [p. 224] cosciente si dissocia dall'incosciente, e così comincia la percepibile e di solito assai sgradevole attività dell'incosciente, in forma di un inconscio legame interno che si manifesta solo sintomaticamente, cioè indirettamente. Sorgono allora situazioni in cui sembra che non sia ancora avvenuto il distacco dalla madre. La mente dei primitivi, pur non avendo capito questo dilemma, lo ha chiaramente sentito, e perciò ha creato riti importantissimi destinati a segnare il passaggio dall'infanzia all'età adulta, coll'inequivocabile scopo di operare magicamente il distacco dai genitori, riti che sarebbero del tutto superflui se la relazione coi genitori non fosse parimenti sentita come magica. Magiche sono tutte quelle cose dove sono in gioco influssi incoscienti. Ma questi riti hanno l'intento di operare non solo il distacco dai genitori, ma anche la transizione nell'età adulta. Perché ciò

avvenga occorre che non resti una bramosia rivolta indietro verso la fanciullezza, cioè che sia coperta l'esigenza dell'archetipo offeso, e questo si ottiene contrapponendo all'intimo rapporto coi genitori un altro rapporto, quello col clan o colla tribù. Servono a questo scopo alcuni segni che vengono impressi sul corpo, quali la circoncisione ed altre lesioni che lasciano cicatrici, e poi l'iniziazione mistica che il giovane riceve all'atto della consacrazione. Talora la consacrazione assume forme assai crudeli. Il primitivo ritiene necessario, per ragioni di cui non è cosciente, di soddisfare in questa maniera alle esigenze dell'archetipo. Non gli basta la semplice separazione dei genitori, ma gli occorre una violenta cerimonia che sembra un sacrificio a quelle potenze che potrebbero trattenere il giovane. Da ciò si riconosce la potenza dell'archetipo, che costringe il primitivo ad agire contro la natura per non caderle in preda. E' questo l'inizio di ogni civiltà, l'inevitabile conseguenza della consapevolezza e della possibilità che ne deriva di deviare dalla legge incosciente. Sono cose da tempo divenute estranee al nostro mondo, ma non per questo la natura ha in noi perduto nulla della sua potenza. Noi abbiamo soltanto imparato a sottovalutarla. Ma siamo in imbarazzo quando ci chiediamo quale [p. 225] sia la nostra maniera di opporci all'azione dei contenuti incoscienti. Per noi non si può più trattare di riti primitivi: sarebbe un regresso artificioso ed inoltre inefficace. Siamo già troppo critici e troppo psicologi. Se voi mi poneste questa questione sarei in imbarazzo tanto quanto voi. Posso solo dire che da anni osservo quali vie seguono molti dei miei pazienti per appagare l'esigenza dei contenuti incoscienti. Oltrepasserei di molto i limiti di questo saggio, se volessi riferire qui i risultati di queste osservazioni, e vi debbo rinviare, a questo riguardo, alla letteratura della specialità, dove la questione è minutamente discussa. Mi accontenterò di portarvi a riconoscere, se vi riuscirà, che nella nostra anima incosciente sono attive quelle stesse forze che l'uomo negli antichi tempi proiettava nello spazio e qui onorava con sacrifici. Servendoci di questa nozione potremmo riuscire a dimostrare che tutte le molteplici usanze e convinzioni religiose che tanta importanza hanno avuto nella storia dell'umanità non sono riconducibili ad invenzioni arbitrarie o ad opinioni di singoli, ma sono piuttosto debitrici della loro origine all'esistenza di potenti forze incoscienti che non possono venir trascurate senza turbare l'equilibrio psichico. Quanto vi ho spiegato servendomi dell'esempio del complesso materno non è che un caso fra i molti. L'archetipo materno è un

caso isolato, al quale si potrebbe facilmente aggiungere una serie di altri archetipi. Questa molteplicità delle dominanti incoscienti spiega il polimorfismo delle idee religiose. Tutti questi fattori sono ancor sempre attivi nella nostra anima; solo le loro espressioni e le loro valutazioni sono superate. Il fatto che noi adesso possiamo intenderli come grandezze psichiche è una nuova formulazione, una nuova espressione, che forse renderà anche possibile scoprire vie per le quali possa venir stabilita una nuova relazione con loro. Ritengo che questa possibilità sia cosa assai importante, perché l'incosciente collettivo non è affatto una specie di angolo oscuro, ma è il deposito, che tutto domina, dell'esperienza atavica di innumerevoli milioni d'anni, l'eco della preistoria, a cui questo secolo non apporta che un piccolissimo contributo [p. 226] di variazioni e di differenziazione. L'incosciente collettivo, essendo in ultima analisi un deposito storico che si esprime nella struttura del cervello e del simpatico, ha nel suo complesso il significato di una specie di immagine del mondo senza tempo, eterna, in certo qual modo, contrapposta alla momentanea immagine del mondo della nostra coscienza. Ciò significa, in altri termini, né più né meno che un altro mondo, un mondo speculare, se così volete. Ma, a differenza da una mera immagine speculare, l'immagine del mondo inconscia ha un suo particolare vigore, indipendente dalla coscienza, grazie al quale può esplicare potenti azioni psichiche, azioni che non appaiono ampiamente alla superficie del mondo, ma influiscono potentemente su di noi dall'interno, dal buio, invisibili a chiunque non sottoponga l'immagine momentanea del mondo a critica sufficiente e quindi rimanga celato anche a se stesso. Il mondo non ha solo una faccia esteriore, ma anche una faccia interiore, non è solo visibile fuori di noi, ma opera prepotentemente su di noi, in un presente senza tempo, dai più profondi e apparentemente più soggettivi fondi dell'anima; ecco una nozione che, pur essendo un'antica saggezza, merita, in questa forma, di esser valutata come un fattore formativo della nostra visione del mondo. La psicologia analitica non è una visione del mondo, ma una scienza, e come tale fornisce i materiali costruttivi o gli strumenti con cui ciascuno può costruire, abbattere o anche migliorare la propria visione del mondo. Ci sono oggi molti per i quali la psicologia analitica è una visione del mondo. Io vorrei che così fosse, perché allora sarei dispensato dalla fatica di indagare e di dubitare e potrei inoltre dirvi in modo chiaro e semplice qual è la via che conduce in paradiso. Ma purtroppo non siamo ancora a tal punto. Io mi limito

a saggiare sperimentalmente la visione del mondo, tentando di capire quali siano il significato e la portata dei nuovi eventi. E questo sperimentare è in un certo senso una via, perché tutto sommato anche la nostra stessa esistenza è un esperimento della natura, [p. 227] un tentativo con una nuova combinazione. Una scienza non è mai una visione del mondo, ma solo lo strumento per crearla. Ognuno prenderà o non prenderà in mano questo strumento, secondo la visione del mondo che già possiede. Nessuno infatti è senza visione del mondo: tutt'al più avrà quella che gli fu imposta dall'educazione e dall'ambiente. Se questa visione del mondo, per esempio, gli dice, colle parole di Goethe, che la personalità è il supremo bene dell'uomo, egli darà di piglio senza esitare alla scienza ed ai suoi risultati, in cui vedrà lo strumento per costruire una visione del mondo e quindi se stesso. Se invece la sua visuale ereditaria gli dirà che la scienza non è strumento, ma fine a se stessa, egli seguirà la parola d'ordine che da circa 150 anni è valida, cioè praticamente decisiva. Alcuni, invero, si sono disperatamente difesi contro questa idea, perché la loro idea di perfezione culminava nella compiutezza della personalità umana e non nella differenziazione dei mezzi tecnici, che conduce inevitabilmente a una differenziazione estremamente unilaterale di un impulso, dell'impulso a conoscere. Se la scienza è fine a se stessa l'uomo ha la sua ragion d'essere come intelletto. Se l'arte è fine a se stessa, l'attitudine figurativa è l'unico valore dell'uomo, e l'intelletto va a finire in soffitta. Se il guadagnar danaro è fine a se stesso, scienza ed arte possono tranquillamente far fagotto. Nessuno può negare che la coscienza moderna è spezzettata, quasi senza speranza, in questi «fini a se stessi». Perciò gli uomini vengono coltivati solo come qualità singole, e diventano strumenti. Negli ultimi 150 anni abbiamo avuto numerose visioni del mondo, prova questa che la Weltanschauung è merce screditata, perché quanto più una malattia è difficile da guarire, tanto più numerosi sono i rimedi proposti, tanto peggiore è la fama dei singoli rimedi. Sembra che le «visioni del mondo» siano passate di moda. E' difficile pensare che quest'evoluzione sia un puro caso, una deplorevole ed insensata aberrazione, perché ciò che di per sé è eccellente e adeguato non suole scomparire dalla faccia del mondo in modo tanto penoso e sospetto. [p. 228] Bisogna che ci sia qualcosa di inutile o di riprovevole. Dobbiamo quindi porci la questione: dov'è l'errore delle nostre visioni del mondo?

A me pare che l'errore fatale dell'attuale visione del mondo consista in questo, che essa pretende di essere una verità obbiettivamente valida, e in ultima analisi perfino una specie di evidenza scientifica, il che conduce, per esempio, all'insopportabile conseguenza che lo stesso buon Dio deve aiutare i Tedeschi, i Francesi, gli Inglesi, i Turchi, i pagani; insomma, tutti contro tutti. La coscienza moderna, nella sua più ampia concezione del divenire mondiale, si è ritratta con orrore da simili mostruosità, ed ha cominciato a cimentarsi con surrogati filosofici. Ma anche questi pretesero di essere verità obbiettivamente valide, e furono screditati; e così abbiamo finito per arrivare allo spezzettamento differenziato, colle sue poco raccomandabili conseguenze. L'errore fondamentale di ogni visione del mondo è la sua singolare tendenza ad essere considerata essa stessa come la verità delle cose, mentre in realtà essa non è che il nome che noi diamo alle cose. Forse che noi, in scienza, litighiamo per decidere se il nome del pianeta Nettuno corrisponde all'essenza di questo astro e sia quindi il suo solo «giusto» nome? Nemmeno per idea, e questa è la ragione per cui la scienza è più progredita: essa conosce soltanto ipotesi di lavoro. Solo lo spirito primitivo crede al «vero nome». Il Rumpelstilzchen della favola andava in tanti pezzi quando si nominava il suo vero nome. Il capo tribù cela il suo vero nome ed assume, per l'uso giornaliero, un nome esoterico, affinché nessuno possa stregarlo conoscendo il suo vero nome. Nelle tombe dei faraoni egiziani venivano scritti i veri nomi degli dèi, affinché i faraoni defunti potessero aver gli dèi in loro potere mediante la conoscenza del loro vero nome. Per il cabalista il possesso del vero nome di Dio ha il significato di una potenza magica. Insomma: per lo spirito del primitivo il nome costituisce la cosa stessa. «Ciò che egli dice diviene», tale è l'antica massima di Ptah. Le visioni del mondo soffrono di questo residuo di primitività incosciente. Come [p. 229] all'astronomia è ancora ignoto che gli abitanti di Marte abbiano reclamato in terra per falsa denominazione del loro pianeta, così possiamo tranquillamente ammettere che il mondo non si curi affatto di ciò che di lui pensiamo. Ma non per questo occorre che noi cessiamo di pensare al mondo. E difatti noi non cessiamo di pensarci, anzi, la scienza continua a vivere come figlia ed erede di vecchie e decadute visioni del mondo. Ma chi ci ha scapitato in questo cambio di mano è l'uomo. Nella visione del mondo di antico stile egli aveva messo ingenuamente il suo spirito al posto delle cose, e gli era lecito considerare il suo viso come la faccia del mondo, vedere in sé

un'immagine di Dio; lusso che non era poi pagato troppo caro con alcune pene dell'inferno. Nella scienza, invece, l'uomo non pensa a sé ma solo al mondo, all'oggetto: si è tolto di mezzo ed ha sacrificato la propria personalità allo spirito obbiettivo. Perciò lo spirito scientifico è anche moralmente superiore alle visioni del mondo di vecchio stile. Ma noi cominciamo a sentire le conseguenze di questo immiserimento della personalità umana. In tutti i luoghi si leva la richiesta di una visione del mondo, si vuole che la vita ed il mondo abbiano un senso. Sono numerosi anche nel nostro tempo i tentativi di andare a ritroso e di professare visioni del mondo di antico stile quali la teosofia (o meglio: antroposofia). Abbiamo bisogno, noi e più ancora la nuova generazione, di una visione del mondo. Ma se non vogliamo ricadere in stadi evolutivi superati, una nuova visione del mondo deve rinunciare alla superstizione della propria validità obbiettiva, deve saper concedere di esser solo un'immagine che noi dipingiamo per amor della nostra anima, e non un nome magico col quale noi stabiliamo cose obbiettive. La nostra visione del mondo non deve servire per il mondo, ma per noi. Se non creiamo un'immagine del mondo nel suo complesso, non vediamo neppur noi, che pur siamo fedeli riproduzioni appunto di questo mondo. E solo nello specchio della nostra immagine del mondo possiamo vedere completamente noi stessi. Noi appariamo solo nell'immagine che noi creiamo. Solo nel nostro atto creatore noi ci poniamo [p. 230] completamente in luce e diveniamo riconoscibili a noi stessi come un tutto. Noi non poniamo mai al mondo un volto differente dal nostro, e appunto per questo dobbiamo farlo, per trovare noi stessi. Più alto che la scienza o l'arte fini a se stesse sta infatti l'uomo, creatore dei suoi strumenti. Non siamo mai più vicini all'eccelso mistero di tutte le origini che quando conosciamo il nostro io, che ci illudiamo di aver sempre conosciuto. Ma le profondità dell'universo ci sono più note che le profondità dell'io, dove possiamo udire quasi direttamente l'Essere ed il Divenire creatori, ma senza comprenderli. In questo senso la psicologia ci dà nuove possibilità, dimostrando l'esistenza di immagini fantastiche che nascono dall'oscuro fondo della psiche, e quindi ci danno conoscenza dei processi che avvengono nell'incosciente. I contenuti dell'incosciente collettivo sono i risultati delle funzioni psichiche della serie degli antenati, sono dunque, nel loro insieme, un'immagine naturale del mondo, confluita e condensata da un'esperienza di milioni di anni. Queste immagini sono mitiche e quindi simboliche, perché esprimono l'accordo del soggetto sperimentante coll'oggetto sperimentato. Si

capisce che tutta la mitologia e tutte le rivelazioni siano derivate da questa matrice di esperienza, e che quindi debbano derivarne anche in futuro tutte le idee riguardanti il mondo e l'uomo. Sarebbe però un errore credere che le immagini fantastiche dell'incosciente possano venire immediatamente applicate, come se fossero una rivelazione. Esse sono solamente la materia prima, e per acquistare un senso debbono ancora venir tradotte nel linguaggio del loro tempo. Se questa traduzione riesce, il mondo quale noi lo vediamo è nuovamente collegato, mediante il simbolo di una visione del mondo, coll'esperienza primordiale dell'umanità; l'uomo storico e universale che è in noi porge la mano all'uomo individuale che vive attualmente, evento comparabile al congiungimento mitico del primitivo cogli avi totemistici nella cena rituale. La psicologia analitica è in questo senso una reazione contro l'esagerato razionalismo della coscienza, la quale, [p. 231] cercando di generare processi indirizzati, si isola dalla natura e così strappa l'uomo dalla sua naturale storia e lo trapianta in un presente razionalmente limitato, che si estende al breve periodo fra la nascita e la morte. Questa limitazione genera un sentimento di accidentalità e di insensatezza che ci impedisce di vivere la vita con quella ricchezza di significati che essa richiede per essere completamente vissuta. La vita si appiattisce e non rappresenta più compiutamente l'uomo. Perciò una grande parte di vita non vissuta cade in preda all'incosciente. Si vive come si cammina quando si hanno scarpe troppo strette. L'eternità, che è così caratteristica della vita dei primitivi, manca completamente alla nostra vita. Le nostre mura razionali ci isolano dall'eternità della natura. La psicologia analitica cerca di far breccia nelle mura, scavando nell'incosciente per trarne fuori quelle immagini fantastiche che l'intelletto razionale aveva rigettate. Queste immagini sono fuori delle mura, appartengono alla natura in noi, che in apparenza giace profondamente sepolta dietro di noi, e contro la quale noi ci siamo trincerati dietro le mura della ragione. Da ciò nacque quel conflitto colla natura che la psicologia analitica cerca di risolvere non tornando alla natura, con Rousseau, ma persistendo nello stadio razionale felicemente raggiunto e arricchendo la nostra coscienza colla nozione dello spirito naturale. Chi riesce a gettare uno sguardo su queste cose ne riceve una potentissima impressione. Ma non potrà gioire a lungo di questa impressione, perché subito dovrà chiedersi come potrà assimilare il nuovo acquisto. Ciò che è di là dal muro sembra a tutta prima inconciliabile con ciò che è di qua.

Sorge così il problema della traduzione nel linguaggio contemporaneo, o meglio della creazione di un nuovo linguaggio; e in tal modo è posta la questione della visione del mondo, cioè di quella visione che ci deve aiutare a trovare l'accordo col nostro uomo storico, in maniera che i suoi accenti profondi non vengano sopraffatti dalle aspre note della coscienza razionale, o che, inversamente, l'inestimabile luce della mente individuale non affoghi nelle tenebre infinite dell'anima naturale. [p. 232] Giunti a questa questione dobbiamo abbandonare il campo della scienza, perché ora ci occorre la decisione creatrice, per affidare la nostra vita a questa o a quella ipotesi. Comincia qui, in altre parole, il problema etico, senza il quale non è pensabile una visione del mondo.

XII. «Complesso» e mito (Dott. W.M. Kranefeldt, Berlino)

E' un terreno malfido, quello su cui costruiamo le teorie psicologiche. Tutto il nostro sapere è frammentario, ma è frammentario soprattutto quanto sappiamo riguardo all'anima. In nessun altro campo siamo più facilmente vittime dell'illusione di scambiare la parte per il tutto, in nessun altro campo quell'illusione è più insidiosa. Le teorie psicologiche, nate dai bisogni e dal materiale della pratica medica e poste in forma di principi scientifici, ci fanno troppo facilmente dimenticare che l'anima è essenzialmente vita infinita, la quale, sebbene volentieri si compiaccia di affermazioni di contenuto determinato, pure, sotto un altro aspetto, sfugge ad esse completamente. Se questo deve essere, sotto l'aspetto teorico, lo sfondo generale di ogni teoria psicologica, in quanto essa si ricollega a determinati contenuti, il carattere generale e fondamentale della sua applicazione pratica e della sua azione deve consistere sempre nel fatto che il paziente ed anche il medico compiono un lavoro; quanto più seriamente esso è compiuto tanto maggiore sarà la speranza di raggiungere gli intenti pratici della costruzione teorica, si potrebbe dire, di penetrare da ciò che è non vero a ciò che è vero. La questione sarebbe ancora questa, in quale momento la teoria come tale colle sue affermazioni sulla psiche, necessariamente troppo ristrette e limitate, abbia da porsi in disparte, dopo aver cooperato a raggiungere il suo scopo, il vero. Dice giustamente Augusto Vetter: «Come la scienza naturale, per non oltrepassare i suoi limiti, deve assolutamente presupporre la coscienza, e non metterla in discussione accanto ai suoi oggetti esteriori, così la psicologia [p. 234] pratica, che si limita alla vita interiore, ha nella pratica la sua ovvia premessa, che essa non può meglio precisare senza arenarsi, ma che non può neppure mettere in dubbio senza mettere in dubbio se stessa» (1). Se così è, non c'è altra via, per giungere ad una chiara visione delle teorie dell'anima, che di cercare di comprendere l'anima delle teorie, considerando dunque a sua volta la teoria come espressione di un'anima. Il pericolo derivante dal fatto che ogni teoria nella sua applicazione «ha la sua ovvia

premessa nella pratica» è evidentemente questo, che le cercate soluzioni dei problemi della psicoterapia pratica si spostano insensibilmente dal lato della volontà, e quindi, psicologicamente, si risolvono nell'esercizio continuato di determinati orientamenti, che in base a determinate affermazioni, cioè al contenuto speciale della teoria, vengono portati all'anima dall'esterno invece di nascere nell'anima. Quanto più questo avviene, tanto meno i risultati della terapia saranno rigorosamente analitici: l'«analisi» agirà come sistema, similmente a qualunque altra forma di terapia - terapia lavorativa, derivativa, persuasiva, ecc' - cioè l'analisi diverrà uno strumento di cura, la cui applicazione non ha più nulla in comune coll'idea dello sviluppo analitico dell'individuo. Bisogna liberarsi dall'idea che la psicoanalisi sia una specie di metodo brevettato per stirare i complessi psichici, come non solo molti profani pensano, ma molti medici fanno o credono di fare. Nell'analisi psicologica bisogna cercare di rintracciare la via individuale data o voluta dalla natura. Tutti gli altri sono palliativi, qualunque nome portino. Non sono i nomi che contano. Va da sé che anche l'esercizio, l'abitudine, l'accettare un certo sistema ed il prenderlo come medicina possono dare buoni risultati. Anche la volontà e la conseguenziarietà sono possibilità dell'anima, e guai a chi vaneggia di poterne fare a meno. Anche l'atto di volontà quasi carpito mediante il rilassamento sul sofà terapeutico non va a finire in nulla, ma, se pur non rende il mille per uno, rende però quel tanto che vale come atto di volontà. I risultati come tali non saranno mai un criterio per giudicare una teoria. Ogni sistema terapeutico, sia che lavori coll'acqua calda, o coll'acqua fredda, o colla suggestione o colla desuggestione, può vantare dei successi, se non altro riguardo al numero dei pazienti curati e «dimessi guariti». Anche per giudicare il risultato terapeutico la via non è diversa che per giudicare il sistema terapeutico: bisogna cioè immedesimarsi nell'anima della persona analizzata e nell'anima della teoria terapeutica. La psicoanalisi di Freud è anzitutto la psicologia del romanzo familiare: la relazione dei figli coi genitori, del fanciullo colla madre, della fanciulla col padre, concepita come «desiderio di incesto», lega le forze psichiche dell'adolescente ed impedisce il suo sviluppo a uomo e padre, per il quale lo «stato» o, come dice Freud, il «super-io», deve divenire la legge interiore, e la propagazione sessuale il frutto della sua voluttà. Questa relazione col

«super-io» da un lato, e la maturazione sessuale dall'altro costituiscono il cosidetto «adattamento alla realtà» - dove questo adattamento o questa realtà mancano c'è una nevrosi, - che Freud interpreta come relazione sessuale coi genitori veri e propri o colle loro «immagini» (Jung), da cui la «libido» (sessuale) non è ancora stata staccata. Spinta dai processi sessuali somatici, la psiche umana resta per così dire impigliata fra il principio della voluttà, la madre - e quello della realtà - la legge, il padre. Freud motiva la posizione dell'uomo entro questo contrasto in primo luogo coll'effettiva relazione col proprio padre e colla propria madre, in secondo luogo coll'azione dell'imago paterna o materna, intendendo per imago l'immagine di una persona, di una cosa o di una situazione, insomma di un evento vissuto, così come si forma per involontaria attività della fantasia. La parola imago in latino ha spesso il senso di apparenza, ombra, fantasma, in contrapposto colla realtà. Ma in terzo luogo «padre e madre» rappresentano una coppia di concetti opposti di natura simbolica, che esprime il dualismo universale dell'esperienza psichica. Questo contenuto simbolico può essere pienamente ravvisato soltanto se i termini «padre» e «madre», scelti per designare la coppia di contrari, vengono spogliati del loro rivestimento personale e affettivo che, per reminiscenze personali, può esser tanto strettamente aderente all'idea di padre e di madre, da indurre qualcuno a rifiutarsi di riconoscere e di vivere, almeno in questa espressione, quel grande dualismo. Chi si rifiuta di riconoscerlo rimane impigliato nella psicologia del romanzo familiare, e vi rimane impigliata anche la teoria psicologica, se nel dualismo padre-madre sospetta un «complesso», e se, per infelici esperienze infantili, diffida del suo contenuto simbolico. Ma se si astrae dagli affetti rimasti impigliati in qualche reminiscenza personale, la coppia padre-madre diventa, come d'altronde le coppie «libidorealtà» e «super-io-subcosciente», una fra le tante simili formule colle quali in svariatissime maniere si è tentato di afferrare il dualismo fondamentale di tutta la vita psichica. Si trovano speculazioni dualistiche di questo genere fin nei tempi più remoti: non ho che da ricordare l'antico simbolo Yang e Yin dei Cinesi che veniva raffigurato da un cerchio diviso da una linea ad S in due parti uguali, l'una bianca con centro nero, l'altra nera con centro bianco. Le forme e le formule dell'espressione mutano, ma il significato, che tutto abbraccia e perciò è inesprimibile, resta lo stesso. Il dualismo non è caratteristico della psicoanalisi, ma è caratteristica la scelta dell'espressione sotto la quale il

dualismo qui acquista forma. Invece di parlare di padre e madre, si potrebbe ugualmente parlare di mascolinità e femminilità, di sole e di luna, di giorno e di notte, di vita e di morte, di logos e di eros, di amore e di odio, di necessità e libertà, o di bene e di male, come facevano i Greci, oppure, come fa Klages, di spirito e vita, senza cambiar molto il significato, purché si intendano queste doppie forme non materialmente, ma simbolicamente. Anzi, per ciò che riguarda le concezioni simboliche, [p. 237] dobbiamo andare ancora un passo avanti. La concezione simbolica non è affatto legata a coppie di contrari di tanto esteso significato, e non è neppur legata soltanto a coppie di contrari. I simboli ricorrono sempre alla fantasia e dipende solo dal vigore immaginativo della fantasia se e quanto una certa cosa sia vista simbolicamente. A molti il dualismo simbolico «padre-madre» non dice gran che (forse molto meno di quanto non dica il pensiero della luna all'orientale, che vi medita dandogli significati ineffabili) o soltanto per improvvisa intuizione che, in un momento di grazia, si infiamma per non so quale inapparenza e d'un balzo supera il piccolo tratto di chi faticosamente si avvicina a quel sapere con scolastica meticolosità (2). L'anima infatti non rispetta regole, e non è neppur comprensibile con regole psicologiche. Con ciò non si è detto ancor nulla contro quello sforzo che è compiuto sull'anima per mezzo dell'«analisi». Ma bisogna mettere in guardia contro l'idea alquanto ingenua che chi è «analizzato» sia per questo stesso motivo superiore a chi non lo è. Non è per nulla superiore. Chi pensa così non ha fatto che penetrare nell'anima in maniera indiscreta, dimostrando di ritenere tipici o generali il proprio livello o il proprio cammino, e di conoscere l'anima molto meno che una certa «analisi» concepita in determinata maniera. La scelta del simbolo, dunque, è quella che è caratteristica della psicoanalisi. Non è senza importanza il modo con cui viene espresso il dualismo e l'idea sotto la quale esso si impone. (Questo è d'altronde il principio dell'interpretazione dei sogni di Jung). Chi vede il dualismo nell'immagine dei genitori pone se stesso in veste di bambino, vede il mondo come lo vede il bambino. Il grado e la natura dell'infantilità risultano poi da ciò che si vede dell'immagine del padre e della madre. Orbene, padre e madre non sono, in Freud, simboli di quel grande dualismo, ma «reali». Sono i genitori veri e [p. 238] propri, visti come il bambino li vede, o meglio, come li vede il bambino della psicoanalisi, cioè

forniti di proiezioni tipiche che costituiscono insomma l'edificio teorico della psicoanalisi. Il «padre» e la «madre» della psicoanalisi, come simboli, non possono essere che i simboli di un mondo infantile. La cosa si complica per il fatto che il mondo dell'adulto più tardi viene riferito al mondo infantile, cosicché questo diventa a sua volta il simbolo del mondo dell'adulto. Ciò avviene per la via traversa del mito, che ricopre o interpreta il rapporto infantile con intenti metaforici, mediante un'immagine che non è affatto infantile, cioè mediante gli elementi della tragedia di Edipo. Questa serve a chiarire il (supposto) «vero nocciolo» e «profondo senso» di questo rapporto infantile e forma quindi in pari tempo il ponte che conduce al mondo dell'adulto, simbolizzato definitivamente e pienamente dal simbolo innestato sul rapporto infantile. Il mondo dell'adulto, attraverso il complesso di Edipo, riscivola nella stanza dei bambini. Due questioni sorgono qui: che cosa rende possibile alla psicoanalisi di riferire due mondi l'uno all'altro, ed in quale relazione sta il mondo «edipico» della psicoanalisi con quel grande dualismo che è del tutto libero da immagini di contenuto speciale? Funge da mediatore fra i due mondi il principio esplicativo psicologico di Freud: la teoria sessuale; ed anch'essa determina la concezione del mito di Edipo. La teoria sessuale è notoriamente ancorata alla biologia, cioè essa deve esser sottratta all'osservazione psicologica, essendo essa il «fondamento» su cui tutto riposa. Certo bisognerà sempre diffidare di queste ingerenze dilettantistiche della psicologia in campi non psicologici. Non solo perché anche la psicoanalisi insegna ad aver pronto, di fronte a tutte le spiegazioni, il dubbio psicoanalitico (spiegazioni ce n'è sempre quante si vuole), ma perché non ci può esser nulla che non possa divenire oggetto di considerazioni simboliche. Sotto questo aspetto il fondamento biologico (dato e non concesso che esista) avrebbe solo il significato di qualcosa [p. 239] di solido e psicologicamente irrisolvibile che regge la psicologia, in quanto può destare l'illusione che qui felicemente termini ogni ciarlataneria psicologica. Qualunque cosa al mondo si voglia obbiettivare in questa maniera, sotto l'aspetto psicologico, così facendo si dice soltanto che non se ne può venire a capo colla riflessione, cioè, in una parola, che non la si vuol considerare psicologicamente. Lo si può naturalmente fare, per «buone» ragioni e con migliori intenzioni, ma è sempre un arbitrio non vedere, da qualunque punto del «transitorio», la «similitudine». Proprio a questo punto si dirama la via

che conduce ad una psicologia fondata in modo speciale, che deve la sua «giustezza» ad un artificio, cioè al fatto che una parte del mondo viene ipostatizzata e tutto il resto viene simbolizzato partendo da essa, ottenendone un carattere derivato, come è appunto intenzione della teoria di Freud, nonostante tutte le successive attenuazioni (3). Limitare in qualche punto la similitudine nel transitorio vuol dire non vedere ancora la realtà. «Alles Vergangliche ist nur ein Gleichnis», tutto il transitorio non è che similitudine, e non alcune cose sì ed altre no. Soltanto allora l'universale possibilità di similitudine genera quel gretto sentore di simbolo rispetto a cose che si possono capire molto meglio e più chiaramente in altra maniera, e che richiedono altre «immagini». Accollare tutti i disturbi, di qualunque origine, ad uno stupido «incosciente» col quale non si può parlare decentemente, è una petizione di principio, che si risolve in una specie di empietà psichica, in una sottospecie della gigantesca ingiuria di Schopen-auer contro la volontà di vivere; piccola e pericolosa sottospecie, perché assumendo questo atteggiamento il problema dei contrasti psichici diventa per principio insolubile. Ché, se nell'impostazione di una psicologia non è già presente un'antiteticità universale, non la si può certo trovare partendo di qui. In questo senso lo sviluppo [p. 240] analitico del paziente, proveniente da un mondo edipico più ristretto e sconosciuto, sbocca soltanto in un mondo noto e più vasto, il quale però, per principio, è caratterizzato dallo stesso rapporto col problema dei contrasti. Nel suo intento di fondare una psicologia biologica (o, per parlare in termini psicologici, seguendo la sua tendenza alla metafora biologica), Freud ha tanto poco visto ciò che c'è di essenzialmente simbolico nella psiche, che intende in senso materiale le sue tesi benché queste siano eminentemente e indeterminabilmente simboliche. Così, in lui, l'ipostasi della sessualità non cessa nemmeno nel sogno, anzi, proprio in questo ha il suo preteso migliore appoggio, che conduce alla sua famigerata e «costante» simbolistica onirica. Tutto ciò trae vita non tanto da «fatti» biologici, o da una «chimica sessuale dell'avvenire», come crede Freud, quanto dalla possibilità di simbolismo universale che è implicita in tutte le cose, e particolarmente, come è noto, nelle cose sessuali. Simbolicamente, infatti, anche la sessualità (o meglio l'atto sessuale, cioè l'unione dell'uno e dell'altro) può rappresentare una universale coppia di contrari; la sua forza simbolica è senza limiti, come accenna il noto motivo mitico della coabitazione permanente. Da ciò viene che le interpretazioni di Freud sembrano plausibili, se non ci si costringe ad

un pensiero realmente psicologico, ma ci si appropria della mentalità della sua psicologia biologistica, nella quale le forze simboliche restano latenti. Nell'elastico concetto freudiano della sessualità è implicito quel motivo, rivestito del gergo scientifico dei «fatti osservati». La sessualità, infatti, è intesa da Freud in senso pienamente materiale. E' proprio l'unica cosa che non sia vista affatto come simbolo. Freud va tant'oltre da ritenere che il linguaggio del sogno contenga, diversamente da quello dei miti, delle favole, del folklore ecc', una simbolistica esclusivamente sessuale. L'effetto psicologico di una simile concezione dei contenuti psichici può tuttavia esser solo quello di rigettare la psiche nella cornice familiare, nel quod erat demonstrandum del mondo edipico, precludendo all'individuo le sfere [p. 241] di esperienza soprapersonale. Sembrerebbe che tutto ciò fosse la conseguenza dell'interpretazione sessuale della psiche, e perciò contro questa si è molto protestato; ma bisogna riconoscere che la ragione non è la sessualità ma la forma ipostatica della sessualità. Soltanto perché entro l'universale contrasto psicologico simbolo-oggetto è ipostatizzato un mondo parziale e tutto il resto è ridotto ad un ufficio indiretto, nasce una psicologia che non è teoria dell'anima, ma lo svolgimento teorico di un determinato orientamento. Ciò vuol dire che entro una simile teoria non si esce dai contrasti, perché nella teoria è fissato uno special rapporto di contrasto. In tutti i piani questo rimane per principio il medesimo, finché non cede la sua Carlca specifica ad un ulteriore contrasto, annullandola. Io vorrei equiparare la concezione freudiana della sessualità (come ogni «spiegazione» specifica nel campo della psicologia, compresa la formula adleriana: volontà di potenza-senso di inferiorità) a quella sopravvalutazione dei contenuti speciali che si trova dovunque esistono forme nevrotiche della vita psichica. In questo senso le teorie sulle nevrosi fanno riscontro alla psicologia nevrotica dei contrasti, in cui c'è sempre qualche cosa che colora di sé tutto il resto. E' quel che succede nell'opinione corrente, la quale crede che nella vita tutto sarebbe in ordine se non ci fosse, o ci fosse, questa o quella calamità, e che da questa dipendano i mali del mondo e le miserie della vita, trattisi del danaro, dell'amore, dei bimbi viziati o... dei «genitori». Nella vita sono ancora necessari punti fermi; come tali possono funzionare tanto i conflitti psichici, quanto le teorie psicologiche, che per quelli tengon pronte le loro spiegazioni. Chi è libero da pregiudizi ammette invece che fondamentalmente non

esistono problemi psicologici insolubili, almeno per ciò che riguarda gli orientamenti (e la psicoanalisi, come tutta la psicologia pratica, non tratta che di orientamenti), e che tutte le spiegazioni possono per principio essere tanto false quanto vere. In altri termini ammette che i problemi psicologici siano tutti solubili dal lato psichico, dalla vita dell'anima stessa, che dunque non [p. 242] sarà mai possibile cercarne la soluzione nel corpo e nella sua chimica sessuale o negli eventi infantili, insomma in oggetti materiali, né per fissarveli né per generalizzarli o «spiegarli» partendo di là. Ciò non vuol dire, naturalmente, che l'«oggetto» debba venir eliminato dalla psicologia: anche l'oggetto deve essere considerato nel 45gn#oi 45seautòn, sia nella sua piena materialità, sia in ogni possibilità simbolica. Invece, finché i problemi psicologici sono visti e impostati sotto l'aspetto materiale, restano problemi psicologici parziali, ai quali non può fermarsi una teoria che abbia di mira tutta l'anima ed anche la vita che è sempre il tutto. Per capirli bisogna prima capire questa loro qualità di «parti» di un più vasto nesso. Senza di ciò a nulla servono tutte le teorie psicologiche del mondo. E solo una illimitata attitudine al simbolo crea la condizione interiore che ritrova la via al senso della propria vita, divenuta irriconoscibile e «invivibile» nell'assurdità della nevrosi, non la gruccia di una concretezza dogmatica. Evitando l'ingannevole ipostasi di una parte del mondo, cioè di un distretto psichico, si ottiene anche un atteggiamento spregiudicato rispetto al problema del sogno. Il sogno, in questo senso, non è affatto differente dalla «realtà». Anche questa ha dappertutto due aspetti, è effettiva ed è un possibile simbolo, così come il sogno rappresenta fatti psicologici o «reali» e contiene il lato simbolico di ambedue. Il fatto che dal sogno si attenda preferentemente il lato simbolico, e che anche quando esso si riferisce a realtà materiali l'interpretazione simbolica sia sempre per lo meno assai ovvia, può dipendere dal fatto che la sfera onirica appartiene alla propria psiche eppure viene vissuta come del tutto impersonale, anzi, spesso non irreale. Ipostatizzare la sessualità come contenuto di sogno o nel contenuto del sogno non è quindi né meglio né peggio che ipostatizzarla nella vita reale. Il carattere in parte osceno, in parte noioso dell'interpretazione freudiana dei sogni, di cui lo stesso maestro si lagna, è solo una conseguenza della sua non risolta metafora biologica, che a sua volta deriva dalla fissazione di un determinato atteggiamento psicologico. La si può tenere in onore, perché in medicina [p. 243] essa ha gettato il ponte dal corpo all'anima dell'uomo; ma non la si può scambiare senz'altro coll'essenza dell'anima. Si tratta di un atteggiamento reso assoluto, di un

angolo visuale psicologico che, come qualunque altro punto di vista, deve prima venire soppresso e diventare «immagine» perché si possano trovare più alti significati. La teoria sessuale e l'idea edipica, dandosi la mano e appoggiandosi e «spiegandosi» a vicenda, creano il legame e la reciproca assicurazione fra il mondo infantile e il mondo dell'adulto. Gli effetti, per esempio, che compaiono in questo, pongono il compito di studiare analiticamente quello, la disintossicazione che avviene in quello risolve i problemi di questo, perché la teoria sessuale, retta dalla metafora edipica, getta luce e permette di orientarsi. Se si vuol chiarire il rapporto fra il mondo edipico e il mondo di un dualismo universale non specializzato, bisogna ricorrere soprattutto al concetto della rimozione. La situazione è la seguente: dal fatto che in Freud gli elementi della coppia di contrari tendono ad assumere proporzioni umane, perdendo così il loro contenuto universale e simbolico, nasce una particolare situazione infantile o meglio puberale, da cui si sviluppa l'interminabile discussione del tema sessuale. E' la descrizione psicologica dell'età puberale, in cui il bambino diventa «cosciente», quella che mette in moto in modo determinato la fantasia sul tema sessuale. Così stando le cose, non ci si può sottrarre all'impressione che la teoria sessuale -nonostante tutti i rivestimenti scientifici - sia una spiegazione solo entro i limiti del sistema. Vista dal di fuori essa è un sintomo di quella situazione che è fissata nel sistema. E ne segue anche la rimozione nella forma specificamente sessuale come Freud l'intende. Il concetto di rimozione è quello più prossimo al centro dinamico della psicologia freudiana. Freud ne ha voluto mettere in rilievo l'importanza dicendo, a torto, che prima degli studi psicoanalitici il concetto di rimozione non avrebbe potuto esser sostenuto (4). L'analisi più [p. 244] minuta del concetto di rimozione dovrebbe dunque essere assai utile per caratterizzare la psicoanalisi, ma solo nel caso che anche per la psicoanalisi, come sistema, non valesse la stessa legge di cui la psicoanalisi ha fatto la base del suo lavoro pratico, cioè la legge dell'infrangibile determinatezza di tutte le idee che vengono in mente, dell'universale coesione, unità e compiutezza di ogni psicologia. Siccome tutte le idee che vengono in mente devono convergere in ultima analisi in un unico centro o divergere da questo, così tutti i concetti del sistema elaborato a fondo sono pure intimamente coerenti, anzi, fanno risaltare il punto di vista centrale assai più chiaramente di quanto non

avvenga per le idee esteriormente molto incoerenti e non elaborate che vengono in mente ai pazienti. Partendo da ogni concetto ci si urterà dunque necessariamente alla stessa situazione psicologica, e l'unicità del senso dei risultati non potrà essere considerata come una prova della loro uniformità, ma come la conferma che si è visto giusto. Ogni concetto deve portare, da una parte differente, alla stessa situazione, altrimenti vuol dire che non si è ancora raggiunta la base dalla quale i concetti hanno acquistato vita e si sono potuti conchiudere in sistema. La «rimozione», così considerata, vuol dire: l'affetto (che provoca la rimozione) fa scendere l'impersonalità dei contrasti nella sfera personale e si verificano appunto quelle proiezioni sui genitori nella cui risoluzione consiste il lavoro psicoanalitico come metodo terapeutico. Da questo carattere della coppia dei contrari Freud non si stacca, neppure quando allarga la sua formula a preteso contrasto «universale». Al contrario! Il vasto, vastissimo mondo per lui non è che un inganno, un'illusione, appunto perché il rapporto personale figli-genitori rimane, anche in senso traslato, quello che era prima: l'unica cosa palpabile e afferrabile, che può essere snocciolata dappertutto. Il bambino - il soggetto psicoanalitico - sta dunque per traverso nel mondo, anche se questa posizione storta si lascia rivestire contenutisticamente col materiale che origina bensì dal mondo più vasto, ma mostra lo stesso rapporto che il materiale specifico del mondo più [p. 245] ristretto, o inversamente, perché di qui lo si usa di nuovo come metafora. Il mondo del preteso contrasto universale, nel linguaggio di Freud, dovrebbe essere indicato come «niente altro che» il rapporto infantile «deformato». Infatti, o ciò che è ristretto viene trasposto in ciò che è vasto incoscientemente come nevrosi o coscientemente come teoria psicoanalitica oppure ciò che è vasto viene ripiegato su ciò che è ristretto - psicoanalisi pratica -, col che il concetto (sessuale) di rimozione funziona come mezzo per scivolare dall'uno all'altro mondo. Si è chiamata lotta per il «padre» questa situazione freudiana. In realtà Freud non parla mai della «madre» come puro elemento di contrasto. Dire che Freud è rivolto al padre, a cui è legato dall'amore e dall'aspirazione, e distolto dalla madre di fronte alla quale è fissato in una posizione di difesa, oppure dire il contrario, è la stessa cosa. L'essenziale è che «padre e madre» anche nell'ampliamento metaforico stringono fra di sé il bambino. Fra i poli di questa coscienza e di questa incoscienza resta impigliato senza speranza di salvezza anche il «bambino» ampliato, l'adulto. Infatti, qualunque contenuto simbolico ci si immagini in questo contrasto, il carattere del contrasto non

muta, resta cioè la stessa la situazione psichica che in esso si esprime. Anzi, appunto ampliando in questa guisa i contrasti ad esperienza mondiale resta definitivamente insolubile il problema del contrasto. Chi così fa è infatti per sempre prigioniero della sua immagine, da cui non lo potrà liberare neppure una interminabile catena di costruzioni o di visuali causali (il lavoro pratico psicoanalitico). Non è già la concatenazione causale entro l'immagine quella che conta, ma l'immagine stessa. Ma la situazione in essa raffigurata, come ogni situazione, è altrettanto irrazionale quanto riconducibile a cause. Se però seguiamo esclusivamente le cause, diamo il valore di ragione del mondo all'immagine in cui ci si muove, giriamo in un cerchio, e urtiamo sempre contro quei limiti che, senza saperlo, noi stessi abbiamo posto, finché l'immagine come tale non diventa cosciente. Sarà ben lecito dire che nella caratteristica valorizzazione [p. 246] freudiana del polo femminile o materno del contrasto si sente chiarissimo il particolare atteggiamento o non atteggiamento della donna orientale, che ancor oggi si ritrova come un tipico elemento della psicologia ebraica. Ma qui importa poco sapere quali momenti in Freud hanno cooperato a concretizzare le parti del contrasto. Importa solo sapere che esse si sono concretizzate, e quali ne sono le conseguenze. Effettivamente la scissione psicologica può attuarsi nei contrasti, nel Yang e nel Yin, dappertutto ed in ogni stadio, semplicemente perché essi sono presenti dappertutto e non solo come contenuto speciale da stampigliare sul contrasto. L'uomo, ignorando puramente il carattere antitetico di tutto ciò che lo circonda, può attaccarsi ad ogni possibile contenuto nel senso della rimozione e scongiurare in tal modo la dinamica retrograda della psicologia della rimozione. L'accrescimento dinamico delle cose avviene allora in direzione negativa, precisamente come può avvenire anche in direzione positiva. (E' questo ciò che C'G' Jung intende per progressione e regressione dalla libido, si noti però: la forma nevrotica del processo). Come nel caso Weininger, che nella donna, nella «femmina», fuggiva il lato Yin del mondo, in modo tale che esso divenne il suo demone malvagio e lo spinse al suicidio. Proprio questo esempio può essere considerato in larga misura come «sessuale». Ma allora risorge la questione se l'insegnamento edipico sarebbe stato all'altezza dell'enorme dinamica di questo caso... Il lato Yin del mondo è evidentemente la «madre» del «mondo edipico», cresciuta smisuratamente, nel caso Weininger, fino ad essere l'«orribile madre» del mito, ma vissuta senza la liberatrice visione della poderosa immagine appropriata alla cosa! Sembra infatti che solo così si

possa superare una dinamica che sia all'altezza delle forze di una simile realtà, e non mediante l'impossibile rinserramento nella stanza dei bambini, sia con, sia senza il metaforico corredo edipico. Ma a tale intento occorre o la liberazione della psicologia della rimozione da tutti i contenuti, oppure l'elevazione della madre-complesso del piccolo «Edipo» a storia [p. 247] impersonale del mito vissuto quale risulta spontaneamente da questa situazione. Allora anche la rimozione mostrerà, nella sua doppia struttura, che il suo vero volto è la situazione del nuovo generatore e dell'eterno ieri, destinato a crescere ancora domani e tutti i giorni fino a inghiottire l'uomo che diventa la sua vittima se non riconosce e concilia i propri contrasti. Infatti solo l'unificazione individuale col contrasto individualmente richiesto è la liberazione dalla potenza dei contrasti. L'errore di vedere l'antitesi in qualche cosa di contenuto determinato è duplice: esso impedisce di scorgere non solo la struttura antitetica di questo stesso contenuto, ma anche l'acuta questione psicologica del carattere antitetico che nel caso individuale manca pur essendo un'esigenza vitale. Il freudiano concetto «puberale» della rimozione ha nondimeno un grande campo di applicazione, perché la «pubertà» in senso psicologico - per esempio in forma di nevrosi - può estendersi a tutta la vita. Quand'anche si definisca la nevrosi una pubertà protratta, non si possono tuttavia sottoporre indiscriminatamente alla psicoterapia le manifestazioni tardive simili a quelle della pubertà, per dar loro il colpo di grazia trattandole come nevrosi. C'è infatti anche la «pubertà rinnovata» della vita creativa, con o senza tinta nevrotica. Ma l'incosciente non rimosso accettato più tardi da Freud (di cui egli riassume il contenuto definendolo «das Hochste am Ich», il più elevato costituente dell'io) è un modo di dire il quale significa soltanto che certi contenuti dell'anima sono press'a poco nulli nei riguardi della loro dinamica vitale. Non entrano molto attivamente nel vero e proprio processo vitale ma sono soltanto percepiti, come se fossero all'orizzonte, che, come si sa, non può avvicinarci oltre la massima distanza visiva. Ciò è in pari tempo giusto e errato, tanto quanto l'affermazione, che vi fa riscontro, che ciò che spinge alla decisione abbia sempre carattere sessuale o che la sessualità sia sempre vissuta coll'accento dell'inevitabile decisione. Chi non conosce l'indifferente, per nulla rimosso, il non vivo per abitudine, [p. 248] di questa viva faccenda? Chi non sa, d'altra parte, che è illusorio credere di poter guardare con

dinamica non tesa le cose che avvengono all'orizzonte? «Quando laggiù in Turchia i popoli si battono, si sta alla finestra a bere un bicchiere e a guardare i battelli che navigano lungo il fiume; la sera si torna a casa e si benedice... Freud». Ma la relazione che comunque esiste fra sessualità e rimozione diventa libera da preconcetti se anche qui si dà il giusto valore, oltre che al fatto materiale, all'elemento simbolico. Se la sessualità significa nuova vita, se nella sessualità è vissuta nuova vita quasi in statu nascendi, col carattere di altissima e immediata intensità, allora questa relazione esiste a buon diritto, ed ha, attraverso il suo contenuto simbolico, validità universale. Anche ciò è ancora in favore del concetto freudiano. Dove sorge la vita, dove il nuovo vuol divenire, divampa la dinamica, infiammata dalle coppie di contrari che ricompaiono col e nel nuovo e costringono l'io alla decisione; accogli tu il nuovo, recando la sdoppiata coppa della vita, oppure lasci passare il momento in cui essa si rifonderà in un'unica coppa? Quell'afferrare nell'essere afferrato indica forse la medesima situazione che nella psicoanalisi era stata per un certo tempo trattata ed anche materializzata come «trauma della nascita»; lasciando passare il momento si giunge alla rimozione, perché nel carattere propulsivo di ciò che diviene sonnecchia il problema psicologico, l'intima necessità che si infiamma per le possibilità esteriori oppure vuole e deve creare necessità esteriori. «Rimozione»: ha senso certamente il dire che le forze della rimozione circolano attorno all'orizzonte della nostra psiche, là dove cielo e terra si toccano, dove è il limite dietro il quale sembra di cadere nel vuoto. Ma che questo limite sia tracciato attorno alla sessualità è - quanto spesso? - un pio errore, atto soltanto a confondere le idee. Contro ogni legame ad un contenuto specifico sta l'indeterminabilità concettuale di ogni autentico e grande simbolismo nella sua inesauribile ricchezza di contenuti. Nel Yang e Yin dei Cinesi c'è qualcosa di concettualmente [p. 249] inafferrabile. Anche qui, come dice Richard Wilhelm, sono stati sospettati, e a torto, «secondo vieti modelli, simboli primordiali fallaci e ciò che vi è connesso». Allo spirito dell'occidentale, non addestrato alla meditazione, occorreva qualche contenuto concreto a cui aggrapparsi per far scendere un'antitesi di così mondiale vastità, che vuol dir tutto e perciò dice poco, nella sfera della discussione, che vuol dir meno ma dice di più, perché permette di pensare qualcosa di determinato. Il passero in mano è meglio che la colomba sul tetto, dice il proverbio.

Quanto meno è riconosciuto l'elemento simbolico, tanto più occorre che ogni teoria psicologica si attenga a costruzioni concrete e causali. Questo avviene specialmente nel caso della dottrina di Freud. Il passero in mano qui è la teoria sessuale. E così avviene che Freud per la situazione di partenza e per la base della sua psicologia non trovi altra immagine migliore che l'estratto, già «psicoanalizzato», della tragedia di Edipo. Freud parla del motivo di Edipo addirittura come del «complesso centrale» della psicoanalisi. Non solo la figura di Edipo, ma anche il termine «complesso» è qui caratteristico. C'G' Jung intende per «complessi» soltanto i nessi a tinta affettiva della sfera personale. Che questi si lascino trasporre sempre anche in nessi di natura superpersonale è giusto, ma non è affatto caratteristico dei «complessi». Il complesso di Edipo come lo intende Freud è invece proprio il contrario; ciò che è simbolico viene interpretato nella sfera reale o - per usare una crassa espressione - il significato infinito e molteplice del mito è abbassato al livello del significato finito dello scandalo familiare. In questa guisa ci si preclude l'accesso all'efficace esperienza del simbolo, anzi, armati della chiave passe-partout della teoria sessuale, ci si può senz'altro rinunciare. Ma allora ricompare anche qui la doppia natura di tutto l'essere: ciò che deve aprire, in realtà chiude, ci preclude cioè la visione della folla di immagini in cui la vita psichica si può rispecchiare e si è sempre rispecchiata. Il «bambino» intristisce miserabilmente nell'aria soffocante della famiglia piccolo borghese... Infatti l'Edipo come «complesso centrale» o come fondamento psichico non è altro che la simbolizzazione della situazione puberale della psiche (in senso lato), è la psicologia della costipazione sessuale nell'ambiente casalingo, è una metafora per la psicologia di chi non è ancora adulto. Collocando invece l'Edipo come mito nella serie delle altre «immagini primordiali», lo si libera dall'ufficio puramente metaforico. Allora non è più soltanto una sagoma schematica di complesso che usurpa l'universo psichico, ma è in pari tempo un possibile contenuto di esperienza. Allora si vedrà quanto o quanto poco della cosidetta problematica edipica trovi davvero la via all'Edipo immagine vissuta, quali vie si aprano figuratamente a questa situazione, quali immagini spontaneamente essa davvero risvegli. Non si può dunque negare che la relazione fra figli e genitori -almeno nei primi due decenni - ha una grande importanza psicologica, e che il «complesso di Edipo» è ricchissimo di significati come metafora per il concetto di nevrosi; ma una simile applicazione del concetto non ci deve

impedire di veder chiaramente i problemi dell'anima, che non possono essere equiparati a nevrosi e neppur colti mediante la metafora edipica. Si ha un bel voler simbolizzare la nevrosi come legame edipico coi genitori, o concepirla come «psicologia puberale»; nonostante la forza plastica insita in questa visione freudiana, la psicologia non può esser limitata a «situazioni puberali», se non si vuole anche qui, senza confessarselo, scambiare la parte per il tutto, sia in senso stretto sia in senso figurato. Ciò è possibile solo in teoria, rinunciando a comprendere la vita reale o schiacciandola in uno schema. Ma come realtà vissuta la vita non soffre simili traslati, e ci vuole una certa dose di autorità e di persuasione per indurre a considerarla proprio in quella maniera. E siccome appunto nelle nevrosi l'accento di realtà delle cose vissute non ha alcuna forza persuasiva, questi teoremi, appoggiati dal transfert sul medico analista, restano appiccicati al paziente come ultima «realtà». Ma la sua vita individuata, finché le cose stanno così, si incaglia nell'incosciente. E, nota [p. 251] bene, anche quella del medico! Ciò facilita forse la coesione esteriore di una dottrina, ma il rovescio della medaglia è che quella dottrina può allora esistere solo a spese dell'individuazione psichica di tutti i particolari, nella quale ultima, lontano da teorie e dogmi, sgorga la fonte della vita. Come possibilità ateoretiche dell'esperienza ci sono però molti motivi di dignità uguale a quella dell'immagine mitica del rapporto «incestuoso». Jacob Burckhardt, per esempio, chiama il Faust un'«immagine primordiale, cioè un vero e proprio mito», nel quale il tedesco, come il greco nella leggenda di Edipo, «ha da intuire a modo suo il suo essere e il suo destino». Questa via per concepire il mito è quella seguita da C'G' Jung. La differenza fra Jung e Freud può essere così espressa: Jung non vuole spiegare psicologicamente, ma vedere psicologicamente. Chi vuol vedere non sa in antecedenza che cosa vedrà, chi vuol spiegare sa in antecedenza, anche nell'analisi, come spiegherà. Jung lascia il cielo del mito dove è, non lo usa come similitudine «per introdurre l'assoluto, mediante una similitudine, nel mondo delle cose» (come dice Martin Buber), ma serba il mito come funzione «per succhiare le cose nel mondo dell'assoluto». Così anche per le costellazioni di questo cielo nulla è previamente determinato, e le stelle seguono il loro corso. Chi riesce a scorgerle le vede così come esse si presentano in questo istante dal suo punto di osservazione. Le conclusioni psicologiche che ciò permette di trarre sono che l'individuo in questione a quel tempo stava appunto là, e che egli vedeva il cielo.

Ma, si potrebbe chiedere, è poi necessario tenere aperto tutto il tesoro mitico all'esperienza? Non ci si può accontentare, per semplicità, di uno o due motivi simbolici a guisa di similitudine, tanto più sapendo che le immagini del mito non occorrono, dato che in ogni particolare si può divenir partecipi del tutto? Adler dice, per esempio, che non è affatto necessario condurre gli scolari nelle sfere «mitiche e mistiche» dell'esperienza. Certo che non è necessario. Ma è un fatto che talvolta lo si fa. E lo si deve [p. 252] fare, secondo me, perché il semplice processo di guarigione naturale consistente nel «superare il conflitto» (Jung) - che può avvenire anche da sé, senza cura è per principio lo stesso di quello che si verifica per mezzo delle «immagini primordiali» o dell'«incosciente collettivo» di Jung. Sono soltanto differenze di grado. La guarigione mi pare legata a due fattori: 1) che un tutto sia vissuto 2) che un tutto sia vissuto. Sono quei punti della psicologia personale che corrispondono tipicamente alla situazione dei motivi mitici quelli in cui avviene l'«innesto» del mito, ed a cui il mito si accende come simbolo vivente. Come il «desiderio sessuale» si raffigura nel sogno, così la pienezza del mondo può rispecchiarsi nelle immagini mitiche, e queste a lor volta possono confluire in ultima analisi nel simbolo dei contrari. In questa sfera, partendo dal personale, si accede al tutto, si fa l'esperienza dell'assoluto. Se ciò è avvenuto, allora la sfera mitica funziona nella psicologia dell'individuo come compenso naturale di quella che noi chiamiamo «coscienza», e finché quella resta viva in un'immagine adeguata, l'individuo rappresenta quella duplicità o unificazione del proprio carattere antitetico che è sempre necessaria dove deve esistere un tutto. Incorporandosi col superpersonale ottenuto mediante l'immagine e correlativo al «cosciente» personale, l'individuo è divenuto esso stesso un tutto, capace di vita indipendente. Proprio questo processo, che sembra contenere lo schema per superare ogni crisi psichica, è bloccato dall'applicazione di ogni teoria psichica che abbia un contenuto determinato, comunque la si chiami. Da ciò quel curioso stato d'animo addomesticato alla «norma» e quella specie di «disinfezione» psichica che, se non m'inganno, credo di avere osservato in molti psicoanalizzati. Direi che costoro si muovono in uno spazio troppo ristretto, che calzano scarpe troppo strette; è rimasto attaccato a loro qualcosa dell'aria del gabinetto in cui tutto il dramma della «guarigione» è stato forzato e si è svolto. Da questi stretti rapporti risulta anche quanto sia forzata la «sublimazione». Nel concetto di sublimazione è infatti implicito [p. 253] senza dubbio qualcosa di improprio, come se si trattasse di un forzamento in

una forma più raffinata e sublime. Questa è il contegno «edipico» rispetto ai contrasti, dopo la presa di conoscenza delle proiezioni dei genitori. Anche qui le coppie di contrari non sono ancora bilanciate, evidentemente perché - per usare una profonda parola della saggezza cinese (5) - si è compresso qualche cosa senza dargli prima occasione di espandersi realmente. «Espandersi» qui vuol dire mantenersi aperto per permettere il libero e spontaneo gioco delle leggi della vita psichica. Bisogna avere il coraggio di farlo, se si vede che la vita del cosidetto «incosciente» non ha solo il valore di una minore e confusa sottospecie di ciò che è prodotto dalla «coscienza», che dunque non soltanto sta di fronte a questa in un contrasto di valore, ma porta a sua volta i contrasti in se stessa, sebbene in una forma che per lo più differisce molto dallo schema appercettivo cosciente (6). Ma solo così, mi pare, ha un senso porre la sfera del mito in relazione colla psicologia personale. Il mondo del mito come l'infinità, raffigurata ad immagine del mondo, nel quale non risiedono solamente quegli stati d'animo addomesticati in cui l'analizzato può consumare riconoscente il suo minimo di esistenza psichica, ma dove abitano la fortuna accanto al pericolo, la genialità accanto alla follia, dove però in cambio spira l'aria della libertà individuale, che qui vuol dire: esser legati alla legge interiore. Nella dottrina di Freud il mito di Edipo è, a dire il vero, soltanto una geniale visione del maestro, non un'esperienza vissuta con commozione dal paziente. Ciò che il paziente vive è il suo «complesso» come «fatto» per il quale gli viene offerta a guisa di metafora la tragedia di Edipo in estratto, «ridotta ad uso dei giovanotti». Orbene, [p. 254] Jung non afferma che questo o quel complesso, come fatto, non esista, ma va alla ricerca dell'immagine di questo complesso e segue il vivo movimento di questa immagine. Così, pur partendo da ciò che v'è di più personale, egli si trova subito nel mitologico, se così ci si può esprimere. Il complesso in tal modo non viene «dietro la coscienza», ma «davanti al mito». Un complesso paterno e materno, come dato di fatto psicologico, si può raffigurare «miticamente» in questa o quella forma. Ben di rado il mito di Edipo sarà davvero adatto a questo scopo. La situazione potrebbe, per esempio, venir raffigurata nell'immagine della «madre terribile», che a sua volta costella il motivo della fantasia eroica, oppure seguire innumerevoli altre vie, prevedibili in linea di massima ma non nei loro tratti individuali, che son quelli che più contano. Nel freudismo la sfera di esperienza vissuta dell'«incosciente» non può acquistar vera vita perché non ha il pieno valore di un elemento del rapporto

antitetico cosciente-incosciente, essendo in Freud l'«incosciente» specializzato come «rimosso», ed il «rimosso» specializzato come sessuale. In Jung essa può invece avere in pieno il valore di membro dell'antitesi, perché è a sua volta di struttura antitetica, cosicché anche sui suoi contenuti non occorre affermar nulla e non si può affermar nulla. Essa ha l'indipendenza del «non io» psicologico. In Jung la sfera del mito è un'immagine ateoretica del tutto, aperta all'esperienza della vita. Non la si può acquistare con le dande di una teoria, salvo che la teoria abbracci davvero la totalità della vita. Nella forma di una teoria specializzata ciò è assolutamente impossibile, perché allora questa dovrebbe confluire in un simbolo altrettanto profondo, misterioso e insolubile quanto la vita stessa. Se lo si capisce, si può fare a meno della teoria. Allora si troverà il coraggio di lasciare ad ogni singola vita la possibilità di creare il proprio simbolo, e le si potrà consigliare: Medita, e comprenderai meglio; La vita è fatta di riflessi e di colori.

NOTE: (1) A' Vetter, Auslegungen der Seele, «Ztschr' f' Menschenkunde», anno V, fasc. 3. (2) Tre eccellenti esempi di intuizione improvvisa si trovano in Ernest Barlach, Selbsterzahltes Leben, Paul Cassirer, Berlin 1928. (3) Un riassunto dello sviluppo del pensiero analitico, dalla dottrina francese dell'ipnosi fino a Freud e Jung, si trova nel volumetto di W'M' Kranefeldt, Die psychoanalyse, psychoanaslytische Psychologie, edito da Walter de Gruyter, Berlin 1930, con prefazione di C'G' Jung. (4) Nachmansohn ha dimostrato che lo si trova già in Herbart. (5) «Se si vuol comprimere qualche cosa, bisogna prima lasciare che si distenda a dovere». (6) Il suo carattere antitetico alla «coscienza» è definito assai bene da un'espressione di Rudolf Otto, che chiama l'incoscienza das ganz Andere, il «tutt'altro». Così lo si sottrae in maniera assai semplice all'invadenza della ragione.

XIII. Spirito e vita

Per trattare del nesso fra spirito e vita occorre tener conto di fattori talmente complicati, che rischiamo di restare impigliati nelle reti verbali con cui vorremmo cogliere i grandi problemi. Poiché, come altrimenti potremmo inserire nel moto di un pensiero quei quasi infiniti complessi di fatti che noi definiamo «spirito» o «vita», se non rappresentandoli drammaticamente con concetti verbali, meri strumenti dell'intelletto? Questo dubbio sul concetto verbale può parere gravoso, eppure è sempre particolarmente appropriato quando ci si accinge a parlare di cose fondamentali. Certo le parole «spirito» e «vita» ci sono usuali, sono antichissime conoscenze, figure spostate in qua e in là, da millenni, sulla scacchiera del pensatore. Il problema cominciò nella grigia preistoria, quando qualcuno fece la sconcertante scoperta che l'alito vitale, che nell'ultimo rantolo abbandona il corpo del morente, è qualcosa di più che semplice aria mossa. Perciò non è un caso che parole onomatopeiche come ruach, ruch, roho (in ebraico, in arabo, in swahili) designassero anche lo spirito, non meno chiaramente che 45(6)pnevma in greco e spiritus in latino. Sappiamo noi davvero - pur essendo familiari col concetto verbale -che cosa propriamente è lo spirito? Siamo sicuri che, quando usiamo questa parola, intendiamo parlare tutti della stessa cosa? Non è forse la parola spirito - dubbia ed ambigua, disperatamente ambigua? La stessa voce verbale - spirito - è usata per designare un'idea irrappresentabile, trascendente, di significato universale, o, più modestamente, ciò che in italiano si dice anche «mente», e mind in inglese; oppure per indicare l'arguzia [p. 256] intellettuale, o un fantasma, o un complesso incosciente che causa fenomeni spiritici quali la danza dei tavolini, la scrittura automatica, i battiti misteriosi; e poi, in senso traslato, per l'atteggiamento dominante in un certo gruppo sociale - «lo spirito che colà domina» -; e infine, materialisticamente, per sostanze quali lo spirito di vino, lo spirito di ammoniaca, o le bevande spiritose in genere. Quanto sto dicendo non è uno scherzo di cattivo gusto, ma è un segno, da un lato, della venerabile antichità del linguaggio, e, da un altro lato, della paralizzante pesantezza terrestre del pensiero, tragico

impedimento per tutti coloro che sperano di levarsi da terra e di raggiungere l'altezza delle idee pure arrampicandosi su scale di parole. Ché, quando pronuncio la parola «spirito», non basta che io limiti il senso a cui intendo riferirmi: non impedirà mai del tutto l'ambigua iridescenza della parola. Perciò dobbiamo domandarci, prima di ogni altra cosa: che intendiamo colla parola «spirito», quando la usiamo in connessione col termine «vita»? A nessun patto possiamo tacitamente presupporre che in fondo ognuno sappia esattamente che cosa si intende per «spirito» o per «vita». Io non sono un filosofo, ma semplicemente un empirico, ed in tutte le questioni difficili sono incline a decidere secondo l'esperienza. Dove non c'è una palpabile base empirica preferisco lasciar le questioni senza risposta. Perciò cerco sempre di ridurre le grandezze astratte al loro contenuto empirico, per esser sicuro che anch'io so di che cosa parlo. Ed allora debbo confessare che non so che cos'è lo «spirito», così come non so che cos'è la «vita». Conosco la «vita» solo nella forma del corpo vivente; ma non posso neppure oscuramente intuire che cosa essa sia in sé e per sé, in uno stato astratto, oltre che una mera parola. Così debbo per ora parlare di corpi viventi, invece che di vita, e di fatti psichici, invece che di spirito. Non lo faccio certo per sfuggire, mediante alcune considerazioni sul corpo e sulla psiche, al problema che mi sono posto; spero anzi, servendomi della base [p. 257] dell'esperienza, di aiutar lo spirito a conseguire una reale esistenza, e non già a spese della vita. Il concetto di corpo vivente ci offre, per i nostri scopi, minori difficoltà che il concetto più generale di vita, perché il corpo è una cosa visibile e sperimentabile, ben conciliabile colle nostre capacità rappresentative. Perciò ci intenderemo facilmente, se dirò che il corpo è un sistema di unità materiali adattato agli scopi della vita e intrinsecamente coerente, e come tale un'apparenza, afferrabile dai sensi, dell'essere vivente, o, per esprimermi in maniera più semplice, un opportuno ordinamento della materia che rende possibile l'esistenza dell'essere vivente. Per evitare equivoci vorrei far notare che nella mia definizione di corpo non ho inserito una certa entità, e cioè proprio quella che ho vagamente designato come «essere vivente». Mediante questa distinzione, che per ora non voglio né difendere né criticare, il corpo non deve essere inteso come un morto accumulo di materia, ma come un sistema materiale pronto a vivere ed a render possibile la vita, il quale però, senza il contributo dell'«essere vivente», pur essendo pronto a vivere non potrebbe vivere. Giacché, anche astraendo dai significati attribuibili

all'«essere vivente», manca al corpo qualcosa che è indispensabile alla vita, cioè l'anima. Ce lo dicono la diretta esperienza su noi stessi, l'indiretta esperienza sui nostri simili, le scoperte scientifiche sui vertebrati superiori e, se non altro per la completa mancanza di motivi contrari, sugli animali inferiori e sulle piante. Debbo io ora equiparare l'«essere vivente», di cui testè parlai, alla psiche, che possiamo direttamente palpare, oserei dire, nella coscienza umana, e ristabilire così il noto antichissimo dualismo di anima e corpo? Oppure ci sono ragioni che giustifichino la separazione dell'«essere vivente» dall'anima? In tal modo noi concepiremmo anche l'anima come un sistema opportuno, come un ordinamento di materia non solo pronta a vivere, ma vivente, o, più esattamente ancora, come un ordinamento di processi vitali. Non sono affatto sicuro che quest'idea incontri l'approvazione generale, perché ci si è tanto abituati a riguardar [p. 258] anima e corpo come l'unità vivente, che ben difficilmente si può essere inclini a considerar l'anima come un mero ordinamento dei processi vitali svolgentisi nel corpo. Fin dove la nostra esperienza ci permette di trarre conclusioni riguardanti l'essenza dell'anima, essa ci mostra il processo psichico come un fenomeno dipendente dal sistema nervoso. Si sa con sufficiente sicurezza che la distruzione di certe parti del cervello è causa di corrispondenti perdite psichiche. Il midollo spinale ed il cervello contengono in sostanza i collegamenti delle vie motorie e sensorie, i cosidetti archi riflessi. Spiegherò con un semplice esempio che cosa si intende con ciò. Tocchiamo col dito un oggetto caldo: subito il calore pone in eccitamento le terminazioni dei nervi tattili. L'eccitamento modifica lo stato di tutta la via di conduzione fino al midollo spinale, e di qui fino al cervello. Ma già nel midollo le cellule ganglionari che ricevono lo stimolo tattile trasmettono la modificazione di stato alle cellule ganglionari motorie vicine, le quali a lor volta inviano stimoli ai muscoli del braccio, provocando in tal modo una repentina contrazione della muscolatura ed il ritrarsi della mano. Tutto ciò avviene con tale velocità, che la percezione cosciente del dolore spesso si manifesta quando già la mano è stata ritirata. La reazione avviene dunque automaticamente, e soltanto in seguito diventa cosciente. Ma ciò che è avvenuto nel midollo spinale è apportato all'io percipiente, sotto forma di un'immagine rivestibile di concetti e di nomi. In base all'arco riflesso, costituito dunque da uno stimolo che si muove dall'esterno verso l'interno e da un impulso che procede dall'interno verso

l'esterno, ci si può fare un'idea dei processi che sono il fondamento della psiche. Prendiamo ora un caso meno semplice: noi udiamo un suono poco chiaro, che dapprima non ha altro effetto che quello di indurci a stare in ascolto per capire che cosa significa. In questo caso lo stimolo uditivo suscita nel cervello tutta una serie di rappresentazioni, cioè di immagini collegate collo stimolo uditivo. Sono immagini in parte uditive, in parte visive, in parte tattili. Perciò io uso la parola «immagine» nel senso generico di [p. 259] rappresentazione. Un'entità psichica può essere, naturalmente, un contenuto di coscienza solo quando può essere rappresentata sotto forma di immagine. Perciò chiamo immagini tutti i contenuti di coscienza, perché sono immagini dei processi cerebrali. Alla serie di immagini suscitate dallo stimolo uditivo si aggiunge improvvisamente un'immagine uditiva mnemonica collegata con un'immagine visiva, cioè lo strepito del serpente a sonagli. Immediatamente un segnale d'allarme è trasmesso a tutta la muscolatura corporea. L'arco riflesso è completo, ma in questo caso si distingue dal precedente per il fatto che fra lo stimolo sensorio e l'impulso motorio si è inserito un processo cerebrale, una serie di immagini psichiche. La subitanea tensione del corpo suscita di rimando fenomeni cardiaci e vascolari, che la psiche avverte come spavento. In questa guisa ci si può fare un'idea dei fatti psichici. Essi consistono in immagini di processi semplici cerebrali, e in immagini di queste immagini in serie quasi infinita. Queste immagini hanno la proprietà di essere coscienti. L'essenza della coscienza è un enigma di cui io non conosco la soluzione. Da un punto di vista puramente formale si può tuttavia dire che un fatto psichico è cosciente quando entra in relazione coll'io. Se non c'è questa relazione, è incosciente. Il dimenticare mostra quanto spesso e con quanta facilità i contenuti perdono il loro legame coll'io. Perciò noi paragoniamo volentieri la coscienza alla luce di un proiettore; solo gli oggetti su cui cade il fascio di luce entrano nel campo della percezione. Un oggetto che per caso si trovi al buio non ha per questo cessato di esistere, ma semplicemente non può esser visto. Così i fatti psichici incoscienti esistono, e molto probabilmente non si trovano in condizioni differenti da quella in cui si trovano quando sono visti dall'io. La coscienza, quindi, come relazione coll'io, dovrebbe esser abbastanza comprensibile, ma il punto critico è l'io. Che cosa dobbiamo intendere per io?

Evidentemente, nonostante la sua unità, l'io è una grandezza assai complessa. Esso poggia sulle immagini delle funzioni sensoriali, che [p. 260] trasmettono stimoli dall'interno e dall'esterno, e poggia inoltre su un enorme accumulo di immagini di processi passati. A tutti questi differentissimi elementi occorre un fortissimo vincolo che li tenga insieme, e tale è appunto la coscienza. La coscienza sembra dunque essere la condizione indispensabile dell'io. Ma senza l'io neppur la coscienza è pensabile. Questa apparente contraddizione forse si supera ammettendo che l'io sia anche un'immagine non di un solo processo, ma di moltissimi processi e del loro gioco reciproco, cioè di tutti quei processi e contenuti che compongono la coscienza dell'io. La loro molteplicità forma effettivamente un'unità, perché la relazione colla coscienza, come una forza di gravità, attrae le singole parti verso un centro forse virtuale e le mantiene unite. Perciò non parlo solo dell'io, ma di un complesso dell'io, col fondato presupposto che l'io può essere di mutevole composizione e perciò variabile, e quindi può non essere l'io in senso assoluto. (Non posso qui addentrarmi a parlare delle classiche alterazioni dell'io che si manifestano negli alienati o nel sogno). Questa concezione dell'io come composizione di elementi psichici ci porta logicamente a domandarci: è l'io l'immagine centrale e quindi l'esclusivo rappresentante di tutto l'essere umano? Ha esso attratto a sé ed espresso in sé tutti i contenuti e tutte le funzioni? A questa domanda dobbiamo rispondere in senso negativo. La coscienza dell'io è un complesso che non abbraccia l'intero essere umano: l'io ha dimenticato infinitamente più di quanto sa. Ha udito e visto infinite cose e non è mai divenuto cosciente. Al di là della sua coscienza germogliano pensieri, che possono perfino fissarsi e completarsi senza che egli ne sappia nulla. Dell'incredibilmente importante regolazione dei processi interni del corpo, a cui serve il sistema nervoso simpatico, l'io non ha che una percezione crepuscolare. Ciò che l'io comprende in sé è forse una minima parte di ciò che dovrebbe esser contenuto in una coscienza completa. L'io può dunque essere soltanto un complesso parziale. E' forse quel singolare complesso la cui intrinseca coesione significa coscienza? [p. 261] Ma non è forse ogni coesione di parti psichiche appunto coscienza? Non si vede proprio perché debba esser coscienza solo la coesione di una certa parte delle funzioni sensoriali e di una certa parte del materiale mnemonico, e non la coesione di altre parti della psiche. Il complesso del vedere, dell'udire, ecc' ha una coesione forte e ben

organizzata. Non c'è ragione di ammettere che anch'esso non possa essere coscienza. Come dimostra il caso di Helen Keller, cieca e sorda, il tatto ed il senso corporeo bastano a costituire o a render possibile una coscienza, limitata però a questi sensi. Io mi immagino quindi la coscienza dell'io come una composizione delle diverse «coscienze sensoriali», dove l'indipendenza delle singole coscienze trapassa nell'unità del superiore io. Orbene, poiché la coscienza dell'io non può affatto abbracciare tutte le attività e le manifestazioni psichiche, cioè non contiene in sé tutte le immagini, ed anche la volontà, nonostante tutti gli sforzi, non può penetrare in certe regioni a lei precluse, c'è naturalmente da chiedersi se non esista una coesione di tutte le attività psichiche simile alla coscienza dell'io, una specie di coscienza più alta e più vasta della quale il nostro io fosse un contenuto, così come, per esempio, l'attività visiva è un contenuto della coscienza, e che, come questa, fosse fusa in un nesso superiore colle attività incoscienti. La nostra coscienza dell'io potrebbe essere inclusa in una coscienza più complessa, come un cerchio più piccolo in un cerchio più grande. Come le attività visive, uditive, ecc' generano un'immagine di se stesse che, riferita all'io, le rende coscienti, così anche l'io, come ho detto, può essere inteso quale un'immagine dell'insieme di tutte le attività che esso può abbracciare. Ci sarebbe quasi da attendere che tutte le attività psichiche producano un'immagine e che in ciò consista la loro essenziale natura, altrimenti non potrebbero esser dette psichiche. Perciò non si capisce perché le attività psichiche incoscienti non debbano avere la capacità di produrre immagini tanto quanto le attività rappresentabili dalla nostra coscienza. Ed essendo l'uomo, a quanto pare, [p. 262] un'unità vitale chiusa in sé, sarebbe ovvio concludere che le immagini di tutte le attività psichiche fossero riassunte in un'immagine complessiva di tutto l'uomo, che ne avrebbe coscienza come di un io. Contro questa ipotesi non saprei addurre ragioni contrarie essenziali; ma essa rimarrebbe un'oziosa fantasticheria fin tanto che non ci fosse il bisogno di spiegare, per suo mezzo, qualche cosa. Anche se ci occorresse ammettere una più alta coscienza per spiegare alcuni fatti psichici, tutto si ridurrebbe però ad una pura ipotesi, perché la dimostrazione di una coscienza superiore a quella che ci è nota troppo trascenderebbe la capacità del nostro intelletto. Resterebbe sempre la possibilità che nel buio al di là della nostra coscienza le cose fossero ancora del tutto diverse da come noi, anche colla più ardita fantasia, possiamo immaginare.

Ritornerò più tardi su questa questione. Per ora la lascieremo da parte e ci occuperemo di nuovo della questione dell'anima e del corpo, da cui siamo partiti. Da quanto ho detto dovremmo aver ricavato l'impressione che l'anima sia essenzialmente costituita da immagini. L'anima è, nel senso più lato, una successione di immagini, ma non un allineamento accidentale di immagini, bensì una costruzione estremamente sensata e opportuna, una intuibilità di attività vitali espressa in immagini. E come la sostanza del corpo, pronta a vivere, abbisogna dell'anima per essere vitalmente attiva, così l'anima deve presupporre il corpo vivente, per poter vivere le proprie immagini. Anima e corpo sono una coppia di contrari, e come tale sono l'espressione di un essere la cui natura non è conoscibile né mediante l'apparenza materiale né mediante l'immediata percezione interiore. Si sa che un'antica intuizione fa originare l'uomo dall'unione di un'anima e di un corpo. Ma è ben più esatto dire che un essere vitale inconoscibile, sulla cui natura non si può dire altro se non che noi indichiamo con esso il compendio di ciò che è vita, appare esternamente come corpo materiale, e al nostro sguardo interiore come una sequela di immagini delle [p. 263] attività vitali che avvengono nel corpo. L'uno e l'altro, e ci viene il dubbio che alla fine tutta questa separazione di anima e corpo non sia che un procedimento intellettivo intrapreso allo scopo di acquistar coscienza, una distinzione, indispensabile per la conoscenza, di un medesimo fatto in due visuali, a cui noi ingiustamente abbiamo attribuito un'esistenza indipendente. La scienza non è riuscita ad afferrare l'enigma della vita né nella sostanza organica né nella misteriosa successione di immagini dell'anima, e perciò noi siamo ancor sempre in cerca dell'«essere vivente», di cui dobbiamo postulare l'esistenza al di là della sperimentabilità. Chi conosce gli abissi della fisiologia ne ha le vertigini, e chi sa qualche cosa dell'anima dispera che questo ente speculare possa mai «conoscere», anche solo approssimativamente, qualche cosa. Sotto questo aspetto potrebbe sparire ogni speranza di riuscire a scoprire qualcosa di fondamentale sopra quella cosa vaga di molteplici iridiscenze che si chiama «spirito». Una cosa sola mi sembra chiara, cioè che come l'«essere vivente» è un concetto che compendia la vita del corpo, così il termine «spirito» compendia l'essenza dell'anima, tanto che spesso i termini «spirito» e «anima» vengono usati indifferentemente l'uno per l'altro. Come tali lo «spirito» e l'«essere vivente» sono situati nel medesimo aldilà, cioè nella medesima nebulosa indistinguibilità. E il dubbio che anima e corpo non

siano, tutto sommato, la stessa cosa, vale anche per l'apparente contrasto fra «spirito» ed «essere vivente». Essi sono parimenti la stessa cosa. Sono necessari questi concetti? Non potremmo accontentarci del già abbastanza misterioso contrasto fra anima e corpo? Dal punto di vista delle scienze naturali dovremmo certo fermarci qui. Ma c'è un punto di vista sufficiente alla morale conoscitiva, che non solo permette, ma esige che si vada avanti, e che si superi quell'apparentemente insuperabile confine. E' il punto di vista psicologico. Nelle considerazioni svolte finora mi sono posto sul punto di vista realistico del pensiero scientifico, senza mettere [p. 264] in dubbio la base sulla quale mi appoggio. Ma per potere spiegare brevemente che cosa intendo per punto di vista psicologico, debbo mostrare che sono possibili seri dubbi sull'esclusiva giustificazione del punto di vista realistico. Consideriamo per esempio la materia, che il semplice intelletto considererebbe ciò che c'è di più reale: noi non abbiamo, sulla natura della materia, che oscuri sospetti teorici, immagini create dalla nostra anima. Il moto ondulatorio o emanazione solare che colpisce il mio occhio è tradotto in luce dalla mia percezione. E' la mia anima ricca di immagini, che dà al mondo colore e tono; e quanto all'esperienza, che io ritengo la più reale e razionale sicurezza, anche la sua forma più semplice è ancora un edificio complicatissimo di immagini psichiche: l'esperienza diretta non è altro che un fatto psichico. Tutto è trasmesso, tradotto, filtrato, allegorizzato, deformato o addirittura falsificato dalla psiche. Siamo talmente avvolti da una nube di immagini cangianti e di infinite iridescenze che, servendoci delle parole di un celebre e grande dubitatore, si vorrebbe esclamare: «Nulla è vero, ed anche questo non è vero». Così densa e ingannatrice è questa nebbia attorno a noi, che dovremmo inventare le scienze esatte per poter cogliere almeno un barlume della cosidetta «reale» natura delle cose. Ad un intelletto semplice questo mondo quasi troppo sveglio non apparirà certo nebbioso, ma lasciamo che egli si immerga nell'anima di un selvaggio per osservare colla sua coscienza di uomo civile l'immagine che il primitivo ha del mondo, ed allora egli avrà un'idea del grande crepuscolo in cui anche noi ancor ci troviamo. Tutte le cose che noi sappiamo del mondo e che direttamente percepiamo sono contenuti di coscienza, sgorgati da sorgenti oscure e lontane. Non vorrei contestare la relativa validità né del realistico esse in re, né dell'idealistico esse in intellectu solo, ma vorrei conciliare questi estremi contrari con un esse in anima, cioè appunto col punto di vista psicologico. Noi viviamo

direttamente solo nel mondo delle immagini. Se prendiamo sul serio questo punto di vista giungiamo [p. 265] a singolari conseguenze, perché allora la validità dei fatti psichici non può essere sottoposta né alla critica della conoscenza né alla esperienza scientifica. L'unica questione sarà: esiste o non esiste un dato contenuto di coscienza? Se esso esiste è di per se stesso valido. La scienza può essere invocata solo nel caso che il contenuto pretenda di essere un'asserzione sopra una cosa che è possibile incontrare nell'esperienza esteriore; la critica della conoscenza può essere invocata solo quando un inconoscibile viene posto come conoscibile. Prendiamo un esempio universalmente noto: la scienza non ha mai scoperto un Dio, la critica della conoscenza dimostra l'impossibilità della conoscenza di Dio, ma l'anima afferma l'esperienza di Dio. Dio è un fatto psichico di diretta sperimentabilità. Se così non fosse, di Dio non si sarebbe mai parlato. Il fatto è in se stesso valevole senza che gli occorrano dimostrazioni non psicologiche, ed è inaccessibile ad ogni forma di critica non psicologica. Può esser perfino l'esperienza più diretta e più reale, che non può esser né derisa né eliminata con una dimostrazione. Soltanto persone di poco sviluppato senso dei fatti o di superstiziosa protervia possono rifiutarsi di riconoscere questa verità. Finché l'esperienza di Dio non pretende di aver validità generale o non pretende l'esistenza assoluta di Dio, ogni critica è impossibile, perché un fatto irrazionale, come per esempio il fatto che esistono elefanti, non può essere criticato. Ad ogni modo l'esperienza di Dio appartiene al novero delle esperienze valide in maniera relativamente generale, tanto che ognuno sa press'a poco che cosa si intende coll'espressione «esperienza di Dio». Come fatto di evenienza relativamente frequente l'esperienza di Dio deve essere riconosciuta da una psicologia scientifica. E neppure dobbiamo passar sopra alle superstizioni, contro le quali tanto si è gridato. Se qualcuno crede di vedere degli spiriti o di esser stregato, e ciò è per lui più che un vano discorso, si tratta ancora di un fatto tanto generale, che ognuno sa che cosa si intende per spirito o per stregoneria. Possiamo quindi esser sicuri che anche in questo caso abbiamo da fare con un determinato complesso di fatti psichici, [p. 266] che in questo senso è altrettanto «reale» quanto la luce che io vedo. E' vero che io non so come, nell'esperienza esteriore, potrei dimostrare lo spirito di un morto, e che neppure sono in grado di rappresentarmi i mezzi logici coi quali convincentemente provare la sopravvivenza dopo la morte, ma ciò nondimeno devo tener conto del fatto che l'anima in tutti i tempi ed in

tutti i luoghi afferma l'esperienza degli spiriti, ed anche del fatto che molti uomini negano assolutamente questa esperienza. Dopo questa discussione generale vorrei ora tornare al concetto di spirito, che colla nostra precedente visuale realistica non abbiamo mai potuto afferrare. Lo spirito è (come Dio) un oggetto di esperienza psichica che fuori non può esser dimostrato in nessun luogo, e non può essere nemmeno razionalmente conosciuto, se diamo alla parola «spirito» il suo migliore significato. Se ci siamo liberati dal pregiudizio che un concetto debba essere ricondotto o a oggetti dell'esperienza esteriore o a categorie aprioristiche dell'intelletto, possiamo volgere la nostra attenzione e la nostra curiosità a quell'entità singolarissima ed ancora sconosciuta che è indicata colla parola «spirito». In tal caso è sempre utile gettare uno sguardo sulla probabile etimologia del nome, perché spessissimo l'etimologia di una parola getta luci sorprendenti sulla natura dell'oggetto psichico su cui essa è fondata. La parola tedesca Geist (spirito) ha designato in tutti i tempi, cioè già nell'alto tedesco e poi nella forma anglosassone gàst, un essere sopraterreno in contrasto col corpo. Secondo Kluge il significato fondamentale della parola non è del tutto sicuro, però sembra esistano relazioni coll'antico nordico geisa: andare in furia, col gotico usgaisyan: metter fuori di sé, collo svizzero-tedesco ufgaista: andar fuori di sé, e coll'inglese aghast: eccitato, irato. Questo nesso ha l'appoggio di altre figure verbali. «E' in preda al furore» vuol dire: qualche cosa cade su di lui, sta su di lui, lo cavalca, egli è cavalcato dal diavolo, è posseduto, ecc'. Nello stadio prepsicologico, ed ancor oggi nel linguaggio poetico, che deve la sua efficacia alla sua ancor viva primitività, gli affetti vengono volentieri personificati [p. 267] come demoni. Essere innamorato si dice: la freccia di Amore lo ha colpito, Eris ha gettato fra i maschi il pomo della discordia, ecc'. Chi «va fuor di sé dalla rabbia» non è evidentemente più identico con se stesso, ma è posseduto da un demone, da uno spirito. L'atmosfera originaria da cui un tempo è uscita la parola Geist, spirito, continua a vivere in noi, ma in uno stadio psichico al di sotto del livello della coscienza. Però, come mostra lo spiritismo moderno, basta molto poco per riportare alla superficie quel frammento di mentalità primitiva. Se fosse vera la derivazione etimologica (che di per sé è molto probabile) lo spirito sarebbe, in questo senso, un'immagine dell'affetto personificato. Per esempio, quando qualcuno si lascia andare a imprudenti rivelazioni, si dice che gli è scappata la lingua, il che evidentemente vuol dire che il suo discorso è

divenuto un essere indipendente ed è scappato. Psicologicamente diremmo: ogni affetto ha tendenza a divenire un complesso autonomo, a staccarsi dalla gerarchia della coscienza e possibilmente a trascinar l'io con sé. Non c'è quindi da meravigliarsi se l'intelletto dei primitivi vi vede l'attività di un essere straniero e invisibile, di uno spirito. Lo spirito in questo caso è l'immagine dell'affetto indipendente, e perciò gli antichi, opportunamente, chiamavano gli spiriti imagines. Passiamo ora ad altre accezioni del termine «spirito». La frase «egli agisce nello spirito del defunto padre» è ancora ambigua, perché la parola «spirito» in questo caso allude sia allo spirito di un morto che ad una mentalità. La frase «è mutato lo spirito» indica un cambiamento di mentalità. L'idea fondamentale è di nuovo quella della presa di possesso da parte di uno spirito, che per esempio è divenuto in una casa lo spiritus rector. Ma si può anche dire, preoccupati: «E' uno spirito malvagio quello che regna in quella famiglia». Qui non si tratta più di personificare affetti, ma di illustrare una mentalità, o, per esprimerci in termini psicologici, un atteggiamento. Un cattivo atteggiamento, espresso come spirito maligno, ha dunque, secondo una [p. 268] concezione ingenua, la stessa funzione psicologica che ha un affetto personificato. Per molti ciò dovrebbe essere sorprendente, perché per «atteggiamento» si intende di solito un «prender posizione rispetto a qualche cosa», dunque un'attività dell'io e un'intenzionalità. L'atteggiamento o mentalità non è però sempre il prodotto di una volontà, ma è forse più spesso dovuto al contagio spirituale, cioè all'esempio ed all'influenza dell'ambiente. E' noto che ci sono persone il cui cattivo atteggiamento avvelena l'atmosfera: il loro cattivo esempio è contagioso, essi rendono nervosi gli altri per la loro insofferenza. Nelle scuole un solo ragazzaccio può rovinare tutta una classe ed inversamente la letizia e l'innocenza di un bambino possono rischiarare e rasserenare la fosca atmosfera di una famiglia, il che naturalmente è possibile solo se l'atteggiamento di ognuno è migliorato dal buon esempio. Così un atteggiamento si può imporre anche contro la volontà cosciente: le cattive compagnie rovinano i buoni costumi. Ciò si vede assai chiaramente nella suggestione delle folle. L'atteggiamento o mentalità si può imporre alla coscienza dal di fuori o dal di dentro come un affetto e quindi può anche venire espresso dalle medesime metafore verbali. L'atteggiamento sembra a prima vista esser alquanto più complicato che un affetto. Ma osservando meglio si vede che ciò

non è vero, perché quasi tutti gli atteggiamenti sono fondati, coscientemente o incoscientemente, su di una massima che ha spesso carattere proverbiale. Ci sono atteggiamenti in cui si sente subito la massima che li sostiene, e si capisce perfino dove fu letta. Spesso l'atteggiamento può essere definito da una sola parola, di solito da un'ideale. Non di rado la quintessenza di un atteggiamento non è né una massima né un ideale ma una personalità onorata ed imitata. L'educazione sfrutta questi fatti psicologici e cerca di suggerire adatti atteggiamenti mediante massime ed ideali, molti dei quali restano realmente attivi per tutta la vita come idee superiori durevoli. Questi atteggiamenti prendono possesso di un uomo, come gli spiriti. Nello stadio primitivo è spesso la visione del maestro, del pastore, [p. 269] del poimen o poimandres quella che personifica l'idea superiore e la concreta forma di immagine. Qui ci avviciniamo ad un concetto di «spirito» che supera di gran lunga la forma verbale animistica. La sentenza o massima è di regola il risultato di molte esperienze e di molti sforzi di singoli, è una somma di visuali e di conclusioni condensata in poche parole espressive. Se per esempio si sottopone ad una minuta analisi il motto evangelico «gli ultimi saranno i primi», cercando di ricostruire tutti quegli eventi che hanno condotto a questa quintessenza di saggezza di vita, non si può non ammirare la pienezza e la maturità di esperienza di vita che quel motto contiene. E' un motto che si impone, che afferra potentemente la mente recettiva e forse ne prende durevole possesso. Quelle sentenze e quegli ideali che contengono in sé la più vasta esperienza di vita e la più profonda riflessione rivelano ciò che noi chiamiamo «spirito» nella migliore accezione del termine. Se un'idea superiore di questa specie acquista illimitato dominio, noi diciamo che la vita vissuta sotto la sua guida è una vita spirituale. Quanto più assoluta e costrittiva è l'influenza di un'idea superiore, tanto più essa ha la natura di un complesso autonomo, che si presenta alla coscienza dell'io come un fatto indiscutibile. Ma non si può non vedere che queste sentenze o ideali - non esclusi i migliori - non sono parole magiche di effetto assoluto, ma possono giungere a dominare solo in certe condizioni, quando cioè dall'interno, dal soggetto, vien loro incontro un affetto pronto ad afferrare la forma che gli è offerta. Solo mediante la reazione dell'animo l'idea superiore può divenire un complesso autonomo: senza di quella l'idea rimarrebbe un concetto subordinato al beneplacito della coscienza, un aggeggio intellettuale senza forza

determinatrice. L'idea come semplice concetto intellettuale non ha influenza sulla vita, perciò in questa condizione non è molto di più che una mera parola. Ma inversamente, se l'idea acquista significato di complesso autonomo, opera attraverso l'animo sulla vita della personalità. Non bisogna ritenere che simili atteggiamenti autonomi [p. 270] si producano per mezzo della nostra volontà cosciente e della nostra scelta cosciente. Ho detto prima che per produrre un atteggiamento autonomo occorre la cooperazione dell'animo, e avrei potuto anche dire che occorre una disposizione incosciente, posta al di là della volontà cosciente. Non si può, direi, voler essere spirituali. Tutti i principi che noi scegliamo ed a cui tendiamo sono sempre conformi al nostro beneplacito e sottoposti alla nostra coscienza, e non possono mai sottrarsi all'impero della volontà cosciente. Spetta al destino stabilire quale principio reggerà il nostro atteggiamento. Mi si domanderà certamente se non esistono uomini per i quali la libera volontà sia il supremo principio, cosicché ogni atteggiamento sia da loro scelto intenzionalmente. Io non credo che qualcuno raggiunga o abbia mai raggiunto questa condizione quasi divina, ma so che molti tendono verso questo ideale, perché sono posseduti dall'idea dell'assoluta libertà. Tutti gli uomini sono, in qualche senso, dipendenti, tutti sono, in qualche maniera, suscettibili di subire influenze estranee, perché non sono dèi. La nostra coscienza non esprime la totalità umana, ma è e rimane una parte. Nell'introduzione a questo saggio ho accennato alla possibilità che la nostra coscienza dell'io non sia necessariamente la sola consapevolezza nel nostro sistema, ma sia forse subordinata ad una consapevolezza più vasta, così come complessi più semplici sono subordinati al complesso dell'io. Io non so proprio come potremmo mai dimostrare che esista in noi una consapevolezza più alta e più vasta che la coscienza dell'io; ma, se esiste, essa deve disturbare sensibilmente la coscienza dell'io. Mi spiegherò con un semplice paragone: ammettiamo che il nostro sistema ottico abbia una coscienza propria e sia quindi una specie di personalità, che chiameremo «personalità oculare». La personalità oculare ha scoperto un bel panorama, nella cui ammirazione essa si sprofonda. Ad un tratto il sistema acustico ode il segnale di un'automobile. Di questa percezione il sistema ottico non ha coscienza. Allora l'io trasmette ai muscoli l'ordine, che rimane sempre incosciente [p. 271] al sistema ottico, di spostare il corpo in un altro luogo dello spazio. Il movimento toglie improvvisamente alla coscienza oculare l'oggetto che essa stava osservando. Se gli occhi

potessero pensare, concluderebbero che il mondo della luce è esposto a tutti i possibili oscuri fattori di perturbazione. Qualcosa del genere dovrebbe avvenire alla nostra coscienza, se esistesse una coscienza più vasta, una coscienza che, come ho detto prima, fosse un'immagine di tutto l'uomo. Esistono effettivamente simili oscure perturbazioni, che nessuna volontà può dominare e nessuna intenzione può sopprimere? Ed esiste in qualche parte di noi un intoccabile che noi possiamo sospettare come la sorgente di tali perturbazioni? Alla prima domanda possiamo senz'altro rispondere affermativamente. Anche senza parlare dei nevrotici, già nei normali possiamo osservare senza difficoltà chiarissime perturbazioni ed ingerenze che originano in un'altra sfera. Il nostro umore può improvvisamente cambiare, tutto d'un tratto siam presi dal mal di testa, il nome di un conoscente che vorremmo presentare è come soffiato via, dovremmo fare una certa cosa ma in maniera inspiegabile ne abbiamo perduto la voglia, dimentichiamo ciò che non vorremmo a nessun patto dimenticare, ci piacerebbe dormire ed il sonno è scomparso come per magia, dormiamo e sogni angosciosi e fantastici disturbano il sonno, abbiamo gli occhiali sul naso e li andiamo cercando, l'ombrello nuovo è rimasto da qualche parte e non sappiamo dove. Se poi studiamo la psicologia dei nevrotici, ci troviamo frammezzo alle perturbazioni più paradossali. Compaiono imponenti sintomi morbosi eppure nessun organo è malato: subitanee elevazioni della temperatura a 40° senza il minimo disturbo somatico, soffocanti stati d'angoscia assolutamente senza causa, idee coatte la cui insensatezza è compresa dallo stesso paziente, esantemi cutanei che vanno e vengono senza preoccuparsi né di cause né di terapia. Per ogni caso, naturalmente, si trova una adatta o meglio non adatta spiegazione, che però non spiega più il caso successivo. Ma sull'esistenza dei disturbi non ci possono essere incertezze. Quanto alla seconda domanda, che riguarda l'origine dei disturbi, bisogna far notare che la psicologia medica ha stabilito il concetto di incosciente ed ha fornito la prova che questi disturbi sono dovuti a processi incoscienti. E' dunque come se la nostra personalità oculare avesse scoperto che oltre ai fattori visibili possono esistere anche fattori determinanti invisibili. Se non c'inganniamo, sembra che i processi incoscienti siano tutt'altro che inintelligenti. Manca loro, in particolare, il carattere automatico e meccanico. Non sono affatto inferiori, quanto a finezza, ai processi coscienti, anzi, non di rado superano considerevolmente la intelligenza cosciente.

Il nostro ipotetico personaggio ottico può dubitare che le improvvise perturbazioni del suo mondo luminoso provengano da una coscienza. E così anche noi possiamo dubitare dell'esistenza di una coscienza più vasta, senza averne maggiori ragioni che il personaggio ottico. Ma siccome non riusciremo a trasferirci nella condizione e quindi nella comprensione di una più vasta coscienza, è meglio che dal nostro punto di vista, chiamiamo «incosciente» la sfera oscura, senza voler affermare con ciò che questa debba essere incosciente anche a se stessa. Sono così ritornato alla questione, posta in principio, di una più alta coscienza, perché il problema, che qui ci occupa, della facoltà, che lo spirito possiede, di determinare la vita, è collegato con processi al di là della coscienza dell'io. Ho rilevato prima, di passaggio, che un'idea, senza un affetto, non può mai diventare un'entità determinatrice di vita. Ho anche detto che il sorgere di un certo spirito dipende dalla sorte, intendendo dire con ciò che la nostra coscienza non è in condizione di generare volontariamente un complesso autonomo. Un complesso non è mai autonomo, se non urta contro di noi e se non dimostra con evidenza la sua superiorità sulla volontà cosciente. Un complesso autonomo è uno di quei fattori perturbanti che originano dalla sfera oscura. Ho detto poc'anzi che all'idea deve andare incontro una reazione dell'animo; e intendevo riferirmi con ciò ad una disposizione inconscia, che per la sua natura affettiva raggiunge profondità [p. 273] non più accessibili alla nostra coscienza. Così il nostro raziocinio cosciente non può mai distruggere le radici dei sintomi nervosi; per far ciò occorre un processo emotivo che possa influire anche sul sistema nervoso simpatico. Potremmo anche dire che, se la coscienza più vasta lo ritiene opportuno, alla coscienza dell'io vien presentata un'idea obbligatoria, come un comando assoluto. Chi è consapevole del proprio principio direttore sa con quale indiscutibile autorità esso dispone della sua vita. Ma di regola la coscienza è troppo occupata a raggiungere gli scopi che le stanno innanzi, cosicché non si rende conto della natura dello spirito che determina la sua vita. Sotto l'aspetto psicologico il fenomeno dello spirito, come ogni complesso autonomo, appare come una intenzione dell'incosciente, superiore o almeno collaterale alla coscienza dell'io. Se vogliamo render giustizia a ciò che chiamiamo spirito, dobbiamo parlare, invece che di incosciente, di coscienza superiore; perché il concetto di spirito porta con sé che noi vi colleghiamo l'idea di una superiorità sulla coscienza dell'io. La superiorità

dello spirito non è una invenzione cosciente dei poeti, ma è una sua qualità essenziale, come risulta dai documenti di tutti i tempi, dalla Sacra Scrittura fino al Zarathustra di Nietzsche. Lo spirito, psicologicamente, si presenta come un essere personale, di chiarezza talora visionaria. Nel dogma cristiano è addirittura la terza persona della Trinità. Questi fatti dimostrano che lo spirito non è soltanto un'idea o una massima formulabile, ma dispiega, nelle sue più forti e più dirette manifestazioni, una caratteristica vita indipendente, che è sentita come quella di un essere indipendente da noi. Finché uno spirito può essere denominato o circoscritto mediante un principio afferrabile o un'idea esprimibile, esso non viene avvertito come un essere indipendente. Ma se la sua idea o il suo principio diventano imperscrutabili, se le sue origini ed i suoi scopi si fanno oscuri oppure si impongono coattivamente, allora necessariamente lo si avverte come un essere autonomo, come una specie di più alta coscienza, e la sua natura imperscrutabile e superiore non è più espressa coi concetti [p. 274] dell'intelletto umano. La nostra capacità espressiva cerca altri mezzi e crea il simbolo. Per simbolo io non intendo affatto un'allegoria o un semplice segno, ma piuttosto un'immagine, atta a designare nel modo migliore possibile la natura, oscuramente intuita, dello spirito. Un simbolo abbraccia e non spiega, ma accenna, al di là di se stesso, ad un significato ancora trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito, che le parole del nostro attuale linguaggio non potrebbero adeguatamente esprimere. Uno spirito che si lascia tradurre in un concetto è un complesso psichico compreso entro i limiti della coscienza del nostro io. Non produrrà e non farà nulla di più di quanto noi vi abbiamo riposto. Ma uno spirito che esige un simbolo per essere espresso è un complesso psichico che contiene germi di possibilità ancora incalcolabili. L'esempio migliore e più prossimo a noi è l'efficacia, storicamente stabilita e ben individuabile, dei simboli cristiani. Se osserviamo, liberi da pregiudizi, l'azione del primitivo spirito cristiano sulle menti di modesti e mediocri uomini del Ii secolo, ne rimaniamo stupiti. Ma questo spirito era creatore come forse nessun altro fu mai. Non fa meraviglia, quindi, che esso sia stato avvertito come uno spirito di divina superiorità. E' appunto questa superiorità chiaramente sentita quella che conferisce allo spirito carattere di rivelazione ed assoluta autorità - qualità pericolosa, perché ciò che noi forse possiamo chiamare coscienza superiore non è sempre «superiore» nel senso dei nostri valori coscienti, ma è ben spesso in aspro contrasto coi nostri ideali riconosciuti. Sarebbe meglio chiamare «più vasta»

questa coscienza ipotetica, per non suscitare il pregiudizio che essa sia sempre necessariamente superiore anche sotto l'aspetto intellettuale o morale. Gli spiriti sono molti, luminosi e tenebrosi. Perciò non si può non vedere che anche lo spirito non è un'entità assoluta, ma una entità relativa, che ha da essere completata e perfezionata per mezzo della vita. Abbiamo infatti troppi esempi di casi dove uno spirito prende talmente possesso dell'uomo, che non vive più l'uomo, ma solo lo spirito, e non nel senso di una vita per [p. 275] l'uomo più ricca e più completa, ma in maniera contraria alla vita. Non voglio dire con ciò che la morte dei martiri cristiani sia stata una distruzione insensata e senza scopo - anzi, una simile morte può anche significare una vita più completa di qualunque altra - ma intendo riferirmi allo spirito di certe sette che negano del tutto la vita. Che importa più lo spirito, quando ha distrutto l'uomo? La rigida concezione montanistica rispondeva di certo alle altissime esigenze morali di quel tempo, ma, per la vita, era distruttiva. Credo quindi che anche uno spirito adeguato ai nostri più alti ideali trovi i suoi limiti nella vita. Certo, lo spirito è indispensabile alla vita, perché una vita soltanto egoistica è, come ben sappiamo, insufficiente ed insoddisfacente. Solo una vita vissuta in un certo spirito è degna di essere vissuta. E' curioso il fatto che una vita vissuta solo per l'io ha effetto deprimente non solo sull'individuo in questione, ma su chi lo attornia. La pienezza della vita esige di più che un semplice io; le occorre uno spirito, cioè un complesso indipendente e superiore, che solo, evidentemente, è in grado di dar forma vitale a tutte quelle possibilità psichiche che la coscienza dell'io non può raggiungere. Ma come c'è una passione che aspira ad una vita cieca e senza limiti, così c'è anche una passione che allo spirito, appunto per la superiorità creativa di questo, sacrificherebbe tutta la vita. Questa passione fa dello spirito un tumore maligno, che insensatamente distrugge la vita umana. La vita è un criterio della verità dello spirito. Uno spirito che trascini l'uomo fuori delle sue possibilità vitali e cerchi solo l'adempimento di se stesso, è uno spirito erroneo, non senza colpa dell'uomo, che ha in suo potere di concedersi o no. Vita e spirito sono due potenze o due necessità, fra cui l'uomo è posto. Lo spirito dà alla vita umana un senso e la possibilità di esplicarsi. Ma la vita è indispensabile allo spirito, perché la sua verità è nulla, se essa non può vivere.(1926).

XIV. Il problema psichico dell'uomo moderno

Il problema psichico dell'uomo moderno è uno di quegli argomenti che mal si prestano ad essere studiati a fondo, perché troppo intimamente legati al presente in cui viviamo. L'uomo moderno è il nuovo tipo umano che ora compare sulla scena del mondo: un problema moderno è un problema che sorge nell'epoca attuale, ma la cui soluzione è affidata al futuro. Perciò il problema psichico dell'uomo moderno, nel migliore dei casi, sarebbe probabilmente del tutto diverso, se avessimo la minima idea delle risposte che il futuro gli riserva. Inoltre tale argomento ha, per ora, un carattere assai generico, per non dir vago, e per la sua universalità supera di molto la capacità di comprensione di ogni singolo individuo, tanto da indurci ad avvicinarci ad esso con profonda modestia ed umiltà. E' necessario, a parer mio, l'assoluto riconoscimento di queste limitazioni, poiché sono proprio tali problemi che c'inducono in genere ad usare parole altisonanti e vuote; e noi stessi, in effetti, siamo costretti a dire cose che potranno apparire esagerate ed audaci, e che potrebbero con facilità abbagliarci. Si sono già dati troppi casi d'individui caduti nella trappola della propria inadeguata terminologia. E tanto per cominciare subito con l'immodestia, dirò che l'uomo che noi chiamiamo moderno, che vive dunque nel presente immediato, si trova su un'altura o ai confini del mondo, ha sopra di sé il cielo, e sotto di sé l'intera umanità, la cui storia si perde nella nebbia dei primordi; davanti a lui si apre l'abisso sconfinato del futuro. Gli uomini moderni o, per meglio dire, gli uomini [p. 277] viventi nell'immediato presente, sono pochi, poiché la loro esistenza esige la più alta coscienza di sé, coscienza estremamente profonda e vasta con un minimum d'incoscienza; giacché vive del tutto nel presente solo colui che si rende pienamente conto della sua esistenza d'essere umano. Occorre comprendere chiaramente che non basta vivere attualmente per essere moderni, perché in questo caso ognuno oggi lo sarebbe, ma che lo è soltanto colui che è veramente consapevole del presente in cui vive.

Colui che raggiunge questo grado di coscienza è necessariamente un solitario. Il cosidetto uomo «moderno» è in ogni tempo un solitario, poiché ogni passo che egli fa verso una conoscenza più alta e più vasta lo allontana sempre più dalla sua originaria e puramente animale «partecipazione mistica» con la massa, e dall'immergersi nell'incosciente comune. Ogni passo in avanti rappresenta una lotta per sradicarsi dal seno materno universale della primitiva incoscienza, in cui vive la grande massa del popolo. Persino tra i popoli civili gli strati psichici più bassi dell'incosciente si differenziano ben poco da quelli delle razze primitive. Negli strati psichici successivi si raggiunge un livello di coscienza corrispondente agli inizi delle prime civiltà, mentre nei gradini più elevati il livello di coscienza corrisponde a quello degli scorsi secoli. Solo l'uomo moderno, come noi lo intendiamo, vive nel presente, poiché egli solo ha una coscienza attuale, e si rende conto che gli strati appartenenti ai precedenti livelli di vita sono superati e svaniscono sempre più, i loro valori e le loro aspirazioni non lo interessano ormai che da un punto di vista storico. Così egli diviene «astorico» nel senso più profondo della parola e si è liberato dalla gran massa che vive del tutto immersa nella tradizione. Egli si può considerare veramente moderno solo quando, raggiunto il margine della vita, ha dietro di sé tutto quanto è caduto e superato, ed avanti a sé il nulla, da cui tutto può sorgere. Tali idee possono apparire così esagerate da sembrare banali, perché nulla è più facile che l'ammantarsi di questa [p. 278] coscienza del presente. Sta di fatto, che una moltitudine di persone insignificanti si dà l'aria d'essere moderna, saltando abusivamente i vari stadi di sviluppo, ed i propri doveri vitali. Essi appaiono improvvisamente a lato del vero uomo moderno, come individui senza fondamenta, come veri vampiri, e discreditano la sua profonda e poco invidiabile solitudine. Accade quindi che lo sguardo poco acuto delle masse non riconosca i rari veri uomini moderni del presente e li confonda con gli pseudo-moderni. E non v'è nulla da fare; il moderno è in tutti i tempi sospetto e malfamato, come lo fu sempre, anche per l'addietro, cominciando con Socrate e con Gesù. Il riconoscimento della propria modernità è una dichiarazione volontaria di fallimento, è un nuovo genere di voto di povertà e di continenza, è, cosa ancor più dolorosa ma sicura, la rinunzia all'aureola della santità, che la storia concede sempre, come segno della sua sanzione; essere «astorico», cioè lo staccarsi dalle tradizioni, è il peccato di Prometeo. Il più alto grado di

coscienza di se stessi è quindi una colpa. Alla coscienza del presente può giungere, come ho già detto, solo colui che ha superato gli stadi di coscienza appartenenti al passato, in altri termini, colui che ha adempiuto in maniera dovuta i compiti che incontrò nel suo cammino. Questi dovrebbe essere, nel vero senso della parola, un individuo virtuoso e «capace», tanto da uguagliare e superare i suoi simili, il che lo metterebbe poi nelle condizioni di elevarsi al grado di coscienza immediatamente superiore. So bene che i presunti moderni detestano in modo particolare il concetto di «capacità» che ricorda loro la menzogna di cui si mascherano: ciò non di meno noi lo considereremo un concetto essenziale ed indispensabile per l'uomo moderno; senza di esso, egli sarebbe uno speculatore privo di coscienza. Egli deve essere «capace» al massimo, poiché la astoricità, cioè l'aver rotto i legami tradizionali, è un atto d'infedeltà al passato se non vien compensato da facoltà creative. E' assolutamente nel falso chi prende coscienza del presente soltanto col negare il passato. L'oggi non ha senso se non è posto tra l'ieri e il domani. [p. 279] L'oggi è un processo di transizione, che si stacca dall'ieri per andare verso il domani. Colui che lo intende in questo modo ha il diritto di considerarsi «moderno». Molti, invero, si dicono «moderni», specie gli pseudo-moderni; di conseguenza il vero uomo moderno si trova sovente tra coloro che si dichiarano «vecchio stampo». Essi fanno ciò, in parte per compensare in qualche modo, con l'accentuare il tono sul passato, la colpa d'aver vinto la storia staccandosi dalle sue tradizioni, e in parte per evitare ogni sgradevole confusione con gli pseudo-moderni. Ad ogni bene corrisponde un male. Questa dolorosa realtà rende illusorio l'orgoglioso sentimento, collegato alla coscienza del presente, di essere il culmine di tutta la storia umana trascorsa, e la risultante di numerosi millenni; è almeno una confessione di fiera povertà poiché noi siamo anche la delusione delle speranze e delle aspirazioni millenarie. Dopo quasi duemila anni di storia cristiana, al luogo della «parusia» e del regno millenario, ecco la guerra mondiale coi suoi fili spinati ed i suoi gas asfissianti. Che fallimento in cielo e in terra! Di fronte ad un simile quadro, sarà meglio che ritorniamo alla modestia. E' vero che l'uomo moderno sta sopra un culmine, ma domani sarà superato; è vero che egli è l'ultima risultante di una evoluzione molto antica, ma al tempo stesso egli rappresenta la più grande delusione di tutte le speranze del genere umano. L'uomo moderno se ne rende perfettamente conto. Egli ha visto quale

prosperità possono portare al mondo la scienza, la tecnica e l'organizzazione, ma ha anche visto quali catastrofi esse hanno causato. Egli ha constatato come i governi bene intenzionati hanno talmente tutelato la pace, secondo il principio si vis pacem, para bellum, che l'Europa ne è stata quasi distrutta. Quanto poi alle idealità, né la Chiesa cristiana, né la fraternità umana, né il socialismo internazionale, né la solidarietà degli interessi economici, hanno resistito alla prova del fuoco della realtà. Per di più, appena dieci anni dopo la guerra, noi ritroviamo lo stesso ottimismo, le stesse organizzazioni, le stesse aspirazioni politiche, le stesse frasi, le stesse espressioni, che preparano a lunga scadenza [p. 280] altre catastrofi inevitabili. I patti che escludono la guerra provocano ovunque lo scetticismo, benché si desideri il loro più felice e più prolungato successo. In fondo, tutti questi tentativi di pacificazione sono minati dal dubbio. Ciò visto, non credo di esagerare, se confronto la coscienza moderna all'anima di un uomo che dopo aver subito una terribile scossa sia restato profondamente turbato e incerto. Il mio scetticismo deriva, senza dubbio, dal fatto che sono medico; non posso fare a meno di esserlo. Un medico è sempre in contatto della malattia, e la sua arte sta in parte nel non riscontrarla là ove essa non si trova. Mi guardo bene, dunque, dall'affermare che l'umanità occidentale e l'uomo bianco in particolare siano ammalati, e che l'Occidente volga in decadenza; simili affermazioni superano di molto la mia competenza. Quando si sente parlare qualcuno di problemi culturali o di problemi umani, bisogna chiedersi sempre chi sia l'individuo in questione, poiché quanto più il problema è di natura universale, tanto più egli vi insinua segretamente, nell'esporlo, la sua psicologia personale. Ciò può condurre, senza dubbio, da un lato a insopportabili deformazioni ed a conclusioni errate, gravide di conseguenze; dall'altro lato, però, appunto la circostanza che un problema universale comprenda e accolga in sé un'intera personalità, è una indubitabile garanzia che chi lo tratta lo abbia sperimentato veramente, e forse anche sofferto. In questo ultimo caso egli rispecchia il problema attraverso la sua personalità e facendo ciò ci mostra una verità, mentre nel primo caso, dopo avere manipolato il problema con le sue tendenze personali, lo falsa col pretesto di dargli una forma obbiettiva, in modo che, invece della verità, ne risulta un quadro ingannevole. Del problema psichico dell'uomo moderno io non conosco che quello che ho scoperto negli altri ed in me stesso. Conosco la vita psichica intima di parecchie centinaia di uomini colti, malati o sani, appartenenti ad ogni campo

della civiltà bianca; queste sono le mie esperienze in proposito, e di queste io parlo. Senza alcun dubbio, [p. 281] l'immagine che ne consegue è unilaterale, poiché non rispecchia, per così dire, che l'anima, l'interiorità dell'individuo. Debbo però aggiungere che questo è un tratto particolare: l'anima non si trova sempre e dovunque all'interno dell'uomo. Vi sono popoli ed epoche in cui essa è volta verso l'esterno, popoli ed epoche privi di psicologia: tali sono, per esempio, tutte le civiltà antiche, e tra queste, in particolar modo, l'egiziana con la sua grandiosa obbiettività e le sue non meno grandiose confessioni di peccato, ingenue e negative al tempo stesso. Dietro le tombe del bue Apis di Sakkara e dietro le piramidi non riusciamo a scoprire nessun problema psichico personale, così come non lo scopriamo nella musica di Bach. Dal momento in cui esiste una forma esteriore ideale e rituale, per esempio una religione vivente, che racchiude in sé ed esprime tutte le aspirazioni e speranze dell'anima, questa si esteriorizza, e non vi sono più problemi psichici, né può esistere l'incosciente nel senso che noi diamo a questa parola. Perciò la scoperta della psicologia appartiene agli ultimi decenni, benché i secoli precedenti fossero sufficientemente dotati d'intelligenza e d'introspezione per conoscere le realtà psicologiche. E' questo un fenomeno analogo a quello che si ebbe nei riguardi della tecnica. I Romani, per esempio, conoscevano i principi della meccanica ed i fenomeni fisici necessari per costruire una macchina a vapore, tuttavia non andarono oltre il giocattolo di Erone. Ciò dipende dal fatto che non erano spinti dalla necessità in questo campo. L'enorme divisione del lavoro e la non meno enorme specializzazione hanno fatto nascere nello scorso secolo per la prima volta tale necessità. E' stata necessaria la miseria psichica dei nostri tempi per farci scoprire la psicologia. I fenomeni psichici esistevano certamente già da prima, ma non erano tali da imporsi all'attenzione e nessuno si soffermava a considerarli. Se ne faceva a meno. Oggi invece non si può prescindere dalla psiche. Furono indubbiamente i medici i primi a riconoscere questa verità, giacché per il prete l'anima non è altro che qualcosa che deve essere forzato in una forma già nota e prestabilita per poter compiere [p. 282] indisturbatamente una ben determinata funzione. Finché questa forma offre delle vere possibilità vitali, la psicologia non sarà altro che una tecnica ausiliaria e l'anima non sarà neppure un fattore sui generis. Finché l'uomo vive nel gregge, non possiede un'anima, e neppure ne sente il bisogno; gli occorre solo la fede nell'immortalità dell'anima. Ma dal momento in cui egli supera i limiti della sua religione locale occidentale, o in altri

termini, dal momento in cui la sua religione non può più contenere la pienezza della sua vita, allora l'anima comincia a divenire un elemento inaccessibile per lui coi mezzi comuni di indagine. Ecco la ragione per la quale noi abbiamo oggi una psicologia che si basa su dati empirici e non su articoli di fede o postulati filosofici; ed io vedo al tempo stesso, nell'affermarsi della psicologia, un sintomo del profondo sconvolgimento della vita spirituale in genere. Poiché per l'anima dei popoli accade come per quella individuale: finché tutto va bene, e tutte le energie psichiche trovano una applicazione sufficiente e regolare, esse non ci producono nessun turbamento di carattere interiore. Non potendo essere in disaccordo con noi stessi, non siamo presi né da dubbi né da incertezza. Ma dal momento in cui alcuni canali dell'attività psichica vengono colmati, si verificano degli ingorghi, per così dire, la sorgente trabocca, cioè l'interiorità e l'esteriorità manifestano esigenze differenti, e ne consegue il disaccordo con noi stessi. Solo in queste circostanze e in queste difficoltà si scopre l'anima come un'altra volontà diversa dalla nostra, nemica e inconciliabile. La scoperta della psicoanalisi di Freud ha chiaramente mostrato tale processo. Ciò che da prima si scoperse, fu l'esistenza di fantasie sessuali perverse e criminali, che sono letteralmente inconciliabili con la coscienza dell'uomo civile, poiché l'individuo che volesse attuarle sarebbe senz'altro un ribelle, un pazzo o un criminale. Non è assolutamente probabile che solo alla nostra epoca si siano sviluppati questi lati dei sottopiani psichici o dell'inconscio; verosimilmente essi sono esistiti sempre, in ogni civiltà. Ogni cultura ha il suo avversario del tipo di Trostrato. Ma nessuna delle precedenti civiltà si trova nelle condizioni [p. 283] di dover prendere in seria considerazione questi sottopiani. L'anima fece sempre semplicemente parte di un sistema metafisico. La coscienza moderna non può rifiutarsi di riconoscere l'anima, benché se ne difenda con straordinaria energia. Questo è il tratto caratteristico che distingue la nostra epoca da tutte le precedenti. Non possiamo più negare che gli oscuri fantasmi dell'incosciente siano reali ed efficaci potenze, e che esistano forze psichiche che non possono essere inserite, almeno per ora, nel nostro razionale ordinamento del mondo. Inoltre, noi costruiamo su di esse una scienza, il che è prova palese della serietà con la quale le consideriamo: se i secoli scorsi potevano gettarle fra i rifiuti, esse sono per noi ora, come la camicia di Nesso, qualcosa di cui non ci si può più liberare. Lo sconvolgimento subìto dalla coscienza moderna, per le molte catastrofi della guerra mondiale, è interiormente accompagnato dallo

sconvolgimento morale per ciò che riguarda la fede in noi stessi e nella nostra bontà. Una volta potevamo considerare i popoli stranieri come popoli privi di valore dal punto di vista politico e morale; ma ora l'uomo moderno è costretto a riconoscere che moralmente e politicamente egli equivale agli altri. Se una volta credevo che il dovere impostomi da Dio fosse di richiamare gli altri all'ordine, ora so che ho io stesso bisogno di questo richiamo quanto gli altri, e che farei meglio ad occuparmi, prima di ogni altra cosa, del riordinamento di me stesso. Tanto più che oggi vedo molto chiaramente che la mia fede in una eventuale organizzazione del mondo, nel vecchio sogno del regno millenario, dove non vi sia altro che pace e concordia, è profondamente scossa. Lo scetticismo della coscienza moderna a questo riguardo non permette più alcun entusiasmo politico per una riforma mondiale; esso rappresenta il terreno meno favorevole per il riversarsi delle energie psichiche sul mondo, così come un dubbio sulla personalità morale di un amico influisce sfavorevolmente sulle relazioni di amicizia e ne ostacola inesorabilmente lo sviluppo. Questo scetticismo fa ripiegare la coscienza moderna su se stessa; per contraccolpo fluiscono [p. 284] alla sua superficie alcuni elementi del contenuto psichico soggettivo che certamente erano sempre esistiti, ma che restavano nella più profonda oscurità, finché tutto poteva riversarsi verso l'esterno senza ostacoli. Quanto differente era il mondo dell'uomo del Medioevo! Allora la terra era ferma e in riposo al centro dell'Universo: intorno le girava il sole col compito preciso di riscaldarla; gli uomini bianchi, tutti figli di Dio ricolmi d'amore per l'Essere Supremo, che riservava loro la felicità eterna, sapevano perfettamente ciò che occorresse fare e come bisognasse comportarsi, per passare dalla transitoria vita terrestre alla gioia ineffabile della vita eterna. Ci è impossibile immaginarci, sia pure in sogno, una realtà di tal genere. La scienza naturale ha da lungo tempo strappato questo velo prezioso. Quell'epoca è trascorsa com'è trascorsa quell'infanzia in cui il proprio padre era considerato l'uomo più bello e più potente di tutto il paese. Ogni certezza di carattere metafisico dell'uomo medioevale è per noi scomparsa, e l'abbiamo sostituita con l'ideale della sicurezza materiale, del benessere generale e dell'umanità. Colui che ha conservato oggi intatto questo ideale, dispone di una dose poco comune di ottimismo. Anche questa certezza è stata ridotta a zero, poiché l'«uomo moderno» comincia ad accorgersi che ad ogni progresso esterno corrisponde una possibilità sempre crescente di catastrofi più grandi.

Da ciò si ritraggono spaventate la speranza e la fantasia. Che significa il fatto che alcune grandi città organizzano od inscenano pratiche di protezione contro i gas asfissianti? Ciò significa soltanto che questi attacchi di gas velenoso sono previsti e preparati, secondo il principio: Si vis pacem, para bellum, che si ammassa soltanto il materiale necessario e che inesorabilmente il pensiero diabolico s'impossesserà dell'uomo e lo metterà in movimento come una valanga. Si sa che i fucili sparano da soli, quando se ne metta insieme una forte quantità. Un'idea vaga di quella terribile legge, che regge ciecamente i fenomeni, per cui Eraclito aveva creato il termine di «Enantiodromia» (l'andare contro corrente), ricolma i [p. 285] retropiani della coscienza moderna di un agghiacciante terrore, e paralizza ogni fiducia di far fronte a questa catastrofe con misure politiche e sociali. Quando, dopo questo terrificante spettacolo di un mondo cieco, in cui costruzione e distruzione si controbilanciano eternamente, la coscienza si volge di nuovo verso l'individuo quale soggetto e l'osserva nei suoi retropiani, vi scopre zone selvagge di oscurità la cui vista ciascuno preferirebbe evitare. Anche qui la scienza ha soppresso un ultimo rifugio ed ha fatto un luogo di orrore di ciò che prometteva essere una caverna protettrice. Eppure ci si sente quasi sollevati nel trovare tanto male al fondo della nostra anima. Almeno crediamo di scoprire qui l'origine di tutti i mali dell'umanità. Dapprima, per quanto ci si senta scossi e delusi, abbiamo non di meno l'impressione che, appunto perché questi fatti psichici sono parte della nostra anima, possiamo tenerli più o meno bene in mano e quindi dirigerli o almeno reprimerli efficacemente. Ci compiacciamo inoltre di credere che, se ciò riuscisse, una parte del male sarebbe estirpato dal mondo esterno; che se la conoscenza del subcosciente fosse più generalmente diffusa, ognuno potrebbe rendersi conto, per esempio, se un uomo di governo si lascia trascinare da cattivi istinti incoscienti, ed i giornali potrebbero suggerirgli: «Fatevi analizzare, per cortesia. Voi soffrite di un complesso paterno inibito». Ho a bella posta usato questo paragone grottesco, per mostrare a quali assurde conseguenze conduca l'illusione che tutto ciò che è psichico possa essere trattato da chiunque. E' certamente vero che una gran parte del male ha origine dallo sconfinato subconscio umano, ed è anche vero che una più completa conoscenza di esso permette di lottare meglio contro le origini psichiche del male; come d'altra parte la scienza ci ha messo in grado di combattere con successo i mali fisici conoscendone le cause. L'enorme

accrescersi, nel mondo intero, dell'interesse per la psicologia durante gli ultimi venti anni, è prova irrefutabile che la coscienza moderna si è in parte ritirata dalle realtà materiali esteriori, per rivolgersi verso la realtà soggettiva interiore. L'arte impressionista ha [p. 286] profetizzato questo orientamento, poiché l'arte coglie sempre in anticipo, intuitivamente, gli orientamenti futuri della coscienza. La nostra epoca, col suo interesse per la psicologia, dimostra di attendere dall'anima qualcosa che il mondo esterno non ha dato, senza dubbio qualcosa che le nostre religioni dovrebbero contenere, ma che non contengono, specie per l'uomo moderno; per il quale le religioni non sorgono dall'interiorità, dall'anima, ma fan parte dell'inventario del mondo esterno. Non v'è nessuno spirito super-terrestre, che avvinca l'uomo moderno con rivelazioni interiori; egli si sforza, al contrario, di scegliere le religioni e le convinzioni, e di indossarle come abiti domenicali, per deporle in seguito come si depongono i vestiti usati. Gli oscuri, quasi morbosi fenomeni, che si svolgono nei sottopiani dell'anima, attraggono l'interesse e lo affascinano, per quanto non ci si possa spiegare come improvvisamente divenga interessante ciò che in passato fu sempre respinto. Tuttavia, sta di fatto che essi destano l'interesse generale; non lo si può negare, per quanto non si accordi troppo col buon gusto. Quando parlo d'interesse psicologico, non intendo quello che generalmente si ha per la scienza psicologica, o quello ancor più limitato che si riferisce alla psicoanalisi di Freud; ma intendo il grande accrescersi dell'interesse verso i fenomeni dell'anima, lo spiritismo, l'astrologia, la teosofia, la parapsicologia, ecc'. Dalla fine del secolo Xvii il mondo non ha più visto nulla di simile. Soltanto gli può essere comparato il periodo dell'apogeo gnostico, nel I e Ii secolo dell'èra volgare. Le correnti spiritualistiche odierne hanno molta somiglianza con quelle di detto periodo. V'è oggi persino una chiesa gnostica in Francia, e conosco in Germania due scuole gnostiche che espressamente si dichiarano tali. Il più importante come numero è il movimento teosofico, con la sua sorella continentale, l'antroposofia, gnosi indù del più puro stampo. Per contro, l'interesse per la psicologia scientifica è minimo. Ora, la gnosi costruisce esclusivamente su fenomeni di retropiano, e raggiunge, dal punto di vista [p. 287] morale, profondità oscure, come dimostra il Kundalini-Yoga indiano anche nelle sue forme europee. Altrettanto si può dire dei fenomeni di parapsicologia; coloro che li conoscono possono farne testimonianza.

La passione di chi persegue tali interessi costituisce certamente un'energia psichica proveniente da forme religiose passate. Perciò v'è al fondo di queste forme di attività interiori un carattere veramente religioso, anche quando esse assumono una tinta scientifica, anche quando Rudolf Steiner dichiara che la sua «Antroposofia» è la «Scienza dello spirito», anche quando Mrs BakerEddy, inventa una Christian Science. I tentativi fatti per velarne il carattere mostrano come la religione sia in generale malfamata, altrettanto quanto la politica e la riforma mondiale. Non è cosa eccessiva affermare che la coscienza moderna, contrariamente a quella del secolo Xix, ha volto le sue intime e più profonde speranze verso l'anima, e ciò non nel senso delle molte tradizioni confessionali che si conoscono, ma nel senso della gnosi. Il fatto che tutti questi movimenti assumano un tono scientifico, non va considerato come qualcosa di ridicolo o come un velo gettato allo scopo di nascondere la loro reale natura, ma va piuttosto considerato come un segno positivo che essi intendono fare opera scientifica, cioè «conoscitiva», in stretta opposizione all'essenza delle religioni occidentali e alla «fede». La coscienza moderna rifiuta la fede nei postulati dogmatici e per conseguenza le religioni basate su di essi, ma le accetta però nella misura in cui il loro contenuto conoscitivo si accorda apparentemente con i fenomeni esperimentati nei piani più profondi della psiche. Essa vuole conoscere, cioè vuole esperimentare da se stessa. Recentemente il decano della cattedrale di San Paolo ha segnalato un movimento di questo genere nella chiesa anglicana. All'epoca delle scoperte, epoca che ha il suo epilogo oggi con l'esplorazione completa della terra, nessuno più voleva credere che gli iperborei avessero un piede solo, o cose analoghe; l'uomo voleva conoscere ed aver visto coi propri occhi ciò che si trovava al di là del mondo [p. 288] conosciuto. La nostra epoca, evidentemente, si mette alla ricerca di ciò che la nostra psiche è in realtà, oltre ai limiti della coscienza. La domanda che si pone ogni circolo spiritualista è la seguente: «Che cosa avviene quando il medium ha perso la coscienza?» Quella di ogni teosofo è: «Che cosa esperimenta il mio io nei piani superiori della coscienza, cioè al di fuori della mia coscienza abituale?» La domanda che si pone l'astrologo è: «Quali sono le forze che agiscono sopra il mio destino e lo determinano, al di là di ogni mio proposito cosciente?» Ed ogni psicoanalista desidera sapere: «Quali sono i

movimenti inconsci della nevrosi?» La nostra epoca vuole fare da sola l'esperienza dell'anima. Essa vuole esperimentare da sé, e perciò respinge ogni principio derivante da esperienze passate. Ma ciò non esclude che essa si serva dei principi delle religioni e della scienza, come ipotesi di lavoro, per raggiungere il suo scopo. Finora l'europeo ha sentito un brivido percorrergli la schiena, ogni qualvolta ha cercato di indagare questi campi; non solo l'oggetto di tale ricerca gli appariva oscuro e pauroso, ma anche il metodo impiegato gli sembrava un abuso riprovevole delle sue più belle conquiste spirituali. Che pensa, per esempio, l'astronomo, quando scopre che oggi si fa un numero di oroscopi almeno mille volte maggiore di quanto non si facesse trecento anni addietro? Che pensa il filosofo civilizzatore ed educatore quando scopre che, nei confronti dell'antichità, il mondo odierno non si è impoverito neppure di una sola superstizione? Freud stesso, il fondatore della psicoanalisi, ha illuminato fortemente tutto quanto nei sottopiani della psiche umana vi è di sudicio, di oscuro e di malefico e l'ha interpretato in modo tale, che ad ognuno passi la voglia di cercarvi altro che scorie e rifiuti. Il suo tentativo non è riuscito, ed il suo ammonimento ha avuto l'effetto contrario; ha cioè suscitato in molti l'ammirazione per la lordura; fenomeno di per sé perverso, che normalmente non sarebbe spiegabile, se non supponendo che ciò che agisce su questi individui non sia l'amore della bassezza, ma bensì il segreto fascino della psiche. E' cosa indubbia che dal principio del secolo Xix, dopo il periodo memorando della rivoluzione francese, a poco a poco l'uomo ha posto l'elemento psichico in primo piano ed ha sempre più subito la sua forte attrazione. Il gesto simbolico dell'incoronazione della dea Ragione a Notre Dame ha avuto probabilmente per il mondo occidentale un significato analogo a quello dell'abbattimento della quercia di Wotan, fatto dai missionari cristiani, poiché né allora né prima nessun fulmine vendicatore scese a colpire i blasfemi. Precisamente alla medesima epoca, un francese, Anquetil du Perron, trovavasi in India, da dove riportò al principio del secolo Xix una traduzione dell'Oupnek'hat, collezione di 50 Upanishad, che permisero all'Occidente, per la prima volta, di penetrare lo spirito misterioso dell'Oriente. Tale coincidenza è ben altro che una semplice fantasia della storia universale. Per lo storico, questa è una semplice combinazione che nulla ha a che vedere con i nessi di causa e di effetto. Ma la mia esperienza medica mi

impedisce di vedervi una semplice combinazione, poiché tutto si svolse secondo una legge psicologica, la cui validità nella vita personale è indubbia: ogni qualvolta una porzione della coscienza viene ad essere svalutata e per conseguenza eliminata, nel subcosciente avviene una compensazione. Ciò corrisponde alla legge della conservazione dell'energia; poiché i processi psichici sono essi pure processi energetici. Nessun valore spirituale può sparire, senza essere sostituito da uno equivalente. Tale è la regola euristica fondamentale della pratica psicoterapica quotidiana: essa non è mai venuta meno. Il medico, in me, si rifiuta di considerare la vita interiore di un popolo indipendentemente dalle regole psicologiche fondamentali; l'anima di un popolo non è che una formazione un po' più complessa di quella dell'individuo. E del resto non vi è un poeta, che inversamente parla dei «popoli» della sua anima? Con ragione, mi sembra. Poiché nella nostra anima vi è qualcosa che non è individuale, ma che è popolo, collettività, persino umanità. In certo modo noi siamo parti di una grande anima unitaria, o, per esprimerci con Swedenborg, di un uomo unico, immenso. E se quanto vi è di oscuro in me, singolo, suscita poi la chiarezza soccorritrice, altrettanto avviene nella vita dei popoli. La forza che agiva nella massa oscura, anonima, che distruggitrice si riversò a Notre Dame, trascinava con sé anche l'individuo, e toccò pure Anquetil du Perron, in cui provocò una risposta che divenne storica. Da lui discendono Schopenhauer e Nietzsche, e da lui l'influenza dell'Oriente, influenza di cui non si può ancora riconoscere la portata. E guardiamoci dallo svalutarla! Ne vediamo poca cosa, sulla superficie intellettuale dell'Europa: alcuni professori di filosofia, alcuni entusiasti del buddismo, ed alcune tenebrose celebrità, come M'me Blavatsky e Annie Besant con il loro Krishnamurti. Sembrano isolotti emergenti dal mare della moltitudine; ma in realtà sono le vette di importanti catene di monti sottomarini. Mentre i filistei della cultura credevano fino a poco tempo fa di poter sorridere della sepolta e scomparsa astrologia, ecco che oggi essa rimonta alla superficie, prossima alle porte dell'università, da cui era stata scacciata circa trecento anni addietro. Altrettanto accade per le idee dell'Oriente; esse prendono piede in basso, nella massa, e si elevano a poco a poco sino alla superficie. Qual'era la provenienza dei cinque o sei milioni di franchi svizzeri,

sottoscritti per il tempio antroposofico di Dornach? Certamente non venivano da un uomo solo. Non esiste purtroppo nessuna statistica che possa stabilire il numero dei teosofi, dichiarati o larvati, esistenti attualmente. Ma di certo tale numero raggiunge alcuni milioni. E bisogna aggiungervi qualche milione di spiritualisti di denominazione cristiana o teosofica. I grandi rinnovamenti non vengono mai dall'alto, ma dal basso, come gli alberi non crescono dal cielo, ma dalla terra, per quanto i loro semi cadano in origine dall'alto. II rivoluzionamento del mondo e della nostra coscienza sono una sola e medesima cosa. Tutto diviene relativo e per conseguenza ipotetico, e mentre la coscienza, esitante [p. 291] e dubbiosa, considera preCarlo questo mondo che risuona di trattati di pace e di amicizia, di democrazia e di dittatura, di capitalismo e di bolscevismo, l'anima desidera una risposta a questo tumulto di dubbi e di incertezze. Sono gli individui appartenenti ai più oscuri strati del popolo, che seguono gli inconsci impulsi della psiche, sono i derisi e quieti provinciali, meno inquinati dai pregiudizi accademici di quanto non siano le grandi celebrità. A guardar le cose dall'alto sovente si ha l'impressione di uno spettacolo conturbante o ridicolo, ma di una significativa ingenuità, che ricorda quella di coloro che Cristo chiamava beati. Non è cosa che stupisce e commuove al tempo stesso, il vedere i rifiuti dell'umana psiche raccolti e collezionati in grossi volumi? I balbettamenti più insignificanti, gli atti più assurdi, i detriti della più invereconda fantasia, sono argomenti di serissimi studi fatti con scrupolosa coscienza, che vanno sotto il nome di an-thropophyteia, studi ai quali vengono conferiti tutti gli onori scientifici dai partigiani di Freud e Havelock Ellis; la massa dei loro lettori si estende a tutti i popoli bianchi civili. Perché questo zelo e questa fanatica venerazione di cose insulse? Perché sono elementi psicologici, sostanze dell'anima, preziose quanto frammenti di manoscritti salvati da antichi letamai. Persino ciò che vi è di nascosto e di putrido nell'anima assume un valore inestimabile allo sguardo dell'uomo moderno, poiché gli serve per il raggiungimento del suo scopo. Quale scopo? Freud ha posto il seguente motto alla sua interpretazione dei sogni: flectere si nequeo superos, Acheronta movebo. Se non posso piegare l'Olimpo, rivoluzionerò almeno l'Acheronte. Perché mai? Gli dèi che noi dobbiamo detronizzare sono gli idoli, i valori del nostro mondo cosciente. Si sa che nulla ha tanto screditato gli dèi del mondo antico, quanto la storia dei loro scandali. La storia si ripete: si investigano le profondità sospette delle nostre

brillanti virtù e dei nostri ideali incomparabili, gridando gioiosamente: «Ecco i vostri dèi, fantasmagorie costruite dalla mano dell'uomo, imbrattate [p. 292] dall'umana bassezza, sepolcri imbiancati ricolmi di putredine e di immondizie!» Quelle parole che al tempo delle lezioni di catechismo non erano state da noi comprese divengono ora viventi, ed un'antica nota ben conosciuta risuona in esse. Sono seriamente convinto che tali analogie non sono dovute al caso. Troppi uomini sono più prossimi alla psicologia freudiana che al Vangelo, e per essi il bolscevismo ha più significato di quanto non abbia la virtù borghese. Tuttavia essi sono tutti nostri fratelli, ed in ciascuno di noi vi è una voce almeno, che dà loro ragione, poiché in fondo noi facciamo parte di un'unica anima. La conseguenza insospettata di questo orientamento spirituale è questa: vien conferito al mondo un aspetto così brutto che nessuno riesce più ad amarlo e nemmeno possiamo più amarci, tanto che nulla resta al di fuori che possa distoglierci dalla nostra propria vita interiore. Questo è certo il risultato profondo al quale si doveva giungere. Che cosa vuol dire infatti la teosofia col suo Karma e con la sua dottrina della reincarnazione, se non che questo mondo apparente altro non è che un luogo transitorio, per il perfezionamento morale di quanto è imperfetto nell'uomo? Essa rende anche relativo il senso immanente del mondo attuale, ma con diversa tecnica, in quanto promette mondi più elevati, senza disprezzare quello presente. Il risultato è però il medesimo. Tali idee sono quanto vi è di meno accademico, esse prendono la coscienza moderna dal basso. E' anche frutto di un'analogia dovuta al puro caso, che la teoria della relatività di Einstein e la recente teoria atomica, che già confina col supercausale e il non intuibile, stian divenendo patrimonio del nostro pensiero? La fisica odierna volatilizza il nostro mondo materiale. Nulla di strano, credo, che l'uomo moderno ricada sempre inevitabilmente nella sua vita interiore, attendendo da essa quella sicurezza che il mondo gli rifiuta. L'anima dell'Occidente si trova in una posizione inquietante, tanto più inquietante se si considera che preferiamo ancora l'illusione della nostra bellezza interiore [p. 293] alla cruda realtà. L'occidentale vive nella nube vaporosa del suo autoincensamento, che deve impedirgli di vedere il suo vero volto. Ma che cosa siamo noi, per gli uomini d'altro colore? Che pensano la Cina e l'India di noi? Che pensano di noi i negri e tutti coloro che abbiamo flagellato con l'acquavite, con le

malattie veneree e con la privazione delle loro terre? Ho per amico un indiano, che sta a capo di un pueblo. Una volta che ci intrattenevamo in discorsi confidenziali sull'uomo bianco, mi disse: «Per noi è impossibile comprendere i bianchi, essi bramano sempre qualcosa, sono sempre irrequieti, cercano sempre. Ma cosa cercano? Lo ignoriamo. I loro nasi sono grandi e affilati, le loro labbra sottili e crudeli, i loro volti hanno tratti troppo marcati. Ci sembrano tutti pazzi». Il mio amico aveva senza dubbio riconosciuto nel bianco l'ario uccello da preda, spinto dalla sua insaziabile sete di bottino attraverso paesi che non gli appartengono; e s'era reso conto della nostra mania di grandezza, che, tanto per citare un esempio, crea l'illusione che il Cristianesimo sia l'unica verità rivelata al mondo e che Cristo, appartenente alia razza bianca, sia l'unico Salvatore. Dopo aver messo l'Oriente a soqquadro ed averlo reso nostro tributario con la nostra scienza e con la nostra tecnica, inviamo missionari persino in Cina. La commedia cristiana in Africa è pietosa. La soppressione della poligamia ottenuta dalle missioni, ha causato una prostituzione tale da assorbire, nella sola Uganda, 20'000 lire sterline l'anno per la lotta antivenerea, ed oltre a ciò ha avuto conseguenze morali disastrose. E' per giungere a questi consolanti risultati che i buoni europei pagano i missionari. E tralasciamo di menzionare la spaventosa storia delle sofferenze causate alla Polinesia ed i benefici dell'oppio! Tale si presenta l'europeo, visto senza il riparo della fitta nebbia in cui la sua morale lo ha avvolto. Non ci deve quindi stupire il fatto che le indagini compiute nella nostra psiche abbiano dapprima l'aspetto di scavi fatti per scoprire la tubatura di una cloaca. Solo un grande idealista quale Freud poteva dedicare a questo poco [p. 294] piacevole lavoro l'attività di tutta la sua vita. Non è lui che ha provocato il puzzo, ma noi tutti, che per pura ignoranza e grossolana illusione ci riteniamo tanto puliti e decenti. In tale modo la nostra scienza psicologica comincia a fare la conoscenza della nostra anima, specialmente dal lato più repellente, proprio quello che non vorremmo vedere. Ma se la nostra psiche fosse solo composta da elementi bassi, privi d'ogni valore, nessuna forza al mondo potrebbe indurre un uomo normale a trovarvi alcunché d'attraente. Ecco perché coloro che nella teosofia non riescono a vedere che una deplorevole leggerezza intellettuale, e nel freudismo null'altro se non il desiderio di sensazioni, profetizzano una rapida ed oscura fine di questi movimenti. Non si accorgono

che alla base di essi v'è una vera passione, v'è il fascino dell'anima che agisce e che si terrà legato a queste forme, finché delle migliori non le sostituiranno. Superstizione e perversità in fondo sono la stessa cosa. Sono stadi transitori ed embrionali dai quali nasceranno forme nuove e più mature. L'aspetto dei sottopiani psichici dell'uomo occidentale è poco invitante, sia dal punto di vista intellettuale, che da quello morale ed estetico. Con impareggiabile passione abbiamo eretto intorno a noi un mondo monumentale; ma la sua grandezza è di tal sorta, che tutto quanto esso contiene di grande è al di fuori di noi, mentre ciò che troviamo al fondo della nostra anima non può essere altro che quello che è, cioè meschino ed insufficiente. Mi rendo conto che affermando ciò precorro l'attuale stadio di sviluppo della coscienza. La comprensione della realtà psicologica non è ancora di dominio pubblico. L'Occidente comincia appena ora ad avviarsi verso il riconoscimento di questi valori, ai quali, per ovvie ragioni, si oppone una fortissima resistenza. Tuttavia il pessimismo di Spengler è riuscito ad impressionare gli animi, per quanto tale impressione sia rimasta confinata nei limiti accademici. La comprensione psicologica, invece, penetra nell'intimo dolorante della personalità, che perciò le oppone resistenza e diniego. Mi guardo bene dal considerare tali resistenze come prive di significato; esse sono una sana reazione contro elementi distruttivi. Quando il relativismo viene considerato come supremo ed ultimo principio, si giunge alla distruzione. Attirando l'attenzione sugli aspetti oscuri dei sottopiani psichici, non agisco per pessimismo; desidero, al contrario, far comprendere che, malgrado il suo aspetto pauroso, l'incosciente esercita un fascino potente, non solo sulle nature morbose ma anche sugli spiriti sani e positivi. Alla base dell'anima c'è la natura, e la natura ha in sé la vita creatrice. E' vero che la natura distrugge ciò che essa stessa ha creato, ma distrugge per costruire nuovamente. I valori che il relativismo distrugge nel mondo visibile ci vengono restituiti dall'anima. Dapprima non vediamo che la discesa in tutto ciò che vi è di oscuro e di brutto; ma colui che non sopporta tale spettacoli non creerà mai la luminosa bellezza. La luce nasce sempre dalle tenebre notturne, né mai la timorosa aspirazione umana è riuscita aggrappandosi al sole a trattenerlo nel cielo. L'esempio di Anquetil du Perron non ci ha forse mostrato come l'anima possa sopravvivere alle proprie eclissi? La Cina non crede certo che la tecnica e la scienza europea la porteranno alla rovina. Perché dovremmo

credere che le misteriose influenze spirituali dell'Oriente dovrebbero distruggerci? Non bisogna dimenticare che, mentre con le nostre progredite conoscenze tecniche noi rivoluzioniamo il mondo materiale dell'Oriente, questo sta portando il turbamento nel nostro mondo interiore con le sue conoscenze psichiche superiori. Non ci siamo ancora resi conto che, se noi dominiamo l'Oriente dall'esterno, esso penetra in noi dall'interno. Una tale idea ci sembra assurda, poiché noi siamo abituati a considerare solo le relazioni di carattere causale, e non possiamo perciò capire come un Max Muller, un Oldenberg, un Neumann, un Deussen o un Wilhelm, potrebbero essere resi responsabili della confusione psichica che regna nelle classi medie. Che cosa ci insegna dunque l'esempio di Roma Imperiale? La conquista dell'Asia Minore la rese asiatica, e l'Europa stessa [p. 296] fu contagiata dall'Asia e lo è ancora. Dalla Cilicia venne la religione militare romana, il culto di Mitra, che dall'Egitto si estese alla nebbiosa Britannia, e non faccio parola del Cristianesimo. Non abbiamo ancora chiaramente compreso che l'odierna teosofia è una dilettantistica imitazione dell'Oriente. Qui si ricomincia con l'astrologia, che là è pane quotidiano. Lo studio della sessualità, per noi nato a Vienna ed in Inghilterra, ha i suoi modelli più perfezionati presso gli Indù. In Oriente testi millenari ci insegnano il relativismo filosofico, ed il principio della scienza cinese ha le sue basi in un punto di vista supercausale, punto di vista che noi cominciamo appena adesso ad intuire. Per ciò che concerne alcune scoperte complesse della nostra psicologia, nei vecchi testi cinesi, come recentemente mi ha dimostrato il prof' Wilhelm, ne troviamo la più riconoscibile descrizione. Ciò che noi consideriamo il ritrovato specifico dell'Occidente, cioè la psicoanalisi ed i vari movimenti da essa originati, appare come un tentativo di principianti, in confronto al perfezionamento che in questo campo, già da lunghissimo tempo, hanno raggiunto gli Orientali. Ciò è stato reso noto dal libro recentemente scritto da Oscar A'H' von Schmitz, in cui l'autore stabilisce un parallelo tra psicoanalisi e yoga. I teosofi si sono fatti un'idea piacevole dei mahatma, che dimorano in qualche località dell'Imalaia o del Tibet, e che di lì ispirano e dirigono le anime del mondo. L'influenza dell'atteggiamento mentale dell'Oriente volto alla magia, è così grande che degli europei, persone normalissime psichicamente, mi hanno garantito che tutto quanto di buono io dico mi è stato ispirato dai mahatma, e che ciò che proviene da me stesso non ha valore alcuno. Questa mitologia, così diffusa in Occidente e nella quale molti

credono profondamente, non è, come non lo sono neppure le altre mitologie, un'assurdità, ma piuttosto un'importante verità psicologica. Sembra effettivamente che l'Oriente abbia a che fare con la causa della nostra trasformazione psicologica. Ma questo Oriente non è un monastero tibetano di mahatma, esso è una verità [p. 297] esistente nel nostro intimo. La nostra anima ora si è messa all'opera per creare nuove forme spirituali, forme contenenti quelle verità eterne che si dovranno opporre, quali salutari energie moderatrici, alla sfrenata sete di bottino propria dell'uomo ario. Noi dobbiamo forse imparare a conoscere qualcosa di analogo a quella limitazione della vita che in Oriente è divenuta un pericoloso quietismo: forse anche qualcosa di quella stabilità che l'esistenza umana acquista quando le esigenze dello spirito divengono tanto imperative quanto le necessità della vita sociale. Ma da ciò, in quest'epoca di americanismo, siamo ancora lontani, siamo invece, mi sembra, soltanto all'inizio di una nuova èra spiritualistica. Non voglio atteggiarmi a profeta, ma, a parer mio, non si può accennare al problema psichico dell'uomo moderno senza parlare dell'aspirazione alla calma, che sorge in genere nei periodi di agitazione, o del bisogno di sicurezza, che è il portato dell'assenza di sicurezza. Dalla necessità e dal bisogno sorgono le nuove forme di esistenza e non dalle esigenze ideali o dal semplice desiderio. D'altronde non si può porre un problema, se non si considerano almeno le eventuali possibilità di risolverlo, anche se esse non sono definitive. Invece, da come oggi il problema vien posto, mi sembra che nulla si sia fatto per la sua futura soluzione. Come sempre i rassegnati aspirano ad un ritorno all'antico, mentre gli ottimisti aspirano a trasformazioni della visione del mondo e dell'esistenza. Secondo me, il nodo del problema psichico dell'uomo moderno consiste nel fascino che l'anima esercita sulla coscienza dell'uomo moderno. Ciò è un sintomo di decadenza, se è visto con occhio pessimistico; ma è un germe che promette modificazioni profonde nell'atteggiamento spirituale dell'Occidente, se visto con ottimismo. In ogni caso è un fenomeno di grande importanza e di cui bisogna tener conto, tanto più che ha le sue radici negli strati profondi dell'anima popolare e specialmente perché interessa quelle forze irrazionali dell'anima, che, come insegna la storia, trasformano improvvisamente e misteriosamente la vita e la cultura dei popoli. E sono quelle le forze, per molti [p. 298] ancor oggi invisibili, che si celano dietro l'interesse che la nostra epoca ha per la psicologia. Il fascino esercitato dall'anima non ha nulla di morboso e di perverso, è una forza di attrazione così potente, che non si

lascia spaventare neppure da ciò che è disgustoso. Lungo le vie militari del mondo tutto sembra devastato ed esausto. Per fortuna l'istinto ricercatore abbandona i sentieri battuti per volgersi altrove, come l'uomo dell'antichità ad un certo punto si liberà delle sue divinità olimpiche, per volgere il suo interesse ai misteri dell'Asia. Il nostro segreto istinto, accettando la teosofia e la magia orientale, cerca al di fuori, ma cerca anche al di dentro, se consideriamo la serietà con la quale si volge ad osservare gli strati profondi della sua anima. Esso si comporta con lo stesso scetticismo e radicalismo del Budda, che allontanava da sé, come insignificanti, i suoi due milioni di dèi, e si dedicava esclusivamente alla realizzazione della sua esperienza interiore originaria, come all'unica cosa convincente. Ed ora giungiamo all'ultima questione: «ciò che dico dell'uomo moderno, è veramente vero? o non è altro che illusione ottica?» E' fuor di dubbio che, per molti milioni di occidentali, i dati di fatto da me espressi non sono altro che inconsiderevoli combinazioni prive di valore, e che, per molti uomini di alta cultura, essi non rappresentano che deprecabili errori. Cosa pensava per esempio un antico romano colto del Cristianesimo, che si sparse dapprima negli strati più bassi della società? Il Dio occidentale è, per molti ancora, una personalità tanto vivente, quanto lo è Allah per i popoli che abitano l'altro versante del Mediterraneo; e gli uni considerano gli altri come dei miseri eretici, essi si sopportano perché non possono fare altrimenti. L'europeo intelligente invece considera la religione e le forme a lei affini come necessità per il popolo e per la sensibilità femminile, ma la loro importanza è per lui di gran lunga inferiore a quella delle questioni economiche e politiche. Di conseguenza mi si smentisce su tutta la linea e mi si considera come chi, in una giornata radiosa, [p. 299] preannunzi un imminente temporale. Forse al di là dell'orizzonte vi è un temporale in preparazione, e forse non scoppierà mai, ma i problemi della psiche stanno sempre nascosti sotto l'orizzonte della coscienza; sappiamo, quando ne parliamo, che parliamo di cose poste ai confini del mondo visibile, delle cose più intime e fragili, di fiori che si schiudono soltanto la notte. Alla luce del giorno tutto diviene chiaro e solido, ma noi viviamo anche durante la notte, che è lunga tanto quanto il giorno. Vi sono individui che fanno sogni così angosciosi, da turbare persino la loro vita di veglia. E d'altra parte la vita giornaliera è per molti un così cattivo sogno, che essi aspirano alla notte, durante la quale l'anima si sveglia. Mi sembra che oggi questi ultimi individui

siano particolarmente numerosi; anche ciò mi induce a pensare che il problema psichico dell'uomo moderno sia quale l'ho descritto. Debbo tuttavia rimproverarmi alcune parzialità, perché non ho parlato dell'anima della nostra vita mondiale, di cui molti parlano, perché è evidente per tutti. Essa si manifesta nell'ideale internazionale o supernazionale incarnato dalla Società delle Nazioni e da altre cose analoghe; inoltre nello sport e per ultimo, ciò che è veramente caratteristico, nel cinematografo e nel jazz. Questi sono sintomi assai caratteristici della nostra epoca, che con tutta evidenza estende anche al corpo fisico l'ideale dell'umanità. Lo sport denota la straordinaria considerazione in cui è tenuto il corpo, considerazione ancor più accentuata dalla danza moderna. Il cinematografo invece, come i romanzi polizieschi, permette di vivere senza pericolo le emozioni, le passioni e le fantasie, destinate, in un'epoca umanitaristica, a dover soccombere all'inibizione. Non è difficile scorgere i rapporti tra questi sintomi e la situazione psichica. Il fascino esercitato dall'anima non è altro che un nuovo modo, acquisito dall'uomo, di riflettere su se stesso, un ritorno alla natura fondamentale umana. Non c'è da meravigliarsi che il corpo, per così lungo tempo svalutato nei confronti dello spirito, ai giorni nostri sia stato scoperto di nuovo. Talvolta ci si sente quasi tentati a parlare di una vendetta [p. 300] della carne sullo spirito. Quando Keyserling proclama che il guidatore d'automobili è l'eroe della nostra civiltà contemporanea, coglie, come il più delle volte, nel segno. Il corpo reclama l'uguaglianza di diritto; anch'esso esercita, come l'anima, il suo fascino. Per chi è ancora prigioniero della vecchia idea dell'opposizione tra spirito e materia, questo stato di cose rappresenta una dissociazione, un'intollerabile contraddizione. Se invece ci si può conciliare con il mistero che fa dell'anima l'aspetto interiore della vita del corpo, e del corpo la rivelazione esteriore della vita dell'anima, vedendo in loro, anziché una dualità, una vera unità, si giunge a comprendere anche che il desiderio di superare il grado dell'attuale coscienza conduce, per mezzo dell'incosciente, al corpo, e che, inversamente, la credenza nel corpo autorizza soltanto una filosofia che non neghi il corpo in favore del puro spirito. Questa accentuazione, di gran lunga più forte di una volta, delle esigenze fisiche e psichiche, pur avendo l'aspetto di un fenomeno di decadenza, può essere anche un fenomeno di ringiovanimento, e come dice Holderlin: Là dov'è il pericolo sorge anche la salvezza.Vediamo, in effetti, che il mondo occidentale si è messo a camminare di un passo rapido, il passo americano, opposto al quietismo ed alla rassegnazione che allontanano dalla

vita. Un contrasto inaudito si presenta tra l'esterno e l'interno, o più esattamente, tra l'obbiettivo ed il soggettivo; ultima corsa, forse, dell'Europa invecchiata con la giovane America; tentativo sano o disperato, forse, di sfuggire alla potenza delle oscure leggi naturali, per conseguire la vittoria più grande, più eroica, quella del risveglio dal sonno dei popoli. A questa domanda la storia risponderà.(1928).

Indice dei nomi

Adler, Alfred, 3, 18-21, 54, 63-65, 251.Agostino, santo, 166.Anquetil du Perron, Abraham-Hyacinthe, 289, 290, 295.Bach, Johann Sebastian, 281.Barlach, Ernest, 59, 297 n.Benoit, Pierre, 135, 138, 139, 202 n, 203.Bernheim, Hippolyte, Xi.Besant, Annie, 290.Binet, Alfred, Xi.Blavatskij, Elena Petrovna, 290.Breuer, Joseph, 14.Bruno, Giordano, 210.Buber, Martin, 251.Burckhardt, Jacob, 251.Carus, Carl Gustav, Xi.Celsius, Anders, 97.Charcot, Jean-Martin Xi.Coleridge, Samuel Taylor, 64.Colombo, Cristoforo, 90.Denker, Xiv.Deussen, Paul, 295.Dieterich, Albrecht, 113.Eddy, Mary Baker, 287.Einstein, Albert, 16, 292.Ellis, Havelock, 63, 291.Eraclito, 284.Ernst, Xiv.Eysenck, Xiv.Fahrenheit, Gabriel Daniel, 97.Forel, Augusto, 63.Francesco d'Assisi, santo, 216.Frazer, James George, Xvii.Freud, Sigmund, X, Xi, Xiii-Xix, 3, 12-16, 18-20, 27, 32-36, 48, 52-65, 74, 87, 105, 124, 128, 212-14, 235, 237, 238-40, 243-249, 251, 253, 254, 282, 286, 287, 291, 293.Gall, Franz Joseph, 82.Galton, Francis, Xi.Gesù Cristo, 278.Goethe, Wolfgang, 42, 138, 178, 216, 218, 227.Gruyter, Walter de, 239 n.Haggard, Rider, 134, 138, 139, 202 n, 203.Hartmann, Nicolai, Xi.Hauptmann, Gerhart, 47.Hay, Marie, 139, 140, 202 n.Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Xi.Herbart, Johann Friedrich, Xi, 243 n.Holderlin, Friedrich, 300.Janet, Pierre, Xi, 46.Jung, Carl Gustav, Ix, Xi, Xvi-Xix, 52, 132 n, 144 n, 235, 237, 239 n, 246, 249, 251-54.Keller, Helen, 261.Kennedy, John, Xvi.Keplero, Johannes, 210.Keyserling, Hermann, 299.Klages, Ludwig, 236.Kluge, Friedrich, 266.Kranefeldt, W'M', 233, 239 n.Kretschmer, Ernst, 82.Lagerlof, Selma 202 n.Lavater, Johann Kaspar, 82.Leibniz, Gottfried Wilhelm von, Xi.Lévy-Bruhl, Lucien, 117, 131, 147, 148, 161, 162.Molière (Jean-Baptiste Poquelin), 92.Muller, Max, 295.Nachmansohn, 243 n.Napoleone I, 216.Neumann, Karl 295.Nietzsche, Friedrich Wilhelm, Xi, 4, 34, 39, 42, 273, 290.Oldenberg, Hermann, 295.Omero, 113.Otto, Rudolf, 253 n.Paolo di Tarso, santo, 58.Platone, Xi, 35, 119.Réaumur, RenéAntoine Ferchault de, 97.Reinach, Salomone, 16.Robertson Smith, Xvii.Rorschach, Hermann, 82.Rousseau, Jean-Jaques, 172, 231.Sartre, JeanPaul, Xv.Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, Xi.Schiller, Johann Christoph

Friedrich, 39, 42, 73, 82.Schmitz, Oscar A'H' von, 296.Schopenhauer, Arthur, Xi, 239, 290.Socrate, 278.Spencer, Herbert, Xvii.Spengler, Oswald, 294.Swedenborg, Emanuel, 290.Vetter, Augusto, 233, 234 n.Weininger, Otto, 246.Wilhelm, Richard, 249, 295, 296.Wyle, Elinor, 202 n.Zutt, Xiv.

.

Copertina

1

Frontespizio

2

Il Libro

3

Prefazione di Giovanni Jervis

5

Nota bio-bibliografica

17

Prefazione dell'autore

19

Prefazione dell'autore alla seconda edizione

20

Nota dell'autore alla terza edizione italiana

21

I. I problemi della psicoterapia moderna

22

II. La psicologia analitica nei suoi rapporti con l'arte poetica

44

III. Freud e Jung. Contrasti

63

IV. Scopi della psicoterapia

71

V. Tipi psicologici

87

VI. La struttura dell'anima

104

VII. Anima e Terra

122

VIII. L'uomo arcaico

141

IX. Le diverse età dell'uomo

162

X. Il matrimonio quale relazione psicologica

178

XI. Psicologia analitica e «Weltanschauung»

190

XII. «Complesso» e mito (Dott. W.M. Kranefeldt, Berlino)

212

XIII. Spirito e vita

230

XIV. Il problema psichico dell'uomo moderno

247

Indice dei nomi

268