Il pregiudizio universale. Un catalogo d'autore di pregiudizi e luoghi comuni [2 ed.] 8858126203, 9788858126202

"Pregiudizi, luoghi comuni, credenze: «sono tutte quelle cose che ognuno di noi crede di sapere sulla base non di u

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Il pregiudizio universale. Un catalogo d'autore di pregiudizi e luoghi comuni [2 ed.]
 8858126203, 9788858126202

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i robinson / letture

IL PREGIUDIZIO UNIVERSALE

Un catalogo d’autore di pregiudizi e luoghi comuni

editori laterza

© 2016, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione novembre 2016

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Edizione 6 7

Anno 2017 2018 2019 2020 2021 2022

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2620-2

Indice

XI

Nota degli editori

XIII

Introduzione di Giuseppe Antonelli

3

L’abito non fa il monaco di Antonio Marras

8

Gli africani sono pigri di Pietro Veronese

11

L’arte non c’entra con la politica di Massimo Firpo

16

L’austerità è imposta dalla Germania di Veronica De Romanis

20

I bambini sono buoni di Massimo Ammaniti

24

Le biblioteche sono luoghi noiosi di Antonella Agnoli

28

Buon sangue non mente (1) di Alberto Mario Banti

33

Buon sangue non mente (2) di Telmo Pievani

37

Nella carbonara la cipolla non ci va di Massimo Montanari

41

Usiamo solo il 10% del nostro cervello di Giandomenico Iannetti

45

Chi si ferma è perduto di Carlo Petrini

49

I ciclisti sono tutti dopati di Leonardo Piccione

53

Il cinema popolare non è arte di Enrico Vanzina

57

Le nostre città sono sempre meno sicure di Paola Basilone con Lorenzo d’Albergo V

61

I clandestini sono tutti delinquenti di Paolo Borgna

65

L’Italia va male perché è poco competitiva di Andrea Boitani

69

La corruzione ci costa 60 miliardi l’anno di Luca Ricolfi e Caterina Guidoni

73

La Costituzione deve stare al passo coi tempi di Gaetano Azzariti

77

La priorità è la crescita di Piero Bevilacqua

81

Con la cultura non si mangia di Ignazio Visco

88

La cultura è di sinistra di Umberto Croppi

92

Gli italiani sono un popolo di cicale che affonda nei debiti di Gregorio De Felice

96

La democrazia è il governo del popolo di Luciano Canfora

100 La democrazia è la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre di Sergio Romano 102 Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare di Franco Farinelli 106 La donna è mobile di Eva Cantarella 110 Dio creò la donna dalla costola dell’uomo di Sebastiano Mauri 114 Le donne non sanno guidare di Patrizia Grieco 118 Le donne sono migliori degli uomini di Loredana Lipperini 123 Gli ebrei sono intelligenti di Anna Foa 127 La famiglia è un valore di Chiara Saraceno 131 I festival culturali lasciano il tempo che trovano di Oscar Iarussi 135 I gesuiti sono ipocriti di Fabrizio Valletti VI

141 I giornali non contano più nulla di Giulio Anselmi 145 Sei troppo giovane di Laura Cardinale 149 I giovani non leggono di Giovanni Solimine 154 La globalizzazione accresce le disuguaglianze di Pietro Reichlin 160 Le ideologie sono morte di Salvatore Veca 164 Gli immigrati ci rubano il lavoro di Gianpiero Dalla Zuanna 168 L’Italia è un paese ingovernabile di Simona Colarizi 172 L’innovazione è un pranzo di gala di Francesco Daveri 176 Gli insetti sono bestie schifose di Achille Mauri 180 Siamo invasi dai rifugiati di Carlotta Sami 189 L’islam è intollerante di Franco Cardini 193 Italiani brava gente di Filippo Focardi 198 Gli italiani sono bianchi di Igiaba Scego 203 Il jazz è difficile di Paolo Fresu 207 La legge è uguale per tutti di Luigi Manconi e Stefano Anastasia 211 La letteratura italiana è morta di Nicola Lagioia 215 Leggere libri ci rende migliori di Paolo Di Paolo 219 Per pubblicare un libro occorrono le conoscenze giuste di Giuseppe Culicchia 222 La mafia è invincibile di Giuseppe Pignatone 227 Di mamma ce n’è una sola di Francesco Remotti 231 La matematica non è un’opinione di Chiara Valerio 234 Il mercato è razionale di Marco Onado VII

239 Non ci sono più le mezze stagioni di Luca Mercalli 243 In Italia c’è stato un miracolo economico di Innocenzo Cipolletta 247 La musica classica va ascoltata in silenzio di Giovanni Bietti 254 Gli adolescenti sono nativi digitali di Gino Roncaglia 259 Per le tue vacanze, ecco qua un angolo di natura incontaminata di Antonio Canu 263 Il Nord ha colonizzato il Sud di Valerio Castronovo 267 I numeri parlano da soli di Enrico Giovannini 272 Gli omosessuali sono sensibili di Paola Concia 276 Mogli e buoi dei paesi tuoi di Claudia de Lillo (alias Elasti) 280 Il pesce fa bene alla memoria perché contiene fosforo di Marcello Ticca 284 I politici sono tutti ladri di Piercamillo Davigo 289 Questi politici non ci rappresentano di Ilvo Diamanti 293 Il pubblico ha sempre ragione di Corrado Augias 298 Non c’è più religione di Zygmunt Bauman 302 La rete non ha padroni di Franco Bernabè 307 It’s only rock’n’roll di Gino Castaldo 311 I rom rubano i bambini di Santino Spinelli 318 La salute non ha prezzo di Paolo Cornaglia-Ferraris 322 La scuola italiana è fuori dalla realtà di Mariapia Veladiano 326 Noi del Sessantotto siamo gli unici ad aver provato a cambiare il mondo di Giulio Giorello VIII

329 Signori si nasce di Andrea Carandini 333 I sondaggi non ci prendono mai di Nando Pagnoncelli 337 Il Sud vive alle spalle del Nord di Gianfranco Viesti 342 Le tasse italiane sono le più alte d’Europa di Rossella Orlandi 346 Il teatro, che noia! di Elio De Capitani 350 La tecnica ci aliena di Maurizio Ferraris 355 La tecnologia guida il progresso di Francesco Antinucci 359 La televisione è superficiale di Tinny Andreatta 364 Una traduzione veramente fedele... di Valerio Magrelli 368 Gli uomini sono tutti uguali di Guido Barbujani 373 L’uomo è cacciatore di Massimo Pandolfi 377 Il web uccide le librerie di Rocco Pinto 383 Gli autori 393 Indice degli autori

Nota degli editori

Chi non ha pregiudizi scagli la prima pietra... Ciascuno ha i suoi, e quello che a me sembra un pregiudizio a un altro può apparire una verità evidente. A mano a mano che sceglievamo i pregiudizi, scherzandone in casa editrice insieme a tanti autori, ci siamo resi conto che il confine tra un pregiudizio e un luogo comune è labile, come mostra Giuseppe Antonelli nella sua Introduzione. Ringraziamo lui (anche per il titolo folgorante) e tutti quelli che hanno partecipato a questo gioco editoriale con opinioni anche molto diverse tra loro: alcuni hanno accolto le nostre proposte, altri ci hanno suggerito un altro pregiudizio. Potremo dirci soddisfatti se chi prenderà in mano questo libro, scorrendo l’indice, in almeno un caso resterà stupito...

Introduzione di Giuseppe Antonelli

Non temete, signori miei: noi avremo sempre passioni e pregiudizi, perché il nostro destino è di essere soggetti ai pregiudizi e alle passioni. (Voltaire, Dizionario filosofico, s.v. Destino)

È

nato prima il giudizio o il pregiudizio? La domanda non è banale, in realtà, perché il pregiudizio viene logicamente prima ma storicamente dopo. È solo dalla fine del Seicento, infatti, che la parola ha assunto il significato con cui è usata in questo libro. Ed è grazie alle idee illuministe importate dalla Francia che nel corso del Settecento è diventata una parola chiave del dibattito intellettuale. Ma anche una parola alla moda nel chiacchiericcio salottiero, come testimonia l’uso e l’abuso che ne fanno – all’epoca – le eroine dei romanzi d’amore e d’avventura. «Ecco formato in me a poco a poco, nell’età di soli anni quattordici, un carattere pieno pienissimo di tutti i pregiudizi del mondo, di tutte le debolezze della natura e di tutte le stravaganze del sesso» (Pietro Chiari, La viaggiatrice o sia Le avventure di madamigella E. B.). Così, quello che in latino era un giudizio anticipato in senso giuridico (il praejudicium era una sorta di accertamento preventivo) e nell’italiano medievale era già diventato un danno, un inconveniente, uno svantaggio, passa a indicare un preconXIII

cetto, un «antigiudizio». Ovvero, come riassume la definizione di un vocabolario ottocentesco: una «opinione falsa che previene il maturo e retto giudizio, prodotta da cattiva educazione o da altro mezzo vizioso». Adelante Pedro, con prejuicio Questo spiega la differenza (etimologica, anche se non sempre fattuale) tra un tipo pregiudicato e uno spregiudicato. Alla seconda categoria appartiene senz’altro Ryan Bingham, il cinico manager impersonato da George Clooney nel film Tra le nuvole (titolo originale Up in the air, 2009). Molto istruttivi, in questo senso, i consigli che dà alla sua assistente prima di mettersi in coda all’aeroporto. «Mai accodarsi a persone che viaggiano con bambini: non ho mai visto un passeggino chiudersi in meno di venti minuti» le spiega, infischiandosene del politicamente corretto. «Gli anziani sono i peggiori: hanno le ossa piene di metallo e non sembrano apprezzare quanto poco tempo gli sia rimasto su questa terra... Gli asiatici! Sono essenziali: bagaglio leggero, e hanno la fissa per i mocassini. Dio li abbia in gloria». «Questo è razzismo!», protesta lei. Al che lui replica: «Sono come mia madre, uso gli stereotipi: si fa prima». «I stereotype», dice Clooney nel sonoro originale. E in effetti, come spiega l’Enciclopedia Treccani alla voce Pregiudizio, «nella loro dimensione cognitivo-dichiarativa i pregiudizi sociali si esprimono in enunciati caratterizzabili come stereotipi. Il rapporto tra pregiudizio e stereotipo è assai stretto. Per stereotipo si intende una credenza condivisa, data per ovvia in un determinato ambiente culturale, che si esprime in convinzioni sempre generalizzanti, sempre semplificative e talora – ma non necessariamente – erronee».  Perché ci si affida ai pregiudizi? Perché si fa prima, appunto. Perché i pregiudizi non pongono domande e non chiedono verifiche. Sono lì, belli e pronti, adatti a qualunque uso: sono XIV

idee preconfezionate. Le abbiamo ricevute («ideés reçues», dicono i francesi) e ce ne serviamo per fare più in fretta («it’s faster», dice Clooney). Già: ma da chi li abbiamo ricevuti i pregiudizi? Dalla tradizione, di solito. Sono giudizi sedimentati nel tempo, diffusi attraverso il passaparola, trasmessi di generazione in generazione. I pregiudizi ci precedono, a volte di secoli; vengono da quegli antichi, che – come recita l’adagio – mangiavano le bucce e buttavano i fichi. E, sia detto per inciso, facevano male: «infatti è proprio nella polpa che i nutrienti vengono sintetizzati utilizzando l’energia solare e le sostanze tratte dal terreno. Invece le uniche funzioni della buccia sono quelle di proteggere il frutto e, se ingerita, di fornire utili fibre insolubili di tipo cellulosico» (Marcello Ticca, Il pesce fa bene alla memoria perché contiene fosforo). È da lì che arriva gran parte dei pregiudizi: da quel sapere elementare che spesso ritroviamo nella presunta saggezza dei proverbi. Un sapere che può permettersi il lusso di dire tutto e il contrario di tutto. Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia ma non sa quel che trova, certo. Ma è anche vero che chi non risica non rosica. I pregiudizi sono prima di tutto questo. Sono la maglia della salute che ci raccomandava la mamma; sono la ricetta della nonnina zucchero latte e fior di farina; sono i consigli paterni, ruvidi e mai troppo casti (la castità, si sa bene, non è una virtù che si passa di padre in figlio). Uomini e tòpoi Perché Di mamma ce n’è una sola, appunto, e poi Buon sangue non mente: Signori si nasce (tutti noi in fondo lo nascemmo, o forse «nacquimo», come avrebbe detto Totò). L’ultimo di questi pregiudizi – tra l’altro – sembra oggi più valido che mai, almeno per quel che riguarda le aspettatiXV

ve sociali. Solo che «a incidere non è tanto il ‘buon sangue’, quanto la diversa quantità di denaro a disposizione delle singole famiglie: [...] la mobilità sociale si è ridotta, e un numero crescente di giovani uomini e di giovani donne si sono ritrovati a percepire un reddito simile a quello percepito dai loro genitori» (Alberto M. Banti). La famiglia è un valore – si potrebbe dire – soprattutto in senso economico, e questo contribuisce a mettere in dubbio il principio per cui Gli uomini sono tutti uguali. Gli uomini, si dice, comprendendo nel computo anche le donne. Un’inclusione che in realtà è la spia di un’atavica esclusione. «Anche linguisticamente gli uomini sono ben protetti dai gelidi spifferi dell’uguaglianza. Basta un uomo in mezzo a cento donne, per rendere un gruppo ‘maschile’: loro sono arrivati, non arrivate. L’identità (e sensibilità) di un solo maschio prevale sull’identità (e sensibilità) di una moltitudine di femmine. Ne è sintomo la nostra resistenza a usare semplici termini come sindaca, chirurga, amministratrice delegata, avvocata o ministra. Che il ruolo, di fatto, sia ricoperto da una donna, non significa certo che siamo pronti a condividerlo anche a parole» (Sebastiano Mauri, Dio creò la donna dalla costola dell’uomo). Ancora una volta la lingua batte dove il dente duole e stavolta il dente è quello del pregiudizio. Non sarà un caso che tra i testi in italiano antico citati dai dizionari storici ci sia un poemetto in volgare d’area veneta intitolato Proverbia quae dicuntur super natura feminarum: uno straordinario concentrato di misoginia risalente alla fine del XII o all’inizio del XIII secolo. Proverbio per proverbio, ancora oggi si sente dire «Donna al volante pericolo costante», in ossequio al pregiudizio per cui Le donne non sanno guidare; o, a proposito di spifferi, ripetere la popolare aria per cui La donna è mobile (mentre L’uomo è cacciatore) o ancora ribadire il lusinghiero accostamento in base al quale Mogli e buoi dei paesi tuoi. XVI

Torniamo così alla questione della famiglia e a quel legame di sangue che continua, per molti aspetti, a essere considerato determinante. È prima di tutto sul sangue che da noi si fonda ancora oggi il riconoscimento dei diritti politici: sullo ius sanguinis. Ed è nel sangue (in tutti i sensi) che si alimenta la paura per l’altro. Quella per cui – in una serie di definizioni pericolosamente avvertite come sinonimiche – I clandestini sono tutti delinquenti, Gli immigrati ci rubano il lavoro, Siamo invasi dai rifugiati. Eppure, come spiega Telmo Pievani, «il buon sangue alias Dna viene da una mamma e da un papà, ricombinato ogni volta in modo diverso, da genitori che avevano genitori e genitori di genitori, provenienti da chissà quali angoli del mondo. L’evoluzione insegna infatti che, a guardar bene, in ogni posto sulla Terra c’è sempre qualcuno che è più autoctono di te». Il pregiudizio, spesso, è nient’altro che un luogo comune; uno spazio mentale condiviso, stretto e affollato. Consola e rassicura, si diffonde e rafforza proprio perché è comune: definisce e rinsalda la coesione di un gruppo, disegnandone un’identità. Prima ancora che etnocentrico, il pregiudizio è concentrico. Maschi contro femmine, famiglia contro società, campanile contro campanile, Nord contro Sud, italiani contro resto del mondo. (E, in molti casi, viceversa). Imbroglio e pregiudizio Il fatto è che i pregiudizi non sono mai innocenti né innocui, anche quando si presentano come neutri o addirittura positivi. Come quelli di cui racconta Maylis De Kerangal nel suo La nascita di un ponte: «Andavano per le spicce, ricorrendo agli stereotipi razziali più triti, preferendo a tal titolo il Turco forte, il Coreano industrioso, il Tunisino esteta, il Finlandese carpentiere, l’Austriaco ebanista e il Keniota geometra». Niente di peggio, anzi, degli insidiosi pregiudizi consolatori o comXVII

pensatori come quelli per cui Le donne sono migliori degli uomini, Gli ebrei sono intelligenti, Gli omosessuali sono sensibili. Qualcuno potrebbe commentare che non esistono più i pregiudizi di una volta. Già lo notava – un secolo e mezzo fa – Niccolò Tommaseo, che alla voce pregiudiziaccio del suo dizionario ironizzava sui «pregiudiziacci del liberalume che fa il Don Chisciotte contro i pregiudizii volgari». Una parte di questo catalogo, in effetti, guarda ai nuovi pregiudizi: a quelli che, riprendendo il titolo di una collana dello stesso editore, potremmo chiamare Idòla: «i falsi assiomi, che circolano ampiamente nel dibattito pubblico, senza venire confutati, malgrado la loro fragilità». Com’è facile verificare attraverso l’ordine alfabetico, a essere prese di mira sono molte parole d’ordine variamente declinate oggi in slogan che riguardano la società (globalizzazione, rete, tecnologia, web), l’economia (austerità, competitività, crescita, mercato), la politica (corruzione , costituzione, democrazia, sondaggi), la cultura (biblioteche, festival, libri, scuola). Parole e slogan su cui negli ultimi anni si sono costruite e diffuse quelle convinzioni collettive che gli autori chiamano di volta in volta dogmi, miti, superstizioni di massa. Nuovi pregiudizi che, come i vecchi, si fondano su un frainteso luogo della quantità. Si fanno forti dell’argomento ex silentio attribuito a una sedicente maggioranza silenziosa: «dal detto ‘il cliente ha sempre ragione’ si fa presto ad allargare a ‘il pubblico ha sempre ragione’ per approdare poi a ‘il popolo ha sempre ragione’» (Corrado Augias). Oggi, d’altronde, popolare non è soltanto qualcosa che viene dal popolo. È qualcosa – o qualcuno – che riscuote molto successo. Giacomo Leopardi, in un suo scritto giovanile, si concentrava sugli Errori popolari degli antichi («Tutti convengono che fa d’uopo rinunziare ai pregiudizi, ma pochi sanno conoscerli, pochissimi sanno liberarsene»). Qui si discutono alcuni valori – e timori – popolari XVIII

tra i moderni, provando a mettere in attrito credenze e competenze. La credenza è un mobile ormai démodé. Ma le credenze in quanto idee a cui ci si affida in modo fideistico sono sempre alla moda: cambiano, si trasformano, a volte resistono strenuamente al tempo. Sono tutte quelle cose che ognuno di noi crede di sapere sulla base non di una vera informazione, ma di una percezione più o meno passivamente condivisa. Come recita un facile aforisma, d’altronde, il pregiudizio peggiore è quello di chi crede di non avere pregiudizi. «Il pregiudizio è dogmatico: quelli che lo abbracciano rifiutano l’argomentazione e chiudono le orecchie ai giudizi contrari» (Zygmunt Bauman, Non c’è più religione). Proprio per questo – proprio perché i pregiudizi si presentano come idee che non ammettono verifiche o contestazioni – l’unico antidoto è discuterli in maniera dialettica, ricorrendo all’argomentazione e alla documentazione, e (perché no?) all’ironia. A contare, più del merito, è il metodo. E le contraddizioni che affiorano con una certa frequenza tra le voci di questo catalogo ne sono la garanzia, perché forse La matematica non è un’opinione ma la verità sì. Nessuno può essere d’accordo con tutte le voci dei diversi autori proprio perché quelle voci non si uniscono a un coro. Ma ognuna di quelle voci mira a metterci in crisi, a spiazzare le nostre certezze per costringerci a ripensarle sulla base di nuovi elementi.

Il pregiudizio universale

Antonio Marras L’abito non fa il monaco

«C

ome dice il proverbio... l’abito non fa il monaco», così risponde il conte zio dei Promessi Sposi al Padre Provinciale che aveva difeso Fra Cristoforo e la «gloria dell’abito», in grado di far sì «che un uomo il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso diventi un altro». Il proverbio citato da Manzoni allude ad apparenze ingannevoli. Nella mia esperienza le apparenze, molto spesso invece rivelano le persone e in particolare, occupandomi di stracci, i vestiti dicono molto di noi, anzi, come scrive Jacques Lacan, «l’Abito ama il monaco, dato che in tal modo essi sono uno». Il vestito è per me un foglio, un libro, un diario, insomma un testo, un insieme organizzato di segni che comunicano, parlano, narrano secondo regole precise, secondo un codice che mi piace trasgredire attraverso l’uso libero e personale dei tessuti, scelti, combinati, accostati in modo inconsueto così da creare giochi analogici e provocare esplosioni di significati. Tessuto e testo rimandano entrambi a una stessa origine: tessere, intrecciare. Entrambi sono il risultato di intrecci: il tessuto, di fili di lana o cotone; la poesia, di parole. Mi attrae il lavoro del poeta. Rifiuta le regole, viola i codici, libera tutti i sensi e dà voce all’inesprimibile. Io lavoro con gli stracci, il poeta con le parole. Lui compone testi, io tessuti. Perché le persone si vestono così? In che modo l’abbiglia3

mento contribuisce a costruire la loro identità, i ruoli e le posizioni che esse ricoprono nella società? È ricco e stracolmo il bagaglio di fonti della storia del costume nel corso dei secoli. Ne escono un quadro molto chiaro dell’importante ruolo sociale svolto dall’abbigliamento e dalla moda durante tutto lo sviluppo della modernità industriale e alcuni stimolanti suggerimenti, in vista della comprensione della società che ci aspetta in un prossimo futuro. Mi affascina sapere che gli abiti hanno influenze morali, politiche e religiose e che attraverso gli abiti si possono comprendere alcuni princìpi dell’esistenza umana. Mi affascina sapere che gli abiti contengono tutto ciò che gli uomini hanno pensato, sognato, ciò che sono stati e ciò che vorrebbero essere. Gli abiti sono una chiave di lettura del mondo, una metafora dell’essere e lo specchio della realtà contraddittoria del mondo. Io provengo da una terra dove tutto, nel vestire tradizionale, parla e comunica: gli abiti esprimono la dimensione sociale, le memorie, i valori e i segreti delle persone che li indossano. I decori sono carichi di significati simbolici: amuleti e intarsi di tessuti danno vita a soluzioni in cui convivono storia e identità. Una realtà molto complessa quella sarda, e anche August Sander nel 1927 ha organizzato un viaggio in Sardegna proprio perché interessato a registrare la particolare realtà di quest’isola. August Sander, autore della monumentale opera fotografica Uomini del XX secolo, intuisce che la «verità» del ritratto ha molto a che fare con l’abito, e realizza una specie di catalogazione della società tedesca dei primi del Novecento, durante la Repubblica di Weimar. Uomini del XX secolo è suddivisa in varie sottosezioni che presentano varie categorie umane: I Contadini, Gli abili Commercianti, Le Donne, Classi sociali e Professioni, Gli Artisti, La Città, Gli Ultimi. I suoi ritratti offrono uno sguardo attento, fedele, e reale degli uomini del suo 4

tempo. Contadini, banchieri, macellai, marinai, muratori... Il governo nazista censura le sue foto, insieme a tanta arte definita «degenerata», perché considera l’opera poco corrispondente all’ideale del perfetto tedesco ariano propagandato dal partito. L’effetto delle migrazioni, ad esempio, è stato la creazione di tipologie umane radicalmente nuove. Persone che sono radicate alle idee piuttosto che ai luoghi, ai ricordi piuttosto che alle cose materiali, persone che sono state obbligate a definirsi, poiché gli altri le hanno obbligate a definirsi in tal modo in relazione alla loro diversità; persone nel cui profondo avvengono strane fusioni, unioni senza precedenti tra ciò che erano e dove si trovano. E anche le età sono parte di questo discorso, l’infanzia, l’adolescenza in particolare. Mio figlio (per citare qualcosa di molto vicino a me), in età prescolare, era sempre vestito di quadri, righe, fiori e coloratissimo. Un giorno ci ha pregato di vestirlo in blu e camicia bianca... aveva bisogno di omologazione, di non sentirsi diverso. Desiderio che, devo dire, è durato il tempo di un lampo. Poi ha attraversato tutte fasi pre- e post-adolescenziali di dovere; è stato PUNK: e dunque borchie, bandiera britannica, jeans strappati, spille da balia e God save the Queen come colonna sonora... Poi è stato EMO: quindi tristissimo e con il ciuffo piastrato sul viso (abbiamo anche acquistato la piastra in ceramica di ultima tecnologia) e unico colore ammesso il plein black... insomma insopportabile e noioso... rimpiangevo la solarità del punk d’antan. Poi è stato NERD (pare che fosse diventato anche miope per poter indossare gli occhiali ma è risultata solo suggestione), e ancora dopo MOD. Ora ha sviluppato uno stile personale che si rifà al BOBO-CHIC e il «vivo tra Los Angeles e New York». Trasandato con accuratezza. L’apparenza non inganna, lui è come appare. Si veste come vuole essere, ed è come è vestito. In realtà la scienza spiega questo fenomeno (anche se non 5

credo che mio figlio lo sappia...): si tratta di cognizione incarnata (embodied cognition), una delle branche più affascinanti della psicologia che mette in correlazione il nostro corpo e la nostra mente. Quando la moda sprigiona la sua forza e la sua carica rivoluzionaria l’abito diventa espressione dell’io che in esso abita e vive le sue abitudini e le sue ansie. La moda ci consente di sentirci integrati nel contesto sociale, ci dà l’illusione di aver abbattuto la distanze tra noi e la realtà esterna, di costruire il modo in cui formiamo quella «Persona» che, come diceva Jung, rappresenta il nostro «Essere sociale». Tutto si basa su una lotta contro l’apparenza e la prima impressione. L’accento è puntato sulla verità, sulla realtà, su ciò che ci rappresenta davvero. L’orientamento sessuale, l’abito, il trucco e i tatuaggi sono alcuni degli elementi che maggiormente influiscono sul giudizio che noi ci facciamo dell’altrui. Del resto il nostro cervello, anche quello meno soggetto ad influenze e pregiudizi, impiega circa 10 secondi per valutare una persona nuova, a farsi un’idea, a giudicarla. Come si veste, come si presenta, come si atteggia. In generale la sua comunicazione non verbale. Che sia giusto o no siamo molto influenzati dall’apparenza e l’abito è uno strumento per raccontarsi, per costruire la propria identità, per proteggersi. L’abito è un simbolo, qualcosa che svia e crea un’apparenza, il protagonista di una finzione e di un mistero. L’uomo ha sentito, da sempre, il desiderio di «vestire», «abbellire», «abbigliare» il suo corpo. Moda vuol dire misura, modo, maniera, forma, regola, tempo, ritmo, moderno. È simbolo del finire di tutte le cose, trionfo della trasformazione, dell’effimero e del rinascere. L’abito è l’elemento che permette a ogni individuo di diventare un collage vivente, un’installazione che può cambiare con il cambiare della propria identità o del gioco delle metamorfosi. 6

Da muto e umile oggetto, l’abito può esprimere le idee più sovversive e diventare strumento di lettura della realtà. Parla un linguaggio universale, capace di abbattere limiti di tempo e di spazio, capace di far capire come è il mondo e come potrebbe essere. Del resto, dice Lacan: «L’inconscio [...] è strutturato come un linguaggio. Ebbene, anche il vestito lo è!».

Pietro Veronese Gli africani sono pigri

O

gni pregiudizio ha il suo reciproco. Un giorno ci divertiremo ad ascoltare quelli degli africani su di noi: i bianchi si lavano poco; i bianchi alzano la voce e perdono troppo facilmente il contegno; i bianchi sono sporchi, prova ne sia il fatto che si soffiano il naso e quello che ne viene fuori poi lo piegano in una fazzoletto e se lo conservano in tasca. Ce n’è una lunga serie e sono spesso molto divertenti. Noi diciamo «africani» ma pensiamo «neri»; è un tributo pagato al linguaggio politicamente corretto. Gli africani (i neri) non se ne fanno un gran problema. Ma anche questo fatto del bianco e del nero, che ha sempre causato e ancora continua a causare molta impressione agli umani, dando luogo nei secoli a sistemi economici e sociali ferocemente ingiusti, è a ben vedere un pregiudizio. Che bianchi e neri siano esseri diversi è altrettanto evidente del fatto che la Terra è ferma e il Sole le gira intorno: è quello che crediamo di poter facilmente osservare ogni giorno. In realtà, la genetica ci ha ampiamente spiegato che la pigmentazione della pelle è una variazione infinitesima, del tutto marginale, insignificante, irrilevante del patrimonio genetico. Immeritevole persino di un pregiudizio. Siamo al livello di attendibilità de La donna riccia di Domenico Modugno: «Da ogni ricciu / te caccia nu capricciu»... Anche volendo prendere alla lettera la parola «africani», cioè come una connotazione geografica e non legata al colore 8

della pelle, appare molto difficile applicare un (pre)giudizio a un miliardo e centomila persone, dislocate dalla costa mediterranea al Capo di Buona Speranza, dall’Oceano Atlantico all’Indiano e dalle carovane del Sahara ai grattacieli di Johannesburg. È pur vero che si è sempre oggetto del pregiudizio di qualcun altro, e all’interno di un continente così variegato e vasto – l’Africa contiene tre volte l’Europa – ce n’è per tutti i gusti. Anche qui, sono molto divertenti i pregiudizi di africani verso altri africani e come sempre in questa materia si è inclini a pensare che ci sia qualcosa di vero: i congolesi cialtroni, i ruandesi arroganti, i somali furbi e «chiagni e fotti» e così via. Ma ognuno tiene ai pregiudizi suoi e dobbiamo dunque venire a questa storia degli africani che sono pigri. È una delle più radicate e dura da molto tempo. Almeno da quello dello Stato Libero del Congo di re Leopoldo II del Belgio (1885-1908), dove la Force publique tagliava le mani agli indigeni che non rispettavano le quote di raccolta del caucciù (naturalmente non ai lavoratori, i quali non avrebbero più potuto svolgere le mansioni richieste, bensì ai famigliari, mogli e figli). La versione più recente l’ho sentita in Malawi da un vescovo a fine carriera, lombardo di nascita, il quale raccontava che lui da bambino lavorava nell’officina paterna e questi qui, invece, se ne stanno in panciolle fuori della capanna a raccogliere i frutti caduti dagli alberi. (La maggiore esportazione del Malawi è il tabacco, nelle piantagioni lavorano – o lavoravano, si spera, oggi magari non più – decine di migliaia di bambini, dall’alba al tramonto per paghe da sopravvivenza: pigri non li si potrebbe definire, ma cosa volete che vi dica?). La prova del nove per dimostrare che un pregiudizio è tale è saggiare la verosimiglianza del suo contrario: l’Africa si potrebbe a buon diritto definire il continente della fatica. Dagli allevatori nomadi del Sahel ai contadini delle zone umide, dai facchini di Mombasa ai minatori sudafricani, dalle fascine caricate sul capo delle donne alle pietre spaccate a forza di braccia 9

l’Africa è un mondo di schiene spezzate ed estenuanti corvé. Guardate le colline del Ruanda coltivate a terrazze fino all’ultima piega del suolo, i cacciatori Masai che si perdono camminando per giorni in un territorio infinito, le notti insonni delle infermiere negli ospedali sovraccarichi del Mozambico e dite dov’è, in tutto questo, la pigrizia. Ogni pregiudizio ha il suo rovescio e quando accusiamo qualcun altro di essere pigro forse intendiamo soltanto nascondere la pretesa che quel qualcuno fatichi per noi. Cerchiamo di occultare una pigrizia che è soltanto nostra. Il pregiudizio, alla fine, è uno specchio: crediamo di vedere qualcun altro ma in realtà colui che stiamo indicando siamo noi stessi, riflessi. Un amico, stimato sociologo, osservando dei portuali africani caricare caoticamente la stiva di un battello ne dedusse il disadattamento culturale di un intero continente davanti alle esigenze della logica capitalistica. Lui però se ne stava a guardare dal parapetto. Un’amica, celebre economista, mi disse una volta la frase seguente: «se in tutte le società i neri sono il gruppo meno performante ci sarà pure un motivo». Ma non mi risulta che lei abbia mai dovuto battersi per accedere agli studi o all’università. A parte il fatto che ci sarebbe da interrogarsi sui criteri per definire la performance. E anche sulla scelta dei gruppi. Anche qui la genetica ci offre robusti argomenti. La genetica storica, in questo caso. Allo stato attuale delle conoscenze, è dimostrato che noi umani del XXI secolo siamo tutti discendenti di un comune antenato venuto dall’Africa (Guido Barbujani, Gli africani siamo noi, Laterza 2016). Tutti africani, dunque. E tutti, umanamente, pigri. Ma anche no.

Massimo Firpo L’arte non c’entra con la politica

C

apita ancor oggi di udire una simile baggianata dalla bocca di qualche anima bella, tenacemente legata a un’idea tutta e solo estetica dell’arte. Fin dalla preistoria, checché se ne dica, non fu questo lo scopo delle immagini (la cosiddetta Venere di Willendorf non è proprio una bellezza!), che avevano piuttosto intenti propiziatori sulla fecondità delle donne, la caccia degli animali, il corso degli astri. In altri termini, fin dalla notte dei tempi l’arte si è occupata di politica (così come la politica si è occupata di arte), e da allora in poi lo ha sempre fatto. Ed è ben noto che la politica ha sempre coinciso – o almeno si è mescolata a piene mani – con la religione, e che questo connubio ha costituito un potente propulsore di immagini e di arte. A cominciare dai faraoni dell’antico Egitto, che per qualche millennio hanno elevato al cielo le loro immense piramidi, i loro obelischi, le loro possenti statue, o sono stati effigiati nei volti immobili e inespressivi cui sono dedicati i loro templi o le loro tombe. Così l’arte classica, che ha narrato le imprese delle sue divinità e dei suoi eroi, grandi guerrieri immortalati sui vasi attici, vincitori di olimpiadi, filosofi e tiranni, ha esaltato imponenti conquiste su archi di trionfo e bassorilievi celebrativi, ha immortalato consoli e imperatori sulle monete di cui il loro profilo garantiva il valore da un capo all’altro del Mediterraneo. Su questo universo pagano il cristianesimo agì come una tempesta iconoclasta, destinata a riproporsi nell’VIII secolo a Bisanzio, così come nel XVI secolo nel mondo della Riforma 11

europea. Ma papa Gregorio Magno si sentì ormai così forte alla fine del VI secolo da affermare la liceità delle immagini come Biblia pauperum, Bibbia dei poveri analfabeti incapaci di leggere, strumento pedagogico per insegnare loro la storia della Rivelazione cristiana. A quella coraggiosa scelta politica l’Europa dovette tutta quanta la sua straordinaria produzione artistica, dai mosaici bizantini a Wiligelmo, da Giotto a Michelangelo, da Van Eyck a Tiziano, da Antonello da Messina a Rubens, da Cellini a Tiepolo, mentre le altri grandi religioni rivelate, ebraismo e islamismo, restavano prigioniere del loro monoteismo assoluto e aniconico, continuando a combattere le immagini come superstiziose e idolatriche. Ne sarebbe scaturita la straordinaria raffinatezza decorativa dell’arte musulmana, capace di scrivere e celebrare in ogni possibile modo il nome di Allah, ma pittura e scultura sarebbero restati patrimonio esclusivo dell’Occidente europeo. Qui l’arte sacra avrebbe accompagnato, legittimato e celebrato l’affermarsi della potenza ecclesiastica lungo tutti i secoli del Medioevo, raccontando le storie bibliche, la passione di Cristo, le vite della Vergine e dei santi, e costruendo in tal modo a beneficio dei fedeli un complesso edificio devozionale di cui la Chiesa si poneva come garante, sfruttandone anche le risorse in termini di offerte, elemosine, pellegrinaggi, voti, obbedienza. Dovunque davanti a quelle immagini i monaci cantavano i salmi, i preti celebravano la messa e i fedeli si inginocchiavano in preghiera. Politica allo stato puro, insomma, come appare in tutta evidenza, per esempio, nel cuore stesso delle liturgie papali, nella cappella Sistina, i cui straordinari affreschi raccontano la historia salutis del genere umano: la creazione, il diluvio universale e le storie di Noè sulla volta; l’antico patto siglato da Mosè e l’avvento di Cristo sulle pareti, preparato dal silente snodarsi dei suoi antenati nelle lunette e annunciato dai profeti e dalle sibille nei pennacchi; la predicazione di san Paolo e di san Pietro a tutte le genti negli arazzi raffaelleschi e il 12

giudizio universale sulla parete d’altare. Il tutto sotto lo sguardo vigile dei pontefici che sfilano tra le grandi finestre in alto, a garanzia dell’ininterrotta autorità magisteriale della Chiesa di Roma e del suo primato universale, mentre gli stemmi e i serti di quercia dei Della Rovere celebrano i due papi della famiglia, Sisto IV e Giulio II, che avevano commissionato quel ciclopico capolavoro. Non meno esplicitamente politica sarebbe stata l’arte al servizio delle magistrature comunali, come le pitture infamanti dei rei appesi a testa in giù o l’Allegoria del buono o del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti nel palazzo pubblico di Siena; oppure al servizio di sovrani, principi, condottieri, dinastie, grandi aristocratici, autorevoli prelati, per evocare non solo il loro potere e la loro gloria, ma la sacralità di quel potere e l’eternità di quella gloria consegnate alla duplicità dei loro corpi scolpiti l’uno sopra l’altro nel fulgore dei loro paramenti e nella decomposizione della loro carne: State portraits da diffondere in tutte le corti, rutilanti armature da parata, bastoni di comando, cavalli rampanti e monumenti equestri, ieratica compostezza o eroico valore in battaglia, scettri, corone, mondi sormontati dalla croce in oro splendente, gesti della sovranità, come le ginocchia esposte a rappresentare la giustizia, teschi e ossa incrociate nei solenni monumenti funebri, apparati celebrativi densi di evocazioni classiche o di simboli esoterici per festeggiarne le joyeuses entrées o le benevole epifanie al popolino fedele e festante. Politica fu l’arte di Caravaggio, non solo con i piedi sporchi dei pellegrini a Loreto esibiti in primo piano (mentre il dilagante pauperismo e le tragedie della guerra dei Trent’anni facevano affacciare sulla scena della pittura i miserabili, i derelitti, gli straccioni), ma soprattutto con i riferimenti alla conversione di Enrico IV di Borbone nelle tele della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Politica fu l’arte di Bernini, con il grandioso colonnato di San Pietro che diventa l’abbraccio universalistico della Chiesa di Roma, mater 13

et magistra di tutte le altre. Anche in futuro tutta politica sarà l’arte, quando tra Sette e Ottocento si vorranno celebrare le virtù laiche e civili dell’uomo comune, del citoyen, o promuovere il culto della dea ragione o degli alberi della Rivoluzione o del Napoleone alla guida della Grande Armée, fino ai goffi panni imperiali in cui si fece immortalare da Ingres e da David. Il che avvenne anche quando la nuova sensibilità romantica scoprì l’evasione bucolica nel paesaggio, la terribile grandezza dei panorami alpestri, gli affetti privati di mogli devote e rosei figlioletti. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati all’infinito. Certo, non mancano le eccezioni, dalle nature morte olandesi alle scene di genere, che tuttavia a ben vedere sempre e comunque ci raccontano qualcosa del loro tempo e non lo fanno mai in modo neutrale. Anche negli assorti interni di Vermeer compaiono spesso alle pareti le minuziose carte geografiche che celebrano le imprese marinare degli olandesi, mentre nelle silenti cattedrali fiamminghe di Pieter Saenredam la vittoria del calvinismo si riflette nelle pareti spoglie, deprivate di ogni immagine sacra. Anche l’insulsa pittura accademica dell’Ottocento rivela scelte e orientamenti politici, ora di compiaciuta subalternità sociale ai ceti dominanti ora di passioni patriottiche che vibrano nelle immagini dei fieri garibaldini che costruiscono la nazione o negli episodi di vita dei grandi del passato. E tutta politica, anche nei risvolti sociali della cosiddetta bohème artistica, sarà la reazione ai virtuosismi tecnici di tale pittura, così come la svolta irreversibile imposta a pittori e scultori dalla nuova tecnica fotografica, fino al Quarto stato di Pelizza da Volpedo e al Guernica di Picasso, alla truculenta satira sociale degli espressionisti tedeschi, alle passioni infantili dei futuristi, alle criptiche allusioni di simbolisti e surrealisti. Proprio qui, del resto, si cela il significato stesso dell’arte come veicolo di messaggi, come strumento di potere, come espressione della storia e dei suoi incessanti cambiamenti che non si esauriscono nel mutare delle categorie estetiche né in 14

un’arida successione di stili, di gusti, di tecniche, ma riflettono identità, bisogni, progetti, valori, credenze, miti, rapporti e gerarchie sociali, ecc. Il che in una certa misura vale ancor oggi, nonostante l’inarrestabile subalternità dell’arte contemporanea a leggi di mercato non sempre trasparenti, che sfrangia e decompone i messaggi accontentandosi di essere provocazione, dalla Merda d’artista di Manzoni ai bambini impiccati di Cattelan. Né può essere molto di più se il potere che la muove non è quello della politica ma quello del denaro. Il che tuttavia, alla lunga, la rende un po’ noiosa.

Veronica De Romanis L’austerità è imposta dalla Germania

«L’

austerità è imposta dalla Germania», questa la conclusione quasi unanime dopo cinque anni di una crisi – la più grave dal dopoguerra – che stenta a volgere verso una soluzione. La maggioranza degli esponenti politici accusano il governo di Berlino di aver costretto l’Europa al rigore, ossia, a politiche di bilancio restrittive volte unicamente a rispettare vincoli anacronistici ed inutili. Nell’accusare la Germania, c’è chi si è spinto oltre. Per l’ex ministro dell’Economia greco, Yannis Varoufakis, ad esempio, non c’è stata solo imposizione, ma anche accanimento. In particolare verso il suo paese. «La Germania», sostiene, «ha messo la Grecia sotto l’acqua», come in un «Waterboarding finanziario», che ha obbligato i cittadini a vivere nel «terrore permanente di essere asfissiati». Secondo Varoufakis i tedeschi avrebbero imposto l’austerità ai paesi debitori con l’unico scopo di umiliarli, agli altri, invece, con quello di affossarli per continuare a primeggiare all’interno dell’unione. Ma perché mai la Germania, il primo paese esportatore d’Europa, dovrebbe trarre vantaggio da partner commerciali indeboliti? E perché dovrebbe avere interesse a far parte di un’area monetaria in cui gli Stati in difficoltà non sono messi nelle condizioni di poter risolvere i loro problemi? In effetti, non è facile trovare una spiegazione razionale a questi interrogativi. C’è, quindi, da chiedersi se «l’austerità imposta dalla Germania» non sia piuttosto uno slogan usato dai populisti europei per guadagnare consenso, e, nel caso di chi ha governa16

to, per nascondere la propria incapacità a risolvere problemi interni. Quando un paese ha vissuto per molto tempo al di sopra dei propri mezzi, ad imporre l’austerità – ossia la correzione di politiche fiscali squilibrate – ci pensano, innanzitutto, i mercati. Continuare con altro debito non è una strada percorribile. Arriva un momento in cui gli investitori internazionali non si fidano più perché vengono meno le condizioni per garantire il rimborso dei prestiti fatti in precedenza. E, così, smettono di comprare titoli di Stato. A quel punto, rimettere i conti in ordine diventa l’unico modo per continuare ad ottenere finanziamenti. Questo è esattamente ciò che è successo alla Grecia all’inizio della crisi. Ripartire da questo caso può, quindi, essere utile. La Grecia è entrata nell’Unione monetaria nel 2001 e, negli anni successivi all’adozione della moneta unica, ha registrato tassi di crescita sostenuti. Tra il 2002 e il 2006, il Pil è aumentato in media del 4,2 per cento, tre volte quello della zona euro (1,8 per cento), quattro volte quello dell’Italia (1 per cento). Il paese, tuttavia, non ha una struttura produttiva per essere così ricco: produce molto poco di quello che consuma e finanzia i beni importati con soldi presi a prestito. In soli due anni, il deficit di bilancio è passato dal 7 al 10 per cento e quello delle partite correnti dal 10,3 al 14 per cento: dinamiche di questo tipo avrebbero dovuto servire da campanello di allarme e, invece, sono state sottostimate dagli analisti internazionali. La crescita economica è stata sostanzialmente trainata dalla spesa pubblica: il rapporto rispetto al Pil è aumentato di quasi cinque punti percentuali (dal 46 per cento al 51 per cento) in poco meno di quattro anni. L’incremento è ascrivibile in larga parte ad un settore pubblico sempre più esteso (nel 2008 i dipendenti pubblici sono oltre un milione su una popolazione di circa dieci milioni di abitanti) e sempre più generoso sia con chi ne fa parte (nel pubblico si guadagna in media una volta 17

e mezzo in più del privato) sia con chi è andato in pensione (le storie delle figlie nubili di dipendenti pubblici con diritto alla pensione invaderanno i giornali di tutta Europa). È chiaro che un simile modello di sviluppo – caratterizzato da scarsa produzione, bassa competitività, costante perdita di quote di mercato e, soprattutto, finanziato con debito pubblico (il rapporto rispetto al Pil è salito dal 98 per cento del 1999 al 109,4 per cento del 2009) – non poteva essere a lungo sostenibile. E, infatti, nell’autunno del 2009, a seguito della chiusura dei mercati, l’allora primo ministro Papandreu dovette chiedere aiuto ai partner europei. Non fu facile trovare un accordo. All’inizio, prevalse l’impostazione che i contribuenti non dovevano pagare per colpe altrui. Anche perché, per stessa ammissione dell’esecutivo ellenico, i conti erano stati truccati: il deficit di bilancio ammontava, infatti, a circa il 15 per cento del Pil, cinque volte quanto dichiarato nei documenti ufficiali. La crescente tensione sui mercati finanziari fece, tuttavia, ben presto cambiare idea ai leader dell’Unione: al vertice dei capi di Stato e di governo del maggio 2010 fu dato il via libera a 110 miliardi di euro di finanziamenti. In cambio, Atene si impegnava a riportare le finanze pubbliche su un sentiero sostenibile. La cosiddetta Troika (Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea e Commissione Europea) avrebbe vigilato sui progressi compiuti, garantendo l’erogazione delle tranche del prestito solo in caso di esito positivo. Senza il rispetto delle condizioni concordate (che prevedevano riforme strutturali e consolidamento fiscale), del resto, gli aiuti sarebbero diventati trasferimenti tra Stati, vietati dai trattati (no-bail out clause, art. 125 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea). E, poi, la solidarietà sarebbe stata scambiata per assistenzialismo, l’antitesi della crescita. Le condizioni imposte alla Grecia nel primo pacchetto di aiuti sono state considerate da molti troppo severe e, quindi, impossibili da rispettare. Era il primo caso di salvataggio e l’ec18

cessivo rigore probabilmente doveva servire al duplice obiettivo di rassicurare i creditori – a cominciare dagli azionisti non europei del Fondo monetario internazionale – e scoraggiare eventuali futuri debitori. Tuttavia, con il secondo pacchetto – 130 miliardi di euro – la Grecia ha ottenuto una serie di agevolazioni (cancellazione del 53,5 per cento del valore nominale del debito, allungamento delle scadenze, introduzione di un periodo di grazia per il pagamento degli interessi e riduzione dei livelli dei tassi) tanto che, attualmente, il costo medio del debito greco è inferiore a quello italiano. Condizionalità a fronte di prestiti sono, però, necessarie. Altrimenti sarebbe difficile trovare investitori disposti a finanziare un paese sull’orlo della bancarotta. Basti ricordare che durante i negoziati del terzo pacchetto greco (circa 80 miliardi di euro), nella primavera del 2015, a chiedere condizioni «severe» erano in tanti. In primo luogo, i paesi del Nord, quelli virtuosi con i conti in ordine. In secondo luogo, i paesi del Sud, quelli che hanno fatto l’aggiustamento, come la Spagna, il Portogallo, e Cipro (ma anche l’Irlanda), e, pertanto, hanno pagato un elevato costo politico. Infine, i paesi di nuova adesione, come la Lettonia e la Lituania, costretti in quanto membri dell’Unione monetaria a contribuire al salvataggio ellenico nonostante una ricchezza pro capite ben inferiore a quella della Grecia. In conclusione, in un’Unione monetaria con diciannove politiche fiscali, le finanze allegre di un paese possono avere un impatto sulla stabilità dell’intera area: la recente crisi lo ha dimostrato. Mantenere conti in ordine è, pertanto, fondamentale. Altrimenti, sono i mercati a chiedere una correzione. E, poi, gli altri Stati membri, nessuno escluso. Pertanto, continuare a considerare la Germania come «il poliziotto cattivo» che impone dure politiche restrittive è fuorviante. Tra l’altro, in tedesco il termine austerità neanche viene utilizzato: si parla di risparmi per salvaguardare le future generazioni. 19

Massimo Ammaniti I bambini sono buoni

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algo sul treno ad alta velocità dopo una settimana pesante; ecco il mio posto, vicino al corridoio come avevo prenotato. Mi siedo, per fortuna non ho nessuno accanto, posso appoggiare la mia valigia sul sedile libero e prendere il computer e gli appunti che mi servono per scrivere finalmente un articolo che aspetto di finire da tempo. Il treno parte, sono quasi compiaciuto di trovarmi in questa bolla di sospensione in cui mi sento al di fuori del mio trantran quotidiano. Ma dopo un po’ vengo quasi investito da un bambino di tre-quattro anni che corre all’impazzata avanti e indietro nel corridoio totalmente assorbito da se stesso. Attendo che la corsa finisca, penso si stancherà, invece continua a correre sbattendo i piedi, urtando i braccioli dei sedili. E i genitori? Non vedo nessuno che intervenga. Decido allora di guardarlo con una certa severità, ma il bambino non mi presta attenzione; allora con aria infastidita mi rivolgo a lui dicendogli che non deve fare rumore e disturbare. Non succede nulla, il bambino continua a correre, vorrei intervenire ma mi dico anche «non ti dimenticare che sei un neuropsichiatra infantile, non te la puoi prendere con lui». Ma forse la verità è che non vorrei trovarmi di fronte a un genitore che mi guardi con aria di compatimento e che mi dica: «Ma è un bambino, sta solo correndo!». Non posso non pensare ai luoghi comuni che avvolgono l’infanzia, primo fra tutti che i bambini sono buoni, mentre siamo noi adulti ad essere cattivi. Vi è una lunga tradizione nel mon20

do occidentale a considerare i bambini «creature innocenti», che vengono guastate dal mondo degli adulti. Sicuramente gli adulti hanno responsabilità e colpe a non finire, ma forse il mito del bambino che è sempre buono non aiuta a interagire con i bambini. Mi ritornano alla mente le parole di Cristo a proposito dei bambini: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,3-4). Cristo ha detto sicuramente parole rivoluzionarie per quanto riguarda l’infanzia; i bambini al pari degli animali erano un possesso della famiglia senza nessun diritto, vittime della sopraffazione e della violenza degli adulti a cui erano costretti ad assoggettarsi. Ma forse questo intendimento salvifico verso l’infanzia ci ha tramandato un’immagine unidimensionale dei bambini a cui non viene riconosciuta una verità più complessa. Lo stesso Jean-Jacques Rousseau molti secoli dopo, nel suo libro Émile ou De l’éducation, sostiene il «il gran principio della bontà originaria dell’uomo» che verrebbe guastata dai rapporti sociali. Ma è solo con la lezione di Freud che il bambino viene ad assumere una fisionomia diversa, per certi versi inquietante perché ribalta i luoghi comuni sull’infanzia, che in realtà non erano serviti a proteggerla. Secondo Freud il lattante è profondamente egoista, perché risponde al principio del piacere che lo spinge a ricercare la soddisfazione in primo luogo a livello orale, e solo successivamente riconosce il valore della relazione con la madre. Ma Freud introduce anche la pulsione di morte che sarebbe attiva fin dalla nascita e che secondo la psicoanalista Melanie Klein, che si è molto occupata di bambini, si deflette nell’aggressività che spingerebbe il lattante a fantasticare di mordere e attaccare il seno materno. Il bambino della psicoanalisi freudiana è molto diverso da quello descritto 21

da Rousseau, perché fin dall’inizio della sua vita deve fronteggiare la propria aggressività per non danneggiare il rapporto con le figure d’amore. Questa immagine apocalittica del bambino sembra ribaltare la supposta innocenza dei bambini, i quali sono al contrario profondamente gelosi e invidiosi quando si confrontano con i propri genitori. Probabilmente, come scrisse lo psicoanalista francese Serge Lebovici, i bambini «sono cattivi ma non malvagi» intendendo con questo che possono essere aggressivi quando vogliono raggiungere qualcosa o quando si sentono esclusi oppure quando vogliono difendersi da un pericolo, ma non sono malvagi perché non godono a far del male agli altri, come a volte succede agli adulti. Probabilmente la visione di Freud e della Klein riflette la concezione mitteleuropea della Riforma luterana secondo cui occorre sradicare il demonio che possiede il bambino fin dalla nascita. Un’illustrazione particolarmente appropriata è la figura del bambino fuori da ogni regola nella favola di Struppelpeter, tradotto in italiano come Pierino Porcospino: «Egli ha l’unghie smisurate che non furono mai tagliate; i capelli sulla testa gli han formato una foresta densa, sporca, puzzolente. Dice a lui tutta la gente: ‘Oh, che schifo quel bambino! È Pierino il Porcospino’». Forse queste immagini sono la negativa di quella del bambino buono, ma entrambe sono poco corrispondenti alla realtà. La ricerca più recente, quella ad esempio di John Bowlby e dell’infant research, ha messo in luce l’importanza dei legami di amore che il bambino stabilisce con le figure di attaccamento che garantiscono la sua sicurezza. Il bambino prova sentimenti di profonda tenerezza e di condivisione verso le figure che si curano di lui, ma quando sente che la sua sicurezza personale è minacciata perché gli adulti non provvedono ai suoi bisogni può reagire con rabbia ed aggressività per ottenere che l’adulto modifichi il suo comportamento. Si possono facilmente 22

osservare questi comportamenti all’uscita dei nidi quando la madre o il padre vanno a riprendere il figlio. Quando il figlio o la figlia viene preso in braccio e il genitore si aspetta di essere abbracciato con affetto può succedere che il bambino dia uno schiaffo o tiri i capelli al genitore, che rimane interdetto per quella reazione. In altri termini il bambino è arrabbiato col genitore per essere stato lasciato al nido e lo punisce in modo rabbioso; può essere cattivo col genitore per fargli capire che deve modificare il suo comportamento, ma non è malvagio, come appunto ha scritto Serge Lebovici.

Antonella Agnoli Le biblioteche sono luoghi noiosi

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ucia si mette in posizione – mani davanti al petto, gambe allargate e piedi scalzi ben piantati per terra – e guarda il tizio che sta davanti a lei con l’aria di dire: «Adesso ti faccio vedere io, anche se ho solo sette anni». Il suo interlocutore (alto e grosso il doppio, tuta bianca e cintura nera) è l’istruttore di arti marziali venuto a Fano per il compleanno della MeMo, la struttura nata nel 2010 grazie alla collaborazione tra un mecenate locale, l’armatore Corrado Montanari, e il Comune. Fano è una delle molte biblioteche dove si possono seguire corsi di arti marziali (ma anche di cucito, di origami, di cucina) oppure realizzare un prototipo su una delle stampanti in 3D. Se andiamo a Cinisello, nel centro culturale «Il Pertini», troviamo una ragazza che studia attentamente i Cd musicali di cui la biblioteca offre una scelta con migliaia di titoli. Lo fa, però, tenendo al guinzaglio il suo barboncino bianco che, al contrario di quanto si potrebbe pensare, in questa nuova struttura è ammesso senza problemi. Per lei, come per decine di teenager della città, la mediateca è diventata un luogo dove darsi appuntamento con le amiche tutti i pomeriggi. Fano e Cinisello sono solo due delle biblioteche italiane che negli ultimi anni si sono trasformate in «piazze del sapere», cioè in luoghi dove il sapere (sotto forma di libri e di documenti audiovisivi) è ben presente ma dove, nello stesso tempo, si chiacchiera, si gioca, si frequentano corsi, si ottengono informazioni. Strutture dove si leggono storie ai più piccoli e magari 24

si dorme per avventurose notti in biblioteca, un territorio che i bambini si gettano a esplorare con entusiasmo, o si impara a giocare a scacchi, come a Cavriago (Reggio Emilia). Se si entra a Sala Borsa a Bologna si trovano un pianoforte e delle rovine romane, una vastissima dotazione di fumetti e una piazza coperta dove si può prendere un caffè chiacchierando con gli amici, mentre all’ultimo piano si può visitare l’Urban Center, il centro di studi, ricerche e informazioni sulla città. Ma si può anche prenotare lo Scioglilingua, un tavolo di conversazione in lingua straniera con studenti Erasmus che frequentano l’università, un’iniziativa che ha un grande successo. Una piazza del sapere è molto di più di una biblioteca, più di una mediateca: è un luogo dove si possono chiedere consulenze gratuite a un avvocato o a un’associazione di consumatori, dove magari si rinnovano i documenti o si noleggia un’auto elettrica. È quanto accade a Aarhus, in Danimarca, dove se avete la tessera della biblioteca Dokk1, potete prendere a noleggio, a prezzo ridotto, un’auto elettrica con cui andare in giro per la città. Se invece siete venuti con la vostra auto, potete fermarvi davanti a uno schermo, selezionare l’opzione voluta e la macchina scomparirà nelle viscere di un parcheggio sotterraneo con 1000 posti, da dove verrà riportata all’ingresso automaticamente: nessun bisogno di scendere a cercarla in oscuri e inquietanti parcheggi sotterranei. Il cuore della biblioteca è uno spazio senza libri affacciato sull’esterno per guardare il mare e un grande tubo di bronzo di 7,5 metri di altezza. Il tubo è in realtà un gong, realizzato dall’artista Kristine Roepstorffs, che suona ogni volta che ad Aahrus nasce un bambino. Questo rintocco si espande per tutto l’edificio e tutti sanno che qualche minuto prima una nuova vita è entrata nella comunità. Dokk1 offre decine di migliaia di volumi, ma potrebbe competere vantaggiosamente con qualsiasi parco divertimenti: c’è un orso alto cinque metri che ha uno scivolo per i più piccoli, 25

la cucina dei bambini, la serra dove curare le piantine malate portate da casa, il Magic Mushroom che è in realtà un plastico urbano che pende, a rovescio, dal soffitto, per aiutarci a «vedere le cose da un punto di vista diverso». In una sala vicina troviamo un grande schermo dove ci sono le immagini di un corso di ginnastica on line, mentre una ventina di utenti fanno del loro meglio per eseguire flessioni e piegamenti. Poco lontano, sulla grande rampa, un laboratorio per imparare a progettare videogiochi. All’ingresso, i cittadini possono rinnovare la patente, chiedere un permesso di soggiorno o pagare le bollette mentre genitori e figli giocano a calcio su un minicampo virtuale creato da un proiettore sul pavimento. Queste facilitazioni per le incombenze della vita quotidiana esistono anche a Londra, sono anzi uno dei punti di forza degli Idea Store, un’iniziativa della municipalità di Whitechapel che ha avuto molto successo. Gli Idea Store non sono molto grandi ma sono coloratissimi e permettono di seguire decine di corsi (dallo shiatsu all’origami), di esercitarsi a ping pong, di sfidare gli amici a calcetto, oltre naturalmente ad avere solide collezioni librarie. Le piazze del sapere possono essere molto grandi (come le mediateche francesi a Montpellier, Marsiglia, Poitiers) oppure piccolissime, come le biblioteche dello Hill District a Pittsburgh, di Sedona in New Mexico, o di Prescott Valley in Arizona. Quello che hanno in comune è lo spirito: offrire ambienti gradevoli, coinvolgere i cittadini, organizzare attività come la festa del quartiere, la settimana messicana, o il mercatino dei libri usati per finanziare la biblioteca. Tutte cose che non richiedono finanziamenti ma fantasia, apertura ai cittadini, un uso differente degli spazi rispetto alle biblioteche di conservazione. Sono biblioteche «non noiose» che dovrebbero nascere ovunque, presìdi di integrazione sociale e di democrazia sul territorio che dovrebbero diventare una dotazione normale, come il pronto soccorso e la caserma dei pompieri, perché non 26

sono meno utili di questi servizi di emergenza. Ogni Comune italiano dovrebbe avere un luogo come la MeMo, dove Lucia – terminato il corso di arti marziali – può andare con i genitori e altre decine di bambini a imparare a suonare il tamburo, che è un’altra delle possibilità offerte dalla biblioteca.

Alberto Mario Banti Buon sangue non mente (1)

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na lunga tradizione attraversa la storia dell’Occidente: essere discendente di qualcuno che già si è distinto per qualche dote particolare, in campo militare o politico o professionale, è una promessa di futuro, una garanzia di potenzialità, un annuncio di successo. È un’ossessione radicata talmente a fondo da non risparmiare nessuno, nemmeno personalità così straordinarie da essere praticamente superumane: Dal Vangelo secondo Matteo. La genealogia. Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide. [...] Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle, Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo.

Questo passo del Vangelo di Matteo (al quale si dovrebbe affiancare un analogo paragrafo dal Vangelo di Luca) merita 28

una particolare attenzione: a Matteo non basta dire che Gesù è figlio di Dio, poiché sente comunque il bisogno di offrire la prova di una più terrena garanzia genealogica, collocando Gesù in una linea di discendenza che lo renda socialmente riconoscibile. Ma il testo è ulteriormente paradossale. La discendenza di Gesù non solo è «umana», ma è tutta declinata al maschile, escludendo con ciò Maria che dovrebbe essere l’unica ad avere un reale legame diretto con Gesù. Per quale motivo? Perché il modello accolto da Matteo è come quello del ghènos greco, e ancor più della gens romana, che vuole che la discendenza passi per via agnatizia, cioè maschile, da padre in figlio. In epoca medievale questo modello genealogico non è l’unico, poiché è diffusa anche una costruzione genealogica strutturata per via cognatizia, ossia tale da comprendere sia la linea maschile che quella femminile. Ma alla fine la soluzione che si impone è quella agnatizia, sia nel campo delle nobiltà, sia nel campo delle autorità sovrane, sia nella trasmissione della qualità di cittadino (cioè di persona titolare dei diritti riconosciuti agli abitanti di una città). È questa persistente ossessione genealogica che induce a pensare che i titoli di nobiltà (in senso proprio: possedere i privilegi di una famiglia regale o nobiliare; o in senso lato: possedere le qualità professionali o morali degli avi) passino attraverso la linea del sangue. È un modello talmente pervasivo che finisce per trasmettersi anche a tutti i sistemi politici che trovano fondamento nell’ideologia nazional-patriottica, e si riassume in questa semplice equazione: un tizio è italiano (o polacco, o francese, o tedesco, ecc.) perché è figlio di un italiano (o di un polacco, o di un francese, o di un tedesco, ecc.). Si tratta dello ius sanguinis, un dispositivo simbolico e giuridico che è contenuto in tutte le legislazioni contemporanee che regolano il diritto di cittadinanza. È vero che lo ius sanguinis non è l’unico criterio che include una persona all’interno della comunità nazionale (concorrono a questo scopo anche lo ius 29

soli, lo ius connubii, la naturalizzazione); ma è il primo e il più importante dei criteri. D’altronde nell’Ottocento l’idea che esista un «sangue» nazionale è largamente diffusa: nell’Inno di Mameli si evoca «il sangue d’Italia e il sangue polacco»; De Amicis, nel suo Cuore, fa dire a uno dei suoi personaggi: «Io amo l’Italia [...] perché il sangue che mi scorre nelle vene è italiano»; e così via, nel senso che le testimonianze di questo genere, provenienti dall’Italia come da qualunque altro paese europeo, sono innumerevoli e dalla fine del XIX secolo trovano alimento in un razzismo dotato di basi scientifiche presunte. Tutti questi ragionamenti riguardano i pilastri fondativi delle istituzioni pubbliche; cioè sviluppano l’assunto secondo il quale la discendenza genealogica (regia, nobiliare o nazionale, a seconda dei luoghi e dei periodi) è il marker primario per l’attribuzione dei diritti politici. Da questa considerazione ne discende un’altra, meno formalmente strutturata, ma egualmente largamente diffusa, secondo la quale le qualità etiche, o intellettuali, o professionali di una persona sono intuibili, pronosticabili, e quindi – si suppone – anche effettive, a partire dalla conoscenza della famiglia dalla quale quella persona proviene: e così nessuno si meraviglia se il figlio o la figlia di delinquenti a sua volta delinque; o se il figlio o la figlia di stimati professionisti a sua volta dà ottima prova professionale di sé. «Buon sangue non mente», per l’appunto, anche nella dimensione civile, oltre che in quella pubblica. Ma è fondato tutto ciò? Già nel passato dell’Occidente molte voci hanno sollevato dubbi sulla ragionevolezza di una «nobiltà del sangue». In termini molto netti si esprime, per esempio, Girolamo Mutio nel suo Gentilhuomo (1571), quando scrive: «È da tener per vero, che non ci sia Re hoggi, il quale da vilissima stirpe non sia disceso, né ci sia huomo di contado, che avuti non habbia reali antecessori» (cit. da R. Bizzocchi, Genealogie incredibili, il Mulino, Bologna 1995, p. 97). E alla sua si uniscono molte altre voci, da Montaigne, a Voltaire, a infiniti altri. 30

E va bene. Autorevolissime opinioni, certo. Ma hanno ragione a sollevare simili dubbi? Intanto ricerche recenti di antropologi o genetisti escludono piuttosto chiaramente che ci sia un qualche evidente collegamento tra l’appartenenza a una comunità politica nazionale e uno specifico codice genetico (si vedano lo Statement on Race espresso sin dal 1998 dalla American Anthropological Association, così come i risultati delle ricerche condotte da Luigi Luca Cavalli Sforza). Peraltro per molti – soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la piena divulgazione degli orrori razzisti compiuti dal nazismo o dal fascismo – il punto non è nemmeno più in questione; ma ricerche come quelle condotte da Cavalli Sforza danno un solido fondamento a una considerazione che ha già un suo assoluto valore etico. In termini più generali si può comunque obiettare che provenire da una famiglia di successo sia – se non una vera e propria garanzia – almeno una promessa di successo. La questione può essere risolta osservando le dinamiche della mobilità sociale, concetto che descrive la possibilità che una persona ha di migliorare o peggiorare la propria condizione sociale e professionale rispetto a quella dei propri genitori. Se fosse vero che il «sangue» è determinante, il grado di mobilità sociale dovrebbe essere costante in qualunque tipo di periodo o di società, con variazioni minime o marginali, dovute a cause del tutto accidentali. Invece non è così. Società che dispongono di potenti programmi di welfare (scuola pubblica e gratuita, sistemi pubblici e gratuiti di assistenza alla maternità, ospedali e servizi sanitari pubblici e gratuiti, università finanziata dallo Stato) promuovono una mobilità sociale che è molto maggiore rispetto a quella che si riscontra in società nelle quali i servizi formativi, educativi e assistenziali sono privati e a pagamento: in questo secondo caso a incidere non è tanto il «buon sangue», quanto la diversa quantità di denaro a disposizione delle singole famiglie. Tutti i dati recenti, relativi agli Usa e all’Eu31

ropa, mostrano che da quando sono state adottate le politiche neoliberiste che hanno smantellato o limitato le istituzioni del Welfare State, la mobilità sociale si è ridotta, e un numero crescente di giovani uomini e di giovani donne si sono ritrovati a percepire un reddito simile a quello percepito dai loro genitori (nel bene e nel male). Il che fa riflettere non solo sulla infondatezza dell’idea secondo la quale «buon sangue non mente», ma sulla profonda iniquità delle politiche neoliberiste che avvantaggiano pochi ricchi (sempre più ricchi) a danno dei molti poveri (sempre più poveri) (dati eloquenti al riguardo in David Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2007; Tony Judt, Guasto è il mondo, Laterza, Roma-Bari 2011; Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014).

Telmo Pievani Buon sangue non mente (2)

N

on è un proverbio, è l’angoscia di tutti i figli d’arte. Quella di aver dentro di sé una sostanza fluida e decisiva, trasmessa da un padre ingombrante, la quale non può mentire, poiché prima o poi uscirà allo scoperto e si manifesterà sotto forma di un determinato carattere o talento. Ce l’hai nel sangue, ragazzo. Sì, ma cosa esattamente? Nella fedeltà della discendenza si nasconde un paradosso: ci sembra vera, forse qualche volta è vera sul serio, ma se fosse vera del tutto non saremmo qui a parlarne. Ci saremmo accontentati di una selce scheggiata e di un bel tramonto africano senza poeti a cantarlo. Nel sangue buono e giusto si concentrano così tanti significati inquietanti da far tremare, appunto, le vene e i polsi. Il buon sangue è stirpe atavica che divide, è faida, è setta, è rito mafioso di pungersi il dito. Tu sei sangue del mio sangue, non mi puoi tradire. Non ti puoi mischiare con il sangue degli altri, quello deve soltanto scorrere sulla terra, nemico e sconfitto. Il vincolo di sangue è il richiamo ancestrale verso uno di quei «piccoli noi» che ci fanno sentire al sicuro, separandoci da tutti gli «altri da noi» che fanno paura e chiudendoci dentro il nostro gruppo, la nostra famiglia, etnia, tifoseria. Come ben sanno gli storici dell’età contemporanea, è un pregiudizio identitario che si può costruire e alimentare a tavolino, insinuare nelle menti, tramutare in sospetto e odio silente, fino al punto che due comunità che hanno convissuto per secoli nella stessa vallata nel 33

giro di qualche anno si sgozzano vicendevolmente nel nome del buon sangue che non mente. La voce del sangue è naturalmente anche quella della razza, tanto che qualche arruffapopoli continua a sostenere l’esistenza di predisposizioni ereditarie tipiche di una presunta «razza umana» rispetto all’altra: i cinesi hanno il dono degli affari, i neri hanno la musica nel sangue, e così via sragionando. A costoro, di solito lievemente reazionari, non piace pensare di essere animali, eppure usano per i loro simili una terminologia che sarebbe più consona per allevatori di cavalli o di cani: sangue misto, bastardi, purosangue. Ma il pregiudizio secondo cui buon sangue non mente presenta anche altri lati negativi. Se hai un talento ereditato, significa che non è propriamente tuo, lo hai ricevuto in consegna dal tuo albero di famiglia. Il sangue non è acqua, d’accordo, ma tra chi è ricco per discendenza e chi si è fatto da solo permane una certa differenza. Il problema è che, siccome il buon sangue mente, i figli di chi si è fatto da solo talvolta distruggono le aziende dei padri, e si ricomincia da capo. Se da una buona stirpe non potessero che nascere figli meravigliosi, nessuno dilapiderebbe le eredità paterne, non ci sarebbe cambiamento, né innovazione, né ascensori sociali. Se tale il padre tale il figlio, fine dell’evoluzione. Il cattivo sangue non mente quando ti fanno l’esame antidoping e ti beccano. Ma se per sangue intendiamo, come fanno tutti oggi, l’oracolo del Dna, allora meglio non essere altrettanto fiduciosi. Ce l’hai nel Dna, ragazzo. Sì, ma cosa esattamente? Il materiale genetico contenuto nelle cellule del nostro sangue (e in tutte le altre) non è un destino già scritto, né una condanna, né una denominazione di origine controllata. È un insieme di potenzialità che entrano in relazione con un insieme di contingenze, di esperienze di vita, di incontri. Da questo gran miscuglio inestricabile qualche volta esce un carattere forte o un talento, che è pur sempre l’espressione di una diversità 34

individuale, dato che non c’è un figlio uguale a un altro e questo è il combustibile dell’evoluzione. Il buon sangue alias Dna viene da una mamma e da un papà, ricombinato ogni volta in modo diverso, da genitori che avevano genitori e genitori di genitori, provenienti da chissà quali angoli del mondo. L’evoluzione insegna infatti che, a guardar bene, in ogni posto sulla Terra c’è sempre qualcuno che è più autoctono di te. I veri europei erano i Neanderthal, noi siamo tutti figli di immigrati africani in Europa. Il buon sangue quindi, se lo prendi alla lettera, mente. Siamo migranti da due milioni di anni circa, da un sacco di tempo, passato a espanderci, spostarci, guardare al di là della collina, mischiarci, scontrarci, ucciderci e accoppiarci. Il buon sangue ci dice, se proprio deve dire qualcosa, che siamo tutti cugini stretti e tutti africani: se avessimo la macchina del tempo, basterebbe andare indietro qualche manciata di generazioni e troveremmo un avo africano in comune con qualsiasi altro essere umano sulla Terra. Ma c’è dell’altro. Gli scienziati non volevano quasi crederci. Poi le prove empiriche sono diventate chiare: con ogni probabilità le popolazioni di Homo sapiens nelle loro peregrinazioni planetarie si sono ibridate (cioè si sono geneticamente mescolate attraverso accoppiamenti misti e proli ibride a loro volta fertili) con almeno altre due specie umane, i Neanderthal e gli enigmatici Denisoviani che abitavano in Asia centrale. I figli nati dalle coppie miste sopravvivevano e procreavano a loro volta. Il genoma dei non africani attuali contiene pertanto tracce di accoppiamenti sporadici con individui di altre forme umane. Nemmeno del genoma possiamo più dire: «è mio e me lo gestisco io». No, il genoma sapiens è un mantello di arlecchino con dentro pezzettini di altre specie umane. Siamo plurali, e non puri, fin dentro il Dna. Il buon sangue mente, eccome. Non c’è insomma da fidarsi del buon sangue di patriarcale memoria, ed è bene così, altrimenti non vi sarebbe evoluzione. In un metalogo di Gregory Bateson (Verso un’ecologia della 35

mente, Adelphi, Milano, 1976, p. 52) leggiamo questo folgorante scambio di battute che demolisce ogni presunto sangue veritiero: «Una volta conoscevo un ragazzino in Inghilterra che chiese a suo padre: ‘I padri sanno sempre più cose dei figli?’ e il padre rispose: ‘Sì’. Poi il ragazzino chiese: ‘Papà, chi ha inventato la macchina a vapore?’ e il padre: ‘James Watt’. E allora il figlio gli ribatté: ‘Ma perché non l’ha inventata il padre di James Watt?’».

Massimo Montanari Nella carbonara la cipolla non ci va

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uanciale sì, pancetta no. Pecorino sì, parmigiano no. Olio sì, panna no. Il tuorlo sì, l’albume no. Poi, se consulti i libri di cucina, o scorri i siti web, o telefoni al vicino, ti accorgi che sono in tanti a mettere la pancetta o a mettere il parmigiano, o a mescolare pancetta e guanciale, parmigiano e pecorino. E un po’ di albume non si nega perché ammorbidisce... E l’aglio? E la cipolla? Qualcuno li ha definiti «ingredienti della discordia», che possono rovinare un’amicizia. Ma se la possono rovinare, vuol dire che qualcuno ce li mette. Il problema è chi decide le regole. Se una ricetta è firmata, «d’autore», gli ingredienti e la preparazione sono stabilite da qualcuno con nome e cognome. Solo quella è «autentica». Ma se l’autore è collettivo – come è sempre il caso quando si tratta di ricette «tradizionali», o presunte tali – chi garantisce l’autenticità? Chi è il responsabile del procedimento? Un po’ di regole devono esserci, per forza. Dietro ogni ricetta immaginiamo prove, esperimenti, elaborazioni; immaginiamo progetti e casualità. Alla fine, uno standard si sarà fissato, condiviso nei princìpi di base, nella procedura, negli ingredienti. Una ricetta ha sempre delle regole – una ricetta è una regola. Ma nessuna ricetta è immobile e immutabile, fino a che qualcuno non la codifica. Ma a quel punto avrà una firma, un autore che pretende di avere interpretato l’autentico dichiarando «falso» quanto non si adegua alle sue scelte. Ope37

razione di dubbia legittimità. Perché in quel modo la ricetta si fossilizza, esce dalla storia per entrare nella teologia. La storia è il luogo della vita e del cambiamento. Ciò che non vive e non cambia non le appartiene. Per questo fatico a scandalizzarmi dello «scandalo francese» che ha fatto il giro del mondo sul web: una carbonara con pancetta e (horribile dictu) cipolla, con un tuorlo crudo aggiunto alla fine senza mantecare (gesto incriminato: ma ricordo che negli anni Settanta, in una trattoria di Bologna, lo servivano proprio così: vabbé era Bologna, mica Roma, però neppure Parigi). Allora che dovremmo dire delle carbonare «di mare», o di quelle vegane, che ormai si ammettono senza troppe discussioni? Dice: fa’ quello che vuoi, ma non chiamarla carbonara. Risponde: ma se la mia ispirazione è stata quella perché dovrei cambiare il nome? Il mio vuol essere un omaggio alla tradizione, che se ci pensi è anche innovazione, perché «tradizione» non è che un’invenzione riuscita particolarmente bene, che molti hanno condiviso e perciò è diventata tradizione. Dice: ma la tua invenzione è una schifezza. Risponde: se la comunità decide che è una schifezza, resterà uno sfizio mio e morirà dove è nata; se comincerà a piacere, comincerà a circolare e una nuova tradizione si sarà creata. Lo sentiamo dire di continuo: questo si fa così, questo si fa cosà. Il tortellino si riempie così. La tagliatella dev’essere larga tanto, alta tanto e spessa tanto. Perché si è sempre fatto così. E magari si va dal notaio e lo si registra. Un micidiale pregiudizio governa queste idee, queste azioni: che l’origine delle cose sia più importante, più «vera» del loro divenire; che la storia serva a ricercare le origini, per trovarvi il senso del presente e ripulirlo da ogni tradimento o depistaggio. Ma il fatto è che le origini, allo storico, interessano poco; come amava ripetere Marc Bloch, ogni quercia nasce da una ghianda, ma il senso della quercia non sta nella ghianda, bensì nel modo in cui l’am38

biente, il clima, il terreno le hanno consentito di crescere. È questa vicenda a interessare lo storico, non il punto da cui essa ha avuto inizio. La cucina è fatta di alcune regole e di molte libertà, quelle che, giorno dopo giorno, danno vita e corpo a un piatto, trasmettendolo dall’una all’altra generazione. Senza dogmi, senza rigidità. La cucina è il luogo della variante e la ricetta è come uno spartito musicale, che si «realizza» solo quando viene interpretato, in modo ogni volta diverso. Se no tanto varrebbe ascoltare un disco – o mangiare cibi industriali, sempre uguali a sé stessi. Sentite Artusi, il padre della cucina italiana moderna. Nel suo ricettario raccontò cosa si mangiava nelle case borghesi di fine Ottocento, mettendo a disposizione di tutti un compendio di saperi raccolti un po’ ovunque, che andarono a costituire un patrimonio comune. Fu il contributo, importante, dato da Artusi all’Unità nazionale. L’operazione fu svolta con precisione e delicatezza, indicando con chiarezza le regole di base ma lasciando ampio margine alla libertà di ciascuno. In modo programmatico e sistematico. Nelle ricette di Artusi non manca mai l’appello alla discrezione, al rispetto dei gusti altrui, alla «variante» come carattere specifico dell’attività di cucina: quando spiega la ricetta del risotto alla milanese è contento di darne tre, non una: «Risotto alla milanese I», «Risotto alla milanese II», «Risotto alla milanese III». La terza, introdotta da un meraviglioso «Potete scegliere!», proprio così, col punto esclamativo. Le quenelles suggerisce di condirle con una salsa di pomodoro, ma subito aggiunge che «alla salsa di pomodoro potete sostituire il sugo di carne, oppure guarnire con le quenelles un intingolo di rigaglie e animelle». Quando dà la ricetta del composto per i cappelletti romagnoli, si raccomanda di assaggiarlo volta per volta «per poterlo al caso correggere, perché gli ingredienti non corrispondono sempre a un modo». Il minestrone di verdure lo suggerisce come piace a lui, ma «padronissimi di modificarlo a 39

modo vostro a seconda del gusto d’ogni paese e degli ortaggi che vi si trovano». Quanto agli odori, «non mi rimproverate», scrive a un certo punto, «se in queste minestre v’indico spesso l’odore della noce moscata. A me pare che ci stia bene; se poi non vi piace sapete quello che avete da fare». Addirittura consiglia, nell’introduzione al ricettario, di non prendere troppo sul serio i libri di cucina. Meglio sempre diffidare – «anche del mio», precisa, con una buona dose di ironia. Diffidare dei fondamentalismi, degli integralismi che si nascondono anche quando si tratta di cibo. Le cose non si fanno mai solo in un modo. Della carbonara Artusi non parla: è un piatto di cui non si hanno tracce scritte prima degli anni 50 del secolo scorso. Piatto sulle cui origini le leggende si sprecano, per lo più riferite a episodi della Seconda guerra mondiale: ne avrebbero stimolato la nascita le truppe americane a Roma, distribuendo uova in polvere e bacon al popolo affamato; lo avrebbero inventato i romani sfollati in montagna, dove avrebbero imparato dai «carbonari» i sapori rudi del pecorino e del lardo, ingentilendoli con l’uovo crudo; e via fantasticando. Fatto sta che nel giro di qualche decennio la carbonara – sconosciuta fino a mezzo secolo fa – è diventata un’icona della cucina italiana, sia in Italia, sia all’estero. Ne consegue, non può non conseguirne – il pregiudizio universale lo dà per certo – che fra le migliaia di ricette della nostra cucina quella della carbonara è in assoluto la più «falsificata». Ho letto con grande curiosità l’intervista a un immigrato rumeno, che, appassionatosi alla cucina italiana ma rimpiangendo un certo gusto acido della «sua» cucina, che da noi non ritrova, confessa di avere introdotto negli spaghetti alla carbonara la panna acida. Geniale, no?

Giandomenico Iannetti Usiamo solo il 10% del nostro cervello

È

probabilmente la domanda più frequente rivolta all’innocente neuroscienziato al termine di incontri pubblici o durante chiacchiere da salotto: «È vero che usiamo solo il 10% del nostro cervello?». L’inevitabile risposta che si tratta di un mito senza fondamento, e che non esistono pezzi di cervello che giacciono inutilizzati aspettando solo di essere messi in funzione, suscita quasi sempre disappunto nell’interlocutore. Piuttosto che dismettere con un sorriso condiscendente questo «pregiudizio del 10%» come ingenuo o primitivo, è interessante chiedersi quale sia la sua origine, e per quale ragione rimanga sorprendentemente pervasivo e impermeabile all’evidenza della sua implausibilità. Nel nostro cervello esiste una elevata percentuale di corteccia cerebrale che, quando stimolata, produce effetti molto meno evidenti di quelli conseguenti alla stimolazione della corteccia con funzioni strettamente sensoriali e motorie. Questa corteccia, in passato infelicemente etichettata come «silente», è in realtà tutt’altro che inattiva, e per quanto sia il risultato del lento operare di processi evolutivi ordinari, è responsabile delle mirabili caratteristiche – il linguaggio, il dono dell’immaginazione e della metafora – che ci definiscono come esseri umani, «sicut Deus, scientes bonum et malum», per dirla con Mefistofele. La lodevole modestia dei primi neuroscienziati, che affermavano di comprendere solo una piccola parte del funzionamento del cervello (ammissione certamente tuttora valida), 41

è stata erroneamente, per la nota fallacia logica dell’argumentum ad ignorantiam, utilizzata a supporto dell’affermazione che quella piccola percentuale è la sola che usiamo. È opinione diffusa e non irragionevole che la maggior parte delle persone non sfrutti appieno i propri talenti, e che ci sia un potenziale inespresso che permetterebbe di raggiungere il massimo delle capacità intellettive (e se questo non avviene i motivi possono essere molteplici, dalla pigrizia alla necessità di svolgere un lavoro non intellettuale per vivere). Questa congettura, peraltro difficile da verificare, è stata, ingenuamente o opportunisticamente, reificata come evidenza concreta che usiamo solo il 10% della nostra massa cerebrale. È forse per la sua potente fascinazione intrinseca che il pregiudizio del 10% è così duro a morire, e continua ad essere affermato con sicurezza. È certamente bello pensare di avere vaste riserve di capacità intellettuali dormienti, e che, semplicemente usando queste potenzialità inespresse, potremmo comporre sinfonie immortali e comprendere la natura del mondo, trasformandoci in Mozart o Einstein. Il pregiudizio del 10% rimane pervasivo perché sfrutta speranze e ansie diffuse, e riesce a illudere di poter facilmente raggiungere una maggiore creatività e produttività, in barba al sano scetticismo che dovrebbe invece innescare. La popolarità di cui esso gode fa sì che i disinvolti professionisti della divulgazione scientifica tornino a propinarcelo con molte variazioni, facendo anche la felicità di spregiudicati imprenditori che offrono prodotti apparentemente in grado di sfruttare questo supposto potenziale nascosto, come metodi per imparare una lingua in poche settimane o manuali di self-help. In realtà il pregiudizio del 10% non solo è privo di evidenza in suo favore, ma viene anche chiaramente contraddetto dalle conoscenze attuali. Infatti, almeno due princìpi delle neuroscienze sono violati da questo pregiudizio. Il primo è che una regione cerebrale non 42

utilizzata a causa di una lesione o di una malattia, se non va incontro a una degenerazione, vede le sue capacità computazionali riassegnate allo svolgimento di altre funzioni. Un esempio è la corteccia visiva negli individui ciechi: poiché non riceve più informazioni sensoriali dalla retina, può venire sfruttata per migliorare l’elaborazione di stimoli acustici e tattili. Quindi, un’area cerebrale non utilizzata ma vitale non rimane mai ferma, ma contribuisce al funzionamento del sistema. Il secondo è che il cervello non opera come una struttura omogenea, ma funzioni diverse sono assegnate alle regioni anatomiche che lo compongono nella sua interezza. I compiti che il cervello esegue sono divisi in operazioni parallele e gerarchiche, svolte da un numero di regioni che presentano una elevata specializzazione funzionale. Ecco perché lesioni cerebrali dovute a patologie cliniche o procedure sperimentali, anche quando coinvolgono percentuali ben inferiori al 90% della massa cerebrale, causano quasi irrevocabilmente la perdita stabile di specifiche funzioni neurologiche. Non ci sono quindi aree del cervello la cui lesione sia del tutto priva di conseguenze funzionali, sia pure di grado sorprendentemente variabile. Se il 90% del cervello costituisse davvero una riserva di sicurezza, la perdita di funzione osservata nei pazienti affetti da improvvise lesioni cerebrali sarebbe quasi costantemente recuperata. Non sorprende quindi che le tecniche che permettono di valutare il funzionamento del cervello, misurando ad esempio l’attività elettrica di popolazioni di neuroni, le variazioni di flusso di sangue o il consumo di glucosio nelle diverse regioni cerebrali, indichino chiaramente che non esistono aree silenti, ma che un gran numero di strutture sono attive non solo quando un individuo riceve delle stimolazioni sensoriali o è impegnato in compiti cognitivi, ma anche a riposo. Infine, usare solo il 10% del cervello sarebbe antieconomico. Il cervello costituisce solo il 2% del peso corporeo, ma 43

consuma almeno il 20% dell’ossigeno che respiriamo. Non è plausibile che l’opportunistica forza creativa che guida l’evoluzione selezionando le variabili più favorevoli abbia permesso uno spreco di risorse per mantenere un organo costoso utilizzato solo al 10%. Sarebbe come irrigare un grande terreno agricolo sapendo di averne seminato solo una piccola porzione. Nonostante il pregiudizio del 10% possa apparire plausibile e rassicurante, accettarlo stolidamente è sempre intellettualmente pericoloso. La conoscenza ancora limitata dei meccanismi attraverso cui il cervello determina la ricchezza e variabilità dei nostri comportamenti costituisce un terreno fertile per lo sviluppo di ‘neuromiti’ basati sulle nostre intuizioni, ma privi di evidenza fattuale. Non che ci sia qualcosa di male nelle intuizioni e nelle congetture, che, anzi, sono enormemente utili quando generano ipotesi scientificamente verificabili. La scienza, come ha detto Karl Popper, inizia con le intuizioni e procede con la loro critica su base sperimentale. Tuttavia, la verità scientifica è spesso diversa dalle nostre intuizioni, particolarmente imprecise e incerte quando riguardano il sistema nervoso, che si è evoluto per costruire dei modelli percettivi che producono una descrizione ragionevolmente accurata (e quindi utile per sopravvivere e riprodursi) del mondo che ci circonda, ma non del cervello stesso. L’accettazione acritica del pregiudizio del 10% esprime una rinuncia a quella razionalità alla quale, anche se difficile, è necessario attenersi: cercare di non lasciarci influenzare da quello che vorremmo credere, ma basare le nostre conoscenze unicamente sui fatti e sull’evidenza, quando possibile di natura sperimentale. È questa l’unica cosa, per citare Bertrand Russell, che deve essere considerata quando si affronta qualsiasi argomento o filosofia.

Carlo Petrini Chi si ferma è perduto

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n questi ultimi trent’anni di lavoro nell’ambito della gastronomia abbiamo assistito a dei cambiamenti complessi e interessanti. Siamo partiti dal cibo, convinti che un atto così profondamente umano come quello del trasformare le materie prime in un pasto necessitasse di rispetto e attenzione, e che fosse necessario rallentare per potergli dedicare il giusto tempo. L’urgenza era quella di difendere un diritto fondamentale, il diritto al piacere, che già trent’anni fa era profondamente messo a rischio da un sistema di produzione e distribuzione sempre più arrogante. Il cibo era diventato una commodity, e, con i ricordi legati alla scarsità ormai sbiaditi dal tempo, aveva perso di importanza rispetto ad altri bisogni, nuovi e meno nuovi. Sembrava che dedicare troppa attenzione all’atto della nutrizione riportasse ad un’idea di sussistenza alla quale nessuno voleva più fare riferimento: in una società che stava cambiando, che aveva ingranato la marcia veloce della crescita, e che ha sempre meno tempo a disposizione, un atto così strettamente legato alla sopravvivenza non poteva certo più essere in cima alle preoccupazioni delle persone. C’era ben altro da fare. Così era totalmente cambiato il modo di approvvigionarsi di materie prime e di approcciarsi al consumo, e il cibo veniva scaricato di tutta una serie di valorialità legate all’idea di un passato remoto, e quindi reazionarie e retrograde. Quando mi trovo in pubblico a parlare di Slow Food mi ca45

pita spesso di raccontare un aneddoto legato a una famosa cuoca delle Langhe, proprietaria di un’osteria che frequentavo da ragazzo con i miei amici. La signora era l’orgogliosa proprietaria e cuoca di un’osteria molto rinomata per i suoi agnolotti, più unici che rari. L’osteria, però, era aperta unicamente a pranzo, e a nulla valevano i consigli appassionati degli avventori che la spronavano a tenere aperto anche alla sera, sicuri che la fama del posto avrebbe attirato numerosissimi clienti da tutti i paesi vicini, finanche da Torino. Ma la signora aveva la risposta pronta, e senza scomporsi metteva la parola fine a ogni discussione: «Non voglio essere la più ricca del camposanto». Già nel 1986 questo approccio alle cose non veniva più compreso. Spiazzava anche noi, e credo che oggi la maggior parte delle persone tenderebbe a etichettare questo atteggiamento, in modo più o meno cosciente, come mera pigrizia. La retorica dei tempi moderni alla quale siamo abituati, infatti, è molto diversa. Efficientismo, competitività, meritocrazia, leadership: sono questi i valori che gran parte della nostra società civile occidentale condivide e reputa fondativi del nostro vivere comune. E intendiamoci, non è che siano termini negativi, almeno non in assoluto. Sono termini che descrivono e teorizzano un approccio teso a ottenere il massimo dalle risorse che si hanno a disposizione. Così ci si sprona a ottenere sempre di più, a spingersi sempre avanti, a correre più forte, a staccare l’avversario. In questo frangente, chi si ferma è perduto. Dove le risorse sono limitate, per loro stessa definizione, chi si ferma perde l’occasione di fare di più per di ottenere di più, per accumulare di più. Chi non è competitivo è colpevole di cedere il passo a chi è più veloce, il merito del leader è quello di spronare la squadra a ottenere una produttività sempre maggiore. Secondo questo stesso principio oggi preferiamo chiamare i contadini «imprenditori agricoli», così che anche a loro possano essere applicate 46

queste categorie, quasi che l’essere semplicemente contadini fosse miserevole. Ma oggi, a trent’anni da allora, qualcosa sta nuovamente cambiando. L’amore per il capitale e per l’accumulo di beni ha lasciato ferite profondissime in tutte le culture occidentali, che si trovano oggi ad affrontare una serie di problemi molto diversi da quelli del passato. Stiamo danneggiando la nostra salute, abbiamo ferito il nostro ambiente e snaturato il nostro rapporto con la natura, abbiamo modificato il clima, cementificato troppo suolo. E nel fare tutto ciò, più che incontrare degli obiettivi di sviluppo, abbiamo finito per esacerbare la sofferenza sociale, accrescere le diseguaglianze, mortificare il concetto di comunità, rinnegare i sistemi di solidarietà. Questo quadro così pesante non è più ignorabile. Lentamente abbiamo capito che tutti questi sforzi tesi all’accumulo di beni materiali ci hanno portato a sacrificare quella che in ultima battuta è la nostra felicità: l’importanza delle relazioni, con le altre persone e con il mondo che ci ospita. Ed è in questo quadro che assistiamo a un risveglio delle coscienze. Vediamo giovani tornare alla terra, vediamo una rinnovata attenzione per quello che mangiamo. Con l’economia in sofferenza, l’oculatezza nello spendere i (sempre meno) soldi che abbiamo a disposizione torna a essere importante. La qualità torna a guadagnare importanza di fronte alla sola quantità, e può succedere persino che papa Francesco scriva l’enciclica Laudato si’, nella quale tratta della centralità del nostro rapporto con il creato, o che dichiari a chiare lettere come questa economia (testualmente) uccida. Sono davvero convinto che sia giunto il momento di ripensare al nostro paradigma comune, e non per cedere alla tentazione di guardare al passato con nostalgica ottusità e nella consapevolezza di non poter invertire la rotta, ma per valutare con la giusta attenzione e onestà intellettuale quale sia il modo 47

migliore di andare avanti, dal momento che questa è anche l’unica opzione che ci viene concessa. Credo che i tempi siano maturi per adottare un nuovo paradigma e per parlare di compassione, di umiltà e di gioia. Compassione, l’esatto opposto dell’invidia, perché la nuova propulsione del nostro agire sia il soffrire con chi soffre per risolvere i problemi insieme, invece che patire quando qualcun altro ottiene qualcosa più di noi. Umiltà, perché abbiamo bisogno di aprirci all’ascolto, di mettere da parte il nostro egoismo e le nostre convinzioni assolute per capire le ragioni di chi sta attuando il proprio progetto di vita e si sta attrezzando per poter realizzare le proprie speranze e aspettative. Gioia, perché solo con gioia si può cambiare il mondo. Con la mestizia non si è mai ottenuto un granché, se non il rassegnato consolidamento degli status quo. Fermiamoci allora e prendiamoci il tempo per capire cosa vogliamo e dove stiamo andando, perché è proprio qui e oggi che chi si ferma non è perduto.

Leonardo Piccione I ciclisti sono tutti dopati

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l giornalista Giampaolo Ormezzano, inviato de «La Stampa» al Giro d’Italia, scrisse negli anni Settanta che ogni cronaca di ciclismo dovrebbe concludersi con una nota a margine: SAP, Salvo Antidoping Positivo. Era il ciclismo di Merckx e Gimondi, di Ocaña e Thévenet; gli echi dell’epoca eroica delle biciclette erano ancora prossimi; lo scandalo-EPO, annunciato all’opinione pubblica dal «caso Festina», sarebbe esploso più di due decenni dopo. Tuttavia il cronista sentì il bisogno di rimarcare l’ingombro di una presenza che accompagna il ciclismo dal suo sorgere: la tentazione di ricorrere a riserve di energia supplementare pur di riuscire a valicare i limiti della resistenza umana. Se all’epoca di Coppi si parlava – nemmeno troppo segretamente – della rudimentale «bomba» (un mix chimico a base di simpamina), gli anni a cavallo del nuovo millennio hanno vissuto un’escalation del doping capace di minare le fondamenta dello sport a due ruote. Un tentativo realistico di affrontare l’argomento non può non partire dalla percentuale di controlli antidoping positivi sul numero totale di controlli. La statistica, fornita dal sito datahero. com1, mostra un netto calo della proporzione, che è passata dal 40% degli anni 1990-2000 al 10-15% dei primissimi anni 2010. In particolare, le ultime tre edizioni del Tour de France si sono concluse senza che alcun corridore sia mai risultato positivo. Il problema dei controlli antidoping è che la loro tecnologia insegue a distanza quella del doping stesso: non si può esclu49

dere che esistano sostanze attualmente non rintracciabili con gli strumenti di cui dispone l’antidoping mondiale e che quindi, tra qualche tempo, tocchi mettere mano agli ordini di arrivo di questi anni. In più, un’altra forma di doping, ancora più subdola, è apparsa in alcuni report recenti: il motorino scoperto nella bicicletta della belga Van Den Driessche durante i mondiali di ciclocross di gennaio 2016 è il primo caso acclarato (e finora unico) di frode tecnologica. D’altra parte, il miglioramento delle performance atletiche è strettamente legato a due altri tipi di variabili, oltre al doping, inteso qui in senso ampio come «ricorso ad energia supplementare non consentita»: fattori fisiologici (nutrizione, allenamento) e fattori tecnologici (biciclette, materiale tecnico). Osservare un trend crescente nella serie temporale delle velocità medie tenute dei vincitori del Tour de France significa, quindi, guardare l’effetto combinato di queste tre categorie di variabili, senza la possibilità di poter distinguere tra esse. Ad esempio, l’aumento del 5,5% della velocità media del vincitore del Tour de France registrato nel quinquennio 1957-1961 rispetto al quinquennio precedente (da 34,15 a 36,03 km/h, la crescita maggiore dal secondo dopoguerra) è presumibilmente da attribuire a una crescita nei fattori tecnologici, ma non è in alcun modo possibile azzardare proporzioni: quanto di quel 5,5% è legato al miglioramento del fondo stradale francese? Quanto alle nuove bici? Quanto, invece, alla «bomba»? Ma, se attribuire pesi ai fattori che causano il miglioramento delle prestazioni è alquanto periglioso, appare decisamente più semplice interpretare una situazione in cui le prestazioni risultino peggiorate: assunto che i fattori fisiologici e tecnologici possano solo migliorare (o, nel peggiore dei casi, rimanere costanti), un calo della velocità media sarebbe attribuibile esclusivamente a un minore utilizzo di sostanze dopanti2. Ebbene, il quinquennio 2007-2011 ha fatto registrare un segno negativo nella serie delle velocità medie, il primo calo dagli anni ’70: 2,3% rispetto 50

al periodo precedente (da 40,77 a 39,83 km/h). Significativo il fatto che l’anno centrale del quinquennio, il 2009, sia quello in cui l’Unione Ciclistica Internazionale ha adottato il passaporto biologico3 dell’Agenzia Mondiale Antidoping. Il ragionamento si rafforza se, lasciando da parte le medie generali, ci si sposta ad osservare i tempi di ascesa di una salita-simbolo della Grande Boucle, l’Alpe d’Huez. Nelle classifiche delle scalate più rapide dell’Alpe, le prime dieci posizioni sono occupate da atleti che hanno stabilito il tempo tra il 1994 e il 2006; Nairo Quintana, il primo in classifica con un tempo registrato dopo il 2009 – nonché il primo senza alcuna accusa di doping a suo carico – è soltanto 14°. La situazione è del tutto analoga se si guarda i tempi del temibile Mont Ventoux. Certo, analizzare le velocità medie e, soprattutto, i tempi di ascesa è esercizio in parte inficiato dalla contingenza della corsa in questione. Per esigenze di comparazione, negli ultimi anni sta diventando più diffuso l’utilizzo di un altro tipo di misura delle prestazioni, legata alla potenza sprigionata durante lo sforzo. I watt per chilogrammo sono un indicatore ritenuto da alcuni più oggettivo e attendibile; 6,2 w/kg, in particolare, è suggerito come il limite fisiologico attuale per gli esseri umani che vanno in bicicletta: ogni valore superiore a tale soglia va considerato un indizio molto forte a sostegno dell’ipotesidoping. Anche l’uso degli indicatori di potenza presenta però una serie di incongruenze, a partire dal fatto che gli strumenti per la rilevazione sono, ad oggi, soggetti a errori di misura nient’affatto banali4. A settembre 2015 Chris Froome, plurivincitore del Tour de France, si è volontariamente sottoposto a una serie di test atletici che hanno fatto registrare valori fisiologici molto prossimi ai limiti teorici considerati umani. Accanto a chi ne ha approfittato per accusare l’inglese di essere poco credibile, c’è anche chi ha sottolineato il fatto che i suoi numeri, fuori scala per un qualsiasi uomo comune, fossero in realtà in linea con quelli 51

di molti suoi avversari e, in generale, con quanto ci si debba aspetta da un esemplare della nostra specie che compete per vincere l’evento sportivo più esigente dell’anno. Normalmente anormali, quindi. In definitiva, la plausibilità delle performance di uno come Froome, sommata al calo di episodi di positività e al livellamento verso il basso delle prestazioni medie dei campioni5, ha recentemente spinto il giornalista del «Guardian» Kenny Pryde ad evidenziare che «un ciclismo totalmente pulito è ancora utopia, ma è verosimile che in questi anni stiamo assistendo a corse in cui il ricorso al doping è ridotto ai minimi storici». Il pubblico del ciclismo, oggi più che in passato, ha buoni motivi per piazzarsi lungo i tornanti dei passi alpini, guardare negli occhi la sofferenza dei propri beniamini e credere che no, non è tutta una messinscena.

1 http://thenextweb.com/insider/2015/07/30/what-data-says-about-doping-in-the-tour-de-france/#gref. 2 Al netto di differenze nei percorsi dei singoli Tour (più o meno salite, più o meno tappe a cronometro), della qualità dei partecipanti (più o meno campioni presenti nella singola edizione) e dell’andamento della corsa (più o meno controllo da parte dei contendenti). L’uso di medie quinquennali aiuta a stemperare queste differenze, non banali, che possono distinguere due edizioni ravvicinate del Tour. 3 Tecnica antidoping che consiste nel tracciamento nel tempo dei parametri ematici dell’atleta. 4 Oltre all’imprecisione attuale dei power meters, anche il rimanere entro la «soglia di sicurezza» non è di per sé una prova di assenza di doping. Infine, i limiti fisiologici del corpo umano possono essere spinti in avanti dall’evoluzione delle tecniche di allenamento: la soglia-limite, quindi, non può essere considerata assoluta. È plausibile, invece, che i dati sulla potenza, unitamente ad altri parametri, possano dar vita in futuro a un «passaporto della performance» in grado di evidenziare deviazioni sospette dalle prestazioni standard di un atleta. 5 Anche a discapito dello spettacolo e delle «grandi imprese».

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Enrico Vanzina Il cinema popolare non è arte

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siste nella Storia un tizio misterioso, il quale si è preso una grande responsabilità definendo il Cinema «la settima arte». Da quel giorno è nato un equivoco che pesa come un macigno sul dibattito globale che riguarda questo meraviglioso spettacolo popolare, proiettato sugli schermi dell’intero pianeta. Parlo di equivoco perché il Cinema non è Arte. So che questa mia boutade rischia di creare scandalo negli ambienti più talebani dell’intellettualismo corrente. Ma ne argomenterò le ragioni. E una volta esposte, proverò a smontare uno dei tanti pregiudizi cresciuti all’ombra della presunta natura artistica dell’invenzione dei fratelli Lumière: il cinema popolare non è arte. Pregiudizio falso perché parte da una premessa falsa. Cos’è il Cinema? È il procedimento di trasformazione industriale, in immagini, di un’idea di racconto. Questa semplice definizione mi è stata consegnata in eredità dal signor Steno, mio padre (ma insieme a lui la pensavano così Mario Monicelli, Dino Risi, Pietro Germi), il quale ha realizzato circa novanta film come regista e ha scritto centocinquanta sceneggiature. Un vero addetto ai lavori. A mia volta, ho iniziato a fare il cinema nel 1971 e da quarantacinque anni non ho mai smesso. I miei lunghi anni di militanza cinematografica hanno confermato la validità della definizione di Steno: all’inizio c’è un’idea di racconto, poi avviene una trasformazione industriale di questa idea, in immagini, che termina, dopo varie fasi, con quello che si chiama un film. 53

La definizione di Steno, però, come ho già detto, non è condivisa. Gran parte dei critici e di certi autori cinematografici continuano a sostenere che il Cinema non è Industria, è Arte. Invece non lo è. Talvolta può diventarlo. Ma i film che diventano opere d’arte sono una eccezione. Normalmente il Cinema è un prodotto, più vicino all’artigianato, che viene sfruttato economicamente. Questo errore d’interpretazione da parte del mondo autoriale nasce dal fatto che il Cinema è un prodotto industriale anomalo, difficilmente catalogabile. Infatti, contrariamente ad una larga parte dei prodotti industriali, realizzati in serie, nell’industria cinematografica non esistono film che assomigliano ad altri. Sono tutti prototipi. Nel senso che per realizzarli si cambia ogni volta investimento, piano di lavoro, forma e contenuto. Da questa unicità del prodotto cinema nel momento della sua realizzazione deriva anche la sua unicità nel momento dello sfruttamento economico. La vita economica di un film non assomiglia mai a quella di un altro film. Fino al giorno della sua uscita in sala nessuno può stabilire il vero potenziale economico di una pellicola. E così, dalla somma di queste profonde incertezze ed anomalie industriali, ha preso forza la teoria per la quale il Cinema è solo Arte. Ma ripeto, non lo è. Il Cinema non viene realizzato per celebrare una visione autoriale personale. Essendo il prodotto di tanti talenti i quali, oltre al regista, si uniscono per generarlo – scrittura, recitazione, fotografia, scenografia, montaggio, effetti sonori e visivi, musica, produzione, promozione, distribuzione – non può essere considerato frutto dell’intelletto di un solo autore. Un film è una lunga catena di assemblaggio nella quale la valenza industriale pesa di più della valenza intellettuale del cosiddetto autore. Naturalmente, come ho detto prima, talvolta il Cinema può anche diventare Arte. Ma solo talvolta. Capita in casi eccezionali, come succede per esempio nel design, quando una sedia, 54

o un tavolo, o un lume, prodotti in serie, travalicano il loro specifico e finiscono in un museo per testimoniare a futura memoria planetaria qualcosa di artistico. Capita anche nella musica pop, quando una canzonetta diventa qualcosa di più di un motivetto ed entra nel repertorio universale dell’immaginario collettivo. Questo succede anche nel Cinema. Un film, particolarmente speciale, per forma e contenuti, può salire nell’Olimpo dell’Arte. E arriviamo al pregiudizio che voglio smontare. Questi film che diventano Arte, anche se il Cinema non produce per forza Arte, possono provenire da qualsiasi genere: commedia, thriller, melodramma, horror, western, fantascienza, film politico, film impegnato, ecc. Il punto fondamentale è che questi film appartengono tutti al genere superiore del cinema popolare. Faccio qualche esempio random: il western Ombre Rosse, il fantascientifico 2001 Odissea nello spazio, il thriller La finestra sul cortile, la commedia A qualcuno piace caldo, il noir La fiamma del peccato sono esempi perfetti di cinema popolare che è diventato Arte. Ma non è tutto. Se prendiamo in considerazione quei film che la critica considera «artistici» scopriamo che in moltissimi casi sono non solo artistici ma profondamente popolari. Rimanendo nell’ambito italiano, La dolce vita di Federico Fellini è ancora oggi il film che ha incassato di più nella storia del nostro cinema. Quindi, super popolare. Stesso destino hanno avuto moltissimi film di Luchino Visconti, di Francesco Rosi, di Elio Petri, addirittura di Michelangelo Antonioni o di Paolo Sorrentino e Matteo Garrone. Quello che la critica individua come prodotto d’arte, in realtà è un prodotto innanzitutto popolare. L’equivoco, dal quale nasce il pregiudizio che sto provando ad azzerare, scaturisce dal fatto che, nel corso degli anni, una radicalizzazione dell’indagine critica, spesso ideologica, ha immaginato il cinema come strumento per interpretare e cambiare la società. Per questi intellettuali il cinema deve «fregarsene» della sua natura industriale e deve essere realizzato, 55

anche in perdita, tenendo conto solo del suo presunto valore artistico. Baggianata colossale. Soprattutto, nella scelta dei criteri che rendono un film artistico. È più artistico il cinema popolare di Pietro Germi o un filmino arty da festival che viene dimenticato dopo il giorno della prima? Insomma, questo pregiudizio cinematografico è risibile.

Paola Basilone con Lorenzo d’Albergo Le nostre città sono sempre meno sicure

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iù sicurezza», «servono più agenti in strada», «le istituzioni ci hanno lasciato soli». Quante volte, in un percorso professionale che negli ultimi vent’anni mi ha portato su e giù per l’Italia, ho letto sui giornali e intercettato in radio e sui telegiornali queste parole? In decine, centinaia di occasioni. Adagi del genere, da Napoli a Torino, finiscono per diventare uno stanco ritornello, per ripetersi sempre allo stesso modo. E a serpeggiare rapidamente tra i cittadini, in barba a tutti quei dati e quelle statistiche che ci raccontano l’esatto contrario. Che mettono nero su bianco e certificano lo sforzo dello Stato per garantire a tutti gli italiani città sicure. O meglio, più sicure. Perché migliorare è sempre possibile. Ma una base concreta da cui partire c’è già. I numeri dell’ultimo rapporto compilato dal ministero dell’Interno fotografano un’Italia in cui i reati sono in progressiva diminuzione: se tra l’agosto del 2014 e il luglio del 2015 ne sono stati commessi 2.599.836, a un anno esatto di distanza il totale è sceso a 2.418.588. Traduzione: un calo netto del 7 per cento. Le rapine sono scese del 10,6 per cento e gli omicidi, i casi che più turbano l’opinione pubblica e l’immaginario di chi ogni giorno vive le nostre città, sono diminuiti di oltre 11 punti percentuali. Nel periodo preso in considerazione dagli statistici del Viminale, sono state 411 le vittime di omicidi volontari. È notevole il calo nel lungo periodo, se si prende come punto di partenza il record negativo del 1991 (anno durante il 57

quale in Italia si contarono più di 1.900 vittime). Negli ultimi tre anni, a partire dal 2013, sono in calo anche furti e rapine. Stando all’ultima rilevazione, si sono attestati rispettivamente a quota 1.303.813 e 30.989 casi. Un’importante inversione di tendenza: dal 2013, dopo aver fatto registrere un andamento altalenante, il dato è in continua flessione. Con la speranza – e la convinzione – che il trend possa trovare conferma nelle prossime ricerche. Perché, allora, gli italiani hanno sempre e comunque l’impressione di non essere tutelati quanto dovrebbero? La sicurezza, posso dirlo dopo aver saggiato le differenze culturali che intercorrono tra le grandi città italiane, non è solo un dato oggettivo. È infatti sempre più ampio il divario tra la sicurezza reale, quella che riportano i dati del Viminale che abbiamo appena letto, e la sicurezza percepita. Fabbricata: i media offrono un servizio fondamentale al lettore, ma ai professionisti che quotidianamente riempiono le pagine dei giornali e portano la loro voce e visione del mondo in radio e tv oggi è richiesto un grado di sensibilità sempre maggiore. La diffusione delle notizie è veloce, frenetica. E, nel contrasto alla criminalità, una comunicazione responsabile, capace di valorizzare gli aspetti positivi, è allora essenziale. Enfatizzare è giusto, ma con proporzione ed equidistanza. I dati – lo avete visto con i vostri occhi – sono incoraggianti. Diciamolo tutti insieme. Ricordiamo che nell’ultimo anno sono stati arrestati 1.654 mafiosi e 64 latitanti, di cui 10 considerati di massima pericolosità. Non scordiamoci che le forze di polizia a cavallo tra il 2015 e il 2016 hanno sequestrato 6.856 beni alla criminalità organizzata e che nell’anno del Giubileo della Misericordia, il primo nell’era dell’Isis, sono stati 109 i terroristi espulsi e 85 gli estremisti arrestati in tutta Italia. Le attività delle forze dell’ordine vengono di giorno in giorno modulate sulle frequenze d’onda dei cittadini per dare risposte il più possibile efficaci sui grandi temi: la lotta al terrorismo, la tenuta 58

dell’ordine pubblico nel corso delle manifestazioni di piazza e in quelle sportive. Eppure l’ansia di prossimità resta sempre difficile da scalfire: il furto in casa del vicino o la rapina all’anziana in strada, specie se raccontati sulle pagine di un quotidiano on line, riescono a scatenare quella sensazione di disagio che neanche la notizia dell’arresto di un foreign fighter sembra mitigare. Insomma, la percezione della sicurezza – che naturalmente si lega al livello di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni – non sempre è rapportata ai dati. Basta leggere gli esiti dell’ottavo rapporto sulla sicurezza e l’insicurezza sociale in Italia e in Europa di Demos&Pi, Osservatorio di Pavia e Fondazione Unipolis per accorgersi del corto circuito, della distanza che intercorre tra la realtà e la percezione. L’84 per cento degli intervistati ritiene che i reati, in Italia, siano cresciuti rispetto a cinque anni fa. In altre parole, nonstante le statistiche del ministero dell’Interno restituiscano un’immagine diversa delle nostre città, i cittadini sembrano vivere in un continuo clima di insicurezza. Perché? La spettacolarizzazione dei delitti e la caratterizzazione dei loro protagonisti deforma le notizie. I crimini, così come li racconta la stampa, diventano qualcosa in più di un fatto di cronaca. Il lettore, ovvio, finisce per impressionarsi. Spezzare questa catena è un’impresa titanica. La battaglia, però, può ancora essere vinta partendo dai numeri, declinando l’impegno delle forze dell’ordine in maniera intelligente sul territorio ed evitando di convogliare un certo tipo di messaggio. Non si può confrontare il tasso di criminalità di Roma, dove sono arrivata con il compito di gestire la coda dell’Anno Santo, con quelli di Parigi o New York. Figuriamoci quando la comparazione coinvolge città come Il Cairo. La capitale come un grande e sregolato suk a cielo aperto? No. L’immaginario collettivo può essere modellato in modo diverso, si può imparare a fare i conti con il cambiamento senza per forza continuare a lanciare allarmi privi di alcun fondamento. 59

Napoletani, torinesi e romani (giusto per ripercorrere le tappe fondamentali della mia carriera) possono ancora imparare a specchiarsi nella realtà. Possono abbandonare le paure costruite a tavolino, smetterla di rifugiarsi nei luoghi comuni e imparare a fidarsi dei propri occhi. Senza strabuzzarli quando lo sguardo si poserà sulle statistiche: la diminuzione dei reati è un dato concreto, il resto sono costruzioni. Percezioni che, seppur a fatica, possono essere modificate.

Paolo Borgna I clandestini sono tutti delinquenti

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i sono tanti modi d’essere clandestino1. Ma una cosa è certa: la contrapposizione tra stranieri-clandestini e stranieriregolari è il frutto di una falsa ideologia. Partiamo dai numeri. In una grande città del Nord come Torino gli stranieri irregolari, secondo una stima presuntiva, sono circa 5000. Nel 2015, sempre a Torino, 2466 persone sono state arrestate in flagranza di reati di strada. Tra queste, 820 erano cittadini italiani; 263 erano cittadini stranieri comunitari. Gli altri 1383 erano stranieri extracomunitari; il 90% dei quali «clandestini». Poiché molti di loro sono stati arrestati, nel corso dello stesso anno, tre o quattro volte, ciò significa che gli stranieri «clandestini» arrestati nell’arco di un anno sono circa 400: meno del 10% del totale degli irregolari presenti in città. Dunque, queste cifre ci dicono che sarebbe sciocco negare l’esistenza di fenomeni delinquenziali legati all’immigrazione clandestina. E che la mancanza di documenti può essere utilizzata per meglio nascondere la propria identità e sottrarsi ai controlli: dichiarando generalità sempre false e indicando un paese di origine diverso da quello reale. In tal modo, rendendo difficile, ogni volta che si viene controllati, la ricostruzione dei propri precedenti penali; rendendo infine quasi impossibile l’espulsione e il rimpatrio al paese di provenienza. Ma altrettanto sciocco sarebbe non comprendere che questi numeri ci dicono anche un’altra cosa: che la stragrande maggioranza degli stranieri irregolari normalmente non commette 61

reati; e che dunque in Italia esiste una «clandestinizzazione di massa» che tocca anche soggetti totalmente estranei al circuito criminale. Queste cifre ci confermano ciò che già ci dice l’esperienza quotidiana: che nelle nostre città ci sono decine e decine di migliaia di clandestini che già lavorano, che non chiedono di meglio che «regolarizzarsi», che hanno datori di lavoro che vorrebbero la stessa cosa. Ma non ci riescono per colpa della farraginosità della nostra legislazione e delle nostre prassi amministrative. Conosciamo il calvario di chi, ad esempio, vuole assumere, regolarmente, una persona straniera che badi alle cure di un anziano familiare. Rispettando la legge, una volta che il periodico «decreto flussi» abbia stabilito la «quota» di persone ammesse in Italia da un certo paese, si dovrebbe individuare un lavoratore (che si trova all’estero e, dunque, non si conosce); lo si dovrebbe chiamare e quindi attendere che quella persona riceva, dal nostro Consolato nel suo paese, il visto di ingresso. Ma se l’attesa dura all’infinito o se – come in Italia accade da tre anni – non viene emesso alcun «decreto flussi», è inevitabile che chi ha bisogno di assumere un lavoratore, si rivolga a chi già si trova in Italia: ad una persona che ha già avuto modo di conoscere e di cui si fida. È un meccanismo infernale: che spinge quella persona ad entrare o rimanere clandestinamente in Italia, a lavorare in modo onesto ma formalmente irregolare. Ecco l’errore di fondo di tutto il nostro sistema: fare finta che la domanda e l’offerta di lavoro si possano incontrare all’estero; mentre tutti sappiamo bene che la domanda di lavoro incontra l’offerta nel luogo in cui il rapporto di lavoro deve stabilirsi. È una finzione esiziale: che innesca un meccanismo di «illegalità» che nulla ha a che fare con la criminalità. Perché il cittadino straniero che in qualche modo è venuto in Italia (magari regolarmente, con un visto di tre mesi per motivi turistici, poi scaduto) e qui trova un onesto lavoro, si fermerà nel nostro paese. Ma per la legge italiana sarà irregolare, un «clandestino». Passibile non solo di espulsione ma anche di un processo penale. Perché questo è l’assurdo: che, dopo aver 62

contribuito, con le nostre complicate regole amministrative, a creare questo fenomeno di massa, ad un certo punto si è deciso di contrastarlo con lo strumento del processo penale. È ciò che è accaduto con l’introduzione del reato di «clandestinità»2. Un reato che è soltanto un vessillo ideologico. Una ricetta che indica una strada illusoria: perché il processo penale è un percorso complesso, lungo e costoso; che in nessun caso potrà servire ad estirpare un fenomeno di massa. Ma quella ricetta non è solo illusoria. È, soprattutto, insanabilmente iniqua. Perché, coinvolgendo in un processo penale il lavoratore onesto ancorché «irregolare», lo si schiaccia crudelmente sullo stesso piano di uno spacciatore o di un rapinatore. È questo appiattimento di tutti (la badante irregolare e il rapinatore) sull’immagine demonizzante della «clandestinità» l’aspetto più feroce della nostra legislazione. In questo senso, contrapporre gli stranieri-clandestini agli stranieri-regolari è artificioso e fuorviante. Serve soltanto ad annebbiare il fenomeno e a non far comprendere la vera priorità: concentrarsi sull’effettivo allontanamento degli autori di reati gravi, la cui espulsione, invece, troppo spesso rimane sulla carta. Sia detto per inciso: con la legge delega n. 67/2014 il Parlamento dava al governo la delega per l’abrogazione di una lista di reati. Tra questi c’era anche il reato di «clandestinità». Ebbene, l’unico reato, contemplato in quella lista, per cui il governo, nel gennaio 2016, non ha esercitato la delega è proprio quello di «clandestinità». Ritengo che questa mancata abrogazione sia un sintomo clamoroso della debolezza della politica, dell’incapacità, dei nostri leader, di fungere da guida delle proprie opinioni pubbliche, di orientarle, di interpretarne anche le paure dando ad esse uno sbocco positivo. E dico questo, soprattutto, avendo in mente le giustificazioni addotte dal governo nel momento dell’esclusione dell’articolo 10 bis dall’elenco dei reati cancellati. Si è detto, in sostanza: sappiamo che il reato di «clandestinità» è assolutamente inutile, inapplicabile, oltre che iniquo. Ma «non è questo il momento di cancellarlo». In 63

questa fase, di nuovi grandi flussi di immigrati verso l’Italia, l’abrogazione del reato non sarebbe compresa. Questo reato non ha alcuna efficacia ma serve come affermazione di principio. Lo abrogheremo in un momento più propizio. Come se fosse difficile spiegare una cosa che tutti i cittadini già conoscono sulla base della loro esperienza: che la normativa vigente in materia di ingressi per ricerca di lavoro è un meccanismo destinato inevitabilmente a creare irregolarità. Dichiarare di non essere in grado di spiegare questa semplice verità al proprio elettorato è un’ammissione di totale incapacità di leadership. Pensiamo alla nostra storia: quando, sul finire degli anni Quaranta, leader come Adenauer, Schumann, De Gasperi e Spinelli cominciarono a coltivare il progetto di una Europa unita, avevano, dietro di loro, popoli che avevano conosciuto la guerra, i bombardamenti, il massacro reciproco di milioni di persone. Ma non dissero: «non è ancora il momento». Colsero il terrore che la guerra aveva seminato e lo trasformarono in ripudio della guerra, in ricerca di un nuovo incontro tra popoli. Alle élites culturali e politiche europee è mancata, negli anni Novanta, questa capacità di pensare con grandezza ideale. È mancato lo sguardo strategico che consentisse di governare un fenomeno epocale, come i grandi flussi migratori, creando una nuova solidarietà fondata su una comune cultura dei diritti e dei doveri. Si è preferito usare questo fenomeno per fare propaganda. Ne stiamo pagando le conseguenze.

1 Usiamo qui il termine giornalistico «clandestino» – che in realtà non compare nella nostra normativa – per riferirci alla persona che la legge italiana definisce «illegalmente presente sul territorio dello Stato». 2 Come è noto, l’introduzione del reato di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato» è stata fatta dalla legge 15 luglio 2009 n. 94, inserendo l’articolo 10 bis nel testo unico sull’immigrazione (D. L.vo 25 luglio 1998, n. 286, c.d. «Legge Turco-Napolitano»).

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Andrea Boitani L’Italia va male perché è poco competitiva*

The winner takes it all The loser standing small Beside the victory. (Abba, 1980)

È

una verità universalmente riconosciuta che Roger Federer sia uno dei più grandi giocatori della storia del tennis mondiale. Alla vigilia della sua decima finale (vinte sette delle precedenti nove) a Wimbledon, nel 2015, l’ormai trentaquattrenne Roger dichiarò che Novak Djokovic (da qualche tempo il numero uno al mondo) era certamente favorito, ma che lui (Federer) sperava di essere competitivo e di giocarsela. La finale se la giocò, in effetti, con la sua solita ineguagliabile classe ma perse in quattro set. Nessuno dei fan o dei giornalisti che avevano ascoltato la dichiarazione di Federer aveva dubbi su cosa intendesse il campione svizzero con la parola «competitivo». Per tutti era chiaro che competitivo significava «in grado di vincere il torneo» (una competizione) in una partita che, come sempre nel tennis, non ammette pareggi. Nel presentare la nuova Fiat 500X, il 21 ottobre del 2014, un giornale on line diceva che la nuova arrivata «ha tutte le carte Questo è l’inizio del quarto capitolo del volume di Andrea Boitani Sette luoghi comuni sull’economia, che uscirà per i nostri tipi nel mese di febbraio 2017. *

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in regola (compresa qualcuna in più rispetto alla concorrenza) per competere con le best sellers delle auto crossover di segmento B». In questo caso è chiaro che, per la nuova Fiat, essere competitiva significava essere capace di conquistare una buona quota del particolare segmento di mercato in cui veniva a inserirsi, a spese delle auto dello stesso segmento prodotte da altre case automobilistiche. I due esempi ci dicono che essere competitivi significa essere in grado di contendere qualcosa (un torneo e il suo ricco premio, un mercato e i profitti che ne derivano) a qualcun altro. Non necessariamente chi vince prende tutto, come cantavano gli Abba, ma certo chi vince prende più di chi perde. Se questo è il significato della parola competitività, c’è da chiedersi perché da oltre vent’anni si sia diffusa la convinzione che il successo economico di un paese dipenda dalla sua competitività internazionale. Nel 1993 la Commissione Europea aveva pubblicato un Libro Bianco dal titolo eloquente: Crescita, competitività, occupazione, in cui si argomentava che il declino relativo dei paesi europei e l’aumento permanente della disoccupazione nel vecchio continente era dovuto a una progressiva perdita di competitività sui mercati internazionali. Nel 2000, con la cosiddetta Agenda di Lisbona, ci si propose addirittura di far diventare l’Europa il continente più competitivo nel giro di dieci anni. Nel 2010 l’obiettivo venne poi spostato al 2020. Già nel 1994, però, il solito Krugman (allora appena quarantenne) aveva pubblicato sulla rivista americana «Foreign Affairs» un articolo dal titolo inequivocabile: Competitività: un’ossessione pericolosa. Il problema è che le nazioni non partecipano ad alcun torneo né si contendono quote di mercato, come fanno le imprese. Se gli Stati Uniti crescono vigorosamente e, come economia, vanno bene, non è affatto detto che l’Europa o la Cina debbano perdere, cioè andare male o peggio degli Stati Uniti. 66

Anzi, in genere un paese che va bene (specie se grande) aiuta la crescita e la prosperità anche degli altri. È più facile andare bene se tutti gli altri vanno bene che se si è da soli a tirare il gruppo. Pochi dubiterebbero del fatto che la vigorosa crescita della Germania e dell’Italia negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso abbia fatto un gran bene a tutta l’Europa. E nessuno, ragionevolmente, pensa che la minor crescita della Gran Bretagna in quei due decenni sia da attribuire ai successi italiani e tedeschi. Non esisteva e non esiste alcuna gara per la supremazia economica in Europa o nel mondo. Chi pensa il contrario e che il benessere di un paese dipenda dal posizionamento in un simile torneo sbaglia di grosso. Un esempio aiuta a capire il punto. Immaginiamo che l’Italia e la Francia abbiano lo stesso tasso di crescita della popolazione e della forza lavoro e che il tasso di disoccupazione sia uguale e costante nei due paesi. Supponiamo che nel 2000 il Pil pro capite (ottenuto semplicemente dividendo il Pil totale per la popolazione residente) fosse uguale a 100 sia in Italia che in Francia. Immaginiamo poi che in Italia sia cresciuto costantemente dell’1% all’anno per dieci anni, mentre in Francia sia cresciuto del 2%. Alla fine del decennio il Pil pro capite italiano sarà arrivato al 110,5 mentre quello francese avrà raggiunto il 121,9. Non si può certo dire che l’Italia, in questo esempio, abbia perso la competizione con la Francia. L’Italia poteva crescere del 2% all’anno o del 3% all’anno, (quasi) del tutto indipendentemente da cosa avesse fatto nel frattempo la Francia. Se qualche influenza la maggior crescita della Francia poteva avere era di contribuire alla crescita dell’Italia attraverso le più consistenti importazioni di beni italiani associate alla maggior crescita francese. Infatti, crescendo di più, le imprese francesi hanno bisogno di utilizzare più prodotti intermedi made in Italy, mentre le famiglie francesi vorranno acquistare più pasta, maglioni e design italiano. Certo, nel nostro esempio, le retribuzioni reali (cioè il potere d’acquisto) dei lavoratori 67

francesi saranno aumentate mediamente più di quelle italiane, come conseguenza del maggiore aumento della produttività (prodotto per lavoratore occupato) francese rispetto a quella italiana. Con le ipotesi fatte circa la crescita della popolazione e della forza lavoro e con un tasso di disoccupazione costante, il tasso di crescita del Pil pro capite è identico al tasso di crescita della produttività. Ma non è vero che i salari reali italiani sono aumentati poco perché l’Italia è stata meno «competitiva» della Francia: sono aumentati poco perché in Italia la produttività è cresciuta meno che in Francia. Come ha scritto Krugman, «l’alta produttività è benefica non perché aiuta un paese a competere con altri paesi, ma perché consente a un paese di produrre di più e, quindi, di consumare di più».

Luca Ricolfi e Caterina Guidoni La corruzione ci costa 60 miliardi l’anno

C

urioso. Sulla stampa si parla ad ogni piè sospinto dei pregiudizi della gente, ingannata da leggende metropolitane, dalle bufale che circolano su Internet, dai discorsi di demagoghi senza scrupoli. Ben poca attenzione, invece, viene riservata ai pregiudizi dei giornalisti stessi. Uno dei casi più interessanti di pregiudizio giornalistico è probabilmente quello della corruzione che «ci costa 60 miliardi l’anno». Questo numero rimbalza sui grandi organi di informazione italiani (ma non solo: ci sono cascati anche Reuters e «Washington Post») da circa 7 anni, ovvero da quando – siamo nel giugno del 2009 – la Corte dei Conti (nel «Giudizio sul rendiconto generale dello Stato 2008») scrive che il fenomeno della corruzione nella Pubblica Amministrazione può incidere sull’economia ben oltre le stime di 50/60 miliardi l’anno, che la Corte stessa (erroneamente, come vedremo) attribuisce al Servizio Anticorruzione e Trasparenza (SAeT) del ministero della Pubblica Amministrazione. Da dove proviene questo numero che ricorre instancabilmente da anni su quotidiani italiani e stranieri? E soprattutto, come ha fatto a durare così a lungo nonostante sia del tutto campato per aria? Per capirlo, dobbiamo andare con ordine. 1. Nel 2004 la Banca Mondiale pubblica una ricerca riguardante governance e corruzione1 in cui si stima che il costo 69

delle tangenti pagate da aziende e persone fisiche nel mondo sia pari a mille miliardi di dollari e cioè circa il 3-4% del Pil mondiale. 2. Dopo un po’ di tempo, in Italia comincia a circolare la stima secondo cui la corruzione ci costa 60 miliardi di euro l’anno; nessuno sa con precisione quando, dove e come questa stima sia saltata fuori; secondo ceifan.org (sito anti-bufale) questo qualcuno è un anziano signore appassionato della materia che durante un convegno tira fuori questa cifra facendo una semplice proporzione: corruzione in Italia sta a corruzione nel mondo come Pil italiano sta a Pil mondiale. Nel produrre questa stima il nostro misterioso signore commette due grossolani errori. Primo, pare ignorare che la stima della Banca Mondiale non si riferisce ai costi della corruzione (qualsiasi cosa questa dizione indichi); secondo, dimentica che la Banca Mondiale sottolinea che il peso delle tangenti sul Pil varia molto da paese a paese. 3. Nel febbraio 2009, il Rapporto al Parlamento del SAeT, presentato dall’allora ministro Brunetta, mette in guardia da questa stima che, ottenuta senza un modello scientifico, rischia soltanto di creare confusione. In teoria, ovvero se la gente leggesse i testi che cita, la storia dovrebbe finire qui. 4. Invece, pochi mesi dopo, nel giugno 2009, la Corte dei Conti nel «Giudizio sul rendiconto generale dello Stato 2008» scrive che l’impatto sociale del fenomeno della corruzione nella P.A. può incidere sull’economia ben oltre le stime di 50/60 mld l’anno del Servizio Anticorruzione e Trasparenza del ministero della P.A., senza rendersi conto che il SAeT non solo non aveva prodotto quelle stime, ma le aveva messe in dubbio. Così, grazie a questa sciatteria della Corte dei Conti, la cifra acquisisce attendibilità. 70

5. A questo punto il numero comincia a diffondersi sui principali quotidiani che lo riportano come cifra ufficiale attestata nel rendiconto, guardandosi bene dal controllare come la cifra sia stata ottenuta. 6. L’anno successivo (2010) il Rapporto del SAeT torna sull’argomento : «Tale ipotesi [il valore della corruzione in Italia pari a 60 mld (N.d.R.)] è smentita, non solo dalla fantasiosità del procedimento usato per calcolarla, ma, prima di tutto, dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki‐moon, che [...] ha ricordato come il costo della corruzione mondiale sia prossimo a one trillion dollar, cioè 700 miliardi di euro: pensare che in Italia sia localizzato l’8,5% della corruzione mondiale fa un po’ sorridere anche i più pessimisti». 7. Questo passaggio viene ripreso l’anno successivo (2011) nella «Relazione al Parlamento sullo stato della Pubblica Amministrazione» del ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione (Renato Brunetta). 8. Malgrado ciò, nel 2012 la Corte dei Conti torna ad attribuire la stima dei 60 mld SAeT. Nella relazione del procuratore generale si legge: «Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal SAeT [...], rispetto a quanto rilevato dalla Commissione Ue l’Italia deterrebbe il 50% dell’intero giro economico della corruzione in Europa!». 9. Questa affermazione viene letta dai media come un’ulteriore prova della validità della stima. Non tenendo conto che anche sul Rapporto del SAeT si ritenesse questa cifra «esagerata». 10. Due anni dopo, nel 2014, l’Ue prende per buona la stima dei 60 miliardi come proveniente dalla Corte dei Conti, no71

nostante essa sia totalmente incoerente con quella fatta dalla Commissione stessa nel 2011, in cui si calcolava che la corruzione in Europa valesse 120 miliardi di euro, ossia l’1% del Pil europeo. Pare quantomeno irrealistico che l’Italia da sola contribuisca al 50% della corruzione dell’Ue. A quanto ci risulta, il primo ad accorgersi della bufala e a denunciarla è stato il blog Quattrogatti del «Fatto Quotidiano», fin dal 22 ottobre 2012. Curiosamente, da allora nessuna seria autocritica è mai comparsa sui maggiori quotidiani o in Tv, e la denuncia della «leggenda dei 60 miliardi» ha continuato a vivere quasi esclusivamente nel mondo di Internet. Forse a riprova del fatto che, su Internet, oggi si trova il peggio e il meglio dell’informazione.

1 Myths and realities of governace and corruption (Daniel Kauffman, World Bank).

Gaetano Azzariti La Costituzione deve stare al passo coi tempi

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l più esplicito è stato Enrico Letta: la ragione principale dell’impegno del governo a favore della riforma costituzionale è da rinvenirsi «nell’attuale situazione di crisi economica... [Questa] ha reso non più tollerabili le inefficienze e i nodi irrisolti che il nostro sistema politico e istituzionale si trascina, ormai, da oltre trent’anni. Si tratta di un costo che l’Italia non è più in grado di assorbire in una situazione di recessione che non trova precedenti nella storia recente del paese»1. Cambiare la Costituzione? Ce lo chiede la crisi economica, dunque. D’altronde, solo un anno prima la Costituzione era già stata modificata perché ce lo aveva chiesto l’Europa. Le regole di bilancio, il cuore della razionalità economica di un paese e matrice di ogni possibile modello di sviluppo, venivano riscritte nel più breve tempo possibile, senza discussione, registrando il consenso unanime delle forze di maggioranza e di opposizione2. Tutti convinti che la Costituzione non possa fare altro che seguire la corrente. Una corrente di breve durata, peraltro. Infatti, poco dopo la riforma costituzionale, non appena approvata la legge di attuazione, il primo atto del nuovo governo in Europa è stato quello di chiedere la deroga dei vincoli di bilancio. Evidenziando l’uso strumentale – rivolto esclusivamente all’immediato – della revisione costituzionale. Ora, un altro slogan s’impone. Ce lo chiede l’innovazione. Solo chi non vuole il cambiamento può difendere una Costitu73

zione non più al passo con i tempi. Tra tutte le affermazioni la più menzognera. Ipocrita dal punto di vista strettamente politico, essa gioca su un equivoco banale. Di fronte alle difficoltà dell’agire politico, incapace di trovare soluzioni alle sempre più complesse domande e alle ancora più diffuse insicurezze sociali, si tende a scaricare sulla Costituzione ogni responsabilità. Ma proprio la debolezza di ogni prospettiva politica concreta rende del tutto indefinito il verso – il senso stesso – del mutamento proposto. Innovare in nome della governabilità, della semplicità, del nuovo: tutte categorie indeterminate, espressioni accattivanti ma vuote. Quel che si richiede, in realtà, è solo seguire il tempo del mutamento immediato, senza che ci si possa soffermare neppure un momento, neppure per porsi il più ovvio degli interrogativi: cambiare per andare dove? Se volessimo prendere sul serio quest’ultima domanda, se volessimo capire dove ci può portare il mutamento costituzionale in corso, dovremmo allontanarci per un attimo dal contingente, per recuperare il senso proprio delle parole. Cercando di ricordare cosa sia una costituzione. Non è uno sforzo eccessivo, basta risalire ai postulati essenziali del costituzionalismo moderno. Le costituzioni, ci insegnano i classici, non sono leggi come tutte le altre. Non servono a «governare», in caso a «limitare» i sovrani; non tendono a «semplificare», piuttosto a «dividere» i poteri; non garantiscono un indeterminato «nuovo», bensì devono assicurare i diritti storici conquistati dai cittadini nel perenne conflitto contro i poteri costituiti. Persino le costituzioni concesse (octroyée) dalle monarchie ottocentesche, in realtà furono il frutto di una dura lotta per la costituzione. Per questo le costituzioni si pongono al di sopra del contingente, sottraendosi alla disponibilità dei governi. Quando le costituzioni anziché porsi come limite dei poteri diventano strumenti di governo (instrumentum regni), mez74

zo per la realizzazione delle politiche ordinarie, esse perdono il proprio senso storico. Dentro la pura forma costituzionale si può allora nascondere il corpo nudo del sovrano. Ma vi è anche qualcos’altro che rende insopportabile l’uso strumentale e contingente delle costituzioni. È il tradimento che in tal modo si consuma nel rapporto tra i testi costituzionali e la storia. Un equilibrio instabile, complesso, lega le costituzioni alle trasformazioni sociali e culturali più profonde. Il carattere della lunga durata è proprio delle costituzioni moderne, esse non seguono le leggi del mutamento politico, neppure quelle dei regimi politici. Così, la costituzione statunitense ha più di due secoli e nessuno pensa sia «vecchia» o non sia più al passo con i tempi. Così, lo statuto albertino ha attraversato diversi regimi, sollevando questioni di straordinaria importanza che portarono a riflettere sul senso materiale, sul ruolo delle forze politiche «dominanti», sui caratteri dei principi costituzionali. Mai però immaginando che la suprema legalità costituzionale potesse cedere il passo al fatto. La sfida con la storia era legata alla capacità delle norme «superiori» di assorbire le trasformazioni in base ad una loro naturale elasticità. Ora si assiste ad una progressiva banalizzazione del rapporto tra costituzione e storia. Anzi, ritenendo finita la grande storia, non si riesce a guardare oltre la cronaca. Sicché alle costituzioni viene assegnato il compito di rappresentare il reale, ritenuto per ciò solo razionale. Le costituzioni perdono in tal modo la loro funzione di progettazione del futuro di una comunità politica. Non più «rivoluzioni promesse», solo tecnica al servizio della politica, subalterna alle autonome dinamiche di mutamento sociale. Costituzioni arrese, sopraffatte dal vento impietoso del tempo. Il futuro non passa più per le costituzioni, in caso richiede il loro abbandono. C’è da chiedersi, a questo punto, a cosa serva una «costituzione» ridotta a «legge». Norma al pari di ogni altra, privata delle funzioni superiori di natura identitaria e d’integrazione 75

che il costituzionalismo novecentesco aveva ad essa attribuito. Qualcuno si difende dall’accusa di aver dissolto la forza e il valore delle costituzioni ergendo muri di paglia. Tra questi coloro che – con logica da «salumieri» – tendono a fare a fette la Costituzione, distinguendo la costituzione dei diritti dalla costituzione dei poteri: la prima pregiudizialmente immodificabile, la seconda indiscutibilmente obsoleta. Una distinzione astratta e priva di ogni fondamento storico, teorico, materiale. Anche molti tra coloro che denunciano la fine degli Stati nazionali non sembrano granché interessati a porsi il problema del futuro del costituzionalismo moderno. Evidentemente ritenendo di non poter condividere il principio secondo il quale, proprio in tempi di cosmopolitismo, ogni Stato deve avere una costituzione repubblicana. Lo affermava Immanuel Kant nel 1795, poco al passo con i tempi.

Così si legge nella relazione di accompagnamento del disegno di legge costituzionale presentato alla presidenza del Senato il 10 giugno 2013 dal governo Letta per la istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali. 2 Nel giro di appena sei mesi, senza una effettiva discussione parlamentare, in assenza di un significativo dibattito presso l’opinione pubblica, nella distrazione dei più, venne approvata (alla Camera senza registrare nessun voto contrario e solo 11 astenuti) la legge costituzionale che ha introdotto il principio di «pareggio di bilancio», modificando tre articoli della nostra Costituzione. Si noti bene, peraltro, che lo slogan «ce lo chiede l’Europa» utilizzato per far approvare la riforma del testo della Costituzione era anche ingannevole: il Trattato di stabilità (Fiscal compact) non impone alcunché, indica solo una «preferenza», tant’è che alcuni Stati europei hanno modificato le proprie costituzioni, altri – più accorti – hanno introdotto semplici norme ordinarie di contenimento delle spese. 1

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Piero Bevilacqua La priorità è la crescita

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e gli abitanti di un lontano pianeta potessero ascoltare le voci che giungono dalla Terra, di certo la parola che più spesso risuonerebbe alle loro orecchie è «crescita». E tutte le correlate invocazioni «occorre riprendere la crescita», «la crescita riparte», «la giusta strada per la crescita», ecc., che invaderebbero il loro spazio quotidiano, apparirebbero come le preghiere misteriose di un popolo ostinatamente devoto. La devozione religiosa nei confronti della crescita è tuttavia un mistero anche per tanti abitanti del nostro pianeta che non hanno ancora smesso di pensare. Perché essa, salvo alcuni anni di rallentamento e di regresso a causa della crisi esplosa nel 2008, non ha mai cessato di proseguire il suo corso. Ma senza che il suo rutilante progredire modificasse gran che gli squilibri strutturali del capitalismo attuale, accrescendo anzi le disuguaglianze di classe, rendendo sempre più precario e mercificato il lavoro, riducendo la protezione del welfare, sbriciolando il tessuto del vivere sociale con l’esaltazione dell’individualismo competitivo, restringendo gli spazi della democrazia, rendendo drammatici e forse irreversibili i danni ambientali della Terra. Forse che oggi gli Usa, la più prospera economia del mondo, non stanno «crescendo»? Eppure nessuno dei gravi problemi sociali che affliggono quel paese, alla base della crisi ancora in atto, è stato davvero risolto. Non certo la disoccupazione, ridotta e tamponata con il lavoro precario e i trucchi della statistica, né di sicuro il fenomeno dei lavoratori 77

poveri, l’indebitamento delle famiglie, la concentrazione delle ricchezza in poche mani, la povertà infantile, l’allungamento del tempo di lavoro al punto da diventare una tossicodipendenza (workaholic), l’impoverimento della middle class. Per penetrare nel mistero glorioso di tanta devozione verso una fede così scopertamente ingannevole e fallimentare occorre dividere in due il sacro oggetto. Da una parte stanno i dogmi e le prescrizioni dei sacerdoti, dall’altra gli interessi e la «roba» di chi dalla crescita riceve ricchezza e potere crescente. Le due funzioni sono spesso indistinguibili ma occorre fare lo sforzo di tenerli separati. Così si comprende come il segreto del successo devozionale è legato alla forza inerziale della macchina economico-sociale, che continua il suo corso e premia le posizioni di comando e di privilegio. Oltre, che, naturalmente, all’assenza di un antagonista politico a scala globale. La teoria economica dominante, che rappresenta e propaganda gli interessi della classe dominante, appare invece come il lascito degradato di quella che è stata una delle più importanti scienze sociali della modernità. L’aver sottratto la teoria economica alle infinite variabili della complessità sociale, all’incalcolabilità della natura e degli ecosistemi, è sembrato agli economisti mainstream di aver fondato una scienza esatta, una nuova fisica della ricchezza. In realtà hanno edificato una ideologia, fondata su assiomi, cioè su verità autoevidenti e non «falsificabili», che non si cura – come scrive Mauro Gallego – «della corrispondenza empirica tra assiomi e realtà, elevando la matematica al ruolo di giudice della bontà della teoria». In realtà, quella che era una scienza sociale è degradata in tecnica e la tecnica – non la scienza, come voleva Heidegger – la tecnica non pensa. L’economia ridotta a tecnologia della crescita è un dispositivo neutro di calcolo e di intervento empirico che tende a replicare i suoi princìpi e i suoi automatismi all’infinito. Anche se tra i suoi princìpi assiomatici si annoverano – come abbiamo scoperto dalle cronache – deci78

sioni goffamente arbitrarie come la fissazione ottimale del deficit statale al 3%. Mentre la sua solenne veridicità è consacrata dall’incremento annuo del Pil, un misuratore, come ricordava Robert Kennedy, che «comprende la distruzione delle nostre foreste e la distruzione della natura. Comprende il napalm e il costo dello smaltimento dei rifiuti radioattivi». Forse mai una pretesa scienza, cosi totalitariamente dominante, aveva ricevuto tante scientifiche smentite dalla realtà. La sua logica accumulativa tende ad assoggettare alle necessità del profitto ogni frammento del mondo vivente, mercifica ogni umana relazione, prosciuga ogni superstite significato del vivere. Il distillato esistenziale del suo progredire è una umanità affannata, nevrotica e infelice. Con la sua pretesa infinità essa è non solo platealmente in urto con la finitezza delle risorse naturali e gli equilibri in cui queste operano. Ma ignora una realtà antica quanto il mondo: tanto in natura quanto nell’ambito della vita sociale, tutto ciò che cresce, una volta raggiunto il culmine della sua maturità, declina e muore o degrada nel suo contrario. Gli organismi divenuti adulti invecchiano e poi si disfano. Analoga sorte subiscono i beni e le costruzioni sociali. La crescita della popolazione è stata una leva dello sviluppo moderno, oggi è una minaccia. L’automobile ha rappresentato una forma incomparabile di mobilità sul territorio, oggi è un problema ambientale e di mobilità. L’accesso ai consumi ha liberato una parte dell’umanità dalla penuria, oggi il consumismo è una patologia sociale. Per effetto della crescita l’utilità si rovescia in disutilità. La sua invocazione non prospetta, in realtà, alcun miglioramento delle condizioni generali. Alla lunga, anzi, minaccia l’estinzione della specie. E quando le parole non corrispondono alla stoffa effettiva del reale, vuol dire che la cultura che le esprime è morta. Per questo, e per tanti altri motivi, la nostra – epoca di menzogne quanto altre mai – è l’età dei paradossi. Una società 79

dominata dal sapere scientifico, in grado di spedire navicelle spaziali su remotissimi pianeti, che va esplorando gli spazi incommensurabili delle stelle, è ancora governata da una superstizione di massa alimentata da una casta di sacerdoti a cui nessuno chiede il conto dei suoi errori, delle sofferenze inflitte alle popolazioni per conto del potere economico e finanziario.

Ignazio Visco Con la cultura non si mangia

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ochi anni fa in un saggio di ampia portata (Mass Flourishing - How Grassroots Innovation Created Jobs, Challenge, and Change, Princeton University Press, 2013), già divenuto oggetto di un approfondito dibattito quando non di ispirazione, Edmund Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006, affrontava un tema cruciale: da che dipende il rallentamento delle economie che si osserva ormai da più di un decennio, e verso dove siamo indirizzati? Domande, queste, che si intrecciano con la discussione, spostatasi ormai dall’accademia alle stanze della politica, su che fare per contrastare la «stagnazione secolare» che discende secondo alcuni dalle crescenti difficoltà di trasformare in investimenti il risparmio che si genera nell’economia, e secondo altri, non necessariamente in alternativa, dalla tendenziale minor crescita della produttività dopo decenni di straordinario sviluppo tecnologico e organizzativo. Al di là di spiegazioni contingenti – crisi finanziaria globale, difficoltà dei paesi emergenti, invecchiamento della popolazione – e in contrasto forse con le richieste di accrescere con forza lo stimolo della domanda pubblica nell’economia, Phelps concludeva con alcune notevoli affermazioni: il progresso conseguito negli ultimi due secoli da masse crescenti di persone è il risultato di un diffuso e crescente dinamismo di fondo derivato dall’affermarsi, dal «fiorire» di valori quali il bisogno di creare, la propensione a esplorare, la ricerca di lavori più appaganti, il desiderio di affrontare nuove sfide e di avere successo; questo dinamismo 81

si è andato affievolendo insieme con l’affermarsi di un «corporativismo» volto nel migliore dei casi, quando non a difendere posizioni di rendita, a sostenere gli «esclusi» e i più deboli con strumenti di ridistribuzione o di contrasto alla povertà destinati a perpetuare lo status quo, anziché a creare nuove occasioni di sviluppo; questa tendenza, ormai visibile secondo Phelps negli Stati Uniti, è da tempo prevalente nell’Europa continentale, in particolare in Italia, con una crescita dell’economia e una creazione di nuovi posti di lavoro dipendenti non da innovazioni interne all’area ma dal dinamismo esterno, anch’esso, come detto, ora in rallentamento; occorre quindi ristabilire a tutti i livelli – di legislazione e di governo, di regolazione di mercati e intermediari, di conduzione delle imprese – l’apertura all’innovazione, la disponibilità a guardare oltre il breve termine, l’affermarsi, diremmo, di una «classe dirigente» consapevole e preparata, aperta a coltivare risorse quali «creatività, curiosità e vitalità», a ricercare l’equità con l’inclusione più che con la ridistribuzione. Insomma, un «vaste programme», con fondamentali riferimenti culturali: dalla vitalità di un Omero o di un Cellini al sogno e all’immaginazione del Don Quijote di Miguel Cervantes e dell’Hamlet e del King Lear di Shakespeare; dalle «passioni» e dall’enfasi sulla crescita della conoscenza nella società di David Hume all’«Il faut cultiver notre jardin» nel Candide di Voltaire; dal «life, liberty and pursuit of happiness» di Thomas Jefferson all’importanza del «divenire» sull’«essere» di intellettuali pur così diversi come Montaigne, Ibsen, Kierkegaard, Nietzsche o Henri Bergson, fino al modernismo di un Wilde, un Verdi e un Mascagni, e molto altro. Ora, possiamo essere più o meno d’accordo con le proposte di Phelps, sottolinearne limiti e omissioni dell’analisi, enfatizzare con lui come il ritorno alla crescita dell’innovazione in un ambito nazionale richieda l’affermarsi di una «cultura volta a proteggere e stimolare l’individualità, l’immaginazione, la comprensione e l’espressione della propria personalità» o sottoli82

neare, per citare la recensione di Bob Shiller al suo libro, che «riconoscere la necessità di sperimentare nuove forme di organizzazione economica non significa necessariamente abbandonare l’equità e la compassione». Ma è certo che, soprattutto nel nostro paese, non si può non prendere atto che viviamo in un’epoca di profondi cambiamenti; gli effetti della globalizzazione, gli andamenti demografici, gli avanzamenti tecnologici sono di una tale portata che, se è impossibile «prevedere il futuro», dobbiamo tutti comprendere che è prioritario rafforzare, da un lato, la capacità dell’economia di stimolare l’innovazione e incorporare il progresso tecnologico, oggi motori fondamentali di crescita e benessere, dall’altro, fare in modo che tutti possano parteciparvi e goderne i frutti. A questo fine, partiamo da alcuni «fatti», pur consapevoli che non ci si può limitare a ripetere, come Mr Gradgring in Hard Times di Charles Dickens, che «solo di fatti abbiamo bisogno nella vita»... Il primo fatto è che la nostra economia ristagna da ben prima della crisi finanziaria. Da più parti ne sono state investigate le ragioni: dai «lacci e lacciuoli» nell’amministrazione e nei servizi pubblici all’insufficienza dei servizi privati; da una particolare specializzazione produttiva e una dimensione media particolarmente ridotta delle imprese a un ambiente socio-economico non favorevole, in larga parte del nostro territorio, all’affermarsi di una sana e moderna cultura d’impresa; da una dipendenza eccessiva di imprese poco capitalizzate a investimenti in ricerca e sviluppo troppo bassi e concentrati; da un debito pubblico particolarmente elevato che limita iniziative volte a rinnovare le infrastrutture e a favorire investimenti pubblici, in presenza di vincoli di varia natura che operano sulla spesa corrente, alla scarsità di investimenti privati in grado di determinare, con l’innovazione, un significativo innalzamento della produttività. Emergono insomma nettamente nel nostro paese le debolezze considerate nell’analisi di Phelps. Alla mancata crescita 83

dell’economia nell’ultimo ventennio, e in particolare a una caduta della produzione industriale e del prodotto interno lordo rispettivamente di circa un quarto e quasi un decimo tra il 2008 e il 2014, hanno fatto riscontro una flessione degli investimenti privati e pubblici senza precedenti e gravi difficoltà sul fronte dei prestiti bancari, con un incremento dei crediti deteriorati che alla lunga pesa gravemente sui bilanci delle banche. In secondo luogo, la diffusione delle nuove tecnologie, non solo di natura digitale, si è accompagnata nelle imprese italiane all’accentuarsi dei ritardi sul fronte della scolarizzazione, dell’istruzione terziaria e della formazione, e quindi a livelli di capitale umano in media decisamente più bassi che negli altri principali paesi. Ma è un fatto che l’investimento in capitale umano è particolarmente redditizio e che si tratta di un fattore sempre più importante per la crescita dell’economia. Anche in Italia le persone più istruite hanno minori difficoltà nel trovare un lavoro, hanno carriere meno frammentate e salari più elevati; se si guardano gli indicatori disponibili, studiare sembra però rendere meno che altrove. Si tratta, evidentemente, di un paradosso; a uno stock di capitale minore dovrebbe corrispondere un maggiore rendimento per ogni unità di capitale aggiuntivo, e così non è. In parte, il paradosso è riconducibile alle strategie delle imprese, con una domanda di lavoro qualificato frenata dalla specializzazione in settori tradizionali e ad alta intensità di lavoro, dalla dimensione aziendale ridotta, dal contesto istituzionale e regolamentare. Ma potrebbe pesare anche la percezione di un deterioramento nella qualità dell’istruzione cui le imprese avrebbero reagito, in condizioni di informazione imperfetta, con un’offerta generalizzata di bassi salari (e sfruttando la maggior flessibilità nel mercato del lavoro non per fare investimenti e riorganizzazioni ma per mantenere vantaggi di breve durata sul fronte salariale). A loro volta i bassi salari non avrebbero giustificato più elevati investimenti privati in istruzione. 84

La presenza di significative difficoltà nel trovare competenze adeguate nel mercato del lavoro, in particolare nell’utilizzo delle tecnologie digitali (in Italia solo il 50 per cento dei lavoratori utilizza il computer contro una media del 70 per cento per il complesso dei paesi dell’Ocse), potrebbe poi avere spinto le imprese non a innalzare i salari ma a ridurre la propensione a investire in nuove tecnologie, contenendo così il fabbisogno di manodopera qualificato: un circolo vizioso che oltre a deprimere ulteriormente l’incentivo all’investimento in capitale umano, spingerebbe i lavoratori più qualificati a cercare altrove migliori opportunità lavorative. Un ultimo fatto, più difficile da quantificare, riguarda le tendenze in corso connesse con le innovazioni che si prevede saranno di ampio uso in un prossimo futuro (dalla robotica avanzata ai mezzi di trasporto autonomi o quasi, dalle tecnologie per l’immagazzinamento dell’energia alla stampa a 3D, dalla genomica alla tecnologia cloud e ai materiali avanzati). Anche se è difficile concordare su una dimensione temporale precisa, gli effetti sui processi produttivi, sull’organizzazione del lavoro, sulla distribuzione del reddito, sulla nostra stessa vita personale potranno essere travolgenti. Si tratta di innovazioni spesso collegate tra loro, che si alimentano a vicenda rendendo possibili brusche accelerazioni e inaspettate applicazioni (si pensi all’«Internet delle cose»). Nella transizione, scompariranno inevitabilmente molti posti di lavoro; alla perdita di determinati lavori corrisponderà certamente la nascita di nuovi, ma il risultato netto e soprattutto i tempi per una sostituzione ampia ed equilibrata sono tutti da determinare. Nel breve-medio periodo non potrà che accentuarsi la polarizzazione delle professioni, con una ricomposizione dell’occupazione dalle attività svolte da lavoratori con una formazione di tipo professionale e basate sull’utilizzo di utensili e macchinari verso quelle più complesse che richiedono una formazione avanzata. Oggi da noi la quota di queste ultime è inferiore a un terzo, contro il 85

45 per cento circa nella media dell’Unione Europea e il 50 per cento nei paesi nordici. Ma vi è di più, oltre a questi fatti. Il capitale umano non potrà infatti più coincidere, se mai l’ha fatto, con il bagaglio conoscitivo delle persone; la produttività di chi lavora non sarà più necessariamente legata a conoscenze tradizionali acquisite una volta per tutte nella scuola e nell’università e applicate in modo standard nel corso della vita lavorativa. Assumeranno sempre più importanza le «competenze»: la capacità di mobilitare in maniera integrata risorse interne (saperi, saper fare, atteggiamenti) ed esterne, per far fronte in modo efficace a situazioni spesso inedite, non di routine. Sempre più importanti saranno l’esercizio del pensiero critico, l’attitudine a risolvere i problemi, la creatività, la disponibilità positiva nei confronti dell’innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace, l’apertura alla collaborazione. Insomma, i valori messi in luce da Phelps. Servirà più cultura, e bisognerà superare una buona volta e definitivamente la barriera che da noi separa la cosiddetta cultura «umanistica», da valorizzare, da quella «tecnicoscientifica», su cui investire. Al termine «cultura», dalle molte sfaccettature e spesso generatore di equivoci (ma ricordiamo quanto bassa è da noi la «spesa culturale» – nella definizione, pur limitata, di spesa in libri non scolastici, giornali e riviste, cinema, concerti, teatri, musei – con una caduta da 30 a 25 euro mensili tra il 1997 e il 2011, a fronte di un aumento di oltre il 20 per cento della spesa media complessiva), io preferisco il termine, in un’accezione ampia inclusiva delle nuove competenze, di «conoscenza». E se oltre i fatti sono importanti i valori, va sottolineato con forza che, oltre a un impatto positivo sulla crescita economica, ne possono derivare contributi fondamentali per il rafforzamento del senso civico e la comprensione dell’importanza del rispetto delle regole e degli altri, per l’affermazione del diritto contro l’accettazione passiva di 86

livelli di corruzione inaccettabili e dannosi, per non parlare di intollerabili abusi e di pericolosi atteggiamenti nei confronti della criminalità organizzata. Ma bisogna essere consapevoli che non si tratta solo di chiedere allo Stato di fare la sua parte, e quindi «di più». Si tratta di maturare questa consapevolezza a livello collettivo, individui e imprese, giovani e anziani, dipendenti e non. Perché investire in cultura, in «conoscenza», è la risposta migliore che possiamo dare alle difficoltà di oggi e all’incertezza del futuro, consapevoli che finirà per ripagarci, con gli interessi. Perché, come scriveva ormai quasi tre secoli fa Benjamin Franklin nel suo Almanacco, «An investment in knowledge pays the best interest», il rendimento dell’investimento in conoscenza è più alto di quello di ogni altro investimento.

Umberto Croppi La cultura è di sinistra

«A

mo Hugo Pratt... Maurice Barrès... Lacerba e Giovanni Papini, amo Georges Mathieu / amo Ezra Pound, fascista / amo Richter e Georges Ribemont, Dessaignes e Balla, Boccioni / e Segantini, Severini, Carrà e Marinetti Filippo Tommaso, fascisti / e Sironi / li amo». Così nella sua poesia Amo, Andrea Pazienza mette in fila una serie di autori per il suo pantheon di riferimento personale. Il geniale autore di fumetti è certamente collocabile a sinistra e, considerato che il testo è del 1977, in una sinistra fortemente marcata. È un esempio, uno dei tanti, per spiegare la complessità di una risposta alla domanda «la cultura è di sinistra?», o ancor meglio «esiste una cultura di sinistra?» (o di destra o di centro). Per provare a rispondere dovremmo ancor prima rispondere ad altre due domande. Cosa sono la sinistra e la destra, e cos’è la cultura? Come argutamente scrive Pierluigi Battista «destra e sinistra non si trovano in natura», ogni definizione è dunque frutto di una convenzione, anzi di convenzioni che si stabiliscono nel tempo: destra e sinistra sono quelle che storicamente si danno, e quasi mai hanno elementi certi di continuità. Per quanto riguarda la cultura il tentativo è ancora più arduo. Cultura è creazione artistica, musicale, letteraria, filmica: si può rintracciare una marca ideologica (anche se non in senso proprio, non legata cioè alla contingenza politica) nei contenuti di queste forme creative? Burri, il più grande artista

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italiano del dopoguerra, era fascista; forse i suoi cretti e i suoi cellotex esprimono un’adesione, veicolano qualcosa che abbia a che fare con le categorie della politica? Cultura è indagine filosofica, e certamente le famiglie politiche del ’900 sono succedanee delle grandi speculazioni filosofiche, ma è possibile oggi un’elaborazione concettuale che non tenga conto di Marx come di Gentile, di Croce, di Heidegger, di Schmitt, di Weber e, naturalmente, di Hegel, di Kant e di Nietzsche? Cultura però è anche conoscenza condivisa, formazione di credenze e di modelli spontanei. Quel complesso di meccanismi che fu al centro delle riflessioni di Gramsci, a cui si deve la definizione di nazional-popolare e che misura lo scarto tra la politica e quell’universo pre-politico in cui si formano le convinzioni, si stabiliscono i legami profondi. Se provassimo a districarci in questo labirinto difficilmente ne verremmo fuori in poche righe; limitiamoci dunque ad averlo presente per trarne una prima conclusione: non c’è verso di imbrigliare in maniera certa il pensiero e la creatività all’interno di categorie labili come quelle della politica. Tuttavia il pregiudizio si fonda su un ulteriore elemento, che poco ha a che fare con i contenuti: l’appartenenza. Si è infatti stabilito, per buona parte del dopoguerra italiano, il duplice assioma che la maggior parte degli intellettuali fosse di sinistra e che le persone di sinistra fossero più colte (avessero letto più libri, visto più film, visitato più musei). Pregiudizio consolidato in Italia da una speculare convinzione: da parte della sinistra l’affermare tale primato, da parte degli altri (democristiani per primi) il riconoscerglielo, con una sorta di abdicazione. Per la destra poi, minoritaria e marginale, più che un pregiudizio lo considerava (non senza ragione) una pratica di discriminazione e di esclusione che generava alternativamente complessi di inferiorità e una cultura del ghetto, residuale e consolatoria. A ben vedere, però, il Moloch della cultura di sinistra sem89

bra essere stato più che altro un fantasma. È Carlo Lizzani, regista insigne e iscritto al Pci, che sul «Corriere della Sera» dell’8 febbraio 2010 svolse una lunga dissertazione per sfatarne il mito. Eccone un brano: «Primo: Monicelli non è mai stato vicino al Pci. Secondo: Germi, lo ricordano quanti sono stati attivi in quegli anni, era visceralmente anticomunista. Terzo: lo stesso si potrebbe dire di Lattuada. Quando, il 14 luglio 1948, tutta l’Italia si fermò in seguito all’attentato a Togliatti, fece eccezione soltanto la troupe de Il mulino del Po, di cui facevo parte come aiuto regista. Lattuada infatti si oppose allo sciopero... Del tutto lontano dal Pci fu Antonioni, per non parlare di De Sica... tranquillo conservatore. Lontani anni luce dal Pci, poi, tutti gli attori: dalla Magnani a Totò, da Fabrizi a Nazzari, da Eduardo alla Lollobrigida... Come ho sempre sostenuto fin d’allora, l’egemonia fu anche ‘regalata’ alla sinistra. Come non presumere, dunque, che in altre aree della cultura, della scuola, della stampa, dell’editoria, delle istituzioni scientifiche non si sia verificato lo stesso fenomeno?». E infatti si potrebbe continuare citando Longanesi, Guareschi, Bevilacqua, Berto, Montanelli, Albertazzi, Carmelo Bene, Flaiano, Buzzati... Ma il caso più emblematico è forse rappresentato da Pasolini, icona della sinistra italiana (ma amato da una parte consistente della destra), espulso dal Pci «per indegnità morale» a causa della sua omosessualità, attaccato dalla stampa del partito di Togliatti per il suo Accattone, assertore di una visione della vita antimoderna: «Attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione // la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza». Un fantasma dunque, e come tale lo rappresenta una lungimirante analisi di Alberto Abruzzese, che nell’82 pubblica un denso saggetto dal titolo Il fantasma Fracassone, in cui rimprovera al suo partito, il Pci, di aver limitato i propri sforzi al controllo degli strumenti di produzione culturale e al rapporto col ceto intellettuale, modellando però una cultura politica 90

che non ha «più nulla a che vedere con le forme sociali della cultura, con i linguaggi dell’informazione, con le dinamiche tecnologiche». E se vogliamo buttarla in politica è proprio sul terreno dell’egemonia culturale, quella gramsciana, premessa indispensabile all’egemonia politica, che la sinistra ha perso la sua guerra: mentre sulle terrazze si mimava la gara della fedeltà al partito da parte degli intellettuali, le famiglie italiane si formavano sulle colonne dei rotocalchi, si identificavano in Alberto Sordi, si accingevano a sintonizzarsi sulle soap opera e sui reality.

Gregorio De Felice Gli italiani sono un popolo di cicale che affonda nei debiti

Era d’inverno, e le formiche stavano asciugando il loro grano, che si era bagnato. Ed ecco che una cicala affamata andò a chiedere loro del cibo. Ma le risposero le formiche: «Perché durante l’estate non hai fatto anche tu le provviste?». Rispose la cicala: «Non ne avevo tempo, ma cantavo armoniosamente». E quelle, ridendole in faccia, le dissero: «Beh, se nel tempo estivo cantavi, d’inverno balla». (Esopo)

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uante volte, nel leggere commenti e valutazioni sull’Italia, abbiamo riascoltato l’eco della favoletta di Esopo? Quante volte l’Italia è stata criticata per una politica della spesa pubblica che ha permesso agli italiani «spendaccioni» di vivere al di sopra delle proprie possibilità? Quante volte ci siamo sentiti dire che la situazione del nostro debito pubblico è insostenibile? Proviamo a verificare, sulla base delle evidenze empiriche, quanta verità c’è in queste affermazioni. Il pregiudizio sull’Italia-cicala nasce dalla dinamica del debito pubblico, ma anche da un atteggiamento per così dire «schizofrenico» degli italiani, che li vede quasi incuranti dell’accumulo del debito che fa capo alle amministrazioni pubbliche, ma assai parsimoniosi quando si tratta del proprio bilancio

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familiare. Se paga Pantalone tutti contenti, ma attenzione a indebitarsi di persona o a intaccare il risparmio accumulato! Fingiamo di ignorare che il debito pubblico, in realtà, è il debito di ciascuno di noi: ne abbiamo circa 35.000 euro a testa, compresi i neonati e gli ultra-centenari. A partire dagli anni Ottanta, il debito pubblico italiano è iniziato a crescere molto più rapidamente del prodotto interno lordo. All’appuntamento con l’Unione Monetaria, l’Italia si è presentata con un rapporto debito/Pil dell’ordine del 100%, ampiamente superiore alla soglia del 60% fissata dal Trattato di Maastricht. Dopo una lunghissima fase di crisi economica che ha provocato, tra il 2008 e il 2014, una caduta del Pil reale di quasi 9 punti percentuali, il rapporto sfiora oggi il 133%, ben lontano dalla media dell’Eurozona (91%). A fronte di un debito pubblico di dimensioni ragguardevoli, l’indebitamento delle famiglie italiane si colloca invece tra i valori più bassi d’Europa: a fine 2015 si attestava al 43% del Pil, contro il 54% della Germania, il 56% della Francia e l’87% del Regno Unito. Anche il debito delle imprese, paragonato a quello dei partner europei, non risulta particolarmente elevato: 77% del Pil, contro il 105% medio dell’Eurozona. Mettendo insieme i tre dati (debito di settore pubblico, famiglie e imprese), otteniamo una realtà che è ben lontana da quella di un paese «scialacquone» e con i conti fuori controllo: il debito aggregato (253% del Pil) è infatti inferiore alla media dell’area euro (259%) e ai livelli di Francia (279%), Stati Uniti (255%) e Giappone (409%). Facciamo però un passo avanti e diamo uno sguardo più approfondito ai conti delle famiglie. A fronte di un indebitamento comparativamente inferiore ai partner europei, gli italiani vantano attivi – finanziari ma, soprattutto, reali – di assoluto rispetto: il risultato è una ricchezza netta pari a poco meno di otto volte il reddito disponibile, più elevata di quella delle famiglie francesi (7,5 volte) e tedesche (5,5 volte). La casa e gli immobili, il 93

«grande amore» degli italiani, hanno sempre occupato un posto importante nei bilanci familiari: lira dopo lira, euro dopo euro, le formiche italiane hanno accumulato un patrimonio immobiliare che l’ultimo dato di Banca d’Italia quantifica in poco meno di 5000 miliardi. Anche se la crisi, con la conseguente caduta del reddito disponibile, ha raffreddato le quotazioni, poco meno del 60% dei capifamiglia continua ancora a considerare la casa la forma di investimento più sicura e il 41% circa la migliore possibile1. C’è da dire che la prudenza che le famiglie dimostrano nell’accesso al debito presenta degli svantaggi nell’attuale contesto, inedito, di tassi di interesse bassissimi o addirittura sotto lo zero su una larga quota di titoli di Stato dell’Eurozona. Proprio perché le famiglie sono poco indebitate e detengono molta ricchezza finanziaria, i loro bilanci stanno registrando un calo dei flussi di interessi attivi (quelli cioè che si ricavano dai rendimenti obbligazionari) più che doppio rispetto alla flessione degli interessi passivi (sui mutui e sul credito al consumo): l’impatto netto sui saldi è pertanto negativo. Lo stesso calcolo, effettuato per la Germania e la Francia, presenta un risultato di equilibrio2. Paradossalmente, in questa fase assai particolare, avere più debito privato ci avrebbe aiutato... Un secondo, ben radicato pregiudizio riguarda la presunta scarsa sostenibilità della situazione di finanza pubblica, che è invece nettamente migliorata. Certamente, il debito italiano è molto elevato (è il terzo al mondo per dimensione), ma nel 2015 abbiamo toccato un massimo in rapporto al Pil e già dal 2016 inizieremo a registrare una leggerissima flessione, destinata ad accentuarsi negli anni successivi. A contenere la dinamica del debito contribuiranno, in prospettiva, diversi elementi. Innanzitutto, il minor onere della spesa per interessi: il costo medio del debito all’emissione si è ridotto dal 4,1% del 2008 allo 0,6% del primo semestre di quest’anno. Poi, la ripresa: siamo finalmente usciti dalla re94

cessione e la crescita, sebbene ancora modesta, contribuisce a stabilizzare il rapporto tra il debito e il Pil. Anche l’avanzo primario giocherà un ruolo fondamentale: non è cosa di cui si parli di frequente, ma le statistiche segnalano che (con la sola eccezione del 2009) l’Italia ha mantenuto negli ultimi venticinque anni un saldo positivo tra le entrate e le spese delle amministrazioni pubbliche, al netto dei pagamenti per interessi. Saranno infine determinanti gli effetti di lungo periodo delle riforme, che potranno migliorare il ritmo di crescita dell’economia. Ci siamo già premuniti, ad esempio, per far fronte all’invecchiamento della popolazione, una tendenza diffusa nei maggiori paesi industrializzati: in base alle stime della Commissione Europea, l’Italia è il paese in cui la spesa pubblica legata all’aumento della vita media e alla tutela della salute è destinata a crescere a tassi più contenuti nei prossimi quindici anni. Qual è il senso di queste considerazioni? Certo non si può collocare l’Italia tra i paesi virtuosi sul fronte del debito: il peso della componente pubblica è innegabile, così come i suoi effetti di freno alla crescita. Resta però il fatto che la solidità complessiva della nostra economia non è in discussione: gli stimoli alla competitività (e quindi alla crescita) possono far leva su bilanci delle famiglie sani, non indeboliti da bolle del debito, del valore degli immobili o delle attività finanziarie. La ripresa che faticosamente si sta avviando ha una base solida: quella di una popolazione abituata a comportarsi da formica e a rimboccarsi le maniche.

Intesa Sanpaolo-Centro Einaudi, Indagine sul Risparmio e le scelte finanziarie degli italiani, 2016. 2 Banca Centrale Europea, «Bollettino Economico», n. 4/2016, Box 3: Low interest rates and households’ net interest income. 1

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Luciano Canfora La democrazia è il governo del popolo

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a frase appare a prima vista tautologica, o comunque un’ovvietà. Essa si nutre, invece, di un errore sintomatico: della confusione, cioè, tra «governo» e «potere». Ben sappiamo che nell’uso corrente i due concetti vengono adoperati come sinonimi, allo stesso modo che – con altrettanto sintomatica confusione – vengono talvolta usati come intercambiabili «governo» e «Stato». Chiariamo dunque, preliminarmente, che un «potere del popolo» – cioè, appunto, «democrazia» – qualche volta si è dato, nella storia di alcuni paesi. Ma sarebbe più esatto dire che si è trattato del «potere» di singoli gruppi popolari (spesso numericamente minoritari rispetto all’intero «popolo»): per esempio le «sezioni» sanculotte di Parigi nel 1792/1793; i tribunali «popolari» a Cuba subito dopo la fine del regime di Batista; i «sindacalizzati» politicizzati durante l’«autunno caldo», ecc. Quanto al «governo» di popolo, invece, non è azzardato osservare che nessun esempio storicamente documentato se ne può addurre. Neanche l’assemblea popolare, apparentemente ‘onnipotente’ di quella minuscola realtà che fu la «città» antica poté effettivamente esercitare un «governo del popolo», bensì – ancora una volta – intermittenti momenti di «potere popolare». Diamo uno sguardo sommario. In origine «il popolo» appoggiò i «tiranni»: Pisistrato ad Atene (VI secolo a.C.) è forse il più noto, certo a causa dell’importanza storica di Atene. La parola «tiranno» oggi significa altro: allora indicava un «mediatore» accettato o imposto da una 96

parte, in genere popolare. Ad un certo punto, ad Atene, i rivali dei «tiranni» – già loro collaboratori, a onor del vero – fecero balenare l’idea dell’autogoverno popolare, che fu chiamato con parola in principio denigratoria «democrazia». Ma, non appena tale idea si fece strada, si manifestarono i correttivi: anche alla guida della «democrazia» si posero, sin da subito, minoranze organizzate e influenti. Il grande Pericle era giudicato dagli avversari un monarca, e il sistema politico vigente al tempo suo fu definito da uno storico coevo, che molto lo ammirava, «democrazia solo a parole». Il nipote di Pericle, Alcibiade, leader a più riprese dell’Atene «democratica», parlando davanti ad un pubblico spartano, definì il sistema democratico, in modo alquanto icastico, «una follia universalmente riconosciuta come tale». E aggiunse: «Per fortuna guidata da noi». Si dice, di solito, che la separazione tra elettori ed eletti, tra governanti e governati (quella separazione che indusse Rousseau alla ben nota sentenza: «il popolo inglese il giorno dopo aver votato ridiventa schiavo») sia inerente alle forme rappresentative-elettive di «democrazia» e non alla democrazia ‘diretta’, assembleare, della città-Stato. Non è così. Anche nella «democratica» Atene, le cariche più importanti – militari e finanziarie – erano elettive, e andavano a finire per lo più nelle mani di esponenti delle grandi famiglie, dei ceti ‘forti’. Della Repubblica romana, caratterizzata dalla prevalenza politica di un organo non elettivo, ma di cooptazione, come il Senato, sarebbe quasi superfluo fare qui cenno se non fosse invece, quella Repubblica, il luogo dove per la prima volta furono inventate, e sperimentate, le leggi elettorali truffaldine: le leggi miranti a falsare la «volontà popolare», a vanificare il principio di base «una testa/un voto». Il sistema romano, di elezione per centurie (cioè per unità militari) dei magistrati, fu il remoto antenato dei più diversi, e ciclicamente ricorrenti, sistemi elettorali di tipo «maggioritario» che la storia millenaria che abbiamo alle spalle ci ha via via regalato. In particolare quel sistema, che metteva sullo 97

stesso piano centurie comprendenti un ben diverso numero di elettori, fa venire in mente i ‘borghi putridi’ inglesi. Una realtà, quella inglese, che viene spesso esaltata come «democrazia» o per ignoranza o per malafede. Basta considerarla più da vicino. Un collegio elettorale comprendente pochi elettori (benestanti proprietari terrieri) esprimeva lo stesso numero di eletti che un collegio elettorale comprendente moltissimi elettori (le grandi realtà urbane): il trucco è evidente, ed è abbastanza facile smascherarlo. Ciò non toglie che, a tale ‘anomalia’ si pose rimedio, in Inghilterra, soltanto negli anni Trenta dell’Ottocento. Non a caso, all’epoca, nei vocabolari, democracy veniva spiegato così: the social revolution. Restava in vita comunque – e dura ancora oggi – il sistema del collegio uninominale «secco». Il quale produce – come ben si sa – risultati aberranti: dal paradosso di dare talvolta, complessivamente, più eletti al partito che ha raccolto – su tutto il territorio nazionale – meno voti, all’ancor più irritante paradosso di escludere totalmente dalla rappresentanza cospicue minoranze. I ‘correttivi’ del suffragio universale, cioè le più fantasiose e inique leggi elettorali miranti a dare tutto il potere ad una minoranza numerica più ‘fortunata’ delle altre, hanno alla lunga disgustato il ‘popolo’. Il risultato è che – un po’ dovunque – sempre meno elettori esercitano ormai il ‘diritto di voto’. Negli Stati Uniti d’America il fenomeno è stabile e dura ormai da molti decenni. Persino nella cosiddetta «culla della democrazia», cioè nell’Europa occidentale, la tendenza è che vota poco più della metà degli aventi diritto. Nel frattempo i principali poteri già spettanti ai parlamenti nazionali sono passati nelle mani di organismi non elettivi, tecnici, sovranazionali, posti al riparo dalle reazioni e dagli umori – esprimibili attraverso il voto – dei «cittadini», ormai sempre più «sudditi». Le conclusioni che si possono trarre da questo stato di cose sono varie. Ne suggeriamo alcune: 98

1) la ‘volontà popolare’, per quanto contrastata, manipolata, addirittura vilipesa, se e quando riesce (di rado) ad esprimersi, può farlo nell’ambito dello Stato nazionale; non più se diluita entro elefantiache e babeliche aggregazioni multistatali, che solo esteriormente mettono insieme realtà che non hanno in comune cultura, ordinamenti scolastici, lingua, ecc. (da Dublino a Catanzaro, per fare un solo esempio); 2) il deperimento, di fatto estinzione, dei partiti politici che erano stati generati dalla storia dei singoli paesi, unitamente al trasferimento, sia del potere che del governo, in luoghi posti al riparo dal suffragio elettorale ha determinato il macroscopico fenomeno storico della rinuncia di massa ad esercitare il «mestiere di cittadino»: è finito il ciclo storico della «democrazia politica»; 3) non è detto che sia facile intravedere sviluppi, o vie d’uscita, che riequilibrino, almeno in parte, il rapporto tra «potere», «governo» e «popolo». Certo è la pratica elettorale come tale che andrà riconsiderata. Riflettendo sulla storia del parlamentarismo nelle sue varie fasi storiche e varianti, Antonio Gramsci, in carcere all’indomani del definitivo fallimento della rivoluzione in Italia e nell’Europa occidentale, si prospettò, sia pure in veloce abbozzo, forme del tutto nuove di «elezionismo» (Quaderno 13: Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi). Si potrebbe partire – egli scrisse – dalla distinzione, di ruoli e di potere, tra «chi consente e si impegna a fare qualcosa di più del comune cittadino legale» ed il cosiddetto, in genere passivo e manipolabile, «comune cittadino legale». Parrebbe, anche se si tratta purtroppo di un semplice cenno, una riproposizione, moderna e non più censitaria, del ‘suffragio ristretto’ così caro al liberalismo classico (e al troppo osannato John Stuart Mill). Sarà questa la via per rivitalizzare la «democrazia»? 99

Sergio Romano La democrazia è la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre

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olte forme di governo sono state sperimentate e verranno sperimentate in questo mondo di peccati e di affanni. Nessuno pretende che la democrazia sia perfetta e onnisciente. In effetti è stato detto che la democrazia è la peggiore forma di governo, a eccezione di tutte quelle che sono state sperimentate in un’epoca o l’altra...». La frase è in un discorso pronunciato da Winston Churchill alla Camera dei Comuni l’11 novembre 1947. Il grande leader dei tempi di guerra aveva perduto le elezioni dell’agosto 1945 ed era allora il capo dell’opposizione. Non aveva detto addio alla vita politica e sarebbe tornato al potere come primo ministro dopo le elezioni dell’ottobre del 1951; ma in quelle parole vi era probabilmente un’ombra di risentimento per l’ingratitudine dei suoi connazionali. Il giudizio sulla democrazia, quindi, era realisticamente rassegnato. Dopo gli orrori delle dittature del XX secolo, un conservatore liberale (nella sua lunga vita politica Churchill era stato l’uno e altro) doveva riconoscere che la democrazia, nonostante i suoi vizi e i suoi errori, era il meno peggio di tutti i sistemi possibili. Lo direbbe ancora se fosse vissuto fino ai nostri giorni? Negli ultimi decenni la democrazia ha partorito un gran numero di movimenti populisti che si propongono di scavalcare gli organi intermedi della democrazia parlamentare per dare al popolo il diritto di pronunciarsi con un sì o con no su ogni questione di pubblico interesse. Le nuove tecnologie e le reti sociali hanno

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trasformato la società in una elezione permanente. L’ideologia del Movimento Cinque Stelle è un software, il suo parlamento ideale è una rete chiamata Rousseau. Un sondaggio durante la campagna elettorale, può cambiare il programma dei candidati e indurli a fare promesse che non potranno mantenere. Sapevamo già che le consultazioni popolari possono essere, per un demagogo, una scorciatoia sulla via del potere e che Hitler divenne cancelliere nel gennaio 1933 dopo le elezioni del novembre 1932. Ma non avevamo ancora assistito alla proliferazione dei referendum, da quelli svizzeri sui minareti e sulla libera circolazione delle persone a quello con cui David Cameron ha esposto il Regno Unito al rischio della disintegrazione. Quanto più la politica e l’economia diventano tecnicamente complesse, tanto più si diffonde la convinzione che soltanto il popolo abbia il diritto di sciogliere dubbi e nodi. La seconda tara della democrazia del XXI secolo è il costo delle campagne elettorali. Da quando la Corte Suprema degli Stati Uniti, nel 2010, ha alzato le chiuse e permesso che la vita politica fosse inondata, senza alcun limite, dai fiumi di denaro provenienti da imprese e lobby, la gara ormai è tra i candidati più ricchi. L’articolo della Costituzione americana che riconosce ai cittadini il diritto di possedere armi fu una vittoria del popolo contro le sopraffazioni del potere. Oggi, in circostanze completamente diverse, quell’emendamento permette alla National Rifle Association di comperare con il suo denaro l’impotenza del Congresso. Quando pronunciò quella frase nella Camera dei Comuni, Churchill pensava a un sistema in cui il popolo conferisce una delega e ne giudica gli effetti alla fine della legislatura. Se avesse saputo che cosa sarebbe accaduto settanta anni dopo, non l’avrebbe detta.

Franco Farinelli Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare

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l Mediterraneo ha sempre facilitato le cose, non si è mai interposto ma al contrario ha sempre funzionato da ponte e connessione, ha sempre fatto da tramite. Dunque il mare in questione può essere uno solo, quello che adesso si chiama Oceano Atlantico ma prima si chiamava l’Oceano Tenebroso. Perciò il detto va riferito anzitutto alla storia che segna la nascita della modernità e che coincide con la vicenda di Cristoforo Colombo, al punto che ancora oggi esso agisce come sua lapidaria sintesi, come fulmineo bilancio del suo senso, come morale anzi di un’intera epoca, quella appena passata. Un conto sarebbe affermare la possibilità di fare qualcosa, altro è farla davvero; e tra i due atti, l’enunciare e il realizzare, si frappongono tanti materiali ostacoli e difficoltà, tante concrete vicissitudini da mettere a repentaglio ogni effettivo esito, che il più delle volte, quando esiste, assume una forma del tutto imprevista e sorprendente in grado di smentire ogni presupposto dell’originaria intenzione, come infatti il caso della scoperta dell’America esemplarmente dimostra: ancora oggi, sbagliando, questo si pensa il proverbio voglia dire. Invece no, esso significa insieme il contrario e molto di più, e non soltanto perché da tempo sappiamo dell’esistenza dei linguaggi performativi, quelli appunto per cui dire equivale direttamente a fare, ma per delle ragioni inscritte in maniera radicale all’origine della cultura occidentale. È il segreto di Kant, che è lì lì per svelarlo nella prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion Pura, quella 102

del 1787, dove spiega come fu trovato «il cammino sicuro della scienza», evento molto più importante «della scoperta della via che doppiava il famoso Capo di Buona Speranza». Ogni volta che nella Critica Kant scrive che qualcosa o qualcuno (ad esempio Locke) è famoso bisogna stare attenti, perché in tal modo egli ne riconosce l’importanza ma allo stesso tempo anche l’inessenzialità, procede insomma per più o meno sottili e beffarde allusioni. In questo caso il riferimento al portoghese Vasco da Gama, il primo europeo a svoltare alla fine del Quattrocento appunto intorno alla punta meridionale dell’Africa, serve ad indicare il primato di Colombo senza farne il nome: chi, infatti, se non quest’ultimo aveva pensato e praticato una via verso le Indie ancora più efficace e decisiva, del tutto opposta alla circumnavigazione africana? Così Kant ci dice che un modo di pensare e una rotta marittima, così come un percorso terrestre, sono la stessa cosa, e che nella rivoluzionaria e atlantica impresa colombiana tale coincidenza si riconnette alla «via regia» iniziata da Talete, il primo a comprendere «che la ragione arriva a vedere solo ciò che essa stessa produce secondo il suo progetto», poiché essa può cercare nella natura soltanto quel che essa stessa vi ha prima posto «secondo misura». L’ultima espressione va intesa alla lettera. Talete trova l’area del triangolo isoscele soltanto perché comprende che «egli non doveva attribuire alla cosa se non quello che seguiva necessariamente da ciò che egli stesso, in conformità al suo concetto, vi aveva posto», tramite cioè «quel che egli stesso aveva già pensato e rappresentato in essa a priori (per costruzione)». Colombo trova una (nuova) terra per lo stesso motivo, perché riduce il vecchio mondo alla figura che Paolo dal Pozzo Toscanelli, il più sfuggente ma anche il più importante degli umanisti fiorentini, aveva costruito cioè disegnato nella sua Carta dell’Oceano oggi scomparsa, dove il mare appariva finalmente trasformato in un unico, gigantesco spazio, vale a dire in un ambito sistematicamente riducibile a ragione perché 103

passibile di una regola metrica lineare standard. È a partire da tale regola che l’oceano, ridotto a misura cioè a matrice di ogni possibile moderna razionalità, nel Cinquecento troverà finalmente posto sugli atlanti, derivandone il nome. Ed è questo il mare che si frammette tra il dire e il fare, o meglio: nella forma del mare quel che modernamente s’intromette tra il dictum e il factum è lo spazio, vale a dire la tavola, la mappa, portatrice della logica da cui la realizzazione di ogni progetto finirà in epoca moderna col dipendere. In tal modo il mare, primo regno di tale logica, diventa il modello dell’intera Terra. Ancora nel Milione di Marco Polo «lo spazio riempito di cose terrestri», come dicevano i geografi tedeschi dell’Ottocento, non era propriamente tale, perché le foreste, i deserti, i laghi, le montagne non avevano estensione ma al contrario duravano: «Carcam è una provincia che dura cinque giornate», e la misura del mondo, che era temporale e non aveva nulla di metrico né di lineare, risultava scandita dall’alternarsi della notte e del dì, ed era tutt’uno con la vicenda esistenziale del viaggiatore. Si apra invece, al contrario, quel che resta del diario di bordo di Cristoforo Colombo, e invariabilmente si troverà che la distanza è ridotta a miglia e leghe, ad astratte unità in grado di fagocitare ogni possibile forma di tempo, oltre che di umana esistenza. Si può dirlo in maniera molto più sbrigativa e alla moda, con le parole di Korzibsky e Bateson trasmesse oggi da tanti epigoni: la mappa (il mare ridotto a spazio) precede, in epoca moderna, il territorio. E tanto peggio per Baudrillard che crede invece tale precessione il segno distintivo ed esclusivo della postmodernità. Al contrario, a dispetto dell’eclissi medievale, essa inaugura la cultura occidentale, ne segna il concreto, operazionale, performativo avvio, attraverso l’inaudita tracotanza di Anassimandro, che nel VII secolo prima di Cristo osò per primo rappresentare, come riporta Simplicio, la Terra abitata su una tavoletta. Soltanto su una mappa, infatti, il pensiero e l’azione, 104

il dire e il fare, diventano la stessa cosa, si equivalgono cioè si scambiano l’uno con l’altra. Proprio all’opposto di quel che sarebbe il ruolo irriducibile e contrastivo del mare secondo l’interpretazione corrente del proverbio in questione. Ma esattamente come, sulla faccia della Terra ridotta ad un unico spazio, le parti di quest’ultimo risultano reciprocamente fungibili, cioè l’un l’altra sostituibile senza che nulla cambi. Come Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia scriveranno a Colombo al ritorno dal suo primo viaggio: «Ogni cosa è dunque accaduta proprio come ce l’avevate descritta».

Eva Cantarella La donna è mobile

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lunga, veramente lunga la storia dello stereotipo secondo il quale «la donna è mobile». Nato in un tempo e in un luogo difficili da individuare, esso era già saldamente radicato nella mentalità dei nostri antenati romani. A dimostrarlo basta ricordare alcune tra le loro più antiche regole giuridiche che questi si diedero. Le donne infatti per i romani erano «mobili» non solo perché, secondo la ben nota formulazione verdiana dell’idea, «qual piume al vento» mutavano «d’accento e di pensier». Erano mobili anche nel senso fisico del termine, che i romani abitualmente applicavano alle res, vale a dire alle cose: in contrapposizione a quelle «immobili» (nel senso di inamovibili), le donne erano infatti considerate cose mobili (res mobiles) e in questo senso prese in considerazione in una delle norme contenute nel 450 a.C. nelle celebri XII Tavole, il primo codice di leggi della storia di Roma. Ma vediamo di chiarire in che senso e perché: a quell’epoca, nel momento in cui andavano spose, le donne uscivano dalla famiglia paterna, e quindi dalla sottoposizione al potere personale del padre per entrare in quella del marito. Ma poteva accadere che per qualunque ragione (ad esempio, un difetto di forma) la cerimonia nuziale non fosse in grado di produrre i suoi effetti: che fare, in simili circostanze? A risolvere il problema interveniva l’usus, una singolare applicazione dell’istituto che oggi chiamiamo usucapione, in forza del quale il diritto di 106

proprietà si acquista, oltre che nelle forme contrattuali previste, anche attraverso il decorso del tempo. Orbene: nel diritto romano il termine dell’usucapione, sempre secondo le XII Tavole, era di due anni per le cose immobili e uno per quelle mobili (considerate di minor valore sociale ed economico). Per trasferire la moglie dalla famiglia paterna a quella del marito, dunque, bastava equiparare le donne alle res mobiles: così facendo, al termine di un anno di convivenza entravano nella famiglia del marito. Ma torniamo alla mobilità intesa come leggerezza dell’animo, presa a sua volta in considerazione dalle regole del diritto. Che le donne fossero diverse dagli uomini (e a questi inferiori) era cosa già teorizzata dai greci. Più specificamente, come ben noto, da Aristotele, secondo il quale le donne, pur possedendo, la parte deliberante dell’intelletto la possedevano, a differenza degli uomini, «senza autorità» (Pol., I (A) 13, 1260 a). Con quali conseguenze? Che «nella relazione del maschio verso la femmina l’uno è per natura superiore, l’altra è comandata ed è necessario che fra tutti gli uomini sia proprio in questo modo» (sempre Aristotele, Pol., I (A) 5, 1254 b). Tradotta in norma giuridica questa considerazione faceva sì, tra l’altro, che le donne fossero sottoposte a vita al controllo di un tutore. E a spiegarne la ragione stava la loro levitas animi (leggerezza dell’animo), che le rendeva «mobili» caratterialmente e intellettualmente. E perché si cominciasse a mettere in discussione questa idea ci vollero alcuni secoli, nonostante le storie di donne tutt’altro che «mobili» fossero molte e celebri. E nonostante queste donne fossero celebrate e venissero portate a modello a tutte le altre proprio per la loro fermezza d’animo. Una delle più celebri, forse la più celebre di esse era Porzia, la figlia di Catone Uticense. Moglie in seconde nozze di Bruto, uno degli uccisori di Cesare, nel 42 a.C., dopo la definiva sconfitta dei repubblicani a Filippi e la morte dell’amatissimo marito, Porzia aveva deciso di porre fine ai suoi giorni: senza 107

Bruto la sua vita non aveva più senso. Invano amici e parenti avevano cercato di dissuaderla: nessuno era riuscito a convincerla. Di fronte a simile fermezza, essi avevano cercato di impedirle di realizzare il suo proposito nascondendo qualunque oggetto ella potesse usare contro di sé come arma. Ma la determinazione di Porzia era tale da superare ogni ostacolo. Ed ecco il racconto della sua morte fatto da Marziale (nella traduzione, che segue, di Guido Ceronetti): «Udì Porzia la morte di Bruto / e il suo dolore di sposa cercò un’arma (tutte gli erano state sottratte). / ‘E ancora non sapete, gridò, che non si può proibire di morire? / Credevo che mio padre e la sua morte vi avessero insegnato questo!’. Tacque, / e con frenetica bocca inghiottiva rovente bragia. Via via / piccola gente fastidiosa: provati / adesso a rifiutarle un ferro» (Mart., I, 42). Secondo esempio: quasi un secolo dopo, nel 42 d.C., ecco Arria, ricordata da Plinio il Giovane (Ep., III, 16, 6), e da Tacito (Ann., VI, 29 e XVI, 10). Arria era stata per tutta la vita un esempio e un monito a sé stessa e agli altri. Quando uno dei suoi figli era morto aveva deciso, per non addolorarlo, di nasconderlo al marito Peto, in quel momento ammalato: ogni volta che entrava nella stanza di questi componeva il volto al sorriso, per piangere solo quando era lontana, e poi di nuovo ricomporsi e tornare a visitarlo. Ma la ragione per cui aveva meritato fama eterna era stato il comportamento tenuto quando Peto, coinvolto in una congiura contro Claudio, era stato condannato a morte. Nel momento stesso in cui venne a sapere della condanna, Arria decise di suicidarsi subito dopo il marito: per un romano, infatti, suicidarsi per evitare l’esecuzione capitale era una questione d’onore. Senonché Peto non trovava il coraggio di farlo. Ed ecco Arria in azione: afferrata la spada del marito se la conficca nel ventre. Ma non si limita a questo. Nel racconto di Marziale «nel porgere al suo Peto la spada / estratta dalle sue viscere, la casta Arria / disse: ‘Non mi fa male la ferita che mi sono fatta, / Peto. Mi fa male solo quella che tu 108

ti farai’» (Mart., I, 13). A questo punto, inutile a dirsi, a Peto non restò che suicidarsi. Ma il pregiudizio era insuperabile: in età bizantina, per limitarci a un esempio, un proverbio diceva: «il mondo periva e mia moglie continuava ad adornarsi». Per scalfirlo (per non dire superarlo: ma siamo certi che lo sia, anche qui ed oggi?) ci sarebbero voluti secoli e secoli.

Sebastiano Mauri Dio creò la donna dalla costola dell’uomo

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a nostra ricca e antica tradizione patriarcale poggia le sue fondamenta su questa popolarissima favola della buonanotte. Il primo tassello di un interminabile domino discriminatorio che presuppone la donna sia venuta al mondo per essere d’aiuto all’uomo. Se l’uomo è il Sole, la donna è la Luna; se lui è una motocicletta, lei un sidecar; se lui è un albero, lei l’orchidea che poggia sui suoi rami. Anche linguisticamente gli uomini sono ben protetti dai gelidi spifferi dell’uguaglianza. Basta un uomo in mezzo a cento donne, per rendere un gruppo «maschile»: loro sono arrivati, non arrivate. L’identità (e sensibilità) di un solo maschio prevale sull’identità (e sensibilità) di una moltitudine di femmine. Ne è sintomo la nostra resistenza a usare semplici termini come sindaca, chirurga, amministratrice delegata, avvocata o ministra. Che il ruolo, di fatto, sia ricoperto da una donna, non significa certo che siamo pronti a condividerlo anche a parole. Persino alcuni programmi di controllo di ortografia sanno essere sessisti, considerando inesistenti una miriade di aggettivi che riconoscono al maschile. Costellata non esiste, costellato sì. Indispettita no, indispettito sì. Allibita no, allibito sì. E anche molto. Dalla cultura del «falle vedere chi porta i pantaloni» alla percezione del padre come capofamiglia (dicitura che in Italia è stata ufficialmente abbandonata solo nel 1989). Dal confinare 110

il ruolo della donna all’interno delle mura domestiche, al controllare il suo corpo, le sue scelte e i suoi sogni. Da Cinquanta sfumature di grigio, a Sposati e sii sottomessa. Dal divario retributivo di genere al femminicidio (questa parola, secondo il controllo ortografia di Word, non esiste), tutti frutti dello stesso seme. Un seme che pare sia stato piantato nientemeno che da Nostro Signore in persona. Guarda caso, secondo plurime testimonianze, un maschio, bianco ed eterosessuale. È stupefacente che la leggenda biblica della creazione dell’Uomo e della Donna sia smentita dall’evidenza. Se qualcuno nasce come complemento dell’altra, quello è proprio il maschio. Forse siamo davanti a un caso di secolare ipnosi collettiva. Che tutti nasciamo da una femmina è un dato chiaro persino ai bambini dell’asilo. Che basterebbe inventare un distributore automatico di variopinti spermatozoi per concepire un mondo di sole donne, lo può immaginare anche un ragazzino delle medie. A un mondo di soli uomini, al contrario, basterebbe una generazione per estinguersi. E non solo per ragioni riproduttive, ma anche caratteriali: con ogni probabilità ci invischieremmo in un inestricabile intreccio di grandi e piccole guerre, privandoci anche del lusso di una morte naturale. Che al principio siamo tutti femmine, invece, è un fatto che adoriamo sorvolare in massa. Per chi, a questo punto, cadesse dal pero, lasciatemi spiegare cosa succede quando sotto un cavolo si forma un bambino. Al concepimento, il patrimonio genetico di un uomo e di una donna si fondono, donando 23 cromosomi ciascuno al novello embrione. Una coppia di questi cromosomi ne determina il sesso: XX se sarà femmina, XY se sarà maschio. Durante le prime cinque settimane di sviluppo, però, è il solo cromosoma X a dettar legge, formando il feto secondo un percorso, appunto, «femminile» e indistinto per entrambi i 111

sessi. Dopo la quinta settimana, quando anche il cromosoma Y entra in azione, inibisce alcune caratteristiche del cromosoma X, che altrimenti continuerebbe a sviluppare una femmina, innescando al contempo l’adattamento ai tratti maschili. Ed è così che le ovaie discendono per diventare testicoli, le labbra vaginali si chiudono per formare uno scroto, e il clitoride si espande per diventare un pene. La linea continua di pelle che va dallo scroto fino alla punta del pene, chiamata rafe, non è altro che la saldatura dei due lembi di tessuto adiposo. I capezzoli? Un souvenir. Sono già formati prima della quinta settimana, quindi rimangono lì dove sono, a ricordarci che non siamo altro che femmine mutate in maschio. La storia di Eva formata da una costola di Adamo fa dunque acqua da tutte le parti, anche come metafora. E sospetto fortemente sia una metafora scritta da un club di soli maschi. Maschi che, per amore di coerenza, dovrebbero avere un numero dispari di costole, o almeno il potere di rigenerarle, come la coda di una lucertola. Sono gli stessi maschi che nei secoli dei secoli potevano ripudiare la moglie se partoriva solo femmine. Ignari del fatto che sia il padre a determinare il sesso dell’embrione, la madre non ha voce in capitolo. Se ci avessero raccontato una favola più aderente alla realtà, una metafora che volesse illustrare la nostra natura, invece di influenzarla, cosa ne sarebbe stato degli ultimi duemila anni di guerra, colonizzazione, schiavitù e sfruttamento? La nostra Storia sarebbe comunque macchiata dal cronico tentativo di prevaricare sugli altri? Cosa sarebbe cambiato se ci avessero raccontato che Dio, dopo aver formato la donna dalla polvere della terra e averle soffiato nelle narici un alito vitale, avesse detto, «Non è bene che la donna sia sola, io le farò un aiuto che sia adatto a lei»? Useremmo ancora il termine «femminuccia» per denigrare un maschio? 112

Troveremmo così sorprendente l’idea di una presidente della Repubblica o una papessa? Cosa cambierebbe se intaccassimo il più grande tabù del mondo e Dio fosse donna agli occhi dei fedeli? Forse cambierebbe poco, ma preferisco immaginare che cambierebbe tutto. Di solito, lo immagino prima di addormentarmi. È una delle mie favole della buonanotte preferite. E dal buio, affiora un mondo meravigliosamente colorato. Un mondo dove gli animali non si estinguono, il cibo è sufficiente e la guerra una parola del passato.

Patrizia Grieco Le donne non sanno guidare

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l proverbio dice «donna al volante pericolo costante». O ancora «donne e motori gioie e dolori». Insomma stando alla saggezza popolare sembra proprio che l’accoppiata tra donne e automobili non rappresenti un binomio vincente. Mi sento dunque di rappresentare un’eccezione; ieri nel Consiglio di Fiat Industrial e oggi in quello di Ferrari! Ma dietro ai proverbi è chiaro che si cela ben altro; se alle donne non si riconosce la capacità di guidare un’automobile, figuriamoci se possono essere in grado di guidare un’azienda, un’istituzione o tantomeno un paese. La leadership viene, infatti, ancora spesso associata a caratteri considerati prettamente maschili: emergono quei tratti che ci aspettiamo contraddistinguano gli uomini quali forza, capacità decisionale e fermezza. Eppure sembra che l’attuale classe dirigente, prevalentemente maschile, abbia dimostrato di avere qualche problema nel gestire i fenomeni destabilizzanti che stanno attraversando la nostra società, sia a livello sociale che politico, che economico. In tal senso credo che una maggiore presenza femminile possa dare un importante segnale di cambiamento: solo un diverso ruolo delle donne in tutti i settori del vivere civile potrà cambiare e far evolvere società ancora basate su modelli arcaici. Una leadership femminile che finalmente si sta affermando in molti contesti. Ci sono donne al vertice del Fondo Monetario Internazionale e della Fed, alla guida di grandi colossi tecnolo114

gici come Yahoo, Ibm o Youtube; è una donna, italiana peraltro, a guidare il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle e un’altra ha guidato una delle più importanti missioni aerospaziali dell’Esa. In politica sono molti oramai i paesi, dalla Germania al Cile, che hanno saputo esprimere una leadership femminile; e proprio in questi giorni vediamo il ritorno di una donna a Downing Street, ben ventisei anni dopo l’antesignana Lady di Ferro. Tutto ciò a conferma che i progressi in tema di pari opportunità ci sono stati e sono stati anche molti: il tasso di occupazione femminile è quasi raddoppiato nel nostro paese dagli anni Settanta ad oggi (25,7% nel 1977 e 47,3% nel 2016) e, a dir la verità, potrebbe ancora migliorare con impatti peraltro molto positivi sul Pil (in un report del 2015 il Fmi stima che eliminare il gender gap occupazionale porterebbe ad una crescita del Pil del 15%). La questione pregiudiziale che si vuole invece qui discutere è la reale capacità che le donne hanno di «guidare» appunto un paese, un’istituzione o un’azienda. Quella che viene messa in discussione è, in altre parole, la capacità di gestione e di leadership femminile a certi livelli. Quello che possiamo chiamare il «sentire comune» fa spesso intendere che le donne non abbiano le caratteristiche «genetiche» per assumere decisioni importanti, per ricoprire ruoli di rilevo. Sarà forse per questo che ancora oggi, nell’avanzatissima Europa, le donne a parità di mansione sono retribuite il 16% in meno dei colleghi uomini? Eppure un recente studio del Fondo Monetario Internazionale1 è riuscito a misurare l’impatto femminile sulle performance aziendali e sembra molto positivo. Ma anche in questo caso, non dobbiamo creare nuovi stereotipi o ulteriori luoghi comuni di senso inverso. Io non credo che quelle aziende abbiano una redditività maggiore perché guidate da donne ma semplicemente perché guidate da persone competenti. Sono aziende che hanno raggiunto performance migliori perché 115

sono riuscite, attraverso dei processi di selezione e di valorizzazione, a neutralizzare la componente gender e quei retaggi culturali che a volte – anche inconsciamente – ognuno di noi si porta dietro capendo quello che in fondo è un assunto lineare: nessuna organizzazione, sia essa pubblica che privata, può fare a meno dell’apporto, delle competenze, delle capacità che le donne possiedono semplicemente perché esse rappresentano il 50% delle competenze e delle professionalità esistenti. Perché se è pur vero che per fattori storico-culturali l’organizzazione ha teso a mascolinizzarsi, è altrettanto vero che l’errore, a mio avviso, che hanno fatto alcune donne, in molti casi, è stato quello di cercare di emulare gli uomini in termini di atteggiamento, di aggressività. Personalmente sono invece convinta che se ognuno di noi cerca di essere o di assomigliare a qualcun altro non potrà mai dare il meglio di sé; ed è del meglio di sé che ogni organizzazione (sia essa aziendale, politica o sociale) ha bisogno. Ognuno di noi è una persona diversa dall’altra, ognuno di noi è una persona unica ed irripetibile (uomo o donna che sia): questa è la più grande ricchezza di cui un’organizzazione dovrebbe far tesoro. Per arrivare ad una vera e propria parità di genere dobbiamo dunque uscire dal luogo comune delle competenze maschili e femminili, delle caratteristiche di chi è nato in un paese piuttosto che in un altro. Il nodo della questione deve risiedere nella valorizzazione della persona in quanto tale, del proprio talento, della propria unicità. Perché il dono più grande che abbiamo ricevuto, lo ripeto, è che ognuno di noi è diverso dall’altro; è da queste caratteristiche uniche ed irripetibili che le aziende debbono saper trarre «vantaggio». In un mondo ampio e diverso quale quello attuale dovremmo orientarci a costruire delle organizzazioni che siano «diversificate», ovvero che siano in grado di aprirsi alla diversità intesa non solo come genere. In tutte le aziende di successo, infatti, lavorano persone diverse per genere, età, cultura, raz116

za, orientamento sessuale, e privare un’organizzazione della ricchezza che questa diversità può apportare sarebbe un errore in termini di valorizzazione delle competenze e, dunque, di capacità e competitività. Il processo è oramai innescato: e forse tra non molto potremo cominciare a interessarci solo del merito, dimenticandoci del genere. Meglio invece non dimenticare il genere quando si è in strada: auspicate che chi è alla guida dell’automobile al vostro fianco sia una donna; stando alle statistiche correte il 15% di rischio in meno che provochi un incidente!

Unlocking Female Employment Potential in Europe: Drivers and Benefits, marzo 2016. 1

Loredana Lipperini Le donne sono migliori degli uomini

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a citazione è famosa, e corrisponde anche alla frase più scellerata mai pronunciata in politica negli ultimi quarant’anni. È questa: «La vera società non esiste: ci sono uomini e donne, e le famiglie. E nessun governo può fare nulla se non attraverso le persone. La gente deve guardare prima a sé stessa. È nostro dovere badare a noi stessi e, poi, prendersi cura del prossimo. La gente ha la testa piena di diritti, senza obblighi, ma non può esistere un diritto senza che qualcuno non abbia prima incontrato un obbligo». Margaret Thatcher la lascia cadere in un’intervista del 23 settembre 1987, fornendo quasi distrattamente la sintesi di un tempo e insieme il preludio alla catastrofe che sarebbe venuta e in cui ancora annaspiamo. C’è un’altra frase interessante di Thatcher, che risale al 1979, e recita così: «Per una donna che conosce i problemi di gestire una casa è sicuramente più semplice portare avanti un paese». Sono due facce della stessa medaglia: le donne sono migliori degli uomini perché secoli di cura le hanno rese tali, ci fa capire la seconda frase. La prima ci inchioda al suo contrario: le donne non sono migliori degli uomini. Perché Thatcher non lo fu. E non fu la sola. Dopo di lei, c’è stata, per esempio, Elsa Fornero. Quando la ministra del Lavoro presenta la riforma delle pensioni, nel dicembre 2011, molte femministe sorvolano sul massacro che quella riforma avrebbe compiuto proprio nei confronti delle 118

donne, che sono le povere tra i poveri per quanto riguarda il mondo dei pensionati. Si soffermano, invece, sulle sue lacrime: «la ministra più bella del mondo», scrissero, incantate dalla sua esibita fragilità. Fragilità, come no. La stessa Fornero, che dei femminismi si disinteressò per tutto il mandato, chiamò a raccolta quelle che scoprì consorelle quando Vauro la rappresentò in una vignetta come una squillo. Succede spesso. Molte politiche evocano le femministe se subiscono un attacco mediatico per il loro abbigliamento, o se vengono considerate soavi gallinelle dai giornalisti di destra. Peccato però che non ricambino quasi mai, e che il femminismo venga usato solo quando serve, e che quel che serve non solo al femminismo ma alle donne (e agli uomini) – centri antiviolenza, asili nido, educazione sessuale e sentimentale nelle scuole – venga ignorato. Dunque, faccio fatica a ragionare solo sull’importanza simbolica di una figura femminile di potere. Fatico, pur credendo che ragionare sui simboli sia indispensabile, e che senza una mutazione dell’immaginario nessuna legge, nessuna azione politica sia sufficiente. Fatico, perché si fa presto a usare un simbolo: è importante, si dice, che una donna abbia un ministero pesante, conti in politica, diventi sindaca, in quanto donna. Certo che è importante. Ma non per questo Letizia Moratti, Elsa Fornero, Maria Stella Gelmini, Maria Elena Boschi valgono come Giusi Nicolini o Laura Boldrini, ovvero come donne che hanno ben presente la cosiddetta questione femminile, e che hanno ben presenti le urgenze reali del nostro presente. Reali, appunto. Perché diventa insidioso muoversi in un mondo in cui «la questione femminile» è divenuta brand della politica, e il «siamo dalla parte delle donne» è la spilletta (rosa) che ogni forza politica si appunta sul bavero della giacca, e nel frattempo si registra un punto d’arresto (o un passo indietro) su decine di punti, dal lavoro alla maternità, dal welfare ai diritti che sembravano acquisiti (aborto, contraccezione) e a quelli 119

mai ottenuti (educazione sessuale e di genere), dal finanziamento (mancato) ai centri antiviolenza alla messa in ombra dei riconoscimenti base alle persone Lgbti. Per non parlare della questione chiave dei nostri anni, quella dei migranti: perché, e forse sarà il caso di cominciare a dirlo, o i femminismi sono politici, o non sono. E i simboli sono insidiosi. Specie quando la superiorità delle donne si fa coincidere con il loro essere madri. Nel gennaio 2013, commentando sul «Corriere della Sera» l’atrocità degli stupri in India, Milena Gabanelli scriveva: «Il cambiamento, però, passerà solo attraverso una consapevolezza superiore, che non è quella della parità dei diritti, bensì quella della diversità nel suo significato ‘più sacro’: è la donna a garantire la fine o la continuazione della specie. Anche il più feroce degli stupratori è stato messo al mondo da una madre. Ogni bambina, ogni ragazza, ogni donna, è una potenziale madre. È un corpo che ha in sé quello che nessun uomo può avere: ‘La culla della tua infanzia’. Siano per sempre dannati gli uomini che violano questa dolcissima, intima, fragile origine dell’umanità». E le non madri, sono stuprabili, per caso? Si pensi alla difficile, complessa discussione sulla gestazione per altri che viene ridotta a «la maternità ci rende superiori». Si pensi a tutte le amministratrici e politiche che vengono presentate in primo luogo come madri. Si pensi a tutto questo e si provi a capire che no, essere madre non è o non dovrebbe essere un potere e non rende migliori, mai e in nessun caso. Perché a renderci migliori, semmai, è il nostro modo di porci con gli altri. Di essere quel che Thatcher (una donna, una madre) negava: parte di una comunità. E allora che si fa, si dà ragione a quelli e quelle che dicono, e a volte strillano, che le quote rosa sono inutili e i femminismi pure? È molto più semplice di così. Quando si parla di donne, in politica come in letteratura, la questione non è: devi sceglier120

mi/eleggermi/invitarmi a un festival/premiarmi perché sono donna. Devi farlo perché sono una donna che ha un merito e tu quel merito non lo vedi perché sono donna, quel libro non lo leggi perché sono una donna, o mi reputi politicamente inaffidabile perché sono donna. Ecco, i libri. Forse è attraverso questa lente che le cose risulteranno più chiare. All’inizio di quest’anno, La lettura del «Corriere della Sera» ha fatto scegliere ai propri collaboratori i dieci migliori libri del 2015, fra tutti quelli pubblicati nel mondo. Erano dieci libri scritti da uomini. Volete le quote rosa?, è stato detto a chi ha protestato per quella scelta. È stato risposto, ma la risposta soffia nel vento, che la discussione non riguardava la necessità di inserire a forza libri scritti da donne nelle proprie liste di qualità pubbliche e private, ma il motivo per cui da quelle liste non appaiono titoli importanti di scrittrici, in grado di raccontare il mondo al pari di quanto avviene nei titoli degli scrittori. Non avviene ancora, e in Italia se ne parla poco. Altrove sì: e negli Stati Uniti nessuno si stupisce se Katha Politt, poetessa e critica letteraria, rilascia dichiarazioni come questa: «Sono convinta che ci sarà sempre posto per una Toni Morrison o una Mary McCarthy, ma solo una alla volta. Per ogni donna, c’è spazio per tre uomini». Dunque, è molto semplice. Non è vero che le donne scrivano meglio degli uomini. Ho letto pessimi libri scritti da donne e pessimi libri scritti da uomini, grosso modo in pari quantità: se proprio devo rilevare una differenza, è nel modo di porsi delle scrittrici, che sono – in genere, e dunque semplificando al massimo – meno propense ad autodefinirsi geniali e incomprese, anche se da questo punto di vista le cose stanno cambiando, e non sono certa che sia un bene (per le scrittrici). Uno dei criteri più importanti che adotto quando leggo un libro è quello della sua onestà. E, se permettete, cito quanto scrive Stephen King in On writing: «D’accordo, i bugiardi prosperano, ma soltanto in linea di massima, non nella giungla 121

dell’autentica scrittura, dove sarete costretti a raggiungere il vostro obiettivo una fottuta parola alla volta. Se, mentre siete laggiù, comincerete a mentire su ciò che conoscete e provate, sarà un disastro». E, ancora: «Sarebbe un guaio pretendere di diventare scrittori senza mirare all’onestà». Anche le donne scrivono libri disonesti, certo. Lo fanno quando si inseriscono in un filone, incluso il femminismo, immaginando di avere maggior attenzione perché quel filone è emergente. Lo fanno quando non scrivono perché quel libro va scritto, come abitualmente avviene per i libri onesti, ma per mantenere una posizione. E, certo, lo fanno anche gli uomini. Non è il genere di appartenenza a fare la qualità, mai. Ma esiste, e non va negato, il problema della qualità delle scrittrici che è in secondo piano, anche se non viene ammesso, così come quello della qualità e del valore delle donne. Perché, come diceva una grande scrittrice, Ursula K. Le Guin: «Posso dire che non credo che il femminismo abbia fatto grandi errori. Credo che molti uomini facciano un grande errore nel considerarlo ostile a sé stessi e che molte giovani donne facciano un grande errore a pensare di non averne bisogno e che esso non abbia niente a che fare con loro». È complicato? Certo, e fortunatamente. Abbiamo bisogno di complessità: non di etichette.

Anna Foa Gli ebrei sono intelligenti

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el momento del suo massimo fulgore scientifico – alla vigilia del secondo Nobel – Marie Curie fu sospettata dai giornali antisemiti di essere ebrea. Per quale ragione? Ma per la sua straordinaria intelligenza. Tra i tanti pregiudizi esistenti nei confronti degli ebrei ce n’è uno che non viene riconosciuto come tale, ma che viene considerato semmai come un elogio: che gli ebrei siano molto intelligenti, più intelligenti dei non ebrei. Confortata da lunghi elenchi di ebrei scienziati, scrittori e premi Nobel, quest’idea della superiore intelligenza degli ebrei, anche se condivisa dalla maggior parte degli stessi ebrei e vista dai non ebrei con un’ammirazione non scevra d’invidia, non è altro che un pregiudizio, alla pari di quelli che attribuiscono agli ebrei un naso adunco o la coda. Perché, in positivo o in negativo che si voglia considerarla, è un’idea che presuppone una diversità tra gli ebrei e i non ebrei, sia che vogliamo attribuirla alla natura (o come fanno i più a ciò che si continua a definire impropriamente «razza») sia che vogliamo attribuirla all’ambiente, al contesto. Nel migliore dei casi, si pensa che, anche se gli ebrei non sono una razza inferiore, sono comunque diversi, perché più intelligenti dei non ebrei. Ma come è nata questa idea, che storia ha avuto? Quando si è cominciato a credere che gli ebrei fossero più intelligenti dei gentili? Non è un’idea tanto antica. Non ne troviamo traccia nei testi pagani più ostili agli ebrei e nemmeno nell’antigiudaismo cristiano. Non se ne parla nel secolare insegnamento del 123

disprezzo portato avanti dalla Chiesa, né in Tacito, in Dante o in Voltaire, non se ne trova traccia nei testi dei predicatori francescani del Trecento, tanto ostili agli ebrei, né in quelli dei teologi dell’Italia della Controriforma. Le mura dei ghetti non sono state costruite per impedire all’intelligenza degli ebrei di diffondersi e primeggiare. È solo quando nel secolo XIX queste mura sono infine cadute e gli ebrei sono divenuti uguali agli altri, che l’idea di una loro particolare intelligenza cominciò ad affacciarsi. Con cautela, ambiguamente, confusa e mischiata con quella di una loro superiore furbizia. Intelligenza e furbizia sono in realtà qualità (o difetti) spesso confusi nell’opinione dei più, soprattutto degli stupidi. Ma quando poi l’intelligenza è degli ebrei, le valenze negative si accentuano enormemente. Perché in questo caso l’«accusa» di essere intelligenti non riguarda solo uno o più individui, ma un intero gruppo, una «razza». Gli ebrei sono tutti intelligenti, si pensa, anche se poi a smentire questa affermazione tanto arrischiata basterebbe un po’ di frequentazione con il mondo ebraico, con i suoi bravi genii e i suoi tanti stupidi, come ovunque. Ma vedo che mi sto affannando a proteggere gli ebrei dall’accusa di essere più intelligenti. Forse non ce n’è bisogno, come non c’è bisogno che io mi metta a negare quell’altra idea che abbiano la coda. Vediamo invece quando se ne è davvero incominciato a parlare. In un libro del 1996, uno storico e sociologo americano, naturalmente ebreo, Sander Gilman, rintracciava le origini di quest’idea, da lui definita mito, nella cultura della razza diffusa nel secondo Ottocento e nella conseguente misurazione dell’intelligenza nelle diverse razze umane. È in questo contesto storico che inizia ad affermarsi l’idea di una superiore intelligenza degli ebrei, anche se poi, ad essere così considerati, non sono tutti gli ebrei, certo non quelli dell’Europa orientale, ma quelli assimilati dell’Europa occidentale e centrale, in particolare gli ebrei ashkenaziti, gli uomini naturalmente. Ed è anche un’in124

telligenza di cui si sottolinea volentieri la limitatezza: gli ebrei sono considerati eccellenti nelle scienze e nella musica, molto meno in tutte le arti che richiedano emozioni oltre a capacità intellettuali. Ci potremmo allora aspettare che l’idea dell’intelligenza ebraica collocasse gli ebrei fra le razze superiori, non tra quelle inferiori. Eppure non è così. Essa invece si accompagna alla costruzione del mito dell’inferiorità della «razza ebraica», un’inferiorità tuttavia diversa da quella di altre «razze» considerate inferiori perché caratterizzata non da una carenza di intelligenza ma da un suo uso deforme: l’intelligenza dell’ebreo ha infatti la particolarità di trasformarsi facilmente in astuzia, in malignità e in tutta una serie di caratteristiche simili a quelle femminili, debolezza e manipolazione, menzogna e via discorrendo. Mentre la «razza ariana» non è specialmente caratterizzata dall’uso superiore dell’intelletto, ma dalla bellezza delle forme e dei colori, dalla forza, dalla virilità. Ma non tutte le teorie sulla superiorità intellettuale degli ebrei nascono dall’idea di razza. In altri casi, l’intelligenza degli ebrei è concepita come l’esito di un miglioramento dovuto alla cultura. È l’abitudine a leggere e scrivere del «popolo del libro», divenuta quasi una caratteristica geneticamente trasmissibile, ad aver raffinato ed accresciuto la loro intelligenza. In questo caso, si tratta di un modello di miglioramento che non è innato, e soprattutto può essere imitato e acquisito anche dai non ebrei. Molti interpreti sono andati ancora più in là, attribuendo la straordinaria capacità intellettuale ebraica alla formazione di studio talmudica, con il suo pilpul, il metodo interpretativo ebraico. Le radici ebraiche della psicoanalisi freudiana sono state così individuate nei testi cabbalistici, mentre le origini della fisica e della matematica contemporanee – Einstein ad esempio – sono state da altri ricondotte alla formazione talmudica e in particolare alla scuola del rabbino Chatam Sofer, un importante rabbino ortodosso tedesco della prima metà del XIX secolo. 125

In definitiva possiamo dire che si tratta, almeno nelle sue formulazioni più biologiche, di un mito con forti valenze antisemite, dal momento in cui, sia pur in positivo, traccia tra gli ebrei e i non ebrei una linea di distinzione naturale più che storica. Questo non ha impedito e non impedisce tuttora anche agli stessi ebrei di condividerlo con entusiasmo, in particolare agli intellettuali ebrei, giustamente fieri della loro cultura. E potrebbe essere deludente per loro scoprire che si tratta, in definitiva, di un mero pregiudizio.

Chiara Saraceno La famiglia è un valore

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he la famiglia sia un valore univocamente e universalmente positivo è un’affermazione data per scontata che non riesce ad essere scalfita neppure dalle molte evidenze empiriche che segnalano come, in molti casi, in nome della famiglia si perpetrino piccole e grandi violenze e ingiustizie: dal delitto d’onore alla complicità con i membri della propria famiglia che abbiano commesso qualche delitto, dal nepotismo a favore dei propri famigliari alla subordinazione di alcuni componenti della famiglia a favore di altri. Non è scalfita neppure dal fatto che la famiglia non è solo un importante ambito di solidarietà, ma anche, soprattutto se priva di contrappesi, un potente strumento di riproduzione delle disuguaglianze. Nella maggior parte delle indagini sui «valori» la famiglia è fra i primi posti, se non al primo posto, indipendentemente dall’età e dalla classe sociale. Ma di che valore si tratta e per chi? Ciò che costituisce la famiglia come «valore» è molto diverso da una società all’altra ed è cambiato nel tempo in una stessa società. È una ovvietà ben nota agli antropologi e agli storici sociali e persino a qualche sociologo. È stata viceversa sorprendentemente del tutto sottaciuta nei documenti del Sinodo della famiglia promosso dalla Chiesa cattolica ed anche nel documento finale del papa, Amoris Laetitia. In particolare, il documento Amoris Laetitia già nel titolo indica come universale un contenuto e un valore della famiglia – appunto l’amore, la tenerezza, la cura, 127

attesi, dati e scambiati– che invece le appartiene solo da un periodo relativamente breve e non dappertutto. È l’aspettativa, e molto spesso l’esperienza diretta, dell’essere oggetto di affetto e prima ancora riconoscimento, e di poter contare sulla solidarietà dei propri famigliari che fa ritenere a molti «la famiglia» come il più importante dei valori, anche prima della giustizia. Non è sempre stato così e non lo è ancora per tutti e dappertutto. In altre epoche e in società diverse da quelle occidentali sviluppate, il valore della famiglia stava e sta non già nel benessere e nella cura reciproca dei suoi componenti, ma nel suo essere una istituzione della divisione del lavoro e del potere tra gruppi sociali, uomini e donne e generazioni. In quelle epoche e società gli individui e i nuclei famigliari all’interno delle reti parentali erano e sono pedine, strumenti, di strategie ed obiettivi che non solo li trascendono, ma possono andare contro il loro benessere e la loro volontà. Per questo in molte società, ed anche nella nostra in epoche non lontane, i matrimoni, ovvero le alleanze che consentivano ad una famiglia di riprodursi e continuare, erano combinati come parte di strategie di gruppo. Anche le società in cui si danno in spose bambine a uomini molto più vecchi di loro e/o in cui ci si aspetta dalle donne totale subordinazione tengono in grande conto «la famiglia», a costo di sacrificare sul suo altare e su quello dell’alleanza tra uomini e tra famiglie bambine ancora impuberi, esponendole non solo ad abusi e violenze, ma anche a gravidanze e mortalità precoci. In nome del valore della «famiglia», della sua continuità patrimoniale e gerarchica, in talune epoche e società sono stati e sono, a seconda dei casi, i più anziani o i padroni a decidere chi può fare famiglia, chi invece deve rinunciarvi appunto per non intaccare patrimoni o per non squilibrare la divisione del lavoro. Così come, in nome della protezione della famiglia, alcuni possono esserne espulsi. Si pensi alla figura dei figli «illegittimi», che in nome della difesa della famiglia «legittima» a lungo (in Italia fino al 2012) hanno avuto diritti ridotti. È 128

ancora vero, in Italia, per i figli delle coppie dello stesso sesso, costretti ad essere legalmente orfani di un genitore in nome della difesa della «famiglia naturale». Del resto, lo stesso valore dei figli e della filiazione ha cambiato e cambia significato e finalità da un’epoca e società all’altra. Anche gli Stati hanno un interesse a definire il «valore della famiglia», a prescindere dal benessere e dalla libertà dei cittadini. Ciò è particolarmente evidente nei regimi autoritari. Se il regime sovietico nei primi anni (così come quello di Pol Pot diversi decenni dopo) considerava la famiglia un valore da distruggere per indebolire i legami di solidarietà non mediati dal regime e rendere gli individui più dipendenti dall’autorità e benevolenza dello Stato, altri regimi autoritari, si pensi al fascismo nelle sue varianti italiane, spagnole e portoghesi, hanno utilizzato il «valore della famiglia» per consolidare l’accettazione non solo dei propri obiettivi demografici, ma di una visione gerarchica e profondamente maschilista della società. La famiglia aveva valore come istituzione dello Stato, non in sé. È noto come la formulazione dell’articolo 29 della Costituzione italiana, con il suo riferimento ad una «società naturale» sia stato dettato dalla preoccupazione di sottrarla alla stretta dipendenza dallo Stato e i suoi interessi, cui era stata ridotta, appunto, dal regime fascista. In effetti, i modi sia di intendere, sia di fare concretamente la famiglia, di definirne i confini esterni ed interni, chi può accedere al diritto/dovere di farne una, quale è la posizione di ciascuno all’incrocio dei rapporti di generazione, sesso, alleanza, con quali diritti e doveri, sono troppo diversi per identificare una unica modalità di fare ed essere famiglia, quindi anche un unico «valore» della famiglia. Ciò che appare, piuttosto, è non solo la varietà, ma anche il contrasto tra «valori»: tra culture, tra famiglie, e persino, talvolta, tra i componenti di una stessa famiglia. In altri termini, il valore della famiglia e la famiglia come valore sono l’esito di relazioni interindividuali e sociali 129

e di elaborazioni culturali storicamente situate e segnate da rapporti di potere più o meno asimmetrici tra uomini e donne, generazioni, classi sociali, istituzioni politiche e religiose. Nelle società contemporanee si sono aggiunti anche professionisti specifici, ciascuno con la propria idea della famiglia e del suo valore: oltre ai rappresentanti delle varie religioni, insegnanti, medici, assistenti sociali, giudici minorili, psicoanalisti e psicologi.

Oscar Iarussi I festival culturali lasciano il tempo che trovano

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festival non servono, se non a coloro che li organizzano o ai politici che li finanziano e se ne beano. I festival non «incontrano» il mercato e non lo stimolano. «Piazze piene, librerie vuote», qualcuno motteggia, parafrasando l’autocritica del leader socialista Pietro Nenni dopo la storica sconfitta del Fronte Popolare nel 1948. Il riferimento alle sorti della sinistra non appaia peregrino, giacché i festival in Italia cominciano a moltiplicarsi giusto lungo il viale del tramonto della grande narrazione marxista. Fu un’intuizione dell’architetto e assessore comunista Renato Nicolini nelle amministrazioni capitoline fra i Settanta e gli Ottanta del secolo scorso: l’«effimero» spettacolare a mo’ di antidoto al timor panico degli «anni di piombo» e come penultima spiaggia della sinistra. Un esempio? Allen Ginsberg e le decine di altri poeti giunti da mezzo mondo sul litorale di Castelporziano nel giugno 1979. In quel periodo il declino dell’opzione etica dà la stura all’ambizione estetica di massa. E fu subito più Dams per tutti; fu Parco Lambro con le tette in mostra e i piselli penduli a festeggiare il Re Nudo fra le cascine meneghine; furono il Napoleon di Abel Gance all’Arco di Costantino, le pellicole peplum e l’horror nelle maratone romane al circo di Massenzio («Abuso di rovine», accusò Arbasino). Come dire? Engels, ascolta si fa sera... Oggi il festival è spesso denominato «evento» al pari di una vociante assemblea di protesta a Ponte di Legno o della sagra te lu purpu salentina: termine tra i più abusati della lingua ita131

liana peraltro residuale nel gergo degli eventi. Ma la questione riguarda piuttosto l’avvento. «I festival lasciano il tempo che trovano», decreta un pregiudizio in via di radicamento nella Penisola delle Cicale dove a ogni piè sospinto spunta un cartellone, una kermesse, un flash mob, una start up e via così, anglicizzando ambizioni e speranze. Il luogo comune ostile ai festival è una variante in sedicesimo del paradigma ultra-liberista che non vorrebbe scucire un soldo pubblico neppure per gli ospedali o i treni, e naturalmente, a monte, per le tasse. Poi, gioca un ruolo il riflesso pavloviano di quanti detestarono il successo dei Festival dell’«Unità», l’unico rito pop non televisivo dell’Italia postbellica, che per oltre mezzo secolo garantì al Pci un surplus di consensi attraverso le salsicce o il liscio di Casadei, viatico per il dibattito colto e il comizio finale. Archiviata la grande illusione del panem garantito ai proletari, adesso si vorrebbero diradare anche le più modeste allucinazioni dei circenses. Ovvero, con Hobbes, «primum vivere, deinde philosophari»: motto sempre difficile da smentire, a meno di non essere satolli o visionari. Contro il suddetto pregiudizio si schiera la composita tribù degli operatori culturali, agitando lo slogan «Con la cultura si mangia» che rovescia polemicamente una frase dell’ex ministro Giulio Tremonti, forse infelice, però non del tutto fasulla. Già, perché a dispetto della crescente incidenza sul Pil dell’economia culturale con la sua variegata filiera, bisognerà pur riconoscere che senza il motore keynesiano delle risorse pubbliche essa avrebbe il non trascurabile problema della sopravvivenza. È l’ennesima specificità del Belpaese: pronto a pagare senza battere ciglio venticinque euro per una pizza e birra con vista-nulla, invece riottoso fino alla rivolta se un terzo della cifra corrisponde al biglietto di una mostra d’arte o di uno spettacolo teatrale. Eppure i festival non lasciano il tempo che trovano, anzi, anticipano o contraddicono lo Zeitgeist, sono scie luminose nei passaggi di stagione o aforismi del futuro. Prendete la Biennale 132

Arte del 1974 interamente dedicata al Cile e schierata contro la dittatura militare di Pinochet, con le opere di Emilio Vedova e Sebastian Matta e i murales nei campielli veneziani a testimoniare una novella brigata internazionale nel nome di Salvador Allende. O la memorabile Biennale del Dissenso 1977, presieduta da Carlo Ripa di Meana, che presentò «una prospettiva non ufficiale dell’arte sovietica» e si affidò a un gruppetto di esuli dell’Est – tra i quali Jirí Pelikan e Gustaw Herling – per la curatela delle iniziative e dei convegni. Scatenando un putiferio politico-diplomatico-culturale, la Biennale del Dissenso presagì in laguna l’autunno del patriarca moscovita con largo anticipo sulla caduta del Muro di Berlino dell’89. D’altronde, un po’ di quello spirito dev’essere di casa a Ca’ Giustinian se l’attuale presidente della Biennale, Paolo Baratta, non smette di rivendicare il gusto del rischio come cifra distintiva dell’azione culturale. La sfida alle convenzioni, l’azzardo ragionato, lo scandaglio dei margini, il rilancio di un folclore o di un ambito disciplinare all’apparenza desueto, un approccio coraggioso rispetto al proprio albo d’oro... Ecco alcuni tratti distintivi dei festival e degli «eventi» (e sia) degni di essere considerati tali. La Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia è il primo festival europeo, nato nel 1932. Le ultime edizioni dirette da Alberto Barbera si caratterizzano per film anti-narrativi, inchieste o reportage, docu-fiction, materiali ibridi che innestano elementi di finzione in trame storiche, o viceversa. Non si tratta della mera rinascita del genere documentario consacrata dal Leone d’oro 2013 a Sacro GRA di Gianfranco Rosi (premiato con l’Orso di Berlino nel 2016 per Fuocammare), bensì di un movimento più complesso e tormentato, tuttavia felice negli esiti, che riflette sulla macchina-cinema mentre la decostruisce e la ricombina, e a Venezia trova una sua ribalta. Oltre la frusta mondanità divistica o il marketing delle case di produzione sul tappeto rosso, tra gli innumerevoli film festival italiani rilevano l’esperienza trentennale di Torino, il «Far East» di Udine che 133

coltiva lontananze senza esotismo, e il salernitano «Giffoni» sul versante divulgativo rivolto ai ragazzi. Di là dal cinema, fanno testo le esperienze del Festivaletteratura di Mantova, che ha concepito e perseguito negli ultimi vent’anni un modello cui contribuiscono in primis i cittadini; quelli della Filosofia e del Diritto in Emilia Romagna, e dell’Economia a Trento; le «Lezioni di Storia» laterziane che dall’auditorium del Parco della Musica a Roma si sono diffuse in varie città italiane e all’estero, le non meno nomadi «Lezioni di Rock» dei giornalisti Gino Castaldo ed Ernesto Assante. La Notte della Taranta nata vent’anni fa nel minuscolo comune leccese di Melpignano, grazie all’intuito del giovane sindaco Sergio Blasi e di alcuni studiosi, ha rivitalizzato una tradizione etnomusicale (certo, correndo i rischi del caso) e un’area sino a quel momento periferica nell’immaginario collettivo, con qualche beneficio turistico. La Milanesiana di Elisabetta Sgarbi allestisce da alcuni lustri rassegne «a tema» innervate da autori internazionali celeberrimi o emergenti e da un afflato non provinciale che giova innanzitutto a Milano. Il Rossini Opera Festival di Pesaro e il Festival della Valle d’Itria a Martina Franca si segnalano per il recupero di opere inedite o trascurate, affidate a registi che colà si affermano (vedi Damiano Michieletto), mentre lo storico «Due Mondi» di Spoleto resta un appuntamento assai vivido. Il Ravenna Festival guidato da Cristina Mazzavillani Muti, grazie alle sue «Vie dell’amicizia» dal 1997 intraprende ogni anno un «pellegrinaggio laico» verso città ferite o luoghi simbolici, affidato al carisma di Riccardo Muti che ha diretto concerti a Sarajevo, Beirut, Gerusalemme, Erevan e Istanbul, Il Cairo, Damasco, Nairobi, Redipuglia, Otranto... Pace e musica. Sul versante rock basterà menzionare Woodstock 1969 per convincersi che no, i festival non lasciano il tempo che trovano. Ma non ditelo all’assessore al ramo e all’organizzatore al remo della politica perché se poi lo ripetono sul palco è finita, e non ci resta che rimpiangere o compiangere. 134

Fabrizio Valletti I gesuiti sono ipocriti

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i i propri ‘n gesuétta»... Sento risuonare questa battuta che mi ricorda l’ironia dei bolognesi. È vicino al giudizio che accomuna i gesuiti alla schiera degli ipocriti o di quelli che una ironica battuta sottolinea: «nemmeno il Padreterno sa cosa pensano i gesuiti!». Perché è presente il giudizio che i gesuiti siano ipocriti? Ma forse è proprio un pregiudizio o ci sono seri motivi per affermarlo? Molte vicende e situazioni a cui si dà ragione storica hanno portato a considerare i gesuiti elementi intriganti, invadenti, espressione di poteri spesso occulti. La questione è aperta ed attuale nel momento che, immersi in contesti di potere e di livello sociale elevato ancora oggi, i gesuiti smentirebbero con il loro operare quella che è l’iniziale ispirazione evangelica. Riescono oggi con il loro originario carisma a modificare le regole del gioco per fare giustizia ed esprimere una concreta misericordia oppure sono asserviti alle logiche del potere e quindi in situazione di falsità e ambiguità? «Essere nel mondo ma non del mondo» fa parte della missione stessa della Compagnia di Gesù. Sarà riuscita nella storia questa sfida molto chiara per Ignazio di Loyola e per i suoi primi compagni, riconosciuti da Paolo III nel 1540 come ordine mendicante, nella Roma del pieno Rinascimento? Erano tempi pieni di contrasti e contraddizioni. La Riforma di Lutero era ormai diffusa in tante regioni dell’Europa e la 135

critica alla mondanità della Chiesa si concretizzava anche a partire da Roma con l’avvento di figure significative anche per un rinnovamento della vita spirituale oltre che per le opere di carità. Filippo Neri, Giuseppe Calasanzio, Camillo de Lellis, Giovanni della Croce, Teresa d’Avila... per citarne solo alcuni. Quale fu l’azione dei gesuiti e prima ancora l’evoluzione del loro spirito in confronto con quanto si sviluppava nel clima del mondo rinascimentale, inizio della modernità? Possiamo dire che il cammino spirituale di Ignazio, fatto proprio dai primi compagni e poi proposto a tutti quelli chiamati nella Compagnia al servizio della Croce, ha un carattere di umile servizio ma anche di modernità che ben corrisponde al movimento del pensiero cartesiano. Che relazione può avere questa visione con il possibile difetto attribuito di ipocrisia e di doppiezza? La coscienza del gesuita, nella sua formazione e nell’esercizio del suo impegno apostolico, si potrebbe dire che si esprime in una autonomia del pensiero che risponde proprio allo spirito di libertà nel cercare, nello sperimentare e nella realizzazione di una pienezza di umanità. Si ribalta una visione religiosa che vedeva la coscienza tutta dipendente dalla sola autorità divina, in una mortificazione che voleva spesso annullare le capacità della persona. L’ascetica tradizionale privilegiava una coscienza più orientata a sottomettersi nel «fare la volontà del dio nascosto» che a prendersi la responsabilità di scelte anche coraggiose. Nella spiritualità sperimentata dal gesuita ci troviamo in una dimensione di umanesimo che corrisponde nel pensiero teologico alla visione di un Dio che si incarna, che sceglie l’umanità come espressione del suo stesso essere e del suo modo di procedere. In effetti è la migliore espressione di quanto può significare al meglio l’esperienza della libertà. Si prospetta un nuovo umanesimo anche nella visione culturale di un mondo che con i viaggi al di là degli oceani, con le 136

conquiste di nuove terre, nell’incontro drammatico con nuovi popoli, con la ricerca scientifica e con lo sviluppo del commercio, significava la rivoluzione copernicana del rapporto uomomondo. Il più evidente effetto di un tale orientamento intellettuale e spirituale è stato attribuire alla cultura e alla formazione un’importanza fondamentale. In quel tempo l’istruzione era per pochi e spesso affidata a precettori al seguito delle famiglie nobili. Si deve a Ignazio di Loyola l’avvio di una pedagogia diffusa, con l’istituzione del sistema scolastico aperto a tutti. Viene fondato il Collegio Romano, primo modello per la stessa formazione dei gesuiti e poi in generale del clero. Ben presto la nobiltà romana ritiene utile applicare lo stesso metodo per la formazione dei propri figli. La Ratio studiorum diviene sul finire del 1500 fondamento teorico e pratico nelle scuole dei gesuiti che si diffondono in poco tempo in molte città italiane e del mondo. I gesuiti lasciano tracce di scienziati, astronomi, rivoluzionari del pensiero e nel rapporto con altre civiltà, come è stato per Matteo Ricci in Cina, per giungere a Voltaire, a Fidel Castro! Ma l’accusa di essere precettori dei nobili, educatori della classe dirigente, confessori di regnanti, ne ha disegnato anche un profilo di poca coerenza, di lassismo e di opportunismo. Il conflitto con Port-Royal e con il giansenismo rimane segno eloquente, di cui lo stesso Pascal fu interprete. E non è l’unico esempio di conflittualità che attraversa la storia della Compagnia. La questione galileiana, l’essere sostenitori della Controriforma, la manifestazione trionfalistica nell’architettura barocca e l’essere chiamati come educatori, confidenti e confessori da potenti e regnanti, sono tutti motivi di una valutazione anche critica nei confronti della Compagnia. Eppure fra i gesuiti si contano architetti, scienziati, letterati, artisti, che fanno parte del patrimonio culturale dell’Eu137

ropa e dei paesi in cui sono fiorite le missioni. Le riduzioni del Paraguay rimangono esemplari del tentativo di garantire lo sviluppo delle popolazioni indigene e della lotta alla schiavitù. Appare sempre più evidente quella che potremmo definire una doppia anima dei gesuiti. La mia esperienza di tanti anni di insegnamento e di presenza in diversi ambienti sociali conferma la possibile ambiguità nello scegliere i mezzi con cui conseguire gli obiettivi sia spirituali sia culturali e sociali. Quello più generale è il sottile principio ispirato a Ignazio di Loyola che potrebbe essere preso come simbolo del gesuita intrigante. «Entrare dalla loro per portarli alla nostra»! L’ho sperimentato nel vivere a contatto con amici laici, marxisti, dichiaratamente non credenti. La scelta di un atteggiamento di dialogo e di ascolto può essere interpretato come strumentale per accattivarsi il consenso o come sincero atteggiamento di ricerca per un incontro di valori condivisi. L’intenzione di non convincere nessuno ma di accompagnare il cammino di ciascuno rilevando quanto c’è di positivo, di utile al bene comune. Dai più zelanti è spesso considerato come rinuncia a proporre una propria idealità o l’esplicito richiamo all’appartenenza cristiana, addirittura come rinuncia all’affermazione della verità della dottrina fino ad essere segno di doppiezza. Mi sono trovato anche nella difficile condizione di valutare l’importanza delle risorse finanziarie per realizzare progetti culturali e sociali. Se da una parte si riafferma che la povertà e il distacco dal potere sono basilari per una evangelica azione apostolica, l’esperienza dei gesuiti si avvale di necessari strumenti e mezzi con cui adempiere l’impegno nello sviluppo, primo fra tutti quello culturale. Non si può fare ricerca scientifica senza adeguati mezzi, non si può dare espressione al teatro, alla musica, all’arte senza avvalersi di strumenti anche molto costosi. 138

Le molteplici università rette dai gesuiti sono istituzioni che richiedono ingenti investimenti economici, spesso frutto di alleanze con fondazioni e con amministratori pubblici. Nell’uso del denaro e delle risorse finanziarie di fatto è messo alla prova quale debba essere il giusto rapporto fra i mezzi e il fine. Si può arrivare all’affermazione spesso contestata che il fine giustifica i mezzi... noi gesuiti in questo siamo facile bersaglio... La ricerca dei finanziamenti inoltre non è l’unico impatto con la sfera del potere. A me è capitato di ricevere dagli amministratori di due città l’incarico di fondare istituzioni che avessero carattere di servizio pubblico, una scuola sperimentale e una università del tempo libero... È stato facile per diverse persone, anche per ragioni ideologiche, scambiarmi per uomo di potere... Non è possibile tirare una conclusione, ma resta comunque il fatto che la ricerca di ciò che sia più innovativo, di frontiera e spesso di spregiudicato nell’operare di molti gesuiti possa dare adito a giudizi e pregiudizi di ogni tipo. Cosa in definitiva caratterizza la cultura dei gesuiti e la loro azione pastorale? Sono esperienze di un nuovo umanesimo che attinge ad una spiritualità che si fonda sul discernimento, sulla ricerca del valore del relativo che in ogni coscienza può rivelare il bello e il buono. Molto diverso dall’immagine di conservazione e di oscurantismo. Potremmo accomunare i due termini «giudizio e pregiudizio» con le dovute ragioni, nell’antinomia fra conservazione e innovazione, fra legame all’istituzione e fedeltà all’ispirazione. È sintomatico che nella stessa Compagnia convivano, non senza sofferenza le due anime. Le vittime della violenza in America Latina, i martiri del Salvador, la illuminata visione del padre Arrupe durante e dopo il Concilio Vaticano II trovano sintesi nel gesuita vescovo di Roma Francesco, esemplare spirito riformatore. 139

D’altra parte ancora sussistono esperienze che risentono di contaminazione e spesso di dipendenza dalle istituzioni e dalle condizioni imposte da chi ha potere finanziario, culturale e sociale, con la possibile caduta nel compromesso, meritevole a ragione del titolo di ipocrisia.

Giulio Anselmi I giornali non contano più nulla

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ire che i giornali non contano più è, in parte, un pregiudizio. Ma non è certo un tradimento completo della realtà. Sarebbe esatto sostenere che non contano più come un tempo, ma si tratterebbe di un’ovvietà, tanto è evidente che l’informazione tradizionale oggi rappresenta una realtà sempre più laterale. La crisi è infatti gravissima: non riguarda solo la carta, come qualcuno si ostina a ripetere, ma, pur con diverse accentuazioni, abbraccia l’intero comparto mediatico e lo stesso mestiere di giornalista. L’Italia dei media vale sempre meno: la diffusione di Internet resta nettamente sotto il livello europeo, continua ininterrotto lo slittamento dei quotidiani cartacei, che, dopo essere rimasti per anni sul basso livello di quattro milioni di copie al giorno, è arrivato nel 2015, secondo i dati dell’Associazione Stampatori, a 2,8 milioni. Il calo delle vendite è accompagnato dal crollo della raccolta pubblicitaria, dimezzato, in termini di valore (gli sconti sono altissimi) rispetto a una quindicina di anni fa. La domanda ricorrente è se e come se ne possa uscire. La risposta può venire solo da un atteggiamento intellettualmente onesto che non cerchi di essere rassicurante a ogni costo, ma non frani neppure nel catastrofismo. Alcune delle date fissate per la fine dei papers sono già alle nostre spalle, come il 2013 ripetutamente indicato per l’ultima copia del «New York Times». Sarà altrettanto azzardato il 2043 stabilito da Philip Meyer, uno grandi massmediologi Usa? Alla catastrofe che tra141

volse i dinosauri sarà pure sfuggito, in qualche landa desolata e per qualche tempo, un esemplare di tirannosauro... Il vero problema è quello del ruolo, del senso e del peso dell’informazione. Chi potrebbe oggi ripetere credibilmente la massima di Disraeli, capo del governo britannico con la regina Vittoria, «l’uomo è creato da Dio, ma la pubblica opinione è opera dei giornali»? Facciamo pure la tara, o addirittura ignoriamo, gli interventi di presidenti del Consiglio alla Renzi o di politici e capitani d’industria sul ruolo di questa o di quella testata, di questo o di quel giornalista per sostenerne l’insignificanza: ciò è sempre avvenuto, il potere è sempre stato allergico a ogni forma di opposizione, imperasse la Prima, la Seconda, la Terza Repubblica e perfino la monarchia dei Savoia. Oggi l’indebolimento delle testate ha cambiato le modalità del contrattacco, imperniandolo non sulla fondatezza ma sull’efficacia della critica. Fatto più che comprensibile in termini di rapporti di forza. Gli italiani, da sempre modesti lettori, leggono sempre meno. Internet, che molti editori avevano immaginato fosse un succedaneo delle loro gazzette, incorrendo nel drammatico errore di favorirne la gratuità, si rivela sempre più un protagonista fondamentale dell’intrattenimento con uno spruzzo di notizie: quanto basta a una domanda di informazione di livello medio-basso. Ma l’intrattenimento che ammette tra i suoi ingredienti le notizie è informazione? Domanda retorica. Sarà pure un nonnulla di informazione, che prescinde dal contesto, dal senso, dall’approfondimento dei fatti. Sarà anche un tradimento o una vera e propria esecuzione del giornalismo. Ma è quanto oggi soddisfa. Quasi tutti. Il nostro quadro di riferimento va scompaginato e ricomposto. Se ci concentriamo sui prodotti, dobbiamo abbandonare abitudini consolidate che, per quel che riguarda organizzazione del lavoro, orari, argomenti, gerarchie dipendono ancora dalla piattaforma cartacea. 142

Se ci mettiamo dalla parte dei lettori è bene porsi la domanda che da troppo tempo non riceve risposta: cosa vogliono lettori, spettatori, frequentatori dei vari media? L’informazione, come oggi si configura, è utile e risponde alle esigenze degli utenti? La questione è tanto più rilevante in quanto, come molti studiosi hanno notato, la controparte dei giornalisti è mutata: non più pubblico ma consumatori, convinti, in quanto tali, di avere il diritto di dialogare alla pari col produttore. È quello che viene definito il passaggio dalla società dell’informazione a quella della conversazione, in cui ai giornalisti professionisti si affiancano legioni di citizen-journalist che intervengono per competenza, passione o curiosità sui terreni dai quali erano esclusi. È giusto entusiasmarsi? Assistiamo davvero alla democratizzazione di un mondo rimasto a lungo elitario? Si guadagna qualcosa sul controverso terreno della qualità? I parametri dell’establishment dell’informazione, editori e giornalisti, sono in gran parte superati: molti editori considerano più che sufficiente l’iscrizione dei loro dipendenti all’ordine professionale, e si dedicano a fusioni e giochi finanziari che possono rafforzare nell’immediato le aziende, ma prescindono spesso dalla storia e dall’identità delle testate. Direttori e capiredattori continuano a far ricorso, come primo criterio di valutazione, all’arcaica logica del «buco», il confronto con i giornali concorrenti sulle notizie date o non date. La logica della conservazione ha certo alcune frecce al suo arco: la carta, da noi, rappresenta ancora il 90% dei ricavi dei gruppi tradizionali. Per la maggioranza dei politici un fatto non conta fino a quando non diviene oggetto di un articolo di fondo del «Corriere», della «Repubblica», del «Sole» o almeno della «Stampa» e del «Messaggero». Il che spiega un’attenzione nevrotica a titoli e fotografie che non è inferiore, ai tempi di twitter, di quando governavano Craxi, Spadolini e D’Alema. Il declino è innegabile, ma bisogna gestirlo. Le armi dei giornali sono a sempre più breve gittata. Condizionate dall’età, dal 143

censo, dalla formazione culturale di fasce più esigue di lettori, mentre nel mondo prende piede il modello americano, in base al quale l’88% dei giovani si informano attraverso i social network. Gli stessi giornalisti, spaesati, contribuiscono a creare un clima di insicurezza, dove voci e opinioni, sovente immotivate, diventano profezie di sventura destinate ad autoavverarsi. Una sola cosa è certa. Occorre fare i conti con la realtà che cambia. Ma pragmaticamente, senza pregiudizi, evitando che la crisi divenga un alibi per nuovi errori.

Laura Cardinale Sei troppo giovane

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egli ultimi anni mi sento ripetere spesso che forse sono troppo giovane per i miei interessi, come un ritornello pubblicitario difficile da dimenticare. A quanto pare, secondo un pregiudizio comune, sono troppo giovane per avere delle opinioni o per interessarmi di politiche culturali ed economiche, di preoccuparmi, quindi, di come si stia evolvendo la società, la stessa che mi definisce «mammona» e poi non mi dà le opportunità per costruire un futuro. La percezione generale è che siano questioni, non tanto per adulti, quanto per «più grandi», una categoria indefinita e dai confini assai labili, facilmente adattabile in ogni occasione. Questo anche perché «giovane» e «anziano» sono concetti relativi che si definiscono vicendevolmente, in un continuo rapporto di confronto. Si è giovani rispetto a qualcuno o qualcosa. Fino a poco tempo fa era il lavoro a determinare l’ingresso nell’età adulta, contribuendo a separare con più chiarezza le diverse fasi della vita. Al giorno d’oggi è difficile credere che tale definizione possa essere ancora valida, quando persone restano in situazioni precarie per molti anni prima di potersi sistemare, mentre altri non vi riescono affatto. Mi torna alla mente la frase dell’ultimo responsabile del personale con cui ho parlato: «Avrà molto tempo per lavorare in futuro, dopotutto è ancora così giovane!». Che non abbia l’età richiesta o l’esperienza necessaria, come la voce dell’Enciclopedia Treccani riporta sotto il secondo significato di «giovane»? 145

No, il problema non è la definizione, bensì l’accezione negativa che ha assunto con il tempo: i giovani sono inaffidabili, volubili, bisognosi di aiuto, dopotutto sono bamboccioni; dopo che gli si è offerto un tirocinio non retribuito e a tempo ultradeterminato, potrebbero addirittura decidere di cambiare vita e andare via, all’estero o dalla concorrenza che offre qualcosa di più, dopo che si è speso così tanto per formarli! Perché il giovane, si sa, ha titoli di studio, ma non esperienza. Lauree, master e dottorati non formano alla Vita Vera, che, ovviamente, non possono conoscere, perché sono ancora troppo giovani per averla vissuta! È come un circolo vizioso distruttivo, basti pensare all’immensa mole di offerte di lavoro in cui è richiesta «esperienza pregressa nel settore»: se nessuno assume, come mai si potrà ottenere tale requisito? Possono sembrare concetti strani, retrogradi, eppure alcune di queste frasi si leggono in articoli di giornale e vengono pronunciate dalla classe dirigente italiana, il che significa che, effettivamente, questa è un’idea piuttosto diffusa nell’immaginario comune. C’è una verità che credo si celi dietro queste parole: la gioventù spaventa. In passato si investiva nei giovani come assicurazione per il futuro, adesso invece si avverte una certa diffidenza, sono considerati come un fardello che aumenta ogni giorno di più. Il famoso modo di dire «quando l’allievo supera il maestro» sembra ormai antiquato. Ma senza nuove menti, forti dell’esperienza di chi le ha precedute, si rischia di non progredire, è quindi necessaria la collaborazione tra le generazioni, senza estremizzazioni da una o l’altra parte. Uno dei molti annunci che quotidianamente si trovano in rete recita: «offresi lavoro in ambiente giovane e dinamico». Qui non si tratta più di un pregiudizio, ma di una nuova sfumatura concettuale. Da sinonimo di «inesperto» a simbolo di un 146

approccio «fresco, innovativo e diverso», come recita il resto del volantino. È solo questione di lessico, quindi? No, fortunatamente. C’è chi, su questa piccola finezza linguistica, ha puntato tutto. Una percentuale di coraggiosi che ha deciso di osare e credere in questa gioventù sottovalutata, decidendo di affidare interi nuovi settori proprio a quel potenziale ignorato. Dopotutto se il target a cui ci si deve rivolgere è giovane, chi meglio di un ragazzo potrà capire i gusti del pubblico? Per esperienza personale ho avuto la possibilità di vedere i benefici che tale scelta apporta ad entrambe le parti. Quando avevo tredici anni, per un anno, andai tutti i pomeriggi in una piccola libreria indipendente del mio quartiere, specializzata in testi per ragazzi. La proprietaria, affezionata alla mia presenza costante, aveva messo a disposizione tutti i libri in vendita, così da poterli leggere prima di acquistarli. Conoscendo quindi i volumi disponibili, mi capitava spesso di dare consigli ai giovani acquirenti che entravano senza sapere bene cosa stessero cercando. Consigli da ragazzo a ragazzo, poiché eravamo molto più vicini di quanto un adulto avrebbe mai potuto riuscire. L’idea piacque, la voce si diffuse, una piccola libreria indipendente in un quartiere di periferia sopravvisse in un momento di dura crisi per l’editoria, grazie al fenomeno del passaparola. Non cercavano più il libro in sé, ma il confronto con una giovane mente, un consiglio diverso da quello che chiunque altro avrebbe potuto offrire in una libreria qualsiasi. Alla fine i più assidui frequentatori non furono i ragazzi, cui i consigli erano inizialmente rivolti, bensì i loro genitori. Regali di compleanno, libri per loro stessi, a volte anche solo un parere su un libro della loro infanzia. Perché in fondo anche gli adulti sono stati giovani e, ai più, a volte, piace ancora ricordarlo. I sogni, le speranze, le stesse che rinnegano quando si chiedono 147

se qualcuno non sia troppo giovane, per provare le loro stesse emozioni. Forse come una forma di difesa, per proteggere le future generazioni dalla crescita e dai problemi della vita reale, avvolgendo la giovinezza in un eterno limbo dorato. Si è capito che tutti quei brand e prodotti che avevano per target i giovani, non potevano avere speranza di farcela passando attraverso persone che, per prime, non si sarebbero definite tali. Forse è finalmente giunto il momento di adattarsi ai nuovi tempi, accettare che non sia più possibile controllare tutto collocandolo al di sotto di un’etichetta, tagliando fuori il resto. Se è vero che la storia è maestra di vita, forse noi siamo stati allievi distratti. Alessandro Magno morì a trentatré anni dopo aver conquistato tre quarti del mondo conosciuto, Napoleone Bonaparte prese il potere in Francia a trent’anni, Steve Jobs fondò la Apple Computer a soli ventuno anni e ne aveva venticinque quando venne quotata in borsa 1,79 miliardi di dollari. Non si è mai troppo giovani per fare qualcosa. Non poniamoci limiti, ma cerchiamo di abbatterli. Facciamo la differenza.

Giovanni Solimine I giovani non leggono

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uesta frase, che spesso si sente pronunciare da un anziano, è di solito seguita, per rafforzare il concetto, da: «Ai miei tempi si leggeva di più». Assolutamente falso: i giovani leggono più degli adulti e più dei giovani delle generazioni precedenti. L’errata percezione dipende forse dal fatto che a pronunciare tali sentenze è solitamente qualcuno che appartiene a una ristretta élite che già decenni fa leggeva tanto, forse anche perché le condizioni socio-ambientali (familiari innanzi tutto) favorivano un rapporto con il libro. Se analizziamo i dati sulla lettura in Italia nell’ultimo mezzo secolo, vediamo che solo tra i giovani i lettori sono in maggioranza, superando il numero dei non lettori: la fascia d’età in cui si legge di più è quella compresa fra 11 e 14 anni, dove la percentuale di coloro che leggono almeno un libro l’anno è sempre stata sopra il 50%, superando addirittura il 60% tra il 2002 e il 2012; attualmente il punto più alto viene toccato nella fascia 15-17 col 53,9% (anche in questo caso il dato è sempre stato superiore al 50%). A fronte di queste performance tra i ragazzi, il dato medio della lettura in Italia parte da un modestissimo 16,6% in occasione della prima indagine Istat del 1965, si attesta poi fra il 35 e il 40% nel decennio 1987-96, si mantiene stabilmente poco al di sopra del 40% dall’inizio degli anni Duemila e fa registrare qualche lieve progresso fino a toccare il punto più altro nel 2010 col 46,5%, e comincia poi a declinare fino al 42% fatto registrare nel 2015 in occasione dell’ultima rilevazione. 149

Sostenere che i giovani non leggano o leggano poco è quindi un pre-giudizio nel senso letterale del termine, cioè un’affermazione non documentata che semplicisticamente esprime un giudizio negativo sui giovani, descritti come persone superficiali, senza interessi e refrattari a ogni stimolo, appiattiti, o «sdraiati», secondo la definizione stereotipata che Michele Serra ne ha dato in un libro di successo1. Ma, se ci limitassimo a sostenere che «i giovani leggono» – cosa che i dati statistici, come abbiamo visto, possono comunque confermare in modo incontrovertibile – faremmo una generalizzazione di segno opposto e cadremmo in un luogo comune, come quello che qui si intende confutare. Bisogna analizzare la situazione nel dettaglio. Tanto per cominciare, ricordiamo che i dati che abbiamo riportato si riferiscono alla lettura di libri nel tempo libero e non ci dicono nulla sulla lettura di giornali e riviste, o su quella praticata attraverso computer fissi o dispositivi mobili. Non disponiamo finora di rilevazioni complete e affidabili specificamente mirate sulle forme di fruizione culturale in ambiente digitale molto diffuse nel pubblico giovanile. Dobbiamo ammettere, poi, che proprio l’andamento della lettura fra bambini, ragazzi e adolescenti sta subendo trasformazioni profonde. Se è vero, infatti, che i giovani leggono più degli appartenenti ad altre fasce d’età, è anche vero, però, che fra di loro la lettura sta calando in misura maggiore della media degli italiani. Solo negli ultimi cinque anni si sono persi quasi 8 punti percentuali nella fascia d’età 6-10, ben 13 punti nella fascia 11-14, 5 punti nella fascia 15-17, oltre 4 punti nella fascia 20-24 anni. Nello stesso periodo la media nazionale è calata molto meno, nell’ordine di 3-4 punti. Trovo allarmante che il calo sia così marcato tra i più giovani e tra chi legge di più: quando l’onda raggiungerà le generazioni che già leggono meno ci sarà poco da stare allegri. Per spiegarci questa disaffezione possiamo ipotizzare che 150

sia in atto una migrazione di massa di giovani e adolescenti dall’ambiente cartaceo a quello digitale, favorita anche dalla possibilità di connettersi senza fili e dalla diffusione di dispositivi estremamente potenti e facili da usare. Ricordiamo che l’iPhone è del 2007, il Kindle del 2009, l’iPad del 2010: oggetti ormai entrati nell’uso quotidiano e che ci sembra di maneggiare da sempre, ma che hanno meno di dieci anni. La connessione in mobilità riempie tanta parte del nostro tempo (nelle classifiche internazionali gli italiani sono ai primissimi posti per il tempo trascorso in rete collegandosi da dispositivi mobili e per il tempo dedicato ai social media2) e tende ad assorbire anche l’attenzione che prima dedicavamo ad attività che richiedevano concentrazione e tempi lunghi, come la lettura di libri. Il fenomeno ha diverse implicazioni, alle quali bisogna qui dedicare qualche considerazione. Assistiamo all’affermarsi di altre modalità di fruizione culturale, che hanno certo le loro potenzialità (fra cui l’integrazione di codici comunicativi diversi e una condivisione sociale più ampia dei propri interessi di lettura) ma che richiedono anche competenze specifiche – ancora non abbastanza diffuse – di reperimento, valutazione, gestione, produzione, conservazione dell’informazione anche nell’ecosistema digitale. La lettura è una pratica formativa, perché richiede attenzione e applicazione, perché ha i suoi tempi, richiede lo sforzo di attivare relazioni con altre conoscenze già acquisite o da ricercare. Ciò non è impossibile nel digitale, ma il fatto che tutto sia facilmente e immediatamente accessibile e la grande quantità di contenuti che la rete ci offre possono provocare un atteggiamento passivo, trasformandoci da «lettori» in «spettatori della lettura». Possiamo accontentarci del molto che ci viene dato e ritenere che non ci sia bisogno di altro. Rischiamo di perdere la complessità che è propria del libro, e in particolare di un testo saggistico argomentativo o di un testo narrativo «lungo», che ci consentono di appropriarci progressivamente 151

di contenuti articolati e complessi, presentati in forma organica – sia che si tratti di una tesi sostenuta con riferimento alle fonti o a alla letteratura sull’argomento, sia che si tratti della rappresentazione di ambienti, personaggi, sentimenti, come accade in un romanzo. Insomma, a mio avviso è questione di literacy, di competenze alfabetiche che innescano un certo tipo di capacità cognitive e ci consentono di «completare» con la lettura il testo scritto. Credo di poter dire che la «cultura giovanile» si sta allontanando da questo modello e che assistiamo a un vero e proprio cambio di paradigma. Qualcuno potrebbe giustamente obiettare che leggere un e-book è come leggere un libro di carta, per cui i miei timori sarebbero ingiustificati. Non assimilo tutto ciò che avviene in ambiente digitale in un insieme indifferenziato, ma intendo dire che avverto il rischio che il mezzo prevalga su ciò che facciamo, per cui anche la lettura in rete può risentire dell’influenza che il digitale esercita sui comportamenti. So che timori simili si manifestarono al momento del passaggio dall’oralità alla scrittura o al momento dell’invenzione della stampa3, ma il fatto che questi allarmi si siano dimostrati infondati non mi evita di essere ugualmente preoccupato. La precoce immersione in una lettura che avvenga prevalentemente on line o addirittura un’alfabetizzazione on line rischiano di farci perdere certe attitudini, anche se aiutano a sviluppare altre abilità cognitive e multisensoriali, e ci abituano alla raccolta immediata delle informazioni e a rapidi spostamenti dell’attenzione. Possiamo perdere quella che è stata definita «lettura profonda», e cioè quella gamma di processi sofisticati che conducono alla comprensione e che includono il ragionamento inferenziale e deduttivo, le abilità analogiche, l’analisi critica, la riflessione e il discernimento4. Non so se si possa parlare addirittura di una «evoluzione digitale della specie»5. Ciò che è certo è che «guardare è più facile che leggere»6 e che si sta affermando un nuovo «stile co152

noscitivo», fondato sulla simultaneità e sulla iconicità, dove la visione delle immagini diventa la fonte primaria per acquisire conoscenze. Recentemente è stato annunciato che tra cinque anni Facebook non accoglierà più testi ma solo video: non so se in futuro gli adolescenti si rivolgeranno a Wikipedia o a You Tube per studiare.

Michele Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli, Milano 2013. http://wearesocial.com/it/blog/2016/01/report-digital-social-mobilein-2016. 3 Gino Roncaglia, La quarta rivoluzione, Laterza, Roma-Bari 2010. 4 Cfr. Marianne Wolf-Mirit Barzillai, The Importance of Deep Reading. What will it take for the next generation to read thoughtfully – both in print and online?, in «Educational Leadership», 66 (2009), n. 6, pp. 32-37. 5 Come ben evidenziato dall’11° Rapporto Censis/Ucsi sulla comunicazione, L’evoluzione digitale della specie, presentato nell’ottobre del 2013. 6 «La ‘fatica di leggere’ non può competere con la ‘facilità di guardare’»: Raffaele Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 84. 1 2

Pietro Reichlin La globalizzazione accresce le disuguaglianze

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e disuguaglianze tra i redditi medi pro capite dei paesi del mondo sono enormi. Ad esempio, il reddito medio dell’Italia è circa 46 volte quello della Repubblica Democratica del Congo. Ma il reddito medio non tiene conto delle disuguaglianze tra i cittadini di una stessa nazione, che sono spesso altrettanto elevate. Ciò significa che la disuguaglianza globale, cioè quella tra i cittadini del mondo, indipendentemente dalla loro nazionalità, è ancora maggiore di quella che esiste tra le nazioni. È sempre stato così o la situazione è in via di peggioramento? E qual è l’effetto della globalizzazione e dello sviluppo dei commerci su questo fenomeno? I grandi divari di ricchezza tra il Nord e il Sud del mondo sono principalmente un prodotto del balzo in avanti compiuto dai paesi occidentali con la Rivoluzione industriale, verso la metà dell’Ottocento. Da allora l’industrializzazione si è diffusa molto lentamente alle altre aree del pianeta. Negli ultimi trent’anni ha subìto una forte accelerazione, con un aumento impressionante dell’apertura commerciale e dei movimenti di capitale. Ciò ha determinato reazioni contrastanti, preoccupazioni e proteste, soprattutto nei paesi più ricchi. Lo stesso papa Francesco ha lanciato un allarme sui pericoli della globalizzazione che lascia poco spazio a dubbi, e che qui di seguito riporto (quasi) testualmente. TESI 1. Il fenomeno della globalizzazione, se da un lato ha accresciuto notevolmente la ricchezza aggregata dell’insieme e 154

di parecchi singoli Stati, dall’altro ha anche inasprito i divari tra i vari gruppi sociali, creando diseguaglianze e nuove povertà negli stessi paesi considerati più ricchi1. Questa tesi è parzialmente vera, ma se cerchiamo le evidenze empiriche che la sorreggono, scopriamo che la questione è più complicata. In base ai più recenti studi di Branko Milanovic, uno dei massimi esperti del fenomeno delle disuguaglianze globali2, dalla fine degli anni Ottanta in poi la distribuzione del reddito a livello globale è diventata più equa, sia perché i livelli del prodotto pro capite dei paesi in via di sviluppo (soprattutto in Asia) sono aumentati molto di più di quelli dei paesi industrializzati, sia perché, con poche eccezioni, i redditi dei cittadini più poveri del mondo sono cresciuti più dei redditi dei cittadini più ricchi. Ma vi sono almeno 3 importanti caveat da considerare. Il primo è che i cittadini che hanno conseguito il maggiore aumento di reddito sono coloro che Milanovic chiama la «classe media del mondo», cioè un paio di miliardi di persone, per lo più asiatici, che si collocano al centro della distribuzione globale, il cui reddito è cresciuto di circa l’80 per cento. Il secondo è che una categoria di cittadini ha conseguito guadagni pressoché nulli negli ultimi trent’anni: coloro che si trovano intorno all’ottantesimo percentile della distribuzione, cioè la soglia di reddito sotto la quale si trova l’80 per cento della popolazione mondiale. Si tratta di famiglie che appartengono alla classe media nei paesi sviluppati, ma che hanno redditi ben superiori a quelli medi del mondo intero. Infine, abbiamo il fenomeno indicato dall’economista Piketty3: quel gruppo ristretto d’individui che appartiene all’1 per cento della popolazione più ricca e che ha conosciuto un aumento rilevante dei propri redditi. Dunque, se vogliamo sintetizzare questi studi (e, in particolare, la documentazione di Milanovic), possiamo fare la seguente affermazione. 155

TESI 2. Nell’epoca della globalizzazione (cioè negli ultimi trent’anni), la disuguaglianza globale è diminuita in misura notevole e come non era mai accaduto dalla Rivoluzione industriale in poi, anche se questo fenomeno si è accompagnato a un aumento delle disparità di reddito all’interno delle nazioni. Cioè è accaduto che la differenza tra i redditi dei cittadini che appartengono a paesi diversi del mondo è diminuita ancora di più di quanto non sia aumentata quella tra i concittadini di ogni singola nazione. Le Tesi 1 e 2 sono compatibili? La risposta è sì, e ciò può essere illustrato nel modo seguente. Nel 1980 circa 1,8 miliardi di contadini vivevano con meno di due dollari al giorno, un operaio della General Motors (GM) guadagnava mediamente 5 mila dollari al mese e l’amministratore delegato di questa stessa azienda circa 120 mila dollari al mese. Nel corso degli ultimi trentacinque anni, grazie soprattutto all’enorme espansione del commercio globale, agli investimenti diretti nei paesi in via di sviluppo e alla diffusione delle tecnologie, la situazione è radicalmente cambiata. Almeno un miliardo di quei contadini sono usciti dalla povertà, una buona parte di loro si è urbanizzata e guadagna quasi quanto la classe operaia americana. Questi ultimi, circa 55-60 milioni di persone, hanno quasi lo stesso salario che avevano trent’anni fa (e, in molti casi, ha perso il lavoro e cambiato mestiere), mentre l’amministratore delegato della GM guadagna almeno 10 volte quanto guadagnava prima (e, probabilmente, è diventato manager di un’impresa che opera nel campo delle nuove tecnologie). Una statistica molto usata per sintetizzare il livello delle disuguaglianze è l’indice di Gini, un numero compreso tra zero e uno, dove uno indica il massimo della disuguaglianza (tutto il reddito ai più ricchi) e zero il minimo (tutti hanno lo stesso reddito). È noto che questo indice è mediamente cresciuto nella maggioranza dei paesi avanzati dal 1980 in poi e anche in 156

molti paesi in via di sviluppo, con alcune importanti eccezioni, come il Brasile e altri paesi del Sud America (che avevano livelli di disuguaglianza molto elevati). Ma vi sono diversi modi per utilizzare questo indice. Uno si basa su un confronto tra il reddito pro capite dei diversi paesi, ponderato per la popolazione (per evitare di mettere sullo stesso piano Hong-Kong, con pochi milioni di individui e la Cina, con oltre un miliardo). In questo modo si fa finta che i cittadini di uno stesso Stato abbiano lo stesso reddito. Il secondo criterio si basa, invece, sul confronto tra i redditi dei cittadini (o unità familiari), senza distinzione di nazionalità. Secondo i calcoli di Milanovic, l’indice di disuguaglianza di Gini «tra paesi» comincia a scendere rapidamente dalla metà degli anni Ottanta (va da circa 0,64 nel 1985 a circa 0,52 nel 2010), dopo essere stato quasi stazionario dal 1960 al 1980. Ciò accade soprattutto perché la Cina, l’India e le altre nazioni dell’Asia aprono le frontiere agli scambi commerciali e agli investimenti esteri. Queste politiche portano i tassi di crescita del prodotto interno lordo a livelli compresi tra il 5 e il 10 per cento annuo, mentre le economie industrializzate non superano il 2-3%. Un progresso così rapido ha naturalmente generato molte disuguaglianze all’interno di queste nazioni. Alcuni cittadini hanno potuto o saputo sfruttare le nuove opportunità economiche, molti altri sono rimasti nelle zone rurali sottosviluppate, o hanno trovato lavoro nelle aree urbane in condizioni di sfruttamento. Inoltre, la nuova divisione del lavoro a livello mondiale ha determinato una caduta dell’occupazione nel settore manifatturiero nelle economie avanzate, compensata da un aumento nel settore terziario. Ciò ha aumentato il divario tra i salari dei lavoratori con un elevato livello d’istruzione e quello dei lavoratori poco qualificati. Per sapere se queste nuove disuguaglianze abbiano vanificato i benefici della crescita media dei redditi nazionali è necessario avere un indice di Gini «globale», cioè basato sull’an157

damento nel tempo dei redditi individuali di tutti i cittadini del mondo, senza distinzione di nazionalità. Bisogna avvertire, però, che il calcolo di questo indice è molto complesso perché si basa su rilevazioni molto dettagliate che non sono sempre disponibili. Secondo le ricostruzioni di Milanovic, la disuguaglianza globale è sempre aumentata dall’inizio della Rivoluzione industriale per raggiungere un picco alla fine degli anni Novanta. Da allora, per la prima volta nella storia contemporanea, l’indice Gini della disuguaglianza globale sta scendendo. Tra il 1988 e il 2008, circa il 70% dei cittadini del mondo ha conseguito un aumento di reddito superiore al 25%, e quel 30% che non ci è riuscito appartiene, in grandissima parte, alla classe medio-bassa dei paesi sviluppati, cioè coloro che non hanno un diploma universitario e lavorano nei settori più esposti alla concorrenza mondiale. Dunque, nonostante l’aumento delle disuguaglianze all’interno delle nazioni, la crescita poderosa delle economie in via di sviluppo (soprattutto in Asia, ma ora anche in una parte del Sud America e dell’Africa) è stata sufficiente a ridurre le disuguaglianze globali, almeno negli ultimi anni. Se questi cambiamenti siano da valutare come un miglioramento o un peggioramento dipende dai punti di vista, e cioè, principalmente, se vogliamo adottare una prospettiva «nazionale» o «cosmopolita». Sulla base della Tesi 1, sembrerebbe che il papa (sorprendentemente, a mio giudizio) preferisca la prospettiva nazionale. Una prospettiva cosmopolita dovrebbe tenere conto, invece, dell’intera distribuzione del reddito mondiale, indipendentemente dal luogo di nascita degli individui. Il filosofo Rawls proponeva di considerare equa una ridistribuzione delle risorse che sarebbe accettata volentieri da una persona sotto il velo dell’ignoranza, cioè prima ancora di sapere in quale famiglia o paese sarebbe nata. Se questo fosse il test, dovremmo concludere che la globalizzazione ha prodotto un mondo più giusto. Ma noi tutti sappiamo che l’esercizio di Rawls 158

è puramente speculativo. La realtà è ben diversa, perché ciò che è importante, dal punto di vista politico, è la disuguaglianza percepita, e quest’ultima dipende dall’osservazione di ciò che accade ai nostri vicini e a coloro che sono più simili a noi.

Dal discorso ai partecipanti all’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio «Giustizia e Pace» del 2/10/2014. 2 Chi ha e chi non ha, il Mulino, Bologna 2014. 3 Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014. 1

Salvatore Veca Le ideologie sono morte

Q

uando si addensano i necrologi per un’ideologia che non c’è più, una buona massima è quella che ci suggerisce di scrutare i segni dei tempi e stanare, in stato nascente, qualche altra ideologia. Lo spazio delle ideologie è sempre affollato, semplicemente perché esse, quali che siano, generano per le persone criteri di orientamento e di valutazione, delineando orizzonti di senso e appartenenza. Per questo, l’idea che la fine di una ideologia implichi la fine di qualsiasi ideologia è tanto corrente e popolare quanto fallace. Di fine o di morte delle ideologie si è a lungo discusso nel giro di boa della fine del secolo scorso. Quando il sisma geopolitico generato dall’implosione dell’impero sovietico trascinò con sé il collasso dell’ideologia del socialismo reale, che aveva per parecchi decenni occupato una regione dello spazio ideologico disponibile. Si proclamò immediatamente, in quel contesto di mutamento e incertezza, la irrevocabile fine delle ideologie. In realtà, si proclamarono un bel po’ di «fini»: per esempio, come cercò di mostrare Francis Fukuyama, niente meno che la fine della storia. Sono convinto che nell’ultimo decennio del Novecento abbiamo assistito, quali osservatori o partecipanti, a un’insorgenza e a una rigogliosa fioritura di ideologie destinate a modellare la geografia delle credenze, delle lealtà e delle devozioni dei primi anni del Ventunesimo secolo, quello in cui ci accade di vivere. Una cartografia sommaria dello spazio ideologico che si è ridisegnato sullo sfondo delle dichiarazioni della morte delle

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ideologie negli anni Novanta può mettere a fuoco un duplice campo di credenze e valutazioni che, incentrate sull’ideale universalistico di un pianeta senza confini, chiamano in causa per un verso la prospettiva cosmopolitica dei diritti umani e dei cittadini del mondo e, per altro verso, consacrano le virtù del mercato come unico strumento disponibile per la soluzione dei problemi sociali ovunque e per chiunque in giro per il mondo. I due campi ideologici di credenze possono intersecarsi o confliggere fra loro, offrendo ragioni, giustificazioni e motivazioni per scelte e condotte a volte nettamente contrastanti. Ma di entrambi si può dire che identificano e definiscono fini intrinsecamente al di là dei confini delle sovranità nazionali. Che si tratti di movimenti che mirano a un altro mondo possibile e che si coagulano contro il lato oscuro della globalizzazione fin de siècle, o di movimenti che insorgono per la tutela e la custodia dell’ecosistema inquinato e depredato, o di movimenti che si impegnano nella difesa di lingue e culture minacciate di sparizione, o di cerchie epistemiche e di opinione che elaborano discorsi sul nuovo ordine mondiale e sulla governance globale, l’aria di famiglia fra queste visioni fra loro distinte consiste nel riferimento a un «noi» che è in ogni caso sovranazionale, aperto e inclusivo nei confronti di chiunque. Ma lo stesso vale per l’ideologia mercatista: il suo dogma centrale, che coincide con il principio di autoregolazione dei mercati, non vale per territori e contesti definiti da confini quanto piuttosto per il pianeta e per i suoi coinquilini. Così, sembra di poter dire, il revival del diritto cosmopolitico di Per la pace perpetua di Immanuel Kant va in tandem con il revival della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith. E i due campi ideologici che modellano credenze, orientamenti e criteri di valutazione, definendo cerchie di mutuo riconoscimento per le persone, sono naturalmente destinati a conoscere varianti e versioni fra loro distinte, così come sono responsabili delle risposte reattive che, nello spazio ridisegnato 161

delle credenze, non tardano a emergere e a consolidarsi. In una manciata affannosa di anni, in cui la fine dichiarata della storia si converte in una sarabanda di mille storie inedite, con il loro corteo di mutamenti e metamorfosi, in cui tipicamente irrompe per osservatori e partecipanti l’inaspettato. Per illustrare a grandi linee la famiglia delle risposte reattive alle offerte ideologiche di un qualche universalismo, mi avvalgo del termine-ombrello del «comunitarismo» che ha caratterizzato una regione dello spazio ideologico, in cui prevale una sorta di nuovo romanticismo. Una qualche versione del comunitarismo è alla base delle ideologie del localismo, delle piccole patrie, delle forme di vita contestuali e delle radici, della decrescita felice, che alimentano le politiche dell’identità. Si consideri che la famiglia dei comunitarismi è tenuta assieme dall’ideale di un «noi» chiuso e stabilmente definito da confini, in quanto distinto da «altri». È così all’opera la tensione essenziale nello spazio ideologico fra apertura e chiusura. E l’offerta di chiusura si basa su una domanda di eticità omogenea che emerge da frazioni di popolazione qua e là per il mondo. L’offerta di chiusura assicura le persone contro il rischio della porosità dei confini fra «noi» e gli «altri», contro il rischio della contaminazione e della perdita di sé. Si pensi ai molti volti della diversità: alla differenza di genere, di colore della pelle, di etnia, di cultura, di religione, di etica. Le ideologie della chiusura, ai tempi della crisi sistemica e strutturale in cui siamo intrappolati, ai tempi delle grandi migrazioni, offrono ragioni, motivazioni e giustificazioni per le politiche dei muri. E molto spesso la famiglia dei comunitarismi definisce e assegna fini collettivi a un livello subnazionale. Se il «noi» illuministico è aperto e i suoi confini sono mobili e mirano a sconfinare – nel bene e nel male – nell’apertura, il «noi» romantico è presidiato e immunizzato rispetto allo «straniero» perturbante, grazie alla chiusura entro confini che non coincidono con quelli, pur contingenti e storici, della «grande società». Sembra che, al livello 162

delle comunità statuali, l’erogazione di ideologie sia indebolita e tenue, fatto salvo il caso delle ideologie della cosiddetta antipolitica populista che drenano le loro risorse motivazionali e le loro giustificazioni dalla dissipazione del vincolo sociale e dalla revoca di fiducia nei confronti delle élites e dei detentori di autorità politica e istituzionale. Queste sommarie osservazioni su alcuni tratti della geografia mutata dei campi ideologici si basano sul riferimento a un contesto e a uno sfondo quasi esclusivamente «occidentale». Ma sarebbe intellettualmente fatuo non prendere sul serio, in un mondo sempre più interdipendente, l’insorgenza di un’ideologia di portata universalistica quale quella generata dal radicalismo islamico. Che si tratti di un effetto della radicalizzazione dell’islam o di un effetto dell’islamizzazione del radicalismo, in ogni caso l’ideologia del jihad che si avvale delle risorse motivazionali e delle giustificazioni proprie di un’appartenenza religiosa mira con il terrorismo globale e molecolare alla costruzione di un «noi» che esclude ex ante gli «altri». E si basa sull’assioma secondo cui non deve essere possibile convivere nella diversità. Di fronte alla sfida, sono convinto che noi, eredi del recente progetto dell’Illuminismo, siamo inevitabilmente indotti a preservarne il retaggio. Mantenere lealtà a un grappolo di valori, di cose elementari che contano e che fanno la differenza per le nostre vite e per le vite di chiunque, non vuol dire consegnare a una damnatio memoriae i numerosi mali di cui siamo responsabili nella storia alle nostre spalle, storia recente e remota. Vuol dire solo far vivere e fiorire il meglio che siamo riusciti a combinare e che ritroviamo in quel repertorio di possibilità che è il passato. Credo che un’ideologia dell’Illuminismo che non rifugga dalla penombra e dal chiaroscuro non sarebbe poi male, di questi tempi.

Gianpiero Dalla Zuanna Gli immigrati ci rubano il lavoro

A

metà del 2016 lavoravano in Italia due milioni e mezzo di stranieri e c’erano due milioni e mezzo di disoccupati italiani. Quindi, se dal giorno alla notte tutti gli stranieri sparissero, la disoccupazione in Italia come d’incanto dovrebbe annullarsi. Ma naturalmente non è così, perché nel mercato del lavoro italiano ci sono grandi squilibri, che concorrono a determinare sia la disoccupazione di molti italiani, sia il lavoro di molti stranieri. Il primo squilibrio del mercato del lavoro è generazionale. I giovani che si affacciano ora al mercato del lavoro sono molti di meno rispetto a quanti si apprestano ad andare in pensione: nel 2015 in Italia hanno compiuto 20 anni 567 mila giovani, mentre hanno compiuto 65 anni 732 mila «giovani di una volta». Ciò sembrerebbe spalancare le porte ai giovani italiani aspiranti lavoratori. Ciò non accade a causa dal grande squilibrio di istruzione fra i nuovi aspiranti lavoratori e i nuovi pensionati. Appena il 30% dei nati nel 1950 ha studiato oltre le scuole medie inferiori, proporzione che supera invece l’80% fra i giovani ventenni, nati nel 1995. E questi numeri sullo squilibrio del ricambio fra nuovi lavoratori e nuovi pensionati sono simili da almeno quindici anni, e lo saranno anche per i prossimi quindici. Ciò significa che ormai da più lustri, in Italia, per ogni cinque lavoratori poco istruiti che vanno in pensione, solo un giovane poco istruito si affaccia sul mercato del lavoro, e lo stesso accadrà nel prossimo quindicennio. Per contro, per ogni 164

nuovo pensionato istruito, due giovani sgomitano per prendere il suo posto. Inoltre, non è vero che i lavori poco qualificati stanno sparendo. Oggi come all’inizio degli anni Novanta più di metà degli uomini di età 30-39 che vivono in Italia fa lavori per cui non è richiesto un diploma superiore. Ma anche nella California di Google e della Apple, ogni due nuovi posti di lavoro high tech ne vengono generati cinque a bassa professionalità: qualcuno dovrà pure stirare le camicie dei benestanti, curare i loro giardini, prendersi cura dei loro anziani, servirli quando vanno al bar o al ristorante, portare le loro mazze da golf. Il secondo squilibrio è fra lavoro regolare e irregolare. Gli stranieri, specialmente nel primo periodo della loro permanenza in Italia, per sbarcare il lunario sono spesso costretti ad accettare qualsiasi tipo di lavoro, anche il lavoro grigio o nero, con retribuzioni per lo più basse o molto basse, evasione fiscale parziale o totale, mancato rispetto delle norme di sicurezza. Inoltre, spesso gli stranieri vedono anche poco conveniente avere un lavoro regolare: perché ritengono sia loro interesse guadagnare in fretta più denaro possibile; perché – convinti di stare in Italia per pochi anni – non sono più che tanto interessati ad accumulare contributi pensionistici. Infine, la vita di molti stranieri in Italia è tale da rendere per loro accettabili condizioni di lavoro che noi italiani consideriamo «insopportabili». Ad esempio, molte assistenti familiari straniere accettano di buon grado di vivere giorno e notte a casa del loro assistito – a fronte di uno stipendio da noi percepito come modesto – perché la disponibilità di vitto e alloggio «gratuito» (o per meglio dire, facente parte del salario) permette loro di risparmiare di più, perché spesso non hanno altro posto dove andare, essendo la loro famiglia rimasta nel paese d’origine, e perché il modesto stipendio che percepiscono permette di campare a molte persone che sono rimaste in patria, dove il costo della vita e le esigenze sono incommensurabilmente più bassi. 165

Grandissima parte degli italiani possono permettersi di rifiutare lavori come questo. Perché quasi tutti hanno una famiglia che li sostiene, o comunque possono giovarsi di risorse alternative che permettono di tenere relativamente alta l’asticella delle condizioni minime al di sotto delle quali possono non lavorare piuttosto che lavorare. Gli economisti direbbero che gli italiani hanno un «salario di riserva» più elevato degli stranieri. Così nei ristoranti e nei bar di Roma lavorano migliaia di giovani camerieri stranieri, anche se nelle borgate romane vivono migliaia di ragazzi italiani che non lavorano né studiano. E lo stesso accade in tante altre città italiane. E straniere, del resto: dove a volte a fare i camerieri sono i nostri, di giovani. Un terzo profondo squilibrio del mercato del lavoro italiano è di tipo territoriale, anche fra territori quasi contigui. Nel comune industriale di Arzignano (provincia di Vicenza), al centro del distretto industriale di concia delle pelli, all’inizio del 2016 gli stranieri erano il 18% dei residenti, e il 37% dei nuovi nati del 2015 ha avuto entrambi i genitori stranieri; nel depresso comune di Adria in provincia di Rovigo (grande quasi come Arzignano, da cui peraltro dista solo 100 km) gli stranieri erano appena il 6%, e «solo» il 13% dei nuovi nati era straniero. Perché i giovani di Adria non sono andati a lavorare in conceria, al contrario di centinaia di giovani indiani, bengalesi, serbi, kosovari e ghanesi (le prime cinque nazionalità in ordine di presenza ad Arzignano), che vivevano nella cittadina vicentina all’inizio del 2016? Gli italiani hanno ritenuto che i vantaggi di un regolare ma relativamente modesto stipendio di operaio fossero minori rispetto agli oneri di trasferimento, ai disagi di un lavoro faticoso e al fatto di vivere lontani dalla propria famiglia. Le alternative e i sostegni familiari ad Adria erano tali da garantire una vita magari con poche speranze e orizzonti ristretti, ma migliore rispetto a quella vissuta da chi è rimasto in India, Bangladesh, Serbia, Kosovo o Ghana. 166

Questi tre squilibri del mercato del lavoro (generazionale, normativo e territoriale) sono molto dannosi per lo sviluppo dell’economia e della società italiana. Nell’ultimo quindicennio, essi sono stati parzialmente attenuati dall’arrivo di lavoratori stranieri, che quindi solo raramente hanno «soffiato» il posto agli italiani. Poiché tali squilibri si attenueranno solo lentamente, l’Italia avrà «bisogno» di molti stranieri ancora per decenni. Quindi, anche se sembra paradossale, per realizzare veramente lo slogan «prima gli italiani» (o «prima i veneti», «prima i lombardi»...) ci conviene accogliere un numero ragguardevole di stranieri, per permettere all’Italia, al Veneto e alla Lombardia uno sviluppo più equilibrato.

Simona Colarizi L’Italia è un paese ingovernabile

«I

l sistema politico italiano è il più stabile tra tutti quelli delle democrazie avanzate dell’Occidente». Questa sorprendente affermazione, espressa a metà degli anni Settanta dal politologo americano La Palombara, si limitava in fondo a certificare una realtà: per trent’anni l’assetto politico dell’Italia era rimasto fermo nello schema di una maggioranza guidata dalla Dc che dal dicembre 1945 aveva sempre espresso il presidente del Consiglio. Dopo il 1947, finita la fase dell’unità antifascista, ad assicurare la stabilità al sistema, intorno al partito cattolico si era aggregata una coalizione di forze di destra (il Pli), di centro (il Pri) e di sinistra democratica (il Psdi di Saragat); poi a partire dal 1963, i liberali lasciavano l’esecutivo sostituiti dal Psi di Nenni. Un equilibrio destinato a durare fino alla disgregazione del sistema politico italiano tra il 1992 e il 1994 – il cosiddetto crollo della Prima Repubblica –, salvo la breve parentesi dei governi di solidarietà nazionale del 1976-1978. Dunque non ci sono dubbi sull’eccezionale stabilità dell’Italia nel cui sistema politico per mezzo secolo non si era mai attivato il meccanismo dell’alternanza maggioranza-opposizione, un meccanismo virtuoso per lo stato di salute delle democrazie. Perché in realtà, come chiosava lo stesso La Palombara, la stabilità sistemica si accompagnava in Italia a una vistosa volatilità dei governi – alcuni così brevi, meno di un anno di vita, da portare il totale degli esecutivi a più di quaranta alla 168

fine dell’intero cinquantennio. Una prova dell’ingovernabilità degli italiani? Oppure solo la dimostrazione delle conseguenze negative che l’assenza di un ricambio politico provoca sulla capacità di durata e quindi di efficacia dei governi? Se si condivide la seconda ipotesi, ci si deve interrogare allora sulle ragioni che hanno bloccato l’avvio di una sana alternativa tra i partiti al governo e i partiti all’opposizione – e non solo nel secondo dopoguerra. Il luogo comune «gli italiani sono ingovernabili» va dunque riproposto su un altro piano concettuale, assai più aderente all’intera storia del paese: fin dalle origini dello Stato unitario – e senza arrivare a richiamare i guelfi e i ghibellini – la società italiana è sempre stata percorsa da profonde e non componibili fratture politiche e istituzionali. Monarchici contro repubblicani all’epoca dell’Unità d’Italia; liberali leali al Regno Sabaudo contro cattolici fedeli alla Chiesa di Roma (per lo meno fino al Concordato del 1929); nazionalisti contro socialisti, bollati come l’espressione dell’anti-nazione; interventisti contro neutralisti al momento del primo conflitto mondiale; neri contro rossi nel dopoguerra; fascisti contro antifascisti per tutti gli anni della dittatura e al momento della resistenza; anticomunisti contro comunisti a partire dal 1945. Una lacerazione quest’ultima che ha segnato l’intera storia della Prima Repubblica al cui blocco sistemico ha contribuito in modo determinante la Guerra Fredda tra le due massime potenze mondiali, Usa e Urss. Non è casuale infatti che col crollo del muro di Berlino nel 1989 inizi la distruzione del quadro politico italiano, dal 1948 in poi retto su due pilastri portanti: la Dc da sempre egemone al governo, il Pci da sempre egemone all’opposizione. In ogni fase della storia d’Italia – per lo meno fino al 1994 – gli schieramenti politici contrapposti sono portatori di una così forte carica di delegittimazione del potere costituito da presupporre la distruzione dello Stato stesso in caso di vittoria degli uni o degli altri, o quanto meno l’esplodere di una guerra 169

civile con lo stesso esito distruttivo. Alla base di questa radicalizzazione c’è una visione della politica imperniata sulle grandi ideologie novecentesche vissute dalla popolazione italiana come postulati ideologici totalizzanti o come vere e proprie guerre di religione: l’altro da sé non è un avversario politico, è un nemico la cui eventuale vittoria significa la morte anche fisica di chi si è opposto alla sua affermazione. La consapevolezza della radicalità e dell’irreversibilità dello scontro ha da sempre costretto le classi dirigenti a costruire governi il più possibile inclusivi di forze portatrici di interessi e di ideali presenti nella società, anche se non del tutto omogenei o addirittura in contrasto con princìpi e programmi del partito maggioritario. Nell’impossibilità di consentire il ricambio maggioranzaopposizione, si sono varati così governi ad alta conflittualità interna, nei quali piccoli partiti o addirittura singoli esponenti hanno esercitato un perpetuo potere di ricatto (cioè usano senza scrupoli il loro potere coalittivo). E le conseguenze naturalmente hanno pesato sull’efficacia dell’azione di governo. Basta richiamare il fenomeno del trasformismo già evidente nel passaggio tra la destra e la sinistra storica, accentuato a tal punto in epoca giolittiana da far parlare di una dittatura parlamentare. Un esecutivo di coalizione è anche il primo governo Mussolini del 1922 dove siedono esponenti liberali e popolari, ancora illusi sulla possibilità di «parlamentizzare» il movimento fascista. Si potrebbe sostenere che solo nel ventennio dittatoriale non si sia più avvertita la necessità di una mediazione governativa pacificatrice. Eppure a ben vedere nella tollerata diarchia con la monarchia e soprattutto nello spazio politico concesso alla Chiesa dal dittatore si evidenzia l’esigenza di soffocare nel paese ogni possibile incendio, incontrollabile malgrado la potenza dei mezzi repressivi a disposizione della dittatura. Per molti aspetti dunque il secondo dopoguerra si svolge in continuità con le epoche precedenti: governi instabili con maggioranze allargate, a tal punto allargate che a partire 170

dalla fine dei Sessanta la stessa opposizione comunista si adegua a quella sorta di consociativismo che porta il Pci a votare in Parlamento il 75% delle leggi varate dagli esecutivi di centrosinistra. E oggi? La fine della Guerra Fredda nel 1989 ha rimosso il blocco del sistema e aperto la strada all’alternanza tra opposti schieramenti. Ma instabilità dei governi e conflitti permanenti all’interno di maggioranze disomogenee continuano a rendere debole il quadro politico nel quale i cittadini non riescono a riconoscersi. Una crisi di legittimità, come del resto sta avvenendo in tutta Europa? Una crisi della democrazia? Piuttosto che parlare di ingovernabilità degli italiani, forse si dovrebbe guardare all’inadeguatezza dei loro rappresentanti.

Francesco Daveri L’innovazione è un pranzo di gala

N

el dibattito pubblico italiano spesso ci si riferisce all’innovazione come se fosse un’occasione da non perdere o un evento benefico per tutti. Un pranzo di gala, insomma, cioè una festa di persone che si ritrovano insieme in armonia, senza controversie e senza conflitti. L’innovazione è spesso vista come un pranzo di gala, quando ci si riferisce ad essa e al correlato aumento di produttività che questa potrebbe generare come rimedio per la colossale perdita di competitività subita dall’economia italiana dopo il 1995. L’argomentazione è più o meno la seguente. Rispetto a vent’anni fa, l’economia italiana ha accumulato una montagna di 45 punti percentuali di maggior costo del lavoro per unità di prodotto rispetto al resto dell’eurozona. Per il recupero di competitività ci sono due strade alternative. La prima è quella della deflazione salariale: la riduzione dei salari a parità di produttività garantirebbe un recupero di competitività dei prodotti italiani rispetto a quelli dei nostri concorrenti. Si tratta però di una scelta controversa (e quindi in definitiva da non intraprendere) perché portatrice di conflittualità sociale. In alternativa, da molti anni, si parla di una diversa strategia, desiderabile da tutti e a cui nessuno apparentemente obietta: l’idea è quella di aumentare la produttività attraverso l’innovazione. Il risultato è sempre quello desiderato (il recupero della competitività) perché con l’aumento della produttività scende il costo del lavoro per unità di prodotto. Ma ciò avviene 172

(avverrebbe) a parità di salari, dunque senza i conflitti sociali implicati dalla deflazione salariale. Sembra l’uovo di Colombo. Perché dunque intraprendere una strada costosa socialmente come la deflazione salariale se ce n’è un’altra priva di costi sociali e anzi solo foriera di benefici e di progresso? Perché non organizzare un pranzo di gala nel quale gli inviti a partecipare sono estesi a tutti? I dati di contabilità nazionale dicono però che nell’argomentazione deve esserci una trappola. Altrimenti non si spiegherebbe perché la produttività per ora lavorata ancora oggi ristagni ai livelli del 2000, segno che, se di festa di gala si tratta, la società italiana si sta stupidamente perdendo occasioni di divertimento (e di crescita del tenore di vita). I casi sono due: o siamo in presenza di un colossale fallimento collettivo oppure l’innovazione non è davvero il pranzo di gala di cui si parla nel discorso pubblico sull’innovazione. Un punto spesso dimenticato è che gli effetti dell’innovazione sulla produttività aggregata e di settore sono in realtà ben più piccoli di quello che è percepito al livello della singola impresa innovativa. Gli esempi sono tanti, ne ricordo solo alcuni. Prendiamo l’innovazione digitale. A questo punto, quasi un quarto di secolo dopo la firma del protocollo di Internet, rimangono pochi dubbi sull’efficacia dell’innovazione digitale nel generare effetti positivi sulla produttività nelle aziende attive nel settore delle tecnologie delle informazioni e della comunicazione. Non solo: nel corso del tempo, grazie alla combinazione tra miniaturizzazione e automatizzazione dei processi e della gestione dei magazzini, la produttività ha cominciato a crescere anche in settori un tempo definiti a produttività stagnante come il commercio al dettaglio o il settore bancario. E si è anche dimostrato che tali effetti sono più marcati con il passare del tempo, una volta che si dia tempo alle aziende di rimpiazzare il loro vecchio capitale di macchinari, attrezzature, mezzi di trasporto, edifici e software obsoleti con capitale 173

«intelligente». Di tutto ciò sono particolarmente convinti gli operatori e gli imprenditori del settore. Ma quando poi si va a misurare l’impatto aggregato dell’innovazione digitale non si può dimenticare che l’innovazione di un’azienda può distruggere i profitti di altre aziende nello stesso settore o in altri settori. Negli Stati Uniti i guadagni di produttività ottenuti da Walmart, la società regina del commercio al dettaglio tradizionale, rappresentano il grosso dei guadagni di produttività di tutto il settore. Walmart ha cioè insegnato a innovare ai suoi fornitori, condividendo informazioni e obbligandoli a incessanti miglioramenti qualitativi, ma i risultati di tale sforzo innovativo congiunto sono rimasti con il segno più quasi esclusivamente nei bilanci di Walmart. Nello stesso modo, lo strapotere di Google tra i motori di ricerca e di Facebook sui social media ha creato formidabili macchine per la raccolta pubblicitaria (capaci di raccogliere l’85% della pubblicità on line nel 2016), ma sta anche rapidamente cancellando l’industria della carta stampata e contribuendo alla possibile scomparsa di quotidiani e libri cartacei. E, per restare a casa nostra, anche l’affermarsi del Freccia Rossa come Metropolitana d’Italia ha distrutto la gallina dalle uova d’oro del bilancio di Alitalia, la tratta Milano-Roma. L’innovazione della azienda superstar distrugge i profitti di altre aziende dello stesso o di altri settori. In altri casi, l’innovazione digitale – facilitando l’adozione di moderne tecniche manageriali che includono la possibilità e la convenienza della delocalizzazione di segmenti di produzione – tende a ricostituire i profitti aziendali e a creare nuova occupazione all’estero, dunque a spese dei redditi da lavoro nel paese di origine dell’azienda. In conclusione, il recupero della competitività per l’economia italiana è un obbligo per un paese che deve importare e che di punti di competitività ne ha persi 45 negli ultimi vent’anni. Tale percorso, se non vuole essere al ribasso (con le condizioni lavorative dei lavoratori italiani fissate a Bucarest se non a 174

Pechino) deve passare attraverso la crescita della produttività. Ma chi descrive i guadagni di produttività come un pranzo di gala, un processo privo di ostacoli e di conflitti, non fa un buon servizio alla causa comune. Il ritorno alla crescita nella produttività non può nutrirsi di pudiche bugie ma farebbe meglio a muoversi dal riconoscimento di qualche scomoda verità. A cominciare da quella che il ritorno alla crescita della produttività richiede che le istituzioni intermedie come i sindacati dei lavoratori e la Confindustria recuperino la capacità di negoziare e di fare compromessi. In modo da comporre e superare i conflitti che inevitabilmente l’avvento del nuovo, dell’innovazione e del progresso sempre portano con loro.

Achille Mauri Gli insetti sono bestie schifose

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mmàginati al volante di un’automobile. Devi percorrere ancora chilometri e chilometri. Attraversi una piccola città, vedi un alberghetto ma non ti fermi. Poi, dopo il tramonto, in fondo a un piazzale di sosta compare una grande scritta al neon: HOTEL. Ma la H è spenta, e la L fibrilla in continuazione. Mentre entri nel parcheggio, ormai troppo stanco per proseguire, tante piccole sensazioni arrivano a farti dubitare delle tue scelte e degli errori che ripeti. Ti addormenterai nella sconfortevole stanza di quell’hotel con una piccola ansia notturna, persino con il dubbio di poter essere morso da una pulce. Argomento forte, le pulci. Non ne descriverò la nobiltà dell’aspetto o l’abilità nel salto – completamente sproporzionato alla lunghezza delle zampe – perché non desidero eccedere, ma le pulci hanno una funzione importantissima: sono come una piccola febbre premonitrice. La presenza di una pulce segnala una pericolosissima mancanza di pulizia. La pulce è una guardiana sana che arriva sul campo di battaglia per divorare una marea di microbi invisibili e solo apparentemente innocui. Non sappiamo quasi nulla degli insetti, e ancor meno dei microbi, ma di sicuro dobbiamo essere puliti e garantire individualmente agli altri la nostra stessa pulizia, pur avendo vite, organizzazioni, condizioni ambientali e mezzi così diversi gli uni dagli altri. Per una pulce nel letto si cambiano le lenzuola, come con la piccola febbre si può prendere un’aspirinetta. 176

Una cavalletta verde dalle gambe lunghissime ha vissuto qualche giorno in camera mia e di mia moglie, e più di una volta l’ho trovata seduta sul bordo di una tazzina da caffè: si teneva ritta e ferma sul bordo con le braccia, le gambe lunghe ed eleganti a sfiorare il piattino. Una mattina l’ho trovata seduta su un bicchiere con una gamba fuori e una infilata nello yogurt. A mio parere già lo conosceva. È possibile che tanta bellezza sia fine a sé stessa? Le formiche sono curiose: cinque di loro partono in spedizione per visitare un altro formicaio. Arrivate in prossimità della meta, si accorgono che quel formicaio – a differenza del loro – ha un’entrata e un’uscita. Le cinque esploratrici si accodano alla disciplinatissima coda in entrata, compiono un percorso a vortice – continuo e senza ostacoli – che porta in fondo alla grande dispensa, attraversata la quale risalgono, sempre a vortice, ed escono, ancora unite e vicine. Poi, guidate dall’olfatto, tornano indietro per comunicare alle compagne rimaste a casa la straordinaria scoperta. Niente perdite di tempo, niente incroci o precedenze: tutto scorre naturalmente. In pochissimo tempo le formiche riescono a disciplinare tutte le compagne per attivare rapidamente il nuovo metodo di sali e scendi. Aprono una nuova porta, dirigono il traffico in entrata verso questa nuova possibilità, mentre due di loro dirigono dal basso altri milioni di formiche perché risalgano verso l’uscita. In poco tempo, i due formicai sono identici. Noi umani non riusciremmo mai a compiere un’impresa del genere, soprattutto non in così poco tempo. E se mai il formicaio dovesse essere inondato dall’acqua di un fiume in piena, le formiche cammineranno indefessamente una sull’altra fino a creare una o più sfere brulicanti. Il loro peso e l’aria contenuta all’interno delle sfere le terranno a galla mentre continuano a camminare incessantemente l’una sull’altra per prendere aria a turno durante la fase di galleggiamento; 177

e questo, senza mai modificare la forma perfettamente sferica del loro raggruppamento. È la prova di un enorme equilibrio tra senso degli altri e salvaguardia di sé stessi: si accetta di stare sott’acqua ma si cammina tra milioni di altri simili verso la superficie, seguendo la corrente fino a incontrare un albero e a mettersi al sicuro sui rami più alti. Finita la piena, le formiche torneranno al loro formicaio o, se troppo lontane, ricominceranno una nuova impresa edile comunitaria per ospitare in poco tempo milioni di migranti: sicuramente anche le formiche del formicaio accanto, casomai si fossero salvate pure loro con lo stesso metodo, aggrappandosi poi allo stesso albero. Nessun problema per i migranti. Ci vorrebbero delle fiabe che raccontino le nobili e audaci gesta delle formiche. Forse, allora, i nuovi bambini smetterebbero di torturarle. È di questi giorni la fotografia che mostra uno sciame immenso incollato a un’automobile nella quale è rimasta prigioniera un’ape regina. Quale condottiero ha avuto al seguito un esercito, un popolo, intere famiglie con componenti di tutte le età, tre anni, tre giorni, tre ore? Tutti lì con lo stesso compito, un solo obiettivo per tutti: proteggere l’ape regina, impedire a chiunque di avvicinarla. Com’è finita la storia? Come se l’è cavata il proprietario della macchina? E l’ape regina e il suo popolo? Non è dato saperlo, ma non conta, è un seguito trascurabile. Io mi auguro che le api non siano state gassificate e che poi l’ape regina non sia stata uccisa con un giornale, bensì che il proprietario della macchina abbia aperto la portiera con estrema cautela e, liberata l’ape regina, abbia assistito al meraviglioso spettacolo di milioni di api felici che riportavano ronzando nell’alveare la regina liberata. Se la felicità degli individui fosse misurabile, e se lo fosse anche quella degli insetti, forse si scoprirebbe che un’umile 178

zanzara, nella sua pur breve vita, forse – ripeto, forse – prova più felicità di quanta non ne provi un qualsiasi essere umano, a cominciare da me, in un’intera vita. Le code degli animali – cavalli, tori, cani, leoni, elefanti, mucche – sono vigorose, rapide, vivaci: sono fruste che allontanano mosche, zanzare, tafani, moscerini, ma senza ucciderli. Le code servono soprattutto a cacciare gli insetti dalle ferite, in modo che non vi depositino le uova o che non le usino come fossero un bar. Gran parte del ciclo alimentare universale si regge sulle riserve di sangue animale e umano. Noi tutti siamo quindi anche, e addirittura, appetibili per insetti e mai completamente inutili, nemmeno in una paranoica notte d’estate in un hotel, in cui tra l’altro abbiamo appena chiesto di cambiarci le lenzuola in una camera infastidita dalle luci della fibrillante L di HOTEL.

Carlotta Sami Siamo invasi dai rifugiati

Le azioni umane non vanno derise, compiante o detestate: vanno comprese. (Baruch Spinoza)

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cittadini europei a questo punto si sono abituati e danno per scontato che all’immigrazione venga associato uno stato di crisi, di allerta, di paura. Nel migliore dei casi vengono sottoposti a ripetuti scenari violenti e drammatici, nel peggiore, attirati nella spirale della propaganda politica, spinti in uno stato di allarme rispetto ad imminenti invasioni. Secondo una ricerca pubblicata dal Pew Research Center nel luglio 2016, nella mente di molti europei la crisi dei rifugiati e la minaccia del terrorismo sono strettamente legati l’una all’altro. La cronaca ci racconta che invece la maggior parte degli attacchi terroristici e delle stragi sono state condotte da cittadini europei, di origine straniera, entrati nelle fila dell’estremismo islamico o da esso attratti. In otto dei dieci paesi europei presi in esame, la metà o più credono che i rifugiati in arrivo stiano aumentando i rischi legati al terrorismo nel proprio paese. Ma il terrorismo non è l’unica preoccupazione che le persone hanno rispetto ai rifugiati. Molti sono anche preoccupati che essi diventino un peso economico. In cinque nazioni, oltre 180

la metà degli intervistati teme che i rifugiati portino via posti di lavoro e benefici sociali. Ungheresi, polacchi, greci, italiani e francesi identificano questo come la loro più grande preoccupazione. La Svezia e la Germania sono gli unici paesi in cui almeno la metà afferma che i rifugiati renderanno la loro nazione più forte grazie al loro lavoro e al loro talento. È interessante notare che per gli europei, gli atteggiamenti negativi verso i musulmani sono legati alla convinzione che essi non vogliano partecipare alla vita sociale del paese. In tutti i paesi inclusi nella ricerca, l’opinione dominante è che i musulmani vogliano essere distinti dal resto della società, piuttosto che adottare i costumi e lo stile di vita della nazione in cui vivono. Sei persone su dieci hanno questa opinione in Grecia, Ungheria, Spagna, Italia e Germania. Ma è impressionante lo scarto fra la percezione degli europei su alcuni temi caldi e la realtà. Secondo una ricerca Ipsos Mori pubblicata su «The Guardian» nel 2014 queste sono le principali credenze errate in Italia: – presenza di immigrati nel paese: dato percepito 30%, dato reale 7%; – presenza di musulmani nel paese: dato percepito 21%, dato reale 4%; – presenza di cristiani nel paese: dato percepito 69%, dato reale 83%. Se chi si occupa di politica basasse le proprie strategie, anche comunicative, su dati reali invece che sfruttare credenze del tutto errate, forse ci sarebbero più probabilità di ottenere soluzioni efficaci e costruttive. Non vi sono dubbi che l’immigrazione sia fra i principali fenomeni del periodo storico che stiamo vivendo ed è sicuro che sia complesso, ma, come in un circolo vizioso, si continua a mancare il giusto approccio, la giusta soluzione, perché si preferiscono vie brevi, di respiro corto, a-strategiche che coscientemente disconoscono analisi complesse ma affidabili. 181

I fenomeni migratori non sono certo una novità. Ma sono profondamente cambiati, negli ultimi quindici anni. I migranti si muovono fra paesi del Sud del globo così come da Sud verso Nord. In passato molti paesi industrializzati hanno strategicamente favorito un’immigrazione di massa allo scopo di potenziare la produzione e rilanciare l’economia. A questo si sono aggiunte immigrazioni spontanee, non eclatanti ma continue, che si sono inserite e sono divenute parte della nostra società in modo più o meno armonico. In Italia nel 2001 arrivavano via mare circa 20.000 persone, mentre i rifugiati sul territorio erano solo 8500, ossia 0,15 ogni mille abitanti. Ma la realtà è andata trasformandosi come conseguenza di crescenti, irrisolte, ripetute guerre e pervadente instabilità. Nel 2011, sull’onda delle Primavere Arabe, arrivavano via mare circa 60.000 persone; i rifugiati nel paese erano 58.000, circa 1 ogni mille abitanti1. Nel 2015 arrivavano via mare in Italia oltre 150.000 persone; i rifugiati nel paese erano circa 118.000. Due rifugiati ogni mille italiani. Non vi è sempre una corrispondenza diretta fra arrivi via mare e presenza di rifugiati, ma è innegabile che negli ultimi cinque anni fra coloro che sono arrivati via mare i richiedenti asilo siano aumentati in modo considerevole. Ciò è stato particolarmente evidente fra il 2014 e il 2015 in quanto la componente di persone fuggite dalla Siria è stata altissima. Il fenomeno dell’immigrazione dei primi dieci anni degli anni 2000 era dunque molto diverso da quello che si sta manifestando negli ultimi quattro, cinque anni a livello globale: una crisi senza precedenti che vede oltre 24 persone ogni minuto costrette a fuggire, badate non ad emigrare, a causa di guerre e violenze diffuse: nel 2015 le persone in queste condizioni sono state 65,3 milioni. Mai dalla Seconda guerra mondiale si era raggiunta una soglia simile, e i numeri sono in rapida accelerazione. Nel 2011 erano poco più di 40 milioni, una crescita rapidissima e inarre182

stabile causata dal moltiplicarsi indisturbato di conflitti interni, persecuzioni di massa, azioni terroristiche. Ciò cui siamo di fronte dunque non è una crisi migratoria: oltre l’80 per cento di chi arriva via mare e prosegue il suo cammino in Europa proviene da paesi in guerra come la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan. È una crisi legata alla crescente difficoltà a risolvere i conflitti. Che perdurano ed anzi si moltiplicano. La fuga di massa di milioni di esseri umani ne è uno degli effetti principali. Centinaia di migliaia di morti, altrettanti feriti e milioni di sfollati e rifugiati. Del resto, rispetto ai conflitti dei secolo scorsi, ormai i target sono innanzitutto i civili. Quindi tutto, tragicamente, torna. Ciò che non torna è che a fronte di tale crisi si siano andate delineando due crisi gemelle e inseparabili: una crisi politica, incapace di trovare strategie e soluzioni di respiro ampio, ed una – se vogliamo – culturale e valoriale, una crisi di solidarietà. Gli spazi riconosciuti a questi esseri umani per trovare protezione e avere la vita salva sono andati riducendosi sempre più e, in buona sostanza, chi fugge passa dalla condizione di cittadino a rischio a quella di persona illegale. E così arriviamo all’Europa. Questo continente ospita una parte infinitesimale degli oltre 65 milioni di sfollati e rifugiati: il 6%. Il resto vive soprattutto in paesi non industrializzati. Il sistema europeo per l’asilo e tutte le regole che lo sostengono sono state pensati in un periodo storico diverso, quando le guerre apparivano ancora lontane e si pensava che a quella distanza sarebbero rimaste. Oggi nessuna guerra è più così lontana: nel 2015 circa un milione di persone in fuga hanno camminato migliaia di chilometri attraversando un confine dopo l’altro disperdendosi fino nel cuore del nostro continente, mentre per mesi si cercavano soluzioni che dessero un risultato immediato. L’esternalizzazione della gestione dell’asilo, con l’accordo 183

Ue-Turchia è stata l’ultima e più radicale soluzione, ma non è difficile valutarne i punti di criticità e debolezza. L’Europa si è dimostrata impreparata e disfunzionale. Se crisi è stata, è stata auto-inflitta. I media hanno rappresentato queste persone come «orde», «ondate», «sciami». Massa indistinta, inesorabile, incontrollabile, difficilmente identificabile. Oltre la metà sono donne e bambini, centinaia di migliaia di famiglie. Ma le immagini e le storie di queste famiglie sconvolgono gli animi per un frammento di tempo troppo breve. L’informazione è un lampo che associa volti, sempre disperati, spesso buttati a terra, a parole molto contradditorie rispetto alla realtà che pretende di descrivere. I termini invasione ed emergenza sono presenti nella narrativa di questi fenomeni e vengono utilizzati ogni volta che si verifica una forte intensità di operazioni di ricerca e soccorso, con arrivi in Europa via mare: troviamo queste parole nei titoli, nei sommari, nei testi. E le troviamo in organi di stampa di alto livello. Persino sul «Corriere della Sera»: «Negli ultimi tre giorni in Italia c’è stata una vera e propria invasione di stranieri partiti dall’Africa», si legge in seconda. Matteo Salvini la stessa mattina, nel corso di un suo intervento a SkyTg24, citava la frase del «Corriere», rilanciandola anche dalla sua pagina Facebook. Poi però, l’articolo descrive una realtà del tutto diversa e rileva come questi arrivi non stiano aumentando, anzi. Il quotidiano voleva descrivere le difficoltà nel gestire l’accoglienza, ma usando il termine invasione presta il fianco ad uno uso propagandistico del tema. Non è un problema solo italiano, bensì europeo. La strumentalizzazione politica del tema dei rifugiati è risultata molto utile a diverse battaglie politiche recenti. Il risultato più eclatante è sicuramente la Brexit. Intervenendo all’ultimo summit europeo, David Cameron ha dichiarato: «È la libertà di 184

movimento senza vincoli ad avere determinato il risultato del referendum in Gran Bretagna». Nonostante la Gran Bretagna non faccia parte di Schengen, la paura dell’invasione ha fatto da detonatore del leave, la paura dell’invasione di rifugiati e migranti ha provocato un arretramento, fino all’auto-separazione. Ma facciamo un po’ di chiarezza sulla presenza dei rifugiati in Gran Bretagna. Secondo Eurostat nel 2015, l’anno della cosiddetta «crisi» dei rifugiati in Europa, il Regno Unito ha registrato 38.800 richieste d’asilo, un numero basso se paragonato alle domande d’asilo negli altri paesi dell’Ue: in Germania quasi 500mila, 175mila in Ungheria e 160mila in Svezia, in Italia più di 80mila. Altro dato interessante che smentisce la narrativa dell’invasione e della crisi è quello sulla proporzione dei rifugiati per ogni mille cittadini. Nel Regno Unito nel 2015 erano 2, in Italia 2, in Grecia 3, in Svezia 17, in Francia 4, in Germania 4, in Danimarca 4. Vogliamo uscire dall’Ue? Questa la presenza dei rifugiati ogni 1000 cittadini in altri paesi: Libano 183, Turchia 32, Giordania 87, Sud Sudan 21, Ciad 26. In un gioco di utili ipocrisie e immediati tornaconti si diffondono informazioni spesso superficiali, poco accurate, utilizzando parole che tengono fisso lo sguardo del lettore per due secondi, il necessario, e che risultano utilissime a chi vuole costruire campagne politiche che con il tema in oggetto nulla hanno veramente a che fare. Ma servono a distrarre: distraggono il cittadino europeo dai propri problemi reali e dal chiedere soluzioni efficaci ai responsabili politici, distraggono anche i leader più onesti e capaci attirandoli in un vortice di confusione e battaglie mediatiche che occupa energie e spazio sottraendolo alle soluzioni reali, che richiedono applicazione, fatica, coraggio e visione. Si prende così congedo dalla realtà, vivendo, come dicono gli anglofoni, in denial uno stato psi185

cologico di negazione e allontanamento che si affida a miti e disinformazione. Recentemente l’Unesco ha creato un manuale per giornalisti e scuole di giornalismo su come trattare il tema dell’immigrazione, con un focus sui rifugiati. Di seguito alcuni dei più comuni e dannosi miti presenti sui media che circondano la questione rifugiati. MITO 1: «I rifugiati sono un problema europeo». In realtà l’Europa ospita solo il 6% dei rifugiati a livello globale, mentre il 39% è in Medio Oriente e in Nord Africa e il 29% nel resto dell’Africa. Un’ampia maggioranza dei rifugiati siriani si trova nei paesi confinanti: Turchia, Libano, Giordania e Iraq. Nonostante oltre 1 milione di persone sia arrivato via mare in Europa nel 2015, questa cifra rappresenta solo lo 0,3% della popolazione totale del continente. MITO 2: «I rifugiati non sono disperati, scelgono di emigrare». Per definizione i rifugiati sono persone che fuggono attraversando i confini per sfuggire a conflitti violenti o persecuzione. Applicano il loro diritto d’asilo, incluso nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; un diritto del quale godete anche voi. I grandi rischi personali che comporta la fuga sono prova della gravità della situazione affrontata. I migranti sono una categoria più ampia, che include coloro che migrano per ragioni economiche, ma anche chi fugge da disastri ambientali, dalla fame e dalla carestia. MITO 3: «La maggior parte dei rifugiati sono uomini giovani e robusti». In realtà oltre il 75% dei rifugiati siriani è rappresentato da donne e bambini. Dei rifugiati arrivati in Europa, oltre la metà al momento sono donne e bambini. MITO 4: «I rifugiati rubano posti di lavoro nel paese ospitante». I rifugiati creano lavoro. Stando a una ricerca dell’Ocse, i rifu186

giati ampliano i mercati domestici, creando una nuova opportunità di lavoro per ogni posto occupato. In alcuni paesi sono stati responsabili di quasi un terzo della crescita economica tra il 2007 e il 2013. MITO 5: «I rifugiati approfittano dei benefici del welfare». La maggior parte dei rifugiati immette nel welfare più di quanto prende. Una ricerca svolta nel Regno Unito, in Canada, Germania, Grecia, Portogallo e Spagna mostra che i rifugiati dipendono dagli aiuti pubblici quanto o meno dei locali. MITO 6: «I paesi sviluppati sono sovrappopolati e non possono accettare più nuove persone». La crescita della popolazione nativa nei paesi più sviluppati è attualmente in declino, una tendenza che l’immigrazione può reindirizzare. Rifugiati e migranti possono sostenere i livelli di popolazione e offrire persone in età da lavoro bilanciando un numero crescente di pensionati.  Di fronte ad una realtà che è difficile, dolorosa, deludente per la maggior parte dei cittadini di quest’Europa attraversata innanzitutto da crisi politiche, finanziarie, sociali, chi, come me, lavora con e per i rifugiati subisce quotidianamente molti attacchi, spesso vere minacce. Vengo accusata di dire bugie o di parlare da una posizione privilegiata che non conosce la durezza della vita reale. Siamo dunque in una situazione in cui basta provare ad essere razionali, parlare di fatti, farlo onestamente senza secondi fini e al contempo insistere nel ripetere quanto sia fondamentale per ognuno di noi tenersi attaccati ad alcuni valori e princìpi fondamentali, per non finire schiacciati da realtà e dinamiche più grandi e oppressive – basta questo per essere attaccati con rabbia. Perché? Sul «New Yorker» lo scrittore George Saunders scrive: «Ai vecchi tempi, un liberal e un conservatore (diciamo, ‘una colomba’ e ‘un falco’) ricavavano le loro informazioni da uno dei 187

tre telegiornali serali, un giornale locale, e una manciata di riviste nazionali, quindi avevano un background che si fondava sulle stesse premesse basilari (anche se tali premesse erano discutibili, limitate, o fallaci). Ora ognuno di noi costruisce un universo informativo personalizzato, consapevolmente (andiamo alle fonti che confermano le nostre convinzioni esistenti e così ci lusingano) o inconsapevolmente (ci guidano gli algoritmi delle nostre app). Le informazioni che otteniamo in questo modo, preconfezionate con i loro pregiudizi e i loro miti, sono profondamente monodimensionali».

I dati riportati in questo contributo sono tratti dalle seguenti fonti: http://www.unhcr.org/news/latest/2016/6/5763b65a4/global-forced-displacement-hits-record-high.html http://data.unhcr.org/mediterranean/country.php?id=83 http://www.pewglobal.org/2016/07/11/europeans-fear-wave-of-refugees-will-mean-more-terrorism-fewer-jobs/ http://www.tent.org/refugees-work/ http://www.cartadiroma.org/ http://www.newyorker.com/magazine/2016/07/11/george-saundersgoes-to-trump-rallies https://www.theguardian.com/news/datablog/2014/oct/29/todays-keyfact-you-are-probably-wrong-about-almost-everything 1

Franco Cardini L’islam è intollerante

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he l’islam sia «intollerante», che la tolleranza sia un elemento improponibile in una fede religiosa che è anche legge, etica, cultura e stile di vita e che si autopresenta come «perfetta», è opinione a vari livelli condivisa in ambienti (anche elitari), sia cristiani, sia agnostici, sia musulmani. Ma essa riposa su un malinteso di fondo: il fatto cioè che la «tolleranza», al di là della generica attitudine a «tollerare» – appunto – il «diverso-da-sé», è una dimensione precisa del pensiero e in qualche misura della prassi stessa della civiltà occidentale moderna: che può beninteso essere accolta, adattata, «esportata» in altre civiltà, ma che è il risultato non già di una sorta di naturale tendenza del genere umano bensì di un complesso iter storico e filosofico specifico a quel che siamo abituati a definire «il nostro Occidente». Difatti alla fine della guerra dei Trent’Anni, con i trattati di Westfalia del 1648, l’Europa dissanguata in una dura e lunghissima «guerra di religione» trovò la forza di sancire la necessità di una mutua inter christianos tolerantia, dal godimento della quale beninteso – e per definizione – erano esclusi ebrei e musulmani. Sarebbe spettato più tardi al Locke, al Voltaire e ai philosophes il riallacciarsi alle intuizioni dei sofisti e degli stoici greci per affinare quel concetto di tolleranza come atteggiamento disposto a riconoscere legittimità alle idee e ai comportamenti di chicchessia, compresi quelli più remoti rispetto ai propri. Un atteggiamento che peraltro difficilmente 189

si compone con il convincimento (stoico e poi anche cristiano) che esista un «diritto naturale» secondo il quale alcune scelte umane sono corrette e legittime, altre aberranti e inammissibili. D’altronde la secolarizzazione moderna non ha mai rinnegato decisamente né totalmente le sue «radici» storiche ed etiche ebraiche e cristiane Per tale motivo la modernità, che nel nome dei suoi valori «laici» può evitare con facilità il conflitto con cristianesimo ed ebraismo sino a giungere a un’almeno in apparenza perfetta convivenza con essi (e a non contestar mai loro forma alcuna di «intolleranza», pur sapendo che ne esistono), ravvisa invece nell’islam – al di là del suo scontro recente e attuale con il fondamentalismo jihadista – una connaturata propensione all’intolleranza che si manifesta ad esempio in una differente concezione dei «diritti umani» la quale sarebbe arrivata a render necessaria la proclamazione nella sede dell’Unesco, nel 1981, di una Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo nell’Islam che dichiara formalmente le sue differenze rispetto alla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo nata nel 1948 in seno all’Onu. Esse traggono origine in ultima analisi dal concetto musulmano di una natura umana dipendente dalla Volontà divina e pertanto non autonoma né autosufficiente dinanzi alla Sua legge. Sino dai primi tempi dell’espansione dell’umma (la «comunità dei fedeli») fuori della penisola arabica, immediatamente dopo la morte del Profeta nel 632, nella shari’a – il diritto musulmano, fondato sul Corano come Parola di Dio, sulla sunna come tradizione avviata da Muhammad e dai suoi seguaci e sul fiqh, la giurisprudenza – si andò elaborando la distinzione tra un Dar al-Islam, o al-Salam («territorio dell’Islam», o «della pace»), abitato del tutto o in prevalenza dai musulmani, e il Dar al-Harb («territorio della guerra»), destinato ad esser conquistato da parte dei musulmani. Ma non tutti i non-musulmani potevano essere trattati alla stessa maniera: se da una parte 190

esistono i «pagani», gli «idolatri», i «politeisti» (cioè i kuffar o kafirun – al singolare kafir – i «negatori di Dio»), che debbono essere eliminati con la predicazione (cioè convertiti) o con le armi, dall’altra v’è l’ahl al-Kitab, la «gente del Libro» credente nel Dio unico grazie alla Rivelazione affidata a un Libro sacro: quindi gli ebrei, i cristiani, gli zoroastriani (Corano, sura II, Al-Baqara/La Giovenca, 62), nei confronti dei quali vale il principio della dhimma («protezione»). I dhimmi, assoggettati ma anche protetti, debbono pagare due tipi d’imposta, la jizya e il kharaj e osservare alcune regole che limitano la loro libertà, ma hanno in cambio diritto ad esercitare in forma privata il loro culto e non possono venir costretti alla conversione. Si tratta di una normativa severa che comunque, in termini di quel che oggi noi definiamo «tolleranza», rendeva possibile la vita di ebrei e cristiani in terra d’Islam (laddove quella dei musulmani in terra musulmana era praticamente impraticabile). D’altronde, i musulmani restavano e restano fedeli al principio lucidamente enunziato dal Corano, sura V, Al-Ma’ida/ La mensa imbandita, 48: «Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato. Gareggiate dunque in opere buone: tutti ritornerete ad Allah ed Egli vi informerà a proposito delle cose sulle quali siete discordi». Oggi tuttavia, e in particolar modo di fronte all’ondata aggressiva dell’islamismo, vale a dire della strumentalizzazione ideologico-politica della fede e del jihad che l’Organizzazione Islamica Mondiale, la lega Araba e istituzioni teologico-giuridiche incontestate come l’università cairota di al-Azhar hanno esplicitamente condannato, il diritto musulmano si orienta verso la definizione di un dar el-Solh, un «territorio della Tregua» corrispondente in pratica a tutte quelle parti del mondo in cui i musulmani siano presenti, anche se in qualunque misura minoritari, e verso l’accettazione del principio della daruriyya, «lo stato di necessità», che esige e impone la convivenza. 191

Resta senza dubbio innegabile, e irrinunziabile, la tensione verso l’islamizzazione totale del mondo: ma essa viene – non diversamente da quanto del resto avviene nel cristianesimo – proiettata in un futuro affidato per un verso alla forza della fede e alla capacità di conversione da parte dei credenti, per un altro al mistero dei Tempi Ultimi. In altri termini, l’islam ha dato luogo negli ultimi due secoli, a contatto con la civiltà occidentale, a differenti forme politiche e statuali nelle quali la Tradizione e il diritto musulmano hanno sperimentato, con una notevole varietà di esiti, il livello e i limiti della convivenza possibile tra il Din, la legge musulmana, e la Modernità. Se tale convivenza è a livello pratico ampiamente possibile e perfettibile, quel che resta radicalmente diverso e inconciliabile è la rispettiva Weltanschauung. Ma non va mai dimenticato un hadith del Profeta, testimoniato da al-Quashayri, in cui Muhammad riferiva come Abramo invitò una volta a tavola uno zoroastriano: ma, scoperta la sua identità religiosa di pagano, lo cacciò malamente di casa. Di questo atteggiamento Dio lo rimproverò: – Perché hai agito così? –; e l’altro: – Ma Signore, si tratta di un adoratore del fuoco! –. E Dio replicò: – Sì, adora il fuoco fin da quand’era piccolo, e Io non gli ho mai rifiutato il pane. Chi sei tu per negargli quel che Io gli ho sempre concesso? –.

Filippo Focardi Italiani brava gente

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ll’inizio degli anni Novanta molti in Italia hanno probabilmente sorriso compiaciuti davanti alle immagini di Mediterraneo, il film di Gabriele Salvatores che descrive le vicende di un gruppetto di soldati italiani sbarcati nel 1941 su una splendida isola greca dell’Egeo (Kastellorizo). Al comando del tenente Montini, un insegnante di latino e greco con la passione della pittura, i soldati dimostrano scarsa attitudine alle armi, stringono presto amicizia con i greci, bevono ouzo e giocano a carte con gli anziani del posto, ballano il sirtaki, fanno partitelle di pallone con i ragazzini, flirtano con successo con le donne del posto. Si comportano insomma da «italiani brava gente», umani, empatici e solidali anche in quei luoghi, come la Grecia, dove il Duce li aveva mandati col compito tracotante di «spezzare le reni» al popolo greco. Che l’occupazione delle terre elleniche non fosse stata un’idilliaca fraternizzazione, qualcuno in Italia l’ha forse scoperto solo qualche anno dopo grazie a un documentario televisivo La guerra sporca di Mussolini (2008) del regista Giovanni Donfrancesco. Non una fiction ma la ricostruzione di un episodio cruento della lotta antipartigiana condotta dagli italiani: la distruzione nel febbraio 1943 del paesino di Domeniko in Tessaglia da parte dei soldati della «Pinerolo» responsabili dell’eliminazione di 145 persone, tutti maschi – compresi ragazzini di quattordici anni e vecchi di settanta – rastrellati e fucilati per rappresaglia dopo un attentato che era costato la 193

vita a nove italiani; 16 greci passati per le armi per ogni italiano caduto. Ben oltre il rapporto di dieci a uno deciso dai tedeschi alle Fosse Ardeatine. Un altro aspetto, dunque, dell’Italia in guerra, sicuramente assai meno noto rispetto al cliché rappresentato dai volti socievoli e sorridenti dei personaggi di Salvatores, perfetta espressione dello stereotipo autogratificante e autoassolutorio del «bravo italiano». Ben pochi conoscono in Italia i tratti poco gradevoli degli italiani quali aggressori, occupanti e talvolta carnefici; mentre a tutti risulta familiare l’autoritratto benevolo dei «bravi italiani» pacifici e generosi. Chiedersi quali siano le origini e le caratteristiche di questo stereotipo longevo significa innanzitutto guardare indietro nella storia italiana, in particolare alla Seconda guerra mondiale, momento in cui si cristallizza l’autoritratto nazionale del «bravo italiano». Bisogna tenere presente che tutte le grandi guerre hanno un valore costituente, ridefiniscono cioè non solo l’ordine internazionale, ma anche le raffigurazioni e le autoraffigurazioni nazionali, fissando le coordinate culturali e mentali oltre a quelle politiche ed economiche. Alcuni cambiamenti sono comuni a tutti i paesi che hanno attraversato l’esperienza della guerra. Comune ai paesi che hanno subìto l’aggressione nazifascista è stato ad esempio, come ha notato lo storico britannico Tony Judt, lo sviluppo di una memoria della guerra basata su due pilastri condivisi: la costruzione del mito della Resistenza come epica lotta di liberazione nazionale e l’attribuzione alla Germania e ai tedeschi della responsabilità esclusiva per i crimini di guerra. Una memoria dunque che ruota intorno all’eroica lotta contro il «cattivo tedesco», una memoria con un fondamento reale ma affetta da gravi rimozioni perché omette di fare i conti con il collaborazionismo e i crimini di guerra commessi da tutti i belligeranti, sebbene non nella misura dei tedeschi. 194

E l’Italia? L’Italia si muove lungo gli stessi binari, esaltando la Resistenza e deprecando – giustamente – la brutalità dell’occupante nazista. Ma l’Italia è un caso particolare, distinto dagli altri. È infatti il paese che ha inventato il fascismo diventato poi modello per le destre radicali europee compreso il nazismo; è il paese che ha contribuito più di tutti in Europa, insieme al Terzo Reich, alla demolizione dell’ordine internazionale sancito a Versailles; l’Italia è stata costantemente in guerra almeno dal 1935 (aggressione dell’Etiopia, partecipazione alla guerra civile in Spagna, occupazione dell’Albania); ha quindi rivolto le sue armi nel 1940 contro la Francia e la Gran Bretagna e ha partecipato alla guerra di annientamento nazista contro l’Unione Sovietica; grazie all’aiuto tedesco, ma perseguendo propri piani di espansione, l’Italia monarchico-fascista ha occupato due terzi della Grecia e un terzo della Jugoslavia. In questi contesti, come si è accennato, le forze di occupazione italiane si sono rese responsabili di azioni repressive macchiate da crimini di guerra. Non crimini di natura genocidiaria, come quelli commessi dall’alleato germanico, ma comunque crimini molto gravi che hanno fatto numerose vittime fra i civili, compresi donne, bambini e anziani: parliamo di rastrellamenti, bombardamenti e incendi di villaggi (in Jugoslavia gli italiani erano soprannominati palikuci, i «brucia case»), prelevamento e soppressione di ostaggi, deportazione di civili in campi di concentramento. Di tutto questo non c’è traccia nella memoria della guerra costruita dopo il 1945. Per evitare infatti che l’Italia, sconfitta nel 1943, subisse un trattamento punitivo al tavolo della pace per le sue responsabilità nella guerra dell’Asse, furono esaltati i (concreti) meriti della Resistenza antinazista del biennio 1943-45, ma contemporaneamente anche enfatizzate le benemerenze umanitarie del periodo precedente, del 1940-43, in cui gli italiani avevano combattuto a fianco dei tedeschi. Allo stereotipo del «cattivo tedesco», dunque, fu affiancato e con195

trapposto quello del «bravo italiano» che, intimamente contrario alla guerra di Mussolini, aveva aiutato gli ebrei salvandoli dalla furia eliminazionista tedesca e aveva condiviso quel poco che aveva con le popolazioni dei territori occupati. Al fondo c’era una base di verità, come nel caso dell’atteggiamento nei confronti degli ebrei, ben diverso da quello manifestato dai tedeschi. E tuttavia ciò fu perfettamente funzionale a rimuovere qualsiasi responsabilità scaricandola sulle spalle dei tedeschi che furono pertanto un ottimo alibi per la coscienza collettiva. Apparati istituzionali già compromessi col fascismo (ministeri degli Esteri e della Guerra), partiti del Cln divenuti forze di governo, Chiesa cattolica, élites politiche e culturali, cultura alta e cultura di massa (vedi il cinema), molti degli stessi ex fascisti desiderosi di cancellare ogni senso di colpa, concordarono su questa duplice e intrecciata raffigurazione del «cattivo tedesco» e del «bravo italiano». Le virtù umanitarie di quest’ultimo spiccavano in contrasto con la barbarie germanica. A ciò venne ad aggiungersi, con effetto rafforzativo, l’immagine del «colonialismo italiano dal volto umano» distinto e contrapposto rispetto ai colonialismi di sfruttamento che si presumevano tipici dei grandi imperi coloniali britannico e francese. Era una immagine nata già nell’Ottocento allorché il colonialismo italiano aveva mosso i suoi primi passi rivendicando l’eredità intellettuale, morale e civile dell’Impero romano. Un’eredità e una missione di «civiltà» che furono poi rilanciate dal fascismo, in spregio ad una politica di dura repressione di cui furono emblema l’impiego di agenti chimici in Etiopia e i terribili campi di concentramento nella Sirte per gli oppositori libici. I negoziati per il trattato di pace dopo il 1945 furono anche in questo caso un’occasione per enfatizzare la «civiltà del lavoro» italiano in Africa da parte di un paese che pretese – senza successo – di mantenere almeno i possedimenti coloniali prefascisti. L’assenza di procedimenti contro i criminali di guerra italiani, la «mancata Norimberga italiana», contribuì al radicamento 196

del mito degli «italiani brava gente». Un mito identitario persistente, giunto sino a oggi in virtù anche di due fattori: da un lato, l’atteggiamento dell’opinione pubblica internazionale che ha assecondato l’immagine benevola degli italiani in guerra, pur declinata spesso nei termini macchiettistici degli «italiani maccheroni e mandolino»; dall’altro lato, l’atteggiamento delle istituzioni italiane che nel dopoguerra hanno vigilato per salvaguardare tale mito, come dimostra l’episodio del documentario della Bbc Fascist Legacy sui crimini italiani in Africa e nei Balcani, alla cui messa in onda nel 1989 seguì l’immediata protesta diplomatica italiana. Negli ultimi venti anni alcuni segnali – come le proteste internazionali contro la costruzione del mausoleo al maresciallo Graziani o l’ammissione ufficiale dell’impiego dei gas in Etiopia (seguita dalle scuse del presidente Scalfaro) – hanno incrinato la compattezza del mito degli «italiani brava gente». La strada di una riflessione critica sulle pagine scure del nostro passato resta però ancora lunga e difficile da percorrere. Ed è questo che caratterizza l’Italia: non l’entità delle violenze e dei crimini storicamente commessi, ma il perseverare della loro rimozione. Altri paesi – a partire dalla Germania – si sono macchiati di crimini anche molto più gravi, ma ciò prima o poi ha innescato una riflessione pubblica. Noi la stiamo ancora aspettando.

Igiaba Scego Gli italiani sono bianchi

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hi si ricorda oggi di Alfredo Zardini? Quasi nessuno. Ma dovremmo ricordarlo invece. Ogni giorno. Alfredo era un padre, un marito, un lavoratore, un italiano, un emigrante. Era originario di Cortina. Lì aveva imparato il lavoro di falegname. Lì aveva imparato ad essere un uomo. Ma Cortina gli stava stretta. E come molti decise di andare a cercare lavoro in Svizzera, esattamente a Zurigo. Era una città ricca Zurigo, come d’altronde lo è ancora oggi. Vivevano in quel luogo più di 500.000 italiani che erano andati come Alfredo a cercar fortuna. Alfredo non sapeva la lingua, ma era un ottimista, l’avrebbe imparata, si sarebbe adattato. Non gli faceva paura la fatica. Poi un giorno, un brutto giorno, esattamente il 20 marzo del 1971, venne picchiato a sangue. La giornata non doveva prendere quella piega. Era uscito presto di casa, aveva delle commissioni, doveva incontrare il suo datore di lavoro. Ma come si fa a cominciare una giornata senza caffè? Nei paraggi era aperto solo un locale il Frau Stirnimaa. E lì seduto ad un banco c’era Gerhard Schwitzgeb, conosciuto dai più come Gerry. L’uomo era persona nota alla polizia, si era fatto conoscere per le sue risse e per il suo essere perennemente ubriaco. Altre cose si sapranno poi di Gerry. Il peso per esempio di 136 chili, o che poteva stendere un toro con un pugno. Si saprà pure che Gerry provava un odio profondo verso gli stranieri e che a causa di questo odio aveva partecipato a molte manifestazioni 198

anti-immigrati. Non si sa bene come sia cominciato l’alterco tra il tranquillo Alfredo e il rissoso Gerry. Le testimonianze su questo punto sono state poco chiare all’epoca. Molti non volevano parlare. Omertà in salsa svizzera. Sta di fatto che Alfredo venne picchiato selvaggiamente, oggetto di calci, pugni, insulti xenofobi sotto gli occhi indifferenti dei frequentatori del locale. Nessuno pensò di chiamare un medico, nessuno chiamò la polizia. Il suo corpo agonizzante venne di fatto trasportato fuori dal locale, come se fosse spazzatura, qualcosa di molesto di cui liberarsi. Alfredo morirà per strada, senza il conforto di una cura o di una preghiera. Lasciato lì a morire senza un vero perché. Quando poi qualcuno decise finalmente di chiamare un’ambulanza, per Alfredo era ormai tardi. Era morto. Sì, morto nell’indifferenza. La stampa svizzera parlò poco del caso. Gerry non fu punito, solo 18 mesi di prigione. Alfredo Zardini non ebbe di fatto giustizia. La Svizzera all’epoca minimizzò, non considerava degne di nota le aggressioni xenofobe. Purtroppo quello che è successo ad Alfredo Zanini è capitato a tanti italiani. Alfredo non è stato un’eccezione. La lista è lunga. Penso al linciaggio di New Orleans del 1891, quando furono linciati 9 italiani, penso a Tallulah in Louisiana 1899 dove i linciati furono 5, penso a Sacco e Vanzetti, all’eccidio di Aigues Mortes dove gli italiani furono vittime di un odio feroce. E a queste morti atroci vanno aggiunte le umiliazioni quotidiane che gli italiani hanno dovuto subire solo per essere sé stessi. Gli italiani venivano considerati feccia dal Nord del mondo, che ne sfruttava il lavoro sottopagato. Il Nord considerava con sospetto l’ubicazione geografica dell’Italia. Essere al centro del Mediterraneo, crocevia di culture e di incroci, era considerato un demerito. Ed ecco che gli italiani venivano insultati con vari nomi. Negli Stati Uniti si era Dago o Wop (senza documenti), nei paesi di lingua tedesca Spaghettifresser, in Francia Rital. In alcuni posti gli italiani erano anche chiamati white 199

niggers, negri bianchi. Non è un caso che il Ku Klux Klan non era solo anti-neri, ma anche anti-italiani. Non venivano considerati bianchi (o almeno non bianchi allo stesso modo) dalle élites wasp (ovvero anglosassoni e protestanti) dell’America del Nord, e in generale anche dagli europei del Nord Europa. Questo lo mise in evidenza anche la sentenza del 1922, l’anno della marcia su Roma, al processo Rollins contro Alabama. Rollins era un giovane afroamericano che aveva iniziato una relazione con una donna bianca. Ora questo era proibito in quasi tutti gli Stati Uniti. I matrimoni misti erano impossibili e ogni relazione di questo tipo sanzionata. Rollins però fu assolto, perché la sua compagna siccome era una donna italiana fu considerata «non appartenente alla razza bianca». Bianco in realtà non significa nulla. La gente non è veramente bianca o veramente nera. La nostra pelle reagisce al sole, ai raggi ultravioletti, la pelle accumula più o meno melanina. Un fatto semplicemente naturale. Ma su questa caratteristica della natura l’essere umano ha costruito un’impalcatura fatta di pregiudizi, stereotipi, scale di valori. Il bianco quindi non è più un colore, ma un insieme di privilegi. Bianco è una costruzione sociale. Non c’è nessuna neutralità in questo termine e nell’uso che se ne fa comunemente. Bianco è solo il nome di un club esclusivo dove si può essere accettati se si hanno le «giuste» credenziali, un club dove è alto il rischio di essere cacciati. E per entrare in questo club gli italiani hanno faticato parecchio. Gli italiani infatti non sono stati considerati bianchi finché serviva sfruttare il loro lavoro. Lo sono diventati dopo, quando hanno dovuto rinnegare molto di sé stessi. È successo agli italiani soprattutto agli emigranti italiani quello che di fatto è successo a Leonard Zelig, il protagonista dello straordinario mockumentary di Woody Allen, Zelig. Il protagonista Leonard Zelig è un uomo camaleonte. Diventa l’altro, ne prende le sembianze, le movenze. Ed ecco che diventa irlandese tra gli irlandesi, afroamericano tra gli 200

afroamericani. Cambia colore, atteggiamento, gestualità. Canta, suona la tromba, è un toreador, naturalmente è anche un rabbino o un criminale dalla pistolettata facile. Indossa panni non suoi. È più facile. Più comodo. Leonard Zelig vuole di fatto solo essere amato, accettato, da quella massa indistinta che non sopporterebbe non solo il suo essere ebreo, ma il suo essere Leonard Zelig un ebreo di New York un po’ opaco. E lo stesso è successo agli italiani. Si deve essere qualcun altro per essere accettati come europei e privilegiati. Ed ecco che le radici mediterranee per molto tempo sono state rifiutate, disconosciute, dal sistema Italia. Basta pensare per esempio come il Manifesto della razza mussoliniano dirà che le razze umane esistono e che la popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà è ariana, disconoscendo di fatto una storia fatta di incontri di civiltà. Persino l’eredità degli etruschi sarà disconosciuta. Sì, per il fascismo gli etruschi erano un bel problema. Le loro origini misteriose da sole facevano crollare tutta l’impalcatura di bianchezza, e purezza che il fascismo cercava di cucirsi addosso. In verità era tutta la storia d’Italia che metteva in crisi chi durante, ma anche dopo il fascismo, considerava quella italiana una «razza» monolitica. L’Italia lo sappiamo tutti è uno stivale. Un paese lungo. Un paese in cui sono passati tutti: francesi, spagnoli, austriaci, arabi e africani. Non a caso gli Almamegretta tempo fa hanno composto una canzone I figli di Annibale, dicendo che l’Italia è di fatto un po’ africana perché qui ci sono passate le truppe di Annibale. Ed è davvero africana. Basti pensare alla schiavitù mediterranea che ha attraversato la penisola. Napoli, Palermo, Livorno, ma anche Roma, Trapani, Venezia erano centri in cui si vendevano e compravano schiavi provenienti non solo dall’Africa sub-sahariana, ma dalla Turchia, dal Maghreb, dai Balcani, dalla vicina Grecia. E quelle persone passate nel territorio hanno lasciato tracce nei volti e nei gesti degli italiani. E non solo la schiavitù, ma anche le conquiste. Ed ecco 201

che vediamo gli occhi azzurri dei normanni, la bocca sottile degli arabi, la pelle ambrata che viene direttamente dalle viscere di Mamma Africa. Ma l’Italia ha dovuto negare per troppo tempo questo suo background meticcio, uscito fuori anche da studi scientifici. Infatti recentemente si è scoperto che l’Italia ha il Dna più variegato del mondo. I risultati della ricerca (pubblicata su «Journal of Anthropological Sciences») condotta dall’Università Sapienza di Roma in collaborazione con le Università di Cagliari, Bologna e Pisa, mettono in evidenza che c’è meno differenza tra uno spagnolo e un bulgaro che tra un sardo di Benetutti e uno di Castelsardo. E a questa diversità di fondo ora si stanno aggiungendo persone come me, figlie dell’immigrazione, noi cosiddette seconde generazioni, italiani di fatto ma che hanno radici in un altrove, in quella terra di origine dei genitori. L’Italia si arricchisce quindi. Diventa ancora più meticcia grazie a noi. Per ricordarmelo ho stampato tempo fa un quadro del manierista Pontormo che si trova al Walters Art Museum di Baltimora. Il quadro ritrae Maria Salviati e una bambina identificata con Giulia de’ Medici. La guardo. Siamo nel Cinquecento. Se si osserva attentamente il ritratto si capisce che la bimba è di origine africana. Il padre, Alessandro de’ Medici, era infatti figlio di Lorenzo II de’ Medici (anche se molti credono sia figlio di Giulio de’ Medici futuro papa Clemente VII) e di una schiava di origine africana di nome Simonetta di Collevecchio. Quindi il ritratto di Giulia può essere considerato il primo ritratto conosciuto di una bambina afroitaliana. Frutto dell’Italia e dei suoi incroci. Me la sono stampata per ricordarmi che l’Italia non è né bianca, né nera, né a pois. L’Italia è un arcobaleno. Ed è questa la sua fortuna. La sua forza.

Paolo Fresu Il jazz è difficile

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i potrebbe dire che il jazz è difficile come sono difficili tutte le cose belle e importanti in quanto queste richiedono passione, tempo, dedizione e conoscenza. Di certo è difficile apprenderlo e suonarlo. Perché non ha una partitura scritta ma un canovaccio che, partendo da una melodia e da una griglia armonica, si evolve grazie all’improvvisazione che richiede immaginazione e creatività. E l’improvvisazione, a dispetto della parola, non si inventa e anzi si struttura in modo rigoroso e si apprende attraverso un metodo e un percorso che, a volte, può essere lungo e articolato. S’inizia dagli ascolti sui dischi per arrivare a trasferire il linguaggio su uno strumento musicale. Partendo da Bix Beiderbecke e Louis Armstrong e navigando fino al contemporaneo è possibile percepire tutte le novità di un Novecento grazie alla quali il jazz è nato e si è evoluto con la velocità del secolo appena trascorso. Jazz che racconta e fotografa un secolo complesso ma affascinante. Fatto di scoperte e di conquiste. Di lotte razziali nonché di incontri e di scontri tra razze e geografie. È un linguaggio che in alcuni momenti è stato ostico e dissonante quanto lo sono stati i suoni delle grandi metropoli americane come Chicago o New York negli anni Quaranta e quanto lo è stato quel manifesto del free jazz inventato da uno strano signore californiano che era Ornette Coleman, con un bizzarro 203

sax bianco, un violino, una tromba e una serie di giacche dai colori sgargianti. La complessità del jazz dunque è intrinseca nell’urgenza espressiva del racconto che lo giustifica. Un racconto duro e a volte violento quello degli anni Quaranta e Cinquanta, quando questo doveva esprimere lo stato d’animo dei neri sopraffatti dai bianchi e l’evoluzione di una civiltà industriale che cresceva a ritmi vertiginosi. La stessa che ha dato vita a questa musica e dove il primo disco di jazz è stato registrato da Nick La Rocca, un bianco proveniente da una famiglia di Salaparuta, piccolo paese della Sicilia. La migrazione dei pensieri che passa da Ellis Island e che approda ai suoni meticciati dei bianchi provenienti dall’Europa e dei neri dall’Africa tribale. Se il jazz è difficile dunque è perché ha raccontato la storia di un secolo altrettanto difficile e complesso testimoniandone l’evoluzione, le lotte e le passioni. Lotte e passioni che erano degli afroamericani del sud dell’America e del blues, la loro lingua. Non è stato difficile per loro raccontarsi con una chitarra salendo sui treni verso le città della speranza, ma invece è stato semplice salire sui palchi delle sale da ballo dell’era swing prima e su quelli dei jazz club newyorkesi dopo. Facile essere star sulla 52nd Street e difficile entrare dalla porta principale quando i neri, anche Charlie Parker e Miles Davis, dovevano entrare dalle cucine. Il jazz diviene facile quando è nelle mani di artisti geniali come Duke Ellington, Charlie Mingus o Bill Evans. Perché il loro immaginario è stato così ricco da avere generato una musica nuova spessa quanto la loro vita. Una vita spesso difficile e maledetta per un linguaggio che in poco tempo ha rivoluzionato tutta la cultura musicale del secolo scorso influenzando i compositori della musica classica e flirtando con il rock, il pop e le musiche del mondo. 204

Il jazz è facile perché spugnoso e altrettanto facilmente capace di tendere la mano alle altre musiche con una capacità di ascolto, di interazione e integrazione che difficilmente posseggono gli altri idiomi. È questa curiosità e apertura che ne fa un linguaggio indefinibile e difficilmente riconducibile a un unico stile. Stili diversi e suoni diversi per altrettanti momenti storici ed estetici che fanno di questa parola di sole quattro lettere (pare sia impossibile risalire all’origine etimologica) un vasto mondo nel quale ognuno di noi può trovare ciò che ama e ciò che lo affascina. E se è ostico il free jazz in quanto musica di rottura è altrettanto facile lo swing o un certo jazz vocale che viene dal grande repertorio americano dei songbook di Broadway o delle musiche per il cinema compresi i brani per i bambini. Due fra tutti: My Favorite Things e Someday My Prince Will Come grazie alle interpretazioni memorabili di John Coltrane e Miles Davis. E se questi grandi improvvisatori hanno riproposto temi popolari alterandone le strutture armoniche e a volte modificandone il beat, in altre occasioni hanno suonato o cantato melodie che oggi appartengono al mondo come What a Wonderful World grazie alla voce roca e inconfondibile di «Satchmo» o Summertime di George Gershwin magistralmente interpretata da Ella Fitzgerald o da Davis in quella splendida partitura vestita per lui da Gil Evans, arrangiatore bianco che negli anni Ottanta incontrò Sting sul palco di Umbria Jazz. Ed è proprio Miles, il «Principe delle tenebre», a dimostrare quanto il jazz sia facile andando incontro al pubblico con la rielaborazione di melodie provenienti dal pop e dal rock di Cindy Lauper, Michael Jackson o i Toto. Ha una lunga storia questa musica. Una storia affascinante che solo se vissuta e ricostruita pazientemente rende l’idea di ciò che è stata e di ciò che oggi porta in dote verso il futuro per la sua vocazione antonomastica alla metamorfosi. 205

Era la musica del popolo ai primi del Novecento e oggi ritrova quella matrice popolare di cento anni fa grazie anche agli artisti italiani che sposano il jazz con la canzone napoletana, l’opera o il Mediterraneo. Puccini diventa un nuovo Cole Porter e un ballo sardo è il pretesto per unire mondi solo apparentemente distanti. Ecco perché il jazz è facile nonostante possa sembrare difficile. Perché basta conoscerlo per apprezzarne le sue diversità scoprendo che c’è n’è uno per ogni gusto e che questo supera le mode e diventa una passione emozionante che ci fa ridere e piangere, battere il piede a tempo, schioccare le dita o barcollare al ritmo dello swing. Cosa c’è di più naturale e di più semplice che il lasciarsi andare al ritmo del corpo? È difficile fare bene qualsiasi cosa ma è altrettanto facile renderci la vita semplice se si è in grado di uscire dai binari della paura del nuovo e del luogo comune.

Luigi Manconi e Stefano Anastasia La legge è uguale per tutti

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a legge è uguale per tutti: la pretenziosa affermazione che campeggia nelle aule di giustizia a imperitura tutela del sacro principio della parità di fronte al diritto, alla luce delle dure repliche della storia, meriterebbe una qualche correzione. O, almeno, il ricorso a un condizionale composto, un «dovrebbe essere», dal momento che purtroppo nella nostra lingua manca quel «modo del desiderio» che gli antichi Greci chiamavano ottativo. Dunque, la legge dovrebbe essere uguale per tutti. Questo, sì, potrebbe essere un buon punto di partenza. Naturalmente seguito dalla sua negazione (la legge non dovrebbe essere uguale per tutti), perché i nostri palati raffinati hanno imparato a riconoscere il sapore delle differenze e delle disuguaglianze, e sappiamo che diverse condizioni dovrebbero essere trattate diversamente, perché abbiano accesso ai medesimi diritti e ne siano ugualmente tutelati. Visto dal fondo della bottiglia, quel monito egualitario inscritto nei tribunali suona infatti beffardo e inclemente. Ogni anno in Italia, in nome di decine di migliaia di norme penali, si consumano centinaia di migliaia di processi, e altri vi si aggiungono, in una coda senza fine. Poi, però, sul fondo della bottiglia, negli istituti di pena, restano depositati sempre gli stessi, alcune decine di migliaia di persone, socialmente e anagraficamente connotate, condannate per quella decina di reati che riempiono le nostre carceri. Una grande macchina che ingloba di tutto, ma che alla fine distilla quella solita essenza di devianza e marginalità sociale. 207

30.06.2016: ultimo rilevamento disponibile al momento della redazione di questo testo. In carcere ci sono 54.072 detenuti per 49.701 posti letto. Un modesto sovraffollamento (ma sempre di 4370 posti in meno si tratta), certo non più grave come nel 2013 – quando la Corte Europea per i diritti umani condannava l’Italia per condizioni di detenzione inumane e degradanti –, ma in lenta ripresa dopo il calo degli scorsi anni. Ma in carcere l’overbooking non lascia a casa nessuno: ci si arrangia con una brandina in più, una cella che moltiplica i posti, una sala comune trasformata in luogo di pernottamento. Su 54.072 detenuti, 18.166 sono gli stranieri, un terzo del totale, quattro volte più che nella società libera. Si dirà: commettono più reati; anzi: vengono qui apposta per commetterli, al fine di trovare adeguate opportunità per la loro vocazione etnica criminale. Ma ovviamente non è così. Sì, certo, gli immigrati senza regolare titolo di soggiorno (coloro ai quali, in genere, noi e le nostre leggi non consentiamo di avere un regolare titolo di soggiorno) è probabile che incorrano più facilmente in violazioni della legge penale, dovendo vivere e guadagnarsi da vivere nell’irregolarità e nell’illegalità. Ma i dati sui reati commessi da italiani e stranieri sono un buon indice per capire come la giustizia, sbirciando con un occhio da sotto la sua benda divina, vada a scegliere accuratamente i clienti del penitenziario. La gran parte dei detenuti è in carcere per reati contro il patrimonio, contro la persona o in violazione della legge sulle droghe, ma è tra gli italiani che i reati contro la persona prevalgono sui reati privi di diretta offensività contro terzi come lo spaccio di stupefacenti. D’altro canto, è sempre tra gli italiani che le violazioni della legge sul possesso di armi porta in carcere 9131 persone (contro gli 849 stranieri). Per non dire dell’associazione a delinquere di stampo mafioso: contestata a 7015 detenuti, 6947 sono italiani, per una percentuale record del 99,03%. Gli stranieri, invece, oltre a quelle tre principali cause – reati contro il patrimonio, 208

contro la persona o in violazione della legge sulle droghe – sono in carcere per reati contro la Pubblica Amministrazione, contro la fede pubblica, contro l’amministrazione della giustizia e per violazione del testo unico sull’immigrazione: tutti legati alla condizione di irregolarità, piuttosto che all’offensività nei confronti del prossimo. Del resto il 36% degli stranieri in carcere sconta condanne inferiori a tre anni e, virtualmente, potrebbe accedere alle alternative al carcere. Infatti dei 50.898 condannati seguiti dai servizi sociali nel 2015, in misure alternative alla detenzione, solo 6882 sono stati gli stranieri non comunitari, il 13,52%, proporzionalmente molto meno dei loro connazionali detenuti. E poi la percentuale di stranieri aumenta tra chi è in attesa di giudizio, fino a superare il 40% di chi non è ancora mai stato giudicato. E si potrebbe continuare così, a trovare indici di pregiudizio – se non di vera a propria discriminazione – nel trattamento degli stranieri nel sistema penale. Ma la cittadinanza è solo uno degli indicatori della selettività sociale del carcere. Prendiamo, per esempio, i dati relativi all’istruzione e all’occupazione prima dell’arresto. Dietro le sbarre i laureati sono tutt’ora meno degli analfabeti, che costituiscono il 2,11% della popolazione reclusa. E il 26,36% non ha assolto l’obbligo scolastico e non ha il diploma di scuola media inferiore (un certo numero nemmeno quello elementare). Quando ancora se ne rilevava la condizione occupazionale (dicembre 2012), quasi il 60% dei detenuti era disoccupato o in cerca di prima occupazione, e tra chi aveva una qualifica professionale quasi il 70% risultava «operaio», pochi impiegati, qualche artigiano e poi improbabili imprenditori di sé stessi, appena più dei liberi professionisti, la categoria meno frequente tra i detenuti, pari al 3,68% dei censiti. Ecco, è questa la composizione del carcere, predeterminata dalla diseguaglianza sociale esterna, che indirizza verso le istituzioni penitenziarie le espressioni della marginalità giudicate preoccupanti, prima e più che pericolose. Così in carcere si 209

riversano la malattia mentale che non viene presa in carico sul territorio, l’abuso di sostanze stupefacenti che si mostri incompatibile con la vita di società (un quarto dei detenuti ha problemi di dipendenza, e una parte vi entra per la sola detenzione), l’immigrazione irregolare e le ragazzine rom con i loro bambini. In altre parole, oggi il carcere e, più in generale, l’intero sistema penitenziario, rappresenta un’istituzione per la quale la definizione più pertinente è quella di classista. Una grande e articolata agenzia che occupa spazi e funzioni, competenze e servizi, progressivamente lasciati scoperti dalla crisi del sistema di welfare. Un apparato di produzione e riproduzione allargata dei processi di esclusione e sperequazione. Insomma, vale per il diritto e per la giustizia quanto don Milani diceva a proposito della cultura: «non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali». In realtà, lo sappiamo, è un principio che riguarda tutti i beni, le risorse e le opportunità. E anche la legge: non può essere eguale per tutti, sopraffatta com’è da così tante disparità.

Nicola Lagioia La letteratura italiana è morta

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ome accadeva un tempo ai medici condotti, l’esperienza maturata sul campo mi consente da qualche anno l’immediatezza di certe diagnosi. Così, ogni volta che leggo su un giornale che «la letteratura italiana è morta» mi preoccupo sempre moltissimo per la salute dell’estensore dell’articolo. Mi verrebbe quasi da telefonare ai suoi parenti e domandare: «tutto bene in famiglia?». Certi giudizi dicono pochissimo sul loro oggetto e tutto di chi li esprime. Sì, è vero, lo stato della critica in Italia è preoccupante, mentre siamo ancora una delle cinque o sei letterature più interessanti al mondo. Basta andare all’estero per rendersene conto. Basta contare le traduzioni dei romanzi italiani oltreconfine. Chiedete in Spagna e in Portogallo di Antonio Tabucchi, in Germania di Umberto Eco, in Francia di Roberto Calasso, al gotha della narrativa statunitense di Elena Ferrante, a chiunque di Andrea Camilleri. Chiedete, e ascoltate per cortesia cosa vi rispondono sullo stato di salute della letteratura italiana contemporanea. Vi diranno che è strana, imprevedibile, con punte di bellezza e bruttezza non comuni, e vi diranno che è instabile, eccentrica, sorprendente, con le sue ovvie zone di mediocrità e straordinarietà, con i suoi vizi atavici, le sue virtù ataviche, gli autori sottovalutati e quelli sopravvalutati, vi diranno che è magari sin troppo viva, la letteratura italiana contemporanea, ma nessuno oserà sfidare l’evidenza dicendovi che è morta. 211

Come potrebbe essere altrimenti, con la tradizione che abbiamo? Come potrebbe essere altrimenti, tenendo conto di che paese pieno di problemi e contraddizioni è l’Italia degli ultimi decenni? I nomi che ho fatto sono giusto i più noti, e sono la punta dell’iceberg. Ricordate la parabola di Orson Welles alla fine del Terzo uomo? «In Italia, sotto i Borgia», gigioneggiava Welles, «per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci, il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù». Sì, d’accordo, non siamo propriamente l’Italia dei Borgia e se ci fosse in giro un Michelangelo ce ne saremmo accorti. Però, provate a farmi il nome di cinque scrittori contemporanei nati in Svizzera. Difficile, vero? Fatemi allora il nome di cinque grandi scrittori tedeschi contemporanei. Va bene, proviamo così: tre grandi scrittori francesi contemporanei sotto i quarant’anni? Dieci spagnoli sopra i cinquanta? Cinque giapponesi? Tre indiani? Quattro scrittori russi per il XXI secolo? Come vedete, le cose cambiano il proprio aspetto non appena si esce dall’asfittico rancoroso amatoriale kindergarten che non di rado è il discorso ufficiale sullo stato delle lettere nostrane. Come mai allora tanti abbagli? Da una parte, chi dice che viviamo in tempi di assoluta decadenza dimentica che è sempre tempo di crisi e decadenza, e che il passato appare puntualmente più desiderabile rispetto al presente. Volete una dimostrazione pratica, sul piano letterario, di ciò che sto dicendo? Nessuno scrittore italiano vivente – dicono gli estensori delle geremiadi – è all’altezza di Calvino, Moravia, Morante e Pasolini. Nessun poeta all’altezza di Montale, Penna, Ungaretti. Certo. A propria volta, né Calvino né Moravia né Pasolini hanno mai scritto un romanzo robusto come quelli di Manzoni e De 212

Roberto. Montale e Ungaretti, per quanto grandi, lo sono meno di Leopardi. E certo, non mi verrete a dire che Leopardi o Manzoni o Penna o Pirandello o De Roberto sono superiori a Dante! Proviamo a fare lo stesso giochino con la narrativa più robusta degli ultimi anni a livello planetario, quella statunitense. Philip Roth, Cormac McCarthy, Toni Morrison, Marilynne Robinson. Che gran quartetto di contemporanei! Chi avrebbe però il coraggio di dire che Philip Roth è più grande di Saul Bellow? A propria volta, Toni Morrison e Cormac McCarthy non sono certo all’altezza di William Faulkner, e l’ex enfant prodige Bret Easton Ellis può lucidare la macchina da scrivere di Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald. Certo, né Hemingway né Fitzgerald né Faulkner arrivano a lambire le caviglie di quella sorta di profeta veterotestamentario che fu Herman Melville, il tutto mentre Mark Twain e Walt Whitman osservano la scena da vette irraggiungibili. Insomma, è chiara l’illusione ottica. A questo errore di prospettiva, universalmente diffuso, se ne aggiunge un altro tipicamente italiano. Siamo convinti che riconoscere l’altrui talento tolga spazio a noi stessi. Viviamo i meriti del vicino come un affronto personale. Per questo siamo così poco generosi nei giudizi, e per questo l’infantilismo di quarantenni, cinquantenni, certe volte perfino sessantenni e settantenni la cui massima ambizione è esercitare il professionismo del risentimento, mi fa oscillare tra sconforto e tenerezza. Non è vile annunciare una morte che non c’è stata pur di non rimboccarsi le maniche e mettersi un po’ in gioco? E come si può criticare così ferocemente un contesto in cui si è immersi fino al collo (in certi casi da sempre) senza autodenunciarsi come parte del problema? Ovviamente il discorso sulla letteratura è solo la parte per il tutto. Una variante parimenti diffusa è: «il cinema italiano è morto». Certo, come no. Poi, nel giro di pochi anni, un regista italiano vince l’Oscar, un altro la Palma d’Oro, uno l’Orso d’Oro, 213

un altro ancora il Leone d’Oro. Poi, solo a vedere le cose da una prospettiva meno asfittica, ci ricordiamo – tanto per stare sulla settima arte – che l’Italia è il paese che a tutt’oggi ha vinto in assoluto più Oscar al miglior film straniero al mondo ed è seconda solo agli Stati Uniti per ciò che riguarda le Palme d’Oro portate a casa. È avvilente dover chiamare a testimone i riconoscimenti internazionali. Ma non fu così anche per l’esplosione del neorealismo? Se ne accorsero prima in Francia. Noi, consigliavamo a Rossellini di «lavare i panni sporchi in famiglia». La letteratura italiana è viva, il cinema italiano è vivo, il teatro italiano è vivo, la musica italiana è viva, il fumetto italiano è vivo nonostante il contesto davvero inospitale in cui letteratura, cinema, musica, teatro e fumetto sono costretti. Il talento c’è, in certi casi è enorme, ma il circuito che dovrebbe valorizzarlo (e metterlo a profitto) risulta tanto speso amatoriale e asfittico. Quando i professionisti del risentimento usciranno dal giardino d’infanzia, li accoglieremo nel mondo degli adulti a braccia aperte.

Paolo Di Paolo Leggere libri ci rende migliori

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i ribello. Mi rifiuto di pensare che in una vita – nelle situazioni quotidiane, nelle decisioni da prendere, nel modo di essere – i libri possano avere un tale peso. Renderci migliori? Per carità. E tuttavia la domanda resta: in che misura incidono, le letture che facciamo, direi semplicemente l’atto di leggere, sulla formazione del nostro carattere, della nostra personalità? Non parlo di idee, di conoscenze. In questo caso, è semplicemente cultura. Parlo piuttosto di sentimenti, di come essi vengono educati (o diseducati) dal contenuto, mettiamo, di un romanzo o di una poesia. La sostanza è questa: i libri hanno davvero il potere di modificarci? I libri ci peggiorano o ci migliorano, in quanto persone, esseri umani che amano, lavorano, soffrono, appunto vivono? Non mi convince più l’idea – coltivata snobisticamente da molti – che un’esistenza priva di libri risulti più povera di una invece carica di letture. Non è così. Solo chiudendoci a doppia mandata in una stanzetta affollata di volumi e di acari, e quindi scollandoci lentamente dalla realtà, possiamo pensare che la vita di un lettore pesi più di altre. O che sia più piena. C’è un numero, tanto alto che quasi è difficile pensarlo, di vite piene, realizzate, serene, nemmeno sfiorate dai libri. E il più delle volte mi piacciono, tutto sommato. Mi piace che siano così. Mi piace incontrarle, in qualche modo toccarle, se possibile. E allora? Converrà pensare ai libri – molto semplicemente – come a gente che abbiamo frequentato. Cattive o buone 215

compagnie con cui abbiamo cominciato a tirare tardi, fino a rendere questo un vizio. Persone molto lontane, diverse da noi, che cominciavano a raccontarci storie, a svelarci segreti, rispondevano a domande che non avremmo mai rivolto ad altri. Ci hanno fornito notizie che avevano il potere di turbarci, di farci male e bene a un tempo, di suscitare la nostra curiosità e la nostra malizia. Insomma: casa nostra era sempre quella, e sempre quelle le cose che si potevano dire e quelle che non si potevano dire. Ma poi la sera uscivamo, e rientrando a notte fonda avevamo addosso, come una scia di fumo, una serie di emozioni strane, inattese. Potevamo perfino sentirci colpevoli. Che c’entravano con noi, con la nostra famiglia, chiacchiere di vecchi erotomani, memorie di viaggi infinitamente lontani, storie in cui sembrava che la verità della vita fosse fatta solo di dolore, di ingiustizia, di crudeltà? Ma chi stavamo frequentando? Molti pregiudizi ricevevano colpi quasi mortali. Lo spazio davanti ai nostri occhi si allargava incredibilmente, caricandosi di possibilità. Questo è stato leggere. Questo è. Far entrare nella nostra vita molte più persone di quelle che davvero riusciamo a incontrare per strada. Intrattenersi con bambini, adolescenti, adulti, vecchi e con il mistero di ciascuno; lasciarsi toccare da queste esperienze, lasciarle depositare in noi. Avere, quasi sempre, le vertigini, per come si spalanca – leggendo – non solo lo spazio, ma il tempo. E questo è un miracolo. L’unica macchina del tempo che ci è dato sperimentare sono i libri. Esistono luoghi del presente che probabilmente, senza i libri, non conosceremmo mai, ma soprattutto luoghi del passato. Può capitare, in mezzo ai libri, di sentirsi fuori posto. Come alle feste troppo chic, viene da guardarsi intorno, in cerca di sorrisi comprensivi verso il nostro abito sbagliato. Ma poi, sbagliato perché? La freddezza aristocratica con cui di solito si presentano gli ambienti letterari è irragionevole. Stiamo pur sempre parlando di libri: e quando mai i libri si formalizzano? 216

Non hanno invece pregiudizi; restano alla mano anche quando sono complicati. Li abbiamo letti sotto le coperte, li abbiamo spiegazzati e unti di crema solare, macchiati di caffè. Li abbiamo coperti di sbadigli e starnuti, dimenticati sugli autobus, fatti scivolare nelle pozzanghere. Ce ne siamo serviti per bloccare le porte nei giorni di vento e assestare tavoli zoppi, per segnare al volo numeri di gente che non abbiamo richiamato più. Non hanno protestato, i libri, quando li abbiamo letti in mutande e perfino senza. Un infinito numero di volte si sono accontentati di essere lasciati a metà, o molto prima. Nell’era del tascabile, non conoscono rancori e pudori, ammettono qualunque distrazione, affronto. Restano sempre disinvolti e disponibili: alle nostre giornatacce, alle curiosità sbagliate. Alla polvere. L’apertura che i libri mostrano nei nostri confronti è di solito inversamente proporzionale a quella di chi, per mestiere, dovrebbe difenderli. E non bisogna farsi ingannare da chi esalta, in modo troppo generico, il piacere della lettura. Il piacere della lettura, in senso astratto, forse non esiste. Esistono semmai il piacere, il divertimento, la commozione, il dolore, la noia, il fastidio, l’indignazione, la sorpresa ecc., suscitati di volta in volta dai singoli libri. Siamo gli unici animali in grado di leggere, per ora – e lo facciamo soprattutto spinti da questioni pratiche. Bollette del gas, missive condominiali, contratti di lavoro, ricette mediche, annunci funebri. Poi, lettere d’amore, se qualcuno ce ne scrive; e magari giornali, o informazioni sullo schermo di un computer. Solo dopo tutto questo, se c’è tempo, si apre il tempo e lo spazio dei romanzi. Tra i tanti resoconti di esperienze di lettura, I libri nella mia vita di Henry Miller è uno dei più sorprendenti. Soprattutto perché muove dalla convinzione, non scontata, che gli incontri con i libri siano da considerare alla stessa stregua degli incontri con altri fenomeni della vita e del pensiero. Tutti gli 217

incontri sono connessi tra loro, dice Miller, «non sono isolati. In questo senso, e in questo senso soltanto, i libri sono parte della vita quanto gli alberi, le stelle o il letame». Lo scrittore americano rifiuta ogni forma di reverenza nei confronti dei libri in sé stessi e della categoria degli scrittori, formulando infine il consiglio più inconsueto e anti-accademico possibile: leggete il meno possibile, non il più possibile! Naturalmente, sta civettando un po’. Ma quando scrive queste pagine ha quasi sessant’anni ed è davvero persuaso che, di tutto ciò che ha letto fin lì, l’essenziale sia appena un decimo. Così, al chiuso di una piccola stanza, prova a radunare nella memoria i cento libri che più l’hanno influenzato, e in coda aggiunge quelli che ha intenzione di leggere nel futuro. L’elenco è curioso. È così colpevole, con parecchi romanzi scritti alle spalle, non avere ancora letto L’educazione sentimentale di Flaubert e le Memorie di Casanova? Miller ci rassicura che no, non esiste una lista di libri da leggere. Chi l’avrebbe stabilita? E d’altra parte, molti dei libri che più ci segnano nel corso della vita sono quelli che non abbiamo letto: «a volte assumono una straordinaria importanza». E quelli letti, no, state tranquilli, comunque non bastano a renderci migliori. Non bastano a farci più intelligenti o più gentili, non bastano a renderci meno crudeli né, se lo siamo, meno stronzi. Non bastano a renderci più coerenti, a incollare i gesti compiuti alle parole dette, pensate, o alle idee. Non tirerò fuori la vecchia solfa degli aguzzini nazisti amanti della musica classica e della grande letteratura. Basta molto meno a dimostrare che molto raramente vanno d’accordo etica ed estetica. Basta molto meno a dimostrare che, per essere migliori di come siamo, i libri letti non danno un grande aiuto. A volte si limitano a ricordarci che lo sforzo, in quanto umani, è quasi vano.

Giuseppe Culicchia Per pubblicare un libro occorrono le conoscenze giuste

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ra, voglio essere sincero. Un tempo la pensavo anch’io così. Avevo vent’anni, scrivevo racconti nella mia stanza tappezzata con le foto degli scrittori che amavo e delle mie band preferite – un miscuglio che comprendeva Hemingway e Fitzgerald, Sex Pistols e Ramones, Nietzsche e Dostoevskij, Clash e Madness, Bukowski e Ginsberg, Sonic Youth e Dead Kennedys – e però quando andavo a farmi un giro in libreria constatavo che il panorama letterario italiano era alquanto refrattario alla pubblicazione di esordienti. Nel 1980 era uscito Altri libertini di Tondelli. Nel 1981 Treno di panna di De Carlo. Nel 1983 Lo stadio di Wimbledon di Del Giudice. Stop. Per il resto, sembrava che in Italia si pubblicassero solo i romanzi di Moravia e dintorni, a meno che uno non collaborasse col «Corriere della Sera» o con qualche altra testata va da sé autorevole. Io comunque chiuso nella mia stanza continuavo a scrivere racconti. Di tanto in tanto mi facevo coraggio e li facevo leggere alla mia ex professoressa di Lettere alle superiori o al mio professore di Filosofia all’università. Finché, si era poco dopo la metà degli anni Ottanta, entrambi mi dissero: «Perché non li mandi a Tondelli? Ha una rubrica su ‘Rockstar’ dove invita i lettori a inviargli i loro racconti». Non sapevo che Tondelli aveva iniziato a pubblicare con Transeuropa, piccolo editore indipendente di Ancona, le sue antologie Under 25. Malgrado i miei interessi musicali, non leggevo ‘Rockstar’. Ma dato che nel frattempo nel maggio del 1988 ero stato assunto per la mia 219

prima settimana di lavoro regolarmente retribuito come addetto alla reception al primo Salone del Libro di Torino, e dato che l’anno seguente la cosa si era ripetuta, pensai che a Tondelli i racconti che avevo scritto glieli avrei dati di persona: al Salone doveva presentare il suo ultimo romanzo, Camere separate, e potevo approfittare dell’occasione. Così feci. Ed ebbi pure la sfrontatezza di dire a Tondelli, nel momento in cui lo incontrai accerchiato dai suoi fan nello stand della Bompiani, che non avevo ancora letto niente di suo, mentre al contrario gli stavo chiedendo di leggere qualcosa di mio. Lui si mise a ridere. «Non preoccuparti», mi disse. «Ti leggerò». Passarono mesi e mesi. Da parte di Tondelli, silenzio assoluto. Pensai che i miei racconti se li fosse dimenticati sul treno tornando a Milano. «In Italia per pubblicare bisogna avere gli agganci giusti», mi ripeteva un amico con cui facevo lunghi giri in bicicletta, a cui avevo confidato la mia delusione per quel silenzio. Non potevo immaginare, non avendo alcuna esperienza del mondo editoriale, che un’attesa di mesi era la norma, nel momento in cui si sottoponeva un testo. Intanto comunque, dato che continuavo a leggere libri e a scrivere racconti, avevo iniziato a lavorare in libreria: mi sembrava la cosa più sensata, visto che – figlio di un barbiere e di un’operaia – non avevo gli agganci giusti né per pubblicare né per farmi assumere nella redazione di un editore. Ma un giorno Tondelli mi chiamò. Così, nel 1990 cinque miei racconti uscirono in quella che poi sarebbe stata l’ultima delle sue antologie dedicate agli Under 25, intitolata Papergang. In quel volume comparivano anche Silvia Ballestra e Guido Conti. E in quelli precedenti Tondelli aveva pubblicato tra gli altri Gabriele Romagnoli e Andrea Canobbio. Sta di fatto che chiamai il mio amico ciclista, e gli dissi: «Sono la prova vivente che in Italia, per pubblicare, avere gli agganci giusti non è strettamente necessario». Bene. Da quel 1990 sono ormai trascorsi più di venticinque anni. E tutto è cambiato. Oggi come oggi gli agganci giusti non servono 220

proprio più. Per carità, se uno è figlio di un professore universitario che collabora con un’autorevole testata, male non fa. Ma nel corso di questo quarto di secolo l’editoria italiana ha letteralmente spalancato le porte agli esordienti, che costano poco – sia per quanto riguarda l’anticipo, quando c’è, sia in fatto di percentuali sui diritti spettanti per le copie vendute – e che nei casi più fortunati possono rendere tantissimo, vedi i vari Saviano, Giordano ecc. Editori che un tempo mai e poi mai si sarebbero sognati di scommettere su uno sconosciuto alle prime armi ora scandagliano il mare magnum dei manoscritti ricevuti in cerca del nuovo caso editoriale destinato a contrassegnare l’annata e a vendere milioni di copie. Se è successo, può succedere di nuovo. E allora ecco che a un tratto non è più credibile l’idea che da qualche parte giaccia il capolavoro sconosciuto, che l’autore non è riuscito a pubblicare perché senza gli agganci di cui sopra. Come mi disse una volta Gianandrea Piccioli, allora direttore editoriale della Garzanti – con cui uscì nel 1994 la prima edizione di Tutti giù per terra – : «Niente resterà impubblicato». Senza contare che siamo ormai nell’era del self-publishing. In merito al quale però credo valga la pena di tenere presente che, se è vero che così davvero chiunque può arrivare alla pubblicazione, indipendentemente da ogni considerazione sulla qualità della scrittura e sul valore del testo, è altrettanto vero che un libro vive solo nel momento in cui incontra i suoi lettori. Per cui certo, i libri editi in formato digitale, al contrario di quelli di carta, non andranno mai al macero. E però se non li legge nessuno è come se ci fossero andati. In definitiva comunque se per caso vi capiterà di imbattervi in un aspirante scrittore convinto di non essere riuscito a pubblicare perché non aveva gli agganci giusti, offritegli da bere e fategli presente che il mondo dai tempi di Moravia & Co. è cambiato: «E poi insomma, dài, renditi conto, hanno pubblicato perfino Culicchia...». 221

Giuseppe Pignatone La mafia è invincibile

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oi siamo il passato, il presente, il futuro... abbiamo alle spalle cent’anni di storia». Le parole pronunziate nel 2008 dall’esponente di una delle storiche dinastie di ‘ndrangheta, esprimono con efficacia uno dei fattori che più hanno caratterizzato l’origine e l’accumulazione del potere criminale delle mafie: la convinzione della propria invincibilità, divenuta nel tempo vero e proprio mito. Questa convinzione, frutto di una sapiente costruzione collettiva, volutamente esibita, rivendicata e alimentata da una lettura «interessata» di alcuni fattori oggettivi, ha contribuito grandemente a generare consenso sociale intorno alle organizzazioni mafiose. In Italia le mafie hanno messo radici almeno due secoli fa, resistendo a ogni temperie della storia: dallo Stato unitario, al regime fascista, alle diverse forme di governo che si sono succedute, sono spesso riuscite a trarre profitto, e vantaggi dai grandi mutamenti economici e sociali. Salvatore Lupo sottolinea la «sconcertante continuità dei gruppi, dei luoghi, delle esperienze e dei settori di intervento» della mafia siciliana. Ma lo stesso si può dire di tutte le grandi mafie tradizionali. La continuità storica delle mafie è stata oggetto di diverse letture, non sempre disinteressate né adeguatamente informate. Ad alcune di queste letture si ricollegano sia le ricostruzioni del tutto negazioniste sia quelle riduzioniste. Il fatto che la presenza mafiosa abbia caratterizzato in modo continuativo la struttura sociale ed economica del paese ha finito per farla 222

percepire come un elemento quasi fisiologico; è stata metabolizzata e considerata alla stregua degli altri elementi che di quella struttura sono componenti essenziali, fino ad apparire anch’essa ineliminabile. Le mafie, insomma, in questo modo cessano di esistere come fatto patologico. Alla tesi – sempre più difficilmente sostenibile – dell’inesistenza delle mafie come organizzazioni di tipo criminale, in tempi più recenti sono subentrate ricostruzioni parziali, frammentarie e atomizzate, che finiscono per negare proprio quelle caratteristiche che hanno fatto le cosche più pericolose, ricche e potenti: l’unitarietà strutturale-organizzativa e il loro sistema di relazioni esterne Il mito dell’invincibilità ha dunque fortemente condizionato «la mafia vissuta e subìta» (secondo l’efficace espressione di Attilio Bolzoni). Eppure, anche nella storia più recente si colgono tracce evidenti di quanto e come nel tempo, a dispetto del mito della loro invincibilità, le mafie siano mutate e il loro potere criminale ridimensionato. La Cosa Nostra americana, un tempo potentissima organizzazione in grado di interloquire alla pari con Cosa Nostra siciliana, ha subìto un processo di marginalizzazione nella stessa terra in cui prima incuteva timore e rispetto in settori non secondari delle istituzioni statunitensi. E in Europa, Marsiglia, già crocevia del grande narcotraffico mondiale, si è trasformata da capitale criminale della Francia a città da cui la criminalità di tipo mafioso è di fatto scomparsa. Una metamorfosi determinata dalla severa attività di repressione degli apparati istituzionali e dall’impegno dello Stato a offrire un’alternativa economica alla città, penalizzata dalla fine dell’impero coloniale. Ma il ridimensionamento del potere criminale esercitato dalle organizzazioni mafiose ha caratterizzato anche la storia più recente del nostro paese, quella che – nel secondo dopoguerra – ha avuto come spartiacque la stagione delle stragi. Grandi risultati sono stati conseguiti sul piano della repressione. Sono trascorsi quasi 32 anni tra il 29 settembre 1982, 223

data in cui fu emesso il mandato di cattura nei confronti di 366 mafiosi sulla base delle dichiarazioni di Tommaso Buscetta raccolte da Giovanni Falcone – il cosiddetto maxiprocesso a Cosa nostra, definito in Cassazione il 30 gennaio 1992 – e il 17 giugno 2016, data dell’ultima pronuncia passata in giudicato sulla struttura della ‘ndrangheta, ma ora anche in sede giudiziale sono stati posti alcuni punti fermi che consentono di affinare la conoscenza di regole, modalità organizzative, forme di governance e modelli di espansione delle grandi organizzazioni mafiose attive sul nostro territorio. Un lavoro puntuale di ricostruzione che ha consentito di aggredire con successo tali organizzazioni, in particolare Cosa nostra e Camorra casalese, con il risultato di privarle (in buona parte) dei capi in grado di elaborare le strategie criminali, dei quadri intermedi che ne garantivano l’esecuzione e anche delle risorse indispensabili per darvi concreta attuazione. E ciò non solo nelle regioni meridionali, luogo di tradizionale radicamento, ma anche in altre parti d’Italia. Ancora oggi, i capi mafiosi rimasti operativi sembrano alla ricerca spasmodica – e, al momento, vana – degli equilibri necessari a restituire vitalità ai rispettivi gruppi criminali, colpiti dall’azione dello Stato. Anche la ‘ndrangheta calabrese ha subìto duri colpi e – fatto di fondamentale importanza – ne è stata disvelata e dimostrata la presenza strutturata in molte regioni d’Italia, frutto non di fattori occasionali ma di una precisa strategia di colonizzazione. Sono state colpite in modo significativo anche quelle relazioni esterne che costituiscono il fattore distintivo e la chiave di volta della forza delle mafie. Inoltre è stato messo a punto un metodo investigativo e processuale che ha consentito di giungere a condanne e confische grazie all’attività determinata, ferma e continua nel tempo di tantissimi rappresentanti dello Stato. Non certo di eroi solitari, votati alla sconfitta proprio in quanto solitari e comodo alibi per tutti gli altri in quanto (solo loro) eroi. Soprattutto, si tratta di un’attività condotta nel «ri224

spetto delle regole». Questa era la preoccupazione – per non dire l’ossessione – di Leonardo Sciascia, convinto che anche verso i criminali più pericolosi lo Stato dovesse mantenere il profilo alto, mostrare il suo volto migliore. Rinunciare al rispetto delle regole, sia pure per il migliore dei fini – scriveva Sciascia – sarebbe di per sé una sconfitta dello Stato. Accanto ai risultati processuali e grazie – non solo, ma anche – a quanto emerso nelle indagini, negli ultimi decenni è stato conseguito un risultato forse ancora più importante. Come rileva Isaia Sales, è cambiata la percezione della mafia nella pubblica opinione, specie di quella parte che vive nel Meridione d’Italia. Si è detto delle letture negazioniste e di quelle riduzioniste: e infatti fino a non molto tempo fa mafia non coincideva affatto con criminalità, una persona poteva essere mafiosa senza tuttavia «sentirsi» o essere considerata un delinquente. Oggi, un mafioso è innanzi tutto un assassino e un delinquente. E questo non solo per il Codice Penale – che solo dal 1982 punisce l’affiliato a una cosca in quanto tale anche se non commette reati specifici –, ma per il comune sentire della società italiana. Nessuno parla più di mafia «buona», come nessuno definirebbe la mafia una «semplice» mentalità o un «normale» modo di comportarsi. È un cambiamento di fondamentale importanza, su cui hanno certo inciso le stragi e le migliaia di vittime di questi decenni terribili. Un cambiamento che man mano eroderà il consenso per le mafie e aiuterà a contrastarle non solo sul piano della repressione, ma in ogni ambito a cominciare da quello culturale ed educativo. Un cambiamento che spiega anche l’azione positiva di spezzoni di società i cui risultati, pur già complessivamente visibili, hanno bisogno di tempo per consolidarsi e diventare significativi. Le mafie non sono ancora ridotte a «criminalità di strada», cioè non viviamo ancora quel momento che – secondo Giovanni Falcone – avrebbe segnato la «fine della mafia»: molto resta da fare sul piano della repressione e, forse ancora di più, su quello 225

del definitivo rifiuto nella vita sociale, politica ed economica di patti e accordi con i mafiosi basati sulla reciproca convenienza («l’unione che fa la pericolosità», secondo l’icastica definizione di un collaboratore di giustizia siciliano). Lo Stato deve ancora conseguire il successo finale, ma l’invincibilità della mafia non esiste.

Francesco Remotti Di mamma ce n’è una sola

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ciascuno di noi sarà successo nella propria vita di avere sentito, o forse addirittura di avere pronunciato, la frase «di mamma ce n’è una sola». Oggi, questa frase non appartiene soltanto ai modi di dire a cui si ricorre in determinate situazioni critiche: è diventata invece il nome di un comitato (presieduto dall’onorevole Eugenia Roccella), il quale si prefigge di «denunciare e contrastare» la pratica dell’utero in affitto, così da tutelare il diritto di ogni bambino ad avere una propria famiglia e di ogni donna di «portare avanti la gravidanza e tenere con sé il bambino partorito». Nel Manifesto di questo comitato non vengono usate espressioni come «mamma biologica», «legami biologici» o «famiglia biologica», ma tutto lascia intendere che per i promotori del comitato Di mamma ce n’è una sola proprio questo legame biologico sia un «diritto naturale e fondamentale», il quale infatti «precede qualunque legge e qualunque contratto». In effetti, uno dei significati più pregnanti dell’espressione che stiamo commentando pare racchiudersi nel legame profondo, naturale e inalienabile che si viene a formare tra un individuo e la donna che per nove mesi l’ha portato in grembo, l’ha messo al mondo, e che poi presumibilmente l’ha allattato, nutrito, fatto crescere. Quando si dice «di mamma ce n’è una sola», il pensiero corre a questo legame del tutto speciale e, per natura, irripetibile. Nel caso in cui un bambino dovesse perdere la «sua» mamma, può certamente essere adottato e 227

così avere un’altra mamma, che – altrettanto presumibilmente – lo amerà e lo accudirà per tutta la sua vita. Ma «di mamma ce n’è una sola» vuol dire che, per quanto materna possa essere la seconda mamma (la mamma adottiva: una mamma, cioè, prettamente sociale), essa non potrà mai sostituire del tutto la madre biologica: il legame sociale non potrà mai avere la forza, la certezza, l’indistruttibilità del legame naturale, un legame – come noi spesso diciamo – di «sangue». Rispetto a qualsiasi altro rapporto parentale, coniugale, amicale, questo legame è assolutamente unico: appunto, «di mamma ce n’è una sola», perché la vera mamma è quella che ha fatto nascere il suo bambino. Nella biologia – ovvero negli eventi biologici della gestazione e del parto – non c’è scritta però alcuna parola «mamma»: siamo noi che iscriviamo questa parola in quegli eventi e decidiamo che quella sia «la» mamma, l’unica, vera e autentica mamma, a confronto della quale le altre, le mamme adottive, sono per così dire simil-mamme, mamme inevitabilmente di secondo ordine. Le pratiche adottive rappresentano in effetti una potenziale smentita dell’idea dell’unicità della mamma: nella vita di un bimbo adottato non c’è una sola mamma, ma almeno due. Perché allora noi privilegiamo così tanto il rapporto biologico? Probabilmente perché vediamo in esso un grado di certezza che nessun rapporto sociale è in grado di offrire: in vista di questa certezza biologica, siamo persino disposti a svalutare la maternità adottiva. Chi dice che «di mamma ce n’è una sola» è come se dicesse che, per quanti sforzi faccia e per quanto amore sia in grado di profondere, nessuna mamma sociale potrà mai guadagnare la «certezza» della madre biologica. E però, di questi tempi, è proprio l’unicità, e dunque la certezza, biologica ciò che viene messa in discussione. Se l’adozione può legittimamente essere intesa come una maternità socialmente surrogata, le nuove tecniche mediche ci hanno messo di fronte a una surrogazione di maternità sul piano strettamente 228

biologico. Grazie a queste bio-tecnologie, oggi si può venire al mondo a seguito della collaborazione di più figure «materne»: la donna che dona i propri ovuli; la donna nel cui utero viene deposto l’ovulo fecondato e che accetta di portare avanti la gravidanza; la donna che, avvalendosi di queste prestazioni, assume come suo il bambino che viene al mondo. Se questa terza figura è nettamente una madre sociale, come la mettiamo con la donna che ha fornito l’ovulo e con la donna che ha invece fornito l’utero? Chi è, in questo caso, la madre biologica? Possiamo ancora dire che «di mamma ce n’è una sola» o non è la stessa biologia a indurci a mettere in crisi l’idea dell’unicità della figura materna? A pensarci bene, le conquiste di ciò che siamo soliti chiamare progresso scientifico ci portano a riflettere su un’idea che possiamo riscontrare in molte società a cui, a lungo, non abbiamo risparmiato l’appellativo di «primitive». L’idea è, appunto, che per ogni bambino «di mamma non ce n’è (e non deve essercene) una sola». Certo, queste società, sparse in tutti i continenti, moltiplicavano la figura materna non sul piano biologico, ma sul piano sociale. E beninteso, provvedevano alla moltiplicazione delle mamme non perché fosse venuta meno la prima, vera mamma (quella biologica), ma perché si riteneva opportuno che i bambini potessero fruire di «più» mamme, per il bene dei bambini, delle loro madri e dell’intera società. Per esempio, tra i Mossi del Burkina Faso la madre biologica non può trattenere presso di sé il bambino che ha messo al mondo: una volta svezzato, esso verrà dato a una donna non più fertile, la quale si preoccuperà di nutrirlo, farlo crescere, educarlo. Il bambino cresce così con l’idea di avere sia la mamma che l’ha fatto nascere (ma roaka), sia la mamma che lo sta allevando (ma wubuduga): e non è che quest’ultima sia meno mamma della prima. In effetti, nell’Africa occidentale è molto diffuso il principio secondo cui è opportuno ripartire e condividere il peso della 229

responsabilità che la crescita dei figli comporta: non è bene che tutta la responsabilità ricada sui genitori biologici. Ci sono anche molte società – in Africa e altrove (specialmente in Oceania) – in cui anzi si ritiene che i genitori biologici siano i meno adatti a fare crescere i figli, e così, per esempio, come avveniva nell’isola di Murray (Stretto di Torres), i bambini venivano destinati ad altre famiglie prima ancora che fossero nati, realizzando uno scambio reciproco di figli e facendo in modo che il ruolo più importante fosse quello dei genitori sociali, non quello dei genitori biologici. Del resto, se davvero pensiamo quanto lungo, difficile, rischioso, aperto a ogni genere di fallimenti sia il compito di «tirare su» dei figli, si comprende come la maggior parte delle società umane abbia pensato bene di distribuire la funzione materna in una pluralità di figure, di madri sociali, anziché concentrarla nella «sola» mamma biologica. È una questione di decisione e di saggezza, di cui anche noi, se lo volessimo, potremmo avvalerci.

Chiara Valerio La matematica non è un’opinione

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n effetti non lo è. Anzi, è l’unica disciplina che può essere dimostrata da chiunque in qualsiasi parte del globo, indipendentemente dall’età, dalla classe sociale, dal genere e dalle opinioni politiche. Da una certa ipotesi, o da un gruppo di ipotesi, si giunge a una tesi. La matematica è molto democratica, in effetti. Tutti, ognuno da solo o quasi, nei secoli dei secoli, e così sarà sempre, partono da un punto e arrivano in un altro. Sempre gli stessi due punti. No, la matematica non è un’opinione. Per non parlare dei risultati delle equazioni algebriche. Sempre gli stessi, chiunque le svolga. Tuttavia, proprio per questa rigidezza – che negli anni di studio matto e disperatissimo per me era certezza, dunque tranquillità e dunque riposo – lascia spazio alla scelta del percorso. Va bene che il punto di partenza e il punto di arrivo sono uguali per tutti, ma il modo di svolgere i calcoli e la scelta dei simboli, sono come un carattere, un vezzo, un passo, somigliano a una maniera di stare al mondo. Ci sono scorciatoie, giri panoramici, sentieri interrotti e ripresi, c’è chi, dal punto A al punto B, vola e chi invece se la fa a nuoto, chi prende la macchina e chi va piedi. Tra quelli che vanno a piedi, c’è chi corre, per esempio. Quindi forse sì, forse la matematica, che somiglia più a un come che a un perché, è un’opinione. E questa è una cosa molto matematica, per esempio. L’evidenza che la verità di un’asserzione, di una proposizione, la soluzione di un’equazione, dipende dalle condizioni 231

al contorno o, in una lingua meno specialistica, dal contesto di riferimento. La matematica è molto dialettica. Se tutti dicessimo – se a tutti ci avessero detto, a scuola – che oltre a scegliere la penna e il quaderno sul quale svolgere i conti e tentare la dimostrazione di teoremi e di problemi geometrici avremmo potuto scegliere, volta per volta – anche perdendo tempo, divagando certo, perché i simboli favoriscono sia la memoria che la comunicazione e dunque la discussione (pensate se, a un tratto, ciascuno di noi decidesse di chiamare la A, P, oppure di chiamarla G, o anche H, il nostro parlare sarebbe assai più complicato e meno efficace) –, se avessimo potuto scegliere, dicevo, il nome per l’incognita, quello per la variabile dipendente, la lettera per la funzione e le etichette per i vertici dei triangoli e gli spigoli dei poligoni, forse la matematica ci sarebbe sembrata non morta e rigida, ma viva e morbida, sottesa da muscoli guizzanti e che in qualche modo ci assomigliava. Io sono certa che gli esseri umani somigliano ai nomi che danno alle cose, e alle persone – reali o immaginarie – che desiderano più che ai parenti di sangue. E così – con i triangoli che, invece di A B C si chiamavano Giulia Silvia e Chiara – i problemi di matematica sarebbero di volta in volta stati un nostro problema. Poi, per semplificare, per il principio di minima energia che tutto governa, saremmo tornati ai simboli, a quelli scritti su sussidiari e libri di testo. Noi somigliamo soprattutto ai nomi che diamo alle cose. Lo so, non è educativo perché la matematica è una disciplina che abitua all’astrazione, a una immaginazione che non è metamorfosi, alla contiguità e alla vicinanza con l’invisibile, ma non dico di farlo, dico di pensare che siamo noi a scegliere proprio quel simbolo e nessun altro. Proprio per questo, secondo me, la matematica è anche una posta del cuore. Altro che opinione, un coro di opinioni. In un certo senso, ogni volta che svolgiamo un’equazione, diciamo la nostra opinione già nel modo in cui la svolgiamo. 232

Ma per tornare a conseguenze più politiche – lo scrivo e mi pento perché che cos’è la rubrica di Natalia Aspesi, per esempio, se non l’affresco del nostro collettivo e dunque del nostro politico? – riprendo la rigidezza (l’inamovibilità ineluttabile di punto di partenza e punto di arrivo) che era per me tranquillità e certezza e pure riposo. E lo è ancora. Perché in un mondo dove ogni cosa è confutabile, e non con logica e dialettica, ma con la violenza e la volgarità delle parole, dei gesti e del corpo, e alzando la voce, la matematica dà la certezza che, per converso, le cose possono essere contraddette e confutate con la logica e confrontando percorsi che sono emotivi, sentimentali e memoriali (scegliamo i nomi, scegliamo i modi). E anche adesso che non sono più un matematico e mi è rimasta la quiete (la memoria, il sentimento, la ragione) che esiste la verità, esiste la realtà ed esiste pure la possibilità di condividerle con gli altri.

Marco Onado Il mercato è razionale

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n’economia di mercato si fonda sulle scelte di milioni di individui che soddisfano le proprie esigenze di consumo e di investimento reagendo alle informazioni contenute nel sistema dei prezzi, in base ad una scala di preferenze, nota come «funzione di utilità». In questo modo il mercato di ogni bene o di ogni attività finanziaria è come una grande macchina democratica che esprime voti e preferenze sotto forma di prezzi e di tassi di interesse. Logico quindi che la teoria economica parta dall’ipotesi che le singole scelte siano compiute da operatori mossi da funzioni di preferenza basate su criteri razionali. In questo modo, i prezzi che si formano sono efficienti e il mercato è in grado di realizzare la migliore allocazione possibile delle risorse, guidato dalla famosa «mano invisibile» di cui parla Adam Smith e che per l’economia (e in particolare per le teorie neoliberiste che hanno dominato gli ultimi decenni) è l’equivalente della provvidenza nella visione del mondo di Lucia nei Promessi Sposi. Ma un’ipotesi di lavoro, necessaria per avere un modello di comportamento microeconomico, non deve trasformarsi in assioma. E invece, anche quando i prezzi sembrano impazzire, c’è sempre qualcuno ad ammonirci con il ditino alzato: «è il mercato, bellezza», possibilmente con lo sguardo cinico di Humphrey Bogart. Che si tratti di remunerazioni dei manager bancari più simili a quelli di un emiro orientale che di un alto funzionario, che si tratti di prezzi di case o di azioni al di là di

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ogni logica economica, il ritornello è sempre lo stesso: i mercati hanno espresso il loro verdetto e i mercati hanno sempre ragione. Lo stesso vale per i mercati finanziari che vengono normalmente presentati nei titoli di apertura di giornali e televisione come giudici infallibili delle condizioni di un’azienda, di un sistema bancario, di un intero paese, capaci di esprimere giudizi perentori e infallibili separando nettamente i «buoni» dai «cattivi». Un corto circuito logico frutto di un pregiudizio che può essere smontato semplicemente guardando all’esperienza comune. Se i mercati fossero sempre razionali non ci sarebbero le bolle speculative, che invece sono uno dei fenomeni più ricorrenti in ogni mercato. Si va dai tulipani nell’austera Olanda del Seicento, alle azioni tecnologiche nel mercato azionario di fine Novecento, ai prezzi delle case negli Stati Uniti e in molti paesi europei nel primo decennio del nuovo secolo, ai titoli che sono stati definiti «tossici» dopo la crisi, ma che prima erano trattati a prezzi enormemente superiori a quelli giustificati dal loro rischio effettivo. La via delle crisi, in altre parole, è lastricata di mercati efficienti, come le buone intenzioni che portano all’inferno. Nessun economista ne dubita, ma mentre i duri e puri del pensiero liberista pensano che si tratti di inevitabili deviazioni da uno stato sostanzialmente efficiente, forzando il concetto hegeliano che tutto ciò che è reale è razionale, un’altra larga parte pensa il contrario. Il loro punto è che il mercato ha una tendenza quasi naturale a deviare dal cammino dell’efficienza. Bastano i titoli, non si dice il contenuto, di alcune opere fondamentali per dimostrarlo. Nell’Ottocento, McKay aveva analizzato le bolle della prima industrializzazione europea in un libro il cui titolo faceva riferimento alla «pazzia delle folle» (Madness of the crowds). Un secolo dopo Charles Kindleberger ci ha descritto in un’opera fondamentale (Manias, panics and crashes, in italiano Eu235

foria e panico) l’irrazionalità alla base degli eccessi speculativi che costellano la storia. Più recentemente due economisti (Carmen Reinhardt e Kenneth Rogoff) ci hanno dimostrato, sulla base di una sterminata documentazione statistica, che le crisi finanziarie sono una costante nella storia di tutti i paesi, come dice il sottotitolo (Otto secoli di follia finanziaria). Il titolo invece (Questa volta è diverso) ci ammonisce che, sempre per una deviazione cognitiva non razionale, nelle fasi positive del ciclo economico gli agenti economici tendono ad escludere che le crisi finanziarie possano accadere a loro, qui ed ora. Pensano invece che «questa volta è diverso» perché sono più furbi, perché hanno costruito un’economia più solida, perché hanno imparato dagli errori del passato. E via folleggiando spensieratamente. Dunque, la storia dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, come si direbbe nelle aule di tribunale, che il mercato è sistematicamente afflitto da comportamenti devianti rispetto alla pura razionalità. Ma anche una parte importante della teoria economica nega che il mercato sia sempre razionale. Il punto, con riferimento ai mercati finanziari era stato sollevato in particolare da Keynes, che aveva dedicato un intero capitolo della Teoria generale ad analizzare l’importanza delle aspettative nella formazione dei prezzi azionari, insistendo sull’irrazionalità di certi comportamenti. Per venire ai tempi più recenti due libri ci dimostrano che la razionalità non è di questo mondo, cioè di questi mercati. Il primo, di Gary Gorton è Slapped in the face by the invisible hand (cioè «presi a schiaffi dalla mano invisibile») dimostra l’irrazionalità dell’intero sistema di intermediazione americano che ha portato alla crisi del 2007. Il secondo titolo, Phishing for phools, è un po’ più complesso: usa il neologismo delle truffe informatiche, phishing, per indicare le manovre usate dai produttori per indurre i consumatori creduloni, definiti per simmetria phools, a scelte che vanno nell’interesse dei primi, ma non dei secondi. Il risultato è che 236

in moltissimi casi non si raggiunge la condizione di equilibrio (tecnicamente: l’ottimo paretiano) che consente di massimizzare la funzione di utilità di tutti i partecipanti. Giornalisticamente, è la notizia del padrone che morde il cane. Gli autori sono infatti George Akerlof e Robert Shiller due premi Nobel, convinti liberisti, che con la loro opera dimostrano con dovizia di esempi e con solidi riferimenti teorici (ci mancherebbe) che i mercati spingono normalmente a pratiche di manipolazione ed inganno. Non si tratta solo di quelle fraudolente (che peraltro abbondano), ma anche di quelle più sottili, che ci inducono a scelte dannose, come fumare o divorare chili di patatine o semplicemente ci portano a scelte troppo costose rispetto all’utilità effettivamente procurata. Il consumatore non è quindi sovrano, secondo la vulgata del libero mercato, ma è un phool che crede a quello che i produttori vogliono fargli credere. Testualmente: «I liberi mercati non producono solo ciò di cui abbiamo realmente bisogno, ma anche ciò che vogliamo perché indotti da preferenze manipolate [cosicché alla fine] noi compriamo ciò che i produttori vogliono». Dal punto di vista teorico, questo significa che il mercato può raggiungere sia un equilibrio «buono» (quello della teoria pura in cui tutti vissero felici e contenti) oppure uno «cattivo», in cui qualcuno sta meglio di altri. In campo finanziario, un intero corpo teorico muove dall’ipotesi che i comportamenti degli investitori siano guidati da emozioni e schemi cognitivi profondamente diversi dalla razionalità pura. Ma sono stati relegati in una categoria a parte («finanza comportamentale») e guardati con sospetto, come vegani ad un barbecue del Texas. Insomma, la mano invisibile brancola troppo spesso nel buio: Marx è morto, ma anche Adam Smith non se la passa troppo bene. Ma se crolla il pregiudizio del mercato razionale, crolla anche quello della spesa statale sempre e comunque dannosa, cioè un altro pilastro del neo-liberismo. Se bolle speculative, 237

scelte emotive e manipolazioni sono sempre in agguato, sono molteplici i «fallimenti di mercato» (cioè la tendenza all’equilibrio «cattivo») che giustificano l’intervento pubblico. La spesa statale e la regolamentazione devono essere viste sotto una nuova luce, considerandone (come hanno sempre sostenuto gli economisti di buon senso) gli effetti qualitativi e la sua capacità di correggere squilibri macroeconomici e sociali.

Luca Mercalli Non ci sono più le mezze stagioni

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a che idea abbiamo oggi delle quattro stagioni? Scientifica o letteraria? La prima di certo no, poiché la climatologia è una scienza poco nota e poco studiata. Letteraria un po’ di più, almeno per quei pochi che ancora leggono i classici, a base di figure retoriche un po’ commoventi: burrascosi inverni romantici, tiepide primavere rinascimentali, abbaglianti estati omeriche, umidi autunni medievali. Ma forse l’idea che abbiamo oggi delle stagioni è soprattutto pubblicitaria! L’inverno sempre nevoso, con luminarie di Natale e piste da sci; la primavera sempre colorata, con prati fioriti e colombe pasquali; l’estate sempre al mare, con spiagge tropicali e cieli sempre blu (eppure anche ai tropici piove, e ci son pure gli uragani!); gli autunni sempre grigi, si torna al lavoro dopo le vacanze. Scene trite e ritrite impresse a fuoco nelle menti delle moltitudini. Accade dunque che per via di una classificazione così banale, la mancata corrispondenza della realtà meteorologica con il cliché sociale, di una popolazione tra l’altro sempre più confinata nel bozzolo dei climi artificiali di macchine ed edifici, dia luogo alla ripetizione infinita del ritornello «non ci son più le mezze stagioni». Peraltro si può sostenere che le mezze stagioni non sono mai esistite... In molte zone della terra, le stagioni sono solo due: ai poli, dove c’è una stagione fredda buia e una meno fredda e soleggiata, ai tropici dove c’è una stagione molto calda e una meno calda, o una stagione secca e una piovosa. Alle 239

latitudini europee, le stagioni sono tradizionalmente quattro, ma solo estate e inverno sono ben identificabili, allorché si raggiungono i massimi e i minimi di temperatura, o – come nel clima mediterraneo – anche la piovosità segue la stagionalità, umido l’inverno, secca l’estate. Invece primavera e autunno sono definizioni labili, variegati momenti di transizione e di prolungamento delle stagioni principali. Ne è convinto anche Leopardi, che nello Zibaldone rileva come «nell’autunno par che il sole e gli oggetti sieno d’un altro colore, le nubi d’un’altra forma, l’aria d’un altro sapore. [...] e per rispetto a certe minuzie e non alle cose più essenziali, giacché in queste è manifesto che la faccia dell’inverno è più marcata e distinta dalle altre che quella dell’autunno». Però l’idea che le stagioni manchino i loro appuntamenti resiste nei secoli; ecco Edmondo De Amicis nel 1899 (La carrozza di tutti): «Non c’è più stagioni! Chi ne capisce qualche cosa? E il mondo che va a soqquadro...». In effetti, guardando ai dati misurati al Centro-Nord Italia, ci sono stati periodi, come la prima metà del 1800, con primavere così fredde e piovose da impedire di denominarle tali, e autunni tanto precoci da accomunarli ai nostri attuali inverni. Tant’è che ancora Leopardi ne fa oggetto di uno dei suoi «Pensieri», il numero 39, ripreso anche nello Zibaldone, del 7 gennaio 1827: «Io credo che ognuno si ricordi avere udito da’ suoi vecchi più volte, come mi ricordo io da’ miei, che le annate sono divenute più fredde che non erano, e gl’inverni più lunghi; e che, al tempo loro, già verso il dì di Pasqua si solevano lasciare i panni dell’inverno, e pigliare quelli della state; la qual mutazione oggi, secondo essi, appena nel mese di maggio, e talvolta di giugno, si può patire. E non ha molti anni, che fu cercata seriamente da alcuni fisici la causa di tale supposto raffreddamento delle stagioni, ed allegato da chi il diboscamento delle montagne, e da chi non so che altre cose, per ispiegare un fatto che non ha luogo: poiché anzi al contrario è cosa, a ca240

gione d’esempio, notata da qualcuno per diversi passi d’autori antichi, che l’Italia ai tempi romani dovette essere più fredda che non è ora. [...] La quale immaginazione è così fondata, che quel medesimo appunto che affermano i nostri vecchi a noi, affermavano i vecchi, per non dir più, già un secolo e mezzo addietro, ai contemporanei del Magalotti, il quale nelle Lettere familiari scriveva: ‘egli è pur certo che l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune, che i mezzi tempi non vi son più; e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno [...]’. Questo scriveva il Magalotti in data del 1683. L’Italia sarebbe più fredda oramai che la Groenlandia, se da quell’anno a questo, fosse venuta continuamente raffreddandosi a quella proporzione che si raccontava allora». Leopardi ha una parte di ragione e una di torto. Ha ragione quando sostiene che i sensi e la memoria dell’uomo sono fallaci e si soffermano su dettagli che non sono significativi alla scala dei tempi del clima. Dobbiamo infatti basarci sui dati rilevati dagli strumenti su lunghi periodi. Ha torto invece quando vuole negare a priori i freddi osservati da Lorenzo Magalotti (16371712), che non era uno qualunque, bensì segretario dell’Accademia del Cimento di Firenze, culla del metodo scientifico galileiano, dove tra l’altro si costruirono i primi termometri al mondo, «strumenti per conoscer l’alterazioni dell’aria derivanti dal caldo e dal freddo». Visto con i dati attuali, il raffreddamento di cui parla Magalotti era nientemeno che la «Piccola Età Glaciale» che, iniziata attorno al 1300, sarebbe poi durata tra alterne vicende fino al 1850. Se quel raffreddamento, che fu di circa 1°C rispetto al tepore dell’anno Mille e dintorni (anomalia climatica medievale) fosse poi proseguito fino a oggi, forse è vero che l’Italia sarebbe diventata come la Groenlandia. Invece oggi ci troviamo a far i conti con l’aumento della temperatura dettato dal riscaldamento globale: circa un grado in più nell’ultimo secolo, inverni molto più miti, meno neve, 241

meno gelo ed estati molto più calde, come quella – inedita a scala millenaria – del 2003. E tra cinquant’anni nel pieno del mondo serra, forse vivremo in una lunga estate e avremo perso l’inverno. Una cosa è dunque certa, invece di dire che non ci sono più le mezze stagioni, è corretto dire che non ci sono più le stesse stagioni di un tempo.

Innocenzo Cipolletta In Italia c’è stato un miracolo economico

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erché abbiamo chiamato «miracolo economico» il periodo di forte crescita dell’Italia nel dopoguerra durato quasi 30 anni? Io penso che la ragione sia perché non abbiamo capito quel fenomeno, lo abbiamo subìto e, in fondo alla nostra coscienza, pensiamo di non averlo affatto meritato. Sicché lo abbiamo chiamato «Miracolo». Infatti, cos’è un miracolo? Dice il dizionario Garzanti: «Fenomeno che si verifica in contrasto con le leggi naturali e testimonia dell’intervento di un potere soprannaturale», oppure (Petit Robert): «Fatto straordinario nel quale si crede di riconoscere un intervento divino benevolo al quale si conferisce un significato spirituale». Ecco, dunque: la crescita economica dell’Italia nel dopoguerra è stato un evento soprannaturale, quasi contro la natura, e il merito di questo evento non risiede negli umani, ma nella divinità che è intervenuta, chissà poi perché, certo non per i nostri meriti, ma per imperscrutabili ragioni che a noi mortali sono precluse per sempre. Ora, c’è da domandarsi: ma è stato proprio così? La crescita economica del dopoguerra in Italia è stata il frutto della volontà divina e non degli umani? Noi italiani c’entriamo qualche cosa in questo processo? E, se è stato un miracolo, siamo stati tutti beneficiati come i poveri della baraccopoli di Miracolo a Milano (film del 1951 di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini) che, a cavallo delle scope rubate agli spazzini a piazza del Duomo a Milano, vanno in cielo sfuggendo alla polizia chiamata dagli 243

immobiliaristi che vogliono spartirsi il terreno per le loro speculazioni? Forse qualcuno in Italia pensa che le cose siano andate proprio così, dato che da diversi anni il nostro paese non cresce più, e si rimpiange continuamente lo spirito degli anni del Miracolo, considerati come un periodo felice dove tutto andava bene e che ormai è perduto per sempre. Nella realtà quello che noi consideriamo un miracolo è stato un fenomeno che ha riguardato tutta l’Europa (i francesi, che sono più laici di noi, l’hanno ribattezzato «les Trente glorieuses», ossia i trent’anni di grande crescita che hanno caratterizzato i paesi dell’Occidente nel primo dopoguerra) e che ha comportato anche moltissimi sacrifici ed errori: sicuramente non è stato un periodo facile per tutti. I sopravvissuti ne hanno tratto molti benefici, ma molti sono stati gli italiani che non hanno conosciuto la felicità in quegli anni e si sono persi nel mondo e nel paese. È anche dal loro sacrificio che è nato quello che poi abbiamo chiamato un «miracolo», ma che in realtà è stato il frutto di intelligenza e di sacrifici di milioni di italiani. La crescita economica del dopoguerra partì dalla necessità di ricostruzione del paese ed è stata favorita dal Piano Marshall che concesse aiuti ai paesi usciti dalla guerra per ricostruire un sistema economico funzionante. L’Italia aveva allora un’economia di tipo rurale, specie nel Sud del paese e dovette convertirsi in un’economia industriale in pochi anni. Questo fenomeno comportò un consistente sradicamento della popolazione italiana, dalle campagne alle città, dal Sud al Nord e dall’Est all’Ovest del paese, ma implicò anche una forte ondata di migrazione all’estero, specie negli altri paesi europei. Questi movimenti demografici favorirono la crescita economica, ma generarono anche molte tensioni sociali acute che fecero soffrire gli italiani e che poi non furono estranee agli atti di terrorismo che insanguinarono il paese negli anni Settanta e Ottanta. 244

Basti pensare che ancora al censimento del 1951 oltre il 42% dei lavoratori italiani era impiegato in agricoltura (oggi siamo a meno del 4%). Tra il 1955 e il 1971 oltre 9 milioni di italiani sono stati i migranti interni che hanno cambiato regione di residenza e di lavoro (circa il 20% della popolazione italiana, ossia un italiano su cinque), spesso senza assistenza e nella piena ostilità delle popolazioni locali. Non abbiamo dimenticato i cartelli con scritto «non si affitta ai meridionali» in molte città del Nord Italia. Spesso le condizioni di vita di questi lavoratori erano indecenti: in molti nella stessa stanza per economizzare ogni lira da mandare a casa alla famiglia e permettere loro di raggiungerli. Numerose sono state le morti per asfissia generate dai bracieri accesi nelle fredde stanze del Nord Italia durante i rigidi inverni. Le condizioni di lavoro non erano certo delle migliori in quegli anni e i morti sul lavoro erano una consuetudine che non destava quasi nessuna emozione. Ma un grosso tributo gli italiani lo hanno dato anche emigrando all’estero e rinviando al paese un continuo e consistente flusso di denaro, ossia le rimesse degli emigranti che consentirono all’Italia di riequilibrare i conti con l’estero gravati dagli acquisti di materie prime e di macchinari. Durante quello che è stata chiamato «il Miracolo economico», quasi 6 milioni di italiani sono emigrati all’estero, molti in Europa (Belgio, Germania, Francia) ma anche negli Usa, in Canada, nell’America del Sud, in Australia. Questo a segnalare anche che lo sviluppo di un paese da rurale a industriale non frena l’emigrazione, anzi la favorisce, perché implica migrazioni dalle campagne alle città e, una volta che si è abbandonato il proprio sito natale, allora si parte anche per l’estero a cercare fortuna. La vita degli italiani all’estero non è stata tutta rose e fiori. Al contrario, se i migranti interni hanno sofferto dell’avversione dei propri concittadini, quelli all’estero sono stati oggetto di veri e propri episodi di razzismo, non dissimili da quelli che oggi vediamo e condanniamo in Italia nei confronti degli im245

migrati extracomunitari. E a loro volta hanno creato tensioni e sentimenti razzisti contro i nuovi migranti. Ricordo di aver incontrato nel 1965 sul treno da Roma a Bruxelles (24 ore di viaggio) due emigrati italiani residenti in Belgio, che erano rientrati in Italia (Calabria) per regolare uno sgarro fatto a una ragazza della loro famiglia. Mi dissero che erano emigrati nell’immediato dopoguerra, portandosi appresso le loro armi per essere comunque pronti alla rivoluzione proletaria, armi che ora erano altrettanto utili per difendere le loro donne dai turchi che (come loro) avevano iniziato ad emigrare in Belgio senza la famiglia. Questo a testimoniare delle difficoltà e delle tensioni che in quegli anni «gloriosi» hanno riguardato milioni di cittadini. Una vita difficile, quella dei migranti italiani, che molta letteratura e molti film hanno trattato con episodi e immagini rimasti nella nostra memoria, ma che non hanno impedito di considerare quegli anni come anni miracolosi. Sarebbe ora che ci decidessimo a cambiare di simbologia e di nomi per quel trentennio che fu di crescita sostenuta ma non certo miracolosa, perché basata sul sacrificio e la dedizione di milioni di italiani a cui dobbiamo riconoscenza.

Giovanni Bietti La musica classica va ascoltata in silenzio

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a musica classica va ascoltata in silenzio. Viene da chiedersi: ma è davvero un pregiudizio? Tralasciamo il fatto che la frase contiene un’inesattezza terminologica: la «musica classica» è, a rigore, solo quella scritta in ambito viennese in un arco di circa 35 anni, più o meno tra il 1780 e il 1815. «Classica» è la musica di Haydn, Mozart e Beethoven, insomma, e solo per estensione – e per il grande prestigio, il valore esemplare delle musiche scritte da questi tre compositori – il termine ha finito per definire tout court quella che sarebbe più appropriato chiamare «musica colta occidentale». Monteverdi, Bach, Stravinskij non sono «musicisti classici». Ma questo, come detto, non ci interessa. Ci interessa il fatto che ascoltare in silenzio la «musica classica» sembra il solo modo possibile di cogliere ogni sfumatura di questo inesauribile repertorio di suoni e di idee. Si va al concerto e si ascolta in silenzio, applaudendo solo quando il brano o il concerto sono terminati. Molti interpreti guardano male lo spettatore che tossisce, o che, arrivato in ritardo, entra imbarazzato in sala e cerca di raggiungere il proprio posto – disturbando altri ascoltatori che, naturalmente, sono seduti nel silenzio più assoluto. Questo è il modo in cui siamo abituati a fruire la musica classica, e proprio tale modalità di fruizione è, secondo molti, il motivo per cui tante persone (giovani prima di tutto, ma non solo) si tengono lontane dai teatri e dalle sale da concerto: sono intimidite dall’atmosfera quasi «sacrale», non la 247

capiscono e non la accettano. Si tratta di considerazioni ben note, cose che si continuano a ripetere da anni. E quindi, di nuovo: perché considerarle un pregiudizio? Per rispondere, basta riportare un paio di documenti d’epoca. C’è per esempio una famosa lettera di Mozart al padre, scritta nel luglio 1778, nella quale il compositore racconta l’accoglienza che il pubblico parigino riservò all’ultimo movimento della sua Sinfonia K. 297 (la cosiddetta sinfonia «Parigina», per l’appunto). Scrive Mozart: Poiché avevo sentito che qui tutti gli Allegri conclusivi cominciano come quelli iniziali, con tutti gli strumenti insieme e per lo più all’unisono, io ho cominciato piano con i due violini soli, soltanto per otto battute, e immediatamente dopo con un forte. In questo modo gli ascoltatori, come avevo previsto, al momento del piano hanno fatto: sst, poi è venuto immediatamente il forte e sentire il forte e battere le mani per loro è stato un tutt’uno. Così, per la felicità, subito dopo la sinfonia sono andato al Palais Royal a gustarmi un buon gelato1.

Dunque Mozart non solo accettava che il pubblico applaudisse nel bel mezzo di un brano, ma ricercava appositamente l’applauso inserendo in punti strategici materiali musicali particolarmente eloquenti, innovativi o spettacolari. Il compositore insomma interagiva con il pubblico, giocava con le convenzioni, stimolava una reazione e una risposta. Circa mezzo secolo più tardi Robert Schumann riporta un’esperienza che oggi ci appare altrettanto singolare, durante un concerto nel quale veniva eseguita la Nona Sinfonia di Beethoven: un’accesa discussione con il suo vicino, il quale si lamentava dell’eccessiva asprezza di alcune dissonanze nell’ultimo movimento del capolavoro beethoveniano2. Applaudire, commentare, perfino discutere durante un concerto – e anche se il programma prevedeva la Nona di Beethoven! – era considerato del tutto normale. E durante 248

l’esecuzione di un’opera lirica i commenti, le rimostranze, le manifestazioni di approvazione, partigianeria, scherno o entusiasmo erano ancora più frequenti, e in un certo senso facevano parte del genere operistico stesso, della sua identità e della sua ricezione. (Di tutti i generi che rientrano nell’ampia galassia della cosiddetta musica classica, proprio nell’opera lirica si manifestano in modo più evidente alcuni echi dell’antico atteggiamento del pubblico: ancora oggi è frequente l’applauso durante un’aria, così come sono diffusi i fischi, o le esplosioni di entusiasmo da parte di una claque più o meno pilotata. L’opera resta per certi aspetti un genere popolare, amato da centinaia di migliaia di persone; e quindi il suo pubblico mantiene almeno in parte un rapporto «attivo» con l’esecuzione dal vivo. Non è un caso che l’opera sia forse l’unico genere classico nel quale ancora oggi si registrano scandali e proteste, per la qualità vocale degli interpreti o per le regie troppo «libere» e fantasiose.) Al giorno d’oggi un simile livello di interazione tra pubblico e musicisti è quasi impensabile. Forse rispetto a qualche decennio fa è un po’ più raro che un direttore d’orchestra fulmini con lo sguardo lo sprovveduto ascoltatore che applaude prima della fine del brano, o tra un movimento e l’altro; ma comunque i commenti, o gli applausi, o altre reazioni nel corso dell’esecuzione sono considerati inammissibili. Tutt’al più, si può concedere che il pubblico rida al momento del famoso colpo di timpani nel secondo movimento della Sorpresa di Haydn3, o che si alzi in piedi quando il coro intona l’Hallelujah di Händel. O ancor più eccezionalmente, si può tollerare che gli spettatori partecipino all’esecuzione di Va’ pensiero. (L’umorismo e il sentimento religioso o patriottico sono delle piccole «zone franche» del silenzio.) Il fatto di considerare il concerto classico come una sorta di cerimonia, un evento che va ascoltato in silenzio, ha delle ragioni storiche e sociali. Durante il concerto si celebrano i 249

concetti stessi di tradizione e di continuità culturale. L’esecuzione dà letteralmente vita a musica scritta cento o duecento anni fa, la fa rinascere4. L’idea è che attraverso la loro musica Mozart e Beethoven, Bach e Chopin continuino a parlarci. Logico quindi che questa esperienza, la possibilità di ascoltare la «voce» di qualcuno che ci parla da un passato lontano, implichi il rispetto e il silenzio. Ma a loro volta, rispetto e silenzio creano un problema: perché il messaggio della musica di Mozart o di Beethoven ci arrivi in tutta la sua portata, non è necessario che tale messaggio venga «attualizzato», messo in condizione di dialogare con la nostra epoca? Problema molto dibattuto, al quale il mondo della musica classica dà oggi risposte molto diverse5. Tra le più interessanti c’è senza dubbio la pratica, sempre più diffusa, di accompagnare ai suoni le parole: di spiegare il brano che si sta ascoltando, contestualizzandolo, rivelandone tecniche e materiali, familiarizzando così l’ascoltatore con il linguaggio di un’epoca o di un compositore e, nei casi più felici, mostrandone l’attualità. La mia esperienza è che la formula divulgativa della lezione-concerto, suonata e narrata, avvicina realmente l’ascoltatore (anche giovanissimo!)6 alla musica, lo rende più disponibile e curioso, e permette inoltre di creare un certo grado di interazione: il pubblico può sorridere, fare domande, partecipare. E l’interprete sarà a sua volta ben felice se un certo passaggio del brano crea negli ascoltatori un mormorio di approvazione, quel particolare brivido che si prova quando si riconosce qualcosa. Nel corso del processo che ha portato la musica classica ad assomigliare sempre più a una cerimonia, diverse cose sono andate perdute. In particolare si è finito per escludere dal repertorio tutto ciò che veniva reputato indegno di una cerimonia. Danze, canzoni, brani scherzosi, musica d’intrattenimento e «d’occasione»: quasi tutti i grandi compositori del passato hanno scritto anche questa musica, ma è rarissimo sentirla in

concerto. Quante volte avete ascoltato una delle raccolte di danze di Beethoven, o le sue armonizzazioni di canti popolari? Brani che non corrispondono all’immagine «eroica», titanica di Beethoven creata dall’immaginario occidentale negli ultimi due secoli; ma si tratta proprio dei brani che potrebbero più facilmente umanizzare, smitizzare tale immagine, eliminando gran parte della distanza e del timore reverenziale che il nome stesso del compositore suscita in tanti ascoltatori d’oggi7. E soprattutto si tratta di musica che sarebbe possibile, e forse più appropriato, non ascoltare in silenzio. Il fatto stesso che oggi sia possibile parlare dell’ascolto in silenzio come di un pregiudizio mostra che abbiamo perso la capacità di differenziare tra loro i diversi generi musicali, e di dare a ognuno il giusto valore. Il punto è che la stragrande maggioranza della musica eseguita e ascoltata ai nostri giorni è musica di consumo – e spesso «di sottofondo». Musica che presuppone proprio il fatto di non essere ascoltata in silenzio (e che nei casi più estremi forse non va nemmeno «ascoltata», solo «percepita»; ma è un altro discorso). Non c’è nulla di male, sia chiaro: come abbiamo visto, moltissimi compositori classici hanno scritto anche questa musica. Anche, per l’appunto. Scrivevano quartetti, sinfonie o messe, e allo stesso tempo danze, marce o canzoni. Brani appartenenti a generi diversi, con diverse funzioni sociali e estetiche. Una sinfonia spesso non veniva ascoltata in silenzio, ma la cosa fondamentale (lo dimostra la lettera mozartiana) è che le parole, i commenti, gli applausi che si verificavano nel corso dell’esecuzione riguardavano la musica stessa, reagivano ai suoi contenuti. Ci sono generi musicali che ricercano la complessità, che attraverso i suoni esplorano, tentano di dare un’immagine del mondo, della sua ricchezza e delle sue contraddizioni; spingono a riflettere, creano domande, stimolano a trovare risposte. Altri generi invece servono a socializzare, a ballare, a intrattenersi – o anche, perché no?, servono da sottofondo. L’importante è capire 251

queste differenze, accettarle: non mettere sullo stesso piano i diversi generi, visto che rispondono a esigenze diverse. Il fatto che un brano pop non venga in genere ascoltato in silenzio non vuol dire che sia automaticamente sbagliato ascoltare in silenzio un quartetto d’archi. Il silenzio può avere significati diversi, perfino una qualità diversa. Per questo ci sarà sempre qualcuno che avrà voglia di ascoltare musica classica, e preferibilmente (ma non sempre) in silenzio. Almeno finché non si svilupperà un genere sostitutivo, un genere che ricerchi la stessa complessità – e probabilmente questo nuovo genere, dopo qualche decennio di vita, verrà criticato perché esige di essere ascoltato in silenzio. Evidentemente il problema, in sé, non è l’ascoltare in silenzio. Ciò che conta è che il silenzio non sia un silenzio interiore, un silenzio dell’anima. Che la musica faccia risuonare qualcosa dentro di noi, generi domande, ci spinga a capire, a conoscere e a scoprire.

Tutte le lettere di Mozart, Zecchini, Varese 2011, vol. II, p. 908. «‘In fondo, signor Kantor’, dissi a un tale che fremeva accanto a me, ‘che cos’è questo se non una triade con un’appoggiatura sulla quinta e disposta in modo un po’ strano, dato che non si sa se considerare come basso il la dei timpani o il fa dei contrabbassi? Veda un po’ il Türk, cap. XIX, p. 7!’ – ‘Ah, signore, Lei parla un po’ troppo forte e certo sta scherzando!’ – Allora io, a bassa voce e con tono terribile, gli sibilai in un orecchio: ‘Kantor, si guardi dai temporali! Il fulmine non manda innanzi a sé un servitore in livrea prima di scoppiare; tutt’al più si fa precedere da un uragano e seguire da un colpo di tuono. Questa è la sua maniera’. – ‘Ma tali dissonanze devono ben essere preparate!’, e in quel momento ne arrivava giusto un’altra». In R. Schumann, Gli scritti critici, Ricordi-Lim, Milano-Lucca 1991, vol. I, p. 172. (N.B. Il termine «Kantor», qui usato in senso ironico, significa più o meno «Maestro», ma con una sfumatura obsoleta: allude scherzosamente all’atteggiamento reazionario dell’interlocutore.) 3 La Sinfonia n. 94 (1791), che è universalmente conosciuta con questo soprannome. 1 2

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Inutile dire che parlo qui dell’esecuzione dal vivo. La maggior parte della musica che si ascolta oggi è riprodotta, e sono certo che ciò abbia una decisiva influenza sulla pratica di «ascoltare in silenzio», visto che molto spesso si va al concerto, per così dire, preparati, conoscendo già almeno in parte ciò che viene eseguito, e che è fissato, cristallizzato attraverso una registrazione (un aspetto che non riguarda la sola «musica classica»). Ma non abbiamo lo spazio per sviluppare questo interessante argomento. 5 Alcuni autorevoli avversari delle cosiddette esecuzioni «filologiche», quelle che sulla carta cercano di ricostruire lo stile di esecuzione e la sonorità della musica di una certa epoca, sostengono che in realtà esse stiano semplicemente «modernizzando» quella musica (ad esempio adottando tempi rapidi e ritmi molto pronunciati, caratteristiche tipiche di tanta musica di consumo dei giorni nostri). Mi sembra che questa critica tocchi proprio il cuore del problema, e ci spinga a domandarci: ma se così fosse? È un male o un bene? 6 Sfatiamo un altro pregiudizio: non è vero che la classica è «musica solo per vecchi». 7 Sulla scomparsa dal repertorio delle composizioni più «leggere» di Beethoven cfr. il mio Ascoltare Beethoven, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 131-141. 4

Gino Roncaglia Gli adolescenti sono nativi digitali

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sistono davvero, i nativi digitali? E rappresentano davvero una mutazione antropologica, quasi si trattasse di una nuova specie? La vulgata televisiva e giornalistica sembra avere pochi dubbi, e usa questa espressione con frequenza e disinvoltura. Ma la realtà è ben diversa. Cominciamo da un po’ di storia. L’espressione «nativi digitali» è stata introdotta nel 2001 dallo statunitense Marc Prensky, insegnante e consulente nel campo dell’innovazione educativa1. Secondo Prensky i nativi digitali – ovvero la generazione nata dopo il 1985, data che coincide più o meno con l’avvio della penetrazione generalizzata dell’informatica personale nelle nostre case – «pensano e gestiscono l’informazione in maniera essenzialmente diversa rispetto ai loro predecessori». Una volta arrivati al college, hanno trascorso in media «solo 5000 ore leggendo, ma oltre 10.000 ore usando videogiochi». Il loro universo esperenziale è radicalmente diverso da quello dei loro genitori, che sono invece solo «immigrati digitali». Questo, associato al concetto di plasticità cerebrale (l’organizzazione dei collegamenti neurali cambia in funzione delle nostre esperienze e attività, e in particolare di quelle svolte con maggiore frequenza), porta Prensky a sostenere che «i cervelli dei nostri studenti sono cambiati fisicamente – e sono diversi dai nostri – come risultato del loro diverso modo di crescere». In seguito, in un articolo del 20092, lo stesso Prensky ha proposto di sostituire al concetto di nativi digitali quello di «digital 254

wisdom», più flessibile perché ammette gradazioni e la distinzione di competenze digitali diverse. È però rimasto fermo sull’idea di un sostanziale mutamento antropologico fra la generazione pre-digitale e la generazione digitale, tanto da introdurre l’espressione homo sapiens digital per identificare l’emergere di un nuovo tipo di persona «digitalmente arricchita». Le tesi di Prensky hanno suscitato un acceso dibattito. In Italia sono state riprese da Paolo Ferri, che ha intitolato proprio Nativi digitali un suo libro del 20113 (in seguito Ferri ha preferito l’espressione «nuovi bambini»4, senza però abbandonare l’idea di una differenza antropologica rispetto agli immigrati digitali), mentre sono state criticate da Roberto Casati5, Mirko Tavosanis6 e altri. Non proverò qui a ricostruire il dibattito, limitandomi a esporre le ragioni principali per cui l’idea dell’avvento di una generazione di «nativi digitali» antropologicamente diversi dalle generazioni precedenti mi sembra sbagliata. Innanzitutto, c’è un problema terminologico. Quando parliamo di digitale parliamo in realtà di una forma di codifica. Gli ‘0’ e gli ‘1’ del codice binario sono usati per rappresentare informazione (testi, immagini, suoni, video, istruzioni di programma...), ma a usare la codifica digitale è il computer, non l’uomo: è probabile che nel nostro cervello collaborino meccanismi di codifica dell’informazione basati su stati discreti e meccanismi basati su modifiche continue di stato, ma questa è tutt’altra questione. «Nativi digitali» non siamo dunque né noi né i nostri figli, ma semmai i nostri computer. Resta però la questione principale: al di là dell’espressione infelice, esiste davvero una differenza antropologica fra le generazioni precedenti e quelle successive alla rivoluzione digitale? Riassumerò qui, in maniera assai sintetica, tre motivi per cui questa tesi, nelle forme in cui è solitamente esposta, mi sembra insostenibile. Prensky ricorda che i bambini di oggi passano molto più tempo di quelli della generazione precedente davanti a un vi255

deogioco, e molto meno tempo a leggere. In realtà la seconda parte di questa affermazione è falsa, come mostra, in un altro dei saggi di questo libro, Giovanni Solimine. Ma indipendentemente da questo, la stessa considerazione era stata fatta negli anni Sessanta con il boom della televisione: anche in quel caso c’era stato chi aveva parlato di differenza antropologica fra le generazioni precedenti e di un nuovo «uomo televisivo». Si potrebbe andare ancora più indietro, alle generazioni cresciute con la radio, o all’avvento dell’automobile, ma... davvero vogliamo inventarci una mutazione antropologica ogni trent’anni? Non è molto più sensato parlare, anziché di mutazioni antropologiche, di evoluzioni e talvolta rivoluzioni tecnologiche e culturali, che influenzano il modo in cui noi – e non qualche nuova e diversa forma di umanità – interagiamo con il mondo e lo modifichiamo? Quanto all’argomento della plasticità cerebrale, mi sembra basato su un fraintendimento dei dati che vengono dalle neuroscienze. Certo, i collegamenti cerebrali sviluppati da chi utilizza ogni giorno i touch screen di uno smartphone sono nuovi e specifici, e dato che la plasticità è maggiore da giovani, guardiamo con invidia (o con preoccupazione) i nostri figli che digitano sulla tastiera virtuale a una velocità che non sapremo mai eguagliare. Ma esattamente la stessa plasticità cerebrale trasforma l’acqua in una seconda natura per il bambino che impara a nuotare da piccolo (e certo, da qualche parte nel suo cervello ci sono collegamenti neurali che non ci sono in chi non sa nuotare), senza che questo ci porti a considerarlo seriamente un uomo-pesce. Chi legge, chi scrive, chi guida, chi scia, ma anche chi si è abituato fin da piccolo a usare il telecomando della televisione e non capisce la difficoltà che incontrava il nonno per cambiare canale, «addestra» e modifica aree cerebrali specifiche. Ciascuno di noi la usa in modi diversi, ma la plasticità cerebrale è una caratteristica 256

comune degli esseri umani, non il fondamento di infinite mutazioni antropologiche. Ultima questione, non meno importante. Quale sarebbe, esattamente, la generazione dei «nativi digitali»? Nel 2001, quando Prensky scriveva i primi articoli sul tema, non esistevano ancora i tablet o gli smartphone. Interfacce informatiche, abitudini, competenze, dieta mediatica dei quindicenni del 2001 erano completamente diverse da quelle dei quindicenni di oggi (provate a mettere in mano un joystick a chi gioca a Pokémon Go sullo smartphone: non saprà cosa farsene, e forse non saprà neppure di cosa si tratti). Certo, si può eludere il problema parlando di generazioni diverse di nativi digitali. Ma le differenze sono così notevoli da rendere quantomeno problematico collegarle attraverso una presunta «intelligenza digitale» comune. Accantoniamo dunque l’idea – il pregiudizio – di un improvviso salto evolutivo fra l’homo sapiens e l’homo sapiens digital, fra immigrati e nativi digitali. Questo ovviamente non implica in alcun modo che le differenze fra prima e dopo la rivoluzione digitale – in particolare nell’ecosistema informativo e comunicativo delle nuove generazioni – non ci siano. Ci sono, e di enorme rilievo. Ma a queste differenze dobbiamo guardare nella loro articolazione, nella loro complessità, nella loro evoluzione, senza essere condizionati da uno schema interpretativo decisamente troppo semplicistico.

1 Marc Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, in On the Horizon, MCB University Press, vol. 9 No. 5, October 2001, in rete all’indirizzo http://www.marcprensky.com/writing/Prensky%20-%20Digital%20 Natives,%20Digital%20Immigrants%20-%20Part1.pdf, e Digital Natives, Digital Immigrants, Part II: Do They Really Think Differently?, in On

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the Horizon, MCB University Press, vol. 9 No. 6, December 2001, in rete all’indirizzo http://www.marcprensky.com/writing/Prensky%20-%20Digital%20Natives,%20Digital%20Immigrants%20-%20Part2.pdf. 2 H. Sapiens Digital: From Digital Immigrants and Digital Natives to Digital Wisdom, in Innovate: Journal of Online Education, vol. 5 issue 3, February/March 2009, in rete all’indirizzo http://nsuworks.nova. edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1020&context=innovate. 3 Paolo Ferri, Nativi digitali, Bruno Mondadori, Milano 2011. 4 Paolo Ferri, I nuovi bambini. Come educare i figli all’uso della tecnologia, senza diffidenze e paure, Rizzoli, Milano 2014. 5 Roberto Casati. Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, Laterza, Roma-Bari 2013, e Id., La balla dei nativi digitali, nel Domenicale de «Il Sole 24 Ore», 30 dicembre 2012. 6 Mirko Tavosanis, recensione a Paolo Ferri, Nativi digitali cit., nel blog Linguaggio e scrittura, 16 aprile 2013, in rete all’indirizzo http:// linguaggiodelweb.blogspot.mk/2013/04/ferri-nativi-digitali.html.

Antonio Canu Per le tue vacanze, ecco qua un angolo di natura incontaminata

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al 1992, una simpatica comitiva di 28.800 paperelle di gomma gialle con il becco schiuso arancione, quelle che solitamente fanno compagnia nella vasca da bagno ai nostri figli, sono alla deriva nei mari del mondo. Alcune si sono arenate, altre sono finite nello stomaco di balene e squali, altre, la maggioranza, navigano ancora. Tutto comincia con una tempesta che colpisce un cargo partito da Hong Kong e destinato a Tacoma negli Stati Uniti. La merce a bordo è composta dalle allegre paperelle, ma anche da rane verdi, castori rossi e tartarughe blu. La violenza del mare provoca la caduta in mare di due container e ne libera il contenuto. Da allora le paperelle hanno galleggiato sulla cresta delle onde per circa 30.000 chilometri. Un gruppo, il più numeroso, si è diretto verso sud, ed è stato avvistato in Australia e alle Hawaii. L’altro ha puntato sul versante opposto, ha attraversato lo Stretto di Bering tra la Russia e l’Alaska, affrontando il gelo del mare nordico. Il viaggio delle paperelle non è ancora finito e ogni tanto se ne recupera qualcuna. A circa 5000 metri di profondità della Fossa delle Marianne, la depressione più profonda dei nostri oceani, nel buio più nero degli abissi, alcuni ricercatori hanno illuminato nuove specie di creature marine, tra cui meduse e pesci dalle forme straordinarie. La scoperta non si è esaurita lì. Come se fossero di fronte al classico fondale dei mari di casa o alla riviera agostana, il fascio di luce ha rivelato anche resti di normale spazzatura. 259

Negli angoli più remoti della foresta amazzonica, gli indios di una tribù incontattata quando vedono transitare un aereo puntano archi e frecce verso il cielo. Anche se sono ormai abituati al rombo dei motori, l’evento provoca ancora attacchi di panico. Tre storie diverse, tra le tante, per un solo dato di fatto. Sul nostro Pianeta, non c’è alcun luogo incontaminato. Certamente nel mondo sopravvivono aree più conservate di altre, ma nessuna è immune da un contatto storico o recente con l’uomo. Sia diretto che indiretto. Anche le terre apparentemente più integre, possiedono un segno, magari impercettibile alla vista, riconducibile alle attività umane. Fin dai primi passi sulla Terra, l’uomo ha lasciato la sua impronta. In particolare, da quando da raccoglitore e cacciatore si è trasformato anche in agricoltore e allevatore. Circa 10.000 anni fa. Il taglio delle foreste, gli incendi, lo sfruttamento della terra, le prime opere ingegneristiche, hanno trasformato il territorio originario. Liberando nell’aria i primi scarti di attività. Il processo di distruzione e contaminazione del Pianeta è continuato con il passare dei secoli, accelerando negli ultimi due. Quando Roald Amundsen raggiunse l’Antartide, i ghiacci avevano già assorbito da almeno vent’anni scarti di piombo provenienti dalle attività di estrazione mineraria di Broken Hill, nell’Australia meridionale. Negli specchi d’acqua del nord del Pianeta, alla fine dell’Ottocento c’erano già tracce d’inquinamento da azoto. Le fonti d’origine erano lontane migliaia di chilometri. La prima bomba atomica del mondo ha una data precisa: il 16 luglio 1945. Siamo nel deserto del New Messico. Da allora è cominciata un’era di attività nucleari che lascerà isotopi radioattivi per milioni anni. Quasi tre quarti della Terra è stata ridisegnata in qualche modo dall’uomo. I grandi cicli biogeochimici, a cominciare da quello del carbonio, sono stati modificati. Questo significa che l’uomo ha alterato la componente chimica dell’atmosfera e gli scambi tra gli elementi. Le 260

emissioni di anidride carbonica crescono più rapidamente di quanto già previsto e la responsabilità umana è ormai accertata. La temperatura sulla Terra è cresciuta dello 0,7°C a causa dell’effetto serra e si rischia di andare oltre la soglia accettabile, cioè dei 2°C. Non c’è area al mondo che non sia influenzata dai cambiamenti climatici. Siamo di fatto in un’era nuova. Imprevista e imprevedibile. Il premio Nobel per la chimica, Paul Crutzen, l’ha definita Antropocene. Per caratterizzare un’epoca geologica dominata dall’uomo. Quando abbia avuto origine, non si sa chiaramente. O meglio, ci sono varie teorie, da molto indietro nel tempo, cioè almeno 13.000 anni fa, a date più recenti, come l’avvio della prima Rivoluzione industriale. Poco importa. Oggi sul Pianeta vivono più di 7 miliardi di individui. La crescita della popolazione umana ha seguito un ritmo più simile a quello di organismi semplici che a quello tipico di una specie di primate, come è classificato l’uomo. La domanda di risorse necessarie alla sopravvivenza è già oltre il 50% di ciò che i sistemi naturali sono in grado di rigenerare. Sarebbero necessarie una Terra e mezza per sostenere la nostra attuale impronta ecologica. L’umanità sposta ogni anno 30 chilometri cubi di roccia, rifiuti, sabbia e carbone. Tramite l’uomo sempre più specie vivono in luoghi diversi da quelli originari. Sono chiamate specie aliene, in realtà sono solo migranti forzati. Come ogni epoca che si rispetti, è in corso anche una nuova estinzione di massa. La sesta. E per la prima volta nella storia del Pianeta, non a causa di cambiamenti climatici, esplosioni di vulcani, meteoriti. Ha origini soltanto antropiche. L’attuale tasso di estinzione è di circa 100 volte più elevato del normale. E riguarda le specie conosciute. Quelle ancora da scoprire, scompariranno prima di avere un nome. Insomma la natura incontaminata non esiste. Dal momento che si propone, è già stata contagiata. Da ragazzo non accettavo l’idea che ci fossero confini alla vita selvatica. Appassionato 261

dei grandi mammiferi africani, già l’idea che in molti fossero rifugiati nei grandi parchi africani, mi trasmetteva tristezza. Senso di solitudine. Oggi, riconosco che senza quei parchi avremmo perso per sempre testimonianze preziose della vita sulla Terra. Dare una spiegazione all’Antropocene è soltanto una parte del problema. Quella vera è come viverci in maniera sostenibile. La vera sfida dell’uomo sulla Terra. Che non è più incontaminata, ma è l’unica che abbiamo.

Valerio Castronovo Il Nord ha colonizzato il Sud

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er parecchio ha tenuto banco nella pubblicistica, e ancor oggi rispunta qualche retaggio di quella vecchia polemica, la tesi secondo la quale il Mezzogiorno, all’indomani dell’unificazione nazionale, è stato «colonizzato» dal Nord. Ebbene, perché si possa sostenere che sia avvenuto un processo del genere, occorre dimostrare che esistevano a quel tempo due precipue circostanze: ossia, che i «colonizzatori» avessero tutto l’interesse ad assoggettare ai loro fini le regioni del Sud, in quanto esse erano in condizioni economiche tali da risultare particolarmente fruttuose per quanti ne fossero venuti a disporre; o che esse annoverassero comunque alcune risorse importanti di cui i «colonizzatori» erano privi e che potevano perciò supplire al loro fabbisogno. Senonché, tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento, il Nord si trovava da tempo in una posizione più vantaggiosa e proficua rispetto al Sud, per via di alcuni fattori sia di ordine strutturale che di natura socio-istituzionale. Quanto alla prima di queste disparità, essa era dovuta alla situazione esistente nel settore agricolo e fondiario; quanto alla seconda, essa aveva a che fare con le cosiddette «precondizioni» dello sviluppo. Nel Mezzogiorno l’ordinamento più diffuso era quello cerealicolo-pastorale; e nelle campagne dominava la proprietà nobiliare, in possesso di grandi possedimenti estensivi di terra, e a capo di un regime contrattuale oppressivo nei confronti di coloni e braccianti. Perciò era poco incline in genere a rinno263

vare i metodi di coltivazione, per conseguire reali incrementi di produttività, in quanto mirava soprattutto a mantenere determinate rendite di posizione. D’altra parte, fatta eccezione per alcune zone a colture arboree, quelle a latifondo erano lasciate in parte incolte, anche perché difficili da dissodare; per di più esistevano larghi tratti di pianura paludosi e infestati dalla malaria. Al Nord una conduzione delle terre di tipo capitalistico, basata sullo sviluppo degli investimenti fondiari e su un’agricoltura a rotazione continua, sulla divisione del lavoro e sulla coltura dei foraggi, aveva cominciato a sbocciare, seppur ancora circoscritta ad alcuni comprensori in Val padana. Inoltre una serie di norme, risalenti al decennio «napoleonico» o emanate successivamente, avevano reso possibile la libera disponibilità della proprietà e affrancato da vetusti vincoli corporativi la circolazione dei capitali e delle merci. Anche le fortune accumulate con la coltura del gelso e l’aumento dei prezzi di alcuni prodotti agricoli (come il riso e i latticini) avevano stimolato l’interesse a migliorare i sistemi di coltivazione nelle piane tra il Piemonte e la Lombardia. Maggiore consistenza avevano frattanto assunto, con l’allevamento stabulare del bestiame, il numero dei capi bovini e la produzione casearia; mentre s’era estesa la coltivazione del mais, della patata e della barbabietola da zucchero. È vero che man mano che ci si allontanava dalle tenute della «bassa» padana lo sfruttamento del suolo si basava su vecchi contratti misti di colonia parziaria e di piccolo affitto, nonché sul frazionamento della proprietà in minuscoli pezzi di terra, sufficienti solo per l’autosostentamento delle famiglie contadine. Ma in complesso esisteva nelle campagne del Nord un sistema agricolo più articolato e in via di graduale evoluzione, aperto quindi all’ascesa di alcuni strati più intraprendenti di borghesia rurale. 264

Indipendentemente dall’esistenza o meno di un certo dislivello di redditi fra l’una e l’altra sezione del paese, precisamente accertabile al momento dell’Unità, militavano a favore del Nord alcuni indicatori di carattere sociale: come, un grado più diffuso di alfabetizzazione, la possibilità per i ceti contadini di acquisire proventi addizionali con l’emigrazione stagionale in contrade estere contigue, una polarizzazione meno accentuata fra le diverse classi, una maggiore speranza di vita, oltre al fatto che non esistevano diffuse forme di criminalità organizzata, quali la camorra e la mafia. Ma quel che contava soprattutto, agli effetti di un processo di crescita nel medio-lungo periodo, era la disponibilità nel Settentrione, rispetto al Mezzogiorno, di un complesso più consistente di infrastrutture (dalle comunicazioni stradali ai trasporti ferroviari, da acque fluviali in parte navigabili agli scali portuali, dalle casse rurali agli istituti di credito ordinario, dalle fonti di energia idraulica ai centri di negoziazione dei prodotti del suolo e dei manufatti). Che il Sud non costituisse un «mercato coloniale» per il Nord, e che non lo sarebbe divenuto neppure successivamente nel corso dell’Ottocento, lo attesta innanzitutto il fatto che i rapporti commerciali fra il Settentrione e il Meridione erano relativamente scarsi, anche perché non si basavano su adeguate strutture d’intermediazione. D’altronde, salvo lo zolfo siciliano che peraltro veniva esportato quasi interamente all’estero, il Mezzogiorno era privo di giacimenti di qualche importanza, né disponeva di minerali di ferro che potessero dare avvio a un’industria metallurgica più robusta di quella attiva al Centro-Nord, nel bacino dell’alto Tirreno, nella bassa montagna piemontese e lombarda o in Val d’Aosta. A ogni modo, per il Settentrione rivestivano grande importanza le relazioni con la Francia e la Svizzera, nonché con il Belgio e la Gran Bretagna. E ciò grazie soprattutto all’esportazione della seta greggia e filotaiata, fiore all’occhiello della 265

sua agricoltura e delle sue manifatture tessili. Si trattava di autentiche «finestre» sull’Europa attraverso le quali il Nord si procurava anche apporti di know how per alcune sue incipienti iniziative imprenditoriali. È vero che pure il Sud aveva man mano incrementato le esportazioni di olio, di agrumi e di vini. Tuttavia subiva la concorrenza degli oli algerini, tunisini e del Levante. Inoltre la Spagna aveva fatto ingresso sul mercato europeo per gli agrumi e i vini. Ai divari fra Nord e Sud fin qui elencati, va aggiunta la maggiore ricettività alle innovazioni, incoraggiata nelle regioni settentrionali dall’azione dei governi e dall’opera di vari sodalizi tecnici e scientifici.

Enrico Giovannini I numeri parlano da soli

«I

dati vanno considerati dati». L’italiano è l’unica lingua in cui si può fare questo gioco di parole. Peccato che l’Italia sia uno dei paesi in cui questa frase abbia meno senso, visti i comportamenti dei politici, degli opinion makers e dei media, sia classici che social. Qualche esempio può aiutare a capire di cosa stiamo parlando. Il 10 agosto 2016 Rosaria Amato, sul blog «Percentualmente» del sito www.repubblica.it, commentando l’indagine annuale dell’Istat sulla conoscenza dei dati economici da parte delle famiglie italiane, nota le discrepanze tra i dati ufficiali effettivi relativi all’inflazione (-0,1% per il 2015 e -0,2% per il 2016) e quelli che, secondo i rispondenti, sarebbero i dati ufficiali (4,5% e 3,8% rispettivamente) e ricorda l’annosa questione della distanza tra l’inflazione misurata dall’Istat e quella «percepita», soprattutto all’indomani dell’avvio dell’introduzione dell’euro. Il 12 agosto 2016 l’Istat pubblica la stima preliminare dell’andamento del Pil nel secondo trimestre: +0,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, 0,0 rispetto al trimestre precedente. Alcuni commentatori (più favorevoli al governo) si concentrano sul primo dato, altri (più critici nei confronti del governo) sul secondo; altri ancora sul fatto che ambedue i dati segnalano come la performance italiana sia nettamente inferiore a quella europea e, quindi, sottolineano la «sindrome» della bassa crescita che affligge la nostra economia da circa 20 anni. 267

Due settimane dopo il presidente del Consiglio Renzi diffonde alcune slides che illustrano i risultati ottenuti in campo economico e sociale, comparando dati statistici relativi al momento attuale con quelli relativi al momento dell’insediamento del governo; il dossier si apre con la seguente affermazione: «Siamo bombardati dai numeri, dalle statistiche, dalle cifre. E sembra impossibile conoscere la verità. Tuttavia, dire la verità in modo semplice e chiaro è possibile. Poi ognuno si fa una propria opinione. Ma i numeri sono chiari. Le cifre non mentono». Ovviamente, come sottolineato da vari commentatori, i dati proposti nel dossier sono tutti lusinghieri, mentre vengono omessi quelli meno positivi (come l’andamento del rapporto debito pubblico/Pil). Questi recentissimi esempi confermano il modo «insoddisfacente» (per usare un eufemismo) con il quale l’opinione pubblica italiana recepisce e discute i dati statistici. Sarebbe facile attribuire tutto ciò all’ignoranza di molti politici e giornalisti in materia statistica, o alla «nornale» dialettica politica, per cui ognuno cerca di usare le informazioni a proprio favore o contro gli avversari, o, ancora, all’eccesso di «chiacchericcio» che caratterizzza il dibattito pubblico nel nostro paese. In realtà, il problema ha diverse spiegazioni e non riguarda solo il nostro paese. La prima spiegazione è di natura tecnica. In primo luogo, va ricordato che tutti i dati statistici sono originati, usando metodologie diverse (alcune più valide, altre meno), a partire da schemi concettuali che, a loro volta, dipendono da particolari «visioni» del mondo. Ad esempio, il Pil non include il valore del lavoro domestico non retribuito o dell’attività di cura svolta gratuitamente, anche se ambedue sono rilevanti per il benessere di una famiglia o di una collettività. Questo ci mostra che un dato costruito secondo certi criteri non è adatto a misurare fenomeni concettualmente diversi. Ovviamente, poiché i vari fenomeni possono essere legati tra 268

di loro, un certo dato può essere considerato un indicatore indiretto (proxy) di un altro. Ma tali legami possono cambiare nel tempo o essere volatili. Ad esempio, all’aumento del Pil è unanimanente associata un’idea di miglioramento del benessere, ma può accadere che nel 2015 il Pil italiano e l’occupazione aumentino, mentre la speranza di vita (altro classico indicatore del benessere) diminuisca. In secondo luogo, esiste una relazione negativa tra precisione del dato e la sua tempestività. Poiché raccogliere ed elaborare dati richiede tempo, una maggiore tempestività può voler dire più ampie revisioni della stima iniziale. I casi in cui la revisione dei dati ha determinato cambiamenti nelle politiche sono numerosissimi: si pensi alla revisione dei dati sui salari del Regno Unito di alcuni anni fa, che determinò un cambiamento radicale nella politica monetaria di quel paese, o a quella riguardante il deficit e il debito pubblico della Grecia, che innescò la crisi dell’Eurozona. L’Italia è uno dei paesi in cui le revisioni (su cui incidono anche le tecniche di destagionalizzazione) degli indicatori macroeconomici sono abbastanza contenute, ma ciò non toglie che in alcuni casi esse possano assumere un grande rilievo politico. Ad esempio, se si guardano le variazioni congiunturali (cioè rispetto al trimestre precedente) del Pil pubblicate dall’Istat il 12 agosto 2016, si vede chiaramente che la recessione avviata nel terzo trimestre del 2011 si era interrotta nel terzo trimestre del 2013, dopo pochi mesi di attività del governo Letta. Ma la stima preliminare pubblicata a novembre di quell’anno segnalava ancora una contrazione del Pil, il che alimentò critiche all’efficacia dell’azione di quel governo. Analoga situazione si manifestò con riferimento al tasso di disoccupazione: secondo il comunicato stampa pubblicato a gennaio del 2014, l’ultimo prima della caduta del governo Letta, il tasso di disoccupazione era salito dal 12,0% di aprile 2013 al 12,8% di novembre, mentre guardando al comunicato stampa di agosto 269

2016 il tasso di disoccupazione a novembre 2013 era, in realtà, pari al 12,3%, lo stesso valore di tre mesi prima. La terza spiegazione riguarda il comportamento dei media. Si pensi al caso dei dati sul mercato del lavoro relativi al 2015. La pubblicazione, quasi simultanea, da parte del ministero del Lavoro, dell’Inps e dell’Istat di dati riferiti a diverse categorie di lavoro e basati su metodologie diverse fu utilizzata per la propaganda politica a favore o contro il «Jobs Act». I dati parziali delle prime due fonti vennero pubblicizzati dai mezzi d’informazione alla stessa stregua dei dati complessivi forniti dall’Istat, creando grande confusione nell’opinione pubblica (forse è per questo che la citata rilevazione Istat condotta all’inizio del 2016 segnala un forte peggiornamento rispetto all’anno precedente nel giudizio dei cittadini sulla qualità dell’informazione statistica economica disponibile). In conclusione, il rapporto tra dati, comunicazione, percezioni e scelte politiche è complesso1 e dipende dalla serietà e dai comportamenti di tutti gli attori coinvolti in questo processo. Molto si può fare, soprattutto per migliorare la cultura statistica tra i giornalisti, anche allo scopo di sanzionare distorsioni intenzionali dei dati da parte dei politici, soprattutto nei talk show. Ad esempio, si potrebbe prendere spunto dalla recentissima analisi delle pratiche adottate dalla BBC nella diffusione di dati statistici o riprendere i corsi di Data Journalism che avevo avviato quando ero presidente dell’Istat. L’istituzione di un data editor in ciascuna testata aiuterebbe anche a migliorare le pratiche seguite, soprattutto dalle televisioni e dai social media. Se le statistiche sono sempre più la linfa vitale della democrazia non è possibile trascurare questa questione, soprattutto nell’epoca dalla cosiddetta data revolution2, in cui produrre dati non è mai stato così semplice e poco costoso. Come notato dal «New York Times», la proliferazione di fonti che elaborano e diffondono dati, e la difficoltà dell’opinione pubblica nel di270

stinguere tra dati di buona e di cattiva qualità si riflettono nella mancata «sanzione» da parte degli elettori di quei politici che usano dati falsi per sostenere le proprie posizioni. Forse si è veramente entrati nell’era della politica «post-verità», in cui siamo sommersi da dati, ma i fatti scompaiono.

1 Per un approfondimento di questi temi si veda il mio libro Scegliere il futuro. Conoscenza e politica al tempo dei big data, il Mulino, Bologna 2014. 2 Si veda il rapporto A World that Counts, disponibile sul sito www. undatarevolution.org.

Paola Concia Gli omosessuali sono sensibili

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io fratello non è ricchione, è raffinato»: è una frase dal film del 2002 La leggenda di Al, John e Jack con Aldo, Giovanni e Giacomo; potrei spaziare ancora fino a Il padrino in cui Vito Corleone rimprovera Johnny Fontane perché sta piangendo quindi non è uomo, oppure a Johnny Stecchino il cui protagonista, impersonato da Roberto Benigni, definisce baci e tenerezza roba da «uominisessuali». Sensibilità e, se si vuole usare un termine alternativo, raffinatezza si attribuiscono spesso, a vanvera, agli omosessuali. Essere sensibile diventa prerogativa deviata di persone diverse dalla norma. Amiche e amici, vi rivelo un segreto: qualsiasi cosa pensiate delle caricature che si vedono in giro, gay e lesbiche non vi corrispondono. Sono persone che a tutti gli effetti appaiono, si comportano, pensano e agiscono come i loro simili cosiddetti normali. Pensare che gli omosessuali siano sensibili li rende riconoscibili: se incontro un uomo il cui atteggiamento è dolce, remissivo, delicato devo «per forza» immaginare che la sua mascolinità sia traballante, quindi sia gay. È un segno distintivo che sottolinea il diverso, un marchio utile per non sbagliare giudizio confondendo il normale con chi non è considerato tale. La presunta sensibilità degli omosessuali risponde in pieno alle esigenze di categorizzazione di un mondo che ha paura del diverso: nei secoli, chi non accettava il diverso aveva la necessità di identificarlo con precisione per poterlo emarginare

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in modo che non fosse pericoloso. Un diverso che si confonde con i normali fa molta paura. Il pregiudizio contagia chiunque abbia mente e cuore chiusi, a prescindere dall’orientamento sessuale: non pensiate che gay e lesbiche siano del tutto immuni da comportamenti tendenzialmente attribuibili agli eterosessuali. So di rendermi sgradita dicendo così, ma a volte alcuni uomini gay sono piuttosto misogini: il motivo potrebbe essere la competizione per la conquista dei maschi, anche se non sono mai riuscita a cogliere il motivo di un atteggiamento contrario al buonsenso. Esiste una descrizione classica: senza soffermarmi sulla diplomazia verbale, i gay si definiscono checche e le lesbiche camioniste o butch. È così che ci descrivono: gli omosessuali secondo il pensiero comune dovrebbero essere delicati fragili, effeminati e, appunto, sensibili, mentre le lesbiche dovrebbero essere mascoline e aggressive. Uomini che si atteggiano a donne, donne che si atteggiano a uomini: ma chi l’ha detto? È una caricatura: questi stereotipi a lungo sono stati prigioni durissime per gay e lesbiche, ma per fortuna le cose stanno cambiando. Come sia nata l’idea che le donne omosessuali debbano essere virili mi sfugge: dalla prima donna che ho molto amato, femminile e bellissima e sogno erotico per tanti uomini, a tutte le donne che successivamente ho frequentato non ho mai scelto una mascolina. Anzi: ho incontrato e amato donne i cui tratti e modi sono sempre stati il massimo della femminilità, rifuggendo da quelle che si mostravano aggressive e ansiose di trasformarsi in esemplari maschi esasperati. Sono lesbica perché mi piacciono le donne. Quanto agli uomini, non ho mai sopportato gli eccessivamente sensibili e ho avuto la fortuna di imparare molto presto che i miei amici gay non lo sono quasi mai. Non nego che esistano persone che provano a incarnare gli stereotipi di cui stiamo parlando: le lesbiche con comportamento molto maschile, per esempio, sono state sopraffatte 273

dall’idea che per amare le donne devi essere maschio, quindi si rendono uomini (non potendolo essere) nell’illusione che funzioni. La realtà è diversa: per me come per tante altre vivere serenamente l’omosessualità è stato ed è una riconquista piena della femminilità. Non mi sento mai tanto donna come nella relazione sensuale e sentimentale con una donna. Per andare alla sensibilità degli omosessuali, è come se non si potesse essere uomini sensibili senza essere gay: nell’idea più diffusa e comune all’uomo vero (e sul termine vero usato solo per l’eterosessuale potremmo discutere mesi) è precluso piangere, avere paura, dimostrare insicurezza e fragilità. Gli uomini sensibili sono anomali quindi gay, le donne sensibili invece vanno bene e sono normali: quando si incontrano donne con un carattere forte e il piglio deciso il dubbio che sorge è che sia lesbica. La donna forte e poco sensibile è anomala. Siamo sicuri che queste equazioni funzionino? La verità è che oggi non solo esistono problemi con chi ha identità sessuali differenti dalla maggioranza, ma la difficoltà esiste anche nei confronti della sensibilità in sé stessa. La sensibilità è pericolosa e scomoda, è un tratto incompatibile con la possibilità di sopravvivere efficacemente nel mondo adulto. La sensibilità è una trappola: la sua ombra oscura – che chiameremo fragilità – si riversa su omosessuali ed eterosessuali, uomini e donne. È una piaga. È come se essere sensibili diventasse colpa o difetto: «Scusi se piango»; chiedere perdono per una manifestazione di sensibilità è ormai un automatismo comportamentale. Il pregiudizio diventa banalità e, come tale, incastra chiunque: la sensibilità attribuita agli omosessuali è uno di questi casi. Succede che non ci si senta colpevoli per una mezza battuta a voce bassa su un uomo che sembra gay perché non è un bruto con la clava che martirizza chi ha intorno, non si percepisce il pericolo nel sorridere di una voce maschile un po’ effeminata o di scelte estetiche che vanno al di fuori dei 274

canoni della moda maschile. Non si nota quasi la misoginia se una donna è valutata omo o eterosessuale in base all’empatia nelle decisioni, alla capacità di fare fronte agli stress, all’aggressività che dimostra nelle relazioni. Quanto sarebbe meglio se accogliessimo la sensibilità come preludio utile e necessario per due meravigliose conseguenze: la pace e l’accettazione di sé e degli altri così come sono. Chiudo con una battuta: se ci pensate sarebbe auspicabile un mondo in cui gli eterosessuali fossero sensibili e gli omosessuali dei «veri duri». Come è noto, noi omosessuali siamo la minoranza.

Claudia de Lillo (alias Elasti) Mogli e buoi dei paesi tuoi

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ei veniva da Milano, dove viveva, insieme a sua madre, manager in carriera austera e autoritaria, in un appartamento minimalista e silenzioso. In quel ménage binario e femminile ognuna di loro conduceva la propria vita in autonomia. Si parlavano il giusto, si incontravano saltuariamente e, quando capitava, consumavano insieme pasti frugali, a base di crema di piselli o pomodori ciliegini, sedute sul tappeto persiano del salotto, giocando interminabili partite di Scala 40, in francese. Già. Perché quando lei compì undici anni, la madre disse: «Da oggi, se vuoi comunicare con me, devi parlare in francese». «Ma io il francese non lo conosco», rispose la figlia. «Allora vedi di impararlo in fretta», furono le ultime parole materne in italiano. All’epoca dei fatti lei, cresciuta, nonostante il francese e il genere, come un uomo dell’esercito prussiano, sotto l’influsso dell’imperativo «Hop hop!», pronunciato dalla madre ogniqualvolta comparisse un segnale di lassismo o insubordinazione, frequentava, con disciplina ma senza entusiasmo, l’Università Bocconi (tradotto dal francese: «Devi iscriverti a Economia e Commercio». «L’economia mi fa orrore, per non parlare del commercio». «Hop hop!»). Quando non studiava, praticava la ginnastica aerobica, faceva volontariato in ambulanza, dava ripetizioni di francese a ragazzetti indolenti, il mercoledì andava a teatro, il giovedì al cineforum, il sabato sera incontrava 276

i suoi amici alla fermata Loreto della metropolitana milanese. L’inattività le provocava horror vacui e secchezza delle fauci. Lui veniva da Bari ed era cresciuto giocando a pallone nei cortili di un enorme condominio di periferia, costruito negli anni Settanta dalla cooperativa Lo Russo di cui i suoi genitori erano soci fondatori. Al decimo piano c’era casa sua, all’undicesimo viveva il nonno bersagliere, al nono la zia Marisa, con lo zio Nino e i cugini Lello e Carla. La zia Luisella e lo zio Enzo, con il piccolo Mimmo, essendo i più altolocati della famiglia, occupavano l’appartamento al quattordicesimo. Sua madre, donna passionale, sanguigna e battagliera, era il capo indiscusso del decimo piano, ma anche del nono e di tutti gli altri. Aveva tirato su i tre figli a taralli e vis polemica. A casa loro qualsiasi occasione – un nuovo paio di scarpe, un commento casuale, un voto a scuola, un titolo di giornale, le previsioni del tempo – era un buon motivo per discutere, litigare e scatenare una guerra. Il padre, uomo paziente e saggio, amava gli zoccoli, che chiamava «chianelle», le camicie logore, a cui tagliava il colletto («Così sto più fresco») e, quando l’entropia familiare superava i livelli di guardia, si rifugiava in uno stanzino zeppo di carte e vecchie fotografie. I fratelli erano differenziati per genere: un adolescente maschio con una lunga chioma e un’adolescente femmina diffidente e spigolosa. Vivevano in rissosa simbiosi e ascoltavano musica a un volume superiore all’umana sopportazione. Lui, raggiunta la maggiore età, andò a studiare Economia fuorisede. No, non a Milano perché era una città che odiava, pur non avendola mai vista. Stava a Siena, dove divideva una stanza con un taciturno ragazzo lucano che si chiamava Saverio e studiava Informatica. Entrambi sopravvissero a quegli anni di stenti e privazioni solo grazie al cosiddetto «pacco da giù», contenente pane casereccio, melanzane sott’olio e scarmorza affumicata, inviato con regolarità dall’amorevole madre di Saverio. 277

Lui, il barese fuorisede, aveva un’aria stropicciata, lo sguardo stralunato e capelli ricci e pazzi, che formavano un panettone sulla testa. Portava vecchie felpe con il cappuccio, una giacca di jeans strappata e occhiali con enormi lenti rotonde, che gli coprivano quasi tutta la faccia. Era cerimonioso, logorroico e dubitava di rado. Lei, la milanese, suo malgrado francofona, aveva una chioma ipertrofica, l’aria inquieta e gli occhi grandi. Allo specchio, si vedeva insipida: un giorno troppo grassa e quello dopo troppo magra. Era curiosa, un po’ nevrotica e taciturna. Circostanze fortuite e casuali, con probabilità tendenti allo zero, li fecero incontrare una sera, a Londra, in un pensionato universitario, mentre l’Italia perdeva i Mondiali contro il Brasile. Quando lei vide lui si domandò: «Perché costui urla così tanto quando parla? Che fastidio». Quando lui si accorse di lei pensò: «È la classica milanese bocconiana inappetente. Che tristezza». Due giorni dopo si stavano baciando seduti sotto una pensilina, alla fermata di un autobus a due piani. Era il luglio del 1994 e pioveva a dirotto. Quel settembre lui le fece una sorpresa: andò a Milano e bussò alla porta dell’appartamento minimalista e silenzioso, armato del suo migliore sorriso e di due mazzolini di viole: uno per la figlia e uno per la madre che pronunciò un diffidente «merci» e sparì, insieme ai fiori. «Non ti illudere!», le disse la signora Brambilla del terzo piano. «Gli uomini del Sud sono così: i primi tempi ti coprono di regali, poi si infilano le pantofole e ti riducono in schiavitù». «Davvero? E lei come lo sa?». «Me lo ha detto il Gino, mio cognato». «Ma non è di Busto Arsizio?». «E allora? Le vacanze le fa giù nel Meridione. Da sempre. Quindi conosce bene gli usi e i costumi locali». «Ah». «Già». A ottobre lei andò a Bari e, trepidante, suonò il campanello dell’appartamento al decimo piano. Aprì un signore con la bar278

ba, gli zoccoli e una camicia logora a cui, con una forbice, era stato tranciato il colletto. «Benvenuta», le disse abbracciandola. Una signora con i ricci e lo sguardo indomito, le sorrise e la invitò a sedersi a tavola. E si scatenò l’inferno. L’adolescente maschio uscì dalla doccia ancora fradicio, coperto solo da un telo da spiaggia e le dichiarò: «Tu ora sei mia sorella»; l’adolescente femmina la guardò torva; dal nulla si materializzò il nonno bersagliere («Ecco la tiana di patate riso e cozze ché, se non ci penso io a cucinare, questi ti fanno morire di fame»); la zia Marisa arrivò con la focaccia e con lo zio Nino che domandò: «E tu, milanese, per quale squadra tifi? Milan o Inter?»; e il cugino Lello cominciò a cantare «Uelì uelà u’ Bari in serie A». E alla fine, a quella tavola, c’erano venti parenti e tantissimo cibo e lei pensò con struggimento a una crema di piselli in due e alle partite di Scala 40 in francese, sul tappeto persiano. E, per un attimo, ebbe la tentazione di fuggire lontano. Da allora sono passati più di vent’anni. Lei e lui condividono un’automobile sgangherata, un mutuo trentennale sulla casa, la passione per la Scala 40 e tre bambini che crescono a taralli e vis polemica. Se le chiedono: «Qual è la tua città?» lei risponde: «Bari». Se lo chiedono a lui, risponde: «Ho una moglie e tre figli milanesi». Poi, con orgoglio, aggiunge: «Ma parlano perfettamente anche il barese, sapete com’è: il bilinguismo è importante».

Marcello Ticca Il pesce fa bene alla memoria perché contiene fosforo

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i pregiudizi e false credenze lo scibile umano è ricchissimo. E probabilmente il settore che supera ogni record per quantità, varietà e soprattutto indistruttibilità, è quello dell’alimentazione. Quali i motivi? Il primo è certamente l’interesse viscerale che tutto ciò che riguarda il cibo suscita in ciascuno di noi, forse per il semplice fatto che con questo bisogno primario ci confrontiamo in continuazione. Il secondo deriva dalla percezione vivissima dello stretto rapporto, spesso vissuto con una sensibilità esagerata, che esiste fra ciò che mangiamo e il nostro benessere. Ma il terzo motivo è senza dubbio l’errore di considerare il tema «alimentazione» come qualcosa di leggero, come un argomento alla portata di tutti e sul quale chiunque, anche senza una preparazione specifica, ha il diritto, chissà perché, di parlare in libertà, emettendo giudizi inappellabili e facendo valere le proprie idee personali come se fossero verità indiscutibili. I pregiudizi alimentari che inquinano le conoscenze popolari riconoscono differenti origini: 1) nozioni un tempo valide ma poi superate dai progressi della ricerca scientifica, senza che il grande pubblico ne prendesse atto; 2) convinzioni ed esperienze personali trasformate in regole (l’atteggiamento più antiscientifico che si possa concepire) e molto diffuse perché atte a colpire la fantasia o perché abilmente presentate; 3) tesi e mode «moderne» messe in giro ad arte per promuovere 280

un prodotto, un farmaco o una attività professionale; 4) credenze radicate nella tradizione popolare e proprio per questo erroneamente considerate vox populi vox dei. Rimangono comunque sorprendenti sia la facilità con la quale certe nuove teorie prendono piede e si diffondono in modo virale (specialmente sul web), sia la loro invulnerabilità rispetto a qualunque tentativo di correzione o di ridimensionamento. Il famoso studioso statunitense Ancel Keys – il coordinatore degli studi che hanno rilanciato il modello alimentare mediterraneo – scrisse che mentre è sufficiente un solo giorno per inventare una nuova tesi alimentare, servono poi dieci anni di prove scientifiche contrarie per cercare, spesso senza successo, di cancellarla. Ovviamente, però, tutto questo non deve tradursi nella rinuncia a tentare di correggere i luoghi comuni alimentari sbagliati. Al contrario, farlo è importante, dato che non si tratta sempre soltanto di innocui malintesi dei quali sorridere. Alcuni pregiudizi, infatti, possono essere molto nocivi, in quanto diffondono nella cultura popolare convinzioni erronee capaci di condizionare i comportamenti alimentari fino a mettere in pericolo la completezza e/o la correttezza della alimentazione quotidiana, e quindi anche la salute. Come è intuibile, il primo passo sulla via del ridimensionamento di questi miti consiste nello sforzarsi di conoscerli più a fondo. A questo scopo qualche anno fa alcuni nutrizionisti hanno compilato un elenco di ben sessanta «affermazioni sull’alimentazione» fra le più diffuse nel nostro paese, incaricando un famoso istituto di ricerche di sondare le opinioni dei nostri connazionali circa la fondatezza delle stesse. La interessante classifica di attendibilità che ne è uscita, se da un lato ha permesso di constatare che alcune delle credenze più antiche (del genere «la pasta fa ingrassare» o «la carne bianca va bene solo per malati ed anziani» o «meglio friggere con l’olio di semi che con quello extravergine di oliva») 281

riscuotono molto meno fiducia di un tempo (quindi forse le campagne di educazione alimentare non sono proprio del tutto inutili!), dall’altro ha dimostrato che molti «luoghi comuni» che sembravano superati godono invece ancora di una immeritata credibilità che li rende capaci di influire negativamente sugli equilibri della alimentazione di tutti i giorni. Il più popolare di tutti i miti, con una credibilità dell’81%, è risultato «il pesce fa bene alla memoria perché contiene fosforo», che risveglia nei meno giovani il ricordo delle compresse ingurgitate in vista degli esami di fine anno. Ora, a parte il fatto che una carenza di fosforo da insufficiente apporto alimentare è quasi impossibile (il fosforo è ampiamente diffuso negli alimenti, e molti prodotti, quali legumi, formaggi, frutta secca, crostacei, contengono più fosforo del pesce), la realtà è che non esiste alcuna correlazione fra tale minerale e le capacità mnemoniche o mentali. E poi la somministrazione di elevate quantità addizionali di fosforo è inutile, perché altro non fa che provocarne una aumentata eliminazione per via renale. È vero invece che la carne di pesce è ricca di acidi grassi polinsaturi, necessari per lo sviluppo del sistema nervoso: ma ogni correlazione con la memoria rimane arbitraria. Singolare, poi, quante idee errate esistano su di un alimento importante come la frutta. Ben il 70% degli intervistati è convinto che la frutta debba essere mangiata con la buccia «perché è la parte che contiene le vitamine». La realtà è l’esatto contrario. Quei nutrienti che la frutta apporta in quantità significative – soprattutto zuccheri semplici, alcuni minerali e in pratica due sole vitamine (provitamina A e vitamina C) e non «tutte le vitamine» come spesso si sente dire (ecco un altro mito infondato...) – sono solubili o dispersibili in acqua. Di conseguenza essi sono concentrati esclusivamente nella polpa, che è appunto la parte più ricca di acqua, mentre la buccia ne è praticamente priva. Infatti è proprio nella polpa che i nutrienti stessi vengono sintetizzati utilizzando l’energia solare e le so282

stanze tratte dal terreno. Invece le uniche funzioni della buccia sono quelle di proteggere il frutto e, se ingerita, di fornire utili fibre insolubili di tipo cellulosico. Ma non basta. Il 60% del campione intervistato è anche convinto che la frutta vada assolutamente mangiata lontano dai pasti, altra credenza tutt’ora diffusissima. Diffusissima e sbagliata, fatta eccezione per non frequenti casi di ipersensibilità individuale legata a dispepsia gastrica. Premesso che l’aspetto più importante è che la frutta sia comunque consumata, in qualunque momento e più volte al giorno, va precisato che mangiarla alla fine del pasto assicura alcuni vantaggi: permette di limitare il ricorso al dessert, agevola una migliore igiene dentale, facilita la sazietà, apporta antiossidanti quando sono molto utili, ossia nella fase digestiva, e fornisce vitamina C, la quale migliora sensibilmente l’assimilazione del ferro presente in ciò che si è mangiato nel corso del medesimo pasto. Abbiamo esaminato appena quattro dei tanti luoghi comuni alimentari che imperversano nelle nostre conversazioni. E potremmo continuare a lungo, dato che nessun tema si presta più dell’alimentazione a favorire la nascita e la diffusione incontrollata di tante credenze fantasiose e bizzarre. Conoscerle meglio, però, ci può aiutare a difendercene.

Piercamillo Davigo I politici sono tutti ladri

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uando qualcuno mi dice che tutti rubano (di solito riferito a politici o funzionari pubblici) gli chiedo se anche lui ruba. Non ho mai trovato nessuno che mi risponda di sì. Allora gli dico che neppure io rubo e che quindi la sua affermazione iniziale è smentita, dal momento che siamo già in due a non rubare e che, se davvero rubassero tutti, sarebbe anche inutile fare i processi, i quali servono appunto a distinguere i colpevoli dagli innocenti. Tuttavia è opinione largamente diffusa che il malaffare sia talmente ampio e radicato, che fatico a convincere gli interlocutori della fondatezza della mia tesi. Eppure in tutti gli ambienti in cui ho trovato corruzione ho incontrato, accanto a colpevoli, persone di adamantina onestà e questo vale, ovviamente, anche per i politici. Bisogna quindi chiedersi perché sia così radicato e diffuso il pregiudizio secondo il quale difficilmente i politici sono onesti. Credo che le ragioni fondamentali siano due: la prima è che effettivamente è più facile ottenere successo in politica con sistemi illegali che rispettando le regole; la seconda è la scarsa reattività, nel mondo politico, delle persone oneste rispetto ai comportamenti devianti. Quanto alla prima ragione, dalle indagini e dai processi è emerso un dato inquietante. Siamo abituati a credere che gli eletti siano scelti dagli elettori, il che è vero solo in parte. Per essere eletti infatti bisogna

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essere prima candidati e le liste elettorali sono formate dai partiti, vale a dire da coloro che controllano i partiti. Di recente alcuni partiti hanno fatto ricorso alle elezioni primarie e – benché siano sorte contestazioni sulla regolarità in taluni casi – si sa ancora troppo poco di questo sistema per tentare una analisi approfondita del metodo. In generale però le liste elettorali sono redatte (o quantomeno approvate) da coloro che controllano i partiti, cioè (almeno quelli non personali) da coloro che hanno vinto il congresso, ottenendo il maggior numero di voti degli iscritti. Fin qui saremmo nel rispetto delle regole democratiche. Il problema però nasce dal fatto che qualche volta gli iscritti al partito sono inventati, nel senso che non pagano le quote di iscrizione e talora ignorano persino di essere iscritti. Qualche esempio: nelle indagini denominate dalla stampa «mani pulite» numerosi imputati hanno affermato di aver utilizzato le tangenti percepite per acquistare tessere a nome di persone che spesso neppure sapevano di essere iscritte. Una decina di anni dopo il direttore di un grande ospedale spiegò che con i soldi delle tangenti acquistava ogni anno circa 800 tessere del suo partito, in quanto voleva diventare assessore regionale alla Sanità e – in prospettiva futura – sottosegretario alla Sanità in un governo nazionale; doveva quindi far vedere di avere un seguito (in realtà inesistente). Un altro partito in molte città aveva più iscritti che voti, il che rendeva evidente che si trattava di iscritti inventati, a meno che la situazione non fosse così deteriorata che neppure gli iscritti votassero per il loro partito (ipotesi inverosimile data la persistenza delle iscrizioni). Tale essendo la situazione è evidente che, mentre un politico onesto deve convincere iscritti veri a votare per lui, un politico disonesto acquisterà tessere e anche grazie ad alleanze potrà ottenere la maggioranza. Questo può accadere perché in Italia i partiti politici sono 285

associazioni non riconosciute, per le quali non valgono neppure le regole minime delle società di persone. L’unico rimedio possibile è l’introduzione di una normativa che preveda per i partiti regole stringenti di trasparenza, con la possibilità di controllare l’autenticità delle sottoscrizioni. L’altra ragione è la incapacità della politica di fare pulizia al suo interno. Si tratta di una specificità italiana, dal momento che negli altri paesi occidentali, per fatti molto meno gravi di quelli che compaiono nelle cronache italiane, politici anche di rilievo devono dimettersi. Di solito in Italia invece, alla notizia del coinvolgimento di taluno in vicende illecite viene invocata la presunzione di innocenza e si dice che bisogna aspettare le sentenze definitive. Si tratta di un metodo che confonde il piano del processo penale, dove è necessario accertare se una persona è colpevole o no di determinati reati, con il piano della valutazione di opportunità di determinati comportamenti, oltre che di prudenza. Il più delle volte non è in discussione la verità storica di certi accadimenti, ma solo la loro qualificazione giuridica e la loro rilevanza penale. Un comportamento può tuttavia non essere rilevante penalmente, ma inaccettabile sul piano dell’etica pubblica. Oppure può non intervenire condanna per il maturare della prescrizione e tuttavia il giudice accerta la commissione del reato, tanto che condanna l’imputato al risarcimento a favore delle parti civili. In altri casi le giustificazioni offerte dall’imputato a fronte delle accuse sono di per sé inaccettabili nei rapporti comuni: ricordo il caso di un imputato che, a fronte del contenuto delle intercettazioni, si difese dicendo che fin da ragazzo si divertiva a sembrare mafioso. In casi come questi dovrebbero bastare i fatti non controversi o la tesi difensiva per allontanarlo da posti di responsabilità, a prescindere dalla fondatezza dell’accusa. L’art. 54 della Costituzione della Repubblica infatti impone a tutti i cittadini di osservare la Costituzione e le leggi, ma ri286

chiede a coloro che svolgono pubbliche funzioni di adempiere ad esse con disciplina ed onore. Tuttavia raramente accade che i soggetti a cui sono attribuiti tali comportamenti si dimettano o vengano cacciati, ma si afferma di attendere una pronunzia definitiva del giudice penale, trascurando che questa interverrà a distanza di anni e che in tal modo si alimenta la tensione fra magistratura e politica, caricando le sentenze di una valenza politica che non possono e non debbono avere. Non è compito dei magistrati selezionare la classe politica. Ci sono anche casi eclatanti: ricordo un parlamentare condannato in via definitiva che ottenuto l’affidamento al servizio sociale, come attività lavorativa da svolgere indicò quella di deputato. Benché fosse anche interdetto dai pubblici uffici la Camera di appartenenza, in tutta la durata della legislatura, non trovò il tempo di dichiararne la decadenza. Mi sono sempre chiesto per quale ragione i politici per bene, che pure sono numerosi, non reagiscano prendendo le distanze da questo andazzo, di cui sono le prime vittime. La risposta che mi sono dato è che, essendo l’attività politica caratterizzata da una continua esigenza di mediazione, l’intransigenza su questi temi sia ritenuta pregiudizievole per l’ottenimento delle finalità politiche perseguite. Credo però che si tratti di un grave errore: non prendere in modo aperto le distanze dai disonesti finisce per alimentare nella pubblica opinione l’impressione che tutti i politici siano uguali o quantomeno complici. Bisognerebbe considerare che i cittadini devono attendersi dalle classi dirigenti fermezza sui princìpi ed esempio di comportamenti non solo corretti ma anche sobri. «Nel gennaio 1947, quando partì per gli Stati Uniti, De Gasperi aveva dovuto farsi prestare un cappotto da Attilio Piccioni, perché non possedeva un soprabito decente, tale da non sfigurare nel suo giro di visite ufficiali a Washington»1. 287

Quanto tempo è passato e quanto sono mutati i comportamenti in 70 anni! Eppure ho incontrato politici che hanno speso la vita per difendere un ideale, talvolta sacrificando opportunità personali migliori, nella convinzione che ne valesse la pena. Mi sono perciò convinto che per molti politici la questione non sia l’onestà, ma la insufficiente determinazione nel rimarcare la loro differenza e prendere le distanze dai disonesti.

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Valerio Castronovo in «Il Sole 24 Ore», 9 febbraio 2012.

Ilvo Diamanti Questi politici non ci rappresentano

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uesti politici non ci rappresentano». È una frase che ricorre, frequente e puntuale, nei discorsi pubblici e privati. Costituisce, infatti, un argomento ricorrente del dibattito politico e delle polemiche che si susseguono sui media. Ma è diffuso anche nella comunicazione della vita quotidiana. È, cioè, un discorso di «senso comune», che differisce dal «buon senso». Echeggiando Alessandro Manzoni, nei Promessi Sposi: «C’erano alcune persone di buon senso che non credevano agli untori, ma il senso comune impediva loro di manifestarsi». Allo stesso modo, il «buon senso» richiederebbe prudenza quando si mette in discussione la rappresentanza degli uomini politici, soprattutto se eletti. Ma il «senso comune» impedisce di manifestare queste opinioni. Opinioni come queste. Visto che le istituzioni rappresentative sono sempre più «sfiduciate» dai cittadini. Parlamento, Regioni, Comuni. Perfino la fiducia verso lo Stato oggi non supera il 15% (Sondaggi Demos). Cioè: la metà rispetto al 2010. Mentre la fiducia nei partiti – lo abbiamo ripetuto spesso – è ormai scesa al 4-5%. D’altronde, oggi, oltre vent’anni dopo Tangentopoli, il 47% degli italiani pensa che la corruzione politica sia più diffusa di allora. Secondo il 42%: allo stesso modo. Meno del 10% pensa, al contrario, che sia diminuita. Insomma, partiti e politici: tutti corrotti, proprio come allora. Prendere le distanze dai politici che non ci rappresentano, dunque, assume due significati. 289

Il primo è auto-assolutorio. Perché se questi politici – corrotti come ai tempi di Tangentopoli, lontani da noi e dai nostri interessi – non ci rappresentano, vuol dire che noi siamo diversi da loro. L’altro significato, però, serve a marcare l’effettivo distacco fra le istituzioni di «rappresentanza» e i cittadini. Un segno di malessere e disagio «democratico». Peraltro, anche ammettere che «questi politici non ci rappresentano», non costituirebbe, in sé, un problema insanabile, per la democrazia «rappresentativa». Che, fornisce ai cittadini strumenti «costitutivi» di controllo e di auto-correzione. Per prime, le elezioni: libere, effettivamente competitive. E regolari, nei tempi di svolgimento. Così da permettere agli elettori di esercitare il loro controllo sull’azione degli eletti. Confermando oppure negando loro il voto, nelle elezioni successive. Gli elettori, però, possono controllare gli eletti e – tanto più – i politici anche attraverso i canali dell’opinione pubblica. I media, ma anche i circoli, le associazioni, i movimenti che permettono di intervenire sul dibattito pubblico. Ma anche di sollevare nuove domande. Tuttavia, la partecipazione attiva coinvolge una quota limitata di cittadini. E, comunque, la componente di persone informate sulle iniziative e sui risultati dell’azione dei «politici» si rivela sempre ridotta. Così, la sfiducia nei confronti degli attori politici e della politica in generale appare conseguenza di pre-giudizi, più che di giudizi fondati e verificati. D’altronde, in Italia, questo orientamento ha radici profonde. Nel dopoguerra, il rapporto fra cittadini e politica è stato ispirato da ideologie politiche e identità religiose. Mondo cattolico e associazioni di sinistra, di tradizione socialista e comunista, hanno favorito un clima di dis-incanto nei confronti dello Stato. Percepito come «altro». Mentre la scelta di voto e di partito è stata determinata da fratture e antagonismi, più che da adesione e condivisione. Per 40 anni ha contato, anzitutto, l’anti-comunismo. Al quale, 290

per i 20 anni seguenti, si è affiancato, in modo complementare, l’antiberlusconismo. Silvio Berlusconi, d’altronde, si è imposto sulla scena politica italiana, dopo la fine dei partiti di massa, perché si è presentato come «non-politico». L’imprenditore che «scendeva in campo» per opporsi ai politici di professione. Salvo diventare, a sua volta, un politico, a capo di un partito. Risucchiato, a sua volta, nella stessa spirale della sfiducia che aveva intercettato. D’altra parte, le inchieste di Tangentopoli, negli anni Novanta, non hanno solo «azzerato» la classe politica alla guida dei partiti della (cosiddetta) Prima Repubblica. Ma hanno fornito, anzitutto, conferma a un sentimento che pre-esisteva. Perché gli italiani erano convinti anche prima che i politici fossero corrotti. E hanno continuato a esserne convinti anche dopo. A prescindere. Oggi, d’altronde, come già detto, il 47% degli italiani pensa che il livello di corruzione politica sia superiore rispetto ai tempi di Tangentopoli. E quasi altrettanti ritengono che, da allora, non sia cambiato nulla. Per questo il giudizio che questi politici non ci rappresentino è un pre-giudizio. Perché è sempre esistito. Anche prima. La differenza, rispetto a qualche tempo addietro, semmai, è che oggi disponiamo di canali di comunicazione che permettono (meglio: promettono) ai cittadini di partecipare direttamente alla vita politica. In particolare, di esercitare azione critica e di controllo. Così, si sono affermati soggetti politici – di successo – che fondano la loro identità e la loro azione sulla rete e sui social media: come strumento di democrazia diretta. Una nuova agorà. In alternativa esplicita alla democrazia rappresentativa. Il M5S, in particolare, che oggi i sondaggi indicano come primo partito in Italia. Da ciò il paradosso. Perché la critica alla democrazia rappresentativa e l’elogio della democrazia diretta si esprimono attraverso i canali e le forme della democrazia rappresentativa. Cioè, attraverso partiti e «politici» che vanno in Parlamento. A rappresentar291

ci. Così l’anti-politica, il pre-giudizio contro i politici lontani da noi, che non ci rappresenterebbero, diventa, a sua volta, un argomento politico utilizzato da nuovi e vecchi politici, per avere successo. D’altronde, i politici, eletti e non, sono relativamente autonomi dagli elettori. Cioè, da noi. Perché «rappresentare» non significa solo «rispecchiare». Ma anche «interpretare». Magari, se possibile, in meglio. Visto che, come dimostrano numerose indagini, il senso civico in Italia risulta, da sempre, molto precario. Meglio sarebbe, cioè, chiamarlo «senso cinico». Attento agli interessi privati e familisti piuttosto che all’interesse pubblico e al bene comune. Così, per esprimere un (pre)giudizio personale, viste le ombre che oscurano la nostra società civile: se questi politici non ci rappresentano, non è detto che necessariamente sia un male...

Corrado Augias Il pubblico ha sempre ragione

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al detto «il cliente ha sempre ragione» si fa presto ad allargare a «il pubblico ha sempre ragione» per approdare poi a «il popolo ha sempre ragione». Nulla di più sbagliato, nulla di più pericoloso. Il cliente può avere torto marcio, solo un’angusta logica commerciale può aver suggerito lo slogan che impone di avvilire il personale di un esercizio di fronte all’eventuale arroganza del cliente pur di non perderne nemmeno uno. Sarebbe invece molto più sano perderli certi clienti, anche in vista dei possibili danni che un individuo fastidioso o insolente può provocare all’esercizio. Idem per il pubblico, ancora più vero per il popolo che, lasciato a sé stesso, quasi mai indovina quale sia la scelta migliore di fronte a una situazione data. Pesa ovviamente l’ignoranza di massa ma pesa ancora di più il pericolo di una psicologia collettiva che – come vedremo qualche riga più giù – tende ad imporre, a qualunque soggetto collettivo, decisioni quasi sempre errate. Prima di vedere qualche caso celebre suggerito dalla storia o dalla letteratura, faccio l’esempio delle classifiche dei libri più venduti (best-seller). Sarebbe interessante calcolare statisticamente quanto spesso alte vendite premiano prodotti mediocri e – forse ancora più interessante – quanto spesso libri ottimi e di gran livello patiscano una scarsa circolazione; influiscono certamente pubblicità e marchio editoriale ma pesa molto la psicologia collettiva brutalmente riassunta nel detto di cui ci occupiamo in questo articolo. 293

Passo ad un caso celebre, giustamente noto, e deprecato, nei secoli. Il procuratore romano della Giudea, Ponzio Pilato, s’affaccia al loggiato della sua residenza e chiede a una folla in tumulto quale decisione debba prendere. Lui ha due imputati in attesa di sentenza. Uno accusato di sedizione armata, l’altro di sedizione potremmo dire spirituale. La consuetudine gli consente di graziarne uno in occasione della Pasqua imminente. Quale dei due? La folla in coro reclama la liberazione del combattente e omicida Barabba contro il mite Joshua ben Joseph. Se prescindiamo dall’alta improbabilità che l’episodio si sia realmente svolto in questi termini come invece riportano alcuni vangeli (in particolare quello di Matteo), è chiaro che la folla non ha capito su che cosa stesse decidendo. Preda dell’emozione decise sulla base di motivazioni istintuali, salvo ripensare all’errore commesso quando ormai era troppo tardi. Facciamo un altro caso dettato questa volta dalle esperienze che il bardo inglese William Shakespeare deve aver avuto nell’epoca politicamente tumultuosa nella quale visse. Giulio Cesare è appena stato ucciso sotto la statua di Pompeo dai congiurati. Sono eroi che hanno agito in nome della libertà? O biechi e ingrati traditori mossi da brama di potere? Non è facile rispondere. Dante per esempio condanna Bruto, Shakespeare al contrario lo erige a modello di eroe civile. La scena che il bardo descrive è questa. Il cadavere del «dittatore democratico» è appena stato avvolto nel sudario. Bruto sale alla tribuna e illustra le ragioni del gesto nobilmente motivato dall’eccesso di potere che l’uomo aveva accentrato nelle sue mani compromettendo la sopravvivenza della Repubblica. Che la Repubblica in realtà stesse morendo per conto suo è vero ma è anche un altro discorso. La folla applaude le sue commosse parole. Scende Bruto, sale alla tribuna Marc’Antonio, fedelissimo di Cesare. Pronuncia uno dei più bei discorsi dell’intera storia del teatro, abilmente modulato, retoricamente perfetto. La folla 294

che prima aveva applaudito la tesi di Bruto adesso applaude con ancora maggior convinzione quella opposta di Antonio. Morale: mai fidarsi troppo degli applausi di una piazza, esprimono in genere un’ondeggiante volontà popolare. Non molti anni fa il ministro della Giustizia di un governo di centro-destra (uomo inadatto quant’altri mai all’incarico, poi giustamente scomparso dalla scena pubblica) stabilì che nelle aule di giustizia in luogo della vecchia scritta «La legge è uguale per tutti» (nobile utopia) ne comparisse un’altra: «La sovranità appartiene al popolo». Si protestò, si rise. È scritto nella Costituzione, ribatté l’improvvido ministro. Era vero e non era vero. Vero che quelle parole compaiono nel testo fondamentale del 1948 ma bisognava considerare in quale contesto. L’articolo 1 detta: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Benissimo; poi quasi a voler chiarire meglio il significato dell’aggettivo «democratica», il secondo comma del medesimo articolo s’affretta a precisare: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Ecco il trucco: tagliare a metà il disposto del secondo comma significa cadere pari pari nella trappola della piazza di Gerusalemme descritta dai vangeli o della piazza di Roma/Londra descritta da Shakespeare. Il popolo si comporta spesso come un re bambino: le decisioni sovrane gli appartengono ma è salutare che vengano raffreddate attraverso procedure legislative che decantino gli umori più accesi, stabiliscano opportuni contrappesi ed equilibri per la difesa di tutti, maggioranze e minoranze. Del resto proprio su questi contrappesi ed equilibri si fonda da molto tempo il vero pensiero democratico. Le possibili citazioni a conforto abbondano. Una remotissima la trovo nella lettera n. 29,11 di Seneca a Lucilio: «Quale uomo che ama la virtù può piacere al popolo? Il favore popolare si ottiene con mezzi disonesti. Bisogna che tu ti renda smile a loro, non ti apprezzeranno se non ti riconosceranno uguale a loro». Salto di secoli: Alexis de Toqueville. Ne La democrazia 295

in America, sottolinea come la maggioranza può esprimere democrazia solo se agisce secondo precisi criteri, che poi si identificano con i valori simbolici della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, fratellanza. Altro salto, José Ortega y Gasset (La ribellione delle masse): «Oggi [erano gli anni Trenta del Novecento] assistiamo al trionfo di una iperdemocrazia in cui la massa opera direttamente senza legge, per mezzo di pressioni materiali, imponendo le sue aspirazioni e i suoi gusti. Dubito che ci siano state altre epoche nella storia in cui la moltitudine giungesse a governare così direttamente come nel nostro tempo». Altro esempio, il saggio di Gustave Le Bon uscito alla fine dell’Ottocento ma in gran voga negli anni Trenta del XX secolo: La psicologia delle folle. Libro fondamentale, si diceva che Mussolini lo tenesse sul comodino. Un testo che ebbe influenza anche su Hitler, Lenin, Freud, Jung. Che cosa vi si legge? Tento di esporre la tesi di fondo concentrandola in due punti. Il primo è che il passaggio all’epoca delle folle (quindi del «pubblico» nel senso di questo contributo) apre un’epoca nuova destinata a distruggere per sempre la civiltà elitaria. Se ci fermassimo qui avremmo un prototipo di pensiero reazionario. C’è però il secondo punto dove Le Bon chiarisce meglio il suo pensiero e, possiamo dire, lo riequilibra. In tutto ciò che riguarda il sentimento (religione, politica, morale, affetti eccetera) – scrive – gli uomini più eminenti sono molto di rado migliori di individui meno istruiti: «Il voto di quaranta accademici non è migliore di quello di quaranta acquaioli [...] il fatto di conoscere il greco o la matematica, di essere architetto, veterinario, medico o avvocato, non dà a un individuo doti di perspicacia in faccende legate al sentimento». L’articolo potrebbe chiudersi qui se non fosse per una postilla suggerita da una profezia che il pensatore francese avanzò negli anni Novanta dell’Ottocento quando l’utopia socialista conosceva la sua alba più radiosa. Nel medesimo saggio 296

egli arriva a scrivere: «L’evidente debolezza dell’attuale credo socialista non gli impedirà di radicarsi nell’animo delle folle. La sua inferiorità nei confronti delle fedi religiose sta in ciò: l’ideale di felicità promesso da quelle era realizzabile solo nella vita futura, dunque nessuno poteva contestarne la realizzazione. Invece l’ideale di felicità socialista deve realizzarsi su questa terra, la validità delle sue promesse sarà presto evidente. E la nuova fede perderà prestigio di colpo». Era il 1895, sguardo lungo, non c’è che dire.

Zygmunt Bauman *

Non c’è più religione

«N

on c’è più religione... Dio è morto». Lo sentiamo ripetere di continuo, e qualcuno di quelli che si lanciano in affermazioni del genere pretendono di avvalorarle anche con l’autorità dei fatti: quanti sono oggi, per dire, i neonati che vengono portati in chiesa per essere battezzati, e non è forse vero che il numero delle persone che frequentano la messa domenicale è in calo – perlomeno in Gran Bretagna o nei paesi nordici?... Questi dati vengono trascelti proprio con l’intento di appoggiare la tesi, e la loro reiterata ripetizione mira a far sì che, come accade con tutti gli altri pregiudizi, alla fine l’affermazione sia considerata ben fondata e creduta vera. Ma, svolgono essi il compito loro assegnato? Forse lo farebbero, se non fosse per l’enorme e crescente volume di altri fatti che suggeriscono – e dimostrano – la diagnosi esattamente contraria: e cioè che la religione esiste e continua ad avere forza e influenza, e che i necrologi per Dio sono, quantomeno, assolutamente prematuri. Fu a motivo del numero inarrestabilmente crescente di quegli altri fatti, che Peter Berger, uno dei più autorevoli sociologi del Ventesimo secolo, si vide costretto a rovesciare la sua diagnosi di 180 gradi. Nel 1968 aveva pronosticato nel «New York Times» che, nel Ventunesimo secolo, di «credenti religiosi se ne trove-

* Traduzione di Michele Sampaolo.

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ranno probabilmente solo in piccole sette, stretti assieme per resistere a una cultura secolare mondiale». Ma trent’anni dopo, alle soglie del nuovo secolo cui la sua precedente predizione si riferiva, si sentì in dovere di concludere (in The Desecularization of the World, 1999) che «l’assunto secondo cui viviamo in un mondo secolarizzato è falso. Il mondo di oggi, salvo alcune eccezioni, continua a essere accanitamente religioso quanto è sempre stato, e da qualche parte anche più di quanto sia mai stato». Berger corresse il suo errore. Ci mise del tempo, ma in fin dei conti gli venne facile; da scienziato, aveva sviluppato metodi che gli consentivano di confermare o smentire enunciati, e quindi di distinguere le false credenze da quelle vere e pertanto di spianare la strada alla verità in questione. Questa è appunto la differenza fra le credenze fondate in fatti verificabili e controllati e quelle derivate da emozioni: fra la conoscenza e la fede, il ragionamento e il dogma, la scienza e il pregiudizio. Il pregiudizio è dogmatico; quelli che li abbracciano rifiutano l’argomentazione e chiudono le orecchie ai giudizi contrari al proprio per paura di dover ammorbidire le loro convinzioni. Quando si trovano davanti a un’idea differente da quella cui sono affezionate, le persone prigioniere di pregiudizi non sottopongono l’argomentazione contraria a una verifica, ma – risparmiandosi il fastidio di ascoltare e ancor più di capire – la liquidano sulla base dell’aprioristica infallibilità di quella che per loro è la verità. Molta acqua è passata sotto i ponti di tutti i fiumi del mondo, da quando Friedrich Nietzsche, uno dei giganti della filosofia moderna, scrisse nella Gaia scienza (1882) che «Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per 299

noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa?». Ma Dio è ancora ben vivo, come senza dubbio lo sono – e anche ben visibili – le religioni, che poggiano sulla sua immortale onnipresenza: contrariamente all’orgogliosa rivendicazione della mente moderna secondo cui noi, uomini, siamo pienamente in grado di afferrare, comprendere, descrivere, affrontare e gestire il mondo e la nostra presenza in esso in perfetta autonomia; e contrariamente alla nostra proclamata intenzione di mettere il mondo sotto l’amministrazione unica di noi, uomini, armati come siamo di ragione e dei suoi due germogli: la scienza e la tecnologia. In netto contrasto con la loro promessa, quelle armi non sono riuscite a dotare noi, umani mortali, dell’onnipotenza – che è il tratto che definisce il Dio immortale – ed è sempre meno probabile che con tutte le loro scoperte e invenzioni terrificanti lo possano mai fare. L’impressione è che, ove mai Dio «morisse» – e cioè, esiliato dal nostro pensiero, espatriato dalle nostre vite, cessasse di essere punto di riferimento e di appello e fosse sostanzialmente dimenticato – ciò accadrebbe solo insieme con la morte dell’umanità. Se ci chiediamo perché è così e perché così deve essere, la risposta è che Dio sta per la nostra insufficienza, l’insufficienza di noi esseri umani – secondo la memorabile formulazione del gtande filosofo polacco Leszek Kołakowski –: insufficienza del nostro pensiero e della nostra capacità pratica; insufficienza che è del tutto improbabile possa mai essere superata. Ci sono fenomeni di cui non possiamo non essere consapevoli – come per esempio l’eternità e l’infinito, o al perché e per che cosa noi esistiamo, e perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla –, fenomeni e interrogativi che nonostante i più grandi sforzi delle menti umane più eccelse noi mai comprenderemo perché vanno ben oltre il regno dell’esperienza umana entro il quale la nostra ragione, la nostra scienza e tecnologia operano e a cui esse sono costrette a rimanere confinate. E ci sono fenomeni 300

di cui dovremo prima o poi prendere consapevolezza, che non si sottometteranno mai al nostro – di esseri umani – controllo e gestione. In parole povere, ci sono limiti insuperabili a quello che noi possiamo sapere e a quello che possiamo fare. Il fatto che Dio sta per questi due tipi di fenomeni e insieme il fatto che noi siamo condannati a rimanere insufficienti assicurano nel loro intreccio l’eterna presenza di Dio nella condizione esistenziale dell’uomo. In altre parole: l’eternità di Dio, e l’eternità delle religioni che cercano di rendere vivibile la vita vissuta con la consapevolezza di tutti questi paradossi, sono garantite dall’immortalità (se misurata con i metri umani) della endemica insufficienza umana. Un’altra considerazione dobbiamo fare per completare il quadro: l’insufficienza umana è duplice: collettiva e individuale. Quella collettiva è l’insufficienza della specie umana nel suo insieme, evidente di fronte all’infinità dello spazio e del tempo dell’universo; quella individuale è l’insufficienza della dotazione del singolo uomo, evidente di fronte al fato (un’etichetta per indicare in sintesi tutti gli aspetti della nostra vita individuale che non siamo in grado di controllare e modificare). La prima è oggetto d’interesse per i filosofi e per tutti noi nei (rari) momenti in cui cadiamo in un certo umore filosofico. La seconda l’abbiamo davanti a noi e con essa dobbiamo fare i conti ogni giorno tutti, ciascuno per sé e nel modo che gli è proprio. Entrambe sottolineano l’eternità di Dio e delle religioni, ma il loro peso relativo cambia con il passare del tempo. Come Ulrich Beck suggeriva, in maniera convincente, nel suo Il Dio personale (2008), nel nostro mondo attuale completamente individualizzato, un mondo in cui il crescente volume dei compiti della vita tende a essere fatto scivolare dalle spalle delle società e comunità a quelle dell’individuo, è ognuno di noi, l’inadeguatezza individualmente sentita ad affrontare problemi creati a livello sociale (e persino globale), che gioca il ruolo primario nel suscitare la domanda di Dio e di religione. 301

Franco Bernabè La rete non ha padroni

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nternet è un sistema di reti fisiche accessibile tramite protocolli comuni. È un sistema che non ha padroni, ovvero ne ha troppi perché possano esercitare un controllo di qualsiasi tipo. È stato concepito così fin dall’inizio in modo che potesse resistere a qualsiasi attacco continuando a funzionare. L’ossatura di Internet è l’insieme delle infrastrutture create dalle società di telecomunicazione e da tutti gli altri soggetti che con i loro investimenti contribuiscono a fare crescere la rete e a renderla accessibile in qualsiasi parte del globo. Sono migliaia di soggetti che non rispondono ad una autorità centrale di pianificazione ma solamente ai bisogni dei loro clienti e che se anche volessero in qualche modo condizionarne lo sviluppo o l’utilizzo non potrebbero farlo perché sono in larga misura regolati. Non possono discriminare contenuti nè modalità di utilizzo: devono erogare un servizio accessibile a tutti alle stesse condizioni e con i medesimi livelli di servizio. Anche le specifiche tecniche della rete non hanno padroni: non c’è un soggetto che detenga il monopolio della tecnologia, né dei protocolli di comunicazione. Le specifiche tecniche sono dettate dal lavoro collettivo di migliaia di programmatori e ingegneri entusiasti che mettono le loro competenze al servizio di tutti, spesso in modo del tutto gratuito. Internet però è un insieme di cavi e di protocolli senza anima. L’anima di Internet è il web, anch’esso prodotto da una straordinaria intuizione messa gratuitamente a disposizione di 302

tutti. Ma come nello strano caso di Dr. Jekill e Mr. Hyde qui la storia si rovescia. Il web ha padroni, ricchissimi e potenti, che hanno trasformato un progetto costruito da una intelligenza collettiva e generosa in uno strumento al servizio degli interessi economici e politici di un ristrettissimo numero di imprese e istituzioni. Il web è oggi l’ossimoro perfetto: una combinazione di libertà vigilata, concorrenza monopolistica, concentrazione distribuita. È un mondo senza regole che porta alla prevalenza del più forte, È un mondo piatto costruito con una rigida gerarchia. È un mondo di indipendenza manipolabile. Il paradosso di Internet nasce dalla combinazione tra la romantica aspirazione libertaria dei giovani ingeneri californiani che l’hanno progettato e le esigenze di presidio geopolitico che ne hanno guidato lo sviluppo. Ma nasce anche dalla decisione di evitare qualsiasi regola sulle modalità del suo utilizzo in nome della libertà. Libertà e anonimato: i due princìpi ispiratori della rete che hanno prodotto la più radicale eterogenesi dei fini: una libertà irrilevante e altamente condizionabile e un anonimato ancora più irrilevante perché la rete possiede non solo la nostra identità ma anche i più intimi segreti di ciascuno di noi. Tutto questo ha favorito la nascita di «monopoli globali» di dimensioni mai viste prima nella storia. Le più grandi imprese del passato non avevano mai avuto la scala e l’influenza globale che hanno oggi i monopoli della rete. Questo è il risultato della decisione esplicita di non creare un sistema di regole simile a quello che nel mondo delle telecomunicazioni ha consentito nel corso di un secolo e mezzo di creare una rete globale: e cioè standardizzazione, interoperabilità, cioè la capacità di interagire tra sistemi diversi, e organismi internazionali per la definizione di regole comuni. In realtà esistono istituzioni che sovraintendono allo sviluppo delle regole, dei protocolli e delle risorse numeriche (indirizzi IP) indispensabili per il funzionamento della rete. Tra questi l’ICANN (ovvero l’organismo responsabile dell’assegnazione dei blocchi di indirizzi IP e dei 303

nomi dei domini del web), che pur operando sulla base di un contratto con il Dipartimento del Commercio Statunitense, dichiara di prendere le proprie decisioni attraverso meccanismi di «consenso» non meglio specificati, per i quali le opinioni del singolo individuo assumono lo stesso valore di quelle esposte da soggetti che siedono all’interno dell’organo collegiale in rappresentanza di interi Stati e nazioni. In realtà questi organismi si limitano a garantire che il traffico scorra ma la direzione di marcia è dettata da altri. È dettata dalle pochissime imprese che hanno la forza di mercato, la capacità finanziaria e le risorse tecnologiche per segnare la strada. La rete ha quindi «dei padroni»: certo non sono padroni dell’intero universo Internet ma sono leader indiscussi di un particolare aspetto/servizio. Google gestisce il 70% delle ricerche mondiali effettuate su Internet. Tre quarti degli smartphone venduti nel mondo funzionano grazie al sistema operativo proprietario Android, il numero di Apps disponibili su Google Play supera i 2,2 milioni di unità. Il portale musicale di Apple, Itunes, può contare su 800 milioni di clienti sparsi in tutto il mondo, dei quali nella maggior parte dei casi dispone delle coordinate della carta di credito. Con più di 1,6 miliardi di iscritti (di cui la metà accedono al social network solo via smartphone), 4 milioni di LIKE al minuto e la piattaforma di messaggistica Whatsapp che ha di recente superato il miliardo di utenti, Facebook rappresenta il paese più popolato al mondo. Linkedin è leader indiscusso dei contatti professionali. Le vendite di Amazon, hanno raggiunto nel 2016 una quota del mercato e-commerce americano superiore al 40%. A questi colossi consolidatisi come leader indiscussi del proprio settore nel giro di una decina d’anni e, in alcuni casi, anche meno, si aggiungono gli «astri nascenti» da Uber a AirB&B, da Spotify a Instagram. Ogni nicchia di sviluppo commerciale legato alla rete ha il suo leader indiscusso, e ciascuno ha dominio globale. Il fatto 304

che la rete porti al predominio del più forte non è casuale ma è il risultato della assenza di standardizzazione e di interoperabilità. La scelta di far competere le tecnologie ha il vantaggio di fare prevalere le migliori ma porta inevitabilmente al monopolio e la diffusione globale di Internet porta ad estenderne il monopolio su scala planetaria. Il monopolio garantisce alle imprese che prevalgono nella competizione globale di avere un presidio assoluto sulla propria clientela e la potenza della loro dimensione consente di favorire cambiamenti della normativa che meglio si adattino alle loro esigenze. In virtù delle cosiddette esternalità di rete tipici di questi settori (più è grande il network di iscritti ad un servizio e maggiore è l’utilità/beneficio che l’utente ne trae facendone parte), è la natura stessa del modello di business che spinge verso un monopolio o un quasi monopolio. Certo se si volesse spingere verso una maggiore competitività gli strumenti normativi per ammorbidire i vantaggi derivanti dalle economie di rete non mancherebbero. Nel caso di social network o piattaforme di messaggistica basterebbe ad esempio introdurre delle forme (degli obblighi) di interconnessione e di portabilità per far in modo che gli utilizzatori di un social network possano liberamente comunicare con gli utenti di un’altra piattaforma e che con la stessa facilità possano passare da una piattaforma a un’altra. Nella realtà quello che succede è che siamo talmente abituati ad associare una determinata prestazione o servizio ad un’unica società che non ci rendiamo neanche più conto di quanto stiamo inconsapevolmente rafforzando il potere di mercato di questi soggetti. È significativo che le trasmissioni televisive e radiofoniche o le campagne pubblicitarie dei grandi gruppi (o anche di enti e istituzioni pubbliche) sempre più spesso si chiudano con un «Follow us on Facebook» o «Follow us on Twitter». Richiamare esplicitamente il nome di queste società non solo garantisce loro una pubblicità gratuita, ma 305

rappresenta un’indebita associazione indiretta tra un servizio e una delle società che offre tale servizio. Non sorprende quindi che le società che dominano il web siano anche quelle che dominano le frontiere della tecnologia più avanzate e potenzialmente più delicate per il futuro dell’umanità. Google e Facebook ma anche Baidu e Tencent hanno sviluppato alcune delle applicazioni più critiche di intelligenza artificiale e robotica. Certamente tutto questo ci offrirà servizi migliori e una migliore esperienza di studio, di lavoro e di intrattenimento, ma apre anche interrogativi profondi su temi di controllo democratico e su temi etici che per ora nessuno ha affrontato. Tutto è lasciato al senso di responsabilità delle singole imprese riassunti nel motto di Google «don’t be evil». Ma è la prima volta nella storia dell’umanità che gli standard etici sono definiti da imprese private create a scopo di lucro.

Gino Castaldo It’s only rock’n’roll

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t’s only rock’n’roll... certo, solo e semplicemente rock’n’roll, che volete che sia, una musichetta, appena un baffo svolazzante e sbarazzino appoggiato sulla serietà della storia, un’epigrafe al divertimento collettivo. Già il nome, leggero e mobile, e neanche troppo chiaro: rock, «roccia-masso» come sostantivo, forse «scuotere» come verbo, e roll, «rotolare», «rollare», insomma tutto un movimento indistinto, eroticamente allusivo, instabile. Cosa può mai venire di SERIO da un genere di musica che sfugge perfino alla solida e distintiva rappresentatività di un nome rispettabile? I guai non vengono mai da soli, si sa, e come se non bastasse, a quel già indegno «scuoti e rotola», si è attaccato il più duraturo e invincibile degli stereotipi musicali dell’era moderna, quella micidiale triade formata con sesso e droga capace di stuzzicare l’immaginario ormonale di ogni età, ma che nella maturità va rigorosamente sconfessata, almeno pubblicamente. Curioso casomai che questa marginale avventura culturale abbia prodotto effetti così singolari. Per esempio che un’intera generazione (con spiacevoli strascichi ancora oggi qua e là reperibili) abbia immaginato di poter cambiare il mondo. E per di più in meglio. Il rock ha avuto i suoi martiri, giovani angeli falciati da un eccesso di ebbrezza creativa. Ha avuto i suoi santi, spiritati avventurieri senza peccato. 307

Ha avuto i suoi eroi, e se per questo ne ha ancora, guerrieri fuori del tempo disposti a brandire una Fender come una spada di avventure cavalleresche. Ha lambito visioni mistiche, utopie dissennate, ha anticipato di decenni la consapevolezza esaltante e minacciosa del mondo globalizzato. Ha spinto legioni di ragazzi (compreso il sottoscritto) a viaggiare nel mondo per scoprire mondi diversi e alternativi. Ha messo insieme «gioia e rivoluzione». Ha creato forme di bellezza inedite. Ma tutte queste cose, è ovvio, le ha fatte per caso, perché è sempre e solo rock’n’roll, al più un colossale fuoco d’artificio, un gigantesco falò di innocenti vanità. Eppure il pianeta mostra ben visibili i crateri ormai spenti di queste deflagrazioni. Qualche museo qua e là, impudicamete dedicato a una sfrenata leggenda chitarristica, vedi quello di Seattle, o addirittura alla memoria di un concerto, come accade nei pressi di Woodstock. Ma che musei potranno mai essere? Per non dire di alcuni strambi luoghi diventati addirittura monumenti nazionali. Un esempio a caso: si deve a un gruppo chiamato Beatles che, caso unico nella storia, un semplice attraversamento pedonale, ovvero le celeberrime strisce di Abbey Road, sia diventato monumento nazionale. Che STRANEZZA! Un banale pezzetto di strada calpestato tutti i giorni da chiunque passi da quelle parti paragonato a edifici antichi e prestigiosi. Del resto quando i Beatles sbarcarono per la prima volta in America, era il 7 febbraio del 1964, accadde l’impensabile. Secondo alcuni fu l’unica vera medicina che riuscì a scacciare lo spettro lugubre dell’assassinio di John Kennedy. Due giorni dopo erano in televisione, da Ed Sullivan, e si calcola che a guardare quell’esibizione furono 74 milioni di spettatori. Una manciata di canzoni fu in grado di far trattenere il respiro a una nazione intera. E ci fu anche un netto calo di crimini e reati, 308

tanto che George Harrison ebbe a commentare: «In quel momento piacevamo anche ai ladri, anche loro si fermarono per vederci». Ma naturalmente era solo rock’n’roll, una minuzia. In quegli stessi anni Bob Dylan, pur ben nutrito di amenità folk e banali rock’n’roll, si incaponì a scrivere testi sublimi e rivoluzionari, poesie musicali che hanno generato un equivoco ancora oggi diffuso, ovvero la convinzione che una canzone possa essere un’opera d’arte, niente di meno. Gli stessi Beatles presero alla lettera quella magnifica illusione, scrissero musiche che non esistevano, che nessuno aveva mai ancora immaginato e disegnavano paesaggi misteriosi ed eccitanti. E da lì in poi un diluvio, a stento trattenuto da istituzioni competenti e schiere di accademici, le canzoni che dal rock’n’roll hanno avuto linfa hanno tracimato in ogni luogo, incontenibili, ardite, portatrici di sogni, o meglio canzoni sognate, letteralmente (Yesterday, Satisfaction), e sogni diventati canzoni (Imagine su tutte), e poi ancora di più con ulteriore spericolato salto di qualità si è osato pensare che alcune canzoni messe una dopo l’altra potessero addirittura comporre un’opera. A quanto pare nessuno aveva avvertito gli Who di essere solo un sottoprodotto, e loro ignari hanno pubblicato Tommy, ovvero la più penetrante descrizione della condizione giovanile a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. E doveva essere ancora più distratto Roger Waters quando si mise in testa di realizzare con i Pink Floyd un’opera che voleva attraversare la condizione umana nel suo complesso, con un incipit che è un battito cardiaco e i temi seguenti che parlano di denaro, empatia, morte, pazzia, e poi anni più tardi un’altra opera ancora oggi capace di evocare tutti i muri, interiori ed esteriori, che dividono invece di unire. Nessuno gli aveva spiegato che è solo rock’n’roll, che queste cose non si fanno. Va bene divertirsi un po’, fare casino, scalmanarsi di tanto in tanto, ma le cose serie per carità, quelle bisogna lasciarle fare ai grandi. Insomma, un conto è il baffo di Duchamp sulla Gioconda, altro conto è la Gioconda. 309

Questo per dire che ancora oggi qualcuno vorrebbe non prenderlo troppo sul serio questo rock’n’roll, e del resto a volte ci pensano gli stessi rocker a dissacrarsi da soli. Gli Stones se lo sono detto da soli: «I know it’s only rock’n’roll...», poi quasi a scusarsi «but I like it, yes I do», però mi piace. Il rock ha avuto martiri, eroi, visonari, sublimi poeti, ma anche tanti ribaldi antieroi, vere canaglie dell’edonismo assoluto che sul pregiudizio ci hanno, come dire, vomitato sopra, con allegria. Primi tra tutti gli Stones. Ma altri invece tutto questo l’hanno preso maledettamente sul serio. Prendete David Bowie. Per tutta la sua vita ha avuto nello sguardo la feroce e allo stesso tempo serena determinazione di chi intende trasformare tutto in arte, foss’anche la selvaggia e iriducibile natura di un Iggy Pop o l’oscura perdizione del maestro Lou Reed, trash, lustrini, fantascienza d’appendice, disco-music, ragni provenienti da Marte, Nietzsche e Lindsay Kemp, tutto in lui diventava bellezza trapunta di gloria. Alla fine ha messo in scena la sua stessa morte, consapevolmente, lasciandoci il più straziante e definitivo dei gesti di un artista, come nessuno aveva fatto prima di lui. E se esiste un paradiso degli artisti, Bowie è lì che ci guarda e sogghigna, domandandoci: ne siete proprio sicuri? It’s only rock’n’roll?

Santino Spinelli I rom rubano i bambini

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o sanno tutti ormai. È una verità acquisita, è una verità quasi evangelica. È una paura diffusa. È come un mantra che si ripete continuamente per autoconvincersi. È un prodotto DOC ben reclamizzato soprattutto in occasione di elezioni politiche. Certi partiti ci fanno grande affidamento e i mass media servono i loro committenti in maniera impeccabile. Servizi assolutamente accurati basati sull’emotività, sullo sdegno e sulla rabbia che la sottrazione dei minori può suscitare. Un’invenzione dei paesi occidentali che ricalca uno slogan altrettanto celebre: «I comunisti mangiano i bambini». Guai a toccare i bambini. I bambini sono sacri. Sono la linea di demarcazione fra la civiltà e la barbarie. Peccato che i bambini rom costretti a vivere nei campi nomadi in condizioni disumane non rientrano nella categoria «bambini». I campi nomadi sono un’invenzione occidentale, italiana in particolare, per creare segregazione razziale e politiche di ghettizzazione, ma soprattutto per creare business. Mafia Capitale docet. Politici corrotti, mass media deviati, organizzazioni benemerite di pseudo-volontariato e criminali senza scrupoli hanno rovinato almeno quattro generazioni di bambini rom stranieri provenienti dai territori dell’ex Jugoslavia e dalla Romania. Gli hanno sottratto il diritto di sognare a colori. Gli hanno tolto un futuro relegandoli nei ghetti più ripugnanti. Strano destino quello dei rom, o meglio della popolazione romanì costituita da rom, sinti, cale/kale, manouches e romani311

chals, percepiti più come una «categoria speciale di persone» che come esseri umani. Una popolazione transnazionale con comunità differenti e paradigmatiche, un’infinito antropologico con tante sfumature. Eppure un solo stereotipo si è imposto: lo zingaro nomade funzionale a Mafia Capitale. «Zingaro» è un eteronimo con un’accezione fortemente negativa, è come chiamare gli italiani mafiosi. Rom invece è un etnonimo esattamente come lo è «italiano». La mobilità dei rom è sempre stata coercitiva e figlia delle persecuzioni, altro che scelta di vita. I rom non sono mai stati nomadi per cultura. Mistificazione pura come la propaganda richiede. In India, la terra d’origine, vivevano in abitazioni stabili. Dopo l’esodo, dove hanno trovato situazioni favorevoli sono rimasti senza problemi. Rom, sinti, cale/kale, manouches e romanichals con le loro infinite comunità diversissime sono arrivati in ogni continente, anche attraverso le deportazioni dei secoli passati quando gli spagnoli, i francesi, gli inglesi e i portoghesi non li volevano sulle loro terre e li trasferivano a forza verso le loro colonie d’oltreoceano. La loro storia nessuna la conosce; nessuno conosce la schiavitù subita nei Principati Rumeni di Moldavia, Valacchia e Transilvania e la grande persecuzione sotto le dittature nazifasciste. Oltre mezzo milione di rom e sinti massacrati ma nessuno conosce i termini Porrajmos (divoramento) o Samudaripe (la grande morte) gli equivalenti della Shoà ebraica. E l’arte romanì, la cultura romanì e la lingua romanì? Robe da specialisti e ben nascoste dalla propaganda. Così come nessuno sa che personaggi celebri appartengono alla popolazione romanì, da Zlatan Ibrahimovic a Charlie Chaplin, da Rita Hayworth a Bob Hopkins, da Joaquín Cortés ai Gypsy Kings, passando per presidenti di Repubblica in Sud America, per un beatificato dal papa Giovanni Paolo II e perfino per un rom danese insignito del Premio Nobel per la Medicina nel 1920. 312

Eppure le comunità romanès appartengono all’Europa da oltre sei secoli, e ad essa hanno contribuito facendo confluire la propria arte nel patrimonio etnofonico locale e sviluppando stili musicali come il flamenco, il verbunkos, la czardas, il jazz manouche, la musica balcanica e dell’Est d’Europa. Un apporto immenso mai realmente riconosciuto. Solo gli aspetti sociali più negativi emergono dalla propaganda per una discriminazione su base etnica mai realmente superata, né si ha intenzione di superarla per puro interesse politico ed economico. Si fa passare per cultura ciò che in realtà sono gli effetti collaterali devastanti della discriminazione. Accadeva lo stesso agli italiani immigrati quando non erano ben accettati all’estero, i quali sono riusciti ad integrarsi solo quando le istituzioni dei paesi che li accoglievano hanno deciso di proporre politiche di inclusione. Le comunità romanès sono state discriminate e perseguitate sotto gli imperi, sotto le monarchie, sotto le dittature e sorprendentemente lo sono nell’Europa delle democrazie. Un’infinità di denaro circola attorno al mondo dei rom attraverso progetti europei e pubblici assolutamente fasulli, tanto che la mafia ha ritenuto più conveniente dedicarsi ai rom ed agli immigrati che vendere armi e droga. Quello dei campi nomadi è stato un business immenso negli ultimi trentacinque anni in Italia. A tal fine i rom dovevano essere «forzatamente» nomadi. E allora ecco organizzazioni italiane con il nome di «nomadi» ben in vista e articoli e libri farlocchi che celebrano il «nomadismo» per giustificare in realtà la segregazione razziale. Ecco lo slogan appropriato: «È nella loro cultura». Un crimine contro l’umanità, ben mistificato e «nascosto». Una trappola in cui molti continuano a cadere. Ovviamente per reprimere e fare intrallazzi pubblicamente occorre il «consenso» dell’opinione pubblica, vittima ed ignara, che si ottiene attraverso un’accurata propaganda. Goebbels, ministro della propaganda nazista, sosteneva che una bugia 313

detta tante volte diventa verità. Noi aggiungiamo: «E manipola le coscienze». Il giochetto continua a funzionare ancora oggi. Soprattutto oggi. Fin dagli anni Novanta ho denunciato Ziganopoli (Mafia Capitale) nei miei articoli e nei miei libri. Tutti hanno fatto finta di non capire e di non sentire girando lo sguardo dall’altra parte. In compenso ho ricevuto minacce e delegittimazioni di ogni sorta. Ora che tutti sanno di Mafia Capitale cosa è cambiato per i rom e sinti in Italia? Assolutamente nulla. Si continuano a finanziare senza controlli progetti fasulli in nome e per conto dei rom e sinti, ai quali certamente non arriva nulla e si continua a far proliferare e a sostenere i costosissimi campi nomadi, ovvero le pattumiere sociali che confermano tutti gli stereotipi necessari e funzionali sulla pelle di donne, bambini e anziani inermi. Con una minima parte di questi ingenti finanziamenti si potrebbero proporre serie politiche di integrazione. Ma non si vuole. Così la propaganda tende a togliere dignità pubblica e a scontornare i rom e sinti di ogni aspetto umano. Nessuno deve riconoscersi in un rom, presentato come alterità negativa e repulsiva, lontano dal mondo e dai valori occidentali. I gage (non rom) pensano di sapere tutto sui rom, salvo scoprire di sapere poco o nulla. Come, per esempio, che la stragrande maggioranza dei 180.000 rom e sinti che vivono in Italia sono presenti sul suolo nazionale dal 1400 e sono cittadini italiani. I rom del Sud Italia hanno fondato la città di Jelsi (Campobasso) ed erano residenti in casa nel 1500 a Roma (Rione Monti) e a Napoli (tra Porta Nolana, Porta Capuana e la chiesa Santa Maria alla Scala) come la moderna toponomastica riporta. La propaganda è totalizzante. Oltre a disumanizzare e a mistificare tende anche a degradare moralmente. Quale strumento migliore a tal fine che coinvolgere i bambini? Se i comunisti mangiano i bambini, i rom li rubano. Peccato che la realtà dice ben altro. Non un solo caso di sottrazione di minore da parte di un rom o romni (donna rom) accertato dalla magistratura. Un 314

grande bluff. Una bufala madornale. Una fandonia metropolitana. Però sempre utile e proponibile agli ignari suscettibili. Funziona comunque, soprattutto in epoca elettorale. Tanto chi va a verificare? Chi se ne frega dei rom? Si dà la notizia seppur fasulla ma mai la smentita una volta accertati i fatti. Nella memoria collettiva resta solo la notizia che si vuole conservare. La realtà e la storia dicono invece il contrario. Sono i gage a sottrarre i bambini rom e sinti alle loro famiglie sotto diversi pretesti. Come accadeva in passato con le organizzazioni pseudo-filantropiche che toglievano i bambini delle comunità romanès ai loro cari. Ciò accadde con continuità in Ungheria durante l’Età dei Lumi sotto Maria Teresa e suo figlio Francesco Giuseppe o in Svizzera dall’inizio del Novecento fino al 1973. La società filanantropica al di sopra di ogni sospetto, la Pro Juventute, istituì un’opera di soccorso per i bambini della strada maestra. La realtà fu che l’amministratore dell’organizzazione, Alfred Siegfrid (un pedofilo secondo le testimonianze delle vittime), fece sottrarre alle famiglie romanès con l’aiuto della polizia e delle autorità locali, numerosi bambini ai quali si faceva credere che i genitori li avevano abbandonati o che erano morti. Le bambine venivano sistematicamente sterilizzate. Oggi i tribunali dei Minori sottraggono, non sempre in maniera consona e comunque con molta facilità, i bambini rom e sinti alle loro famiglie per darli in affidamento a coniugi italiani senza figli. Una miriadi di casi. Questi sì accertabili. I rom rappresentano un capro espiatorio ideale senza protezione istituzionale o politica e senza riconoscimento dei loro diritti. Le proteste da parte degli attivisti sono facilmente cestinabili. Tutti hanno interesse che le cose vadano come sono state pianificate dalla politica. Non accadono per caso come credevo quando ero giovane. Dopo che sono entrato nella stanza dei bottoni ho capito come funziona. E non bisogna ribellarsi perché passi come eccezione e addirittura come il «vero» problema della tua stessa gente. Malcom X sosteneva 315

che la propaganda ha il potere di far apparire le vittime come carnefici e i carnefici come vittime. Certamente non tutti i rom e sinti sono onesti e bravi, questo va riconosciuto; ma neanche tutti sono criminali. Buoni e cattivi sono ovunque, occorre evitare di fare di tutta l’erba un fascio. La maggior parte dei rom e sinti vivono onestamente e si spaccano la schiena per arrivare a fine mese come tutti gli altri italiani. Queste persone onestissime e attive non danno fastidio e non sono attorniati dai clamori mediatici per cui non esistono per l’opinione pubblica. Del resto le associazioni e le organizzazioni che si occupano dei rom e sinti per mestiere non hanno l’interesse a migliorare la situazione, anzi. Non avendo un lavoro onesto come camperebbero? Attorno al mondo rom c’è di tutto e tutti sono pronti a proporre progetti e a dirsi sostenitori e aficionados. Uno sciacallaggio che ha creato una sorta di neocolonialismo a discapito della cultura romanì e di persone indifese. È incredibile il grado di disinformazione nell’era della comunicazione. È in atto un genocidio culturale che peserà infinitamente sulla coscienza dei nostri contemporanei; ciò che non hanno fatto imperi, monarchie e dittature sta riuscendo alla moderna e civilissima Democrazia, ma nessuno sa nulla. Tutto tace. Il silenzio è connivenza. I rom e sinti partigiani durante la Seconda guerra mondiale, splendidi eroi dimenticati, hanno combattuto i disvalori dei nazifascisti, hanno contribuito alla Resistenza. Cosa hanno trovato per i loro discendenti? La stessa discriminazione su base etnica, gli stessi stereotipi, lo stesso rifiuto e la stessa segregazione razziale. Si sono immolati per cosa? Razzismo e segregazione razziale sono crimini contro l’umanità! Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. I rom non sono né migliori né peggiori degli altri, certamente non hanno mai attuato nessuna forma di terrorismo per rivendicare il diritto all’esistenza né mai hanno avuto un esercito per dichiarare guerra a nessuno. Sono sempre rimasti nelle 316

grinfie di coloro che hanno fatto di loro ciò che volevano. Le comunità romanès non si sono mai liberate davvero da questo gioco. La cultura romanì è pacifista e profondamente legata ai valori della vita. Basta leggere la letteratura romanì per comprenderlo. I rom, dunque, non sono zingari, né nomadi, né hanno bisogno dei campi nomadi, sono esseri umani, portatori di una identità culturale conciliabile con tutte le altre culture se solo le istituzioni e la politica lo volessero realmente e se si superassero i progetti fasulli e la volontà di far soldi sulla pelle di innocenti. Ma si vuole superare il neocolonialismo autoreferenziale e Mafia Capitale? Se la politica ti dà addosso, i risultati sono ciò che vediamo. Se invece ci fosse una vera volontà di cambiare, allora tanta verità verrebbe a galla e tanti stereotipi sarebbero spazzati via. Altro che i rom rubano i bambini! Allora sì che si capirebbe che i rom hanno tanti di quei figli che non sanno cosa farsene dei figli degli altri...

Paolo Cornaglia-Ferraris La salute non ha prezzo

L

a frase consola chi ha tanto speso per spostare sé stesso o un proprio caro nelle città dove la medicina ha fama d’essere efficace. A Trapani, per esempio, si sente dire che «il miglior medico è l’aereo». Il senso di questo luogo comune, dunque, sta soprattutto nei costi e disagi per viaggi e alberghi di chi va e viene dalle periferie, per assicurarsi medici e strutture con maggiore esperienza. Ma chi paga tutto il resto? Quanto costa la moderna medicina e quali benefici reali propone? Quanti riesce poi a garantirne? Proviamo a capirlo ragionando sui alcuni numeri. La spesa medica è aumentata costantemente, ogni anno negli ultimi 40 anni, grazie alla larga diffusione di nuove e più tecnologiche cure. Conoscenza del genoma umano, diagnostica molecolare e per immagini, farmaci biologici mirati, permettono di non morire a molte migliaia di persone ogni anno. L’impressionante costo di tutto ciò occupa più del 80% dei bilanci regionali. Dove sono i soldi arrivano ladri e corrotti, ma ciò riguarda, insieme agli sprechi, un quarto della spesa. Se produttori, fornitori, politici e manager fossero tutti onesti, l’aumento cesserebbe? Nemmeno per sogno. Un calcolo approssimativo indica nel 16% i costi per mazzette e furti ed in circa il 10% quello degli sprechi, ma la domanda più importante resta immutata: siamo certi che il valore dell’aumento di spesa medica corrisponda a quello di aspettative e bisogni? Se questi fossero infinita efficienza sessuale, eterna prestanza, 318

bellezza e giovinezza, staremmo mica seguendo solo stupide chimere? Proviamo a rispondere paragonando la dinamica di spesa per la salute con l’aspettativa complessiva di vita. Dal 1960 al 2000, una stima realistica consente di calcolare in € 20.000 il costo di ogni anno di vita guadagnato. Dal momento che il valore della vita di un adulto che lavora è calcolabile intorno ai € 50.000, l’aumento di spesa sanitaria potrebbe essere giustificato e noi tutti spinti a credere che ne valga la pena. Se però facciamo lo stesso calcolo per chi è arrivato a 65 anni, scopriamo che l’anno di vita in più costa almeno € 80.000, a fronte di una produttività che gradualmente scende sino a zero. Bisogna dunque che siano molti gli adulti sani che producono valore, per sostenere i costi destinati agli anziani. In un Paese ricco, che fa tanti figli ed accoglie prontamente lavoratori stranieri, potremmo stare tranquilli, ma non è così. La verità è che da anni, ormai, la tendenza all’aumento della spesa sanitaria non è giustificabile coi benefici ottenuti. Giuseppe ha vent’anni: sarcoma dell’osso. L’Istituto Rizzoli di Bologna è tra i migliori d’Europa. Il costo delle cure di Giuseppe è di circa € 100.000 per anno. Quelli come lui sopravvivono in quattro casi su dieci. Gli altri muoiono, dopo anni di cure. Costi proibitivi quando ribaltati sulla minoranza dei guariti. Essenziale sopportarli collettivamente in un Paese civile, che voglia salvare la vita dei propri giovani ed abbia sviluppato competenze per farlo, coltivando la speranza che quei quattro diventino dieci su dieci. Beniamino ha 92 anni, prende farmaci da almeno trenta ed è ancora autonomo. Una stupida scivolata gli fracassa il femore. Curarlo e operarlo costa € 64.000. Senza intervento, cesserebbe di vivere in poche settimane, allettato e dolorante. Se operato, potrebbe rimettersi in piedi per qualche mese, forse per un paio d’anni ancora. Cosa decide in tal caso un Paese evoluto? Salviamo tutti i Giuseppe e tutti i Beniamino, affermerebbero con sicurezza i produttori di protesi e farmaci, ma poi avremo i soldi per fare anche il resto? 319

Le ragioni dell’aumento di spesa sanitaria per ogni anno di vita in più sono giustificate da benefici diffusi, come il caso della pillola che controlla la pressione sanguigna: costa poco, previene ictus e infarto, allunga la vita a milioni di persone. Prima considerate sani, ora consumatori di farmaci sin da giovani. Il gaudio dell’industria farmaceutica equivale a quello della comunità. Costo contenuto, beneficio elevato: partire in tempo per pagare di meno migliora la qualità di vita. Se bastasse eliminare l’eccesso di sale da cucina sul cibo, eviteremmo il costo delle pillole? Spiacerebbe all’industria e renderebbe la vita sciapa. Che fare: per ora abbondiamo di sale e prendiamo le pillole. Cibo e vino scadente, tabacco, obesità, sesso promiscuo ed eccesso di carne fanno danni, ma per molti sono bisogni o piaceri insopprimibili. Si ammalano prima e più spesso, ma tanto paga la mutua. Si può colpevolizzare indigenti o gaudenti, predicando che tutti diventino simil quaccheri o vegani? Moderazione e prevenzione possono essere insegnate sin dall’asilo e portare a risparmi, qualità di vita migliore e più lunga, di ciò siamo certi. Si potrebbe contenere così la spesa sanitaria? La risposta è difficile, ma chi abbia competenza per sviluppare modelli matematici, potrebbe offrirci calcoli interessanti. Proviamo, però ad essere realistici. La salute collettiva è preoccupazione relativa rispetto a quella privata. L’esempio dei vaccini è clamoroso. Chi se ne frega della prevenzione del morbillo? L’importante è non sottoporre il mio bambino a una puntura che gli fa tanta ‘bua’ e provoca chissà quali misteriosi danni, a vantaggio di chissà quali industrie senza scrupoli. Ignoranza e paura fanno vendere bene inutili rimedi, vitamine e tanti integratori alimentari, privatizzando cure e diete del passa parola, non raramente ridicole. Oppure basate esclusivamente su un effetto placebo, ottenibile con acqua di fonte, a patto di considerarla miracolosa, (soprattutto meno costosa). La riduzione di mortalità ed una miglior qualità di vita dipendono per la metà dall’evoluzione della medicina. Il restante 320

50% del merito va a fogne, buon cibo, aria buona, camminate, limiti di velocità, politiche sociali solidali, lungimiranza di politici e intelligenza di amministratori. Fossimo un Paese così virtuoso, la spesa sanitaria continuerebbe comunque a salire, il carico sociale, già insostenibile, diventerebbe impossibile. Chi è ricco potrà curarsi, chi non lo è rinuncerà a farlo: questo lo scenario più probabile. La rivoluzione genetica curerà gli incurabili, ma solo se pagheranno per farmaci che costano già oggi mille euro a pastiglia. Una al giorno per un anno e sei fuori dall’epatite C: non basta agli esclusi vendersi l’appartamento. In conclusione, anche se la spesa medica è aumentata nei passati quarant’anni in modo esponenziale e promette di farlo sino al crollo del diritto alla salute, i soldi spesi hanno portato ad un aumento della vita media, ma anche del periodo medio di dipendenza da farmaci. Viviamo più a lungo, ma ci ammaliamo prima. La qualità della vita guadagnata tende a peggiorare, soprattutto per gli anziani. C’è bisogno di studiare con attenzione il fenomeno, per assicurare la tenuta sociale. Uno sforzo da accelerare, puntando a specifiche malattie, rare o diffuse che siano, per definire nel tempo il valore di ogni nuovo intervento rispetto ai benefici raggiunti. I politici devono avere un quadro assai meglio definito dei risultati ottenuti con i soldi stanziati. I servizi sanitari regionali non possono farlo gestendo la cosa in autonomia e competizione tra loro. La salute è un diritto irrinunciabile garantito dalla Costituzione. Non negoziabile, non cedibile a ladri e lobby, essenziale alla tenuta della pace sociale.

Mariapia Veladiano La scuola italiana è fuori dalla realtà

C’

è stato un tempo in cui la scuola aveva il compito di riprodurre la realtà così come stava, con tutte le sue disuguaglianze, i rituali sociali, l’ambizione di poter dire che il mondo così come stava era buono e giusto e che se qualcuno, tanti, la maggior parte dei ragazzi restava indietro l’importante era assicurare (e rassicurare) le opportune élite di governo. Che questa visione venisse da una buona o da una cattiva coscienza è importante per la storia, meno per l’oggi perché il patto democratico che la Costituzione ci consegna promette insieme l’uguaglianza reale dei diritti (art. 3) e l’equità e la libertà di insegnamento (artt. 33 e 34). Non è poco. Vuol dire mobilità sociale, riconoscimento delle capacità, affermazione che non siamo già scritti alla nascita. Qui si parte dall’idea della scuola come bene comune, pubblica, indisponibile a convenienze private, laboratorio di convivenza, di conoscenze e di spirito critico, libera, come dice la Costituzione. Questa scuola non è fuori dalla realtà per il fatto ovvio che la realtà le arriva tutta intera in classe, non selezionata sulla base del reddito, del credo, dell’etnia o delle capacità. Arriva insieme allo sciame di comportamenti, giudizi, pregiudizi, conoscenze e soprattutto attese dei ragazzi. Poi ci sono le richieste dirette. Se la realtà alla scuola chiede tutto, dall’accudimento dei figli al loro accesso alla Normale, allo svago, alle lingue, allo sport, alla musica, tutto tutto tutto, compresa la sicurezza 322

totale, quella che fuori allegramente si ignora costruendo un mondo avvelenato, malato di traffico e rumore e disattenzione, sempre in corsa per non si sa dove, allora la scuola deve resistere e ancora resistere e dire no, non funziona così perché così non si fa un buon servizio al mondo e ai ragazzi che ci sono affidati. La realtà può essere inseguita oppure governata. Vale per la politica, per la nostra vita individuale, vale soprattutto per la scuola che dovrebbe godere di una libertà infinitamente maggiore rispetto alla politica afflitta (non necessariamente) dallo strabismo del consenso. Perché coltivare un pensiero è un compito che pretende una presa di distanza. La realtà arriva a scuola nella forma del mito della prestazione individuale. La parola «competitività» copre una sventurata assenza di pensiero oppure, semplicemente, una acquiescenza colpevole a un pensiero comune che percepisce il successo come mio a discapito degli altri. Uno su mille ce la fa e pace per chi resta indietro. Che non è vero ce lo insegnano anche gli economisti, se proprio non si vuole parlare di giustizia. Il mondo è uno, le risorse sono limitate, il potenziale distruttivo delle armi dei ricchi e della disperazione dei poveri richiede una collettiva straordinaria capacità di governo della complessità. Costruire questa forma di pensiero è un’operazione a cui è chiamata la scuola in quanto luogo di esercizio del pensiero e della convivenza. A scuola si può acquisire l’abitudine alla collaborazione, alla soluzione dei conflitti, al piacere del risultato raggiunto come gruppo. È un modello che si apprende per «esposizione» e «pratica». L’omiletica non serve. Funziona se il mondo tutto della scuola lo mette in opera. Le indagini ci dicono che i docenti sono più efficaci e anche più felici quando possono entrare nei processi decisionali, lavorare in gruppo a un progetto, condividere i problemi di classe e di scuola, portare insieme il peso di una sconfitta. C’è proprio da chiedersi se il modello di premialità individuale ed economica affrettatamente introdotto quest’anno nella scuola italiana porti nella direzione giusta. 323

Non dobbiamo inseguirla la realtà ma dare gli strumenti per leggerla e cambiarla e renderla più giusta. Per orientarne la direzione in senso più umano. Più felice? Bisogna anche resistere alla tentazione di «corrispondere» a richieste sbagliate. I bambini ce li consegnano investendoci di una quantità smisurata di attese. Ma sappiamo che quella dei genitori di oggi è la prima generazione convinta che i figli avranno una vita peggiore di quella che loro stanno vivendo. Vuol dire che caricano le loro ansie sulla scuola, pronti a crocifiggerla al primo errore. Il mondo arriva a scuola con una carica di aggressività verbale, dei sentimenti, dei gesti. Anche questa va governata. Non ci sono scorciatoie possibili. Quella del «preside sceriffo» è la più indecente delle bugie perché si sa perfettamente che nelle organizzazioni complesse nessuna persona singola può da sola essere responsabile di un risultato, sia esso buono o cattivo. Tutti parlano e sparlano della scuola con una sorprendente mancanza di umiltà e, se la parola dà fastidio, di prudenza, prudenza legata alla complessità di un compito che chiede la calma di un pensiero che non sia sempre sotto pressione. Quanto tempo stanno a scuola i ragazzi. Devono avere il senso di un tempo pieno, un bel ritmo, nessuna sbrodolatura. Se la scuola comincia un certo giorno di settembre, docenti e struttura devono essere pronti, poter partire. Nello stesso momento però ci deve essere la libertà dall’ossessione della meta. Vale il percorso, i giorni passati insieme come esercizio di convivenza, per cui se qualcosa non va, un rapporto si corrompe, un piccolo bullismo nasce, allora fermi tutti, si deve vedere e intervenire. Si va controvento ma non contro la realtà. Contro l’arrivismo, contro la semplificazione che è tradimento della ricchezza di un mondo complesso, contro il razzismo, contro l’egoismo, contro quel triturare la realtà andando avanti, avanti e nemmeno vedo il ciglio della strada che percorro, le persone che incontro. 324

La realtà arriva a scuola con i ragazzi anche nella forma di una coscienza arresa all’ingiustizia in una misura che non si credeva più possibile. Rassegnata alla disuguaglianza, disillusa sull’equità, intortolata in una ragnatela di smanie spacciate per desideri: diventare ricchi con un colpo di fortuna, famosi a costo del ridicolo, conoscere le persone «giuste» perché la cultura in fondo conta poco. Ecco, la scuola vive proprio dentro questa realtà e impedisce che l’ultima democratica uguaglianza rimasta sia quella della comune ignoranza e della inconsapevole obbedienza.

Giulio Giorello Noi del Sessantotto siamo gli unici ad aver provato a cambiare il mondo

«I

filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo». Si tratta della celebre undicesima Tesi su Feuerbach, stesa da Karl Marx, maestro di concisione ed eleganza quando si trattava di scegliere slogan (che dire dell’invito alla prassi, come l’avrebbe chiamato Gramsci, con cui lui e Engels chiudevano il Manifesto del Partito Comunista, «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi»?). Ma, tanto per rimanere in tema di prassi, un conto sono le frasi a effetto e un conto sono le opere. Ed è dalle opere che va valutato chi vuol davvero mutare sé e il mondo. Ora, i vari movimenti giovanili che simbolicamente si concentrano in quell’anno fatale – 1968 – sentivano certo profonde esigenze di un cambiamento che in molti casi prese i tratti di una vera e propria palingenesi. Ma ovviamente gli studenti o i giovani operai che si sentivano i protagonisti di quegli anni, che qualcuno ha addirittura etichettato come formidabili, non erano certo i primi a inseguire il sogno del rinnovamento totale. È vero, comunque, che fu un’ondata di protesta che, partita dalle città e dai campus universitari statunitensi, travolse l’Europa e non mancò di lambire le campagne della Cina. È pressoché impossibile collocare tutto questo in uno schema coerente e unitario; e far questo sarebbe forse il modo più sottile di tradire gli stessi «sessantottini». Dovremmo guardare di più alle differenze tra i vari «contestatori» dello «stato di cose presente»! All’inizio c’era forse una generica richiesta di maggiore libertà

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individuale e insieme un’appassionata esigenza di giustizia sociale. Per lo più, queste istanze venivano schierate contro contesti sovraindividuali (famiglia, scuola, partito, Chiesa e Stato) percepiti come soffocanti per l’eccesso di autoritarismo. Di qui tutto un pantheon della liberazione che aveva le sue divinità in Nietzsche (la contestazione della menzogna), Freud (contro i vincoli sessuali del «buoncostume»), Marx (contro le diseguaglianze socio-economiche, quelle che allora si dicevano «di classe»). Era difficile che spunti di tale genere potessero restare insieme prima che «il movimento» non si frantumasse in una miriade di gruppuscoli, armati più gli uni contro gli altri che contro l’onnipresente ma impalpabile «sistema». E come spesso era capitato in un passato prossimo o remoto, a imporsi erano stati non i libertari ma i nuovi autoritari della più varia estrazione. Per di più, per riprendere la Tesi su Feuerbach da cui abbiamo preso le mosse, andrà certo bene cambiare il mondo, ma bisogna anche saperlo interpretare. Sotto questo profilo, l’emergere del marxismo come prospettiva dominante e onnipervasiva in non pochi luoghi della contestazione – com’è stato, per esempio, nel nostro paese – ha finito col diventare una gabbia concettuale dalle maglie fin troppo strette. Dall’insofferenza nei confronti degli apparati burocratici del blocco sovietico si doveva così passare all’esaltazione di questo o quell’esperimento nel nome di Marx, prescindendo dai costi in termini di vite umane, di sottosviluppo economico e sociale, di arretramento culturale. Prima ancora che si definissero gruppetti portati a replicare qui da noi i rituali della rivoluzione culturale cinese o della (meno disumana) resistenza di Cuba contro il «capitalismo americano», si erano profilate tesi per lo meno bizzarre come quella della contrapposizione tra scienza «borghese» e scienza «proletaria», rispolverando scampoli epistemologici del compagno Stalin. Per non dire delle retoricamente più sofisticate considerazioni circa «il carattere di sapere positivo e adialettico» della matematica e delle scienze della natura 327

ampiamente matematizzate; mentre valeva solo l’esempio della critica dell’economia politica – una tesi di cui in realtà doveva esser facile riconoscere la matrice tipicamente neoidealistica. Il che voleva dire che i ricercatori più brillanti nel campo della matematica, della fisica o della biologia avrebbero dovuto gettarsi anima e corpo nella lotta politica, secondo le indicazioni dei capetti vecchi e nuovi. Per fortuna, i più brillanti dei giovani ricercatori hanno saputo liberarsi da questo schematismo totalitario. E tuttavia, mi guarderei bene dal liquidare il Sessantotto e dintorni come un gigantesco fallimento collettivo. Ancora una volta, è all’impegno individuale che è opportuno guardare. Non ai sogni del partito che realizza finalmente la rivoluzione, ma a quelli di chi si oppone giorno per giorno a piccole o grandi forme di discriminazione. Non cadiamo nel luogo comune opposto a quello da cui siamo partiti: piacerebbe a tutti quei signori che di quegli anni troppo «formidabili» hanno avuto davvero paura! Basta guardare, invece, alla conquista del divorzio nel nostro paese, alla tolleranza dell’obiezione di coscienza alla leva armata, al riconoscimento della liceità dell’interruzione della gravidanza, alle conquiste – in gran parte iniziate allora, ma lungi dall’essere portate a termine – dell’eguaglianza di genere. Non voglio con questo dire che tutto ciò sia un regalo del Sessantotto. È solo un invito a riconsiderare quella generosità che aveva spinto agli inizi tanti «contestatori» a cercare un rinnovamento dei modi della convivenza. Il rinnovamento c’è stato; però, non si è configurato come la grande deflagrazione globale che gli «apocalittici» auspicavano o temevano, bensì per così dire «a spizzico». E per comprendere tutto ciò avremmo bisogno di una microfisica del riformismo, tanto più preziosa ed efficace oggi che, per dirla con le parole di Marco Ventura («La Lettura», supplemento del «Corriere della Sera», domenica 24 luglio 2016), sta tornando il vecchio Dio dei fanatici e degli intolleranti; e noi scopriamo quanto teniamo invece alle nostre «piccole» libertà, soprattutto quando rischiamo che vengano cancellate. 328

Andrea Carandini Signori si nasce

I

Romani sono nati bastardi e stranieri. Non sapevano cosa erano razza o sangue. I re e i magistrati venivano eletti da un’oligarchia mista a democrazia, per cui la nobiltà stava nel merito magistratuale, politico e militare. Solo con le caste signori si nasceva: penso alla aristocrazia francese chiusa nel privilegio. Poi dalla fucina umana dell’Occidente (dell’Italia nel Medioevo) è cominciata a sorgere la classe borghese, ignota all’antichità, che ha fondato per la prima volta la signorilità sul merito e sull’intrapresa economica e anche culturale più che sulla politica (l’antichità invece non aveva amato confusioni fra negozio e ozio). Al contrario di quella francese, l’aristocrazia britannica – eccezione che spiega le sorti del globo – era solita unirsi alle famiglie di stato medio, unendo così all’impero transmarino l’incipiente modernità. In seguito la grande borghesia ha dominato e infine è declinata anch’essa, ultima grande élite, assimilata poi nell’amorfo ceto medio divenuto maggioritario nella società: è questo il tempo del liberalismo coniugato alla democrazia di massa. In alcuni paesi del mondo hanno funzionato gli ascensori sociali, che hanno messo in comunicazione il basso e l’alto. In Italia la decadenza delle scuole, lo spregio per il merito, il disdegno per la sua misurazione e l’arresto della crescita hanno fatto le fortune degli immeritevoli, bloccando gli ascensori sociali e il paese tutto. Così da noi signori per nascita ancora si diventa; «signori» per modo di dire, perché la borghesia critica non ha conosciuto successori 329

adeguati, almeno da noi, per cui abbiamo una classe dirigente sempliciotta (i vestiti bene non vengono più eletti). Sono nato dalla unione tra la famiglia di antica nobiltà modenese dei Carandini, dai mezzi assai modesti, e la famiglia alto-borghese degli Albertini. Ho sostituito il conte con il professore, scegliendo il versante borghese. Ho attribuito i mali dell’Italia a una carenza di spirito borghese indipendente e critico: da una mancata riforma religiosa che forse ora trafelata sopraggiunge mezzo millennio in ritardo, a una borghesia concentrata soprattutto al settentrione, fiaccata dalla realtà del fascismo, dal mito del comunismo (che in un certo momento sembrava potesse salvarne i valori) e da una impareggiabile capacità autodistruttiva: signori proni alle chiese per comodità di affari, oppure estremisti arrabbiati al fine di attutire il senso di colpa (nessun nemico a sinistra). Fine di un mondo! La borghesia è la classe che ha reinventato il capitalismo commerciale (già sviluppato dai Romani), ha sviluppato su base cristiana l’individuo libero di scegliere, ha inventato di sana pianta il capitalismo industriale e il primato della scienza e della tecnica, presupposto di un potere mondiale, ha scoperto la democrazia liberale come bilanciamento dei poteri e come combinazione di Stato e società civile attiva: forma politica accusata dai critici di oligarchismo senza che giungessero a dimostrarlo (secondo Sartori) e senza indicare una forma alternativa, inclini a inseguire una armonia tra valori in conflitto come libertà e eguaglianza. La borghesia è stata predatrice del mondo, come tutte le forme tribali, statali e imperiali a cui l’homo sapiens ha dato vita, fin dall’inizio specie distruttrice dei cugini Neanderthal, dei mammuth, dei grandi marsupiali australiani, delle foreste a vantaggio dell’agricoltura, dell’agricoltura a favore dell’industrialismo, dell’ambiente a favore della speculazione (il lato più nero). Eppure questo predare connaturato alla specie si è accompagnato a forme di civiltà di cui possiamo riconoscere 330

ancora i valori umani, anche se non sono più quelli che preferiamo. Ma con un’aggiunta strepitosa da parte dei moderni, ché alle immancabili conquiste la borghesia ha accompagnato un’aspirazione alla conoscenza olistica del mondo capace di rivelare la storia di una civiltà addirittura agli stessi suoi figli altrimenti ignari (miti polinesiani, civiltà dell’Indo...). È la classe infine che accanto allo scientismo illuministico ha posto lo storicismo romantico a partire da Herder (i protestanti non decapitano più statue cattoliche, né più vi è un Voltaire che dia del barbaro a Shakespeare). ll dominio borghese ha anche unificato larghe porzioni della terra e si è accompagnato a una predominanza scientifica, tecnica e umanistica che ha portato, in parti importanti del globo, a livelli culturali e di benessere mai prima raggiunti, però sovente a scapito di grandi valori umani proprio mentre ne scopriva i diritti universali. Mai classe è stata altrettanto contraddittoria, dilaniante e dilaniata della borghesia, ma la svolta da essa impressa al globo non è più cancellabile, semmai migliorabile utilizzando le ricchezze buone del passato e immaginando un futuro di individui e comunità compatibili con le limitate risorse del Pianeta. Il tempo della civiltà borghese, breve quanto travolgente rispetto alle ere delle aristocrazie, potrebbe partorire, per conseguenza e per necessità, un mondo in cui lo stesso homo sapiens dovrà riprogettarsi in quanto specie – addomesticandosi, come già ha addomesticato piante e animali – grazie a una cultura che sempre più interviene nella evoluzione stessa – coltello a doppio taglio –, perché le civiltà attuali hanno già cominciato a consumare il capitale di risorse naturali, di significati storici e di bellezze artistiche, per cui la specie rischia di degradarsi e di perire. La riconversione della nostra specie non si otterrà tornando indietro nei modi tradizionali del predare: dei marsupiali in Australia esiste solo più il canguro e poche conquiste sono possibili alla Cina. Alla specie non resta, dunque, che usare la politica, il diritto, la scienza, la tecnica e gli studi umani inven331

tati dalla nostra civiltà e che stanno diventando patrimonio dell’umanità, come da tempo si vede nel dissenso doloroso di chi fugge dalle asiatiche dispotie per poter esistere umanamente. Ma questa volta la predazione che prende e toglie va sostituita dalla creatività che porta il buono, l’utile e il bello, giocando a perfezionarci in un tempo libero crescente invece che ingozzarci venerando solamente Mammona. Sempre meno signori si potrà dunque nascere, se la signorilità del futuro sarà legata sempre meno alla signoria e sempre più a un merito intellettuale e a un impegno emozionale capaci di capire sempre più a fondo noi e il mondo, in modo di combinare sempre più fruttuosamente gli io con i noi, che è il problema massimo dell’umanità e che mai conoscerà panacee. Una pietra è coerente ma senza vita, mentre la vita è sempre antinomia. Senza rinunciare ai diritti individuali e alle diversità del globo, che rendono libera e affascinante l’esistenza, la specie dovrà contemperarli in una visione unificata ma mai uniforme del mondo. I valori primi esistono, formano un terreno comune umano, ma ecco la scoperta: i beni possono confliggere oltre che con i mali anche tra loro, ed è questo a complicare tutto e a determinare la scena. Però anche questo vale: o ci salviamo tutti – signori finalmente non di altri ma del destino dell’uomo – oppure le rovine della basilica di Pietro non vi vedranno archeologo a scavarle. Sfida massima e inevitabile: l’uomo plurimo e uno, vario e globale, contraddittorio tra male brutto e bene bello, ma che si educa sempre più a quest’ultimo, sapendo che dovrà sempre concertare suoni diversi che spontaneamente tendono alla dissonanza più che all’armonia. Esisteranno eroi per una tale missione, grandi signori di questo futuro? Forse, ma più importanti saranno gli umani che si riuniscono, le associazioni e le federazioni, influenti come un Gran Condé. Anche agli Stati liberal-democratici servono le Fronde. I pregiudizi, che sono un male, generano pensieri che affrancano. 332

Nando Pagnoncelli I sondaggi non ci prendono mai

È

difficile, se non impossibile, confutare la convinzione largamente diffusa che i sondaggi non ci prendono mai, sono inaffidabili e perciò inutili. D’altra parte basterebbe ripercorrere la storia recente dei sondaggi elettorali per trovare le ragioni di tanta severità: alle elezioni legislative del 2013 nessuno fu in grado di prevedere il primato del MoVimento 5 Stelle, alle Europee dell’anno successivo fu pronosticato un pareggio tra il movimento di Grillo e il Pd di Renzi che viceversa si affermò con un largo vantaggio; alle elezioni regionali del 2015 non andò meglio, per esempio in Liguria non fu pronosticata la vittoria di Giovanni Toti e alle comunali del 2016 l’affermazione a Torino di Chiara Appendino su Piero Fassino non fu predetta dalle rilevazioni demoscopiche. E all’estero non se la passano meglio: in Gran Bretagna i sondaggi realizzati alla vigilia del referendum sulla permanenza nell’Unione Europea prefiguravano la vittoria di misura del Remain e tutti sappiamo come è andata a finire. Un anno prima, in occasione delle elezioni generali del 2015, i sondaggi predissero un pareggio tra laburisti e conservatori, allorché la vittoria di questi ultimi guidati da Cameron fu molto netta. In Francia alle elezioni dipartimentali del 2015 il Front National di Marine Le Pen dato per vincente da molti sondaggi fu scavalcato dall’Ump di Nicolas Sarkozy. In Israele le elezioni parlamentari del 2015 fecero registrare la vittoria del Likud del premier uscente Benjamin Netanyahu 333

sull’Unione Sionista di Tzipi Livni la cui affermazione era stata pronosticata da molti sondaggi. E potremmo continuare con molti altri esempi. Indubbiamente i sondaggi faticano a stimare con precisione l’esito elettorale e ciò non dipende tanto dalle capacità e dalla preparazione dei pollster, molti dei quali in passato si erano distinti per le stime estremamente accurate, quanto per i limiti dello strumento in un contesto, quale quello attuale, caratterizzato da una minore importanza attribuita alla politica dai cittadini e da una elevata mobilità elettorale. Per limitarci al nostro paese, da qualche anno i sondaggi fanno registrare un forte distacco dalla politica, l’indebolimento delle appartenenze, la presenza di un elettorato «carsico» che all’indomani di una tornata elettorale si inabissa per riaffiorare qualche giorno prima delle elezioni successive. E ancora, l’indecisione, spesso causata dall’offerta politica che cambia e vede nascere nuovi soggetti politici, nuove alleanze e nuovi leader. A ciò si aggiunge il ruolo delle campagne elettorali che, ontologicamente, sono fatte per smentire i sondaggi, contribuendo a modificare i pronostici sfavorevoli o agendo per rafforzare quelli favorevoli. Ecco allora un fiorire di comportamenti che mutano con l’approssimarsi delle elezioni, il cosiddetto late swing o il ricorso al «voto utile» che porta ad abbandonare il partito prediletto ma destinato alla sconfitta per orientare il proprio voto a favore del second best, meno gradito ma più competitivo contro l’avversario. E infine il tema del crescente rifiuto a rispondere ai sondaggi da parte di molti elettori che riduce la rappresentatività dei campioni, per non parlare della menzogna – difficile da misurare – in particolare nei casi di «tradimento» del partito votato in occasione delle elezioni precedenti. Ma il pregiudizio nei confronti dei sondaggi non dipende solo dalla delusione rispetto alla sua capacità «previsiva». Non va infatti sottaciuta la tendenza ad utilizzare i sondaggi per 334

orientare le opinioni dei cittadini, facendo leva sulla suggestione determinata dai numeri. Si tratta di un utilizzo che snatura la funzione del sondaggio: da strumento di misurazione delle opinioni diventa una modalità per «creare» le opinioni. Spesso attraverso i sondaggi si millantano discutibili scenari politici, si alimentano ad arte allarmi sociali, si influenza il clima di fiducia, alterando in tal modo le regole del sistema democratico. Ce n’è abbastanza per capire lo scetticismo nei confronti dei sondaggi. Ma allora perché mai nel mondo si investono oltre 43 miliardi di dollari (dato aggiornato al 2014, Fonte Esomar Global Market Research) per realizzare sondaggi, ricerche di mercato e di opinione se si tratta di strumenti fallaci o inutili? In Italia nel 2014 gli investimenti furono pari a 742 milioni di dollari, per non parlare della Gran Bretagna dove si investono oltre 5,2 miliardi di dollari, una cifra 7 volte superiore a quella investita nel nostro paese. E investimenti ragguardevoli si registrano anche in paesi a noi vicini come la Germania (3,6 miliardi) e la Francia (2,6 miliardi). Gli investimenti nelle ricerche demoscopiche hanno per oggetto i prodotti e i servizi, la comunicazione pubblicitaria, il valore della marca, la reputazione delle aziende, la soddisfazione dei clienti. Le ricerche servono a definire le strategie, a ridurre i rischi di impresa. Sono spesso alla base di un successo aziendale. I risultati delle ricerche trovano riscontro nell’affermazione dei prodotti e dei servizi lanciati, nell’apprezzamento delle campagne pubblicitarie, nel tasso di fedeltà dei clienti. In tutti questi casi le ricerche e i sondaggi ci prendono, eccome! Le ricerche vengono commissionate anche dal settore pubblico, dal governo, dai ministeri, dalle amministrazioni locali, dai partiti politici: servono a misurare la soddisfazione dei cittadini per il loro operato, il consenso per i provvedimenti adottati e le riforme varate. Aiutano a dimensionare e a capire le opinioni, gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone 335

e, più in generale, a conoscere le dinamiche sociali. Anche in questo caso le ricerche e i sondaggi ci prendono. Come si spiega allora l’apprezzamento delle ricerche e il discredito dei sondaggi pre-elettorali? L’accettazione delle prime e la severità nei confronti dei secondi? La risposta risiede nelle aspettative di precisione delle stime: del tutto ragionevoli e realistiche per le ricerche ed estremamente elevate per i sondaggi elettorali a cui si chiede una precisione millimetrica, per di più con abbondante anticipo rispetto alla data delle elezioni. Ma si tratta di un’aspettativa che oggi appare poco plausibile, anche se del tutto comprensibile in un contesto di incertezza e di fluidità elettorale. Sembra quindi necessario ridimensionare le aspettative e accontentarsi delle linee di tendenza. In fondo anche i tanto vituperati sondaggi realizzati in occasione delle elezioni politiche del 2013 sono stati in grado di prefigurare uno scenario che è stato puntualmente confermato: astensione elevata, vittoria del centrosinistra alla Camera, Senato privo di una maggioranza assoluta, affermazione del M5S (seppur sotto-stimato di circa il 5%), forte calo del centro-destra. Tuttavia ridimensionare le aspettative di precisione delle stime e accontentarsi delle linee di tendenza appare molto arduo in un paese nel quale si spendono 8,3 miliardi di euro in maghi, cartomanti e chiaroveggenti di vario tipo.

Gianfranco Viesti Il Sud vive alle spalle del Nord

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onversazione su treno, da qualche parte nel Sud... Gennaro – È libero questo posto? Ambrogio – Certo si accomodi. Anzi, posso approfittare? Ho colto dal suo accento che è di qui, meridionale. Guardi cosa sto leggendo: al Nord si pagano molte più tasse che al Sud. Le pare giusto che io paghi più tasse di lei? G – Sì. A – Ah, cominciamo bene. E perché? G – Perché lo dice la Costituzione, all’articolo 53: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Dato che al Nord mediamente i redditi sono più alti, si pagano più tasse. A – Ma le tasse aumentano sempre più al Nord, lo so bene io che le pago. G – Sa che non è così? E glielo spiego con l’aiuto della Corte dei Conti: negli ultimi anni l’aumento della pressione fiscale è avvenuto prevalentemente in sede locale, e ciò ha portato ad aliquote (dell’Irap e delle addizionali Irpef) molto più elevate nel Mezzogiorno. A – Bene! Finalmente cominciate a pagare un po’ di tasse anche voi. Si figuri se al Sud non si pagano meno tasse... G – Le cito sempre la Corte dei Conti: «Sembra emergere, insomma, una sorta di regola distorsiva, in virtù della quale i territori con redditi medi più bassi, espressione di economie 337

più in affanno, sono penalizzati da una pressione fiscale locale più elevata». A – Ma un reddito basso al Sud è più alto che al Nord. Ho sentito che lo dicevano in televisione: la vita costa molto meno. La grande iniquità è che un dipendente pubblico abbia lo stesso stipendio, che al Sud vale molto di più! G – Beh, un caffè costa molto meno a Napoli che a Milano. Ma dedurne che tutto il costo della vita sia così più basso, non è possibile. L’Istat ha fatto qualche misura, e per vestirsi o per i mobili le distanze non sono grandi. Energia e assicurazioni costano spesso di più. E poi c’è il problema dei servizi pubblici. A – Cioè? G – Lei come va in ufficio? A – Con la metro. G – E fa benissimo: ma dove non c’è, e il trasporto pubblico funziona malissimo, bisogna prendere l’auto, e i costi aumentano molto. Lo stesso vale per gli ospedali: si finisce a spendere per il privato. A – Ma le case al Sud costano molto meno, così dicevano! E così so anch’io. G – Il prezzo delle case lo stabilisce il mercato. Dipende non solo da età, caratteristiche e dimensione dell’appartamento, ma anche da dove si trova. Una casa vale il quartiere dove è collocata, i servizi che permette di raggiungere. Le case che costano meno, «valgono» meno. Non è un problema di Nord e Sud: a Milano, un metro quadro in zona Cordusio costa quattro volte che al Gratosoglio. A – Sarà. Ma il gettito delle tasse al Sud comunque non basta a pagare tutti i servizi pubblici di cui godete. G – Non c’è dubbio. Ci sono circa 50 miliardi di differenza. Ma questo dipende daccapo dalla Costituzione. Dall’articolo 34: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita». Il diritto all’istruzione non dipende dal reddito; anzi: «I capaci e meritevoli, 338

anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». E poi: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». A – Ma ne approfittate! La spesa pubblica è molto più alta al Sud, lo sanno tutti. G – Sa che non è così? Guardavo gli ultimi dati del sistema dei conti pubblici territoriali: la spesa pubblica pro capite nel 2014 è circa 10.400 euro al Sud e 14.000 al Centro-Nord. A – Ma come è possibile? Siete pure pieni di pensioni di invalidità, concesse un po’ a tutti! G – Il punto è proprio la previdenza. I falsi invalidi sono una piaga grave, molto centro-meridionale. Da contrastare. Ma lo Stato sociale italiano è quasi tutto basato sulle pensioni; pochissimo su misure per la povertà, la famiglie e i minori. E le pensioni si pagano molto più al Centro-Nord; così per «politiche sociali» nel 2014 si spendono 5800 euro per ogni cittadino del Centro-Nord e 4300 per uno del Sud. A – Ma le pensioni di invalidità? G – Contate. Un welfare assistenziale straccione invece di un vero welfare; favori al posto di diritti. Nel 2015, valgono 16 miliardi, contro 259 dei trattamenti pensionistici ordinari. A – Non mi negherà che il Sud sia pieno di dipendenti pubblici, che paghiamo noi! G – Lo sa che rispetto alla popolazione il numero di dipendenti pubblici è del tutto simile, escludendo le regioni a statuto speciale e il caso dei ministeri a Roma? Certo al Sud gli occupati nel privato sono di meno, perché il sistema delle imprese è più piccolo. E quindi il peso dei dipendenti pubblici sul totale dell’occupazione è maggiore. A – Ah, lo ammette anche lei, allora! G – Ma il numero degli insegnanti dipende dagli studenti; quello dei medici, dalla popolazione, dai malati. Da questo punto di vista non c’è squilibrio. Anzi, c’è; ma è a danno del Sud. 339

A – Ma così i giovani meridionali si mettono sempre in coda per l’impiego pubblico, che non fa che aumentare. Ho letto anche questo, recentemente. G – In un passato lontano ci sono state indubbie distorsioni. Ma negli ultimi anni i dipendenti pubblici si riducono, e molto più al Sud che nel resto del paese. Quella coda mi sembra una storia d’altri tempi. A – Ma al Sud arriva un fiume di denaro «speciale», fondi europei e simili... G – Si riferisce alla spesa in conto capitale, cioè quella che va principalmente alle infrastrutture? Nel triennio 2012-14 è stata 635 euro per abitante al Centro-Nord e 694 al Sud. Solo che nel primo caso sono principalmente risorse ordinarie; nel Mezzogiorno contano molto quelle «speciali», ma a fronte di una spesa ordinaria molto più bassa. A – Cioè la spesa per infrastrutture non è molto più alta al Sud? E tutti i fondi europei? G – Glielo dicevo: ci sono ma compensano risorse ordinarie molto inferiori. A – Forse perché non li spendete. Ne avete tanti e li lasciate lì. G – Ci sono gravi problemi di ritardi e di qualità della spesa, senz’altro. Ma non è quello il punto; alla fine si spendono sempre tutti; questo non influenza le cifre che le citavo. A – Restano i 50 e più miliardi che vi prendete dalle tasche dei settentrionali; tempo fa ho letto un libro che parlava di un vero e proprio «sacco». G – Ma, guardi, perché arrivino lo abbiamo detto. Ma lo sa poi che fine fanno? Il Mezzogiorno compra beni e servizi dal Centro-Nord per circa 50 miliardi. Tornano a casa. Così funziona un sistema economico nazionale: si deve guardare a tutti i rapporti fra i territori; l’idea del «sacco» è proprio sballata. A – Ma a proposito di sballare: perché questo treno è in 340

ritardo? Perché questo Frecciargento è così vecchio e sporco? Lo sa che al Nord sono nuovi e puliti? G – Lo so bene! E costano uguale. Questa è un’altra storia interessante. Visto che abbiamo tempo ora gliela racconto...

Rossella Orlandi Le tasse italiane sono le più alte d’Europa

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orberto Bobbio ha scritto che per trovare una soluzione al divario fra le scelte politiche e le aspettative dei cittadini i pensatori moderni hanno dovuto elaborare diverse «teorie della giustificazione», cioè modelli concettuali per motivare in modo razionale la morale pubblica1. Come se alla base di questa morale vi fosse una sorta di etica speciale che deroga ai princìpi di equità umanamente accettabili. Agli occhi dei cittadini, lo Stato sembra essere sempre in torto e non basta una semplice valutazione per comprenderne l’azione, bisogna trovare una scusante. Questa necessità è tanto più evidente quando al centro del dibattito si pone la giustizia contributiva. Se riflettiamo sul livello della tassazione in Italia, viene quasi spontaneo giustificarsi piuttosto che valutare. Ma in realtà non si può prescindere dai dati per fotografare una realtà complessa come quella fiscale. Da una ricerca di Eurostat sul rapporto tra peso della tassazione e Pil nel 2014, per l’Italia emerge una pressione fiscale pari al 43,7%. Siamo settimi in Europa, prima di noi Danimarca (50,8%), Belgio e Francia (47,9%). Finlandia, Austria e Svezia sono praticamente appaiati. La media Europea è di circa il 40%, con profonde oscillazioni fra i diversi paesi: la Germania, per esempio, si attesta sul 39,5%, mentre la Svizzera chiude la classifica con il 27,1. Nella stessa ricerca l’Eurostat evidenzia come, anche nel 2014, sia continuata la crescita costante cominciata nel 2010 e come lo scorso anno le entrate tributarie abbiano rappre342

sentato ben l’89% sul totale di quelle complessive dell’Unione Europea. Quindi sì, la pressione fiscale in Italia è alta, ma non così lontana da quella di altri paesi industrialmente avanzati. Allora forse la domanda giusta da porsi non è se le tasse siano troppo elevate, ma se siano eque e soprattutto se siano percepite come tali dai cittadini. Inutile nascondersi dietro a un dito: nel nostro paese la sfiducia nei confronti delle istituzioni è sempre stata più forte che altrove. Lo Stato viene ancora oggi ritenuto un nemico, perché per secoli come tale si è comportato. Fino agli anni Cinquanta il nostro sistema tributario non si poteva neanche definire un sistema; era piuttosto un collage di leggi provenienti da epoche e regimi diversi che generavano una forte sperequazione sociale a danno delle fasce più deboli. Non c’erano uffici organizzati, mancava una qualunque sinergia tra Stato centrale ed enti locali, la burocrazia era una muraglia insuperabile ai più. Solo con la riforma del 1951, le tasse in Italia sono diventate più umane. Uso questo termine perché la svolta epocale fu proprio coinvolgere e responsabilizzare le persone. Con l’introduzione della dichiarazione dei redditi, che fino a quel momento non esisteva, è il cittadino a diventare parte attiva. È lui che dice allo Stato: questo è il mio reddito e questa è la parte che restituisco alla collettività. Non si tratta di semplice inversione dell’onere della prova, ma di un vero e proprio terremoto. È l’inizio di un cambiamento che stiamo ancora vivendo, che certe volte sembra andare velocissimo, certe altre procedere con il freno a mano tirato. E il freno a mano dell’Italia, lo sappiamo, si chiama evasione fiscale. Se nel nostro paese le imposte sono elevate è perché, da sempre, dobbiamo fare i conti con questa tassa occulta che costringe tutti a pagare di più di quanto dovrebbero, genera concorrenza sleale, disuguaglianza sociale. In una parola: ingiustizia. 343

In Europa ce l’hanno un nemico così forte? Se limitiamo l’attenzione alla sola IVA è possibile effettuare un confronto internazionale fondandosi su uno studio della Commissione Europea, svolto nel 20152. Da questo risulta che l’Italia ha un gap IVA – dato dalla differenza tra l’ammontare dell’IVA che l’amministrazione fiscale dovrebbe raccogliere se esistesse un perfetto adempimento alla legislazione corrente e quello che effettivamente raccoglie – del 33,6%, contro una media europea del 15,2%. Più del doppio, quindi; e se facciamo il confronto con altri paesi, la situazione non migliora. Il tax gap della Germania, per esempio, è dell’11,2%, per la Francia è l’8,9%, in Inghilterra raggiunge il 9,8%. Il risultato migliore è quello della Finlandia con il 4,1%; sui livelli italiani la Grecia, la Romania e la Lituania. La maggior parte dei nostri vicini europei, quindi, sono più fortunati di noi. L’esercito degli evasori, in Italia, è più determinato, forte, numeroso. Ma questo non significa che dobbiamo rinunciare all’idea di sconfiggerlo. E per farlo, forse è meglio abbandonare le metafore militari; deporre le armi e usare altri strumenti. L’educazione, per esempio, e il buon esempio. Sono da sempre convinta che mostrando quanto di buono si fa con le tasse, le pagherebbero tutti più volentieri. E su questo fronte è fondamentale anche il ruolo dei soggetti che gestiscono i tributi locali. Dal 2010 al 2015, secondo i dati del ministero dell’Economia e delle Finanze, il peso della tassazione locale è aumentato di circa 4 punti percentuali, passando dal 10,4 al 14,1. L’anno scorso a fronte di 471.386 milioni di euro di tasse totali, oltre 66 milioni provenivano da addizionale regionale, comunale e Irap; 20 milioni in più del 2010. E io credo che equilibrare la bilancia fiscale, alleggerendo il braccio che regge la tassazione nazionale a favore di quella locale, permetta ai cittadini di avere una percezione più immediata di quello che si fa con i loro soldi. Possono vedere nella 344

loro città, nel loro quartiere quei servizi che devono essere garantiti dalla contribuzione collettiva. Perché la tax compliance non si ottiene per decreto legge, ma attraverso un’alleanza forte fra le istituzioni e le persone. Un patto che parte dell’abbattimento di tutte quelle barriere di diffidenza e sfiducia ormai storicamente superabili. Pensiamo agli enormi passi avanti fatti in questi ultimi anni sul fronte della semplificazione. Rendere più facile pagare le tasse, non le fa sembrare anche più leggere? È vero o no che, spesso, la gestione della propria posizione fiscale non è gravosa solo in termini economici, ma anche e soprattutto in termini mentali? Il tempo impiegato per cercare anche solo di capire cosa fare è una tassa, la visita al commercialista è un’altra, il giorno di ferie per consegnare la documentazione un’altra ancora. Posso dire con orgoglio che queste tasse l’Italia sta provando ad abbassarle. Nell’ultimo rapporto Tax Administration Comparative Information, elaborato dall’Ocse, si certifica la leadership dell’Amministrazione fiscale italiana nell’impiego di moderni processi telematici fino a riconoscerne il ruolo di riferimento, e di caposcuola, esercitato da anni nei confronti delle altre Amministrazioni dei paesi partner proiettati da un decennio sulle nuove opportunità offerte dal digitale. Il 100% di dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche, il 100% delle dichiarazioni Iva, il 100% delle dichiarazioni di società viaggia su canali telematici. Per gli Stati Uniti, che ci segue in classifica, la percentuale media si ferma all’83%. Siamo primi nel mondo per il fisco 2.0 con 1,2 miliardi di documenti gestiti in formato digitale e un risparmio di circa 10 miliardi di euro dal 2001 a oggi. Le nostre tasse non sono le più alte d’Europa, ma la nostra voglia di cambiare forse sì.

Norberto Bobbio, Etica e politica, «MicroMega», 4/1986. Commissione Europea, Study to quantify and analyse the VAT Gap in the EU Member States, 2015 Report. 1 2

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Elio De Capitani Il teatro, che noia!

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l teatro, che noia! Tra me e questo luogo comune c’è un baratro. Adoro il teatro e compatisco chi non l’ha ancora scoperto. Sono il depositario, assieme ad altri appassionati come me, del passaggio di comete indimenticabili nella loro bellezza, della visione di momenti unici vissuti a teatro. Visioni di cui non esiste spesso altra impressione che quella sulla pellicola interiore della mia anima di spettatore. C’è la lettura, c’è la musica, c’è anche il cinema, ma la lastra della memoria, che in fin dei conti ha inciso e incide di continuo sulla mia formazione, non può prescindere dal teatro. Credo dipenda dal fatto che un ateo come me abbia cominciato a credere ad una concreta e laicissima esistenza dell’anima, proprio a partire dal lascito, rivissuto a teatro attraverso il corpo degli attori, di Shakespeare e dei Greci. E, parallelamente alla esplorazione della imponente produzione, di alto livello, della drammaturgia contemporanea di tutto il mondo, ancora in gran parte poco conosciuta in Italia. Dicevo dell’anima. La palpabilità del pensiero pulsante dell’autore e del suo lascito umano, anche quando è più lontano nel tempo da noi. La grandezza dei classici non è mai nella magniloquenza delle verità profonde e nei valori antichi, bensì nella profonda contraddittorietà degli stessi, che riescono a mostrarci. Mostrare la faglia che separa l’esistere e il capire cos’è l’esistenza. È una sensazione di fratellanza profonda che molti grandi personaggi ci lasciano alla fine di uno spettacolo. 346

Eccoli lì, i due suoni che Shakespeare lascia sempre nell’orecchio: inno alla vita, anche crudele, da un lato, alla necessità di viverla nonostante tutto – la voglia di «berla a grandi sorsi perché non ci sarà bastata quando dovremo perderla», come poetava il giovane Brecht –, e dall’altro lato, il senso di piccolezza insensata di fronte alla sgangheratezza del reale, al tempo fuori sesto di Amleto. Che è la trasformazione nel tempo dello smarrimento di Oreste. Che è divenunto lo smarrimento di Prior Walter malato di Aids e abbandonato dal compagno, nell’America fuori sesto di Reagan. Di cosa abbiamo più bisogno in questi tempi? Di capire che non è la prima volta che siamo orfani delle certezze, perché in altri secoli si è arrivati allo stesso punto e allo stesso smarrimento. Eppure quei secoli a volte ci vengono descritti come secoli d’oro. Basti pensare al V secolo a.C. in cui il teatro è nato in Atene. Per Pasolini che traduce l’Orestea per Gassman, Eschilo celebra la fondazione del tribunale e quindi della democrazia. Sono grato a Pasolini, che nel dopoguerra celebrava la nostra democrazia nata dalla sconfitta del fascismo, ma sono grato anche all’Orestea di Stein che trenta anni dopo, per la viva emozione della sua intuizione straordinaria, quando legava le Erinni con lunghe fasce, emblemi d’onore per la loro trasformazione in Eumenidi, che diventavano prigione. Per quella forza femminile, quella potenza della donna, temuta dai Greci come, nei secoli dei secoli, dalle chiese nostre, e negli anni attuali, dagli islamisti. Ma sono grato anche al disvelamento parodistico di una piccola Orestea siciliana in cui il tribunale neo-costituito non si fidava troppo ad esporsi e decideva: «Ni spattiemu, fifty-fifty, paro paro, e accussì tocca alla dea a’ decisiuni...», cito a memoria. E in effetti non è il tribunale, che si divide a metà, ma Atena a decidere, evidenziando una democrazia già nata sotto tutela: prima degli dèi e poi del pròtos anèr o leader, come diciamo oggi: e stiamo facendo lo stesso percorso dei Greci e 347

dei Romani. Eccoci qui allo stesso punto, a discutere di «quale democrazia» con un referendum o una legge elettorale che ci spaccano, come divideva allora il dibattito sulla remunerazione o meno delle cariche pubbliche ad Atene nel V secolo. La mia apologia del teatro non ha pretese universali: non tutto è bello a teatro, il teatro da più di un secolo poi è talmente plurale, fatto di tanti modi diversi di intenderlo, che non ha troppo senso fare discorsi così generali. So però che solo a teatro si sperimenta un rapporto con il presente e con il passato strettamente legato alla incarnazione del personaggio nell’attore, e alla metamorfosi dell’attore nel personaggio: ma davanti ai nostri occhi e qui sta il nodo. Il teatro che amo non è il luogo dell’universale astratto, ma della sua concretizzazione nella vicenda specifica di un uomo o di una donna, nella meraviglia della persona che l’attore deve restituire lottando ogni sera per noi e con noi. A teatro non assistiamo ad un opera compiuta, ma al suo farsi ogni sera: il teatro vero non è replica, ciò che è stato fatto la sera prima, ma si compie davanti ai vostri occhi. Andare a teatro quando è grande teatro, è assistere a una creazione in diretta, con i suoi rischi, i suoi fallimenti, i suoi trionfi. Amari o esilaranti, perché la forza del comico a teatro è l’esatta altra faccia del tragico, altrettanto essenziale per vivere. Ecco, ho finito il mio spazio. Chiudo celebrando il teatro contemporaneo attraverso Angels in America di Tony Kushner, messo in scena in tutto il mondo, grazie al segreto del suo enorme successo: il tema tragico dell’Aids trattato con una prorompente vitalità scenica e ricchezza di intuizioni, dove politico, tragico, comico, lirico, barocco, camp e trash, epico e romantico trovano un punto di fusione così perfetto che dopo sette ore di spettacolo – sette ore, avete letto bene – il trionfo è travolgente e il pubblico corre in camerino a dire che vorrebbe non finisse mai, per il senso di viaggio e avventura – anche dentro sé stessi – che quell’esperienza di sette ore riesce a provocare. 348

Il Teatro dell’Elfo, il mio teatro, l’ha recitato per sette anni di seguito. L’ultima volta a Madrid, e fu un accadimento indimenticabile, per lo stato di grazia di tutti gli attori della compagnia nel dire addio allo spettacolo in un contesto molto speciale. Sono venuti anche molti spettatori dall’Italia, in quel caso. Non accettavano l’idea che interrompessimo le repliche di quella meraviglia. Che noia il teatro?

Maurizio Ferraris La tecnica ci aliena

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n articolo del «New York Times» del 20 maggio 2015 titolava: «Si può far causa al proprio capo, se ci chiede di rispondere di notte alle sue mail?». Sì, si può. Ma il più delle volte non lo si fa, anzi, si risponde a chicchessia, senza obblighi di lavoro, di dipendenza o di altro tipo. Che cosa fa sì che quando il telefono squilla ci precipitiamo a rispondere, che quando un trillo ci avvisa della ricezione di un messaggio apriamo il telefonino ovunque noi siamo, e incominciamo a scrivere a nostra volta? Da dove viene questo imperio? O, più banalmente, chi ce lo fa fare? Il web. Il web è una grande forma di emergenza, esattamente come l’eusocialità delle termiti o la civiltà egizia, e diversamente dall’«Io penso» kantiano, che viceversa è la costruzione di un singolo pensatore. Rispetto alle emergenze remote, il web ha l’enorme vantaggio di essersi sviluppato sotto i nostri occhi. Dunque non richiede congetture: ciò che il web è divenuto, sorprendendo coloro che lo hanno progettato, occupa un periodo storico breve e perfettamente controllabile, di cui io, per esempio, sono stato testimone oculare. Più telefonini che umani. Metà dell’umanità sul web. 64 miliardi di e-mail al giorno; 22 milioni di tweet; un milione di post. L’espressione «World Wide Web» può essere presa alla lettera, dal momento che il web rappresenta un modello attendibile del mondo sociale – uno spaccato di una umanità globalizzata e non più eurocentrica, e che nel giro di pochi anni è destinata a crescere e forse addirittura a saturare la totalità degli spazi sociali del pianeta.

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Ora, è molto comune considerare la tecnologia come alienazione. Ci sarebbe un in sé della natura umana, quello che noi siamo davvero, e che è un condensato di tutte le virtù: buoni, disinteressati, dialogici, generosi, semplici. Poi interverrebbe la corruzione, attraverso la tecnica e la società, che porta l’avidità, la menzogna, la sopraffazione, lo sfruttamento e tante altre disgrazie. È la visione dell’uomo lasciataci da Rousseau e che sta alla base della stragrande maggioranza dei discorsi sulla tecnologia: sempre al telefonino, sempre sui social a litigare (e prima sempre davanti alla televisione), sempre a scrivere messaggini anziché parlare con i nostri amici e familiari, cosa siamo diventati, come ci siamo ridotti... Come dire che, se dipendesse da noi, noi saremmo tutt’altro. È quel male venuto dall’esterno che ci trasforma e ci aliena. Noi, invece, siamo originariamente perfetti e autonomi, ossia portatori di una moralità kantiana in cui il legislato è al tempo stesso il legislatore, e comunque è fonte autonoma di diritto. Insomma, siamo i portatori del significato pentecostale. Ovviamente non è così. Siamo sempre al telefonino, ma non è forse perché Aristotele aveva definito l’uomo come un animale dotato di linguaggio? Siamo sempre sui social, ma non è forse perché Aristotele aveva definito l’uomo come un animale sociale? La tecnica, ecco il punto, non è alienazione, ma rivelazione, ossia mostra all’umanità ciò che realmente è, al di là degli autoinganni, nel bene come nel male. Ipotizzare l’alienazione è appunto ricorrere a un significato pentecostale, a uno spirito che scende dalle stelle e ci rende uomini e perfetti. È pensare che ci sia una umanità indenne e intera, completa sin dall’inizio, che viene trasformata e deformata dall’intervento di qualcosa che viene da fuori. Quella dell’alienazione è una visione mitologica, oltre che falsa, sia che faccia perno sulla caduta della natura umana dal suo stato di perfezione, sia che invece insista sulla perversione introdotta dalle scienze e dalle tecniche, come voleva Rousseau e come ripetono tanti suoi discepoli più recenti. Infatti, l’alienato post351

fordista, chi lavora a progetto e può andare in vacanza quando vuole (tranne poi essere richiamato al fronte quando meno se lo aspetta) è un alienato? Perché certo non è contento di dover stare sempre a controllare sul telefonino se non ci sono chiamate alle armi, ma, al tempo stesso, nulla nella sua vita ricorda quello che classicamente si chiama «alienazione», cioè la parcellizzazione e la ripetitività, l’estraniazione rispetto al frutto del proprio lavoro. Il mobilitato web sembra il prototipo dell’uomo intero ed emancipato disegnato da Marx, l’uomo che può fare «oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare». Si noti inoltre che il lavoratore a progetto è per l’appunto incaricato di portare a termine una totalità di cui è responsabile, dunque è l’opposto di Charlie Chaplin che avvita sempre lo stesso bullone. Se mentre è in vacanza può certo essere raggiunto da una incombenza molesta che gli funesterà il week end (o magari la settimana premiale alla fine del progetto), resta che quanto gli viene richiesto è pur sempre un impegno verso la totalità: la mail che deve scrivere, la telefonata che gli tocca, hanno un senso organico all’interno del progetto in cui si era impegnato. Dunque, mutatis mutandis, il mobilitato non è diverso da un poeta raggiunto da una ispirazione nel cuore della notte: come lui, potrà morire giovane e povero; e come lui sarà la dimostrazione vivente del fatto che si può non essere alienati senza per questo essere felici. Nella prospettiva dell’emergenza che propongo1 abbiamo piuttosto a che fare con una rivelazione: non c’è un in sé della natura umana, non c’è un significato pentecostale, ma un divenire storico, in cui la tecnica gioca un ruolo costitutivo: capiamo che cosa vogliamo e chi siamo dalle tecniche che adoperiamo. La rivelazione non si è affatto conclusa con l’Apocalisse; continua, soprattutto per merito della tecnica, che è la protesi di ogni costruzione potenziando le dotazioni naturali degli umani, e costituisce un ambito di emergenza quanto e forse più 352

che la società. Ciò che apparentemente ci porta lontano da noi (alienazione) è ciò che ci rivela per quello che in effetti siamo. La visione tolemaica, quella legata al significato pentecostale, propone la direzione Umanità → Società → Tecnica. Da una definizione dell’umano (animale razionale, animale sociale) si ricavano i caratteri del mondo sociale e del mondo tecnologico, concepiti il primo come una costruzione dell’umano, il secondo come una estensione dell’umano. Viceversa, la rivoluzione copernicana, che muove dal significato emergenziale, propone la direzione Tecnica → Società → Umanità. Se vuoi conoscere l’anima dell’uomo, devi partire dalla società in cui vive; ma se vuoi capire in che società vive, quali siano gli dèi a cui sacrifica, devi capire quali sono le tecniche di cui dispone (e che molto spesso dispongono di lui). Per quanto grandi siano le trasformazioni del mondo sociale apportate dal web, resta che il suo effetto maggiore sta nel rivelare, manifestandole, le strutture profonde della realtà sociale, strutture ben precedenti il web. Studiare il web significa dunque studiare un mondo sociale in vitro, che ci parla dell’umanità quale è e non quale dichiara di essere, cogliendolo da una posizione ottimale anche se opaca: una enorme quantità di dati in costante aggiornamento, parte dei quali facilmente accessibili, grazie ai motori di ricerca. Il fatto che questi dati siano solo in parte accessibili agli utenti completa la simulazione del sociale (anche nel mondo sociale ci sono ampie zone di opacità) e costituisce una sfida ulteriore per l’analisi. Ecco perché oggi siamo in una condizione migliore per rispondere a un interrogativo vecchio come il «Conosci te stesso» iscritto nel tempio di Apollo a Delfi. Per rispondere alla domanda: «che cosa è l’uomo?» (interrogativo antropologico) è necessario rispondere alla domanda: «che cosa è la tecnica?» (interrogativo tecnologico). Dopotutto, anche l’enigma di Edipo la cui risposta è «l’uomo» aveva come chiave di volta un apparato tecnico, il bastone. D’accordo con una 353

autentica rivoluzione copernicana (l’inverso di quella di Kant, che era una restaurazione tolemaica che rimetteva l’uomo al centro dell’universo), distogliamo gli occhi dall’«Io penso» e guardiamo al web.

1

Sviluppata in Emergenza, Einaudi, Torino 2016.

Francesco Antinucci La tecnologia guida il progresso

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’è una concezione molto diffusa, soprattutto oggi, che dice che la tecnologia è non solo il motore ma anche la forza guida del progresso: lo anima e lo dirige. Lo sviluppo della tecnologia, a sua volta, è frutto di azioni mirate che, attraverso un percorso più o meno lungo e accidentato, conducono, quando si ha successo, ai risultati che ci si era prefissi. E in effetti se si guarda ai cambiamenti degli ultimi venticinque anni – telefono cellulare, personal computer, Internet, social network – sembrerebbe essere proprio così. E invece nulla potrebbe essere più lontano dal vero di questa visione. Quando si va a guardare in concreto e in dettaglio la storia delle grandi tecnologie che hanno cambiato il mondo – dalla scrittura a Internet, passando per la macchina a vapore, il treno e la radio – ci si accorge che praticamente nessuna di esse è stata voluta e perseguita in quanto tale. Quasi tutte sono il frutto di un opportunistico adattamento di cose che erano state inventate per altri scopi. Per esempio, la prima delle grandi tecnologie, la scrittura, non nasce affatto dall’obiettivo di fissare/trascrivere il linguaggio orale – certamente non un’esigenza del IV millennio a.C. – ma da tentativi di creare una memoria «esterna» per supplire alle mancanze e alla labilità della memoria umana. Il processo, sviluppatosi soprattutto per la memoria delle quantità, finisce, attraverso un complicato percorso di aggiunte e correzioni, per portare a una forma – assolutamente non cercata – di trascrizione dei nomi1. 355

La macchina a vapore di James Watt – il «motore» dell’industria e dei trasporti per eccellenza – non nasce affatto dalla ricerca di un motore, ma da quella di una pompa per estrarre acqua a grande profondità dalle miniere di carbone inglesi (anzi, per essere precisi, dal semplice tentativo di perfezionare una pompa meccanica già esistente). In quasi tutte queste imprese, inoltre, il caso – ovvero circostanze particolari che nulla hanno a che fare col processo inventivo – gioca un ruolo determinante. Il treno come sistema di trasporto non avrebbe mai visto la luce e sarebbe rimasto un semplice convoglio locale di carrelli di miniera se non fosse stato per le guerre napoleoniche. Queste infatti, a causa del blocco economico imposto dai francesi all’Inghilterra, scatenarono un enorme incremento del prezzo del foraggio – la «benzina» della trazione animale –, incremento che venne mantenuto dai governi conservatori anche dopo la guerra (dato che favoriva la classe agraria), e che rese competitivo l’utilizzo del carbone nella trazione meccanica e possibili gli investimenti necessari alla trasformazione2. Nell’ansia più o meno inconsapevole di disegnare per il progresso un processo lineare e razionale si attribuisce spesso a Marconi l’invenzione della radio, che sicuramente rappresenta una delle tecnologie a enorme impatto del secolo scorso. E naturalmente quando pensiamo alla radio pensiamo a quello strumento capace di irradiare programmi nell’etere che possono essere ascoltati da chiunque abbia un apparecchio adatto. Ma non è questo che ha inventato Marconi, bensì qualcosa che molto più appropriatamente si può chiamare telegrafo/telefono senza fili. La ricerca di Marconi mirava a estendere le comunicazioni telegrafiche e telefoniche laddove non era possibile stendere fili: in mare, tra le navi e tra le navi e la terra. Come si sa, un’appropriata applicazione delle onde hertziane risolse il problema. Marconi se ne avvantaggiò anche commercialmente fondando la Marconi Wireless Telegraph Company (notare il 356

nome!), dedita al servizio di comunicazione tra terra e navi transatlantiche. Fin qui, però, non c’è nulla che lasci presagire la radio, anzi: per le comunicazioni uno a uno e, soprattutto, per le comunicazioni militari, la tecnologia radio ha un grande difetto: chiunque situato nel raggio di azione delle onde radio può ascoltare le comunicazioni. A differenza che per gli apparati a filo, non c’è alcuna riservatezza. Ciò costringerà i militari all’uso costante di cifrari. Ma proprio questa caratteristica negativa costituirà, invece, il punto di forza di una reinterpretazione dell’invenzione: quella per cui diventerà il veicolo di una nuova forma di comunicazione, il broadcast, la comunicazione simultanea uno a molti. Ma questo avverrà vent’anni dopo, implicherà una trasformazione profonda dell’apparato marconiano (non più ricetrasmittente, ma solo ricevente) e l’invenzione di una nuova forma: il programma radiofonico. Al processo – un po’ sgangherato e casuale – che abbiamo descritto non fa eccezione neanche l’ultima delle grandi tecnologie: Internet. Il progetto originale non contemplava certo la rete di comunicazione paritaria universale che abbiamo in piedi oggi. Joseph Licklider, l’uomo che iniziò il progetto, non aveva nulla a che fare con computer e algoritmi: era uno psicologo specializzato in psicoacustica. Aveva una visione: permettere agli scienziati di utilizzare i diversi computer specialistici che le istituzioni accademiche e private possedevano senza doverli duplicare (cosa impossibile per il costo). Per questo essi avrebbero dovuto essere connessi tra loro e con gli utenti a distanza. Nel 1960, non si trattava certo di un obiettivo prioritario, ma c’era stato lo shock dello Sputnik sovietico e l’America aveva reagito investendo una montagna di soldi in «ricerca avanzata» per cercare di colmare il gap. Licklider si era trovato a capo di una delle divisioni dell’Advanced Research Project Agency (ARPA) e aveva potuto investire molti fondi sul suo progetto proprio perché sembrava lontano e visionario. La rete fu creata e mantenuta dall’ARPA per i successivi trent’anni, finché ebbe 357

la capacità di reggersi da sola e diventare Internet. Nel frattempo i suoi scopi erano diventati molto diversi da quelli che avevano dato origine al progetto. Ma neanche queste fortunose circostanze sarebbero bastate da sole a creare Internet così come la conosciamo oggi. Mancava un’interfaccia semplice per un utilizzo efficace. Fu inventata nel 1991 al Cern – l’organizzazione europea per la ricerca nucleare – e chiamata World Wide Web, ma il punto cruciale fu che il Cern, come organizzazione di ricerca pubblica, decise di non proteggerla e di rilasciarla gratuitamente a tutti. Questo ne decretò, a differenza di altri tentativi precedenti, il successo planetario. Come si vede, lungi dalle magnifiche sorti e progressive, la tecnologia procede, molto più modestamente, per aggiustamenti opportunistici, manovrando e adattando quello che già c’è e che quasi sempre è stato creato per un altro scopo e soprattutto sfruttando casualità che creano impreviste «nicchie ecologiche», così come sono certamente non volute/progettate le enormi conseguenze che questi «aggiustamenti» talvolta generano.

1 Vedi F. Antinucci, Parola e immagine. Storia di due tecnologie, Laterza, Roma-Bari 2011. 2 Vedi W. Schivelbusch, Storia dei viaggi in ferrovia, Einaudi, Torino 1988.

Tinny Andreatta La televisione è superficiale

S

e una parte della produzione per le televisioni è entrata nel novero delle conversazioni culturali, questo capita assai più raramente quando si tratta di televisione generalista. Che si ammette di guardare a volte solo come se si trattasse di un guilty pleasure o una concessione ai propri bisogni elementari. E questo anche perché molti considerano «superficiale» tutto quello che la televisione trasmette o almeno tutto quello che ha successo presso un’audience di massa. Solo guardandola nel suo flusso indistinto la televisione può essere erroneamente considerata superficiale, ma, guardata da vicino, possiede in larga parte la capacità di imprimersi profondamente, in maniera originale e innovativa, nell’esperienza dello spettatore. Dominique Wolton, direttore di dipartimento di scienza delle comunicazioni del Cnrs (Centre national de la recherche scientifique), nel 2004 osservava che, da quando è nata, la televisione ha avuto uno straordinario successo, ma «non ha mai ottenuto la legittimità intellettuale che meriterebbe. Tutti la guardano, ne parlano, la criticano, ne diffidano, senza poterne fare a meno». Questo vale in larga parte ancor oggi, soprattutto in riferimento alla televisione generalista. È proprio questa dicotomia tra il giudizio e la realtà a suggerire la sua persistente vitalità, all’interno di un contesto che inevitabilmente cambia. Sicuramente capace (e in passato motore) della creazione di nuova cultura mainstream, la televisione di oggi si misura con una continua evoluzione, sfidata 359

com’è dall’emergere di linguaggi e semantiche sempre nuovi, che danno vita a identità e culture con stili e intenti originali. Nel tempo della convergenza digitale e multipiattaforma, la produzione di serie di fiction rappresenta un «contenuto» privilegiato. Lo è ovviamente la grande serialità americana. In questi anni hanno lavorato per la televisione, dietro e davanti alle telecamere, i più prestigiosi artisti di Hollywood. La qualità seriale, infatti, non solo compete con quella cinematografica, ma addirittura dimostra una raffinatezza e una complessità che il cinema non sempre riesce a raggiungere, anche perché la serialità ha dalla sua la possibilità di costruire catene narrative complesse, romanzi e non racconti, di diversificare su un range estremamente largo di interazioni e contaminazioni di genere. Per le televisioni a pagamento e le piattaforme on demand le serie rappresentano in tutto il mondo il prodotto premium, esclusivo, quello che insieme allo sport attira nuovi abbonati, lavorando anche su nicchie che chiedono un differenziale di offerta. Ma la fiction è un contenuto privilegiato anche per la televisione generalista nazionale per la quale rappresenta il grande romanzo popolare del nostro tempo, in cui ci si confronta con la memoria, la vita, la quitidianità, la contemporaneità, scavando nei problemi e rappresentandoli con la forza dei sentimenti, con la consapevolezza di quanto la narrazione contribuisca alla costruzione del nostro immaginario. Un fatto diventa memorabile per gli altri se viene argomentato in termini emotivi e narrativamente efficaci. Altrimenti si tende a dimenticarlo rapidamente. Da un lato ci sono le grandi storie significative per il paese che declinano un sistema di valori in grado di unire e costruire un senso di identità, coinvolgendo il grande pubblico (da La meglio gioventù a Il sindaco pescatore, da Perlasca a Lea Garofalo, da Domenico Modugno a Mennea). Dall’altro lato i 360

prodotti che, pur giocando con lo spettatore con la complicità offerta dal genere (dal crime al mystery, dal dramedy al coming of age, ecc.), toccano temi veri e significativi per l’esperienza del telespettatore. Braccialetti Rossi, ad esempio, è diventato il romanzo di formazione di un’intera generazione di adolescenti e ha rappresentato con passione e vitalità temi difficili e spesso rimossi dall’immaginario collettivo, come la malattia e la paura della morte. È arrivata la felicità, serie trasmessa nell’autunno del 2015, ha saputo raccontare con credibilità e affetto – prima dell’approvazione della legge sulla convivenza tra coppie omosessuali – i diversi e nuovi perimetri delle famiglie di oggi, mettendo in scena tra i protagonisti anche una ragazza che aspetta un bambino e vive con la sua compagna. Non raccontandolo come un fatto straordinario o un tema problematico, ma con la leggerezza della quotinianità e della commedia. Un posto al sole, all’interno di una complessa tessitura di generi che mescola il melò, la commedia e il social, ha parlato e parla di legalità, di violenza sulle donne, di prostituzione minorile, di affido, di bullismo, di omofobia e di molto altro ancora. Tramite la fiction, anche quella più quotidiana, passano i temi importanti dell’oggi e vengono portati all’attenzione del grande pubblico con una forza che spesso supera quella di molti dibattiti. Parallelamente al lavoro sui contenuti, anche la messa in scena costruisce il valore e la forza di una serie, perché la fiction è scrittura, ma anche capacità visionaria, qualità del linguaggio filmico, del montaggio, della musica. È così che, anche in Italia, anche su quella televisione generalista sulla quale, come detto, persistono tanti pregiudizi, il racconto televisivo sta diventando più ambizioso e coinvolge e coinvolgerà sempre più spesso talenti che vengono dal cinema. Fino ad arrivare alle grandi coproduzioni internazionali che 361

mettono in relazione i talenti italiani con i migliori talenti internazionali, dando vita a progetti ambiziosi, come quello recente dedicato alla famiglia fiorentina dei Medici. Accanto ai generi più prettamente narrativi, come la fiction o la docufiction, anche uno show che abbia in sé la capacità di costruire un racconto a più strati, che sappia affascinare e coinvolgere un pubblico ampio e differenziato non è un prodotto usa e getta. Questo non vale solo per l’affabulazione di Benigni che racconta Dante, la Costituzione, i Dieci Comandamenti facendoli scoprire per la prima volta davvero al grande pubblico, rivelando la loro verità immanente nella nostra vita quotidiana, apparentemente così lontana. Vale (a titolo di esempio) anche per Fiorello, per Fazio, per Paola Cortellesi che, facendo intrattenimento, parla di bullismo e violenza contro le donne. Per riassumere il concetto con un’immagine, vedo sul palco dell’Ariston Laetitia Casta e il premio Nobel Renato Dulbecco che affiancano Fazio nella conduzione di un Sanremo di qualche anno fa o Ezio Bosso che incanta il pubblico sullo stesso palco nell’edizione di quest’anno. A cavallo del confine ideale tra cultura alta e cultura popolare, la televisione asseconda e talvolta guida una fertile contaminazione, il migrare delle diverse forme espressive, che nei casi migliori porta ad una integrazione tra successo popolare e qualità. Nell’epoca della frammentazione dell’offerta, della grande dispersione dei pubblici e della fruizione personalizzata, inoltre, la televisione generalista è il luogo della condivisione degli eventi. Di quelli terribili e tragici che ci porta la cronaca, di quelli sportivi, dello spettacolo, della musica, del racconto. Eventi che vengono condivisi, commentati attraverso i social nell’agorà virtuale della rete o il giorno dopo di persona. La televisione generalista ha dunque la capacità di ricomporre dualità a prima vista inconciliabili. Quella tra grande 362

pubblico e qualità del prodotto, obiettivo sempre dinamico per i grandi servizi pubblici europei. Quella tra intrattenimento e pedagogia, dove, partendo dal duplice rifiuto della retorica e della spculazione fine a sé stessa, ci si può impegnare nella ricerca del registro migliore. Quella tra individui e società che ci porta a seguire il bisogno di trovare risposte diversificate ai nostri gusti, ai nostri bisogni, alle nostre domande e contemporaneamente ci spinge a stare insieme, a sentirci coinvolti proprio attraverso quella superficie luminosa che ci accomuna con tutti gli altri, come se avesse la qualità magica di operare un miracolo e trasformare una massa di atomi in una comunità. Sarà un caso che dalla televisione che esordiva come un totem nella sala da pranzo delle case di sessant’anni fa siamo passati alla proliferazione non solo dei canali ma dei televisori, così che padri e madri, figli, amici, nonni possono guardare quello che vogliono, senza contrattazioni e bracci di ferro, salvo poi riunirsi quando un evento ci coinvolge tutti. Perché alla fine, e credo ancora per molto tempo, nell’espansione senza fine delle immagini che ci circondano, un racconto, una storia, uno show, un evento in diretta, quale che sia, avremo voglia, piacere, bisogno di seguirlo. Qui davanti a noi e, insieme, da lontano, con tanti altri.

Valerio Magrelli Una traduzione veramente fedele...

«U

na traduzione davvero fedele...». Quante volte abbiamo sentito questa frase? E quante volte il nostro sguardo è corso oltre, come se niente fosse, come cioè se un’affermazione del genere non avesse avuto bisogno di spiegazioni? Sia chiaro: qui non si tratta di confessare un peccato che certamente chiunque, una volta o l’altra, avrà commesso. Qui si tratta piuttosto di chiarire in che cosa consista un peccato simile. E allora, anche senza scomodare il grande Flaubert, autore del Dizionario dei luoghi comuni, del Catalogo delle idee chic e dello Sciocchezzaio (Sottisier), proviamo a esaminare l’espressione che ha accompagnato sin dalla nascita il moderno dibattito sulla traduzione: l’endiadi bellezza-infedeltà. Secondo Roger Zuber, «belle infedeli» è una formula coniata in pieno Seicento da Gilles Ménage, per indicare le traduzioni in grado di rispettare la qualità dell’originale, di contro a quelle che, a causa di un malinteso senso di letteralità, finirebbero per sfigurarla. Associando linguaggio ed erotismo, viene in tal modo segnalata l’impossibilità di una versione ideale, capace cioè d’essere una moglie-amante tanto devota quanto seducente. Sarà bene ricordare come quella di Ménage (che Georges Mounin, già prima di Zuber, aveva scelto come titolo di un suo saggio) rappresenti soltanto una tra le infinite similitudini cui si è ricorso per illustrare il meccanismo della traduzione, e probabilmente non la più riuscita. Pure, col tempo essa ha finito per tramutarsi in un luogo comune indistruttibile. Ebbe-

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ne, proprio contro una fortuna tanto ampia quanto immeritata, intendono rivolgersi le seguenti righe, nella ferma convinzione che raramente un’immagine abbia distorto e frainteso in modo più radicale il modello cui intendeva riferirsi. Sarebbe interessante immettere un materiale simile all’interno di quella Toposforschung prospettata da Hans Blumenberg esaminando le metafore in quanto «fossili guida di uno strato arcaico del processo della curiosità teoretica», paragonandole a forme di cicatrizzazione, segni di una ferita nel pensiero concettuale che viene avviata a guarigione. Imbarazzanti residui nella formazione concettuale, aloni che circondano il puro nucleo della determinatezza, dissonanze, residui di brutalità concettuale: forte è la tentazione di applicare tali attributi all’immagine che stiamo esaminando. Non per niente, il blog di epistemologia curato dall’antropologa Jennifer Raff, dell’University of Kansas, ha tutt’oggi per titolo: Violent Metaphors... Meglio però abbandonare il panorama tracciato da Blumenberg, per concentrarci sulla nostra espressione. Se il segreto della coppia «belle infedeli» sta nella sua capacità di collegare fallacia e verità in modo inestricabile, tra i due termini è soprattutto il secondo a celare l’inganno. L’idea di fedeltà investe infatti il testo con una potente ventata antropomorfica. Noi diciamo «fedele a una persona», «fedele a una promessa», «fedele a una causa». In tutti e tre i casi, è la singolarità del legame ad attestarne la forza. Siamo cioè fedeli a una, e a una soltanto, persona, promessa o causa. Da qui l’altra espressione: «Non conosco che una sola parola», quella appunto che mi impegna in forma assoluta. Tener fede alla parola del testo, dunque. Ma il punto è proprio questo: la promessa del testo non è una semplice parola, bensì un sistema di relazioni composto da parole. Per quanto possa sembrare ovvio, chi si ostina a parlare di fedeltà a un qualsiasi testo opera un’evidente ipostatizzazione, riducendo indebitamente la varietà ad unità. 365

Insomma, se l’idea di fedeltà comporta inestricabilmente quella di singolarità, come pensare d’essere fedeli a qualcosa che, frutto di una molteplicità fondante e statutaria, si definisce appunto sulla base della propria pluralità costitutiva? La commedia italiana ha preso in giro Arlecchino servitore di due padroni: ma cosa succederebbe se i padroni fossero quattro, cinque o sei? Come sarebbe possibile essere contemporaneamente fedeli alla sintassi e al lessico, alle figure retoriche e ai generi grammaticali, alle rime o a eventuali acrostici? Un testo letterario non equivale a un oggetto statico, ma a un processo dinamico, un concorso di spinte contrapposte, un insieme di forze in equilibrio. Una poesia presenta un nodo di informazioni sintattiche, lessicali, metriche, rimiche, retoriche, e così via. Anzi, per meglio dire, corrisponde a quel nodo e non ai vari capi che lo formano, nella stessa maniera in cui una treccia non pre-esiste al gesto che la serra, ma in quel gesto consiste. Di conseguenza, il traduttore potrà tutt’al più cercare d’essere fedele a qualche singolo elemento, non certo all’insieme. Se l’organismo testuale viene correttamente considerato come un fascio di funzioni coordinate tra loro, nel passaggio da una lingua all’altra sarà già molto riuscire a riprodurne alcune. Alla fine di questo percorso, la generica idea di fedeltà da cui avevamo prese le mosse si ripresenta piuttosto alterata. Nello sterminato campo gravitazionale del testo di partenza, il traduttore potrà infatti scegliere unicamente poche linee di forza cui attenersi e talvolta addirittura una soltanto, a scapito (ecco il punto) di almeno una richiesta. Il problema preliminare, pertanto, non sarà più come, bensì che cosa tradurre, consci che la scelta di un fattore potrà avvenire solo a svantaggio di altri. Vale allora la pena ricordare, a mo’ di conclusione, un passo dell’abate Galiani: «Nel fare una profonda riverenza a qualcuno, si voltano sempre le spalle a qualche altro». Ecco a che cosa portano le nostre «belle infedeli»! Partiti da un’errata nozione totalizzante, approdiamo a una concezione 366

del testo multipla e diversificata, centrata sulla necessità di precisare quali componenti privilegiare e quali escludere. L’immagine iniziale si è infranta, il quadro metaforico è cambiato. La maliziosa ma rassicurante cornice di bienséances tracciata da Ménage, lascia ora il passo all’oculato controllo dei poteri preconizzato da Torquato Accetto o Balthasar Gracian: la passione dell’amante cede il passo al calcolo del cortigiano. Di fronte alla brulicante ricchezza della pagina, il traduttore non potrà più illudersi di praticare una vaga, sommaria professione di fedeltà. Al contrario, nello scegliere a cosa porgere i propri omaggi, egli dovrà decidere, in maniera altrettanto irrevocabile, cosa tradire.

Guido Barbujani Gli uomini sono tutti uguali

L’

hanno detto e scritto in molti: Jean-Jacques Rousseau, parecchie donne deluse dal genere maschile in generale, e anche Francesco Guccini in un’epica canzone. Un po’ è vero, un po’ no; bisogna intendersi. Che gli uomini nascono tutti liberi e uguali l’hanno messo in chiaro fin dal 1789 i rappresentanti del popolo francese costituiti in Assemblea Nazionale, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Negli anni Sessanta un grande genetista, Theodosius Dobzhansky, ha precisato che i nostri comuni diritti non ci derivano dall’essere tutti biologicamente uguali (non lo siamo), ma dall’essere tutti umani: senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione e opinioni politiche, come specifica la nostra Costituzione. Dunque, la natura ci ha fatti differenti, ma in partenza dovremmo avere uguali diritti: in teoria. In pratica, e da decenni ormai, Libertà vince per distacco su Uguaglianza e Fraternità, e si discute se le ultime due siano addirittura fuori tempo massimo. Ma partiamo dalla nostra natura biologica. Per secoli, su quanto siamo diversi l’uno dall’altro si sono accapigliati filosofi e naturalisti, competenti e incompetenti, nessuno disponendo purtroppo dei dati necessari per rispondere. Secondo Cesare Lombroso le nostre differenze sarebbero congenite («ataviche», le chiamava lui) e ci indurrebbero infallibilmente a essere come siamo, secondo il suo contemporaneo Sigmund Freud tutto il contrario. Oggi però la genetica ha qualcosa di preciso 368

da dirci. La nostra natura biologica, qualunque cosa essa sia, sta scritta nel genoma che mamma e papà ci hanno trasmesso. Di questo testo conosciamo l’alfabeto, cioè le quattro molecole che formano le catene di Dna, indicate con le lettere A, C, G e T; ne conosciamo la grammatica, cioè i geni (sono ventiduemila nell’uomo) che regolano lo sviluppo e il funzionamento dell’organismo; ne comprendiamo invece poco la sintassi, cioè come facciano questi geni a parlarsi fra loro e rispondere a migliaia di stimoli ambientali. Meglio di niente. La prima cosa che si è capita analizzando questo testo sterminato (sono 6 miliardi e mezzo di caratteri, qualcosa come seimila volumi dei Promessi sposi stipati in ogni cellula) è che siamo molto simili. In media, due di noi differiscono per una lettera su mille, per esempio una A dove altri hanno una G. Significa che condividiamo con qualunque sconosciuto il 99,9% del nostro genoma. Attenzione però: è anche vero che l’uno per mille di sei miliardi e mezzo, diviso due (non spiegherò perché, ma bisogna dividere per il numero di genitori) sono 3 milioni e passa di possibili differenze. La seconda cosa che si è capita è che questi milioni di differenze non suddividono l’umanità in gruppi razziali distinti, come invece capita agli scimpanzé, o anche a cani e cavalli (ma meglio lasciar stare gli animali domestici, perché lì le razze le ha selezionate l’uomo, non si sono evolute da sole). Insomma, il nostro vicino di casa è mediamente più simile a noi di un vietnamita o un mozambicano, ma intorno alla media c’è tanta variabilità; così tanta che può capitare, e in effetti capita, che certi nostri vicini siano molto diversi da noi. Non è così per altre specie. Leggendo certi tratti di Dna, si può attribuire con sicurezza qualunque scimpanzé alla sua razza, una di quattro; nell’uomo no, a meno che quell’uomo non porti caratteristiche molto particolari, generalmente patologiche. Nei geni della globina di un talassemico sta scritto se viene dalla Sardegna o da Cipro, dal Delta del Po o dalla Sicilia, ma le globine normali 369

sono le stesse in tutto il mondo. «Tutti parenti e tutti differenti», diceva un genetista francese, André Langaney: è ancora il miglior slogan per riassumere come siamo. Insomma, che l’umanità sia divisa in razze differenti è un altro pregiudizio duro a morire, ma ormai screditato dalla ricerca biologica. Se non bastassero gli studi sul genoma, dal Settecento a oggi non ci sono due esperti, o sedicenti tali, che si siano mai messi d’accordo su quante siano le razze umane: c’è chi pensa che siano 2, c’è chi ne trova 4, o 5, o 8, o 22, su su fino a 200; e qualcosa vorrà pur dire. Quanto le varianti dei nostri geni determinino ciò che conta nella nostra vita di relazione: i nostri caratteri, comportamenti, aspirazioni, capacità, non lo sa ancora nessuno. Bisognerebbe conoscere la sintassi del genoma, avere imparato a decifrare le interazioni − complicatissime − fra centinaia di geni e tutti i segnali che ci manda il mondo esterno: un compito, al momento, proibitivo. Giusto per capirci: il colore della pelle sembra facile da studiare, e invece non lo è. Cambia con l’esposizione solare, e se non bastasse, alla fine salta fuori che i geni di cui tener conto sono una settantina. Descrivere il colore della pelle, però, è più semplice che comprendere le cause del diabete, o delle malattie cardio-circolatorie e neuro-degenerative (cause che infatti ancora ci sfuggono). E molto più complicato di tutte queste cose che ancora non capiamo è il funzionamento normale del nostro organismo, cioè quanto contino geni e ambiente nel determinare peso, statura, capacità cognitive, o addirittura le nostre ideologie. Il Dna c’entra, perché c’entra con tutto quello che siamo. Non potremo mai diventare alti tre metri, o alzarci in volo sbattendo le braccia, perché lì abbiamo un chiaro limite biologico. Ma dove ci collochiamo all’interno dei limiti biologici sanciti dal nostro Dna, in che misura il nostro girovita, le nostre abilità manuali o il nostro successo professionale riflettano differenze congenite, nessuno lo sa. 370

Nella perdurante incertezza su quanto di noi stia scritto fin dalla fecondazione nel Dna, il che poi significa fino a che punto siamo liberi di scegliere e agire, dicevamo che la reputazione di Uguaglianza e Fraternità è in declino. Il 1789 è lontano; prevale l’idea che senza disuguaglianze l’economia non cresce e il mercato non funziona; si citano i defunti paesi socialisti come esempio negativo, società appiattite in cui non c’erano stimoli a innovare, a inventare, a progredire. Sarà anche vero, ma la sensazione è che oggi si stia esagerando in senso opposto. Negli anni Sessanta il presidente della Fiat, Vittorio Valletta, guadagnava 20 volte più di un suo operaio, oggi il rapporto è di 435 a 1. È inevitabile che sia così? È utile? Un economista di Princeton, Alan Krueger, non esattamente un marxista cioè, pensa di no. Ha scoperto che le grandi disuguaglianze economiche sclerotizzano la società: più si allarga il divario fra ricchi e poveri, più il reddito individuale dipende non da quanto uno sia bravo o si dia da fare, ma, semplicemente, dal reddito dei genitori. Chi nasce ricco resterà ricco, per chi nasce povero tanti auguri. Quindi, se hai talento, meglio non nascere dove le disuguaglianze sono più marcate, per esempio in Sud America. La sorpresa è che subito dopo Colombia e Brasile, in questa brutta classifica troviamo Gran Bretagna e Stati Uniti (e l’Italia a ruota). In fondo è intuitivo: dove studiare costa molto, dove i privilegi di classe non si toccano, avere genitori ricchi significa partire avvantaggiati; e così, come si sa, finisce che la classe media si immiserisce e le ricchezze si concentrano in poche mani, e poi in pochissime. Per usare le parole di Barack Obama (gennaio 2014) «i profitti delle aziende e il valore delle azioni sono altissimi. Ma gli stipendi medi sono fermi. Le disuguaglianze si aggravano. Non c’è più mobilità». La domanda tuttora inevasa è allora come regolarsi con le disuguaglianze, che, anche nei paesi sviluppati, ormai significano diverse opportunità di accedere non solo al benessere e 371

alla cultura, ma ai farmaci e alle cure mediche. Secondo uno studio di Göran Therborn, al capolinea ovest della linea Jubilee della metro di Londra si vive in media 9 anni più a lungo che a quello est, con una perdita di 6 mesi di vita a ogni fermata; e a Washington va ancora peggio. Ecco che torna in ballo la biologia, quindi, e in più di un senso. C’è infatti anche chi dice: per le disuguaglianze non bisogna fare niente, perché le differenze sociali riflettono fedelmente differenze di qualità biologica. Le popolazioni ricche sarebbero quelle in cui si sono selezionati e diffusi i geni per produrre ricchezza, le popolazioni povere quelle geneticamente più scadenti; qualunque intervento statale che cerchi di colmare il divario andrebbe quindi contro natura. È una proposta che ha, almeno, il merito della chiarezza. Le manca, invece, ogni supporto scientifico: quei geni lì, quelli che renderebbero, secondo Nicholas Wade, anglosassoni ed ebrei particolarmente adattati al capitalismo, e cinesi e africani no, sono come i geni dell’intelligenza o del girovita: non li ha mai trovati nessuno. Ideologia allo stato pure, dunque. Ma finché qualcuno non riuscirà a fare con altrettanta chiarezza e forza una proposta alternativa, si continuerà, come oggi, a non fare proprio niente.

Massimo Pandolfi L’uomo è cacciatore

«L’

uomo è cacciatore». Di donne. Una bella «frase fatta» del nostro immaginario collettivo con il preciso significato che i nostri antenati Sapiens sapiens non solo si dedicavano a impegnative cacce alle «belve feroci» della megafauna pliocenica, dai mammuth al bisonte, dall’orso delle caverne alla tigre dai denti a sciabola ma... con determinata assiduità perseguivano e cacciavano la belva più feroce e antica: la donna. Un classico delle vignette è: «Wilma dammi la clava!», e... «Bam!» l’irsuto maschio paleolitico stende una formosa bionda e se la trascina tramortita per i capelli alla sua caverna dove ne farà legittimo scempio sessuale. Certo perché... «l’uomo e cacciatore». E via dicendo. Fino alle interminabili chiacchiere nei bar sulle «conquiste» maschili dove l’assillante ricerca di una «femmina», non da conquistare ma da agguantare, è vista come il normale comportamento maschile giustificato dall’impellente must che... l’uomo «va a caccia» di donne, a giustificazione di un ineludibile impulso che lo spinge a collezionare in ogni dove quante più femmine possibile. Ma è proprio così nelle radici del comportamento (etologico) umano? E soprattutto, è proprio vero che sia l’uomo, maschio, a cacciare la donna, femmina? Mah! Non proprio. Gli studi sul comportamento umano, dal clan del cacciatore-raccoglitore paleolitico alle società e culture contemporanee raccontano una storia molto diversa, dove il 373

cacciatore è la preda e dove la donna è invece colei che sceglie e decide da chi dover essere cacciata. Queste acquisizioni sono ormai vecchie e provengono da una marea di studi antropologici ed etologici che ci dicono che nell’uomo, come nella grande maggioranza delle specie di vertebrati e invertebrati... la scelta del maschio con cui accoppiarsi sia rigorosamente femminile. Ma il tutto ancora non sembra proprio digerito dalla molto tradizionale cultura popolare. Noi umani, da buoni mammiferi dove i maschi sono più grandi e forti delle femmine, abbiamo una certa tendenza ad interpretare l’accesso alla riproduzione sessuale in termini di dominanza fisica nei confronti delle nostre meno robuste femmine; di qui anche grossi problemi sociali (e di violenza) nei rapporti tra i due sessi. Ma la lettura del «maschio forte e dominante» legittimato a «cacciare» deboli femmine ritrose è in realtà socialmente molto primitiva e spesso totalmente inefficace nei confronti della scelta femminile di un buon partner capace non solo di provvedere ad un tumultuoso amplesso sessuale, ma di essere capace di assicurare «un buon futuro» a lei e alla sua preziosa prole. Nella teoria etologica, nei mammiferi i maschi hanno sviluppato potenti armi come le grandi corna dei cervi o le lunghissime e appuntite zanne dei trichechi tanto per citare armi evidenti e pericolose, non tanto per difendersi da aggressivi predatori quanto per... procedere ad accanite, e ritualizzate, lotte «tra» maschi per aver poi l’accesso alle femmine e alla riproduzione. Concetto ormai vecchio di oltre centocinquanta anni nella scienza tanto che già Charles Darwin lo esponeva nella sua elegante e innovativa teoria della «selezione sessuale». Non quindi armi per impossessarsi con la forza della «debole» femmina ma per permetterle di valutare quale fosse il maschio più sano, forte e portatore di preziosi geni indispensabili a procreare una prole vitale, efficiente e capace di superare le sfide della loro vita futura. Inoltre il maschio vincitore 374

di tanti scontri sarà sicuramente portatore anche di un gene «onesto». Con la lotta in prima persona non può aver barato, fatto non proprio inessenziale nella scelta ponderata di una saggia femmina di tricheco. E anche umana. Anche se nelle società umane la competizione tra i maschi per l’accesso alla riproduzione si svolge con armi più complesse e sottili che non le lunghe zanne. Dove è meglio cioè mostrare ad una donna ambita il proprio elevato rango sociale o le capacità di poterlo facilmente raggiungere: essere brillante, intelligente, socialmente leader e far sì che lei possa essere certa che la sua scelta è ben riposta, per il suo futuro e quello dei suoi figli. Meglio un ottimo «status» personale che non presentarsi con una banale Ferrari che... potrebbe essere del papà o presa a prestito «per far colpo» sulla bellissima femmina da conquistare. E questo le femmine, se proprio non sono stupide, e non lo sono, lo capiscono di solito immediatamente. Ma, all’alba dei tempi, l’uomo era o no davvero un indomito cacciatore se non di femmine almeno di succulente prede da sbattere sui carboni ardenti del bivacco per nutrire tutta la numerosa famiglia? Lo stranoto «istinto di caccia» non permea forse tutta quella cultura del cacciatore moderno che così giustifica la mattanza di decine di uccelletti colti al passaggio durante la migrazione o attirati dai canti d’amore emessi dai «richiami» imprigionati in anguste gabbiette? Se l’uomo ha, oggi diremmo nel suo Dna, l’insopprimibile istinto a uccidere prede animali di tutte le dimensioni, le battute di caccia a passerotti indifesi non sembrerebbero che l’ovvio risultato di un’ineludibile spinta primeva che ha nel corso dei secoli direzionato il nostro comportamento verso la caccia e l’uccisione di altri animali perché... «l’uomo è cacciatore». Ma... sarà proprio questo e solo questo l’istinto insopprimibile dei maschi umani dal Paleolitico superiore ad oggi? Beh... non proprio. O almeno: «non soltanto, anzi». Intanto nei lunghi 375

(190.000) e fastosi anni del Paleolitico pre-neolitico i gruppi umani erano più propriamente dei «cacciatori-raccoglitori», dove l’attività della caccia non era quella primaria anzi, l’attività di raccolta di prodotti alimentari (e con ampie proprietà medicinali) sia animali che vegetali occupava gran parte dell’attività del gruppo sociale, del clan dei primevi sapiens. E non c’era stretta suddivisione dei compiti: alla caccia si dedicavano anche le donne e alla raccolta, dalle lumache alle tartarughe, ai frutti, ai semi erano attivamente occupati anche gli uomini. Altrimenti non avremmo tanti scatenati fungaioli maschi oggi ancor più numerosi dei cacciatori patentati. E, assieme, maschi e femmine, si dedicavano invece a quell’arte sociale del buon convivere civilmente che è sempre stata la cucina, paleolitica e odierna, fonte di delizie olfattive e del gusto, che certo non mancavano nei nostri progenitori nella preparazione, oggi come allora, di piatti dove sapientemente e con perizia si combinano i sapori della carne, del pesce, dei nutrienti grassi animali con i deliziosi aromi, profumi e consistenze delle erbe, dei frutti, delle radici, dei semi schiacciati e ridotti a farina nel macinello di pietra per produrre pani e focacce da accompagnare al nudo pasto non di sole carni e radici.

Rocco Pinto Il web uccide le librerie

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o iniziato a lavorare come fattorino in libreria nel gennaio del 1980, l’anno in cui usciva Il nome della rosa di Umberto Eco. L’anno prima avevo fatto il servizio militare accompagnando un non vedente che mi ha fatto scoprire Arpino, Parise, Majakovskij, Gor’kij e tanti altri scrittori. Di nascosto ascoltavo le audiocassette de La Suora giovane di Arpino e del Prete bello di Parise. All’epoca il computer non era ancora arrivato in libreria e i miei strumenti di lavoro erano penna, fogli e carta carbone per fare gli ordini, il telefono e soprattutto la memoria, allenata a trovare libri che nessun computer aveva registrati. Dopo più di trent’anni la tecnologia ci ha travolti e ha radicalmente modificato il nostro modo di lavorare, di comunicare e persino di relazionarci con gli altri. La «rete» ci collega in tempo reale con tutto il resto del mondo, possiamo avere e dare informazioni su qualsiasi argomento, chiudere ordini, fare pagamenti. Tutto questo ha indubbiamente migliorato il nostro lavoro e la qualità del servizio che possiamo offrire ai clienti. Eppure sono convinto che né i computer né i nuovi social si possono sostituire al libraio; sono strumenti che senza la nostra intelligenza servono a ben poco. Sempre di più la nostra società ha bisogno dei librai e sempre di più le librerie hanno un ruolo fondamentale: sono veri e propri presìdi culturali sul territorio, punti di riferimento e di aggregazione, creano comunità. Qualcuno si è stupito che Tori377

no, città dove vivo e lavoro, fosse al 17° posto, fra le città italiane, nella classifica delle vendite on line di Amazon. Ha pensato che a Torino si leggesse poco. Amazon attecchisce dove non ci sono librerie, o dove queste non sono attraenti, innovative, assortite. Sicuramente il motivo è che le librerie a Torino, come in altre città, sono sempre più competitive e lavorano nei quartieri, anche periferici, intrecciandosi con scuole e biblioteche. Anche io, come tanti altri colleghi, cerco di lavorare dentro e fuori dalla libreria, facendo come i vecchi librai dell’Ottocento che quando non c’erano clienti in libreria andavano davanti alle chiese e nei mercati con delle gerle piene di libri. Per far bene il nostro mestiere c’è bisogno di passione e competenza ma soprattutto di amore e curiosità per quello che vendiamo: i libri. Sono loro il nostro tesoro, i libri che leggiamo ed amiamo e che teniamo vivi. I buoni libri non hanno scadenza come le medicine, anzi i buoni libri sono una medicina formidabile e lo dimostra il successo del volume Curarsi con i libri (la cui edizione italiana è curata da Fabio Stassi). Un libro letto e amato non ci abbandona più. Raccontando e consigliando libri spesso si incontrano nuovi romanzi, si intrecciano storie diverse e questa è una delle cose più belle del nostro mestiere, perché spesso sono gli stessi clienti della libreria che ci fanno scoprire buoni libri che noi possiamo poi consigliare e vendere a centinaia di persone. La passione me l’ha trasmessa la scuola e soprattutto il mio professore delle medie Giovanni Bertolino, che mi ha stregato con i suoi racconti sul suo compagno di scuola Gianni Rivera: sapeva della mia passione per il calcio e mi raccontava le prodezze del suo amico e poi piano piano è passato dal calcio, che praticavo ed amavo, a trasmettermi il piacere della lettura. Il mestiere l’ho appreso in bottega, prima come fattorino e magazziniere, poi come commesso e infine come responsabile. Tutta la mia esperienza professionale e persino la mia vita privata hanno un legame stretto con i libri: ho sposato una 378

studentessa universitaria conosciuta in libreria e la mia tesi di laurea è proprio sulla formazione dei librai («Le letture del libraio»). Ma soprattutto, dopo trentacinque anni di libreria continuo a divertirmi fra questi scaffali colmi di storie, chiacchierando con editori che mi raccontano le novità in uscita, incontrando scrittori in vista di una presentazione o cercando di consigliare il libro giusto ad ogni cliente che varca la soglia della libreria. Non credo che il web uccida le librerie. Di sicuro sta rosicchiando il nostro tempo libero, si sta prendendo dello spazio. Forse stanno cambiando le modalità di fruizione della cultura e delle informazioni, così come anche il modo di acquistare delle persone. Queste sono tutte sfide per noi librai che lavoriamo ogni giorno, sì per vendere libri, ma con una visione più ampia di promozione della lettura, per migliorare le città in cui viviamo e la qualità delle nostre vite. Il web può aiutare le librerie a farle conoscere e a far sapere che esistono, a comunicare quello che fanno, a far emergere la personalità e le peculiarità di ciascuna libreria. Ma dietro ci sarà sempre un libraio, tanti librai, che fra mille difficoltà e con pochi mezzi si domanderanno: come posso attirare persone in libreria, come posso creare occasioni di lettura e cosa posso inventarmi per portare i libri dove i libri non ci sono e fare in modo che il maggior numero di persone abbia la possibilità di scegliere un buon libro. Ecco, è questa la domanda che mi faccio ogni mattina: cosa posso inventarmi oggi? Be’, in questi anni qualcosa siamo riusciti a fare. Portici di carta, la libreria all’aperto più lunga del mondo. Liberinbarriera, una palestra scolastica che diventa una grande libreria per una settimana. E poi, per citare soltanto qualche altra iniziativa: Invito a bozze, Leggermente con i piedi e con le mani, Siamo cresciuti a Pane e Salani, 10 lettori per..., Pralibro, Torino che legge. 379

Queste sono alcune delle idee che ho messo in moto con i miei collaboratori. Tantissime sono le librerie che si inventano iniziative per rendere attrattive le loro botteghe e che poi diventano iniziative di rete. Così è nata Letti di notte, da un’idea del libraio di Cagliari Patrizio Zurru fatta propria dall’Associazione Letteratura Rinnovabile e che coinvolge più di trecento librerie italiane ed estere che nella notte del solstizio d’estate animano fino a tarda notte le loro librerie. Così è nata l’esperienza Liberos in Sardegna, che mette in comunicazione tutta la filiera del libro, dal bibliotecario al libraio, dall’insegnante allo scrittore e a tutti coloro che a vario titolo si occupano di lettura. Così Italian Book Challenge (Campionato Italiano dei Lettori), da un’idea della Libreria Volante di Lecco, ha messo insieme duecento librerie indipendenti preparando una proposta di 50 opzioni di lettura che ognuno poteva scegliere girando per le librerie aderenti e premiando i lettori più virtuosi. Quindi non catene librarie ma catene di idee che si mettono in circolo. Negli ultimi anni molte librerie hanno chiuso, alcune sono diventate franchising e altre hanno aperto. I librai indipendenti hanno capito che per stare sul mercato devono lavorare sul servizio e sulla proposta, non sullo sconto. In tutta la penisola le librerie si stanno trasformando rendendosi più attrattive, organizzando incontri, concerti, cene letterarie, con iniziative di ogni genere, dal libro sospeso a quello portato a domicilio. Entrare in una libreria è un’esperienza unica che la rete non dà. In libreria incontriamo libri che non avremmo mai pensato di scovare, autori, lettori, esperienze, profumi, sensazioni. Certo dipende molto da come rendiamo esclusive le nostre librerie e da come costruiamo l’assortimento. Da più di trent’anni vivo queste emozioni e cerco anche di regalarle a chi entra in libreria. Il web non uccide le librerie, ma andrebbe molto meglio se fosse riconosciuto loro il ruolo sociale che svolgono quotidiana380

mente e con grande impegno. Dovrebbero essere riconosciute le ricadute sociali del nostro lavoro, con un sostegno tangibile. Le possibilità ci sono: dagli sgravi fiscali agli incentivi per l’innovazione tecnologica e la formazione. Ma la cosa davvero fondamentale sarebbe che questo paese cominciasse a investire seriamente in cultura, istruzione e ricerca, con campagne vere e condivise di promozione della lettura. E in progetti di grande respiro e visione come questi, il web non potrebbe che dare un grande aiuto.

Gli autori

Antonella Agnoli ha progettato e diretto la biblioteca San Giovanni di Pesaro ed è consulente delle amministrazioni locali di molte città italiane, grazie a un’esperienza trentennale nelle più avanzate biblioteche del mondo. Ha pubblicato diversi libri sul tema, tra cui Le piazze del sapere (Laterza 2009), Caro sindaco, parliamo di biblioteche (Editrice Bibliografica 2011) e La biblioteca che vorrei. Spazi, creatività, partecipazione (Editrice Bibliografica 2014). Massimo Ammaniti, psicoanalista, è professore onorario dell’Università di Roma La Sapienza. Tra i suoi libri, Pensare per due. Nella mente delle madri (2008) e La famiglia adolescente (2015), pubblicati entrambi da Laterza, e (con Vittorio Gallese) La nascita dell’intersoggettività, pubblicato da Raffaello Cortina (2014). Stefano Anastasia, docente di Filosofia e Sociologia del diritto presso l’Università di Perugia, è garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria. Recentemente ha pubblicato, con Manuel Anselmi e Daniela Falcinelli, Populismo penale. Una prospettiva italiana (Cedam 2015). Tinny Andreatta dirige Rai Fiction. Giulio Anselmi è presidente dell’Ansa. In passato è stato condirettore del «Corriere della Sera» e direttore di «Il Messaggero», «L’Espresso» e «La Stampa». È stato presidente della Fieg dal 2012 al 2014. Francesco Antinucci è stato direttore di ricerca dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Cnr. Ha svolto attività di ricerca al Dipartimento di Psicologia dell’Università di California a Berkeley e al Palo Alto Research Center della Xerox. Con Laterza ha pubblicato, tra l’altro, Computer per un figlio. Giocare, apprendere, creare (1999), Spezie. Una storia di scoperte, avidità e lusso (2015), Il potere della cucina. Storie di cuochi, re e cardinali (2016).

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Corrado Augias è scrittore e giornalista. Ha pubblicato, tra gli altri, I segreti d’Italia. Storie, luoghi, personaggi nel romanzo di una nazione (Rizzoli 2012), Il lato oscuro del cuore (Einaudi 2014), Le ultime diciotto ore di Gesù (Einaudi 2015), I segreti di Istanbul (Einaudi 2016). Gaetano Azzariti insegna Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma La Sapienza. Con Laterza ha pubblicato, tra gli altri, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere? (2013) e Contro il revisionismo costituzionale (2016). Alberto Mario Banti insegna Storia contemporanea all’Università di Pisa. Tra le sue pubblicazioni, L’onore della nazione (Einaudi 2005), Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo (Laterza 2011) e Eros e virtù. Aristocratiche e borghesi da Watteau a Manet (Laterza 2016). Guido Barbujani insegna Genetica all’Università di Ferrara. Tra i saggi pubblicati, L’invenzione delle razze (Bompiani 2006) e, con Laterza, Sono razzista ma sto cercando di smettere (con Pietro Cheli) (2008) e Gli africani siamo noi (2016). Paola Basilone è attualmente prefetto di Roma. Dopo aver ricoperto diversi incarichi in polizia e nelle prefetture di varie città, è stata prefetto di Napoli e Torino. Zygmunt Bauman ha insegnato Sociologia all’Università di Leeds. Tra i moltissimi volumi pubblicati con Laterza, Modernità liquida (2002), Conversazioni su Dio e sull’uomo (con Stanisław Obirek) (2014) e Stranieri alle porte (2016). Franco Bernabè è stato amministratore delegato dell’Eni e presidente esecutivo di Telecom Italia. Ha pubblicato con Laterza Libertà vigilata. Privacy, sicurezza e mercato nella rete (2012). Piero Bevilacqua ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Roma. Con Laterza ha pubblicato Miseria dello sviluppo (2009), La terra è finita. Breve storia dell’ambiente (2011) e Elogio della radicalità (2012). Giovanni Bietti è compositore, pianista e musicologo. Con Laterza ha pubblicato Ascoltare Beethoven (2013) e Mozart all’opera (2015). Andrea Boitani è ordinario di Economia politica all’Università Cattolica di Milano. Tra le sue pubblicazioni, Una nuova economia keynesiana, con Mirella Damiani (il Mulino 2003), I trasporti del nostro scontento (il Mulino 2012). Per i tipi Laterza, di prossima pubblicazione, Sette luoghi comuni sull’economia.

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Paolo Borgna è magistrato a Torino dove si occupa in particolare della tratta degli esseri umani e di legislazione sull’immigrazione. Con Laterza ha pubblicato Difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore (2008), Clandestinità (e altri errori di destra e di sinistra) (2011) e Il coraggio dei giorni grigi. Vita di Giorgio Agosti (2015). Luciano Canfora è professore emerito all’Università di Bari. Tra le sue numerose pubblicazioni con Laterza, Critica della retorica democratica (2005), La democrazia. Storia di un’ideologia (2006) e Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio (2016). Eva Cantarella è professore emerito di Diritto greco antico all’Università di Milano. Ha pubblicato, tra gli altri, “Sopporta, cuore...”. La scelta di Ulisse (Laterza 2010), Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma (Feltrinelli 2015), L’importante è vincere. Da Olimpia a Rio de Janeiro (Feltrinelli 2016). Antonio Canu è esperto di aree naturali protette e giornalista. Ha pubblicato Lettera a mia figlia sulla Terra (Einaudi 2001) e Roma selvatica (Laterza 2015). Andrea Carandini è professore emerito di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana all’Università di Roma La Sapienza. È stato presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Dal febbraio 2013 è presidente del Fai. Per Laterza ha pubblicato, tra gli altri, Su questa pietra. Gesù, Pietro e la nascita della Chiesa (2013), Il fuoco sacro di Roma. Vesta, Romolo, Enea (2015) e Angoli di Roma. Guida inconsueta alla città antica (2016). Laura Cardinale è nata nel 1994. Studia Storia medievale e Paleografia latina all’Università di Roma. Franco Cardini è professore emerito dell’Istituto di Scienze umane e sociali/Sns. Ha pubblicato con Laterza, tra gli altri, Europa e Islam. Storia di un malinteso (2007), L’ipocrisia dell’Occidente. Il Califfo, il terrore e la storia (2015) e “L’Islam è una minaccia” Falso! (2016). Gino Castaldo è giornalista e critico musicale della «Repubblica». Ha pubblicato, con Ernesto Assante, Blues, Jazz, Rock, Pop. Il Novecento americano (Einaudi 2004), Il tempo di Woodstock (Laterza 2009) e Beatles (Laterza 2014). Valerio Castronovo è stato ordinario di Storia contemporanea all’Università di Torino. Collabora al «Sole 24 Ore» e insegna alla Luiss. Ha pubblicato con Laterza, tra gli altri, Storia di una banca. La Banca Nazionale del Lavoro nell’economia italiana 1913-2013 (2013), La sindrome

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tedesca. Europa 1989-2014 (2014) e L’Europa e la rinascita dei nazionalismi (2016). Innocenzo Cipolletta è presidente dell’Università di Trento, di Ubs Italia Sim e di Aifi. È stato presidente delle Ferrovie dello Stato e direttore generale di Confindustria. Ha pubblicato con Laterza Banchieri, politici e militari. Passato e futuro delle crisi globali (2010) e “In Italia paghiamo troppe tasse” Falso! (2014). Simona Colarizi insegna Storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Per Laterza ha pubblicato, tra gli altri, Storia politica della Repubblica (2007), La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (con Marco Gervasoni) (2012) e Novecento d’Europa. L’illusione, l’odio, la speranza, l’incertezza (2015). Paola Concia è attivista per i diritti Lgbt. Già deputata, ha pubblicato La vera storia dei miei capelli bianchi. Quarant’anni di vita e di diritti negati (Mondadori 2012) e Raccontami l’amore. Dialogo sulle forme dell’amore: oltre le convenzioni, le degenerazioni, i tabù (con Claudio Volpe) (Anordest 2013). Paolo Cornaglia-Ferraris è medico e saggista. Ha pubblicato, tra gli altri, Camici e pigiami. Le colpe dei medici nel disastro della sanità italiana (Laterza 1999), La salute non ha prezzo? (Laterza 2001), La casta bianca. Viaggio nei mali della sanità (Mondadori 2008). Umberto Croppi è direttore generale della Fondazione Valore Italia ed ex assessore alla Cultura del Comune di Roma. Ha pubblicato Romanzo comunale (con Giuliano Compagno) (Newton Compton 2011). Giuseppe Culicchia, scrittore, ha pubblicato di recente Mi sono perso in un luogo comune. Dizionario della nostra stupidità (Einaudi 2016). Per i tipi Laterza, tra gli altri, Torino è casa mia (2005, 2009), E così vorresti fare lo scrittore (2013), Torino è casa nostra (2015), Il mistero della sfinge tatuata (2016). Lorenzo d’Albergo, giornalista. Si occupa in particolare di cronaca nera e giudiziaria. Dopo aver collaborato con «Paese Sera», attualmente collabora con «la Repubblica». Gianpiero Dalla Zuanna è professore di Demografia presso l’Università di Padova. Per Laterza ha pubblicato Cose da non credere. Il senso comune alla prova dei numeri (con Guglielmo Weber) (2011) e Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (con Stefano Allievi) (2016). Francesco Daveri insegna Politica economica presso l’Università Catto-

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lica del Sacro Cuore (sede di Piacenza). Tra le sue pubblicazioni, Innovazione cercasi. Il problema italiano (Laterza 2006), Stranieri in casa nostra. Immigrati e italiani tra lavoro e legalità (Università Bocconi 2010) e Crescere si può (il Mulino 2012). Piercamillo Davigo è presidente di Sezione della Corte Suprema di Cassazione e presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Tra le sue pubblicazioni, Processo all’italiana (con Leo Sisti) (Laterza 2012) e La tua giustizia non è la mia. Dialogo fra due magistrati in perenne disaccordo (con Gherardo Colombo) (Longanesi 2016). Elio De Capitani è regista, attore, autore teatrale. Ha fondato il teatro Elfo Puccini a Milano. Gregorio De Felice è Head of Research and Chief Economist di Intesa Sanpaolo. È autore di pubblicazioni sull’andamento dei mercati finanziari, l’evoluzione del sistema bancario italiano ed europeo, la politica monetaria, la gestione del debito pubblico. Claudia de Lillo (alias Elasti) è giornalista e conduttrice radiofonica. Tra i suoi libri più recenti, Dire fare baciare. Istruzioni per ragazze alla conquista del mondo (Feltrinelli 2014) e Alla pari (Einaudi 2016). Veronica De Romanis insegna Politica economica alla Stanford University a Firenze, all’Università Europea di Roma e alla Luiss. Ha pubblicato per Marsilio Il metodo Merkel. Il pragmatismo alla guida dell’Europa (2009) e Il caso Germania. Così la Merkel salva l’Europa (2013). Ilvo Diamanti insegna Scienza politica all’Università di Urbino Carlo Bo. Tra i suoi libri più recenti, Un salto nel voto. Ritratto politico dell’Italia di oggi (Laterza 2013), Democrazia ibrida (Laterza 2014) e Password. Renzi, la Juve e altre questioni italiane (Feltrinelli 2016). Paolo Di Paolo, scrittore. È autore, per Feltrinelli, dei romanzi Dove eravate tutti (2011, Premio Mondello e Premio Vittorini), Mandami tanta vita (2013, finalista Premio Strega) e Una storia quasi solo d’amore (2016). Franco Farinelli insegna Geografia all’Università di Bologna. È presidente dell’Associazione dei Geografi Italiani. Tra le sue pubblicazioni, L’invenzione della Terra (Sellerio 2007) e La crisi della regione cartografica (Einaudi 2009). Maurizio Ferraris insegna Filosofia teoretica nell’Università di Torino, dove dirige il Labont (Laboratorio di Ontologia). Per Laterza ha pubblicato, fra gli altri, Manifesto del nuovo realismo (2012), Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce (20142) e Mobilitazione totale (2015). Per Einaudi è uscito, di recente, Emergenza(2016).

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Massimo Firpo insegna Storia moderna alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Per Laterza ha pubblicato, fra gli altri, Artisti, gioiellieri, eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma (2001), “Navicula Petri”. L’arte dei papi nel Cinquecento (con Fabrizio Biferali) (2009) e Immagini ed eresie nell’Italia del Cinquecento (con Fabrizio Biferali) (2016). Anna Foa ha insegnato Storia moderna all’Università di Roma La Sapienza. Tra le sue pubblicazioni per Laterza: Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento (2009), Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43 (2013). Filippo Focardi insegna Storia contemporanea all’Università di Padova. Ha pubblicato, tra l’altro, Criminali di guerra in libertà (Carocci 2008) e Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale (Laterza 2013). Paolo Fresu, trombettista, ha suonato in ogni continente e con i nomi più importanti della musica afroamericana degli ultimi trent’anni. Ha registrato oltre 350 dischi. Ha pubblicato per Feltrinelli Musica dentro (2009) e In Sardegna. Un viaggio musicale (2012). Giulio Giorello insegna Filosofia della scienza all’Università degli Studi di Milano e collabora con il «Corriere della Sera». Tra le sue pubblicazioni più recenti, Libertà (Bollati Boringhieri 2015), Il fantasma e il desiderio (Mondadori 2015) e La matematica della natura (con Vincenzo Barone) (il Mulino 2016). Enrico Giovannini, già presidente dell’Istat e ministro del Lavoro, insegna Statistica economica all’Università di Roma Tor Vergata. Tra le sue pubblicazioni, Scegliere il futuro. Conoscenza e politica al tempo dei Big Data (il Mulino 2014). Patrizia Grieco ha ricoperto incarichi direttivi in Siemens, Olivetti e Fiat. Attualmente è presidente del consiglio di amministrazione di Enel dal maggio 2014. Caterina Guidoni, libera professionista. Conduce ricerche di dati statistici nel campo dell’economia. Collabora con la Fondazione David Hume che si occupa di studi di economia globale, finanza e società. Giandomenico Iannetti, medico e ricercatore, insegna Neuroscienze allo University College di Londra. Oscar Iarussi, giornalista, saggista, critico cinematografico e letterario, è responsabile Cultura e Spettacoli della «Gazzetta del Mezzogiorno». Ha pubblicato C’era una volta il futuro. L’Italia della Dolce Vita (il Mulino 2011).

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Nicola Lagioia è scrittore e direttore del Salone del Libro di Torino. Tra i suoi romanzi, per Einaudi, Occidente per principianti (2004), Riportando tutto a casa (2009) e La ferocia (2014, Premio Strega 2015). Loredana Lipperini, giornalista e scrittrice. Tra i suoi libri più recenti, Di mamma ce n’è più d’una (Feltrinelli 2013), “L’ho uccisa perché l’amavo” Falso! (con Michela Murgia) (Laterza 2013) e Questo trenino a molla che si chiama il cuore (Laterza 2014). Valerio Magrelli insegna Letteratura francese all’Università di Cassino e scrive sulla «Repubblica». Per Laterza ha pubblicato, fra gli altri, La vicevita. Treni e viaggi in treno (2009), Magica e velenosa. Roma nel racconto degli scrittori stranieri (2010) e Lo sciamano di famiglia. Omeopatia, pornografia, regia, in 77 disegni di Fellini (2015). Luigi Manconi insegna Sociologia dei fenomeni politici presso l’Università Iulm di Milano. È parlamentare e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Nel 2001 ha fondato «A buon diritto. Associazione per le libertà». Tra i suoi libri recenti, Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica (a cura di Christian Raimo) (Minimum fax 2016). Antonio Marras è uno stilista di fama internazionale. Achille Mauri è presidente del gruppo Messaggerie Italiane Spa. Sebastiano Mauri, artista e scrittore, ha pubblicato per Rizzoli Goditi il problema (2012) e Il giorno più felice della mia vita. Ogni coppia ha diritto al suo sì (2015). Luca Mercalli, meteorologo e divulgatore scientifico, è presidente della Società meteorologica italiana. Nel 1993 ha fondato la rivista «Nimbus»di cui è direttore. Massimo Montanari insegna Storia medievale e Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna, dove è anche direttore del Master «Storia e cultura dell’alimentazione». Fra le sue opere più recenti, I racconti della tavola (Laterza 2014), Mangiare da cristiani (Rizzoli 2015) e Il sugo della storia (Laterza 2016). Marco Onado, economista, è docente senior presso il Dipartimento di Finanza dell’Università Bocconi di Milano. Ha pubblicato, tra gli altri, Economia e regolamentazione del sistema finanziario (il Mulino 2008), I nodi al pettine. La crisi finanziaria e le regole non scritte (Laterza 2009), Finanza senza paracadute (con Sergio Levi) (il Mulino 2012). Rossella Orlandi è direttore generale dell’Agenzia delle Entrate dal giugno 2014.

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Nando Pagnoncelli è presidente di Ipsos Italia. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Come siamo cambiati. Gli italiani ieri e oggi: metamorfosi antropologiche (Gabrielli 2015), Le mutazioni del signor Rossi. Gli italiani tra mito e realtà (Edb 2015) e Dare i numeri. Le percezioni sbagliate sulla realtà sociale (Edb 2016). Massimo Pandolfi ha insegnato Etologia, Zoologia e Biologia della conservazione presso l’Università di Urbino. Tra i suoi libri, Guida dei funghi d’Italia e d’Europa (con Davide Ubaldi) (Muzio 1987), e guide alla natura di diverse regioni italiane e degli ambienti nel mondo. Carlo Petrini è fondatore di Slow Food e dal 2016 ambasciatore speciale della Fao in Europa per Fame Zero. Per Slow Food ha pubblicato, tra l’altro, Cibo e libertà. Slow Food: storie di gastronomia per la liberazione (2013), Voler bene alla Terra. Dialoghi sul futuro del pianeta (2014) e Buono, pulito e giusto (2016). Leonardo Piccione è dottore di ricerca in Demografia (Università di Padova). Dal 2015 collabora con il magazine sportivo «Rivista Undici». Telmo Pievani insegna Epistemologia all’Università degli Studi di MilanoBicocca. Tra i suoi libri più recenti, Anatomia di una rivoluzione. La logica della scoperta scientifica di Darwin (Mimesis 2013), Evoluti e abbandonati. Sesso, politica, morale: Darwin spiega proprio tutto? (Einaudi 2014), Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così (con Valerio Calzolaio) (Einaudi 2016). Giuseppe Pignatone è procuratore capo di Roma. Per Laterza ha pubblicato, con Michele Prestipino, Il contagio. Come la ’ndrangheta ha infettato l’Italia (2012). Rocco Pinto è responsabile della libreria Il Ponte sulla Dora a Torino. È ideatore e promotore di numerose iniziative tra cui Portici di Carta, la libreria più lunga del mondo sotto i portici di via Roma a Torino. Ha pubblicato Fuori catalogo. Storie di libri e librerie (Voland 2011). Pietro Reichlin insegna Economia politica all’Università Luiss di Roma e collabora con «Il Sole 24 Ore». Per Laterza ha pubblicato Pensare la sinistra. Tra equità e libertà (con Aldo Rustichini) (2012). Francesco Remotti è professore emerito di Antropologia culturale all’Università di Torino. Per Laterza ha pubblicato, fra gli altri, L’ossessione identitaria (2010), Cultura. Dalla complessità all’impoverimento (2011) e Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi (2013). Luca Ricolfi insegna Analisi dei dati all’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni più recenti, La Repubblica delle tasse. Perché l’Italia non

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cresce più (Rizzoli 2011) e L’enigma della crescita. Alla scoperta dell’equazione che governa il nostro futuro (Mondadori 2014); ha curato inoltre, con Barbara Loera e Silvia Testa, Italia al voto. Le elezioni politiche della Repubblica (Utet 2012). Sergio Romano, storico, saggista e diplomatico, è stato ambasciatore alla Nato e a Mosca. È editorialista del «Corriere della Sera» e di «Panorama». Tra i suoi libri più recenti, Morire di democrazia. Tra derive autoritarie e populismo (Longanesi 2013), In lode della guerra fredda. Una controstoria (Longanesi 2015) e Berlino capitale. Storie e luoghi di una città europea (con Beda Romano) (il Mulino 2016). Gino Roncaglia insegna Informatica applicata alle discipline umanistiche e Applicazioni della multimedialità alla trasmissione delle conoscenze presso l’Università degli Studi della Tuscia. È autore, tra l’altro, di La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro (2010) e Il mondo digitale. Introduzione ai nuovi media (con Fabio Ciotti) (2010), entrambi per Laterza. Carlotta Sami è portavoce dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Ufficio regionale per il Sud Europa. Chiara Saraceno ha insegnato Sociologia della famiglia all’Università di Torino. Tra i suoi libri più recenti, Coppie e famiglie. Non è questione di natura (Feltrinelli 2012), Cittadini a metà. Come hanno rubato i diritti degli italiani (Rizzoli 2012) e Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi (Feltrinelli 2015). Igiaba Scego, scrittrice, collabora con «Internazionale» e «la Repubblica». Tra i suoi libri: Pecore nere (con Gabriella Kuruvilla, Laila Wadia e Ingy Mubiayi) (Laterza 2005), Oltre Babilonia (Donzelli 2008), La mia casa è dove sono (Rizzoli 2010), Roma negata (con Rino Bianchi) (Ediesse 2014) e Adua (Rizzoli 2015). Giovanni Solimine insegna presso l’Università di Roma La Sapienza, dove dirige il Dipartimento di Scienze documentarie, linguistico-filologiche e geografiche. È presidente del Forum del libro. Per Laterza ha pubblicato L’Italia che legge (2010) e Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia (2014). Santino Spinelli, in arte «Alexian», è musicista, compositore, poeta e saggista. Ha pubblicato Rom, genti libere. Storia, arte e cultura di un popolo misconosciuto (Dalai 2012) e Rom, questi sconosciuti. Storia, lingua, arte e cultura e tutto ciò che non sapete di un popolo millenario (Mimesis 2016). Marcello Ticca, medico, è libero docente e specialista in Scienza dell’a-

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limentazione. È vicepresidente della Società Italiana di Scienza della Alimentazione. Chiara Valerio, scrittrice, è responsabile del programma generale della “Fabbrica dei Libri” – Milano. Tra i suoi libri più recenti, Spiaggia libera tutti (Laterza 2010), Almanacco del giorno prima (Einaudi 2014) e Storia umana della matematica (Einaudi 2016). Fabrizio Valletti, padre gesuita, insegnante in pensione, dal 2001 è animatore del «Progetto Scampia» e direttore del Centro Hurtado di Napoli. Enrico Vanzina è sceneggiatore, produttore, regista e giornalista. Salvatore Veca insegna Filosofia politica all’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Un’idea di laicità (il Mulino 2013), “Non c’è alternativa” Falso! (Laterza 2014), La gran città del genere umano. Dieci conversazioni filosofiche (Mursia 2014) e Il giardino di Camilla (Mursia 2015). Mariapia Veladiano è scrittrice e dirigente scolastica. Tra le sue pubblicazioni, La vita accanto (Einaudi 2011), Il tempo è un dio breve (Einaudi 2012), Messaggi da lontano (Rizzoli 2013) e Una storia quasi perfetta (Guanda 2016). Pietro Veronese, giornalista, scrive per «la Repubblica» in qualità di inviato speciale, soprattutto in Africa, Medio Oriente e Balcani. Per Laterza ha pubblicato Africa. Reportages (20012). Gianfranco Viesti insegna Economia applicata presso l’Università di Bari. Per Laterza ha pubblicato, fra gli altri, Abolire il Mezzogiorno (2003), Mezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è (2009) e “Il Sud vive sulle spalle dell’Italia che produce”. Falso! (2013). Ignazio Visco è governatore della Banca d’Italia dal 2011. Di recente ha pubblicato, per i tipi del Mulino, Investire in conoscenza (2014) e Perché i tempi stanno cambiando (2015).

Indice degli autori

Agnoli, Antonella, 24. Ammaniti, Massimo, 20. Anastasia, Stefano, 207. Andreatta, Tinny, 359. Anselmi, Giulio, 141. Antinucci, Francesco, 355. Augias, Corrado, 293. Azzariti, Gaetano, 73. Banti, Alberto Mario, 28. Barbujani, Guido, 368. Basilone, Paola, 57. Bauman, Zygmunt, 298. Bernabè, Franco, 302. Bevilacqua, Piero, 77. Bietti, Giovanni, 247. Boitani, Andrea, 65. Borgna, Paolo, 61. Canfora, Luciano, 96. Cantarella, Eva, 106. Canu, Antonio, 259. Carandini, Andrea, 329. Cardinale, Laura, 145. Cardini, Franco, 189. Castaldo, Gino, 307. Castronovo, Valerio, 263. Cipolletta, Innocenzo, 243. Colarizi, Simona, 168. Concia, Paola, 272. Cornaglia-Ferraris, Paolo, 318. Croppi, Umberto, 88. Culicchia, Giuseppe, 219.

d’Albergo, Lorenzo, 57. Dalla Zuanna, Gianpiero, 164. Daveri, Francesco, 172. Davigo, Piercamillo, 284. De Capitani, Elio, 346. De Felice, Gregorio, 92. de Lillo, Claudia (alias Elasti), 276. De Romanis, Veronica, 16. Diamanti, Ilvo, 289. Di Paolo, Paolo, 215. Farinelli, Franco, 102. Ferraris, Maurizio, 350. Firpo, Massimo, 11. Foa, Anna, 123. Focardi, Filippo, 193. Fresu, Paolo, 203. Giorello, Giulio, 326. Giovannini, Enrico, 267. Grieco, Patrizia, 114. Guidoni, Caterina, 69. Iannetti, Giandomenico, 41. Iarussi, Oscar, 131. Lagioia, Nicola, 211. Lipperini, Loredana, 118. Magrelli, Valerio, 364. Manconi, Luigi, 207. Marras, Antonio, 3. Mauri, Achille, 176. Mauri, Sebastiano, 110.

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Mercalli, Luca, 239. Montanari, Massimo, 37. Onado, Marco, 234. Orlandi, Rossella, 342. Pagnoncelli, Nando, 333. Pandolfi, Massimo, 373. Petrini, Carlo, 45. Piccione, Leonardo, 49. Pievani, Telmo, 33. Pignatone, Giuseppe, 222. Pinto, Rocco, 377. Reichlin, Pietro, 154. Remotti, Francesco, 227. Ricolfi, Luca, 69. Romano, Sergio, 100.

Roncaglia, Gino, 254. Sami, Carlotta, 180. Saraceno, Chiara, 127. Scego, Igiaba, 198. Solimine, Giovanni, 149. Spinelli, Santino, 311. Ticca, Marcello, 280. Valerio, Chiara, 231. Valletti, Fabrizio, 135. Vanzina, Enrico, 53. Veca, Salvatore, 160. Veladiano, Mariapia, 322. Veronese, Pietro, 8. Viesti, Gianfranco, 337. Visco, Ignazio, 81.