Il nuovo canzoniere. Esperimenti lirici secenteschi

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Il nuovo canzoniere. Esperimenti lirici secenteschi

Table of contents :
Introduzione - Montagnani, Cristina
Le Nuove Fiamme di Lodovico Paterno - Fanelli, Stella
La Musa Lirica di Ferdinando Donno - Filieri, Emilio
I Nove cieli di Girolamo Fontanella : considerazioni sulla struttura del canzoniere - De Lorenzo, Pierandrea
Che faci eterne alla mia gloria ho acceso : Giuseppe Battista e le Poesie Meliche - Prinari, Marco
Le stagioni poetiche di Lorenzo Casaburi Urries - Brandoli, Caterina
Per una storia delle forme poetiche tra Barocco e Arcadia : le Poesie liriche (1689) di Antonio Caraccio - Leone, Marco
Indice dei nomi - De Lorenzo, Pierandrea

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«Europa delle Corti» Centro studi sulle società di antico regime Biblioteca del Cinquecento – 139 –

Il nuovo canzoniere Esperimenti lirici secenteschi a cura di

Cristina Montagnani

BULZONI EDITORE

Il volume è stato realizzato con un contributo del MIUR (fondi PRIN), erogato attraverso il Dipartimento di Filologia, Linguistica e Letteratura dell’Università del Salento.

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 978-88-7870-???-?

© 2008 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

A Gino Rizzo

INDICE

CRISTINA MONTAGNANI, Introduzione ............................................. pag. 11 STELLA FANELLI, Le Nuove Fiamme di Lodovico Paterno .............. »

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EMILIO FILIERI, La Musa Lirica di Ferdinando Donno ................... »

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PIERANDREA DE LORENZO, I Nove cieli di Girolamo Fontanella. Considerazioni sulla struttura del canzoniere .................................. »

127

MARCO PRINARI, «Che faci eterne alla mia gloria ho acceso». Giuseppe Battista e le Poesie Meliche ................................................. »

187

CATERINA BRANDOLI, Le stagioni poetiche di Lorenzo Casaburi Urries ............................................................................................... »

263

MARCO LEONE, Per una storia delle forme poetiche tra Barocco e Arcadia: le Poesie liriche (1689) di Antonio Caraccio ............. »

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INDICE DEI NOMI, a cura di Pierandrea De Lorenzo ....................... »

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Cristina Montagnani INTRODUZIONE

Il nuovo canzoniere: in un momento in cui pare vacillante, fatti salvi alcuni preclari esempi cinquecenteschi, persino la funzione canzoniere nella nostra storia letteraria, potrebbe anche sembrare un titolo provocatorio. Ciò che assolutamente non è: «nuovo canzoniere» così come Nuovo Petrarca, o, se si preferisce, per le stesse ragioni per cui Marino intitola il primo componimento delle Amorose appunto Proemio del canzoniere: confronto con una tradizione forte, che nella diacronia ha assunto certe forme e non altre. Questo libro non vuole affatto entrare nel dibattito su che cosa possa o non possa essere definito canzoniere, e sulla base di quali parametri rispetto all’exemplum petrarchesco (discussione, del resto, forse un po’ datata, legata a un periodo di intensa riflessione sui sistemi letterari nel loro complesso: si pensi ai contributi di Longhi e Gorni, e prima a quelli di Segre; e sono anche gli anni dei primi saggi di Santagata sui Rerum vulgarium fragmenta). Con questo termine indichiamo qui, semplicemente, una raccolta organizzata di rime (valgono, quindi, le stesse categorie che ci portano a ritenere tali i Canti o Le occasioni); ci si potrebbe spingere anche più in là, e dire che canzoniere, dopo tanto discutere, appare oggi quasi un sinonimo di “libro di rime” (e infatti parliamo di canzonieri antichi, alludendo alle grandi sillogi delle origini), e cioè che conta la volontà di aggregazione, sia essa riconducibile all’autore o invece a un solerte antologizzatore, purché dia vita a una struttura portatrice di senso. Ma le raccolte esaminate nei saggi che seguono sono d’autore, e, dunque, canzonieri in una accezione piuttosto usuale. Come tutta la letteratura critica sul Seicento, anche questo particolare aspetto dell’espressione lirica si segnala per pochi contributi recenti di indiscusso valore: non sto a ripercorrere le vicende bibliografiche, diciamo dalla Locuzione artificiosa in giù, che sono ben note a tutti; mi preme solo segnalare che, se i diversi lavori qui raccolti hanno – in ampia misura – tenuto conto

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Cristina Montagnani

di questi risultati, il taglio dell’indagine è piuttosto diverso. Si è partiti dal concreto, ovvero dalla natura “fisica” di alcuni libri (l’ambito geografico-culturale di riferimento è più o meno quello della Parola nel labirinto; cronologicamente siamo andati un po’ più in là): cosa ci fosse dentro, quali forme metriche, quali strutture; solo in seconda battuta a quali fantasmi poetici gli autori volessero dare vita. Il che ha significato, in presenza di raccolte che inanellano centinaia di testi, edite perlopiù solo in stampe antiche, procurare di questi individui piuttosto mostruosi un testo leggibile (e interrogabile con i consueti strumenti informatici): gli autori dei contributi che seguono (cui va aggiunta Emanuela Puce, che ha curato la trascrizione delle Tre Grazie e delle Veneri del Bruni) hanno allestito per Biblit (la Biblioteca italiana telematica, coordinata da Amedeo Quondam) le edizioni digitali dei testi di cui si sono occupati. Trascrivere i canzonieri ha voluto dire anche conoscerli a fondo, ben più di quanto una semplice lettura, anche scrupolosa, consenta: e i frutti, mi pare, si colgono appieno. Il tema centrale era, per usare una terminologia un po’ abusata, il rapporto fra micro e macrotesto, ovvero la relazione fra il tutto e le parti. La risposta, in larga misura, era prevedibile: nel pieno dello sconquasso storico culturale che attraversa l’Italia meridionale nel XVII secolo non ci imbattiamo certo in strutture solide e compatte (soprattutto mai strutture narrative, capaci di organizzare, di nuovo, «frammenti dell’anima»), ma ci si fanno incontro sistemi di inaudita complessità, tentativi un po’ stremati di inseguire un’unità che tende sempre a sottrarsi. È del resto storia antica quella della frantumazione centrifuga (Gorni) del monolite petrarchesco, la storia di un reale che, fra Tasso e Marino (come esemplarmente illustrato da Martini) si disgrega, e assieme si dilata all’inverosimile, si dispiega in partizioni sempre più sottili, quasi braccato in ogni suo minimo rivolo. E le raffinate architetture che sorreggono questo maniacale esame della realtà significano proprio la volontà di sopravvivere al caos, di trovare un logos all’interno di un mondo di cui si sono smarrite le coordinate. Possono essere le muse di Macedonio (il canzoniere non è qui oggetto di studio, ma il suo è un nome che ritorna spesso, e pour cause), i cieli di Fontanella o le stagioni di Casaburi Urries: l’impressione generale non cambia. All’inizio di questa vicenda, come appare giusto, abbiamo collocato Ludovico Paterno: non il Nuovo Petrarca, ma Le Nuove fiamme del 1568, che sotto tanti punti di vista aprono una strada non percorsa sino ad allora. Colpisce, infatti, che sia proprio a Napoli, e nel cuore del Cinquecento, prima di Tasso, prima di Marino, prima dello Stigliani, che l’unità del canzoniere si declina in parti, su un modello (come dimostra Stella Fanelli sviluppando un’idea di Quondam) che nasce con Paterno entro i confini della poesia bucolica (la partizione delle Egloghe marittime, quarta parte della raccolta del Paterno ricalca quella delle

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Introduzione

Egloghe del Muzio, pubblicate nel 1550), ma si estenderà rapidamente a tutta la materia poetabile, quindi al reale nel suo complesso. E via via le altre strutture: alcune in cui i modelli tassiano-mariniani appaiono più fedelmente ripresi, come per esempio La Musa Lirica di Ferdinando Donno (1620) studiata da Emilio Filieri, che inanella quattro sezioni, da una prima dedicata agli Affetti platonici (in cui pare affacciarsi un’istanza di ricomposizione filosofica del reale che in area partenopea conoscerà, per esempio con Fontanella, anche altri sviluppi), alle tre successive, e più tradizionali, di Encomii amorosi, Amori marinareschi (con tutta la tradizione piscatoria di area napoletana) e infine Rime varie (una autentica rinuncia alla possibilità di inventariare il reale sotto categorie conoscibili). Poi quelle che più esplicitamente ci parlano dei tempi nuovi: i Nove cieli di Girolamo Fontanella (1640), che sin dal titolo mostrano l’ossequio alla moda lanciata dal Macedonio, anche se, a differenza di quest’ultimo, l’autore pare intenzionato a dar vita a una corrispondenza – che sia Quondam che Chiodo hanno negato al suo modello – fra la struttura e i testi poetici. Se non una corrispondenza reale, quanto meno più motivata (si veda quanto osserva Pierandrea De Lorenzo sulle introduzioni in prosa ai diversi cieli) di quanto non accada per le Nove Muse. Che sotto questa rigorosa impalcatura emergano poi partizioni di genere tutte interne alla tradizione partenopea, quali ad esempio quelle fra «Scherzi pastorali» e «Scherzi maritimi» nel Cielo di Venere, non fa che confermare la dialettica fra tradizione e innovazione che, nonostante l’apparente prevalere del moderno, percorre tutta la tradizione lirica italiana, e non solo di questo secolo diciassettesimo. Il caso Battista, a mio avviso, è un po’ diverso dagli altri: la prima idea, di fronte alle diverse “parti” in cui si sviluppa la storia editoriale delle sue Poesie Meliche (1650, 1653, 1659, 1664, 1670, ma quest’ultima non fu curata dall’autore) sarebbe senz’altro quella di sovrapporre tale pluripartizione a sinopie mariniane. Senza accorgersi invece (come è stato dimostrato da Gino Rizzo e qui più compiutamente da Marco Prinari) che la scansione non dà poi vita a un organismo unitario, ma alla somma di cinque individui diversi, al cui interno ad agire – sotterraneamente – è semmai l’antico modello tassiano della tripartizione degli argomenti, o un’ancora più tradizionale scansione per metro. Nessun tentativo, dunque, di porre rimedio al Caos, qui davvero «Macchina mal composta, a cui non porse / beltà la forma […]». Le quattro stagioni (1669) di Lorenzo Casaburi Urries, fratello del più noto (si fa per dire) Pietro, ci riportano sulla scia del Fontanella e quindi, in qualche modo, del Macedonio: una struttura forte (fondata sull’equivalenza natura-poesia), che stringe le quattro sezioni fra loro e ciascuna di esse ai testi accolti, così da porre un argine al divagare dei soggetti e degli argomenti. Anche se, come osserva Caterina Brandoli, la quadripartizione è forse più per

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Cristina Montagnani

l’occhio che nei fatti, se fortissimo, sempre, agisce il paradigma tassiamo, qui deformato per aderire a una scansione su quattro tappe (rime amorose, eroiche, morali, lugubri-sacre, a partire dalla primavera per chiudere con l’inverno), ma comunque leggibile in filigrana. Le Poesie liriche (1689) di Antonio Caraccio ci conducono ormai verso il declinare dell’esperienza secentesca, in vista di nuovi approdi (come ricorda Marco Leone, una quindicina di componimenti dell’autore furono accolti nel quarto tomo delle Rime degli Arcadi). Ma non tutto, in questa raccolta, ci parla di tempi rinnovati (e la cronologia della stampa non rispecchia quella dei testi); certo è che siamo risolutamente al di là della ricerca di una chiave di lettura che imbrigli il reale. Le uniche strutture riconoscibili sono blandi raggruppamenti tematici, fra i quali riemerge anche qualche traccia di petrarchismo, quello vero, quello classicista, in linea con le tendenze che nella Napoli di fine secolo si giustapposero alle audacie di un Artale o di un Lubrano. Mi sia consentito, in chiusura di queste poche osservazioni, da lettore appassionato più che esperto di Seicento, una osservazione di respiro un po’ più ampio: gettando l’occhio sulle grandi campate che scandiscono nei secoli la produzione lirica in lingua italiana, non si può che restare impressionati da quanto certi fenomeni tendano a riprodursi. E mi viene il dubbio che sia stato forse controproducente cercare di cogliere, nella concretezza del fare poetico, una norma petrarchista che in realtà è dominante solo a livello teorico, come struttura portante dell’imitatio e dunque del classicismo. Cercare, spesso senza trovarle, le sinopie dei Rerum vulgarium fragmenta nei libri di rime ha finito con l’allontanare spesso l’attenzione da altri fatti: per esempio, il forte senso di comunità, di socialità del dire poetico che si affaccia spesso nella scrittura lirica. In questi nostri canzonieri, certo, che non cercano un pubblico al di là di una ristretta cerchia autoreferenziale (a differenza di quanto accade ancora con Marino), in cui tornano ossessivamente gli stessi nomi, gli stessi dedicatari, ma in modo non diverso nella lirica di fine Quattrocento (e non cito lo Stil novo per non sfiorare un terreno minato da troppe polemiche). Un sistema chiuso, che risponde solo a sé stesso e garantisce ai letterati il successo e una qualche forma di sopravvivenza di fronte a tempi calamitosi. Ragioni storiche? Un po’ difficile ipotizzarlo, in periodi segnati da una forte continuità negativa: a me pare soprattutto che l’istanza unitaria, o se preferiamo centripeta, del classicismo di metà Cinquecento sia rimasta davvero una parentesi, e che, prima e dopo, scrivere poesia in lingua italiana non abbia voluto dire riflettere sull’individualità dell’io lirico, ma sulla pluralità delle esperienze declinabili in versi. Fra la mosca di Serafino Aquilano e la lucciola del Fontanella, o di chi per lui, insomma, il fuoco delle rime dellacasiane mi pare sia divampato invano, o quantomeno altrove.

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Stella Fanelli LE NUOVE FIAMME DI LODOVICO PATERNO

Il Cinquecento è «la stagione di un Petrarca non tradito»1; così Contini chiudeva in una sentenza un secolo di letteratura. Notevoli e più recenti studi sul petrarchismo, specie di area meridionale, hanno in realtà rivelato un modello drammaticamente compromesso. Già la lirica napoletana di età aragonese riconosceva in Petrarca il suo paradigma, ma mescidava il modello con nuove auctoritates, connotandosi così, oltre che per un inconsueto ibridismo, per uno sperimentalismo vivace e gravido di quelle soluzioni che, più mature, diventeranno e resteranno il corpo e l’anima dell’esperienza manierista. Gli studi di Maria Corti2 e l’importante monografia di Marco Santagata3 hanno mostrato come, nella Napoli del Quattrocento, Petrarca non fosse che una delle componenti del petrarchismo; un petrarchismo, fra l’altro, continuamente sottoposto a una sorta di confuso gioco di metamorfosi. Santagata, in particolare, ha parlato di un processo di “lessicalizzazione” del Petrarca, della riduzione a vocabolario del tessuto espressivo e tematico dei Fragmenta 4. Le prove nelle quali si esercitarono i lirici napoletani, di età aragonese prima, e poi più intensamente quelli cinquecenteschi, si tradussero, dunque, in una

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G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, p. 170 [già in «Paragone», 1951 e infine premesso a F. Petrarca, Canzoniere, Torino, Einaudi, 1964]. 2 M. Corti, Introduzione a Pietro Jacopo De Jennaro, Rime e Lettere, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1956, p. 21. 3 M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore 1979, p. 90. 4 Ivi, p. 91.

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Stella Fanelli

moltiplicazione incontrollata e sconsiderata delle strutture, dei moduli lessicali, retorici e tematici del Petrarca, sino ad esaurire tutte le possibilità combinatorie di quel codice, ormai sterile repertorio di materiali e segni vuoti, e a svilire, quanto meno sul piano semantico, l’impatto poetico dei Fragmenta. In un organismo poetico sempre più desemantizzato e stereotipo, quale viene a configurarsi l’esempio petrarchesco per i lirici napoletani, i ruoli più significativi finiscono con l’essere assunti dalle figure della ripetizione, accumulazione, elencazione; coerentemente troviamo un’elaborazione ipertrofica dei singoli momenti e delle più piccole unità del codice petrarchesco. Da ciò la nota metafora del labirinto, un labirinto di verba e non più di res, edificato dagli scrittori, ma che si chiude su di loro come una trappola. L’iniziale, apparentemente ingenuo, sperimentalismo tardo quattrocentesco era forse già il segno di una sofferenza, di un’ansia dionisiaca che i lirici napoletani del secondo Cinquecento finalmente e compiutamente esprimono, soffrendo però ancora dentro il saldo perimetro dell’apollineo petrarchismo-bembismo. Una «prigionia perpetua e povertà troppo dura 5» appare ed è il petrarchismo per i signori napoletani che con il terzo libro della raccolta giolitina, Rime di diversi illustri signori napoletani, vero e proprio manifesto dei nuovi ardimenti, «si presentarono all’Italia letterata come gruppo non soltanto geograficamente omogeneo, bensì accomunato anche da un’adesione libera e franca al modello petrarchesco, opportunamente temperato da salutari sbandate eclettiche»6. L’opera di Ludovico Paterno, rilevante, a vario titolo, nell’antologia appena ricordata, costituisce, emblematicamente sin nel titolo7, il termine post quem per una periodizzazione, anche approssimata, dell’esperienza manierista. I dati biografici, rispetto a quanto avverrà per altri autori, neppure molti anni più tardi, sono noti, anche se in forma piuttosto scarna. Nacque a

5 Così Mario degli Andini nella sua Prefazione alla terza parte della Mirtia, Palermo, Maida, 1568. 6 A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Modena, Panini, 1991, p. 198. 7 Del 1560 sono due edizioni, entrambe uscite presso Giovanni Andrea Valvassori: una porta il titolo di Nuovo Petrarca, l’altra di Rime. Del 1564 è una terza edizione, napoletana, presso Giovanni Maria Scotto, con il titolo di Mirtia, in cui il Paterno coglie l’occasione per rispondere alle critiche di chi, scandalizzato, gli aveva contestato un titolo «insolente e vano». Il Tafuri nella sua Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli, 1744-1770, t. III, p. 11, attribuisce la responsabilità della scelta di un titolo così compromettente al Valvassori, forse voglioso di sottolineare la rilevanza editoriale dell’opera. Nel 1568 a Palermo, presso Giovanni Matteo Maida, viene pubblicata la terza ed ultima parte della Mirtia.

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Le Nuove Fiamme di Lodovico Paterno

Piedimonte d’Alife, vicino a Caserta il 12 febbraio 1533 da una famiglia della piccola nobiltà; il suo primo maestro fu l’umanista Francesco Filippo, autore di un commento all’Ars poetica oraziana. In seguito studiò legge all’università napoletana e fu discepolo di Simone Porzio ed Ettore Minatolo. Cavaliere per nascita (il padre Giacomo aveva un titolo di nobiltà equestre), fu al servizio di vari signori, come Don Alfonso de Cardines, marchese di Laino e conte di Lacerra. L’esiguità dei dati biografici non consente però di mettere compiutamente a fuoco parecchi aspetti della sua vita e della sua attività; l’ultima notizia si ricava da un atto notarile del 1575, mentre restano ignoti il luogo e la data della morte. Noto è invece il nome della donna amata nella vita e nella poesia: Lucrezia Montalto, moglie del conte Luigi Gaetani d’Aragona, della casa feudataria piedimontese, e alla morte di costui di nuovo sposa di Cesare Cavaniglia, conte di Troia e di Montella8, fu l’amore gelosamente nascosto dal poeta che la cantò nei suoi versi sotto il senhal di Mirzia, dal mirto, pianta sacra all’amore 9. La già ricordata affermazione di Mario degli Andini nella sua Prefazione ai lettori del Nuovo Petrarca, oltre che testimoniare quel senso di imbarazzo, di inadeguatezza che nasceva dall’osservanza rigida, “vile” e alienante della norma petrarchesca, presenta l’opera di Paterno come il nuovo, il nuovo e più libero esercizio d’imitazione del Petrarca. Rivendica per il poeta anche la libertà di creare e introdurre nella sua officina poetica parole non attestate nei Fragmenta, chiamando a confortare e a sostenere il suo impegno addirittura Pietro Bembo, che con tutto il peso della sua autorevolezza legittimava, autorizzava qualsiasi scelta eterodossa, di originalità: «E in tal caso verrieno ancora a riprendere il padre Bembo, che sparse nelle sue Rime cotante voci pur non usate dal Petrarca10». E certamente Paterno volle nella sua prassi poetica e imitativa vivificare, rifondare il petrarchismo, indicando ai contemporanei un orientamento nuovo che affermava la necessità dell’uso, ma tradiva la norma. Grande è la libertà sperimentale di cui il poeta si giova, libertà che però spende, tutta, solo nel maneggiare e rielaborare i moduli tematico-retorici, ma ancora più ossessivamente, quelli linguistico-lessicali ereditati dalla fabrica del mondo petrarche8

Per le notizie biografiche cfr. D. Marrocco, Il Canzoniere di Lodovico Paterno, Grillo, Piedimonte d’Alife, 1951, ma anche G. Ferroni – A. Quondam, La locuzione artificiosa. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma, Bulzoni, 1973. 9 Cfr. R. Castagnola, Metamorfosi di metamorfosi. Rielaborazioni petrarchesche nel canzoniere di Lodovico Paterno, in «Nuova Secondaria», 14 (1997), pp. 44-49. 10 L. Paterno, Nuovo Petrarca, Prefazione di Mario degli Andini, cit.

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Stella Fanelli

sca, replicandoli, ripetendoli strenuamente, al punto da esibire la fine delle possibilità espressive e predicative di quel codice. Dalla lettura delle sue opere ricaviamo l’immagine di un intero sistema sicuramente deflagrato, ma come imploso dall’interno: di fatto Paterno, nel disperato tentativo di restituire, con la sua riscrittura, una seducente eco alla voce del Petrarca, finisce, viceversa, con il dimostrare il silenzio emotivo in cui restavano cristallizzate le sue prove, calembours di parole, caleidoscopio di immagini ossessivamente iterate. Qualche esempio: Occhi, non occhi, anzi due chiare stelle, non chiare stelle, anzi duo vivo soli, ove si vede com’Amor involi e rubi e sforzi or queste voglie, or quelle; occhi d’eterno foco aspre favelle, per cui convien ch’altri n’aggia ire e duoli, occhi, ch’oprate sempre i vanni ai voli contra mille d’amor alme ribelle; occhi, al cui sguardo il dì s’abbaglia Apollo, e la notte Lucina, e da cui prende del ciel l’uno e l’altro occhio il proprio lume; voi date, occhi leggiadri, ai miei tal crollo, voi lor fate cangiar forma e costume: beati quei che ’l divin raggio incende11. Dolci nidi d’amore, occhi lucenti, occhi, che forza fate a tanti cori, occhi, onde i vaghi e pargoletti amori oprano duri ghiacci e strali ardenti; occhi, al cui lume il dì veggionsi spenti del padre de la luce i bei colori occhi, di leggiadria colmi e d’errori, per voi quanti or son lieti, or son dolenti; voi nel vostro apparire, occhi beati, occhi sovra ’l mortal corso sereni, aprite il cielo allor ch’espro più luce; voi, voi rompete i marmi più gelati: de la vostra infinita altera luce; sono gli spirti miei tutti ripieni12.

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Nuovo Petrarca, Venezia, Gioan Andrea Valvassori, 1560, p. 112. Ivi, p. 123.

Le Nuove Fiamme di Lodovico Paterno

Se colonne, trofei, tempi, archi e fori, stagni, terme, acquedotti, are e teatri, strade, rostri, colossi, anfiteatri, marmi, palme, trionfi, arme e ostri e ori; e consuli e tribuni e dittatori e presidi e proconsoli e gran patri, e littori con fasci oscuri e atri, e decemvir e regi e imperatori, e superbe memorie e spoglie opime e querce e lauri e di metal più chiaro mitre, scettri, alte pompe, opre divine, ha finito con fiamme e dure lime in cenere e ruina il tempo avaro, spero ch’anco il mio mal debba aver fine13.

Il Nuovo Petrarca raccoglie 966 componimenti così distribuiti: Parte prima. In vita di Madonna Mirtia, prima sezione: 344 sonetti, 35 madrigali, 15 canzoni, 10 sestine, 4 serie di ottave; seconda sezione In materie diverse: 157 sonetti, 6 canzoni, 2 madrigali, 1 serie di ottave; composizioni in vario metro: Visione della morte, elegie, capitoli, e altro; infine una sezione di sonetti dedicati al Paterno. Parte seconda libro primo. In morte di Madonna Mirtia: 176 sonetti, 13 canzoni, 7 madrigali, 4 sestine, 1 serie di ottave; libro secondo: 186 sonetti, 1 sestina, 2 canzoni, 2 madrigali; libro terzo: riscrittura dei Trionfi del Petrarca. Le Rime in vita e in morte di Mirzia delimitano uno spazio poetico assai vasto che si struttura come un canzoniere, un racconto ordinato (i testi-chiave si collocano secondo fedeli simmetrie rispetto al modello di riferimento, di cui rispettano con poche varianti numerosissimi incipit 14), di un itinerarium vitae, di una vicenda amorosa sospesa tra ardore e peccato, che si chiude con la convenzionale esibizione della renovatio animae, della fede rinvigorita. È però da segnalare anche l’apertura verso esperienze più eclettiche, che piegano l’osservanza nei confronti del magistero petrarchesco alla prassi cortigiana, accogliendo componimenti d’occasione e d’encomio. Le proporzioni del fenomeno che il Nuovo Petrarca costituì già agli occhi dei contemporanei sono tali indurre Quondam a concludere che «i testi del Paterno costituiscono una delle più esemplari esperienze del Manierismo e illustrano oggettivamente le proporzioni alienate del comportamento dell’in-

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Nuovo Petrarca, p. 175. Cfr. R. Castagnola, Metamorfosi di metamorfosi, cit., p. 44.

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Stella Fanelli

tellettuale manierista, che non possiede più gli strumenti di autocontrollo dei propri mezzi di lavoro […]»15. Ad appena un anno di distanza dalla prima grande opera, Paterno pubblica una nuova raccolta dal titolo ancora ambizioso: Le Nuove Fiamme 16. L’edizione riveduta e corretta del 1568 (cui faccio riferimento per le citazioni che seguiranno) si apre con due dediche: la prima di Lelio Fortunato a Carlo d’Austria, figlio di Filippo II e principe di Spagna, cui raccomanda la nuova fatica del Paterno, «una selva di giovenili amori», che attesta la fama già raggiunta dal poeta, la cui prima opera «il mondo chiama l’Imitazione del Petrarca»; la seconda, di Lorenzo Vittorino ad Angela Spada de’ Cenami, fa riferimento allo scandalo prodotto dall’operazione del Nuovo Petrarca negli ambienti di ortodossia petrarchista e quindi all’impegno del presentatore di proteggere la nuova raccolta dalla calunnia e dall’invidia dei suoi detrattori, «di difenderla da’ velenosi morsi di quei che volessero lacerarla». La raccolta è così articolata. Libro primo Sonetti e Canzoni pastorali: 134 sonetti, 28 madrigali, 21 canzoni, 3 sestine, 1 terzina; libro secondo il Palagio d’Amore in ottave, più 13 composizioni celebrative; libro terzo Elegie: 16 composizioni; libro quarto Egloghe: 7 egloghe marittime, 4 amorose, 6 lugubri, 4 illustri, 7 varie; libro quinto Nenie e Tumuli: 7 nenie, 50 tumuli. A questo corposo materiale lirico si giustappongono, quasi in appendice, tre testi di corrispondenza: Paterno indirizza un sonetto celebrativo delle virtù morali e intellettuali di Angela Cenami e di Gherardo Spada, suoi protettori, a Thomas Thiery, giovane di Lione, città nella quale pubblicherà la seconda edizione della silloge; al nostro poeta risponde in rima il Thiery. Ultimo, il sonetto di Luigi Valvassori, fratello di Giovanni Andrea, che vede incoronato di mirto e alloro il capo del poeta piedimontese: A M. THOMASO THIERI Thieri; se mai Fortuna aspra e superba tregua mi dia pur breve spatio almeno: né m’amareggi col suo rio veneno le mie speranze, o le recida in herba, 15

A. Quondam, La locuzione artificiosa, cit., p. 341. L. Paterno, Le Nuove Fiamme, Venezia, presso Gioan Andrea Valvassori 1561; del 1568 è la seconda edizione, a Lione, per Rovillie. Come ha suggerito Quondam, il titolo potrebbe essere un’autocitazione del sonetto Era ’l bel mese, il giorno, il tempo e l’ora del Nuovo Petrarca. In realtà Giovanni Battista Giraldi nel 1548 pubblica una silloge di rime d’amore e d’occasione di matrice petrarchesca dal titolo, appunto, di Fiamme. Per i testi che seguono faccio riferimento all’edizione digitale dell’edizione lionese che ho approntato per la Biblioteca italiana telematica. 16

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Le Nuove Fiamme di Lodovico Paterno

tempio farò, che né per ira acerba di ciel, né di pianeta venga ei meno, del Mar Thoscano in quel più chiaro seno, che de’ maggiori tuoi memoria serba, dove quanti fur mai d’ingegno altero ch’ornaron Lucca, in ampie lettre d’oro vedrai segnati e poi dipinti i visi. Lì fien Cenami, e Spada quivi assisi; nel mezo Donna, ch’io cotanto honoro, degna d’eternità, degna d’impero17. RISPOSTA Veggio fartisi ognihor vie men superba Fortuna, e raddolcire il suo veneno Paterno: ond’è che lunga tregua almeno da sua falce sperar può tua verd’herba. Fa pur il tempio, e non temer ch’acerba ira di ciel mai ne ’l riduca a meno. il Paradiso, a quel felice seno vicin, commodo luogo ecco si serba. Et s’a quest’occhi fie don troppo altero ch’io mirar possa un sì gentil lavoro, et contemplar la maiestà de’ visi, miei voti alfin vedransi a piedi assisi di quella Donna, ch’a ragion adoro; poich’ha d’alta virtù supremo impero. DI LUIGI VALVASSORI Le vostre belle, e ben cantate rime, Paterno mio, già sì sparso hanno il suono che per lor merto e non per gratia o dono procederanno di splendor le prime. Che mentre Amor in voi tutte sue lime opra; e l’ingegno vostro e dotto e bono, di voi tra quanti fur, tra quanti hor sono, par che d’ogni altro più si pregi e stime. D’eterno honor, d’eterna laude degno vi veggio andar per un laudato mirto cinto lo crin di verdeggiante alloro. 17 Le uniche notizie che abbiamo su Thomas Thierry si trovano in Emile Picot, Les Francais Italianisants au XVI siècle, New York, Burt Franklyn, 1968, pp. 26-32. Lo studioso francese crede di dedurre, dalle parole del sonetto di risposta al Paterno, che il Thierry di Lione abbia origini lucchesi.

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Stella Fanelli

Arno non ti sdegnar, che giunto al segno Sebeto sia del tuo famoso spirto che men di questo io quel non lodo e honoro 18.

Le Nuove Fiamme articola e dispone le sue rime diversamente da come lo schema-struttura del canzoniere petrarchesco integrasse le parti nel tutto, secondo quel modello archetipico cui il Paterno si era rifatto per la sua prima silloge. Ciò che, anche a uno sguardo superficiale, sembra negare una strutturazione modellata sui Fragmenta è soprattutto la compartizione del materiale lirico in libri, la pluralità di generi e temi. Già poeti di età aragonese sperimentarono originali soluzioni riguardo ai livelli macrostrutturali delle raccolte (Naufragio di Aloisio, Amori del Caracciolo): i già citati studi della Corti19 su alcuni tra i più significativi canzonieri napoletani di tardo Quattrocento evidenziano sì una comune ed accentuata tensione verso una struttura solida e chiusa, ma allo stesso tempo segnalano un fatto nuovo, ovvero l’inserzione di liriche di genere vario nel più vasto corpus di argomento amoroso. La presenza di più livelli tematici, da un lato mostra come venga ad essere compromesso anche il modello architettonico dei Fragmenta, e dall’altro conferisce una fisionomia particolare a questi nuovi canzonieri, che si presentano come semplici, organiche, raccolte di rime. Nell’opera del Paterno spicca, piuttosto, la massiccia presenza delle Egloghe, che, distribuite in cinque sezioni, formano il quarto libro della raccolta. L’egloga in versi sciolti si insinua nella produzione di rime individuali o collettive, si guadagna tra gli anni Trenta e Cinquanta del Cinquecento, un suo spazio, seppure modesto20. Il codice pastorale è una delle forme privilegiate e di maggiore fortuna della letteratura cortigiana: l’ambientazione boschereccia, come sappiamo, ben si presta a un tipo di discorso letterario ricco, in cui materia amorosa, motivi giocosi, encomiastici, politici si intersecano in armonia. La figurazione bucolica consente poi di travasare in un ambiente concreto e fitto di personaggi cose e storie da celebrare, o contro le quali inveire. Il quarto libro delle Nuove Fiamme raccoglie 28 egloghe, divise, come detto sopra, per argomento: Marittime, Amorose, Lugubri, Illustri e Varie. Un ordine e una distribuzione particolari, che hanno una origine ben precisa e,

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Luigi Valvassori, fratello di Giovanni Andrea; morto nel 1570. M. Corti, Introduzione a Pietro Jacopo De Jennaro, Rime e Lettere. 20 L. Borsetto, L’egloga in sciolti nella prima metà del Cinquecento. Appunti sul liber di Girolamo Muzio, in Miscellanea di Studi in onore di Giovanni da Pozzo, a cura di D. Rasi, Roma-Padova, Antenore, 2004, pp. 123-61. 19

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che io sappia, mai esplicitamente segnalata: le Egloghe di Girolamo Muzio, una raccolta del 1550 che dispone in cinque libri 35 componimenti bucolici: Amorose, Marchesane, Illustri, Lugubri e Varie 21. Che le egloghe del Muzio siano ben presenti al Paterno al momento di dar vita alla sua raccolta lo vediamo già in apertura, con il primo sonetto cui il poeta demanda i fondamenti della propria poetica: Quanto Amor possa in giovenil pensiero, leggendo i miei sospiri in queste carte saper potrete; e quanto studio e arte usi, per trarre altrui dal camin vero. Dive, ch’in Helicona havete impero, e ’l tutto m’insegnaste a parte a parte, io, per voi sol quand’huom quinci si parte, tornar di novo in vita ancor ne spero. Né de’ sprezzarsi un boschereccio suono che sorge da le selve infra pastori, se ben quei più famosi non adegua: poiché a gli Dei, che su nel ciel hor sono, piacquer boschi talvolta, ombre, ed horrori. Ciascun il genio suo conosca, e segua22.

Paiono sicuramente noti al Paterno i versi d’esordio della prima egloga delle Amorose di Muzio, una chiara citazione oltre che di fonti classiche, del Filostrato: Segua chi vuole i regni e le ricchezze l’arme, i cavai, le selve, i can, gli uccelli, di Pallade gli studi, e le prodezze di Marte, ch’io in mirar gli occhi belli della mia donna e le vere bellezze, il tempo vo per tutto […] 23, Canti chi vuol le sanguinose imprese del fiero Marte, et d’honorati allori 21 Sul primato dell’invenzione della divisione per argomento delle rime si era espresso per primo il Tafuri (cfr. n. 7) che riconosceva in Paterno il primo esempio di questa disposizione, anche se in un secondo momento attribuì a Girolamo Muzio la prima epifania di tale ordine, riservando invece al Paterno la sola invenzione delle Nenie che, con i Tumuli, chiudono l’opera. 22 Nuove Fiamme, I, 1. 23 G. Boccaccio, Filostrato, III, 88.

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cinto le tempie, al suon di chiara tromba desti i bianchi destrier ch’in Campidoglio han da condor i purpurei triomphi. A me, cui ’l ciel non diè sì altero spirto, basta parlar tra le fontane e i boschi de gli honori di Pan24.

Come Muzio, il nostro poeta utilizza il luogo boccacciano per annunciare la materia del suo canto: la poesia amorosa, questa volta, verrà declinata con «boschereccio suono». Se le corrispondenze con il Muzio, a mio avviso, sono stringenti a livello strutturale, non andrà dimenticato che un fondamentale riferimento per le egloghe paterniane è costituito dalle Egloghe piscatorie di Bernardino Rota che, dopo Bernardo Tasso, sviluppa in volgare i temi idillici boscherecci su un versante marittimo, mentre rimane Sannazaro il primo a comporre in latino, ispirandosi a modelli classici, egloghe pescatorie. Anche la seconda raccolta è un’occasione per il Paterno di ostentare l’uso e il riuso del vasto repertorio di temi e motivi topici petrarcheschi; il lessico, ad esempio, trova continuo riscontro nei materiali dei Fragmenta, fra lauro, neve, ghiaccio, strale, legno, colpo, pena, sonno, passo e così via. Numerosissime sono anche le dittologie petrarchesche che occupano sempre l’ultima metà del verso e si dispongono nel testo a creare sequenze infinite, elencazioni interminabili (copulative: alta e divina, ardita e rea, fiera e ardita, fallace e vano, unica e sola, altera e santa, aspro e rio, onesta e bella, alma e divina, unica e sola; acopulative: destro ingegno, e tardo, duro acerbo fato, e inquieto eccetera). Come abbiamo già visto per il Nuovo Petrarca, Paterno di nuovo concentra sforzi creativi e arguzia sul momento descrittivo del discorso poetico, tralasciando quei nodi speculativi e filosofici con i quali Petrarca si era continuamente confrontato. L’imbastitura lirica delle sue rime si distingue per una forte ridondanza metaforica e una pregnante aggettivazione; una poesia che si propone di esaurire tutte le possibilità connotative degli aggettivi petrarcheschi: (fiero, lieve, casto, aureo, candido, tardo, frale, altero, degno e così via) inscrivendoli in una struttura labirintica, che sembra protrarsi all’infinito per un abusato impiego di tutte le figure dell’amplificatio, di ripetizioni, versi plurimembri (che troviamo come semplici inserti nel componimento, ma sempre più volte ripetuti, o estesi a tutta la durata del componimento stesso), elencazioni, metafore continuate che rallentano il ritmo del canto e lo stringono in una morsa angosciosa: 24

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Muzio, Egloghe, Amorose, I, vv. 1-8.

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Chiuse valli, aspri monti, erte pendici, famosi boschi, e paventosi horrori, pallid’herbette, e voi novelli fiori, fatti dal mio bel sol chiari, e felici: sianvi l’acqua, e la terra, e ’l ciel amici; et l’Aura d’ogn’intorno il sen v’infiori, corran scherzando i lascivetti Amori per vostri luoghi eternamente aprici. Ogni gratia fra voi sempre si chiuda antri sacri al gran Fauno, antri beati, ove con Bindia si congiunse Alcone. Io mi parto da voi, ma l’alma ignuda fra voi rimane, o piagge, o colli, o prati, chi mi fa forza, ohimè, ch’io v’abbandone 25? Alba vegghia, Amor vegghia; e poi quand’ella dorme, Amor dorme, e se va mai, se viene, Amor si resta, Amor sen va con ella, o ’l pensier la sospinga, o la raffrene. Alba tace, Amor tace; e se favella, di favellare Amor non si contiene. In una cosa son discordi solo: Amor versa diletto, ed Alba duolo26. Il mio dolor, che dentro l’alma i’ porto, il mio dolor, che sempre meco alberga, il mio dolor, che non mi lascia un punto 27. Dolce, e dotto pastor, ch’a gran ragione dolce il Tebro ti chiama, e dolce l’Arno, dolce il Vulturno, e ’l picciol mio Sebeto, et dolce l’onde, che sì dolcemente rotte ne’ liti d’Adria piangon sempre. […] Così non fera mai ti turbi, o pioggia, così non scemin mai tuoi dolci pesci, così t’accolga lieto il bel Vulturno, così sempre t’honorin le sue Ninfe 28.

25

Nuove Fiamme, I, 137. Ivi, I, 20. 27 Lugubri, Egloga III, Desperatione, vv. 129-131. 28 Ivi, Egloga II, Filli, vv. 24-28; 238-240. 26

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Dal dì che nacqui in su quest’alto monte di lagrime i bei campi inaffio e solco, di lagrime a tutt’huom famose e conte, di lagrime parl’io già di Dione [...] 29 Altri monti, altri colli, e altri piani, altri fiumi, altre fonti, e altre rive [...] 30 profonde valli, ombrosi luoghi, e ermi, che sotto quest’amica, e pura e lieta aria e felice, e fortunata e dolce [...] 31 Ecco ch’un’altra volta, o verdi piagge, o valli apriche, o dilettosi monti; et voi o fiumi, o ruscelletti, o fonti, udrete il suon, ch’Amor del cor tragge32. Quante irato Ocean frange onde in lito quanti color tien Primavera in braccio quante spiche Sicilia in grembo aduna, quanti corron uccelli il ciel sereno, quanti racemi han di Falerno l’uve, quanti nel mar albergan pesci erranti, quante stille calar il verno conta, quanti splendon la notte eterni segni, quante guarda Etna fiamme, e Capre arene, quante preghiere son drizzate a Giove, quante son le dolci ire d’Amarilli, quanti mai fur i baci di Catullo, quanti focosi strali Amor aventa quante lusinghe fa Licori a Dafni; et quanti lutti Alchio ne versa, e Iola, tant’anni, e tanti lustri, o Palemone, che stai sepolto in quest’oscuro marmo, per bocca de’ pastor volando andrai33. Luci, luci beate, luci, luci che date luce al Sole; luci, ch’or m’agghiacciate, hor m’accendete.

29

Nuove Fiamme, I, 33, vv. 6-9. Lugubri, Egloga V, Leucippe, vv. 279-280. 31 Nenie, VI, vv. 107-109. 32 Nuove Fiamme, I, 145, vv. 1-4. 33 Tumuli, A Gallicio, vv. 18-35. 30

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Vive luci, che fate le rose, e le viole co’ vostri raggi liete34. Profonde valli, ombrosi luoghi, e ermi, che sotto quest’amica, e pura, e lieta aria e felice, e fortunata e dolce [...] 35 Lunghi danni, e tormenti, stratii, affanni, dolor, pene e martiri et lagrime et sospiri; et mille notte e dì gridi e lamenti diami Fortuna; e Morte l’arco scocchi pur ch’una volta baci que’ begli occhi36. Licinna mia più bella, e più gentile di quante n’hebbe il bosco intorno intorno: Licinna mia, che simigliavi Aprile al bel leggiadro portamento adorno. Licinna mia, che sotto quercia, od orno spesso meco cantavi in dolce stile. Licinna mia, che sempre notte, e giorno versavi nel mio cor foco sottile. Licinna mia, che sì m’amavi, ahi lasso, ch’altier men giva; or doloroso, e tristo lacrimando men vo con ciglio basso. Licinna mia, dal mondo apena visto fu ’l tuo sol, ch’oscurollo un breve sasso: misero me, che senza prò m’attristo37. Dirsi Himeneo porransi altari, e tempi: a te giocheran dolce i nostri lusi, a te soneran chiaro i nostri versi, a te faransi i Thiasi sovente, a te penderan verdi i nostri doni, a te sotto l’ombrosa amena Loto canteransi d’amore le fiamme, e i lacci38.

34

Nuove Fiamme, I, 94, vv. 1-5. Nenie, VI, vv. 110-112. 36 Nuove Fiamme, I, 133, vv. 1-6. 37 Ivi, I, 150. 38 Ivi, I, 183, vv. 36-41. 35

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Da rilevare anche esempi di rime che sono caratterizzate da ripetizioni, processioni di nomi di fiumi in versi dalla forte portata enfatica: si veda anche l’anafora di ecco, che dà al testo un tono fortemente declamatorio Vedi ’l vecchio Peneo, vedi Caistro, et Meandro, amator de’ bianchi cigni. Eccoti i chiari Simoenta, e Santho, che già ne’ tempi de gli antichi argini, in mar, di sangue human turgidi entraro. Ecco i duo fonti gloriosi, e magni il settemplice Nilo, e ’l binome Istro. Vedi Acheloo, vedi ’l beato Eurota, che tante volte udì cantar Apollo. Vedi l’alto Enipeo, vedi ’l sonante Hipani: ecco più presso e Trebbia, e Varo. Ecco il cornuto regnator de l’acque, eccoti ’l Pado: or mira, com’ei nasce humile, e come poi di tutti gli altri più violento in mar china la testa. Ecco il bel Padovan Meduaco; e ’l Mincio vedi, che move col Benaco a paro, famosi per Maron, e per Catullo, ecco Oaxe, ecco Usente, ecco Timavo, ecco Arno honor de’ Toschi, ecco Ticino, Lambro, Silari, Liri, Aufido, e Sarno; Linterno Solitario; e Origeo in là vedi: ecco ’l Tigre, il qual sen vola velocissimo quasi una saetta. Ecco Adige, Ollio, e Abdua, ecco Aniene […]39

Altro segno delle torsioni stilistiche, e degli usi estremi di talune esercitazioni virtuosistiche sono alcuni componimenti che mantengono alternate in rima sempre le stesse parole, quasi una rivisitazione degli artifici della sestina, pur se in contesto profondamente mutato: Se da vita volar potess’io a morte, et con morte cangiar quest’aspra vita; vera morte non fora hor la mia vita, ch’in vita mi sostien per doppia morte. 39

28

Varie, Egloga IV, La Visione, vv. 133-157.

Le Nuove Fiamme di Lodovico Paterno

Oh, se mia vita andasse in grembo a morte, non di morte harei tinta hoggi mia vita; ma morte acquisterebbe e polso, e vita, vita, in cui perde ogni ragion poi morte. Che non t’appressi a dolce morte o vita, s’haver vita non puoi qui senza morte, et se morte non fassi altro che vita? Ma tu vita felice, altera morte, che morte hai nome, e sei pur viva vita, porgi a la vita mia sì chiara morte40. Chi vuol veder l’eterna mia gran luce volger Natura co’ begli occhi, e ’l tempo, forz’è che si trasforme in dura pietra: perché da sì possente altera luce prende vigor, e qualitate il tempo et liquida si fa ciascuna pietra. Non è ferro qua giù, né legno, o pietra, che privi sian di quella ardente luce. Et benché ’l tutto freni, e cangi ’l tempo; et che l’un l’altro al fin divori ’l tempo; resta pur, come fu, l’alta mia luce dal giorno che discese entr’una pietra. Viva mia dolce aventurosa pietra, che sei diversa da qualunque pietra, che forma tenga in sé, possanza, o luce: se non ch’è spenta la più bella luce forse teco sarei tosto, e a tempo che non mi fesse oltraggio, e scorno il tempo. Fammisi dura ognihor di tempo in tempo la mia soave, e fuggitiva pietra: o corso pigro, e lento, o bianco tempo, non far che perda la mia bianca pietra de la sua vera inaccessibil luce, ch’al cielo, e a l’inferno ancor dà luce. E tu prima di tutte altera luce, che giri ’l passo, come gira il tempo, alma cortese, e sempiterna luce porta a la nobil mia famosa pietra del più verace ardor di quella pietra, cui leder non può più fortuna, o tempo.

40

Nuove Fiamme, I, 152.

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Sgombra le nebbie homai tardi, o per tempo co’ caldi rai de la temperata luce o soave mio peso, o fiera pietra, che vinci, e domi, e premi, e rompi ’l tempo: ed a la fronte pon tua santa pietra del portator de la diurna luce. Amorosa, gentil, fervida luce, che dai le leggi a la stagione, al tempo, ma non a la mia pianta, a la mia pietra: vaga, celeste, e trasparente luce doppia la tua virtù, cangiando il tempo, che riparo non hai di muro, o pietra. Altr’io non son che ferma ignuda pietra con poca fiamma, e imperfetta luce che guasta, e toglie a poco a poco il tempo. O se venisse mai quel dolce tempo ch’a le tenebre mie portò la luce, non sarei voce che se’ ohimè di pietra. Tu sol Idolo mio, tu se’ la pietra, che mi converte, e mi risolve in pietra. Sol tu speranza mia sei l’alta luce, ch’aggiunge luce a la mia nova luce: Sol tu se’ vita mia l’antico tempo, che condur mi potrebbe un più bel tempo. O misura del moto, o giusto tempo, che mi mostrasti sì leggiadra pietra; tempo che non potrà mai luogo o tempo por sott’ombra d’oblio, por sotto pietra, vien pur con l’immortal tua somma luce, di cui non è più chiara, e vaga luce. Se nel mondo ancor vive ombra di luce solamente per gratia hoggi del tempo, spero ch’apparirà tosto alma luce sovra sì sacra mia morbida pietra. Perché nel cerchio de l’angusta pietra scolpito stassi in forma d’huomo il tempo. O genitor del vero, o forte tempo, notte a le notti nostre, e pura luce, che guardi ogni sottil arida pietra, o lieve qual baleno, instabil tempo rinfresca il tuo valor dentro la pietra, che piu de’ figli di Latona ha luce. O luce, onde si fa tregua col tempo,

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sforza la pietra con l’interna luce; et fermi ’l tempo una volubil pietra41. Deh, quando sarà mai quel giorno o Dafne, che non seguirai più l’orme di Dafni? S’ancor ti sprezza il giovenetto Dafni, hier finì de l’altr’anno un mese, o Dafne, ch’ad ognihor hai pregato il tuo bel Dafni; né ti vuo’ raveder che t’odia Dafni, tanto in un grave error t’induri o Dafne. Ciò volgea fra se stessa; ed ecco Dafni le sovragiunse da man destra, e, o Dafne eterno, disse, amico ti fie Dafni. In vece di risposta corse Dafne, come folgor ardente a baciar Dafni; ma ratto egli sparì beffardo Dafne42.

Questa struttura di rime bloccate è significativa ed esemplare per quello che l’artificio ha il potere di evocare: l’illusione di protrarre all’infinito, sino all’estenuazione, un gioco, una prova intellettualistica. Ma queste due, tre, quattro parole sempre ripetute sono altresì il segno storico di una poesia immobile, incapace di rinnovarsi da sé e fuori da sé. Ma gli artifici sono molteplici: parole ripetute in implicit ed explicit di verso […]; or in eterno resta, resta in eterno: e le parole estreme scrivi Tirino sovra ’l freddo marmo: Dafni honor de le selve, eternamente Rimanti ’n pace, eternamente dormi43. O bella senza pare, bella, e forse piu bella [...] 44 Ch’io vi vagheggi, o lumi, lumi, che doppio lume al dì giungete45.

41

Nuove Fiamme, I, 175. Ivi, I, 46. 43 Lugubri, Egloga VI, Dafni vv. 193-195. 44 Nuove Fiamme, I, 45, vv. 46-47. 45 Ivi, I, 122, vv. 27-28. 42

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Percorrendo alcuni luoghi dell’opera, scopriamo che il poeta infittisce anche la trama di rinvii ad auctores della tradizione lirica toscana quattrocentesca, il che incrina non poco l’osservanza dei dogmi petrarchistici e bembiani e costituisce un ulteriore segno di infrazione. Insomma, nella querelle sull’imitazione, Paterno propende per un atteggiamento più eclettico, che vuole beneficiare dei frutti dei più «rari ingegni»: nell’invenzione, dunque, il primato spetta alle api e al loro paziente lavorio poetico: Come di molte herbette errando gusta ape di fior in fior il dolce succo; et come suol a’ cari figliuolini sceglier col becco i più spezzati stecchi uccello al tronco, onde poi faccia il nido. Cos’io cogliendo i fiori, e le parole scelte de’ rari ingegni, a le tue lode andai gran tempo consecrando un mirto in faggi, olmi, elci, abeti, olive, e querce, ma nulla ciò, da poi ch’a tal è fatto dura, e ingrata, in cui pietà non regna, ma ’n vece di pietà disdegno e ira46.

Le Nuove Fiamme costituiscono al tempo stesso un campionario di immagini che riaddensano strutture petrarchesche, con abile strategia d’intarsio sovrapposte a quelle di diverse matrice. Il sentimento amoroso è vissuto e indagato in tutti i suoi aspetti, da quello malinconico e drammaticamente patito, a quello lieto, dispensatore di grazia e letizia. Il cuore del poeta resta sospeso tra pace e tormento, prigioniero di contraddizioni, al servizio di una donna «[…] in cui combatte / bellezza e crudeltà». Topica la fenomenologia dei sintomi della malattia amorosa: il poeta si sente ardere e agghiacciare, trasformare il riso in pianto e le lacrime in gioia. L’epifania della donna amata accende tutti i segni dell’amore platonico: nei suoi occhi alberga il paradiso, è il sole che scalda e illumina, la sua virtù innamora il cielo, è una «nova angioletta qui dal ciel discesa»47. La descriptio personae della donna è altrettanto convenzionale, ritroviamo tutti i senhal cari alla Tradizione che il nome dell’amata deve evocare:

46 47

32

Amorose, Egloga II, Mirthia, vv. 222-233. Nuove Fiamme I, 68, v. 2.

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Mirtia, Mirtia gentil, che di bianchezza i gigli avanzi, e i candidi ligustri, più splendente che ’l vetro, e più lasciva ch’e cavretti e più nobile ch’e pomi, più che l’uve mature e dolce e grata, più grata e dolce assai che l’estiv’ombre; ma più dura che ferro, e più fallace ch’onda marina, e più salda che scoglio; aspra più che le spine, e più crudele che l’Hidra offesa, e più lieve che ’l vento48.

Tra i tanti, è significativo un esempio che palesa da un lato l’ormai noto procedere del Paterno per ripetizioni meccaniche, e dall’altro è la testimonianza degli abbondanti prelievi petrarcheschi, ma anche di tangenze con la poesia di nuovi autori49: Vedean colei, che di gran lunga vinse le sette, e quante ha meraviglie il mondo. Arder i monti, arder i pini alhora pareanle inanzi, o mia gioconda pena, tu viva ti partisti, io restai morto. Morto resto al piacer, vivo al tormento; et mercè chieggio, e nulla voce intendo et non vorrei voler quel che pur voglio sì de voler, e non voler mi sforzo; et seme al vento spargo, arena al lido, et mi vorrei lagnar, né so di cui50.

Lo stesso avviene nell’elegia al Pagano, in cui Paterno cita un noto verso del Poliziano, ma non tralascia comunque di immettere la nuova immagine in un reticolo petrarchesco51: Voi, ch’aspirate a gloriosa fama caro PAGANO mio fuggite Amore, ch’in un medesmo punto ama, e disama et di più bel desio pascete il core 52.

48

Amorose, Egloga II, Mirthia, vv. 28-37. Cfr. Rvf 118, vv. 9-11; Bernardo Tasso, Amori, II, 39, vv. 85-86. 50 Nenia VI, vv. 118-127. 51 Cfr. Tr. Cupid., III, v. 46; Poliziano, Rime, 77, v. 7. 52 Elegie, Al Pagano, vv. 8-11. 49

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Nella II delle Egloghe Lugubri Paterno piange la morte della donna di cui può finalmente svelare il nome: un’aura mistica la circonda, e la sua prematura morte che crudele e acerba la toglie al mondo prima che l’oro dei suoi capelli si muti in argento, spegne il canto degli uccelli, e ferma le onde del mare, veste a lutto la Natura e il mondo53: A M. LODOVICO DOLCE, PER LA MORTE DI DONNA LUCRETIA GAIETANA D’ARAGONIA LIDIO ET AMINTA Là, dove da diverse occulte bocche escon i puri, e liquidi cristalli del tuo pianger, Toran di Cila figlio; là, dove parti imperioso i campi, che con liquido piè risolchi, e bagni: stesi sovra ’l bel prato i duo rivali Lidio pastor, e ’l giovenetto Aminta guardian de’ tori; alhor che ’l più levato giro tenea del ciel l’humida notte, tutto fean risonar il vicin monte de’ lunghi stridi, e de l’amato nome de la bella pocanzi estinta Filli: Filli, di cui più vaga, e più leggiadra ninfa non nacque mai fra quanto s’erge, distende, e mostra il Re de’ nostri monti, l’alto Matese, a cui gelate nevi ancor, quando in Leone il sol alberga, copron il mento, e la canuta testa, i cui dogliosi accenti a mille fere rupper il sonno; a le cui meste note uscir i pesci per pietà de l’acque, et per pietà nel suo muscoso fondo ritenne il picciol fiume il suono, il passo. Dolce, e dotto pastor, ch’a gran ragione dolce il Tebro ti chiama, e dolce l’Arno, dolce il Vulturno, e ’l picciol mio Sebeto: et dolce l’onde, che sì dolcemente rotte ne’ liti d’Adria piangon sempre. Tu, cui s’inchinan l’honorate fronti de’ bifolci più saggi, e de’ pastori,

53

34

Cfr. Rvf. 12; 325 e anche altrove.

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che lungo il Mincio, l’Adige, il Tesino, il Metauro, la Brenta, e ’l Re de’ fiumi o di Latio, o d’Arcadia, o de gl’Insubri ne gli alti monti, i lor candidi armenti pascon cantando, o le minute gregge. Tu tosco Apollo, e novo Palemone, che del nostro idioma altero monstro a tutt’Italia dai le scritte leggi; non sdegnar queste note umili, e roze de’ duo miseri amanti, se mai calda fiamma d’Amor t’accese il gentil petto, come più volte ne le scorze impresso de’ faggi, e pini, habbian veduto, e letto; deh, cortese pastor, se mai pietate di caso human ti punse, fa’ talvolta di qualche tuo sospir s’honori Filli; et porgi intente orecchie al mesto canto de le meste parole, ch’alternando cominciò Lidio, e poi riprese Aminta. L. Adunque Morte ha morta l’aurea Filli la vaga Filli, l’amorosa Filli? Adunque insieme ha morto Lidio, e Aminta Morte importuna, insidiosa e rea, empia, crudel, acerba, invida, e dura? Adunqu’è spenta ogni benigna luce a questi horridi monti? Adunque andrete Oreade incolpando il fiero strale? Ma io, come vivrò senza te Filli, senza te, ch’eri in me, qual è nel manto corporeo l’alma, o ne l’herbetta il succo. Cento ninfe di valli, e altre cento ninfe di fiumi, e fonti, a suoi bei crini tessevano ogni dì verdi ghirlande. Quanto di Filli, ohimè, contar potrei, ma tecerommi: e sol dirò, che lieti balli un giorno guidando ella con Flora; alhor intessev’io fragole, e fiori; stancossi al fin, e ’l braccio ignudo pose sovra ’l margin sanguigno d’un bel fonte: et ecco uscì del fior, che, come intendo il nome ha di Narcisso, un flebil suono: ah bellissima ninfa non specchiarti ne le pure, e fredd’onde, essempio prendi

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del mio gran caso; e qui si tacque: io poscia scrissi quelle parole in una scorza di crespo buffo, hoggi è l’ottavo mese. Come dunque potesti, o cruda Morte, quel bel volto di neve, e rose misto tingere di color pallido, e smorto? Seguite il tristo, e lacrimoso canto humili, boschereccie, inculte Muse. A. A Filli bella, più che fior d’Aliso, acanto rugiadoso, o pur viola, che cade giù dal grembo de l’Aurora, hor s’è fatto anzi vespro eterna sera? Filli, quand’accordavi i dotti accenti col cantar de gli augelli, al suon de l’onde, non credev’io, che cosa mai potesse lungo poner silentio a così grata, dolce, soave, angelic’armonia. Filli, or tu che co’ piè sempre facesti calcando crescer l’herbe, or tu sei morta pria c’havessi d’argento i capei biondi? Or tu morta ti sei? Tu, per cui l’alta madre d’Amor havea non sol di Pafo lasciato que’ giocondi aurati tempi, e tanti odor là d’Arabi, e Sabei; ma ’l suo celeste, e amoroso giro, col cibo, che lassù dà sì buon gusto. Et per quest’alti monti, ancor ch’alpestri, et per quest’ime valli, a te pria care: né sdegnavano i suoi candidi Cigni i fiumi nostri, per gli antichi vada di Meandro, di Mincio, o di Caistro. Il pargoletto figlio non curava più di volar in questa parte, e ’n quella: anzi ne’ soli tuoi lucenti assiso ne l’ambro terso, e ne l’hebano raro, ne l’oro fin, nel molle avorio e puro, indi reti, arco, e faci ogni hor prendeva, indi preda facea di tanti cori. Fermate i puri, e liquidi cristalli onde, ch’udite le dolenti note. L. Ma tu, che dal Sol prendi il tuo splendore, alma beata Luna, indietro tira le torte, e ricche tue gelate corna;

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et, se del bel pastor memoria serbi, nascondi ’l viso tuo, che sgombra e scaccia la tetra ombra notturna, hor ch’ha già Filli chiuso l’ultimo giorno, e noi lasciato in pene, in pianti, in tenebre, e affanni. Deh, fa’ che questa nebbia di sospiri s’opponga al vago tuo, diva triforme, come tu spesse volte a quel t’opponi, da cui ricevi i rai bianchi, e lucenti: poi che Filli non spira hoggi fra noi, Filli, il pregio maggior di queste selve. Quante volte mi disse il vecchio Alcone: quando ’l bel parto giù nel mondo scese fiorir tutte le piagge, e ’ntanto udissi d’ogn’intorno cantar cigno, e fenice. Lo ciel era sereno, e l’aria pura, l’onde tranquille, e di color d’argento, sol tra le frondi mormorava l’Aura. Lucina santa non pregata venne insieme con le Gratie, e con gli Amori. Hor tu vuo’ de’ suoi dì l’aspra, e acerba notte, Luna illustrar; né ben t’accorgi che ’l ciel, la terra, e ’l mar doglia ne sente. Ecco, ch’i duri, freddi, hispidi sassi sospiran Filli; e poi tre volte, e quattro odi le grotte, e le riposte valli tornar il sospirato nome adietro. Seguite il tristo, e lagrimoso canto humili boschereccie, inculte Muse. A. Deh santa Notte non bagnar sì tosto nel mar gli oscuri crini; e fa’ ch’io possa nel mezo de’ tuoi mesti, ed atri orrori ferir le stelle co’ più lunghi gridi. Deh non celarti al bel nostro hemispero sì tosto, e non calar verso l’occaso dal chiuso Olimpo, e gir contra ’l mattino. Né far, che l’humid’ombra inanzi a l’alba fugga, che col suo vecchio egro Titone di partir parla, e quel geloso vecchio stretta la tiene, e la lusinga, e bacia; acciò ch’en te sepolto, i miei lamenti col fosco appaghi sol de le tue piume: et possa, come suol già Filomena,

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dolermi sotto ’l tuo manto stellato, finch’io sia stanco; e poscia una, e un’altra volta rinfreschi ’l miserabil verso: et stiansi meco a udir pietosi gli antri, i secchi poggi, le pendici, e i colli Filli chiamando, e lagrimando Filli. Tu, che per la fugace ingrata Ircilla infelice Toran molto piangesti, meco accompagna il mormorar de’ rivi, et segna un tanto duol su per le pietre. Così non fera mai ti turbi, o pioggia, così non scemin mai tuoi dolci pesci, così t’accolga lieto il bel Vulturno, così sempre t’honorin le sue ninfe Dinamene, e Melantho, e Persa, e Brio; et più quella, ch’adori, Galatea. Fermate i puri, e liquidi cristalli onde, ch’udite le dolenti note. L. Luna, tu che talhor ti mostri in cielo, talhor ti giaci altrove, e parti ’l tempo, hor ne gioghi di Cinto infra le ninfe, hor ne l’Inferno tra le stigie larve. Luna, che tien di mill’ardenti lumi il crin ornato, e da la sfera appari tonda, e cornuta; e hor col bianco aspetto fai, non habbia la notte invidia al giorno. Hor col tremulo lume aprendo alquanto il fosco velo, al pastor l’occhio volgi su ’l grato monte, over tacita miri l’opere, e i dolci furti de gli amanti: se non sei men gentil che bella in volto. O reina bicorne de le stelle, di folta nube il tuo sereno adombra, poich’io pocanzi de la morta Filli piangendo assai, lungo dolor accolsi nel petto, e rinforzai parlando il fiato, et richiamando il fuggitivo spirto; il qual varcata l’acqua, ove si lascia ogni terrena cosa, è giunto a verdi mirti de’ boschi fortunati, e santi, ove cred’io, ch’errando lieto goda con le placide ninfe, e co’ piè calchi i non altrove mai più visti colli,

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i non mai più tonduti, e verdi prati, le non tocche mai più chiare fontane; e ’n tutto ha schifo gloriosa e pura, la passata memoria de’ mortali. Seguite il tristo, e lagrimoso canto humili, boschereccie, inculte Muse. A. Notte, ch’involvi nel tuo gran oblio i durissimi affanni, che ’l dì porge: et sotto l’ale a noi mortali adduci da le cimmerie grotte i varii sogni, i varii volti, alhor ch’arde ogni stella, finché ritorni la diurna lampa; e ’l mondo tutto co’ suoi raggi illustri. Notte pittura a lo stellato cerchio, sì da papaver habbi, o notte, adorne le negre tempie, né da te si svella il sonno mai per duol crudo, e acerbo; contendi al gran pianeta d’Oriente i pasciuti destrier, con la tua fronte; et rendi ’l guidardon a questa donna di mille altar eretti al tuo bel nume; odi Telesa, e la sorella Alifa, l’antiche madri di cotanti heroi, piangerla dottamente in suon, che puote mover anco a pietate un cor di Tigre: et con lor odi la meschina Eutirte così lagnarsi in angoscioso stile. Sirio vibrando i velenosi fuoghi occide herbetta, ch’arbore non copre, pur suol tornar di novo in miglior vita a lo scender da l’aria il molle Giove: ma noi partiti non torniam più mai. Ah, che pensar non posso, che nostr’alme fornito il lungo cerchio di tant’anni riedan da poi ne la primiera imago. Fermate i puri, e liquidi cristalli onde ch’udite le dolenti note. L. Qual vago fior in mezo aprica valle, cui rugiadosa, o sottil pioggia ingombra; quando s’allegra di mirar sua figlia Giove e i felici Zefiri escon fuora, riluce, e mostra la natia vaghezza; tal di Filli per gli occhi eran più chiare

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quest’acque assai che quelle d’Arethusa. E i nostri armenti qui più grassi, e lieti che quanti ne nutrisce il buon Galeso. Ma da la tempestosa atra procella de l’importune Parche svelto, e guasto, son seco ancor i monti e seco i piani spogliati d’ogni honor, fior, foglie, e frutti. Né si convien più mai s’orni, e rivesta la selva de le chiome anzi perdute: ma sol mortifer’ombra intorno a poggi più de la notte fosca ognihor si mostri. Né si convien più s’oda in verde ramo uccel giamai cantar soavemente: ma con lai dolorosi in secco tronco sol faccia di tal danno intera fede. Seguite il tristo, e lagrimoso canto humili, boschereccie, inculte Muse. A. Poscia ch’a tutt’i più vicini siti sarà di Filli conta l’aspra sorte, l’antica Enaria, che del fier Tifeo eternamente il capo, e i piedi afferra; Etna, sotto cui plora in varie tempre Encelado, per duol sospiri accesi di foco manderai fin a le nubi. Sebeto frangerà l’amata conca, et uscirà da’ conturbati vetri piena di musco la dogliosa faccia; et continuo dolor a le querele farà poi con Vesevo, e con l’antica sì celebrata, e veneranda Cuma; et con le due grand’ombre de’ Maroni, né di Muse lontani, né di tombe; l’un’è, che nacque a Manto in grembo, e l’altra d’Attio, c’honora la Sirena, e quanto cinge l’horrido sasso, e bagna il mare, et si vedrà Pomona in manto bruno, pallida, e mesta l’amorose guancie, troncar per doglia le più ricche piante. Fermate i puri, e liquidi cristalli onde, ch’udite le dolenti note. L. Ecco, che ’l largo pianto, ohimè, più sorge, né sprono la ragion, né freno i sensi, et grido, e ’l grido mio nulla rileva.

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Alma ben nata, che dal mondo tolta nel più sereno ciel lume sei certo vivo, e ’nfiammato del divin tuo foco: ivi ti godi un giorno sempiterno, che né nube atra mai, né nebbia il vela. Lasso, che questa vita inferma, e corta non si scovre altro al fin che fumo, e sogno. Beatissima te, che Morte ancise, per poi destarti inanzi al tuo Fattore, di celesti, e bei lumi ornata, e ricca. Deh, così lo mio stile altrui più caro fosse, com’io di te canterei tanto che potrei veramente alzarmi a volo dov’huom per sé giamai solo non salse. Lasciate il tristo, e lagrimoso canto humili, boschereccie inculte Muse. A. Hor che sei fuor d’esti terreni inganni, et lunge ancor da’ laghi averni, e stigi hor che repente sei volata a Dio alma, più ch’altra mai santa, e gentile gradisci ’l suon di tante sparse voci, s’en cielo haver di noi pietà ti lece. Ma che pietà? Se mai sempre tien gli occhi ne la pietà, com’aquila nel sole. Pastori ornate la felice tomba d’herbe fiorite, e Echo arabo odore sovra, e d’intorno a la fredd’urna spira. Prendi la cetra, che ’n quel faggio pende, altissimo poeta; con cui dolce cantò Titiro; a te si convien solo con lei dolce cantar l’estinta Filli, anzi la viva, e fortunata Filli. Sciogliete i puri, e liquidi cristalli onde, ch’udite le dolenti note.

Anche in Paterno la donna ha il potere divino di vivificare la Natura, portare vita, far crescere l’erba e i fiori, allontanare dal mondo il male; questo ci permette di individuare un’altra importante presenza alle spalle delle sue rime, Sannazaro, il cui magistero si sovrappone a un petrarchismo comunque egemone54: 54

Sannazaro, De partu Virginis, II, vv. 17-25: «Quaque pedes movet, hac casiam terra alma ministrat, / pubentesque rosas, nec jam moestos hyacinthos, / narcissumque, crocum-

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Felice l’herba, e fortunato il sasso tocchi dal piè di lei, ma in tristi accenti, lasso me, convien hor ch’ i’ mi consume [...] 55 e ’ncominciò: hor son diece dì, che qui stanza fece ninfa, ch’a me vien molle, altrui s’impietra, eccoti pur che l’herba vestigi ancor ne serba. Deh, per dio, non si vide fiorir quel secco tronco al subito apparir de gli occhi suoi? Ogni cosa hoggi ride per lei; colui fu gionco, ella ’l disse, s’ei si fè pin dapoi. Né verno fie gli annoi, né state il piede, o ’l crine. Già si sa che quest’onde eran pria tetre immonde, et si cangiar, com’hor sono, in divine: l’impuro via si tolse perch’essa così volse56. Nigella co’ begli occhi, e col bel riso move qualhor ei vuol ogni elemento: et apre in terra il vero Paradiso57.

Topico è pure il motivo della incostanza e freddezza della Luna, instabil Dea 58: Da l’altro canto Endimion si vede desto; e di rabbia par ch’avampi e d’ira contra l’instabil Dea, poi che destollo dal sonno la dolcissima Alithia.

que, et quidquid purpureum ver / spirat hians, quidquid florum per gramina passim / subgerit, immiscens varios natura colores. / Parte alia celeres sistunt vaga flumina cursus: / exsultant vallesque cavae, collesque supini: / et circumstantes submittunt culmina pinus; / crebraque palmiferis erumpunt germina silvis». 55 Nuove Fiamme, I, 9, vv. 12-14. 56 Ivi, I, 11, vv. 35-52. 57 Ivi, I, 70, vv. 5-7. 58 Cfr. R. Gigliucci, Contro la luna. Appunti sul motivo antilunare nella lirica d’amore da Serafino Aquilano al Marino, in «Italique», 2001, 4, pp. 19-29.

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E fu così dal saggio mastro impresso, che par che dica disdegnoso e fiero con la testa, avara, perfida avara Luna; né so dire, s’avara più, se perfida più sei. O in eterno, e infinitamente senza fe’ senz’amor; o più nel petto instabil, che nel volto; adunque, adunque hai potuto ingannar Endimione, e l’occhio mio fu già testimon de la tua fede59. Ma tu, benché mi nieghi, avara Luna, il sì pregato raggio; e poco sei benigna e liberale a’ voti miei60.

Numerosi i testi d’occasione e di encomio che rispondono alle necessità dello statuto cortigiano: le lodi per Cosimo de’ Medici e Eleonora di Toledo, o per Filippo II e Maria, regina d’Inghilterra, rappresentano il convenzionale omaggio alla coppia felice; la seconda delle due parti di cui si compone il Palagio d’Amore è dedicata al signore al cui servizio il giovane poeta fu per lunghi anni, il marchese don Alfonso de Cardines, «huom sì cortese, e giusto, e saggio, et santo»: Voi mi foste Signor, voi mi sarete segno, ver cui da sempre ho stender l’ale. Con voi sper’io varcar l’acque di Lethe per glorioso farmi, e immortale61.

Ancora più numerose sono le occasioni per celebrare nomi e opere di poeti: da Ascanio Pignatello a Marco Cavallo, Giorgio Gradenigo, Gaspare Toralto, il petrarchista Simone Valguarnera, il filosofo Vittorio Tarentino eccetera. Paradigmatico è il caso costituito dalla prima parte del già citato Palagio d’amore: assistiamo a una processione di tutti i protagonisti della lirica napoletana cinquecentesca, una galleria di tutti i nomi cari al poeta: D’alto sangue real, di somm’altezza qui Maria d’Aragona, e d’honestate sorgea la prima, e di maggior bellezza 59

Amorose, Egloga II, Coridone, vv. 142-154. Nuove Fiamme, I, 15, vv. 1-3. 61 Palagio d’amore, Al Marchese di Laina Alfonso de Cardines, vv. 25-28. 60

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fra quante mai ne fur in altra etate: de duo, che di tenerla hebber vaghezza sovra le spalle a tanto incarconate, i nomi eran descritti in larga nota, pria Ferrante Carafa, e poscia il Rota. Giovanna d’Aragona era da presso, tempio d’ogni virtù sacro, e intero; a questa rari doni ha ’l ciel concesso donna immortal, dignissima d’impero. A costei un Maron fu già promesso dal primo dì che nacque, e un Homero; de’ quai potean vedersi i nomi belli, Angelo di Costanzo, e ’l suo Ruscelli. Gieronima Colonna era la terza, d’Ascanio degna figlia; e dopo questa quella seguia, che da mattino a terza, a nona, a vespro i chiari ingegni desta, d’Aragona Isabella; e seco scherza Amor, né Gratia alcuna a dietro resta. Minturno, e Tasso eran de l’una carchi; et de l’altra il Tansillo, e ’l dotto Varchi. Ecco Leonora poi Sanseverina, o chi verrà, che que’ begli occhi a pieno possa lodar; ove suoi strali affina Amor, per impiagarne a mille il seno. Di costei canta Laura Terracina, et pon cantando a l’aura, a l’onda il freno: e un Caracciol con lei, spirto divino Giulio Cesar, cui tanto honoro e ’nchino. Non men degna, e men bella un’altra appare, mostra lo scritto fuor Giulia Gonzaga; di cui le glorie son famose e chiare per quanto il ciel si stende, il mar s’allaga. I duo, che dottamente a noi cantare volser del lume, ch’ogni sdegno appaga, leggeansi in un sol verso a paro a paro Francesco Maria Molza, Annibal Caro. Nata di quel medesmo sangue ancora, et d’honesta vaghezza non minore, Hippolita apparea, ch’i campi infiora con gli occhi, dentr’a quai fa nido Amore: né de gli homeri d’uno, o due s’honora, ma da molti s’alzava il suo valore:

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da molti dico, a l’età nostra antichi, Amalthei, Capilupi, e Gradinichi. Appresso lei sorgea la nobil donna, ricco soggetto a più famoso ingegno, Laura Carrafa, ch’in leggiadra gonna poggiava di beltate al vero segno. I duo, che le facean salda colonna ogni men bel pensier avendo a sdegno, col mio tenean conformi i propri nomi, et Domenichi, e Dolce i suoi cognomi. Ma, dov’io lascio una, che titol vero di bellezza, e bontà supremo haveva, rendendo più superbo il patrio Ibero; Anna Maria del sangue de la Cueva: la qual in vedovil habito nero, chi ’l crederia? Più bei color teneva. Eran quei duo d’alzarla al ciel sì buoni Aldo Manutio, Anton Francesco Doni. Sculto leggeasi ancor l’altero nome su ’l lembo di Zenobia Pignatella: et di quell’altra, c’havea guancie, e chiome tai, che celeste cosa er’a vedella. Degli Afflitti; Lucretia e l’alte some d’ambedue sostenea solo il mio Stella, Stella, che ’l mar acqueta al maggior verno, et paradiso fa d’oscuro inferno. Quivi Anna di Toledo in tal sembiante stava, qual alma suole inanzi a Dio. Convien che di costei per tutto cante chi di non mai morir viene in desio. Gli alti nomi di quei, che disser tante cose di lei, lungo l’aonio rio, vedeansi in note d’archi, e di teatri, Marchese di Laina, et Duca d’Atri, né l’altra; o perché tanto ardisco, e voglio stringer chiara eccellenza in fosche rime? Con men dura fatica, in duro scoglio Gnidia con debil piombo ancor s’imprime: vedeassi scritto, è Martia Bentivoglio. Che per un che ne scrisse è fra le prime, per un, che tanto il secol nostro honora Adriano Guglielmo Spatafora. Di quelle due Vittorie, che si stanno così propinque, d’or l’intaglio dice:

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è Vittoria Colonna, ch’alto inganno a la morte farà, sola Fenice; è Vittoria Capana, a cui far danno grave non potrà mai tempo infelice: et è ben dritto, poi ch’han guancie e chiome di beltà pari, habbian di pari il nome. I primi duo, c’han cosi caldi i petti la sua portar da l’uno a l’altro polo, Terminii ambe duo sono in voce detti; né questo senza quello è gia mai solo. I duo secondi, ch’i medesmi effetti speran de l’altra (o glorioso volo) duo Gianvincenzi son, l’una Belprato; l’altro Vigliera, anch’ei da Febo amato. Di sembiante real seguia la santa, cangiato il proprio nome in Amarilli: vince costei quante aver mai si vanta il bosco, si leggeva, e Nisa, e Filli. Che de’ begli occhi, con che l’alme incanta, par che novello sol esca, e sfavilli. Così di chi l’ergea di terra in alto dicea l’intaglio, è Don Gaspar Toralto. Ecco qui le tre Gratie, ecco le belle di Marcellon Caracciolo alme figlie, che ’l mondo insomma aggiunge a lato a quelle famosissime sue gran meraviglie. Ma con le due, qual Hespro infra le stelle, parea Vittoria; o madri di famiglie alte, hoggi i vostri appoggi, è ben ragione, che Sansovino sien, Franco, e Serone. L’ultima havea su ’l risplendente lembo, invece del suo nome, così scritto: questa era degna, che di lei sol Bembo havesse, o d’altra men, cantato e ditto. Il nome ancor di chi piegato il grembo havea, per torla sovra ’l lato dritto, era occulto; né so per qual rispetto restasse il bel lavor monco, e imperfetto. Vagava io con la vista d’ogni intorno per far prova se mai visti gli havessi e a le mani hora, e hora al viso torno e spesso al lembo, e a versetti impressi al fin su quel, che sì superbo e adorno

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parea del peso, in breve cerchio i’ lessi. Felice son, forz’è che pur mi vante; più degno è il peso mio di quel d’Atlante. D’entrar al ricco palazzo Amor si vide starsi gran tempo assai pago e securo, finché di Soliman le genti infide poser il giogo a Sorrentin sì duro. Alhor chi noi da noi spesso divide, timido sen fuggì per l’aere oscuro: et lui drizzato a la sua prima culla, repente il tutto si risolse in nulla. Quando VITTORIO, de l’argive Muse gloria maggior, ti stai cantando in parte, ove sue gratie il ciel tutte ha richiuse. Noi qui fra l’arme e fra i romor di Marte altro pensier costringe, e altra voglia che vergar tronchi, o rene, o sassi, o carte. Ben ti vorrei lodar, ma l’empia doglia del duro stato mio, non me ’l permette, et d’ogni arbitrio e libertà mi spoglia. Non perché stimi già molto dilette ruvido carme a ben purgata orecchia sempre avezza d’udir cose più elette. Ma bramerei, come ingegnosa pecchia, che va furando hor questo, hor quel bel fiore; per farmi illustre, ir a l’usanza vecchia. Credi pur ch’io non sappia quanto honore Sannazar già ti fece alhor che disse: questi m’ha tratto sol di Lethe fuore, questi mostrommi sol quanto mai scrisse Theocrito; e poi dentr’al grande Homero l’ira di Achille, e ’l lungo error d’Ulisse? Summonte, ch’amò sempre il suo Pontano t’amasser, e Altilio d’amor vero. E Thebaldeo, che fu cotanto humano; et chi Filosofia raccolse in grembo Nifo, e l’erto camin ne fè sì piano, e chi purpureo hebbe il capello, e ’l lembo, il cardinal Colonna, Egidio, e i dotti Giacopo Sadoleto, e Pietro Bembo62.

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Elegia VII, A M. Vittorio Tarentino, vv. 1-28.

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Sono tutti i nomi alla cui fama il Paterno intende accostare la sua opera, bisognosa di autorevoli riconoscimenti e numi tutelari63 che possano conquistargli una riconoscibilità all’interno di un sistema; particolarmente significativi a riguardo sono alcuni versi in cui il poeta esprime un giudizio critico sulle personalità più rappresentative della poesia del Cinquecento e tra queste, ardimentoso, include se stesso: Attio de’ nostri pescator fu il primo, Rota il secondo, il dirò pur con pace de gli altri tutti, il terzo hogg’io m’estimo64.

Come già visto, Sannazaro è una delle auctoritates, dopo il Petrarca, cui più il Paterno piega la sua ispirazione; a lui è dedicata un’elegia nella quale confida il desiderio di mietere non ingrato frutto dalla fedeltà alla poesia sannazariana, e di acquistare per suo mezzo chiara fama: Già scaldando e correndo ha trenta giri hoggi fornito il Sol verso l’Occaso, da che Fortuna vuol ch’io non ti miri. Ma benché senza te solo rimaso mi veggia, pur mai sempre in ogni loco tu ’l mio Pindo sarai, tu ’l mio Parnaso: e tu limando questo scabro e poco ingegno d’hor in hor, di giorno in giorno, renderai più famoso il mio bel foco. Tu quel, ch’io scrivo sott’un faggio, un orno, porterai sovra l’aure del tuo nome, et donde parte, e donde torna il giorno. Sovra le spalle tue porrò le some de l’alte lodi, ch’inspirommi Amore, hor de gli occhi cantando, hor de le chiome, hor de la man, che mi distringe il core et fa ch’ovunqu’io stia, per bella maga pianga, e cresca piangendo il mio dolore. SINCERO, quando il ciel fè lei sì vaga ruppe la stampa, onde di scusa degno son io, ch’a me medesmo sei la piaga. 63

Elegia V, A Simon Portio vv. 60-66: «Portio, i’ non bramo diventar Orfeo / […] / Et se nel canto a tuo giudicio valsi»; Simone Porzio (1497-1554), professore di filosofia all’università napoletana, fu, come ho ricordato all’inizio di questo saggio, maestro del Paterno. 64 Marittime, Egloga II, Eufemo, vv. 135-137.

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Ma chi poteva a l’amoroso regno opporsi? E tu non sai, che fiamma puote cenere tosto far d’arido legno. Miseri noi sotto gravose rote d’Amor; di cui la notte, e ’l dì ragiono: ma, perché quant’ei vuol, tanto percote, merta fallo d’amor scusa, e perdono65.

La fama del Paterno è legata, sin dall’inizio della sua attività, agli esercizi virtuosistici sulla parola petrarchesca, all’instancabile lavoro di riscrittura. Se a decretare la sua gloria fu il Carducci che lo segnalò per la sua pratica di poesia barbara66, ancora più importante è il tributo di stima e l’attestazione di una notorietà acquisita e goduta già in vita, da parte di un grande poeta come Bernardo Tasso, che gli riconosce un ruolo di primo piano nel panorama del petrarchismo cinquecentesco: in chiusura dell’Amadigi, lo vediamo inserito tra gli spirti eletti della lirica napoletana: Veggio una compagnia di spirti eletti, che di Sebeto su le vaghe sponde cantando, con leggiadri alti concetti accendono d’amore il lido e l’onde. Il colto Rota, che par che s’affretti di lagrimar, come di pianto abonde, della diletta sua, cara consorte l’inaspettata ed immatura morte. Il Costanza, il Caraciuolo, e Ferrante che del tempo il furor s’ha preso a schermo: e rendeno il Tirreno alto e sonante piano ed umil nel tempestoso verno, il Tansillo, che fa mover le piante coi carmi, e i fiumi star fermi, e il Paterno che col fecondo ed elevato ingegno è già poggiato a sì sublime segno67.

Il Paterno, un «petrarchista al quadrato, precoce e incontinente», come lo giudica Giovanni Parenti68, incarna una crisi: illustra la sempre più debole 65

Elegia XII, Al Sincero. G. Carducci, La poesia barbara nei secoli XV e XVI, Bologna, Zanichelli, 1881, pp. 363-69. Le rime qui proposte sono tutte tratte dalle Nuove Fiamme. 67 B. Tasso, Amadigi IV, 42-43. 68 G. Parenti, Vicende napoletane del sonetto tra manierismo e marinismo (in margine a una recente antologia), in «Metrica» I, 1978 pp. 225-239. 66

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capacità d’inventio di certa poesia napoletana, e assieme il febbrile lavoro di quei poeti sull’elocutio, su una parola poetica comunque destinata a rimanere chiusa nel labirinto di un petrarchismo tradito. Le sue opere, nella diacronia del manierismo napoletano, si situano nella fase iniziale, in un momento di confusi esordi, e costituiscono per i contemporanei e per chi verrà in seguito un esempio di ciò che potesse essere, in seno al petrarchismo, l’esercizio della differenza.

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Emilio Filieri LA MUSA LIRICA DI FERDINANDO DONNO

Accanto a motivazioni più ampiamente politiche e commerciali, anche durante la prima metà del Seicento il mito dello splendore di civiltà della Serenissima si corroborava con l’immagine del Leone di san Marco, baluardo insuperabile contro gli infedeli e si intrecciava con le istanze ideologico-culturali maturate «per il diritto sul mare Adriatico, […] fra ammirazione e affetto»1. Com’è noto, sulla laguna si rincorrevano succhi polemici di Accademie, problematiche teatrali e ricerca di nuove morfologie narrative e letterarie2 (dalla singola novella alla raccolta di novelle, poi anche nella direzione «del romanzo in prosa, un genere di successo»3 come autentico monstrum editoriale), ma soprattutto la presenza di fiorenti e note tipografie4 spesso richiamava a Venezia i letterati primo-secenteschi della penisola e delle regioni meridionali in particolare. Com’è noto, con i Baba, il Ciotti, il Sarzina e gli altri, agli occhi di poeti e scrittori la città lagunare diveniva quasi un passag-

1 G. Distaso, Editoria d’area veneta e ‘scritture’ meridionali fra Cinque e Seicento, in La Serenissima e il Regno. Nel V Centenario dell’Arcadia di Iacopo Sannazaro, Bari, Cacucci, 2006, Atti del Convegno di Studi (Bari-Venezia, 4-8 ottobre 2004) raccolti da Davide Canfora e Angela Caracciolo Aricò, p. 209. 2 M. Capucci, La narrativa del Seicento italiano, in I Capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco, Atti del Convegno di Lecce, 23-26 ottobre 2000, Roma, Salerno, 2002, p. 253. 3 Introduzione a S. Errico, Le Guerre di Parnaso, Lecce, Argo, 2004, a cura di Gino Rizzo, p. XXVIII; cfr. A. Quondam, La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, vol. II, Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 682-84. 4 Cfr. M. Infelise, Gli editori veneziani del secondo Cinquecento, in La ragione e l’arte. Torquato Tasso e la Repubblica Veneta, a cura di Giovanni Da Pozzo, Venezia, Il Cardo, 1995, pp. 27-33.

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gio obbligato per la stampa e per la diffusione delle proprie opere5: si intravedeva il possibile ampliamento del pubblico dei lettori, con il coinvolgimento dei cultori dell’attività letteraria, sulla base di consolidati rapporti, anche «di familiarità e di scambievole stima con gli elitari circoli» della città lagunare 6, in particolare da Terra d’Otranto alla regina dell’Adriatico, in percorsi filoveneziani di lunga durata già risalenti al Galateo 7. Nato il 25 aprile 1591 a Manduria in Terra d’Otranto, da Giovanni e Medea d’Agostino, Ferdinando Donno si formò nel borgo natale e a Lecce, città di nuove “fabriche” 8, capoluogo in piena trasformazione per «coscienza cittadina intesa come identità culturale e come categoria politica»9 e con l’ambizioso convincimento di essere prima città del Regno dopo Napoli, per antichità e fedeltà, sulla base di indagini storiografiche, memorie di giurisperiti e ricerche accademiche (dai Trasformati agli Spioni-Speculatori10, sino alla Società di Agricoltura11). Dopo un prolungato soggiorno a Napoli, a ventotto anni Donno scelse Venezia come «stabile luogo della sua attività letteraria»12 5

Cfr. Le edizioni veneziane del Seicento. Censimento, a cura di Caterina Griffante con la collaborazione di Alessia Giachery e Sabrina Minuzzi, Introduzione di Mario Infelise, vol. I (A-L), Milano, Editrice Bibliografica, 2003. 6 D. Defilippis, Antonio Galateo, la Puglia e Venezia, in La Serenissima e il Regno. Nel V Centenario dell’Arcadia di Iacopo Sannazaro, cit., p. 127. 7 P. Andrioli Nemola, Galateo tra Soria e Lezzi: un episodio di erudizione zibaldonesca nel Salento di fine Settecento, in Studi in onore di Mario Marti, t. II, Galatina, Congedo, 1981, p. 509; Ead., Catalogo delle opere di A. De Ferrariis (Galateo), Lecce, Milella, 1982, pp. 262-63; cfr. F. Tateo, L’epistola di Antonio Galateo ad Ermolao Barbaro, in «Studi umanistici», IV-V (1993-1994), pp. 163-198. 8 Cfr. P. Scardino, Discorso intorno la città di Lecce, a cura di Mario De Marco, Cavallino di Lecce, Capone, 1978, pp. 78 e sgg.; M. Fagiolo, V. Cazzato, Lecce, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 78. 9 C. D. Fonseca, La «coscienza della città» nella storiografia locale, in Storia di Lecce dai Bizantini agli Aragonesi, a cura di Benedetto Vetere, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. X. 10 G. Rizzo, La cultura letteraria: identità e valori, in Storia di Lecce. Dagli Spagnoli all’Unità, a cura di Bruno Pellegrino, Bari-Roma, Laterza, 1995, pp. 764-74. 11 Cfr. E. Filieri, Lecce “città bella”: l’azione della Società di Agricoltura negli anni murattiani, in Id., Letteratura e scienza tra Salento e Napoli, Galatina, Congedo, 2002, pp. 105-36. 12 G. Rizzo, Le inquiete novità. Simboli, luoghi e polemiche d’età barocca, Bari, Palomar, 2006, p. 57 e Id., Ferdinando Donno. Opere, Lecce, Milella, 1979, p. 13; cfr. N. Toppi, Biblioteca Napoletana et Apparato a gli huomini illustri in lettere di Napoli, e del Regno delle famiglie, terre, città, e religioni, che sono nello stesso Regno. Dalle loro origini, per tutto l’anno 1678, Napoli, appresso Antonio Bulifon all’insegna della Sirena, 1678, pp. 82-83. Cfr. anche i seguenti repertori: F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Milano, Agnelli, 1741, vol. II, parte I, p. 324; C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli Scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli, Rinaldi e Sellitto, 1844, (rist. anastatica,

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e nel 1620, a 29 anni, vi pubblicò La Musa Lirica; poi un romanzo, l’Amorosa Clarice 13 nel 1625 e un poema in ottave, L’Allegro Giorno Veneto nel 1627 14. Celebrativo della fastosa solennità dell’Ascensione per lo “sposalizio” della Repubblica veneta con il mare, proprio tale poema in dieci canti favorì il conferimento al salentino della prestigiosa onorificenza del cavalierato di San Marco, in data 5 luglio 1628 15, per cui il Donno divenne un «intellettuale organico allo stesso governo»16 nella capitale dell’Adriatico. Il soggiorno veneziano del Donno si protrasse per circa 14 anni, dal 1619 sino al 1633-34; al ritorno da Venezia, dopo un breve passaggio per la Città Eterna «in casa del concittadino e poeta Antonio Bruni»17, nel 1635 il Donno prese possesso della carica di Arciprete a Manduria e si dedicò con intensa cura all’impegno pastorale nella nativa comunità salentina sino agli ultimi anni della sua vita conclusasi nel 1649.

Sala Bolognese, Forni, 1967), p. 116; G. Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Lecce, Tip. Scipione Ammirato, 1879, p. 320; A. Foscarini, Saggio di un catalogo Bibliografico degli scrittori salentini, Lecce, Lazzaretti, 1894, pp. 120-21; P. Marti, Origine e fortuna della coltura salentina (Nei secoli XVII e XVIII), Ferrara, Tip. Sociale, 1895, vol. I, pp. 66-68; C. Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vecchi, 1904, pp. 322-23. Da notare ancora G. Gigli, Ferdinando Donno in Scrittori manduriani. Studi e ricerche, Manduria, F.lli Spagnolo, 1896, pp. 27-49 e G.B. Arnò, Manduria e manduriani. Note e appunti bibliografici e di storia patria, Oria, Società Tipografica Antoniana, 1954, pp. 80-86; L. Lacaita, La Storia delle Storie di Manduria, Manduria, Lacaita, 1947, pp. 70-75 e ancora A. Lopiccoli, Compendio storico della città di Manduria, ms. del sec. XX, copia dell’originale ottocentesco, presso la Biblioteca «M. Gatti» di Manduria (Scaffale «Scrittori manduriani»), pp. 524-27. Infine M. Greco, La pesca del corallo e un cantore manduriano del ’600, in «Voce del popolo», 6 settembre 1942, a. 59, n. 35, p. 3; G.B. Lezzi, Memorie dei Letterati salentini, ms. della fine del sec. XVIII presso la Biblioteca «A. De Leo» di Brindisi (segn. D/5), pp. 361-66. 13 F. Donno, L’Amorosa Clarice. Opera, e Lettura non men curiosa, che dilettevole […], Venezia, 1625, presso Giacomo Sarzina; G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., pp. 28-32. 14 F. Donno, L’Allegro Giorno Veneto, ovvero lo Sponsalizio del Mare. Poema eorico, diviso in dieci canti, Detti […], Venezia, Sarzina, 1627; G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., pp 39-45. 15 Cfr. D. De Angelis, Vita di Ferdinando Donno da Manduria, Cavaliere di San Marco, All’Illustrissimo Signore, Il Signor Apostolo Zeno, in Le vite de’ letterati salentini, parte seconda, Napoli, Bernardo-Michele Raillard, 1713 (ora prima e seconda parte in anastatica, Sala Bolognese, Forni, 1973), pp. 169-73. Su Domenico De Angelis (1675-1718) cfr. G. Rizzo, La cultura letteraria: identità e valori, in Storia di Lecce. Dagli Spagnoli all’Unità, cit., pp. 757-64; in particolare per Le vite, pp. 762-63. Id., Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 13. 16 Id., Le inquiete novità. Simboli, luoghi e polemiche d’età barocca, cit., p. 57. 17 Id., Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 15.

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Prima di approdare a Venezia, intorno al 1610 il Donno si recò a Napoli, non ancora ventenne; nella città partenopea aderì all’Accademia degli Oziosi, «inaugurata ufficialmente alla presenza del Vicerè Pietro Fernandez de Castro, conte di Lemos, il 3 maggio 1611 nel Chiostro di S. Maria delle Grazie»18. Come ricorda Quondam19, essa rappresentava la «fondazione d’una nuova tipologia intellettuale, organica alla strategia di riaffermazione dell’egemonia monarchica», quasi esclusivamente risolta però in una prassi culturale pubblica, caratterizzata dalla spinta alla competizione delle abilità. L’iscrizione all’Accademia napoletana risultava non di rado impervia e macchinosa, anche perché sottoposta a uno statuto molto selettivo, se non discriminatorio. Probabilmente la rilevata “ipertrofia normativa” era insieme indice «dell’artificiosità dell’adunanza e segnale della mancata omogeneità dei membri»20. Soltanto i magistrati regi e arcivescovili venivano ammessi senza “squittinio”; l’ammissione di altri nuovi membri comportava tutta una serie di controlli severi e rigorosi. Tuttavia, o forse anche per tali motivi, l’adesione a quell’Accademia rimaneva ambita e comunque appetibile agli occhi dei letterati salentini nella metropoli del Mezzogiorno. Elemento non trascurabile nella creazione dell’aura di prestigio socio-culturale e accademico tra gli intellettuali di area meridionale era il rilievo dato alla proiezione «della tradizione petrarchesca, culminata nella poesia tassiana»21, connessa alla presenza tra i fondatori di Giovan Pietro D’Alessandro22, scrittore di Galatone di Lecce (1574-1647), il quale sanciva la nascita della nuova accademia napoletana dinanzi al pubblico con il poema in esametri latini Academiae Ociosorum libri III nel 1613 23. Rispetto a tale data, il Donno fu ammesso di lì ai succes18

Ivi, p. 16. A. Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 252; anche Id., Del Manierismo al Barocco. Per una fenomenologia della scrittura poetica a Napoli tra Cinque e Seicento, in Storia di Napoli, vol. V, parte I, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1972, pp. 553-71. 20 I. Comparato, Società civile e società letteraria nel primo Seicento: l’Accademia degli Oziosi in «Quaderni storici», n. 23, maggio-agosto 1973, p. 377. 21 G. Jori, Poesia lirica «marinista» e «antimarinista» tra classicismo e Barocco, in Storia della letteratura italiana. Il Barocco, vol. V, Milano, Il Sole 24 Ore, 2005, p. 702. 22 G. Rizzo, M. Rigillo, il Seicento e tre ‘Oziosi’ (G.B. Basile, G. Battista e G.P. D’Alessandro), in Filologia e critica tra Sei e Ottocento, Galatina, Congedo, 1996, p. 11; cfr. anche C. Minieri Riccio, Cenno storico delle Accademie fiorite nella città di Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», 1880, I, pp. 148-57. Per il D’Alessandro difensore dell’Adone mariniano cfr. A. Borzelli, G.P. D’Alessandro difensore del cavalier Marino, in «Giornale storico araldico del Napoletano», I, 1892, 4, pp. 1-7. 23 G.P. D’Alessandro, Academiae Ociosorum libri III, Napoli, (Ex Typografia Io. Baptistae Gargani et Lucretij Nuccij), 1613; G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 17. 19

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sivi due anni, probabilmente tra il 1614 e il 1615, periodo in cui si iscriveva alla stessa accademia il conterraneo Antonio Bruni, suo amico, come risulta dal componimento CXX. All’Accademia degli Oziosi di Napoli quando l’auttore nel loro numero fu ammesso, sonetto della citata raccolta veneziana La Musa Lirica 24. Con il Bruni (Manduria 1593-Roma 1635) e il galatonese D’Alessandro (1574-1649), segretario e censore 25, con Pietro Antonio De Magistris (Galatone, secolo XVII) e con Giovan Francesco Maia Materdona (Mesagne di Brindisi 1590-Roma 1650), anche lui poi in relazione con il Marino26, il Donno completava la colonia dei letterati di Terra d’Otranto sicuramente iscritti all’Accademia. Proprio il sonetto CXX pare emblematico dell’atteggiamento del manduriano Donno nei confronti dell’Accademia napoletana, sin dai primi versi CXX. ALL’ACCADEMIA DEGLI OZIOSI DI NAPOLI […] Questa d’illustri marmi eccelsa mole, che con Olimpo in ciel pugna e contende, è scala onde si giunge, onde s’ascende da’ ciechi abissi al gran fanal del sole; è rocca altera, ove saldar si suole la Gloria e da qui giù s’erge e difende; è ciel, ch’a l’occidente unqua non tende, ma per vie se ne va sublimi e sole.

Nel paragone con l’Olimpo, si può notare come l’indicazione emulativa sia funzionale alla celebrazione dell’Accademia, eccelsa mole di marmi illustri, consesso di personaggi considerati quasi monumenti viventi dell’arte e della cultura, nelle frequenti riunioni ricche di lezioni, composizioni, dibattiti e «questioni ad esseguire», su tematiche varie, intorno «alla poetica, alla retorica, alle discipline matematiche e a tutte le parti della filosofia»27. In tal senso la nobile Accademia costituiva una vera e propria “scala” cognitiva, rappreDenso e calibrato l’intervento di M. Leone, Virgilio, Tasso, Marino e un’accademia: Giovan Pietro D’Alessandro poeta «ozioso», in Id., Geminae voces: poesia in latino tra Barocco e Arcadia, Congedo, Galatina, 2007, pp. 137-99. 24 G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., pp. 142-43. 25 M. Leone, L’Accademia e il canone: un esempio secentesco, in Il Canone e la Biblioteca. Costruzioni e decostruzioni della tradizione letteraria italiana, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 2002, vol. I, p. 292. 26 G.F. Maia Materdona, Opere, a cura di Gino Rizzo, Lecce, Milella, 1989, p. 202; A. Asor Rosa, La lirica del Seicento in Letteratura italiana. LIL, Bari-Roma, Laterza, 1979, vol. 28, pp. 161-63. 27 G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 435.

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sentativa dell’ascesa intellettuale, per la quale si risaliva dagli abissi dell’ignoranza alla luce irradiante del sole, consolidato simbolo di luminosa conoscenza. Lungi da ogni sensazione di precarietà, l’Accademia era «rocca altera», caposaldo al quale si congiungeva la Gloria, per la capacità d’innalzarsi dall’anonimato; ma l’Accademia si identificava anche con il cielo, per spazi e dimensioni in cui il sole non tramontava più: mai incline all’occaso, la nobile adunanza offriva incontri e occasioni d’eccellenza, irripetibili e sublimi. Da questa scala cade il Tempo avinto, da questa rocca è fulminata Morte e riman con la morte il Tempo estinto. Di questo cielo il Manso apre le porte, su questo ciel, d’immortal gloria cinto, ha virtù d’eternar l’ore più corte.

Assimilata per antonomasia a una scala insuperabile da parte della morte e del tempo, entrambi sconfitti, l’Accademia aveva in Giovan Battista Manso il suo custode e capo. Marchese di Villa28, “Principe” degli Oziosi29 a più riprese, dal 1611 al 1620, dal 1623 al 1624 e dal 1625 al 1645, Manso è ricordato anche per l’ospitalità offerta a John Milton30, ricambiata con un componimento poetico, ma soprattutto per la protezione accordata al Tasso proprio a Napoli e per una Vita del “malinconico” poeta, poi pubblicata a Venezia nel 1621 31, com’è noto, testo ancora consultato da Goethe per comporre il suo Torquato Tasso 32. Il Manso rivolse una cauta e prudente attenzione alle scelte

28

Giovan Battista Manso, in G. Ferroni – A. Quondam, La “locuzione artificiosa”. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma, Bulzoni, 1973, pp. 423-25. 29 Cfr. G. De Miranda, Una quiete operosa. Forme e pratiche dell’Accademia napoletana degli Oziosi 1611-1645, Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 2000; in particolare p. 267. 30 J. Milton, Mansus, ora in Id., Poetical works, Oxford, At the Clarendon Press, 1966, vol. II, pp. 274-77. 31 Cfr. G.B. Manso, Vita di Torquato Tasso, a cura di B. Basile, Roma, Salerno editrice, 1995: com’è noto, il testo del Manso si può dire fondativo del fortunato mito della biografia tassiana. Per La Vita di Torquato Tasso del ricordato Giovan Pietro D’Alessandro, amico del Manso e segretario degli Oziosi, cfr. Claudio Gigante sul «Giornale storico della letteratura italiana», CLXXVII, 2000, 577, pp. 59-70 e M. Leone, Virgilio, Tasso, Marino e un’accademia: Giovan Pietro D’Alessandro poeta«ozioso», cit., p. 139. 32 G. Jori, Poesia lirica «marinista» e «antimarinista» tra classicismo e Barocco, in Storia della letteratura italiana. Il Barocco, cit., p. 703.

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del Marino 33, ma rappresentò sicuro punto di riferimento per i letterati del Mezzogiorno. Il sonetto e in particolare le due terzine del Donno alludono proprio all’impresa del Manso, raffigurante una scala d’oro, dalla quale l’autore immagina che il Tempo cada senza scampo, ormai vinto dalla fama immortale della poesia, accompagnato dalla Morte, fulminata e anche fisicamente sconfitta dalla gloria imperitura degli Oziosi. Principe della regale adunanza, il Manso era in grado di dare accesso a fama inestinguibile e di aprire le porte a quella dimensione, capace di immortalare anche i momenti più brevi, anche le ore più corte: così la poesia eternatrice confermava e rinnovava la sua forza vitale. In successione immediata, il componimento CXXI. Commendasi una camera del Sig. Antonio Bruni, dove in virtuosa Academia s’adunavano divinissimi ingegni 34 illumina altri interessanti aspetti della vita di relazione del Donno, in particolare i rapporti con il conterraneo Bruni. Convinto estimatore della poesia del Marino, com’è noto il Bruni fu «precoce poeta con una solida e robusta raccolta di liriche, intitolata La Selva di Parnaso (1615)»35, poi Censore degli Umoristi e stretto collaboratore dell’autore dell’Adone, quando il Marino divenne Principe dell’Accademia romana36. Conterraneo del Donno, il Bruni nacque a Manduria il 15 dicembre 1593 da Giulio Cesare ed Isabella Pasanisi e «a soli diciotto anni egli fu ammesso tra gli Umoristi, sotto il principato di Battista Guarini (1611)»37, suo riferimento spirituale e culturale, la cui morte lo spinse da Roma a Napoli, verso l’area degli Oziosi e del Manso. Il prezioso avallo di questi favorì l’ingresso nel consesso napoletano, proprio negli anni in cui entrò nella stessa Accademia l’amico e concittadino Donno. «La sua spiccata personalità, curiosa, aperta, disponibile, dai modi brillanti e vivaci»38 favorì attività culturali collaterali a quella degli Oziosi e la sua dimora divenne un luogo di ritrovo, in grado di calamitare intorno «a sé le attenzioni degli ambienti colti napoletani»39. A tal proposito il sonetto di Donno dà sicura prova di nobile affabilità40:

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S. Errico, Le Guerre di Parnaso, a cura di Gino Rizzo, cit., p. XLV. G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 143. 35 A. Bruni, Epistole eroiche, a cura di Gino Rizzo, Galatina, Congedo, 1993, p. 10. 36 P. Russo, L’Accademia degli Umoristi, in «Esperienze letterarie», ott.-dic. 1979, p. 53. 37 A. Bruni, Epistole eroiche, cit., p. 12. 38 Ivi, p. 13. 39 Ibidem. 40 A. Bruni, La Selva di Parnaso, Venezia, Appresso i Dei, 1615; G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 143. 34

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Magion sublime, ov’a d’età fallace si tarpano di scorno i vanni e l’ale, e ’l tempo ingordo e ’l secolo vorace ne riportan di duol piaga mortale; asilo illustre, ove la Parca edace non entra a divorar cibo immortale, ma si sceme con man tetra e rapace su la soglia spezzar l’arco fatale;

Sede spiritualmente e culturalmente eccelsa e rifugio capace di dare lustro a quanti la frequentino, l’abitazione del Bruni si pone insieme come ricovero e baluardo da ogni tentativo della mitica Parca distruttrice di penetrarvi con la morte e di tarpare le ali della gloria. Spezzato l’arco fatale, la magione del Bruni è veramente adunanza di spiriti scelti, schiera di eletti, per celebrare l’arte d’amare; academia d’amor, là dove appare d’incliti spirti glorïosa schiera, celebrando d’amor l’arte d’amare; a te ceda ogni regia illustre, altera, che, fatta aula di glorie eterne e chiare, sembri di mille lumi ardente sfera.

Anche le dimore regali sembrano cedere dinanzi a tale consesso, assurto alla dimensione di ardente sfera celeste, resa “aula” di glorie eterne, come sala-camera fisicamente edificata e per estensione illustre riunione consacrata a opere immortali. Quasi di conseguenza, il successivo componimento celebra l’opera del Bruni La Selva di Parnaso, pubblicata a Venezia, presso Ambrosio e Bartolomeo Dei, come già detto nel 1615 41: CXXII. PER LA «SELVA DI PARNASO» DELLO STESSO SIG. BRUNI Questa eterna d’Amor selva canora, ond’impenna la gloria eccelse piume, è di più cieli armonico volume, che sul polo d’onor s’aggira ognora. Bruni, col rapir l’alme e spiegar fuora sereni accenti i duo primier n’allume; distendi il firmamento, e ’n aureo lume Vergin dea va co’ Pesci e ’l cerchio indora; 41

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A. Bruni, Epistole eroiche, cit., p. 11.

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movi il vecchio splendor rozzo e selvaggio; Giove inalzi al suo tron, dai l’arme a Marte e ’nfiammi il sol di costumevol raggio; volgi celeste ardor, fai con nov’arte gir l’avanzo degli orbi; e dotto e saggio, al tuo musico mondo ardon le carte.

Presentata già dal primo verso con il traslato sinestetico, a dire di Donno «eterna d’amore», la selva canora dell’amico Antonio è armonico volume di molteplici cieli, pronto a svolgersi e a sfogliarsi attorno al suo vertice, il polo dell’onore; così il Bruni è chiamato a illuminare i primi cerchi celesti con il rapimento delle anime più sensibili e con l’espressione di accenti sereni, mentre la dea nel segno zodiacale dei Pesci è al punto di maggiore altezza. Rimossi e respinti i moti rozzi e selvaggi, restituite le armi al dio della guerra, al trono di Giove s’innalzano i comportamenti poetici ricchi di calore, ma improntati pure a contegno e decoro. Per tutti gli altri cieli, gusto e senso della novità accompagnano le poesie, caratterizzate da dottrina e sapienza poetica, su carte vergate all’insegna della musica che arde e commuove. Con eco del primo canto del Purgatorio dantesco, la rinnovata reminiscenza contrassegna la seconda quartina a favore dell’amico Bruni, del quale il Donno pare intravedere l’emulativa gara con la Lira mariniana, nello «sperimentalismo tematico in serie enumerativo-amplificative; in linea con i registri primo-secenteschi di novità-varietà»42, egli plaude al pieno ricorso a immagini della sfera sensibile, per consacrare l’arte come “sapore”, pittura e musica in poesia, secondo «gusto mutevole e relativo, palpabile e interna evidenza»43. Pure nel successivo madrigale è riscontrabile il tono laudativo nei confronti del conterraneo44: CXXIII. PER LA CACCIA TERRESTRE E MARITTIMA DEL MEDESIMO Correte, o pescatori, venite, o cacciatori, qui troverete Amor tra forme nove oprar sovrane prove, mentr’in frondoso mar, spumosa selva, or si squamma, or s’imbelva.

42 43

Ivi, p. 53. G. Jori, Poesia lirica «marinista» e «antimarinista» tra classicismo e Barocco, cit.,

p. 694. 44

G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 144.

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Il componimento conferma l’elogio delle scelte tematico-formali operate dal Bruni, in relazione al lungo componimento La caccia presente nella seconda parte della già citata Selva di Parnaso (Venezia, 1615), alle pp. 160199 45 e ne sostiene l’impianto all’insegna del mutante-meraviglioso: Su via, prendete ornai l’asta e la rete perché n’attenderete vaga pesca volante, vaga preda guizzante; ma pian, ché rimarrete tra mar di selve pescator cacciati, tra selva d’onde cacciator pescati.

Nel gioco tutto interno all’arte venatoria e all’attività piscatoria, il Donno s’immerge pienamente a trovare forme nuove e non di rado percepite come superiori rispetto alla tradizione, sulla centrale e decisiva tematica dell’amore, con il continuo scambio metaforico-metamorfico di uomini, luoghi, occasioni e momenti; a specchio riflettente, le due direttrici di svolgimento, caccia e pesca, si intersecano e danno vita a una ricchezza di variazioni sulla base della reciprocità perseguita e sviluppata: la cattura della selvaggina volatile è «vaga pesca volante», mentre la conquista ittica diviene «vaga preda guizzante», in costante scambievole rapporto anaforico-metamorfizzato, mare di fronde-selva di spuma e pescator-cacciati / cacciator-pescati, nell’intreccio terracqueo, ora ondoso-fogliaceo, ora azzurro-liquido o aereo-verdeggiante, in aura marino-ramosa e schiumosa-boschereccia. La “piccola corona” dei componimenti appena riportati disegna quasi un palpabile breve percorso autobiografico all’interno dell’ultima sezione Rime varie della sua Musa Lirica, ma a dire il vero altri ne completano lo spazio dedicato alle amicizie e ai contatti culturali e più largamente sociali del poeta manduriano. Gino Rizzo però ricorda che mentre il Bruni seppe pur imporre infine la propria esuberante e precoce personalità con la volontà di essere al centro di iniziative culturali46, il Donno invece apparve restio a rispondere alle sollecitazioni mondane napoletane. Del resto la scelta di Napoli sembrò orientata da non chiarite vicende autobiografiche47: l’approdo nella capitale meridionale rappresentava l’occasione per manifestare una sicura vocazione all’esercizio poetico, ma consentiva anche di puntare alla decantazione delle personali vicende

45

Ivi, p. 436. Ivi, p. 18. 47 Ibidem. 46

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manduriane, in consequenziale e progressiva chiarificazione di scelte esistenziali e professionali, per successivi e più gratificanti esiti. L’improvvisa partenza dalla città natale sembra suggerire l’insorgenza di «una traumatica frattura, risanata soltanto al momento del tardo e definitivo ritorno a Manduria»48: riferibili a taluni concittadini, «falsi aspetti protervi» e ancor più «dure fronti inumane» sono espressioni che suggeriscono una relazione travagliata e angosciante con il nativo borgo, nella drammaticità di un distacco pesantemente caratterizzato da una non meglio precisata ostilità di taluni conterranei49. Emblematico a tal riguardo è l’idillio CXXXVII. La Partenza 50, a livello metrico costituito da endecasillabi e settenari, in tredici strofe, variabili per numero di versi, da un minimo di quattro a massimo venti; quasi sempre gli ultimi versi di ogni strofa sono endecasillabi a rima baciata. Con tali variazioni, il componimento è però ricco di note interpretabili in chiave autobiografica, sul tema della partenza dalla propria terra natale: «caro albergo gradito» è Manduria agli occhi del Donno, il quale pare accarezzare il natio loco con sentimenti di infantile tenerezza (dolce nido pregiato), non disgiunti da una vena emulativa per ambiziosi traguardi (alto arringo di gloria), in aura d’armonia nobile e rarefatta, quasi luogo sacro e rifugio (asilo illustre e chiaro), pur nel timore dell’irruenza di sorti avverse (ond’avea l’innocente alto riparo). Tuttavia ai versi 17-24 presto insorge l’apostrofe sferzante, segno del proprio disprezzo, contro i «malparlieri» assimilati ai serpenti anfibi velenosi, oggetto di universale rifiuto per la loro indegnità. Condannabili in nome di una superiore giustizia, con note sarcastiche nei loro confronti l’autore invoca una “pace” vissuta come bufera, caratterizzata dai giorni più tempestosi (a’ più ventosi autunni), dal freddo tormentoso e dal gelo più pungente e penetrante (rabbiosi inverni). CXXXVII. LA PARTENZA. IDILLIO […] Caro albergo gradito, dolce nido pregiato, aria pura e gentil tranquillo cielo, Da te lungi men vo, da te mi parto, a te mi tolgo, a Dio! Restiate voi,

48

Ivi, p. 19. D. De Angelis, Vita di Ferdinando Donno de Manduria, Cavalier di San Marco. All’Illustrissimo signore, Il Signor Apostolo Zeno, in Le vite de’ letterati salentini, cit., p. 174. 50 CXXXVII. La Partenza. Idillio. A Richiesta del Sig. Cavaliero Lucio Collalto, in G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 176-79. 49

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maledetti chelidri, in quella pace, che vivon l’onde a’ più ventosi autunni, che vivon l’Alpi a’ più rabbiosi inverni.

E ancora, ai versi 37-44, Donno non esita a enumerare gruppi di individui superbi e impudenti, affetti da doppiezza e grottesca mostruosità, come idre e centauri del malanimo, per l’ipocrisia, la maldicenza, la calunnia che essi praticano incessantemente; da loro il poeta prende ampie distanze, sino a deviare e “torcere” il proprio sentiero, sino alla svolta di vita: […] Frotte superbe, temerarie schiere, multiformi centauri, idre maligne, che col volto atterrite, col pensiero appestate, con la lingua ferite, con la bocca tonate, da voi torco il sentier del viver mio, da voi m’involo, a voi non dico a Dio.

Né minore rilievo hanno i versi 45-50 e 54-66, per enfatizzare e amplificare gli effetti perversi di tali degradati “personaggi”, subdoli maestri per lingue colorite dell’eloquenza, ma scellerate e miserrime per contegno e comportamenti: Falsi aspetti protervi, dure fronti inumane, scelerate cervici empie e superbe, temerari soghigni, alti sorrisi, più non vedrò né sentirò le destre d’oratorio color lingue maestre.

Il decoro del poeta e prima ancora la dignità dell’essere umano sembrano irreversibilmente feriti; qui di seguito l’invettiva del Donno raggiunge il livello più aspro e intenso, anche per un coinvolgimento emotivo di stati d’animo a stento contenibili, ma orientati verso la galleria catalogativa di mostruosità: […] E mentre altrove i’ vado, lungi da voi m’invio. Feritevi, ferite, mordetevi, mordete, sanguettole infernali,

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vipere maledette, tetriche anfesibene, veternose chimere, forsennate ceraste, aspidi velenosi; de le carni de l’un l’altro si pasca, e mentre more l’un, l’altro rinasca.

Infernali sanguisughe, terribili vipere, ripugnanti serpenti libici con testa a ciascuna estremità, terribili e fiaccanti mostri a testa di leon-capra e coda di drago, serpi cornute e camaleontiche, velenosi aspidi: l’identificazione di tali nefasti individui procede per accumulo enumerativo, metaforicamente in linea con le premesse barocche, come pinacoteca poetico-catalogativa di mostri, per i ributtanti e disgustosi attacchi non solo rivolti all’esterno (ferite, mordete), ma spesso tutti diretti e consumati all’interno della loro stretta cerchia (Feritevi, mordetevi); in una sorta di chiuso girone infernale, la violenza dei “divoranti” strali scagliati dall’uno contro l’altro sembra risolversi nel verso di sapore gnomico-sentenzioso: il feroce antropofagico pasto è l’unica garanzia di sopravvivenza per tali turpi individui (mentre more l’un, l’altro rinasca). Ancora non pago, dinanzi ai nuovi “cannibali”, il Donno insiste51: […] sepolcri di cadaveri spiranti, avelli d’immarcite ossa viventi, stalla di gente indomita, sfrenata, nido di fere Arpie, tana di catapulte, caverne di lëoni, spelonche di pantere, baratri di dragoni, burron d’inique fere, io vi sdegno, v’abborro e vi rifiuto, da voi men fuggo, a voi non dò saluto.

Il tono risente di immagini bibliche, tese a sorprendere e colpire più a fondo, in graduata rassegna pluriespositiva, proprio nella predicazione multipla del reale, di stampo religioso, ma in tal caso tutta elaborato sul versante zoomorfico, nella variazione progressivamente amplificata. Come cadaveri ambulanti, forme vuote di vita, tombe infracidite e scheletri in putrefazione, tali degradati individui trovano adeguata collocazione in stalle, in caverne, in 51

Ivi, p. 177, vv. 73-84.

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spelonche, in baratri e burroni, luoghi frequentati da bestie selvatiche e belve, da animali selvaggi e fiere sanguinarie, privi di ragione e di coscienza, propri di un mondo disumanato e belluino: se l’enumerazione risponde al gusto e alla poetica, pure non manca l’indice di un rovello e di un’inquietudine tutta personale. E la chiusa resta in linea con l’assunto dell’idillio52: Destrier, su via, t’appresta, ch’a felice camin n’invita il giorno; mordi il fren, scuoti il dorso, ergi la testa e con pronto voler sottentra al pondo. Fuggiam da questo libico terreno, ov’abbonda di morte empio veleno.

Insomma, dinanzi a una primordiale e giovanile condizione di serenità e di salubrità in piagge amiche, contigue alla nativa Manduria e decisive per l’affermazione della propria vocazione poetica (come ai vv. 90-91: «lidi odorati e sponde auree, serene, / là ’v’io solea co’ miei sospiri interni / riscaldar l’acque, impietosir l’arene»), il presente appare malfido e pericoloso, antitetico rispetto alle alte attese del giovane, a inibire ogni prospettiva di realizzazione e di gloria nella nativa Manduria. A dire il vero, fra molte virtù, il De Angelis pure imputava qualche difetto al Donno53: «Questo fu il sentire troppo altamente di se stesso, e più che ad un uomo saggio si convenìa. Di sé parlar solea con sentimento di molta altura, e degli altri con qualche disprezzo». Tuttavia da alcuni componimenti emerge la sensazione che il Donno avvertisse ancora i segni di comportamenti ostili o di discorsi malevoli, in danno della sua reputazione. Nel sonetto CXVII. Per la maledicenza 54 alita un amaro respiro, serpeggiano quasi sapori di malevolo retroscena in corrugamento autobiografico, pur su avvertibili istanze catalogatorie, per sorprendere e meravigliare con l’effusiva enumerazione amplificativa: CXVII. PER LA MALEDICENZA «Figlia di Morte e de l’istesso Averno fantasma, cieca larva, ombra animata, nottola oscura e d’atri artigli armata, negra compagna al tormentato inferno;

52

Ivi, p. 179, vv. 149-154. D. De Angelis, Vita di Ferdinando Donno de Manduria, in Le vite de’ letterati salentini, cit., p. 174. 54 CXVII. Per la maledicenza in G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 141. 53

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corvo sorto ne l’aria a gracchio eterno, tigre maligna in stranie selve nata, balena che tranguggi, orca affamata, che d’amaro velen pasci l’interno [...]

Spettro, essere verminoso, vuota apparenza, civetta tenebrosa violenta e rapace, nero volatile gracchiante rauco e molesto, tigre disumanata e belva del male, balena avida e vorace, orca bramosa di sangue, nella nera compagnia del tormentoso inferno: già nelle due quartine un semplice elenco di epiteti consegna un quadro di orrida, dolorosa repulsione, ma su sonore e sorprendenti variazioni. Dinanzi al terribile e deformante scenario, il Donno pare trovare una modulazione vitale proprio nella componente acustico-musicale delle allitterazioni insistite, con irti nessi consonantici in prevalenza di dentali e gutturali inframezzate da sibilanti, con vibrazioni anche stridule: l’insieme di tali sorgenti sonore, di tali suoni acuti e aspri diviene termine a quo, dal crescendo di sensazioni a un possibile scarto, al vertice di violenza prima del rasserenamento, per preparare la riscossa nelle successive terzine e segnalare a opera del Padre Giove la sconfitta definitiva della maldicenza, figlia di Morte. Risospinta nel più cupo inferno come nemica prima dell’umanità, senza più spargere veleni, a dire del Donno ormai vinta e immonda anche nella fuga, la maldicenza sembra destinata a lanciare dal belluino muso alte grida di sofferenza, nella superiorità della giustizia divina, esaltata dall’iperbole finale, con l’urlo penetrante e liberatorio anche per l’autore: [...] fuggi, fuggi la luce, esci dal mondo aversaria crudel, corri ne l’Orco nido d’inique, avelenate fere!». Giove sì disse; ed ella il piede immondo rivolse a fuga, e dal suo ceffo sporco grido mandò, che penetrò le sfere.

Tuttavia, accanto al presunto atteggiamento altezzoso del Donno, moralisticamente eccepito in alcuni repertori, emergono elementi nuovi in grado di arricchire il panorama storico-esistenziale della Manduria del poeta; è il caso di un altro significativo componimento, il poemetto in sestine CXXX. La Palma – Encomii del molto illustre Signore Bartolomeo Palmerini 55, già pubblicato dal Donno nella raccolta Poesia Lirica, sempre a Venezia, nel 1619 56

55 56

CXXX. La Palma in G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., pp. 168-174. Ivi, p. 20.

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e interamente rifluito nella Musa Lirica. L’encomio si sviluppa e poi si risolve in un’ampia descrizione dell’impresa del Palmerini (tre piante di palma poste su un monte, con «un braccio forte» a scagliarsi contro la morte), in un contesto fortemente simbolico, sin dalla prima strofa (vv. 1-6): CXXX. LA PALMA Sorge in campo di gloria, in tre distinto, emulo de le stelle, altero monte, che d’argini immortali intorno cinto oltr’il confin de l’aria erge la fronte; gli sta su l’erte cime un braccio forte in atto altier di fulminar la Morte.

E a seguire, accanto all’indicazione di alberi, erbe e arbusti vari (abete, salice, vite selvatica, edera, felce, lentisco, ginestra, tamerice), tutta la prima parte vive sui nessi palma-pianta di gloria e sacro nome-eternità, intrecciati a bellezza-altezza, come ai vv. 43-48 57: L’alta cima del monte alza e sostiene tre piante, ond’a la Gloria orna le chiome a cui spiran d’intorno aure serene ed a l’eternità sacrato il nome; piante che con sembianze altere e belle s’ergono sovra ’l ciel, passan le stelle.

L’esigenza enumerativo-catalogatoria punta poi alla fauna simbolica, a rappresentare una variopinta, emblematizzata mostra ornitologica in canora modulazione di frequenza: uccelli melodiosi come sirene e cetre volanti, l’araba fenice dalle ali d’oro e porpora, l’aquila altera, il cigno corifeo, l’usignolo organista d’amor, il magico cardellino, la leggiadra allodola, l’azzurroverde lucherino, l’armonico tordo, il merlo in veste di «morbida notte» e la colomba di «morbida neve», sino al «musico» passero solitario, senza trascurare la tortora, alla quale dedica quattro sestine, tra le quali in particolare le seguenti58 (ai versi 169-180): Ferendo l’aria, impietosendo il cielo, così si duol l’errante tortorella.

57 58

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Ivi, p. 169. Ivi, p. 172.

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Quanto è pari il suo duolo al duol ch’io celo e mi distrae da questa parte in quella; ruttò nemica bocca, ed onda amara spargendo, mi staccò d’alma più cara. Che s’avrò grato cielo, esca söave, le Muse amiche e toccherò Parnasso, diluvierò dal sen tòsco sì grave, ch’entri nel ferro istesso e spetri il sasso. Cadrà, tramonterà da sua fierezza gente a mal dir sin da la cuna avezza.

La «maladetta Invidia» le ha tolto il compagno e la tortora, ormai vedova, chiede al cielo che il ruscello la privi dell’onda e che la terra non le fornisca più l’esca (vv. 167-68); mentre il volatile così si duole in languida mestizia, ormai vaneggiante e senza meta, il letterato ne percepisce l’amara sintonia, sente vicina la condizione, ne avverte la singolare comunanza e alla tortora umanizzata si “parifica”. Donno poeticamente svolge il percorso di identificazione e interviene utilizzando il topos letterario, nella trasfigurazione della propria sofferenza, mai immemore dell’onda amara e della nemica bocca, causa del doloroso distacco dall’alma più cara. Pare palpabile l’allusione alla donna amata, abbandonata in forza di eventi non singolarmente controllabili o per motivi esterni, necessari e obbliganti, ben racchiusi nel predicato ruttò riferito a nemici personali e ancor più nell’espressione gente a mal dir sin dalla cuna avvezza: medicamentosi in tal senso sono l’energia poetica, l’amicizia delle Muse e la vicinanza del Parnaso, vere cure efficaci per purificarsi d’ogni veleno e giungere persino a rompere la durezza dei sassi. In fin dei conti l’insistito riferimento palesa un disagio in progressiva storicizzazione, ma ancor vivo e presente tra le pieghe dell’animo, per moti di astio e di rancore non del tutto decantati. Le quaranta sestine però si chiudono con un senso di speranza: a distanza dai passaggi svolti tematicamente in termini di travaglio e sofferenza, i versi finali segnalano l’apertura a una nuova stagione, nell’aurea protezione e nel favore del Palmerini59: Ché s’un giorno otterrò dal ciel benegno spirto che possa enfiar tromba canora, torrò sue glorie a sì sublime segno, che l’ascolti l’Ibero, oda l’Aurora; e con più chiari e più sereni accenti l’ammiri il mondo a’ secoli vegnenti. 59

Ivi, p. 174.

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Si concludono così le rime del poemetto, nel clima di benevolenza dello spirito poetico e in attesa di significativi esiti lirici: essi possono condurre il manduriano a celebrare le imprese del Palmerini su gratificanti valori morali, per iperbole da occidente a oriente, sino all’Ebro di Spagna e alle sorgenti dell’Aurora, per illustri e sereni versi assunti a emblema di gloria imperitura. Forse proprio per le crescenti aspettative del Donno, la dimora partenopea non parve più in grado di soddisfarne le aspirazioni: a un certo punto Napoli divenne soltanto una tappa del suo itinerario storico-esistenziale e poetico, verso altri e ulteriori soggiorni, in quanto almeno «desideroso di vedere e apprendere nuove cose»60. Com’è noto, la figura “odiosamata” del Marino era spesso individuata o come termine polemico o come puntello agonistico per i letterati della penisola, schierati quasi «in ostili e contrapposti eserciti, in nome di quei difformi e antagonistici ideali critico-letterari che stavano determinando in quegli anni il profondo e tumultuoso rivolgimento primo secentesco: il rispetto-rifiuto delle regole aristoteliche, il confronto tra nuova e vecchia poesia, il rapporto tra antichi e moderni, le polemiche sul Marino e sul suo Adone»61. Maggiore cautela alitava a Napoli, dove la formazione tardorinascimentale del ricordato Manso accoglieva con cautela l’esplicito sperimentalismo filomariniano. Pure significativo appare il fervore artistico-figurativo napoletano in quel periodo, ma successivo alla «sosta di Michelangelo Merisi nella città partenopea, nel 1607»62, per la positiva provocazione della presenza dell’artista, per le scosse determinate dalla novità pittoriche caravaggesche e per il «sorgere di interessi figurativi di inusitata portata in seno ad un ambiente che, per lungo tempo s’era piuttosto appagato di osservare anziché condividere l’ansia operativa dei maggiori centri italiani»63. Per molti aspetti civili e socio-economici, Napoli sembrava legata a «quel processo di ritorno alla campagna che caratterizza la rifeudalizzazione della società napoletana tra Cinque e Seicento»64, anche rispetto al tradizionale motivo del contrasto città-campagna, carico spesso «di un’effettiva connotazione etica, polemicamente allusiva alla confusione di una città come Napoli, sottoposta in 60

D. De Angelis, Vita di Ferdinando Donno de Manduria, in Le vite de’ letterati salentini, cit, p. 175. 61 S. Errico, Le Guerre di Parnaso, a cura di Gino Rizzo, cit., p. XXIX. 62 R. Mormone, L’architettura a Napoli nell’età barocca, in Barocco europeo, Barocco italiano, Barocco salentino, Relazioni e comunicazioni del Congresso internazionale sul Barocco (Lecce e Terra d’Otranto, 21-24 settembre 1969), a cura di Pier Fausto Palumbo, Lecce, Centro di Studi Salentini, 1970, p. 183. 63 Ibidem. 64 A. Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, cit., pp. 167-68.

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quegli anni […] a una disordinata esplosione di urbanizzazione e alla pressione economica esercitata da gruppi di speculatori»65. Nondimeno irrinunciabili spinte e sollecitazioni all’allargamento e alla condivisione delle più recenti prospettive artistico-letterarie probabilmente mossero e accompagnarono l’autore manduriano, in vista di orizzonti mirati e non ancora vissuti. Agli occhi del Donno le città di Roma, Firenze, Genova, Milano e Venezia costituivano una sorta di sfida; in ambienti non ancora praticati e in occasioni di chiara importanza il salentino poteva sperimentare nuove e differenti soluzioni letterarie, dare prove della sua crescita culturale e avviarsi a un confrontoarricchimento con realtà ben diverse, anche sul piano civile e del governo locale. Il Donno probabilmente si attendeva un riconoscimento del suo valore, forse un risarcimento di passate sofferte vicende: dopo il robusto e significativo apprendistato napoletano, maturò quindi l’approdo a Venezia, «città libera ed erede dell’antica Roma, culla di nobili eroi»66: sulla laguna il Donno era sicuramente nel 1619 e lì pubblicò la prima raccolta poetica67 Poesia Lirica, a ben vedere titolo non particolarmente significativo e per molti aspetti anodino. L’opuscolo a Gino Rizzo parve «smilzo e gracile»68: forse lo stampatore Battista Ciotti preferì non rischiare con il poeta di Manduria, ancora poco inserito nell’ambiente veneziano, oppure proprio il Donno esitò a lanciarsi subito nel frequentato e arduo “agone poetico” con una ricca e articolata raccolta e optò a favore di un “saggio di poesia”, una prova dimostrativa, agile ma esemplare. Pure a sondaggio dei gusti veneziani in quel momento, l’opuscolo esplicitava l’ambizione del Donno di creare una solida e abbastanza ampia rete di solidarietà a riconoscimento delle sue “virtù” poetiche, per cui l’intendimento encomiastico ne caratterizzava la struttura, sia per la dedica e per il madrigale (Ch’in armoniche tempre) elogiativi, sia per le quarantasei sestine sull’impresa del Palmerini (come ricordato, tre alberi di palma su un monte). In tale assaggio poetico rientravano dodici «lavori industriati» o creazioni (undici componimenti poetici e una prosa): nell’ordine il madrigale Al 65

G. Distaso, Esempi di favola pastorale in area meridionale fra modelli di scrittura, polemiche letterarie ed echi parodici, in Teatro, Scena, Rappresentazione dal Quattrocento al Settecento, Atti del Convegno internazionale di studi (Lecce, 15-17 maggio 1997), a cura di Paola Andrioli, Giuseppe A. Camerino, Gino Rizzo, Paolo Viti, Galatina, Congedo, 2000, p. 246. 66 G. Rizzo, Dal Regno di Napoli alla Serenissima: mitografie veneziane secentesche, in La Serenissima e il Regno. Nel V Centenario dell’Arcadia di Iacopo Sannazaro, cit., p. 628. 67 G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 23. 68 Ivi, p. 60.

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molto illustre Sig. Bartolomeo Palmerini, seguito dal lungo poemetto in ottave Gli amori di Leandro ed Ero, suddiviso in due parti, che occupava oltre un terzo della raccolta; poi cinque madrigali (per La Palma-Encomii di B. Palmerini, da parte di Antonio Malvezzi, di Angelo Angelico, di Nicolò Erculiano, di Pietro Antonio Toniani e di Vittorio Pallavicino) e il poemetto in sestine Encomii Della Palma. Seguivano l’ode La Bella mora, la canzone sestina Al Leon Celeste contro il Rigor di Madonna Inferma e l’idillio L’Anniversario Amoroso; a chiudere la plaquette di 116 pagine, la prosa La Pittura dell’Inverno 69. In definitiva, per quanto smilza, la raccolta coniugava esigenze economico-editoriali con motivazioni di avallo critico-letterario e di rappresentanza socio-culturale, da un lato nel rispetto dell’interpretazione unitaria delle rime come libro-canzoniere70, dall’altro nella gerarchia della successione dei metri voluta dall’autore, per l’auspicata «forte consonanza tra l’autore rigenerato e i suoi lettori, pari a quella che esisteva un tempo, fra i lettori e il poeta innamorato»71; in tal senso il lavoro critico del poeta dava vita a «un libro in cui le varie forme metriche concorrevano a narrare la storia di un’esperienza ed educazione sentimentale ed emotiva»72. Curiosamente nella breve raccolta mancava la forma sonetto, per una scelta che appare consapevole, non tanto per segnalare un insistito fenomeno di deviazione-contrapposizione rispetto alla tradizione petrarcheggiante, ma per avviare un percorso di inserimento in quel solco a confronto-distinzione, in un vero e proprio itinerario di esibizione-dimostrazione di difficoltà tecniche affrontate con padronanza e sicurezza73; proprio la successione distintiva (un madrigale, un poemetto in ottave, cinque madrigali, un poemetto in sestine, l’ode La Bella mora, una canzone sestina e un idillio), con la netta prevalenza dei madrigali, dà il senso di un denominatore posto in vistosa attenzione, nella scia di un canone accettato a favore della struttura più breve, collocata in comparativa evidenza con gli impegnativi e ampiamente articolati componimenti lunghi. Interessante soprattutto appare il distintivo invito-convocazione di cinque autori a poetare sull’impresa del Palmerini, come ricorda Rizzo, momento particolare se non insolito: «singolare collettiva prova di emulazione a più voci, [con] cinque madrigali sullo stesso argomento di Antonio Malvezzi74,

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Ibidem. N. Cannata, Il canzoniere a stampa (1470-1530), Roma, Bagatto, 2000, p. 91. 71 M. Santagata, I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca, Bologna, il Mulino, 1993 p. 110. 72 N. Cannata, Il canzoniere a stampa (1470-1530), cit., p. 106. 73 M. Santagata, Dal sonetto al Canzoniere, Padova, Liviana, 1979, p. 31. 74 G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 443. 70

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Angelo Angelico75, Nicolò Erculiano, Pietro Antonio Toniani76, Vittorio Pallavicino»77. Il confronto-tenzone incuriosisce, per analogie modulate come di seguito si può appurare: CXXXII. DEL SIG. NICOLÒ ERCULIANO IN LODE DELLA «PALMA» O felice, o leggiadra immortal pianta, cui sparge il Ciel Motore di ruggiada immortal canoro umore, sorgi e cresci feconda in musico terreno, aria gioconda, spiega e distendi in glorïoso stelo le radici nel centro e ’l capo al cielo, ché verrà tempo pur che ’l biondo dio, tratto da gli astri a l’immortal tuo nome, de le tue frondi intreccerà le chiome.

L’Erculiano risolveva l’iniziale vocativo alla palma nell’esaltazione dell’identificazione rugiada immortale-umore canoro, per trasfigurare la pianta celebrata in sinestetica relazione tattile-uditiva, su un terreno acconcio, humus appropriato per accenti musicali e salubrità d’atmosfera sino alla verticalità della gloria, iperbolicamente pronta a toccare il cielo, ma ben radicata nel cuore della terra, in grado di incorniciare delle palmizie frondi le chiome del dio del sole. CXXXIII. DEL SIGNOR VITTORIO PALLAVICINO PER LA MEDESIMA Questa leggiadra pianta, ch’a l’altezza del ciel sorgendo altera par che s’inalzi a sostener la sfera, è rampollo di gloria,

75 Ibidem. F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. II, libro I, Milano, Francesco Agnelli, 1741, pp. 294 e 374. 76 A. Gabriello di Santa Maria, Biblioteca e storia di quegli scrittori così della città come del territorio di Vicenza, Vicenza, per G.B. Vendramin Mosca, 1782, vol. VI, pp. 14749. Vicentino, nel 1616, presso Domenico Amadio, nella sua città Pietro Antonio Toniani pubblicò Floriano il fido tragicomedia pastorale, dedicata al «molto illustre sig. conte Leonardo Trissino»; nonché sempre in Vicenza, appresso Francesco Grossi, stampatore degli Accademici Olimpici, nel 1614, La Theosena tragedia dedicata «al molto illustre signor Gualdinello Colze» e nel 1622 La Danae. Idillio con Sonetti amorosi: cfr. F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. II, libro I, cit., p. 300. 77 G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 443.

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è soggetto di storia, che, spiegando i suoi rami alti immortali, con l’alloro gareggia, e, sormontando a glorïosa meta, fassi eterna al cantar d’alto poeta.

Maggiormente cadenzato sui nessi gloria-storia, in epica emulazione con l’alloro, il componimento del Pallavicino celebra la palma sostegno del mondo, capace di raggiungere le mete più esaltanti con il canto della poesia. CXXXIV. DEL SIG. PIETRO ANTONIO TONIANI PER LA MEDESIMA Tanto sublime più, quanto più oppressa sorgea la palma antica. non d’alt[r]a fronda che del lauro amica; con reciproco onor oggi s’appressa a la palma l’alloro, ché l’una è da cantar, l’altro è canoro.

Anche nel Toniani la stretta corrispondenza lauro-palma si riallaccia alla consolidata tradizione letteraria, nella metamorfica diversificazione canorobotanico-musicale, per cui la palma di Palmerini è da immortalare poeticamente, mentre tra le altre piante l’alloro è segno distintivo della riconosciuta forza poetica. Ancora a confronto, nel successivo componimento subito l’incipit d’impronta epicizzante si coniuga con l’esibito topos modestiae (vorria dir, ma non osa) e caratterizza il rapido svolgimento in cui il vicentino Michele Angelo Angelico78 intende esprimere i sovrumani pregi del dedicatario, oggetto di omaggi e gratificazioni da parte del cielo prodigo e disponibile, per il dono di virtù tali che ancor più emergono nelle difficoltà e nell’oppressione. CXXXV. DEL SIG. ANGELO ANGELICO PER LA MEDESIMA O fronde glorïosa, premio immortal de’ più famosi eroi, vorrìa dir, ma non osa, questa mia lingua i sommi pregi tuoi, ché langue a peso cos’immenso e grave;

78 Cfr. M. Muraro, Il Tempio votivo di Santa Maria della Salute in un poema del Seicento, in «Ateneo Veneto», genn.-dic. 1973, XI, pp. 87-119; F.S. Quadrio Della storia e della ragione d’ogni poesia, cit., pp. 294 e 374.

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e tal virtù non have qual fu del ciel cortese a te concessa, d’ergersi più, quanto più viene oppressa.

Nel Malvezzi invece l’elogio passa attraverso il riconoscimento del valore del Donno, immaginoso poeta (vago usignolo), appoggiato sul tronco della palma, sintesi di onore e immortalità. La serie degli interrogativi retorici (ond’il canto apprendesti? Onde lo stil traesti?) è funzionale al tono encomiastico nei confronti del poeta e del suo patronus, per l’allettamento del canto e per peculiare incisività dello stile, in vera forza ispiratrice di provenienza celeste: CXXXVI. DEL SIG. ANTONIO MALVEZZI PER LA MEDESIMA Donno, vago ussignolo ch’in albero immortal, pianta d’onore, sciogli armonici accenti, alto tenore, ond’il canto apprendesti? Onde lo stil träesti? Da qual cerchio stellante o rota eterna nel tuo musico sen spirto s’interna, che col suo canto alletta e col suo stil säetta?

Epigrammatica la chiusa in onore della palma, pianta pregiata e di gran lunga superiore, resa sfera armonica dal valore poetico e dalla dolcezza del canto di Ferdinando Donno; nella plastica idea-rappresentazione l’elemento botanico si metamorfizza verso la perfetta tridimensionalità geometrico-musicale, per il tramite del metaforico rapporto poeta salentino-mitico cantore zoomorfico, in cui l’usignolo79 richiama all’unisono i classici e il Marino del 1602, per implicita emulazione: «O pianta illustre, altera, / fatta d’augel canoro musica sfera». In fin dei conti agile, ma esemplare, la silloge sembrava rispondere a una strategia precisa, studiata sin dall’arrivo in laguna, o forse preparata dagli ultimi tempi di Napoli: innanzitutto la breve raccolta destava curiosità e creava aspettative, poi proponeva la figura del Donno all’attenzione degli ambienti letterari e ne rafforzava il prestigio culturale in forza di consolidate e nuove

79 Giovan Battista Marino. La Lira, in ATLI. Archivio Tematico della Lirica Italiana, a cura di Ottavio Besomi, Janina Hauser, Giovanni Sopranzi, Hildesheim-Zurich-New York, Georg Olms, 1991, II parte, p. 461 (33,1).

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amicizie poetiche, emulativamente coinvolte; infine lo segnalava come autore significativo e affidabile agli occhi della nobiltà e della classe dirigente lagunare, per convergenti interessi civili e culturali. La dedica Al molto illustre Signore il Sig. Bartolomeo Palmerini, Suo Signore Colendissimo era datata «Di Venezia il 1 agosto 1619»80 e il Donno parlava dei suoi componimenti come di «lavori poetici industriati più tosto per mio diporto e trattenimento che per ambizion di lode e per disegno di gloria». Immediatamente a seguire, nella dedica incuriosisce soprattutto l’ampia similitudine utilizzata dal poeta a motivazione e giustificazione della pubblicazione della raccolta 81: ho voluto osservare quella guisa di nuotator poco esperto, che voglioso di fendere il vasto de l’ampio mare, giunge su le rive arenose, depone su verde cespo gli arnesi, s’attacca a vicino tronco, immerge timoroso le membra e con mani e piedi dibattendo il seno de l’acque, se dall’applauso de gli astanti acquisterà spirto d’animo franco, disciorrà la vita dal nodo, e con sicura franchezza cacciandosi per l’ondosa Anfitrite, resterà possessore delle marine delizie.

Così la prima parte della lettera dedicatoria introduce la tematica del mare periglioso-impegnativo agone, oggetto di trattazione del poemetto Gli amori di Leandro ed Ero, in termini parafrastico-simbolici, non estranei a elementi psicologico-allegorizzanti, su volute metaforiche: comporre poesia significa sottoporsi a soffi contrastanti, al vento della maldicenza da sud, la sferza della denigrazione da nord; al primaverile ponente per le lusinghe, per la compiacenza invece allo sciroccoso volturno, al cauro-maestrale (Coro) per l’impetuosa arroganza, alla fredda superbia per la tramontana: Io, che qual mergo palustre ho sempre del poetico mare abitato le sponde e so molto bene come l’agita l’Austro della Maladicenza, il Borea del Detrarre, il Favonio dell’Allettare, il Volturno del Compiacere, il Coro della Iattanza e l’Aquilone della Superbia, so quali perigli v’insorgono, muggiti ch’atterriscono, latrati che sgomentano, procelle che sommergono […]; volendo distogliere dall’Erebo delle tenebre e dare al cielo della luce alcune mie industrie poetiche, che nel timido covil del timore insin adesso s’annidano, e dovendo entrare in ogni modo in sì pericoloso e flutteggiante steccato, dubito non girne come il mio Leandro ed Ero, sommerso per man d’Amore nell’acque dell’Ellesponto, ma nel profondo del vituperio per mano di sempiterno rossore.

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G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 23. Ivi, p. 58.

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Dinamismo inventivo e ingegnosa costruzione concorrono all’esordio lirico, nella decisione di dare alle stampe le sue industrie poetiche, pur nel timore di rimanere sommerso non dal vivo desiderio d’amore, come Leandro nell’Ellesponto, ma da giudizi disonorevoli e dalla vergogna che provoca perenne rossore. Nella prefazione invece Innocenzo de’ Marini pare voler spiegare e giustificare l’esiguo numero di componimenti come estrapolazione di una più articolata raccolta in preparazione, dal titolo L’orto di Pindo (raccolta e titolo a dire il vero senza ulteriori riscontri); il de’ Marini così esordiva82: Incominciano ad avere la vita nella luce del mondo i leggiadri componimenti del Sig. Ferdinando di Donno, conosciuto già dalla maggior parte d’Italia, che tra’ moderni scrittori di lirica poesia merita quel grado d’onore, che qualcuni invidiosi forse della sua lode non stimano. Che se finora n’è gito tra ’l manto del suo silenzio, circonvallato dagli argine della sua modestia, affrenato e ristretto dal timor che i suoi componimenti non fussero per piacere al mondo, adesso persuaso da molti, che molto degni stimano gli suoi scritti, molestato più dallo stimolo degli amici che da quel della propria gloria, ha voluto più tosto dar loro arra di buona volontà e trattenerli con questi pochi che non che soddisfare al proprio volere.

Per il Donno, tra il mantello del suo silenzio e gli argini della sua modestia eccepiti dal prefatore, la raccolta rappresentava una sorta di caparra, una gustosa anticipazione e il pegno di un proficuo e più completo impegno successivo83: […] Quanto il detto Signor Di Donno sia ingenioso nell’invenzione, concettoso nel dire, candido nella elocuzione, dolce e placido nel suo stile, si potrà già comprendere in parte da questi pochi componimenti […]. Godete per ora queste sue primizie poetiche ed aspettate da sì pellegrino spirto molte piacevolezze non tanto sciocche ed insipide che ciaschedun non l’ammiri e non le dia applauso di lode.

Nondimeno già in tale più breve silloge, esile ma elegante, il Donno inseriva componimenti non privi di cupa immaginazione, talora segnati dal timore di atteggiamenti ostili e calunniosi o spesso caratterizzati da stati d’animo irrisolti, comunque vibrati e percorsi da nervature spigolose, come ricorda

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Ivi, p. 59. Ivi, p. 60.

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Rizzo, «su situazioni poetiche tese e stranianti»84. Interessante in tal senso il citato poemetto in ottave CXXIX. Gli amori di Leandro ed Ero, sulla nota vicenda dei due giovani85 del mito greco, in drammatico svolgimento sulle due sponde dell’odierno stretto dei Dardanelli, da una parte la città di Leandro, Abido, sulla costa asiatica, dall’altra Sesto, città di Ero, sacerdotessa di Afrodite, consacrata alla dea e non libera di sposarsi. Com’è noto, per tenere segreta la relazione, ogni notte Leandro attraversava a nuoto lo stretto, guidato nell’oscurità dalla lucerna86 posta da Ero alla finestra della torre in cui viveva87. Rispetto agli archetipi di Ovidio (Eroidi, XVIII-XIX)88 e di Museo (epillio Ero e Leandro, vv. 1-343)89, il Donno privilegia la narrazione bipola84

Ibidem. Ivi, I parte, pp. 150-58; E. Malcovati, Museo, Ero, Leandro: testo critico, traduzione e commento, Milano, Istituto editoriale Italiano, 1947, in particolare p. XVII. Dell’epillio di Museo Enrica Malcovati ricorda un rifacimento in tre canti in ottava rima, pubblicato a Vicenza nel 1617 a opera di un Pomponio Montanaro, «accademico olimpico». Cfr. anche Le Eroidi. Traduzione di G. Leto, Torino, Einaudi, 1966 («Collezione di poesia»), pp. 285. 86 Museo, Ero e Leandro, a cura di Guido Paduano, Venezia, Marsilio 1994, p. 11: «la lampada amorosa aveva assunto un ruolo di primo piano [...] solidale alla metafora delle fiamme d’amore». 87 Musée, Héro et Léandre, par Pierre Orsini, Paris, Société d’Édition «Les Belles Lettres», 1968, p. X: «L’histoire de l’amant qui traverse un bras de mer pour rejoindre sa bien-aimèe et qui meurt dans cette aventure appartient à un folklore très ancien». [La storia dell’amante che attraversa un braccio di mare per raggiungere la sua amata e che muore in questa avventura appartiene a un mito molto antico: trad. it. M. Stefania Giordano]. Si narra che Byron per verificare l’autenticità della narrazione abbia percorso a nuoto l’Ellesponto, come avrebbe fatto Leandro: ivi, p. XXX. 88 Cfr. P. Ovidii Nasonis, Epistulae Heroidum, a cura di Alessandro Barchiesi, Firenze, Le Monnier, 1992, pp. 15-41, spec. p. 18; P. Ovidi Nasonis, Heroides, Hildesheim, Georg Olms, 1967, pp. 131-38 e 455-57. Cfr. D. Dalla Valle, Dalle Heroides di Ovidio alle lettere eroiche in Francia nel XVI e XVII secolo, in «Studi francesi», 119, 1996, pp. 307-16: «Il collegamento con la moda delle Eroidi è sempre evidente, ma meno esplicito; dal modello ovidiano è stato colto il riferimento alla mitologia e l’argomento amoroso; ma poi dalla mitologia […] alla letteratura moderna da una parte e alla storia dall’altra; inoltre la dimensione amorosa ha cominciato ad essere manipolata […]». 89 Musée, Héro et Léandre, cit., p. VI: l’autore Museo è noto con l’epiteto di grámmatikóv, come studioso di critica e di edizione di testi, per tematiche e stile sicuramente influenzato da Nonno di Panopoli. Secondo E. Malcovati, Museo, Ero, Leandro, cit., p. XVIII, l’epillio di Museo è «ultima rosa del declinante giardino della poesia greca», ma una delle prime impresse a stampa all’inizio del Rinascimento da Aldo Manuzio in Venezia. Cfr. anche Museo, Ero e Leandro, a cura di Luciano Migotto, edizione con testo greco a fronte, Pordenone, Studio Tesi, 1992, pp. XLVIII-58. Di Francesco Xanto Avelli da Rovigo (1487 ca – 1542) vale ricordare la notevole maiolica Ero e Leandro datata 1540 e firmata sul verso; in letteratura inglese la storia di Marlowe (1564-1593) si conclude col felice amplesso dei due amanti: cfr. P. Ovidi Nasonis, Heroides, cit., p. 457. 85

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re, affine piuttosto al precedente ovidiano, mentre richiama il poeta greco del V secolo per la descrizione in visione diretta della morte dei due innamorati. La struttura binaria di Ovidio garantisce approcci di approfondimento psicologico, quasi per aprire nuove finestre su storie già compiute, su analogie e affinità, avvertiti come consentanei con Ero e Leandro: «i temi dell’assenza, della separazione, della lontananza creano situazioni di transfert emotivi melodrammaticamente eccepiti e gestualmente tesi»90. È noto il cenno dantesco a Leandro in Purgatorio XXVIII 91, con il divin poeta dinanzi a Matelda, ma il precedente non pare toccare o interessare Donno, per il proposito tipicamente medievale del pellegrino della Commedia di connotare l’argomento sia con riferimenti mitologici della tradizione classica sia con richiami biblici, tutti inseriti però in una “storia sacra”: «[…] Tre passi ci facea il fiume lontani; / ma Elesponto, là ’ve passò Serse, / ancora freno a tutti orgogli umani, / più odio da Leandro non sofferse / per mareggiare intra Sesto e Abido, / che qual da me perch’allor non s’aperse». Com’è noto, in Dante il mito di Ero e Leandro «viene assunto non a rappresentazione dolente di un dramma di amore, ma come esempio, anche questo da collocare accanto all’esempio di Francesca da Rimini, che l’amore, ove sia voluto e vissuto come un assoluto, costituisce una violazione della legge divina»92. Invece il Donno pare orientato decisamente verso l’analisi della sensibilità e dei moti interiori, intus et in cute e non intacca il valore emblematico del mito con impegnative sovrapposizioni d’impronta controriformistica, se mai ne rilancia il significato in imitazione-emulazione, per segnalare il senso fatale delle spinte alla parabola finale, avvertite come profonde e irresistibili. Spesso le ottave sono affiancate da brevi annotazioni didascaliche a margine, sulla base di precedenti mariniani: anche se per Marino, in alcuni sonetti, la didascalia diviene «elemento chiave dell’intera struttura con un preciso ruolo narrativo-iconografico»93, per Donno le didascalie sono guida e corrimano dell’articolata narrazione, in contrappunto di particolari momenti tensivi o di contrastati stati d’animo, in dinamica accelerazione o in pose di caratterizzante gestualità. In tal senso scarto e deviazione appaiono più frequenti

90

G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 23. Vv. 70-75. 92 Cfr. La Divina Commedia. Annotata e commentata da Tommaso Di Salvo, Bologna, Zanichelli, 1993, Purgatorio, p. 531. E. Malato, Dante, in Storia della Letteratura Italiana. Dalle Origini a Dante, vol. 2, cit., p. 1009. 93 M.C. Cabani, I sonetti polifemici di Marino (Boscherecce, 65-88), in Studi di letteratura italiana. Per Vitilio Masiello, t. I, Bari, Laterza, 2006, p. 683. 91

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nella Parte Seconda di quarantasei ottave, caratterizzata dalla prospettiva di Ero; invece nella Parte Prima di quaranta ottave emerge il punto di vista di Leandro, nel progressivo dipanarsi della vicenda; subito ai vv. 9-16 la Descrizione notturna introduce la figura dell’innamorato, «bel garzon d’Abido» dal cuore ferito e lacrimoso: […] quando su l’ellespontiche rivere giunge notturno il bel garzon d’Abido, stral ha nel cor che lo tormenta e fere, fiamm’ha nel sen ch’arde l’arene e ’l lido; a l’affanno del cor par ch’egli pere, a l’arsura del sen dà più d’un grido; con Amor si querela e in ogni canto sparge da gli occhi umor d’eterno pianto.

Come si può notare, la trasformazione della fabula da narrazione-descrizione in dramma-rappresentazione è avvertibile soprattutto in alcune strofe, ma non di rado si può cogliere la mutazione «dei nuclei narrativi in figure retoriche, le quali assurgono quindi al ruolo di modelli generativi del testo»94. Si intravede in tal senso lo svolgimento della vicenda tragica come concatenazione di scene-quadri, come «dramma di contrarietà concordate»95, ma nel tempo dominante del presente astorico, indagine nell’attualizzazione di una vicenda mitica riproposta come ritorno di attualità. Con un senso di tragico palcoscenico, ai vv. 35-40 la tensione emotiva trova sbocco nell’apostrofe al mare, assimilato a una ruota avversaria, per il suo moto ostruzionistico, tra «martirio eterno» e «mobile inferno»: «O de l’afflitto cor rota aversaria, ch’in liquido convesso il fai girare; mobile inferno, ov’Amor cangia e varia mille doglie in un punto aspre ed amare; martirio eterno, ove con pena ria sente eterno morir l’anima mia; […]

94

P. Frare, Poetiche del Barocco, in I Capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco, cit., p. 44. 95 Cfr. F.F. Frugoni, Discorso critico intorno alla poesia drammatica intitolato all’eminenza reverendissima del signor cardinale Giovanni Delfino patriarca di Aquileia, in Id., L’Epulone. Opera melodrammatica esposta con le prose morali-critiche, Venezia, Combi e La Noú, 1675, p. 181.

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Ai vv. 16-24, però nella descrizione della Marina tempesta, si manifesta «la tendenza a conformarsi in pluralità», già presente nel petrarchismo e poi ereditata dal barocchismo96, un mare nel mare, onda su onda, flutti su flutti, in propagazione di sofferenza, come la penosa condizione dell’innamorato: Volge lo sguardo ov’in tempesta interna freme il mar, ferve l’onda e bolle il flutto, ov’ogni cupa e liquida caverna commove un mar nel mare e trema tutto; mira com’il gran moto i flutti alterna e gli dà formidabile ributto, e com’onda sovr’onda al lido viene, imitando il tenor de le sue pene.

Fuori dal tempo storicizzato, traslati e acutezze sembrano costruire un ponte tra poetica e retorica, ma l’elocutio accelera sull’inventio; se mai il corpo a corpo del poeta con il vero indugia sul verosimile poetico, «non più quello del vero (logico) e/o del verosimile (retorico)»97, con lo sguardo-limite al segno del persuasivo, in nome della meraviglia. Dal reale all’immaginoso, come ai vv. 57-64: a umiliazione del maestrale (scorno di Coro) e a vergogna del libeccio (onta di Noto), con l’auspicio di un freno alle temibili onde, Leandro immagina di vincere la tempesta e di raggiungere la sua donna, per bearsi nel bel tempo della sua immagine solare, pronta a rivelarsi veramente un bene suo e del cielo: Però raffrena il formidabil moto, o più bel che turbato a gli occhi miei, sì ch’a scorno di Coro, onta di Noto, a più bel ciel l’anima mia si bèi, e per liquida via passando a nuoto, porti di tue tempeste alti trofei, e giunga, ov’in sereno, altero volto il mio ben sembra un sole in cielo accolto».

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D. Alonso, La poesia del Petrarca e il Petrarchismo (Mondo estetico della pluralità), in «Lettere italiane», XI, 1959, pp. 277-319 specialmente p. 307, poi in Saggio di metodi e limiti stilistici, Bologna, il Mulino, 1965, pp. 305-58; cfr. G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 438. 97 P. Frare, Poetiche del Barocco, in I Capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco, cit., p. 52.

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Perciò ai vv. 65-72 quando «scorge la face di Ero in su la rocca», pur con il cuore punto da acuminati dardi (alte quadrella), Leandro ben riconosce il segnale della sua amata: Così dicendo, indrizza il guardo e vede su i margini di Sesto altera face, ch’in rapidi baleni il cor gli fiede e ’n fulminea virtù l’anima sface; a cui drizzando il troppo ardito piede, s’arde di nova fiamma e non ha pace; e punto il cor di fere, alte quadrella, sa ben chi gli dà segno e chi l’appella.

Oggetto della poesia diviene cosi il «credibile meraviglioso», sulla linea Tasso-Marino, ma in Donno con la peculiarità onirico-persecutoria di numerosi componimenti. Nel giro di alcune strofe del poemetto, via via più precipite s’intravede la catastrofe finale, ai vv. 257-264 annunciata dalla didascalia (nasce impetuosa tempesta e s’estingue la face). Per quante preghiere l’innamorato offra a Eolo re dei venti, le impetuose masse d’aria spengono la lucerna, amorosa fiaccola d’oro (aurea face d’Amor); sommerso dal dolore più che dalle onde, Leandro pare tramutarsi in fuoco e dissolversi in lacrime: Ma perch’al re de’ venti i prieghi porge, a i venti, a l’aure, a l’aria i prieghi scioglie, e già dal centro ëolio omai risorge tempesta, che dal fondo il mar avoglie. L’aurea face d’Amor, ch’in alto sorge, spenta dal vento in vento si discioglie, ond’ei posto e sommerso in duol cotanto, si cangia in foco e si dissolve in pianto.

Resta l’ultima speranza di salvezza; ai vv. 281-288 appare chiaro il riferimento al mito di Arione, trasportato in Grecia sul dorso di un delfino, dalla schiena curvilinea e quasi di corteccia (lunata e cortegosa schiena). Nel consueto appoggio didascalico (Parla in aria Leandro e ’ndrizza il suo ragionare ad orca o balena che bramato soccorso gli rechi) si annuncia l’invocazione a uno spirito disponibile, incarnabile nel delfino, dotato di compassione e in grado di soccorrerlo, nell’intreccio di Fortuna e Amor; in forza del precedente consacrato da altro mito, entrambi forse ancora capaci di ascoltare le preghiere di Leandro:

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«Deh, s’egli è ver», dicea «ch’in creca arena spirto fu dato al mar di compassione, e ’n su lunata e cortegosa schiena fu porto altrove il lesbico Arïone, esca da questo abisso orca o balena e vegga ove Fortuna e Amor mi pone; ché di sua ferita spogliata e priva, darammi il dorso e sottrarrammi a riva.

Poeta barocco, il Donno si pone come atleta della regola ricevuta, per dirla alla Ungaretti, «una regola spinta al limite, una regola portata bruscamente a spezzarsi in quanto aveva di più saldo, nella sua verità che così poteva diventare un puro calcolo»98; ma l’immaginazione solo apparentemente sfrenata anche qui pare cercare una linea nella tradizione, riconducibile a un atto dell’intelletto sul principio di imitazione-emulazione. Legandosi strettamente al mito, la poesia del Donno ha «la possibilità di presentarsi come la sede di una verità iuxta propria principia, di una verità alogica che si accampa accanto – a volte in concorrenza – a quella scientifica e a quella filosofica»99. Nel caso di Leandro la verità è amara; vana è l’attesa di una salvezza, per l’insorgenza dello scoraggiamento causato dall’impeto della tempesta, dinanzi all’ormai insostenibile violenza delle onde (vv. 301-304): «la bocca al salso umor s’apre e spalanca, / ed ei ritorna in sé stupido, immoto; / e la copia de l’acque ita per entro / l’attragge al fondo e l’assorbisce al centro». Esausto e privo di ulteriore slancio, Leandro «mover le stanche membra a pena puote», nel disperato sforzo di tornare a galla. Il canto XIX dell’Adone 100 mariniano affronta lo stesso mito, per numerose strofe, con le parole di Anfitrite. Nel Donno il certame natatorio tra giovane atleta e pelago ribollente intriga proprio nella duplice prospettiva, per la sceneggiatura da sequenza cinetica e per il caleidoscopio di scene metamorfiche: il ballo delle immagini e delle figure diventa una strana, imprevedibile danza macabra, fino a quando le volute violente, irridenti del mare trasformano Leandro in tragica “palla” destinata alla morte. La serie dei particolari spinge a orientare la narrazione del mito verso la verisimiglianza analitica, annotata puntualmente per mobilità frastagliata, «dal dettaglio verisimile, inturgidito di senso, a un ritratto 98

G. Ungaretti, Secondo discorso su Leopardi [1950], in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, Milano, Mondadori, 1974, p. 453. 99 P. Frare, Poetiche del Barocco, in I Capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco, cit., p. 65. 100 G.B. Marino, Adone, a cura di Marzio Pieri, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 1977, pp. 575-85.

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tutto significante»101, e il poeta deve misurarsi con le parole e con la narratività tattile e palpabile: «la corposità, la materialità sfuggente ma sensibile, l’incognita reale cui si radica quell’altra ambiguità e fisicità del ‘testo’»102. L’ottava a chiusura della Parte Prima (vv. 312-320) però non offre più varchi a Leandro, perché il turbine lo travolge, ne avvolge le membra e lo riduce a un ammasso sferico, sotto le percosse delle onde impetuose; nella sorte avversa, per Leandro amante fedele è l’ultimo atto, il contrassegno dell’epilogo tragico, tra feretro e tomba: E di nuovo dal fondo egli sorgendo, pieno di morte si solleva a galla; quand’ecco impetüoso turbo orrendo fa da le membra sue volubil palla; e ’l gran seno de l’acque ei percotendo, nel lido lo tragitta a l’acque in spalla; e spirando il suo spirto amante e fido, feretro gli fu l’onda, e tomba il lido.

Come in altri poeti d’inizio secolo, l’interesse per le acutezze, per ogni tipo di “legamento”, a cominciare dalle metafore e dagli altri traslati, sembra ammettere l’incrinatura del sistema armonico dell’inventio, per cui anche il Donno sviluppa «in misura ipertrofica gli sforzi con cui ricomporre le parti, con il conseguente rilievo della dispositio»103. Non meno drammatica appare la Parte Seconda 104, tutta giocata sullo scavo psicologico della donna innamorata105; Ero è spesso percorsa da scosse di gelosia (v. 65: occhiuta gelata figlia d’Amor) o proiettata su sfondi onirico-allucinatori, sublimati da iperboli e metafore, come ai vv. 9-16:

101

M. Pieri, Marino e i marinisti, a Napoli di nuovo, Napoli, Guida, 1990, p. 19. Ivi, p. 20. 103 A. Battistini, Retoriche del Barocco, in I Capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco, cit., p. 72. 104 G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., pp. 158-67. 105 H. Jacobson, Ovid’s Heroides, Princeton, Princeton University Press, 1974, p. 330: «The Heroides are, after all, poetry and make abundant use of the resources of poetry: peculiar conception of myth, wit, poetic irony, ambiguity of language, imagery, metaphor, imaginative fancies and the like. These are not the stock in trade of the rhetorical exercises». [Traduz. mia: Le Eroidi sono dopo tutto poesia e fanno uso abbondante delle risorse della poesia: una peculiare concezione del mito, arguzia, ironia poetica, ambivalenza del liguaggio, immaginazione, metafora, risorse della fantasia e simili. Questi non sono un ammasso, una semplice giacenza nel commercio degli esercizi retorici]. 102

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Ero dolente in su la rocca ascesa, languìa qual chi di vita esce lontano; e da fiamma cocente arsa ed accesa, verso l’amato ciel volgesi in vano; né trovando al suo mal scampo o difesa, stringea di duol l’addolorata mano; e fatta di martir aspro ricetto, tenea negli occhi il mare, Etna nel petto.

L’indagine attentamente mobile, analitica, peculiare si protrae lungo numerose strofe, a dire una persuasiva e apparentemente nuda verità, a rappresentarla con un linguaggio che corrisponda al disordine dei sentimenti, per l’insorgenza di sospetti, emozioni contrastanti, timori e ansietà, come «lo sfumare reciproco fra illusione e realtà di una figura o di un evento d’amore nella prospettiva aperta dal giuoco ottico di uno specchio»106, in particolare ai vv. 81-88, con il turbamento e l’insoddisfazione d’amore, nella notte ribelle: Chi sa se, fatto altrui fiamma novella donna ti raccoglie in seno? e l’empia che m’affligge aspra procella rende lo stato altrui contento a pieno? e l’estinta d’amor notte rubella non sia stata ad altrui giorno sereno? e mentre egra spargea rapido pianto, altri giacea di te, mia vita, a canto?

L’interesse del poeta si appunta sulle «condizioni di spossessamento ed inquietudine che l’innamoramento produce e sulle modalità secondo cui questo avviene»107. L’ipotesi della nuova retorica serve non solo per eccitarle, piuttosto per esprimere le passioni, nelle sfaccettature dell’animo, nell’andirivieni di spinte contrapposte, nell’ondeggiare di ricordi e di sensazioni ora vaghi ora immediati, tra pause brevi e insorgenze insopprimibili. L’autore cioè crea un testo con l’intenzione di dare un senso di immediatezza e di spontaneità, ma nella sapiente costruzione delle impressioni che inseguono i pensieri del personaggio, e accelerano e rallentano e li riproducono direttamente sulla carta. Per realizzare tale intento però, egli si serve di una voluntas, una disposizione affettiva e intellettuale in un linguaggio preciso, secondo forme 106

G. Getto, Il Baroccco letterario in Italia, Milano, B. Mondadori, 2000, p. 88. R. Colombi, Tradizione letteraria e cultura spirituale in un romanzo del Seicento: L’Amorosa Clarice di Ferdinando Donno, in Il Canone e la Biblioteca, vol. I, cit., p. 314. 107

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letterarie ben determinate e un ordine (o meglio, di un disordine) più sapiente di quello che un primo lettore non riesca a vedere. In prima persona Ero realizza un processo di ricreazione soggettiva degli eventi narrati e riporta ogni realtà esterna alla persona dell’amante, per cui il Donno produce nel lettore una più intensa partecipazione al “farsi” del racconto, proprio per il monologo dell’eroina, che testimonia l’irriducibilità del suo punto di vista nei confronti del “mondo di fuori”. Moti dell’animo, segrete pieghe del cuore, tese corde affettive nel timore della perdita si rincorrono nei versi del Donno (97104), in lessemi coloristici (boschi di coralli), a seguire cromaticamente la gelosa stravaganza di Ero: Deh, chi sa pur se dentro i flutti stessi, nemica del mio ben, Dori t’ha colto e ’n boschi di coralli ondosi e spessi, quasi in erma prigion, ti tien accolto, sì ch’a sua voglia in te suoi lumi impressi, goda l’aria fatal del tuo bel volto, ed io, tenendo in aria il guardo affisso, vegga l’ombra infernal d’eterno abisso?

O ancora ai vv. 153-160, su avvertite altre false imaginazioni, la seriazione delle possibili amanti di Leandro si svolge per fascino evocativo-sonoro di scene mitologiche, allusive di ninfe e dee, senza confini tra terra e cielo: Però parmi veder Cimodocea, Clizia novella, al sol di tua bellezza, e Proto e Nape e Nice e Panopea baciar la conca e pianger di dolcezza. Non è tra ’l ciel de l’onde o ninfa o dea, che la tua non ammiri alta vaghezza, e non scovra in sereno, allegro volto, ch’entro al regno de l’acque è ’l cielo avolto.

Tuttavia s’apre il varco al triste presentimento (vv. 193-200), nella direzione del “fantastico” svolto oniricamente in piano soggettivo, suggerito e annunciato dall’annotazione (Sogno molesto di Ero), per cui la spiaggia amica e la sabbia dilettevole presto si tramutano in una crudele e feroce balena, in immagini di ombra e di fine imminente, per «una visione della vita fragile e fugace […] sull’ossessione lugubre e desolata della morte»108: 108

84

G. Getto, Il Barocco letterario in Italia, cit., p. 81.

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Mi tormenta il pensier, turba la mente formidabil terror d’iniqua sorte, ch’a punto a la passata ombra corrente rese le membra mie languide e smorte; parea che per venirne a me repente non sdegnassi incontrar disgrazia o morte, e che poi sul passar d’amica arena cruda ti divorasse empia balena [...]

La reiterazione di immagini ostili e terrificanti (vv. 201-208) pare precipitare su Ero, sino all’orribile cupo fondo in cui piomba l’amata, ormai preda del terrore, pronta a raffigurarsi nell’orribile incipiente rovina. Spogliata e privata del suo unico bene (vv. 209-216)109, ha un bisogno dirompente di ordine e comprensione; da un intento egocentrico a uno slancio solipsistico, si dispone a diventare nemica di se stessa, nel suicidio sacrificale, a ricomporre l’unione infranta con il suo “lui”, tra condizione straniata e monologo interiore: parea ch’io scapigliata in su la riva ti vedessi piombar nel cupo fondo, e che schiera di foche ingorda e schiva t’ingoiasser nel ventre orrido, immondo; parea ch’io del mio ben spogliata e priva, mi gettassi nel centro imo e profondo, sì che fatta inimica a gli occhi miei, finissi di mia vita i giorni rei.

Intravisto il corpo inerme dell’amato, Ero si precipita sulla riva. Le scene finali si caricano dei colori della tragedia, iconograficamente modulata sui precedenti del teatro classico, ma con l’uso consapevole di strumenti inusitati, stranianti, per cui l’eroe morto è prezioso mantello in irreparabile e definitivo danno, osservato ora come fastoso relitto e insieme solenne trofeo del sacrilego mare, sino alla topica metafora iperbolica (un lagrimoso Egeo)110 , come ai vv. 265-272: 109 Cfr. D. Dalla Valle, Dalle Heroides di Ovidio alle lettere eroiche, cit., p. 316; anche nel Donno l’eroina non crea un eroe del mito ma il suo personale eroe, «in quanto motore di un processo di ricerca interiore, di acquisizione di una lucidità psicologica individuale». 110 A proposito del motivo delle lacrime come «significante allentato» in testi del Seicento, interessante appare l’intervento di Bodini: «[…] Tutto fuorché delle vere e proprie lagrime. Si tratta ormai di lagrime già secche o non mai versate, di puri tropi a ciglio asciutto»; cfr. V. Bodini, Le lagrime barocche, in «Il Verri», 6, 1959, p. 27. Per l’ampia tematica in Luigi Tansillo, cfr. la voce curata da R. Cremante nel Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da Vittore Branca, Torino, UTET, 1986, vol. IV, pp. 239-42; sulle poesie del

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E giunta là dove l’estinto manto giace de l’empio mar pompa e trofeo, alza le voci in aria e straccia intanto le chiome e chiama il mar crudele e reo. Cade di tenerezza al morto a canto ed apre a gli occhi un lagrimoso Egeo, ed al grave rigor de le sue pene sospiran l’aure e piangono l’arene.

Per lei, icasticamente rappresentata ai vv. 345-352, come donna innamorata, il Donno pare privilegiare non la persuasività oratoria, ma il discorso differenziato, ricco di scarti e di inserti, a distanza dall’ordine schematico e dalla grande costruzione logico-argomentativa; sembra emergere un dibattito dei sentimenti, alterno, contradditorio, ondivago, mobile, come per seguire scatti, insorgenze, nella loro natura sfuggenti, appena definibili e subito da ridefinire, dinanzi alla legge suprema della fine. Nello spettacolo del dolore in cui acqua marina e sofferenza si confondono, l’amata e non più riamata Ero eleva il grido della sua disperata solitudine, senza alcuna possibilità di risarcimento, in un destino di estinzione avvertito come necessario e ineludibile, tra tensione e abbandono: E forza è ben ch’a disperato fine l’anima mia precipitosa vada, e ’n cibo di voraci orche marine la mia vita dogliosa immersa cada». E ’n questo dir squarciando il seno e ’l crine, corre nel mar per rüinosa strada e spintasi d’un salto a l’onde insane, piombò tra più profonde orride tane.

La parola del poeta pone il sigillo alla vicenda, che alla penultima strofa (vv. 353-360) si colora dei toni del lacrimevole e del patetico, nell’avvertita alternanza bipolare (un…l’altra, un…l’altra), per concludersi tra le ombre, nell’incontro dei due, ormai incorporeo e ultramondano, in cambiamento di status e definitiva metamorfosi, ma in «un clima di inesorabilità, di inevitabilità, di fatale certezza in un destino di morte»111:

Tansillo, cfr. anche G. Masi, La lirica e i trattati d’amore, p. 650 e F. Tateo, Poesia epica e didascalica in volgare, p. 805, entrambi in Verso il Manierismo. Storia della Letteratura Italiana, cit. 111 G. Getto, Il Baroccco letterario in Italia, cit., p. 82.

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Tal fu di Sesto in su l’algosa sponda l’infelice tenor de’ cari amanti: un nel gonfio de l’acque erra e s’affonda, l’altra va per l’umor de’ propri pianti; un ne ributta il mar, vomita l’onda, l’altra tramonta in grembo a’ flutti erranti; un spira l’alma e ’l cor dal chiuso interno, va l’altra ad incontrarlo entro l’inferno.

Così procede e termina, per rilevate risonanze simboliche, su ulteriori ripercussioni di “locuzione artificiosa”, con «il gusto di scambio fra natura e arte, fra realtà e illusione»112, verso la chiusa dissimulatoria della strofa conclusiva (ai vv. 361-368): Coppia fedel, che d’infedel Fortuna sentiste entro de l’alma i colpi rei, quanta entro Cocito onda s’aduna tutta per voi si sciolse in negri omei, dogliomi con le stelle e con la luna, che sì parche mostrarsi a’ versi miei, che privi di Natura, orbi de l’Arte, non vi ponno avivar tra queste carte.

A sancire l’epilogo, dinanzi ai malvagi colpi della Fortuna infedele, antitetica della ormai antonomastica coppia fedel, il poeta introduce il pianto e la compassione della radunata onda delle anime solidali, a sciogliere gemiti di cordoglio anche nel fiume dei regni inferi: capaci di amore infinito, nell’urto con la legge della fine, uomo e donna avvertono il tragico senso del limite e l’ombra incombente della morte a ghermire l’uomo, sino al compatimento (negri lamenti), con «un formidabile movimento concentrico che sembra imprigionare e annientare l’uomo»113. In ultimo il Donno pare dolersi con gli astri e con la luna, poco generosi a sostenere le sue strofe e indisponibili a elevarne la poesia: senza celesti qualità, i suoi versi appaiono privi di naturalezza e quasi ciechi, sprovvisti di energia artistica, incapaci di ravvivare i due innamorati e di restituirli alla vita. Il valore della poesia eternatrice si intreccia con il topos modestiae dell’autore, il quale pure palesa significative abilità versificatorie sulle prescelte modulazioni barocche di meraviglia-novità-sorpresa, in deformate realtà onirico-allucinatorie e stranianti situazioni psicolo112 113

Ivi, p. 224. Ivi, p. 82.

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gico-sentimentali. In tale ottica però la poesia riconquista una collocazione “alta”, «un grado elevato all’interno della scala dei saperi»114, pur su operazioni di verbalizzazione retorica e metamorfico-metaforica, non declinanti al falso, ma orientate al «probabile, possibile e universale»115, nell’allargamento-potenziamento del poetabile. Sotto la celeste e mondana volta del «mal d’amore»116, ampliato e amplificato sino a diventare “mare d’amore”, con la certezza dell’instabilità del reale, lo sperimentalismo del Donno percorreva la tastiera dei chiaroscurali intervalli di coscienza e delle condizioni oppressivostranianti, in psichica tensione, per toccare realtà differenti e per incrociare i “nuovi veri”. Qui il poeta riscrive il mito perché non ha bisogno di inventare storie nuove, ma intende affidare la sua originalità alla combinazione delle citazioni, agli incastri delle immagini, alle cornici adornate e ai passaggi singolari, inattesi, suggestivi, per una storia esemplare che molti già conoscono; come per Ovidio, è la concentrazione sull’effetto, «con le sue acutezze, i suoi giochi fonici, gli incastri verbali»117. Nel poemetto del Donno il mito pare tramutarsi in parabola, con fulminanti aperture di obiettivo sulla realtà, per il potere di ri-cantare e rendere visibile l’amore-passione in veste sorprendentemeraviglioso-galante: si insinua il valore dell’exemplum, anche nel Donno, «per potenziare al massimo le congiunzioni inusitate e strane e cogliere le opportunità che gli sono offerte dalla straordinaria permeabilità di cui generi e sottogeneri sono dotati»118. A conferma di tali permanenti e costitutivi tratti

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E. Bellini, Iacopo Mazzoni, Galileo e le bugie dei poeti, in Studi di letteratura italiana. Per Vitilio Masiello, t. I, a cura di Pasquale Guaragnella e Marco Santagata, RomaBari, Laterza, 2006, p. 706. 115 Ibidem. 116 G. Cipriani, Ero e Leandro. Un mare d’amore,Taranto, Editrice Mandese, 2007, p. 283; straordinaria la fortuna del mito di Ero e Leandro: accanto al citato Dante e a Petrarca (nel Trionfo d’amore), Cipriani si sofferma soprattutto su Bernardo Tasso e su Marino. Il primo, nel III libro delle Rime, riprende l’epillio di Museo per le esigenze dell’élite di corte, su riferimenti mitologici, con elementi patetici e struggenti, ma anche per misurarsi con il genere a lui congeniale del poemetto mitologico amoroso, senza svalutare la fonte, ma con la sua competenza classica in rapporto agli auctores. Nel poeta secentesco invece prevale la contaminazione di fonti letterarie e dei dipinti dell’epoca, sulla morte di Leandro e il suicidio di Ero; in particolare, in due componimenti della Galeria, secondo l’uso della eº kfrasiv, il poeta illustra il dipinto Leandro in mare di un pittore minore, Bernardino Poccetti, e quello di Pietro Paolo Rubens, Leandro morto tra le braccia delle Nereidi, pittori a loro volta influenzati dalle numerose illustrazioni dell’epillio di Museo. 117 M. Bettini, Le riscritture del mito, in La produzione del testo. Lo spazio letterario di Roma antica, direttori Guglielmo Cavallo, Paolo Fedeli, Andrea Giardina, Roma, Salerno editrice, (1989) 1993, p. 20. 118 M. Capucci, La narrativa del Seicento italiano, in I Capricci di Proteo, cit., p. 253.

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della sua opera letteraria, alcuni passaggi del citato romanzo L’Amorosa Clarice (Venezia, 1625) sottolineano scenari simili, quando la protagonista dalla sua gradita torre di San Pietro in Bevagna, nei pressi di Manduria, sogna il ritorno nella città sua patria. Il lungo sogno è fortemente emblematico e «acquista una sorprendente significatività in virtù della totale e assoluta identificazione dell’autore nel personaggio protagonista»119; allo sguardo inorridito si presentava una città sconvolta (mura […] di doglioso pallore, ruinate e scoscese; sprofondate voragini, Natura iniqua, dura effigie)120, ma soprattutto «molti e pur molti conoscenti» subivano una raccapricciante, angosciosa mutazione, la terribile metamorfosi da individui a masnada di formidabili mostri: «[…] chi, cangiato in orrido Satiro andava vagando per la città simile a qualunque baccante […] chi, mutato in rigido Fauno, rabbuffato mento teneva, cosperso di maligna canizie». In crescente climax, sino al grottescomostruoso, in metamorfosi allegorizzante: «[…] chi riteneva fronte di capro, chi sbadagliava ceffo di lupo, chi rotava occhi grifagni e chi stendeva collo di struzzo, chi pelle di ramarro vestiva, chi chioma di serpenti spandeva, chi ventre di pantera mostrava e chi cosce di dragone moveva»121. L’identificazione dell’autore nella protagonista del romanzo L’Amorosa Clarice consentiva al Donno di costruire immagini «oniriche mostruose, espressionisticamente tese», nel panorama di livido sconvolgimento dello scenario urbano, come «feroce corrispettivo di una truce e sinistra vendetta»122. Intrecciate a tali motivazioni, emergono però istanze di drammatizzazione per rappresentare il fondo oscuro dell’animo umano, in significazioni enigmatiche percorse da presenze allusive, da segni predicenti e da immagini zoomorfiche premonitrici, con profili sanguinolenti e figure malevoli, nella mancata o disarmonica connessione uomo-natura e nelle asimmetriche relazioni tra differenti realtà. In perplessità interrogativa, emerge la necessità di ricostruire un rapporto io-realtà, dalla disintegrazione123 alla reintegrazione, dalla frammentazione al doppio-speculare all’unificante sorpresa-meraviglia dell’intelletto. Anche il Bruni scrisse un componimento sui due giovani, la bella Ero e Leandro124, nella raccolta Le tre Grazie, volume com’è noto suddiviso in tre

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G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 21. F. Donno, L’Amorosa Clarice, VI, 10-18, cit., in G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 22. 121 Ibidem. 122 Ivi, p. 21. 123 Cfr. P. Guaragnella, Introduzione, in Tra antichi e moderni. Morale e retorica nel Seicento italiano, Lecce, Argo, 2003, pp. 11-12. 124 A. Bruni, Le Tre Gratie. Rime, Roma, appresso G. Facciotti,1630. 120

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libri, per Aglaia (poesie amorose), per Talia (rime eroiche) e per Eufrosina, terza Grazia (componimenti morali e sacri). Dopo la pubblicazione della prima edizione delle Epistole nel 1627 125, il senso della raccolta, gli abbinamenti e il titolo «erano spiegati dal Bruni in una lunga lettera All’Illustrissimo et Eccellentissimo Sig. Conte D. Lodovico San Martino d’Agliè, Ambasciatore dell’Altezza di Savoia in Roma, chiarificatrice pure della sua matura poetica, attestata dalla cospicua produzione di vario metro, stampata in tre libri»126. La favola di Leandro Mentre lume splendea d’eccelso tetto su la riva di Sesto, et era d’Ero, fatti remi le braccia, e nave il petto, fendea Leandro il mar spumante, e fiero: ma da torbido turbine guerrero, ne l’Eolia non più legato, e stretto, vide smorzar dal tempestoso Impero la stella amica in ver l’amato oggetto: et, ohimè, disse egli tremante, e fioco; del mio Faro la luce omai sparita more, pur morto avrò vivo il mio foco, spenta in altri la face, in me la vita.

Come si può notare, nel breve svolgimento del sonetto, il Bruni sunteggiava la vicenda del mito, su insistite similitudini e figure di corrispondenzaidentificazione (remi-braccia, nave-petto, lume d’Ero-stella amica, Faro-vita), sino all’epilogo finale. Del resto anche tra le Epistole eroiche, nella IV. Fiordispina a Bradamante, ai vv. 118-24, il manduriano riprendeva la vicenda, subito dopo i riferimenti all’amor infelice della siciliana Galatea per il giovane Aci, ucciso con un masso scagliato dallo spasimante geloso e rivale Polifemo («Colà dove in bellezza Aci fioria, / per amore, ad amore il cor rivolto, / già la sicana vergine languia; / ma i bei frutti d’amor ne’ fior d’un volto / godè, pria che restasse il bene amato / sotto un sasso crudel, morto e sepolto»); invece alla bella coppia delle due città sullo stretto ellespontico, il Bruni dedica la seguente sestina:

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Id., Epistole eroiche, cit., p. 59. Ibidem.

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Ero amò pur Leandro, onde lodato più va per lei de l’Ellesponto il grido, che per un ponte a i fasti altrui formato; ma ’l suo leggiadro notator d’Abido, su la patria abbracciò riva di Sesto, prima vivo nel sen, che absorto al lido.

Come si nota, prevale il topos della poesia eternatrice dell’amore e del “mal d’amore” in specie, con peculiari e insistite osservazioni, nella tematica prevalente e pressoché dominante, anche rispetto all’impresa bellica di Serse, invasore di Grecia dopo aver unito le due sponde con un ponte di barche. Per quanto sfortunato, l’amore di Leandro e di Ero lancia l’iperbole della testimonianza perenne, in grado di rendere inobliabile e immortale quel tratto di mare. Come già detto occorre almeno richiamare al confronto Giovan Battista Marino, il quale riscrive il mito nel XIX canto127 dell’Adone, e lo fa per bocca di Anfitrite, che ricorda la favola di Leandro morto in giovanissima età, paradigma della brevità dell’amore e della vanità della giovinezza128. Com’è noto, Marino nelle sue ottave riprende gli aspetti del mito più adattabili al gusto barocco, proprio lo scatenarsi della tempesta sul mare e l’audace traversata di Leandro, con la tragica conclusione, e vi aggiunge un finale, la trasformazione nel fiore, non presente nelle elegie ovidiane: con tale particolare Marino mostra chiara tensione emulativa nei confronti del poeta augusteo delle Metamorfosi, con il particolare della morte di Ero, presente nell’epillio di Museo, ma non nelle elegie ovidiane, su scelte in qualche misura coeve, per la lunga gestazione dell’Adone, se non proprio anticipate dal Donno. Nella sua interna legge costruttiva, la pratica mariniana è apparsa eversiva, o almeno svalutativa del nesso-causa effetto, con il gusto di “far girare” sempre comunque, anche a vuoto, i meccanismi diegetici, sino a «replicare i nuclei del racconto secondo una segreta pulsazione binaria»129. Se non pare agevole riconoscere la figura di un mago a rovescio, completo nei gesti rituali, ma senza alcun effetto consequenziale, il Marino è l’ideatore di un peculiare concerto, per cui «ciò che viene dopo rimpiazza quello che viene prima e lo svaluta e lo relativizza, sia duplicandolo con qualche modifica, sia negandogli un princi-

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G.B. Marino, L’Adone, edizione a cura di Marzio Pieri, cit., p. 581; M. Pieri, Canto XIX: La Sepoltura, in Lectura Marini. L’Adone letto e commentato, a cura di Francesco Guardiani, Toronto, Doverhouse, 1989, pp. 321-22. 128 G. Fulco, Giovan Battista Marino, in L’età Barocca. Storia della Letteratura italiana, cit., p. 634. 129 Ivi, p. 635.

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pio di causalità»130. Appare arduo convenire che sia un esecutore il quale finge di toccare i tasti senza mai produrre un suono, ma certamente si intravede un senso di contrapposizione preziosa dell’opposto, nell’insolito-sorprendente, aperto alle invenzioni in una fantasmagorica specularità della sparizione, per cui il pieno musical-figurativo e il vuoto della morte si attraggono, o per utilizzare una formulazione criticamente sintetica «il corrispettivo di ogni cosa ne è anche l’opposto»131. Del resto all’altezza dell’anno 1602, la sfida della fascinazione ovidiana già intrigava il Marino sin dalla Parte seconda della Lira, con Leandro audace «giovane di Abido» rappresentato come innamorato nudo e solo (76, 4-8)132, perduto e vinto (76, 72-78) anche se stanco anelante e infermo (76, 79-84) nella gara per raggiungere il fuoco bello di Ero (76, 98-101), quella Ero infelice, che cade sulla riva, nell’invocare morte dal cielo (76, 101-104); né sorprende (sempre La Lira, Venezia 1602) la comparativa corrispondenza di Leandro con il peccatore mal guidato della sezione Sacre (11, 9-11), Parte prima, in cui Ero è accostabile a Maria Vergine, come luminosa figura di riferimento per l’uomo tribolato dai marosi dell’esistenza. Tuttavia, dinanzi alla vastità tematica, a detta di Getto «sconfinata e sconfortante»133, il Donno sembra prediligere la tripartizione tassiana (lirica d’amore, encomiastica e sacra), arricchita della terza sezione alieutica-piscatoria, con le liriche sacre però inserite organicamente a completamento e definizione nella quarta parte, tra le Rime varie, come vero e proprio superamento di altre, svariate e più minute etichette di catalogazione ben presenti nei canzonieri barocchi. In tal senso il Donno pare utilizzare la mediazione del Manso, l’argomentare per gradazione del marchese di Villa, anche con il ricorso alle didascalie, su due fasce di commento, la regolarità della titolazione e la frequenza della spiegazione controllata e autogestita134. Così il rischio immanente dell’ipertrofica predicazione si riscatta nelle proporzioni delle didascalie, tra spinte evolutive e conservazione del patrimonio letterario. ***

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P. Cherchi, La metamorfosi dell’Adone, Ravenna, Longo, 1996, p. 16. G. Pozzi, Guida alla lettura, in G.B. Marino, L’Adone, edizione critica e commento a cura di G. Pozzi, Milano, Mondadori, 1976, t. II, p. 41. 132 Giovan Battista Marino. La Lira, in ATLI. Archivio Tematico della Lirica Italiana, cit., p. 234. 133 G. Getto, Il Barocco letterario in Italia, cit., p. 40. 134 Giovan Battista Manso, in G. Ferroni – A. Quondam, La “locuzione artificiosa”. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, cit., p. 425. 131

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Al periodo napoletano di Ferdinando Donno appartiene il sonetto VIII. La Bella Turca 135, suggestiva e barbarica nella sua uniforme e nel crine, su un trono di seta, all’insegna della mezzaluna: Va grave il volto; e ’n barbara divisa porta al barbaro crin sferico mondo, e ’n tron di gloria serico e ritondo cornuta luna, in egual linea assisa. De la fronte il seren folgora in guisa, ch’al sereno del sol non è secondo; al balen de le luci almo e giocondo resta d’illustre piaga ogn’alma incisa. Per far le glorie sue famose e conte e dimostrar come saetti e scocchi, vien da barbaro ciel, turco orizzonte. S’arme par che non usi, arco non tocchi, lo porta ben saettatore in fronte, le porta ben fulminatrici a gli occhi.

Ricorsi paronomastici e anaforici (barbaro/a, seren, fronte, saetti/saettator, porta) creano un sottovia, un sottopercorso interno su elementi connettori, sino allo svelamento degli strumenti d’amore a stento dissimulati, gli occhi e il bel rotondo del viso, esaltati dall’iperbole della prosetta; la bellezza della turca è tale da intimorire Venere in persona, che la bandisce dai territori orientali e la consegna prigioniera a Napoli; nella città partenopea la bella turca è cantata da mille poeti: La bella Ciricia turca navigando lungo le riviere di Cipro ed illustrando il mare d’un nuovo sol di bellezza, Venere, invidiosa di tanta gloria, la bandì da’ suoi tenimenti, anzi la fe’ capitar prigioniera nella gloriosa città di Napoli, dove apparve mirabil soggetto di mille penne.

Sempre al soggiorno napoletano risalgono il sonetto CXX (All’accademia degli Oziosi di Napoli quando l’Auttore nel lor numero fu ammesso) già osservato da vicino, come il successivo CXXI (Commendasi una Camera del Sig. Antonio Bruni, dove in virtuosa Academia s’adunavano Divinissimi Ingegni); e CXXVI (Al Sig. Francesco Ferri, Pittore famoso, per li ritratti del Sig. Duca di Santo Elia e del Sig. Don Giuseppe Palma Suo Fratello); e tra gli Encomii amorosi il LXXII (Per l’Eccellentissima ed Illustrissima e per merito di 135

G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 88.

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Sangue e Bellezza Gloriosissima Sign. Donn’Anna Carrafa Pignattelli, vero ritratto di soprumana Bellezza), dedicato a una nobildonna di sicuro ceppo meridionale136. Invece sicuramente agli anni veneziani e per tanto «più recente appare il sonetto CXXIV, dal momento che le Rime di Pier Giuseppe Giustiniani, di cui si parla in esso, uscirono solo nel 1620»137: CXXIV. AL SIG. PIER GIUSEPPE GIUSTINIANI Pietra tirar, ch’in dura spalla alpina tenuto ha ’l piede stabile ed eterno; pianta inchinar, ch’a l’erto ciel vicina schernì l’onte del ciel, l’ira del verno; belva ammolcir, che d’anima ferina sparse le membra ed ingombrò l’interno; Furia frenar, ch’in treccia serpentina chiuse in petto maligno alma d’inferno; forze non son Giustinian d’incanto, né virtù di tenor magico e basso, ma glorie del tuo stile e del tuo canto.

Come si può notare, la serie di adynata (Pietra tirar […] pianta inchinar […] belva ammolcir […] Furia frenar) cadenza il sonetto, come tributo reso all’autore Giustiniani138, non in virtù di incantesimi o magie di vil tenore, ma per attestazione di stile e forza poetica, in dolce armonia, sino all’iperbole della terzina finale: Che se quel cor, cui di pregar son lasso, la tua dolce armonia sentisse alquanto, di sua durezza spetrarebbe il sasso.

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Ivi, p. 25. Ibidem. 138 F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, cit., vol. II, parte I, p. 298. Si ricordano inoltre del genovese Pier Giuseppe Giustiniani (Mirzio Ligurino dell’Accademia degli Addormentati), Ode toscane dell’intirizzito accademico addormentato, in Genova, per Giuseppe Pavoni, 1628 e ancora, Per la morte della sig. Emilia Adorna Raggia, in Odi encomiastiche e morali di Pier Gioseppe Giustiniano all’illustrissimo signore Vincenzo Giustiniano marchese di Bassano, in Genova, per Giuseppe Pavoni, 1635. All’amico P. G. Giustiniani, morto a Genova nel 1651, il Chiabrera lasciò il manoscritto che costituisce l’ultimo progetto di edizione delle sue rime (cfr. G. Chiabrera, Lettere a Pier Giuseppe Giustiniani […], con la giunta d’altre inedite e due opuscoli, a cura di V. Canepa, Genova, Pellas, 1829, p. 88). Cfr. ora G. Chiabrera, Lettere (1585-1638), edizione critica a cura di Simona Morando. Firenze, Olschki, 2003, pp. LXII-458. 137

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Nella ricerca di un’alternativa esistenziale, significativa e al contempo prospetticamente difforme rispetto al confortevole rifugio della memoria, pure vissuto in altalenante spessore emotivo, tra edenici fondali platonizzanti e tristi oberanti sollecitudini, il Donno approdò al messaggio decisivo di un «salvifico e risanatore approdo per il proprio autobiografico disagio»139 con l’ordinazione sacerdotale in data 6 aprile 1625. In proposito il De Angelis volle ricordare che la prima Messa fu celebrata nel giorno di S. Marco, con la partecipazione del Doge e della maggior parte dei nobili veneziani, come segno di stima e considerazione140. Di là da tale indicazione, non suffragata da ulteriori testimonianze, a dire il vero il rapporto del Donno con Venezia fu subito positivo; già il sonetto XIX. Al Sospiro, ritrovandosi in Venezia l’autore appare fortemente emblematico, per l’immagine di Venezia rasserenante città-rifugio, meravigliosa signora e regina dell’Adriatico, generosa altrice d’ogni virtù, pronta a ricevere il poeta nella serena dimora della gloria. Analogo sentimento per la Serenissima riecheggiava in altri salentini, sia nella Gran reina del mar, cerulea reggia della ricordata Selva del Bruni141, sia in componimenti del citato poeta mesagnese Maia Materdona142. Nel Donno risalta intatto il ricordo della natia Manduria, con un sospiro ancora fumigante inquieto, ma in volo felice, per il poeta, trattenuto altrove dalla distanza di acque, monti e valli, il sospiro è novello messaggero di sé verso la sua terra natia, dove natura lo alimentò, consegnandogli un animo lieto. XIX. AL SOSPIRO, RITROVANDOSI IN VENEZIA L’AUTORE Quel che né per stagion né per divieto d’acque, di monti e valli a me non lice, opralo e tu, de la mia fiamma ultrice nuncio pietoso, messagger secreto; slàcciati a l’aria, e fumigante inquieto drizza in ali d’ardor volo felice, là ‘v’ in dolce terren Natura altrice diemmi in nido tranquillo animo lieto.

Il poeta appare ripagato dalla lontananza della propria terra per il conforto assicurato dalla nuova patria al suo ingegno. L’alternativa alla donna indi139

G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 37. D. De Angelis, Vita di Ferdinando Donno, cit., p. 177. 141 A. Bruni, La Selva di Parnaso, cit., parte prima, p. 130; cfr. G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 38. 142 G.F. Maia Materdona, Rime, Venezia, Vangelista Deuchino, 1629, p. 130; cfr. G.F. Maia Materdona, Opere, a cura di G. Rizzo, cit., pp. 227, 234 e 314. 140

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sponibile agli inviti del poeta è rappresentata dalla Serenissima, regina del mar d’Oriente, donna in grado di accoglierlo ai massimi livelli, in compagnia di doviziosa natura e prospera fortuna: E giunto a la crudel ch’odiò mia pace, dille in fronte serena e ’n stil purgato che ’l mondo tutto ad ogn’ingegno è padria. Dàlle aviso di me fido e verace: che s’ella mi sdegnò, pur ho trovato che m’accoglie al suo sen la donna d’Adria.

A corredo e integrazione, la prosetta pare in proposito estremamente chiara: «In questo sonetto l’autore manda il sospiro veloce messaggero a madonna ad avisarle che, se da lei fu sdegnato, la mirabil donna adriatica, generosa altrice d’ogni virtù, ricevelo ufficiosa in serena magion di gloria, ove Natura e Fortuna in aspetti amici risiedono». Per Donno è il segno del suo iniziale inserimento negli ambienti veneziani, anello di altri omaggi poetici destinati a nobildonne di ceppo lagunare-veneto, come i componimenti LXXIX (Per la Soprumana Signora, la Signora Lucietta Belgiorno, detta La Famosa Velata, Bellissima ed Onestissima fra quante ne mira lo grand’occhio del Sole all’altezza del Cielo)143; con la prosetta di chiara e significativa proiezione mitografica: «Venezia, che nel gran teatro del mondo, fra le città sublimi, vergine serenissima appare, vedrassi tra poco più gloriosa». Il processo di identificazione-metamorfosi tra la nobildonna e il sole di Venezia si conclude con l’epifania del leone di San Marco, insegna della Repubblica, a perenne garanzia della civiltà adriatica: «ché la bella luce velata, ch’accoglie in seno, non è altro che ’l sol che dimora tra le cortine dell’oriente; che, qualor svelata vedrassi nell’altezza del suo meridionale, apparerà il gran leon d’Adria con eterno giorno di luce in fronte». Di affine significato144 altri tre, LXXXI. Per L’egregia ed Eminentissima Signora, la Signora Maddalena Monti Veniera, Essempio d’incomparabil Bellezza e Gloriosissimo Fregio del Gran Mare Adriatico, LXXXII. Per l’ammirabile ed all’eternità Commendabile Signora Lucia Bissara, di neri arnesi Vestita, Soggetto copioso ed illustre delle penne e delle lingue de’ famosissimi Olimpici 145 e

143

G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 124. Ivi, p. 125. 145 Ivi, p. 430; com’è noto, l’Accademia Olimpica di Vicenza fu fondata nel 1555 e per molti decenni fiorì di iniziative, con attività varie e numerosi spettacoli teatrali nel Teatro Olimpico. 144

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LXXXII. Per la detta Signora Lucia Bissara, Vestita de’ medesimi arnesi, Oggetto miracoloso d’ogni occhio che la riguarda, nello cui Volto leggiadro si vede la Perfezione della vera Bellezza 146: la capacità di intessere buone relazioni trova conferma nel De Angelis: «[… ] non istette guari a contraere molta conoscenza co’ nobili più stimati e co’ letterati più celebri di quella città»147. Di particolare pregio la familiarità di Michele Priuli, Procuratore di San Marco dal 22 febbraio 1627, il quale «concorse alla massima carica veneziana nei conclavi dai quali risultarono eletti dogi il 4 gennaio 1625 Giovanni Corner e il 18 gennaio Nicola Contarini»148; probabilmente fu il Priuli ad agevolare le pubbliche relazioni del Donno, per un’attività poetica apprezzata in virtù di particolari abilità scrittorie, «d’una penna animata di grazie, di vezzi, e di leggiadrie»149, non disgiunta dal garbo della voce e dalla felice dizione, come da originale testimonianza dell’anonimo compilatore (forse il Loredano o un suo collaboratore) del profilo del Donno nelle Glorie de gli Incogniti overo Gli Huomini Illustri dell’Accademia de’ Signori Incogniti di Venetia (Venezia 1647)150. Nel 1627 il ricordato poema in ottave L’Allegro Giorno Veneto ovvero lo Sposalizio del Mare. Poema eroico, diviso in dieci canti […] segna l’acme del successo e del prestigio del salentino a Venezia, con il sigillo e il suggello della nomina al cavalierato di San Marco. L’Allegro Giorno Veneto conta all’interno dieci dediche, una per ogni canto, la prima delle quali al Doge Giovanni Corner, «le altre ai nove Procuratori di San Marco; tra questi il Donno annovera quelli eletti nel 1627 (e cioè Michele Priuli e Nicolò Vendramin, nominati rispettivamente il 22 febbraio e il 3 aprile), ma non quelli eletti nel 1628»151. Nel segno della continuità-stabilità, il poema del Donno significativamente «si chiude con la menzione di numerose nobildonne venete, amorosamente contemplate nelle loro leggiadre movenze durante il Ballo e il Commiato e, al tempo stesso, divinità di una bellezza gratificante e rassicurante del destino imperituro di Venezia, e viventi immagini di quella nobiltà veneziana (Bembo, Badoer, Gradenigo, Soranzo, Sagredo, Venier, Tron ecc.), qui richiamata dalle imprese delle nobildonne e sacralmente investita, insieme con il Doge, dei simboli del potere veneziano»152.

146 147

Ivi, p. 126. D. De Angelis, Vita di Ferdinando Donno, in Le vite de’ letterati salentini, cit,

p. 175. 148

G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 38. Ivi, p. 11. 150 Ibidem. 151 Ivi, p. 66. 152 Ivi, p. 45. 149

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Come già ricordato, in data 5 luglio 1628 la nomina a Cavaliere di San Marco diveniva suggello del percorso poetico-esistenziale, in una sorta di categoriale tempo sereno finalmente conquistato, scenograficamente celebrato nel poema eroico. Solennità religiosa attualizzante e rinnovato legame con il mare garantivano stabilità politica e coesione civile: per le classi dirigenti si rinnovavano l’egemonia politica e l’unità interna, per la comunità veneziana la forza economica e la spinta estroversa, sul patto fondativo rievocato e consolidato ogni anno. Pur presenti e non trascurabili, lacerazioni e dissensi si sublimavano nella mitizzazione, in grado di alimentare l’ampio commosso consenso sino alla proiezione mistico-poetica: l’unione mare-Venezia, nell’immagine nuziale Dori-Doge, «risulta un atto reale e fondante un potere dalle finalità universali»153. Per il Donno la prima decisiva tappa artistico-letteraria dell’itinerario poi coronato da successo fu proprio La Musa Lirica, legittimata e non di rado caratterizzata da scelte stilistiche intimamente connesse al suo personale coinvolgimento e all’autobiografica compromissione, ma con una chiara indicazione dell’orizzonte civile e culturale, nel cuore di Venezia, per l’avvertimento di un progetto in cui il canzoniere Musa Lirica «più nitidamente lascia intravedere i contenuti e i percorsi della mutatio vitae»154. In tale direzione pare opportuno segnalare il sonetto XI, sulla frequentatissima immagine della scrittura, per cui la carta è materiale decisivo dell’esercizio poetico, ma al contempo metafora dell’atto creativo (carta-candido mare, amore-grande ammiraglio, inchiostro-nero dolore, legno di penna-nave), poi spinta in ardita metamorfosi figurativo-musicale (carta-tela amorosa, carta-muta cetra, cuoreinfermo d’amore), per cui i versi, sull’onda delle note, creano relazioni fluide e mutevoli, quasi a segnare la distanza da funzioni pragmatiche di mero servizio, ma in un «teatro delle meraviglie, illusionistico, virtuoso di trucchi scenici […] a sezioni mobili e morganiche»155. Dalla tela alla penna-pennello, le connessioni grafico-pittorico-sonore sembrano scendere lungo i sentieri della vita personale, dagli effetti mimetico-illusivi all’intimità del poeta e si mescolano all’affollata esistenza dei sentimenti, gioie e sofferenze varie e mutevoli come le calli di Venezia, accanto e in dialettico rapporto con le iconografie mitizzanti rappresentate nell’Allegro Giorno Veneto.

153

Ivi, p. 43. M. Santagata, I frammenti dell’anima, cit., p. 105. 155 S.S. Nigro, Il corpo di Proteo. Il segretario, in L’uomo barocco, a cura di Rosario Villari, Milano, CDE, 1993, p. 105. 154

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XI. ALLA CARTA O del nero mio duol candido mare, cui fatto è già grand’ammiraglio Amore, ond’in sul legno di mia penna il core merci tragitta dolorose, amare; tela amorosa, ove con tempre rare pennelleggia il pensier, saggio pittore, e fa di chiaro e lucido splendore gli orbi di duo be’ sol zafireggiare; muta cedra d’ardor, per cui m’invito col plettro di dolor le tigri a canto, qualor teco l’aggiungo, egro marito; quanto a te deve lo mio stile e ’l canto, che, dal centro del duol per te rapito, narra le doglie sue, sfoga il suo pianto!

La prosetta al riguardo chiarisce il valore e il diletto della composizione poetica, come trasfigurazione consolatoria, nella decantazione delle sofferenze, sino allo stadio del fervido e piacevole distacco nella superiore e spirituale armonia: «Commendasi quivi il diletto della composizione e lodasi parimente la carta, dove il core, amoroso infermo, narrando ed imprimendo le sue passioni, va disfogando il pizzicor interno dell’anima e sollevasi in quell’estasi dilettosa, di cui s’inebria ogni poetico spirito». La sezione Affetti Platonici della Musa Lirica comprende sessanta componimenti, tutti sonetti in campo sotto l’alta insegna di relazioni idealizzate e idealizzanti, come avverte il cavaliere Lavinio Centurioni ai lettori156: […] Se per queste carte si troveranno sparse alcune voci come Paradiso, Cielo, Stelle, Destino, Fortuna, Dea, Idolo od altro sì che spiacessero, conturbassero, confondessero e scandelizzassero l’integrità de’ religiosi lettori, la purità de’ creduli semplici, l’imaginazione de’ non periti idioti e la mente de’ scropolosi e sottili, protestasi l’autore non averle usate con altra intenzione che per significare Volto vago, Fronte serena, Occhi lucenti, Forza d’amore, vana Incostanza, Donna leggiadra, venerabile Bellezza, delle quali tien gran bisogno il tosco idioma per abbellire ed ornare ogni polito componimento. Con che restiate felici e viviate in lunghissimi anni.

156

Lavinio Centurioni da Genova a’ lettori, in G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 83.

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La scelta del sonetto appare caratterizzante e significativa, a conferma dell’inserimento nel solco della tradizione, come opzione programmaticamente adottata nei confronti di un pubblico colto, in quel momento non destinatario di provocazioni particolari né di varietà metricamente strutturate, ma in grado di apprezzare l’avvio del canzoniere in pieghe modulate su novità di figure e di accostamenti, nella continuità della forma-sonetto; singolare elemento di novità, ma funzionale e di servizio alla migliore comprensione del componimento, la prosetta chiariva, spiegava, illustrava il tema, l’occasione, le condizioni divenute oggetto del poetabile. Dal sonetto I. Amorosa arsura al LXIX. Sdegno amoroso la declinazione-variazione dell’amore e della bellezza sfiora l’astratto (II. Beltà singolare 157: «s’impennò nell’Idea piú bella e pura. […] / Non so se, da che ’l Sol calcò la spera, / vide, menando in giro i dì correnti, / meraviglia maggior, beltà sì vera») come beltà o corrispondente o impressa, ma tocca anche il concreto (III. […] bel petto o neo), abbraccia attività e mestieri (V. Bella cucitrice 158 come «Aracne novella» o XXIII. […] irrigatrice di scelte e leggiadre erbette 159) e canta caratteristiche somatiche, etnico-religiose, fisico-morali (bella mora, turca160, ebrea, losca161, penitente, oratrice), sino alla contrapposizione estetica (XV. Moglie bella e marito brutto 162: «[…] Madonna, io già t’adoro; a’ tuoi splendori / ti scerno alma leggiadra, immortal dea; / mostro crudel ti fuggo; io non credea / t’annodasse empia stella angue tra’ fiori».), in armi o in nave (bella armata o per lidi del mare). Tra l’altro nella correlazione amore-bellezza il Donno non esita a cantare la tarantolata163: XX. BELLA DONNA MORSICATA DA VELENOSO ARAGNO Va mesta il volto e punta il bianco seno, prende l’ultrice man rigida spada, s’apre il camin tra popolosa strada, corre in nube di polve aureo baleno. Poi stassi e gira il suol, batte il terreno, cangia novo sentier, nova contrada, quivi disdegna il cielo, ivi l’aggrada; ah, che mortal l’ha colta atro veleno! 157

Ivi, p. 85. Ivi, p. 86. 159 Ivi, p. 95. 160 Ivi, p. 88. 161 Ivi, p. 89. 162 Ivi, p. 91. 163 Ivi, p. 94. 158

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Come si può notare, il Donno interpreta il rito salentino della taranta come azione scenica, su matrice iatromusicale e con senso vivace della sorpresa-novità, ma lo riassorbe su moduli idealistico-petrarcheggianti, nel conclusivo approdo mitizzante: Cerca nel suon di rustico stormento, misto a molle rimbombo, affrontar l’oste, vendicar la sua pena e ’l suo tormento. Miser cui fia ch’a l’impiagata accoste! Sàsse ’l mio cor, ch’a riguardarla intento, strane fatiche, anzi nov’arti ha poste. E ferita il petto d’amara punta, sparsa le membra di velenoso furore, corre non altrimenti che forsennata baccante ripiena del dio di Tebe. Amore, novello Proteo, trasformatosi in picciolo aragno, d’amaro strale ferilla; e vincitore di famosa guerrera, ha già spiegato per tutto superbe insegne di gloria.

E canta pure la spadaccina (con spada e piuma o in carrozza o in manto nero), la donna pronta alla ninna nanna (XLI. Bella D. addormentante picciol puttino 164) e musicante (XLVI. […] con cembalo in mano 165), tra un amante incantato o «ravivato da un bacio», tra una rosa importuna, una pianta di cipresso o una frondosa vite, nel bel gioco di palla o di maglio166, in sentimento di fuoco inestinguibile. La struttura portante, esclusiva e decisiva della prima sezione è il sonetto, nella connessione di costellazioni di riprese lessicali, con ripetizioni di parole identiche e poliptoti167, anche in catene foniche parzialmente sovrapponibili, su variazioni tematiche di complementarità-contiguità. Analoga disposizione amorosa idealizzante si intravede nell’altro sonetto, il primo della seconda sezione Encomii amorosi, LXX. Alla Penna. Per la Bellissima Venere Gonzaga Arditavita […]: la penna diviene dolce compagna e musicale consorte dell’inchiostro, come alata e scrittoria lingua, dotata dell’ossimorica capacità di immortalare nella storia anche i nomi mortali, per celebrare la bellezza della dea, Venere Gonzaga, luce nuova tra i punti cardinali:

164

Ivi, p. 104. Ivi, p. 107. 166 Ivi, p. 427; «gioco della pallamaglio, un po’ simile al golf». 167 M. Santagata, Dal sonetto al Canzoniere, cit., p. 37. 165

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LXX. ALLA PENNA PER LA BELLISSIMA ED AL PAR DEL SOLE ILLUSTRISSIMA SIGNORA VENERE GONZAGA ARDITAVITA, IDEA DI MIRABIL BELLEZZA E VERA GLORIA D’EUROPA O de l’inchiostro, onde le carte vergo, dolce compagna, musica consorte, chiave, che schiudi al gran dolor le porte, ond’io d’amare lagrime m’aspergo; vannuta lingua, ond’io m’impenno ed ergo su l’istoria immortal de la mia morte, e mentre in aria il mio pensier trasporte, da gli abissi del duol l’anima emergo; oratrice d’ardor, ch’in negre note canora sciogli e musica favella, placando Amor, quando sua sferza scuote, ergiti a celebrar la dea più bella, che, cara a Giove e al sol, farti ben puote tra i cardini del ciel luce novella.

Decisiva chiave per emergere dagli abissi del dolore, anche qui la penna assolve a una funzione catartica, sull’implicita consapevolezza dell’aristocrazia della scrittura e delle lettere, in emulativa complicità con la nobiltà di casta; secondo motivi comuni ai poeti e ai letterati coevi, pure non di rado chiamati a funzioni e attività politico-amministrative, nel Donno sembra prevalere una peculiare propensione alla compromissione autobiografica, sull’onestamente dissimulato intento autopromozionale, giocato in vena paronomastica: Non conveniva il nome di Venere ed altra donna, ch’a nuova ed immortal Venere di bellezza, né più degnamente Natura amica conferir poteva ad altra ch’a Venere quanto di raro e di bello comprendesi nel bel volto di Venere. A celebrar le bellezze di sì gloriosa Venere, invita la sua penna l’autore.

O ancora, sull’intimo fuoco dei sentimenti, il sonetto LIV in cui si insinua una ragione di incertezza, un motivo di illusione sulla donna figurata, pur nel ricamo di richiami petrarchesco-tasseschi (oro filato-chioma, avorio-fronte, ebano-ciglia, miele-labbra, prato di flora-volto), ma come mossa interpretazione di un sembiante in differente coscienza:

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LIV. LA CAGION DEL SUO FOCO Chioma, che biondo sembra oro filato, fronte, che puro sembra avorio schietto, ciglia, cui cede il nero ebano eletto, lumi, che vibran fuor lume béato, guance, ond’a l’ostro Amor viv’ostro ha dato, labra, cui presso è ’l mèl vile e negletto, bocca, dolce ad Amor fido ricetto, volto, vago di Flora eterno prato, grazia, onor di Natura, onta de l’Arte, foco de l’alme, onde s’adopra Amore arder gl’ingegni, illuminar le carte, son ministra cagion, dond’il mi’ ardore strugger mi fa ne la più interna parte e ’n pianto distillar per gli occhi il core.

Pure retti da servili, gli infiniti verbali caratterizzano interi versi (arder gli ingegni, illuminar le carte), significativi di un’appartenenza, cifra distintiva di un circolo, eletta schiera, nell’immaginosa sintesi di fuochi emotivo-sentimentali e fantastico-intellettuali. La prosetta epigrammaticamente suggella il sonetto: Le rare bellezze e singolari eccellenze così del corpo come dell’animo, che quasi serenissimi lumi sfavillano e splendono singolarmente in madonna, son effettrice cagione che di singolar foco accendano il petto d’ogn’occhio che le contempla.

Il rimbalzo-complicazione di echi procura nuove fiamme e nuovi fuochi, su «riflessi allusivi e illusivi, in un inseguimento labirintico di certezze, di punti che si sentono instabili e sfuggenti»168; la confessione d’amore così non diventa prova dell’insincerità, né consapevole distinguo tra vero lirico e vero pratico, ma risponde all’intima necessità di indugio sui rapporti uomo-donna, nella ricerca di germogli di certezza dinanzi a una realtà, la femminile, particolarmente instabile, forse inquietante, comunque in perenne movimento. L’iscrizione all’Accademia degli Incogniti segnala ancor più il fortunato inserimento nella società veneziana, all’interno di una delle più affermate istituzioni culturali venete, con il ricordato apprezzamento della sua dizione, con il garbo e la sua piacevolezza delle relazioni; si può pensare che l’iscrizione

168

G. Getto, Il Baroccco letterario in Italia, cit., p. 88.

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possa collocarsi nel 1630, a ridosso della fondazione dell’Accademia da parte del Loredano, leader riconosciuto, protagonista della vita intellettuale e letteraria veneziana dopo l’Interdetto; con soddisfacente carriera politica169, secondo un “aretinismo” non raro, mise a frutto le lezioni di aristotelismo naturalistico e di scetticismo religioso con la volontà di assicurarsi «oltre che la collaborazione dell’aristocrazia veneziana, anche il contributo dei più prestigiosi letterati operanti in quegli anni nella città veneta»170. Il soggiorno lagunare del letterato manduriano e la sua presenza all’interno dell’Accademia si protrassero sino agli anni 1633-34; come s’è detto, nel novembre del 1634 il Donno si fermò a Roma, in casa del poeta e concittadino Bruni: durante il soggiorno ottenne la laurea in Diritto Canonico (il 25 novembre) e la nomina a Protonotario Apostolico171. Poi di nuovo a Venezia e di ritorno dal Veneto, nel 1635, precisamente il 25 febbraio, egli prese possesso della carica di Arciprete di Manduria; pare che l’incarico gli fosse stato offerto da tempo, ma il Donno solo in quell’anno si determinò ad accettare l’offerta, a dire del De Angelis su duplice direttrice, una chiaramente religioso-pastorale, l’altra civico-culturale, per «porre in opera il suo zelo in benefizio di tante anime, che alla sua cura erano destinate, e per esercitare il suo talento in giovamento de’ suoi paesani»172. L’individuazione delle due linee d’impegno trovò poi effettiva realizzazione; la vocazione alla cura spirituale e religiosa dei suoi assistiti lo vide attento anche nel riordino della segreteria parrocchiale, nella definizione dei servizi ecclesiastici attinenti, nella puntualità amministrativa di atti, verbali e procedure: «curò, durante la sua arcipretura (1635-1649) che questi fossero tenuti con la massima esattezza, come appare dai libri parrocchiali dell’epoca»173. Sull’altro versante, va ricordato che alcuni lavori letterari erano avviati da anni; in particolare Le lettere amorose, capricciose, burlesche e familiari, Parte I e II 174 figuravano tra le opere in via di compimento nelle due prefazioni, una del De’ Marini alla Poesia Lirica, l’altra del Centurioni alla Musa Lirica; ma da controlli successivi è molto probabile che non siano mai state 169

Q. Marini, La prosa narrativa, in L’età Barocca. Storia della Letteratura italiana, cit., p. 1008; tra l’altro Giovan Francesco Loredano fu «Tesoriere a Palmanova, Avogadore del Comune, Inquisitore e componente del Consiglio dei Dieci, Provveditore di Peschiera». 170 G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 13. 171 Ivi, p. 15. 172 D. De Angelis, Vita di Ferdinando Donno, in Le vite de’ letterati salentini, cit, pp. 182-83. 173 G.B. Arnò, Manduria e manduriani. Note e appunti bibliografici e di storia patria, cit., p. 39. 174 G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 72.

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pubblicate. Il De Angelis175 però ricorda anche un altro lavoro La varia dipintura dell’anno, opera Astrologica, in foglio, segnalata pure nella prefazione del Centurioni con il titolo Pittura de l’anno divisa in dodici immagini, secondo alcune fonti conservata presso gli eredi del manduriano sino agli inizi del Settecento. Le occupazioni legate all’impegno religioso e alle attività dell’ufficio ecclesiastico nel quotidiano contatto con i fedeli si susseguirono per quattordici anni, intervallate dall’interesse per la letteratura e per lo studio degli astri in particolare, «della quale oltremodo era vago, e per mezzo della quale, corre fama certa tra gli uomini più sensati della sua patria, ch’egli prevedesse parecchi accidenti, che poi col tempo succedettero nella maniera da lui divisata»176. Il De Angelis avverte però che il Donno professava tale interesse «da Sacerdote Cattolico e per quanto a uomo dabbene vien conceduto; scrivendovi sopra un grosso volume […] in trecento sessanta varj discorsi astrologici»177. Il 24 aprile 1649 178 Ferdinando Donno morì nella sua Manduria. Per quanto più giovane di due anni, l’amico e concittadino Bruni non c’era più da tempo: pingue, ilare, di buona compagnia, godereccio e buongustaio179, a quarantadue anni Antonio Bruni interruppe i suoi giorni a Roma il 23 settembre 1635 180. Apparivano veramente lontani i tempi di Napoli e del felice soggiorno lagunare, quando entrambi dedicavano il loro ingegno alle muse e avevano la chiara consapevolezza che anche nei momenti più ardui e difficili poteva sempre emergere e innestarsi con forza la forma vivificatrice della poesia, a sublimare e trasfigurare anche i più penosi giorni del percorso esistenziale. Proprio la forza musicale dei versi e l’energia poetica accompagnarono il Donno nella sua prima pubblicazione. Nel 1620, appena un anno dopo, i testi della Poesia Lirica si ritrovarono «tutti nella nuova raccolta poetica del Donno, La Musa Lirica, assai ampia e tradizionalmente organata»181; rispetto al preannunciato Orto di Pindo, il titolo è ben differente e «lo stampatore è

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D. De Angelis, Vita di Ferdinando Donno, in Le vite de’ letterati salentini, cit, p. 180. Ivi, pp. 182-83. 177 Ivi, p. 180. 178 G.B. Arnò, Manduria e manduriani. Note e appunti bibliografici e di storia patria, cit., p. 83. 179 A. Bruni, Epistole eroiche, cit., p. 26. 180 Secondo l’Eritreo (Gian Vittorio Rossi), per una indigestione di beccafichi: cfr.. J.N. Eritreo, Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum, qui auctore superstite, diem suum obierunt, Colon. Agrippinae, Apud I. Kalcovium et Socios 1645, pp. 250-52. 181 G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 61. 176

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Giacomo Sarzina, quello stesso dell’edizione veneziana del 1623 (la prima in Italia) dell’Adone mariniano»182. Per quanto concerne la diffusione e l’attuale reperimento della Poesia Lirica «il primo libretto poetico del Donno è assai raro; se ne conserva un solo esemplare integro presso la Biblioteca Municipale di Grenoble (segn. F 92); un’altra copia posseduta dalla Biblioteca Vaticana risulta mancante delle due ultime pagine e presenta, all’inizio, lacune del testo; l’umido ha difatti determinato la caduta della parte superiore delle prime pagine»183. Dopo il Ciotti della Poesia Lirica, La Musa Lirica ha come stampatore il Sarzina, da lì in avanti sempre più editore di fiducia per le successive opere del Donno. Occorre ricordare che «anche la Musa Lirica è abbastanza rara. Se ne conservano pochi esemplari: uno presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, l’altro a Londra presso il British Museum. […] un’altra copia, cortesemente indicata dal prof. Giorgio Fulco, si trova presso la Biblioteca Nazionale di Palermo»184. La sezione Rime varie della Musa Lirica è quarta e ultima della raccolta; a precederla, le tre sezioni Amori platonici, Encomii amorosi, Amori marinareschi: i 143 componimenti si suddividono in 115 sonetti, 3 idilli, 4 odi, 1 poemetto in sestine, 1 poemetto in ottave, 1 canzone sestina. Il poemetto in sestine è il citato CXXX. La Palma – Encomii del molto illustre Signore Bartolomeo Palmerini; in ottave è il già trattato poemetto CXXIX. Gli amori di Leandro ed Ero, entrambi dell’ultima sezione, come pure il già osservato idillio CXXXVII. La Partenza. Anche la canzone sestina CXXVII. Al Leon Celeste contro il Rigor di Madonna Inferma appartiene all’ultima sezione Rime varie, quasi a caratterizzarne lo svolgimento in sostenuta e impegnata variazione, ancorché in diversificato senso metrico e strofico, rispetto alla diffusa presenza dei sonetti, prevalenti per circa tre quarti del canzoniere. CXXVII. AL LEON CELESTE CONTRO IL RIGOR DI MADONNA INFERMA Belva, che d’aurei velli ornata il manto hai là sù pasco d’or, tana di stelle, e grave il volto e mäestoso il guardo, reggi stellato regno, aerato scettro, e spargendo dal sen globi di foco, 5 toni col ceffo e folgori con gli occhi, gela la bella inferma, e inferma gli occhi, veste d’atro pallor gelido manto; 182

Ibidem. Ivi, p. 58. 184 Ivi, p. 61. 183

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Amor già spezza l’arco, agghiaccia il foco, langue al languir de le due care stelle; 10 disdegna Pafo e Ghido, ov’è ’l suo scettro, e si cangia ver’ lei tutt’in un guardo.

Nel quadro poetico, perché malata alla vista, la bella provoca tristezza in Amore, che non si esercita più con l’arco; in ossimorica immagine, gela anche il fuoco interiore e pare disdegnare persino le località sacre a Venere, mentre anche il poeta disdegna la luce, sodale con Amore, inorridito in aria, in terra, in mare (trediviso scettro): la costellazione zodiacale del Leone può intervenire per la sua donna. Analogo tema compare in Marino (Lira, I,), nel Donno arricchito dai rinvii a Petrarca (Canz. 185, 7-8; 221, 10; 15, 8), in direzione iperbolica. Io, sdegnando la luce, abbasso il guardo lagrimoso mar verso per gli occhi, né spazio egli è nel trediviso scettro 15 che non vesta d’orror rigido manto; piange la luna e ’l sol, piangon le stelle, ed è quel pianto lor liquido foco. O ciel, che m’apri in lagrimoso foco, condona al nobil petto, al dolce guardo, 20 al lampeggiar de le ben nate stelle, al vivo folgorar di sì begli occhi; ché non hai qui lo scelerato scettro, ma giù ne l’Orco, entr’al tartareo manto!

Timori e tremori affiorano, per il mantello leggiadro che mai vide il sole (il cui cielo è il quarto: il quarto errante) e l’amata inferma e pallidetta non ritrova capacità visiva; in reminiscenza mariniana (l’incipit Pallidetto mio sole), si rinserrano i denti e si chiudono gli occhi, a vergogna delle stelle: Ahimè!, già trema il più leggiadro manto, 25 ch’unquanco scerse il quarto errante foce; già perde l’ostro il suo nativo scettro, la pallidetta mia smarrisce il guardo; si rinserran gli avori e chiudon gli occhi, scorno e rossor de le dorate stelle.

L’apostrofe al Leone celeste si conclude con l’invito a volgere contro la morte (mostro gelato) gli occhi pieni d’ira, per distruggerla e respingerne il gelido abbraccio e spodestarla definitivamente. Così, novello volatile regale,

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in rinvio petrarchesco (Canz. 48,1: «foco per foco») il poeta si indirizzerà al luminoso sguardo della bella. Tu che tra selve d’or, boschi di stelle, ruggi il mento d’orror, lampeggi il manto, volgi al mostro gelato i rabid’occhi, stampa nel petto suo stampa di foco, struggi il suo gel con lo ’nfocato guardo, 35 privalo, e tu, del temerario scettro. Così rallenterò foco per foco e lieto indrizzerò l’avido guardo, aquila altera, al sol de’ suoi begli occhi.

Come già detto, i primi sessantanove componimenti appartengono alla sezione Affetti platonici, titolo significativo per segnalare l’assimilazione del codice cinquecentesco, su premessa petrarchesco-bembesca, però in un’operazione di occultamento e – come ricorda Rizzo – di rimozione di spore vistosamente autobiografiche, in virtù della funzione sublimatrice ed emblematizzante che si riconosce a tale codice, connotato da uno «stil purgato»185. I successivi diciannove (da LXX a LXXXVIII) appartengono alla sezione Encomii amorosi; dopo i primi tre sonetti, il madrigale in onore della sig.ra Farnese: LXXIII. PER L’ECCELLENTISSIMA ED ILLUSTRISSIMA E PER GLORIOSI NATALI MIRABILISSIMA SIGNORA CELIA FARNESE, VERA GLORIA E SPLENDORE D’AMMIRATA BELLEZZA Celia, se ’l ciel contemplo e ’n ciel m’affiso scemo chiaro ed espresso l’alto ritratto del tuo volto istesso; anzi, s’a te mi volto, io scorgo in due l’alto essemplar de le chiarezze sue. Che cosa hai tu che ’l ciel non la comprenda? Deh, che cosa è nel ciel ch’in te non splenda? O nobil cielo a nobil donna eguale, o Celia a par del ciel chiara, immortale. Che altro il cielo potea più fare a beneficio del mondo, che mandarli il vero simulacro spirante delle sue divine bellezze? Però concorrano da’ più remoti confini della terra gli ultimi abitatori, ed osservando da presso l’eccellenze del cielo contemplino le sue meraviglie, ammirino le sue glorie e gli diano incenso di riverenza. 185

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Ivi, p. 46.

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Poi nuovamente LXXIV sonetto e LXXV madrigale in alternanza, e dal LXXVI al componimento LXXXVIII, sei sonetti e sette madrigali. Tale sezione è decisamente caratterizzata dal percorso alterno delle due forme metriche (dieci a nove, a favore del sonetto), in una variatio distribuita e percepita per gusto armonico, equilibrato e sapiente, con ricchi sapori di sorpresa e novità, ma su precise e riconoscibili direttrici, nel cui ambito le forme della tradizione progressivamente si svolgono, si articolano e si espandono. Venticinque componimenti (da LXXXIX a CXIII), tutti sonetti, appartengono alla terza sezione Amori marinareschi, con una successione incentrata su amori tormentati, in particolare tra Cilla e Fileno, forse emblematica di compromissioni autobiografiche (Cilla a Fileno come donna amata a Donno)186, a riprendere temi e motivi allusivi, ma su istanze di predicazione del molteplice di ascendenza mariniana; la sezione è introdotta dal sonetto LXXXIX 187: LXXXIX. A NETTUNO Perch’io cantando Amor temprasse l’ira né m’aprisse del cor la via più chiusa, volgi, ceruleo dio, tue luci e spira dolc’aura e sia tra queste note infusa. Non bram’io di Triton la cava spira, ché la tromba co’ vezzi esser non usa, non d’Arion la gloriosa lira, perché l’ereditò marina Musa. Sol quella i’ vo’ ch’in su l’algose sponde cacci guscio talor negletto e vile e ributtano i flutti e sdegnan l’onde; ché datole co’ nervi anima e stile, s’odan le doglie mie gravi e profonde da’ confini di Battro a quei di Tile.

Insomma, la «marina Musa» innalza il vessillo, erede della gloriosa lira di Arione, da Battro fiume della Scizia a Tule, sperduta regione dell’estremo Nord, in topica locuzione su territori tra loro lontanissimi; per il Donno invece basta la vena poetica accompagnata dal mare, per quanto umile e negletta («Sol quella i’ vo’ ch’in su l’algose sponde / cacci guscio talor negletto e vile»). Appartengono poi trenta componimenti alle Rime varie (da CXIV a CXLIII), con due brevi e conclusivi brani in prosa, CXLIV. La pittura della

186 187

Ivi, p. 431. Ivi, p. 129.

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primavera e CXLV. La Pittura dell’inverno. Nel suo complessivo svolgimento, ancora la sezione delle Rime varie lascia intravedere una sottosezione di argomento religioso, di 5 componimenti: CXXXIX. A San Martino, CXL. Per le Stigmate Sacre del Serafico San Francesco, CXLI. La Vergine Madre sopra il Figlio Estinto, CXLII. Santa e Pietosa Rimembranza e CXLIII. Dialogo, Amor Divino e Natura, Per la Santissima Eucarestia. In San Martino per dieci sestine di settenari, intervallati da endecasillabi al quarto e sesto verso, le rime e i giochi paronomastici (vv. 5-6: «si rapisce in disparte / e va Martino a militar con Marte»; vv. 17-18: «vince, trïonfa ardito, / va innanzi al carro suo Marte avilito») enfatizzano l’apparizione della stagione estiva in pieno inverno, con il decisivo atto di carità di Martino188, che gli dischiude la beatitudine celeste (vv. 59-60: «e ’nvolto in aureo velo, / vola ad aver per mezza cappa il cielo»). San Francesco invece è aquila de la notte, mirabile intelligenza delle umane e divine vicende, con l’intensità della sua dantesca, serafica pienezza d’amore che nel Donno diviene ardore sovrumano e mistica cottura (arde e coce), sino all’impressione fisica delle piaghe di Cristo: CXL. PER LE STIGMATE SACRE DEL SERAFICO SAN FRANCESCO Col guardo in aria e con le braccia al cielo, aquila de la notte, ed arde e coce ed ha presente e spine e canna e velo e lacci e sferze e chiodi e lancia e croce. Fioccan l’orride nubi e ’n guisa atroce sparso è l monte d’orror, cinto ogni stelo; ei mandando d’ardor spirto veloce, distempra il ghiaccio e liquefece il gelo. Sorge intanto del giorno il novo albore, quand’ecco ei vede, in un, languido e tristo crocifisso per l’aria il gran Fattore. Qui facendo d’amor raro conquisto, ripien di nova fiamma e novo ardore, s’inalza al cielo e si trasforma in Cristo.

Anche visivamente, nel 1224, le stimmate rendono Francesco simile al Crocefisso, alter Christus, come l’iconografia sacra confermava da tempo189, 188

Com’è noto, Martino fu ufficiale romano, poi convertitosi divenne vescovo di Tours (Sabaria, Pannonia, 315 ca. – Combes, 397). 189 Ivi, p. 445; cfr. É. Mâle, L’Art religieux de la fin du XVIe siècle, du XVIIe siècle, et du XVIIIe siècle, étude sur l’iconographie après le Concile de Trente. Paris, Armand Colin,

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senza dimenticare il Marino (Lira, cit., II, CXXXIV, A San Francesco d’Assisi: «[…] amore innamorato / de le sue piaghe sante / l’amoroso sembiante / ne le tue membra impresso, / in te sol per amor stampò se stesso»): CXLII. SANTA E PIETOSA RIMEMBRANZA Qualor vegg’io ne l’ocëan sonante ratto precipitar l’Arcier di Delo, mi sovien quando d’atro oscuro velo bendò Morte al Signor le luci sante. E ’n su rivolto al gran cerchio stellante, al seren de l’aurato ottavo cielo, vedo ch’ei punto ancor da fero telo va per l’alta memoria trepidante. Ma poi ch’io veggio il grand’Auriga ardente scoter d’Eto e Piroo l’aurato freno e in chiara stola aprir del dì le porte, mi rassembra veder quel dì sereno, quand’il Signor de l’Orco e de la Morte sen gì nel cielo, espugnator possente.

L’analogia tra il tramonto del sole e la morte del Salvatore è subito colta e sviluppata nel segno del ricordo, come rievocazione fisicamente avvertita, con la memoria ancora trepidante nel cielo delle stelle fisse; ma i cavalli del sole, auriga ardente, presto sconfiggono la notte, come il Cristo vinse la morte, espugnando l’inferno. Immagini del mito e rivelazione cristiana si corrispondono, come a compimento e perfezionamento di singole verità predicate dalle narrazioni degli antichi. Anche nelle raffigurazioni del testo, non potevano mancare i riferimenti al diffuso repertorio di immagini e figure della tradizione greco-latina, come nel volume del Donno. Il frontespizio della sua Musa Lirica infatti «è circondato da motivi floreali e dalle immagini di Venere

1950, pp. 175-76; C. Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto, Torino, Einaudi, 1993. Per fasi storiche differenti D. Neri, Iconografia delle stimmate di S. Francesco nel secolo XIII, in «Studi Francescani», X (1924), pp. 289-322; L. Bracaloni, Intorno alle stimmate di S. Francesco. Note d’arte, in «Studi Francescani», X (1924), pp. 283-288. Almeno da citare C. Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, introduzione di Jacques Le Goff, Torino, Einaudi 1995; Note storicoiconografiche di Chiara Frugoni, in Bruno Zanardi, Il cantiere di Giotto. Le storie di san Francesco ad Assisi, con Introduzione di Federico Zeri, Milano, Skira, 1996. Per La Verna e l’eremo sullo sperone boscoso in provincia di Arezzo, tra Casentino e Montefeltro, cfr. Franco Cardini, Francesco d’Assisi, Milano, Mondadori, 1991, p. 244.

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e di un Amorino nella parte inferiore e da due divinità marine con una conchiglia tortile (la buccina); la marca tipografica dello stampatore è alla fine insieme con la dicitura IN VENETIA, MDCXX, Presso Giacomo Sarzina»190. L’opera del Donno è successiva di cinque anni alla pubblicazione della Selva bruniana (presso i fratelli Dei), la quale può apparire più corposa e multiforme; a favore del Bruni pare una più larga curiosità tematica, al limite della catalogazione-inventariazione, come dalle otto sezioni della prima parte: Gli Amori, Le Fantasie, Gli Encomi, Le Essequie, Le Piacevolezze, Le Moralità, Le Divozioni e Le Varietadi; della seconda parte le sette sezioni: I Madrigali, Le Canzoni, Le Stanze, I Panegirici, La Caccia, L’Aurora e Gli Scherzi 191. Del concittadino Donno colpisce un’aria di riservatezza e di cautela, talora contrassegnata da scelte più mirate e da selettive predilezioni, pur nell’amabilità del tratto192 e nel pregio di importanti relazioni pubbliche. A ventidue anni, invece l’esordio poetico del Bruni appare ricco di slanci, per certi aspetti disinvolto e immune da impacci: «fu precoce e tutt’altro che cauto»193, a ridosso della Lira mariniana, per una copiosa vena creativa, in emulativo sperimentalismo tematico; i modi mariniani sembrano assunti in amplificazione «con effetti di abile virtuosismo, come per una curiosa e libera esplorazione delle potenzialità del codice petrarchistico-bembesco, sub specie Marini»194. Il Donno presenta La Musa Lirica come una raccolta congegnata secondo una sezione d’avvio, Affetti platonici, unificante e comprensiva sotto l’egida di ricordate istanze idealizzanti, come già detto, seguita da Encomii amorosi, Amori marinareschi e Rime varie, nella successione di rapporti numerici (69-19-25-30) per cui la prima sezione è più che tripla della seconda e più che doppia della quarta. A ben osservare però nella quarta e ultima sezione sono inseriti i componimenti di maggior impegno metrico-strofico, come pure s’è ricordato; in tal senso 1 poemetto in sestine, 1 poemetto in ottave, 1 canzone sestina e 2 idilli caratterizzano le Rime varie e formano una colonna poetica altrettanto robusta e articolata, in corrispondenza con la prima sezione, secondo proporzioni interne rispettabili, anche se apparentemente sbilanciate. Tuttavia pare piuttosto interessante la sezione Amori marinareschi, ben rappresentativa di interessi poetici a tematica alieutica-piscatoria diffusa in area meridionale (Rota, Tansillo), anche in lingua latina195 e ripresa anche 190

G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 61. Ivi, p. 25. 191 Ivi, p. 11. 193 A. Bruni, Epistole eroiche, a cura di Gino Rizzo, cit., p. 53. 194 Ivi, p. 43. 195 I. Sannazaro, Opera omnia latine scripta nuper edita, Venetiis, in aedibus haeredum Aldi Manutii, 1535, ora anche in edizione moderna I. Sannazaro, Le egloghe piscatorie, a 191

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dopo il Donno da altri poeti, come nel caso di Girolamo Fontanella (su cui cfr. in questo stesso volume il saggio di Pierandrea De Lorenzo), il quale «affrontò anche lui talvolta temi tipici della tradizione marinista, ma senza mai dimostrare una dogmatica fedeltà al maestro»196; propenso alle tenerezze dell’idillio e con «enunciati teorici privi di pedanteria, ma non di una certa consapevole originalità»197; com’è noto, «il Fontanella sembrava appagarsi della contemplazione di una natura soavemente leggiadra […] e al Tasso faceva riferimento [per] una ricerca dell’ameno e del tenero»198. Sull’ascendenza del ceppo teocriteo-virgiliano e mai immemore del magistero tassiano nelle rimodulazioni del Marino, il Fontanella compose il sonetto Al pesce scorfano tra gli Scherzi maritimi. Singolare appare il riferimento al precedente del Donno 199, soprattutto per l’incipit richiamato e reso dal Fontanella («O spiritello tremolo, e guizzante») quasi a calco («animato rubin, spirto guizzante»), su stilemi e cadenze del salentino («arso d’Amore, / vai disfogando l’amoroso ardore, / tra boschi di coralli, avido amante») che l’autore dei Nove cieli riprende con quel tono e quella misura amata dal Croce («E dentro boschi di coralli errante / quasi vivo rubin veder ti fai»). L’omaggio alla donna, Cilla, sembra più ricco e cromaticamente vivido nel Donno («a quel raggio divin, ch’onoro ed amo, / tosto diventerà porpora ardente»), mentre l’attenuazionenegazione dell’identificazione con l’avorio e con la porpora («Ostro non è, né purpurino umore, / ma destro i salsi, e liquidi zaffiri / e ’l lume tuo, che m’infiammò d’amore») rispetto agli occhi per Fontanella risulta funzionale all’esaltazione finale della bellezza muliebre, luminosa sorgente d’amore. XCI. AL PESCE SCORFANO (Donno) Animato rubin, spirto guizzante, del zafiro del mar fregio ed onore, ch’a vagheggiar lo mattutino albore, lieto fendendo vai l’onda sonante, cura di S.M. Martini, Salerno, Elea Press, 1995; poi per una progressiva “moda” sul tema, anche in generi letterari diversi dall’egloga. 196 A. Asor Rosa, La tendenza melica e naturalistica, in La lirica del Seicento. Letteratura Italiana, Bari-Roma, Laterza, 1979, p. 157; cfr. B. Croce, Lirici marinisti, Bari, Laterza, 1910, pp. 221-66 e 534 e Opere scelte di G.B. Marino e dei marinisti, II, a cura di Giovanni Getto, Torino, UTET, 1962, pp. 143 e sgg.; anche Marino e i marinisti, a cura di G.G. Ferrero, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 841-91. 197 R. Contarino, Fontanella Girolamo, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., p. 729. 198 Ibidem. 199 G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 130.

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deh, qualor sceso in giù tacito, errante, rubicondo, incarnato, arso d’Amore, vai disfogando l’amoroso ardore, tra boschi di coralli, avido amante, scaglia d’avorio lo minuto dente, traggine ricco e prezioso ramo, che sia di Cilla mia gradito dono! S’al color, s’al pallor parrà men buono, a quel raggio divin, ch’onoro ed amo, tosto diventerà porpora ardente. Al pesce scorfano 200 (Fontanella) O spiritello tremolo, e guizzante, che d’alghe molli a pascolar ti stai; e dentro boschi di coralli errante quasi vivo rubin veder ti fai. Appresso il lito, ove nuotando stai; tu con tremolo guizzo, umile avante a lei t’inchina, e riverente omai. Ninfa (dirle puoi tu) questo, che miri sparso di vivo minio almo colore, onde tinta ho la spoglia in vari giri, ostro non è, né purpurino umore, ma destro i salsi, e liquidi zaffiri e ’l lume tuo, che m’infiammò d’amore.

Sembra opportuno proporre pure il confronto poetico sul riccio di mare, l’echino, tema affrontato sia dal Donno, sia dal Fontanella, ma non estraneo al Marino delle Rime marittime 201 (Per alcune frutta di mare che aveva donate alla sua ninfa, sin dalle due prime strofe, n. 12, vv. 1-8: «Ricci pungenti, o misero Fileno, / a chi sia pur il cor doni non cura / recasti in dono. Un dono ormai procura / che lei rassembri, e la contenti a pieno. / Ché, se pari al rigor ch’ella ha nel seno, / lor di scogli e di spine armò natura, / sott’aspre punte e scorza alpestre e dura / dolce frutto e gentil chiudono almeno»). La prima strofa del salentino («guscio d’ebano puntato, acuti strali, dorso armato») riecheggia elementi mariniani, sapientemente rielaborati nella rapida trasfigurazione delle strofe successive, in versi tutti orientati al preziosismo 200

G. Fontanella, Scherzi maritimi, in Cielo di Venere. Nove cieli, cit. Giovan Battista Marino. La Lira, in. Archivio Tematico della Lirica Italiana, cit., p. 372; G.B. Marino, Rime marittime, a cura di Ottavio Besomi, Costanzo Marchi e Alessandro Martini, Modena, Panini, 1988, p. 49. 201

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naturalistico, di cromatismo pastellato (l’alba imperla, ingemma il prato, belle chiome bionde, muscose sponde, giorno aurato), tra tonalità di verde-muschio e giallo-oro, tra sfumature di perlaceo e paglierino, con la caratterizzante metafora riccio-segretario del mare, per altri aspetti presente nel Marino (Lira, Parte seconda, 1602, 118, 2; ma soprattutto in Parte terza, Capricci, 1614, 59, 28) 202. Tuttavia, rispetto al precedente del poeta maestro e corifeo, il Donno risolve il sonetto in autonoma realizzazione, con altra voluta metaforica, nell’iperbolica identificazione riccio-sole del mare, per cui gli aculei sono raggi del «liquido orizzonte», sino all’onta finale a opera della ninfa: XCIX. L’ECHINO 203 Colui che ’l guscio d’ebano puntato, secretario del mar, nel mar s’asconde, d’alghe s’ammanta e tra l’arene e l’onde porta d’acuti strali il dorso armato, alor che l’alba imperla e ’ngemma il prato e stampa in mar le belle chiome bionde, sorgendo fuor da le muscose sponde, l’occhio rivolse al novo giorno aurato; e disse: «O sol! sol, che la terra allume, cinto di rai, con ardent’occhio in fronte, fuggi; deh, non ti vegga umido nume! Son io pur sol del liquido orizzonte, rai son quest’aghi e serbo anch’io il mio lume, mirommi ninfa e n’ebbi orrori ed onte».

Nel Fontanella la rielaborazione del Donno sembra prestarsi a ulteriori manipolazioni, sul precedente del salentino, ampiamente riutilizzato, senza oblio di richiami mariniani («Va per l’umide vie guscio spinoso; / e di rigide punte intorno armato[…] / ei ne la scorza è rigido, e puntato»), ma con leggiadra e aggraziata movenza il dono del poeta è un impegno a evitare la ferita al candido piede della sua bella, con l’auspicio in chiusa di terzina che il riccio ferisca con i suoi aghi il cuore dell’amata, definivo pegno d’amore, come di seguito:

202 Giovan Battista Marino. La Lira, in ATLI. Archivio Tematico della Lirica Italiana, cit., p. 399. 203 G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 133.

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All’enchino Questo, che dentro il mar chiuso, e celato, va per l’umide vie guscio spinoso; e di rigide punte intorno armato rota in mezo de l’acque orbe vezzoso. Prendi Dorilla mia nel grembo amato, come dono d’un cor fido amoroso: ei ne la scorza è rigido, e puntato, e molle frutto ha nel suo grembo ascoso. Deh se spina fu già, ch’ancor si vede la memoria del sangue aver nel fiore, perch’a Venere bella offesa diede: perch’essempio si stampi in te d’amore, non vo’ che ti ferisca il bianco piede; ma ben co gli aghi suo i ti punga il core.

Pure significativo appare il parallelo tra i due sul dono di perle, modulato su precedenti mariniani204 (Marittime, 10, Dona un vezzo di perle alla sua ninfa). Il Donno205 subito allude alla rugiada, che a dire di Plinio (Nat. Hist., 9, 54) sollecitava nelle conchiglie la procreazione di perle pure e pregiate206, ma se ne distacca in riferimento alla sua sofferenza d’amore, le cui lacrime sembrano sparse sul salato e murmure mare (salsa di Teti onda sonora); proprio le lacrime diventano dono per la donna, in segno di ossequio, da indossare come fregio del seno e del vago petto: XCIV. DONO DI PERLE Non di vermiglia e mattutina Aurora son queste, o Cilla, lagrime cadenti, sparse da’ be’ di quella occhi lucenti su la salsa di Teti onda sonora, ma del mio grave mal che m’addolora figlie stillanti e lagrime dolenti, versate da quest’occhi egri e languenti, converse in umil don, di cui t’onora. Ecco, le ti presento: e se son nere, colpa non io, ma ’l sol de’ lumi tuoi, che poco le guardò con raggio altero. 204

G.B. Marino, Rime marittime, a cura di Ottavio Besomi et alii, cit., p. 45. G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 131. 206 Ivi, p. 431. 205

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Prendile, o bella, toglile ad avere nel vago petto e sieno fregi suoi, e pietosa al mio duol volgi il pensiero.

Sempre negli Scherzi maritimi dei Nove cieli, il Fontanella207 pare riprendere l’esordio del Donno («Non di vermiglia e mattutina Aurora / son queste, o Cilla, lagrime cadenti») con l’elemento innovativo delle conche eritree a innervare il verso assai simile («Non fur d’alba nascente umidi pianti»), in una rielaborazione tutta protesa però a svolgere il tema del Marino: Dono di perle Non fur d’alba nascente umidi pianti da le conche eritree pescate, e tolte, queste, che ’n bella filza insieme accolte, miri (Dorilla mia) perle stellanti. Ma fur brine cadenti, onde stillanti, figlie de le mie doglie in pianto sciolte; ch’a la durezza del tuo cor rivolte, come pietre restar sode, e costanti. Son pallidete (è ver) quel bianco è scuro; ma colpa non è mia; ma di tue stelle, che sì crudel in riguardarmi furo. Ma se volgi benigno il guardo in quelle (sì come il sol fa col suo raggio puro) tosto diventeran candide, e belle.

Interessante appare il confronto sulla Donna losca, madonna offesa a un occhio; in entrambi i componimenti, la seconda parte si caratterizza per l’analogia tra sguardo-occhio vivido e saette-colpo d’amore, pur nell’unicità del deficit visivo («vaghezza è l’error, gratia il difetto»). Nel Donno la prosetta chiarificatrice si innesta sull’identificazione sole della terra-donna cantata (Isabella de’ Rossi), mentre nel Fontanella il rapporto d’amore si concentra nel gioco d’ingegno, non di rado decisivo e strategico nelle relazioni sentimentali («Usa inganni ne l’armi, e astuto ingegno. / Cauto imbraccia lo scudo, e ’l brando move, / in uno parte di colpir fa segno, / poi lancia il colpo, e va a ferire altrove»), come qui di seguito:

207

G. Fontanella, Scherzi maritimi, in Cielo di Venere. Nove cieli, cit.

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Bella donna losca Di natura non è segno imperfetto, né di vaga beltà macchia importuna, se mirando costei gli occhi straluna, che vaghezza è l’error, gratia il difetto. Amor per arco ha nel ferirmi eletto la vaga de’ begli occhi obliqua luna, e benché torto gira, o fosco imbruna, va dritto il guardo a saettarmi il petto. Fa come lui, che di battaglia al segno, per far del suo valor lodate prove, usa inganni ne l’armi, e astuto ingegno. Cauto imbraccia lo scudo, e ’l brando move, in uno parte di colpir fa segno, poi lancia il colpo, e va a ferire altrove. X. LA BELLA LOSCA 208 Perché vedea che ’l gran balen del sole da duo soli terreni era avilito, e gir con volto pallido e schernito, rotando intorno a la cerulea mole, scosse le rocche il ciel più che mai suole, commosse Averno, ingelidì Cocito, l’arco apprestò d’ardente stral fornito e mostrò quanto al cor s’affligge e duole. De’ duo soli nemici uno n’offende; fallito l’altro, al sol fea maggior guerra, ond’ei ripiglia l’arco e ’ncocca il telo. Ma Giove, ch’in bilancia il tutto appende, disse: «Dritt’è che, se ’l suo sole ha ’l cielo, a par del cielo abbia il suo sol la terra». La Signora Isabella de’ Rossi, gloriosa per la bellezza ed inclita per l’onestade e ’l valore, se da inimico accidente non fusse stata privata del destro lume, arebbe recato invidia a le più belle de’ nostri tempi; ma non resta però che con un occhio in fronte non viva eterna col grand’occhio del sole tra le carte immortali de’ più famosi scrittori.

Vent’anni separano il canzoniere del Donno dai Nove cieli del Fontanella; brandelli di modulazione versificatoria e lacerti di espressioni e locuzioni già 208

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G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 89.

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presenti in Marino, accennati, staccati e ripresi per porzioni o per allusioni, spostati, come tasselli rimirati e ridistribuiti, sembrano ritrovarsi nel Donno e ancor più rielaborati e svolti dal Fontanella, in variazione di tono e di umore, in dilatazione o in rapide sintesi di effetti gradevoli. Senza voler insistere su confronti e approcci comparativi, la stagione poetica meridionale della prima metà del Seicento pare straordinariamente ricca di una poetante mutazionevariazione sul ceppo Tasso-Marino, nel cui ambito il Donno rappresenta un anello significativo di una “catena” lirica a onde di frequenza, alla quale non possono dirsi estranei altri poeti, per ulteriori sedimentazioni. Nel salentino di Manduria la bipartizione petrarchizzante è divenuta quadripartizione, con la mediazione del Torquato sorrentino, sul fondativo elemento-forma del sonetto, dal I. Amorosa Arsura («Arsi gran tempo e ’ncrudelì cotanto / la viva del mio sen rapida arsura / che non lasciò, la micidiale e dura, / poca dramma d’umor’, stilla di pianto»), esordio della sezione Affetti Platonici e dell’intero canzoniere, al già indicato LXX. Alla Penna per la Bellissima ed al par del Sole Illustrissima Signora Venere Gonzaga Arditavita […] primo degli Encomii, al componimento LXXXIX dedicato A Nettuno, primo degli Amori Marinareschi, sino al CXIV. L’Inverno («Ecco, invitto campíon, l’inverno appresta / l’essercito de’ nubi, e d’ira armato, / copre d’orrido acciaio il sen gelato / e di lucido elmetto arma la testa»), primo delle Rime varie. Proprio nell’ultima sezione, dopo dodici brevi componimenti, l’innalzamento dell’impegno tecnico-stilistico e l’impennata di toni e di motivi pare raccogliere la potenziale sfida di emulazione poetica, intanto sulla confermata linea encomiastica, con le cinque stanze del CXXVI. Al Sig. Francesco Ferri, Pittore famoso, per li ritratti del Sig. Duca di Santo Elia e del Sig. Don Giuseppe Palma suo Fratello («Emulo di natura, / Francesco alzò ’l pennello / e ’n vaga tela e pura / trasse dal vivo il vivo e ’l bel dal bello, / e ’n suo valor dar seppe / novo spirto a Fernando, alma a Giuseppe […]») 209, in cui emerge il connubio poesia-pittura, con le possibilità eternatrici e mimetico-veristiche delle due arti intrecciate, capaci di trasfigurare la realtà e di vincere la divinità della morte e il tempo in persona («Per gli orbi erranti e fissi / voli il Tempo a sua voglia, / da’ tenebrosi abissi / corra la Parca in tenebrosa spoglia, / ché vedrem, s’io non erro, / la Parca e ’l Tempo estinti innanzi al ferro») in forza delle abilità e delle ispirate capacità del pittore. In immediata successione, compaiono altri ampi componimenti, già osservati nelle loro componenti tematico-strutturali, ma di evidente, elevata tensione stilistica e tecnico-versificatoria, come CXXVII. Al Leon Celeste contro il rigor di Madonna Inferma

209

Ivi, pp. 14-46.

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e CXXVIII. La Bella Mora 210, insieme con il poemetto CXXIX. Gli Amori di Leandro ed Ero e con CXXX. La Palma. Dopo il ricordato convegno di madrigali sulla palma, il Donno inserisce i due idilli CXXXVII. La Partenza e CXXXVIII. L’Anniversario Amoroso: ricca di temi e motivi, tutta la sezione pare una sostenuta e solenne dichiarazione di attività professionale, una vera e propria professione di fede nella poesia, per cui l’autore rappresenta la sua storia in cui è soggetto-oggetto, tra relazioni civili e sociali, tra vari mutamenti nello spazio geografico, degli Stati politici e delle città, in un processo di adeguamento-rinnovamento su ineliminabili valori condivisi poetico-esistenziali e civico-intellettuali. Per numerose e rinnovate prove, nel Donno la presenza del sonetto è persistente e decisiva negli Affetti Platonici, negli Encomii amorosi e negli Amori Marinareschi: con l’eccezione su indicata di alcuni madrigali tra gli Encomii e le Rime varie, la struttura del sonetto caratterizza le prime tre sezioni del canzoniere La Musa Lirica e ne costituisce l’elemento decisivo come autentico filo rosso e pietra angolare, mattone costitutivo dell’intera, complessa aggregazione, sia in sé, come testo completo, sia come parte di un testo più vasto, del libro nella sua materialità e del canzoniere come epifania del soggetto211. Pare di intravedere nelle prime tre sezioni, accanto e forse dentro la dimensione lirica, una non trascurabile componente narrativa, non incompatibile e a dire il vero necessaria e complementare a quella. Anche il canzoniere del Donno nasce da un’idea di storia d’amore, nel caso del manduriano pure innervata da iniziali e forti compromissioni autobiografiche, di disagio e di malessere nella nativa Manduria, in letterarie trasfigurazioni. La progressione e la dinamica del suo discorso interiorizza il filone del petrarchismo, ma soprattutto la scoperta petrarchesca della memoria212, consegnando alla quarta e ultima sezione Rime varie la concreta espressione della straordinaria ricchezza-pluralità-disponibilità offerta dal processo storico-letterario in identitaria lingua toscana (con stratificate forme e strutture liriche), per la “potenza” dell’impegno poetico. Il titolo sufficientemente blando di Rime varie appare poco significativo, nell’apparente scarsa importanza assegnata all’ultima sezione, ma secondo modalità letterariamente topiche anch’esse, il poeta sviluppa ancor più il discorso narrativo sul piano della dimensione ideologico-culturale: lo statuto formale di varietas è poeticamente assunto nel canone, ma esaltato da valen210

Cfr. H. Friedrich, Epoche della lirica italiana. Il Seicento, Milano, Mursia, 1976, pp. 167-68. 211 M. Santagata, Dal sonetto al Canzoniere, cit., p. 122. 212 Ivi, p. 127.

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ze mitizzanti e civili, come la stabilità, il buon governo e lo splendore della Serenissima, e per ciò stesso fortemente connotato nella direzione programmatico-formativa di una stabile e rassicurante classe dirigente: allora, a Venezia, si poteva. Per Donno pare possibile l’intreccio tra aristocraticismo civico-intellettuale e letteratura socialmente vitale, nel nome della poesia, lirico-mondana da un lato e didattico-morale dall’altro, maestra del “ben vivere” in una stratificata storicità, nel distintivo binomio Venezia-Venere e Serenissima-Cattolicissima, come Fede-Bellezza in barocco e speculare richiamo, con il correlativo oggettivo «alato Leon-nido d’eroi»213, in grado di dispiegare valori epicizzanti. Anche il rapporto con il mito, già con Cilla e Fileno, è ben presente e significativo tra gli Amori Marinareschi, ma l’ampio poemetto di Ero e Leandro caratterizza e contraddistingue la “sezione aurea” della raccolta: come già detto in proposito, l’articolazione della duplice prospettiva tra indomito giovane e coraggiosa sacerdotessa, animoso eroe-bella amante, procede oltre la visione oggettuale, sul tema del fuoco amoroso, in ottica bipolare, per livelli più avanzati rispetto ai testi greco-latini di Museo e di Ovidio. Il testo antico riceve un intervento di manipolazione per investimento psichico, nello scenario tragico del mare in tempesta durante le ore notturne; simbolicamente la coppia giovane e vitale entra in collisione con gli stringenti criteri del mondo adulto e con i parametri organizzativi della vita associata, sino al rimpianto, alla deprivazione, al vuoto: l’eros appare una forza soccombente quando non si coniuga con la vita di relazione e con la comunità più ampia. Un velo di malinconia si intravede e palpabile appare una forma di tenera pietas, con un soffio poetico patetico e sensuale, dinanzi al tragico tramonto dell’amore intenso e appassionato. Dal mito di Ero alle coeve nobildonne, anche nel Donno emerge la necessità di guardare e toccare l’intera serie delle possibilità umane, in primis della donna, oggetto centrale della sensibilità barocca, in tutti gli scorci della realtà, con una possibilità di sentimento perplesso o doloroso, con un senso sofferto e smarrito degli aspetti contrastanti e inconciliabili della vita, in una consapevolezza arricchita del volto mutevole delle cose, di quella pensosità ornata e di arguzia stupita che già definiva il relativismo prospettico di tale età214. Allora non sorprende che il Donno individui una possibile certezza, pur nella mobilità continua e imprevedibile del reale; oltre il cauto marinismo, il Donno

213 214

G.B. Marino, La Lira, Venezia, appresso Giovan Battista Ciotti, 1615, p. 153. Cfr. Opere scelte di Giovan Battista Marino e dei Marinisti. I Marinisti, cit., p. 21.

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adotta le ascendenze mariniane sul ceppo della tradizione lirica ultimo-cinquecentesca, avvertita come consentanea, ma con innervate e personali inserzioni, su analitiche introspezioni. Tra letteratura e biografia, coltivare la poesia significa essere vocato alla trasmissione di idee-valori in originale contributo creativo-inventivo, sino alla trasfigurazione del mondo. Nel manduriano la linea encomiastica conserva il gusto dell’ornamentazione, ma con vivacità, talvolta con animazione fervida e non priva di slancio, anche emozionata, per riconoscimenti e gratificazioni, nella percepita inquietudine di fondo. L’ultima sezione della Musa lirica ne costituisce la sintesi e in buona misura la sublimazione; su tale percepita inquietudine, non immune da iniziali fantasie onirico-allucinatorie, per elementi retorici di suono e di significato virtuosamente elaborati con sapienza tecnica in esibita padronanza versificatoria, il Donno costruisce una sua cifra personale: dall’instabilità sempre incombente all’approdo confortante e alla fermezza civico-culturale della Regina dell’Adriatico; dal relativismo di prospettive incalzanti all’abbraccio della religione apostolica romana. La lettura del testo poetico pure assume significato di fruizione sociale, diviene modello di comportamento umano; allentata la supremazia divina della testualità medievale, nel Donno il testo si pone come scheda delle possibilità di espressione e reperto di verità umana215. Si è ricordato più volte, le Rime varie dispiegano componimenti difformi, meno e più ampi, metricamente differenziati, sia nello schema agile del sonetto e nel madrigale, sia nelle volute larghe delle sestine, tra endecasillabi e settenari, sia nel respiro potente e incisivo del poemetto: il rischio di una fibrillata, estenuante visione del mondo per frammentazione dispersa su serie sfuggenti e su divergenti rivoli, pur analiticamente affrontati o rapidamente sfiorati, si risolve esistenzialmente e ideologicamente nella sintesi della “Divina Metamorfosi” del pane-vino in corpo-sangue, per il salentino l’ultima, la più alta del suo canzoniere. La poetica barocca di novità-sorpresa-meraviglia trova nel Donno un convinto esponente, con l’intervento intellettuale-concettistico in sensibilità di affetti su profili inediti; ma nelle Rime varie, senza dimenticare Tasso, con richiami talora significativi al petrarchesco canzoniere capostipite, il Donno conclude il suo percorso lirico-narrativo con i componimenti nn. CXXXIX (A San Martino), CXL (Per le Stigmate Sacre del Serafico San Francesco), CXLI (La Vergine Madre sopra il Figlio Estinto) e CXLII (Santa e Pietosa

215

Giovan Battista Manso, in G. Ferroni – A. Quondam, La “locuzione artificiosa”. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, cit., p. 18.

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Rimembranza). Sono temi e motivi della iconografia e della predicazione a lui coeva, di ispirazione biblico-cristiana, ma liricizzati non in termini di cronaca esterna216, piuttosto in rappresentazione drammatica, in chiaroscuro antitetico. Dinanzi alle forze e alle tensioni che minacciano e scompaginano certezze e consistenze, in mezzo all’universale metamorfismo, per il salentino la metafora-metamorfosi dell’Eucarestia-Corpo mistico è una certezza appagante e definitiva. Ultimo componimento poetico prima della prosa CXLIV (La Pittura della Primavera), tra riflessione e sentimento morale, il dialogo tra Natura e Amor Divino assume traboccante valore assoluto 217: CXLIII. DIALOGO, AMOR DIVINO E NATURA, PER LA SANTISSIMA EUCARESTIA […] Natura:– O de l’opre di Dio mirabil mostro, de le prove di Dio memoria eterna, ostia sacrata e pura, de la fame del cor cibo divino, già t’adoro e t’inchino, e ti consacro, altar divoto, il petto, pregando che sì come in terra io godo sotto sacrate specie alto diletto, goda sotto celeste immortal velo le dolcezze de gli angeli e del cielo –.

Nel dialogo tra mondo creato-natura e figura di Cristo-amor divino, a corrispettivo di se stessa emanazione divina e oggetto del Creatore, la Natura pare ritrovare nell’Eucarestia decisiva e perenne conferma della presenza di Dio sulla terra. Con i brividi dell’ardito traslato (mirabil mostro), per etimologica accezione riferito al portentoso e straordinario evento della transustanziazione, in concreto richiamo alla fame spirituale (cibo del cor), dentro al petto identificato come «altar devoto», la metafora si metamorfizza: il Verbo rivelato è parolacarne e cibo perenne per la trasformazione del mondo. In ultimo, tra «sacrate specie» e «dolcezze degli angeli», tra visibile sapida concretezza dell’ostia e gustosa visione di impalpabili presenze celesti, la similitudine tra terra e cielo chiude il componimento e conclude il canzoniere del Donno, nel nome della verità cattolica, anche per la sua universale capacità metamorfica divenuta decisiva scelta di vita, nell’abbraccio tra finito e infinito, ab aeterno, ma nella storia. 216 217

Opere scelte di Giovan Battista Marino e dei Marinisti. I Marinisti, cit., p. 57. G. Rizzo, Ferdinando Donno. Opere, cit., p. 189 (vv. 92-101).

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Per il manduriano, come per tutti i secentisti, la metafora fu ornamento e coronamento, condimento sommo della locutio, «lusingatrice dell’udito, piacevole inganno, faticoso frutto d’ingegno, strumento di icastica rappresentazione»218. In tal senso, se può apparire riduttiva l’indicazione critica del Donno come marinista conservatore, le scelte tecnico-stilistiche e storico-letterarie consentono di individuarlo nell’alveo del classicismo mariniano, con una sua dimensione autonoma, piuttosto di noto e riconosciuto interprete della poetica barocca in personali soluzioni, ricche e articolate, significative e degne di attenzione critica, anche in epoche successive, come Gino Rizzo dimostrò nel denso, fondamentale volume del 1979, da lui curato e più volte richiamato, ma anche in più recenti interventi219. Con il successivo romanzo L’amorosa Clarice, a dire il vero poco fortunato, ma soprattutto con il poema in dieci canti L’Allegro Giorno Veneto, il Donno si segnalò a livello nazionale tra i più riconoscibili autori del Mezzogiorno barocco, nella triangolazione Salento-Napoli-Venezia, con la complessiva opera significativa di un momento storico su decisive scelte di stile e di poetica. Dalla nativa terra manduriana, bagnata dallo Ionio, alla tirrenica città vesuviana, percorsa da linfe di calda natura e da venature di riottosa socialità, sino alla laguna adriatica delle nobili belle signore trasfigurate in sontuoso paesaggio e in dimensione dell’anima, il Donno compie il suo itinerario lirico-spirituale e storico-sociale di andata e ritorno, da mare a mare. Anche i soggiorni nella Città Eterna sembrano contrassegnare il viaggio tra le capitali barocche, per concludersi nell’esercizio pastorale e nell’attività di cura dei fedeli. Nel viaggio delineato dal suo canzoniere, fortemente emblematica così appare la dichiarazione del sonetto proemiale Amorosa arsura degli Affetti platonici, tutto svolto in termini di drammatica conflittualità all’insegna di amore: Indi passò tant’oltre e crebbe tanto, ch’a le polpe aventossi avida, impura; e fatte di sua fame egra pastura, vestìan d’orrida morte arido manto. Qui non fermossi, anzi più viva, ardente, fatta vie più famelica e vorace, a l’avanzo de l’ossa andò repente. 218

Id., Giuseppe Battista. Opere, Galatina, Congedo, 1991, p. 44. G. Rizzo, Dal Regno di Napoli alla Serenissima: mitografie veneziane secentesche, in La Serenissima e il Regno. Nel V Centenario dell’Arcadia di Iacopo Sannazaro, cit., pp. 623-25. 219

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Al fin cener son fatto a sì gran face; e tal fia viva cenere dolente chi l’arsura d’amor, soffrendo, tace. Non è pena, non è tormento maggior di quello che nell’inferno d’amore patisce un’anima innamorata: ch’accesa le viscere di gran desio di bellezza, tormentata l’interno di mille Furie amorose, misera ch’a mortal fine trabocca; tanto più disperata d’ogni salute, quando ch’Amor tiranno l’ha fatto di freddo ghiaccio la lingua.

Tale vestibolare lirica dichiarazione, ancora rorida di accenti amorosi, segmentata per polpe e ossa, per fuoco e arsura, per pieno e vuoto, trova alta e sublime corrispondenza nel finale Dialogo poetico della Musa lirica, con l’alone petrarcheggiante non immemore di Rerum vulgarium fragmenta. Così nelle braccia della Santa Madre Chiesa Cattolica, il conclusivo approdo apostolico romano lascia intravedere un percorso connotato in avvio dalla rovinosa passione d’amore, lesiva della viva carne e incidente anche oltre («a l’avanzo de l’ossa»), psichicamente avvertita come sofferenza da martirio («viva cenere dolente / chi l’arsura d’amor, soffrendo, tace»), che ora si dipana e muta segno, ora si trasforma e ritorna, si svolge, si sviluppa, di verso in verso, di rima in rima, in pause platonizzanti, in vistosi slanci encomiastico-celebrativi, in sapori alieutico-piscatori, in galante mondanità e in civili relazioni, in estese intersezioni mitografiche, in riflessioni agiografico-mariane, sino alla conquista di Dio. Sarebbe fuorviante ora sostenere che il canzoniere del Donno sia la storia esemplare di una salvezza, srotolata sul modello del maestro di Arquà; la considerevole icona del Tasso, stella polare della poesia napoletana tra i due secoli, e la consanguineità emergente con il Marino ne orientano e ne colorano la versificazione, anche in sinuosa sensualità e in variegata molteplicità, ma in più con una personale, onirica o misteriosa tensione e sublimazione del reale220. Talora proprio a riecheggiare sonori bagliori mariniani o a riflettere sotterranee intermittenze tassesche, la lirica del Donno testimonia uno sviluppo ulteriore dell’io dinanzi alla moltiplicazione del reale già esperito e ancora esperibile, per orientare l’autoproposizione individuale nella costruzione di un territorio lirico anti-dispersione, pur nell’accoglimento della vincente poetica di varietà-novità-meraviglia sino al sacro, al divino e alla sua quotidiana metamorfosi di infinito-finito. Non è più solo l’adozione del sistema della ripeti-

220

Giovan Battista Manso, in G. Ferroni – A. Quondam, La “locuzione artificiosa”. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, cit., p. 23.

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zione: per il salentino l’interiorità si storicizza e il tempo soggettivo del poeta salentino si oggettivizza nella realtà e nella civiltà della Repubblica, serenissima e invitta, oltre l’intrattenimento, garante di una centrale proposta ideologico-culturale, tra tempo e oltre-tempo. La differenza-diversità supera le censure e gli apparati igniferi221 di esclusione, per reintegrarsi nel circuito del discorso, storico-letterario e politico-civile, in linguaggio comunicativo. Così il Donno contribuisce a riaffermare il valore di una élite intellettuale, con la forza del genere lirico, di là da tutte le spinte centrifughe, in coerenza di strutture poetiche e di scelte stilistiche.

221

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Ivi, p. 224.

Pierandrea De Lorenzo I NOVE CIELI DI GIROLAMO FONTANELLA. CONSIDERAZIONI SULLA STRUTTURA DEL CANZONIERE

1. Fontanella e la tradizione lirica barocca «Girolamo Fontanella, rimasto ignoto fin oggi, menzionato solo da qualche bibliografo ma da nessun critico e storico; il Fontanella, un poeta napoletano, che morì giovane; se fosse corretto e sobrio quanto è fresco e vivace sarebbe il più notevole dei marinisti e superiore d’assai allo stesso Marino come cantore della natura e degli oggetti naturali»1: è la posizione critica di Benedetto Croce che, pur nella severa condanna alle molte forme di un secentismo divorato dal «verme roditore» dell’ingegnosità2, ritrovava in Fontanella quella tendenza al canto e ad effusioni meliche sufficientemente lontane dal virtuosismo fastoso e sterile di buona parte della produzione lirica coeva. Tra i numerosi poeti barocchi – o, per meglio dire, secentisti – che Croce passa in rassegna nei suoi studi, e a cui dedica la celebre antologia3, al Fontanella viene dedicata una sezione ampia e un’attenzione senza dubbio rilevante e assai scrupolosa, al punto che ancora oggi sono valide le indicazioni di carattere biografico che fornisce un capitolo dei suoi Aneddoti interamente dedicato al poeta napoletano4, a questo «obliato verseggiatore» dal «fresco e vivace impressionismo; così fresco e vivace che quasi mette il lettore nell’aspetta-

1

B. Croce, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 19483, pp. 389-90. Ivi, p. 390. 3 Mi riferisco ovviamente alla silloge Lirici marinisti, Bari, Laterza, 1910. Al Fontanella sono dedicate le pp. 219-66. 4 Il riferimento è al saggio Per la biografia di un poeta barocco: Girolamo Fontanella, in B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, Bari, Laterza, 19532, II, pp. 163-71. 2

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zione che da esso stia per svolgersi, rompendo i legami barocchi, un’amorosa, affettuosa e tenera contemplazione della natura e della bellezza»5. Nonostante gli sforzi del Croce e, successivamente, di altri pochi studiosi attenti alla figura artistica del Fontanella, molti dati biografici persino essenziali restano tuttora vaghi se non ignoti: incerta la data di nascita, molto probabilmente il 1612, così come quella della morte, avvenuta tra il marzo del 1643 e l’aprile del 1644, come dimostrato dal Croce che ha fissato questa periodizzazione anche sulla base delle date riscontrate su alcuni manoscritti autografi6. Purtroppo non sono note le fasi della sua formazione culturale, per cui si può solo cercare di ricavare qualche indizio da riferimenti testuali e paratestuali partendo dai pochi elementi a nostra disposizione: anzitutto la sua iscrizione all’Accademia degli Oziosi. Secondo il giudizio del Croce, l’ode L’incendio rinovato del Vesuvio 7 sarebbe la prima composizione messa a stampa dal Fontanella8, probabilmente nata nei primi anni della sua esperienza come accademico Ozioso; restano minime, tuttavia, e raramente illuminanti su aspetti biografici, le tracce della sua attività nel sodalizio accademico9. A giudicare dalla fittissima presenza di nomi di gentiluomini, letterati ed artisti napoletani nella sezione dei suoi Nove cieli dedicata alle rime encomiastiche, alcuni dei quali assai noti per le loro produzioni letterarie (basti pensare ad Antonio Basso o a Giuseppe Battista), si può dedurre che Fontanella godesse di un notevole prestigio sociale, o per lo meno fosse molto conosciuto negli ambienti napoletani più influenti; resta peraltro accreditata l’ipotesi del Croce secondo cui Fontanella mosse i suoi passi da letterato esclusivamente nella società napoletana e che tutta la sua opera fu composta a Napoli; fu importante, sottolinea ancora il Croce, il rapporto di ammirazione e forse di ambigua amicizia che lo legò alla pittrice Artemisia Gentileschi (cui dedica un’ode e ben quattro sonetti), che frequentò durante il suo primo soggiorno a Napoli, avvenuto tra il 1630 e il 1637 10. Un poeta “napoletano” di formazione, quindi, legato fermamente all’ambiente sociale e culturale partenopeo, assai noto anche alle nuove generazioni di poeti che dalle province

5

Ivi, p. 163. Ivi, p. 166, n. 2. A questa stessa argomentazione fa riferimento Rosario Contarino (cfr. Dizionario biografico degli italiani, ad v.). 7 L’ode fu pubblicata a Napoli, nel 1632, per Ottavio Beltrami. 8 Cfr. Per la biografia di un poeta barocco, cit., p. 165. 9 Cfr. G. de Miranda, Una quiete operosa. Forme e pratiche dell’Accademia Napoletana degli Oziosi 1611-1645, Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 2000, in particolare alle pp. 259-60. 10 Cfr. Per la biografia di un poeta barocco, cit. p. 164. 6

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I Nove cieli di Girolamo Fontanella. Considerazioni sulla struttura del canzoniere

del Regno giungevano a Napoli per cercare nuovi consensi di pubblico o nuove opportunità artistiche11. Risale al 1633 la prima raccolta poetica del Fontanella, l’Ode 12, pubblicata nuovamente a Napoli nel 1638 in una versione di molto accresciuta13: si tratta di un’opera assai interessante e già caratterizzata da quel «sentimento del divino, che, esplicito nelle liriche d’esordio e in quelle conclusive, è in verità il motivo dominante anche di quei componimenti che sembrano ripiegarsi nell’osservazione di cose e passioni di esclusiva pertinenza del mondo umano. Nella raccolta [...] la presenza di Dio avvolge tutti gli oggetti, viventi e inanimati, riportando ad unità il caleidoscopio di suoni, luci, colori e parole che la Natura contiene e l’arte discopre»14. L’Ode costituisce un macrotesto dall’impianto assai unitario, in cui già si notano le tendenze stilistiche che ritroveremo nella successiva raccolta Nove cieli, oggetto di studio specifico in questa sede, la cui struttura macrotestuale, nonché le direttrici lungo cui si orientano le singolari scelte compositive ed ideologiche, segnano una forma di continuum con l’opera precedente, come avremo occasione di dimostrare in seguito. La sua terza ed ultima raccolta, le Elegie, fu stampata postuma a distanza di cinque anni dalla pubblicazione dei Nove cieli, ad imitazione delle Epistole eroiche del Bruni15: qui «il Fontanella rispetto ai contemporanei diede prova di superiori capacità narrative nella rivisitazione di vicende mitiche, o di brani della storia classica o del poema ariostesco»16. 11

Stupisce che il Meninni, pur così attento agli sviluppi contemporanei della poesia, non riferisca della produzione del Fontanella nel suo Ritratto del sonetto e della canzone, pubblicato nel 1677, che pure presenta tre sezioni specificamente dedicate ad autori coevi, in particolare a coloro che composero sonetti (forma metrica a cui Fontanella si dedicherà con un’attenzione particolarissima), e menziona buona parte dei poeti che gravitarono attorno all’Accademia napoletana degli Oziosi (cfr. l’edizione moderna del Ritratto, a cura di C. Carminati, Lecce, Argo, 2002, I, pp. 57-64). 12 Edizione di sole 90 pagine, stampata a Bologna per Nicolò Tebaldini, che contiene trentaquattro odi, meno di un terzo della raccolta completa del 1638. 13 ODE / del Sig. / GIROLAMO FONTANELLA / Consecrate all’immortalità / DELL’ILL.MA, ET ECCEL.MA / Signora / D. ANNA CARAFA, / PRINCIPESSA DI STIGLIANO, / e Viceregina del Regno, / di Napoli. / Seconda impressione. / [fregio tip. ] / In Napoli, Per Roberto Mollo 1638. / Ad istanza di Gio. Domenico Montanaro. 14 Sono parole di Rosario Contarino, curatore dell’Ode (pubblicata presso l’editore Res nel 1994); la citazione è tratta dall’Introduzione, pp. V-XVIII: XIV), a tutt’oggi unica edizione moderna delle opere del Fontanella. 15 ELEGIE / DEL SIGNOR / GIROLAMO / FONTANELLA / Dedicate / ALL’ILL.MO ET ECC.MO / SIGNORE / DIOMEDE / CARRAFA PACECCO / Duca di Maddaloni / &c. / [fregio tip. ] / In Nap. Per Roberto Mollo 1645 / – / Con licenza de’ superiori / – / Ad istanza di Gio. Domenico Montanaro. 16 D. Chiodo, Suaviter Parthenope canit. Per ripensare la ‘geografia e storia’ della letteratura italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999, p. 168.

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La figura di Fontanella attraversa il Novecento beneficiando del giudizio positivo, pur cauto, del Croce, che traendolo dal “gorgo” dei tanti scrittori e poeti secenteschi, ne volle sottolineare perlopiù le distanze dagli eccessi della moda letteraria coeva. Se è giusto poter affermare che «nonostante l’autorevolezza dello scopritore [...] l’opera di Fontanella è rimasta nella sua decorosa semioscurità, confusa tra le tante raccolte di liriche del secondo Seicento napoletano»17, è bene tuttavia notare come nelle numerose sillogi di poesie barocche, lo spazio riservato alle liriche del Fontanella sia certamente rilevante, a cominciare dalle antologie di Ferrero18, sino a quelle curate prima da Ferrante e Muscetta19 poi dal Getto20. È altrettanto importante osservare come nei più noti studi critici sulla poesia barocca, saggi che offrono una selezione corposa di brani e che tendenzialmente suddividono gli autori secondo parametri soprattutto di natura stilistica, la posizione critica riservata al Fontanella, più o meno oscillante, è resa con maggiore evidenza proprio rimarcando quella distanza, già sottolineata dal Croce, dai modelli letterari più suscettibili alle esuberanze di un certo secentismo, nato sugli sviluppi estrosi di atteggiamenti creativi, di lontana origine mariniana, condivisi da un gruppo abbastanza nutrito di poeti. Il riferimento più immediato va al volume di Asor Rosa21 e all’Antologia curata da Segre e Ossola22, ma già a partire da studi più ampi sulla letteratura italiana del XVII secolo, la tendenza critica condivisa tende ad investire la figura di Fontanella dei tratti più moderati di un secentismo inteso nei suoi molteplici aspetti. Il punto stilistico su cui si notano i maggiori margini di oscillazione resta l’“argutezza” posta in opposizione ai diffusi accenti melici che caratterizzano in maniera pregnante la produzione fontanelliana: già il Flora la metteva in evidenza come un elemento aggiunto che non nuoce alla «franchezza di affetto», un verso che comunque resta spontaneo in modo più evidente nelle liriche amorose23. È una tematica marinistica, quella della sovrabbondanza di artifici retorici, che Fontanella riuscirebbe a mitigare, secondo un’acuta osservazione del Varese, con un senso di misura, eleganza, un «ideale di armonia e di ritmo classico conso-

17

Contarino, Introduzione, cit., p. V. Marino e i marinisti, a cura G.G. Ferrero, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954. 19 Poesia del Seicento, a cura di C. Muscetta e P.P. Ferrante, Torino, Einaudi, 1964. 20 Opere scelte di Marino e dei marinisti, a cura di G. Getto, Torino, UTET, 1962. 21 La lirica del Seicento, Bari, Laterza, 1975. 22 Antologia della poesia italiana. II Quattrocento – Settecento, Torino, Einaudi, 1998. 23 F. Flora, Storia della letteratura italiana. III. Il secondo Cinquecento e il Seicento, Milano, Mondadori, 1947, p. 309. 18

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nante con le ricerche del Chiabrera»24: un poeta della natura25, capace con estrema abilità di «variare il canto su singoli temi»26. Un Fontanella, quindi, conosciuto principalmente sulla base delle scelte antologiche operate prima dal Croce e, successivamente, nel corso degli anni Cinquanta-Sessanta del XX secolo. Non stupisce affatto questo limite nella diffusione delle sue opere se solo consideriamo la mole di testi secenteschi che ancora non sono stati pubblicati in edizioni moderne, ma che pure risulterebbero importanti per circostanziare adeguatamente tutta una serie di osservazioni critiche trasversali sulla lirica secentesca; se rapportiamo proporzionalmente questi dati quantitativi al numero di testi editi di recente in volumi o disponibili in banche dati digitali, otteniamo dei valori fortemente sbilanciati. È lecito affermare, quindi, che il Fontanella su cui si è scritto, e non tanto, sino alla fine degli anni Novanta del Novecento, non sia soltanto quello delle antologie cui Croce diede un vigoroso impulso, ma ancora quello risollevato dalla critica, nella quasi totalità dei casi rivolta più in generale alle varie espressioni della lirica barocca, e stabilizzato sulle acute affermazioni che tendono, nei fatti, a rimarcare posizioni di non così distante memoria crociana. Non mancano, tuttavia, contributi critici più recenti, anche di notevole interesse, che mirano specificamente alla figura e all’opera del Fontanella27: si tende a dare conferma dell’immagine di un poeta dedito alla descrizione partecipe degli elementi naturali che divengono «un catalogo infinito di mirabilia»28 grazie a sinceri slanci poetici espressi con ammirazione, stupore ed eleganza, collocabile, con qualche piccola forzatura ma pur sempre con convinzione, in quel rassicurante terreno di sperimentalismo moderato posto a metà strada tra gli eccessi di un certo secentismo più sfrontato e gli accenni sobri ad un classicismo che

24 C. Varese, Teatro, prosa e poesia, in Storia della letteratura italiana. V. Il Seicento, Milano, Garzanti, 1967, p. 802. 25 Cfr. M. Guglielminetti, Manierismo e Barocco, Torino, UTET, 1990, pp. 374-77. 26 Storia della Letteratura Italiana, V, La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma, Salerno, 1997, p. 697. 27 Ad opera di Salvatore Consoli, che ha pubblicato due importanti saggi: il primo, più pertinente alla nostra indagine, dal titolo Girolamo Fontanella e le meraviglie della natura, in «Siculorum Gymnasium. Rassegna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania», XLVIII, 1-2, gennaio-dicembre 1995, pp. 109-17; ed il secondo, che amplia lo sguardo critico ad altri canzonieri secenteschi, L’esplosione del canzoniere. Nota sulle raccolte liriche barocche, in «Proteo», II, 1, 1996, pp. 43-8. Resta di fondamentale importanza la sezione che Domenico Chiodo dedica al Fontanella nel suo già citato volume Suaviter Parthenope canit, alle pp. 166-71. 28 Cito dal saggio appena ricordato di Consoli, Girolamo Fontanella e le meraviglie della natura, p. 112.

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mira all’equilibrio formale e al decoro espressivo. Sono osservazioni certamente incontestabili, su cui è lecito pensare di poter intervenire gettando nuova luce sulle scelte stilistiche e tematiche del Fontanella poste in relazione al contesto letterario in cui promuove e offre concretamente una certa idea di “canzoniere”. Questo resta possibile, a mio avviso, partendo dall’esame attento della sua opera più ambiziosa, i Nove Cieli, di cui si cercherà di capire quali siano gli aspetti più convenzionali, e se e quando di reale “innovazione” si possa parlare rispetto alla tradizione. Si apre inevitabile un primo grosso nodo problematico non semplice da sciogliere: offrire dei criteri validi di definizione, quando si parla di tradizione in un contesto esegetico che mira a cogliere i tratti “nuovi” di un’opera molto vasta, inserita nel flusso incostante e assai dispersivo della lirica barocca: la poesia secentesca notoriamente presta, riusa, riadatta materiali che spesso apparivano poetabili quasi fossero un’evidente occasione di esercizio stilistico e che, proprio per questo, sono frutto di scelte che bisogna comprendere senza cedere alla tentazione di usare pedissequamente la categoria dell’“imitazione” per ciò che poteva apparire più spontaneo, ovvio, che di consapevole maniera epigonica. Ricordiamo che il Seicento letterario si apre non solo con la produzione lirica del Marino, un Marino però distante dalle esperienza più audaci proprie di testi successivi che approderanno alla scrittura dell’Adone, ma anche col Canzoniero dello Stigliani, autore che incarna emblematicamente una contraddizione tipica di buona parte del primo Seicento e con cui bisogna sempre confrontarsi: Stigliani abbraccia un marinismo, nei fatti, che però nega fortemente nelle sue scelte teoriche; questa è la dimostrazione più immediata di quanto facile fosse aderire ad una certa moda letteraria nella assoluta spontaneità e senza neppure rendersene pienamente conto, quasi si fosse immersi in un’aura di suggestioni poetiche nuove che ognuno sentiva come naturalmente congeniali al proprio credo artistico 29. Da tutte queste osservazioni nasce la necessità di definire, più in generale, quale “aspetto” della tradizione letteraria, così multiforme e complessa, sia bene assumere come centro focale delle nostre osservazioni critiche, dovendoci muovere in questo mare magnum di materiale poetico e di testi non sempre di facile reperibilità, spesso confuso in un terreno in cui dilagano prestiti più o meno sospetti su cui ancora si può indagare attendendosi dei riscontri inattesi; basti pensare al caso a noi vicino di Storace d’Afflitto, solo per fornire un esempio dal carattere emblematico, che ottenne dal Fontanella buona parte dei

29

Cfr. O. Besomi, Ricerche intorno alla lira di G.B. Marino, Padova, Antenore, 1969, in particolare alle pp. 108-30.

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materiali con cui ha confezionato il suo primo canzoniere in lingua: si potrebbe agevolmente parlare di “plagio” se non fosse fondata l’ipotesi che il d’Afflitto abbia acquistato questo materiale dello stesso Fontanella per poi retrodatare il canzoniere ai primi decenni del secolo30. Al di là di questo specifico episodio, certamente estremo ma poi non così isolato come si potrebbe auspicare, è bene procedere cautamente tracciando il quadro, per quanto possibile completo, delle raccolte poetiche apparse nei primi decenni del secolo e che poterono influenzare in misura considerevole i giovani poeti legati all’ambiente napoletano non solo biograficamente ma soprattutto culturalmente, e valutando come venga recepita la nuova moda marinista nei termini in cui questa rilettura delle esperienze “moderne” poté costituire un nuovo “canone” realmente caratterizzante. La stessa categoria di “modernità”, che dovrebbe implicare la presenza di un crinale più o meno definibile fra tradizione e innovazione, si può applicare con alcune riserve alle prime esperienze liriche secentesche ritenute prototipi di un nuovo modo di fare poesia, “nuovo” quindi rispetto ad uno stile classicistico, forgiato sul modello petrarchesco cinquecentesco poi rinvigorito dalla scrittura tassiana. Non è sufficiente contrapporre le tendenze liriche nei primi anni del XVII secolo ad un modello unico e unitario in cui racchiudere la poesia del tardo Cinquecento, secondo logiche critiche più che condivise, se non si prendono in esame alcuni parametri stilistici ben definiti. Pur rimanendo in un’area geografica, quella partenopea, di più stretto interesse ai fini del nostro studio, ciò che avviene nel primo Seicento in ambito letterario non è che uno sviluppo più o meno atteso di scritture assai avanzate in termini di sperimentalismo che, pur collocate cronologicamente nel secolo precedente, annunciano, con segni di indiscusso distacco dai modelli di equilibrio cinquecentesco, nuove direzioni su cui si orienteranno scelte di stile e di temi proprie di un certo secentismo. Bisogna arretrare cronologicamente, quindi, per ritrovare nelle esperienze manieristiche di ambito napoletano, già in altre sedi indagate con osservazioni critiche che restano un valido punto di partenza per ulteriori considerazioni esegetiche31, le radici di uno stile di scrittura che poi caratterizzerà buona parte della lirica barocca.

30 Giunge a queste conclusioni, dopo uno studio comparativo assai scrupoloso, Enrico Malato, che per primo solleva la questione nel suo saggio Nuovi documenti cortese-sgruttendiani, in «Filologia e critica», II, settembre-dicembre 1977, pp. 417-43. 31 Mi riferisco agli studi di Amedeo Quondam, che al manierismo Napoletano ha dedicato pagine critiche ancora oggi indispensabili per comprendere gli sviluppi della poesia napoletana del tardo Cinquecento come del primo Seicento; si legga, in particolare, il suo volume La parola nel labirinto: società e scrittura del Manierismo a Napoli, Bari, Laterza, 1975.

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Già il tratto di novità più evidente nelle Rime del Marino, opera che contribuisce senza dubbio a segnare un nuovo gusto di poetare, è realmente “nuovo” solo in parte: la partizione del materiale poetico in sezioni distinte del canzoniere è di origine cinquecentesca32: «Questa divisione di rime nel Canzoniero, dice lo Stigliani che ’l Marino la tolse da lui; e pure, a riferir del Saprici, è nelle Nuove Fiamme di Lodovico Paterno», come osservò il Meninni che poco mostrava di apprezzare questa «divisione delle rime in capi»33; è da notare, soprattutto, che la nuova raccolta mariniana appare certamente come una moltiplicazione della tripartizione tassiana, e dallo stesso Tasso deriva l’allargamento dei temi poetabili che, ricordiamo, a questa altezza cronologica resta pur sempre moderato se lo si confronta con quanto avverrà successivamente in gran parte delle liriche barocche34. È soprattutto il Tasso lirico, quindi, a dare una spinta decisiva verso la nuova forma di canzoniere secentesco che tenderà ad adottare la triplice linea guida tipicamente tassiana, pur innestando ampie divagazioni tematiche di più recente memoria, oppure ad assumere sostanzialmente la fisionomia mariniana, in termini di macrostrutture: emblematico, e anche un po’ singolare, il caso delle Rime del Tasso stampate a Venezia del 1621 per mano di Carlo Fiamma, Divise in Amorose, Boscherezze, Maritime, Imenei, Heroiche, Morali, Lugubri, Sacre e varie, un Tasso quindi riletto e riproposto nella tipica forma mariniana35. I due più evidenti caratteri di novità che la Lira del Marino pare offrire a modello, ovvero l’allargamento del campionario del poetabile e la suddivisione netta della raccolta in definite sezioni tematiche, sono già riconducibili a precedenti esperienze poetiche nate in ambiente napoletano, quindi, secondo una tradizione che scorre ininterrotta dalle prime esperienze di scrittura del Tansillo o, in misura assai rilevante, del Rota, attraversando il Nuovo Petrarca del Paterno e poi lungo tutta una pletora di raccolte ad opera di poeti napoletani che portarono a conseguenze talvolta estreme certe tendenze liriche pregresse. Il vero “marinismo”, come lo si riscontra nei primi anni del secolo, appare ancora cauto, persino velato da vivide suggestioni petrarchesche, e pare addirittura 32

Cfr. A. Quondam, Dal manierismo al barocco. Per una fenomenologia della scrittura poetica a Napoli tra Cinque e Seicento, in Storia di Napoli, V, 1, Società editrice di Napoli, Cava dei Tirreni-Napoli, 1972, pp. 339-640. 33 Meninni, Il ritratto del sonetto e della canzone, cit., p. 16. 34 Cfr. A. Martini, Le nuove forme del canzoniere, in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del barocco, Atti del convegno di Lecce, 23-26 ottobre 2000, Roma, Salerno, 2002, pp. 199-226. 35 È Alessandro Martini a ricordare questo caso editoriale adducendolo, peraltro, come prova del fatto che la struttura delle Rime mariniane fosse in sostanza il modello dominante nella prima metà del Seicento (ivi, pp. 222-23).

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stemperare i più stravaganti risvolti stilistici, tutti cinquecenteschi, che si leggono nelle opere di Giulio Cortese o di Felice Passero, solo per suggerire due nomi assai indicativi, dove l’arguzia retorica, l’elaborazione formale assai artificiosa, come dimostrato da Quondam, sembrano collegare in qualche misura queste esperienze liriche a una parte cospicua di letteratura secentesca che accentuerà quei tratti di rilievo concettoso più facilmente etichettabili come eccessi di “marinismo”36. Già lo Stigliani, la cui prima esile edizione delle Rime (poi integrata dal Canzoniero in otto libri pubblicato nel 1605), apparve verosimilmente con un anno di anticipo sulla prima raccolta del Marino e circolò molto tra gli studiosi, contribuì, pur passivamente, al formarsi del cosiddetto gusto “marinista” in misura assai rilevante, secondo la teoria del Besomi, sino a poter supporre che l’incidenza della scrittura stiglianesca sulla poesia lirica dei primi decenni sia a tratti maggiore di quella esercitata dalle stesse raccolte mariniane 37. Accettare questa tesi significa riconoscere che il fronte dominante su cui si mossero i più arditi sperimentalismi formali avesse senza dubbio origine dalla disgregazione del canone petrarchista portato all’estremo da una scrittura manierista che frequentemente sconfina nel concettoso, nell’artificio retorico ridondante: lo stesso petrarchismo, in sostanza, ancora presente in filigrana nelle prime opere del Marino. Già agli albori del nuovo secolo si delinea un tratto di continuità con esperienze pregresse che ci porta a pensare che il primo gusto detto “marinista” sia in realtà un’evoluzione, per molti versi persino “naturale”, di tendenze stilistiche di cui Marino si trova ad essere semplicemente un valido sperimentatore persino moderato, sensibile, esattamente come molti altri interpreti autorevoli di questo gusto dilagante, alle nuove tendenze di scrittura e di interpretazione dei classici temi poetabili, la cui sostanziale svolta, in termini di contrasto più netto rispetto alla tradizione precedente, va ricercata nella seconda metà del secolo XVI. L’ampliamento tematico delle scelte poetiche, di pura origine tassiana, è un aspetto che più caratterizzerà la lirica del Seicento e al tempo stesso contribuirà ad irrigidire le immagini poetiche che nel corso del secolo sembrano davvero rincorrersi in forme competitive di confronto, quasi fossero il più delle volte un solo esercizio di stile. Anche in questo caso, il richiamo al Marino deve essere assai prudente, sia che si voglia tener conto in primo luogo della prova dello Stigliani, che contribuisce in misura assai rilevante ad allargare ancora di più la scelta dei temi su cui fare poesia, sia che si considerino altre raccolte che, prima del Marino, o esattamente negli stessi anni,

36 37

Cfr. Quondam, La parola nel labirinto, cit., particolarmente alle pp. 100-7 e 144-58. Cfr. Besomi, Ricerche intorno alla «Lira» di G.B. Marino, cit., pp. 108-30.

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hanno dato una spinta considerevole in questa direzione, come il caso di Cesare Rinaldi delle Rime nuove (pubblicate nel 1603), la cui opera si estende lungo un arco di tempo ampio, dall’ultimo decennio del Cinquecento ai primi anni del Seicento. La novità più rilevante della produzione del Rinaldi si misura proprio sul piano delle scelte tematiche; nei suoi testi, come dimostrato dal Besomi, «un dato oggetto (monile, veste, anello, e così via) non è semplicemente descritto, ma si offre spesso qual spunto per un ardito gioco di immagini», dato riscontrabile già nei Madrigali del 1588, secondo una maniera che sarà propria del barocchismo38. Tutte le prime raccolte paiono quindi orientate lungo queste direttrici di sperimentalismo che traggono inevitabilmente origine dal Tasso. A questo punto è da considerare plausibile l’ipotesi secondo cui, così come il Petrarca di fine Cinquecento è spesso letto e filtrato attraverso l’esperienza lirica tassiana, i più espliciti richiami al Tasso lirico passino nel primo Seicento, più o meno consapevolmente, attraverso la scrittura mariniana. È un’ipotesi, questa, da valutare a mio avviso soltanto attraverso un’indagine critica mossa adottando diversi parametri valutativi, e soprattutto tenendo presente quali fossero i reali modelli di equilibrio formale contrapposti nei fatti ad una certa scrittura di maniera arguta e concettosa. Può essere d’aiuto cominciare ad osservare proprio la struttura delle raccolte liriche intese come macrotesto distinto in diverse sezioni secondo un disegno di struttura più ampio e consapevole. L’esempio dello Stigliani, ancora una volta, diviene emblematico su più fronti: il suo Canzoniero del 1605 si pone in una posizione intermedia tra competizione ed evidente emulazione rispetto alla raccolta del Marino anche sul piano strutturale, ed è lecito immaginare, pensando all’ampissima diffusione dei canzonieri dei due autori, che questi abbiano costituito realmente un valido esempio con cui confrontarsi per le nuove generazioni di poeti che videro in questa struttura un pertinente sistema di partizione del materiale testuale. Un esempio da imitare, quindi, o da cui prendere le distanze comunque secondo scelte intenzionali. Osserviamo gli sviluppi della produzione poetica in area napoletana, centro gravitazionale per un nugolo di poeti meridionali che nel capoluogo partenopeo vedevano anche occasioni valide di formazione culturale. A ridosso degli anni della nuova edizione della Lira, il napoletano Marcello Macedonio pubblica la sua raccolta Nove muse, completata entro il 1610 ma pubblicata nel 1614 39. Quest’opera appare subito di grande importanza per una serie di fattori, a cominciare dalla scelta strutturale del macrotesto: la raccolta è divi-

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Ivi, pp. 87-107: 92. Cfr. Chiodo, Suaviter Parthenope canit, cit., p. 155.

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sa in nove sezioni, ciascuna delle quali è dedicata ad una musa. Questa ripartizione è indice inequivocabile di una presa di posizione del Macedonio in favore della modernità, sull’esempio del Marino e dello Stigliani: la particolare suddivisione del materiale poetico per temi, ma anche per forme metriche e stilistiche originali, si può più facilmente leggere come una nuova disarticolazione del canone della forma classicistica di canzoniere sotto una veste elegante; anche la visione di questo insieme macrotestuale quale “contenitore” dei temi poetabili, espressi il più delle volte con una ricerca di musicalità che trae origini dal modello tassiano e guariniano40, è di per sé emblematica di una scelta consapevole; è da notare, tuttavia, che quando si tratta di individuare delle soluzioni stilistiche per affrontare temi di più viva memoria petrarchesca, quali la bellezza della donna amata o la scansione delle vicende amorose, il raccordo con la tradizione si fa più evidente. Macedonio vuole dare al vasto materiale poetico una forma nuova, che evidentemente ritiene più efficace per raccogliere questi molteplici segmenti tematici che allargano sempre di più lo spazio del poetabile, e affinché questo insieme un po’ sbilanciato di liriche che mirano alla “varietà” sia metrica che tematica costituisca una raccolta dall’aspetto in qualche misura unitario, bisogna formulare un nuovo sistema di coesione macrotestuale, e gli esempi più prossimi si ritrovano nelle ripartizioni per temi41. Nel 1615, a pochi mesi di distanza dalla pubblicazione delle Nove muse del Macedonio, Antonio Bruni diede alla stampa la sua prima raccolta di liriche, già pronta da circa un anno, intitolata La selva di Parnaso. L’adesione al modello marinista del poeta mandurese è evidente, basti guardare la suddivisione di questo canzoniere in due parti: la prima presenta otto sezioni distinte per temi e separate da frontespizi interni (Amori, Fantasie, Encomi, Essequie, Piacevolezze, Moralità, Divozioni, Varietadi; seguono Proposte e risposte) e raccoglie esclusivamente sonetti; la seconda, più varia dal punto di vista delle scelte metriche, è divisa in sette parti ordinate per generi. A ben guardare la macrostruttura della raccolta, sembra ancora una volta di poter parlare di recupero del modello mariniano come evoluzione delle scelte di ripartizione operate dal Tasso; rispetto alla più avanzata proposta del Macedonio – e restiamo giocoforza in un ambito in cui il Marino costituisce un modello imprescindibile – la scelta del Bruni appare più conservativa, forte della simmetria col modello del maestro42. Domenico Chiodo individua nella carriera letteraria 40

Ivi, p. 156. Cfr. Quondam, Dal manierismo al barocco, cit., pp. 605-15. 42 Cfr. l’introduzione di G. Rizzo alla sua edizione delle Epistole eroiche del Bruni, Galatina, Congedo, 1993. 41

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del Bruni un esempio emblematico di come si sia evoluta la poesia barocca nel corso del Seicento43, osservazione acuta se si pensa che nelle sue opere successive, a cominciare dalle celebri Epistole eroiche pubblicate nel 1627, il Bruni lentamente si distacca dai modelli dell’amico Marino abbracciando sempre più la fede tassiana contrapposta al modernismo di cui anch’egli aveva subito il fascino pervasivo nelle sue prime opere. In questo senso, la negazione del modello mariniano avviene nell’ovvio ritorno all’opera lirica tassiana vista come il momento più alto raggiunto dalla poesia italiana. Quest’ottica critica, tutta sbilanciata verso il passato, ha tante ripercussioni, non per ultimo sulla struttura delle raccolte che tornano ad avere una ripartizione tripartita più equilibrata, fedele all’esempio fornito da un Tasso “redivivo” nella lotta agli eccessi della modernità. Ma il Bruni attenderà ben tredici anni dalla pubblicazione de La selva di Parnaso prima di redigere le Epistole eroiche, un torno di anni in cui si affacciano sulla scena letteraria altre importante raccolte poetiche che segnano già un’oscillazione di gusto, a cominciare dalla prima edizione delle Rime del cosentino Francesco Della Valle, anch’egli Umorista e amico del Marino come del Bruni, pubblicata proprio a Napoli nel 1617. In questa edizione i componimenti sono divisi per argomento, anche se non in sezioni nettamente distinte: nella prima parte vi sono le liriche d’amore, nella seconda quelle di occasione; se si osservano anche le edizioni successive a completamento della prima stampa napoletana, ci si accorge che l’organizzazione interna delle liriche, in particolare modo in quelle amorose, è assai tradizionale: qui è l’opzione petrarchista a prendere il sopravvento, secondo un canone linguistico e stilistico tradizionale. Col Della Valle pare di poter affermare che il ritorno al classicismo di matrice petrarchesca sia sin troppo passivo e poco suscettibile di variazioni stilistiche e tematiche che vivacizzassero la materia poetica; quel che conta, per quanto concerne l’organizzazione interna delle rime in un corpus unitario (o almeno così inteso), è che l’opzione classicistica insista sull’elemento diegetico all’interno della sezione amorosa secondo consolidati canoni tassiani44, cui pure il giovane Marino della Lira è incline, per quanto la sua adesione non sia scevra da rilevanti novità45 e non ricerchi mai un’effettiva compattezza narrativa.

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Cfr. Suaviter Parthenope canit, cit., p. 161. Cfr. A. Martini, Amore esce dal caos. L’organizzazione tematico-narrativa delle rime amorose del Tasso, in «Filologia e critica», IX, 1994, pp. 78-121, e V. Martignone, La struttura narrativa del codice chigiano delle rime tassiane, in «Studi tassiani», XXVIII, 1990, pp. 71-102. 45 Cfr. l’Introduzione di O. Besomi alla sua edizione delle Rime amorose del Marino, Modena, Panini, 1987, pp. 11-17. 44

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Nel decennio seguente si susseguono prove di scrittura leziosa, per molti aspetti epigonica, di poeti che entusiasticamente seguirono i nuovi indirizzi di gusto più artificioso, dalle Rime (1619) di Scipione Errico al caso notevole della Musa lirica (1620) di Ferdinando Donno, un canzoniere quadripartito dove è possibile intravedere più sezioni tematicamente orientate verso un modello più spiccatamente secentesco; bisogna attendere le due edizioni delle Rime di Torquato Accetto, più interessanti per quel che concerne la struttura della forma canzoniere, per avere una reazione di assoluto rilievo alla moda barocca imperante. Accetto ripropone il canzoniere narrativo, suddiviso nelle due sezioni «in vita» e «in morte» secondo lo schema petrarchista, mentre nella terza edizione della raccolta (1638) predilige una partizione tematica, considerata più vicina all’esempio tassiano che a quello mariniano46. Ancora una volta è il ricorso al modello lirico del Tasso su cui si risolve la matura presa di posizione classicistica di quanti vollero evitare un modernismo segnato, a questa altezza cronologica, da una temperie di suggestioni ormai accolte e condivise. L’ultima comparsa sulla scena letteraria napoletana a precedere le Epistole del Bruni, è ancora una volta all’insegna del cauto moderatismo: si tratta delle Rime (1623) di Francesco Balducci, di fede petrarchista, esposto oppositore, insieme all’amico Stigliani, del ductus mariniano. Così come avvenne per lo stesso Stigliani, la posizione del Balducci oscilla tra un antimarinismo meno teorico e più fattuale, come nelle liriche di emulazione chiabreresca, ed un modernismo che orienta alcune sue scelte poetiche secondo il gusto per l’arguzia e per la varietà dei soggetti. Trascorrono due anni dalla pubblicazione delle Epistole eroiche del Bruni quando Gian Francesco Maia Materdona dà alla stampa le sue Rime (1629), sapientemente strutturate in tre grosse sezioni tematiche: rime amorose, encomiastiche, religiose. Al di là di questa ripartizione, come sottolinea Gino Rizzo, si ritrovano altre distinzioni secondo un’idea di canzoniere pluritematico, con blocchi distinti di Amori Cittadini e Boscherecci, Encomi ecc., al solito seguiti dalla sezione Proposte e risposte 47. L’anno successivo uscirà la seconda raccolta del Bruni, Le tre Grazie. Quest’opera segna il distacco del Bruni dal modello mariniano: il canzoniere non è più ripartito in blocchi tematici secondo uno schema divenuto consueto, bensì si presenta con una tripartizione scopertamente tassiana (amorose, 46

Osservazione di Domenico Chiodo (Suaviter Parthenope canit, cit., p. 159). La prima edizione, quella del 1629, fu pubblicata a Venezia, ma nel 1632 il Maia Materdona deciderà di ristampare le Rime veneziane a Napoli, con pochi rimaneggiamenti (cfr. G.F. Maia Materdona, Opere, a cura di G. Rizzo, Lecce, Milella, 1989; per questioni di ordine filologico si vedano le pp. 70-73). 47

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eroiche, sacre-morali) e, dal punto di vista stilistico, raccoglie rime composte secondo un’idea di misura che ancora una volta si rifà al Tasso lirico. Seguendo l’esempio del Macedonio, il Bruni conferisce un aspetto elegante alla ripartizione assegnando ad ogni sezione un’icona dal sapore classico, e ciò attraverso un richiamo alle fonti mitologiche ed ai “classici” autori per antonomasia, ovvero Platone ed Aristotele, evocati in veste di garanti della legittimità e pertinenza delle scelte compositive. Il canzoniere del Bruni ostenta la sua classicità sin dal titolo, ma come spesso avviene nel corso del secolo, la ricerca del “classico” non può fare a meno del “moderno”: considerando il profilo dei temi sviluppati, pur all’insegna di un uso più morigerato del verso, e valutando con maggiore attenzione il punto di vista che si adotta per ritrarre poeticamente certe immagini del reale, non si può che ritrovare l’origine di questo stile compositivo nel sistema tutto “secentista” di fare poesia. Osservazione valida, a mio giudizio, anche per quel che riguarda le Rime del brindisino Giovanni Palma, anch’egli Accademico degli Infuriati, pubblicate soltanto due anni dopo; è emblematico il giudizio critico che riserva a questo autore il filosofo Giulio Cesare Baricelli, amico del Palma: «vorrebbe opporsi all’andazzo del suo secolo, a quello stile vuoto e tronfio dei suoi contemporanei: né io intendo moderno lo scrivere di questa età, il quale anziché comporre, è un anfaneggiare, e un dissipare inchiostro, e uno schiccherar fogli»48, uno stile in sostanza da vincere a patto che «il soggetto sia nobile non volgare, ben condotto, lieve ispiegato che abbia parole scelte, concetti vivi, numero sostenuto, stile eguale, unità e soprattutto che nel fine congiunga il diletto con la meraviglia», come si legge in una epistola dello stesso Palma sul “ben comporre” un sonetto49. Ma l’amore cantato dal Palma non è più petrarchesco, e il sensualismo che si estende anche a descrizioni vivaci di scene campestri, il suo sguardo amoroso rivolto a più donne, il voler cantare elementi fisici di espressa sensualità, produce quell’effetto di “diletto e meraviglia” che resta pur sempre un obiettivo principe dell’estetica barocca. L’anno successivo appare l’ultima raccolta del Bruni, Le Veneri, che segna il definitivo distacco del poeta mandurese dal maestro e amico Marino50: è il Tasso a divenire il conclamato “principe de’ poeti”. La struttura dell’intera opera, come già nel caso delle Grazie, risente di questo “anti48 Cito dal saggio di G.R. Ceriello, L’antisecentista Giovanni Palma, Napoli, Stab. Tip. Nicola Jovene & co., 1911, p. 6. 49 Ivi, p. 8. 50 Cfr. D. Chiodo, Discorso intorno al titolo delle Veneri, in «Lo Stracciafoglio», III, 56, 2002, pp. 5-11.

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marinismo” intenzionale: la raccolta si presenta divisa in due grossi blocchi, una parte dedicata alle rime amorose ed eroiche, l’altra a quelle sacre e morali. Interessante è anche il rifiuto della forma sonetto, presente solo nella consueta sezione di proposte e risposte qui intitolata Il pomo d’oro. Sono queste le esperienze letterarie di maggiore consistenza nel retroterra culturale del giovane Fontanella che, appena ventenne, si accinge a comporre la sua prima raccolta, l’Ode, pubblicata nello stesso anno delle Veneri del Bruni. È soprattutto l’esempio tassiano a reggere come opzione classicista sino a buona parte del Seicento; è pur vero che esiste ancora un petrarchismo in grado di offrire possibilità “antimariniste”, più vicino al Cinquecento conservatore, lontano quindi dallo sperimentalismo marinista che continuava a distribuire temi e forme del Petrarca in situazioni formali diverse; quasi sempre, tuttavia, si tratta di prove poetiche stanche e che raramente apportano testi di notevole interesse. Bisogna comunque prendere atto che le contaminazioni sono ormai tante e disparate: l’allargamento dei soggetti poetici è divenuto così vasto che anche il ricorso a temi tassiani viene alimentato da nuove linfe che provengono ormai da più fonti. Tasso è filtro di un classicismo che rilegge il Cinquecento secondo parametri nuovi, più inclini al gusto della fantasia e della variazione tematica, ed in questo bisogna ammettere che il Marino ha costituito davvero un modello che è valso da impulso autorevole alle nuove spinte moderniste. Il panorama culturale appare talmente multiforme, quindi, da impedire qualsiasi definizione che possa essere onnicomprensiva, anche a voler dare un significato “categoriale” alla parola barocco 51, o ancora al cosiddetto marinismo, di là da ogni circoscrizione puramente cronologica. Non si può parlare neppure di una nuova “forma canzoniere” che avesse realmente polarizzato le scelte dei poeti del primo Seicento, siano essi più vicini alla corrente marinista oppure di fede più classicamente atteggiata; tutto si stabilisce all’interno di singoli casi che subivano molteplici contaminazioni provenienti dal passato come da esperienze coeve. Ad un primo esame della rassegna di opere addotta, pur velocemente, in questa parte introduttiva del lavoro, si può dedurre che la macrostruttura delle raccolte poetiche sia una variante il più delle volte legata direttamente alle scelte stilistiche dell’autore, al suo ductus consapevole di scrittura, ma che assai raramente questi poeti operino delle scelte compositive totalmente scevre da suggestioni moderniste. I disegni d’insieme appaiono unitari, e i blocchi di liriche sono retti da elementi di raccordo più spesso esterni alle singole sezioni, non di rado indicati in forme allusive evocate proprio nel titolo del canzoniere, come nelle Nove muse del

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Cfr. E. Paratore, Antico e nuovo, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia, 1965, pp. 245-63.

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Macedonio in cui sono le singole icone classiche delle divinità, ognuna delle quali sostiene una porzione della raccolta, a garantire coerenza all’intero corpus. La tripartizione tassiana, recuperata nella più fedele fisionomia, conferisce misura ed equilibrio all’insieme compositivo, ma a ben guardare esistono spesso delle microripartizioni, esplicite o meno, che ricalcano il modello marianiano più di quanto non ci si aspetti. La frantumazione dei soggetti in così tanti piccoli segmenti rende ardua e poco tentata la compattezza narrativa secondo direttrici lineari che, probabilmente, limiterebbe non poco l’orizzonte delle immagini possibili da offrire ed accostare secondo i parametri condivisi di stupore e meraviglia. 2. La celebrazione delle sfere poetiche: dall’Ode ai Nove cieli Il giovane Fontanella, in una dedicatoria dell’Ode, scrive: Ma non manca chi mi rimproveri ch’in età giovanile mi sia troppo accelerato questi anni a dietro a publicar le mie Ode, potendo con la lima d’una lunga considerazione maggiormente perfezionarle. Richiedendosi nel poeta non solo una esquisita felicità di naturalezza per generarle, ma una tarda deliberazione di mente per digerirle. Io, con pace di costoro, i quali, quanta avarizia di componere dimostrano nella penna, tanta liberalità di riprendere dimostrano nella lingua, condanno l’opinioni di coloro, i quali, per maturare i parti de’ loro ingegni, aspettano l’età più matura; e vanamente si danno a credere di fare acquisto dell’immortalità, quando, declinando il corso umano, si ritrovano più propinqui alla morte. Le Muse, che sono figliuole della memoria abboriscono d’accompagnarsi coi vecchi, che sono padri della smemoraggine. Per la scoscesa dell’altissimo Pindo non bene può sostentarsi chi è stanco di lena e debole di vigore (Ode, II, Dedica).

Si è voluto leggere in questo passo una presa di posizione ideologica dell’autore che vorrebbe rendere esplicito il suo distacco dalla tradizione lirica cinquecentesca52; certamente vi si può riconoscere un desiderio di legittimare la propria maturità poetica, in relazione alla sua età ancora molto giovane (ricordiamo che diede alle stampe la prima edizione dell’Ode appena ventenne), ma cercare nell’immagine dei vecchi «padri della smemoraggine» gli emblemi di una poesia cinquecentesca da cui distanziarsi può essere, a mio avviso, una forzatura rischiosa, a maggior ragione se non estrapoliamo la

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Cfr. Guglielminetti, Manierismo e barocco, cit., p. 377.

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sezione che più sembrerebbe confermare questa tesi e continuiamo la lettura della dedicatoria: Le Vergini di Parnaso, come inamorate donzelle, più volentieri gradiscono la vaghezza de’ giovani, che la severità degli attempati. [...] Il vecchio, ch’è tardo nel moto e malagevole nel passo, non può giungere frettoloso quella Dafne, che fuggendo dagli occhi d’Apollo e trasformandosi in alloro, fu simbolo della gloria fuggitiva. Non è carrico di molte frutta quell’albero, ch’è carrico di molti anni. I furori poetici perdono la forza della divinità in un animo agghiacciato di senettù. Nella vecchiezza dell’inverno tengono silenzio gli uccelli; e nella primavera della gioventù cantano più soavemente i poeti. La tranquillità d’uno studio piacevole non sopporta l’occupazioni d’un vecchio noioso (Ode, II, Dedica).

Credo sia più cauto affermare che il passo dimostra una certa baldanza giovanile, pur sfrontata, al cospetto di accuse più o meno prevedibili a cui il giovane Fontanella contrapponeva una risposta preventiva, e questo attraverso un intreccio di immagini, affatto tradizionali, giocato con un piglio di franchezza e ironia. Tuttavia possiamo ritenere che Fontanella volesse sottolineare un senso di stanchezza che può caratterizzare una certa poesia del suo tempo se non animata da quel vigore giovanile tanto caro alle muse: un nuovo spirito poetico non può che rinvigorire la creatività, e questo più nel segno del “nuovo” che in quello del “modernismo”, inteso come categoria critica. Una delle odi più importanti di questa prima raccolta, Del modo di comporre, contiene elementi molto interessanti in ordine alle teorie estetiche del Fontanella: Entrar non può senza vergogna e offesa chi ben non è disciplinato e accorto. (Ode, Del modo di comporre, vv. 43-44)

e ancora E correndo d’onor l’eccelsa meta cerchi stile emular purgato e terso. (Ode, Del modo di comporre, vv. 55-56)

Le posizioni si allontanano dal ductus più scopertamente marinista nel segno di una ricerca dell’equilibrio formale come elemento indispensabile della composizione poetica; nella stessa ode, tuttavia, non si legge un totale abbandono alla fede classicistica, come è lecito attendersi, peraltro, a giudicare dalle scelte stilistiche del Fontanella perseguite in questa raccolta come

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nelle successive: «ciò che infatti stupisce nelle Ode è il fascino di una poesia che non sembra troppo lasciarsi definire in rapporto al tempo storico, ma che pare ora riecheggiare nelle frequenti citazione dal Petrarca cadenze della lirica cinquecentesca, ora muoversi nel pieno ambio del concettismo barocco, ora anticipare suggestioni arcadiche o addirittura evocare una musicalità vicina alle sonorità metastasiane»53; Va su l’ali d’onor spedito e lieve, trova in tosco parlar novelle forme, chi del cigno dirceo seguendo l’orme, da le greche fontane ambrosia beve. Sazie sono le Muse e schive omai di più sentir licenziosi amori, che ne’ sacri laureti i casti allori, chi pudico non è, non coglie mai. (Ode, Del modo di comporre, vv. 65-72)

Qui sono espliciti i riferimenti ad un modo di comporre perseguito solo attraverso immagini di lascivia che ormai “stancano” le muse: se in questa allusione possiamo intravedere un tratto caratterizzante una poesia secentesca epigona di gusto spiccatamente mariniano, ancor di più possiamo considerare che il professato distacco dai «vecchi» ormai privi di «furore poetico», come già sottolineato, avvenga non secondo parametri cronologici ma più propriamente stilistici e, in misura rilevante, tenendo conto della gamma dei soggetti poetabili e nel modo in cui questi temi assumono fisionomia poetica. La raccolta si compone di cento odi assai varie e nei metri e nei soggetti; che il numero dei versi sia una componente simbolica importante è cosa assodata, peraltro già riscontrabile in altri canzonieri, a cominciare da quello del Manso54: nulla di nuovo, quindi, ma neppure di casuale, se solo pensiamo che il Manso rappresentò un polo di attrazione antimarinista assai forte e, possiamo aggiungere, condiviso. Mi pare utile avanzare un’ulteriore osservazione: è stato osservato come Fontanella avesse potuto trarre diverse ispirazioni da un’opera precedente, simile sotto il profilo delle scelte metriche: si tratta dell’Ode di Guido Casoni, pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1602 55, poeta a cui dedica peraltro un sonetto assai indicativo: 53

Chiodo, Suaviter Parthenope canit, cit. p. 168. Ivi, p. 166. 55 Il riferimento è al saggio di M. Corradini, Un ‘work in progress’ tra Cinque e Seicento: le Ode di Guido Casoni, in «Testo», XXVIII, gennaio-giugno 2007, pp. 47-69, di cui si vedano in particolare le pp. 62-4. 54

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Acerbo d’anni a rintracciar mi diedi Guido de’ passi tuoi l’orme onorate, ch’in sì cadente, in sì canuta etate così belli fra noi stampando riedi. Deh se precipitar talor mi vedi da l’erte di là su scoscese strate, tu ligustico eroe, tu nobil vate per sì rigide vie scorgi i miei piedi. Mentre omai de la vita il corso hai pieno, mentre tu dal guidar sei detto Guido, al mio giovine error da’ legge e freno. Se riverir non posso oggi il tuo nido, se non godo il tuo volto adoro almeno de la tua fama il riverito grido. (NC, «Cielo del Sole», Al sig. Guido Casone)56

Effettivamente non si può contestare che vi siano punti di tangenza tra le due raccolte, anche se è sempre assai difficile sbilanciarsi su considerazioni di questo genere quando si analizza la poesia secentesca secondo criteri tematici57; quel che più conta, nell’ottica di studio qui proposta, è che non mancano esempi di un classicismo moderato, mai del tutto scevri da suggestioni moderniste, che costituiscono un possibile sistema letterario di pertinenza cui attingere esempi di scrittura a metà strada tra un gusto ancora cinquecentesco e prove di scrittura più avanzata in termini di sperimentalismo. E questo avviene ancora una volte sul fronte delle scelte tematiche; il canzoniere del Casoni prende a modello più Tasso che il Marino, e le parti di maggiore spessore letterario sono quelle in cui prevale la materia affettiva espressa il più del volte con elegante semplicità. Fontanella, tuttavia, opera delle scelte ben diverse: le sue Ode si dividono in tre libri che ordinano la materia secondo un disegno originale ben definito58: il primo libro è dedicato agli elementi naturali, il secondo riguarda invece gli aspetti profondi legati alla natura umana e morale, il terzo raccoglie rime encomiastiche e sacre: «si nota dunque, oltre alla elusione del tema amoroso [...] una linea ascendente: l’ordinamento proposto è funzionale a un iter di edificazione, lungo il quale il lettore viene guidato dalla realtà naturale (da quella minuta dei singoli esseri a quella ciclica delle

56 Da questo momento con la sigla NC si indicherà la raccolta Nove cieli. I testi citati, come tutti i componimenti del canzoniere, si possono leggere in www.bibliotecaitaliana.it. 57 Posizione cauta adottata dallo stesso Corradini (ivi, p. 63). 58 La struttura di questa raccolta è già stata analizzata da Salvatore Consoli (cfr. L’Esplosione del canzoniere, cit., p. 46).

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stagioni), alla realtà umana (considerata nel suo doppio aspetto sensorio e morale, che per il nostro poeta vale etico, mitico e storico) fino alla realtà sovrannaturale»59. L’assenza del tema amoroso è un aspetto di assoluto rilievo: un maggiore spazio poetico viene concesso ai tanti aspetti della realtà naturale, ed a questi temi Fontanella rivolge il più spontaneo estro poetico; è la presenza divina, tuttavia, a conferire senso a tutte le cose cantate con tale trasporto, talvolta, da tradire il suo stupore quasi fanciullesco di fronte al caleidoscopio degli elementi del creato, e il connettore di tutti questi frammenti impressionistici sembra essere proprio la presenza divina. Ciò spiega questo percorso ascensionale e giustifica l’unità macrostrutturale della raccolta: il principio religioso si manifesta dapprima nel reale, poi in assoluti valori morali – e si aprono ampie digressioni di carattere gnomico – sino ad offrire immagini, persino celebrative, di redenzione e di salvezza60. A ben guardare le strutture dell’Ode si possono trarre alcune conclusioni interessanti anche per ciò che riguarderà la raccolta successiva del Fontanella: se valutiamo la disposizione delle liriche di carattere encomiastico, certamente punto di debolezza di questa come di quasi tutte le raccolte coeve, riconosciamo in questa tripartizione l’esempio tassiano di suddivisione degli argomenti, certamente piegato alle proprie nuove esigenze di organizzazione della materia poetabile: l’esempio strutturale fornito dalle Rime del Tasso non sembra codificare, per Fontanella, uno schema rigido. Questo impianto autorizza ampie divagazioni, come è lecito attendersi a questa altezza cronologica: la struttura delle singole sezioni in cui si articola il macrotesto non è definita da un singolo tema catalizzatore ma lascia spazio, di fatto, ad altri soggetti che si inseriscono non sempre con criteri validi di coerenza; gli argomenti, in sostanza, migrano spesso da una sezione all’altra senza veri elementi di continuità e non sempre secondo chiari parametri di raccordo. In un passo della premessa alla Selva di Parnaso, il cavalier Aurelio Alconi elenca tutta una serie di composizioni inedite e di progetti letterari del Bruni: «Ha le Nove muse pur poesia lirica, un libro di satira a imitazione, fra’ toscani, dell’Ariosto; Le sfere celesti, rime sacre, e molt’altre poesie, le quali si tacciano volendo l’autore più tosto cogliere i lettori all’improvviso, che con le promesse fastidirgli, e talora, com’altri non si vergognano di fare, ingannargli»61; sorprende che si parli di Nove muse a breve distanza cronologica dalla pubblicazione dell’omonima raccolta del Macedonio, in ogni caso pre59

Ibidem. Cfr. Contarino, Introduzione, cit., p. XIV. 61 Come si legge nell’Introduzione di G. Rizzo all’Epistole eroiche del Bruni, cit., p. 54. 60

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cedente a quella del Bruni, ma quel che più conta ai fini della nostra indagine, è cercare di capire se e in quale misura questi diversi progetti letterari, annunciati e mai svolti, poterono offrire validi suggerimenti di scrittura per autori successivi. Quanto alle precise intenzioni del Bruni, purtroppo, possiamo soltanto fare delle supposizioni, dal momento che quasi certamente non compose mai queste raccolte, o almeno non diede alle sue opere successive i titoli citati dall’Alconi; certamente è possibile affermare che il Bruni avesse in mente di dividere le proprie raccolte in più parti e di assegnare ogni sezione ad una icona che potesse evocare, in forme allusive o simboliche, un particolare soggetto poetico o un centro tematico che reggesse l’intera sezione. Ciò avverrà, di fatto, con Le tre Grazie. È facile immaginare che ogni icona che “sostiene” una sezione del canzoniere possa acquisire una duplice valenza simbolica, così che l’ordine delle “sfere celesti” finisca non solo per richiamare il sistema ascensionale di natura religiosa, secondo la rilettura teologica medievale del modello aristotelico, ma al tempo stesso una struttura cosmologica che fissa un ordine ben definito alle componenti celesti dell’universo aggiungendovi ulteriori elementi platonici che legano la figura delle muse a quella delle sfere rotanti; l’opera del Fontanella, come andremo a vedere, rappresenta una valida prova di questa ambivalenza simbolica. In quest’ottica, attenta non solo alla suddivisione strutturale della raccolta ma soprattutto alle valenze allegoriche di ogni immagine iconica che regge la singola sezione, le Nove muse rappresentano un precedente importante dai tratti innovativi di assoluto interesse, e devono essere prese in esame come elemento di confronto per misurare il reale tasso di innovazione riscontrabile, in termini di scelte strutturali e macrotestuali, nei Nove cieli del Fontanella. Macedonio, come ricordato, affida all’immagine delle Muse, nella loro autentica fisionomia classicistica, la coerenza strutturale del suo canzoniere; ogni musa, cui è dedicata una specifica sezione, viene ad evocare una particolare suggestione di temi poetici, ma ad un esame più attento dei soggetti svolti, non si può parlare di una scelta tematica pienamente omogenea in relazione al tema principale rappresentato dalla musa. È utile osservare con maggiore attenzione, a conferma di queste ipotesi, le sezioni più ricche di elementi encomiastico celebrativi, ovvero Clio, Urania e Calliope: gli argomenti sacri e profani sono mescolati senza un piano strutturale ben definito, e il richiamo ai temi che più si adatterebbero all’immagine metaforica della musa, quale matrona di un particolare canto poetico, sono spesso mescolati senza soluzione di continuità ad altri soggetti che non rappresentano elementi di linearità tematica. È inutile attendersi, in sostanza, una reale coincidenza tra i temi svolti e quelli evocati dall’immagine della musa. A questo punto appare più prudente trarre le conclusioni affermando, secondo una tesi già elaborata da

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Quondam, che la divisione di questo macrotesto sia assai precaria e in ogni caso più esterna che interna al macrotesto62. Nelle Nove Muse Macedonio assembla materiali diversi e disomogenei, ma ciò che produce, in ogni caso, appare come una sorta di rassegna dei temi poetabili; a giudicare dall’ampia ricezione di questa raccolta nel mondo dei letterati (ricordiamo anche che fu stampata in una edizione pregiata), non si può non tenere conto di come potesse realmente essere assunto a modello di scrittura e fornire un valido esempio di struttura macrotestuale. Se è vero che «è necessario distinguere in questa volontà di costituire un Parnaso completo quanto vi è di stratagemma per non disperdere parte dell’attività già svolta (anche se riconosciuta ormai come superata) e quanto invece deriva da un programma di impegno su più livelli di stile in una direzione nettamente innovatrice»63, è altrettanto vero che bisogna sempre tener conto delle modalità di ricezione di questi testi e di come e quanto potessero risultare “esemplari”, soprattutto per quei poeti che trovavano in questi scritti validi modelli su cui tornire la loro educazione letteraria, come è facile supporre avvenisse per letterati legati alla stessa Accademia degli Oziosi, che non potevano ignorare esperienze di scrittura di tale risonanza. Quando Fontanella si accinge a comporre il suo secondo canzoniere ha alle spalle raccolte che già avevano segnato un punto di rottura indiscusso rispetto alla tradizione cinquecentesca anche in termini di macrostruttura. In primo luogo bisogna ricordare che, a differenza delle Rime mariniane, i nuovi canzonieri che si vogliono porre come elementi moderni e innovativi sempre più spesso si presentano con un titolo che definisce un macrotesto, per cui il lettore sa già di trovarsi di fronte a un libro che raccoglie diverse liriche in qualche modo legate tra loro da elementi di raccordo. Di fatto, però, è difficile pensare che le attese dei lettori fossero davvero indirizzate ad una lettura delle liriche in direzione trasversale e che questi cercassero realmente dei nessi di continuità tra le singole liriche e le diverse sezioni della raccolta; se così fosse, non si spiegherebbe l’ampio consenso che ebbero quei canzonieri che, sotto una veste unitaria evocata dal titolo, presentavavano di fatto una costellazione di liriche dai temi più disparati che difficilmente si legano tra loro secondo un disegno unitario. Quanto all’allargamento dei temi avvertiti come poetabili, si assiste ad un fenomeno per certi versi contraddittorio: a) vi è una indubbia proliferazione dei soggetti che si adattano alla poesia, con sempre maggiori divagazioni in ambiti cui la poesia aveva

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Cfr. Quondam, Dal manierismo al barocco, cit., p. 607. Ivi, pp. 606-7.

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solo fatto cenno nel corso della seconda metà del Cinquecento; lo sguardo del poeta sembra adagiarsi su tutti i piccoli elementi del reale ma anche sulle varie pieghe dell’animo umano, tuttavia fa ricorso troppo spesso a stereotipi che non rendono questa poesia realmente introspettiva ma soprattutto attenta ai risvolti stilistici e alla resa formale delle singole immagini poetiche; b) questo allargamento dei temi concede maggiore libertà espressiva ma, ed in misura rilevante, sembra quasi imporre un nuovo canone con cui confrontarsi, un nuovo soggettario da non ignorare: la natura non esibisce così elementi “spontaneamente” poetabili secondo attitudini e sensibilità individuali ma sembra piuttosto offrire tutti quegli spunti tematici con cui è in certo senso doveroso cimentarsi. Una libertà creativa, quindi, su cui pesa molto il dovere di variare i registri, di alternare i toni, di stupire “mostrando” ciò che è davanti agli occhi di tutti ma sotto una luce nuova, cangiante. Queste considerazioni di carattere generale sono importanti per comprendere quale sia il lascito che Fontanella eredita dalla tradizione lirica secentesca, più specificamente legata ai suoi ambienti di formazione letteraria, per valutare quindi in che misura si possa parlare davvero di “innovazione”, oppure se si debba riconoscere la particolarità di un stile compositivo posto però in relazione di continuità con una tradizione pienamente condivisa. Procediamo prendendo in esame i Nove cieli e prestando particolare attenzione agli aspetti strutturali della raccolta. I Nove cieli furono pubblicati a Napoli nel 1640 64, ovvero due anni dopo l’uscita a stampa della seconda e definitiva edizione delle Ode; le dediche anteposte ordinatamente ad ogni sezione riportano date differenti che confermano l’anno di stampa: la più arretrata cronologicamente risale al 15 marzo 1640, l’ultima al 2 dicembre 1640, ed è quella indirizzata proprio al Granduca di Toscana, in apertura della raccolta. Il canzoniere si presenta chiaramente diviso in nove parti, cui va aggiunta la consueta sezione dedicata alle poesie che altri autori hanno voluto dedicare al Fontanella; ogni parte della raccolta

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NOVE / CIELI / POESIE / Del Signor / GIROLAMO FONTANELLA. / Dedicate / ALL’ALTEZZA SERENISSIMA / DI FERDINANDO II / Gran Duca di Toscana. / [fregio tip. ] / In Napoli, Per Roberto Mollo 1640, / Ad istanza di Gio. Domenico Montanaro. (vol. in 24° di pp. XII n.n. + 452 + 4 n.n.). Il volume appare assai modesto dal punto di vista tipografico, è totalmente privo di incisioni, presenta molti refusi occorsi evidentemente in fase di stampa e numerose sviste nella numerazione delle pagine. Da un confronto tra più esemplari, peraltro non numerosi, possiamo affermare che di questo testo fu prodotta una sola impressione.

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è dedicata ad un “cielo”, e presenta un proprio occhiello che ne riporta l’intitolazione. La raccolta è così suddivisa: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Cielo di Luna Cielo di Mercurio Cielo di Venere Cielo del Sole [Sonetti di diversi all’autore] Cielo di Marte Cielo di Giove Cielo di Saturno Cielo Stellato Cielo Empireo

La struttura di questo canzoniere è rigidamente monometrica: tutte le sezioni sono composte esclusivamente da sonetti, compresa quella dedicata alle liriche di altri autori. Il primo “cielo”, che apre la raccolta dopo la dedica a Ferdinando II, comprende 110 sonetti, ed è una delle sezioni più corpose dell’intero canzoniere; il Cielo di Venere, con i suoi 166 componimenti, è il più ampio e raccoglie circa un quarto di tutti i testi; molto più esili i cieli di Saturno, con 34 sonetti, il Cielo stellato, che riporta solo 29 componimenti, e l’ultima sezione, dedicata al Cielo Empireo, che raccoglie 39 sonetti. Le dediche che precedono i vari “cieli” non sono semplici pagine encomiastiche in cui tessere l’elogio del dedicatario: spesso di notevole lunghezza, contengono elementi utilissimi per la comprensione dei criteri compositivi, nonché dispositivi, cui si è attenuto Fontanella. Queste parti, rigorosamente in prosa, sono ricche di immagini allegoriche, di riferimenti al mito classico, e spesso si nutrono di audaci accostamenti talora concettosi, altre volte più spontanei ed autentici, tra immagini reali e fantastiche, e quasi sempre l’elogio fa leva su una metafora magniloquente che amplia lo spazio encomiastico riservato al dedicatario. Ciò che di queste pagine appare più interessante ai fini della nostra indagine, tuttavia, sono i riferimenti espliciti ai vari significati allegorici che vengono assegnati ai singoli “cieli”, sempre ben delineati, quasi fosse indispensabile fornire al lettore tutti gli elementi validi di comprensione. È bene ricorrere spesso a questi elementi per comprendere meglio le trame interne che reggono la struttura dell’intera raccolta. Un canzoniere composto esclusivamente da sonetti è senza dubbio singolare; possiamo provare a porre in relazione, dal punto di vista delle scelte metriche, i Nove cieli con la raccolta precedente, che, ricordiamo, viene pubblicata nella sua veste definitiva solo due anni prima. Non sono poche,

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nell’Ode, le canzoni-ode di forma più propriamente oraziana, ovvero in quartine di endecasillabi a rime incrociate e soprattutto alternate, secondo uno schema che era già stato chiabreresco; il Chiabrera è ancora un modello indiscusso per tutte quelle odi strutturate in stanze di sei versi in cui è varia la proporzione e l’ordine di endecasillabi e settenari, di fatto le stesse varietà presenti nell’Ode fontanelliana. È pur sempre il Marino, nei tre libri della Lira, che fornisce una sorta di campionario delle principali forme metriche usate nel corso del Seicento. Se bisogna prendere atto che nella Lira mariniana si alternano sonetti, canzoni, ottave ed altre forme alla maniera del Chiabrera, è importante ricordare che la prima sezione della raccolta, suddivisa nelle note partizioni tematiche, è costituita esclusivamente da sonetti. Il giovane Fontanella è attratto in un primo momento da strutture dal sapore classicistico, in cui si concede qualche variante di natura metrica pur rimanendo rigidamente legato ad una forma, per poi tornare nell’opera successiva su molti soggetti poetici già affrontati, seguendo però scelte metriche diverse, componendo di fatto una raccolta sovrapponibile al primo modello mariniano. Questo ci induce a confermare, ancora una volta, che il campionario del poetabile fosse paradossalmente divenuto ristretto e di fatto “costringesse” i poeti a cimentarsi coi medesimi temi. Se la Lira restava un modello indiscusso, è vero che Fontanella, più che alla variazione delle forme metriche presente nella raccolta mariana, sembra interessato alla disposizione delle rime all’interno della suddivisione tematica del materiale poetico. In questa ripartizione dei Nove cieli, connotata metaforicamente con grande accuratezza, si è voluto leggere un possibile atteggiamento di Fontanella di fronte alla nuova scienza di tipo conservatore, a vantaggio cioè della tradizione aristotelico-tolemaica: «che un’opera dal disegno tanto dogmatico e tradizionalista veda la luce ad appena cinque anni dal processo a Galileo, e ben ventotto dalla pubblicazione del Sidereus Nuncius, che già tanto rumore aveva suscitato a Napoli, e speranze ed entusiasmi ovunque, non può darsi senza che ciò implichi, in un autore che del mondo naturale aveva fatto il suo oggetto privilegiato, una presa di posizione. […] Siamo quindi di fronte ad un atteggiamento ambivalente, che nella figura di Colombo addita Galileo e quindi il fascino e il pericolo della nuova scienza»65; Fontanella, tuttavia, dimostra in più occasioni una curiosità autentica verso la nuova cultura scientifica del tempo, a giudicare dalle tante descrizioni “scientifiche” di elementi naturali66.

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Consoli, Girolamo Fontanella e le meraviglie della natura, cit., pp. 114-15. Come osserva lo stesso Consoli (Ivi, pp. 115-16).

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È nella prima dedicatoria del canzoniere che si possono individuare le autentiche ragioni metaforiche di questa macrosuddivisione: per Fontanella, più che al sistema aristotelico-tolemaico, bisogna riferirsi ad una immagine cosmologica di stampo più propriamente platonico: Fu ben divino Platone, che per la serie delle Sfere collocò il numero delle sirene. Da quell’armoniche fonti fe’ scaturire l’acque della sapienza poetica, e da quelle pire immortali scintillare i lampi del glorioso furore. Non sopra il giogo d’un monte di stelle si ricovra il bellicoso Pegaso (NC, Dedica).

È lo stesso Fontanella, del resto, a prendere le distanze da eventuali osservazioni perentorie di carattere scientifico relative al sistema cosmologico: Ma non fia chi m’imputi a temerità quello ch’ho esequito per riverenza. Ho situato come rispettoso poeta ne’ debiti luoghi le Muse, senza far punto di pregiudicio agli astrologi (NC, Dedica).

per quanto non siano rari i ricorsi ad argomentazioni di tono naturalisticoscientifico anche assai scrupolose, però mescolate con spontaneità a suggestioni di più spiccata memoria letteraria: Da’ moti della Luna si sperimentano (Eccellentissimo Signore) i movimenti dell’acque. Per la varietà di quella, si cagiona la volubilità di queste. Non è però difettuosa questa incostanza, né biasimevole questa mutabilità. Quanto d’accrescimento si prattica nella natura, o pure quanto di fecondità si contiene nell’universo, tutto è virtù di questo maraviglioso pianeta. Le rugiade, le quali distillano sopra i fiori, le margherite, che si producono nelle Conche non sono altro, salvo che effetti della sua candida luce. A ragione adunqe fu collocato su ’l trono del primo Cielo, come sublime dominatore degli elementi. Tempera il calore del sole nelle fredde regioni dell’aria, et umetta l’aridità delle piane nelle viscere della terra, inargenta le nuvole dell’inverno, et esercita l’ufficio di vicesole nelle tenebre della notte. Non hanno gli astrologi più sicuro pronostico di sereno, o di pioggia, che la dimostrazione della sua luce. Da’ segni del suo pallore presagiscono gli avvenimenti delle tempeste, e dagl’inditii della sua chiarezza argomentano i successi della serenità. Tiene il dominio delle fontane d’Arcadia, perch’è nume della fecondità, regge il coro delle musiche verginelle, perch’è sorella del nostro Apollo; se gradisce i fonti, gradirà pur anco la sapienza, simboleggiata nell’acque, et amerà la varietà della poesia, mentre è madre della mutabilità (NC, «Cielo di Luna», Dedica).

I riferimenti espliciti alle teorie platoniche, tuttavia, devono farci propendere più per una lettura metaforico-letteraria anche degli elementi tratteggiati

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con scelte stilistiche, e in primo luogo lessicali, che sembrerebbero più pertinenti a descrizioni di carattere scientifico. Non dimentichiamo che la prima dedicatoria, ovvero quella posta in apertura della raccolta e che contiene commenti espliciti in ordine alla disposizione strutturale del canzoniere, riporta in calce la data più recente dell’intero corpus, per cui si è legittimati a credere che sia stata posta dal Fontanella quasi a suggello dell’opera. Più che considerare le “sfere” come elementi astronomici di una superata scienza precopernicana, a questo punto, bisogna intendere i corpi celesti in primis come sedi immaginarie e mitiche, secondo suggestioni letterarie antiche, delle sirene platoniche che sovrintendono alla loro armonia: L’ordine delle sfere ha dato proporzione all’ordine delle Muse; quelle, che sono madri dell’armonia si conformano con queste, che sono figliuole della musica, e quelle, che sono incorruttibili di materia, s’agguagliano con queste, che sono inviolabili di natura. Dalla concordia di quelle fu imparata la consonanza di queste, e dall’ordine d’ogni stella è stato appreso il numero di ogni verso. Ecco le misure delle carole celesti imitate nelle strofe degli argivi scrittori. Considerando io questa conformità (come altri impose titolo di libro ai Cieli) ho voluto dar nome di Cieli al mio libro. […] V. Alt. Serenissima, la quale ama tanto nel suo stato reale la concordia della popolare quiete, gradisca pur anco la pacifica melodia di queste poetiche sfere, Ella che tiene l’insegna de’ mondi, si compiaccia di rendere questa bandiera di Cieli (NC, Dedica).

L’accento è posto sul valore metaforico della «melodia di queste poetiche sfere», quasi fosse il suono dei corpi celesti a dare origine al suo canto poetico. Un legame indissolubile ed assai suggestivo – ancorché non originale – tra voce poetica e melodie che provengono dal moto misterioso dell’universo, e nessuno strumento musicale più dell’organo può dar voce a questo connubio, poiché trasforma in suoni il vento: De le sfere imitò l’alto concento, mostrò Febo, Saturno insieme unito, chi di nova armonia gran fabbro uscito il cavo piombo ingravidò di vento. Ei formò questo armonico strumento, di più canne ineguali insieme ordito, ove saltando l’ingegnoso dito fa col moto dei tasti uscir l’accento. De le cetre sembrò debole il suono, quando in Parnaso, quel gran mastro alzollo, ch’a le musiche dee l’offerse in dono.

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Sdegnò più di portar la lira al collo, et organista armonizando il tuono, si fe’ del sommo Giove emolo Apollo. (NC, «Cielo di Luna», All’organo)

e non mancano altri riferimenti alla musica celeste: Qual bianco augello in su ’l meandro vola fabbro di melodie soavi, e chiare, ch’in armonia t’aguagli illustre, e sola, e beando la terra il ciel rischiare. Qual serafino è ne l’empierea scola, qual Musa in Pindo, e qual sirena in mare che la dolce armonia, che l’alme invola scioglia in note d’amor sì dolci, e care? Deh s’è tanto piacer nel ciel diffuso, et han le sfere melodia sì bella aprasi la prigione, ov’io son chiuso. Sciolta da i nodi suoi l’alma si svella, perché possa dapoi giunta là suso, paragonar quest’armonia con quella. (NC, «Cielo del Sole», Alla signora Andreana Basile)

La musica prodotta dalle sfere celesti si unisce al canto degli elementi naturali, e da questa armonia, che sembra congiungere i suoni del mondo, emerge il canto poetico, secondo una visione che costituiva già un tema dominante nella precedente raccolta: O sovrana virtù, ch’insegni l’arte ch’hanno i cieli fra lor vari e diversi, e coi numeri tuoi vergati in carte, dai misura a le voci, anima ai versi. [...] Spira il tutto armonia, varie ne’ suoni sono musiche in ciel le sfere anch’elle e le battute armoniose e i tuoni tremolando là su fanno le stelle. Ne l’umano composto e intorno al mondo gli elementi fra lor musica fanno, serban musico stil, vari nel pondo, con discordia concorde uniti stanno. (Ode, Alla musica, vv. 1-4; 20-27)

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la poesia che è «privilegio speciale del cielo»: Somma felicità nel petto inchiusa ha quel musico spirto, a cui giocondo ride larga di grazie inclita musa. L’alta virtù del poetar facondo, se non ha per favor dal cielo infusa, dotto ingegno non sia, che speri al mondo. (NC, «Cielo del Sole», La poesia è privilegio speciale del cielo, vv. 9-14)

e che «contiene i numeri dell’armonia»67, di cui le muse sono le arcane custodi: Muse, voi che reggete de la vera armonia l’alto governo, et immote movete de la lira del ciel l’ordine eterno, al bel suono di cui danzan le stelle nel palagio di Dio musiche ancelle. (Ode, Alla signora Adriana Basile, vv. 1-6)

E lo stesso Marino, divenuto per bisticcio «celeste Arion», «cigno marino», ora «co’ le musiche sfere accorda il canto»68. Tutto ciò spiega come la presenza dei numerosissimi dati naturali, cantati talvolta con così tanta leggiadria quasi alla ricerca di effetti melici di gusto arcadico, si accordi ad elementi metaforici retti dalle immagini platoniche delle sfere e delle armonie celesti. Si può affermare che Fontanella abbia voluto dare una veste allegorica al suo canzoniere, secondo una tradizione tutta secentesca che già ha visto punti di eccellenza, e l’immagine poetica delle muse platoniche, altamente elegante e al tempo evocativa, ben si accordava alla suddivisione del canzoniere in sezioni che fossero in un rapporto tra loro di ordine gerarchico, secondo una scala a tratti ascendenti di registri tematici, come avremo modo di osservare. La raccolta si apre con una sezione dedicata al mondo sublunare, secondo la normale successione della cosmografia aristotelica: al Cielo di Luna, emblema della mutevolezza, è affidata la tutela degli elementi naturali. In questo “cielo” sono raccolti quei componimenti che sarebbero stati inclusi 67

La citazione è tratta da NC, «Cielo di Venere», Dedica. Si cita il v. 13 del sonetto In morte del Sig. Cavalier. Gio: Battista Marino (NC, «Cielo di Saturno»). 68

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nelle “rime varie” se il canzoniere avesse previsto una ripartizione più vicina ai classici modelli secenteschi di chiara emulazione mariniana. Questa sezione comprende il maggior numero di liriche che siano state inserite, a partire dalla antologia del Croce, nelle sillogi novecentesche di poesia barocca; sono perlopiù questi sonetti a definire l’immagine del Fontanella come poeta “melico” che concede un canto spontaneo e aggraziato ai tanti fenomeni della natura. Bisogna ammettere che nel Cielo di Luna, così come nel Cielo di Venere, si trovano i componimenti di maggiore interesse e che ancora oggi risultano di più gradevole lettura: il canto si fa delicato, raffinato, le immagini spesso sono dipinte con leggerezza ed eleganza, e lo sguardo del poeta pare davvero poggiarsi con stupore e meraviglia autentica sugli oggetti più semplici, da quelli naturali ai prodotti dell’ingegno umano. In questa sezione si riscontrano anche le prove maggiori di quel senso di equilibrio tra misura classicistica ed arguzia modernista raggiunto dai suoi versi, riscontrabile anche in altre sedi, qua là, all’interno della raccolta. In queste liriche la voce del poeta non si limita, tuttavia, ad elogiare le bellezze del creato o i frutti dell’ingegno umano, ma si indirizza verso altri temi di natura morale, includendo l’uomo, con la sua interiorità, nel flusso delle creature del cosmo; già si annuncia la volontà di ampliare i temi poetici, cosa peraltro non solo vista come naturale, ma persino auspicabile, se l’Invocazione in apertura del Cielo di Luna, subito a seguire il Proemio, annuncia il desiderio di riuscire a cantare con vari stili vari oggetti: Diva tu, che là su ricca, et adorna guida al silentio sei placido, e lento; e sopra un ciel di luminoso argento, hai la corona tua sparsa in due corna. Tu, che in vece di lui, che ’l mondo aggiorna ravivi entro la notte il lume spento, motrice del mutabile elemento, maschia virtù di quanto il mondo adorna. Rendi in me l’armonia candida, e pura, varia il mio stil, come tu vari aspetto, e splendi a l’ombre mie scorta sicura. Sdegna ingegno Febeo sempre un oggetto, quanto è più bella in variar Natura tanto è più bello in variar soggetto. (NC, «Cielo di Luna», Invocazione)

Dei centodieci componimenti che costituiscono questo primo “cielo”, i sonetti più propriamente rivolti verso riflessioni di carattere morale sono quat-

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tordici, perlopiù concentrati nella parte finale della sezione; sono soprattutto i primi due componimenti che ruotano attorno a queste riflessioni gnomiche, cioè Contro i superbi e All’avaro, a porsi in rapporto dialettico con altri temi della sezione, simmetricamente in antitesi rispetto al sonetto precedente, In lode dell’oro: non senza qualche elemento contraddittorio, le due rime moraleggianti stemperano l’entusiasmo del poeta che elogia le virtù del prezioso metallo, pur sempre una meraviglia della natura: Viva colui, che con industre cura de la terra cavò l’intero fondo, e quel metallo sprigionò sì biondo, che fa sì bella al sol ricca testura. Si rallegrò di tanto ardir Natura, quando parto mirò sì bello al mondo, e più non ebbe di solcar paura generoso nocchier l’Egeo profondo. (NC, «Cielo di Luna», In lode dell’oro, vv. 1-8)

entusiasmo a cui contrappone, con toni che evocano precetti controriformistici, il giusto senso di umiltà, vera ricchezza dell’animo: Fabrica i suoi disegni in grembo al vento che l’umane speranze in fumo estolle, chi pensa, accumulando oro e argento, di felici grandezze alzarsi un colle. Vive in mezo al tesor mendico, e folle, non trae l’ore giamai pago, e contento, sempre sete di aver gli avampa, e bolle, sempre nutre nel cor tema, e spavento. Così pace non ha chi d’oro abbonda, così mortal ricchezza è grave salma, e dal bel caduco il mal ridonda. Tempesta al ricco è la tranquilla calma, quiete al giusto è la procella e l’onda, e la ricchezza è povertà dell’alma. (NC, «Cielo di Luna», All’avaro)

un sonetto, questo, in cui non mancano tratti spiccatamente secenteschi, a cominciare dalla dimensione concettosa delle due terzine in cui si racchiude la riflessione etica. Nel caso di queste poesie a tema morale mancano affatto elementi espliciti di continuità con i componimenti limitrofi, per cui è soltanto la posizione dei sonetti rispetto al resto della sezione (letta soltanto secon-

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do parametri tematici) a fornirci qualche criterio di comprensione in una visione d’insieme; anche per quel che riguarda il secondo e il terzo sonetto morale (Contro l’ambizioso, Contro lo stesso), posti a breve distanza dai primi due, si può ricercare un nesso semantico se messi in relazione col sonetto immediatamente precedente, Alla tromba, in cui lo squillante strumento può farsi annunciatore di gloria. Il fatto che il Cielo di Luna si chiuda con ben dieci sonetti morali, ovvero quasi la totalità di quelli presenti in tutto il “cielo”, non può ritenersi casuale: questo spaccato di temi moraleggianti apre uno squarcio nel tessuto delicato di immagini naturali, e costituisce una microsilloge compatta che ad un primo sguardo appare sostanzialmente estranea al contesto tematico del “cielo”. Anche queste ultime poesie toccano temi morali esclusivamente per antitesi (Contro il suberbo, Contro l’avaro, Contro il libidinoso, ecc.) e l’elogio diretto delle virtù è riservato soprattutto ai “cieli” più alti: in questo modo Fontanella conferisce un maggiore tasso di sacralità religiosa alle qualità umane, secondo un disegno complessivo che vede nel divino la ragione di tutti i fenomeni del cosmo, compresi i moti dell’animo. Fa eccezione un solo sonetto, In lode dell’umiltà, non a caso posto alla fine della sezione, subito seguito dall’ultima lirica Contro l’oro, quasi una palinodia degli eccessi di entusiasmo ostentati della prima poesia dedicata al prezioso metallo: Parto vil di natura oro esecrando, che, tratto for dai monti, esci lucente, e d’avaro splendor lampi vibrando, più che la vista abbagli altrui la mente. Tanto ti stima ognor l’avida gente, che sprezza vita in terra, e in mar vagando; ti va ne l’arche a imprigionar sovente, e pace mette, e libertate in bando. Fuor da’ regni di Pluto a l’aria spinto, tiranno empio de’ cor, tieni più forte il possessor, che ti possiede avvinto. A discordie, et a risse apri le porte, pallido sei, perché d’invidia tinto col suo pallor ti scolorò la morte. (NC, «Cielo di Luna», Contro l’oro)

ma di “palinodia” in senso stretto non si può in effetti parlare: questo elemento contraddittorio ci induce a pensare, con un margine di dubbio che va sempre più riducendosi, che non vi fosse un disegno compositivo generale così raffinato da valutare la logica dispositiva dei microtemi interni ad ogni sezione ma

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che, individuato il tratto tematico dominante di ogni singola sezione, l’autore procedesse con la disposizione delle rime esclusivamente secondo classi tematiche senza costruire delle aree coerenti o porre in un ordine di continuità semantica le immagini. Appare uno sforzo inutile ricercare un nesso intertestuale tra i diversi sonetti dedicati agli oggetti della natura oppure ad opere dell’ingegno umano: non vi sono sezioni ben distinte che definiscono per contrapposizione delle scelte tematiche; ci troviamo così di fronte a piccoli segmenti di testi che uniscono temi affini per semplice accostamento. Il Cielo di Luna pare mostrarci, in definitiva, le bellezze e la forza del creato ricordando altresì di quante magnificenze sia capace l’ingegno umano, ma al tempo stesso ci invita alla moderatezza, alla riflessione più spontanea sui temi forti legati alle virtù dell’uomo. È comunque indicativo osservare come, al di là di intenti più propriamente filosofici che potrebbero sorreggere la scelta tematica delle rime di questo “cielo”, si evince subito come la sezione non sia del tutto chiusa a soggetti afferenti ad altri nuclei tematici; questo sarà un tratto ricorrente in tutta la raccolta e si inserisce pienamente nella tradizione della lirica barocca che fa della ricchezza di temi un punto di forza. Un esempio di questo “sconfinamento” è dato dall’elemento ecfrastico: Fontanella, secondo una tradizione che da Marino in poi attraversa ininterrotta i primi decenni del secolo, è propenso ad un uso “pittorico” del verso quando si tratta di delineare sfondi paesistici su cui adagiare le proprie figure, e ancor di più, quando si dedica a componimenti interamente incentrati sulla descrizione di oggetti artistici plastici o pittorici. Nel Cielo di Luna troviamo così nove sonetti propriamente ecfrastici, ma sonetti dello stesso genere si trovano in altre sezioni (Cielo di Venere e soprattutto Cielo del Sole), anche se possiamo osservare che i sonetti che descrivono alcuni ritratti pittorici vengono collocati spesso nell’ambito delle rime encomiastiche, quasi fossero un tassello aggiunto alla galleria dei personaggi che prende corpo in quella sezione, e l’ecfrasi dedicata a meravigliose opere d’arte, come ad esempio alle fontane, trova spazio nel primo “cielo” in cui si lodano le bellezze del mondo. Questa ripartizione, tuttavia, non è rigorosamente rispettata. Un altro caso interessante è costituito dalle due poesie omonime Alla lucciola, una delle quali è peraltro fra le più note poesie del Fontanella: la prima è collocata nel Cielo di Luna, accostata ad altre immagini della natura, la seconda nella sezione «Scherzi pastorali» del Cielo di Venere, “cielo” dedicato alle rime amorose, evidentemente a tratteggiare un elemento caratterizzante dell’ambiente bucolico; nel primo caso è più facile trovare un nesso logico alla posizione di questo sonetto all’interno della sezione se guardiamo al macrotesto come un insieme di singoli compartimenti tematici; nella seconda Alla lucciola, invece, ritroviamo un elemento significativo di connessione intertestuale che agisce non tanto come unità di

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raccordo con le liriche immediatamente precedenti o successive (in quel caso basterebbe la caratterizzazione bucolica dell’elemento a giustificarne l’accostamento, secondo un parametro dominante in tutta l’opera) quanto come richiamo diretto al nucleo semantico della sezione: è il riferimento alla condizione di poeta-amante che rappresenta il soggetto tematico – e in parte “narrativo” – dell’intero Cielo di Venere: Luccioletta mobile, e vagante che passeggiando in sì bel campo vai, e qual notturna fiaccola volante or ti nascondi, et or veder ti fai. Tu per quest’ombre cittadina errante meraviglia, e vaghezza intorno dai, e scorgi me, che solitario amante, non so piangendo ove drizzarmi omai. Vanne per quest’orror di notte oscuro de la mia Filli al desiato loco, che più del tuo splendor guida non curo. E dirle puoi con amoroso gioco, che le faville, e le tue luci furo i miei sospir, che t’infiammar di foco. (NC, «Cielo di Venere», Alla lucciola)

Sempre in ossequio al sistema cosmologico tolemaico, alla prima parte consacrata al mondo sublunare segue il Cielo di Mercurio, dedicato ad un ecclesiastico, monsignor Carlo Carafa: un “cielo” rappresentato da un’icona classica che è in primo luogo simbolo dell’eloquenza. La dedicatoria che introduce le liriche di questa sezione è estesa e assai articolata, ricca di immagini e di riferimenti mitologici ridondanti e perlopiù consueti: Ercole tebano (Illustrissimo Signore) fu dalla greca gentilità giudicato così formidabile per la robustezza del braccio; come venerabile per la forza della favella; per quella ebbe il titulo di Dominatore de’ mostri, per questa ebbe il nome di Dominatore de’ popoli. Esso più vittorie riportò col valore della sua lingua, che non racquistò trionfi con la punta della sua spada. Domando le belve operò il ferro della sua clava, signoreggiando gli animi esercitò l’oro della sua bocca. Erano più aguzze le saette, che scoccava dalle sue labbra, che non erano gli strali, che lanciava dalle sue dita; questi, volando per l’aria, ferivano i corpi, e quelle, passando per l’orecchia, penetravano gli animi. Gran somiglianza tiene il guerriere con l’oratore; la spada del combattente fu detta lingua di ferro, la lingua del ragionante fu appellata spada di fuoco. Risponde il cavaliere all’ostili minacce con la lingua del brando; si difende l’oratore contro l’accuse nemiche

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col brando della favella. Comanda in pergamo chi è maestro nell’eloquenza, impera su ’l corridore chi è maestro nella milizia, l’uno risveglia l’ardimento con la voce della sua tromba l’altro desta le passioni con la tromba della sua voce (NC, «Cielo di Mercurio», Dedica).

È tradizionale, infatti, l’accostamento di Ercole e Mercurio, basti ricordare il passo de Le imagini delli dei degli antichi di Vincenzo Cartari, testo importante anche perché segnò una certa codificazione iconica delle immagini classiche, in cui si legge: «Facile cosa è da vedere che questa imagine significa la forza della eloquenza, la quale davano quelle genti ad Hercole, perché, come dice il medesimo Luciano, fu Hercole creduto più forte assai, e più gagliardo di Mercurio»69, così come tradizionale è l’accostamento di Mercurio a Marte come emblemi di forze diverse e in un certo senso complementari: già in Marino questo binomio-dicotomia appare efficace per delineare metaforicamente le virtù della parola «Cinsi il fianco di ferro, e con nov’arte, / TACITO, d’eloquenza il petto armai. / Inchiostro e sangue prodigo versai, / or Campion di Mercurio, ed or di Marte. // Tromba di Fama mi fe’ ardito e forte, / Virtute in campo a guerreggiar mi mise, / pugnai col Tempo, ed espugnai la Morte. // Penna e spada trattai, ma in varie guise / questa da quella, e con diversa sorte: / l’una diede altrui vita, e l’altra uccise.»70, sonetto in cui peraltro ritroviamo la stessa immagine della tromba che Fontanella varia con un veloce effetto concettoso. Nella dedicatoria al Cielo di Mercurio il potere “laico” dell’eloquenza non viene dimenticato, ma l’accento è subito posto sul valore religioso della persuasione operata con astuzia oratoria: Nel foro causidico, mantiene il diritto a ciascuno con economica autorità, e dalle confusioni de’ testi legali sa tirare la chiara luce del vero. Nel palco scenico rappresenta i casi della fortuna volubile ammonisce i tiranni nella felicità variabile. Nella Chiesa Cattolica fa tributari i popoli, pentiti i rubelli, obedienti i potentati, e riverenti i prinicipi a’ cenni del Romano Pastore (NC, «Cielo di Mercurio», Dedica).

Il “cielo” è costituito da quarantacinque sonetti, esclusivamente di carattere encomiastico, che celebrano le virtù di importanti oratori forensi e, in misura assai maggiore, di predicatori ecclesiastici. È inutile ricordare che il Cielo di Mercurio è la sezione che più presenta una ridondanza di temi stantii e che suggerisce immagini metaforiche sempre tese verso iperboli encomiastiche e variate secondo artifici il più delle volte pesantemente concettosi.

69 70

Il passo è tratto dalla sezione X dedicata a Mercurio. Si tratta del sonetto Cornelio Tacito della Galeria, da cui ho tratto i vv. 5-14.

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Di tutt’altro valore è la sezione successiva, il Cielo di Venere, senza dubbio la parte dell’intera raccolta che ha motivi di maggiore interesse e che offre numerosi momenti di più gradevole lettura. Se ci si limitasse all’esame della dedicatoria, indirizzata alla principessa Anna Carafa, ci si aspetterebbe più una sezione di liriche filosofiche: tutto sembra ruotare attorno all’idea di “bellezza” come categoria estetica, in parte, e come risultato creativo dell’espressione artistica, non limitatamente alla poesia: La penna del poeta (Eccellentiss. Sig.) ha tanta ugualità col pennello del pittore, che mentre l’uno s’usurpa l’ufficio di pingere nelle carte; l’altro si prende il carrico di poetare nelle tele; e quanto l’uno s’adopera di formare co i profili, tanto s’ingegna l’altro, di tratteggiare co i versi; ambeduo sono riguardevoli per l’imitazione, et ambeduo riescono stravaganti per la varietà. Quella servendosi de’ colori, sa dipingere le bellezze esteriori del corpo, e questa avvalendosi de gl’inchiostri, sa pennelleggiare le bellezze interiori dell’anima. [...] Osserva il pittore quelle proporzioni del corpo, che sono riguardevoli all’occhio, contempla il poeta quelle parti dell’animo, che sono ammirabili all’intelletto, l’uno celebra questo dono della natura con le linee, l’altro commenda questo privilegio di Dio co’ versi (NC, «Cielo di Venere», Dedica);

nient’altro che la teoria oraziana dell’Ut pictura poesis, cui fa seguito la tradizionale rivendicazione della superiorità della poesia: Ma, se la venustà delle membra fu più volte chiamata luce dell’anima, come può la luce essere dipinta dall’ombre? Meglio i poeti possono dimostrarla nelle carte scrivendo, che i dipintori significarla nelle tele pennelleggiando. Il sagro furore, ch’infonde divinità ne gl’ingegni poetici, fu paragonato al fuoco, e la bellezza, che deifica gli uomini in terra, viene equiparata alla luce, lo splendore di questa aggiunge forza al calore di quello, e con la virtù dell’una viene meglio espresso il valore dell’altro (NC, «Cielo di Venere», Dedica);

e con la metafora luce-bellezza annuncia un’impegnata disquisizione estetica: Ma lascio il paragone del fuoco nella poesia, e prendo il paralello della luce nella bellezza. Che la beltà sia luce del mondo picciolo e la luce sia bellezza del mondo grande, non è veruno, che dubiti. Ecco i riscontri dell’una, e dell’altra. La luce (come insegna la scuola de’ filosofanti licei) diffonde i suoi tesori con prodiga liberalità, e la bellezza (coma afferma l’Accademia de’ Rilevati platonici) si comparte a tutti con larga munificenza. La luce è pura nella sostanza, feconda nella virtù, indivisibile nella quantità, istantanea nell’operare, e la bellezza è semplice nell’essenza, feconda nella gratia, indivisibile nell’amore, e veloce nella vaghezza (NC, «Cielo di Venere», Dedica).

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Questa idea di bellezza, dai tratti platonici molto evidenti, acquisisce sempre più intensamente uno spessore di carattere etico-religioso: La luce illumina, e colorisce le cose, la bellezza purifica, rischiara le menti, la luce rivela i secreti dell’universo, la bellezza appalesa le grandezze di Dio, la luce risveglia i sensi dal sonno, la bellezza desta le menti dall’ignoranza; se quella abbaglia, questa confonde, se quella ravviva le cose, questa vivifica i cuori, se quella bandisce le tenebre, questa rischiara gli animi. [...] E una imagine che rappresenta alle viste, che cosa è Iddio, e un’ombra, che da intendere a gli intelletti, che cosa è luce; è un epilogo della gloria del cielo, è un compendio del bello del paradiso, è un pegno della futura beatitudine, è un’arra delle celeste cittadinanza. Una saetta, che non veduta dall’occhio, ferisce l’anima una fiamma, che non conosciuta dal guardo, si sente nel cuore; una calamita, che con occulta violenza rapisce gli spiriti; una catena, che con invisibile forza tiranneggia gli animi, una autentica del Cancelliere immortale, dove i più cari, e rilevanti favori si manifestano, un’arca dell’anima ben composta, dove i più ricchi, e preziosi tesori si custodiscono (NC, «Cielo di Venere», Dedica).

Il Cielo di Venere è quindi consacrato alla «vera Idea della bellezza». Con più ossequio ad una tradizione tutta barocca, Fontanella decide di raccogliere sotto l’egida protettiva di Venere, che resta «madre di vaghi amori», tutte quelle liriche che ruotano attorno ai temi della bellezza, della donna e dell’amore. L’amore che il poeta narra, tuttavia, non è niente di più che una semplice finzione poetica: Ne la scola d’amor non fui giamai, e de l’arte d’amor detto, e ragiono, come esperto amator di duo bei rai descrivo il lampo, e non conosco il tuono. Mostro in carte d’amar, né seppi mai, come d’alma beltà gli effetti sono, piangendo vo’ con dolorosi guai; me de’ miei pianti è simulato il suono. Quel che sento narrar vero, et espresso d’un fedele amator, co i detti sui figurando talor vo’ di me stesso. Dipinsi amor, ma non conobbi lui, e colorii con la mia penna spesso ne le favole mie gli amori altrui. (NC, «Cielo di Venere», Amore finto)

ma questa confessione arriva dopo ben settantacinque sonetti in cui il poeta mostra se stesso come vittima del sentimento amoroso, cosa che peraltro avverrà anche per i sonetti successivi.

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Soffermiamoci sulla struttura di questa sezione. Anzitutto balza evidente la suddivisione del “cielo” in due sottopartizioni: «Scherzi pastorali» e «Scherzi maritimi», una suddivisione che si colloca dopo i primi ottantanove sonetti: sono quarantotto i sonetti pastorali, meno numerosi, ventotto per l’esattezza, quelli marittimi, con i quali si chiude la sezione dedicata a Venere. Questa ripartizione non può che essere vista come omaggio palese alla tradizione letteraria di area napoletana (o, più propriamente, di area centro-meridionale) cui Marino darà un autorevole contributo a cominciare proprio dalle Rime del 1602; una ripartizione, quindi, affatto tradizionale – basti pensare al Rota, o più ancora alla suddivisione delle rime del Tansillo – che offre un doppio fondale alle vicende di carattere amoroso, talora mitologico. In questo “cielo” si è voluto leggere un recupero «in modi più che allusivi, dati gli usuali caratteri divagatori e la topica dichiarazione di Amor finto, una larva di canzoniere amoroso»71; questa ipotesi è suggestiva e per molti versi condivisibile, però bisogna osservare attentamente la struttura di questa macrosezione, più ancora soffermarsi sui soggetti che appaiono molto legati al topico repertorio barocco che gravita attorno ai temi della bellezza muliebre e dell’amore, per ricercare quei tratti di intertestualità che legano diversi componimenti conferendo in tal modo una fisionomia semantica “complessiva” al canzoniere amoroso. Anzitutto notiamo che non esiste un’unica identità femminile a cui il poeta rivolge le sue attenzioni di amante. Questo è un tratto di rilievo che avvicina in maniera notevole questa porzione della raccolta fontanelliana alle rime amorose del Marino, caratterizzate per l’appunto dal rifiuto dell’immagine di un’unica donna amata; può d’altra parte essere utile sottolineare alcuni punti di distanza tra l’opera del Fontanella e quella mariniana proprio in ordine a questo tema. Nel canzoniere del Marino appaiono subito in rilievo alcuni piccoli segmenti che certamente non si compongono in un asse diegetico unitario ma che, conservando il proprio carattere frammentario, spingono comunque il lettore verso un sistema di attese circa lo svolgimento di brevi momenti narrativi. Ne è prova il fatto che la sezione si apra con due sonetti dal carattere proemiale in cui si può leggere l’intenzione del poeta narrante di raccontare una vicenda interiore, secondo un modello chiaramente petrarchesco e poi tassiano, che non può che spingere il lettore verso l’attesa del racconto di una vicenda amorosa nelle sue articolazioni narrative: Il tempo e la guisa del suo innamoramento, terzo sonetto delle rime, è seguito da due sonetti chiaramente legati tra loro anche da elementi sintattici: l’incipit del terzo sonetto «I’ arsi et ardo», già indicativo di una continuità temporale del narra-

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Consoli, L’esplosione del canzoniere, cit., p. 46.

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to, riecheggia nei primi versi del sonetto successivo «Ardo, ma l’ardor mio grave e profondo». Il canzoniere mariniano prosegue poi ampliando il repertorio delle immagini e giungendo a tessere le lodi alla bellezza di altre donne sino a dedicare nove sonetti ad una cortigiana. La sezione amorosa del Fontanella si apre nel segno dell’elogio platonico della bellezza, coerentemente con le argomentazioni addotte nella dedicatoria di questo “cielo”, al punto che le intenzioni programmatiche dell’autore sembrerebbero voler allontanare il lettore da attese di amori lascivi: Allarga il freno al bel desio ristretto, e verso il ciel va dibattendo l’ale anima mia, mentre in umano obietto miri forma celeste, et immortale. Manda a le luci, e per le luci al petto quel vivo di beltà raggio fatale, né terreno t’ingombri, o cieco affetto ch’alma impura là su giamai non sale. Non ti fermar, dove fallace, e stolto si perde il senso, et al desio conduce la scorza fral d’un miniato volto. Ma la fida ragion presa per duce, a la prima cagion l’animo volto, da quest’ombre del mondo esci a la luce. (NC, «Cielo di Venere», Si solleva con argomento platonico alla bellezza ideale)

E lo stesso amore pare risolversi nella pura contemplazione della bellezza: Non creder tu, che per sentier fallace con la turba volgar mova le piante, e per l’ombre de’ sensi orbo, et errante dietro il cieco desio trascorra audace. Ma l’eterno splendor, ch’è in te vivace simulacro di Dio vivo, e spirante, amoroso idolatra, onesto amante vagheggiar mi diletta, amar mi piace. E se vago il mio cor vola sovente a i tuoi bei lumi, e qual farfalla ardita le piume corre a incenerir sovente. Sì soave ho per te perder la vita che nulla curo al tuo bel sole ardente pur che goda la vista uscir di vita. (NC, «Cielo di Venere», Amore onesto)

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E si legga ancora il sonetto successivo: Non da laccio impudico il cor ligato traggo dal tuo splendor lascivo ardore ne d’impuro desio tinto, e macchiato di tua vaga bellezza ardo in amore. Quel ch’onesto risplende in te m’è grato quel che puro non è schivo d’onore, e quel lampo di Dio miro beato, che da gli occhi, e dal volto apri al mio core. Ardo, ma ne l’ardor godo felice, et una morte sofferir m’è poco né l’incendio d’amor nova fenice. Sì mi sembran le pene al cor gradite che sol per te ne l’amoroso foco per più volte morir, vorrei più vite (NC, «Cielo di Venere», Nel medesimo soggetto)

dove campeggia la tradizionale immagine del fuoco quale riflesso dell’ardore del sentimento amoroso, qui tuttavia non declinata secondo un’idea di reale struggimento legato ai tormenti dell’animo. La bellezza si discopre subito come dono divino che accomuna la donna agli altri elementi del creato, e contemplando proprio questi riflessi di pura bellezza l’uomo può raggiungere uno stato di beatitudine: Di vivi fogli, e spiritose carte donna è la tua beltà libro animato con saggia industria, e con mirabil arte da la mano di Dio scritto, e segnato. In esso io vo’ leggendo a parte a parte quanto insegna natura, ordina il fato, e mentre ammiro ogni sua bella parte, imparo amando a divenir beato. Sudi, e stanchi l’ingegno oggi chi vuole da la terra volando al ciel disciolto de’ più dotti Licei vincer le scole. Ch’ad imparar quanto è di bello accolto, e quanto uscir di meraviglia suole altra scola non ho che ’l tuo bel volto. (NC, «Cielo Venere», Impara la vera filosofia nella bellezza di S.D.)

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L’ingresso della «Sua Donna» appare quindi senza una connotazione enfatica e l’amata non ha ancora una fisionomia ben definita in relazione alle attenzioni amorose del poeta narrante, piuttosto incarna un’immagine di donna, sfumata, priva di una propria volumetria fisica, quale pretesto per riflessioni di carattere filosofico. Tutta una prima sezione di diciotto sonetti è una continua variatio sul tema della bellezza, una bellezza tuttavia che ha poco di carnale ma diviene «compendio di tutte le bellezze celestiali». Il centro focale si sposta subito verso altre presenze femminili, poste in un ordine di corrispondenza ambiguo con la presenza eterea della «sua donna», così che l’alternanza di sonetti dedicati a «bella donna» e quelli indirizzati alla «sua donna» si susseguono senza nessi logici che possano rendere evidente una volontà dell’autore di mantenere vigile l’attenzione del lettore su una figura femminile da ammantare di maggiore senso poetico, così come avviene nelle Amorose mariniane che pure conservano nella parte iniziale una minore dispersività. Esattamente come nelle Amorose del Marino, peraltro all’incirca nella stessa posizione rispetto al contesto, Fontanella pone un sonetto in cui il tema centrale è un ritratto pittorico del poeta, ma mentre il Marino auspica che il suo ritratto possa giungere alla donna amata, seguendo quindi un percorso di senso sostanzialmente coerente, il Fontanella si limita a dedicare questo sonetto alla pittrice Artemisia Gentileschi e i suoi toni diventano assai ambigui: Vorrei, come eternarmi io tento in carte, ne le tele immortal rendermi anch’io, e per far lieto il cor, pago il desio di muta poesia ricerco l’arte. Tu donna, in cui lo ciel virtù comparte, dentro il color d’avvelenar l’oblio. prendi il pennel c’hai da l’alato dio, e di me pingi ogni composta parte. Me, ch’un’ombra in amor somiglio errante, fra miracoli tuoi stupendi, e novi, deh con l’ombre, che fai rendi spirante. Ma temo poi, che se ’l pennel tu movi, da’ tuoi begli occhi fulminato amante, onde vita sperai, morte non trovi. (NC, «Cielo di Venere», Desidera esser ritratto dalla signora Artemisia Gentileschi)

La terzina finale pare voler indicare nella pittrice romana la musa ispiratrice non solo del canto ma anche di un autentico sentimento amoroso; anche

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nel successivo sonetto incentrato sulla figura della Gentileschi si ha conferma di questa idea: Certo sì eguale al ver scorgo il mio finto, che dal valor, ch’hai nel pennello accolto par che rapito io sia, non già dipinto. Cruda non ti bastò d’avermi tolto l’anima prigioniera, e ’l core avvinto ch’anco ladra d’amor mi rubi il volto? (NC, «Cielo di Venere», Al proprio ritratto dell’autore, di mano della signora Artemisia Gentileschi, vv. 9-14)

del resto la stessa prima sezione del Cielo di Venere si chiude con un sonetto dedicato ad un’altra donna in cui tornano gli stessi temi amorosi che sembrano essere sincere confessioni amorose: Pur sì bella accompagna, atti et accenti, che quanti move il dì, gesti e parole, tante sparge al mio cor faville ardenti. (NC, «Cielo di Venere», Alla signora Leonora Barone, vv. 911)

Tutta la prima sezione del cielo non presenta un’organizzazione logicosintattica complessiva delle rime, ma propone semplicemente un campionario dei temi topici dei canzonieri amorosi barocchi trattati senza un disegno ben preciso; nella sequela di sonetti dedicati alla donna anche nella sua veste più umana e carnale, intercalati da commenti tradizionali sull’incapacità dell’amante di esprimere i propri sentimenti, balzano due sonetti contigui legati da connessioni intertestuali e dal punto di vista tematico e dalla ripetizione in parallelo di elementi lessicali e semantici: Prese medica man serico laccio, ove inferma languì la bella Irena, e quel molle annodò candido braccio, che nel regno d’amor l’alme incatena. Per toglier de la febbre il grave impaccio destro ferio la delicata vena, che da ferro sottil percossa a pena, il rubino spiccò dal vivo ghiaccio. Al zampillar di quel sorgente rivo mancò la bella, e dolce a poco a poco tinse un bianco pallor l’ostro nativo.

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Ratto l’anima mia corse in quel loco, per tor la sete in quel zampillo vivo, ma l’onda ritrovò, ch’era di foco. (NC, «Cielo di Venere», La S.D. salassandosi)

E si legga il secondo: Manca la bella donna, e par che mora or che bianca paura il cor le assale, la virtù, che smarrita in lei dimora circonda il volto suo d’ombra mortale. Langue la dolce porpora vitale ch’un sereno pallor toglie e scolora, e dentro nube d’improviso male sta la mia vaga e pallidetta aurora. Prova ghiaccio di morte in mezo il petto, se fiamma non sentio giamai nel core, per calda via d’innamorato affetto. Quel ch’amor non potea, fece il timore, ecco fa tramortir quel bianco aspetto, che mai non seppe impallidir d’amore. (NC, «Cielo di Venere», Svenimento di bella donna)

Questo è uno dei rarissimi casi in cui si possa individuare un legame diretto, espresso non solo dal punto di vista del contenuto ma anche sulla forma dell’espressione, tra due o più sonetti; questo segmento ha un carattere narrativo che potrebbe creare un sistema di attese, in questa posizione del “canzoniere amoroso”, come fosse un ganglio diegetico che dà origine allo sviluppo di un intreccio. In realtà ciò non avviene in quanto seguiranno nuovamente sonetti sui tradizionali temi legati all’amore, peraltro con riprese petrarchiste evidenti miste a forme espressive argute: Moro, e vivo in amor, bramo, e pavento in un tempo, in un punto ardo, et agghiaccio misto in foco, e la neve insieme io sento, fredda provo la fiamma, ardente il ghiaccio. Mentre chieggio fuggir, corro al tormento, mentre schivo la rete, incontro il laccio: parto, vado, e ritorno, e poi mi pento e ’l mio danno e ’l mio duol cingo, et abbraccio. (NC, «Cielo di Venere», Amante timido, vv. 1-8)

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Neppure il sonetto La S.D. si sposa con altri riesce a definire una direttrice narrativa che orienti i temi a seguire: non vi è alcun riferimento a questo distacco della sua donna nelle poesie successive, peraltro nuovamente incentrate su topoi barocchi frequentatissimi, quali i ritratti della donna amata in abiti di colore differenti; questi sonetti sono legati da un unico elemento, in realtà più tradizionale che realmente caratterizzante: è il tema della crudeltà della donna: Crudele amor, che meraviglia è questa, come esser può, che tra dolcezza, et ira, chi battaglia mi dà, la pace vesta? (NC, «Cielo di Venere», La S.D. in abito color bianco, vv. 12-14) Qual nova in te disparità discerno? il cielo imiti a le cerulee spoglie e poi di crudeltà vinci l’inferno? (NC, «Cielo di Venere», La S.D. vestita di color cilestro, vv. 12-14) E ben le convenia l’aureo lavoro, ch’essendo pietra d’empietà sì dura, star qual pietra dovea rinchiusa in oro. (NC, «Cielo di Venere», La S.D. vestita di broccato, vv. 12-14)

Vi riscontriamo una piena simmetria: nella terzina conclusiva si apre uno spazio semantico nuovo riservato al pensiero del poeta narrante che acquisisce toni anaforici. La microsezione si chiude con un sonetto che funge quasi da suggello: Miro in un fosco, e nubiloso orrore in negra benda in vedovile ammanto, chi dolcemente in soggiogarmi il core, mi sposa al duolo, e mi marita al pianto. Languida ascolto, e sospirosa intanto chi mi costringe a sospirar d’amore, morte accusar, chi di crudele ha il vanto, e de la Parca, è in ferità maggiore. Pace a’ morti invocar donna ritrosa, ch’ad abitar, ch’a tormentar condanna ne l’inferno d’amor l’alma dogliosa. Che veggio ahi lasso, e qual magia m’inganna, rimiro l’empietà fatta pietosa la fede oscura, e la pietà tiranna? (NC, «Cielo di Venere», La S.D. vestita d’abito di corruccio)

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Ma il tema della ritrosia della donna si ritrova nella stragrande maggioranza dei sonetti e il più delle volte offre semplici occasioni per declinazioni concettose ed argute di immagini poetiche. Neppure la ripresa del motivo della malattia della donna, sviluppato da quattro sonetti a breve distanza dalle rime “ritrattistiche”, presenta spunti per un’evoluzione narrativa degli eventi: queste rime legate tra loro da ovvie connessioni di senso ottenute, come avviene il più delle volte, per semplice accostamento e per la ripresa esplicita del tema nei titoli (Per la S.D. febricitante – Per la medesima – Al sonno per la S.D. inferma – Bella addormentata) sembrano costituire perlopiù un unico componimento più ampio, del tutto scollegato dal contesto semantico macrotestuale; si pensi, infatti, che la ripresa dei temi canonici della bellezza della donna e dei doni dell’amante avviene immediatamente senza elementi di continuità. Fontanella non mira ad una struttura semantico-narrativa unitaria, non intende proporre una serie di microsezioni legate tra loro da connessioni intertestuali espresse da rapporti logico-sintattici come da riferimenti spaziali-temporali72, non vuole guidare il lettore lungo un filo narrativo e neppure lasciarlo libero di muoversi alla ricerca di segmenti diegetici formati da sezioni più piccole di microtesti; bastano pochi esempi a confermare questa tesi: la lirica Amore finto, in cui confessa il carattere esclusivamente letterario dei sentimenti espressi, è seguita da un sonetto in cui la confessione del sentimento d’amore avviene in termini enfatici, pur tradizionali: Sono l’Erinni i miei pensieri erranti giudice è la mia donna, io sono il reo; sono ombre i miei sospir, laghi i miei pianti. (NC, «Cielo di Venere», Inferno amoroso, vv. 9-11)

Uno iato assai forte se si è predisposti ad una lettura trasversale dei sonetti nell’attesa di un continuum di senso; si pensi, ancora, alla presenza della lirica In partenza in cui compare all’improvviso un tema invero trascurato, quella della partenza della donna amata, che diviene tuttavia secondario e lascia spazio all’immagine del pianto: Spento io sarei, se nel baciarla poi io non bevessi liquefatta in pianto l’anima mia, ch’è ne’ begli occhi suoi. (NC, «Cielo di Venere», In partenza, vv. 12-14) 72 Relativamente ai rapporti tra macrotesto e microtesti contigui adotto la griglia teorica definita da Marco Santagata e applicata al canzoniere petrarchesco (cfr. M. Santagata, Dal sonetto al canzoniere, Padova, Liviana, 1979, in particolare alle pp. 11-56).

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Quest’ultima terzina aggancia il sonetto a quello successivo, nel cui incipit si legge: Miro sopra un angelico sembiante di lacrime cader nube tranquilla, qual bianca luna, che pietoso amante candide gemme di rugiada stilla. (NC, «Cielo di Venere», Bella piangente, vv. 1-4)

Ma questo nodo tematico della partenza, che sembrerebbe arricchito dall’immagine del pianto che migra nel sonetto successivo, si disperde subito e lascia di nuovo il campo ai sonetti dai più tradizionali soggetti barocchi. Lo stesso tema dell’infermità della donna amata, che lascerebbe presagire l’apertura verso una vicina zona di rime “lugubri” o spirituali, in realtà si risolve come semplice occasione per evocare immagini poetiche spesso con piglio virtuosistico; rimane insomma un riferimento occasionale. Queste stesse considerazioni valgono in sostanza anche per le altre due sezioni del Cielo di Venere, rispettivamente «Scherzi pastorali» e «Scherzi maritimi». L’allineamento al modello mariniano è evidente: la caratterizzazione bucolica degli avvenimenti amorosi si mescola al canto sincero degli elementi naturali che spesso, sullo sfondo di una idealizzata realtà bucolica (che non trova riferimenti topografici precisi e resta in questa sua dimensione quasi fiabesca), fanno eco alle emozioni umane, quando addirittura non insegnano la spontaneità dei sentimenti: Vita avvampa d’amor la selva o Clori, spirano l’onde amor, grazia i ruscelli dolci fiati amorosi aprono i fiori, dan muggiti d’amor capri, et agnelli. Giudicar tu non sai, se i pinti augelli siano in mezo de l’aria alati Amori, o se gli Amori in compagnia di quelli con la dolce armonia svegliano i cori. Amo un tortore dice, amo tremante tosto un merlo soggiunge, ecco poi vola, per ritrovar la su compagna errante. Qui vieni, e se d’amor non sai tu sola: l’imparerai ch’ad insegnar l’amante l’augello è maestro, e la campagna è scola. (NC, «Cielo di Venere», La scola d’amore si contempla nelle campagne in tempo di primavera)

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Fontanella non vuole narrare un amore bensì i tanti “amori” pastorali che vedono protagonista una ninfa, di volta in volta identificata con i nomi classici della tradizione e sempre connotata dai più consueti aspetti caratteriali, quali la ritrosia, l’indifferenza, la crudeltà. Anche la sezione degli «Scherzi maritimi» presenta gli stessi elementi caratterizzanti tipici della tradizione partenopea, a cominciare dai riferimenti espliciti a luoghi geografici di area napoletana in cui sono collocate, più o meno direttamente, le vicende amorose: Posillipo e Mergellina, esattamente come in Marino, diventano lo sfondo privilegiato di amorosi avvistamenti; un ossequio alla tradizione, quindi, che viene rimarcato dal sonetto Alla sepoltura di Sannazaro (ancora una volta secondo l’esempio mariniano Alla sepoltura di Sannazaro, ch’è in Mergellina presso Napoli, sonetto collocato nella parte finale della sezione “marittima”, esattamente come nel Cielo di Venere). Dopo tali considerazioni, è difficile poter definire “canzoniere amoroso” il Cielo di Venere senza operare forzature a mio avviso eccessive, persino inutili: questo “cielo”, alla stregua di tutte le altre sezioni, “raccoglie” rime tenute insieme essenzialmente da scelte tematiche il più delle volte declinate secondo stilemi consueti. Ciò non toglie che proprio questa sezione raccolga liriche tra le più interessanti di tutti i Nove cieli: le immagini scorrono fluide, il ricorso all’elemento mitologico appare moderato, la levità delle immagini è spesso realmente di gusto melico prearcadico. Al Cielo di Venere fa seguito un’amplissima sezione dedicata ai sonetti encomiastici che si estende trasversalmente per i tre “cieli” successivi. Fontanella ha sfruttato la suddivisione della sua raccolta in “cieli” per effettuare un’ordinata ripartizione per sottocategorie anche delle liriche d’encomio; le poesie raccolte in ognuna di queste sottosezioni sono accomunate esclusivamente dai profili e dalla categoria sociale dei destinatari: avremo in questo modo la seguente suddivisione: a) Cielo del Sole: uomini di lettere b) Cielo di Marte: uomini d’armi c) Cielo di Giove: regnanti e prelati; rime d’occasione. Fontanella crea quest’ordine dispositivo non senza preoccuparsi di spiegarne le ragioni nelle consuete sedi preposte, ovvero le introduzioni dedicatorie, spesso facendo ricorso ad argomentazioni raffinate ed eleganti. Si è voluto individuare nel primo astro, il Sole, il simbolo della sapienza73, ed è cosa certamente da condividere, a giudicare dall’incipit della dedicatoria:

73

Cfr. Chiodo, Suaviter Parthenope canit, cit., p. 169.

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Sono molti, ch’in questo secolo si propongono il fine della gloria; ma rari per mezo delle lettere s’affatigano per ottenerla. Sta l’albergo della Sapienza situato in altissimo colle, avvallato da sassosi dirupi, circondato da spinosi ravvolgimenti (NC, «Cielo del Sole», Dedica)

tuttavia ritengo sia più opportuno sostenere che il valore simbolico assegnato a questo cielo non sia tanto quello della sapienza, bensì della “Poesia”, così che il rimando metaforico rievoca l’icona classica di Apollo padre di Orfeo che dà origine al canto poetico; tradizionale è l’immagine di Febo evocata nel sonetto proemiale del “cielo”: Tu, ch’in trono di luce hai d’oro il manto, signor di Cinto, e regnato di Delo; canoro in Pindo, e luminoso in cielo reggendo il tempo, e misurando il canto. Tu, c’hai d’arciero, e di poeta il vanto, et accordi la lira, e vibri il telo; al colle, ove m’invio stanco, et anelo, con tua nobile virtù reggimi intanto. Ma per salir tant’alto, or che sper’io, s’a le fatiche mie scarso ristoro, m’è cibo un lauro e m’è bevanda un rio? Non curo aver ne l’arche ampio tesoro, se grato esser mi vuoi castalio dio, porgi a le carte mie facondia d’oro (NC, «Cielo del Sole» Invocazione)

e i richiami a Orfeo sono evidenti; nel sonetto successivo, proseguendo lungo lo spazio metaforico del sonetto proemiale, i poeti sembrano creature più del cielo che della terra: Ricco no, ma felice è ’l dotto stuolo, che seguace di Febo in Pindo è nato, riposa in terra; e si solleva a volo, e viver sa ne le fatiche agiato. Se dal vulgo lontan ricovra solo, fra Muse in compagnia vive beato, dilata a la sua fama immenso il volo, se lo stringe Fortuna in breve stato. Ne le finte menzogne asconde il vero, fassi a i dubbi pensier sicure guide, et abbraccia la pace, et è guerriero:

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È guerrier, ma non usa armi omicide; tratta la penna in su la lira arciero, e saetta la morte, e ’l tempo uccide. (NC, «Cielo del Sole» Condizione de’ poeti)

Il Cielo del Sole, quindi, è consacrato ai valori della poesia più che della sapienza. Questa distinzione non è di poco conto, se si pensa al profilo quasi eroico attribuito al sapiente, nel Cielo di Giove, che diviene più incline a virtù inscindibilmente connotate da riflessi etico-religiosi. Nel Cielo del Sole si celebra dunque la poesia che è soprattutto fatica, e resta pur sempre privilegio di Dio: Gran sofferenza di studio vi dura l’uomo per arrivarvi coi passi dell’intelletto. Vi scorrono torrenti di continui sudori, vi soffiano aquiloni d’angosciose vigilie: polveri di fatiche, calori d’affanni, siccità di penurie, sterpi di difficultà, bronchi di malidicenze, pietre d’adversità, monstri di calunnie intoppano, et assaliscono continuamente il misero peregrino. Quanti angustiati dagli assidui patimenti s’arrestano neghittosi in mezo della salita, e quanti diffidando di non poter giungere alla sommità, s’arretrano spaventati dalle fatiche. [...] Che altro sono i rivi, che gocciano da quelle mistiche fonti, se non sudori, che distillano dalle poetiche fronti? la candidezza de’ cigli e la pallidezza de’ letterati. [...] È prerogativa della natura, non calamità del destino, e privilegio di Dio, non punizione del cielo il ministerio del poetare. Quella veemenza di spirito, quella elevatione di mente, ch’aliena da loro stessi i poeti, che altro è, se non donativo dell’eterna liberalità? (NC, «Cielo del Sole», Dedica).

E non mancano riferimenti autobiografici in questa difesa strenua del valore della poesia contro la maldicenza: Nel corso della mia gioventù pratticai le difficoltà della poesia, sperimentai la malvagità de’ malevoli, soffersi l’oppressioni della fortuna, e facendomi scorta con la sofferenza, m’ingegnai di surmontare questo colle tanto alpestre della virtù (NC, «Cielo del Sole», Dedica).

Dopo tredici rime dal carattere metapoetico, si passa ai sonetti d’encomio vero e proprio dedicati ai poeti: troviamo così nomi più o meno noti dei primi decenni del secolo: Marino, ovviamente, ma anche Claudio Achillini, Angelo Grilli, Lucrezia Marinelli, Francesco Maia Materdona, Giovan Battista Manso, Guido Casoni, Giovanni Palma ecc. Non mancano sonetti ecfrastici, il cui proposito sarebbe quello di elogiare le virtù del pittore, ma che di fatto si risolvono in descrizioni compiaciute di dipinti di cui spesso Fontanella tende ad offrire una lettura narrativa:

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Clori, che fai? ch’a più poter volante non lasci omai de le tue ninfe il coro? se ne l’arsura tua brami ristoro, affretta su l’innamorate piante. Ecco il tuo Canopo alato amante, che pompa fa de le sue piume d’oro; qui di Massimo ingegno opra, e lavoro, vedesti in breve tela oggi spiarante. Vola senza adoprar rete, né laccio del gran fabbro di Lenno opera illustre, stringilo (o bella dea) stringilo in braccio. Non temer, che ti fugga egli dal seno: che per incanto d’un pennello industre, partir non puote il volator sereno. (NC, «Cielo del Sole», Zefiro, pittura del Cavalier Massimo)

I sonetti ecfrastici sono dieci e non tutti contigui, anche se è riscontrabile una microsezione compatta di sei sonetti, e restano perlopiù concentrati nella parte finale. Sebbene in un sonetto del Cielo del Sole Fontanella rivendichi la superiorità della poesia sulla forza della spada: Troppo l’umana vita è breve, e corta oscurata dal tempo ogni opra è intanto, s’a serbarla non è, la penna accorta: non quella man, c’ha ne la spada il vanto; ma solo ai nomi eternitate apporta chi famosa ha la penna, e dotto il canto, (NC, «Cielo del Sole», Che i principi nella guerra debbano essere amatori della poesia per acquistarsi immortalità, vv. 9-14)

nella dedicatoria al Cielo di Marte, sezione dei Nove cieli dedicata all’elogio delle virtù della forza e delle armi, la posizione del Fontanella cambia radicalmente: Fu sempre (Eccellentiss. Sig.) fra l’armi, e le lettere gareggiamento di maggioranza. [...] Dicono, che ’l ministerio dell’armi, divida gli uomini dalla mutua benevolenza, affermano, che l’ufficio delle lettere congiunga gli animi alla perfetta amicizia; che ’l guerriere per l’atto della ferocità si rassomigli alle belve, che ’l savio per l’atto della contemplazione si paragoni a gli dei; che le lettere partoriscano il perfettissimo stato della felicità, che l’armi producano l’infelice disordine della discordia. [...] Il maneggio dell’armi, come quello ch’è istituito

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per bene publico, deve anteporsi all’esercizio delle lettere, ch’è per bene privato. [...] È vero, che le città si reggono con le leggi, ma le leggi non sarebbono osservate da’ popoli, se non fossero l’armi, ch’astringono i sudditi all’osservanze legali. L’armi sono quelle, che difendono le republiche, mantengono le ragioni; custodiscono i regni, ingrandiscono le provincie (NC, «Cielo di Marte», Dedica).

Non sorprende questo radicale cambiamento di prospettiva se si ricerca una logica di coerenza all’interno della singola sezione, come più volte ribadito: a Marte è consacrato il quinto “cielo” che, raccogliendo rime d’encomio indirizzate a uomini d’armi, deve essere un elogio alla virtù guerriera. Questo cielo è tra i più compatti dal punto di vista tematico, anche se meno interessante ad un’analisi strettamente letteraria e assai faticoso alla lettura, in quanto caratterizzato da un uso oltranzista di artifici retorici che non costituiscono un elemento estetico accattivante, tanto che spesso si corre il rischio di dimenticare la levità sonora dei versi dal carattere melico che caratterizzano altre sezioni. Si legga, solo per fornire un esempio, la terzina del sonetto dedicato al marchese di Terrecusa, in cui gli astuti congegni retorici sono applicati con esito tutt’altro che eufonico: Che tu per racquistar maggior trionfi, col valor, col’ardir, col cor, col grido corri, vinci, spaventi, entri, e trionfi. (NC, «Cielo di Marte», All’illustriss. sig. Marchese di Terrecusa, vv. 12-14)

Del resto l’arguzia è espressa dal Fontanella più sul piano del suono o su quello sintattico che in ambito propriamente semantico-matoforico, e c’è da riscontrare un incremento degli elementi paranomastici proprio nelle sezioni delle rime d’encomio. È più specificamente nel Cielo di Giove che viene celebrata la forza della sapienza: Sa bene dominare gli uomini con l’autorità del senno, chi sa perfettamente signoreggiare gli animi con l’imperio del canto. La bilancia d’Astrea riceve splendore dalla lira d’Apollo il sole, ch’è misura, e regola delle cose, come è principe de’ poeti in Parnaso, così è principe de’ pianeti nel cielo. Chi possiede spirito armonico, mostra segno c’ha ben disposta, e diritta la mente nel giudicare. Un animo travolto, e scompigliato nelle confusioni, non può mostrare rettitudine nel governo. Fece Iddio ne’ primi secoli riposare nel trono, chi con la mano era solito di poggiare per la scala numerosa de’ versi (NC, «Cielo di Giove», Dedica).

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Qui vi è un ulteriore cambiamento di prospettiva: la poesia torna ad essere elogiata come elemento fondamentale che sorregge le virtù umane: Nasce veramente per lo reame quel principe, il quale (mentre spira le prime aure della sua vita) riceve i fiati canori della sua stella; bagna i lumi nelle fontane del pianto, et è bagnato nelle fontane di Pindo; in un medesimo tempo, che gusta il latte delle nutrici, beve il nettare delle Muse. [...] E pure è vero, che sopra il cielo l’aquila, ch’è simbolo del dominio (come pegno più caro) porta la cetera in petto, ch’è simbolo della poesia (NC, «Cielo di Giove», Dedica)

una poesia che però ha anche il potere di sollevare verso la fama le glorie del principe. Ancora una volta, quindi, più che una autentica confessione di fede, le dichiarazioni paiono frutto di una scelta argomentativa più pertinente alla figura del dedicatario del “cielo”, D. Gioseppe Caracciolo, qui raffigurato come colui che «rinnova le grandezze di Mecenate nell’età nostra». Resta rilevante il fatto che l’immagine di Giove sia saldamente legata, più che all’idea di giustizia, all’icona allegorica della sapienza, come esplicito nel sonetto proemiale: Tu, che sopra l’Olimpo aprendo vai mansueto pianeta, occhio ridente, e resedendo in maestà lucente intrepida virtù spirar ne fai. Tu, che produr la sapienza fai da la tua pura, et immutabil mente, e ’l saggio fren di dominar la gente ai pacifici eroi posando dai (NC, «Cielo di Giove», Invocazione, vv. 1-8).

un Giove, quindi, caratterizzato in questi versi più da elementi religiosi che laicamente classicistici (al punto che si può immaginare che vi sia di base una lettura neoplatonica)74, così che non appare stridente l’accostamento di rime d’encomio rivolte ai regnanti e i numerosi componimenti dedicati ad alti prelati. Questa forma tripartita delle rime encomiastiche, adattata alla struttura generale dei Nove cieli, include una sezione, Sonetti di diversi all’autore, col74

Ancora una volta può essere d’aiuto il testo del Cartari, nella cui sezione dedicata a Giove si legge: «E perciò lo posero i Platonici per l’anima del mondo, e lo credettero ancora alcuni quella divina mente, che ha prodotto, e governa l’universo, la quale communemente chiamavano Dio».

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locata esattamente tra il Cielo del Sole e il Cielo di Marte e non alla fine della raccolta, come ci si aspetterebbe memori del più tradizionale modello di canzoniere barocco. Ciò si spiega facilmente se si tiene conto della suddivisione interna delle rime encomiastiche: le rime, scritte da poeti, seguono il “cielo” dedicato alla poesia e in cui vi sono i sonetti “proposta” del Fontanella: le rime dei letterati che “rispondono” al Fontanella (ma non tutti i poeti che dedicano un sonetto al Fontanella sono stati dedicatari e viceversa), sono disposte secondo l’ordine alfabetico degli autori, e questa scelta appare un doveroso ossequio all’umiltà contrapposta all’ambizione che non deve regnare nella “repubblica de’ letterati”. A Saturno, «padre della fredda malinconia»75, è dedicato il settimo cielo: della concezione umanistico-rinascimentale di stampo platonico, che vedeva in Saturno l’allegoria della Contemplazione, con particolare riferimento agli elementi divini, non vi è traccia nelle raccolte del Fontanella, per il quale Saturno è sì immagine di saggezza ma resta soprattutto il freddo dispensatore di mestizia: Vecchio nume del ciel, che pigro e lento con piè di grave piombo il corso fai, e sparso il volto di rugoso argento senno grave, e senil piovendo vai. Tu, che stanco ben sì, non satio mai sei la tua prole a divorar intento; e tali influssi di mestitia dai, ch’ogni affetto di gioia in cor fai spento. Spira ne le mie carte ombre, et orrori, or ch’agli eroi, che morti il vulgo addita fo meste esequie, ufficiosi onori. Morte a lor diè la saggittaria ardita; io spero da l’oblio liberi fuori, con le lagrime mie tornarli in vita. (NC, «Cielo di Saturno», Invocazione)

A lui Fontanella consacra le proprie «vedove rime»: il Cielo di Saturno raccoglie così le rime “lugubri”: Considerando adunque quanto fusse il pianto onorevole nell’esequie, mi sono ingegnato anch’io deplorando celebrare la morte d’alcuni eroi, e perché di loro

75

Come si legge nella dedica preposta al secondo libro dell’Ode.

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rimanesse perpetua rimembranza, ho voluto che ’l pianto della mia pena, si mescolasse con l’inchiostro della mia penna, et ho cercato di vestir le Muse di color bruno, dove prima andavano ammantate di color bianco. Così flebilmente cantando mi sono partito dall’ombra allegra degli allori, e mi sono ricovrato al rezzo malinconico de’ cipressi. Ho pianto gran tempo la morte della sospirata mia donna, in memoria della quale, se non ho edificati obelischi, per dimostrarle la mia liberalità, mi sono ingegnato almeno fabricarle panegirici, per apportarle immortalità (NC, «Cielo di Saturno», Dedica);

rime che finiscono per risolversi nel tema del pianto e delle lacrime, vero centro semantico gravitazionale della sezione. In questo “cielo” sono mescolate rime che nascono da occasioni luttuose reali e immagini di dolore e di pianto per la scomparsa della «sua donna» che sappiamo essere invece una creazione puramente artistica: nella prima parte della sezione si concentrano le rime con riferimenti esclusivamente letterari, nella seconda quelle che hanno per referente precise identità biografiche. Non esiste, tuttavia, una ripartizione rigorosa: è la stessa immagine del lutto che sorregge la sezione e conferisce un senso indiscusso all’accostamento di immagini, tutte rese con la medesima forza espressiva, come è lecito attendersi. Questa sezione non mostra momenti di particolare interesse letterario: riaffiora perlopiù uno stanco petrarchismo che si manifesta persino con alcune citazioni esposte, come nel caso del verso «pallida no, ma più che neve bianca» del sonetto Morte pacifica, e soave negli occhi della S.D. È assai utile notare come un centro focale indiscusso sia stabilito dal tema del pianto e delle lacrime; se si vuole pensare all’architettura generale dei Nove cieli come funzionale ad un percorso di lettura “ascensionale”, che dal mondo sublunare sale sino a raggiungere quello celeste dell’empireo, soprattutto a partire dal Cielo di Saturno troviamo elementi importanti a sostegno di questa ipotesi. Il Cielo Stellato, ultimo cielo prima dell’empireo, si apre con un accorato sonetto proemiale che affronta il tema delle lacrime, quasi un leitmotiv, più o meno scoperto, delle ultime sezioni: Figlie del mio dolor lagrime ardenti, fra l’ombre oscure mie, stillanti aurore, del mio pentito cor, nuntie dolenti, mute voci de l’alma, onde d’amore: deh con prodiga vena in giù cadenti da’ canali de gli occhi uscite fuore, e con vostre onde tepide, e correnti, purgate omai ne le sue macchie il core. In voi solo io mi specchio, in voi m’affiso rivi di penitenza, e ’l secco stelo de le speranze mie fiorir m’aviso.

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Fiamma d’amor divina è ’l vostro gelo, e se col pianto in ciel si merca il riso, spero a prezzo di voi, comprarmi il cielo. (NC, «Cielo Stellato», Alle lagrime)

Un tema che aggancia, di fatto, questa sezione a quella precedente del Cielo di Saturno, in cui le lacrime rappresentano il dolore, non il pentimento. Nel Cielo Stellato, invece, ogni sforzo è rivolto alla redenzione, e con piglio che sembra temperato su rigidissimi precetti controriformistici, si nega ogni forma di diletto che non abbia una tensione religiosa: Tema adunque i gastighi del Sommo Giudice, chi vuole assicurarsi per la strada della salute, e chi non vuole inciampare nelle reti del tentatore, non prevarichi dall’ordine del divino commandamento, misero colui, che ritrovandosi intricato nel laberinto di questo mondo (dove ad ora ad ora può essere inghiottito dal Minotauro infernale) non prende il filo della gratia celeste per liberarsi. Quanti in cambio di riposare dopo i travagli di questa vita, corrono dannati al precipizio dell’eterna confusione. Deve ciascuno pentito de’ suoi misfatti, placare l’offeso Monarca con l’umiltà. Una musica è la penitenza, ch’addormenta l’ira divina in grembo della misericordia (NC, «Cielo Stellato», Dedica).

E lo stesso poeta è incorso nei medesimi peccati: Entrando io per la porta di questa sagra considerazione, mi ritirai tutto nella camera del mio cuore, dove raccogliendo le smarrite reliquie della mia quiete, detestai (come professione di vanità) tutto ciò che non ridonda ad utilità de’ fedeli, e non è per compiacimento del Re celeste. Che giova (io dissi fra me medesimo) affatigarmi per l’immortalità della fama nel mondo, se non procuro l’immortalità della gloria nel cielo? È stoltizia quella sapienza, la quale non s’acquista per altro fine, che per la gloria mondana. Non fu l’arte del poetare rinvenita per seminare nelle carte lussi, e vaneggiamenti; per intessere cantici di benedizioni, e di lodi a Dio, trovarono i primi vati questa divina professione. Ingrato al Datore de’ beni si sperimenta quello scrittore, che dotato di questa eminente prerogativa, poetando, si fa per idolo una bellezza profana. Quanti scandoli cagiona alla semplice gioventù la lettura de’ versi lussureggianti. Spesso i giovani a guisa d’augelletti, mentre scherzano tra poetici fiori, si ritrovano impaniati tra diaboliche reti, e chi non sa, ch’una penna tinta di amor lascivo, avvelena l’anime giovinili? e chi non vede, quanto danno apporta un poema di lascivia, quanto detrimento cagiona, un componimento di vanità. Ma costoro si ravvederanno di tanto errore, quando saranno giunti su ’l passo dell’angonia, allora si doleranno (ma senza frutto) de’ loro profani componimenti, et allora si pentiranno di non avere impiegate le Muse in sante devozioni. Ma non vorrei rimproverare ad altri quel

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fallo, nel quale sono io medesimo incorso. Pure sono meritevole di scusa, mentre nel fine di questo mio libro mi confesso colpevole di tanto errore. Eccomi dall’antica usanza cangiato (NC, «Cielo Stellato», Dedica).

Questa stessa dedicatoria si chiude proprio offrendo una bellissima immagine che ancora una volta ruota attorno al tema del pianto: L’ho situate [queste rime] nel Cielo Stellato, perché le lagrime de’ peccatori non sono altro all’occhio di Dio, che margherite, e stelle (NC, «Cielo Stellato», Dedica).

Possiamo intravedere, quindi, un vero percorso allegorico: il pianto, sempre reso attraverso l’icona metonimica delle lacrime, è dapprima identificato come riflesso del dolore (quindi un elemento connettore dei temi legati alla morte espressi nel Cielo di Saturno); successivamente, nel Cielo Stellato, il binomio pianto-lacrime diventa metafora della “redenzione”, e procedendo lungo questo itinerario simbolico, giungiamo così al Cielo Empireo, nona ed ultima sezione dei Nove cieli, dove le rime sacre trovano il loro culmine espressivo nella ritrattistica agiografica esemplare: un percorso trasversale, quindi, che si snoda principalmente su tre punti ordinati secondo un climax ascendente: Cielo di Saturno → (rime lugubri) ↓ morte / dolore / pianto →

Cielo Stellato (rime morali) ↓ pentimento

→ →

Cielo Empireo (rime sacre) ↓ beatitudine celeste

e, seppur con convenzionali immagini retoriche, lo stesso Fontanella conferisce esplicitamente il valore di un iter alla sua raccolta: Eccomi del mio libro pervenuto su ’l nono Cielo. Pur mi ritrovo malgrado della fortuna arrivato al termine del mio corso. Credeva in così temerario camino o con la caduta d’Icaro pagare il mio fallo, o col precipizio di Fetonte terminare il mio ardimento. Gran fortezza di spirito vi si ricerca, per non abbagliarsi a sì smisurato splendore; e gran virtù di coraggio v’è di mestieri, per non mancare a sì faticoso viaggio (NC, «Cielo Empireo», Dedica);

si giunge così all’ultimo “cielo” attraverso un percorso di penitenza, vero valore etico attorno al quale ruotava la precedente sezione delle rime morali, ed ancora una volta l’icona “veicolo” resta quella delle lacrime:

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I Nove cieli di Girolamo Fontanella. Considerazioni sulla struttura del canzoniere

Non pervenivano al conquisto della beatitudine in cielo, se questi santissimi eroi, ch’io celebro in carte, non abbracciavano in terra la penitenza. Per un mare di lagrime bisogna peregrinare quel passaggiere, che brama di giungere alla patria del riso (NC, «Cielo Empireo», Dedica).

Anche per quel che riguarda il Cielo stellato non si può parlare di una disposizione interna del materiale secondo una logica dispositiva finalizzata ad una lettura trasversale dei sonetti lungo un percorso di senso lineare. Nell’ultimo sonetto del “cielo” riaffiora il tema delle lacrime, che di fatto apre e chiude la sezione: Piange l’uomo infelice, allor che viene fanciullino a spirar l’aura vitale; e per mostrar, che varca un mar di pene, celebra cor le lagrime il natale. Piange, quando in età più ferma sale sotto maestra man, ch’a freno il tiene, e piange punto d’amoroso strale, quando al regno d’amor servo diviene. Piange, poiché l’età vede fornita sotto il freddo de gli anni aspro rigore; quando ecco in un sospir chiude la vita. Così fra pianto, e duol passando l’ore, senza aver mai felicità compita, piangendo nasce, e sospirando more. (NC, «Cielo Stellato», Infelicità dello stato umano)

Un sonetto che riprende l’assunto della fugacità del tempo, già espresso in altre liriche della sezione pur distanti e non legate da espliciti elementi di raccordo. Non fa eccezione l’ultima sezione dedicata all’empireo: la poesia proemiale, Al paradiso, appare come di consueto una sorta di prosecuzione in versi della dedicatoria preposta, ed è seguita da A Dio, quindi si delinea un percorso che propone un ovvio passo ascensionale: Centro, che l’universo in te prescrivi, mente, che ’l tutto movi, e ’l tutto intendi, spirto, che d’ogni cosa il seme avvivi, luce, che dentro il mondo, e fuor ti stendi. Fonte inesausto che da te derivi, eterno amor, ch’ogni bell’alma accendi, sublime Re, ch’in ogni altezza arrivi, immenso Autor, che ’l tutto in te comprendi.

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Sole, che non tramonti, e non eclissi, mar che riva non hai, né fondo in seno, abisso in ciel di luminosi abissi. Ma di stupor, di riverenza pieno, nulla io dissi di te, se molto dissi; che chi t’intende più, t’intende meno; (NC, «Cielo Empireo», A Dio)

sonetto, come ben evidente, poco intimo e non scevro di elementi concettosi. Il Cielo Empireo, di fatto, si compone di una serie aneddotica di figure di santi che appare affatto priva di una struttura unitaria: essa si costituisce come una vera e propria catena di “medaglioni” agiografici, in cui il Fontanella ritrae i beati senza conferire alle immagini elementi di pura fisicità, ma limitandosi all’elogio di ogni singola virtù che più ha caratterizzato – e in un certo senso stilizzato – queste icone di beatitudine; non avviene lo stesso nella serie di rime encomiastiche in cui l’autore fa spesso ricorso ad elementi icastici, quando non a sezioni d’ecfrasi vera e propria. In conclusione, la struttura dei Nove cieli fontanelliani mostra soprattutto elementi di continuità rispetto alla tradizione letteraria di più stretta pertinenza, ovvero quella legata all’ambiente culturale partenopeo. L’esempio principe del nostro poeta pare quello offerto dal Marino, per quanto dal punto di vista stilistico vi siano delle notevoli distanze tra i due poeti, e spesso la vocazione del Fontanella al classicismo si avvalga di elementi tassiani (ma anche petrarchistici), ancora una volta seguendo una tradizione saldamente costituita. Dietro lo schema dei Nove cieli emerge la filigrana delle otto sezioni delle rime mariniane: questa decisa suddivisione del materiale poetico per soggetto è intenzionale e caratterizza l’opera secondo le precise intenzioni di Fontanella che ha voluto raccogliere i temi poetabili in una struttura onnicomprensiva e al tempo assai ordinata e simmetrica: ogni cielo, in sostanza, rappresenta un tema, eccezion fatta per la sezione encomiastica che abbraccia due “cieli” seguendo una coerente ripartizione interna. Non è innovativa la scelta di una elegante cornice allegorico-metaforica entro la quale racchiudere le rime, così come la caratterizzazione di ogni sezione come un compartimento chiuso, retto da un’icona dal forte spessore allegorico che richiama un tema dominante attorno cui ruota buona parte delle singole composizioni. Le rime, all’interno di ogni sezione, sono disposte secondo un ordine il più delle volte in sostanza casuale, per cui le pochissime esplicite connessioni intertestuali sono espresse quasi sempre per semplice accostamento di immagini. Esiste, di fatto, un percorso di senso trasversale che guida il lettore dal primo all’ultimo cielo: un iter ascensionale, fortemente caratterizzato sin dalle prime

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I Nove cieli di Girolamo Fontanella. Considerazioni sulla struttura del canzoniere

composizioni da elementi allusivi di carattere devozionale che lungo questo percorso divengono via via più chiari, ma è inutile dire che si esplicitano del tutto nelle ultime sezioni. Ciò che è importante notare è che questo percorso trasversale di senso si avvale di immagini allegoriche espresse essenzialmente dai temi che caratterizzano ogni sezione e non dagli sviluppi di questi elementi all’interno di ogni singolo segmento del macrotesto: ogni “cielo” non presenta una declinazione interna del tema allegorico che lo sostiene, ma le rime rappresentano semplicemente degli approcci multiformi al medesimo soggetto poetico. Ciò significa che ogni sezione resta un raccoglitore di materiale sostanzialmente immobile per quanto concerne una eventuale evoluzione tematica, e il senso globale della raccolta viene così affidato alla successione ordinata delle singole sezioni, ovvero dei singoli “macrotemi”, peraltro adeguati ad una macrostruttura che non consente una disposizione libera dei soggetti allegorici ma li vincola ad una successione precisa; così avviene che non vi sia un passaggio diretto tra la sezione che sviluppa il tema dell’amore per la «sua donna» a quello della morte della «sua donna», e quindi verso temi morali sulla fugacità del tempo che si risolvono nel pentimento e nella redenzione: anche in questo caso, una logica disposizione evolutiva lineare dei temi, quasi una fabula di stampo allegorico da ricomporre, appare più il frutto di uno sforzo esegetico del lettore, che spesso può avvenire anche con delle forzature eccessive, che non una reale intenzione programmatica dell’autore. La forza del canzoniere fontanelliano non risiede tanto nella sua macrostruttura, pure affascinante, che di fatto propone una tradizionale ripartizione del materiale: Fontanella riesce a dar voce con freschezza e autentica ammirazione ai temi poetici il più delle volte consueti, è abile ad evocare immagini meliche di una sonorità a tratti delicatissima, scevre da pesanti riferimenti al mito classico, spesso senza un uso eccessivo di formule retoriche, senza elementi di ridondanza. Sono questi i punti di maggiore interesse della scrittura fontanelliana, così che i Nove cieli, al pari delle altre due raccolte del nostro autore e più in generale della stragrande maggioranza delle sillogi barocche, costituiscono un repertorio di immagini e di poesie da cui si devono cogliere gli elementi più rappresentativi di un particolare modus poetandi, nella piena consapevolezza che le contaminazioni sono tante, così come numerosi sono gli ossequi alla tradizione. La forza della scrittura del Fontanella non si evince tanto in un confronto della sua opera con i principali modelli letterari, ma piuttosto la si deve ricercare tra i tanti elementi personali del suo universo poetico, spesso ritratto davvero con autentico senso di stupore e meraviglia.

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Marco Prinari «CHE FACI ETERNE ALLA MIA GLORIA HO ACCESO». GIUSEPPE BATTISTA E LE POESIE MELICHE

1. «...Tutto verso la tomba è il viver nostro...» 1.1 “Giuseppe Battista delle Grottaglie”. Cenni biografici Giuseppe Battista nacque l’11 febbraio 1611 da Cesare e da Macedonia Fasano a Grottaglie, cittadina situata sul pendio di una collina delle Murge meridionali nell’entroterra tarantino, famosa per una leggenda che la voleva patria del poeta latino Ennio, identificata con il borgo romano di Rudiae. Ai giorni nostri la questione dell’effettiva collocazione geografica dell’antica Rudiae non è stata ancora risolta, certo è che per il giovane Battista, che nella vita vivrà di poesia, avere un così illustre predecessore concittadino deve aver rappresentato una suggestione veramente considerevole. L’infanzia e la prima adolescenza del grottagliese trascorsero in condizioni decisamente difficili: perse, infatti entrambi i genitori in tenerissima età (conosciamo la data della morte della madre: il 21 giugno 1614) e fu affidato alle cure di uno zio paterno e di altri tutori. Dei problemi incontrati con questi personaggi è egli stesso a fornirci testimonianza. In una lettera indirizzata al Sig. Teofilo Baldini si esprime in questi termini: Feci perdita de’ miei genitori in età così tenera, che appena rammento le di loro fattezze, e da quella età infino a questa mi conviene durar fatiche, non meno per sovvenire alle mie necessità, che sono molte ma per soddisfare a que’ debiti, che essi mi lasciarono, e non pochi. È vero che co’ debiti mi lasciarono alcuni poderi; ma i tutori e i curatori o trasandarono la coltivatura di quelli, o applicarono le

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rendite a proprio comodo. Sì che la lattuga fu data in guardia de’ paperi, o per iscansar l’acqua fui posto sotto la grondaia1.

Ecco inoltre cosa scrisse riguardo al rapporto con lo zio paterno, paragonato addirittura ai fratelli del patriarca Giuseppe (con il quale evidentemente aveva in comune non solo il nome ma anche le traumatiche relazioni familiari) in un epigramma latino: «Te fratres odere tui, me patruus. Ambo natales patimur deseruisse focos»2. Crebbe insieme ai suoi fratelli, Domenico (con il quale intrattenne un rapporto epistolare da adulto) e Rosana (che entrò nel monastero delle Chiariste a 17 anni), in un clima quindi di privazioni all’insegna della «generosa povertà», come possiamo evincere dall’ode Commemora nel giorno annuale del suo nascimento parte delle sue disavventure 3. Trovò rifugio alle angherie dei tutori esercitando sin da ragazzo un meticoloso studio della lingua latina. Il suo amico letterato Lorenzo Crasso racconta4 che conosceva a memoria le opere del grammatici Prisciano e Alvaro, del filologo Marco Valerio Probo e dell’autore dell’Ars Grammatica del IV sec. d.C., Diomede. Nel frattempo a 11 anni si era fatto clericus presso il capitolo grottagliese e dopo quattro anni (1626) aveva lasciato l’amata Grottaglie, dopo aver ricevuto l’ordinazione a sacerdote, per trasferirsi a Napoli. Nella città partenopea il poeta si trovò subito a suo agio. La grande capitale diventò ben presto per lui più cara della stessa natia Grottaglie. Nel primo libro delle Meliche che, come vedremo, raccoglierà le primissime esperienze in lingua toscana del poeta salentino, troviamo un sonetto dal titolo per l’appunto Napoli 5, elogio del capoluogo campano, descritto attraverso i topoi della città ideale. L’amore per i suoi luoghi (Posillipo, Mergellina) fu espresso dal poeta in numerose liriche di diverse sue opere. Proviamo a immaginare in che Napoli il Battista si trovò a operare nei primi decenni del Seicento: quella che viene fuori dai suoi componimenti è soprattutto una città idealizzata, mitica, in piena sintonia con la politica cultu-

1

G. Battista, Lettere, Venezia, Presso Combi e La Noù, 1678, p. 131. G. Battista, Epigrammatum centuriae tres, Venezia, Baba, 1659, p. 73. 3 G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Terza,Venezia, Presso Menafoglio e Mortali, 1665, p. 247. 4 L. Crasso, Elogii d’huomini letterati, parte I, Venezia, Per Combi e La Noù, 1666, p. 335. 5 G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Prima,Venezia, Presso Menafoglio e Mortali, 1665, p. 24. 2

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rale voluta dal viceré Pietro Fernandez de Castro, conte de Lemos che, in anni difficili, ne volle dare al mondo un’immagine di “capitale della cultura” con la fondazione delle Accademie degli Oziosi e degli Infuriati, e con la costruzione di una nuova sede universitaria sul modello spagnolo dell’ateneo di Salamanca. Il merito del viceré fu quello di mantenere questi organismi indipendenti dalle intromissioni dei rappresentanti della Chiesa, dando a essi un carattere laico e umanista. Nei versi su Napoli del Battista non si coglie nulla della vera realtà della città, delle sue strade, dei suoi profumi. Non traspare nulla delle difficoltà del popolo (Battista sarà sempre filo-aristocratico), o delle superstizioni e dei costumi che già a quel tempo la caratterizzavano, tutto è dal grottagliese avvolto in un’aura di benessere e di compostezza classica. Siamo ben lontani, per rimanere in analogo contesto cronologico, dall’emozionante scorcio di Napoli descritto da Giambattista Basile (1575-1632) nel Trattenemiento Settimo de la iornata prima de Lo cunto de li cunti 6 (stampato tra il 1634 e il 1636). All’inizio del Seicento Napoli era la più grande città d’Europa, ma aveva ormai imboccato un tunnel di decadenza economica e politica che, a varie tappe, dall’eruzione del Vesuvio e conseguente terremoto del 1631, alla rivolta del 1647 di Masaniello e ancora alla terribile peste del 1656, allontaneranno definitivamente la città dai fasti che le si prospettavano alla fine del Cinquecento. Luogo dalle due anime: quella dei lazzaroni, cresciuti nelle strade vivendo dei bottini di aggressioni e rapine, e quella dei musicisti che, all’epoca del nostro autore, ne facevano la capitale musicale europea con ben quattro conservatori (Santa Maria di Loreto, Pietà dei Turchini, Sant’Onofrio a Capuana e Poveri di Gesù Cristo). Camminando per le strade di Napoli il Battista avrà avuto modo di imbattersi in innumerevoli feste popolari, sacre e profane, celebrazioni in onore dei dominatori spagnoli per le ricorrenze più svariate, gioiose o funeste che fossero (i funerali a quei tempi erano grandissimi spettacoli). Notevole era anche la celebrazione del carnevale: per prepararlo al meglio la città accoglieva numerose compagnie teatrali spesso in acerrima rivalità tra loro, e non è un caso se per la prima volta proprio agli inizi del secolo (siamo nel 1618) in un atto notarile viene trascritto il nome della maschera che diventerà il simbolo della napoletanità nel mondo: Policinella ovvero Pulcinella7.

6

Si legga in G. Basile, Lo cunto de li cunti,a cura di M. Rak, Milano, Garzanti, 1986. Per queste notizie sulla Napoli “teatrale” del Seicento si è fatto riferimento al libro di U. Prota Giurleo, I teatri di Napoli nel secolo XVII, a cura di E. Bellocci e G. Mancini, Napoli, Il Quartiere, 2002. 7

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Il giovane Battista frequentò le lezioni di filosofia di Padre Anello Frattasi nel Collegio dei Gesuiti. Studiò teologia presso Bernardino Mazziotta e conseguì la laurea nella stessa materia nel 1633. A una disputatio di argomento teologico assistette Giovan Battista Manso che lo volle subito con sé presso l’Accademia degli Oziosi. L’istituzione accademica fu la palestra in cui nacquero gli esercizi letterari del giovane salentino e al tempo stesso un luogo di promozione che permise al grottagliese di farsi conoscere anche fuori dai confini del Regno. Merita particolare attenzione il fatto che il Battista “fosse scelto” per entrare nell’accademia, non avendovi mai fatto richiesta di adesione, come era prassi per gli altri letterati. Segno che il Manso aveva visto in lui non solo un genio precocissimo e un’abilità retorica fuori dal comune per l’età (ricordiamo che il poeta aveva solo 22 anni), ma anche un possibile erede a cui lasciare le redini del suo progetto culturale. Ecco come un per niente intimorito Battista sottolineò la straordinaria procedura d’ammissione presso gli Oziosi presentandosi al cospetto dei suoi più illustri ed esperti colleghi durante la prima lezione tenuta in Accademia: Lascio appena gli esercizi del Liceo dove lunga stagione sono stato discepolo, che voi, Illustrissimi Oziosi, mi chiamate alle funzioni dell’Accademia, per farmi uno stante vostro compagno. L’onore, dagli altri di me più saputi stentatamente limosinato, e fatto a me per impulso di volontà cortese mi obbliga a testificarvi debiti immortali [...]8.

Così «Giuseppe Battista delle Grottaglie» si trovò nella mondana Napoli a discutere di letteratura tra i più grandi autori del panorama poetico cittadino. Fu talmente bravo a ritagliarsi un posto importante tra gli stimati accademici, da diventare il loro Segretario e Censore per entrambe le lingue (latina e toscana)9. Partecipò alle polemiche letterarie che infiammarono l’Accademia e iniziò la pubblicazione delle sue opere sotto la protezione dello stesso Manso, che però morì (1645) prima di vedere edite le prime fatiche del suo pupillo: del 1646 sono gli Epigrammi in lingua latina e del 1650 la prima parte delle Poesie Meliche. Nell’agosto del 1647, a un mese dallo scoppio della rivoluzione masanelliana, si trasferì a Pozzuoli e infine fu costretto a partire per Grottaglie nell’estate del 1648.

8

G. Battista, Le Giornate Accademiche, Venezia, Presso Combi e La Noù, 1673, p. 1. Per le prassi e i regolamenti nonché per un’esaustiva storia dell’Accademia degli Oziosi non si può prescindere dalla preziosa ricerca di G. De Miranda, Una quiete operosa, Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 2000. 9

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Passata la bufera rivoluzionaria, il Battista, tornato a Napoli, tentò di rivitalizzare l’Accademia degli Oziosi, forte anche dall’appoggio del viceré, il Conte di Oñate, Íñigo Vélez de Guevara, che promosse una nuova politica culturale post rivolta masanelliana10. Le buone intenzioni del poeta salentino però non bastarono: l’accademia avrebbe di lì a poco definitivamente chiuso i battenti tanto che, quando l’Aprosio chiese al Battista di poter essere ammesso tra gli Oziosi, quest’ultimo gli rispose: Intorno al che le dico che dopo la morte del Marchese di Villa, come leggerà nelle notizie che di quel Signore oggi le dirizzo, non è stato mai possibile ripor quella [accademia] nel pristino stato. Cadde con la caduta di quel virtuoso, e benché con mille diligenze siasi sempre stato di farla risorgere, sempre è caduta, e oggigiorno miseramente giace [...] 11.

Nel frattempo il Battista aveva accettato l’incarico di precettore del principe d’Avellino, Francesco Marino Caracciolo, con lo stipendio di venticinque ducati al mese; da questo momento fino al 1660 il poeta operò quasi esclusivamente a corte nella città irpina. Come vedremo analizzando la seconda raccolta poetica, il rapporto del grottagliese con il suo mecenate fu abbastanza controverso; sebbene legati da affetto e amicizia, i due vissero momenti di incomprensioni che sfociarono con il rifiuto del poeta di seguire il Caracciolo a Milano dove era stato nominato capitano generale della cavalleria nel 1658. Non conosciamo realmente le cause di questo rifiuto: probabilmente il Battista preferì alla vita mondana della corte lombarda la più tranquilla e oziosa quiete campana. Il Caracciolo due anni dopo tornò alla carica per convincerlo, il nostro autore sembrava pronto ad accettare ma, forse, proprio quando la proposta sembrava finalmente accolta, la trattativa saltò: [Il Caracciolo] gli fece mille istanze di menarlo seco in quella corte...[ma il Battista] gli rispose con quel vecchio veronese di Claudiano che egli amava di far lunga vita, non lunga via12.

Sta di fatto che tra i due il rapporto sembrò incrinarsi, anche se poi, probabilmente nel tempo, fu totalmente recuperato. Il poeta, infatti, continuò a

10 Si legga in G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Firenze, Sansoni, 1982, vol. I, pp. 85-120. 11 G. Rizzo, Lettere di Giuseppe Battista al Padre Angelico Aprosio, in «Studi secenteschi», XXXVIII, 1997, pp. 307-8 (XVIII). 12 L. Crasso, Elogii cit., p. 338.

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dedicare al suo ex mecenate le opere che via via dava alle stampe come gli Epicedi Eroici e Le giornate accademiche, e, come vedremo, anche alcuni componimenti presenti nelle parti quarta e quinta delle Meliche. Da parte sua il Caracciolo riprese a preoccuparsi della sorte dell’amico e maestro, tanto che in una lettera che il Battista scrisse all’Aprosio nel gennaio del 1674 si fa riferimento proprio a un’azione del principe: Il mio Signor Principe per restituirmi alla pristina salute volle tormi dalla città e menarmi seco in luogo di miglior aria e lontano dagli strepiti cittadineschi13.

Per l’interessamento del Caracciolo il Battista venne ammesso alle prestigiose accademie dei Gelati di Bologna e degli Oscuri di Lucca. Il 1674 fu anche l’ultimo anno di vita del principe che morì nel dicembre a 46 anni. Negli anni di lontananza dalla corte il poeta salentino visse tra la città di Napoli e i vicini poderi di campagna (probabilmente di proprietà dello stesso Caracciolo) in maniera estremamente tranquilla, sempre alla ricerca di uno spazio opportuno per meditare. Un piccolo manipolo di amici (i vecchi superstiti Oziosi) e la Napoli post-masanelliana fecero da sfondo a questa vita ritirata: ricordiamo di questo periodo soprattutto i tour tra le antichità romane, tra la tomba di Virgilio e quella di Agrippina, capaci di risvegliare in lui «momentanee grandezze»14. L’amico Lorenzo Crasso ci tramanda questa fase della vita del poeta nei suoi Elogi: Vive [il Batista] tra noi con tanta ritiratezza, che non si vede se non in casa, in chiesa e nelle librarie. Nimico tanto degli strepiti del Foro, che infino ad ora non ha voluto vedere i regii tribunali, i quali per la fama invitano ogni straniero a vedergli. In fine, lontano dalla vanità, i suoi costumi hanno più del claustrale, che del secolaresco, et è fama che dalla continua lettura d’Epitteto e di Seneca abbia imparato il modo di menar la sua vita15.

Tra ozi e studi scorreva intanto la vita del nostro autore: Io sono in villa, e ci son tutto, perché non penso alla città. O silenzi beati! Qui sul mattino i primi raggi del Sole mi svegliano dal sonno, e godo sì bel pianeta in fascia, quand’io mi sono in letto. Un coro di musici alati, che scornano mille 13

G. Rizzo, Lettere di Giuseppe Battista al Padre Angelico Aprosio, cit., pp. 317-18 (L). A tal proposito legga il sonetto n. 66 Mentre miro l’anticaglie di Pozzuoli in G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Quarta,Venezia, Presso Menafoglio e Mortali, 1665, p. 41. 15 L. Crasso, Elogii, cit., p. 338. 14

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cetere, mi provoca al canto co’ suoi garriti. Traggo il piè dal tugurio col libricciuolo in mano, e su i tappeti dell’erba m’assido a leggere con quiete non interrotta, Vi giuro che m’insegnano più queste campagne in un sol giorno, che la città in un anno. Passa in tanto alcun pastorello, che guida la greggia, e io chiudendo il libro, attacco ragionamento con lui [...] 16.

Sappiamo che il poeta tentò di ritornare a Grottaglie (dove aveva ancora qualche rendita ecclesiastica), ma l’ostilità del suo detrattore Giovanni Cicinelli, che era principe feudatario della città, lo fece sempre desistere. Il primo marzo 1675 ebbe un attacco di apoplessia che gli paralizzò le corde vocali impedendogli di parlare. Morì qualche giorno dopo, sabato 9 marzo alle ore 21. Fu seppellito nella Chiesa di San Lorenzo a Napoli e ai suoi funerali non partecipò la nobiltà napoletana poiché, avendo il Battista prestato servizio presso la corte d’Avellino, non si voleva fare uno sgarbo ai nobili irpini. Comunque i suoi amici Oziosi si adoperarono subito per commemorarlo con una pubblicazione Musarum luctus in obitu Iosephi Baptistae 17. 1.2 Fortuna critica di Giuseppe Battista Il Battista fu coinvolto in vita in un’aspra polemica letteraria, che ebbe la sua origine quando Giovanni Cicinelli (1650-1698), duca di Grottaglie, pubblicò nel 1672 la sua Censura del poetar moderno, molto apprezzata da Walter Binni perché in essa l’autore «prendeva posizione contro le poetiche barocche e proponeva una poetica basata sulla decisa ripresa dei classici, sulla organicità linguistica, sulla sostanza di una ricchezza sentimentale tradotta in forme non più dispersive e ornamentali, ma sobrie, ‘intelligibili’ e ‘verosimili’»18. Bersaglio della polemica furono le Meliche e gli Epicedi eroici del Battista, ampiamente citati dal Cicinelli come esempio dei mali del poetar moderno. Precisamente, si imputavano al Battista le «cattive invenzioni», le traslazioni improprie, il massiccio uso di latinismi e i furti letterari. Non che il furto letterario non fosse previsto dalla trattatistica secentesca: esso era permesso e disciplinato da alcune regole, tra cui quella della possibilità di “copia-

16

G. Battista, Lettere, cit., pp. 212-14. Musarum luctus in obitu Iosephi Baptistae, Neapoli, apud L. Cavallum, 1675. 18 W. Binni, Il Settecento letterario, in Storia della letteratura italiana – Il Settecento, vol. VI, Milano, Garzanti, 1968, p. 348. 17

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re” da autori stranieri. Ma il Battista, al dire del Cicinelli, si era macchiato dell’onta di copiare da autori della sua stessa lingua, diventando l’esempio maggiore dei «farneticanti poetastri moderni». Qualche anno prima della Censura del Cicinelli (1669), era apparso a Napoli il libro delle Poesie di Federico Meninni, sulle quali il Battista fece subito circolare alcune censure, «scritte di sua propria mano». Il fatto irritò molto il Meninni, che rispose subito per iscritto, divulgando negli ambienti letterari una “risposta” alle critiche, senza tuttavia darla alla stampa. Nel 1674 il Battista scrisse un libretto anonimo dal titolo Affetti caritativi, in cui ribadì le censure alle poesie del Meninni, aggiungendovi che proprio quest’ultimo avrebbe “saccheggiato” dalle Meliche per comporre le proprie liriche. A questo punto la furia del Meninni fece fatica a trattenersi: la sua missione diventò non solo quella di dimostrare (a nostro giudizio in maniera parziale e poco convincente) la sua originalità ma, anche e soprattutto, quella di infangare l’immagine del collega-nemico. C’è da aggiungere che il Battista fu molto caustico nel commentare le poesie del gravinese: «Quando avete fatto questo sonetto bisogna che aveste avuto il cervello fuor di calende», «Questo modo di consolare vi fa parere ch’abbiate studiato la Rettorica sul mellone», «Qui veramente bisogna credere che la necessità della rima abbia tirato a farvi dire delle sciocchezze», seguitando a dare consigli per migliorare la forma e correggendo tra parentesi tonde i passi che non approvava. Molto più pepate furono però le risposte del gravinese che ovviamente non accettò gli emendamenti battistiani e di rimando lo infamò con una serie di appellativi che oggi ci fanno sorridere ma, a quel tempo, erano oltremodo offensivi19. Ma queste critiche a quanto pare, non ebbero il risultato sperato, Battista era ormai un esempio per la nuova generazione di poeti napoletani, tanto da offuscare ormai anche l’immagine del Marino che, nelle polemiche letterarie, sembrava essere difeso soltanto dallo stesso Meninni. Non contento del discredito che il Battista aveva gettato sul suo conto, il poeta gravinese tentò un’ultima sortita con la pubblicazione dei Furti svelati dal Signor Federigo Meninni nelle Poesie Meliche, e negli Epigrammi di

19 Questi sono gli epiteti del Battista affibbiatigli da Federico Meninni: Signor Fidenzio, Signor Ludimagistro Pecorone, Ser Babuasso Capraio, Ser Arcifanfano della lingua toscana, Maestro Grillo, Ser Gocciolone, Arciconsolo della pedanteria, Maestro Cucco, Ser Gufo delle Grottaglie, Signor Furcillo, Saccente Pedagogo, Maestro Pecorabue, Maestro Cacabugio, Ciabattino delle Muse, Bavio delle Grottaglie, Maestro Barbagianni, Maestro Scarafone, Maestro di Cenci, Maestro di Greggio, Pappalasagne, Signor Poeta coronato di cavoli.

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Giuseppe Battista, opera di 260 pagine in cui, in maniera maniacale (rivolgendosi direttamente al nemico con tono inquisitorio), prende in esame tutta la vastissima produzione del grottagliese per svelarne le segrete fonti. Ecco un esempio delle “schede tecniche” del libro del Meninni, partendo proprio dal sonetto proemiale del primo libro delle Meliche: Parte I. Pag. I. Invocazione. Cominciate il vostro primo sonetto così: «Lungi da la mia mente, aura febea, spirami tu». Rubate ad alcuni Accademici Apatisti nel volume 3. de’ Proginnasmi di Udeno Nisielli: «Furor febeo, tu la mia mente ispira». Conchiudete il sonetto parlando di Venere: «Che pur dell’Armonia la Madre sei». Invocate Venere perché è Madre dell’Armonia; e rubate l’erudizione del concetto a Biagio Cusani nell’Armonie Poetiche, c. 1, dove disse: «Io so ben ch’Armonia t’è pur sorella». Ed anche al Marini nell’Adone, can. 1, st. 35: «Tu d’Armonia tua suora, ed io di lei». Oltre che l’invocazione di Venere non è cosa nuova, potendosi vedere dal Veratro del Saprici quanti poeti l’abbiano invocata20.

Al gravinese le Meliche del Battista sembravano un’antologia mal fatta ma, cito Gino Rizzo: Se mai abile era stato il Battista nel dissimulare i tasselli prelevati dalla tradizione, ancor più abile volle apparire il Meninni nell’additare i furti e i plagi dell’avversario, talora con il compiaciuto gusto del disvelamento della fonte rara e ben celata. In tal modo però, paradossalmente, il gravinese tesseva il più alto elogio delle virtuosistiche capacità assimilative ed emulative del Battista, teso verso un ideale di poesia ‘ornata’, immaginata e voluta in continuità tematico-stilistica con la tradizione (i ‘furti svelati’ dal Meninni) 21.

Dopo qualche anno dalla morte del Battista, in ambiente arcadico il Crescimbeni si esprimeva così sulla poesia del grottagliese: [...] tutto vago della turgidezza, non fa pompa che di traslati arditissimi, d’iperboli gagliardissime, di voci nuove e risonanti, di spesi superlativi e di continua erudizione, di maniera che di questo affare credesi universalmente non esservi stato alcuno che l’abbia emulato, massimamente se si riguardano i suoi Epicedi ove diffuse con maggiore abbondanza i suoi mentovati ornamenti. Ma questa sua

20

F. Meninni, Furti svelati nelle Poesie Meliche, e negli Epigrammi di Giuseppe Battista, s. l. e s. e., (esemplare presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia), p. 4. 21 G. Rizzo, Polemiche tardo-barocche a Napoli: G. Battista, G. Cicinelli e F. Meninni, in «Critica Letteraria», XXIII, 1995, nn. 88/89, p. 152.

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Scuola anch’essa molto piacque al secolo; ed infiniti ingegni si perderono per farne acquisto22.

Nel “secolo dei lumi” i pochi giudizi sul Battista dati dai compilatori di registri di uomini illustri e cataloghi di letterati furono ovviamente tutti negativi e peggiorarono il già pessimo ritratto critico crescimbeniano 23. Anche durante l’Ottocento i profili critici sulla poesia battistiana non cambiarono, tanto che nelle cronache comunali di periodo post-risorgimentale, quale è quella di Carmelo Pignatelli, dotto concittadino del grottagliese, si trasferirono esattamente le stesse motivazioni di disappunto sulla lirica battistiana, soprattutto perché: [...] tutto ciò che nella presente letteratura è ragionevolmente riputato scoria, nella letteratura di quei tempi era tenuto per finissimo oro; sicché ogni poeta che allora osasse mostrarsi in pubblico sguernito, dirò così, dei ciondoli della bizzarria, era per lo meno negletto e messo in non cale24.

Si conosce la posizione di Croce sui poeti marinisti, ma a dimostrazione comunque dell’attenzione che il filosofo ebbe per il Battista, si segnala che nella sua antologia barocca25 compaiono ben cinquanta liriche del poeta salentino, del quale egli disse che: «[…] aveva maggiore senso poetico degli altri, e traeva ispirazione in ispecial modo [...] da una certa filosofia stoica, da lui professata»26. In tempi più recenti, così si esprimeva Asor Rosa in una scheda di presentazione del poeta all’interno della sua antologia: [Battista] tenta la strada di una lirica, che vorrebbe essere filosofica e che alla filosofia non riesce a giungere per difetto di maturità e d’impegno27.

22

G.M. Crescimbeni, L’Istoria della volgar poesia, Roma, per il Chracas, 1698, p. 163. Si legga soprattutto in G.M. Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia, vol. II, parte I, Brescia, presso G.B. Bossini, 1758, pp. 552-55 e in F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. II, Milano, presso Agnelli, 1791, p. 223. 24 C. Pignatelli, Biografie degli scrittori grottagliesi, Napoli, Rinaldi e Sellitto, 1875, p. 47. 25 Lirici marinisti, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1919, pp. 409-45. 26 B. Croce, Sensualismo e ingegnosità nella lirica del Seicento, in Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1911, pp. 426-27. 27 Antologia della letteratura italiana, Il Cinquecento Secondo e il Seicento, Milano, Rizzoli, 1966, p. 1057. 23

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Mentre da Capucci il Battista venne in qualche modo rivalutato e compreso, soprattutto in rapporto con i suoi tempi: Pensò con energia il suo tempo come tempo sconvolto: però il suo sentimento della caducità si iscrive nell’orizzonte storico – e non meramente psicologico –, di un’età di disorientamento, di convulsi moti sociali, di «rivolture» di fronte a cui non basta l’ingannevole mito della poesia consolatoria [...]. Il desiderio della quiete non è gioco di letterato ma tema di viva e turbata risonanza [...]. Nella sua poesia vibra, talvolta dura, la polemica contro la volgarità dei potenti [...] e il rimpianto del passato [...] non è sogno ma giudizio 28.

A partire da Quondam, la critica29 ha voluto vedere nel grottagliese il “maestro” delle ultime generazioni poetiche barocche: spiccano nella sua produzione [...] elementi di evidente crisi delle poetiche barocche, la cui prima manifestazione è registrabile già in un’opera del 1674, gli Affetti caritativi, che raccoglie notevoli spunti polemici contro un altro poeta marinista della cerchia napoletana, Federico Meninni: prova questa ulteriore della scarsa coerenza della zona discendente della parabola barocca. Ma è soprattutto con la Poetica del 1676, che il Battista esprime la condizione di incertezza esistente tra i marinisti napoletani, operando un tentativo di sistemazione organica d’una proposta di rinnovamento di moduli e tematiche che però si arena di fronte alle contraddizioni interne delle loro formulazioni che non riescono a svincolarsi dall’ambito espressivo barocco, ma nemmeno si lanciano nell’affermazione d’una esasperazione formale, come è nell’Artale e nel Lubrano30.

Nei primissimi anni Novanta, Gino Rizzo pubblicava quasi la totalità delle opere del Battista, con un imponente apparato critico e commento (al quale sono fortemente debitore per la stesura di queste righe). Grazie alla sua lettura attenta e profonda, si disvela un poeta non tanto marginale, il “caposcuola” della seconda stagione della lirica secentesca italiana, «un significativo esemplare, insomma della nostra poesia barocca, con compattezza e pienezza di misure metaforico-metamorfiche per illusive realtà e spettacolo di sentimenti»31. A Rizzo il merito di aver individuato le peculiarità stilistiche del 28

C. Jannaco – M. Capucci, Il Seicento, Padova, Piccin, 1986, pp. 290-91. Per una simile impostazione critica si veda anche in E. Travi, La lirica barocca in Italia, Torino, S.E.I., 1965, pp. 178-81. 30 A. Quondam, Dal Barocco all’Arcadia, in Storia di Napoli, vol. VI, t. II, Cava dei Tirreni, Arti Grafiche Di Mauro, 1970, pp. 809-1094, il passo citato alle pp. 818-20. 31 G. Battista, Opere, a cura di G. Rizzo, Galatina, Congedo, 1991, p. 66. 29

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poeta, definito “culto” con un’espressione vicina a quella che la critica letteraria spagnola utilizza per definire la poesia di Luis de Gongora. Alla critica oggi spetta più che altro il compito di indagare sulla possibilità non tanto remota di un “culteranesimo italiano” che abbia potuto avere come centro di irradiazione proprio l’Italia meridionale, a partire dal circolo “ozioso” nella persona di Giuseppe Battista, possibile contrappeso al marinismo prima dell’avvento dell’Arcadia. 2. «[...] Ch’ogni cosa ch’ha fine, è cosa breve [...]» 2.1 Genesi de Le poesie Meliche di Giuseppe Battista Le Poesie Meliche si presentano come un’enorme antologia di liriche suddivisa in cinque parti dallo stesso autore (in realtà, come vedremo, la genesi fu abbastanza complessa). Analizzandola in via preliminare bisognerà subito lasciare da parte l’idea di trovarsi di fronte a un macrocanzoniere pentapartito: ogni libro delle Meliche ha una storia a sé stante, ed è di fatto indipendente dagli altri, pur rientrando in un progetto che, in qualche modo, il Battista ha sempre creduto unitario. Stando a quanto ha affermato Gino Rizzo, il Battista pensò di rendere pubbliche le sue fatiche letterarie in volgare a partire dal 1639 32. L’iter di pubblicazione fu in verità lungo e funestato da una serie di sfortunati avvenimenti: dapprima si rivolse a un amico veneziano che conosceva uno stampatore locale, ma la corrispondenza fra i due fu abbastanza lenta e il poeta preferì abbandonare l’idea. Così allo stesso modo decise di trattare con un editore napoletano del quale apprezzava un nuovo carattere «corsivetto» e la buona qualità della carta. Ma probabilmente, anche per questioni economiche, la contrattazione saltò. Nel 1646 pubblicò gli Epigrammi a Venezia, facendo esplicito riferimento all’imminente pubblicazione dei versi italiani 33. Questa volta è la storia a fermare i progetti del nostro autore: nel 1647 scoppiò la rivolta di Masaniello e nell’estate del 1648 Battista fece ritorno a Grottaglie per paura di essere coinvolto nei «tumulti» dei rivoluzionari. Fu durante questo spostamento che accadde un episodio che segnò la storia delle

32

Ivi, p. 51. Si legga la lettera che il Battista indirizzò all’Aprosio il 9 febbraio 1647 in G. Rizzo, Lettere di Giuseppe Battista al Padre Angelico Aprosio, cit., p. 278 (IV). 33

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sue Poesie Meliche. Lo raccontiamo con le parole del suo amico letterato Lorenzo Crasso: I tumulti di Napoli il costrinsero a ricoverar nella patria. Nel cammino fu da rubatori, che allora tutte strade occupavano, barbaramente spogliato. Credea che passagier voto potesse canzonando viaggiare, come volle quel Satirico. Ma addivenne il contrario. Non trovando eglino oro, gl’involarono quelle carte che più dell’oro egli pregiava, e particolarmente le poesie italiane, delle quali vedi ora poca parte impressa. I poeti hanno stile, che da’ lettori avveduti ben osservato, di leggieri si conosce, come le maniere de’ dipintori. Se componimento simile a questi altrove leggerai, sappi ch’è suo. Non dee altri de’ suoi sudori mieter la gloria [...] 34.

Battista, disperato per il furto subito, non si perse però d’animo e nel giro di pochi mesi riscrisse il suo canzoniere (in realtà fu spinto, come possiamo dedurre in maniera implicita dalle righe del Crasso, dalla paura che il suo manoscritto potesse passare dalle mani dei malviventi da strada in quelle di qualche suo collega scrittore), cosicché la prima parte delle Meliche vide finalmente la luce nel 1650 presso l’editore Cicconio di Napoli. Nella pubblicazione di questa silloge però riuscì a recuperare soltanto «poca parte» delle liriche che gli erano state rubate, stando alla dichiarazione del solito amico Crasso35. Vedremo più avanti quando analizzeremo i corpus delle singole antologie come questa prima raccolta sia già “finita” dal punto di vista della struttura organizzativa interna dei componimenti. C’erano comunque tutte le premesse affinché il poeta potesse proseguire la sua avventura letteraria: come abbiamo visto le rime erano state arrangiate in fretta e furia e l’accoglienza riservata dai lettori fu festosa (quantomeno dai lettori che il poeta salentino stimava veramente, in quanto rivolgeva i suoi scritti a una cerchia molto ristretta di accademici e amici). Già nel 1653 uscì a Venezia per Francesco Baba la seconda parte delle Meliche dedicata a Francesco Marino Caracciolo, principe d’Avellino presso il quale il nostro autore aveva preso da poco servizio in qualità di precettore. La seconda impressione delle Meliche si chiudeva con la sezione delle Poesie aggiunte doppo stampato l’indice, cioè dodici sonetti fatti aggiungere dal Battista dopo la sistemazione che gli sembrava definitiva. L’esigenza di ordinare quest’ultima impressione (della quale non era rimasto molto contento), nonché quella di chiudere definitivamente il disegno 34 Questo testo è un estratto della prefazione di Lorenzo Crasso a chi legge in G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Prima, cit., nelle pagine introduttive non numerate. 35 Ibidem.

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delle poesie Meliche in tre parti, spinse il poeta a pubblicare la terza parte, che fu stampata sempre per il Baba a Venezia nel 1659. Questa corposa antologia si andava ad aggiungere, formando a questo punto un unico libro, alle altre due. Che fosse la conclusione del “progetto” delle Meliche è lo stesso Battista a dirlo, siglando l’ultimo componimento della raccolta con la dicitura «IL FINE DELLE POESIE MELICHE». È da segnalare che proprio quest’ultima lirica della raccolta si intitola Proemio delle Poesie Auletiche e che è preceduta da una nota dello stampatore che prometteva a breve una nuova opera bucolica dal titolo di Poesie Auletiche, di cui lo stesso sonetto era una gustosa anticipazione. Ma il grottagliese non riuscì a mantenere la parola data. Diede alla luce, invece, nuovi componimenti per le Meliche: siamo nel 1664. Nella dedica giustificò, sempre allo stesso Caracciolo, il perché di un ulteriore quarto libro: Pensava io di por fine all’armonie meliche compiendo tre parti, ché tre appunto sono le Grazie. Ma un Genio tiranno m’ha violentato a scriver anche la quarta. Ho compiacimento della violenza, non avendomi strascinato particolarmente fuori del numero delle Grazie, mentre non mancan di coloro i quali portano opinione che elleno sien quattro, aggiugnendovi Suadela. E quando Vostra Eccellenza non volesse commendar l’opinione, Venere va con le Grazie. O come Venere dunque, o come Suadela, vien ella a ritrovar le compagne, le quali dimorano appo Vostra Eccellenza con prerogativa di pregio invidiabile, e pensa di goder la fortuna stessa, mentre alle fatezze di tutte e tre la venustà propia non conosce inferiore36.

A questo punto il Battista pensò a un’edizione definitiva delle sue poesie che raccogliesse le stampe precedenti del 1659 (le prime tre parti), a cui si doveva aggiungere la quarta parte del 1664. Si accordò con gli stampatori Menafoglio e Mortali compilando di fatto un’edizione ne varietur che fu pubblicata a Venezia nel 1665. L’avventura delle Meliche non era ancora completa: un quinto e ultimo canzoniere fu allestito, questa volta però non per mano del Battista bensì dell’amico e, a sua volta poeta, Giovan Francesco Bonomi, accademico dei Gelati di Bologna. Ecco cosa il Bonomi scrisse in prefazione alla quinta parte delle Meliche, stampata a Bologna presso G. Longhi nel 1670: De’ sonetti seguenti andavan per le mani di molti molte copie a penna e l’autore curava poco di commettergli alla stampa, o perché egli credeva d’aver finito di 36

G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Quarta, cit., nelle pagine introduttive non numerate.

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scrivere poesie dopo la Quarta Parte delle Meliche e dopo gli Epicedi Eroici, o perché perdergli stimava poca perdita. Che che si fosse il suo pensiero, io ho voluto ragunargli e dargli fuori dello strettoio a commun beneficio, perché anche in una linea si palesa Apelle, et una sola unghia manifesta la grandezza del leone37.

Battista diede l’assenso alla pubblicazione e inviò al Bonomi per la stampa sedici odi affinché il «libricciolo avesse più corpo»38. Nel 1675 quest’ultima edizione bolognese del 1670 venne ristampata nella stessa città presso Del Frate e Rosati. Da questa complessa genesi editoriale si può quindi evincere come le Meliche siano nate per addizione di canzonieri, e come l’autore abbia poi lavorato per cercare una sistemazione unitaria. Questa disposizione si tradusse però di fatto in una “cucitura” (in ordine cronologico di pubblicazione) degli stessi canzonieri in un’unica raccolta (quella del 1665), che li mantiene però esattamente come erano in origine, tranne per qualche piccolissima (ininfluente ai fini contenutistici) variante. È quindi utile analizzare singolarmente le strutture dei quattro canzonieri “ufficiali” più il quinto “ufficioso”, cercando eventualmente di scoprire un’interdipendenza tra di loro. Premetto che per l’analisi delle prime quattro parti delle Meliche farò riferimento alla stampa veneziana del 1665 edita da Abbondio Menafoglio e da Valentino Mortali, mentre per la quinta parte ho usato l’edizione del 1675 stampata a Bologna e Parma da Pietro Del Frate e Galeazzo Rosati. I testi delle Meliche presenti in questo saggio sono la trascrizione digitale delle suddette edizioni che ho curato per il sito internet del Centro Interuniversitario Biblioteca Italiana Telematica (CIBIT). 2.2 Delle Poesie Meliche parte prima Come abbiamo visto, il primo canzoniere del Battista fu pubblicato a Napoli nel 1650 ed è, per stessa ammissione del poeta, una «poca parte» di quella che in teoria avrebbe dovuto essere la prima parte delle Meliche, se il manoscritto, pronto per essere stampato, non fosse stato rubato da alcuni briganti. Rispetto ai canzonieri che l’autore darà alle stampe successivamente, ha una particolarità rilevante: è l’unico a essere composto dal Battista “uomo 37 G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Quinta, Bologna-Parma, per Pietro Del Frate e Galeazzo Rosati, 1675, introduzione nelle pagine non numerate. 38 Ivi, p. 99-100.

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libero”, prima cioè che prendesse servizio alla corte del principe Caracciolo (anche se l’edizione che noi andiamo a leggere, la ne verietur compilata nel 1665, contiene riferimenti e dediche al principe d’Avellino). Questo è un dettaglio rilevante ai fini di un’analisi più che altro contenutistica, in quanto il rapporto con la corte sarà un vero e proprio tallone d’Achille per il poeta salentino, oscillante sempre (almeno letterariamente) tra un’umanistica rivendicazione antitirannica di indipendenza e l’encomio più servile nei confronti degli aristocratici: un’apparente contraddizione che lo accompagnerà in tutta sua produzione poetica e che lo renderà facile bersaglio per i suoi detrattori. Pur essendo già nato quando l’Accademia degli Oziosi era ormai nella fase discendente della sua parabola (secondo molti l’esperienza dell’illustre accademia si poteva già considerare conclusa), questo canzoniere è un prodotto degli anni d’oro di quel sodalizio. Come abbiamo già visto nel paragrafo precedente, stando agli studi di Gino Rizzo, il Battista aveva in mente di pubblicare questa prima raccolta già nel 1639 e, se consideriamo che l’ammissione agli Oziosi è datata circa al 1633, presumiamo che queste liriche siano state in gran parte composte negli anni in cui il grottagliese fu un personaggio di spicco all’interno della prestigiosa istituzione culturale (e cioè gli anni Trenta). Questa antologia è quindi l’unica esperienza primo-secentesca del Battista in lingua toscana ed è anche un esempio di poesia giovanile (quasi tutte queste liriche furono ideate quando il poeta aveva tra i 23 e i 29 anni) composta sotto l’egida e la guida del principe degli Oziosi, Giambattista Manso. Nell’edizione del 1665, che è quella che noi analizziamo, il canzoniere si apre con una dedica a Francesco Marino Caracciolo, aggiunta nella stampa del 1653, quando il Battista pubblicava i primi due libri delle Meliche a Venezia per F. Baba. Nella prima edizione originale quindi si inizia con una prefazione dell’amico Lorenzo Crasso, che offre subito un quadro abbastanza significativo di ciò che il lettore troverà all’interno: ci viene anticipato, ad esempio, che nell’intera raccolta il metro preferito sarà il sonetto, dichiarando (e ammettendo onestamente di essere di parte) che il poeta salentino nel suo tempo fu il più grande autore di questa forma metrica, la quale, finalmente e grazie a lui, assurgeva a una «maggiore nobiltà». Il Battista è qui difeso dall’amico dalle eventuali dispute che nell’età della Controriforma potevano investire un prelato (quale, non dimentichiamo, era il nostro poeta), e cioè l’aver dato spazio a componimenti d’amore e ad altre frivolezze mitologiche giustificandoli come scherzi di penna e «obbligazioni amicali» alle quali il letterato pugliese non poté sottrarsi:

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Negli argomenti amorosi abbilo veramente poeta bugiardo. Ha scritto a richiesta d’amici, a’ quali non ha potuto non ubbidire. Perché di lui si verifica: «Vita verecunda est, Musa iocosa mea». Alcune forme di dire, le quali hanno apparenza di poca religione, sono dettati d’ingegno, non con sentimenti di volontà. Sono scherzi di penna poetica, non sensi di petto cattolico. Scrive egli secondo l’uso e crede giusta l’obbligazione. Non è meno spirituale che spiritoso. Come teologo sale spesso nel Calvario, come poeta di rado in Pindo39.

Di seguito alla prefazione del Crasso troviamo, secondo una consuetudine in uso nel Seicento, le dediche al Battista dei suoi amici letterati: una sezione in cui compaiono i personaggi più importanti della “repubblica delle lettere” partenopea. Ecco i nomi degli ospiti illustri del canzoniere del grottagliese: Andrea Vittorelli, Anello Lottiero, Francesco Dentice, Gabriele Fiorentino, Girolamo Fontanella, Giovanni Di Dura, Giuseppe Capecelatro, Giuseppe Campanile, Lorenzo Crasso, Pietro Michiele, Scipione Brancasi e Scipione Errico. Analizzando la silloge dal punto di vista metrico, è evidente come la forma preferita dal Battista sia il sonetto: su 257 componimenti complessivi i sonetti sono 214 cioè l’83% dell’intera raccolta. Questo dato è abbastanza scontato se pensiamo che questa forma metrica è di gran lunga la più amata dagli autori secenteschi, tanto che sia Giacomo Lubrano che Girolamo Fontanella scrivono i loro libri di liriche utilizzando solo ed esclusivamente sonetti. Il canzoniere risulta così diviso per metro: abbiamo una prima parte di 145 sonetti a cui seguono venti tra madrigali ed epigrammi, e una seconda parte composta per lo più da sonetti e chiusa da madrigali e odi. Scandendo tematicamente la raccolta, si può dire che nella prima parte prevalgono le poesie d’amore, in veste epico-mitologica, e le liriche autobiografiche. I madrigali, come abbiamo visto, rappresentano una cesura che segna il passaggio alla seconda parte caratterizzata dalla quasi totale mancanza della poesia d’amore e da componimenti di matrice gnomica, encomiastica, epico-storica e religiosa. Con la dovuta cautela, sempre necessaria quando si tentano comparazioni e schematizzazioni di questo genere, potremmo dire che questa prima parte delle Meliche, da un punto di vista prettamente metrico, si avvicina molto alla suddivisione interna delle Rime del Guarini, dove la struttura del canzoniere è rigidamente tripartita tra sonetti, madrigali e ottave. Per quanto concerne invece la veste contenutistico-tematica, mi sembra di poter dire che l’exemplum su cui si modella l’antologia battistiana siano le Rime del Tasso: pur con l’ele39

Cfr. n. 34.

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mento della varietas di gusto prettamente secentesco, questa raccolta segue a grandi linee la struttura tripartita in liriche amorose, d’encomio e sacre. La lezione tassiana passa al Battista attraverso l’opera del suo pigmalione Manso; egli infatti nelle sue Poesie Nomiche riprende la stessa suddivisione del Tasso del quale era sempre stato intimo amico e fervido ammiratore, oltre che biografo40. Dell’organizzazione del canzoniere del Marino in Battista non sembra trasmigrare nulla; come vedremo però l’influenza sullo stile che il poeta napoletano ebbe sul grottagliese fu invece indubbia, se pur contrastata. Rispetto quindi ai suoi modelli di riferimento, Battista sceglie una via “ibrida”, non impone partizioni alla sua raccolta, e questo, come abbiamo visto, gli darà la possibilità di sviluppare molte tematiche in sintonia con il gusto barocco dominante. Si possono ripartire le liriche di questo primo canzoniere in sette grandi categorie di argomenti, escludendo da questo computo i primi quattro “canonici” sonetti proemiali di introduzione all’opera. A prevalere è il tema epicomitologico-storico: sono infatti 60 le liriche che hanno come soggetto storie tratte dai poemi epici classici, ma anche dalla Liberata del Tasso, leggende su ninfe e numi del Pantheon antico, fatti e personaggi storici, soprattutto della Roma imperiale. Molto presenti sono anche le vicende autobiografico-letterarie, in cui possiamo far rientrare sia le liriche in cui poeta confida ai dedicatarii soprattutto il suo malessere personale, che quelle in cui esprime valutazioni sul mestiere del letterato e su questioni discusse in ambiente accademico. Sono presenti 40 componimenti a soggetto religioso e 27 di carattere filosoficomorale. Discorso a parte meritano le liriche amorose: possono essere annoverati in questa categoria 32 componimenti. Riguardo a questo ultimo raggruppamento, qualcuno potrebbe obiettare che le liriche amorose possano costituire la maggioranza in questo canzoniere: ho però preferito far confluire molti testi anche di argomento amoroso nel filone epico-mitologico-storico. Questo perché per il Battista l’amore è esclusivamente un pretesto lirico: difatti, quando si confronta con tematiche erotiche, non lascia intravedere alcuno slancio passionale, i suoi versi si combinano in artificiosi giochi di parole dagli effetti sorprendenti, alla ricerca di miti poco conosciuti per stupire i colti lettori. A 40

Per il rapporto Manso-Tasso e per il ruolo che il primo ebbe nella diffusione del “mito tassiano” si legga in Dalla parte del Tasso: le polemiche sulla «Liberata» e la posizione dei letterati napoletani in A. Quondam, La parola nel labirinto, Bari, Laterza, 1975, pp. 25-32 e 50-56.

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sostegno di queste affermazioni è utile fornire alcuni esempi estrapolati da questa stessa raccolta: 74. Che l’amor suo è finto 41 Scrivo talor che m’avviluppa un laccio, narro talor che mi saetta un guardo; ma favoloso è del mio sen lo ’mpaccio e dell’anima mia mentito il dardo. Crede altri già ch’io ne’ martir mi sfaccio, e che di fiamme in un torrente io ardo; ma quel foco ch’io mostro è tutto ghiaccio, e ’l martir che paleso anco è bugiardo. Tra gli scherzi acidalii onesto ho il core, et al garrir di questa penna giace sordo il pensier, che non conosce amore. Cantò Pala Marone e ’l Dio del Trace, né vincastro trattò rozzo pastore, né brando fulminò guerriere audace.

Il poeta effettua un paragone con Virgilio quando afferma che il poeta latino cantò Pala (dea dei pastori nelle Bucoliche) e Marte (dio della guerra) senza essere né contadino, né guerriero. E ancora il sonetto: 82. Non vuole amare 42 Figlio cieco d’uno zoppo, alfin che speri da me, s’altrove ogni desire ho fiso? tu sei dell’ozio in pigro soglio assiso, io calco del sudor gli aspri sentieri. Ah non fia mai ch’abbagli i miei pensieri l’oro d’un crine, il balenar d’un riso. Altri stimi beltà di Paradiso bocca saettatrice ed occhi arcieri. Da seno faticato erra lontana fiamma d’amor, né d’Elicona al rio porta lussi di Cipro anima insana. Scelerar non vogliate il petto mio molle Cupido e Citerea profana; mio nume è Febo, e la mia donna è Clio, 41 42

G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Prima, cit., p. 38. Ivi, p. 42.

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in cui si dichiara amante di Clio, musa della storia, a dimostrazione che il suo vero, grande e unico amore è quello per il passato classico. Si riveda ancora la già citata nota a chi legge di Lorenzo Crasso: «Negli argomenti amorosi abbilo veramente poeta bugiardo. Ha scritto a richiesta d’amici a’ quali non ha potuto non ubbidire»43. La prima raccolta poetica in lingua toscana, come accennavo prima, si apre con quattro componimenti canonici di introduzione. Il primo è l’invocazione alla dea Venere affinché lo aiuti a rendere il più possibile armoniosi i versi che si accinge a scrivere. A seguire abbiamo un sonetto in cui si definisce lo scopo dell’opera; il poeta palesa la sua dichiarazione programmatica spostando immediatamente il discorso su un piano personale. Il suo esercizio poetico è stato sin dall’infanzia catartico e liberatorio nei confronti degli strali della sorte: laddove da bambino nel borgo natio pativa le angherie dei suoi tutori, distraendo il suo male con i classici antichi, ora l’esercizio poetico sembra almeno momentaneamente allontanarlo dalla malinconia quotidiana che sempre lo accompagna. Segue un componimento (inserito nella seconda edizione delle Meliche quando già il Battista lavorava alla corte di Avellino) di dedica dell’intera raccolta al suo protettore Francesco Marino Caracciolo, in cui biasima la sua epoca apostrofandola come «nostra di ferro insana etate» e ci presenta il giovane principe Caracciolo come illuminato sovrano, cultore delle belle lettere. L’ultimo testo proemiale ha come argomento l’immortalità che il poeta spera di ottenere dalle sue liriche. 1. Invocazione 44 Lungi dalla mia mente, aura febea. spirami tu, cui die’ l’algoso regno sovra spume d’argento aureo sostegno, genitrice bellissima d’Enea di sonori concenti a nova idea la tua stella rischiara a me lo’ngegno; e tu, per far loquace un muto legno, il mio pollice movi, o Citerea. Furor ne’ petti umani il Coro santo che stillasse quaggiù da’ monti Ascrei, fu di penna Pelasga e fola e vanto.

43 44

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Cfr. n. 38. G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Prima, cit., p. 1.

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Deh, rendi armoniosi i metri miei tu che l’alma agitasti al sacro canto, che pur dell’armonia la madre sei. 2. Assegna l’autore la cagion finale de’ suoi componimenti poetici 45 Non per trar dal Pangeo l’elci crinite o le belve dall’Ismaro gelato, né per impoverir la reggia a Dite io flagello talor l’ebeno aurato. Di Fortuna cerch’io sol render mite, rivolta a’ danni miei, l’odio spietato. e se le melodie saranno udite, sarò figlio del Ciel, sarò beato. Ma per architettar le mie ruine se meco più, Furia crudel, s’adira, e non ritrova a’ miei tormenti il fine, col valor del mio braccio armato d’ira io vo’strappar dalla sua fronte il crine, e ne farò le corde alla mia lira. 3. Dedicazione delle poesie all’Eccellenza del Signor Principe d’Avellino, Francesco Marino Caracciolo 46 Ecco il fato secondo: al fin lasciate delle mura paterne angusto il chiostro, ove ad altri non giova il viver vostro, parto dell’alma mia, rime sudate. Il gran FRANCESCO a riverir volate, che più dell’oro pregia, e più dell’ostro, carta erudita, armonioso inchiostro, nella nostra di ferro insana etate. S’avverrà che v’accoglia, unqua letale non armerà per divorarvi il dente il Vecchio mordacissimo ch’ha l’ale. Così nel verde suo stelo ridente, cui di lauro difende ombra vitale, il fulmine del Ciel prova innocente.

45 46

Ivi, p. 2. Ibidem.

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4. Spera fama durevole dalle poesie 47 Per trovar contro a Morte alto riparo, fatichi Alberto ad animar metalli. cerchi il sicano eroe vanto più chiaro nella sfera de’ fragili cristalli. Trasformi in obelischi ancor le valli la gente superbissima del Faro e dia Fidia lo spirto a’suoi cavalli da’ marmi candidissimi di Paro. Col morir d’Ifigenia il gran Timante anima spiri a’suoi colori, e armi Zeusi in trono di lampi il Re tonante. Ogni illustre sudor soggiace all’armi del Tempo irreparabile volante; io l’immortalità spero da’carmi.

Il canzoniere, come abbiamo detto, pur non presentando delle partizioni specifiche, si sviluppa per blocchi tematici compatti, e la successione tra i diversi argomenti è segnalata a volte anche da espliciti riferimenti all’interno degli stessi componimenti. Nelle liriche che vanno dal numero 5 al 19 prevale nettamente il tema epico-storico-mitologico, sebbene l’unità di questo filone sia interrotta due volte da liriche di altro genere. Il grottagliese dispone consecutivamente tematiche amorose nei componimenti che vanno dal numero 23 al 28 e, di nuovo, in maniera compatta (ma non consecutiva), testi di argomento storico, dal numero 52 al 69. Fino al numero 91 comunque la posizione scelta per le liriche ci sembra tutto sommato alquanto casuale. A questo punto troviamo ben 17 componimenti consecutivi (precisamente dal 92 al 108) che trattano di un amore il più delle volte tormentato; si potrebbe ipotizzare che il poeta abbia voluto isolare un piccola antologia d’argomento amoroso all’interno dell’opera, un po’ come vedremo farà con le liriche religiose e con le odi che chiudono la raccolta. Questa piccola sezione mi pare possa meritare una breve analisi descrittiva. Dai dati biografici, come era del resto ampiamente prevedibile, non è facile capire che tipo di rapporto il poeta ebbe con il sentimento amoroso. Nel suo epistolario la materia amorosa è esposta marginalmente e la maggior parte dei pensieri e delle riflessioni sull’argomento sono estrapolate dai testi delle Meliche. Si può affermare che la visione tragica dell’amore sia per il poeta una costante: secondo la sua formazione filosofica e religiosa (stoicismo e cristia47

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Ivi, p. 3.

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nesimo), la passione amorosa rappresenta una pericolosa deviazione dalla vera via che ogni uomo dovrebbe seguire, quella della ragione, la sola che può permettere all’umanità la comprensione dell’ordine universale nella contemplazione del divino. L’amore-passione è senza dubbio pericoloso, perché condanna a dipendere dalla volontà di un altro individuo, a essere causa di sofferenze per se stessi e per la persona amata. Riecheggia nei versi del poeta salentino il Lucrezio più cupo del libro IV del De rerum natura. Per il poeta che celebra gli amori tragici di Medea e Giasone, di Ero e Leandro e di Olindo e Sofronia, l’ardore degli amanti diventa un susseguirsi di illusioni frustrate, un nutrirsi di vane speranze. L’amore si trasforma così da iniziale slancio verso l’altro in una prigione (parola più volte utilizzata dal Battista per descrivere la condizione dell’innamorato) per gli amanti, condannati alla schiavitù dalla follia delle loro passioni. Anche per Seneca, autore a cui spesso il poeta si ispira, l’amore era del resto furor cioè impulso irrazionale, manifestazione della pazzia che sconvolge e travolge l’animo umano. Se l’amore non è dunque celebrazione della passione, il sentimento si traduce più che altro nel sentirsi parte della Natura (e in questo fortissima ci appare l’influenza filosofica telesiana, che al momento della formazione del poeta era ancora molto presente nelle lezioni delle scuole napoletane), e si esprime nello spettacolo estasiante di una primavera nascente o in un cielo celeste che si bagna nell’oro dei raggi solari. L’immagine che si ricava dalle sue liriche è quella di un poeta triste e malinconico, che associa spesso eros e thanatos, con un’idea del primo (nel senso di amore universale tra gli uomini) cupa e disfattista; l’umanità ci viene presentata sotto un aspetto ferino, barbarico, accecata dalle brame di onori e ricchezze, condannata ormai irrimediabilmente alla perdita della libertà perché priva di ragione. Si esprime anche nelle poesie d’amore tutto il disagio di un’anima sognante, che non ha più nulla di quella purezza di sentimenti tanto vagheggiata e intravista soltanto nel mondo dell’antichità classica. Così il poeta è costretto a trovare rifugio in un mondo altro fatto di miti, tramonti e animali parlanti, un mondo che non lo tradisce mai, che però non riesce a curare le sue ferite profonde, causate dai ritmi moderni in cui vive da disadattato, costretto a confrontarsi con uomini che non gli somigliano, i cui valori rifugge: uomini che non hanno né volti e né nomi, simulacra di vizi e mali, folla indistinta e selvaggia. Riprendendo l’esame della disposizione delle sue liriche, dopo il “microcanzoniere d’amore” troviamo, fino al componimento 118, una serie di poesie di vario tema incentrate soprattutto sul rapporto con la morte espresso nei due sonetti di consolatio mortis (in cui appare evidente l’influenza del Seneca “cristiano”).

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I componimenti dal 119 al 141 sono quasi tutti di argomento autobiografico, rivolti spesso a uomini illustri e nobili amici. Il sonetto 141, Al Sig. Camillo Di Dura, si chiude con l’intento del poeta di «ferir la cetra con pettine latino». Il riferimento potrebbe essere alla parallela produzione in lingua latina, ma anche a quella che potrebbe essere una cesura, che segna la fine della prima parte del canzoniere. Sotto il profilo metrico, non è qui che possiamo considerare chiusa la prima parte: dopo il 141 abbiamo infatti altri quattro sonetti, prima di incontrare la sezione di epigrammi e madrigali con il numero 146. Se la cesura è “metrica”, è chiaro che la si debba spostare in avanti, se invece fosse “tematica” è qui, proprio al sonetto 141 che dovremmo fissarla. La motivazione è presto detta: con il sonetto 142 si apre una serie di componimenti di argomento “latino”, dove per latino si intende legato alle tematiche proprie dell’epigrammatica latina: funebri (negli epitaffi), morali, artistiche e d’amore, tutte trattate in maniera leggera e concluse con una battuta di spirito o con uno spunto arguto offerto alla riflessione. Come già detto, la lunga serie di sonetti si arresta al numero 145, Per Monsignor Della Casa: da qui in avanti abbiamo dei componimenti brevi, madrigali ed epigrammi fino al numero 168, una canzonetta per musica che fa da spartiacque con la seconda parte. Il componimento 146, Epitafio di Democrito, inaugura quindi una piccola serie di epigrammi. A dire il vero, Battista non menziona mai con il nome di epigrammi questa serie, e neppure ha mai indicato una precisa appartenenza di genere per le suddette poesie. Bisogna però ricordare (e cito Gino Ruozzi) che: «Nel Cinquecento e nel Seicento l’epigramma viene spesso accomunato al madrigale […]. C’è chi li ritiene identici e sovrapponibili, almeno per un certo periodo. Nell’Arte del verso italiano (1658) Tommaso Stigliani afferma che nel madrigale “infallibilmente ha da esser rimata la chiusa, ed oltracciò arguta di concetto, e (come dicono i latini) aculeata […]. Molti de gli più ingegnosi epigrammi greci, e de’ latini, sono stati da’ nostri tradotti in madrigali, e conservano non poco l’intelletto.” Arguto ed elegante, senza cattiveria, il madrigale può essere considerato un epigramma dolce. C’è il concetto, la chiusa anche a sorpresa, arguzia ma non malignità; nel madrigale non abita Marziale»48. Queste qualità mi sembrano bene espresse da questa serie di liriche; per quanto riguarda invece la metrica, mi rifaccio ancora alle parole di Gino Ruozzi: «Metricamente l’epigramma non ha forma fissa, anche se predilige strofe di pochi versi (distici, quartine) di endecasillabi, settenari e ottonari; ma

48

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Epigrammi italiani, a cura di G. Ruozzi, Torino, Einaudi, 2001, p. XVII.

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ci sono pure raccolte di epigrammi composte quasi interamente di sonetti (Frigimelica Roberti nel 1697)»49. Bisogna anche tenere sempre presente che Battista è scrittore di epigrammi in latino, e che la prima raccolta lirica in volgare è coeva e parallela a questa produzione. Gino Rizzo, quando parla della genesi del libro primo delle Meliche, si esprime in questi termini sull’influenza reciproca che avevano i versi latini e italiani: [Le Meliche] furono però ‘rifatte’, come si è detto, nel 1648-49, ma la loro appartenenza all’avvio poetico del grottagliese resta ed è indubbia, tant’è che argomenti e situazioni in questa prima fase transitano agevolmente dagli Epigrammi verso le Meliche (o viceversa) per esercizio di argute variazioni: Didone, Fetonte, Icaro, Leandro ecc., e nell’area sacra S. Francesco d’Assisi, S. Francesco da Paola, Maria Maddalena, ecc., ritornano per affini sviluppi tematici nei versi latini e in quelli italiani. Si vedano ad esempio, l’epigramma Medeae amantis querela e il sonetto Affetti di Medea innamorata; oppure l’epigramma Divo Francisco ab Assisio vestes ad patrem reijcienti e il sonetto S. Francesco d’Ascisi spogliandosi le vesti in presenza del padre, concordanti pure nel titolo50.

Il componimento 146, Epitafio di Democrito appartiene dunque al genere dell’epigramma e più esattamente sottogenere degli epitaffi, un tipo di scrittura in cui, durante il periodo rinascimentale, frequentemente si incarna il genere epigrammatico. Un dato significativo, e in qualche modo curioso, è costituito dal fatto che, mentre l’epigramma latino spesso celebrava la memoria del defunto, nell’Italia delle corti (e dei veleni “veri”), l’epigramma è soprattutto augurale di morte, spesso con violente invettive contro il futuro defunto. Non è però questo il caso del Battista, che in questo epitaffio celebra uno dei suoi filosofi preferiti e che, probabilmente, nella figura del pensatore greco riconosce anche un po’ se stesso, sotto le vesti di spregiatore dei beni materiali del mondo contemporaneo. La chiusura con un distico in rima baciata, in cui si esplicita l’arguzia, il motto di spirito che in questo caso invita a una riflessione, è una caratteristica propria di questo genere letterario. Gli epigrammi 152, Contro d’Alessandro e il 156, Epitafio d’uomo di poca levatura rientrano proprio nel genere dei componimenti brevi d’invettiva. Entrambe le chiuse sono un esempio di arguzia barocca, la stessa arguzia che il Cardinale di Perrona (Jacques Davy Du Perron 1556-1618) rimprove-

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Ivi, p. XX. G. Battista, Opere, a cura di G. Rizzo, cit., p. 53.

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rava al Tasso, stando a quanto detto da Ludovico Antonio Muratori nel suo trattato Della perfetta poesia italiana (1706): [...] diceva, parergli [al Du Perron] la Gerusalemme del Tasso più tosto tela o filza di Epigrammi, che un Epico Poema, volendo significare, ch’essa è piena d’Acutezze, e di que’ lumi, co’ quali per l’ordinario si sogliono chiudere gli Epigrammi51.

Nello stile di Battista passa la lezione più concettosa del Tasso, soprattutto attraverso la pratica del Marino. Il rapporto privilegiato con il poeta estense è caratteristico di questa prima raccolta di liriche, in cui spesso si muovono anche i personaggi protagonisti della Gerusalemme liberata. L’epigramma 161, Nasce da bianca madre fanciullo nero, fa riferimento, oltre che alla bella Clorinda della Liberata, anche all’eroina dall’Amadigi di Bernardo Tasso: riso e meraviglia sono la conseguenza di un accadimento imprevisto (e non è un caso che i termini stupore e meraviglia facciano capolino tra questi versi), secondo un procedimento che possiamo riscontrare nello stesso Tasso epigrammista delle Rime d’occasione. Leggiamo, ad esempio l’epigramma 1204 delle Rime del Tasso: Questa lieve zanzara quanto ha sorte migliore de la farfalla che s’infiamma e more! L’una di chiaro foco, di gentil sangue è vaga l’altra, che vive di sì bella piaga. Oh fortunato loco tra ’l mento e ’l casto petto! Altrove non fu mai maggior diletto52

cui riaccosterei questo del Battista, forse più cinico, ma altrettanto efficace: 148. A Cieco Innamorato 53 Questi che su la fronte occhio non apre, ed è fra l’ombre avvolto, le fattezze più conte 51

L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, a cura di A. Ruschioni, volume primo, Milano, Marzorati, 1972, pp. 435-36. 52 T. Tasso, Rime, a cura di B. Maier, t. I, Milano, Rizzoli, 1963, p. 1040. 53 G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Prima, cit., p. 74.

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brama fruir d’un volto, che Natura sagace fabricò di beltà specchio vivace. Oh di ricco retaggio indegno erede! E che giova lo specchio a chi non vede?

Un altro modello decisivo, nella stesura di questi brevi componimenti, è stato Giambattista Marino con la sua Galeria (1619) di arguzie e di concetti. L’opera mariniana, come sappiamo, è composta da iscrizioni su opere d’arte reali e fantastiche, ritratti di uomini illustri antichi e moderni in vario metro (sonetti, madrigali, epigrammi, canzonette): una sorta di equivalente moderno del genere palatino degli epigrammi ecfrastici54. Leggiamo in parallelo il componimento di Marino Herodiade con la testa di San Giovanni Battista di Luca Cangiasi in casa di Giovan Carlo Doria 55: Non è non è già questa, che ’n aureo vaso è chiusa, de la crudel Medusa l’abominabil testa. È Medusa ben quella, che ’n man l’accoglie, in un crudele e bella, cagion che ’l tronco suo di vita casso rimase immobil sasso

con l’epigramma di Battista, 147. Statua di Medusa presso a un fonte 56 Quel simulacro illustre, a cui scusa la chioma angue scaglioso, non è vigili industre d’intagliator famoso. Era un tempo Medusa, che qui dell’arti sue restò delusa; sciogliendo un dì presso alla fonte il passo, mirò se stessa e diventò di sasso.

54

Epigrammi italiani, a cura di G. Ruozzi, cit., p. XVI. G. Marino, La Galeria, a cura di M. Pieri, t. I, Padova, Liviana, 1979, p. 56. 56 G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Prima, cit., p. 74. 55

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Sotto il profilo strettamente metrico, sono due madrigali (appartengono comunque al genere dell’epigramma), diversi per schema metrico, dal momento che quello del primo è abbacCDd, mentre quello del Batista è aBabcCDD. Entrambi sono chiusi da due distici in rima baciata, ed è evidente una stringente corrispondenza dei due quinti versi, con Medusa che è soggetto comune dei periodi finali; simile è anche il verso di chiusura, che punta all’effetto sorpresa-meraviglia nella pietrificazione del mostro. La tecnica dell’artificio si tramanda ormai da più generazioni: Tasso, Guarini, Marino, Battista sono quindi interpreti di una stessa maniera. La sezione epigrammatica si chiude con il componimento 167, Giovane amato da Olimpia. A fare da spartiacque con la seconda parte del canzoniere è il componimento 168, Stima più i gusti sumministratigli dalla Speranza, che quelli che dar gli potrebbe un compiuto godimento, una canzonetta per musica encomiastica dedicata al Duca di Seiano (1617-1668), che difese strenuamente gli Spagnoli durante i moti rivoluzionari di Napoli. In questa seconda zona del macrotesto i temi affrontati si allontanano da soggetti leggeri, lo spazio riservato all’umorismo è ridotto al minimo: ci troviamo di fronte prevalentemente a poesie d’encomio e moraleggianti. La maggioranza delle liriche è di argomento autobiografico: si tratta di testi legati soprattutto alla rivoluzione del 1647, che costituiscono un documento storico importante sulla percezione che le classi medio-alte ebbero del fenomeno rivoluzione, e ci mostrano anche come l’Accademia degli Oziosi non fosse esclusivamente un circolo letterario, ma un possibile cenacolo di formazione politica. Unico componimento amoroso di questa sezione è l’ode 182, Per bella donna che parte per mare, esempio dello stile «ornato e culto», come lo definisce Gino Rizzo, di Giuseppe Battista. Il poeta pare qui gareggiare in artifici stilistici con il Marino delle Rime marittime. Caratteristica del Battista è la ricercatezza lessicale, che si traduce spesso in una sovrabbondanza di latinismi; ad esempio, nel nostro testo, la prua della nave è «lubrica», il mare è un «procelloso chiostro». Proprio l’uso eccessivo della lingua latina nelle liriche volgari fu più di una volta rimproverato al Battista; particolarmente duro, sotto questo profilo, il Cicinelli: [...] come è adivenuto al nostro bacalare [il Battista], che facendosi a credere di puoter arricchire la lingua toscana di voci si ha preso licenza d’impoverirne la latina, servendosi dei vocaboli esplora, coorte, pagine, deplora, perenni, cratere, copulare, clangore, calato, vortice, obelisco, divellere, calibe, immanità, fornice, inaccessa, e tanti e tanti altri, che per non perdere inutilmente il tempo ho tralasciato nelle di lui opere di osservare […]. Or io vorrei domandare questi parteg-

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giani de’ latinismi se la lingua nostrale deve confessarsi loro obbligata per la dovizia delle voci, che si vantava di avergli arrecato, o pure dichiararsi offesa per la misertà, con cui la pubblicano da per tutto [...]57.

Ma Battista fu sempre fermo nel difendersi, in più occasioni, e anche in questo libro primo delle Meliche laddove, nella dedica al Manso dell’ode 257 che chiude il canzoniere, si esprime in questo modo sui latinismi: [si rivolge al Manso] Vorrei con tutto ciò che i latinismi fussero anzi lodati che no. Son forme di dir mio con elezione, opinando che non possa chi a bello studio le trascura, nobilmente favellare. Son cavate o imitate da’ migliori Latini, per aprir nuovo sentiero a ricchezza della nostra poesia, la quale a compassionevole mendichità cercano di condurre alcuni volgari, ricordandosi di quel detto di Quintiliano: «Pigri est ingenii, contentum esse iis quae sunt ab aliis inventa»58.

La novità dello stile del Battista passa anche per l’antichità, il modello che egli propone vuole essere non completamente antitetico a quello del Marino: difatti, mantenendo comunque il gusto per le arditezze metaforiche, il grottagliese voleva subordinarle a una lingua (il latino) propulsiva di valori universalmente condivisibili, rientrando ugualmente nel novero della poetica della novità poiché, come egli sostiene: «[…] avendo l’autorità della veneranda antichità, e per qualche tempo essendo dimesse [le parole antiche], partorivano grazia somigliante alla novità»59. In tutte le opere del Battista non c’è alcuno spazio per gli incolti: i rimandi a miti peregrini, l’alto tasso di latinismi, segnalano la volontà di chiudere la poesia in un antico rito per iniziati. Come ho avuto già modo di dire, il grottagliese si vuole fare portabandiera di un “nuovo stile” (in gran parte poi ripreso da alcuni poeti napoletani tardo barocchi come Pietro Casaburi Urries), corroborato dalla forza dei messaggi morali universalmente validi, destinati a durare in perpetuo, che non ha come obiettivo la totalità del pubblico (in realtà mai cercata da nessun letterato a quei tempi, nemmeno dal Marino), ma una ristretta comunità letteraria. Il maggior terrore del Battista era proprio la “corruzione” di quella comunità letteraria, sotto la spinta di “incursioni esterne” poco gradite. Bersaglio di molte sue liriche sarà infatti il ceto forense che, a

57 G. Cicinelli, Censura del poetar moderno opra di don Giovanni Cicinelli duca delle Grottaglie, Napoli, per Giacinto Passaro, 1672, pp. 125-30. 58 G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Prima, cit., p. 190. 59 G. Battista, Poetica di Giuseppe Battista, Venezia, presso Combi e La Noù, 1676, p. 219.

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seguito della rivoluzione, aveva sempre più mezzi economici ed era quindi era divenuto gran fruitore del mercato librario; secondo il Battista, proprio allo scopo di conquistare quel pubblico di notai e avvocati che aveva una cultura umanistica molto superficiale, si assisteva a un generale appiattimento di valori e a un progressivo livellamento nella qualità delle opere letterarie. Lo stesso Marino costituiva, in fondo, un esempio negativo di questa tendenza alla ricerca di consenso sempre più ampio. Continuando nella nostra lettura, i sonetti dal 202 al 209 sono tutti di argomento epico mitologico, mentre il successivo 210, Cava moralità dalla statua di Mennone, rimproverando a se stesso il suo poco compugnimento, è l’ultimo in cui il poeta tratta il «vano mondo»; è anche l’unico componimento del canzoniere in cui è segnalata un’esplicita partizione, o meglio, in cui il poeta segnala un cambiamento di tema: «Cristo mi tocca il core, ed io nol sento». Il micro-canzoniere religioso, che consta di 40 liriche, si apre con un’introduzione in prosa di dedica all’Arcivescovo di Taranto, Tommaso Caraccioli, zio del suo protettore Francesco Caracciolo. Il Battista religioso non è però meno arguto e prezioso di quanto non fosse l’epigrammista: mantiene, infatti, uno stile culto anche in questa parte di canzoniere. Le vite dei santi con i loro miracoli costituiscono pretesti per metafore e acutezze di spirito affidate a motti sentenziosi. Di notevole interesse è poi l’epicedio 238, Le querele della Vergine in morte di Cristo Signor nostro, in cui, in maniera molto suggestiva, è Maria a parlare in prima persona al figlio crocefisso. In cento versi (numero perfetto), si rievoca la cruenta passione di Cristo dal punto di vista di una Vergine molto terrena, che si vede uccidere il figlio senza riuscire a trovare nessuna forma di rassegnazione. Alcuni principi naturalistici, di cui il poeta si rende latore, lo portano addirittura a far domandare Maria a Gesù: «Se negli sguardi tuoi vive Natura, / come la vita tua venir può meno?». Mi sembra interessante, a proposito di questo testo, una riflessione sulla categoria dell’epicedio. Il Battista designa con questo nome forme metriche diverse (odi, ottave, quartine, strofe libere), che hanno come prerogativa fondamentale quella di essere espressioni in prima persona di un personaggio principale al momento della morte di un caro o di un congiunto. Nell’antichità classica, lo stesso termine indicava il canto che si recitava in presenza della salma, prima di seppellirla, distinto quindi dall’epitaffio che si leggeva dopo la sepoltura. Battista insistette spesso sul fatto di essere stato il primo a portare questo genere letterario nella nostra letteratura, per emulazione dei classici antichi; la tipologia del componimento ben si adattava alla poetica dell’autore: incasto-

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nare la poesia aulica latina nell’orizzonte di un gusto per la novità sperimentale offerta dai mezzi della lingua italiana. L’epicedio sembrava in qualche modo predisposto al percorso morale-filosofico che il nostro poeta ha voluto intraprendere, in letteratura come nella vita, poiché assume come fulcro la morte, il che comporta quasi di necessità la riflessione sul disfacimento della bellezza fisica, sulla caducità dei beni materiali, sul destino umano. Gli epicedi di Battista, che compaiono in tutte le raccolte delle Meliche, saranno poi raccolti in una silloge a sé stante, e pubblicati nel 1667 con il titolo di Epicedi eroici. Il Battista “etico” è quello che chiude il canzoniere con sei odi e un epicedio, tutti preceduti da un premessa in prosa di dedica a personaggi illustri. In questi lunghi componimenti consegna ai posteri un’immagine di sé costruita sul modello dei saggi dell’antichità, destinando ad altri fama e ricchezze, e invocando invece una solitudine operosa immerso nelle letture dei classici. Ora che può stendere già un primo bilancio della sua vita, il poeta guarda alle sofferenze del passato e al pericolo scampato durante la rivoluzione (continua peraltro a sprezzare il volgo vile, paragonato a belve nemee), lasciando trasparire una vena malinconica nella riflessione sulla misera natura umana. Il canzoniere però non poteva arrivare alla conclusione soltanto improntato a riflessioni morali, quando la vera passione del Battista è sempre stata l’epica classica. Stregato dall’opera di Virgilio, il poeta chiude la prima raccolta delle Meliche con l’epicedio Anna in morte di Didone, che al di là dei consueti artifici retorici, risulta fruibile anche da parte di un lettore moderno. Verso dopo verso ci si trova immersi in un’atmosfera livida, per molti versi gotica, dal ritmo incalzante, quasi che il nostro autore abbia voluto competere in intensità e pathos non solo con Virgilio ma anche con il Seneca delle tragedie più macabre. Come in una favola nordica ci si muove tra pallidi mirteti, lugubri note, tetre caligini, in una notte che si veste d’orrore, tra cadaveri intrisi di sangue e pallide bellezze scomposte dalla morte: questo è lo scenario in cui si piange la regina di Cartagine. Battista ha saputo pennellare queste fosche immagini intrappolandole in una cornice di classica compostezza, tracciando così le linee per una nuova poetica espressiva nella letteratura barocca italiana. 2.3 Delle Poesie Meliche parte seconda Il secondo canzoniere, edito nel 1653, a differenza del primo, nato nell’ambiente “libero” dell’Accademia degli Oziosi, è interamente scritto alla corte avellinese del principe Caracciolo. Questa svolta è stata davvero centra-

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le nella vita del nostro autore, tanto che numerosi saranno nei suoi testi i “segnali” relativi al rapporto con la corte. A suggello del sodalizio con il principe irpino, questa raccolta si apre proprio con un’ode del Caracciolo, cui il Battista replica con una dedica che esprime, oltre al normale elogio nei confronti del potente, anche alcuni assunti di poetica. Il poeta, come abbiamo avuto modo di dire nei cenni biografici, fece da precettore al principe, che ebbe la fama di essere un grande cultore delle lettere, tanto che, oltre a cimentarsi personalmente nella composizione di liriche, ospitò diversi intellettuali a corte anche durante la sua permanenza a Milano. Figura di spicco della nobiltà campana fedele alla corona di Spagna, Francesco Marino Caracciolo ereditò il principato irpino nel momento di massimo splendore per la città di Avellino (che contava circa 4000 abitanti). A lui si devono importanti opere di urbanistica60, soprattutto difensive (edificazione di mura e porte), e di promozione culturale61: diede infatti impulso alla già esistente Accademia dei Dogliosi, che tra i suoi soci aveva annoverato ai tempi del padre, Marino II, il grande Giambattista Basile. Alla corte avellinese, come dicevo in apertura di questo saggio, il poeta salentino visse forse gli anni più felici della vita, tanto che qui compose e sistemò quasi tutte le sue opere (ovviamente dedicate al principe). Il Battista instaurò subito un rapporto di amicizia sincera con il nobile, tanto da rimanere sconvolto nel profondo delle sue idee anticortigiane, idee che emergono con chiarezza da una lettera indirizzata al Manso qualche anno prima di prendere servizio presso il Caracciolo: Né io son buono per la Corte, né la Corte è buona per me. Che si perda il mondo tutto, se tutto il mondo acquistar si può per mezzi di servitù, la quale in qualsivoglia luogo sempre è vergognosa62.

La Corte restò per tutta la vita un luogo di depravazione per il poeta grottagliese, che non mutò mai le sue convinzioni a riguardo, ma il miracolo rappresentato dalla liberalità di quel principe deve averlo confuso, e non poco, tanto da attirare gli strali delle solite malelingue che gli rimproveravano scarsa coerenza di principi. Lo stesso amico del poeta Zaccheria Sersale non esitò a rimarcare il comportamento, a suo dire un po’ ipocrita, del nostro autore: 60

M. De Cunzo, Avellino nel Seicento, la città dei Caracciolo, in Civiltà del Seicento a Napoli, Milano, Electa, 1984, pp. 291-96. 61 B. Croce, I Caracciolo d’Avellino, in Uomini e cose della vecchia Italia, s. III, Bari, Laterza, 1956, p. 156. 62 Si legga in Le Lettere a Giovan Battista Manso in G. Battista, Opere, a cura di G. Rizzo, cit., p. 53 (VI).

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[...] O pur non sai que’ precetti seguir, che agli altri dai63?

Battista si difendeva dicendo che il Caracciolo trattava i poeti non come servitori, bensì come amici, essendo lo stesso principe un poeta64. La seconda parte delle Meliche è composta da 170 componimenti. Metricamente, la suddivisione interna dell’opera ci appare di più facile lettura e ordinata rispetto alla prima raccolta; si presentano in successione, infatti: 150 sonetti (il numero 82 è però di Francesco Marino Caracciolo), tredici tra epigrammi e madrigali e sette odi (secondo una precisazione dello stesso Battista, cinque odi e due epicedi). Il canzoniere è concluso in appendice dalla sezione Poesie di diversi dirizzate al Signor Giuseppe Battista con le risposte del medesimo, i nomi de’ quali son disposti per ordine d’Alfabeto. Se dal punto di vista metrico la lettura di questo secondo canzoniere risulta, come abbiamo visto, piuttosto lineare, altrettanto non si può dire per le tematiche affrontate: sotto questo profilo la disposizione dei sonetti è abbastanza confusa, anche si segnala qualche blocco affine per argomenti come nella prima raccolta. Nel sonetto introduttivo l’autore risponde a chi gli aveva chiesto un poema epico o una tragedia: sostanzialmente replica di non essere in condizione di poterli scrivere, per la debole salute che gli dà continui tormenti, e soprattutto per una sorte maligna che si diverte a tormentarlo: 1. Non può scriver Poema Tragico, né Epico per la debole complessione, e per gli strapazzi della Fortuna 65 Vorrei d’Atreo le scelerate cene pianger con melodia di plettri eburni né sdegneria le larve, et i coturni recarmi Tespi in su l’Ausonie scene. Perché taccian suoi vanti Argo, e Micene, vendicherei dall’onte Frigie i Turni, né paventar saprei mille Saturni, ch’ ho nell’anima mia mille Camene. Ma troppo han macerato a’ miei begli anni e la parte miglior cure fatali, e la parte peggior morbi tiranni. 63

Z. Sersale, Poesie liriche, Venezia, appresso Z. Conzatti, 1670, p. 24. G.F. Bonomi, Del parto dell’orsa. Idee in embrione, Bologna, parte seconda, Per gli eredi di E. Dozza, 1667, p. 374. 65 G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Seconda, Venezia, Presso Menafoglio e Mortali, 1665, p. 15. 64

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So, che d’eternità la mente ha l’ali; ma pur del Tempo è sottoposta a i danni, se nell’opre, che suda, i sensi ha frali.

Tra i filoni tematici che iniziano a decrescere, fino a ridursi a ben poco nelle successive raccolte, c’è quello amoroso, segno che lo stile del Battista mal si adatta a questa tipologia di scrittura. Il poeta va orientando ormai la sua produzione letteraria verso le vette sublimi di un’oratoria filosofica modellata su un arguto stoicismo, secondo un modello espressivo satirico più che lirico. Sfogliando le pagine della seconda parte delle Meliche, ci si rende subito conto che a intersecarsi sono soprattutto le vicende autobiografiche, il rapporto con la corte e la precettistica nei confronti del principe Caracciolo. All’orizzonte della vita del poeta si affaccia un cupo pessimismo: egli vede l’accentuarsi dei malanni fisici, e incomincia a insistere sul tema della morte, anticipando un certo tipo di gusto tardobarocco. Come abbiamo accennato, è il rapporto con il principe a predominare: a lui il poeta vuole insegnare, oltre che a poetare, anche a improntare la sua riflessione, e la sua stessa esistenza, sui precetti dello stoicismo cristiano. Ma l’autore pugliese a corte avvertì anche un forte senso di protezione: ecco dunque un gruppo di liriche che ci propongono una serie di trasfigurazioni letterarie, attraverso le quali il principe assume le vesti di Scipione o di Mecenate, nel proteggere rispettivamente Battista-Ennio e Battista-Virgilio. I componimenti dal n. 92 al n. 99 sono un blocco di sonetti disposti consecutivamente che hanno come argomento il principe d’Avellino: il Battista prova nei suoi confronti un sentimento di vera e profonda amicizia, ha a cuore la sua vita non tanto per servile encomio, ma, come abbiamo visto nella sua biografia, perché vuole farne un reggitore progressista, ripercorrendo così le orme di Seneca nell’istruzione del giovane Nerone. Per questo motivo lo esorta a non abbandonare la poesia a favore delle armi e lo invita a prendere moglie per avere, come necessario e opportuno, una discendenza. Il poeta vuole essere vicino al principe anche nei giorni difficili della guerra di Candia, dove era stato inviato dalla Spagna a dare man forte ai Veneziani: 92. All’eccellenza del Sig. Principe d’Avellino Francesco Marino Caracciolo con l’occasione dell’anno nuovo 66 Serpente è l’anno. E di veleno armato, a danni de’ mortali aguzza il dente né di sue piaghe alla tempesta algente val carme in bocca maga, o pianta in prato. 66

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Ivi, p. 60.

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Per tutto egli serpeggia. E d’arco aurato all’armonia non ha l’orecchie intente. Bontà qui morde, e qui bellezze ha spente, figlio del tempo, e precursor del Fato. Del suo natale a i redivivi errori cader fra i sillogismi ogni Zenone, celar lascia lo scettro, e Crasso gli ori. Sol tu, che per valor da mille Euterpi, d’Ercole hai vanto, il premi. Et a ragione proprio d’Alcide è strangolar le serpi. 93. Al medesimo Signore augurio di buon capo d’anno 67 Delle lane volgari oggi spezzate suore voi filatrici ogni lavoro, e con rapido ardir l’ale impennate di Frisso ad involar l’aureo tesoro. Poi di chi reggie calca, e vanta alloro fatto Marone insieme, e Mecenate, rinovate la vita a stami d’oro col rinovar della fugace etate. E quegli stami, ove di fame armato su i palagi dell’Etra il tempo ha scherno, con auspicio immortal confermi il Fato. Ma che giova implorar Nume superno, ch’ei derida il furor del mostro alato, se ne’ sogli, che verga, è fatto eterno? 94. Si esorta il medesimo Signore, che non tralasci lo studio delle lettere, benché attenda all’esercizio delle armi 68 Negli agoni di Marte io so che sudi generoso FRANCESCO, e so, che speri, emulando al valor gli avi guerrieri, delle vittorie istoriar gli scudi. Ma non lasciar que’gloriosi studi, ove t’apre lo ’ngegno aurei sentieri pacifico scrittor stilla i pensieri elaborando in su le dotte incudi. Potrai ben tu, calcando Marzie strade, onde n’avrai loquaci i muti marmi, come le penne, esercitar le spade. 67 68

Ivi, p. 61. Ibidem.

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Quindi Pallade stessa in vari carmi, esser favoleggiò la prisca etade Nume delle dottrine, e dea dell’armi. 95. Al Signore stesso che non lasci la poesia benché il governo del suo Stato sia grande 69 Mentre dal ciel del suo gemmato scanno fulmina i carmi e fa tuonar le corde, de’ Semidei Quirini il Dio tiranno, Roma il delude, e la censura il morde. Ma qualor Tu con armonia concorde negli antri Acherontei fughi l’affanno, l’invidia applaude, e con le orecchie ingorde mentre beve i concenti, oblia lo ’nganno. Il canto è vil, se dello scettro al pondo fa molle il braccio, e precipizii piove da labro osceno, e chi di sangue è immondo. Tempra pur Tu, ma con l’idee più nove, metro gentil, benché sostieni un Mondo; reggea l’Olimpo, e pur fu cigno Giove. 96. Si conforta il Signor Principe alla guerra di Candia 70 Creta, che fu del maggior Dio la cuna, oggi è campo di Marte a strania gente, che nemica del Sole in oriente è sempre cieca in adorar la Luna. Tu, cui chiama alle glorie aurea fortuna, et hai di palme anguste animo ardente, vanne a mostrar col petto prudente, et a petto nemico asta importuna. L’ale così dell’Ottomano ardire vedrem tosto tarpate, e de’ Maconi per iscorno immortal fumar le pire. Esposer te le pronube Giunoni per istancar a i Pindari le lire, per faticar le trombe a i gran Maroni.

69 70

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Ivi, p. 62. Ibidem.

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97. L’argomento stesso 71 Dileguando i perigli infra i divieti, vanne colà, dove piantar la Luna pensa il barbaro Trace, e render bruna la reina del mar, donna di Teti. Te fatto duce a i più robusti atleti dell’Inferno, mal grado, e di Fortuna, ch’a generoso piede i calli impruna, farà virtù liberator di Creti. Fieda mille cervici una percossa della tua spada, e con valor temuto alza in mari di sangue isole d’ossa. E s’oprar non potrai, che dia tributo l’oste alla croce, onde a’ certami è mossa, basterà per tua gloria aver voluto. 98. Desidera, che il Sig. Principe meni moglie 72 Su le passere tue, Dea del diletto, quaggiù discendi a secondar miei voti, e, perché infiammi al mio Francesco il petto, del tuo figlio Imeneo la face scoti. Ecco la penna, et alle carte io detto dell’inno marital carmi devoti. già segno il dì fatale, e poscia aspetto serie di nobilissimi nepoti. Tu magnanimo eroe rompi i divieti ardi d’un volto arciero alle pupille, e va d’un crine ad incontrar le reti. Acceso d’ardentissime faville se non va Peleo a ritrovar mai Teti, per le grandezze Achee non nasce Achille.

A partire dal componimento 151 (dopo 150 sonetti consecutivi), inizia la sezione epigrammatica, molto simile a quella già incontrata nel primo canzoniere: liriche ecfrastiche modellate sull’esempio de La Galeria del Marino, epitaffi e brevi componimenti di carattere religioso:

71 72

Ivi, p. 63. Ibidem.

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151. Per Francesco Petrarca 73 Altri canta, e ritrova per guiderdon del canto suo talora d’Arbore trionfal ferro frondoso: o nell’Idol, ch’adora, dopo lunghe fatiche atto amoroso. Altri da’ versi suoi. ghirlanda non impetra, amor non prova. Felice più di voi non vide l’Indo, e ’l Mauro, aveste Laura, e l’Auro. 152. Epitafio d’Anteo 74 All’antiche disfide oggi ti chiamo, o temerario Alcide se in aria sollevato, lascia nel seno tuo l’ultimo fiato, or che son tutto in terra, son tutto forza, e vince rotti in guerra. 153. Momo malamente dipinto 75 Dipinto è in questo velo. Momo, ineguale il piede, et irto il pelo. Il ceffo ha di Molosso, di scimia il naso, e di camelo il dosso. Tutto infine è difetto chi de’ difetti altrui prese diletto. E decreto del Cielo vendicar l’altrui torto. Chi vivo censurò, ripreso è morto. 154. Eraclito piangente 76 Piansi della mia vita su la nascente Aurora, e ’l Vespero m’invita alle lagrime ancora. 73

Ivi, p. 90. Ibidem. 75 Ibidem. 76 Ivi, p. 91. 74

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Ma il Pianto mio non è mestizia, o lutto. Piango, che pien di fumo è il Mondo tutto. 155. L’Uccello Filomela, dipintura 77 Erudito pennello su quei rami animò l’attico augello, tra la schiera canora intento aspetta a salutar l’Aurora. E se par, che garriti ei non distingua, rammentarci convien, che non ha lingua. 156. Epitafio di Pirrone, filosofo scettico 78 O tu, che saper vuoi, se viva, o se pur di vita casso, chi giace in questo sasso, mai saperlo non puoi. Perché, benché sepolto egli qui sia, assai dubita ancor, se morto sia. 157. Santa Agnese in mezzo de’ carnefici 79 Favoloso non è, com’altri crede, il Secolo dell’Oro. Ecco si vede un’agna che non teme stuol di lupi, che freme. 158. Angeli pacis amare flebant 80 È di pianto incapace l’Angelo della Pace. E pur di pianti amari versa tiepidi mari, perché vede il Peccato, et il Giusto oltraggiato. 159. S. Pietro crocifisso con la testa verso la terra 81 T’ha rivolto le piante col capo giù, ver la magion tonante sul tronco della Croce. 77

Ibidem. Ibidem. 79 Ibidem. 80 Ivi, p. 92. 81 Ibidem. 78

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Di crudo masnadier mano feroce. Affinché tu della stellata sede il possesso pigliar possi col piede. 160. Dove cadde il teschio di S. Paolo spicciarono l’acque 82 Manigoldo spietato al Dottor delle Genti miete il collo sacrato. E quivi pronte l’acque saetta, si dirama un fonte. Corra chi di battesmo ha pur vaghezza, Paolo dopo la morte anco battezza. 161. Ecce Homo. Contro di Pilato 83 Dopo mille tormenti ecco l’Uomo, tu dici. Additando il mio Cristo a’ suoi nemici, ma tu vaneggi, e menti, che dir dovevi, o scelerato Mostro, Ecco chi non è Uomo, io vi dimostro. Perché figura d’uom non gli hai lasciato, cotanto nelle membra ha’ lacerato. 162. Per Cristo Signor nostro confitto in Croce 84 Quando Cristo innocente in mezzo de’ ladroni era pendente tutto esposto al disprezzo, allor fu vista la Virtù nel mezzo. 163. A Cristo Signor nostro 85 Non ebbe lingua ardita chi nel sangue insegnò, che sia la vita tutta, o Signor, che sei del Ciel la via, pongo nel sangue tuo la vita mia.

Il secondo canzoniere si chiude con cinque odi e due epicedi di argomento gnomico, religioso ed encomiastico. Mi sembra interessante segnalare 82

Ibidem. Ivi, p. 93. 84 Ibidem. 85 Ibidem. 83

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l’ode 166 dedicata al principe Caracciolo, che, velatamente, giocando sull’uguaglianza tra il nome proprio del nobile e il cognome del Marino, esprime assunti di poetica che sembrano favorevoli all’autore dell’Adone. Un testo che pare in qualche modo connesso con il sonetto proemiale, laddove il poeta dichiarava di preferire la scrittura lirica a quella epica: «Lascio ad altri un Tancredi, un Saladino / la mia Musa è devota di un MARINO»86. Il rapporto che il Battista ebbe con la poesia del Marino fu abbastanza controverso: sebbene nello stile del grottagliese si possano rinvenire tutti gli artifici retorici del maggiore poeta barocco, egli in più occasioni volle rimarcare le distanze fra le due esperienze poetiche, rivendicando sempre una originalità stilistica che lo porterà a cercare uno stile proprio, “culto”, come abbiamo già avuto modo di dire. Sin da quando era un allievo del Manso, il Battista rivendicò con forza l’esigenza di staccarsi dai modelli di riferimento tra cui anche lo stesso Petrarca (e sappiamo come il Principe degli Oziosi fosse uno degli ultimi grandi petrarchisti). Ecco come si esprime il poeta grottagliese in una lettera allo stesso Manso: [...] Ubbidisco religiosamente a’ precetti de’nostri Maggiori, che più di noi han saputo, ma fabbrico a mio talento lo stile. Questo voglio che sia mio solo. E che vedrebbe di nuovo il mondo, se tutti imitassero il Petrarca? E se ’l Petrarca stesso nuotò senza scorza, come uom dice, e cioè non si antepose altro esemplare, perché noi porrem le pedate sue? Occupò forse e’ solo tutte le strade? Ma se le strade del poetare sono tante, quanti sono i cervelli, come ne’ poeti greci e latini s’osserva, de’ quali ciascuno ha seguito il suo genio. Forse pel suo cammino mai non incespicò sicché la sua scorta rimanesse agli altri sicura e senza pericolo di cadere? Ma egli incespicò non solamente più volte, ma cadde ancora, perché fu uomo. Non dee con ciò negarsi che egli non iscrivesse più nobilmente degli altri. Ma se oggi vivesse, muterebbe opinione e scriverebbe non solamente per farsi intender da monna Laura, ma per usurpar eziandio applausi e gloria appo gli eruditi. Pietro Bembo, perché non s’allontanò un’unghia da lui, fu con suo biasimo appellato «Petrarca rifritto» [...]. È deplorabile colui che fatica per divenire inferiore ad un altro, mentre non mai maggior dell’imitato stimasi lo scrittor imitante. Si dee scriver con lo ’ngegno proprio, non pigliato a pigione, e con pensiero d’esser il primo; ché se al pensiero non corrisponde l’evento, il solo tentare è plausibile. Quando io pecco contro le leggi da’ nostri insegnatori prescritte, mi gastighi Vostra Signoria Illustrissima a tutta severità; e Le dico ciò che disse a Romano Plinio il Giovane: «Annota quae putaveris corrigenda. Ita enim magis credam cetera tibi placere, si quaedam displicuisse cognovero»87.

86 87

Ivi, pp. 103-7. G. Battista, Lettere, cit., p. 239.

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Ritornando al rapporto con il Marino, è da notare che il Battista non lo conobbe mai personalmente e che, da giovane, gli dedicò un epigramma in latino dal titolo Iohanni Baptistae Marini epitaphium 88. Una reale, e dura, presa di posizione nei confronti dell’illustre predecessore è quella che avvenne quando Baldassare Pisani, poeta e amico del grottagliese, scoprì un furto letterario del Marino nei confronti di Erasmo da Rotterdam89. Al Pisani il Battista indirizzò una lettera nella quale il disprezzo verso il Marino fu espresso con queste parole: «[...] avendo dato a credersi di poter avvolpacchiare gli studiosi con un capriccioso dialogo, arrogandosi la invenzione per propria»90. E l’espressione «avvolpacchiare», usata per indicare il mestiere degli imbroglioni, è significativa del distacco maturato dal poeta grottagliese nei confronti di chi avrebbe dovuto essergli in qualche modo “maestro”. A noi lettori rimane però il dubbio se nella sua ode il Battista si sia riferito al solo «Marino» Caracciolo, oppure abbia voluto in qualche modo, magari trasversale, omaggiare il primo grandissimo rappresentante della nuova poesia moderna: 166. Commenda in parte il valore dell’Illustrissimo, et Eccellentissimo Sig. Francesco Marino Caracciolo, Principe d’Avellino, ne’ cimenti della caccia, e della guerra 91 Dal cenere Troiano io non desto gli Ettori a’ versi miei, né da gli velli Achei chiama gli Ulissi il plettro mio toscano, altri da prischi eroi argomenti procuri a’ canti suoi. Feconda ancor ne’ polverosi agoni la bellissima Italia è di campioni. Benché il secol presente nemico appar della Virtù, che vede, et ostinato chiede sempre materia alle memorie spente; io quel valor, ch’è vivo, all’arpa, che flagello, oggi preferivo,

88

G. Battista, Iosephi Baptistae Epigrammata, Napoli, Apud Beltranum, 1648. Il componimento incriminato del Marino è l’idillio dal titolo Disputa amorosa presente ne La Sampogna, che sarebbe, secondo il Pisani, la traduzione integrale di uno dei Colloqui familiari di Erasmo da Rotterdam. 90 G. Battista, Lettere, cit., p. 129. 91 Cfr. n. 86. 89

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lascio ad altri un Tancredi, un Saladino, la mia Musa devota è d’un MARINO, Tu dell’alto Senato eterno Duce, ond’ogni cosa è pieno. Tu, ch’alle nubi il seno laceri allor, che sei di tuoni armato, comanda alla tua Clio, che da Citra discenda al petto mio. Per asperger di nettare le lodi: m’insegni i modi, e sian Tebani i modi. Per le Birsiche selve reggeva Ascanio a bel destriero il morso che pennuto nel corso impennava la fuga anco alle belve. Con barbaro lavoro fren d’argento portava, e nel piè l’orso; Natura il creò foco, e neve il pinse, qual di Polluce il corridor si finse. Impaziente sdegno aguzzar non curava il Frigio arciere nel volgo delle fere. Ma pensava incontrar, volea per segno del volante suo dardo minaccioso un cinghial, rapido un pardo per impattare alle sue forze i vanti, bramava i Calidoni, e gli Erimanti. A’ cenni di Diana stampava ancor tra le foreste l’orme il centauro biforme, indagator della più scevra tana. Lo stral della sua destra era fulmin di Giove a belva alpestra, e delle spoglie poi varii tappeti tocca delle sue grotte alle pareti. Ma tra boschi cumani vago vie più del Dardano garzone, forte più di Chirone il gran Francesco appar cinto d’alani. Ei con calami alati orsi unghiati saetta, apri dentati. Ha delle valli in ogni cupa ambage il terror nella voce, in man la strage. Ferro mai non allenta, che ferita non apra, e in ferita

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sempre insidia la vita, fatto egli un Meleagro, e morte avventa: né ’l fece mai satollo o latte d’orsa, o di leon midolle. Ma, s’animal piagato il mirò al viso, gode dalla sua mano esser ucciso. Da fistola tonante se talor desta il sonnacchioso ardore, a stormo volatore porta ne’ voli ancora il fato errante, fa che con fier rimbombo tronchin l’ale agli augei l’ale del piombo, seminando scintille in poca polve, dentro nube di fumo il tuono involve. Poi se tromba guerrera di Marte il chiama alle sanguigne imprese, di fervide contese mostra in petto di bronzo anima altera. È sparta ogni contrada alla virtù della fatal sua spada. Porta dov’ei guerreggia i campi Elei, e suda sempre ad innalzar trofei. Dall’alma Teti nasce letale Achille alle Troiane mura, e tenera fattura in Stige è immerso anzi ch’avvolto in fasce: così pensa la madre renderlo invitto alle nemiche squadre. E da quell’onde callide spruzzato vuol impetrargli immunità di fato. Perché sprezzi la mano di Rutulo campione il padre Enea, la bella Citerea fa sudare gli usbergi al suo Vulcano. Già per l’aria volando la gran figlia del Mar gli porta un brando, che poi, per vendicare il gran Pallante, sparga del suo rival l’alma fumante. D’acque prodigiose per ischermir del ferro i colpi atroci, non cerca in stranie foci il CARACCIOLO eroe forze nascose.

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Né per celeste cenno l’armi gli architettò Fabro di Lenno, son le corazze sue, la sua palude, quella, ch’asconde in cor, maschia virtude. Dicalo il Franco audace quando portò su le famose arene delle piagge tirrene con le triremi sue stuolo pugnace, s’al valor di quel petto precipitarsi in fuga ei fu costretto. E confessò, che l’italo valore nel braccio di MARINO era maggiore. Dalla sua man rotato un era il ferro, e pur pareano cento. Grandinava il momento diluvio di percosse inaspettato, e stracciavano il velo mille baleni in un baleno al Cielo. Chi vide allor, da meraviglia avvinto, osò chiamarlo un Briareo non finto. Non librò colpo a voto, né le piaghe dall’onde andar divise. Egli solo recise stami vie più, che non tagliò mai Cloto. Di caldo sangue tinti rese que’ lidi, e popolò d’estinti. Un idume piantò su quelle strade, e superò nel battagliar l’etade.

2.4 Delle Poesie Meliche parte terza Il terzo libro, nelle intenzioni dell’autore, avrebbe dovuto chiudere l’esperienza delle Meliche, in quanto il progetto, come abbiamo visto in precedenza, prevedeva un canzoniere tripartito, sul modello (oltre che tassiano) forse delle Tre Grazie di Antonio Bruni92. Anche questa terza raccolta sembrerebbe avere al proprio interno una struttura tripartita: una prima parte di 214 sonetti, seguita da un’ode Di penitenza, che fa da spartiacque tra questa prima sezione e la seconda parte, ovvero L’Esamerone, sette sonetti sulla

92

A. Bruni, Le tre Grazie. Rime del Bruni, Roma, Ingrillani, 1630.

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creazione del mondo modellati sul racconto biblico del libro della Genesi. La terza e ultima parte è composta da due madrigali e da quattro componimenti lunghi (due odi e due epicedi), ed è chiusa dal Proemio delle Poesie Auletiche, un sonetto che di fatto doveva essere il «FINE DELLE POESIE MELICHE». Per quanto riguarda una possibile suddivisione tematica delle rime, vale quanto detto per i due canzonieri precedenti, cioè che la disposizione delle liriche all’interno della raccolta ci sembra alquanto casuale anche se, in questa, la scansione tematica nella sistemazione dei componimenti è sicuramente più evidente che nelle opere passate. L’incipit è una dedica in prosa ancora al principe Francesco Marino Caracciolo, impegnato in quel tempo al fianco della Corona di Spagna su diversi fronti bellici tra cui, come abbiamo visto nel capitolo precedente, quello della guerra di Candia (combattuta dagli Spagnoli al fianco dei Veneziani contro i Turchi). Il primo componimento è una canonica invocazione alla divinità affinché lo sostenga nella creazione delle sue rime. I primi venti testi mostrano una totale discontinuità di temi: a prevalere è però il filone storico-mitologico con vicende attinte dalla storia romana ed ebraica. Anche l’esperienza gnomica è molto importante per il nostro autore: egli è forse il massimo interprete (insieme a Ciro di Pers) di quello che è uno dei motivi principali della poesia tardo barocca: la morte. Ma Battista è anche uno spirito inquieto, figlio del suo tempo; ce lo conferma il suo testo forse più conosciuto e apprezzato, il settimo sonetto di questa raccolta Il Caos. Stato primordiale da cui tutto ha origine, il Caos è anche l’emblema della civiltà barocca, esposta dalle sue conquiste in campo scientifico ad una indefinitezza di spazi vasti e minacciosi, una tela appena abbozzata dell’incessante divenire dell’umanità verso quell’uomo moderno del Seicento, in cui tutto è ancora in potenza ma nulla in atto: 7. Il Caos 93 Macchina mal composta, a cui non porse beltà la forma, onde ogni cosa è bella, e dove de’ contrari a far concorse il popolo guerrier pugna rubella. Era terra, era mar, né mai si scorse in questo errar le navi, i plaustri in quella. Era aria, et era cielo, e mai non corse in quell’aria, in quel Ciel, turbine e stella. 93

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G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Terza, cit., p. 7.

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Una tavola forse allor parea, dove man di Natura avea dipinto di tutte cose un’abbozzata idea. Era nell’esser suo mondo indistinto, che nel diforme seno Amor chiudea, donde il mondo confuso uscì distinto.

Un tema caro alla seconda generazione di poeti barocchi è anche quello del passare incessante del tempo, che tutto logora e precipita nel nulla. D’altro canto, anche la parallela produzione nel campo delle arti figurative assume gli stessi connotati, la misurazione del tempo diventa un soggetto ricorrente per artisti e pittori secenteschi e anche un monito morale (di impronta cattolica) a disprezzare ciò che è mutevole in favore dell’infinito che attende l’umanità oltre l’esperienza della vita terrena. In questo terzo canzoniere sono diversi i componimenti in cui il Battista affronta questi argomenti. Eccone alcuni esempi: 15. Una serpe è indice dell’ore nel pubblico oriuolo della sua patria 94 Qui l’ore un’angue addita. E qui spiegato più d’un mistero un intelletto esplora. Se in mezzo a questa sfera imprigionato si mostra il Tempo, è serpe il Tempo ancora. O simboleggia a noi, che ratto è dato più che ’l corso alla serpe, il corso all’ora. O, se gli angui tranguggia angue cristato, tutte le nostre età l’Età divora. O forse, che ’l tenor di nostra sorte corre ineguale, o porti pianto o riso, come le vie dell’angue appaion torte. O di pensar la morte è un muto avviso, che fu portata un tempo anco la morte dall’astuzie d’un angue in Paradiso. 16. Umana condizione 95 Sciolto l’uom dalle fasce all’età molle tutti rallenta i semplicetti errori

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Ivi, p. 15. Ivi, p. 16.

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si fabrica di canne i corridori, e case rusticane alza di zolle. Giovane poi, ferventi ha le midolle per veduta beltà d’insani ardori e più maturo, a mendicar d’onori vane sublimità gonfio s’estolle. Assalito alla fin dalla vecchiezza, quanto gli manca età, cresce desio d’accumular, né sa per cui, ricchezza. Così l’eternità posta in oblio, tutta la vita a’ suoi diletti avvezza, e non riserba un sol momento a Dio. 36. Donna invecchiata spezza lo specchio 96 Cada il cristallo giù pezzi minuti, perché, qual oggi io so, esser non voglio e conforti rifiuta il mio cordoglio, che non so richiamar gli anni perduti. Della prisca beltà miro caduti i simulacri. E dell’antico orgoglio vergogna or mieto, e pentimento accoglio priva di tributari e di tributi. Così dicea chi fu già bella. E intanto lo specchio mal veduto a piè si spezza, alle sue furie accompagnando il pianto. Ma tosto biasimò la sua sciochezza, che diviso in due parti il vetro infranto geminata mostrò la sua bruttezza. 39. Fu in tempo di Primavera fulminato un oriuolo a ruote 97 Già scioglieva del Sole il caldo lume al serpente et al fiume il seno algente il fiume rassembrava un gran serpente, e ’l serpente pareva un picciol fiume. Quando di folte nubi atro volume dell’etra mascherò l’orbe lucente, e sul dorso degli Austri impaziente agitò le tempeste il maggior Nume.

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Ivi, p. 36. Ivi, p. 39.

«Che faci eterne alla mia gloria ho acceso». Giuseppe Battista e le Poesie Meliche

Lanciò le sue saette il Ciel spezzato su la rocca dell’ore, e le saette più d’un cerchio spezzar, ch’era dentato. Ma son fausti presagi e non vendette d’irato Dio. Che chi del Tempo alato le rote infrange, eternità promette. 47. Cava moralità dal tempo autunnale 98 Già caduche le ghiande ha la foresta, e chiama a pasturar l’irto cinghiale. L’ulivo, che vivaci ha sempre l’ale, de’ succhi suoi larga vendemmia appresta. Ecco il rustico piè l’uva calpesta, che pendulo su gli olmi ebbe il natale, e, mentre piove il torchio ostro vitale, ne gorgoglia tra i laghi aurea tempesta. Il pomo, che degli orti è re nel regno, le mense ingombra, e, se dal sole è domo, sotto scorza vermiglia ha molle ingegno. Ma sì bella stagion rammenti all’uomo, che, se gli porge un pomo oggi sostegno, anco la morte sua nacque da un pomo. 135. Laide fatta vecchia presenta lo specchio a Venere 99 Dell’altera beltà poiché vegg’io gli edifici di pria fatte ruine, a te, Dea degli Amori, il vetro mio sopra solenne altar consacro al fine. Più d’un saggio d’Atene ebbe desio di vagheggiar queste animate brine, e rimase abbagliata et Argo e Chio, se svolazzò delle mie chiome un crine. Ora fatta difforme io sembro a cui vaga un tempo sembrava, e non più sono le mie fattezze idolatrie d’altrui. L’adulator cristallo io t’offro in dono, che mirarmi non posso oggi, qual fui, che mirarmi non voglio oggi, qual sono.

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Ivi, p. 47. Ivi, p. 135.

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138. In biasimo della Primavera 100 Accorciato sia l’anno. Et, o stagioni, Primavera non più con voi portate: dal fuoco suo le densa nubi armate dan luce a i lampi e dan la voce a i tuoni. Ella schiude a i vapor l’atre prigioni dal sen più cupo a far le scosse alate, che dalle furie in sul meriggio alzate chiamano il mondo a scelerati agoni. Se della rosa in sul vermiglio ammanto ella dipinge il riso, ancor cadente dagli occhi della vite io miro il pianto. A consolare, a sbigottir la gente sul Sole suo, che sospirato è tanto, se garrisce un augel, fischia un serpente. 171. Per un oriuolo a Sole 101 Se distinto in più parti il giorno suole correr su questa pietra infin che more, con censura non più s’appelli il Sole il gran pianeta, che distingue l’ore. È saetta quel ferro e senza errore stampa nel nostro sen piaga, che duole. O penna, che d’un marmo in sul candore la brevità del tempo adombrar vuole. Qui della nostra età miro un ritratto, perché se l’ombra qui non dura assai, anco la nostra età sen fugge ratto. Qui co’ pennelli suoi, che sono i rai, a nostro danno il Sole, Apelle ei fatto, senza linea non passa un giorno mai. 176. Umana condizione. Al Sig. Giuseppe Campanile 102 Ogni giorno si more. Ogni momento porzione di vita al nulla cade. Et altro non mi par la nostra etade, ch’un continuo viaggio al monumento.

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Ivi, p. 138. Ivi, p. 171. 102 Ivi, p. 176. 101

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Sembran fiati vitali e pur son vento del nostro respirar l’aure più rade, e d’una culla in su le prime strade cominciamo vivendo un morir lento. Il principio di morte a noi prescrive il nascer nostro. E della morte l’ore ci menano di vita in su le rive. Deh, lasciamo una volta il nostro errore! Quando morir pensiamo, allor si vive, quando viver crediamo, allor si more.

Scorrendo il canzoniere, si segnala un’interessante serie di sonetti consecutivi sulla figura dell’imperatore Nerone, considerato nel Seicento come il tiranno per antonomasia, simbolo della corruzione morale che regna nelle corti. Nerone, imperatore depravato, al quale si contrappone Seneca, campione di rettitudine e saggio consigliere: due personaggi agli antipodi che ritornano spesso nella letteratura secentesca (sulla scorta di un modello mariniano), soprattutto nelle cantate barocche di Antonio Cesti, Giovanni Filippo Apolloni e Alessandro Stradella, autore del Seneca svenato. 25. Seneca a Nerone 103 Ben intendi, o Neron, che non si paga maestro mai con guiderdone eguale, e pur decreti a me pena mortale, ch’è delle mie dottrine ingiusta paga. Per le vene aprirò più di una piaga, onde piova di sangue un mar vitale, et uscendo col sangue, ergerà l’ale al Ciel, ch’è degli eroi, l’anima vaga. Tagli la tua fierezza e la mia sorte, tagli delle due parti il vivo nodo, che, s’una resta intera, io moro forte. E tra gli affanni miei non poco i’ godo, che tu non detti al viver mio la morte, s’io non [sic, il non sarà da espungere] preferivo alla mia morte il modo. 26. Per Nerone che uccide la madre 104 Per eternar le sue fierezze ardite lo re, che chiude in seno alma ferina, 103 104

Ivi, p. 25. Ivi, p. 26.

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poiché allo Stigio Dio sacrò più vite, vittima scelerata offre Agrippina. Grandina un braccio sol mille ferite, e per mille ferite una reina, mentre erutta lo spirto in man di Dite, lastrica del suo sangue ara Latina. Di cicute ei non vuol dubbio veleno, ma, per licenziar colpo sicuro, tragge da spada rea tuono e baleno. Tenta così quel parricida impuro, se temprato di ferro è l’empio seno, che produsse alla luce uomo sì duro. 27. Per Nerone che canta nella scena 105 Già di Domizio all’impudica mano divenuto lo scettro è peso indegno. I cardini serrando egli di Giano, de’ suoi trofei l’anfiteatro è degno. Tratta in vece di scettro un cavo legno, e sveglia il cavo legno a suon, ch’è vano. Crede emular chi trasse al mesto regno, per rubarne Euridice, il piè profano. Di musiche armonie publico agone infame acclama e la più folta arena promulga infame il cantator Nerone. A ragion su l’orchestra i giorni mena, e vuol esser cantando un istrione, lo re degenerato in re da scena. 28. Ritratto di Nerone in cera 106 Ebbe un’alma di ferro, e pur scolpito è di tenera cera il re Romano, quei, che fu della madre ancor marito, e ’l sangue trasse al gran sofista Ispano. Per dar sembianza al simulacro strano, mammole non rubò l’ape romito, ma forse gli prestò succo profano cicuta amara, e pallido aconito.

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Ivi, p. 27. Ivi, p. 28.

«Che faci eterne alla mia gloria ho acceso». Giuseppe Battista e le Poesie Meliche

Capriccio fu dello ’ngegnoso autore di palesarlo altrui molle, qual era, alle prove impurissime d’amore. Ma quando ei destinò la patria altera di fameliche fiamme al vivo ardore, allor l’empio doveva esser di cera.

Proseguendo lungo questo canzoniere, troviamo un’ampia sezione legata all’epica e alla storia greco-romana (più esattamente i componimenti dal n. 48 al n. 66). Nell’ambito di questa sezione, ho scelto quattro sonetti che costituiscono un esempio di rilettura di alcuni celebri passi della letteratura latina. I titoli delle liriche sono costituiti da citazioni in latino, estrapolate dalle Satire di Persio, dall’Ars Amatoria di Ovidio, dal De bello civili di Lucano e dalle Egloghe di Virgilio: 50. Magister artis, ingeniique largitor venter (Pers.) 107 Batte le selci, e delle selci algenti cerca del fuoco i semi entro le vene, per misura degli atomi correnti inceppa vetri et imprigiona arene; Musici fa ne’ cavi piombi i venti, e le belve istrioni in su le scene, s’arma di sillogismi, e di stormenti, perché Roma guerreggi, e parli Atene. Ne’ solchi d’una mano alte ruine semina. E sa, che sotto al nostro polo fila gli anni d’un re, d’un astro il crine; mira di Febo in poche linee il volo per iscorta d’un’ombra. Et alla fine maestro di mille arti è un ventre solo. 51. Amor odit inertes (Ovid.) 108 Fatto Leandro a sé nave nocchiero non paventa di Teti i flutti irati, di Noto sprezza, e d’Aquilone i fiati, perché giunga alla fine in grembo ad Ero. Della sua Iole a i cenni Alcide altero tratta di Lidie lane i fusi armati. 107 108

Ivi, p. 50. Ivi, p. 51.

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E per Cerere morde i freni aurati l’umido re del mar, fatto destriero. Di Lipari lo Dio co’ Bronti ignudi le faretre martella e lima i dardi a Citerea su le tonanti incudi. Chi per idoli suoi bramò duo sguardi, pigro non sia, se vuol goder ma sudi, che la scola d’Amor non vuol codardi. 52. Paupertas fugitur (Lucan.) 109 Oggi vizio non è, s’altri a Giunone et allo Dio delle Camene invola perché tributi ambiziosa gola, le delizie d’un cigno e d’un pavone. Altri vanta goder, nuovo Titone, nel sen di bella Aurora, e non già sola vassi di Taide alla profana scola in preferenza d’un Bruto, e d’un Catone. Questi vende, e non ha chi lo rampogna, mentre ne’ fori strepitosi ei rugge, più che la verità, la sua menzogna. Le dovizie d’altrui quegli distrugge, né de’ furti, ch’ei fa, prende vergogna solo quaggiù la povertà si fugge. 53. Non omnia possumus omnes (Virgil.) 110 Ecco Numa, ch’è pio Remo guerriero, s’è pittor Polignoto, è fabro Epeo. E rivolto mai sempre hanno il pensiero Entello al cesto et alla lotta Anteo. Tratta Alcide la clava e l’arpa Orfeo, Ettore è capitano e Pari arciero. Se pastore è Menalca e Melibeo, storico è Livio et è poeta Omero. Lacera Tifi al mar l’ondoso dorso, le viscere disserra Osiri al suolo, e Messapo i corsieri adatta al morso. Tenta Leandro il noto, Icaro il volo, e Niso impenna i piè veloci al corso. Non può tutte le cose un uomo solo. 109 110

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Ivi, p. 52. Ivi, p. 53.

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I componimenti dal 122 al 136 rappresentano una lunga sezione di poesia amorosa, che ha per tema l’amore infelice che genera sofferenze; vengono proposti exempla desunti dall’antichità mitologica (Dalila e Sansone, Giove e Giunone), ma anche da leggende popolari napoletane. Meritevoli d’attenzione per il gusto tipicamente barocco del particolare bizzarro i due sonetti che ritraggono un’amante innamorata di un uomo con la parrucca: nella finzione letteraria nel primo sonetto è il poeta a schernire e ammonire la donna per la chioma dell’amato, mentre nel secondo è la stessa fanciulla a rispondere al poeta: 133. A bella donna che ama cavaliere con la zazzera posticcia 111 Dunque d’amar non prendi, o Bela, a schivo chi va bellezze a mendicar da’ morti. E tu di ritrovar te stessa esorti dentro avanzi d’estinti un ardor vivo. Se adori un crin, che d’ogni vita è privo, dichiari esaminati i tuoi conforti. E mostrar vuoi, s’idolatrie tu porti a i furti delle tombe, amor furtivo. D’adulterio di chiome ori incostanti sanno adularti, e ’l mio desir contento rendon di molle elettro inganni erranti. Se quelle fila allo spirar più lento sono esposte degli Euri, un dì volanti sen porterà le tue speranze il vento. 134. Si risponde 112 S’amo colui, che con industrie nuove di capelli non suoi veste la fronte, anco le piume a’ cigni involò Giove, Giove lo Dio, che saettò Fetonte. Non siano altrui le meraviglie or pronte, s’ad amar finta chioma il Ciel mi move, che il tempo ad ogni crin prodigo d’onte neve di canutezza ivi non piove. Se in grembo a qualche Dalila ripone reliquia sì pregiata, e fia rapita, non perderà le forze il mio Sansone. 111 112

Ivi, p. 133. Ivi, p. 134.

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E, se l’arresterà quercia crinita, nelle fughe talor fatto Assalone, sol perderà la chioma e non la vita.

Entrambe le liriche sono ricche di preziosismi: la «zazzera finta» diventa metafora del furto, dell’inganno, della finzione; al poeta censore che aveva accusato la donna di essere innamorata di qualcosa di caduco, di transeunte come la finta gloria, con arguzie risponde la fanciulla, scomodando «biblici calvi illustri», come Sansone e Assalonne. Un altro blocco compatto presente in questa terza raccolta è quello dei sonetti scritti in villa (dal n. 201 al n. 207). Battista si scopre, ormai in età matura, poeta bucolico: il soggiorno nelle dimore campestri del Principe d’Avellino fu veramente piacevole per il nostro autore, tanto che questa parte della raccolta rappresenta un’eccezione rispetto al pessimismo ampiamente profuso nelle pagine precedenti. Un momento felice sul piano personale, ma anche un interessante sviluppo stilistico che connette queste composizioni, con le loro pacate descrizioni bucoliche, a un incipiente gusto prearcadico: 201. Dimora in villa 113 Se mi dan libertà poggi romiti, qui pallide armonie più non fatico. Siami, per celebrar Catoni, o Titi, con le sorelle sue Febo nimico. Con braccio agricoltor sovente implico a tralci pampanosi olmi mariti, et inni intanto al Dio dell’uve io dico, perché l’uve dispensi alle mie viti. Poi del sol mattutino al biondo lampo, perché folti ha la terra i verdi crini, sudo co’ rastri a pettinare il campo. I Greci inchiostri, i calami Latini, dispergo e spezzo. E, se mi negan scampo, lascio a i Livi le prose, i carmi a i Lini. 202. Mentre dimora in villa 114 Voi carte, penne voi, datemi pace, che già miro nevosi i miei capelli.

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Ivi, p. 201. Ivi, p. 202.

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Un riposo villano oggi a me piace, userò zappe e tratterò rastrelli. Darò spirto crescente agli arbuscelli, ch’hanno agli arbitrii miei ramo seguace, e qui tolti godranno a destra audace la patria gli api e la città gli augelli. Non amo più l’idolatrie d’un ciglio, e, mentre del servaggio il giogo io scuoto, la sospirata libertà ripiglio. Non più di scettri adorator divoto, cerco fuor della reggia a i boschi esiglio, che ben vive colui, che vive ignoto. 203. Esercizi di villa 115 Per far delle mie vegghie il mondo erede non più sovra le carte il torchio geme, ma su i grappoli biondi ebbro risiede, e la porpora calda a Bacco preme. Son già villano. E per le cime streme degli olmi Clio vendemmiator mi vede; indi degli ostri, onde le viti ho sceme, entro ne’ laghi ad inquinarmi il piede. D’un esercito poi d’agnelle intatte son capitano, a cui dal fiocco molle poiché mieto le nevi, emungo il latte. Son dichiarato re da’ miei bifolchi, se, stracciando col vomere le zolle, non saprò mai prevaricar ne’ solchi. 204. Dà contezza del suo stato. Al P. Angelico Aprosio Vintimiglia 116 Angelico, son vivo e la mia vita altro non sembra a me ch’ombra di morte, né difforme sarà tanto la morte, quanto è difforme agli occhi miei la vita. Tutti i danni, che reca a noi la vita, son danni lunghi et han per fin la morte. I danni almen, che porge a noi la morte, durano poco, e san portar la vita.

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Ivi, p. 203. Ivi, p. 204.

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Perch’io pregi la vita, ami la morte, tento seguir quanto ha di ben la vita, penso fuggir quanto ha di mal la morte. Ma tra i molti martir, ch’ ho dalla vita, tra l’assiduo timor, ch’ho della morte, non vo’ morir, né so goder la vita. 205. Vive contento in villa 117 D’api dorate è qui grappolo folto, ch’abita d’una quercia ermo pedale, dove dal suon di rauco rame accolto vigila al canto e sonnacchiose ha l’ale. Colà di canne fluttuanti ascolto su le sponde d’un rio bosco vocale, il cui fischiar, che fu dall’aure sciolto, diede alle melodie rozzo natale. In mezzo ho la capanna e mi contento narrar qui fole al pastorel montano, che da me pende ad ascoltarle intento. E schiuda pure il suo delubro Giano, ch’io godo pace. E nulla angoscia io sento ch’a me porpore nieghi il Vaticano. 206. Adacqua alcune piante 118 Or, che ’l Ciel non ha Sole, e l’ombre ei mena figlie dell’orto mio, piante bevete, questa d’acque fontane urna ripiena, che spargo a voi per medicar la sete. Le chiome palpitanti in alto ergete, per far contra di luglio umida scena? Perché giudici voi talor farete al rauco suon d’una silvestra avena. Poi se molle Favonio al canto mio l’arguzie sposerà de’ rami vostri, darò col sonno alle mie cure oblio. E, se regnar non posso ove desio, farò vassalli infra selvosi chiostri popoli vegetanti alla mia Clio.

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Ivi, p. 205. Ivi, p. 206.

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207. Scherza in villa con un becco 119 Padre della mia greggia, Irco lanuto, ch’albero di duo rami innalzi in fronte mira, che ’l tuo rivale in su quel monte mostra, per cozzar teco, esser venuto. Vanne a scontrarlo e con ardir non muto offri di contrastar le forze pronte. Pugna e ferisci e con sanguigne impronte fa, ch’io lo vegga a’ piedi tuoi caduto. Io farò poscia all’armi tue lunate d’amaranto immortal serto sovrano, e porterai le lane ancor dorate. Un monil sarà tuo. Qui di mano queste lettre portò: tutti onorate delle turme belanti il capitano.

Vorrei chiudere l’analisi di questo canzoniere con uno degli intermezzi forse più originali di tutta la produzione lirica secentesca: L’Esamerone. Il testo è preceduto da tre liriche (due sonetti e un’ode) Di penitenza 120 che avvicinano il lettore alla sacralità dell’evento che sta per essere narrato, ovvero, la creazione del mondo. Ogni sonetto narra uno dei sei giorni in cui si svolge la vicenda biblica descritta nel libro della Genesi. Al primo giorno della narrazione del Vecchio Testamento sono però dedicati due componimenti, sicché L’Esamerone risulta composto di sette sonetti. Che sia una sezione interna, ma ben separata e distinta dagli altri componimenti, è segnalato da un occhiello del canzoniere che ne segnala il titolo; alla conclusione invece si legge: «IL FINE DELL’ESAMERONE». A ispirare i versi del poeta salentino, probabilmente, oltre al racconto biblico, furono i due Esameroni più famosi, quelli di San Basilio Magno e di Sant’Ambrogio121, tipici del periodo dell’istituzionalizzazione dottrinale della Chiesa, anche se il testo ci appare debitore soprattutto de Il mondo creato del Tasso. Non è escluso che il Battista conoscesse anche i poemi sacri di Felice Passero (Essamerone, 1608) e di Gaspare Murtola (La creazione del mondo, 1608). Propongo qui la lettura integrale del testo122 del nostro poeta:

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Ivi, p. 207. Ivi, p. 215. 121 Cfr. San Basilio, Sulla Genesi. Omelie sull’Esamerone, Milano, Mondadori, 1990 e Sant’Ambrogio, Esamerone-Ambrogio, Roma, Città Nuova, 2002. 122 L’intero testo dell’Esamerone qui pubblicato si legge in G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Terza, cit., p. 219-29. 120

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L’ESAMERONE. La creazione, da molti filosofanti mal conosciuta, non potendo eglino persuadersi che dal nulla si cavi qualche cosa, avanza per avventura l’umano intelletto, il quale arriva solamente a vedere quel facimento che soppone materia. E così propria di Dio, che Dio medesimo non può comunicarla alle creature, giusta la dottrina tomistica. Siamo obligati alla penna di Mosè, che l’ha insegnato alle nostre scuole e le ha dato principio di tempo, escludendola dall’eterno aristotelico. Si compiacque Dio per tal azione, come nobilissima e al modo del Suo operare convenevole, di dar l’essere all’Universo liberamente, non per necessità di natura. Impercioché essendo Egli infinitamente perfetto e ritrovando nella essenza Sua ogni bene, non ha bisogno di cosa esterna, dalla quale accatti felicità. La bellezza della macchina ha di maniera lusingato gl’investigatori, che non pochi han faticato di scriverla a tutto sforzo. Io applicai l’animo a narrarla compendiosamente in alcuni sonetti, e con la scorta delle opinioni più probabili de’ Padri a manifestar il senso germano della storia sacra. Se la sentenza della mia locuzione parrà alquanto oscura a chi non ha dalle scienze illuminato lo intendimento, non debbo esser accusato colpevole. La fante di Seneca diceva che il palazzo dove abitava il padrone era pur troppo oscuro, a tempo che ella era cieca. L’amico del Mureto riggittava il vizio della propia sordaggine alla voce di chi favellava. Ascoltisi Cecilio iureconsulto come serrò le labbra a Favorino filosofo: «Obscuritates non assignemus culpae scribentium, sed inscitiae non assequentium». Al Signor Francesco Dentice, Cavalier dell’abito di San Giacomo. Giuseppe Battista. Il libretto, che presento a V. S., è un mondo. Né punto Ella si meravigli, quando anche il Mondo è un libro, dove si legge la divina onnipotenza. Né perché è di carta, è fragile; anzi perché è di carta, ha tempera immarcescibile. Ha ricevuto l’essere dalle parole, come dalle parole ebbe l’esistenza quest’altro mondo. Se Dio produsse il suo dal nulla, anche dal nulla esce il mio. E se per delinear questa copia, ho avuto l’esemplare, anche Dio ebbe nella sua mente l’idea, perché non operò inconsideratamente. Avvi questo sol divario, che Dio approvò il suo, d’approvar il mio non tocca a me. Converrà a V.S., la quale per la cognizione che ha dalla poetica facultà, e delle discipline migliori può farne agevolmente giudicio. Le bacio la mano. 216. In principio creavit Deus Caelum et Terram, etc. Pria ch’avesse dal nulla, ove giacea, quanto è lassù, quanto è quaggiù produtto non mai dentro lo spazio Iddio sedea, dalle immagini umane a Lui costrutto. Ma in se stesso abitava il Re del tutto, che magione più degna Ei non avea, e da nobile fine all’opre indutto meditava dell’opre un’alta idea.

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Anzi che giunga il Tempo agli orienti fabrica il Cielo, il di cui tetto acceso ha di tempra immortai raggi splendenti. Indi, perché abbia l’uomo il moto illeso, adegua della terra i pavimenti, fatta sostegno a se medesma e peso. 217. Il primo giorno Già mentre l’acqua in su la terra ondeggia, dal diafano suo nasce la luce, che senza Sole il primo dì conduce, e ne’ torbidi rai sorda lampeggia. Appena gli orienti ella passeggia, di se medesma e peregrina e duce, che le mute caligini riduce dell’atra notte ad abitar la reggia. Così non solo dell’abisso ondoso, ma dell’arida mole il vasto aspetto senza maschera tetra è luminoso. Palpita lo splendor bambino e schietto fuori delle cagioni, ov’era ascoso, privo d’appoggio, e gli fu padre un detto. 218. Il secondo giorno Dentro l’onde serene il firmamento di cristalli canuti è fabricato. Divide l’onde, e dell’ondoso argento umido porta il crine, il piè bagnato. Pullula nelle fiamme il fuoco alato, che per gli ardori suoi sdegna alimento. Entra nel voto, e dalle nubi è ombrato l’aere non mai, ch’è la città del vento. Benedicono Dio flutti canori del Ciel rotato in su le curve moli, reciprocando i liquefatti errori. E forse l’acqua ha lastricato i poli, perché l’amenità de’ suoi colori a i Beati lassù l’occhio consoli. 219. Il terzo giorno Aduna il Facitor l’onda spumosa, che fatta salsa è nominata il mare.

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E nella siccità ridente appare la terra, che poc’anzi era nascosa. Questa ha sen di metalli e fronte erbosa, vedova pur della virtù solare. spuntano le cicute, e sono amare, e con le spine sue nasce la rosa. E benché comandò, che sian distinte la terra e l’acqua il Creator superno, pur fanno un globo e sono insieme avvinte. Et oggi, perché sia carcere eterno alle squadre del Ciel, che cadder vinte, per tormento immortal cava l’Inferno. 220. Il quarto giorno Et ecco il Sol, ma non di raggi adorno, et ecco orba di raggi ancor la Luna. Ma la luce, che giva al Ciel d’intorno tutta dispersa, in amendue s’aduna. È lampa il biondo Sol del bianco giorno, et arde a dissipar l’ombra più bruna. E, curvando la Luna il doppio corno, lampa è minor quando la notte imbruna. Delle tenebre ancor stracciano il velo gli astri focosi, e con ardor non fioco spezzan le fiamme lor l’acqua del Cielo. Da Dio legati ad abitare un loco, è molto il foco e non dilegua il gelo, è molto il gelo e non ammorza il foco. 221. Il quinto giorno Figliano il pesce i più salati umori, cui di squame difende aspro volume, e col seno argentato entro le spume mutolo solca i mormoranti errori. De’ gorghi fluttuanti uscito fuori ammantato l’augello appar di piume. Ara l’aria co’ vanni, e al novo lume apre del novo Sol rostri canori. Hanno tra loro affinità sembiante. Che se ’l pesce talor l’aria passeggia, fende l’augello ancor l’onda spumante. Né more il pesce entro l’algosa reggia, che tale è l’acqua al peregrin guizzante, qual è pur l’aria alla pennuta greggia.

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«Che faci eterne alla mia gloria ho acceso». Giuseppe Battista e le Poesie Meliche

222. Il sesto giorno «Produca», disse Dio, «l’ampio terreno, s’ei vivente non è, corpi viventi. non gli rendano solo il dorso ameno col vermiglio del fior l’erbe ridenti». Subito a voce tal mirasi pieno di mansueti e di feroci armenti; e, strascinando il fluttuante seno, vibran lingua trisulca anco i serpenti. Se già vanta del mar la gran magione orca e balena: anco la Terra addita smisurato elefante, alto dragone. E, perché goda l’uom l’opra finita, di poco fango Dio l’uomo compone, e poi gli spira in un sospir la vita.

2.5 Delle Poesie Meliche parte quarta Il progetto delle Meliche si chiude (almeno per quel che riguarda l’autore, altri compileranno il quinto libro) con la quarte parte pubblicata dal Battista nel 1664. Bisogna subito dire che questo è il canzoniere più corposo del grottagliese, e raccoglie 264 componimenti. La raccolta sviluppa una prima vasta sezione di sonetti (253), seguita da una parte epigrammatica (liriche dalla n. 254 alla n. 258), ed è chiusa da sei componimenti lunghi (odi ed epicedi) dal n. 259 al 264. A parte questa prima suddivisione metrica, la quarta silloge si presenta senza vistose partizioni, all’insegna di un certo disordine strutturale riguardo alla sistemazione tematica dei componimenti al proprio interno. L’apertura è anche qui riservata a una dedica al Principe Francesco Marino Caracciolo, che illustra fondamentalmente le ragioni della pubblicazione di questo quarto libro. Il Battista dice di essere stato «violentato» da un Genio a compiere quest’ultima fatica e, sebbene le Meliche dovessero essere tante quante le Grazie, molti hanno opinione che le Grazie non siano nel numero di tre bensì di quattro e che Suadela, ovvero la dea, figlia di Venere, della Persuasione vada inclusa tra esse. Il sonetto proemiale è quanto mai questa volta indicativo del “programma” riservato ai lettori; il titolo Detesto l’uso di cantare amori profani potrebbe essere il titolo dell’intera raccolta, in quanto le liriche amorose, sebbene presenti, assumeranno come oggetto gli amori più sofferti della mitologia e

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della storia: eroine virtuose suicide come Didone e Saffo, oppure sante in controriformistico atteggiamento di estasi amorosa nei confronti della divinità. La raccolta è idealmente dedicata a Bruto e Catone, campioni di rettitudine morale e di sdegnoso rifiuto di ogni tirannia, oltre che filosofi morali: 1. Detesto l’uso di cantare amori profani 123 Già la vergine Clio traligna in Frine, et Elicona è trasformato in Gnido. Per dar gloria alle Laure ed all’Alcine, tutelare de’ Vati oggi è Cupido. Della garrula dea racconta il grido pudiche più l’idolatrie latine, mentre parlano ancor sul rauco lido del maestro d’amor le spume Eusine. Lungi con Ero sua Leandro sia, e sia lungi Medea col suo Giasone da’ fogli che prepara a me Talia. Legga i numeri miei Bruto e Catone, e patria mia, più che la patria mia, la Repubblica sua faccia Platone.

Scorrendo il canzoniere ci si trova subito immersi in un’atmosfera di religiosa austerità e di serenità filosofica: possiamo quasi definire questa quarta parte come il libro della vecchiaia del poeta, che si prepara ad affrontare gli ultimi anni della sua esistenza, esercitando soprattutto la sua funzione clericale, ricordando all’umanità le sue inutili (ai fini redentivi) vanità, e, per quanto lo riguarda personalmente, rimanendo lontano dall’alterigia che gli deriva dalla fama letteraria, e preparando un catartico mea culpa di penitenza finale, come avremo poi modo di vedere. Segnaliamo, non tanto perché abbiano importanza ai fini strutturali (come abbiamo, detto la raccolta è abbastanza disordinata nella successione delle liriche), alcuni componimenti esemplificativi sul versante stilistico e contenutistico del nuovo “clima” che pervade questa silloge. Alludo in particolare alle liriche sul crocifisso, il simbolo della religione cristiana, qui reso in maniera umanamente più concreta, come un gioiello che infonde virtù, o come guida e misura dello scorrere del tempo:

123

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G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Quarta, cit., p. 1.

«Che faci eterne alla mia gloria ho acceso». Giuseppe Battista e le Poesie Meliche

4. Ho un crocifisso d’oro 124 Sviscerate i Pangei, destre rapaci, per dar quiete agli appetiti avari; itene a travagliar l’Ebro de’ Traci, e sudate a varcar del Norte i mari. Con assidue battaglie a’ Parti audaci vadano i Crassi a profanar gli erari; e turbando agli estinti ancor le paci, aprano altrui le sepolture i Dari. Io che pensier migliore in petto ascondo, né del figlio d’Anchise il ramo imploro, né ricerco di Frisso il vello biondo; ma godo in un altare il mio tesoro, dove all’anima mia, Danae del mondo, il Giove suo s’è trasformato in oro. 31. Ho un crocifisso, ch’ha sotto i piè un orologio 125 Girate, o rote, e nel girare alterno fate del Tempo alato a me pur fede, ché posto il Tempo alato ha sotto il piede, e delude i suoi danni, il Giove eterno. O forse vuol mostrarmi il Re superno che Fortuna nel mondo egli risiede, ché mentre è su la rota, a lui si diede delle cose rotate alto governo; O s’alle voci sue sordo pur sono, quand’ei lusinga a penitenza il core, io d’un bronzo loquace intenda il suono; o vuolmi dir ch’al più difforme errore, nelle prontezze a dispensar perdono, lo Dio che riverisco è di tutt’ore. 83. Ho un crocifisso d’oro 126 Da’ suoi rami pendente ha il mio Fattore, che s’è cangiato in oro, arbor pesante. qui se pallido il miro, Ei fatto è amante, ch’è proprio degli amanti aver pallore.

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Ivi, p. 4. Ivi, p. 31. 126 Ivi, p. 83. 125

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Se può ne’ petti altrui tenero amore destar con aureo dardo arcier volante mentre è fatto tutt’oro un Dio penante, assai più deve innamorare un core. Chi brama di trovar ricco tesoro, calchi di Cristo mio l’inclite scorte, ché la croce di Cristo è croce d’oro. Per condurmi del Cielo in su le porte, mentre sa che ricchezze io sempre imploro, s’Ei fu povero in vita, è ricco in morte.

Il poeta insiste spesso in questa raccolta sul mito di Fetonte, modello perfetto della superbia umana, il giovane che credeva di guidare il Sole non può nel suo fallimento che divenire paradigma per quanti, superbi reggitori degli umani destini, vogliano andare oltre le proprie possibilità: 198. Cava moralità dalla caduta di Fetonte 127 Quella progenie d’alni or vegetante dell’Eridano padre in su la fronte, è famiglia del Sol, che piange l’onte di chi mal governò biga volante. Fra l’indomito ardor di ciel fumante precipitar qui vide il suo Fetonte, a cui fece dell’acque in mezzo al fronte liquido mausoleo lo Dio tonante. Ei che fu sbandeggiato in su l’Anfriso, poi che stende a’ suoi raggi ombroso velo, lagrima sospirante il figlio ucciso. Lagrimi pur l’auriga il re di Delo, di ferrugine tetra in trono assiso, che lagrimar si dee chi lascia il Cielo. 206. Cavo moralità dalla caduta di Fetonte. Al Sig. Principe d’Avellino 128 Fatto auriga Fetonte, al Dio ch’è biondo ha virtù d’usurpar l’aureo timone. Scuote i flagelli in su l’Eoo balcone per farsi un Dio di cielo un uom di mondo.

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Ivi, p. 198. Ivi, p. 206.

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Ma gli assi igniti al non usato pondo col compagno Piroo sconvolge Etone. Lascia il trito sentiero, e ’l bel garzone dall’etra cade, e va d’un fiume al fondo. Di vampe fluttuose ampi torrenti strascina seco, allor che giù discende, per portar su la Terra incendi ardenti. Per Fetonte, Francesco, un re s’intende, che torcendo dal dritto i reggimenti di fiamme rovinose il tutto accende. 231. Cavo Moralità dalla favola di Fetonte 129 Regge al carro del dì gli assi fulgenti il superbo figliuol d’Ipperione, e non pensa che ’l Ciel sempre dispone figli della superbia i pentimenti. Della mano imperita a’ reggimenti esser disdegna ubbidiente Etone, e lasciando in non cale il suo timone lascia ad arbitrio insano i passi ardenti. Fetonte, cui ferì tuono opportuno, s’all’audacia il poter non ebbe ei pari, cade nel Po per lo sentier di Giuno. Questa favola Ascrea pur troppo chiari sensi nasconde, e sono tali: «Ognuno a misurar le proprie forze impari».

L’ultima parte del canzoniere prima della sezione epigrammatica è interamente di argomento autobiografico: i sonetti dal 232 al 253, infatti, costituiscono una sezione omogenea per temi letterari e filosofici, che riguardano da vicino le vicende di vita quotidiana del nostro autore. Dalle «dimore in villa» il grottagliese desume assunti di poetica, spera fama durevole dall’esercizio letterario, e nel contempo dichiara chiusa la sua esperienza di poeta. Il suo pensiero è rivolto soltanto a Dio, auspica solo di poter vivere lontano dal mondo, in perfetta osservanza dei precetti senechiani. Segnaliamo da questa sezione due sonetti, i numeri 252 e 253; nel primo il Battista afferma il suo proposito di non scrivere più liriche, mentre il secondo è una giustificazione (risolta con un motto arguto nel distico finale) alla mancata pubblicazione delle Poesie Auletiche, ovvero il canzoniere bucolico 129

Ivi, p. 231.

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che il poeta aveva promesso alla fine della terza parte delle Meliche e mai realizzato130: 252. Finisco di scriver poesie 131 Dedalo fugge, e da maestro ingegno d’una fuga sicura impetra i vanni, se tra carte lo ’nceppa, a filar gli anni, del re Cretense il provocato sdegno. Di carbasi volanti armato legno non di Teti così calca gl’inganni, com’ei, d’un Sol ridendo i rai tiranni, lacera di Giunone il voto regno. Viaggio, ch’a’ mortali è divietato, termina in Cuma, e sopra altar di zelo offre l’ali fautrici al Dio chiomato. Et io dell’armonia l’immenso cielo poiché con questa penna ho navigato, questa penna consacro al Dio di Delo. 253. Scusa di non aver publicate le Poesie Auletiche 132 Avea di lauro arguto in Ippocrene la mia lira pendente erto pedale, perch’io cantar pensava a suon d’avene il gran pastor d’Anfriso e la gran Pale. Forse poteano udir l’aure Tirrene la mia cicuta a quella d’Azio eguale, e sapeva portar dal Viminale il Melibeo di Maro in queste arene. Degli Argolici Atridi alle battaglie io mugghiar non faceva il rame atroce, e lasciava ad Anneo le sue Farsaglie. Un’ecloga io dicea, quando veloce calpestando le vie delle boscaglie, mi vide un lupo, e mi rubò la voce. 130

Ecco cosa lo stampatore nell’ultima pagina del libro scrive, a quei che voglion leggere: «Nell’ultimo sonetto scusa giocosamente l’Autore di non aver dato in luce le Poesie auletiche. Ma s’è la sua scusa da scherzo, io ratifico da dovero la promessa fattavi e quanto prima farò uscirle dal torchio. Riserbo anche presso di me un fascio di componimenti epidittici, co’ quali diversi illustri ingegni d’Italia ha voluto onorarlo [...]» in G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Quarta, cit., p. 308. 131 Ivi, p. 252. 132 Ivi, p. 253.

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2.5 Delle Poesie Meliche parte quinta Il quinto e conclusivo libro delle Meliche non fu assemblato da Battista, bensì dall’amico del poeta Giovan Francesco Bonomi (1626-1705) che ne scrisse la prefazione «a chi leggerà». Il letterato bolognese si curò di ordinare alcune liriche che il poeta grottagliese non aveva voluto affidare alla stampa, dal momento che aveva dichiarato conclusa la sua esperienza poetica dopo la stampa della quarta parte delle Meliche o degli Epicedi eroici. Battista colse però l’offerta dell’amico, e gli inviò sedici odi affinché il libro avesse maggiore consistenza in pagine: infatti questo “piccolo” canzoniere raccoglie 88 sonetti consecutivi e appunto sedici odi, ed è chiuso da «ESPRESSIONI AFFETTUOSE D’AMICI ERUDITI», cioè componimenti, seri e scherzosi, in volgare e in latino scritti in onore del nostro autore. Sebbene molto breve, quest’ultima antologia presenta degli spunti narrativi interessanti: innanzi tutto è doveroso dire che anche qui, come nella raccolta precedente, non troviamo alcuna partizione specifica: le liriche si susseguono senza nessun ordine tematico e raramente sono consequenziali. Tuttavia il canzoniere si apre con il canonico sonetto proemiale di invocazione alle Muse, che è in qualche modo una specie di testamento della e alla poesia del nostro autore: 1. Proemio 133 Volger da Pindo il piè sovente io bramo, e poi di Pindo in su le cime ascendo. Se di lauri talora un ramo attendo, talor di lauri io non attendo un ramo. Perché cantar non vo’, furor non amo, e poscia di furor la mente attendo. Mi chiamano le Muse e non le intendo, non m’intendon le Muse et io le chiamo. Tempero ad armonie sacro stormento, per trar da tomba i più marciti eroi, poi d’averlo temprato ho pentimento. Voglio lasciarvi e non lasciarvi poi sante figlie di Giove. E s’è gran tormento vivere senza voi, viver con voi.

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G. Battista, Delle Poesie Meliche. Parte Quinta, cit., p. 1.

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A essere trattato in quest’ultima silloge è soprattutto il filone gnomico; il vecchio poeta diventa sempre più insistente nei consigli morali: bersaglio della sua critica ai costumi sono un po’ tutti i nobili, accusati di accumulare ricchezze e di mal governare: tutti tranne uno, l’amico mecenate Francesco Marino Caracciolo, di cui anche quest’ultima fatica contiene un sonetto. Il principe è gravemente ammalato, sente che la fine è vicina e invoca preghiere alla Divina Bontà per la salvezza dell’anima: al caro amico protettore, allievo e amico risponde solennemente il Battista: 59. Mentre il Sig. Principe d’Avellino è gravemente ammalato, così mi scrive 134 Battista, io moro. Ecco che ’l volto imita ipocratiche forme a’ miei pallori. Sento del sangue ingelidir gli ardori, et abbandona il palpitar la vita. Imploro or qui dalla Bontà Infinità grazie efficaci a scancellar gli errori. E, per fuggir di Pluto i rei furori, d’alzarmi al Cielo il Ciel darammi aita. Né sbandeggiar vo della cetra il riso, benché il mio fil vital miri con pianto fra gli atomi del Mondo alfin reciso. Perché spogliando il mio terreno ammanto, su gli spazi del Ciel fermerò assiso inni di gloria al mio fattor col canto. 60. Io così gli rispondo 135 Dipinture di morte il volto imita è ver, qualora spande egri pallori, e d’una febre agli ostinati ardori corre nel nulla suo la nostra vita. Ma, perché fido alla Bontà Infinita, gli aforismi di Coo saranno errori. Di mortifero mal saprà i furori quai nebbie fugar celeste aita. Francesco, s’io son vate, aula di riso sarà questa, che sembra aula di pianto, che ’l tuo stame vital non sia reciso. 134 135

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Ivi, p. 69. Ivi, p. 70.

«Che faci eterne alla mia gloria ho acceso». Giuseppe Battista e le Poesie Meliche

Et io trarrò dal suo purpureo ammanto la mesta lira, e sul Sebeto assiso darò le grazie al Redentor col canto.

Quando nel 1670 il Battista consegnò le sedici odi al Bonomi perché fossero inserite in questa raccolta, probabilmente sentiva vicina anche la sua stessa fine (in realtà il poeta vivrà per altri cinque anni). Le ultime odi sono tutte di argomento morale; basta leggerne soltanto i titoli per dedurne il contenuto: Che non dee attendersi alla poesia, Che niun si contenta della sua condizione, Che l’uomo dee contentarsi del suo stato, Si biasimano le ricchezze, Che le guerre son dannose anche a’ vincitori, Che non deono desiderarsi le ricchezze, Che da’ virtuosi non dee temersi la morte, Che deono fuggirsi le corti, Che la virtù eccessiva nuoce a chi la possiede, Che non dee l’uomo uscir dalla patria, Elezione di stato rustico, Che deono abbracciarsi le fatiche, Che deono tenersi a vile i Macedoni, La solitudine, Le meraviglie dell’acqua, Che le cose mondane han vicende caduche. Suggeriamo la lettura dell’ode che chiude questo canzoniere, ma anche l’intero disegno delle Poesie Meliche. Ci siamo divertiti a sezionare quasi chirurgicamente la maggiore fatica letteraria del Battista, abbiamo scovato partizioni più o meno evidenti cercando impianti narrativi e strutturali di un’opera che abbraccia circa quarant’anni di poesia, seguendone un’evoluzione formale oltre che stilistica. Ci rendiamo conto alla fine che un disegno strutturale c’è, che all’interno dei canzonieri le liriche, sebbene disposte non sempre in un ordine tematico, seguono invece una logica consequenzialità che spazia dagli «ardori» epico-mitologici della gioventù alle severe riflessioni morali della «senettute». Con il Battista siamo passati da forme filo-tassiane e mariniste a qualcosa di assolutamente nuovo e affatto conservatore allo stesso tempo. L’autore salentino, nel fluire della nostra storia letteraria, si trova nel momento dell’“esplosione” di un genere, quello dei canzonieri, che consuma con i cosiddetti poeti marinisti tutte le sue possibilità, diventando nei primi decenni del secolo decimosettimo “enciclopedia del poetabile”, e assumendo nel nostro poeta una forma di estrema divisione e parcellizzazione, in un disegno unitario che affiora e si percepisce soltanto alla fine. Le Poesie Meliche del Battista sono la storia della moralità di un umanesimo cambiato e stravolto da nuove idee filosofiche, dallo sviluppo tecnologico e da nuove concezioni letterarie e artistiche, che consegneranno alla fine di questo secolo un uomo nuovo, finalmente moderno. Battista è un moralista, ma non di grana grossa, come una lettura superficiale potrebbe portare a pensare: è una strana figura austera, a volte estremamente rigida, ma uomo prima che censore. Dei peccati imputati all’umanità, egli è spesso il primo peccatore a chiedere scusa e a

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tentare di emendarsi: anche in questo il nostro autore è figura conservatrice, ma già estremamente moderna: 104. Che le cose mondane han vicende caduche. Al Padre Francesco Maria da Fossombrone Cappuccino 136 Da spruzzaglie di latte abbia il crine smaltato, e sovra stelo di smeraldi s’innalzi il fior di Giuno; che da nembo importuno sarà reciso, e da maligno gelo le superbie odorose avrà disfatte. L’amaranto combatte le villanie del Tempo, e pur la sorte vuol ch’egli giunga ad agonie di morte. Quercia di Giove amica, che sembra, ancorché sola, un bosco folto di Tessalico monte in su le spalle, ad ingombrar la valle morta cadrà, s’a’ danni suoi rivolto ha famelico dente, età nimica. Se tra le nubi intrica chiome piramidali, anco depresso fia da lustri voraci Ideo cipresso. La sua vita frondosa Libano cedro esser prolissa ammira, e di secca vecchiezza e’ ride il Verno. Ma talor sarà scherno di Scitico Aquilone, o forse all’ira cederà di bipenne ingiuriosa. La sua tempera annosa lunga, quando è mortal, vantar non deve; ch’ogni cosa ch’ha fine, è cosa breve. Stracci l’antica spoglia angue voluminoso, e vestir pensi di nuova gioventù vigori ardenti; di secoli correnti passi cornice infausta i fini immensi, e perpetui presagi all’aure scioglia; che del Fato alla soglia, dove ciascuno inciampa e ciascun langue, lascia i palpiti suoi cornice et angue. 136

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Ivi, p. 211.

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Gitti gli anni marciti in mezzo all’acque, e le sia culla un fonte, l’augel che porge l’armi al Dio maggiore. De’ fulmini al fragore svolazzi audace, e del fattor ch’è Bronte rida l’incude et i martelli arditi. Se scansa i globi igniti d’una destra tonante, e serba gli anni, sente poi della fame i lenti inganni. Tagliò montagne alpine Arabo ferro, et alla Faria gente per innalzar più tombe i sassi offerse. Menfi gli ori converse negli edifici insani, e pur del dente furo del Vecchio edace alte rapine precipitate al fine, se torreggiar per ispavento al Polo, miragli il Nilo a far pietroso il suolo. Non più la torre altera, mole de’ Tolomei, le vie del mare tra ciechi scogli a’ naviganti addita. Alla nave smarrita scorta fedel non più la face appare con rai di luce ad illustrar la sera. Sempre la notte è nera, ammorzato il fanale, a Tifi accorto, perché lido ei non vegga e giunga a porto. Dove sono le mura dell’Assiria città, cui bagna Eufrate, e per altrui stupor le rocche erette? Caddero pur soggette al dominio de gli anni, e son calcate da bruto armento a mendicar pastura. L’Efesia architettura, che per sacra magione ebbe Diana, oggi di belve atroci è cupa tana. Dalle fortune estreme Caria non ha lontani i Mausolei, argomenti d’amor, sforzi dell’arte. Sono reliquie sparte i colossi rizzati a’ Giovi Elei, e de’ suoi bronzi infranti anco il Sol geme. Medo bifolco preme

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i palagi di Ciro, e van gli aratri dove Roma dispose i suoi teatri. Talor rustica mano abbandonò la marra e ’l brando cinse, pigliò lo scettro e diè riposo al brando. Poi fortuna cangiando, braccio dominator la marra strinse, costretto a rifiutar scettro sovrano. Sovra crine villano il diadema d’un re corre e lampeggia, e ’l tugurio talor diventa reggia. Cadono demolite città superbe, e spaziosi regni perdono ancor con la potenza il nome. Sul piano infrante some serbano, che già furo, appena i segni, se lor fanno sepolcro erbe romite. Ohimè, sono meschite oggi erette a Macon dal fiero Trace i templi un tempo sacri al Dio verace. Ahi, qual Musa dolente mi chiama il fato a deplorar di Creta, che città grandi in picciol seno accolse? Empia Erinni sconvolse le sue grandezze, e dal furor del Geta sconfitta amò la combattuta gente. Abideno torrente le rocche urtò con replicate offese, e ludibrio del piè giaccion distese. Dell’Adria la reina con la destra s’oppose e col consiglio più lustri all’armi Edonie, al Marte Scita. Trasse gli ori e la vita da gli erari e dal petto a più d’un figlio, per far riparo alla fatal ruina. Mostrò virtù Latina alle squadre Pangee. Ma s’è pur una, ceder conviene a quanto vuol Fortuna. Le Cretensi donzelle vanno al fine in Bizanzio, ove Sultane riscalderanno al Sir dell’Asia i letti. Riti un tempo negletti uopo sarà ch’approvi, e le profane

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leggi del rio profeta, il volgo imbelle. E saran le più belle di servitù più brutta esposte all’onte, che non ha l’età mia le Ciprie Oronte.

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Caterina Brandoli LE STAGIONI POETICHE DI LORENZO CASABURI URRIES

1. L’autore del canzoniere: Lorenzo Casaburi Urries. Tracce biografiche Ricostruire il profilo biografico di Lorenzo Casaburi Urries è, allo stato attuale degli studi, molto difficile, vista la scarsità di notizie di cui si dispone. Dal cognome si evince che fu di famiglia, per parte di madre (come si vedrà), oriunda spagnola; non si conosce la data di nascita né quella di morte. Sfogliando le antologie barocche si ottengono risultati quasi nulli: Giovanni Getto lo registra come «napoletano», ricordando che «le sue poesie, raccolte sotto il titolo di Le quattro stagioni, apparvero a Napoli nel 1669»1 e che fu «più banale», rispetto alla «squisita raffinatezza» del fratello Pietro2; Giuseppe Guido Ferrero annota: «napoletano, è menzionato dal Toppi che lo elogia come “ingegnosissimo poeta”, ma nulla dice della sua vita»3, né informazioni ulteriori si trovano nelle pubblicazioni più recenti, come ad esempio quella a cura di Segre-Ossola4.

1

I Marinisti, a cura di G. Getto, in Opere scelte di G.B. Marino e dei Marinisti, Torino, Utet, 1954, vol. II, p. 85. 2 Ivi, p. 72. 3 Marino e i Marinisti, a cura di G.G. Ferrero, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, p. 1053. Il Ferrero cita un elenco di repertori biobibliografici regionali e locali del Seicento-Settecento da lui consultati (cfr. p. 635), tra cui il qui menzionato N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli, Antonio Bulifon, all’Insegna delle Sirene, 1678. In C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Bologna, Forni, 1967 (Napoli, 1844), p. 46 troviamo le medesime notizie senza accenni al fratello Pietro: «Urries (Lorenzo Casaburi), nacque a Napoli e si estinse come poeta. Di lui abbiamo: Le quattro stagioni, Napoli, 1669, in 12°». 4 Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre e C. Ossola, II. QuattrocentoSettecento, Torino, Einaudi-Gallimard, 1998. Le medesime indicazioni riassunte da S. Ni-

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Non soccorrono molto nemmeno i riferimenti rintracciabili nei suoi componimenti, così poveri di elementi autobiografici, se non per i richiami ai suoi familiari, e soprattutto al fratello Pietro, anch’egli napoletano, autore di un canzoniere, Le sirene 5, e di una raccolta di elegie dal titolo Le saette di Cupido (Napoli, 1685). Mi pare dunque utile, in carenza di prove extratestuali, considerare quelle che ci può fornire la parola poetica dell’opera. Indichiamo, in forma di elenco, i nomi dei familiari citati (spesso nel titolo che precede i singoli testi) 6, ponendo a destra la sigla del testo di riferimento e il titolo corrispondente, in modo da renderne immediata l’individuazione all’interno della raccolta7: 1. il fratello Pietro (poeta che a sua volta dedicherà componimenti a Lorenzo nel suo canzoniere): Pv. 24-25 Dimorando D. Pietro Casaburi, mio fratello in Posilipo, m’invita quivi a cantar col sonetto seguente – Rispondo; Pv. 82 Al Signor D. Pietro Casaburi, mio fratello. Rimprovero a Nice la di lei crudeltà; Est. 17 Al Sig. D. Pietro Casaburi mio fratello; Est. 66 Al Sig. D. Pietro Casaburi, mio fratello; Prop. Risp. 11-12 Lo stesso D. Girolamo Albertino dirizza il seguente sonetto a me, et al Sig. D. Pietro Casaburi, mio fratello – Rispondo; Prop. Risp. 33-34 Del Sig. D. Pietro Casaburi, mio fratello – Rispondo; Prop. Risp. 35-36 Del medesimo Signor D. Pietro Casaburi, mio fratello – Rispondo; gro, ad v. Casaburi Urries, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1978, vol. 21. 5 Il canzoniere è diviso in quattro Concerti, i primi tre usciti a Napoli nel 1677, il quarto nel 1685, oggi leggibile nell’edizione moderna: Pietro Casaburi Urries, Le sirene, testo e note a cura di D. Chiodo et al., Introduzione di G. Bàrberi Squarotti, Torino, Res, 1996. 6 Osserviamo che alcuni componimenti de Le quattro stagioni recano una titolazione mista, aggiungendo al titolo (di norma breve), le vere e proprie occasioni esterne con l’indicazione del destinatario (ad es. Primavera 57 A Begli occhi neri. A richiesta del Sig. D. Giuseppe Mastrilli Gomez; Primavera 79 Al Signor D. Pietro Casaburi, mio fratello. Rimprovero a Nice la di lei crudeltà), probabile residuo delle più occasionali e sistematiche dichiarazioni, che precedevano il sonetto prima dell’introduzione dell’intitolazione breve da parte di Battista Guarini nei madrigali presenti nelle sue Rime del 1598: si veda il saggio di A. Martini, Le nuove forme del canzoniere, in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del barocco, Atti del convegno di Lecce 23-26 ottobre 2000, Roma, Salerno, 2002, pp. 199-226. 7 Da ora in avanti per indicare le quattro parti in cui è divisa la raccolta si adotteranno le seguenti abbreviazioni: Pv. per Primavera, Est. per Estate, Aut. per Autunno, Inv. per Inverno, Prop. Risp. per l’ultima sezione dedicata ai componimenti di corrispondenza. Infine C.f sta per [Componimenti finali] titolo convenzionale da me introdotto per raccogliere il componimento in quartine Del Sig. D. Antonio Muscettola e la canzone Del Sig. D. Girolamo Albertino che chiudono l’intera opera. La trascrizione dell’intero canzoniere, a mia cura, sarà leggibile nella banca dati on line della Biblioteca italiana: www.bibliotecaitaliana.it.

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2. il fratello Michele, capitano al servizio del vicerè spagnolo: Inv. 34 Essendo io stato chiamato ad un convito. A D. Michele Casaburi, mio fratello; 3. il fratello Antonio: Aut. 13 O amici, amicus nemo. Arist. Al Sig. D. Antonio Casaburi, mio fratello; Aut. 56 Al Sig. D. Antonio Casaburi, mio fratello, che m’affretta a dare alle stampe le mie poesie; 4. il padre Fulvio Casaburi, probabilmente esperto di astronomia («Chi dominò col suo saper le stelle, / or delle stelle è sottoposto all’onte») 8: Est. 63 Al Sig. Fulvio Casaburi, mio padre; Inv. 15 Alla Santissima Vergine. Per una grave infermità del Sig. Fulvio Casaburi, mio padre; 5. la sorella Maria, menzionata in occasione della sua morte: Inv. 2 In morte di D. Maria Casaburi, mia sorella; 6. la madre Margarita Urries (da cui si evince che l’origine della famiglia è ispanica da parte di madre): Inv. 3 L’argomento stesso. Consolo la Sig. D. Margarita Urries, mia madre (il poeta conforta la madre per la morte della sorella Maria); Inv. 16 Alla Santissima Vergine. Per una grave infermità della Sig. D. Margarita Urries, mia madre; 7. il suo avo di parte materna Pietro Urries, autore di opere latine e auditore generale delle milizie del regno di Napoli, una delle massime magistrature militari: Est. 31 Per un ritratto del Sig. D. Pietro Urries auditor generale dell’essercito nel Regno di Napoli, mio avo; 8. lo zio Gaspare de Simeonibus, vescovo della provincia salernitana di Campagna (prima di Giovanni Caramuel Lobkowicz per il quale vedi Est. 15 All’Illustriss. Sig. D. Giovanni Caramuele, vescovo di Campagna e Est. 34 All’Illustriss. Sig. Giovanni Caramuele, vescovo di Satriano, e di Campagna. Per la sua «Metametrica»), teologo e poeta barocco autore di De concepta deipara oratio. Habita Romae ad praesules sodalitii in aedibus D. Pauli ad columnam, anno 1626, Romae, 1635 (contenente due epigrammi, uno in lingua latina di Girolamo Aleandro, e l’altro in lingua greca di Leone Allacci), orazione celebrata in Est. 79 Per una orazione, «De concepta Deipara», di Monsignor Gasparo de Simeonibus, mio zio, vescovo di Campagna, e segretario de’ brevi de’ prencipi della Santità di Papa Innocenzio X 9.

8

Si veda, Inv. 15 Alla Santissima Vergine. Per una grave infermità del Sig. Fulvio Casaburi, mio padre, vv. 7-8. 9 Ne fanno menzione anche altri poeti come Antonio Bruni nelle Veneri, Proposte e Risposte, Al Sig. Gasparo de Simeonibus Per una oratione di S. Gio. Batt. da Monsignor Rossi dell’Ordine Carmelitano, Vescovo di Minervino, recitata nella Cappella Pontificia e nelle Tre Grazie (Roma, 1630): Al Sig. Gasparo de Simeonibus; per la sua Oratione in lode di S. Gregorio Magno, detta nell’Accademia de’ Signori Umoristi; e un sonetto dello stesso con risposta del Bruni: Del Sig. Gasparo de Simeonibus. Loda l’autore dell’essercitar feli-

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Accanto ai rapporti con i familiari, da alcuni componimenti (molti dei quali si concentrano nella parte più encomiastica delle rime, l’Estate. Suggetti eroici e, come è ovvio, nella sezione finale di corrispondenza Proposte e Risposte) emergono anche le relazioni che Lorenzo intratteneva con alcuni intellettuali napoletani dell’epoca. Ne ho raccolto una sintetica lista10: 1. Gentile Albertino, principe di Sanseverino e di Cimitino, nobile della famiglia Albertini di Nola, Taranto, Napoli, poeta e dedicatario dell’opera11: Dell’Illustrissimo, et eccellentissimo Signore D. Gentile Albertino principe di Sanseverino, etc.; Pv. 2 Dedicazione delle Quattro Stagioni all’Eccellenza del Sig. Principe di Sanseverino D. Gentile Albertino; Pv. 27 Amante alla sua D. ch’egli non lascerà d’amarla, benché non habbia speranza di godimento. A richiesta dell’Eccell. Sig. Principe di Sanseverino D. Gentile Albertino; Pv. 70 All’Illustrissimo et Eccellentissimo Sig. D. Gentile Albertino, Principe di Sanseverino, e Signor di Cimitino; Pv. 71 Mi risponde l’Eccellenza del Sig. Principe di Sanseverino; Est. 9 Nella nascita del Sig. D. Nicolò Maria Albertino, figliolo dell’Eccellentissimo Sig. Principe di Sanseverino D. Gentile Albertino; Est. 22 Commendo l’Eccellenza del Sig. Principe di Sanseverino D. Gentile Albertino; Est. 45 Esorto alla guerra di Candia il Signor D. Girolamo Albertino, primogenito dell’Eccellentiss. Sig. Principe di Sanseverino; Inv. 8 Al Signor Principe di Sanseverino, et al Sign. D. Girolamo Albertino. In morte del Signor D. Giulio Albertino; 2. Giuseppe Campanile (? – Napoli 1674), poeta napoletano, accademico umorista e ozioso, autore di diverse opere tra cui una raccolta di Poesie liriche (Napoli, 1666 e 1674). Nella sua opera in prosa, Prose varie, divise in funzioni accademiche mandate al Sig. D. Francesco Carafa Principe di Belvedere (Napoli, 1666), il Campanile, dedica la seconda sezione ai Dialoghi morali ai Sign. D. Pietro e D. Lorenzo Casaburo, suoi amici, da cui si deduce che con ogni probabilità questi letterati si incontravano negli stessi circoli culturali della Napoli tardo-barocca. Sappiamo che il Campanile frequentò assiduamente l’Accademia degli Oziosi e i salotti cittadini, presso i quali lesse

cemente la poesia tra gli affari della corte (cito dalla trascrizione di Emanuela Puce preparata per la Biblioteca italiana). Alcuni membri della famiglia (come Michele, Fulvio e Margarita) vengono ricordati anche nelle Sirene del fratello Pietro. 10 Come nella lista precedente, accanto al nome del letterato, indico la sigla del sonetto corrispondente e il titolo. 11 Indice biografico italiano, a cura di T. Nappo, K.G. Saur, München, 2002, vol. I (AB), ad v. Albertini, Albertini Gentile; vedi anche C. Minieri Riccio, Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori napoletani fioriti nel sec. XVII, per C. Minieri Riccio, Milano, Hoepli, 1875-1877, I, p. 22; p. 231.

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molte orazioni che poi confluirono appunto nelle Prose varie; pare che la sua intenzione fosse «non la ricerca di valori letterari e la ricognizione di casi moralmente esemplari, ma piuttosto di denigrare con la satira, con la pubblica esposizione di episodi grotteschi, personaggi che le sue allusioni dovevano rendere facilmente riconoscibili ai rissosi pettegoli dei salotti napoletani del tempo: col risultato di compiacere alcuni […] ma d’altra parte facendosi sin dai suoi esordi letterari vaste ed irrimediabili inimicizie»12; Est. 44 Al Sig. Giuseppe Campanile; Aut. 68 Al Signor Giuseppe Campanile. Detesto l’uso de’ lisci d’alcune donne, e esorto Nice a fuggirli; Prop. Risp. 19-20 Del Sig. Giuseppe Campanile – Rispondo; 3. Pietro Casaburi Urries, suo fratello, poeta, autore della raccolta di poesie Le sirene e de Le saette di Cupido di cui ho già parlato sopra; 4. Camillo de Notariis, letterato, autore del poema Flavio Costantino il Grande, overo la pietà vittoriosa (Napoli, 1677); scrisse A chi legge, uno dei paratesti che precedono Le quattro stagioni: Est. 33 Al Sig. D. Camillo de’ Notariis. Per lo suo «Costantino», poema eroico; Est. 74 Al Sig. Camillo de Notariis; Aut. 67 Al Signor Don Camillo De Notariis. Detesto il soverchio culto de’ capegli di taluni del mio secolo; Prop. Risp. 3-4 Del Sig. D. Camillo de Notariis – Rispondo; 5. Giuseppe Domenichi (Fapane Giuseppe Domenico), poeta, autore di cinque libri di epigrammi dal titolo Castaliae stillulae ducentae […] Hoc est epigrammaton Iosephi Domenichi Phapanis, a Cupertino (ogni libro uscito singolarmente a Lecce tra il 1654-1667): Prop. Risp. 21-22 Del Sig. D. Giuseppe Domenichi – Rispondo alludendo a’ libri de’ suoi epigrammi intitolati, Stillulae Castaliae; 6. Federico Meninni (Gravina 1636 – ?), autore de Il ritratto del sonetto e della canzone (Napoli, 1677) e delle Poesie (Napoli, 1669) 13: Est. 30 Al Sig. Federigo Meninni; Est. 69 Al Sig. Federigo Meninni; Prop. Risp. 5-6 Del Sig. Federigo Meninni – Rispondo; 7. Antonio Muscettola (Napoli 1628-1679), autore di una raccolta di Poesie (la prima parte uscì nel 1661, la seconda nel 1669 e la terza postuma nel 1691), di una tragedia, La Belisa (Napoli, 1664) e di una favola drammatica, La Rosalinda (Venezia, 1661), di un volume di Epistole famigliari in

12 G. De Caro, ad v. Campanile Giuseppe, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1974, vol. 17. 13 I Marinisti, a cura di G. Getto, cit., p. 85; de Il ritratto del sonetto e della canzone è oggi diponibile un’edizione moderna: Federico Meninni, Il ritratto del sonetto e della canzone, a cura di C. Carminati, Lecce, Argo, 2002, 2 voll.

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versi (Napoli, 1678) e di uno di Prose (Piacenza, 1665) 14: Pv. 83 Al Signor D. Antonio Muscettola. Amante bellissima, e famosissima cantatrice, che parte da Napoli per andare a Roma; Est. 19 Al Sig. D. Antonio Muscettola; Est. 42 Al Sig. D. Antonio Muscettola. Per la sua «Belisa», tragedia; C. f. 1 Del Sig. D. Antonio Muscettola; 8. Baldassarre Pisani (Napoli 1650-?), autore di una prima raccolta di Poesie liriche (Napoli 1669, ristampata a Venezia nel 1676, accresciuta e rinnovata) e di una seconda parte (Napoli 1685); compose e rappresentò anche tre melodrammi (L’Arsinda d’Egitto, il Disperato innocente e l’Adamiro), pubblicati a Napoli nel 1681 15: Est. 54 Al Sig. Baldassarre Pisani; Prop. Risp. 1-2 Del Sig. Baldassarre Pisani – Rispondo; 9. Giuseppe Valletta (Napoli 1636-1714), noto erudito e filosofo napoletano, fu uno dei fondatori dell’Accademia degli Investiganti16: Prop. Risp. 2728 Del Sig. Giuseppe Valletta – Rispondo. Questi dati mostrano l’entità degli scambi che avvenivano tra gli eruditi dell’epoca, in particolare nel decennio 1660-1670, caratterizzato dalla forte crescita delle edizioni di opere liriche (se si scorrono le antologie del Croce, del Getto e del Ferrero, si noterà che un gran numero di opere escono proprio intorno al 1669, anno di edizione de Le quattro stagioni)17 e dalla presenza di nuovi autori, attivi dopo le tragiche vicende storiche della rivolta popolare terminata con le gesta di Masaniello (1647-1648), che lasciarono le loro profonde tracce negli anni successivi. Il Regno di Napoli infatti si assestò via via su una sorta di equilibrio che ne segnò l’arretramento politico ed economico; il

14

I Marinisti, a cura di G. Getto, cit., pp. 83-84. Ivi, p. 85. 16 Sul Valletta vedi: V.I. Comparato, Giuseppe Valletta e le sue opere, Napoli, Società Italiana di Storia Patria, 1963 e, dello stesso autore, Giuseppe Valletta: un intellettuale napoletano della fine del Seicento, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1970. 17 Lirici marinisti, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1910; I Marinisti, a cura di G. Getto, cit.; Marino e i Marinisti, a cura di G.G. Ferrero, cit. Ad es. nel 1669 apparvero a Napoli le Poesie liriche di Vincenzo Zito per cura del figlio Mario; nel 1669 uscì la seconda parte delle Poesie di Antonio Muscettola; tra il 1669 e il 1670 uscirono in cinque parti le Poesie meliche di Giuseppe Battista; tra il 1658 e il 1679 uscì in tre parti l’Enciclopedia poetica di Giuseppe Artale; nel 1667 vennero pubblicate la prima e la seconda parte delle Poesie di Giovanni Canale; sempre nel 1669 uscirono a Napoli le Poesie di Federico Meninni; nello stesso anno a Napoli Baldassarre Pisani pubblicò una prima raccolta di Poesie liriche; pochi anni più tardi, nel 1671 uscì a Napoli L’arpa poetica di Tommaso Gaudiosi e la prima parte delle Poesie di Giovanni Giacomo Lavagna, napoletano della famiglia genovese dei conti di Lavagna. 15

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consolidamento definitivo delle gerarchie feudali vecchie e nuove favorì la crescita e lo sviluppo del clima letterario barocco, «tarda protrazione di situazioni ormai superate, almeno altrove»18. A tal proposito è certo utile ricordare quali furono le direzioni che la letteratura in ambito partenopeo assunse negli anni in cui fu attivo Lorenzo Casaburi. Con la morte di Girolamo Fontanella nel 1644, si aprì una nuova stagione poetica, di cui fu protagonista il protetto di Giambattista Manso19, Giuseppe Battista, che (come emerge chiaramente dal saggio che precede questo) diede impulso ad una concezione della poesia come esercizio e prodotto esclusivamente riservato ai dotti, in cui l’espressione culta e ornata diventa un segno di riconoscimento e di appartenenza ad una cerchia ristretta. Il Battista rappresentò un punto di riferimento importante per molti poeti come Antonio Muscettola, Giuseppe Artale, Giovanni Canale, Federico Meninni, Baldassarre Pisani e i due fratelli Casaburi, Lorenzo e Pietro, che ne furono i migliori imitatori20. La sua proposta poetica partiva innanzitutto da una completa educazione umanistica, che gli fornì la materia per i suoi componimenti: soggetti per lo più storici e mitologici utilizzati con finalità morali: frammenti sfilati da testi antichi e moderni costituiscono la filigrana attorno a cui si animano prosopopee, simili a monologhi teatrali, di personaggi del mito e della storia antica, in mosse gallerie di exempla. Gli eccessi dei tiranni antichi esprimono in Giuseppe Battista, in Antonio Muscettola, in Pietro Casaburi Urries […] una polemica contro il principe, a cui si affianca l’esaltazione delle virtù di eroi della Roma repubblicana, l’invettiva contro un potere che non consente un libero e fruttuoso esercizio delle lettere […] 21.

Il suo stile, e quello dei poeti della sua generazione, si contraddistingue per l’arditezza e l’oscurità dell’espressione, a tratti risulta drammatico e cupo, soprattutto nelle sezioni eroiche e sacre: 18

A. Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 315. 19 Non si dimentichi che, alla morte del Manso nel 1645, quasi contemporanea a quella di altri illustri accademici oziosi come Francesco de Petris e Luigi Vincenzo di Capua, si registra una sospensione delle pratiche accademiche che riprenderanno successivamente, dando inizio a una fase nuova e notevolmente diversa della vita del sodalizio (per queste vicende dell’accademia: G. de Miranda, Una quiete operosa. Forma e pratiche dell’Accademia napoletana degli Oziosi 1611-1645, Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 2000, in partic. pp. 76-81). 20 Per questi poeti si parla di «Seicento metafisico e concettoso» nell’Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre e C. Ossola, cit. 21 Ivi, p. 948.

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La Weltanschaung di questi lirici barocchi insiste su una visione della vita fragile e fugace, sulla presenza continua del tempo distruttore e veloce, sull’ossessione lugubre della morte […]. La morte è intuita come una nemica, una sorgente di spavento e di tristezza. La voce cupa e tagliente dei predicatori contemporanei sembra riecheggiare nell’interpretazione di questi poeti sì da determinarvi effetti di stupenda suggestione oratoria e di assorta e rabbrividente meditazione22.

Il linguaggio iperbolico, ingegnoso, carico di intensità e tendente sempre più alla sintesi figurativa, mostra il progressivo abbandono di quella «fastosa superficialità […], di quella morbida, sfumata, compiaciuta vaghezza idillica»23 tipiche del marinismo. La produzione poetica si paralizza in un clima di autoreferenzialità, in cui pochi “spiriti eletti” esercitano il loro ingegno in un vero e proprio trobar clus: metafore sempre più ricercate, moltiplicazione dell’estetica della pluralità24, recupero della copiosa letteratura degli emblemi e delle imprese, allusioni erudite ed enigmi disseminati che spetta al lettore – necessariamente colto – dover sciogliere; infine ampia valorizzazione della forma epigrammatica del sonetto a fronte di un diminuito interesse per le forme meliche e popolari, come quelle del madrigale, che aveva avuto grande successo nella stagione del marinismo. Tali sono, in estrema sintesi, i caratteri più vistosi del clima letterario in cui si muovono i due fratelli Urries. In questa ultima fase del barocco la componente classicistica si combina e viene assorbita dal concettismo, dialoga e si intreccia con esso, spesso non mitigandolo e moderandolo, bensì «impennandolo in strepitose invenzioni verbali […] toni di eroica eloquenza»25. Dopo questa, a mio avviso necessaria, anche se sintetica, premessa di carattere storico culturale, mi pare importante ritornare alle – poche – tracce biografiche che emergono dalle rime del Casaburi. È utile, a tal proposito, soffermarsi in particolare sul rapporto, non solo familiare, ma anche letterario esistente tra Lorenzo e il fratello Pietro26, che si riflette nelle numerose consonanze tra le rispettive raccolte. Si considerino a tal fine i sonetti di corrispondenza tra i due fratelli, presenti ne Le quattro stagioni e ne Le

22

I Marinisti, a cura di G. Getto, cit., p. 62, p. 66. G. Cerboni Baiardi, Storia e struttura della prima lirica mariniana, in «Studi secenteschi», VI, 1965, p. 34. I corsivi sono miei. 24 D. Alonso, La poesia del Petrarca e il Petrarchismo (mondo estetico della pluralità), in «Lettere italiane», 3, 1959, pp. 278-319. 25 Sul recupero del classicismo in funzione del concettismo, cfr. F. Croce, Introduzione al barocco, in I capricci di Proteo, cit., pp. 25-40, in partic. p. 32. 26 Entrambi menzionati in N. Toppi, Biblioteca napoletana, cit.: il primo definito «ingegnosissimo poeta», e il secondo «dolcissimo e ingegnosissimo poeta». 23

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sirene, disposti nel medesimo ordine (per primo il componimento scritto da Pietro per il fratello, a seguire la risposta di Lorenzo) 27, che ho raccolto nell’inventario seguente. Ho inserito anche i sonetti di dedica di Pietro al fratello, alcuni dei quali sono interessanti per le informazioni biografiche che recano28. a. Pietro Casaburi Urries, S., Concerto I, LXXX Diportandomi in Posilipo chiamo quivi a cantar il Signor Don Lorenzo Casaburi, mio fratello; LXXXbis: Mi risponde. Corrispondono a: Lorenzo Casaburi Urries, Q.S., Pv. 24 Dimorando D. Pietro Casaburi, mio fratello in Posilipo, m’invita quivi a cantar col sonetto seguente; Pv. 25 Rispondo; b. Pietro Casaburi Urries, S., Concerto II, XLV Al Signor Don Lorenzo Casaburi, mio fratello, mentre guerreggiava in Candia il Signor Bernardo Nani, general dell’armi venete, contro il Turco. Assente nelle Q.S. visto che non si tratta di un sonetto di corrispondenza; c. Pietro Casaburi Urries, S., Concerto II, LXVII Al Signor Don Lorenzo Casaburi, mio fratello; LXVII bis: Mi risponde. Corrispondono a: Lorenzo Casaburi Urries, Q.S., Prop. Risp. 33 Del Sig. D. Pietro Casaburi, mio fratello; Prop. Risp. 34 Rispondo; d. Pietro Casaburi Urries, S., Concerto II, LXXXVIII Al Signor Don Lorenzo Casaburi, mio fratello; LXXXVII bis: Mi risponde. Corrispondono a: Lorenzo Casaburi Urries, Q.S., Prop. Risp. 35 Del medesimo Signor D. Pietro Casaburi, mio fratello; Prop. Risp. 36 Rispondo; e. Pietro Casaburi Urries, S., Concerto IV, XXXIV Commendo l’«Aure di Parnaso», poesie del signor Don Lorenzo Casaburi, mio fratello. Assente nelle Q.S. visto che non si tratta di un sonetto di corrispondenza;

27 Infatti troviamo il componimento di Proposta ricevuto dall’autore, seguito da Rispondo. È Pietro a iniziare la corrispondenza, dunque anche nelle Sirene troveremo il suo componimento di partenza, seguito da quello di risposta del fratello (Mi risponde). 28 Per Le quattro stagioni abbiamo già individuato l’insieme di testi che riportano il nome di Pietro nella parte di questo studio relativa ai familiari di Lorenzo. Mi servirò sempre dell’edizione moderna delle Sirene, citata alla n. 5. Nell’edizione di Chiodo il sonetto di risposta non è numerato, dunque la numerazione bis è mia. Per i testi de Le quattro stagioni mi servo invece della mia trascrizione. Da qui in avanti: Q.S. sta per Quattro stagioni, S. sta per Sirene.

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f. Pietro Casaburi Urries, S., Concerto IV, XXXVI In occasione d’una grave infermità del Signor Don Lorenzo Casaburi, mio fratello. Assente nelle Q.S. visto che non si tratta di un sonetto di corrispondenza29. Procediamo con ordine con la prima coppia a 30: Qui, dove ognor con le sonore brine de’ suoi flutti d’argento il mar Tirreno le piante irriga a Pausilippo ameno, provo d’amor dolcissime ruine. Adoro un bel sembiante, un aureo crine, ebro di gioie alle delizie in seno. Lieto godo la notte, il dì sereno, né curo più le favolose Alcine. A vagheggiar la venustà rivolto di lei, ch’alle più belle invola il vanto, sembra ch’io viva in Paradiso accolto. Or tu qui vieni; e con soave incanto, mentr’io l’alta armonia veggio d’un volto, tu la beltà fammi ascoltar d’un canto31.

Si tratta ovviamente di due sonetti di occasione: nel primo Pietro invita il fratello a raggiungerlo a Posillipo, luogo «ameno», di svago e di diporto per le famiglie nobili dell’epoca, dove potrà deliziarlo con la dolcezza dei suoi versi. Questo luogo marittimo è topico nella lirica barocca, legato all’evento dell’innamoramento. Interessante è lo scambio di bellezze tra la donna e la natura: «le sonore brine», i «flutti d’argento» del Tirreno che bagna Posillipo sono la cornice perfetta per ammirare il «bel sembiante», l’«aureo crine» e il volto armonioso della donna sospirata. Questo meccanismo di specularità tra natura – amore – bellezza, proprio del filone marittimo (e pescatorio), si completa con il valore attribuito al canto: «mentr’io l’alta armonia veggio d’un 29

Anche Lorenzo dedicò dei componimenti a Pietro nelle Q.S. assenti dalle S. per lo stesso motivo: Pv. 82 Al Signor D. Pietro Casaburi, mio fratello. Rimprovero a Nice la di lei crudeltà; Est. 17 Al Sig. D. Pietro Casaburi mio fratello; Est. 66 Al Sig. D. Pietro Casaburi mio fratello. 30 Riportiamo sempre la versione che troviamo nelle Q.S. di Lorenzo e in nota, qualora se ne rilevino, le varianti che isoliamo nel testo di Pietro. 31 Pv. 24 Dimorando D. Pietro Casaburi, mio fratello in Posilipo, m’invita quivi a cantar col sonetto seguente, v. 5 Adoro un bel sembiante, un aureo crine Q.S.] Adoro un bel sembiante, amo un bel crine S; v. 14 tu la beltà fammi ascoltar d’un canto Q.S.] Tu fammi udir l’alta beltà d’un canto S.

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volto / tu la beltà fammi ascoltar d’un canto», dove le «sonore brine» di v. 1 trovano corrispondenza nel «soave incanto» di v. 12 (ovvero il suono del mare e il suono del canto del poeta)32. Si noti inoltre l’incursione della tematica erotica del giardino del piacere, rappresentato da Alcina (vv. 7-8), che si contrappone alla serenità di questi luoghi dove sembra che il poeta «viva in Paradiso accolto»33. Dal punto di vista del puro dato biografico, il testo testimonia semplicemente la frequentazione da parte dei fratelli Urries di questo quartiere residenziale collinare di Napoli per trovare tranquillità e riposo (si ricordi l’etimologia di Posillipo, ‘pausa dal dolore e dagli affanni’), confermando così l’alto livello sociale di appartenenza di entrambi. La descrizione è mitizzata e priva di riferimenti realistici. Vediamo anche il sonetto di risposta scritto da Lorenzo: Della penna immortal con l’auree brine d’alte gioie fecondi il mar Tirreno; ergon trionfi a Pausilippo ameno le tue care d’amor belle ruine. Benché t’annoda innanellato crine, rapido corri a chiara gloria in seno. T’alza Nice d’onor trono sereno, s’altrui carcer letal formâr le Alcine. A nuove imprese il tuo pensier rivolto, fai ceder Pindo a Pausilippo il vanto, ove appar di Permesso il coro accolto; ché ’l traggi là, con disusato incanto, dolcemente cantando a’ rai d’un volto, a ber da un mare, e non da un fiume il canto34.

Posillipo viene innalzato a nuova sorgente, superiore a Pindo, del canto poetico. Lorenzo esorta il fratello a far scorrere la sua «penna immortal» traendo ispirazione dalla bellezza dei luoghi in cui si trova, illuminato dalla luce emanata dal volto della donna amata. Se l’invito a recarsi a Posillipo non è raccolto direttamente in questo sonetto, si realizza esplicitamente nel sonet-

32 Vedi G.B. Marino, Rime marittime, a cura di O. Besomi, C. Marchi e A. Martini, Modena, Panini, 1988: sonetto 4 Per la illustrissima et eccellentissima signora prencessa di Stigliano, mentre andava in barca per la riviera di Posilipo (p. 33). 33 Opposizione questa, ribadita nel sonetto di Risposta successivo, ai vv. 7-8, dunque nel medesimo luogo testuale: «T’alza Nice d’onor trono sereno / s’altrui carcer letal formâr le Alcine». 34 Pv. 25 Rispondo: v. 7 Nice Q.S.] Filli S.

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to successivo, Pv. 26 Diportandomi in Posilipo, sospiro bella D. che abita in Nola, che forma quindi un trittico marittimo con i due precedenti: Manda il bel foco mio d’amor su l’ale, che gelosa nascondi, o Nola, in seno. Solo attendo da lui sul bel Tirreno medicina salubre al mio gran male. Lungi qui da’ suoi rai, l’aura vitale parmi nocente, e fosco il ciel sereno. Privo del dolce ardor di ghiaccio un freno io sento imposto all’ebeno vocale. Senza la luce sua, che sì mi piacque, degli austri de’ sospir divenne un gioco, e naufrago nel pianto il cor sen giacque. Te, Nola bella, a’ miei conforti invoco: e, se negate al gran Marone hai l’acque, or conceder mi vogli il mio bel foco.

Sonetto da un lato di evasione del poeta che raggiunge il fratello a Posillipo, e dall’altro di lontananza dall’amata. Ci informa infatti sull’innamoramento del poeta nei confronti di una bella donna di Nola, con la quale spera di ricongiungersi. Quello che prima era un luogo di pace e di quiete diventa luogo di dolore per l’assenza dell’amata: «Lungi qui da’ suoi rai, l’aura vitale / parmi nocente, e fosco il ciel sereno». Il poeta sospira e, rivolgendosi alla città di Nola, qui personificata, attende che gli restituisca «il suo bel foco», ovvero l’amata (si noti l’iterazione del sintagma bel foco in apertura del sonetto, v. 1 «Manda il bel foco mio», e in chiusura, v. 14 «or conceder mi vogli il mio bel foco»), unica «medicina salubre al suo gran male». Gli effetti rovinosi della separazione si manifestano anche sulla sua capacità di poetare che rimane bloccata: «di ghiaccio un freno / io sento imposto all’ebeno vocale», recupero del classico contrasto fuoco, luce, ardor / ghiaccio. Infine tra i danni prodotti da Amore c’è il naufragio del cuore del poeta nel pianto, contaminazione di un topos che ha le sue radici nella tradizione pescatoria della poesia napoletana di fine Cinquecento35.

35 Per lo svolgimento di questo topos del “cuore che nuota”, rapito dalla bellezza della donna che funge da esca (in Marino) e di Amore che pesca anime in un mare di pianto (nelle Rime del Rota), si veda O. Besomi, Ricerche intorno alla «Lira» di G. B. Marino, Padova, Antenore, 1969, p. 37-38. Si ricordi che l’occasione marittima del soggiorno a Posillipo, ritorna anche a Pv. 53 Amante, che da Posilipo scrive alla S. D.

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Seguendo l’ordine del nostro elenco, arriviamo al caso b, una dedica di Pietro al fratello, e alla coppia indicata con c, composta dai consueti sonetti di elogio dei rispettivi interlocutori, che non contengono notizie rilevanti ai nostri fini. Citiamo invece il punto d non per il suo valore autobiografico, quanto per mostrare il singolare gioco stilistico-mitologico che intessono i due poeti nei rispettivi componimenti, quasi una gara di amplificazione retorica: Su vola, o Fama. E dallo scita al moro narrando va’ del mio LORENZO i pregi. Dì, ch’ei, sdegnando al crin tutt’altri fregi, su la fronte implicò delfico alloro. Di’, come sol di lui nel sacro coro de’ suoi dotti Licei, Palla si pregi. Di’, come ei sprezzi i fasti, e sol si fregi d’arpa erudita, e calamo sonoro. Di’, ch’ei vago d’onor, siegue i Bianti, di’, ch’in mar di sudori i vizi estingue, di’, ch’egli è ’l ciel de’ letterati Atlanti. Ma, tai note, in parlando, ella distingue: gir per lo mondo, e celebrar suoi vanti, mi son poche cent’ali, e cento lingue 36.

Pietro si rivolge alla Fama, dea occhiuta e alata, chiedendole di narrare e diffondere (si noti l’anafora dell’imperativo: Di’: vv. 3, 5, 7, 9, 10, 11) i pregi, l’ingegno canoro, l’onore degno di uno dei Sette Savi, Biante, e la virtù di Lorenzo. Nella pointe finale arguta si afferma, con una sorta di adynaton, che proprio la Fama non ha ali né lingue bastanti a celebrarne i vanti. Si legga ora il sonetto di risposta di Lorenzo: Sudate, o ferri. E fin dall’Indo, al Moro sien del mio PIETRO elaborati i pregi, per fabricar delle sue tempie i fregi, Sparta il mirto v’appresti, Ida l’alloro. Mandi il Libano il cedro, e ’l sacro coro ivi lui sol d’effigiar si pregi. Corra l’anglo adamante, e sol si fregi del carme nobilissimo sonoro.

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Prop. Risp. 35 Del medesimo Signor D. Pietro Casaburi, mio fratello: v. 4 Su la fronte Q.S.] su le chiome S.; v. 12 tai note Q.S.] tal suono S.

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Gli Alessandri obliati anco, e i Bianti, al suo gran merto, onde il livor s’estingue, itene a figurar gli Ati, e gli Atlanti. A lui, che d’oro i sensi suoi distingue, con cui seppe oscurar di Lisia i vanti, ite statue ad alzar con auree lingue 37.

Come si può notare, il poeta sviluppa lo spunto mitologico del sonetto di omaggio ricevuto: si augura che al fratello siano erette statue intagliando i monti Athos e Atlante («itene a figurar gli Ati, e gli Atlanti»), alludendo al mito di Stasicrate, architetto e scultore al servizio di Alessandro Magno, cui Plutarco attribuisce l’idea di scolpire il monte Athos appunto nelle forme di una statua colossale38. Lorenzo si pone sulla stessa linea di ricercatezza del fratello, assumendo l’immagine singolare e rara ad exemplum. Il procedimento di svuotamento del significato originario del mito trasformato in emblema è testimoniato anche dall’uso dei plurali come: i Bianti, gli Atlanti che troveremo spesso nel corso della raccolta. La scelta lessicale di «sensi» permette un calzante parallelismo con «lingue» al v. 14, accentuando così l’immagine favolosa delle statue viventi (dotate appunto di sensi). Gli ultimi due sonetti in elenco (e-f) ci forniscono indicazioni di carattere più strettamente biografico su Lorenzo, rispetto al gruppo a-d di elogio-corrispondenza. Consideriamo il primo: Avido il mondo i musici concenti veggio anelar dell’aure tue canore; sol con gli aliti lor promette Amore dolci ristori all’altrui fiamme ardenti. La dea più saggia e ’l dio più forte intenti speran dall’aure tue doppio valore: ch’alle penne darai moto maggiore, ch’alle trombe darai fiati possenti. Già di Parnaso inaridito il suolo, di fiori e frutti avrà messi immortali, se l’aure tue vi spiegheranno il volo. Egro Febo languisce. A’ suoi gran mali disperando rimedi, aspetta solo dalle bell’aure tue spirti vitali.

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Prop. Risp. 36 Rispondo: v. 12 d’oro i sensi Q.S.] d’oro i carmi S. Vedi: Pietro Casaburi Urries, Le sirene, testo e note a cura di D. Chiodo et al., cit., p. 319, ad v. Stasicrate. 38

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Già il titolo, Commendo – ovvero lodo – l’«Aure di Parnaso», poesie del signor Don Lorenzo Casaburi, mio fratello, contiene il riferimento ad una raccolta di poesie di Lorenzo di cui non abbiamo notizia; potrebbe trattarsi di un’altra opera oggi perduta, da lui composta dopo Le quattro stagioni (magari intorno al 1685, se si fa fede all’anno in cui fu pubblicato il IV Concerto di cui questo sonetto fa parte); oppure di un gruppo di componimenti rimasti manoscritti, che Lorenzo non diede mai alle stampe 39. L’ultima ipotesi, e forse la più attendibile, è che Pietro celebri sempre Le quattro stagioni, definendole «Aure di Parnaso»; ciò sarebbe confermato dal fatto che la stessa iunctura è ripetuta per ben quattro volte (si noti la disposizione simmetrica: secondo verso delle quartine, v. 2 «aure tue canore», v. 6 «aure tue canore»; ultimo verso delle terzine: v. 11 «l’aure tue», v. 14 «bell’aure tue») nel corso del sonetto, per ribadire, a mio parere, la soavità della poesia di Lorenzo e non per definire il titolo specifico dell’opera. Ancora, a v. 10 si parla della rinascita di Parnaso il cui arido suolo «di fiori e frutti avrà messi immortali», memoria ricorrente intratestuale dei fiori e frutti immortali generati appunto dalle Quattro stagioni poetiche40. Se assumiamo questa ipotesi, il testo in esame naturalmente non è più rilevante ai fini biografici: si tratta infatti della consueta celebrazione della raccolta di Lorenzo, e non di una testimonianza della genesi di una nuova opera. Arriviamo infine al sonetto f che ci informa di una grave malattia che ha colpito Lorenzo proprio in questi anni: La saggia man sul musico stromento qualor movesti ad animar le corde, dell’universo all’armonia discorde nove regole impose il bel concento. Aura dolce divenne orrido il vento, a cui fede giurar l’onde più sorde; il foco raffrenò le lingue ingorde, e s’infiorò lo stabile elemento.

39 È bene tener presente la datazione spesso tarda delle raccolte di poesie dei poeti barocchi, rispetto al momento sia della loro scrittura sia della loro prima circolazione manoscritta all’interno dei gruppi intellettuali e, di conseguenza, la difficoltà da parte del critico di ricostruirne l’iter cronologico dalla elaborazione alla pubblicazione. Su questo tema, vedi ad esempio il sonetto in Q.S., Aut. 56 Al Sig. D. Antonio Casaburi, mio fratello, che m’affretta a dare alle stampe le mie poesie. 40 Si noti infine la contiguità con il sonetto XXXLI (f) che richiama l’opera Le quattro stagioni, anche se l’ordine di composizione dei sonetti non coincide quasi mai con quello in cui si presentano nella raccolta.

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Et or che ribellato in te si spande per le viscere accese ardor profondo, mostra dell’arpa tua l’opre ammirande. Fia lieve impresa al pettine giocondo, s’egli il metro spirò nel mondo grande, a compor l’armonia del picciol mondo.

Nelle quartine il poeta esalta Le quattro stagioni con cui Lorenzo «nove regole impose» al caos dell’universo: «la saggia man» ha trasformato «il vento orrido» in «aura dolce», ha coperto di fiori la Terra (v. 8), agendo anche su gli altri tre elementi fondamentali, aria (v. 5, «vento»), acqua (v. 6, «onde»), fuoco (v. 7, «foco»). Nelle terzine si racconta del sopraggiungere improvviso della malattia in Lorenzo, come «ardor profondo» che «si spande / per le viscere accese» (a v. 9 si noti la notazione temporale «Et or» che sancisce la frattura tra il tempo della composizione poetica e il tempo posteriore della malattia). Nella chiusa, la speranza della guarigione: se la poesia («pettine giocondo») di Lorenzo infuse («spirò») la misura e l’armonia («metro») nell’universo («mondo grande») con le sue stagioni poetiche, allora per lui sarà «lieve impresa [….] / a compor l’armonia del picciol mondo», ovvero risanare il suo corpo infermo. Mi rendo conto che i dati offerti da questo primo capitolo non colmano le lacune nella nostra conoscenza della vita del poeta, ma spero che almeno contribuiscano a darne un quadro generale un po’ meno evanescente. 2. «Le quattro stagioni». Riflessioni sulla struttura della raccolta «Ma tu, Sol degl’ingegni, hai miglior vento, / […] volubili stagion fermi col canto»41.

Le quattro stagioni di Lorenzo Casaburi Urries sono state pubblicate a Napoli nel 1669 da Novello de’ Bonis, con il titolo completo di Le quattro stagioni, poesie varie di d. Lorenzo Casaburi Urries napoletano. All’illustriss. Et eccellentiss. Signor Don Gentile Albertino […], in Napoli, per Novello de’ Bonis stampator arcivescovile, 1669, con licenza de’ Superiori. Ne rimangono oggi quattro esemplari, di cui due sono conservati presso la Biblioteca nazionale Sagarriga Visconti-Volpi di Bari (uno dei quali è mutilo delle antiporte calcografiche); un terzo si conserva a Cassino, nella Biblioteca statale del 41

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Q.S., Prop. Risp. 31 Del Sig. D. Niccolò d’Auria, v. 9-11.

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Monumento nazionale di Montecassino; il quarto si trova presso la Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II di Roma, mutilo delle c. 1 e D4 (la numerazione a registro D4, corrisponde alle pp. 79-80) 42. Per questo studio ho utilizzato la riproduzione dell’esemplare conservato a Roma e, per le pagine mancanti ho fatto ricorso a quello di Montecassino. Degne di nota sono le decorazioni: fregi xilografici in calce ad ogni pagina e quattro antiporte calcografiche recanti due immagini alternate, un cesto di fiori (in apertura alla sezione Estate, p. 100; e in apertura a Inverno, p. 266), e un’aquila a due teste (prima di Autunno, p. 188 e di Poesie dirizzatemi da diversi valent’huomini del secolo, p. 328), che allude forse all’insegna dello stemma della famiglia Albertini, di cui fa parte Gentile, dedicatario dell’opera43. Gli obiettivi che mi propongo per questa seconda parte del mio studio sono principalmente: 1. la descrizione del materiale che costituisce la raccolta al fine di poterne ricostruire il criterio di allestimento; 2. la classificazione delle tipologie metriche presenti, così da evidenziare le forme più rappresentative, operazione questa necessaria per una prima valutazione delle scelte stilistiche effettuate dal poeta; 3. lo studio della raccolta e dell’organizzazione dei componimenti nel sistema-canzoniere, per comprendere il tipo di struttura esterna predisposta dal poeta e il modo in cui essa interagisce e influisce sui singoli testi. Affronterò poi la questione complessa dell’esistenza o meno di una struttura interna alla raccolta, ovvero di un principio che regoli la dispositio dei componimenti, che dia un senso alla loro contiguità o lontananza. Cercherò inoltre di segnalare la presenza di eventuali componimenti che marcano e rafforzano la struttura del canzoniere44.

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L’esemplare consultato consta in totale di 414 pp. di cui: una carta di guardia, 12 cc. (la prima è mancante, la seconda non numerata, contenente il frontespizio; da 3 a 12 la numerazione è a registro, evidenziata dall’uso dell’asterisco che precede il numero); seguono 376 pp. con doppia numerazione: in alto sinistra numerazione consecutiva per pagine, in basso a destra numerazione a registro; le pagine 377-87 presentano una numerazione in alto a sinistra a penna che colma l’interruzione della numerazione a stampa; la p. 388 che contiene l’Errata corrige non è numerata, segue una carta di guardia finale. 43 A questo proposito, si veda la dedica iniziale: All’Illustrissimo et eccellentissimo Signore D. Gentile Albertino Principe di Sanseverino, e Signor di Cimitino. D. Lorenzo Casaburi Urries, p. 2: «Et or mi si fan chiari i profondi sensi del suo nobilissimo stemma: ove l’aquila, i gigli, e i tre monti degnamente pompeggiano. Non potevansi che dall’aquila esprimer meglio i voti del suo elevato ingegno». 44 Per quanto concerne la struttura narrativa dei canzonieri, si terranno presenti gli studi di Cesare Segre sulle Soledades di A. Machado: C. Segre, Sistema e strutture nelle Soleda-

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Partiamo dunque dal primo obiettivo del nostro studio: una recensio quantitativa e qualitativa dei componimenti che mostri anche la loro posizione nella raccolta. Il materiale dell’opera si può dividere in tre blocchi: con extracorpus (vedi sotto, tav. 1: sezioni A, C) si indica tutto ciò che è paratesto (la dedica, A chi legge, i privilegi, anagrammi, epigrafi, ecc.), ovvero “la cornice” dell’opera, e con corpus (vedi tav. 1: sezione B), l’insieme dei componimenti veri e propri de Le quattro stagioni, dunque la parte centrale. Possiamo costruire una tavola come la seguente: Tav. 1. Distribuzione del materiale de «Le quattro stagioni» nella raccolta. A. EXTRA-CORPUS Frontespizio: Le Quattro Stagioni, poesie varie di D. Lorenzo Casaburi Urries napoletano. All’illustriss. et eccellentiss. Signor D. Gentile Albertino, principe di Sanseverino, in Napoli, MDCLXIX, per Novello de’ Bonis stampator arcivesc. Con licenza de’ Superiori (c. [2]) 1. Dedica in prosa All’Illustrissimo et eccellentissimo Signore D. Gentile Albertino Principe di Sanseverino, e Signor di Cimitino (cc. 3r-[8v]); 2. D. Camillo de Notariis A chi legge (cc. [9r]-[10v]) in prosa; 3. anagramma di Lorenzo Casaburi Urries (c. [11r]); privilegi e licenze regie ed episcopali di pubblicazione (cc. [11v][12r]); 4. Canzone Dell’ill.mo et eccell.mo Don Gentile Albertino principe di Sanseverino etc., dedicatario dell’opera (pp. 1-4) 45.

des di A. Machado, in I segni e la critica. Fra strutturalismo e semiologia, Torino, Einaudi, 1969, pp. 95-134; le pagine teoriche di G. Genot, Strutture narrative della poesia lirica, in «Paragone», XVIII, 1967, n. 212, pp. 35-52; gli studi di Marco Santagata: Dal sonetto al canzoniere: ricerche sulla preistoria e la costituzione di un genere, Padova, Liviana, 1979; le illuminanti osservazioni di Alessandro Martini sulle rime amorose di Tasso: A. Martini, Amore esce dal caos, L’organizzazione tematico-narrativa delle rime amorose del Tasso, in «Filologia e critica», I, 1984, pp. 78-121; l’analisi di Silvia Longhi del canzoniere di Giovanni Della Casa: S. Longhi, Il tutto e le parti nel sistema di un canzoniere, in «Strumenti critici», 1979, fasc. I, pp. 265-300. Infine sulla nozione di macrotesto: G. Cappello, La dimensione macrotestuale. Dante, Boccaccio, Petrarca, Ravenna, Longo, 1998. 45 Inizia la numerazione per pagine (in alto a dx.) e per fascicoli (in basso a dx). Le carte precedenti non sono numerate perché la numerazione è a registro.

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B. CORPUS46 5. PARTE I: Delle Quattro Stagioni. Poesie varie di D. Lorenzo Casaburi Urries. La Primavera. Suggetti amorosi (pp. 5-99, Pv. 1-83), tra cui distinguiamo: – 81 sonetti (pp. 5-85); – una canzone: Al Signor D. Pietro Casaburi, mio fratello. Rimprovero a Nice la di lei crudeltà (pp. 86-92, Pv. 82); – un componimento in quartine (con schema metrico ABBA): Al Signor D. Antonio Muscettola. Amante bellissima, e famosissima cantatrice, che parte da Napoli per andare a Roma (pp. 93-99, Pv. 83). – Antiporta calcografica recante l’immagine di un cesto di fiori (p. 100). 6. PARTE II: Delle Quattro Stagioni. Poesie varie di D. Lorenzo Casaburi Urries. La State. Suggetti eroici (pp. 101-187, Est. 1-87): – 87 sonetti; – antiporta calcografica recante l’immagine di un’aquila a due teste (p. 188). 7. PARTE III: Delle Quattro Stagioni. Poesie varie di D. Lorenzo Casaburi Urries. L’Autunno. Suggetti morali (pp. 189-265, Aut. 1-68), tra cui distinguiamo: – 66 sonetti (pp. 189-254, Aut. 1-66); – due canzoni: Al Signor Don Camillo De Notariis. Detesto il soverchio culto de’ capegli di taluni del mio secolo (pp. 255-259; Aut. 67); Al Signor Giuseppe Campanile. Detesto l’uso de’ lisci d’alcune donne, e esorto Nice a fuggirli (pp. 260-265, Aut. 68); – antiporta calcografica recante l’immagine di un cesto di fiori (p. 266). 8. PARTE IV: Delle Quattro Stagioni. Poesie varie di D. Lorenzo Casaburi Urries. Il Verno. Suggetti lugubri e sagri (pp. 267-327, Inv. 1-57), tra cui distinguiamo: – 56 sonetti (pp. 267-73, Inv. 1-7; pp. 279-327, Inv. 9-57); – una canzone: Al Signor Principe di Sanseverino, et al Sign. D. Girolamo Albertino. In morte del Signor D. Giulio Albertino (pp. 27478, Inv. 8); – antiporta calcografica recante l’immagine di un’aquila a due teste (p. 328). 46 Ribadiamo le sigle abbreviative che si utilizzeranno anche in questa seconda parte: Le quattro stagioni = Q.S.; Primavera = Pv., Estate = Est., Autunno = Aut., Inverno = Inv.; Proposte e Risposte = Prop. Risp., [Componimenti finali] = C.f.

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C. EXTRA-CORPUS 9. Poesie dirizzatemi da diversi valent’huomini del secolo, i nomi de’ quali van disposti per ordine di più alfabeti (pp. 329-365; Prop. Risp. 1-36): 36 sonetti (inviati a Lorenzo, corredati delle relative risposte). 10. [Componimenti finali] (pp. 366-76, C.f. 1-3) tra cui distinguiamo: – un componimento in quartine: Del Sig. D. Antonio Muscettola (pp. 366-68, C.f. 1); – una canzone: Del Sig. D. Girolamo Albertino (pp. 369-71, C.f. 2); – epigrafi finali celebrative (pp. 371-76, C.f. 3). 11. Indice: Delle poesie varie, che si contengono nelle Quattro Stagioni, secondo l’ordine dell’alfabeto (pp. 377-87); 12. Errori occorsi nella presente opera (p. [389]). Dalla tavola si può vedere che l’extracorpus della raccolta è uguale alla parte A + C, ossia i punti 1-4; 9-12, mentre il corpus (parte B) comprende i punti 5-8. Notiamo subito come il materiale sia distribuito in modo piuttosto equilibrato nell’opera: tre grandi parti, ognuna delle quali è suddivisibile al suo interno in quattro sezioni. Prima di affrontare la distribuzione del materiale, e la sua partizione, mi pare importante prendere in esame le tipologie metriche: le prime quattro parti del blocco A costituiscono l’apparato di dedica quasi interamente in prosa, fatta eccezione per la canzone di omaggio al destinatario della raccolta. Se passiamo al blocco B, il canzoniere vero e proprio, ci accorgiamo che la Primavera, consta di 81 sonetti, una canzone e un componimento in quartine; l’Estate di 87 sonetti; l’Autunno di 66 sonetti e due canzoni, e infine l’Inverno di 56 sonetti e di una canzone posta non in chiusura, ma interna alla sezione. Arriviamo poi all’ultimo blocco C composto dall’insieme dei sonetti di Proposte e Risposte, complessivamente 36, da una canzone, da un componimento in quartine e da epigrafi celebrative finali. Risulta allora che il sonetto è il metro prevalente, 326 su un totale di 334 componimenti; sei sono le canzoni e due i componimenti in quartine (metro in gran voga nel Seicento) 47, posti a conclusione di Primavera e in chiusura dell’intera opera48. L’assoluta assenza di madrigali, forma poetica che rappresen-

47 Il componimento Annunciazione nelle Nove Muse di Marcello Macedonio, Napoli 1614, pare sia tra le prime attestazioni di questo metro: vedi D. Chiodo, Suaviter Parthenope canit. Per ripensare la ‘geografia e storia’ della letteratura italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 1999, p. 156. 48 I componimenti in questione, abbinati come si vedrà a una canzone, sono Pv. 83 Al Signor D. Antonio Muscettola. Amante bellissima, e famosissima cantatrice, che parte da Napoli per andare a Roma, e C.f. 1 Del Sig. D. Antonio Muscettola, annoverati tra le can-

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ta il filone più popolare e melico della lirica italiana, è spia della preferenza accordata dal poeta alla lirica tradizionale (sonetti e canzoni), confermata dal tono sostenuto e grave della raccolta, che arriva a toccare gli accenti dell’oratoria sacra nella sezione finale delle rime lugubri, allontanandosi così dalla musicalità e leggerezza tipica del marinismo. Dai dati meramente quantitativi esposti sopra, si ricava poi che l’Estate (soggetti eroici) è la sezione più estesa, seguita da Primavera, Autunno e Inverno: questo rivela la prevalente vocazione celebrativa della raccolta nei confronti dei grandi personaggi contemporanei, del passato e del mito. Tuttavia è opportuno riconoscere che i componimenti a soggetto eroico non hanno esclusivamente un valore encomiastico, ma costituiscono anche delle “occasioni poetiche” per il Casaburi di mostrare la sua abilità stilistica, e di utilizzare, secondo una gradatio crescente, la potenzialità metaforica, antonomastica e soprattutto emblematica del mito e della storia. In questa direzione di densità simbolica, lo spazio breve e chiuso del sonetto è la misura più appropriata per mantenere l’intensità acquisita con i procedimenti retorici. Mi pare invece che il componimento lungo, canzone (con stanze di 9 versi) o quartine di endecasillabi, abbia in questa raccolta diverse funzioni: in primis di marcare la partizione dell’opera (cfr. la tav. 1: al punto 5, 7 e 10 troviamo dittici di componimenti in quartine o canzoni a chiusura di sezione), di celebrare una circostanza eccezionale (come la morte di don Giulio Albertino commemorata in Inv. 8); infine una funzione incipitaria di dedica solenne dell’intera opera, come nel caso della canzone iniziale di Don Gentile Albertino, principe (punto 4). Chiarite le scelte metriche dell’autore, possiamo ora ragionare sul criterio organizzativo utilizzato dal Casaburi per costruire il sistema-canzoniere, all’interno del quale si dispongono i microtesti. È noto che, a partire dal Cinquecento, la forma del canzoniere di tipo petrarchesco, «formalmente indistinto e sostanzialmente binario» (rime in vita e in morte)49, subisce profonde trasformazioni, «passando da una costruzione […] centripeta […] ad una costruzione centrifuga, a più fuochi, congeniale all’estetica dell’imminente

zoni nell’Indice, suddiviso per metri (sonetti e canzoni). L’indice, a cura dello stesso autore, comprende solo i componimenti del corpus principale (in Tav. 1, i punti 5-8), ordinati alfabeticamente per ciascuna delle due sezioni; recano l’incipit del componimento (il primo verso) e non l’intitolazione. Sulla prassi che si impone a inizio Seicento di dare ai componimenti dei veri propri titoli (e sul passaggio quindi dagli argomenti soprascritti ai componimenti, ai titoli), si veda A. Martini, Amore esce dal caos, cit., in partic. le pp. 81-2, n. 10. 49 A. Martini, Le nuove forme del canzoniere, cit., p. 213.

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architettura barocca»50. Tentiamo di ricostruire sinteticamente, alla luce anche dei contributi accolti dal presente volume, le tappe essenziali di questa evoluzione. L’ampliamento della materia poetabile ha determinato prima di tutto un accumulo in termini quantitativi dei componimenti e quindi raccolte dalle dimensioni sempre più cospicue e, in alcuni casi ipertrofiche: si spiega così l’impossibilità di una reductio ad unum del materiale poetico e la conseguente dilatazione e deformazione della struttura archetipica petrarchesca, non più bastevole. Indispensabile fu dunque l’operazione di raccolta delle rime in più parti che divenne normativa a partire dalle Rime del Tasso, ma che aveva a Napoli una tradizione anche più antica, risalente almeno alle Nuove fiamme di Ludovico Paterno (su cui si veda qui il saggio di Stella Fanelli). Come è noto, Tasso introdusse la netta ripartizione delle liriche in tre sezioni tematiche: rime amorose, d’occasione o d’encomio e sacre, che realizzò in parte nell’ultima sua proposta, ovvero, per le rime amorose, nell’unica edizione a stampa da lui autorizzata e curata, con il titolo Rime. Parte prima, uscita a Mantova presso Francesco Osanna nel 1591 (stampa O), ristampata assieme alla Parte seconda a Brescia presso il Marchetti nel ’92 51. Per quanto attiene all’organizzazione interna delle rime, si ricordi che nel passaggio dal codice autografo Chigiano LVIII 302 (risalente al 1583-84, ora pubblicato) 52 alla stampa Osanna, la bipartizione delle amorose (distinte in due libri nel codice, in Rime per Lucrezia Bendidio e in Rime per Laura Peperara) viene abolita, a sottolineare l’unicità del canzoniere d’amore e dunque «un’estrema fedeltà all’archetipo» e una volontà di «restauro di un edificio che il Tasso sino ad allora divulgato aveva potentemente contribuito a demolire»53. Tuttavia, come afferma Martini, la frattura sostanzialmente rimane, rafforzata ulteriormente da un sonetto assente nel Chigiano54. La narratio amoris di ascendenza petrarchesca 50 G. Gorni, Le forme primarie del testo poetico, in Letteratura italiana. Le forme del testo. I Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, vol. III, pp. 439-518, in partic. p. 518. 51 Sulla complessa questione della tradizione delle Rime tassiane, cfr. i diversi studi a partire da L. Caretti, Studi sulle rime del Tasso, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1973; F. Gavazzeni – D. Isella, Proposte per un’edizione delle ‘Rime amorose’ del Tasso, in Studi di filologia e di letteratura italiana offerti a Carlo Dionisotti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1973, pp. 241-343. Si utilizza l’unica edizione corrente delle Rime tassiane, cioè quella Solerti (A. Solerti, Le Rime di Torquato Tasso. Edizione critica sui manoscritti e le antiche stampe, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1898), ora ristampata da B. Basile, Roma, Salerno, 1994, 2 voll. Come è noto questa seconda parte contiene esclusivamente rime encomiastiche; una terza parte sarebbe stata di carattere sacro (ma rimase manoscritta). 52 T. Tasso, Rime d’amore (secondo il cod. Chigiano 50. 8. 302), ed. critica a cura di F. Gavazzeni e V. Martignone, Alessandria, Ed. dell’Orso, 2004. 53 A. Martini, Le nuove forme del canzoniere, cit., p. 213. 54 A. Martini, Amore esce dal caos, cit.

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si duplica, perché riguarda due donne, Lucrezia e Laura. Accanto dunque all’innovazione strutturale, in cui è evidente la volontà di raccogliere una vasta messe di rime sparse in aggregati tematici coerenti (struttura esterna), Tasso mostra al tempo stesso una tensione verso il modello narrativo unitario e non differenziato petrarchesco, in una parola, verso la tradizione. La riorganizzazione dell’intero corpus di rime, raccolto in tre sezioni, è un fatto nuovo nella lirica italiana, poiché i precedenti canzonieri del Cinquecento, seguendo l’esempio di Petrarca, non separavano i tre filoni amoroso, encomiastico-occasionale e etico-religioso, tenendoli intimamente connessi in un rapporto dialettico55. Da questa prima definitiva spinta innovatrice, la forma canzoniere sembra mutare ulteriormente: la tappa successiva del nostro discorso, ovviamente, è Marino, sul quale non mi pare necessario soffermarmi a lungo, visto l’ampio excursus critico già offerto dal saggio di De Lorenzo che precede il mio. In sintesi, assistiamo, lungo il corso del Seicento allo sviluppo di un vera “moda” letteraria, articolata su due paradigmi strutturali, che subiscono modifiche e contaminazioni (anche tra loro, dunque orizzontali): quello del canzoniere aperto, variegato per temi e per metri diversi, di impianto marinista (in cui la partizione molteplice va di pari passo con la volontà di raccogliere tutti gli aspetti del reale), che a volte prevede anche un repertorio di corrispondenze in versi (sezione di Proposte e Risposte); e quello che segue la più definita tripartizione di tipo tassiano. Si verifica da un lato il fenomeno della dilatazione della struttura del libro di rime, finalizzata alla creazione di una “enciclopedia del poetabile” e alla conoscenza più ampia possibile della imprendibile e variegata realtà (vedi la linea Paterno-Marino), e dall’altro la ricerca, quasi ossessiva, di complicate e inedite strutturazioni che testimoniano la chiusura del poeta nei confronti del mondo reale, la sua adesione a una cerchia sempre più ristretta di letterati. La poesia e il suo contenitore diventano puro esercizio dell’ingegno; si cerca di ingabbiare la vastità tematica in sistemi chiusi che si conformano ora all’uno ora all’altro modello, secondo l’esigenza del poeta, spesso assumendo titoli complessivi metaforici raffinati e ricercati (per l’esemplificazione, faccio ancora riferimento al saggio di De Lorenzo). Esaurite queste preliminari considerazioni, è tempo di affrontare il caso particolare della struttura de Le quattro stagioni e, per fare ciò, recuperiamo la tav. 1. Focalizziamo la nostra attenzione sul corpus della raccolta (punti 5-8). Il 55

Come ha mostrato Silvia Longhi per il canzoniere del Della Casa: Poeti del Cinquecento, a cura di G. Gorni, M. Danzi e S. Longhi, in La letteratura italiana, 23, Milano, Ricciardi, 2001; S. Longhi, Il tutto e le parti nel sistema di un canzoniere (Giovanni Della Casa), cit.

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materiale lirico è suddiviso in quattro sezioni, ognuna delle quali corrisponde ad una stagione dell’anno, ordinate secondo il loro ciclico susseguirsi, dettato dalle leggi immutabili della natura: la prima parte corrisponde alla Primavera, la seconda all’Estate, la terza all’Autunno e la quarta all’Inverno. L’autore stabilisce un triplice legame, del tipo illustrato sopra, tra concetto superiore che informa l’intera raccolta, ovvero le quattro stagioni eterne perché poetiche, concetto particolare, vale a dire ogni singola stagione, e tema o soggetto delle rime. Percepiamo subito che la partizione è modellata su quella di tipo tassiano, che viene “deformata” per essere adattata al concetto superiore che prevede non tre, bensì quattro stagioni, passando così dai tre argomenti canonici (amoroso, encomiastico e sacro) a quattro (rime amorose, eroiche, morali, lugubri-sacre). Le rime eroiche corrispondono alle encomiastiche tassiane in quanto celebrano personaggi sia storici che contemporanei; le morali propongono esempi di virtù, deplorando i vizi diffusi all’epoca; i soggetti lugubri-sacri comprendono componimenti di tipo commemorativo e una galleria di exempla di santi che richiama il modello mariniano56. La materia dunque segue la disposizione della sovrastruttura scelta: è un caso di struttura flessibile, ovvero una forma che consente l’individuazione del modello sottostante, ma è al tempo stesso in grado di conformarsi alla ratio organizzativa dello specifico progetto poetico. Chiariti i rapporti che intercorrono tra partizione figurale metaforica e partizione di base tematica, cercherò di sciogliere il significato sotteso alla prima e di illustrare il legame che unisce i concetti particolari ai soggetti delle rime. La scelta di Lorenzo Casaburi è in parte chiarita nella dedica iniziale in prosa a Gentile Albertino Principe di Sanseverino. Il poeta, dopo una iniziale riflessione sullo stato di decadimento della poesia contemporanea: la poesia chiamata da’ più saggi gran dono del cielo oggi si stima non mezzano infortunio57.

esalta la virtù e l’intelligenza del principe, intessendo il discorso di riferimenti storico-mitologici, e costruendo il consueto, ma quanto mai prezioso, omaggio al destinatario58:

56

Vedi G.B. Marino, Rime lugubri, a cura di V. Guercio, Modena, Panini, 1999. Q.S., All’Illustrissimo et eccellentissimo Signore D. Gentile Albertino Principe di Sanseverino, e Signor di Cimitino. D. Lorenzo Casaburi Urries, p. 2. 58 F. Croce, Introduzione al Barocco, cit., p. 29: «Come spiritosi complimenti (non per ischerzo dunque, ma con un garbo arguto che si concilia benissimo con l’ossequio), esse (le dedicazioni) sono in grado di porgere un autentico omaggio al dedicatario, non tanto lusin57

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Non superbisca un Mida, perché fu corteggiato in culla dalle formiche, mentre V. E. vanta con gloria maggiore fin dalle fasce l’ossequio delle muse. Se quelle recarono nella di lui bocca, ancor bambina, il formento, queste infusero nelle di Lei tenere labra le gioie tutte d’Elicona: onde si pregia anch’Ella haver la virtù di quel re della Frigia, trasformando in oro ciò, che da V. E. vien toccato. Ma con divario. A quegli dalle sue ricchezze nacque vorace la fame; a Lei dalle dovizie dell’ingegno sorge perenne la fama59.

La dedica termina con un riferimento proprio alla scelta del titolo: Fecondata dunque la mia mente dal sole delle sue virtù, ha saputo produrre alla luce del mondo quattro poetiche stagioni; e come effetti di Lei, a Lei le presento60.

Queste prove testuali consentono di svelare i rapporti metaforici che stanno alla base dell’architettura dell’intera raccolta. Essa è sostenuta infatti dal paragone continuato istituito tra il mondo della poesia e quello della Natura, rappresentato dagli elementi fondamentali che la animano. Nello specifico, la mente di Lorenzo è comparata alla terra: per essere fertile deve ricevere la forza vitale del sole che, fuori di metafora, corrisponde alla virtù illuminante del principe (dedicatario dell’opera), vera fonte di ispirazione per il poeta. Senza questo “sole” quella “terra” sarebbe sterile, incapace di produrre frutti, ovvero componimenti poetici. Se l’immagine naturale della terra resa florida dal sole è indubbiamente molto cara alla poesia barocca, Lorenzo la arricchisce andando oltre, in quanto i germogli poetici di questo concepimento sono anche immortali, perché non subiscono i contraccolpi della storia e dell’imperfezione umana: Eccoti quattro stagioni che, se potessi numerarle negli anni della tua vita, potresti vantarti immortale. Puoi ben godervi del tempo, che più s’adatta al tuo genio: mentre queste non sono sottoposte alle vicende, come i figli di Leda, de quali, perché viva l’uno, forz’è, che l’altro mora. In un giorno, in un’hora puoi, se t’aggrada variarne l’uso, usarne la variatione. Stagioni sono queste non mutabili per lo corso de’ cieli, non alterabili da influssi, o da quali[t]à maligne, non soggette ad impeti di venti, o di gragnuole. Havvi di più l’esser queste salubri 61. gato dagli elogi, solo in apparenza strepitosi, ma in realtà scontatissimi, legati come sono a una convenzione socievole obbligata, quanto gratificato dal “meraviglioso” artificio in cui essi sono iscritti». Il corsivo è mio. 59 Q.S., All’Illustrissimo et eccellentissimo Signore D. Gentile Albertino Principe di Sanseverino, e Signor di Cimitino. D. Lorenzo Casaburi Urries, p. 8. 60 Ibidem. 61 Q.S., A chi legge di D. Camillo de’ Notariis, p. 4.

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Le stagioni immutabili e inattaccabili, «non soggette ad impeti di venti», sono salutari per l’uomo in quanto: Nella primavera non vi sono commotioni d’hunori, ma tenerezze d’amori. Nella state, atta a porre in campo la guerra, Marte roterà bensì la spada, non già per atterrare, ma per difendere dalla morte gli eroi. Fia copioso di frutti l’autunno, se non di quelli l’uso soverchio de’ quali distempera la salute; sarallo de’ frutti, che colti ne’ giardini della moralità, senza danneggiare il corpo, giovano mirabilmente l’animo. Nel verno, ch’è la vecchiezza dell’anno, troverai apparati lugubri, ma dilettevoli sì, che Libitina stessa, vestita leggiadramente, non cede di bellezza alla dea che ne vanta le prime glorie62.

Ecco che l’esposizione programmatica dei principali argomenti trattati nel canzoniere è utile al tempo stesso a “istruire” il lettore nella lettura, indicandogli quale giovamento per lo spirito potrà trarre da ogni stagione: nella primavera troverà il racconto di esperienze dell’amore giovanile; nell’estate rivivrà il vigore dello spirito bellicoso che caratterizza l’età della forza fisica; nell’autunno potrà cogliere i frutti della moralità, che «senza danneggiare il corpo, giovano mirabilmente l’animo»; nell’inverno accoglierà le offerte funebri (Libitina Venus, dea dei funerali) che procurano serenità allo spirito, innalzandolo verso la sfera celeste. E così, afferma il principe Gentile Albertino nella canzone che dedica a Lorenzo in apertura dell’opera: Le stagioni discordi nelle tue carte han dolcemente unite, di canora magia con lacci egregi; ch’in vario suon concordi, destan fra loro armoniosa lite, qual debbia haver di più bellezza i pregi; ricchi di sì bei fregi, con applauso maggior chiamar ben puoi isole fortunate i fogli tuoi63.

Le «carte» di Lorenzo diventano «isole» felici in cui la parola poetica è il «laccio egregio» che unisce ciò che in natura è separato; il risultato è un vero e proprio concerto, in cui ogni parte (ogni stagione) gareggia con l’altra

62

Ibidem. Q.S, Dell’Illustrissimo, et eccellentissimo Signore D. Gentile Albertino principe di Sanseverino, et Cimitino, vv. 54-63. 63

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in una ossimorica «armoniosa lite» per stabilire quale sia quella più preziosa. Questo significato conferito alle stagioni, è in linea con quella preoccupazione – che si rinforza nei poeti del secondo marinismo – di ricavare dalle argutezze non solo «fiori» ma «frutti» (e Alloro fruttuoso sarà il titolo della terza parte dell’Enciclopedia poetica di Giuseppe Artale, Napoli, 1672, la più moralistica delle sue opere), di elaborare «acutezze» che non sfavillino soltanto, ma «pungano» davvero i vizi dell’umanità64.

La circolarità, l’universalità e insieme la non caducità delle stagioni poetiche si evincono da altri versi della stessa canzone citata sopra: Della maga delusa se dileguàrsi i vaghi fasti in fumi, vanno immuni dal tempo i tuoi stupori; la tua magica musa non affascina l’alme. Eterni lumi apre agli ingegni a’ gloriosi onori. Né gl’incliti sudori chiude del mondo un angolo straniero, ma spettator n’è l’universo intiero. In sì belle stagioni non son di fiori impoveriti i maggi, di fervido Leon presso l’arsura. Piovon qui gli Orioni, atti a svellere monti, a spiantar faggi, né de’ frutti il tesor giammai si fura. Ma v’ammira Natura della state nel sen l’autunno eterno, eterno in grembo a primavera il verno65,

dove il principe di Sanseverino, autore della poesia, stabilisce un confronto tra il carattere effimero del mitico giardino di Armida, «fastoso verzier non mai più visto»66, opera della «folle insidiosa maga»67, che «già dal cieco impero / – ovvero dal regno infernale – gli architetti fallaci ella rapìo, / opra a formar, che vanamente appaga»68, e l’«impareggiabile lavoro»69 delle stagioni di Lorenzo 64

F. Croce, Introduzione al Barocco, cit., p. 34. Q.S, Dell’Illustrissimo, et eccellentissimo […], cit., vv. 64-81. 66 Ivi, v. 5. 67 Ivi, v. 48. 68 Ivi, vv. 49-51. 69 Ivi, v. 54. 65

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che offusca, con la sua luce, «l’artificio pomposo, / ove compendiato un ciel parea»70. Mentre lo sfarzo e l’Arte sublime impiegati nella corte vegetante della maga si tramutarono in «fumi», la musa di Lorenzo, la «saggia Clio»71, «non affascina l’alme», inducendole ad errare, ma illumina gli ingegni con la luce dell’onore e delle virtù eterne. Le stagioni sono perciò altro da quelle reali, pur ispirandosi ad esse non subiscono alcun deterioramento, perché i fiori che crescono in estate non patiscono l’arsura del «fervido Leon» ma sono rinfrescati costantemente da una pioggia risanatrice («piovon qui gli Orioni»)72 né vengono in alcun modo sottratti alla terra («né de’ frutti il tesor giammai si fura»). Ai vv. 79-81 qui sopra riportati, la Natura personificata contempla con meraviglia l’abbraccio eterno, quasi materno (cfr. sen e grembo) in cui sono avvinte le nuove stagioni, stilisticamente evidenziato dall’artificio dell’anadiplosi («l’autunno eterno, / eterno in grembo») e dalla disposizione quasi chiastica dei due versi finali (interrotta solo dall’iperbato: «della state nel sen l’autunno eterno, / eterno in grembo a primavera il verno»). Il susseguirsi delle stagioni è anche metafora delle tappe della vita dell’uomo, piuttosto presente nell’iconografia barocca, che si ritrova per esempio nell’Iconologia di Cesare Ripa, celebre manuale ad uso degli artisti pubblicato con il solo testo nel 1593 e con illustrazioni nel 1603 73: dove la primavera è paragonata a una giovane donna, «che habbia piene le mani di varii fiori»74, l’estate è la stagione dell’ardore in cui maturano i prodotti della terra, raffigurata da «una giovane di aspetto robusto, coronata di spighe di grano vestita di color giallo, et con la destra mano tenghi una facella accesa»75; l’autunno, momento della vendemmia, designa l’età della vecchiaia, dunque, «una donna di età virile, grassa, et vestita riccamente»76. Infine l’inverno, la stagione del riposo periodico della vegetazione, del letargo e quindi della morte, è comparato ad «huomo o donna vecchia, canuta, o grinza, vestita de panni et di pelle legato»77, e caratterizzato dall’oscurità e dall’umido, simbolicamente rappresentati da rettili e anfibi (serpente e salamandra). È probabile che 70

Ivi, vv. 40-41. Ivi, v. 47. 72 Espressione usata anche da Pietro Casaburi per precipitazioni torrenziali: vedi Pietro Casaburi Urries, Le sirene, testo e note a cura di D. Chiodo et al., cit., pp. 313-14, ad v. Orione. 73 C. Ripa, Iconologia, ed. critica a cura di P. Buscaroli, prefazione di M. Praz, Milano, Tea, 1992. 74 Ivi, p. 420. 75 Ivi, pp. 420-21. 76 Ivi, p. 422. 77 Ibidem. 71

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Lorenzo Casaburi nel concepire il suo macrotesto abbia recuperato anche questi elementi della tradizione, abbinando alle stagioni della vita le attività umane ad esse più consone, secondo un procedimento di sintesi che ritroviamo anche nel poema di Giovan Vincenzo Imperiali, Lo Stato rustico (Venezia, 1613). Nella quarta parte di quest’opera il poeta afferma che le età dell’uomo e le stagioni dell’anno sono tanto simili tra loro «che, se tra lor determinar vorrai qual sia l’uom, quale sia l’anno, o l’anno o l’uomo, starai gran tempo irresoluto, e se poi saprai mal dir, tanto è sottil l’inganno, se l’anno è l’uomo, o se pur l’uomo è l’anno»78. Come afferma Besomi, l’Imperiali stabilisce una corrispondenza a tutti i livelli, in un sistema di fusione e mescolanza tra i due membri del paragone (tra la Natura-madre e l’uomo-figlio) che ci riporta alla teoria aristotelico-scolastica dei misti (Dio mescola insieme natura e uomo): da una concezione rinascimentale rassicurante della natura, in cui l’uomo scorge i principi regolatori della sua vita, si approda ad una visione più fosca della natura che si mescola all’uomo, producendo così continua confusione, innesto, e diventando una «natura innaltrata»79, ben lontana dall’equilibrio rinascimentale. Riassumendo, nella nostra raccolta si realizza un sistema costruito sulla base dell’equivalenza tra ciclo della natura, basato sull’incessante ripetersi delle stagioni, e ciclo della vita umana. A questa corrispondenza, come abbiamo accennato sopra citando alcuni passi dell’apparato dedicatorio in prosa, si accompagna l’idea della poesia che vince sulla morte terrena dell’uomo e sulla transitorietà dei prodotti umani, come appare chiaro nel sonetto proemiale di Invocazione (Pv. 1): Febo, ch’entro lo ’ngegno i rai canori, nuove stagioni a fabricar m’infondi, nella mia primavera or tu diffondi, d’augelli in vece, armoniosi amori. Vibri la state inusitati ardori di bellicosi spiriti, e facondi. E di quei frutti qui l’autunno abbondi, che semi di virtù spargano a’ cori. Figlie di Libitina, acque di pianti mirinsi sparse; e folgorar nel verno d’una sacra pietà lampi tonanti. 78 Sullo Stato rustico di G.V. Imperiali, vedi le considerazioni di O. Besomi, Esplorazioni secentesche, Padova, Antenore, 1975, p. 103. 79 L’espressione è usata da Tommaso Stigliani nell’idillio L’amante stoltisavio, v. 418, contenuto nel suo Canzoniero edito a Roma nel 1623. Cito dall’edizione a cura di O. Besomi, in Esplorazioni secentesche, cit., p. 182.

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Così nel corso lor col giro alterno, incatenando i secoli volanti, intreccino al mio crine un serto eterno.

Il poeta invoca Apollo affinché illumini il suo ingegno con «raggi canori», dove la sinestesia condensa le virtù di questa divinità dai molteplici volti: quello della luce solare accecante e vitale, e quello della Poesia, rappresentata dal canto e dalla cetra. Si noti anche la posizione enfaticamente rilevata del nome Febo a inizio sonetto, e la chiusa sull’aggettivo «eterno». Solo con questo nutrimento la mente del poeta potrà «fabricar nuove stagioni». Attraverso un procedimento ad contrarium, si dà vita ad una nuova Natura, “poetica”, parallela a quella reale: in cui la primavera sarà popolata non già da uccelli, bensì da «armoniosi amori», l’estate sarà foriera di ardori «inusitati e facondi» di spiriti eroici, bellicosi; l’autunno porterà frutti che spargeranno semi di virtù e l’inverno sarà percorso da acque di pianto, generate da Libitina e illuminato da lampi di pietà religiosa. Nel giro di due quartine e di una terzina viene ripercorsa la materia del canzoniere; e nella chiusa si concentra il senso dell’intero sonetto: queste stagioni poetiche hanno il compito di «incatenare» i secoli che corrono, ovvero di fermare il corso del tempo, e di intrecciare così una corona di fama eterna intorno al capo del poeta. Funzione eternatrice della poesia, dunque. Interessante è anche l’immagine del Tempo sottesa all’ultimo giro di versi che, secondo l’iconografia tradizionale, è descritto come un vecchio barbuto e alato (veglio alato) che regge in mano una clessidra o una roncola; tra i suoi attributi figura Uroboro, il serpente che si morde la coda (da cui il «giro eterno» di v. 12), personificazione dell’Anno, simbolo della ciclicità del divenire, di origine egizia, collegato a Saturno80, che ritornerà più volte nei versi del Casaburi. Terminiamo questa parte dedicata alla comprensione del significato insito nella struttura esterna dell’opera accennando al fatto che, una volta concluse le quattro sezioni della raccolta, l’autore dispone un repertorio ordinato di corrispondenze in versi (36 sonetti), secondo una consuetudine assai diffusa nel Seicento, come abbiamo sottolineato sopra, di ascendenza marinista (ove sempre era prevista una sezione di Proposte e Risposte) 81. L’ultimo degli obiettivi che abbiamo indicato all’inizio del paragrafo riguarda la questione del rapporto tra il macrotesto appena descritto, e i microtesti collocati nel sistema. Si cercherà di capire se esistano una logica di 80 Enciclopedia dei simboli, a cura di H. Biedermann, Milano, Garzanti, 1999, ad v. serpente. 81 Di questa sezione discorreremo alla fine di questo studio (§ 3.5.).

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distribuzione e di successione dei componimenti e una struttura interna che favorisca e intensifichi il significato di quella esterna. A tal proposito, sono necessarie alcune considerazioni preliminari: a. nelle singole parti di questo canzoniere non si può individuare una continuità e una successione narrativa che colleghi i componimenti in modo chiaro; solo, si possono identificare brevi segmenti, come nella Primavera, dove la fabula del poeta innamorato rimane sospesa; b. a mio avviso, non esiste alcuna rigida simmetria che guidi la lettura dei componimenti, la cui collocazione in generale sembra invece obbedire ad una logica dell’occasionalità, della semplice raccolta di diversi quadri e situazioni, coerenti rispetto al soggetto della sezione a cui appartengono; c. è possibile individuare una struttura di dittici di canzoni o quartine che chiudono alcune sezioni, costituendo dei punti di sutura (componimenti-cerniera)82. Nonostante queste premesse, dobbiamo pur ravvisare nel canzoniere la presenza di una tematica centrale e trasversale che si lega al significato figurale della struttura esterna: il leitmotiv della Poesia. Cercherò di verificare la validità di questa ipotesi, analizzando le singole sezioni e portando prove testuali; un’ultima considerazione, forse del tutto banale per la sua evidenza, ovvero che la stessa architettura del macrotesto nasconde una narrazione, un viaggio di formazione (anche in senso diacronico) che il lettore può compiere passando attraverso le quattro grandi sezioni. Si parte dalla primavera, dagli amori giovanili, spesso delusi dalla crudeltà e dal rifiuto della donna; all’estate in cui l’uomo sperimenta l’esercizio della virtù e della forza, l’età delle grandi imprese. Si approda poi all’autunno della vita in cui si palesa la vacuità della fama mondana e si deplorano i vizi, la vanità, la dissolutezza, i lussi, spesso concentrati nell’ambiente delle corti, come è dichiarato nel sonetto Aut. 11 A giovane, che propone di andare in corte: Alla corte ten corri? Arresta il piede, ch’a veri strazi un finto ben t’invoglia. 82 Lo stesso procedimento si riscontra in Pietro Casaburi Urries, come giustamente osserva Bàrberi Squarotti nell’Introduzione al più volte ricordato volume Pietro Casaburi Urries, Le sirene, testo e note a cura di D. Chiodo et al., cit., pp. V-VI: «[…] Pietro (che ebbe un fratello, Lorenzo, ugualmente autore di rime, ma in un tono meno acceso e ‘audace’) che nei “concerti” pone anche […] poche canzoni e, alla conclusione di ogni “concerto”, componimenti in quartine che, dal punto di vista metrico e per la singolare testura dell’endecasillabo, costituiscono un’esperienza quasi unica, nel ritmo di sapientissima decoratività alessandrina che li regge»; sulla particolare scelta del componimento in quartine, vedi anche le pp. X-XII.

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Per vestirti d’onor, d’onor ti spoglia, restando alfin di vilipendi erede. Già lucido dal mondo astro si crede, sorto il vapor là nell’aerea soglia, ma tosto avvien, ch’in vanità si scioglia, ché legittimo figlio il ciel nol vede. De’ fiumi il re con gli umidi vassalli tributando del mar l’algose gole, perde il suo nome entro i cerulei calli. E nube ingiuriosa ombrar gli suole per l’etereo sentier gli aurei cavalli, fin che non giunge alla sua casa il sole.

Si noti il v. 3 «Per vestirti d’onor, d’onor ti spoglia»: perfettamente bimembre, costruito specularmente sulla simmetria del lessema «onor» che opera la saldatura centrale degli emistichi; la prima parte contiene la causa, ovvero il desiderio di fama e onore, la seconda l’immediata conseguenza di questa vuota ricerca, ovvero la perdita dell’onore; l’evidente opposizione è naturalmente accentuata dal chiasmo orizzontale tra vestirti e ti spoglia che formano una perfetta coppia antitetica. La meta finale di questo cammino è l’inverno dedicato alle rime lugubri-sacre: al concetto di caducità e finitezza della vita terrena si accompagna quello della speranza di una vita ultraterrena, come nel sonetto Inv. 56 Nel dì delle ceneri: Ceneri belle; or che di voi mi vesto, d’ogni affetto terren la mente io spoglio perché sia bianca in su l’empireo soglio, con voi forte lavanda all’alma appresto. Tra vostre arene, oh, come il passo arresto, se per sentier d’ambizion lo scioglio. E nelle luci mie qualor v’accoglio, del cielo i calli a vagheggiar mi desto. S’a voi l’inferno il debellar s’ascrive, se l’huom pacificate al suo Fattore, siete a Pluto cipressi, all’alme ulive. Quando vi sparge il mio pensier su ’l core, se tra ceneri accolto il foco vive, ogni foco profano in voi sen’ more.

Tra questo sonetto a quello precedente si possono trovare due significative concordanze testuali: Aut. 11 «Per vestirti d’onor, d’onor ti spoglia» e Inv. 56 «Ceneri belle; or che di voi mi vesto / d’ogni affetto terren la mente io spo-

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glio». Il soggetto prima è invitato a riflettere sulla perdita dell’onore conseguente alla conquista di onori; successivamente compare la stessa metafora ma questa volta cambia l’abito: il poeta si veste di ceneri sante – forte simbolo religioso della finitezza della vita terrena, memento mori tipicamente barocco – e abbandona ogni «affetto terren». Interessante anche la corrispondenza tra l’espressione imperativa «Arresta il piede» in Aut. 11, v. 1 e il v. 5, «Tra vostre arene, oh, come il passo arresto» nel sonetto in esame, a significare l’impossibilità di percorrere un cammino di purificazione dell’anima se il piede sceglie di attraversare «sentier d’ambizion» (v. 6), che lo portano ad errare dalla strada maestra. Chiudono questo sonetto due versi disposti chiasticamente in cui si oppongono due fuochi di valore opposto, il fuoco reale che vive tra le ceneri, e quello invece metaforico della tentazione: «ogni foco profano in voi – nelle ceneri sante – sen’ more». Al termine di questo processo di elevamento dello spirito si incontra una galleria di personaggi santi, molti dei quali hanno subito il martirio (ad es. Inv. 13 A Santa Agata essendole troncate le mammelle; Inv. 14 A S. Francesco d’Assisi, che supera le tentazioni della carne tra le fiamme; Inv. 17 Per S. Dionigi Aeropagita, che porta il proprio capo su le mani; Inv. 19 S. Apollonia nel suo martirio), veri eroi della fede. Prima di passare all’analisi delle sezioni, dobbiamo segnalare l’esistenza, come ricordavo sopra, di componimenti con chiara funzione strutturale all’interno della raccolta. Si tratta di testi di carattere solenne: di canzoni e di un componimento in quartine83. Innanzitutto l’intera raccolta è preceduta dalla già citata canzone Dell’Illustrissimo, et eccellentissimo Signore D. Gentile Albertino principe di Sanseverino, et Cimitino, composta dal dedicatario in segno di omaggio a Lorenzo, con funzione proemiale, in cui al poeta è attribuito il dono di garantire con i suoi versi l’immortalità e la fama eterna: «tu cigno dirceo / spregi il rigor de’ secoli tiranni»84. Due sezioni del corpus poi, Primavera e Autunno, e la sezione extracorpus di Poesie dirizzatemi da diversi valent’huomini del secolo, i nomi de’ quali van disposti per ordine di più alfabeti presentano nella loro conclusione un parallelismo strutturale che consiste in un dittico di canzoni e, in un caso, di una canzone e di un componimento in quartine. In particolare, la Primavera si chiude con una canzone indirizzata al fratello Pietro (Pv. 82, Al Signor D. Pietro Casaburi, mio fratello. Rimprovero a Nice la di lei crudeltà) in cui è sviluppato il tema della crudeltà della donna

83 84

Ritorno qui su considerazioni che ho affacciato già in apertura di questo studio. Dell’Illustrissimo, et eccellentissimo […], cit., vv. 88-89.

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nei confronti dell’amante, attraverso un susseguirsi di exempla tratti dalla mitologia e dalla storia antica: la donna è infatti comparata alla serpe crudele o a Circe incantatrice, e la sua durezza è accomunata al rigore di Porsenna di fronte all’ardimento di Muzio Scevola, che si fece bruciare la mano davanti a lui. Eccone un breve prelievo: O bellissima mia Serpe letale, ch’i cupid’occhi alletti, perché poscia il mio cor cada trafitto; s’a scherno hai tu dell’ebeno vocale i pietosi concetti, già dal calamo al ferro io fo tragitto; nella mia fede invitto, presso il tuo piè precipitando esangue, ti verserò dopo lo ’nchiostro il sangue85.

Il poeta constata il fallimento della poesia sulla potenza di Amore e decide, se la donna non sarà mossa a pietà dai suoi «pietosi concetti», di passare direttamente «dal calamo al ferro», oggetti che indicano per metonimia l’attività poetica e il suicidio; questo verso si pone in relazione con l’ultimo della strofa, attraverso l’artificio della rapportatio bimembre: «ti verserò dopo lo ’nchiostro il sangue», dove a calamo corrisponde inchiostro, e a ferro, sangue 86. Il tema dello sdegno da parte della donna e dell’impossibilità della poesia di combattere la sua durezza è esemplificato, nella stessa canzone, dalla favola – posta ad intarsio – del musico di Lesbo, «di Lesbo il decantato Apollo»87, ovvero Arione il quale, ritornando in patria con una cospicua somma di denaro messa insieme con la sua arte in Italia, fu preso di mira da «nocchieri ingrati»88 della nave che intendevano derubarlo e ucciderlo. Ma lui riuscì a sottrarsi al pericolo e alla morte perché, messo in guardia da Apollo, chiese loro di poter cantare ancora una volta e si gettò in mare, dove fu accolto da un branco di delfini, «il guizzator drappello», attirati dalla dolcezza del suo canto, sul dorso dei quali poté tornare salvo a riva:

85

Pv. 82 Al Signor D. Pietro Casaburi, mio fratello. Rimprovero a Nice la di lei crudeltà, vv. 10-18. 86 Sul procedimento della rapportatio, vedi: O. Besomi, Ricerche intorno alla «Lira» di G.B. Marino, cit., pp. 215-27; D. Alonso, La poesia del Petrarca e il Petrarchismo, cit. 87 Pv. 82 Al Signor D. Pietro Casaburi […], cit., v. 37. 88 Ivi, v. 38.

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Poiché di Lesbo il decantato Apollo vide i nocchieri ingrati meditargli nel mar mobile avello; la cetra armoniosa appende al collo, e ’l tenor de’ suoi fati fa rimbombar da questo lido a quello; il guizzator drappello d’un insolito amor nel mar s’accende, e l’orecchie da’ gorghi alto distende. Disperando pietà nel petto umano, precipitò nell’acque, squallido il volto, e lagrimoso il ciglio. O di metro febeo valor sovrano! Sorse ov’egli sen’ giacque, opportuno un delfino al gran periglio: che pilota, e naviglio, traggitando il garzon salvo sul lido, fe’ trovar fè su l’elemento infido89.

Questo episodio mitologico a lieto fine mette in rilievo, attraverso un contrasto serrato, la situazione senza possibilità di salvezza del disperato amante: Ma se del pianto mio nel vasto mare musici strali avvento, per franger del tuo cor gli aspri adamanti; tu qual aspe crudel l’orecchie avare, per mio scherno, e tormento chiudi insensata a gli amorosi incanti. E de’ mostri notanti inumana viè più qual giuochi ed agi, t’affidi a vagheggiar i miei naufragi90.

I «musici strali» infatti non sono sufficienti, come invece accadde per Arione, salvato proprio dalla sua musica, a infrangere la durezza del cuore dell’amata, insensibile ad ogni richiamo d’amore. Le parole «scherno» e «tormento» occupano un intero verso a marcare la crudeltà della donna. La strofa si chiude con l’immagine del naufragio del poeta da contrapporre naturalmente alla fede ritrovata da Arione nell’acqua, «l’elemento infido». 89 90

Pv. 82, Al Signor D. Pietro Casaburi […], cit., vv. 37-54. Ivi, vv. 55-63.

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Questa canzone è seguita da un componimento in quartine, dedicato al poeta napoletano Antonio Muscettola, Pv. 83 Al Signor D. Antonio Muscettola. Amante bellissima, e famosissima cantatrice, che parte da Napoli per andare a Roma, a formare un dittico. La conferma della sua funzione strutturale ci è offerta ancora una volta dal tema trattato: la partenza della famosa cantante da Napoli per Roma, dunque il suo allontanamento e la conseguente pena inflitta all’amante. Anche in questo caso il tono è alto come si conviene al coronamento della sezione, ed è ottenuto attingendo all’ambito della mitologia e della storia di Roma, in particolare attraverso la celebrazione dei grandi eroi che prelude al soggetto dell’Estate. L’occasione mondana del componimento è trasfigurata con l’ausilio di immagini iperboliche che conferiscono valore di eccezionalità all’evento. Vediamone qualche verso: Quando, in vago destrier frangendo i mar, Curzio raggiò pomposamente armato, ratto, e fiero così, che fu stimato sceso dal quinto Ciel lo dio dell’armi. Giunto all’alta vorago intorno il cinse l’innumerabil popolo diletto e, senza haver sul corridor ricetto superbo in mostra a favellar s’accinse. «Sciuga, o Roma, degli occhi i rai dolenti, né più temer di sdrucciolar tremante, che fin nel centro a stabilir tue piante scendo per fabricarti i fondamenti»91.

Il riferimento è a Marco Curzio, eroe romano che sacrificò la vita per la salvezza della patria precipitandosi col proprio cavallo in una voragine apertasi in mezzo al foro: esaudì così l’ingiunzione degli oracoli che volevano che quella spaccatura fosse colmata da un sacrificio per scongiurare le minacciate calamità. L’aspetto più artificioso consiste nel fatto che, dopo aver impiegato le quartine iniziali per narrare questa storia, il poeta paragona se stesso a Curzio («Curzio novel»), e la bocca della cantante amata alla voragine in cui il cavaliere si è gettato, che lui potrà colmare con i suoi baci: Quindi io bramo a Cupido arder più faci, che tanti danni a riparar n’insegni,

91

Pv. 83 Al Signor D. Antonio Muscettola. Amante bellissima, e famosissima cantatrice, che parte da Napoli per andare a Roma, vv. 65-76.

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e me Curzio novel chiamar si degni, bocca sì bella ad atturar co’ baci92.

Alcune quartine sono utilizzate per esaltare la grandezza della voce della donna di cui Roma si fregerà più di tutte le imprese degli eroi passati: Ma più rari prodigi il Lazio attende dalla musica tua leggiadra bocca, ov’invece di Pluto, Amore incocca archi di foco, ond’ogni core accende93.

Lo stesso modulo con funzione strutturale lo si ritrova al termine della terza sezione, l’Autunno, come abbiamo riferito sopra, saltando quindi la sezione Estate. Le due canzoni, Aut. 67 Detesto il soverchio culto de’ capegli di taluni del mio secolo e Aut 68 Detesto l’uso de’ lisci d’alcune donne, e esorto Nice a fuggirli, affrontano lo stesso tema della sezione appena conclusa. Nel caso specifico, il poeta manifesta il suo disprezzo nei confronti dei vizi mondani così diffusi nel secolo contemporaneo, ed esorta gli uomini ad imprese più nobili e virili. In particolare in Aut. 67 i toni di solenne eloquenza sono ironicamente utilizzati per descrivere la vacuità delle effimere acconciature, accomunate a «bellici apparecchi», costume dell’epoca che il poeta condanna con aspre parole: Menzognieri cristalli, voi per miei consiglieri io più non voglio; ite d’abisso a lastricar gli avelli. De’ crini i lievi falli voi rigidi punite, e ’l fiero orgoglio fate obliar de’ popoli rubelli e con l’or de’ capelli già compor, per mio mal da voi si trama lucido il volto, e torbida la fama94.

Gli specchi sono «menzognieri cristalli» che puniscono severamente, svelandoli, «i lievi falli» delle pettinature, facendo «’l fiero orgoglio / […] obliar» e rendendo «torbida la fama»; si noti il raffinato gioco tra la falsa trasparenza del cristallo e del volto pettinato riflesso, e l’opacità, la mancanza di onestà morale. 92

Ivi, vv. 129-132. Ivi, vv. 105-108. 94 Ivi, vv. 46-54. 93

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Individuiamo infine un’ultima coppia, formata da un componimento in quartine C.f. 1 Del Sig. D. Antonio Muscettola e da una canzone C.f. 2 Del Sig. D. Girolamo Albertino, posti al termine delle Proposte e Risposte, insieme a un gruppo di epigrafi elogiative finali che chiudono la cornice della raccolta (quella parte che abbiamo in principio definito extratesto). Nel primo dei due, di cui citiamo pochi versi significativi, è svolto il motivo, topico in questo canzoniere, della potenza esercitata dalla poesia sul tempo: Così de’ tempi i cardini sen vanno verso l’eternità segnando l’orma. Ma, se dalle stagion l’anno si forma, queste vincon l’età, gli anni disfanno95.

L’anno nasce dall’unione delle stagioni, e le stagioni poetiche di Lorenzo hanno la facoltà di vincere il Tempo («de’ tempi i cardini sen vanno») e di «disfare», ovvero di rendere eterni, gli anni. La visione di una natura rinnovata riemerge nella successiva canzone scritta da Girolamo Albertino, primogenito del principe Gentile Albertino (si ricordi, dedicatario del canzoniere). Leggiamone le prime strofe: Qual magia disusata d’un più bell’anno a noi schiude la porta forse prodigo il Ciel cangiò costume? Qui l’aurora infiorata di serto immarcescibile, risorta ognor si scopre in su l’aurate piume. Sempre limpido il fiume non mai rigido Borea il piè gl’inchioda, e non mai Sirio i suoi concenti annoda. In questi ameni campi non s’ode d’Aquilon soffio letale, né d’angue insidioso il duro impaccio: vibri Febo i suoi lampi erutti Arturo i geli; april fatale ride lieto gli ardori in grembo al ghiaccio. Strette da dolce laccio s’amano le Stagioni in sé diverse, e di maga armonia son tutte asperse. Di stagion sì gradite, gli urti del tempo a debellar bastanti 95

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C.f. 1, Del Sig. D. Antonio Muscettola, vv. 53-56.

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tu n’apri, o gran LORENZO, il bel sereno. Tu con piaghe erudite, inchiodando nel tuo gli anni volanti, lo rendi a noi d’immortal pregio ameno. È fugace baleno ogni cosa quaggiù; tu sol n’apporte anno possente a superar la morte 96.

Ritorna in questi versi il messaggio metapoetico sui modi di far poesia, sulle modalità di esecuzione dell’atto creativo o, come in questo caso, sulle virtù che si riflettono sull’umanità intera: la magia di un anno inalterabile («immarcescibile») si schiude grazie a queste nuove stagioni, in cui l’aurora è «infiorata» perennemente e i fiumi sono sempre limpidi, mai ghiacciati dal «rigido Borea». E ancora, nella natura rigenerata dalla linfa poetica, i campi non sono sottoposti al vento freddo del nord, Aquilone, né vi circolano serpi insidiose. In cielo, ad aprile, brilla la stella più luminosa della costellazione di Boote, ovvero Arturo, e «s’amano le Stagioni in sé diverse, / e di maga armonia son tutte asperse». L’abbraccio, il laccio, l’armonia e il grembo compongono insieme la stessa immagine materna che abbiamo incontrato nella canzone di dedica iniziale Dell’Illustrissimo, et eccellentissimo Signore D. Gentile Albertino principe di Sanseverino, et Cimitino (cfr. § 2 di questo studio). È evidente il ripetersi in diverse zone del canzoniere della medesima conclusione che rappresenta il perno tematico attorno a cui ruotano i microtesti: Lorenzo con la sua opera ha aperto «il bel sereno» «di stagioni gradite», capaci di annullare «gli urti del tempo». Tipica dello spirito barocco la meditazione finale sulla transitorietà della vita terrena, definita «fugace baleno», per sottolinearne la brevità imposta dalla presenza continua del tempo distruttore e veloce, che tuttavia, può essere sconfitto dal poeta, artefice divino di un anno «d’immortal pregio ameno», «possente a superar la morte». Dopo aver mostrato le finalità e i significati di cui sono latori questi componimenti di chiusura, nei successivi paragrafi passeremo a considerare ogni singola sezione della raccolta. 2.1 La Primavera: la Poesia nasce da Amore Partendo dalla sezione riservata ai componimenti di soggetto amoroso, osserviamo prima di tutto che essa comprende 81 sonetti (escludendo quindi 96

C.f. 2, Del Sig. D. Girolamo Albertino, vv. 1-27.

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il dittico finale di Pv. 82-83 di cui abbiamo parlato sopra), numero evocativo, visto che coincide con quello delle Rime amorose di Marino (Rime. Parte prima, Venezia, 1602). Per quanto attiene alla disposizione dei microtesti all’interno della sezione, constatiamo subito, come già accennato, l’impossibilità di reperirvi un romanzo amoroso, una dimensione narrativa riconoscibile, simile a quello sotteso a tanti canzonieri petrarchisti del Cinquecento, prova della conclamata crisi della sua forma canonica. Non si può quindi ricostruire alcun preciso itinerarium amoris, ma si distinguono alcuni raggruppamenti tematici largamente sfruttati nelle raccolte poetiche barocche, nel segno della varietas e della novità: troveremo quindi una pluralità di soggetti amanti, la predicazione multipla e numerosa, in un certo modo inesauribile, della donna, colta in differenti aspetti97 e in vari momenti, spesso in atteggiamenti umili e quotidiani. Non manca la declinazione di un’ampia casistica amorosa: sonetti in cui si ricostruisce la fenomenologia dell’innamoramento; Amore che si cela in posizioni strategiche, dalle quali scoccare i suoi dardi98, o che deve essere tenuto segreto99; i sonetti del dono da parte dell’amante, uomo o donna100, sonetti di bisticcio onomastico101, o di paragone e di antitesi, con tendenza alla drammatizzazione, come Pv. 41 Al Sig. D. Girolamo Albertino impostato sul tradizionale contrasto fuoco-gelo, o Pv. 80 che paragona l’amante Ad alchimista, e Pv. 81 Paragono bella D. all’aquila. Questo brevissimo, e non completo, inventario mette in luce l’esistenza non di uno ma di più fuochi all’interno della sezione102.

97 Anche in quelli deturpanti, come si vede nei consueti sonetti in lode della bruttezza, della menomazione fisica (zoppa, muta) o della povertà della donna: vedi Pv. 73 Amante di bella D. zoppa; Pv. 76 A bella muta; Pv. 13 A bella mendicante. 98 Pv. 6 Amoroso avvenimento. 99 Pv. 63 Amante alla S. D. che lo pregò a tener secreti i loro amori. 100 Pv. 7 Ad un pettirosso, che mando in dono a bella D.; Pv. 17 Bella D. ad una rosa, mandandola in dono al suo vago; Pv. 19 Bella D. al suo vago che le donò un diaspro; Pv. 29 Dono un opalo a bella D.; Pv. 31 Amante ad alcune rose meravigliosamente finte dalla S. D. et a lui donate; Pv. 44 Amante ad un pomo chiestogli dalla S. D.; Pv. 45 Un pescatore ad un pesce donatogli dalla sua pescatrice; Pv. 60 Amante ad un cagnolino, che manda in dono alla S. D.; Pv. 61 A bella D. che mi donò un quadro, dov’era dipinta la caduta di Fetonte; Pv. 64 Amante a bella D. che gli donò un anello d’oro. 101 Pv. 33 Alla Sig. N. Sasso; Pv. 37 Alla Sig. Rosa N.; Pv. 56 Alla S. N. Fusco; Pv. 70 All’Illustrissimo et Eccellentissimo Sig. D. Gentile Albertino, Principe di Sanseverino, e Signor di Cimitino. 102 Per la ricorrenza e la diversa trattazione di questi ed altri temi nella lirica barocca, vedi ad es. i già citati: O. Besomi, Ricerche intorno alla «Lira» di G. B. Marino, cit.; O. Besomi, Esplorazioni secentesche, cit.; e l’importante strumento dell’Archivio tematico della lirica italiana (ATLI): G.B. Marino, La lira, a cura di O. Besomi, J. Hauser, G.

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Dal punto di vista strutturale, tuttavia, si può ricostruire un breve segmento narrativo, formato dai primi quattro componimenti che, oltre ad avere funzione incipitaria, propongono l’inizio di una fabula, di cui è protagonista l’io lirico. I sonetti in questione sono, nell’ordine di svolgimento: Pv. 1 Invocazione Pv. 2 Dedicazione delle Quattro Stagioni all’Eccellenza del Sig. Principe di Sanseverino D. Gentile Albertino Pv. 3 Amor fu cagion del mio poetare Pv. 4 Ingenium nobis ipsa puella facit In Pv. 1, che ho già commentato, il poeta svolge la canonica invocazione103 a Febo, simbolo della Poesia, chiedendo a lui l’ispirazione per comporre versi. Segue poi il sonetto di dedica Pv. 2 in cui il poeta, rivolgendosi al principe di Sanseverino, gli offre in dono «dell’anno il fier serpente», ovvero Uroboro, attributo del tempo: Di pierie magie fabro innocente per l’aonie vagai selve romite, ove con arti armoniche erudite incantato ho dell’Anno il fier serpente. Or l’offro a te, Signor. Sarà quel dente seme bastante, a germogliar più vite; che di balsamo ei versa onde gradite, se di tosco eruttò bava nocente. Havrà valor di rintuzzar l’offese del volator, del predator tiranno, perché le glorie tue restino illese. Mentre maggior de’ Cesari te fanno, i pregi tuoi; s’a que’ s’ascrisse un mese, sacrar doveasi al tuo gran nome un anno.

Sopranzi, Hildesheim, Olms, 1991; T. Tasso, Le Rime, a cura di O. Besomi, J. Hauser, G. Sopranzi, Hildesheim, Olms, 1994. 103 Vedi anche G. Battista, Poesie meliche I, 1 Invocazione a Venere; Marino, Rime amorose, 2 Priega Amore che l’aiuti a scrivere della sua donna; Marino, Rime maritime, 1 Invocazione a Nettuno; Pietro Casaburi Urries, Le sirene, Concerto primo, 1 Invocazione alla Fortuna (cito rispettivamente da G. Battista, Opere, a cura di G. Rizzo, Galatina, Congedo, 1991; G.B. Marino, Rime amorose, a cura di O. Besomi, C. Marchi, A. Martini, Modena, Panini, 1987; G.B. Marino, Rime marittime, a cura di O. Besomi, C. Marchi, A. Martini, Modena, Panini, 1988 e Pietro Casaburi Urries, Le sirene, testo e note a cura di D. Chiodo et al., cit.).

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Il poeta, «fabro innocente» di magie poetiche104, nella prima quartina appare come un pellegrino errante senza meta precisa per le selve aonie105, dove la sua potenza canora riesce ad incantare il serpente dell’anno e ad incatenarlo per porgerlo al suo principe: «Or l’offro a te». La lotta contro il tempo da cui esce vincitrice Poesia è finalizzata a rendere eterna la fama del signore: «perché le glorie tue restino illese». Interessante la rima derivativa innocente: nocente (vv. 1, 8) che chiaramente oppone la purezza dell’atto poetico al veleno contenuto nella «bava» del serpente-Anno. La chiusa del sonetto celebra la figura del principe che è considerato «maggior de’ Cesari», dove si noti il consueto impiego del nome storico al plurale, con valore di emblema: il poeta afferma che come a Cesare consacrarono un mese (luglio), così «sacrar doveasi al tuo gran nome un anno». Il mezzo per «incantare» il serpente – fuor di metafora, il Tempo – è il canto, la poesia, «arti armoniche erudite», velata dichiarazione di poetica quest’ultima, in cui la musicalità e l’armonia si combinano necessariamente con l’erudizione, secondo il modello dello stile ornato e culto che già fu di Giuseppe Battista. Se la coppia di sonetti Pv. 1 Invocazione e Pv. 2 Dedicazione delle Quattro Stagioni […] sviluppa la relazione Poesia-Tempo, il terzo componimento, Pv. 3 Amor fu cagion del mio poetare, che chiude il trittico, svolge il secondo nesso tematico tra Poesia ed Amore. Vediamolo: Giacqui infelice. E, benché i labri immersi m’havesse Apollo entro il Castalio fonte, pur con tardi pensier, note mal pronte, foschi i sensi esprimeva, oscuri i versi. Ma poiché duo begli occhi in me conversi, le sue fiamme Cupido a me fe’ conte, con franco piè nell’Eliconio monte, canore vie, col lume lor, m’apersi. Or nasca l’altrui lauro in fresche sponde; che ’l lauro mio si vanterà non poco, dall’ardor verdeggianti haver le fronde. Siasi d’altri Aganippe. Io prendo a gioco tutti i pregi, che vanta. I carmi infonde più che Febo con l’acque, Amor col foco.

La lapidaria dichiarazione iniziale ci riporta alla fabula cominciata a v. 2 di Pv. 2 Dedicazione delle Quattro Stagioni […], ovvero allo smarrimento del 104 105

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pierie magie: ovviamente dalle muse dette Pieridi. Dai monti Aonii in Beozia, di cui l’Elicona è la principale cima.

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poeta, enfatizzato, dal punto di vista stilistico, dal verbo vagai posto in posizione centrale a separare, creando iperbato, la coppia aggettivo-sostantivo. La narratio continua: il poeta racconta il suo viaggio verso la realizzazione poetica che non può nascere solo dall’ispirazione sacra di Apollo, bevendo presso il «Castalio fonte», ma dalla ben più intensa esperienza dell’innamoramento. Inizialmente (prima quartina) il poeta è «infelice» in quanto, nonostante abbia sorbito la magica pozione che scorre dalla fonte delle muse, i suoi versi sono ancora «oscuri», i suoi pensieri «tardi», le note «mal pronte» e i sensi, ovvero i significati in essi racchiusi, «foschi» (perfetto il parallelismo sinonimico con oscuri). Solo nella seconda quartina il poeta esce improvvisamente dall’impasse poetica (situazione iniziale) grazie all’incontro con Amore, e la svolta è messa in risalto dall’avversativa ma che segna il discrimine tra i due momenti. Il soggetto incontra «duo begli occhi» che convergono dritti nei suoi come due frecce («conversi»): è con piede sicuro allora, e non più peregrinando incerto (si avverte l’eco di Pv. 2, v. 2 «per l’aonie vagai selve romite»), che il poeta si dirige verso il monte della poesia, («nell’Eliconio monte») e, guidato dalla luce scaturita dalle «fiamme di Cupido», può intravedere le «vie canore», che rischiareranno i suoi versi. Le ultime due terzine, attraverso un procedimento antitetico, contrappongono la nuova condizione del poeta che trae ispirazione dall’amore, all’iter compositivo degli altri letterati: mentre il suo «lauro» – la sua poesia – cresce su fronde «dall’ardor verdeggianti», quello degli altri nasce «in fresche sponde»106. La coppia fresche / ardor, propone di nuovo il topico contrasto freddo / caldo, gelo / fuoco. E, ancora nella seconda terzina è ribadita – anche dalla pausa forte che frange il verso a metà – l’antinomia tra “i tanti” che attingono alla fonte Aganippe sulle pendici dell’Elicona per trarne l’estro poetico, e “lui” «che prende a gioco / tutti i pregi, che la fonte vanta», visto che Amore è la nuova sorgente del suo canto. Perciò se in Pv. 1 il poeta invocava il soccorso dei «rai canori» di Febo, in Pv. 3 egli deve constatarne l’inefficacia (e conseguentemente quella della fonte Aganippe) davanti alla potenza di Amore. L’ultimo verso, di natura bimembre, racchiude il senso dell’intero sonetto: «[…] I carmi infonde / più che Febo con l’acque, Amor col foco», dove a Febo – acqua della fonte – si contrappone Amore, fuoco della passione amorosa. Il segmento di racconto prosegue nel sonetto successivo Pv. 4, Ingenium nobis ipsa puella facit: entra in scena per la prima volta la puella, di cui il

106

Si presti attenzione all’opposizione lessicale tra «l’altrui lauro» vs «’l lauro mio» e le «fresche sponde» vs «dall’ardor verdeggianti […] fronde».

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poeta offre una descriptio, privilegiando le parti sul tutto secondo un procedimento di disseminazione e frammentarietà di tipo petrarchesco107. Col domestico lume altri pur tenti accrescer lumi a’ numeri sudati, ch’a far chiaro il mio stil saran possenti i dolci rai di duo begli occhi amati. S’altrui dan metri amenità di prati, a me dan melodie guance ridenti; s’altrui destan lo ’ngegno i pinti alati, alza un ciglio fastoso i miei concenti. Se d’erto faggio il verde crin si mira altrui la lingua all’armonie disporre, a me chioma dorata i canti inspira. S’altri la cetra sua brama comporre lungo un ruscello, io vo temprar mia lira presso un tenero sen, che latte corre.

Il forte legame con il sonetto precedente si basa sulla già individuata relazione di dipendenza di Poesia da Amore. È evidente la rievocazione dell’initium narrationis, l’innamoramento, dell’istantanea amoris accensio e infine dello scaturire della poesia dalla penna del poeta. Affiorano tra i componimenti alcune concordanze lessicali che stabiliscono ponti intertestuali e, insieme, una progressione semantica108: i «rai canori» di Febo di Pv 1, v. 1 diventano «duo begli occhi in me conversi» in Pv 3, v. 5 e infine «i dolci rai di duo begli occhi amati» in Pv. 4, v. 4, arricchendosi dell’attributo di amati: lo spazio breve dell’avvenimento puntiforme e improvviso dell’accensio amoris si è già concluso, lasciando il posto al nuovo status di amante del poeta, destinato a protrarsi nel tempo (con le sue dolorose conseguenze). Questi raggi illumineranno quei versi «oscuri» di Pv. 3 rendendo limpido lo stile del poeta («ch’a far chiaro il mio stil saran possenti») e accrescendo «lumi a’ numeri sudati» che prima erano solo «note mal pronte» (Pv. 3, v. 3). Anche in questo caso si tratta di un sonetto costruito su contrapposizioni protratte, come in Pv. 3, tra il poeta e un indefinito gruppo di altri, altrui. Si noti che sino alla terzina conclusiva si mantengono fissi, anche in anafora, i 107 Ricordiamo la sua prima apparizione sineddotica attraverso «duo begli occhi» in Pv. 3. Sulla frammentarietà della descriptio mulieris, vedi M. Picone, L’inizio della storia (RVF 1-10), in Il Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, a cura di M. Picone, Ravenna, Longo, 2007, pp. 25-51. 108 Sulle connessioni lessicali, M. Santagata, Dal sonetto al canzoniere, cit., pp. 37-43.

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pronomi altri, altrui e me (vv. 1, 12 «altri»; vv. 5, 7, 10 «altrui»), procedimento retorico che conferisce una dizione ed un ritmo martellante all’intero componimento. Parallelamente al confronto sistematico, il poeta passa in rassegna le singole parti tradizionali del corpo femminile, in quanto ognuna di esse è funzionale a fornire materia poetica. Vediamole nel dettaglio. Le fonti ispiratrici del poeta sono: gli occhi della donna (vv. 3-4), le sue guance «ridenti» che gli procurano dolci «melodie» (v. 6), il «ciglio fastoso» che risveglia i suoi «concenti» (v. 8), i capelli dorati che destano in lui il canto (v. 11); infine il seno candido e molle, diviene locus privilegiato per comporre (v. 14). Di contro, sono gli elementi della natura ad accendere la poesia nella mente degli altri poeti: la luce domestica che si contrappone ai raggi luminosi degli occhi dell’amata (v. 1), i prati (v. 5), gli uccelli variopinti (v. 6), le fronde verdi degli alberi che naturalmente si oppongono alle chiome femminili (vv. 9-10), infine la scelta del ruscello dalle fresche acque come teatro dell’atto creativo, piuttosto che il bianco seno amato da cui scorre il latte. Con Pv. 4 si chiude il gruppo di componimenti per così dire “proemiali”, e anche il tratto di narrazione, riferito all’esperienza di innamoramento del poeta. Da Pv. 5 Amante, a cui è concesso di toccar solo la mano della S. D. il discorso, inizialmente individuale, sfuma lentamente nella variegatissima gamma delle situazioni d’amore, e la puella di Pv. 4 diventa da ora in avanti generica bella donna. Questo proverebbe l’ipotesi secondo la quale l’unico criterio di disposizione delle liriche sarebbe quello della varietas di temi e situazioni, di amanti e di ritratti di donna (anche a soggetto storico, mitologico: Pv. 30 Apelle ad Alessandro presentandogli Campaspe dipinta; Pv. 68 Turno a Lavinia; Pv. 77 Amore e Psiche, o letterario: Pv. 72 Armida nella partenza di Rinaldo). Ma veniamo alla relazione che intercorre tra Amore e Poesia: da Pv. 5 compare in molti testi il tema della sofferenza procurata dal desiderio d’amore109 e dal sentimento non ricambiato, così la Poesia viene vista come un conforto a queste pene, o il mezzo per sciogliere la durezza dell’amata. A fronte di ciò, il rapporto di dipendenza di Amore da Poesia può essere invertito, come in Pv. 14 A giovane poeta, che essendosi invaghito di bella donna cominciò ferventemente a poetare: Alle amorose tue febri cocenti tutte di Pindo accorsero le dive, 109 Sulla condanna inflitta dal desiderio al poeta amante, si leggano le belle pagine di Marco Praloran sul Canzoniere di Petrarca: M. Praloran, Lo splendore del mondo e la solitudine dell’io (RVF 310-20), in Il Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, cit., pp. 677-700.

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le vitali a recarti acque eloquenti, che corron là per l’Eliconie rive. Quindi non son di melodie mai prive, dando ristori a’ dolci tuoi tormenti; e la tua fama eternamente or vive, fatta fenice in queste faci ardenti. Entro un mare d’ardor, con saggi incanti, sai far, mostro canoro, acerbo gioco de’ corsari de’ secoli volanti. Lasci il mondo così dubbio non poco, nel giudicar s’han più soavi canti le sirene dell’acqua, o pur del foco.

L’amore è rappresentato come una «febre cocente», «face ardente», «mare d’ardor», «foco», in cui il poeta brucia; soltanto «le vitali acque eloquenti / che corron là per l’Eliconie rive» – perifrasi per indicare la poesia – possono ad un tempo dar «ristori a’ dolci suoi tormenti» ed eternare la sua fama, rinata dalle ceneri procurate dall’ardore del desiderio: «e la tua fama eternamente or vive / fatta fenice in queste faci ardenti». Grazie ai «saggi incanti» il poeta-amante, «mostro canoro», può «far […] acerbo gioco / de’ corsari de’ secoli volanti»110 (si veda la metafora nautica: mare, corsari); così il poeta si chiede nella chiusa del sonetto (utilizzando la tradizionale alternanza fuoco / acqua, ovvero AmorePoesia) se siano «più soavi i canti delle sirene dell’acqua, o pur del foco». Un ulteriore aspetto della poesia che viene indagato è quello della gloria poetica, che in Pv. 57 Mi glorio di me stesso, per esser venute molte bellissime dame a sentire alcuni miei componimenti poetici, viene correlato alla bellezza della donna; siamo oltre la metà della sezione e il poeta si concede uno spazio forse velatamente autobiografico: Coronatemi, o lauri. Il tracio legno a te, cetera mia, ceda i suoi vanti, che, se quegli placò lo stigio regno, tu cieli di beltà tragger ti vanti. De’ campidogli tuoi l’alto disegno io non invidio, o Tebro, a’ tuoi regnanti; che teatro più nobile, e più degno m’alzàr di belle ciglia archi stellanti. 110

Concetto già incontrato in Pv. 1, vv. 12-14: «Così nel corso lor col giro alterno / incatenando i secoli volanti / intreccino al mio crine un serto eterno», e in Pv. 2, vv. 1-4: «Di pierie magie fabro innocente / per l’aonie vagai selve romite / ove con arti armoniche erudite / incantato ho dell’Anno il fier serpente».

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Le stagioni poetiche di Lorenzo Casaburi Urries

Mecenati or non più chieggio a’ destini, ché d’alme bocche al plettro mio sonoro s’apron arche di perle, e di rubini. Taccia chi inutil chiama il dio canoro; ché di candidi petti, e biondi crini tratti ho monti d’argento, e fiumi d’oro.

Il sonetto è così strutturato: si apre con la consueta sentenza rilevata, in posizione iniziale, dalla forma esclamativa, che contiene il nucleo tematico svolto poi nel corso del componimento, e trova una sua conclusione nella pointe finale riassuntiva. La fortissima cesura del v. 1 accentua l’effetto di opposizione e la costruzione binaria dell’endecasillabo: al «tracio legno», ovvero alla lira di Orfeo, il cui suono riuscì ad arrestare le penitenze dei dannati e ad incantare i mostri e le divinità infernali agli Inferi («placò lo stigio regno»), il poeta oppone la sua «cetra», che ha il potere di trarre a sé «cieli di beltà», ovvero donne di celeste bellezza venute ad ascoltarlo. Nella seconda quartina, il confronto avviene addirittura tra i «campidogli» e gli «archi stellanti» che le donne innalzano con le loro ciglia al poeta, creandogli un «teatro più nobile, e più degno» de «l’alto disegno» dei colli di Roma. Nella prima terzina, ai «mecenati», sostenitori degli artisti, si contrappongono «arche di perle, e di rubini», ovvero i denti bianchissimi e le rosse labbra dell’«alme bocche» delle donne. Infine nella seconda terzina si afferma l’utilità della poesia («Taccia chi inutil chiama il dio canoro»), che riesce a richiamare a sé «candidi petti (X), e biondi crini (Y)», verso bimembre in rapportatio con l’ultimo, «monti d’argento (X1), e fiumi d’oro (Y1)», costruito sulla metafora che compara il seno al monte, il colore bianco del seno all’argento, il biondo dei capelli all’oro e le lunghe chiome ai fiumi. Si noti che i membri Y-Y1 sono rapportati a chiasmo. Abbiamo così dimostrato la centralità del tema della poesia nella Primavera, che si esplica nel suo relazionarsi con Amore e Tempo; il significato delle parti del canzoniere si combina con il concetto superiore da cui deriva il macrotesto (ricordiamolo, le quattro stagioni rese eterne e imperturbabili dalla poesia), nella direzione di un suo incremento semantico. Analizzeremo brevemente le sezioni rimanenti, cercando di provare la continuità di questo tema che, travalicando lo schema di divisione tematica, funziona da elemento aggregante dell’intera opera. 2.2 L’Estate: Apollo e Marte L’Estate è una delle parti più impegnative della raccolta, in quanto presenta una vera e propria raccolta di ritratti di personaggi virtuosi, grandi per-

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sonalità dell’epoca (come Est. 1 Alla Santità di Clemente Nono; Est. 2 Alla Maestà di Carlo II Re delle Spagne; Est. 5 All’Eccellenza del Sig. Principe di Scilla D. Francesco Maria Rufo ecc.; Est. 46 A Cristofano [sic] Colombo) o del passato che, come solito, funzionano da esempi di eroismo e di coraggio (Est. 7 Il fatto di Muzio Scevola; Est. 14 Atone combattendo, in una gran siccità, rifiuta un vaso d’acque; Est. 18 Scipione Affricano calunniato, abbandona la patria; Est. 38 Curzio precipitandosi nella voragine; Est. 58 Clelia in passando a nuoto il Tebro): il personaggio valoroso esce dalla storia o dal mito, per entrare in una dimensione atemporale, che lo rende dunque attuale anche nella contemporaneità, realizzando così un’esemplificazione grandiosa e gravis. Anche qui ritorna il leitmotiv della poesia, presenza viva e costante, come forza straordinaria che potenzia il coraggio e l’eroismo dei personaggi. Se nella prima sezione la relazione svolta era principalmente tra Amore-PoesiaTempo, qui è tra Marte-Poesia-Tempo. L’attività poetica non solo spesso affianca quella militare, ma è propria degli spiriti eroici e vince sul tempo, ovvero anche in questo caso ha potere di rendere eterne le «glorie preclare»111 sospendendo l’incalzare degli anni. Questa sezione si apre proprio con un sonetto dedicato Alla santità di Clemente nono, in cui il pontefice è preso a modello parimenti di santità e di poetico valore, grazie al quale egli può dare morte alla Morte: Odi plettri, e di scettri onor sovrano, tu del ferro l’età Clemente indori; ed intrecciando al crine allori, ed ori in Parnaso pompeggi, e in Vaticano. Hai di Pindo, e del Ciel le chiavi in mano, onde bear ti pregi e l’alme, e i cori; sa l’una aprir poetici tesori, sa l’altra disserrar di Dio l’arcano. Frangendo omai col venerabil segno, che ti raggia su ’l piè, le Stigie porte, con l’arpa estingui ad Atropo lo sdegno. Di ferir, di piagar t’è dato in sorte, scoccando stral di santità, d’ingegno, Pluto col piede, e con la man la Morte.

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Est. 4 L’argomento stesso, v. 12 (riferimento necessario ad Est. 3 Per la darzina fabricata in Napoli per ordine dell’Eccellenza del Sig. D. Pietro d’Aragona).

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Il v. 4 ben sintetizza questo legame attraverso una dualità ridotta: Clemente «in Parnaso pompeggi, e in Vaticano», concetto ripreso nella quartina successiva con l’accostamento Pindo / Ciel di cui egli possiede le chiavi che gli permettono di disserrare sia «poetici tesori» sia «di Dio l’arcano». Le terzine poi svolgono il motivo del rapporto con la morte: «l’arpa» di Clemente, ovvero la sua poesia, ha la capacità di frenare l’azione di Atropo, una delle Parche, di tagliare il filo della vita umana. La seconda terzina, come è usuale nella costruzione dei sonetti del Casaburi, contiene la sentenza finale: Clemente scocca «stral di santità, d’ingegno» con i quali ferisce «Pluto col piede, e con la man la Morte». La sintesi tra Poesia ed eroismo militare è evidente nel singolare sonetto Est. 19 Al sig. Antonio Muscettola, tutto imperniato sull’opposizione tra penna e spada, parole portatrici, attraverso un procedimento metonimico (il mezzo, lo strumento per l’azione), dei significati di Poesia e abilità nelle armi: Veggio or, che tratti Antonio e penna, e spada, volar la spada, e folgorar la penna; sì quel gran dittator con spada, e penna brandì la penna, ed impennò la spada. S’ad Alessandro egual ti fa la spada d’Omero sospirar non puoi la penna; anzi a te dee la gloriosa penna del forte Achille invidiar la spada. O pregio della spada, e della penna! Chi vide Apollo mai stringer la spada? E chi Marte mirò trattar la penna? Dunque, per celebrar tua penna, e spada, la stessa spada sia lucida penna, la stessa penna sia canora spada.

Superfluo dire che si tratta di un artificio verbale protratto e “ozioso”, inerte, realizzato con una costruzione a rime bloccate: ovvero si mantengono alternate in rima per tutta la durata del componimento (rima fissa) le stesse parole penna / spada. Antonio è simbolo ad un tempo di Apollo, dunque della Poesia, e di Marte, della guerra. La struttura bimembre del primo verso «Veggio or, che tratti Antonio e penna, e spada», è ripetuta esattamente nel primo verso della terzina conclusiva: «Dunque, per celebrar tua penna, e spada». I due versi finali mescolano ed incrociano nel chiasmo le caratteristiche della penna e quelle della spada: la stessa spada sia lucida penna la stessa penna sia canora spada.

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L’anafora di stessa, propone già un parallelismo tra i due oggetti, confermato dalla struttura doppiamente chiastica dei versi, visto che il chiasmo maggiore include anche un chiasmo minore, tra «lucida penna» e «canora spada»: lucida, attributo di spada, è abbinato a penna e, viceversa, canora, proprietà della penna, qualifica la spada. Questo procedimento rende evidente anche visivamente la fusione di entrambe le capacità nel medesimo soggetto. La poesia è celebrata come eternatrice degli eventi umani in Est. 30 Al sig. Federigo Meninni: Forse musico rastro è la tua penna, e canoro giardin son le tue carte, poich’ambrosia recar sanno le carte, ch’arate fur dalla nettarea penna? Meninni, o pur dirò tromba la penna, di cui campo guerrier sono le carte, mentre il tempo a sfidar risorti in carte son mille eroi, cui suscitò la penna? O la penna è scalpel, marmi le carte, ove scolpì l’eternità la penna, onde trono immortal t’alzan le carte? O, s’al canto il confin dai con la penna, erudito ocean son le tue carte, ed erculea colonna è la tua penna?

Il senso del sonetto ruota sulla perennità delle carte di Meninni, «erudito ocean», e sulla fermezza della sua penna «erculea colonna» che segna «il confin» del canto. Come nel sonetto precedente, la fissità delle parole rima carte / penna fornisce già la sintesi del componimento, costruito su una serie di interrogazioni retoriche rivolte al dedicatario dei versi. Senza dubbio, la posizione marcata al centro del verso (e al centro del componimento, visto che si tratta della seconda quartina e della prima terzina) delle espressioni: «il tempo a sfidar» (v. 7, con iperbato), «l’eternità» (v. 10, con iperbato), «immortal» (v. 11, con iperbato), suggerisce e suggella l’idea che quelle carte possono interrompere la fuga del tempo, e conseguentemente annientare la morte. Questa meta è perseguita soprattutto attraverso un tipo di poesia, quella eroica, come attesta il sonetto Est. 33 Al Sig. D. Camillo de’ Notariis. Per lo suo «Costantino», poema eroico, in cui compare di nuovo l’artificio della rima fissa che questa volta alterna Morte / Tempo: Mentre gl’incliti eroi, di cui la Morte gloriosi trionfi eresse al Tempo,

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da te rapiti a suon di tromba al Tempo, sorgono in guerra a debellar la Morte, stupisce a tal miracolo la Morte, a sì raro stupor s’arresta il Tempo; poiché le leggi sue già rotte il Tempo, e tolto vede il suo valor la Morte. Quindi intenta al pugnar la Morte, e ’l Tempo, vien trafitto dall’armi il seno a Morte, e tarpate restàr l’ali del Tempo. Temere il Tempo, e paventar la Morte non più devi, Camillo. In un col Tempo, spenta al tuo piè precipitò la Morte.

Sono «gl’incliti eroi, / […] rapiti a suon di tromba al Tempo» del poema Costantino a «debellar la Morte». Degna di attenzione è la seconda quartina, per l’iperbolica e paradossale immagine della Morte e del Tempo che si meravigliano davanti «a tal miracolo […] / a sì raro stupor»; il Tempo vede infrante le sue leggi, e la Morte si accorge di aver perduto tutto il suo valore davanti a quello della Poesia. La seconda terzina sancisce la vittoria di Camillo, successiva al duello svoltosi nella precedente, su Tempo e Morte, che precipitano sconfitti ai suoi piedi. Ma la poesia non propone solo esempi grandi, non favorisce esclusivamente alte imprese, ma esalta anche la bellezza, come si evince da Est. 39 A bellissima dama napoletana, che professa poesia: Pindo, e Cipro t’inchina, o saggia, o bella fra le Camene avvezza, e fra gli amori; hai, le menti allettando, ardendo i cori, ogn’ingegno idolatra, ogni alma ancella. Già già l’occhiuta dea dubia favella, se ne’ fogli, o nel volto hai tu più fiori, se lo stile, o la mano ha più candori, se più sana, o più fère, o questo, o quella. Sopiti i sensi altrui, le luci hai spente all’armonia del disusato incanto, al gemino degli occhi almo oriente. Il famoso Peneo la gloria, e ’l vanto ceda al Sebeto. In te s’ammira, e sente di Dafne la beltà, d’Apollo il canto.

Il movimento del sonetto è senza dubbio binario, al fine di evidenziare le due qualità che si concentrano nella donna qui celebrata, ovvero bellezza e

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abilità poetica, «Pindo, e Cipro», «di Dafne la beltà, d’Apollo il canto». Persino la Fama, «l’occhiuta dea», non sa risolversi su quale delle due doti in essa emerga: «se ne’ fogli, o nel volto hai tu più fiori / se lo stile, o la mano ha più candori». Infine il «famoso Peneo», ovvero il fiume della Tessaglia, patria di Dafne, deve cedere gloria e vanto al Sebeto, fiumicello napoletano di memoria virgiliana, che simboleggia la provenienza della donna. Si rilevi il procedimento, abbastanza diffuso nella poesia barocca, della geminatio ad inizio verso, «già già», elemento ritardante di tipo litanico e fiabesco che contribuisce «a minare e compromettere definitivamente la ‘forma’ stessa del sonetto, che si dimostra difatti […] troppo rigido e angusto per le nuove esigenze poetiche»112 e che, in questo caso, contribuisce a rafforzare l’idea dell’indecisione della Fama. Concludiamo questo percorso all’interno dell’Estate con il sonetto che chiude la sezione, posto in posizione dunque strutturalmente rilevante, Est. 87 Che più dell’armi, si deono pregiar le lettere, dove si dichiara la superiorità della Poesia rispetto a Marte: Ceda Marte ad Ermete. Ecco delira, perché conteso ha con Ulisse, Aiace. Non trionfa de’ mostri Ercole audace, se catene eloquenti egli non spira. Esca d’insani incendi Ilio si mira, che ’l Palladio gli tolse acheo sagace. Né fa tromba mugghiar turba pugnace, ove sonò di Pindaro la lira. Speme di palme a’ suoi guerrier comparte, mentre dell’oste a declinar lo sdegno, Bruto dà volo alle vergate carte. E, perché possa ubbidienti al segno le saette mandar, costretto è Marte gir dalle penne a mendicar sostegno.

La sentenza iniziale sancisce la superiorità di Ermete, dio dell’eloquenza e della scrittura, inventore della lira, su Marte, dio della guerra; Ercole non può trionfare sui mostri se non utilizza anche la sua astuzia, «catene eloquenti», oltre che la forza fisica; la «tromba» della «turba pugnace», non può «mugghiar […] / ove sonò di Pindaro la lira». La prima terzina contiene un

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G. Cerboni Baiardi, Storia e strutture della prima lirica mariniana, in «Studi secenteschi», vol. VI, 1965, pp. 3-35, in partic. p. 21.

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altro esempio tratto dalla storia di Roma: forse il riferimento è a Marco Giunio Bruto, uccisore di Cesare, che alleatosi prima con Pompeo partecipò alla battaglia di Farsalo, dopo la quale scrisse una lettera di scuse a Cesare («vergate carte»), in seguito alla quale egli gli affidò il governo della Gallia Cisalpina. Nel giro della terzina finale è confermato il medesimo concetto: Marte per indirizzare le sue «saette» è costretto «gir dalle penne a mendicar sostegno». 2.3 L’Autunno: il «novo Apollo» Passando ora in rassegna i testi di Autunno, si intuisce che in generale mirano all’impegno morale, contro la corruzione e i vizi del mondo contemporaneo. Per mostrare questo dilagare della dissolutezza, e il disprezzo che nutre verso di essa, Lorenzo utilizza in maniera sempre più estesa figure mitologiche e storiche; avvicinandosi gradualmente alla conclusione dell’opera, ci si accorge che i riferimenti diventano sempre più enigmatici e lo stile più elevato. Apre la sezione un sonetto che fotografa l’ultimo istante della vita di un personaggio glorioso come Alessandro Magno: Aut. 1 Alessandro il Grande moribondo e questo, a mio avviso, può rappresentare un elemento di raccordo, seppur esile, con la sezione precedente, in quanto chi è moribondo è qui il simbolo del potere terreno (riferimento ai personaggi celebrati nelle Eroiche) che, come tutti gli uomini, diventa debole e impotente davanti alla morte. Al tempo stesso introduce il tema della vanità e labilità delle cose terrene, come le effigi del potere che sono nulla perché destinate a incenerire: Dunque fia ver, che si vedrà consunto di morte al gel, chi fu di Marte il foco? Due stille d’acqua a sospirar son giunto, io, ch’i flutti del mar mi presi a gioco. Aura leggiera a ristorarmi invoco, s’ogni vento al mio pro volò congiunto. La mia grandezza, a cui quest’orbe è poco, terminerà della mia morte il punto? Quel, che nume approvàr l’opre ammirande, in vece alfin del nettare giocondo, gustar dee d’amarezze atre bevande? Lasso, che del mio fral cadendo al pondo, se mi fu lieve peso il mondo grande, or sostener non posso il picciol mondo.

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Il tono complessivo è drammatico, e chi pronuncia questi versi nella solitudine del soliloquio ha la tragicità di un eroe vinto: Alessandro Magno misura la debolezza del suo corpo vecchio (si noti l’aggettivo poetico «frale» qui sostantivato), la sua stanchezza fisica («lasso» è in posizione rilevata a inizio terzina) che prende rapidamente e inesorabilmente il sopravvento sulla sua passata potenza. La triste e angosciosa riflessione sulla morte è sottolineata dal susseguirsi di quesiti che egli rivolge a se stesso. Dunque «chi fu di Marte il foco», simbolo del vigore bellico, «si vedrà consunto», ovvero consumato (participio passato che ci riporta all’ambito della materialità del corpo), «di morte al gel». Marte si oppone con un parallelismo a morte, confondendosi quasi con essa grazie alla paronomasia apofonica; e il foco della vita cede al gelo della morte. Il sonetto procede per immagini oppositive, sottolineate dall’alternanza di tempo presente e passato remoto; la forza di un tempo scompare, si scioglie hic et nunc nell’estrema vulnerabilità della carne: anela a «due stille d’acqua» da portare alle labbra, lui (l’io rilevato mostra il suo potenziale emblematico) che si prese gioco dei «flutti del mar»; proprio colui che vide «ogni vento» soffiare benevolo e favorevole alle sue azioni, ora «invoca» un’«aura leggiera» che porti sollievo ai suoi patimenti. Invece del nettare giocondo, alla fine dei suoi giorni «gustar dee d’amarezze atre bevande». Il peso del «mondo grande» conquistato e sostenuto nel corso della sua vita terrena come fosse «lieve peso», è sostituito ora dal «picciol mondo» (si noti il chiasmo finale tra vv. 13-14), vale a dire dal suo corpo, divenuto ormai un involucro insostenibile113. L’apertura di tono elegiaco è utile per comprendere lo sviluppo in questa sezione della tematica della Poesia. Il disprezzo dei vizi come l’ipocrisia, l’avidità di ricchezze o di sapere, la falsità e la corruzione (emblematici sono i sonetti introdotti nel titolo da Contro, come Aut. 23 Contro amore, Aut. 24 Contro l’oro, Aut. 25 Contro l’ippocrisia; Aut. 48 Contro huomo avaro) è inframezzato da continue considerazioni sul processo di elaborazione poetica. Esso è concepito come un’attività di cesello che richiede impegno, cura e disciplina; il poeta allontana il sonno, come si evince da Aut. 16 Alzandomi di notte tempo a poetare, per dedicarsi con acribia e sforzo alle sue carte: Per te, Sonno, fugar, come ha costume, Febo l’arco sonante a me comparte. 113

La stessa immagine si ritrova nelle Sirene (sempre dall’ed. a cura di D. Chiodo et al., cit.): cfr. n. 16, Concerto IV, XXXIV, Commendo l’«Aure di Parnaso», poesie del signor Don Lorenzo Casaburi, mio fratello, vv. 12-14: «Fia lieve impresa al pettine giocondo, / s’egli il metro spirò nel mondo grande, / a compor l’armonia del picciol mondo».

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Già con le penne io vo’ cangiar le piume, né i lini più, ma premerò le carte. Per le prove vergar d’Amor, di Marte selci non cerco a mendicarne il lume, i doppieri da me stiansi in disparte, mentre nel petto ho della luce il nume. Inceppino del Sol gli aurei cavalli di Tetide nel sen lacci ferrigni, finché de’ fogli io non emendi i falli. Che, se co’ fausti lor canti benigni mi danno applauso in su la notte i galli, spero, ch’al dì m’applauderanno i cigni.

L’«arco sonante» di Febo, «le penne» e «le carte», indicatori metonimici della scrittura poetica, si sostituiscono al normale riposo notturno, simboleggiato dalla costellazione lessicale «sonno», «piume», «lini». L’attività poetica non richiede «doppieri» che diffondano luce artificiale sui fogli intatti da riempire, perché il poeta sprigiona già dal suo petto «della luce il nume»114. La prima terzina svolge il tema della lunga gestazione di un’opera letteraria: la continua revisione, la riscrittura, il travaglio stilistico attraverso i molteplici emendamenti degli errori compiuti: con una perifrasi temporale il poeta infatti si augura che il giorno non arrivi «finché de’ fogli io non emendi i falli»115. Questa idea è confermata da Aut. 36 Essendomi state recate alcune mal composte poesie in cui, e contrario, si lamenta della cattiva poesia: Chi l’orecchio m’attosca? Ahi quali io sento Scille rabbiose, e Cerberi latranti? Cigno non sei, ma per l’altrui tormento all’augello di Tizio usurpi i vanti. Volgerei più giocondo i miei sembianti di Fereo al can, ch’al tuo letal concento; e, per sottrarmi a’ tormentosi canti, su i letti di Procuste andrei contento.

114 Si ricordino i vv. 1-4 di Pv. 4 (cit. sopra al § 2.1): «Col domestico lume altri pur tenti / accrescer lumi a’ numeri sudati, / ch’a far chiaro il mio stil saran possenti / i dolci rai di duo begli occhi amati». 115 Si noti a v. 11 il gioco fonico di allitterazione della f evidenziato dal mio corsivo. Su questo tema del poeta critico di se stesso e perennemente insoddisfatto della sua opera, vedi anche: Aut. 56 Al Sig. D. Antonio Casaburi, mio fratello, che m’affretta a dare alle stampe le mie poesie in Biblit.

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Lasci Perillo omai l’opre omicide, ch’altre opre uscir dalla tua man discerno; di cui più crude un Falari non vide, che, se le Furie un dì fugò d’Averno, la ceterea toccando il gran Davide, tu sai chiamar nell’altrui cor lo ’nferno.

La poesia mal composta è come «tosco» per le orecchie, un latrato di Cerbero, un tormento paragonabile a quello subito dal gigante Tizio, condannato ad essere torturato dalle aquile. I toni di sdegno diventano ancora più forti nella quartina successiva dove la dissonanza e disarmonia dei versi è definita «letal concento» e «tormentosi canti». Il fastidio procurato al lettore è esemplificato iperbolicamente da un catalogo di efferate torture tratte sempre dal repertorio storico-mitologico: Fereo, ovvero Alessandro di Fero, spietato tiranno che faceva sbranare i nemici da cani feroci; Procuste, che escogitò il supplizio del letto cui sottoponeva le sue vittime, facendole stendere su di esso e tagliando loro le gambe se da quello sporgevano, o stirandole con forza finché non raggiungessero la misura esatta. Infine Perillo fuse per incarico del tiranno Falaride («Falari») un toro di bronzo che, fatto arroventare, doveva ospitare i condannati. Tutte le pene (quasi una serie di adynata) sono paradossalmente preferibili rispetto a quella della cattiva realizzazione poetica. La chiusa finale introduce il forte contrasto tra Davide, profeta di Israele, poeta per eccellenza della cultura biblica, che con il suo canto, «la ceterea», liberò Saul dai demoni infernali, e il «tu» riferito all’indegno e goffo poeta che con i suoi versi può «chiamar nell’altrui cor lo ’nferno», invece di allontanarlo. In linea con questa posizione sulla poesia, Lorenzo specifica che essa non può nascere e svilupparsi nei luoghi corrotti, come quello della corte, in particolare in Aut. 53 In persona di giovane poeta, che scrive dalla corte: Venni al mar della corte, ove a’ miei pianti sembrano scogli irrigiditi i cori. Ami formano qui gli altrui sembianti, chinati sol per involar tesori. Ingrate arene ha qui sempre anelanti, senza frutto produr de’ miei sudori, ne’ cui d’infedeltà gorghi spumanti son costretto a gittar le gemme, e gli ori. Ogni rio di virtù qui s’amareggia; e, per esser più grande altrui veduto, l’uno l’altro divora in questa reggia. Tace al suo mormorar mio plettro arguto; e, benché naufragante ognor mi veggia, debbo il pesce imitar nell’esser muto.

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Singolare la metafora continuata della corte-mare (per cui si vedano le parti evidenziate dal corsivo nel testo), in cui i cuori si pietrificano in «scogli irrigiditi» a causa delle sole leggi vigenti in «questa reggia»: la brama esasperata di gloria («per esser più grande altrui veduto») e di ricchezza, l’«infedeltà» e la mancanza di gratitudine. E così la vera poesia, «mio plettro arguto», laddove percepisce il «mormorar» di questo mare di immoralità, non può che tacere, imitando il pesce che è muto. L’idea è rafforzata a rovescio in Aut. 60 Dimoro contento in villa, dove è decantata la purezza e la simplicitas della vita campestre, lontano dalle cure e dai vizi della città: Le tenebre dell’animo s’aggiornano, se gli omeri de’ platani m’ombreggiano, co’ Pindari qui i musici gareggiano, che in cattedra che veggeta, soggiornano. Qual porpora, i papaveri m’adornano, me Zeffiri odoriferi vezzeggiano; le lucciole, che tremole lampeggiano, il fulgido carbunculo qui scornano. I rivoli qui limpidi mi tergono, e l’edere, che vincono i Vetruvi, piramidi sonnifere già m’ergono. Né struggomi più in flebili diluvi per Fillide, ma in giubili m’immergono le lagrime, che versano i Vesuvi.

Ai vv. 3-4 si afferma che in questi luoghi ameni i poeti possono fare a gara con i Pindari (si noti il ricorrere dell’uso del plurale del nome mitologico); la loro «cattedra» è «veggetale», e tutto lo scenario naturale favorisce l’esercizio lirico; il poeta non versa più «flebili diluvi» per l’amata Fillide, ma gioisce per «le lagrime che versano i Vesuvi». Arte è vinta da Natura. Spiccano in questo sonetto gli spunti cromatici e l’intensità chiaroscurale già dal primo verso, dove «le tenebre» dell’animo disperato del poeta dipingono il buio, mentre la forma verbale «s’aggiornano» (ovvero si rischiarano), la luce diurna; nei versi seguenti il nuovo chiarore che assume toni rossastri è sprigionato dai «papaveri», rossi come «porpora», e dalle «lucciole che tremole lampeggiano» emettendo un fulgore più intenso di quello del «carbunculo»116. 116 carbunculo: pietra preziosa dotata di intensa luminescenza di colore rosso. Vedi OVI (Banca dati del Vocabolario Italiano, centro del C.N.R. Opera del Vocabolario Italiano presso l’Accademia della Crusca http://ovi.cnr.it), ad v. carbunculo. Per l’immagine della luc-

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Il discorso si sposta poi su un genere peculiare di poesia, quella spirituale, che è in grado di consolare dalle pene d’amore117, anticipando quella refutatio amoris, cardine della sezione successiva, l’Inverno. La mutatio animi del poeta implica un graduale distacco dagli errori giovanili118, fino al disinganno nei confronti del sentimento dell’amore terreno, e al rifiuto del canto amoroso per innalzare il proprio ingegno verso la sfera celeste. Mi riferisco in particolare a Aut. 39 Mi pento de’ passati amori, in leggendo alcune poesie sacre di celebre poeta: Qual di novo Davide arpa sonante le mie tutte frenò Furie amorose? Quali traggon d’Orfeo corde pietose dallo ’nferno d’amor l’anima amante? De’ tuoi carmi in virtù caddero infrante le catene, ch’al piede Amor mi pose. E, novo Apollo, a’ tuoi bei lumi ascose Venere per vergogna il suo sembiante. De’ pensieri fuggìo la turba immite, che rubato dal cor del sangue ha gli ostri, sol de’ calami tuoi le trombe udite. Sì le carte vergando a me tu mostri che sono per saldar le mie ferite, fasce i tuoi fogli, e balsami gli ’nchiostri.

Il poeta si rinnova, rifiuta le frivole tematiche amorose grazie alla lettura delle rime spirituali, «corde pietose» che «traggon dallo ’nferno d’amor l’anima amante», dove si noti la forza della figura etimologica che occupa due versi «amorose» (v. 2) «amor […] amante» (v. 4) in punta di verso. Se l’Amore incatena, in virtù dei nuovi versi «caddero infrante / le catene» (con rejet del soggetto nel verso successivo a sancire la liberazione dalla schiavitù d’amore). I «bei lumi» del nuovo Apollo, ovvero del poeta sacro, offuscano persino la bellezza di Venere che «ascose / […] per vergogna il suo sembiante». Ed ecco i pensieri d’amore, fatti «turba immite» come di diavoli, fuggire

ciola, tipica della fantasia barocca e per il suo valore di vivente metafora: cfr. I Marinisti, a cura di G. Getto, cit., p. 43. 117 Già presente in Pv. 14 A giovane poeta, che essendosi invaghito di bella donna cominciò ferventemente a poetare, analizzato sopra al § 2.1. 118 A tal proposito, in questa sezione troviamo sonetti contro amore e misogini: Aut. 23 Contro amore (vv. 1-2: «Chi siegue Amor felicità non speri, / ch’a piaceri allettando, a strazi espone»); Aut. 46 Che dee fuggirsi qualunque femmina.

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solo al suono delle «trombe de’ calami», andandosene così dall’anima afflitta. Il «novo Davide» con l’«arpa sonante» salva il poeta dalle ambasce d’amore, come Saul dall’Inferno119, promuovendo (seconda terzina) le sue «carte» ad oggetti salvifici, in grado di medicare le ferite: il verso bimembre finale accentua infatti l’accostamento tra i «fogli» e «gli ’nchiostri», strumenti della scrittura e, rispettivamente, le «fasce» e i «balsami» curativi. 2.4 L’Inverno: la Poesia e «l’acquisto del cielo» Giunti all’ultima parte, l’Inverno, si conclude il nostro cammino sul filo del discorso poetico attraverso le quattro “macrosequenze” dell’opera; l’impressione che si ha è che proprio questa continuità tematica rafforzi il senso del macrotesto e delinei, in filigrana, una tenue struttura narrativa120. In primis soffermiamoci sulla organizzazione della sezione. Pur constatando, come accade sovente nella produzione lirica di questo contesto121, l’incapacità di scorgere un preciso criterio nella collocazione delle singole rime, si deve pur rilevare, nel caso in esame, non tanto una costellazione di nuclei tematici, alla maniera delle sezioni precedenti, quanto piuttosto una disposizione in blocchi abbastanza definiti, che ho cercato di illustrare, secondo questa scansione: a. componimenti lugubri-encomiastici, scritti in occasione dell’infermità o della morte di personaggi celebri per il loro ruolo sociale: – cardinali: Inv. 1 In morte del Sig. Cardinal Filamarino; – capitani: Inv. 7 In morte di prode capitano, il cui cadavere non si trovò in una vittoria da lui ottenuta; – principi: Inv. 8 Al Signor Principe di Sanseverino, et al Sign. D. Girolamo Albertino. In morte del Signor D. Giulio Albertino (canzone); 119

Eco di Aut. 36 Essendomi state recate alcune mal composte poesie, vv. 12-14, dove ricorre lo stesso episodio biblico. L’iterazione delle immagini è una peculiarità anche di Pietro Casaburi, come si evince dal già ricordato saggio di Bàrberi Squarotti premesso alle Sirene di Pietro Casaburi. 120 Mi riferisco a quanto detto in apertura di questo studio, sul percorso di maturazione delineato dal macrotesto: dalla giovinezza, età delle vaghe illusioni dell’amore terreno, fino all’età adulta e senile in cui si sceglie la retta direzione, che porta all’amore spirituale. 121 V. Guercio, Introduzione a G.B. Marino, Rime lugubri, cit., p. 16: «L’osservazione, insomma, di analogie e differenze interne alla sezione, fa pensare, in più luoghi, ad una logica e modo, semplicemente, ‘di lavoro’, tra l’altro invalso e normalmente accettato, che non necessariamente ha bisogno, per reggersi, di essere riferito a disegni generali, ma può benissimo conservare dosi, di volta in volta variabili, di ‘casualità’, ‘gratuità’, ‘occasionalità’».

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– poeti: Inv. 6 In morte di famoso poeta, che per insegna fa un leone; Inv. 40 A scrittor di poesie spirituali; b. componimenti lugubri, in morte di familiari del poeta: – Inv. 2 In morte di D. Maria Casaburi, mia sorella; Inv. 3 L’argomento stesso. Consolo la Sig. D. Margarita Urries, mia madre; Inv. 15 Alla Santissima Vergine. Per una grave infermità del Sig. Fulvio Casaburi, mio padre; Inv. 16 Alla Santissima Vergine. Per una grave infermità della Sig. D. Margarita Urries, mia madre; c. componimenti lugubri, per malattia o morte di giovani anonimi: – Inv. 4 A bellissimo giovane annegato in mare; Inv. 5 Per b. d. che piange sopra il cadavere del marito; Inv. 49 Consolo giovane travagliato dal mal della pietra; d. componimenti scritti per celebrare eventi significativi dal punto di vista religioso (nella contemporaneità): – Inv. 39 Si gloria Nola della manna di S. Felice suo primo vescovo. Al Sig. D. Andrea de Ferrariis tesoriere del duomo di Nola; Inv. 53 Per la cappella della SS. Vergine Annunziata eretta a musaico dall’Eminentiss. Sig. Card. Filamarino Arcivescovo di Napoli nella chiesa de’ SS. Apostoli; e. componimenti vari di soggetto spirituale: – Inv. 9 Ricorro ad un crocifisso per aiuto al poetare; Inv. 12 Peccatrice pentita; Inv. 18 Propongo di menar vita solitaria, e povera, per l’acquisto del cielo; Inv. 20 Alla granadiglia; Inv. 31 Alle lagrime; Inv. 32 Per una croce spezzata da un fulmine; Inv. 34 Essendo io stato chiamato ad un convito. A D. Michiele Casaburi, mio fratello; Inv. 46 Son vago di piangere le proprie colpe; Inv. 48 Oro a piè d’un crocifisso; Inv. 56 Nel dì delle ceneri; f. galleria di ritratti di santi (colti spesso nel momento del martirio o del miracolo); celebrazione della Vergine (una corona mariana: Inv. 11, Inv. 15, Inv. 16) e dei momenti fondamentali della vita di Cristo: – Inv. 10 Nel Natale di Cristo Signor Nostro; Inv. 11 Alla Santissima Vergine nostra Signora; Inv. 13 A Santa Agata essendole troncate le mammelle. Al Reverendiss. Sig. D. Giovan Vincenzo d’Amati Vicario della città di Nola; Inv. 14 A S. Francesco d’Assisi, che supera le tentazioni della carne tra le fiamme; Inv. 15 Alla Santissima Vergine. Per una grave infermità del Sig. Fulvio Casaburi, mio padre; Inv. 16 Alla Santissima Vergine. Per una grave infermità della

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Sig. D. Margarita Urries, mia madre; Inv. 17 Per S. Dionigi Aeropagita, che porta il proprio capo su le mani; Inv. 19 S. Apollonia nel suo martirio; Inv. 21 Pietro Abailardo avanti al crocifisso (si tratta di Abelardo); Inv. 22 S. Paolo accende una colonna di marmo, mentre predica; Inv. 23 A S. Felicita, mentre è martirizzata con sette figliuoli; Inv. 24 S. Tecla nella fossa de’ serpenti, dalla quale uscì illesa; Inv. 25 Nella morte di S. Teresa fiorì un albero secco presso la sua cella; Inv. 26 S. Andrea apostolo in mirando la croce, dove essendo stato sospeso, vi predicò due giorni; Inv. 27 Giobbe. Dipintura; Inv. 28 Nella Passione di Cristo Signor nostro; Inv. 29 S. Ignazio Loiola dentro un lago agghiacciato distorna un giovane impudico da’ suoi amori; Inv. 30 Per S. Benedetto, che supera le tentazioni della carne nelle spine; Inv. 33 S. Ignazio, mentr’è condotto ad esser divorato dalle fiere; Inv. 35 S. Francesco lasciando la veste al padre; Inv. 36 A tre Magi; Inv. 37 S. Sebastiano; Inv. 38 San Francesco Xaverio vedendo un granchio portargli il suo crocefisso cadutogli in mare; Inv. 41 A Pilato, che si lavò le mani nel dar la sentenza di morte a Cristo Sig. nostro; Inv. 42 S. Erasmo; Inv. 43 A S. Apollonia; Inv. 44 Per Sant’Ottone, che liberò la città d’Ariano dall’assedio de’ saraceni faccendo piover pietre; Inv. 45 Sant’Antonio da Padua predicando, tira i pesci ad ascoltarlo; Inv. 47 Per la conversione di S. Dionigi Areopagita. Al Sig. D. Gennaro d’Auria; Inv. 50 A S. Stefano; Inv. 51 San Tomaso Cantuariense; Inv. 52 San Cosmo al tiranno, che gli dimandò con qual arte sanava gl’infermi; Inv. 54 San Tomaso apostolo a’ ministri, mentre nell’Indie era saettato; Inv. 55 A Santa Maria Maddalena predicante; Inv. 57 San Lorenzo. Ciò che balza all’occhio è senza dubbio la predominanza delle rime spirituali rispetto a quelle lugubri. Le rime in morte si concentrano nella prima parte (punti a-c), mentre è quasi assoluta e compatta la presenza di sonetti di argomento religioso o dedicati ai ritratti dei santi, di Cristo e della Vergine, nella seconda (punti d-f). Allineando i dati, è plausibile pensare che il poeta abbia meditato non tanto sull’accostamento dei singoli testi tra loro, quanto sulla posizione dei grandi gruppi. In buona sostanza, c’è da chiedersi se, nel concentrare le rime lugubri nella prima parte e le spirituali nella seconda, il poeta non risponda solo ad un criterio di ordine naturale in accordo con il titolo (soggetti lugubri e sacri), ma intenda anche indicare l’iter di purificazione compiuta dall’anima, dalla morte fisica del corpo al suo ingresso nella vita ultraterrena.

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I componimenti compresi nei gruppi d-e, si distribuiscono casualmente, ma abbastanza equamente, in tutta la sezione, rappresentando spesso delle pause di raccoglimento o di intermezzo che precedono o seguono le scene più mistiche, come Inv. 18 Propongo di menar vita solitaria, e povera, per l’acquisto del cielo, collocato tra i due ritratti di santi S. Dionigi Aeropagita e S. Apollonia. Occorre osservare, anche in questa quarta e ultima parte, la trattazione e lo sviluppo del tema della Poesia; prendiamo in particolare Inv. 6 In morte di famoso poeta, che per insegna fa un leone, sonetto di elogio, che offre l’occasione al poeta di confermare il ruolo della poesia spirituale (già avanzato nella sezione precedente) di illuminare e rinsavire: Quel mirabil LEONE, il cui ruggito vinse de’ cigni i più soavi accenti; nelle selve nemee non già nudrito; ma su l’alte pimplee selve eloquenti. Quel sì chiaro LEON, ch’a Febo unito con sacri ardori illuminò le menti; e fe’ raccorre in sul castalio lito di sovrane virtù messi eminenti; Quel gran LEON, che nettari fragranti dalle fauci stillò, per cui si ponno i Minossi bear co’ Radamanti; riposa qui. Che le sue luci or vonno, nelle notti erudite ognor vegghianti, dopo lunghe vigilie, un lungo sonno.

È probabile che Lorenzo si riferisca a Leone Allacci, teologo, tra i fautori dell’accordo dottrinale tra ortodossia e Chiesa di Roma, studioso, scrittore e bibliotecario. Nato a Chio nel 1586 circa, convertitosi dalla religione ortodossa al cattolicesimo, e trasferitosi quindi in Italia, dapprima a Messina, poi a Paola e quindi a Napoli, fu uomo di grande cultura e autore di notevoli imprese in campo editoriale e catalografico; morì a Roma proprio nel 1669, anno di pubblicazione delle Quattro stagioni. Fu un personaggio molto importante per la cultura dell’epoca, in quanto seppe coniugare una impeccabile carriera dottrinale – fu consulente di teologia del cardinale Lelio Biscia – con quella di collezionista di manoscritti e opere rare: fu infatti bibliotecario del cardinale Francesco Barberini, e papa Alessandro VII lo nominò custode della Biblioteca Vaticana nel 1661, incarico che conservò per tutta la vita. Scrisse inoltre diverse opere tra le quali: De Graecorum hodie quorundam opinationibus (Colonia, 1645); De ecclesiae occidentalis atque orientalis perpetua

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consensione (Colonia, 1648), Concordia nationum orientalium christianarum in fidei catholicae dogmate (Colonia, 1655), La Drammaturgia (Roma, 1666), catalogo dei componimenti italiani atti alla rappresentazione122. Naturalmente si tratta di una ipotesi, suffragata però dalla collocazione del testo nell’Inverno, sezione dedicata per lo più a personaggi religiosi. La seconda ipotesi, a mio avviso molto meno convincente, che si può avanzare sull’identità di questo poeta, è basata sull’emblema della famiglia (anche se Leone parrebbe il nome e non l’emblema), ovvero il leone d’oro, arma della nobile famiglia napoletana Macedonio, a cui appartiene il celebre Marcello Macedonio (Napoli 1582-1620), gesuita, poeta della prima generazione barocca, autore del canzoniere Le nove Muse (Napoli, 1614). Come vediamo i dati non sono molto compatibili con il poeta celebrato da Lorenzo: il Macedonio muore infatti nel 1620, dunque troppo distante dal nostro giro di date, così come troppo lontana dall’epoca del Casaburi è la data di edizione della sua opera. Ma torniamo all’analisi del nostro testo. La struttura anaforica (vv. 1, 5, 9) non integrale ma con variazioni nell’attributo di Leon («mirabil», «chiaro», «gran») e con dimostrativo («quel») che «serve a circonstanziare l’oggetto dell’esperimento, sottrarlo al tempo, disporlo all’osservazione»123, si risolve nella terzina finale con incipit lapidario da epitaffio funebre: «Riposa qui», che produce lo slittamento semantico dal piano della vita a quello della morte. Il nome del destinatario offre materia al poeta per costruire un bisticcio onomastico che avvia la catena metaforica: questo Leone, il cui ruggito supera i «soavi accenti» degli altri «cigni» (poeti), è cresciuto non nelle selve del mitico leone di Nemea, animale gigantesco e invulnerabile, ma nelle «alte selve pimplee», ovvero sacre alle muse, «eloquenti» perché dalla fonte che si trovava sul monte Pimpla sgorgava l’ispirazione poetica. Ma l’aspetto qui dominante è che la sua è una poesia spirituale: «con sacri ardori illuminò le menti», e apportò al «castalio lito / di sovrane virtù messi eminenti»; dalle sue fauci escono «nettari fragranti» che fanno «bear» i giudici infernali (ovvero Minosse e Radamanto). Il riposo finale è la naturale conseguenza di tante notti «erudite», di «lunghe vigilie»: e qui è verosimile il riferimento (se si trattasse proprio dell’Allacci) alla sua instancabile passione di collezionista e studioso di manoscritti antichi che raccolse nella Biblioteca Vaticana. 122 D. Musti, ad v. Allacci Leone, in Dizionario biografico degli italiani, cit., 1960, vol. I. Si veda inoltre il suo rapporto con Gaspare de Simeonibus vescovo, teologo e poeta barocco: la sua orazione celebrata dal Casaburi in Est. 79 Per una orazione, «De concepta Deipara», di Monsignor Gasparo de Simeonibus contiene anche un epigramma in lingua greca di Leone Allacci (vedi in questo studio, al § 1. L’autore del canzoniere: Lorenzo Casaburi Urries. Tracce biografiche la lista dei familiari del Casaburi al punto 8). 123 G. Cerboni Baiardi, Storia e strutture della prima lirica mariniana, cit., p. 29.

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Altra virtù della poesia è quella di eternare la memoria dei defunti, come si evince dalla canzone Inv. 8 Al Signor Principe di Sanseverino, et al Sign. D. Girolamo Albertino. In morte del Signor D. Giulio Albertino, di cui citiamo un brano (vv. 118-135): Generosi ALBERTINI, per più degno Patroclo, oggi stringete il calamo, qual asta, Achilli ascrei. I plettri peregrini, come più chiari i timpani, potrete far rimbombar su i margini timbrei. E tra’ guerrier Febei, fatte scudi le cetre, e campi i fogli, ite di Morte a rintuzzar gli orgogli. So, ch’alla torva Arciera sarà velen l’armonioso inchiostro, onde cadrà, senza trovar difese. Quindi alla man severa tragga l’armi omicide il valor vostro, e su l’urna immortal restino appese. Poi con destra cortese ite, a fregiar del caro GIULIO i marmi co’ poetici fior de’ vostri carmi.

Forte e risoluto è l’invito rivolto a Gentile e Girolamo Albertini a scrivere carmi («oggi stringete / il calamo») per decorare la lapide del celebre defunto, ed eternarne così il nome («l’urna immortal»). La Poesia per annientare la Morte si serve di queste armi: «il calamo, qual asta», «i plettri» come «timpani», «le cetre» come «scudi», e «i fogli» come «campi» di battaglia. L’«armonioso inchiostro» è «velen» per la «torva Arciera», la Morte, che «cadrà, senza trovar difese». Proseguendo nell’esame dell’Inverno, affiora un altro snodo, legato al momento della genesi poetica: il poeta che ha allontanato le pene d’amore grazie alla lettura di poesie spirituali124, trae ora ispirazione non più da Amore ma dal crocifisso, come si legge in Inv. 9 Ricorro ad un crocifisso per aiuto al poetare, sicuramente da mettere a confronto con Pv. 3 Amor fu cagione del mio poetare 125: 124 Vedi a questo proposito: Aut. 39 Mi pento de’ passati amori, in leggendo alcune poesie sacre di celebre poeta, analizzato sopra. 125 Cfr. l’analisi del sonetto in questione nel § 2.1 di questo studio.

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Già le fole febee poste in non cale, tu, nuda Verità, fregia il mio stile; tu, qual VERBO salubre, a te simile spira alla lingua mia metro vitale. Per te, lucida via, spiegar vo’ l’ale a còr le palme, ond’ho gli allori a vile. Apri tu ne’ miei fogli eterno aprile, o de’ campi del ciel fiore immortale. Per trafigger del vizio il mostro indegno, strali mi sien delle tue tempie i dumi, e per giunger di gloria a più bel segno. Questo aperto tuo fianco aonii fiumi sgorghi più chiari al tenebroso ingegno, mentre de’ ciechi ha disserrato i lumi.

La parola chiave del sonetto è certamente «Verità» qui invocata nella forma della prosopopea, «qual verbo salubre», perché infonda nel poeta «metro vitale». Il lessico adottato trae spunto dall’ambito dell’oratoria sacra (cfr. i termini evidenziati in corsivo nel testo), le immagini sono spesso esasperate da un linguaggio che punta alla massima tensione; il tono enfatico è molto simile a quello che ritroviamo nel Pietro sacro delle Sirene, commentato dalle parole di Giorgio Bàrberi Squarotti: Certamente non è da chiedere a un poeta barocco, e tanto meno a Pietro Casaburi, la religiosità dell’intimo cuore, dell’anima che anela a Dio. Pietro esteriorizza l’impulso religioso e, in genere, i temi sacri. È, del resto, la stessa figura fondamentalmente scenica della prosopopea che Pietro adopera nelle molte presentazioni di personaggi storici, assunti come esempi eroici, ma ancora più in funzione di adattabilità delle loro proverbiali vicende alla tensione metaforica che ha il compito di rinnovarle126.

La nuova poetica della verità incarnata nel Verbo divino si contrappone alle «fole febee» (Pv. 3, v. 1), favole e incanti evanescenti della giovinezza: il pentimento e la predica nei confronti dei vizi sono tipici della religiosità barocca, alimentata continuamente dalle inquietudini terrene dell’uomo del Seicento, preoccupato della morte che incombe e ossessionato dall’idea del sepolcro. Anche in questo caso, come all’inizio della Primavera, il poeta desidera «rischiarare il suo stile», ma mentre in Pv. 4 «a far chiaro il suo stil saran pos126

Pietro Casaburi Urries, Le Sirene, testo e note a cura di D. Chiodo et al., cit., p. XX.

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senti / i dolci rai di duo begli occhi amati»127, qui invece è «l’aperto fianco» di Cristo sulla croce a far «sgorgar più chiari al tenebroso ingegno»128 i «fiumi» poetici. L’aprile degli amori, qui diventa «eterno aprile», agli allori poetici si sostituiscono le sacre «palme», realizzando un percorso chiaramente ascensionale. Il desiderio di congiungimento con la realtà divina si scontra tuttavia con l’incapacità della poesia ad esprimere a parole tutta la grandezza celeste, secondo il tradizionale topos della ineffabilità di Dio e della Vergine; in particolare questa difficoltà si presenta nei sonetti dedicati alla Vergine, come Inv. 11 Alla Santissima Vergine nostra Signora: Quali degne di te formar parole potrà la musa mia, Vergine bella? Darti di mare il titolo non vuole, se chi confida in te, non ha procella. Rosa non t’osa dir, poiché non suole sentir, chi stringe te, spina rubella; se generasti il Facitor del sole, scema le glorie tue, se sol t’appella. Se ciel, dell’ardir suo pave le pene, c’hai del sen virginal chiuso nell’arca, chi l’universo tutto in man contiene. Se reina del mondo, è pur ben parca, mentre suddito a te d’esser sostiene della terra, e del cielo il gran Monarca.

Nessuna entità terrena può competere con la bellezza e le virtù della Vergine, nuovo oggetto di contemplazione del poeta: né il «mare» (prima quartina), né la «rosa», né il «sole» (seconda quartina); non il «cielo» (prima terzina), e neppure la «regina del mondo» (seconda terzina). L’ultimo sonetto dedicato alla poesia che propongo alla lettura, è Inv. 40 A scrittor di poesie spirituali, che converge nella scelta di una poesia lontana ormai dalla precarietà e dalla fallacia dei sentimenti umani, guidata invece dalla potenza del mistero divino: Mentre, ch’al piè del nostro Dio languente, mesci, sacro cantor, col pianto il canto; 127

Pv. 4 Ingenium nobis ipsa puella facit, vv. 3-4. Eco di Pv. 3 Amor fu cagione del mio poetare, v. 4: «foschi i sensi esprimeva, oscuri i versi» dove ritorna l’immagine dell’oscurità legata alla difficoltà poetica. 128

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more la Morte in gemino torrente, ch’ei l’annega nel sangue, e tu nel pianto. Nella Terra de’ cor produce intanto fiori d’alte virtù l’umor dolente; dall’armoniche tue gocciole infranto d’ogni petto ostinato è ’l sasso algente. Con le lagrime formi all’alme un vallo, onde il guado non ha l’angue maligno, e s’adornano al cielo in quel cristallo. Esulta il mondo al tuo languir benigno; s’un Pietro lagrimò cantando un gallo, ogni huom gioisce al lagrimar d’un cigno.

L’armonia che nasce dalla penna del «sacro cantor» commuove, è intrisa di lacrime (una presenza costante in tutto il componimento: cfr. le parti in corsivo nel testo), può scalfire anche i cuori più ostinati e duri, e vincere sulla Morte: «more la Morte»129, grazie al sacrificio supremo di Cristo che «l’annega nel sangue», e grazie al poeta spirituale che l’annega «nel pianto». 2.5 Proposte e Risposte: l’eterno canto Per concludere, vorrei dedicare un breve spazio alla sezione di Proposte e Risposte. Si tratta di una poesia celebrativa dell’opera di Lorenzo, infarcita di elogi di ogni tipo, piuttosto sterile e scontata: spesso i componimenti inviati a Lorenzo contengono l’espediente della diminuctio auctoris da parte di chi scrive nei confronti dell’abilità del destinatario, seguono poi “controelogi” nella risposta in cui il poeta cerca di volgere la diminuctio a sua volta in lode. Ritorna naturalmente l’assunto secondo il quale Le quattro stagioni sono in grado di arginare il flusso ininterrotto del tempo: l’armonia della poesia di Lorenzo, rendendo eterne e fruttuose le stagioni, trasforma la transitorietà della vita terrena in eternità del canto, vedi ad esempio Prop. Risp. 25 Del medesimo (ovvero Del Sig. D. Giuseppe Mastrilli Gomez): Poiché sciogli, LORENZO, a suon di lira con vago stil misterioso canto, novo Febo ciascuno or te rimira, ch’informar le stagion pur ti dai vanto. 129

Si noti a inizio del v. 3 la potenza della figura etimologica: «more la Morte», con prosopopea della Morte.

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Nella tua PRIMAVERA ecco s’ammira muto starsi ogni augello al dolce incanto. E nella STATE il sol fosco si mira, mentre fregi gli eroi con chiaro ammanto. Se le morali io leggo, e dotte carte, la penna tua con più gradito effetto le dolcezze d’AUTUNNO a me comparte. Nel VERNO poi da’ tuoi concenti astretto di pianto acque darò diffuse, e sparte, e co’ sospiri miei vento dal petto.

Il verbo «informar» indica proprio questo processo di ricreazione reso possibile «a suon di lira», da «misterioso canto». Dalla seconda quartina al termine del componimento si passano in rassegna di nuovo le singole stagioni poetiche e le loro virtù: nella Primavera si ammira un «dolce incanto» davanti a cui ogni uccello tace; nell’Estate il «chiaro ammanto» degli eroi offusca la luce del sole; l’Autunno colmo di moralità, diffonde «dolcezze»; infine i sublimi «concenti» dell’Inverno scatenano pianti e sospiri di pietà. Le Risposte 130, costruite specularmente, ovvero attraverso il recupero delle immagini delle Proposte, svolgono a loro volta l’encomio del destinatario, amplificando la concezione della poesia come labor limae, esercizio di cesello, che richiede impegno e sudore, addirittura «affanno», come si può vedere ad esempio in Inv. 4 Rispondo (al Sig. D. Camillo de’ Notariis) Tanta virtù le mie stagioni or hanno dal chiaro del tuo ’ngegno alto fanale, che boreal congiura, o pure australe non v’oserà di fabricar mai danno. Soffro, immerso in sudor, canoro affanno, per innalzarmi oltre il sentier mortale; e contro gli anni antidoto vitale esser mi possa armonioso un anno. Congiunto con autunno april fecondo, e sfavillar la state al verno in seno io vanterò di palesar nel mondo. Così della mia gloria apre il sereno l’iride del tuo plettro, il cui bel pondo è giogo al tempo, ed alla morte è freno.

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Ad ogni proposta segue la rispettiva risposta.

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«Soffro» in posizione rilevata seguito da «immerso in sudor, canoro affanno» indicano la fatica del lavoro stilistico, finalizzato ad elevare il poeta «oltre il sentier mortale», per raggiungere le vette eterne. Nella prima terzina ritorna il tema della ciclicità delle nuove stagioni: «congiunto con autunno april fecondo / e sfavillar la state al verno in seno», che riprende i versi (vv. 79-81) della canzone di dedica iniziale Dell’Illustrissimo, et eccellentissimo Signore D. Gentile Albertino principe di Sanseverino, et Cimitino: Ma v’ammira Natura della state nel sen l’autunno eterno, eterno in grembo a primavera il verno.

Ho già evidenziato (cfr. § 2) la presenza dell’anadiplosi (eterno / eterno), schema ripetitivo assai diffuso nella poesia di Lorenzo, con effetto ritardante che travalica lo schema metrico e che, in questo caso, fa risaltare la congiunzione delle stagioni in un’unica stagione eterna, quella della poesia. Concludo questo excursus attraverso gli «aurei fogli»131 di Lorenzo con alcune considerazioni riassuntive di carattere generale che condenserò in pochi enunciati. Innanzitutto partendo da dati concreti, ovvero dalla disposizione dei microtesti in ogni microcanzoniere (in ogni sezione), ho potuto verificare che la collocazione dei componimenti, la loro distanza o contiguità non risponde a particolari criteri organizzativi, quanto piuttosto a quello della varietà. La presenza costante e continua dell’elemento metapoetico, tuttavia, invita a considerarlo il nodo macrotestuale della raccolta, ovvero quell’asse tematico unificante che rafforza il significato sotteso alla partizione esterna. Il sistema che contiene i microtesti rappresenta una Nuova Natura poetica, di cui il poeta è «il gran Fattore»132 e che ha potere di «antidoto vitale» «contro gli anni»133. Essa si articola e prende forma in orizzontale, lungo le sezioni, seguendo il

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Prop. Risp. 9, Del Sig. D. Girolamo Albertino, v. 5. Inv. 51, Al Reverendiss. Sig. D. Francesco Antonio Curzio, dottor delle leggi, mentre predica nel duomo di Napoli, v. 12. 133 Prop. Risp. 4, Rispondo (in riferimento alla Prop. Risp. 3, Del Sig. D. Camillo de’ Notariis), che riproduciamo qui interamente: «Tanta virtù le mie stagioni or’hanno / dal chiaro del tuo ’ngegno alto fanale, / che boreal congiura, o pure australe / non v’oserà di fabricar mai danno. / Soffro, immerso in sudor, canoro affanno, / per innalzarmi oltre il sentier mortale; / e contro gli anni antidoto vitale / esser mi possa armonioso un anno. / Congiunto con autunno april fecondo, / e sfavillar la state al verno in seno / io vanterò di palesar nel mondo. / Così della mia gloria apre il sereno / l’iride del tuo plettro, il cui bel pondo / è giogo al tempo, ed alla morte è freno». 132

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naturale percorso dell’esistenza dalla vita alla morte e arricchendosi delle caratteristiche proprie di ogni stagione. Nella Primavera Poesia nasce da Amore, vince su Tempo, ma è vinta da Amore (i versi non riescono a mitigare la durezza della donna petra); nell’Estate Poesia vince su Tempo, su Morte e su Marte; nell’Autunno Poesia non attecchisce nei luoghi corrotti e si eleva ad indagare lo spirito, vincendo così su Tempo e su Morte (solo la poesia sacra può allontanare le anime dalla perdizione). Essa è in grado anche di vincere sull’amore terreno sensibile, concedendo all’amante disperato eterna pace e guidandolo verso l’amore di Dio. Infine nell’Inverno, Poesia, sebbene sia vinta da Dio, dato che non possiede i mezzi per esprimerne la grandezza, sconfigge la Morte (rendendo eterna la memoria dei defunti): ferma e immortala il corso delle stagioni della vita – irripetibili – offrendo a chi ne fruisce la possibilità di riviverle attraverso il semplice atto – ripetibile – della lettura, che è in fondo una forma di perpetuazione della memoria.

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Marco Leone PER UNA STORIA DELLE FORME POETICHE TRA BAROCCO E ARCADIA: LE POESIE LIRICHE (1689) DI ANTONIO CARACCIO

Nel libro Barocco in Arcadia, pubblicato nel 1950, in una fase di riscoperta del Barocco letterario, Carlo Calcaterra rovesciava un consolidato schema interpretativo: la considerazione della fondazione dell’Arcadia (1690) come netta frattura tra due civiltà culturali e letterarie, con la conseguente attribuzione a quella data di un alto valore simbolico e convenzionale. Quel discrimine, fissato dalla critica allora quale perentorio displuvio storiografico, era ridiscusso dallo studioso, che metteva in evidenza la persistenza di influssi secenteschi anche nella stagione successiva: «Sotto alte professioni di semplicità il barocco, nuovo Proteo, aveva preso altri colori»1. Dieci anni dopo, un importante Convegno, organizzato dall’Accademia dei Lincei e tenutosi a Roma nell’aprile del 1960, si occupò nello specifico dei confini cronologici del Barocco, dilatandone la periodizzazione dalla fine del Cinquecento (Manierismo) sino ai primi decenni del Settecento (Rococò) 2. Nella scia di questa visione di lunga durata, che non esitava ad applicare categorie artistiche (Manierismo, Rococò) alla storiografia letteraria, altri illustri critici (Croce3, Fubini4, Binni5) si impegnarono nella ricostruzione della variegata 1

C. Calcaterra, Il Barocco in Arcadia, Bologna, Zanichelli, 1950, p. 4. Cfr. Manierismo, Barocco e Rococò: concetti e termini, Convegno Internazionale Roma 21-24 aprile 1960, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1962. 3 B. Croce, L’Arcadia e la poesia del Settecento, in La letteratura italiana del Settecento, Bari, Laterza, 1949, pp. 1-14 (il saggio risale al 1945). 4 M. Fubini, Arcadia e illuminismo, in Questioni e correnti di storia letteraria, Milano, Marzorati, 1965, pp. 503-95. 5 W. Binni, L’Arcadia e il Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1963 (i primi tre capitoli: La formazione della poetica arcadica e la letteratura fiorentina di fine Seicento, Prearcadia settentrionale, Il petrarchismo arcadico e la poesia del Manfredi, pp. 3-115). 2

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transizione dal Barocco all’Arcadia, talvolta con riferimento a singole realtà regionali (la «Prearcadia» fiorentina e quella settentrionale), e non vi individuarono esclusivamente elementi di discontinuità, ma anche di permanenza e di protrazione, tipici di tutte le stagioni di trapasso. Questa prospettiva, sgombra da semplificative polarizzazioni (corruzione/rinascita) e attenta alle sfumature intermedie, ha riguardato parimenti la letteratura meridionale6, che presenta, in tale fase, tratti peculiari, fra resistenze barocche, in versione estremistica e iperbolica (Artale, Lubrano) 7, posizioni di taglio “prearcadico” (il petrarchismo di Buragna, Schettini8, Caloprese) e polemiche letterarie, indicative di una incipiente mutazione di gusto e di orientamento poetico9. L’analisi di contesti regionali spesso disvela una dialettica di spinte e di controspinte, di impulsi innovativi e di istanze tradizionaliste che reillumina anche il piano della letteratura nazionale, in un panorama creativo significativamente percorso da tensioni difformi e disomogenee, che si innestarono sulla crisi delle poetiche barocche e che anticiparono la restaurazione arcadica. In area regnicola, queste tensioni diversificate erano il frutto di un caratterizzato clima culturale, dominato dalla presenza dell’accademia degli Investiganti e dal radicamento di impulsi razionalistico-cartesiani, insorti in quel consesso accademico e propagatisi nella coeva attività creativa10. Recepì questa temperie, tra suggestioni tardo barocche e iniziali stimoli arcadici, anche il salentino Antonio Caraccio (nato a Nardò di Lecce nel 1630), che ebbe la sua formazione proprio a Napoli, a contatto con intellettuali investiganti e con esponenti di spicco del ceto civile, e che poi si trasferì 6

A. Quondam, Dal Barocco all’Arcadia, in Storia di Napoli, vol. VI, t. II, Napoli, Esi, 1970, pp. 810-1094. 7 F. Croce, La lirica tardo barocca dell’Artale, del Lubrano e del Dotti, in Tre momenti del barocco letterario italiano, Firenze, Sansoni, 1966, pp. 221-392. 8 Cfr. P. Schettini, Opere edite ed inedite, edizione critica a cura di V. Giannantonio, Firenze, Olschki, 1999. 9 Particolarmente importante la polemica Meninni-Cicinelli-Battista, sulla quale, oltre a Binni (L’Arcadia e la poesia del Settecento cit., p. 48) e Quondam (Dal Barocco all’Arcadia cit., pp. 905-9), cfr. G. Rizzo, A Napoli, tra censure, affetti caritativi e furti svelati (G. Battista, G. Cicinelli e F. Meninni), in Filologia e critica tra Sei e Ottocento, Galatina, Congedo, 1996, pp. 31-44; Id., Baldassarre Pisani tra Federico Meninni e Giuseppe Battista, in Le inquiete novità. Luoghi, simboli e polemiche di età barocca, Bari, Palomar, 2006, pp. 177-90. 10 Cfr. S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, 1965; N. Cortese, Cultura e politica a Napoli dal Cinque al Settecento, Napoli, ESI, 1965; B. De Giovanni, La vita intellettuale a Napoli fra la metà del ’600 e la restaurazione del regno, in Storia di Napoli, vol. VI, t. I, Napoli, Esi, 1970, pp. 401-534.

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stabilmente a Roma (dove morì nel 1702), entrando a far parte dell’Accademia degli Umoristi e divenendo membro effettivo dell’Arcadia con il nome di Lacone Cromizio (qui ricoprì anche la carica di magistrato) 11. I biografi del Caraccio (e in particolare l’arcade Domenico De Angelis, incaricato dai soci dell’Accademia di scriverne il profilo biografico12) ne mettono in risalto l’iniziale vocazione letteraria nel segno del Tasso, testimoniata dalla composizione del perduto poemetto in ottave Le lagrime d’Alcione, per il quale il Caraccio si vantava, nell’età matura, di aver superato in precocità versificatoria il poeta sorrentino13. Dopo il rifiuto di proseguire gli studi di legge, ai quali l’aveva avviato il padre, il Caraccio si dedicò soprattutto alla scrittura di un impegnativo poema epico di impianto tassesco-controriformistico (L’Imperio vendicato, pubblicato in una prima edizione nel 1679 e in una seconda, con sensibili mutamenti, nel 1690) e, successivamente, a una tragedia d’argomento storico-politico e d’ambientazione medioevale (Il Corradino, dato alla stampe nel 1694). Ma egli compose anche una raccolta di Poesie liriche, che pubblicò a Roma nel 1689 14, con immediata e favorevole accoglienza nel sodalizio d’Arcadia15. Nel Voto de’ Deputati d’Arcadia intorno alla Vita del Caraccio, riportato dal De Angelis e firmato dal fiorentino Benedetto Menzini e dal ferrarese Giulio Cesare Grazzini, si legge: «Denno ancora come buone accettarsi alcune canzoni delle sue rime, sì per essersi egli allontanato, per quanto a lui fu possibile, dalla corruttela del secolo, come per le molte altre

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Per la biografia di Antonio Caraccio, cfr. D. De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, Firenze, s. t., 1710 (ristampa anastatica: Bologna, Forni, 1973), Parte prima, pp. 171-207. Una versione ridotta di questo medaglione biografico, a cura di G. Boccanera, è in Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Napoli, Gervasi, 1813 (ristampa anastatica: Bologna, Forni, 1977-1978), t. II, ad v. Ma cfr. anche F. Castrignanò, Antonio Caraccio: cenno biografico-critico, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1895, L.M. Personè, Un poeta pugliese del secolo XVII, in «La Gazzetta di Puglia», 3 gennaio 1925 e la scheda di S. Nigro, Caraccio Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XIX, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960, pp. 301-2. Sul complesso della produzione poetica di Caraccio, cfr. Quondam, Dal Barocco all’Arcadia cit., pp. 845-52. 12 La Vita caracciana del De Angelis fu inserita nel primo tomo delle Vite degli Arcadi illustri, allestito dal Crescimbeni, con dedica al cardinale Tommaso Maria Ferrari (Roma, per Antonio de’ Rossi alla piazza di Ceri, 1708, pp. 141-68). 13 De Angelis, Le vite de’ letterati salentini cit., 172. Con l’esigenza di profilare la biografia caracciana su analogie tassesche si giustifica anche il topico richiamo alla malinconia (ivi, p. 179). 14 A. Caraccio, Poesie liriche, Roma, Nicolò Angelo Tinassi, 1689 (della raccolta ho procurato una edizione in formato digitale per la Biblioteca italiana telematica). 15 F.S. Quadrio, Della storia, e della ragione d’ogni poesia, vol. II, Milano, Francesco Agnelli, 1741, pp. 335-6.

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bellezze che le rendono assai pregevoli»16. Una parte di questi componimenti, infatti, fu ritenuta degna di essere riproposta nel quarto tomo delle Rime degli Arcadi 17, a riprova del pieno inserimento del loro autore nell’accademia romana, come esemplare testimonianza di una poetica innovativa e gradualmente allontanatasi dalle caratterizzazioni tardo barocche. In questo tomo sono comprese quindici poesie del Caraccio, tutte inserite nella pubblicazione del 1689, ad eccezione di una18, con un equilibrato dosaggio tra esemplificazioni petrarchistiche e tematiche encomiastico-occasionali: la mescolanza dei temi richiama la mescolanza delle forme (delle quindici poesie fanno parte undici sonetti, tre canzoni, un poemetto) e conferma la varia ispirazione del Caraccio. Le Poesie liriche, se furono pubblicate a ridosso della fondazione dell’Arcadia, dovettero avere probabilmente un iter compositivo piuttosto lungo, almeno a partire dalla data della prima edizione del poema (1679), come si vedrà meglio in seguito, anche a non voler tenere in conto la pubblicazione della giovanile canzone epitalamica Il Fosforo (1650) 19, e racchiudono un percorso creativo che va dagli esordi sino alla maturità e che ebbe forse la sua fase cruciale proprio nel decennio abbondante intercorrente tra la prima e la seconda edizione (1690) dell’Imperio Vendicato (dunque, durante la proficua permanenza del Caraccio a Roma). A questo proposito, è opportuno segnalare ciò che Francesco Brunacci dice nella prefazione al lettore, con immagine tratta dalla dimensione figurativa: È stato giudicio di persone di savio intendimento ch’alla pubblicazione d’una parte dell’Imperio vendicato fatta gli anni passati dal Sig. Baron Caraccio dovea andar innanzi questa delle sue Poesie liriche, sì per seguir l’ordine della natura, ch’ama quello del tempo, sì perch’egli medesimo nella proposizione di quel 16

De Angelis, Le vite de’ letterati salentini cit., p. 197. Rime degli Arcadi, t. IV, Roma, per Antonio Rossi alla piazza di Ceri, 1717, pp. 14774. I componimenti compaiono senza titoli, né didascalie. Si riportano qui con la didascalia che li accompagna nell’edizione 1689: In morte della Sig. Beatrice Saladina sua moglie, Alla medesima, S. Dimna. Tragedia del Sig. Cardinale Pamphilio rappresentata in musica, Al Sig. Prencipe D. Gio. Battista Pamphilio, Alla Sig. D. Flaminia Pamphilii Prencipessa Pallavicina, Tempo e modo del suo innamoramento, Per la Diana. Pittura del Sig. Carlo Maratta, Cadavero intatto di B. D. dopo un anno, Doppio amore, Gelosia, Innamoramento in lontananza (sonetti); Bella intrecciata, Palagio d’Atlante, L’agricoltura (canzoni); L’assemblea dei fiumi (poemetto). 18 Fa eccezione il sonetto epitalamico Or che sen viene alla città del Taro (ivi, p. 148). 19 Pubblicata a Lecce, presso il Micheli, nel 1650, in occasione delle nozze di Cosmo Pinelli, duca dell’Acerenza, e Anna Ravaschieri dei principi di Belmonte, ma non compresa nella raccolta del 1689. 17

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poema le avea supposte. E se non altro per rispetto, almeno per vantaggio del poema stesso col maggior credito dell’autore: parendo ad essi che difficilmente si accetta una grand’opera di pittore ignoto e del quale non si sia veduta lungo tempo prima l’abilità sua ne’ piccoli quadri da testa o di meze figure. Onde persuaso dai loro consigli e dal desiderio ch’è s’è veduto in tutti di queste rime, ci s’è lasciato indurre; considerato che la regola loro non è fuor di tempo, poiché del poema epico non datone allora che venti canti per un semplice saggio, si può bene dire che le rime gli precedono or, che già compìto, sta per uscire alla luce per intiero20.

Il Brunacci aggiunge poi che la silloge include, oltre ad alcune rime giovanili, trascelte tra quelle «più purgate» («vaneggiamenti della mia gioventù» definisce i suoi componimenti lo stesso poeta, nella dedica al cardinale Pamphili21), anche poesie scritte successivamente e inserite dal Caraccio nella sua raccolta, perché da lui considerate «più nette» di altre. Si tratterebbe, dunque, solo di una selezionata porzione di una produzione lirica ben più ampia, destinata a comparire in «un maggior volume di rime», che l’autore avrebbe dovuto pubblicare una volta liberatosi dalla «più importante sua applicazione» del poema. Questa intenzione, però, insieme con quella di dare alla luce altre opere, non sarà mai attuata: È ben vero che poche, anzi pochissime te ne presenta, e quelle sole che, fatte fin dai primi anni, ha ritrovato più purgate o che, nel farle dopo, gli sono riuscite più nette. Dell’altre, in assai maggior numero, non gli è permessa per ora la correzione dall’assidua e più importante applicazione a questa voluminosa e grande opera. Ma se a Dio piacerà ch’egli se ne liberi, aspetta pure non solo maggior volume di rime, ma con la tragedia del Corradino e quella della Tisbina, molte altre sue opere in prosa e in verso22.

Lo stesso Caraccio, d’altronde, precisa nella dedica al Pamfili che questa raccolta fu stampata sulla spinta di richieste amicali, con la volontà di sottrarre alla dispersione l’abbondante materiale poetico, e che molto di questo materiale fu composto al tempo del suo servizio alla corte del cardinale (dunque, dopo il suo trasferimento a Roma), magari come primo assaggio in vista della pubblicazione di corpora lirici più impegnativi, se si deve dar credito a ciò che dice il Brunacci. Afferma, infatti, il Caraccio, facendo ricorso al tra-

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Caraccio, Poesie liriche cit., p. [3]. Ivi, p. [1]. 22 Ivi, pp. [3-4]. A parte Il Corradino, nessuno di questi progetti letterari vide la luce. 21

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dizionale topos modestiae e caratterizzando la prevalente inclinazione encomiastica della personale ispirazione («gli ossequii miei»): La poca attenzione c’ho avuto a far vedere i vaneggiamenti della mia gioventù e l’occasione che da’ principi non ho avuto di pubblicare gli ossequii miei verso di loro, è stato cagione che queste poche poesie vengano così tarde alla luce del mondo. E forse non ci sarebbono venute mai, se non fusse lo stimolo degli amici e ’l proprio rimorso di non abbandonare anche queste alla fortuna di molte altre, che, fidate alla sola memoria o lasciate ai semplici sbozzi di carte volanti, si son perdute. Ma qualunque e quante elle si siano, io le dedico a V. Em. Prima, perché nate la maggior parte nella sua casa e da un suo servitore, chi non sa che da un padre costituito in servitù nascono i figliuoli con la medesima soggettione? Secondariamente, perché, quando per sé stesse non siano buone, il saranno almeno in opinione delle genti: le quali non potranno mai persuadersi che cose volgari e di poco pregio siano dedicate ad un Prencipe di sì profondo sapere e di tanta eccellenza nella stessa poesia 23.

Dunque, le Poesie liriche sono una selezione di rime via via composte, ma allestite nello scorcio finale di secolo con criterio aderente al gusto restaurativo che si stava imponendo nella città pontificia; in esse sono individuabili i diversi passaggi della formazione lirica del poeta, da una riconoscibile matrice investigante-napoletana, su originari presupposti tasseschi, verso una ripresa matura e rivitalizzata di quegli stimoli giovanili nelle forme di un raffinato classicismo. La raccolta del Caraccio rappresenta così l’espressione di una complessa e lunga fase di transizione letteraria e, proprio per questo, accoglie influssi diversificati, nonostante il suo concepimento in clima prearcadico e il successivo parziale accoglimento di alcune di queste poesie nell’antologia ufficiale del sodalizio romano24. Anzi, proprio il criterio seguito per l’allestimento della raccolta (la scelta di quelle «più purgate») segnala che questa summa lirica, riguardante un segmento significativo dell’attività del poeta, nasce probabilmente da un processo di riadattamento e di revisione di componimenti per la maggior parte già esistenti e precostituiti, e poi riorganizzati in conformità al nuovo orientamento letterario al tempo della loro pubblicazione (1689). La stessa genesi della silloge, insomma, rivela una progressiva tensione verso le formule poetiche elaborate a ridosso dell’istituzio23

Ivi, pp. [1-2]. A questo proposito, Quondam (Dal Barocco all’Arcadia cit., p. 1070) nota che la presenza delle poesie caracciane nelle Rime degli Arcadi è indice della «scarsa coerenza e omogeneità di risoluzioni teoriche» che contrassegnarono la fase iniziale dell’Accademia romana. 24

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ne del consesso romano e una rilettura in prospettiva regolarizzata e normalizzatrice della lezione secentesca, depurata dagli eccessi del barocco estremo. Questa rilettura punta a rivisitare e a reinterpretare gli stilemi di una tradizione ancora viva, sebbene ormai crepuscolare, dando luogo a risultati di contaminazione e di sincretismo che sfiorano l’ibridazione. Le Poesie liriche sono, infatti, un esito non pienamente definito nei suoi presupposti creativi, nel quale i retaggi secenteschi sopravvivono opportunamente celati dietro movenze classicistiche, come sintomo di quella «condizione difficile» di cui parla Quondam per questo poeta 25, operoso sul crinale tra Barocco e Arcadia e crocevia di articolate tendenze culturali26, tra pulsioni investiganti e annessione ufficiale ai ranghi dell’accademia del Gravina e del Crescimbeni. Ma in esse è percepibile pure una faticosa ricerca di originalità stilistica, con un consapevole e mirato ricupero di specifici modelli (Testi, Chiabrera e in genere tutto il versante classicistico e barocco-moderato del Seicento), che potevano risultare autorizzati nella nuova temperie, dopo un profondo riassorbimento e una diligente revisione formale, atta ad espungere i tratti ancora legati al vecchio gusto. L’autentica cifra ideologica e il processo di costituzione della raccolta caracciana non possono essere colti davvero, tuttavia, se ne viene trascurato l’intreccio con la composizione del poema, come suggerisce proprio lo stesso Caraccio sin dal sonetto proemiale, forse scritto in prossimità della stampa dell’opera o comunque in età più avanzata rispetto ai «vaneggiamenti giovanili» (significativa l’opposizione «Giovin nocchier» – «or su ’l plettro vo’ […] / cantando»). Sembra quasi, insomma, che il poeta voglia in apertura indicare una prospettiva cronologica, dentro la quale collocare la formazione della sua raccolta (dalla giovinezza verso la maturità), utilizzando un testo lirico che ha la chiara funzione di avviso segnaletico e di dichiarazione programmatica: Giovin nocchier, ch’inferma ancor la mano senta al timon, lungi non va da i lidi e parte e vien pria che l’antenna ei fidi le tempeste a tentar d’ampio oceano. Tal io per molto corso andar lontano non oso e torno spesso a i porti fidi di questo mar, dove fan cigni i nidi, non alcïon dolente o mergo insano.

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Quondam, Dal Barocco all’Arcadia cit., p. 845. Sul minore come cartina di tornasole di tendenze culturali generali, cfr. M. Marti, Il “Minore” come crocevia di cultura, in Critica letteraria come filologia integrale, Galatina, Congedo, 1990, pp. 75-102. 26

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E or su ’l plettro vo’ teneri amori cantando spesso, or di real colomba le lodi, e spiche auguste e regii fiori. Tempo fia che là ’ve più il mar rimbomba di venti e d’onde, oltre gl’Ispani e i Mori, inalzerò le vele a suon di tromba27.

Come si può notare, dietro l’immagine topica e convenzionale del nocchiero, frequentemente ricorrente nelle poesie caracciane28, si cela un richiamo esplicito alla poesia lirica, considerata ambito creativo sicuro e privilegiato, soprattutto nella sua declinazione encomiastica («[…] or di real colomba / le lodi e spiche auguste e regii fiori») e amorosa («E or su ’l plettro vo’ teneri amori / Cantando spesso […]»); e, nello stesso tempo, propedeutico rispetto alla pratica della musa epica, che è invece rinviata a una stagione successiva e più matura («Tempo fia che […] / Inalzerò le vele a suon di tromba»). In realtà, il Caraccio aveva già pubblicato, nella scia dell’epica controriformistica, come si è già detto, un poema in venti canti, L’Imperio vendicato (1679)29, che aveva goduto di un buon successo e che palesemente si rifaceva alla Liberata del Tasso. In esso l’autore rievocava le vicende della quarta crociata e della riconquista, da parte dell’esercito latino, di Bisanzio (1204), strappata al dominio greco; vi celebrò, inoltre, il valore di Venezia in funzione della devozione dimostrata dalla città lagunare, in quell’occasione, alla Chiesa romana (per questo, nel 1679, il Caraccio ottenne dalla Serenissima Repubblica il titolo di Cavaliere di San Marco, di cui egli andò sempre orgoglioso). Lo scontro tra i crociati latini, capeggiati dal doge Enrico Dandolo, e i greci era evidentemente riattualizzato alla luce delle coeve tensioni che percorrevano la galassia del cristianesimo europeo (conflitto cattolici-protestanti, affermazioni di correnti ereticali come molinismo, quietismo), ancora in fermento nonostante la legittimazione del protestantesimo ad opera della pace di Westfalia (1648), e non costituiva un tema troppo originale, dal momento che Lucrezia Marinella aveva pubblicato a Venezia nel 1635 un poema avente il medesimo soggetto (l’Enrico, overo Bisanzio acquistato), nel solco di un filone epico d’argomento “bizantino” di ampia diffusione secentesca. Ma il

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Caraccio, Poesie liriche cit., p. 1. L’immagine del nocchiero ritorna nella canzone Prudenza nocchiera, dedicata al Pamfili, nella canzone epitalamica La navigazione, in quella intitolata Sensualità terrena, nel sonetto Tra gli strepiti del foro può aver anche luogo la poesia. 29 L’imperio vendicato, poema eroico d’Antonio Caraccio barone di Corano, Roma, per Giovan Battista Bussotti, 1679. 28

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Caraccio rivitalizzava quell’antico tema (la guerra greco-latina), riallacciandolo forse anche all’ostracismo che l’Europa cattolica (e segnatamente la Francia di Luigi XIV, di cui il Caraccio fu un celebratore convinto30) riservava, nel crepuscolo del XVII secolo, quale consapevole scelta di tipo religioso, alla penetrazione della cultura greca ed ellenistica di matrice ortodossa, considerata una configurazione orientale del protestantesimo: dunque, una deviazione non compatibile con la Chiesa controriformistica. È un capitolo significativo dei rapporti non sempre pacifici intercorrenti tra ellenismo e civiltà moderna nel corso del Seicento, come dimostra la lotta del cardinale Richelieu e del Papato contro Cirillo Lucaris (1572-1638), Patriarca di Alessandria e di Costantinopoli, che aveva cercato di coagulare in un comune schieramento anti-cattolico anglicani, calvinisti e ortodossi; o come dimostra ancora, per esempio, la censura che nella Francia del XVII secolo colpì, per iniziativa del Mazzarino, la Biblioteca di Fozio31. Al di là di queste motivazioni, più o meno recondite, Caraccio volle comunque collocare con consapevolezza il suo poema nell’alveo dell’epica rinascimentale, non rinunciando tuttavia ambiziosamente a tracciare «una nuova strada per cacciarsi in mezo all’Ariosto, e ’l Tasso»32. Nel 1690 (dunque un anno dopo la pubblicazione delle Poesie liriche) egli diede alle stampe un’edizione accresciuta e rivista di questo poema (venti canti in più)33, spinto dalla volontà di ricusare le riserve e le perplessità avanzate da alcuni suoi detrattori (appartenenti all’Accademia della Crusca) e dall’ansiosa ricerca di uniformarsi alle prescrizioni aristoteliche, ricalcando anche in questo la vicenda editoriale del suo modello34. Ebbene, le Poesie liri30 Cfr. il poemetto epitalamico in ottave La pace pronuba. Poema nozziale per gli augustissimi Re Luigi XIV di Francia, et Infanta Maria Teresa di Spagna, in Poesie liriche cit., pp. 195-236. Va inoltre tenuto presente che l’arrivo a Roma di Cristina di Svezia (1655) aveva favorito un avvicinamento della Francia alla Curia romana. 31 Cfr. L. Canfora, La Biblioteca del Patriarca. Fozio censurato nella Francia di Mazzarino, Roma, Salerno Editrice, 1998. 32 Così si esprime nella lettera prefativa il conte Giulio Montevecchi (L’imperio vendicato cit., p. 3). 33 L’imperio vendicato del Barone Antonio Caraccio, Roma, per Nicolò Angelo Tinassi, 1690. Su questo poema, cfr. F.S. Quadrio, Della storia, e della ragione d’ogni poesia, vol. IV, Milano, Francesco Agnelli, 1749, p. 690; A. Belloni, Gli epigoni della Gerusalemme liberata, Padova, Draghi, 1893, pp. 385-94; Id., Il poema epico e mitologico, Milano, Vallardi, s.d., pp. 271-72; B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 1993, pp 215, 217, 358-59. 34 S. Calì, L’‘Imperio vendicato’ di Antonio Caraccio: dalla prima (1679) alla seconda (1690) edizione, in Dopo Tasso. Percorsi del poema eroico, Atti del Convegno di Studi Urbino, 15 e 16 giugno 2004, a cura di G. Arbizzoni, M. Faini e T. Mattioli, Roma-Padova,

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che preludono alla ripubblicazione del poema e costituiscono una sorta di “autorizzamento” alla riproposta della prova epica, ancora legata a schemi antichi (tassismo, epos allegorico-edificante di marca post-tridentina, inserti di carattere teologico-dottrinale), ma che il Caraccio intese presentare in una veste nuova. In questa prospettiva, non solo sulla base di contingenti polemiche letterarie o di isolate istanze individuali, si giustifica la stessa revisione del poema, che riguardò aspetti strutturali (accrescimento dei canti, aggiunta di nuovi episodi), ma anche stilistico-espressivi, proprio per adeguarlo al nuovo contesto sulla base di una rassettatura formale e di una concezione ultra-aristotelica degli elementi narratologici (esigenza dell’unità diegetica, sfrondamento delle digressioni centrifughe tipiche dell’epica barocca), funzionale a sottolineare il valore regolare e ortodosso dell’opera. Lo sforzo fu apprezzato dal Crescimbeni, che inserì un lungo e motivato elogio dell’Imperio vendicato nei dialoghi VII e VIII in Della Bellezza della volgar poesia 35. Il nesso tra la seconda edizione dell’Imperio vendicato e le Poesie liriche rinvia, dunque, a un passaggio importante del percorso letterario del Caraccio, caratterizzato inequivocabilmente nel segno di un’apertura ormai netta verso una poetica moderata che coinvolge tutti i versanti della sua produzione (epica, lirica). Il gioco di corrispondenze tra i due generi era iniziato, in effetti, proprio nelle ottave iniziali della prima edizione del poema (un dato importante anche per stabilire la cronologia delle rime caracciane) 36, lì dove si annuncia la volontà di affiancare ai «canori inchiostri» e ai «soavi errori» giovanili una matura e più impegnativa ispirazione epica, non rinnegando l’originaria inclinazione, ma riversandola nello stile alto dell’epos con l’intento «d’intrecciare l’attione civile e l’ecclesiastica insieme»37, così come sottolinea nella Chiave dell’Allegoria il conte Giulio Montevecchi. Editrice Antenore, 2005, pp. 249-66. Ma il Caraccio, che avrebbe scritto anche due risposte apologetiche ad altrettante censure dei Cruscanti (De Angelis, Le vite de’ letterati salentini cit., p. 197), lavorava quasi sicuramente a una terza edizione del poema, come dimostra l’intenso lavoro correttorio che egli apportò sul manoscritto della seconda edizione (Vat. Lat. 7038) e che fu interrotto dalla morte del poeta al settimo canto. Cfr. Nigro, Caraccio Antonio cit., p. 302; Quadrio, Della storia, e della ragione d’ogni poesia cit.; G.M. Crescimbeni (L’Istoria della volgar poesia, Roma, Chracas, 1698, p. 369). Quest’ultimo ne dà al proposito una testimonianza in tempo reale: «Nel 1690 poi uscì intera parimente in Roma, con qualche mutazione e miglioramento della parte antecedentemente impressa. Or l’autore sta indefessamente faticando intorno al miglioramento di tutta l’opera». 35 G.M. Crescimbeni, Della Bellezza della volgar poesia, Roma, per Antonio de’ Rossi vicino alla Rotonda, 1712, pp. 132-93. 36 L’imperio vendicato (1679) cit., p. 7. 37 Ivi, p. 3.

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Ma l’opposizione «tromba» – «lira» risalta anche nell’edizione del 1690, in particolare nell’episodio del vegliardo salentino (canti XXXIII-XXXIV). Qui si immagina che avvenga un incontro tra il doge Enrico Dandolo e lo stesso Caraccio, il quale, raffigurato nelle vesti di un vecchio dotato di virtù profetiche, diventa un personaggio del suo stesso poema, nel rispetto di un luogo comune tradizionale e consolidato (quello del personaggio-autore). L’episodio si caratterizza per accenti autobiografici: l’accenno alle contrade natie, la polemica anti-cortigiana contro la «fallace corte» e quella anti-avvocatesca, di matrice anti-investigante e indirizzata nei confronti del ceto civile, contro l’arte «ove […] / si vende la ragion, si compra il torto». Ma in questo episodio viene proposta soprattutto una rappresentazione iconografica dell’autore, che emblematizza il carattere versatile e multiforme della sua produzione: E vede in quel, ch’irato il guardo gira, un placid’uom, che schietto ha il vestimento, et all’omero appesa un’aurea lira, e tromba in man di figurato argento, di mezana statura; e qual si mira su le frondi cader neve col vento, tal su ’l suo nero inanellato crine verno incerto apparia di rare brine38.

Nell’uso di tradizionali simboli (lira d’oro – tromba d’argento) si fa riferimento naturalmente anche al duplice versante dell’ispirazione caracciana, che, di lì a poco, sarà arricchito pure dalla prova della scrittura tragica (la tragedia Il Corradino, del 1694)39, in un sistematico processo di sperimentazione e rinnovamento dei generi principali (e infatti Il Corradino riceverà lusinghieri apprezzamenti dal Crescimbeni e dal Gravina40, il più importante teori38

L’imperio vendicato (1690) cit., p. 382. Su questa tragedia, cfr. Quondam, Dal Barocco all’Arcadia cit., pp. 850-52; G. Distaso, Un dittico teatrale: la storia del “principe sventurato” in due tragedie politiche tra Sei e Settecento, in Strutture e modelli nelle letteratura teatrale del Mezzogiorno, Fasano, Schena, 1990, pp. 67-97 (cfr. soprattutto le pp. 67-82). 40 G.M. Crescimbeni, Commentarj intorno alla sua Istoria della volgar poesia, per Antonio de’ Rossi vicino alla Rotonda, 1722, vol. I, pp. 255-56; G.V. Gravina, Regolamento degli Studi di nobile e valorosa donna e Della Tragedia, in Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Bari, Laterza, 1973, pp. 193 e 532. Un lungo, articolato e positivo Giudizio di Filippo De Angelis sul Corradino, in forma di due epistole indirizzate a Domenico Angelis (datate 25 febbraio e 12 marzo 1710), si legge nelle Vite de’ letterati salentini cit., pp. 199207. L’opera caracciana fu invece oggetto di pesanti riserve da parte del letterato settecentesco Francesco Maria Pagano, che alla stessa figura di questo “principe sventurato” dedicò un’altra tragedia (Distaso, Un dittico teatrale cit., pp. 82-83). 39

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co del settore). Come nel poema, anche nella tragedia, che si incentra intorno alla figura topica del “principe sventurato”, la scrupolosa osservanza delle norme aristoteliche diviene garanzia di sicura adesione alla nuova poetica di chiarezza, ordine, buon gusto, promossa e sostenuta dal ceto degli accademici. E anche qui, nella dedica al marchese Giovanbattista Spinola, uno dei protettori del Caraccio, si discetta sulle gerarchie delle forme letterarie, mettendo a raffronto tragedia ed epopea ed assegnando alla prima la palma, in quanto «la tragedia è […] un piccolo poema, che contiene una sola attione, e questa dentro un solo rivolgimento diurno deve avere il suo compimento»: dal che deriverebbe la maggiore difficoltà, «come l’esperienza manifestatamente il dimostra»41. Sebbene sempre nello stesso luogo il Caraccio dimostri una predilezione per la «fabbrica de’ due più difficili e nobili poemi, il tragico e l’epico», in evidente continuità con il dibattito teorico-letterario cinquecentesco, egli riservò piena considerazione anche al genere lirico e lo ritenne, come si è visto, una tappa importante del personale itinerario creativo, da rapportare al complesso della sua variegata versificazione. Numerose sono le allusioni e i riferimenti, sotto questo punto di vista, nelle Poesie liriche. Nel sonetto indirizzato «Al Sig. Ottavio Giandi suo Avvocato nella Curia romana», la determinata rivendicazione di appartenenza al genere si accompagna all’amara constatazione che la sua pratica non potrà essere proficuamente coltivata, se il Giandi non interverrà a difendere il suo cliente dai nemici personali. Il discorso poetico si intreccia, così, con allusioni autobiografiche, sulle quali il De Angelis offre qualche spiraglio di interpretazione (l’ostilità che il Caraccio avrebbe subito per imprecisati motivi, una volta giunto a Roma, da parte della «Congregazione della Nunziata»)42. Letteratura e vita, si potrebbe dire, sullo sfondo di disincantate riflessioni riguardanti la crudezza di rivalità personali («cadente alloro»), che si stagliano sul contraddittorio clima della Roma di secondo Seicento e che celano, tuttavia, oculati riferimenti di poetica (la purezza della «tosca fronde» contro l’artificiosità della «lana assira»), con un suggello onomastico finale (Giandi-ghiande): Trassemi ad animar d’aure latine dolce armonia che da le corde spira, nobil desio, desio d’ornarmi il crine di tosca fronde e non di lana assira. 41

Dedica All’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignor Gio. Battista Spinola governatore di Roma, in Il Corradino. Tragedia del Barone Antonio Caraccio, Roma, Buagni, 1694, pp. [1-2]. 42 De Angelis, Le vite de’ letterati salentini cit., p. 179.

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Ma invidia il vieta. E se pietade al fine non mi sottragge al livor empio e a l’ira, resterà fra l’antiche alte ruine di cotanti archi or mutola la lira. Ottavio tu, ch’amor del sacro foro de l’alma Astrea siedi onorato e grande, soccorri e ferma il già cadente alloro, ch’io facendone a te serti e ghirlande canterò d’ogni tempo. Esca e ristoro che negarmi i palagi, or dan le ghiande43.

Interessante per altro verso, in questa medesima prospettiva, la canzone VIII delle Poesie liriche, intitolata La lira. Sforzatamente distolto dalla Epopeia si rivolge alla poesia lirica. In essa non vi è alcun richiamo alla celebre raccolta mariniana, ma piuttosto si registra il rifiuto di coltivare «d’antichi eroi […] le contese e l’armi», a vantaggio di «men’ardui calli» (una probabile spia del tormentato percorso compositivo dell’Imperio vendicato), nella linea del «cantor Tebano» (Pindaro) e di un pindarismo di ascendenza testiana, che è presentato come un valido e alternativo surrogato alla celebrazione, in veste poetica, di argomenti alti e magniloquenti (l’esaltazione del patronage pamfilio44): Che non può virtù musica? Da l’etra ella si trae quasi anima del mondo. O foss’io pur secondo le dita a por su la tebana cetra, come commoda pietra quinci a veder m’adageria Permesso più degni Eroi, per cui ghirlande intesso45.

E in effetti, la raccolta caracciana apre un trittico di composizioni decisamente orientato nei confronti della restaurazione arcadica, su riconoscibili modelli (Tasso, Chiabrera, Testi), in una fase in cui il genere della poesia lirica rifletteva una controversa dinamica di trasformazione, anche con riferimento ai suoi aspetti strutturali e alle sue forme esteriori. La tipologia “canzoniere” è stata

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Caraccio, Poesie liriche cit., p. 189. Su questa istituzione tipica dell’Antico Regime, cfr., con riferimento alla Roma barberiniana, I. Fosi, All’ombra dei Barberini: fedeltà e servizio nella Roma barocca, Roma, Bulzoni, 1997. 45 Caraccio, Poesie liriche cit., p. 128. 44

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approfonditamente studiata nella sua evoluzione quattro-cinquecentesca (anche in rapporto a un agente profondamente incisivo, come l’invenzione della stampa, per la sua costituzione fisico-materiale)46, sino alla svolta tassesca e guariniana47; e, inoltre, nella sua aggiornata configurazione secentesca (conformazione aperta e centrifuga, rispetto alla linearità narrativa del modello petrarchesco; ampliamento delle tematiche poetabili; carattere enciclopedico delle raccolte in direzione pluritonale e politematica, ecc.)48. Ma essa può rappresentare un punto di vista privilegiato per cogliere metamorfosi e adattamenti di un modello fondativo (il Canzoniere petrarchesco)49, di volta in volta 46 Cfr. Il libro di poesia dal copista al tipografo, a cura di M. Santagata e A. Quondam, Modena, Panini, 1989 (in particolare i contributi di A. Tissoni Benvenuti, La tipologia del libro di rime manoscritto e a stampa nel Quattrocento, pp. 25-34 e di G. Gorni, Il libro di poesia cinquecentesco: principio e fine, pp. 35-42); N. Cannata, Il canzoniere a stampa (1470-1530). Tradizione e fortuna di un genere fra storia del libro e letteratura, Roma, Bagatto, 2000. 47 La bibliografia sul tema è piuttosto ampia. Si vedano almeno A. Martini, Amore esce dal Caos. L’organizzazione tematico-narrativa delle rime amorose del Tasso, in «Filologia e critica», IX, 1, 1984, pp. 78-121; D’Arco Silvio Avalle, I canzonieri: definizione di genere e problemi di edizione e D. De Robertis, Problemi di filologia delle strutture, in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro, Atti del Convegno di Lecce 22-26 ottobre 1984, Roma, Salerno Editrice, 1985, pp. 363-82 e 383-404; l’ampio capitolo di C. Bologna, Tradizione testuale e fortuna dei classici, in Letteratura italiana, vol. VI: Teatro, musica, tradizione di classici, Torino, Einaudi, 1986, pp. 445-928 (in particolare le pp. 445-647); V. Martignone, La struttura narrativa del codice Chigiano delle Rime tassiane, in «Studi tassiani», XXXVIII, 38, 1990, pp. 71-128; A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Modena, Panini, 1991 (soprattutto la Parte seconda, pp. 99-152); G. Gorni, Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993 (soprattutto le pp. 113-36 e 193-206); M. Danzi, Petrarca e la forma canzoniere fra Quattro e Cinquecento, in Lezioni sul testo. Modelli di analisi letteraria per la scuola, a cura di E. Manzotti, Brescia, La Scuola, 1992, pp. 73-115; M. Signorini, Fortuna del “modello-libro” Canzoniere, in «Critica del testo», VI, 1, 2003, pp. 133-54; S. Carrai, L’usignolo di Bembo. Un’idea della lirica italiana del Rinascimento, Roma, Carocci, 2006, pp. 13-24; Q. Marini, Al termine di un canzoniere. Ancora sul sonetto «O dolce selva solitaria, amica» e sulla conclusione delle «Rime» di Giovanni Della Casa, in Studi di Letteratura italiana per Vitilio Masiello, Bari, Laterza, 2006, pp. 501-18. Utile anche la lettura del capitolo riguardante La lirica, a cura di F. Erspamer, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, vol. II: Dalla metà del Cinquecento al Settecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 293-55. 48 Cfr. A. Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1975; La “locuzione artificiosa”. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del Manierismo, a cura dello stesso e di G. Ferroni, Roma, Bulzoni, 1973; A. Martini, Le nuove forme del canzoniere, in I Capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco, Atti del Convegno di Lecce 23-26 ottobre 2000, Roma, Salerno Editrice, 2002, pp. 199-226. 49 Sui processi genetici che sono all’origine della forma canzoniere, cfr. M. Santagata, Dal sonetto al Canzoniere. Ricerche sulla preistoria e sulla costituzione di un genere, Padova, Liviana, 1979, pp. 143-66.

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riconsiderato originalmente secondo le mutate esigenze teoriche del momento50, anche in fasi successive a quei momenti focali della sua storia. Ebbene, si può cogliere tra lo scorcio conclusivo del XVII secolo e l’inizio di quello successivo un riuso rinnovato della struttura “canzoniere” e del repertorio tematico-stilistico tradizionale legato all’«ideologia»51 del petrarchismo, a cui contribuì in modo decisivo la riflessione, ricca di complesse implicazioni teoriche, che sul quell’archetipo produsse la letteratura napoletana del tempo. Sono note, a questo proposito, le raccolte poetiche di Carlo Buragna, Antonio Muscettola e Basilio Giannelli, Baldassarre Pisani, Pirro Schettini52, tutti letterati legati in qualche misura a un’area di petrarchismo napoletano, che fronteggiò il Barocco estremo di Artale e Lubrano e che dimostrò una significativa attrazione «per la linea del Chiabrera e del Testi»53, in opposizione alla linea anti-petrarchista del Meninni e del Battista affermatasi nella seconda metà del Seicento; e la funzione modellizzante assunta dalle Sposizioni di Sertorio Quattromani, Marco Aurelio Severino e Gregorio Caloprese alle Rime dellacasiane, che si evolse proficuamente nella fondazione della partenopea colonia arcadica di Sebezia54. Questa tendenza neo-petrarchista accoglieva in sé una raggiera di modelli e di influssi (cartesianesimo, razionalismo investigante, classicismo tardo secentesco) e fu assorbita dal Caraccio durante il suo soggiorno napoletano, quando egli ebbe modo di frequentare Lionardo di Capua, Tommaso Cornelio, Carlo Buragna, Gregorio Messere, insomma la parte migliore del coevo ceto civile e della moderna intellettualità partenopea, per il tramite del dotto conterraneo Francesco Maria Mattei55. Poi da lui fu riversata nel vitale milieu romano di fine secolo, dove si corroborò con una tradizione impregnata di stimoli letterari moderati, che aveva avuto origine nella corte barberiniana56. Tra 50

Anche attraverso la forma “mediata” dell’antologia. Cfr. A. Quondam, Petrarchismo mediato. Per una critica della forma “antologia”, Roma, Bulzoni, 1974; M.L. Cerrón Puga, Materiales para la construcción del canon petrarquista: las antologías de Rime (libri I-IX), in «Critica del testo» II, 1, 1999, pp. 249-90 (il numero della rivista è dedicato a L’Antologia poetica). 51 La definizione rinvia al libro di Marziano Guglielminetti, Petrarca e il petrarchismo. Un’ideologia della letteratura, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1994. 52 Quondam, Dal Barocco all’Arcadia cit., pp. 812-37. 53 Ivi, p. 815. 54 P. Giannantonio, L’Arcadia napoletana, Napoli, Liguori, 1962, pp. 299-301; Quondam, Dal Barocco all’Arcadia cit., pp. 979-1094. 55 De Angelis, Le vite de’ letterati salentini cit., p. 175. 56 Sul progetto culturale elaborato dagli intellettuali che operarono alla corte di Urbano VIII, cfr. E. Raimondi, Alla ricerca del classicismo, in Anatomie secentesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, pp. 27-41; M. Fumaroli, La scuola del silenzio. Il senso delle immagini nel XVII secolo, Milano, Adelphi, 1995, pp. 136-96; Id., L’età dell’eloquenza. Retorica e “res literaria” dal Rinascimento alle soglie dell’epoca classica, Milano, Adelphi, 2002, pp. 173-257;

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gli Investiganti il Caraccio recitò due dotte lezioni, una riguardo a un passo lucreziano, e l’altra intorno alla circompulsione platonica; poi lesse anche una dissertazione archeologica nella quale mise a confronto l’architettura romana con quella egizia, trattando una questione congeniale agli interessi degli accademici, che utilizzò come spunto creativo in un sonetto della sua raccolta (Per un problema agitato nell’Accademia di Napoli se gli Egittij o i Romani fossero più grandi nelle loro fabbriche), dopo averla sostanziata di speculazione etica, per simboleggiare l’essenza caduca ed effimera della vita umana e l’analogia nascita-morte (un topos presente in molta lirica secentesca, dal Marino in giù): […] Non che i palagi, l’urne istesse involve rugin d’etade. E quanto innalza e pasce la terra, divien nulla o resta polve. Van le bende così, come le fasce. E grande è l’uom, che manca e si dissolve, dove more non più che dove nasce 57.

Poi, non meglio precisate evenienze biografiche e accadimenti storiograficamente rilevanti (la rivolta di Masaniello58 del 1647) spinsero il poeta salentino a trasferirsi a Roma, dove il Caraccio si inserì attivamente al servizio di potenti e illustri cardinali (Caraffa, preceduto da una lettera di raccomandazione del Duca dell’Acerenza, Raggi, Bragadin, Costaguti, Spinola) con varie mansioni («gentiluomo», segretario, maestro di camera, capitano di guardia) e di influenti famiglie magnatizie (il gentiluomo Camillo Pamfilio, al quale dedicò le Poesie liriche). È noto come la ribellione masanielliana abbia costituito uno spartiacque nella storia moderna del Mezzogiorno, anche per le rilevanti implicazioni che essa ebbe sul piano politico-culturale (fondazione di centri sganciati dal centralismo vicereale; definitiva affermazione della linea “investigante” a scapito di quella “oziosa”; etico distacco dalla letteratura tardo barocca)59. L’inizio delle agitazioni insurrezionali, che fu causa del repentino abbandono della capitale regnicola da parte del Caraccio, fu celebrato anche in un sonetto (S’allude al principio delle rivoluzioni di Napoli del E. Bellini, Umanisti e Lincei. Letteratura e scienza a Roma nell’età di Galileo, Padova, Antenore, 1997. 57 Caraccio, Poesie liriche cit., p. 42. 58 Su Masaniello, cfr. la recente biografia di S. D’Alessio, Masaniello, Roma, Salerno Editrice, 2008. 59 A. Musi, Il Viceregno spagnolo, in Storia del Mezzogiorno, diretta da G. Galasso e R. Romeo, vol. IV t. II: Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Napoli, Edizione del Sole, 1986, pp. 268-76.

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1647), nel quale la rivolta popolare masanielliana è trasfigurata in forma allegorica, attraverso una complessa mitologia piscatorio-pastorale che richiama echi sannazariani e che rinnova in termini originali il ricordo di un evento diffusamente presente nella lirica coeva (Battista, Muscettola, Lubrano): Alcon, questa è la canna onde la fera che ’l nostro mar turbò, rimase estinta, da le cui scosse rïurtata e spinta quasi cadde dal tron l’Aquila ibera. Poi che fin diessi a la spietata e fiera pugna, a quest’elce ancor di sangue tinta presso a la tomba del suo duce avinta restò trofeo superbo, insegna altera: ancor grava sospesa e del suo pondo l’arbore che ’l sostien quasi s’affanna. Or che sarà di chi n’è tratto al fondo? Quando fu ninfa e nata in vil capanna, in Pan turbò come in figura il mondo; svolge anco i regni or trasformata in canna60.

L’arrivo a Roma e la frequentazione degli ambienti cardinalizi costituì una svolta non solo sul piano esistenziale, ma anche su quello poetico, perché il Caraccio innestò la sua formazione napoletana nel nuovo contesto culturale, arricchendola, corroborandola e trovando occasioni aggiuntive per la sua ispirazione. Egli si trovò ad agire nella complessa rete di fazioni e di gruppi clanici attivi nella città, in un momento in cui il prestigio dello Stato pontificio era in forte declino, dopo la guerra dei Trent’anni, e si stava verificando una profonda «ristrutturazione degli equilibri curiali»61, spesso dettata dalle più influenti potenze europee in conseguenza della crisi di secolari istituzioni (la figura del cardinal-nipote). Caraccio fu testimone oculare di questa importante fase della storia cittadina62 e assistette alla successione di diversi pontefici, dall’elezione di Alessandro VII a quella di Clemente XI, attraversando anche la stagione delle riforme volute da Innocenzo XII 63; ma partecipò anche 60

Caraccio, Poesie liriche cit., p. 43. S. Tabacchi, Cardinali zelanti e fazioni cardinalizie tra fine Seicento e inizio Settecento, in La Corte di Roma tra Cinque e Seicento “teatro” della politica europea, a cura di G. Signorotto e M.A. Visceglia, Roma, Bulzoni, 1998, p. 139. 62 G. Signorotto, Lo squadrone volante. I cardinali “liberi” e la politica europea nella seconda metà del XVII secolo, ivi, pp. 93-138. 63 Cfr. il volume miscellaneo Riforme, religione e politica durante il pontificato di Innocenzo XII (1691-1700), Atti del Convegno di studi, Lecce, 11-13 dicembre 1991, a cura 61

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al giubilo corale che accolse l’arrivo di Cristina di Svezia a Roma (il 20 settembre del 1655), un evento che ebbe una significativa incidenza nelle vicende storico-politiche romane e che segnò la conversione della regnante al cattolicesimo. Molti di questi accadimenti furono trasfusi dal Caraccio in nuclei poetici, che, riversati poi nelle Poesie liriche, si identificano con il primo tempo delle rime caracciane e costituiscono segnali significativi per ricostruire la cronologia di un’attività di creazione lirica che si dispiegò per molti anni e, con maggiore intensità, nel periodo del soggiorno romano. Egli pubblicò, infatti, nel 1656 un poemetto di cinquantuno ottave nel quale si solennizzava l’approdo romano di Cristina, L’assemblea dei fiumi 64; ancora, nel 1660, diede alle stampe un altro poemetto di ottantatre ottave, La pace pronuba 65, in occasione delle nozze di Luigi XIV di Francia e dell’infanta Maria Teresa di Spagna, per celebrare il ritrovato asse franco-spagnolo quale irenico punto d’equilibrio tra gli stati europei, e nel 1671 l’ode epitalamica La navigazione 66, indirizzata ai principi Giovanni Andrea Doria e Anna Pamphili67. Non mancano altri componimenti d’occasione, anzi si può dire che le Poesie liriche (63 sonetti, 14 canzoni numerate, 2 canzonette chiabreresche, 2 poemetti in ottave) costituiscono un vero e proprio libro poetico-encomiastico e occasionale, nel quale sono compresenti pure, come versante alternativo e diversificato, poesie dalla stretta caratterizzazione petrarchistica (tributarie del petrarchismo napoletano). Ma le celebrazioni di personaggi potenti, ecclesiastici e laici, di sodali, di notabili connotano la maggior parte delle Poesie liriche, nelle quali il Caraccio intese simbolizzare le forme del coevo potere religioso e curiale, con cui egli si confrontò nel corso della sua vita. Proprio qui mi sembra che risieda il fulcro ideologico principale di questa raccolta: nella volontà, cioè, di riadattare mitografie e prosopopee antiche (l’Assemblea

di B. Pellegrino, Galatina, Congedo, 1994; C. Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche, in Storia d’Italia, vol. 24: La Chiesa e il potere politico. Santa sede, clero e organizzazioni cattoliche, Torino, Einaudi, 2006, pp. 721-68. 64 A. Caraccio, L’assemblea dei fiumi. Poemetto per l’ingresso in Roma della Reina di Svetia, Roma, Moneta, 1656 (poi incluso nelle Poesie liriche cit., pp. 54-79). Ma Cristina è celebrata anche nell’Imperio Vendicato (1690, canto XXXIV, ottave 22 e 23, p. 389) e nella canzone XIV (Palagio d’Atlante. Alla Maestà Della Reina di Svetia) delle Poesie liriche cit., pp. 183-87. 65 Id., La pace pronuba. Poema nozziale di Antonio Caracci per gli augustissimi re Luigi et infanta Maria Teresa, Roma, Moneta, 1660 (poi incluso in Poesie liriche cit.). 66 Nigro, Caraccio Antonio cit., p. 301. 67 Già nel 1650 il Caraccio aveva pubblicato un altro epitalamio, la già ricordata canzone Il Fosforo, per le nozze tra il duca dell’Acerenza e Anna Ravaschieri dei principi di Belmonte.

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dei fiumi, la Reggia di Atlante, la Pace pronuba) alla rappresentazione monumentale, in stile ancora barocco, di personaggi e autorità della società meridionale tardo secentesca e della dirigenziale classe ecclesiastico-feudale nazionale ed europea, attraverso il genere privilegiato dell’encomio. In altri termini, le poesie del Caraccio sono un interessante documento della progressiva clericalizzazione della cultura romana del secondo Seicento 68, che, sul piano delle problematiche storico-letterarie, generò, anche grazie all’impulso di Cristina di Svezia, una reazione classicistica, intrisa di impulsi etici ed edificanti e ispirata a un moderatismo ideologico di robusto spessore moraleggiante e pedagogico (a questo proposito, è opportuno segnalare che il manifesto più interessante di questa nuova linea di scrittura poetica, l’Arte poetica del fiorentino Benedetto Menzini69, apparve appena un anno dopo la pubblicazione delle Poesie liriche). Il Caraccio si fa così interprete di una poesia eroica e magniloquente, impegnata nell’esaltazione di un ethos feudale con ben riconoscibili e antichi valori di magnanimità, ai quali egli aderisce con fedeltà e coerenza. Tali valori rispecchiano un modello di società secentesca, che, fondato su tradizionali centri di aggregazione (corti, accademie), su consolidati meccanismi di reclutamento e di protezione del ceto intellettuale (patronage, mecenatismo) e sui presupposti culturali della Controriforma, viene però messo in crisi dalle vicende di fine secolo (affermazione del ceto civile, progressiva perdita d’influenza del potere ecclesiastico nelle vicende politiche e artistiche, ripudio del “poetar moderno” di matrice barocca). L’epicizzazione nel notabilato pontificio e napoletano, laico e curiale, si riveste, pertanto, di contenuti ideologici ben precisi, stabilendo una riaffermazione e un ribadimento di un sistema culturale che è avvertito a rischio, su precipue e risentite spinte autobiografiche, e individua nella figura di Cristina di Svezia un saldo ancoraggio rispetto alle innovazioni turbolente dei tempi. In questo senso, si può proiettare l’esperienza del Caraccio su un livello più generale e identificativo, perché assimilabile e coincidente con la condizione di molti altri letterati coevi. E si possono considerare le Poesie liriche, dunque, non solo inerti e ripetitive esercitazioni di una poesia ampollosa, tronfia e impettita, di stampo religioso e celebrativo, ma un tentativo di inserire in un nuovo tessuto socio-culturale la lezione barocca; cioè, di rapportare, anche sul piano più strettamente creativo, forme, stili, rappresentazioni, testimonianze di una civiltà in declino a una diversa tendenza di gusto e di pensiero. Questo

68 R. Merolla, Lo Stato della Chiesa, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. 7: L’età moderna. La Storia e gli autori, Torino, Einaudi, 2007, pp. 409-21. 69 C. Di Biase, Arcadia edificante, Napoli, ESI, 1969, pp. 27-140.

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tentativo si misura pure nell’esigenza di rivitalizzare tali elementi con allusioni a eventi personali o ad accadimenti storici, nella volontà di respingere i risvolti esibizionistici e le oltranze stilistiche (uso parossistico di concetti e arguzie, stile culto e ornato in direzione sofisticata e cerebrale70) che caratterizzarono l’impiego di quella lezione nei decenni terminali del Seicento (forse per un estremo sforzo di riaffermarla), soprattutto in area meridionale, e nella necessità di recepire, in una originale e inedita combinazione, gli stimoli nuovi dell’Arcadia, nel segno di un processo di «riduzione dell’apparato marinistico»71 e di miniaturizzazione del repertorio lirico barocco che richiama e anticipa le manifestazioni del Rococò letterario72. Se nell’Imperio vendicato non erano mancati, come si è visto, accenni polemici nei confronti della corte e del potere costituito, le Poesie liriche esaltano, infatti, senza esitazioni il ruolo egemonico dell’establishment clericalnobiliare, spesso associando alla notazione elogiativa la trattazioni di tematiche morali, in un distintivo e caratterizzante sinolo etico-lirico esperito in ossequio a riconoscibili modelli (Testi). Nella canzone V Prudenza nocchiera. Al Sig. Principe Pamphilio Generale di S. Chiesa, in quartine di endecasillabi (ABBA), sono prospettati vari scenari bellici (Irlanda, Francia, Spagna): dinanzi a una cristianità lacerata e percorsa da divaricanti tensioni, insidiata dal pericolo turco (gli «Ottomani arcieri»), la «prudenza nocchiera» del cardinale Pamfili è magnificata soprattutto come virtù politica e di governo, ma anche come ideale di vita ispirato a misura e saggezza, oltre che come criterio poetico-stilistico di decoro e sobrietà, codificato da un’apposita trattatistica coeva (l’Arte poetica del Menzini). La mitografia encomiastica prosegue, con accenti enfatici e reboanti, nella canzone successiva (la VI: Antichità della Casa Pamphilia. A Monsignor Gioseppe Vallemani), in cui si solennizza l’antichità e l’autorevolezza della genealogia pamphilia attraverso immagini turgide e iperboliche («feconda pianta / real ceppo de gli horti»; «terre, fertil terreno / d’ebre vendemie»). Ma questa personale poetica encomiastica e questa retorica dell’adulazione avevano riguardato anche esponenti della cultura genovese, che il Ca70 D. Chiodo, Dal ‘grave’ al ‘culto’: ipotesi sull’evoluzione della lirica secentesca in Napoli, in “Suaviter Parthenope canit”. Per ripensare la ‘geografia e storia’ della letteratura italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999, pp. 141-82. Sui percorsi della lirica marinista, con specifico riferimento all’Italia meridionale, cfr. G. Rizzo, Con Marino tra i marinisti, in Le inquiete novità cit., pp. 25-48. 71 Quondam, Dal Barocco all’Arcadia cit., p. 845. 72 Sulla categoria, in realtà non troppo fortunata, di Rococò letterario, cfr. W. Binni, Il rococò letterario, in Manierismo, Barocco, Rococò cit., pp. 217-37; A. Battistini, Il Barocco cit., pp. 261-91.

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raccio aveva conosciuto nel periodo in cui era stato al servizio dello Spinola, interessante figura di cardinale, di collezionista e di mecenate73. Nella seconda canzone Il Vigliena, overo della famiglia Catanea già della Volta, l’esaltazione delle qualità di storiografo del gesuita Girolamo Cattaneo (1620-1685) coincide con l’elogio della storia genovese e delle più importanti dinastie cittadine (Spinola, Doria, e soprattutto i Cattaneo Della Volta), per il ruolo primario da esse ricoperto nelle crociate anti-turche e nelle fervide vicende culturali secentesche della città74, oltre che per la penetrazione che, sempre grazie a esse, Genova aveva avuto in terre lontane e incognite: E non che Italia o ’l lido ch’Iberia cinge e di Liguria istessa più d’una valle impressa del gran sigillo de le chiare genti; là da la Grecia e là dal mar d’Abido cercherai regni già famosi, or spenti e rivoltar convienti più d’una volta a rintracciarne il calle de’ mappamondi le dipinte palle 75.

Ma la pulsione laudativa non è disgiunta da osservazioni filosofiche sul valore della vita umana, inserite quale moralistico e pedagogico sottofondo e come amaro corrispettivo del progressivo sfumarsi del potere politico e del prestigio culturale della città nella seconda metà del Seicento76: È la vita mortale, non perché viver faccia, altrui sì cara, ma in questa valle amara dono più bel non ci additò Natura. E, se cosa miglior mente, c’ha l’ale, fuor de la vita istessa a sé figura; o di stato, che dura lungamente, lusinga altra vaghezza per maggior bene il vie minor si sprezza77. 73 Cfr. M. Di Penta, Giovan Battista Spinola: cardinale San Cesareo (1646-1719), collezionista e mecenate di Baciccio, Roma, Gangemi Editore, 2007. 74 Cfr. E. Graziosi, Lancio ed eclissi di una capitale barocca: Genova 1630-1660, Modena, Mucchi, 2006. 75 Caraccio, Poesie liriche cit., p. 36. 76 Cfr. E. Graziosi, Da capitale a provincia. Genova 1660-1700, Modena, Mucchi, 1993. 77 Caraccio, Poesie liriche cit., p. 29.

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L’elogio di Genova («O gran figlia di Giano, / Genova, madre di famose genti») ritorna nella canzone IX (La navigazione), già citata per aver avuto una prima pubblicazione nel 1671 e scritta per un’importante cerimonia nuziale (lo sposalizio fra i principi Giovanni Andrea Doria e Anna Pamphili)78. In essa si riprende la glorificazione delle scoperte geografiche e dei traffici marittimi (nelle quali la città ligure ebbe, come è noto, un ruolo centrale) come veicolo di conoscenze nuove, partendo dall’encomio nei confronti di un esponente di una delle più importanti famiglie genovesi (i Doria) Se ’l navigar non fosse, quanta picciola parte avrìa di terra l’uomo entro argini e fosse di monti e fiumi e l’ocean che ’l serra. Sarìa, benché fecondo, a sé incognito il mondo79.

Lo scenario marino della navigazione è il fondale nel quale si innestano le lodi della Pamphili e il racconto della cerimonia nuziale nei modi di una miniatura rococò, su un tema (la navigazione, la nave d’amore) che avrà molte riprese in ambito arcadico (Frugoni80). Spesso la prassi encomiastica del Caraccio è stimolata da importanti avvenimenti storico-politici e non si esaurisce in un semplice esercizio di retorica cortigiana. La canzone III, Il Conclave del 1655, richiama un’elezione papale piuttosto contrastata e ha un incipit virgiliano, nel quale si descrive il celebre episodio di Palinuro, che, vinto dal sonno, cade tra i flutti, mettendo a repentaglio la navigazione di Enea. La citazione ha la funzione di segnalare un’analogia con la situazione della Chiesa romana, che, dopo la morte di Innocenzo X, è alla ricerca di una nuova guida politica e spirituale, in una stagione irta di insidie e difficoltà. Il riuso della fonte classica e dell’immagine marinaresca (la Chiesa-nave), così frequente nella poetica caracciana, serve a indicare la difficoltà di un momento storico e l’esigenza, rievocata con piglio militante, di provvedere alla nomina di un nuovo pontefice (che sarà Alessandro VII). La metafora iniziale si protrae per tutte le undici stanze della 78 È probabile che in questo caso sul Caraccio abbia agito il modello testiano (cfr. l’ode Celebra in generale le lodi della città di Genova, e si restringe alle particolari del Sig. Silvestro Grimaldi, in Poesie liriche, Venezia, appresso li Prodotti, 1683, pp. 195-96). 79 Caraccio, Poesie liriche cit., p. 138. 80 Cfr. i componimenti Navigazione d’amore (1723), Ritorno dalla navigazione d’amore (1729), L’isola amorosa, in Lirici del Settecento, a cura di B. Maier, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, pp. 230-47.

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canzone e si scioglie nel congedo finale, un appello concettoso e arguto alle gerarchie ecclesiastiche e alle fazioni cardinalizie perché ritrovino compattezza e interrompano la pericolosa vacatio sedis: Canzon, là ’ve de la disputa altera sonan le sacre logge in Vaticano, vattene in un dir piano tanto garrula men, quanto più vera. E s’alcun pio ti porgerà la mano perché la baci, griderai: «Mercede, che più grato sarìa baciargli il piede»81.

Altre volte l’impegno elogiativo si indirizza nei confronti di donne nobili, quando, per esempio, nella canzone VI (La Ghirlanda. Per la Signora D. Leonora Boncompagni Borghese Prencipessa di Sulmona) si intesse una ideale “ghirlanda” di lodi (un titolo largamente sfruttato nell’encomiastica secentesca82) e si enfatizzano le virtù della moglie del principe Paolo Borghese, già celebrato nella canzone Sensualità terrena, quasi a voler comporre un intreccio encomiastico-epitalamico che indica una tendenza a complicare e intensificare lo schema retorico del genere celebrativo. La canzone evidenzia, tradizionalmente, qualità fisiche e morali della principessa, ma include anche la descrizione della sua sontuosa dimora nobiliare, secondo un gusto rappresentativo ancora secentesco (l’attenzione per gli elementi preziosi e decorativi): Quasi galea tra palischermi imbelli, nobil vaghezza de l’Adriaco mare, l’alta fabbrica pare donna degli altri cittadini ostelli, ne’ cui ricchi cancelli veggonsi de le porte in aurei nodi due dragoni custodi. Di marmi illustre la magion sovrana, portici augusti, colonnati e logge, atri e archi in più fogge, mole non par d’architettura umana.

81

Caraccio, Poesie liriche cit., p. 52. Cfr., per esempio, La Ghirlanda di Antonio Bruni, un elogio in duecentoventiquattro sestine del duca Francesco Maria II della Rovere, pubblicato a Roma, presso Bartolomeo Zanetti, nel 1625 (cfr. A. Bruni, Epistole eroiche, a cura di G. Rizzo, Galatina, Congedo, 1993, p. 56). 82

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Se a l’usanza mondana vivesi in ciel, casa simil direi ch’abitasser gli dei83.

Nella canzone VII, in undici stanze, intitolata Vanità mondana ritratta dalla piccolezza della terra e indirizzata allo stesso Pamphili, la tensione celebrativa si accompagna a risonanze moralistiche su un tema tipico della poesia secentesca; ma qui la tradizionale meditazione eticizzante sui valori transeunti della mondanità, argomento privilegiato dalla lirica classicistica del XVII secolo (Testi, Cesarini), è rinforzata col riferimento a personaggi miratamente simbolici (Filippo), sulla base di un’efficace prospettiva illusionistica, che anticipa, però, la predisposizione al dettaglio e alla miniatura della lirica protosettecentesca: Quando un pensier sublime tragge il mio spirto a passeggiar per Cirra e l’asilo di Pirra seggio mi fa de le solinghe cime, spesso rivolto a l’ime valli terrestri e al terrestre fondo, m’aveggio alor ch’una veduta ha il mondo. Entro a picciolo claustro stan terre e mari; e picciol sì, che pote dar dal pigro Boote il rigido Aquilon la mano all’Austro; e dal gelato plaustro traggersi ad onta de le fervide ore scitiche nevi in su le tazze more84.

Lo stesso si può dire della canzone undicesima (Sensualità terrena. Pel Sig. Prencipe di Sulmona), strutturata ancora in quartine a rima incrociata, nella quale l’encomio del feudatario sulmonese, il principe Paolo Borghese, e del dedicatario della canzone, Stefano Pignatelli, il nipote di Antonio Pignatelli (papa con il nome di Innocenzo XII dal 1691), offre lo spunto per intrecciare le lodi indirizzate a Filippo III di Spagna (che assegnò ai Borghese la feudalità su Sulmona) e allo zio di Stefano, quand’era ancora un cardinale non elevato al soglio pontificio («e ’l tuo gran zio di lucid’ostro ardente»), con quelle rivolte alla famiglia degli Aldobrandini (Paolo sposò Olimpia, erede 83 84

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Caraccio, Poesie liriche cit., pp. 87-8. Ivi, pp. 112-13.

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degli Aldobrandini, imparentandosi, come si è visto, con questa illustre casata). Il triplice omaggio consente un veloce affondo sulle vicende storiche del feudo di Sulmona, ma l’intero apparato encomiastico è percorso da tensioni stoicizzanti su un tipico convincimento secentesco, e cioè la precarietà del potere e dell’autorità politica come espressione delle «mondane cure» e delle «cose terrene», dinanzi alla prospettiva salda e più stabile di una trascendenza escatologica e alla funzione etica e veridica della poesia («Né in ciò scherzan le muse: entr’ombre e veli / veraci sensi ha il lusinghier Parnaso»). A questa linea eticizzante fanno capo anche altri componimenti encomiastici. Nella Giustizia discreta (canzone XII), in cui si esaltano le qualità di un Monsignor Caccia, auditore della Sacra Rota Romana, come nella canzone XIII, L’agricoltura, dedicata a Monsignor Giovan Battista Spinola, l’ultimo protettore del Caraccio, la lode della singola personalità si intreccia alla laus urbis dei rispettivi centri di provenienza (Milano e Genova), secondo uno schema retorico ben consolidato e tipico del panegirico in versi 85. Ma anche in questi esempi si può notare come la genesi occasionale delle canzoni (le celebrazioni dell’attività forense di un affermato canonista e dell’azione emancipatrice che lo Spinola apportò nell’agricoltura del territorio ligure, bonificando terreni aridi e incolti) serbi in sé sempre una tendenza ad affiancare l’elogio con un contenuto grave e impegnato. Soprattutto nel primo caso l’osservazione che l’amministrazione della giustizia è un’arte difficile, nella quale si richiedono discrezione ed equilibrio («Fra due pendici estreme / d’egra indulgenza e di rigor soverchio / siede virtù sì come centro in cerchio»), si adegua alla rivendicazione di un ideale di poetica e di vita (la «mediocritas»), che il Caraccio fedelmente riafferma in vari ambiti (poesia, giustizia, politica), e che ha la sua significazione più piena nella funzione di risposta polemica agli eccessi barocchi (in campo stilistico-letterario e ideologicomorale). Divergono parzialmente da tale linea la già ricordata canzone VIII (La lira. Sforzatamente distolto dalla Epopeia si rivolge alla poesia lirica) e la X (Contra la falsa opinione d’alcuni musici, che degenerando da i migliori dicono che la buona poesia non sia buona per musica), indirizzata al Signor Cardinal Leopoldo dei Medici, entrambe d’argomento letterario. E se nella prima, come si è già detto, Caraccio tratta dei generi da lui praticati, fornendo preziose indicazioni sui personali percorsi creativi, nella seconda egli si 85 Cfr. l’ode di Fulvio Testi Celebra in generale le lodi della città di Genova, e si restringe alle particolari del Sig. Silvestro Grimaldi cit. Allo stesso schema si attengono i sonetti del Caraccio Per la Sig. Contessa Marina Gambalonga. Al Sig. Prencipe della Vetrana e Instabilità della fortuna. Al Sig. Conte Girolamo Graziani (Poesie liriche cit., pp. 118-19).

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scaglia polemicamente, invece, contro la posizione di alcuni musici coevi («[…] arguti di voce orbi di lume», «[…] sciocca e vulgar gente», «idiote sirene»), che sostengono il divorzio della musica dalla poesia. La scelta dell’interlocutore non è casuale, in quanto il cardinale Leopoldo dei Medici (16171675) era un appassionato mecenate e intenditore di musica, oltre che un esponente di rilievo della nuova cultura scientifica di matrice sperimentalegalileiana (era stato fondatore dell’Accademia del Cimento); ma le lodi a lui rivolte («splendido figlio del piacevol’Arno») costituiscono solo un pretesto per affrontare tematiche cruciali nel dibattito poetico del tempo e richiamano l’incipiente affermazione di una tendenza melodica e musicale, che avrà fortuna nell’Arcadia soprattutto grazie al Metastasio. Ad essa il Caraccio si dimostra favorevole (pure in chiave anti-barocca), adducendo l’esempio dei poeti antichi (Arione, Anfione), simboli poetici tradizionalmente esibiti dalla lirica tardo secentesca (per esempio, Battista), per i quali il binomio poesiamusica rappresentava un nesso inscindibile, e rivendicando la superiorità di costoro sui moderni (nella linea di una secentesca querelle). Apice e chiusura di questo percorso di canzoni-encomio interno alla raccolta caracciana, tramato spesso su suggestioni non convenzionali, ma tratte dalla civiltà contemporanea, è la quattordicesima canzone (Palagio d’Atlante), dedicata «Alla Maestà della Reina di Svetia». Qui il tema cavalleresco e letterario del castello di Atlante e del palazzo incantato, già di notevole ricezione melodrammatica86, insieme con il ricordo dell’«alte idee del ferrarese Omero», servono a introdurre una moralistica riflessione, arricchita di spinte autobiografiche, sulle illusionistiche e ingannevoli seduzioni della corte (ritorna l’immagine della «fallace corte»), raffigurata appunto come un labirintico e vischioso luogo di falsi incanti e di triste prigionia per sbandati cavalieri-cortigiani: Altro palagio d’agitati incanti gemer fa il mondo in su l’Ausonia riva, altra turba cattiva vi mesce ogn’or co’ suoi desiri i pianti. E chi retaggio, c’ha perduto innanti, tenta se trovar pote, e chi guadagno d’arrendevol dote. E di frequenza s’ode antica e nova gli atrii sonar de la girevol sede,

86

Cfr. l’opera di Giulio Rospigliosi, Il palazzo incantato overo la guerriera amante, Roma, s. t., 1642.

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che ’l suo desio vi vede ciascun di fuori e dentro poi no ’l trova. E se mai stanco indi d’uscir fa prova, nova speme il raggiunge, che di lontan s’appressa e presso è lunge87.

Ma è possibile intravedere anche un richiamo alla personale condizione di poeta disilluso e disperso, alla ricerca di un patronage più conveniente («[…] di me stesso in bando / vo tra il perduto stuolo»), che ripone nella regina svedese le speranze di un futuro migliore (con l’implicito confronto tra il menzognero palazzo di Atlante e quello, considerato porto sicuro, di Riario, sede dell’Accademia reale, incunabolo dell’Arcadia88). Non è segno di contraddizione l’inserimento di questi richiami anti-cortigiani in una poesia di stretto registro encomiastico, che si sviluppa in equilibrio tra tensioni baroccamente contrastanti. Questo stesso registro, infatti, si vivifica in tal modo di spinte intimistiche, come emerge dalla strofe finale della canzone, in cui la citazione della materia cavalleresca è in funzione del concettoso calembour (sol-solo), svolto per tutta la lassa e teso a rimarcare la funzione salvifica della regina: Ma se colà talor sol presentando l’amabil sol de le sue vere ciglia di Galafron la figlia valse a ritrarne il lusingato Orlando, basta per me, che di me stesso in bando vo tra il perduto stuolo, l’ombra sol di Cristina o il nome solo89.

Se dunque è senz’altro vero che queste poesie si riducono troppo spesso a «vuote peregrinazioni encomiastiche»90, va tuttavia sottolineata la precipua «dimensione strutturale»91 che esse rivestono all’interno della raccolta, di cui costituiscono l’interna ossatura, nel segno di una precisa e calcolata strategia testuale92.

87

Caraccio, Poesie liriche cit., pp. 186-87. M.P. Donato, Accademie romane. Una storia sociale, 1671-1824, Napoli, ESI, 2000, pp. 64-66. 89 Caraccio, Poesie liriche cit., p. 187. 90 Quondam, Dal Barocco all’Arcadia cit., p. 1070. 91 Ivi, p. 846. 92 Si richiama l’ordine delle quattordici canzoni inserite nelle Poesie liriche: Bella intrecciata; Il Vigliena, overo della faniglia Catanea già della Volta; Il Conclave del 1655; 88

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Come si può notare, il debito delle canzoni caracciane nei confronti dei modelli di genere più noti (Guidi, Filicaia, Menzini, Testi, Ciampoli) risulta chiaramente anche dalla configurazione metrica di questi componimenti, nei quali è possibile percepire le innovazioni dell’età secentesca: conformazione aperta e destrutturata, dissoluzione della sistematicità metrica, eliminazione del congedo, adozione di sofisticati schemi rimici, varietà nel numero di composizione delle strofe, sovrapposizione con il genere dell’ode. Intorno a questa ossatura, si dispiegano e si saldano, talora con alternanza non casuale, i poemetti, le due canzonette chiabreresche e i sonetti, nei quali il tema encomiastico è generalmente marginale e ricorre piuttosto un repertorio vario di argomenti, perlopiù ancora legati alla sensibilità barocca (predicazione multipla del reale, varie declinazioni della rappresentazione muliebre, poetizzazione di eventi biografici, di relazioni amicali e di circostanze speciali). Sono così accolti dal Caraccio i precetti che il Chiabrera aveva codificato a proposito della forma canzone nel Geri, lì dove aveva puntualizzato la legittimità della coesistenza tra componimenti lirici e d’encomio, in quanto capaci tutti e due «di dare diletto a’ sentimenti»93. Perno di un raggruppamento di sonetti amorosi è la prima delle canzoni, Bella intrecciata, in sette ampie stanze di endecasillabi e settenari (quindici versi) e priva di congedo (come quasi tutte le canzoni caracciane94), nella quale è assente ogni elemento occasionale e moralistico e si sviluppa il tema tradizionale e petrarchesco della «bella chioma» che diviene catena d’amore, già di ampia fortuna secentesca nelle sue varie e diversificate variazioni sulle “donne pettinatrici” e sulle ondulazioni della capigliatura (Achillini, Sempronio, ecc.). Ma qui il topos perde ogni elemento di bizzarria e di stravaganza e si riveste di semplicità arcadica e di grazia rococò (l’attenzione ai singoli riccioli), secondo un consapevole décalage del motivo barocco (si pensi solo alla

La Ghirlanda. Per la Signora D. Leonora Boncompagni Borghese Prencipessa di Sulmona; Prudenza nocchiera. Al Sig. Principe Pamphilio Generale di S. Chiesa; Antichità della casa Pamphilia. A Monsignor Gioseppe Vallemani; Vanità mondana ritratta dalla piccolezza della terra. Al Sig. Principe Pamphilio; La Lira. Sforzatamente distolto dalla Epopeia si rivolge alla poesia lirica; La Navigatione nelle nozze della Sig. Prencipessa D. Anna Pamphili col Sig. Prencipe Doria; Contra la falsa opinione d’alcuni musici, che degenerando da i migliori dicono che la buona poesia non sia buona per musica. Al Signor Cardinal Leopoldo di Medici; Sensualità terrena. Pel Sig. Prencipe di Sulmona. Al Sig. Stefano Pignatelli; La giustitia discreta per Monsignor Caccia Auditore della Sac. Rota Romana; L’Agricoltura. Per Mons Gio. Battista Spinola; Palagio d’Atlante. Alla Maestà della Reina di Svetia. 93 G. Chiabrera, Il Geri, dialogo della tessitura delle canzoni, in Opere di Gabriello Chiabrera e lirici del classicismo barocco, a cura di M. Turchi, Torino, Utet, 1974, p. 581. 94 Fa eccezione, come si è visto, la canzone Il Conclave del 1655.

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propagazione settecentesca della semiseria epopea popiana del Riccio rapito). Le suggestioni secentesche si smorzano definitivamente, infatti, a vantaggio di una decisa inclinazione verso una compostezza proporzionata e regolare. Anche il riferimento erudito al mito di Onfale è innestato per indicare la capacità seduttiva di Dorinda e il consolidato argomento della servitù d’amore: Mentre a i zefiri molli i crin sciogliea colei, che de’ suoi crini tesse catene al mio dolente core et il picciolo Amore saltellar si vedea tra filo e fil di quei dorati stami, quai vediam gli augellini scherzar tra verdi rami; ella ver me, che di me fuor tenea ogni pensier fra quelle chiome involto, rasserenando il volto: «Vieni» (mi disse) «e di discreta ancella l’opra adempiendo in queste sciolte anella prova se in nastri e in bende legar saprai chi già ti lega e prende»95.

Intorno all’unica canzone non celebrativa si accentra una serie di componimenti, quasi tutti d’argomento erotico, che costituisce l’apertura della raccolta e che è anche un insieme di stereotipate variazioni su tradizionalissimi temi letterari (la gelosia, lo specchio, l’amor de lonh, il pianto, l’antitesi fuoco-gelo, di matrice petrarchesca), quasi ordinate scansioni di una vicenda sentimentale esplorata nelle varie articolazioni e nelle diverse, contraddittorie fasi della passione amorosa: Tempo e modo del suo innamoramento, Innamoramento in lontananza, Doppio amore, A un nastro mandato alla sua D., Vista gelosa, Per la sua D. che si specchiava, Rimedio disperato, Pianto desiderato e dispiacevole in B. Donna, Lontananza, Pensiero di Gelosia, Speranza con Gelosia, Gelosia, Cadavero intatto di B. D. dopo un anno, Bellezza attempata, Per la Sig. Prencipessa di Rosano, che passava in barca il faro di Messina, Per la Signora D. Anna Ravaschiera Duchessa dell’Acirenza, Pe ’l Cavalier Prati, ch’in una Pastorale rappresentava una donna, In morte della Sig. D. Isabella Noiroth Duchessa di Ceglie 96. Più dei singoli 95

Caraccio, Poesie liriche cit., p. 13. Ivi, pp. 2-12 e pp. 20-26. I sonetti Tempo e modo del suo innamoramento, Innamoramento in lontananza, Doppio amore, A un nastro mandato alla sua D., Vista gelo96

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componimenti, è importante parlare della compattezza argomentativa che li unisce e che li caratterizza come una peculiare filiera all’interno della raccolta, un esordio di stampo petrarchistico e di tono madrigalesco, che ancora conserva tracce di artifici stilistici barocchi (antitesi, metafore sofisticate, arguzie) e che si sviluppa secondo una labile linearità narrativa, topicamente e convenzionalmente sviluppata. Il rinvio alla canzone-madre è, talora, assicurato da associazioni tematiche (il tema del crine come laccio d’amore riunisce, per esempio, il sonetto A un nastro mandato alla sua D. alla canzone Bella intrecciata); ma più spesso è ottenuto in virtù dell’impiego di un lessico amoroso che funge da connettore e da legante anche tra le diverse poesie. Occorre inoltre aggiungere che all’interno di questa sezione è possibile individuare micro-sequenze di testi (quasi dei nessi narrativi), abbinati dall’affinità di motivo poetico o da raccordi di tipo sintagmatico, terminologico e rimico. I primi due sonetti (Tempo e modo del suo innamoramento, Innamoramento in lontananza) hanno entrambi, per esempio nella prima quartina l’occorrenza della rima riso-viso («In quella età, ch’al gioco intenta e al riso» – «Volar qual ape intorno a un bel viso»; «Non sentii foco alor ch’un guardo un riso» – «Come or contemplo il crin dorato e ’l viso»); e nel verso finale della seconda terzina, presentano la parola-tema core, ricorrente come vocabolo conclusivo nel sonetto successivo (Doppio amore). In quest’ultimo, a sua volta, la parola sguardo, inserita nel primo verso («Due luci adoro e un dolce irato sguardo») e centrale nella convenzionale descrizione psico-stilistica degli effetti dell’innamoramento, ha una sua corrispondenza nell’ultimo endecasillabo («licenzioso sguardo o sciolto crine») del componimento seguente (A un nastro mandato alla sua D.). In altri casi, i sonetti rappresentano veri e propri dittici, su riconoscibili consonanze: le due liriche Vista gelosa e Per la sua D. che si specchiava ruotano intorno al motivo dello specchio e del rispecchiamento97; quelle intitolate Pensiero di gelosia e Speranza con gelosia, sono variazioni intorno a uno stesso tema, anche questo tralati-

sa, Per la sua D. che si specchiava, Rimedio disperato, Pianto desiderato e dispiacevole in B. Donna, Lontananza, Pensiero di Gelosia, Speranza con Gelosia precedono la canzone Bella intrecciata, mentre i componimenti Gelosia, Cadavero intatto di B. D. dopo un anno, Bellezza attempata, Per la Sig. Prencipessa di Rosano, che passava in barca il faro di Messina, Per la Signora D. Anna Ravaschiera Duchessa dell’Acirenza, Pe ’l Cavalier Prati, ch’in una Pastorale rappresentava una donna, In morte della Sig. D. Isabella Noiroth Duchessa di Ceglie la seguono. 97 Cfr. B. Rima, Lo specchio e il suo enigma: vita di un tema intorno a Tasso e Marino, Padova, Antenore, 1991.

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zio e convenzionale, pure ripreso nel sonetto precedente (Vista gelosa) e in quello successivo, intitolato Gelosia 98. Altre volte i legami sono meno netti e stringenti. I sonetti Cadavero intatto di B. D. dopo un anno e In morte della Sig. D. Isabella Noiroth Duchessa di Ceglie sono d’argomento funebre e sono concepiti su suggestioni del repertorio lirico barocco. Li accomuna una medesima situazione di partenza: la mancata decomposizione dei corpi delle due donne, a distanza di tempo dalla loro morte. Il dato macabro della sepoltura funziona da pretesto per enfatizzare il carattere perenne e duraturo di valori assoluti (l’amore del poeta per Dorinda; la bellezza di Isabella) e si sviluppa sull’opposizione anima-corpo. A ben vedere, anche in tale circostanza si potrebbe trattare di un cosciente e mirato rovesciamento di un motivo dominante nella poesia secentista, quello della putredine e del disfacimento delle salme, spesso svolto per ricavarne sapide moralità. Ma se nel primo caso agisce il ricordo di certa poesia coniugale e sepolcrale di derivazione umanistico-rinascimentale (Pontano, Rota), nel secondo lo spunto si vivifica di tensioni peculiarmente barocche, con l’annuncio della trasformazione della donna in stella (catasterismo): Cadde Isabella. In questo avel sepolta co’ begli occhi d’Amor la face stassi viva qual sempre fu; tosto vedrassi l’arca di marmo in cenere disciolta. Alor che notte i cerchi umidi e bassi ingombra, in stella la vedrem rivolta; ch’ella non morì già, benché raccolta tacita giaccia in questi freddi sassi […] 99.

Anche il sonetto Bellezza attempata, del resto, recupera un modello poetico del tempo (quello dell’«amante incanutita»), nella linea della predicazione multipla della donna, pure di tipo cromatico («Non temo io più che per stagion si sfiori / beltà, se in alpe neviga d’intorno: / che spunti il frutto ov’è caduto il fiore. / E da un bel viso di due stelle adorno, / se sotto de le stelle appar l’albore, / a le mie scure notti or s’apre il giorno»)100; mentre un filo encomiastico-celebrativo, eccepito secondo moduli tardo barocchi, lega i restanti sonetti Per la Sig.

98 S. Prandi, Marino, Tasso e la gelosia, in «Filologia e critica», XVIII, 1993, pp. 114-21; Id., «Ne le tenebre ancor vivrò beato»: variazioni tassiane sul tema della gelosia, in Mappe e letture. Studi in onore di Ezio Raimondi, a cura di A. Battistini, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 67-83. 99 Caraccio, Poesie liriche cit., p. 26. 100 Ivi, p. 22.

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Prencipessa di Rosano, che passava in barca il faro di Messina, Per la Signora D. Anna Ravaschiera Duchessa dell’Acirenza, Pe ’l Cavalier Prati, ch’in una Pastorale rappresentava una donna. Nei primi due componimenti sono esaltate le qualità fisiche di due tra le più importanti rappresentati femminili della feudalità meridionale (in particolare, la Principessa di Rossano si identifica con Olimpia Aldobrandini, moglie del già omaggiato principe di Sulmona; la Ravaschieri fu moglie di un fervido protettore del Caraccio, il mecenate salentino Cosmo Pinelli). In essi lo schema di rappresentazione muliebre proprio del petrarchismo si invera in figure storiche realmente esistite, nella linea di una tendenza costitutiva della lirica barocca a dare corpo e sangue a un paradigma letterario ormai cristallizatosi nel tempo101. La declinazione al femminile del registro cortigiano è spesso una scorciatoia per magnificare il potere dei consorti, a cui queste nobildonne sono legate, ma qui l’elogio della Principessa di Rossano è collocato in una singolare evenienza, l’attraversamento dello stretto siciliano (con un’insistenza sui fondali marini), mentre la celebrazione della Ravaschieri ispira al poeta sofisticate combinazioni onomastiche («Né interpretando il nome altri s’inganni / che Venere di Giano Anna si dica, / che i figli di Saturno anco son’Anni»). Gioca sull’ambiguità dei generi, sul concetto di metamorfosi-scambio e sul rapporto realtà-finzione (un tema barocco per eccellenza) il terzo sonetto d’argomento teatrale (Pe ’l Cavalier Prati, ch’in una Pastorale rappresentava una donna), anche in questo caso ispirato da una circostanza occasionale (la rappresentazione di una pastorale). Non c’è bisogno di insistere oltre su queste varie corrispondenze interne e su questi giochi di simmetrie che caratterizzano le Poesie liriche. Altre aggregazioni tematiche si possono individuare, ad esempio, nel dittico “investigante” rappresentato dai già citati sonetti Per un problema agitato nell’Accademia di Napoli se gli Egittij o i Romani fossero più grandi nelle loro fabbriche e S’allude al principio delle rivoluzioni di Napoli del 1647; o in quello bucolico-pastorale che si configura nei componimenti Libero dalla città s’innamora in villa e Caso Pastorale 102, in cui la consueta tematica dell’opposizione città-campagna diviene fondale per riflessioni su vicende amorose; o, ancora, nelle liriche Bella Ricamatrice e Bella Cacciatrice 103, due esempi di “istantanee”, che rievocano, con immagini diverse ma molto frequenti nei canzonieri secenteschi, le insidie della seduzione femminile; oppu101 G. Getto, Lirici marinisti, in Il Barocco letterario in Italia. Barocco in prosa e in poesia. La polemica sul Barocco, con una premessa di M. Guglielminetti, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 40-46. 102 Caraccio, Poesie liriche cit., pp. 80-81. 103 Ivi, pp. 95-96.

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re nel trittico Crudeltà della sua D., Forza d’Amore, Confessione 104, unito da una linea tematica incentrata sull’introspezione intimistica del patos amoroso. Spiccano, in questo senso, la coppia di sonetti composti in occasione della morte della moglie Beatrice Saladina (In morte della Sig. Beatrice Saladina e Alla medesima)105, e costruiti intorno al tema del pianto; o la sequenza di componimenti d’argomento religioso (S. Pietro da Morone, S. Caterina martire, ecfrasi di una pittura di Daniel Saiter, La Maddalena a piè di Cristo, La Vergine a piè della Croce)106, veri e propri medaglioni poetici di tono spirituale ed edificante; inoltre, i due sonetti Per la Sig. Contessa Marina Gambalonga. Al Sig. Principe della Vetrana e Instabilità della sua fortuna. Al Sig. Conte Girolamo Graziani, uniti da un analogo attacco descrittivo, nel quale si trasfigurano i luoghi d’origine dei due celebrati, pure con risonanze dantesche («Qui, dove con piè lubrico e disciolto / vien la Marecchia a divenir marina» – «Qui, Gratïan, dove in balìa d’altrui / piango del’Adria in su la destra sponda, / le rive e i campi il Rubicone inonda»)107. Se le Poesie liriche non riproducono la configurazione frazionata delle raccolte tardo rinascimentali (rime amorose, morali, sacre) e sono lontane dall’assetto delle sillogi poetiche secentesche, aperte, politematiche e divise in più sezioni all’insegna di una sperimentale varietà, nel solco modellizzante della Lira mariniana108, in esse, tuttavia, è possibile riconoscere omogenei percorsi tematici e raggruppamenti di nuclei lirici, pur nell’assenza di formali partizioni. D’altra parte, le rime caracciane non sono riducibili a un esempio tipico di “canzoniere” (benché così le definisca il De Angelis)109, perché non è possibile riconoscervi un’evoluzione dell’io lirico o una storia interiore scandita per fasi spirituali e ideologiche (dal peccato alla redenzione), quanto piuttosto cogliervi un’aggregazione e una mescolanza di forme metriche diverse (sonetti, canzoni, canzonette, scherzi, poemetti), con una spiccata prevalenza dei primi due generi, e di indicazioni tematiche differenziate. Particolarmente interessante risulta tuttavia, sotto il punto di vista della strut-

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Ivi, pp. 97-99. Ivi, pp. 164-65. Il primo dei due sonetti fu apertamente elogiato dal Crescimbeni nell’Istoria della volgar poesia e fu da lui indicato come testo esemplificativo dello stile caracciano (De Angelis, Le vite de’ letterati salentini cit., p. 193). 106 Caraccio, Poesie liriche cit., pp. 179-82. 107 Ivi, pp. 118-19. 108 Cfr. O. Besomi, Ricerche intorno alla «Lira» di G. B. Marino, Padova, Antenore, 1969 (in particolare il cap. I: Temi e stile nella «Lira» di G. B. Marino, pp. 17-56). 109 Il biografo parla di «un canzoniero […] pieno di purgati sonetti e canzoni e d’ingegnosi poemetti», in De Angelis, Le vite de’ letterati salentini cit., p. 191. 105

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tura, la dislocazione di canzoni e sonetti, con la rispettiva destinazione d’uso. Alle canzoni il Caraccio affida la trattazione di temi alti e solenni, nella scia di una codificazione del genere di ascendenza medioevale che si era affermata in area meridionale a partire dagli anni Settanta (Meninni) e che aveva individuato in Pindaro e Orazio (l’Orazio solenne degli Epodi) i modelli antichi e nel Testi, nel Chiabrera, nel Ciampoli gli emuli moderni di quella linea, spesso in alternativa all’archetipo petrarchesco110; nei sonetti prevalgono invece, come si è detto, l’elemento occasionale, il frammento autobiografico, il modulo letterario rielaborato e originalmente reinterpretato, secondo una concezione di questa forma metrica come organismo chiuso e compatto e come prova compositiva di alto rigore. Anche l’accostamento di queste due forme all’interno della raccolta contribuisce a produrre l’effetto di «innalzamento della lirica a genere alto»111, così come aveva teorizzato il Meninni sostenendo la superiorità dei moderni scrittori di canzoni su quelli antichi (capitolo XVIII del Ritratto della canzone: Della differenza ch’è fra le canzoni antiche e fra le moderne 112), e serve a ricompattare le due direttrici tematiche principali (la materia amorosa e quella encomiastica: un dato già messo in rilievo nel sonetto proemiale). Il Meninni giustificava questo stato di condizione superiore, ritenendo che i moderni meglio interpretassero il rispetto del binomio sublimità-concettosità: una tendenza poetica che si era affermata nell’Italia meridionale soprattutto per merito di Giuseppe Battista e che si era proposta di rivestire di implicazioni etiche la lezione mariniana, complicandola, però, sul piano delle soluzioni stilistiche e arricchendola di un collegamento più stretto con la tradizione greco-latina. Per questo, lo scrittore aveva formalizzato nel suo “manuale”, Il ritratto del sonetto e della canzone (1670), un canone di letterati primo-secenteschi, al quale il Caraccio palesemente cerca di riallinearsi con la sua poesia magniloquente. Nello sforzo di aderire a questo peculiare orientamento creativo, il poeta individua anche l’idea di contenitore più consona a tale proposito. Così, sonetti e canzoni convergono verso un unico obiettivo e la struttura delle Poesie liriche si impernia intorno a un dinamico e fluido nesso tra i due generi metri-

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F. Meninni, Il ritratto del sonetto e della canzone, a cura di Clizia Carminati, Lecce, Argo, 2002, pp. 263-70 (capitolo XVII del Ritratto della canzone: Autori più celebri italiani, che composero canzoni). Sul genere della canzone eroica nel Seicento, cfr. S. Morando, Clio in versi. Per una storia della canzone eroica nel Seicento, in La letteratura e la storia, Atti del IX Congresso Nazionale ADI, Bologna-Rimini 21-24 settembre 2005, a cura di E. Menetti e C. Varotti, Bologna, Gedit Edizioni, 2007, vol. I, pp. 627-35. 111 C. Carminati, Introduzione, in Il ritratto del sonetto e della canzone cit., p. XXIII. 112 Meninni, Il ritratto del sonetto e della canzone cit., pp. 271-77.

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ci, spesso correlati da immagini connettive (quella, già ricordata, per esempio, della navigazione e del nocchiero) e da corrispondenze stilistico-tematiche. Sono infatti presenti forme di raggruppamento e di raccordo che non riguardano solo i gruppi di sonetti e i gruppi di canzoni, ma anche, trasversalmente, sonetti e canzoni (con quest’ultime nella funzione di delimitare differenti campi tematici113). Basti prendere in considerazione qualche esempio: alla canzone Il Conclave del 1655 fanno immediatamente seguito il sonetto Per la Santità di Papa Alessandro VII 114, che proprio da quel conclave fu eletto pontefice, e il poemetto in ottave celebrativo di Cristina di Svezia, che addirittura da Alessandro VII fu accolta al suo arrivo a Roma. Analogo accoppiamento sonetto-canzone, sulla base di affinità tematiche o richiami argomentativi, è la sequenza che comprende la canzone La giustizia discreta e il sonetto Tra gli strepiti del foro può aver anche luogo la poesia 115. Qui la contiguità è assicurata dal rango dei destinatari (Mons. Caccia e Mons. Emerix, membri della Sacra Rota Romana), ma anche dal comune argomento: l’amministrazione della giustizia e il rapporto fra professione forense e pratica letteraria. Ancora, il poema nuziale La pace pronuba è preceduto da un sonetto indirizzato Al Sig. Cardinal Giulio Mazarino. Per la Pace stabilita ne’ Pirenei 116, in un enfatico dittico celebrativo dell’egemonia francese. Probabilmente queste microsequenze tematiche tra forme metriche diverse puntano a stabilire una modalità stretta di connessione tra i singoli componimenti della raccolta, spesso di ispirazione eterogenea e di stile difforme (compresenza di artifici barocchi e loro graduale decomposizione in armonie rococò), e tendono a costituire la saldatura dell’edificio poetico, attenuando in questo modo gli «squilibri strutturali»117 interni alla raccolta, perlopiù dovuti al suo carattere stratificato e composito. Ma non sempre l’alternanza di sonetti e canzoni rinvia a un criterio di calcolata disposizione organizzativa o è possibile riconoscere in essa la funzione di elemento connettivo e unificatore. E allora la genesi dell’opera, la 113

La canzone Il Vigliena (Caraccio, Poesie liriche cit., pp. 27-40), per esempio, chiude la sezione d’argomento amoroso. 114 Ivi, p. 53. 115 Ivi, p. 171. Il sonetto è un rovesciamento di un tema topico: cfr. la canzone di Baldassare Pisani Al Signor Biagio Altomare. Che la Poesia non può felicemente coltivarsi fra gli esercizi del foro, in Delle poesie liriche del Signor Baldassarre Pisani. Parte seconda. Le Canzoni, Napoli, Giovan Francesco Paci, 1685, pp. 106-10. La celebrazione di illustri canonisti e di esponenti del ceto legale ricorre anche nei sonetti consecutivi Per Mons. Marcello Rondanino Auditore de la Sac. Rota Romana e Al Sig. Ottavio Giandi suo avvocato nella curia romana (Caraccio, Poesie liriche cit., pp. 188-89). 116 Ivi, p. 194. 117 Quondam, Dal Barocco all’Arcadia cit., p. 1069.

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sua revisione in funzione di silloge allineata alle direttive dell’Arcadia, il tentativo di assembrare in una struttura coerente stimoli molteplici e spesso divergenti sul piano dei modelli e degli influssi culturali e di incanalarli in una direzione unitaria e compatibile con le poetiche classicistiche di fine secolo dal punto di vista dei temi e dello stile, rivelano la vera natura delle Poesie liriche: il loro ruolo, cioè, di edizione-raccolta, di edizione-omnia, di summa di una produzione lirica pluridecennale in vista dell’ingresso in Arcadia, forse provvisoria se si deve dar credito all’intenzione del Caraccio di pubblicare un «maggior volume di rime»118, ma comunque certificativa della sua adesione a un nuovo gusto creativo e strutturale che metabolizza e riplasma suggestioni precedenti. Così, dopo il compatto trittico delle canzoni Prudenza nocchiera, Antichità della casa Pamphilia, Vanità mondana, si inserisce una catena di cinque sonetti encomiastici119; o dopo la canzone Sensualità terrena si trovano componimenti in onore di amici accademici, di nobili in vista, di letterati importanti (Bonarelli), di protettori impersonanti figure ideali di principe (Giovan Battista Pamphili) e “scherzi” poetici sul tema convenzionale della fugacità del tempo (di ascendenza barocca, e rivisitato nella forma della canzonetta arcadica)120. Il trittico dei sonetti Vienna liberata, S. Dimna e Al medesimo Sig. Cardinal Pamphilio in Nettuno, posti in sequenza121, disvelano la loro natura occasionale e celebrativa secondo un filo tematico-argomentativo comune (la celebrazione dell’ingegno politico e letterario di personaggi illu-

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Francesco Brunacci a chi legge, in Caraccio, Poesie liriche cit., p. [4]. L’occupazione nella correzione dell’Imperio vendicato avrebbe impedito al Caraccio di realizzare questo progetto, ma Quondam ipotizza che decisiva sia stata, a questo proposito, la difficoltà del poeta di adeguare queste poesie già scritte alla mutata situazione culturale (Quondam, Dal Barocco all’Arcadia cit., p. 1069). 119 Caraccio, Poesie liriche cit., pp. 118-22. I sonetti sono: Per la Sig. Contessa Marina Gambalonga, Instabilità della fortuna. Al Sig. Conte Girolamo Graziani, In occasione di Buone Feste. S’invita il Sig. Filippo Marcheselli ad aprir l’accademia, Per la Sig. Laura di Massimi, che con altre dame di sua compagnia in Frascati comparve ad un festino vestita da Fraschetana, Alla Sig. D. Flaminia Pamphilij Prencipessa Pallavicina, Al Sig. Prencipe D. Giovan Battista Pamphilio. Il Graziani e il suo poema (Il Conquisto di Granada, 1650) furono oggetto di frequenti omaggi nelle raccolte poetiche del tempo (cfr. il sonetto di Francesco Antonio Cappone Al Sig. Girolamo Graziani per la sua Granata conquistata, in Poesie liriche, Napoli, G. Passaro, 1663, p. 36; e la canzone di Fulvio Testi Al Signor Girolamo Graziani, in Poesie liriche cit., pp. 193-94). 120 Caraccio, Poesie liriche cit., pp. 159-63. I sonetti sono: Pel ritratto di Monsig. Natale Rondanino, che ne alzò l’accademia de gli Umoristi, In morte del Sig. Conte Filippo Candido Pepoli, In morte del Sig. Conte Prospero Bonarelli. La canzonetta-“scherzo” si intitola Ogni tempo è di pregiudizio alla vita. 121 Ivi, pp. 190-92.

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stri e di protettori). E se nel primo si esalta il ruolo del pontefice Innocenzo XI nella liberazione di Vienna del 1684 (un’ulteriore conferma della prevalente inclinazione caracciana verso l’encomio eroico delle gerarchie curiali, come riaffermazione del potere cattolico-controriformistico) e si tratta un motivo poetico largamente ricorrente nei canzonieri di fine Seicento122, negli altri due si magnificano le doti di letterato del cardinale Pamfili, autore di una tragedia sacra in musica sulla martire Dimna e di poesie sulle rovine archeologiche d’Anzio: dunque, lo si celebra come interprete di una precipua linea devota e classicizzante che qui risente ancora di echi secenteschi (Cesarini123), ma che già sembra anticipare un rovinismo d’ambientazione arcadica124. In tutti questi ultimi esempi non è possibile, tuttavia, cogliere alcuna reale incidenza di tipo costitutivo o un’effettiva volontà sistematrice, quanto piuttosto una disposizione del materiale poetico, se non casuale, certamente vicina a una conformazione di raccolta sostanzialmente destrutturata e inclusiva, spesso oscillante fra gli opposti del vincolo strutturale e dell’inserimento libero e flessibile125. A questa precipua confermazione rinvia anche la scelta di immettere i due poemetti, i più volte ricordati L’assemblea dei fiumi e La pace pronuba, e i due “scherzi”. Nel primo poemetto, in 51 ottave, già pubblicato nel 1656, ma riproposto nella raccolta del 1689 (proprio poche settimane prima della morte di Cristina di Svezia, avvenuta in Roma il 19 aprile 1689 126), si assiste a una sontuosa e iperbolica magnificazione della regina attraverso un topos letterario di fortuna europea (la personificazione dei fiumi come strumento di esaltazione encomiastica127). La dignità regale di Cristina richiama il convegno 122

Notevole soprattutto il caso di Vincenzo da Filicaia che chiude le sue Poesie toscane (Firenze, Matini, 1707, ed. postuma) con cinque poesie d’impegno politico sulla liberazione di Vienna dai Turchi (dando a questo tema, dunque, anche rilievo strutturale). 123 E. Raimondi, Paesaggi e rovine nella poesia d’un «virtuoso», in Anatomie secentesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, pp. 42-72. 124 Sul tema, cfr. R. Negri, Gusto e poesia delle rovine in Italia fra il Sette e l’Ottocento, Milano, Ceschina, 1965; per una carrellata dal XIV al XIX secolo, vd. Poesia e poetica delle rovine di Roma: momenti e problemi, a cura di V. De Caprio, Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1987. 125 Così, per esempio, la successione dei sonetti Pel Sig. Antonio Inurea Capitano dell’armata di Genova contra i corsari Barbareschi, Pe ’l Carlo Magno, o vero la Chiesa vendicata. Poema del Sig. Girolamo Garopoli, Al Signor Cardinal Mancini nella sua promozione, Per la Diana. Pittura del Sig. Carlo Maratta, Al Sig. Conte Alessandro Roncovieri, Al Signor Prencipe della Vetrana D. Gio. Antonio Albrizio (Caraccio, Poesie liriche cit., pp. 131-36), posta tra le canzoni La lira e La navigazione, non sembra avere alla base alcuna norma dispositiva. 126 L’Imprimatur delle Poesie liriche è infatti datato «die 11. Februarij 1689». 127 V. Bodini, Il mondo fluviale di Góngora dal Rinascimento al Barocco, in Studi sul Barocco di Góngora, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1964, pp. 9-38.

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dei maggiori corsi d’acqua (nell’ordine: Nilo, Danubio, Vistola, Malva, Tana, Iri, Oronte e molti altri, insieme con i loro affluenti). Tutti si siedono alla destra e alla sinistra del «gran padre Oceano», ma manca «il Tiverino fiume», attardatosi ad accogliere Cristina nel momento del suo ingresso nella città capitolina. Ecco come il Tevere viene rappresentato (la sua personificazione è una chiara citazione virgiliana128): Cinte di canna avea le tempie; e ’l crine biancheggiar si vedea tra fronde e fronde e grondante di ciel, molle di brine la lunga barba rincrespata in onde. Venìa com’uom che di lontan confine rechi novelle prospere e gioconde, tutto piacevolezza e tutto riso agli atti venerabili e al viso […] 129.

Proprio al fiume romano è affidato l’elogio di Cristina; l’ingresso in Roma della regina è rappresentato in forma di enfatico triumphus, nei modi di una festosa scenografia barocca e di una ritualità celebrativa frequente nella Roma di quel tempo130: Indi seguìa: «La generosa donna, poi che la Svetia incoronò di fregi et avolta ne l’armi o in regia gonna parve uomo tra i guerrier, diva tra i regi, venne in pensier ch’esser regina e donna fosse il minor de’ titoli e de’ pregi e che gli aurei diademi e i regii troni erano sue catene e non già doni […]. D’archi, d’imprese la città si scerse sparsa e di querce e di dorate spiche, d’abiti varii e fantasie diverse di cimier, di divise e di loriche. Là di belgiche pompe e qua di perse mista e di babiloniche fatiche, 128

Cfr. Eneide, 8, vv. 31 ss.: «Huic deus ipse loci fluvio Tiberinus amoeno / populeas inter senior se attollere frondes / visus: eum tenuis glauco velabat amictu / carbasus et crinis umbrosa tegebat harundo». 129 Caraccio, Poesie liriche cit., p. 66. 130 Sul tema, cfr. L’effimero Barocco: strutture della festa nella Roma del ’600, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco e S. Carandini, 2 voll., Roma, Bulzoni, 1977-1978.

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parve al tumulto, a l’allegrezza, a i segni Roma albergar non le città, ma i regni131.

L’Assemblea dei fiumi è un’importante testimonianza del clima culturale che si trovò a vivere il Caraccio, nei primi anni del suo soggiorno romano, e rispecchia la vitalità di un contesto accademico-letterario che, in parte, si riflette nelle Poesie liriche e che fu profondamente caratterizzato dall’incisiva attività di questa personalità (non a caso, l’elogio pronunciato dal fiume romano richiama la scelta di Cristina di dimorare per lunghi anni, sino alla sua morte, a Roma)132. Ma il poemetto trasfigura anche, in forma di encomio cortigiano, una florida stagione di rinnovamento artistico, rapportandosi con evidenza alla coeva Fontana dei Fiumi del Bernini (1651; il poemetto fu pubblicato nel 1656): un corrispettivo figurativo che forse poté stimolare il Caraccio nella scrittura di queste ottave e dal quale egli probabilmente ricavò la simbologia fluviale del suo componimento, in un simbiotico intreccio tra arte e letteratura intorno a un tema (quello delle fontane zampillanti e dei giochi d’acqua) di rilevante rigoglio secentesco in campo figurativo e letterario per la sua valenza metamorfica e dinamica133. E davvero non si potrebbe comprendere il senso di molta poesia caracciana, se non la si interpretasse anche come riflesso letterario del trionfalistico «carattere cattolico-romano»134 dell’arte barocca che si sviluppò in pieno Seicento nella città pontificia, in reazione alla pace di Westfalia e come strumento di riaffermazione dei valori tridentini (rinverditi anche dalla permanenza a Roma della protestante, poi convertitasi al cattolicesimo, Cristina). L’inserimento del Caraccio nel ricco filone di mitografia cristiniana è testimoniata dalla già citata canzone XIV Palagio d’Atlante e segnala la sua piena compartecipazione al circuito dell’intellettualità romana di metà secolo, documentato peraltro pure dall’altro poemetto celebrativo. Qualche anno

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Caraccio, Poesie liriche cit., pp. 70-71. Su Cristina di Svezia, cfr. D. Pizzigalli, La regina di Roma: vita e misteri di Cristina di Svezia nell’Italia barocca, Milano, Rizzoli, 2002; gli Atti dei Convegni Letteratura, arte e musica alla corte romana di Cristina di Svezia, Roma, 4 novembre 2003, a cura di R.M. Caira e S. Fogelberg Rota, Roma, Aracne, 2005; Cristina di Svezia e la cultura delle accademie, Macerata-Fermo, 22-23 maggio 2003, a cura di D. Poli, Roma, Il Calamo, 2005. 133 A. Battistini, Il Barocco. Cultura, miti e immagini, Roma, Salerno Editrice, 2000, p. 155. Cfr., a puro titolo esemplificativo, il sonetto di Giacomo Lubrano Giuochi d’acqua nelle fontane (in G. Lubrano, Scintille poetiche, a cura di M. Pieri, Ravenna, Longo, 1982, p. 65). 134 G.C. Argan, Immagine e persuasione. Studi sul Barocco, a cura di B. Contardi, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 580. 132

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dopo, infatti, nel 1661, il poeta pubblicò il lungo componimento nuziale della Pace pronuba come omaggio alla corona francese, ormai prevalente per influenza su quella iberica anche nella città pontificia, celebrando un passaggio focale nelle vicende della politica europea: il matrimonio di Luigi XIV con l’infanta Maria Teresa di Spagna. Il Caraccio non si lasciò sfuggire una così ghiotta occasione e solennizzò l’alleanza tra le due dinastie («famose schiatte»), sancita da questa unione («felice imeneo») e celebrata come barocca favola mitologica: Venere e Giunone si contendono il ruolo di paraninfa e per questo accendono una furibonda lite, durante la quale ognuna espone le personali ragioni secondo la tecnica dialettica della tenzone e del contrasto. Alla fine interviene Giove, il quale stabilisce che per uno sposalizio di così grande momento è necessaria la doppia presenza delle due divinità, a suggello dell’eccezionalità dell’evento, e che entrambe dovranno favorire la fecondità della coppia, per garantire la successione regale. L’apparato mitologico è, in realtà, funzionale all’esaltazione delle due casate («O di gemina stirpe al ciel gradita / glorïosi rampolli, incliti germi […]), con il ricorso a un decorativismo descrittivo in cui sopravvivono residui stilistici di matrice secentesca (topici figuranti, materiali preziosi, acceso cromatismo), ma nel quale compaiono anche contenuti rappresentativi di gusto rococò (l’attenzione al dettaglio e alla minuzia esornativa). Basti qui ricordare l’esempio dell’ecfrasi del gioiello raffigurante la coppia regale, che Venere mostra a Giove per perorare la personale causa, ornato di oro e diamanti («Di donzella real, di re novello / scopre la sculta gemma il bel sembiante […] / Con qual arte non so, la man che fello / diè fiato a l’oro et anima al diamante»): una raffigurazione che ne richiama un’altra, ugualmente preziosa e analogamente incentrata su un ritratto regale, quello di Cristina nell’Assemblea dei fiumi 135. Quale è, dunque, la funzione di questi due ampi organismi poematici all’interno della raccolta? Essi a prima vista non vi ricoprono alcuna posizione strategica (a parte il legame tematico con i sonetti contigui), ma probabilmente il loro inserimento in un’antologia che si propone di dimostrare spiccate doti di versatilità creativa si giustifica con la volontà di documentare un’ulteriore direttrice dell’ispirazione caracciana, e cioè la pratica di una tendenza descrittivo-narrativa, già rilevabile, del resto, in alcune canzoni e nella prima edizione dell’Imperio vendicato, accanto all’argomento lirico-amoroso ed encomiastico136. Dal canto loro, i due “scherzi” (Cagion d’amore, scherzo contro l’opinione de’ Platonici e Ogni tempo è di pregiudizio 135

Caraccio, Poesie liriche cit., p. 77. Lo aveva già compreso il De Angelis (Le vite de’letterati salentini cit., p. 191): «[…] volle egli esercitare la vastità della sua mente per farne pruova in tutte le sorti della poesia italiana». 136

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alla vita 137), dagli schemi rimici agili e musicali, si rifanno a soluzioni metriche (ampio uso di versi parisillabi e imparisillabi, predilezione per i versi brevi, rivisitazione di forme tradizionali, polimetria) di conio chiabreresco (si ricordino gli Scherzi e canzonette morali, 1599) che avranno grande fortuna in Arcadia, ma qui denotano un atteggiamento psicologico più lieve (il genere metrico-retorico dello “scherzo”) contro il registro solenne degli encomi: quasi a confermare, dunque, la svariata tastiera e la dilatata gamma della poesia caracciana. Questa mescolanza di stili, di temi, di forme, di contenuti è il vero dato che il Caraccio intende valorizzare nella sua opera ed egli intende evidenziarlo attraverso un’ordinata disposizione dei suoi componimenti, respingendo il carattere digressivo e politematico delle raccolte secentesche o le tradizionali ripartizioni delle sillogi tardo cinquecentesche (la linea Guarini-Tasso), ma costruendo un percorso tematico e di genere che trascorre da un’imitazione petrarchistica, rimodulata con stilemi barocchi, all’opzione civile e celebrativa, percorsa da venature moralistiche e neostoiche, passando per la musa epica (i poemetti encomiastici). L’unità spirituale e ideologica della raccolta sta proprio nell’esigenza di certificare questo itinerario creativo e di collocarlo per intero, anche nelle sue punte sperimentalistiche, all’interno delle poetiche classicizzanti di fine secolo (Menzini); dentro, insomma, quel clima “prearcadico” e dentro quel processo di revisione del marinismo (Meninni, Cicinelli) insorto nello stesso scorcio di anni, nel segno di una palese adesione a modelli ascrivibili al Seicento non marinista (barocchi-moderati, poeti barberiniani, linea Testi-Chiabrera)138 e nell’ottica di una rifunzionalizzazione in chiave etica e regolare di queste peculiari esperienze letterarie. In tale prospettiva si colloca anche la scelta del contenitore e della tipologia della raccolta, che respinge le complesse forme di organizzazione caratterizzanti il panorama lirico cinque-seicentesco per recuperare una fisionomia strutturale più aderente alla sensibilità coeva. Se le Poesie liriche, dunque, dal punto di vista della loro conformazione, non sono un racconto lineare che recupera una dimensione narrativa tipica dei canzonieri tradizionali (Bembo, Della Casa) e del loro archetipo di riferimento (Petrarca), tuttavia, si segnalano in ogni 137 Caraccio, Poesie liriche cit., pp. 83-84 e 161-62. Il primo componimento è una canzonetta di quattro strofe esastiche di ottonari e quadrisillabi (AaBCcB), uno schema molto utilizzato dal Chiabrera; il secondo è una canzonetta in cinque stanze, caratterizzate da ricca polimetria e alternanza di versi brevi e lunghi. Sul genere musicale-letterario dello “scherzo” barocco, cfr. A. Frattali, Lo scherzo barocco nel secolo del “recitar cantando”, in I luoghi dell’immaginario barocco, a cura di L. Strappini, Napoli, Liguori, 2001, pp. 261-72; Ead., Lo scherzo barocco: origine poetica e prime espressioni in musica, in «Soglie. Rivista Quadrimestrale di Poesia e Critica Letteraria», IV, 3, 2002, pp. 28-42. 138 P. Procaccioli, L’altro canto. Il Seicento non marinista, in Storia generale della letteratura italiana, diretta da W. Pedullà e N. Borsellino, vol. VI, Il secolo barocco. Arte e scienza nel Seicento, Milano, Federico Motta, 1999, pp. 199-246.

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caso come una consapevole e precisa opzione poetica, contestativa delle tendenze barocche e aperta alle incipienti suggestioni restaurative del tempo. Queste suggestioni, infatti, furono recepite consapevolmente dal Caraccio, che colse nel modello Petrarca, come molti altri poeti della sua generazione, un possibile punto di riferimento stilistico di segno anti-secentesco, magari dopo averlo assorbito attraverso la mediazione del filone classicista del secolo (Testi, Ciampoli, circolo barberiniano) e dopo averlo ripulito dalle sofisticazioni marinistiche139. Ma egli non riconobbe tuttavia nella forma “canzoniere”, già sostanzialmente abbandonata e superata nel corso del Seicento, a meno che non si vogliano prendere in considerazione il precoce Canzoniere (1602) di Cesare Rinaldi e l’esperimento eccentrico e manipolatorio del Canzoniero dello Stigliani (1623) 140, la via più adatta per l’espressione di questi impulsi rigeneratori, così come invece stavano facendo in quegli stessi anni i suoi antichi sodali napoletani (Buragna, Schettini, Giannelli). Questi agguerriti interpreti del petrarchismo meridionale tardo secentesco, puntavano a salvaguardare nelle loro raccolte le caratteristiche formali, stilistiche e strutturali del paradigma originario (se non nella ripresa del titolo “canzoniere”, almeno nella sostanza ideologica di tale paradigma), e a ripresentarle secondo una palese connotazione anti-marinista. Il Caraccio si distinse da queste posizioni polemicamente reattive e preferì, invece, utilizzare altre tipologie di ordinamento in voga nella poesia di fine secolo e allinearsi, anche in questo caso, a un orientamento più generale che si era affermato nella cultura letteraria romanotoscana coeva. Le difformi direttrici della raccolta trovano, infatti, un punto collettore in una classificazione retorica (l’intitolazione Poesie liriche) che, da un lato, rinvia a una linea cantabile tardo barocca (le Poesie meliche di Giuseppe Battista141), dall’altro si ricollega, coerentemente e diffusamente, a un ben caratterizzato versante classicistico di fine Seicento e primo Settecento. Qualche minimo sondaggio potrà risultare utile a questo proposito. Se Poesie liriche si intitolavano, fra le altre, le raccolte di Claudio Achillini (1631), di Francesco Bracciolini (1639), di Carlo de’ Dottori (1643), di Francesco Antonio Cappone (1643), di 139

Sulla problematica presenza del Petrarca nel Seicento e sulle vicende del petrarchismo nel Barocco, tra avversioni tassoniane (cfr. M. Pazzaglia, Commento ai RVF di Alessandro Tassoni, in «Kronos», 8, 2005, pp. 69-82) e ritorni di fortuna, cfr. il volume miscellaneo Petrarca in Barocco. Cantieri petrarchistici. Due seminari romani, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 2004. 140 O. Besomi, Tommaso Stigliani: tra parodia e critica, in Esplorazioni secentesche, Padova, Antenore, 1975, pp. 53-205. 141 Le cinque parti delle Poesie meliche furono pubblicate nel 1650, nel 1653, nel 1659, nel 1664 e nel 1670. Su di esse, cfr. G. Battista, Opere, a cura di G. Rizzo, Galatina, Congedo, 1991, e, in questo stesso volume, il saggio di Marco Prinari.

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Scipione Errico (1646) e di Federigo Nomi (1666) e con questo stesso sottotitolo furono pubblicati anche I Vezzi d’Erato (1649) di Leonardo Querini e Le sirene (1676) di Pietro Casaburi (tutti autori riconducibili a un’area di stretta osservanza marinista, in qualche caso esponenti di un marinismo estremo e radicale), la stessa denominazione ebbero pure i libri di Fulvio Testi (1627) 142, di Alessandro Guidi (1671) 143, di Baldassarre Pisani (1676), di Vincenzo da Filicaia (1687) 144; inoltre, un’antologia di Poesie liriche diverse di Gabriello Chiabrera fu pubblicata postuma a Firenze e a Bologna nel 1674 e uguale intestatura si utilizzò nel 1698 per l’edizione post mortem delle rime di Benedetto Menzini. Un bel mannello di punti a favore, insomma, della preminenza di questa titolazione, soprattutto se confrontata con l’eclissi secentesca di quella, differente nell’accezione tecnica, spirituale e psicologica, di “canzoniere”. Come si può notare, il passaggio nella seconda metà del secolo verso una zona di influenza moderata e classicistica, che si colloca nell’ambito di un processo di riconsiderazione del marinismo o, addirittura, di resistenza a esso, che sfiora i confini cronologici dell’Arcadia e che prosegue pure con testimonianze protosettecentesche, è evidente e segnala una precisa svolta poetica in autori, molti dei quali si affiliarono all’entourage cristiniano e furono attivi, dentro una stessa cornice generazionale, nel quadro culturale romano degli anni Settanta e Ottanta del secolo145. Soprattutto questa titolatura corrispose, in tale specifico filone di autori, a un’idea di sistemazione del materiale lirico che consapevolmente rifiutò le implicazioni innovative e sperimentali delle poetiche primo-secentesche e che preferì adottare funzionali criteri di allestimento, come quello delle divisioni per forme metriche (sonetti e canzoni, ad esempio). Dunque, la titolatura nacque all’interno del marinismo per le implicazioni armonico-musicali che essa suggeriva (si pensi solo alla Lira del Marino), ma poi passò a indicare perlopiù un’etichetta di prevalente tendenza

142 Sulle Poesie liriche del Testi, cfr. G. Getto, Irrequietezza di Fulvio Testi, in Il Barocco letterario in Italia cit., pp. 123-51; F. Pevere, “Mirti amorosi” ed “eterni lauri”: forme del petrarchismo nella poesia di Fulvio Testi, in Petrarca in Barocco cit., pp. 123-50. 143 Ora disponibili pure in edizione moderna: A. Guidi, Poesie liriche. Le Canzoni, a cura di C. Ciampolillo, con un saggio introduttivo di L. Salvarani, Trento, La Finestra, 2002. 144 Tutte le date si riferiscono alla prima edizione delle raccolte. 145 A.L. Bellina – C. Caruso, Oltre il Barocco: la fondazione dell’Arcadia. Zeno e Metastasio: la riforma del melodramma, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. VI: Il Settecento, Roma, Salerno Editrice, 1998, pp. 239-312 (in particolare il par. 2: L’ambiente culturale romano nella seconda metà del Seicento. Cristina di Svezia e il suo circolo. L’Accademia Reale e le «Conversazioni» di Paolo Coardi e di Vincenzo Leonio, pp. 246-48).

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conservatrice e restaurativa, perfettamente in sintonia con le direttive arcadiche di ascendenza classicizzante proprie della fase iniziale dell’accademia, quando ancora influente era la severa guida graviniana146. Non è superfluo sottolineare che si tratta di un’ulteriore dimostrazione della permanenza di elementi barocchi, opportunamente rielaborati, nella cultura d’Arcadia, a conferma della validità dell’opinione calcaterriana; e occorre pure aggiungere come anche questi dati, apparentemente estrinseci, possano invece contribuire spesso alla decifrazione di vicende culturali complesse, qualora siano adeguatamente rapportati al contesto generale. Certo, alcune di queste sillogi subirono negli anni ristampe, rifacimenti e vere e proprie nuove edizioni, che incisero anche sulla loro disposizione strutturale, magari per l’esigenza di un progressivo accrescimento, di una diversa destinazione o di mutate spinte creative. Le Poesie liriche di Fulvio Testi, la cui traditio a stampa è piuttosto aggrovigliata147, dopo le edizioni del 1627 148 e del 1636 149, che non presentavano divisioni di soggetto o di sezioni e che furono ampliate con una Parte seconda nel 1645 150 e con una Parte terza nel 1655 151, si presentano nelle numerose ristampe ed edizioni postume sei-settecentesche152 come un corpus aggregato in “parti” (variabili da tre a quattro). La complicazione strutturale è evidentemente dovuta agli stampatori di queste edizioni postume, che intesero riunire in un unico organismo le aggiunte che il poeta via via aveva pubblicato in tempi diversi. Ma anche così, tuttavia, è possibile cogliere una linea configurativa non casuale, in quanto tali edizioni tendono a conformarsi come raccolte onnicomprensive, che accolgono tragedie (L’isola di Alcina), tragicommedie (l’Arsinda), pezzi di poemi eroici (Il Costantino, L’India conquistata), composizioni drammatiche in onore dei Farnese, sonetti indirizzati a sodali, con le risposte di questi: insomma, prove in grande parte estravaganti rispetto al codice lirico, ma raggruppate e giustapposte comunque tutte insieme, in forma enciclopedica. Svaniva, così, quella compatta unità, priva di divisioni interne, che il Testi aveva inteso attri146 Su questo periodo dell’Arcadia, cfr. A. Quondam, L’Arcadia e «la repubblica delle lettere», in Immagini del Settecento in Italia, a cura della Società italiana di studi sul secolo XVIII, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 198-211. Sulla centralità della figura del Gravina, cfr. Id., Cultura e ideologia di Gianvincenzo Gravina, Milano, Mursia, 1968. 147 Pevere, “Mirti amorosi ed “eterni lauri” cit., pp. 123-24. 148 Modena, Cassiani. 149 Modena, Trotti. Una ristampa di quest’ultima edizione è del 1637 (Napoli, Montanaro). 150 Modena, Cassiani. Una ristampa di questa edizione è del 1652 (Venezia, Baba). 151 Venezia, Baba. 152 1656, 1666, 1668, 1672, 1676, 1683, 1693, 1701, 1720.

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buire al suo iniziale disegno editoriale (canzoni-ode, con l’aggiunta della tragedia L’isola di Alcina, a partire dal 1636, nel segno di un’ispirazione alta e sublime). Con questa peculiare forma, infatti, sulle orme del Chiabrera e del Ciampoli e del Cesarini («i duo miracoli d’Italia»), il Testi aveva voluto misurarsi nell’«arringo della pindarica imitatione», cercando di contrapporre all’imperante magistero marinista un modello poetico diverso, poggiato su pulsioni eticizzanti e imbevuto di tradizione greco-latina («Tengo opportuno che la frase poetica non s’impara se non dagli scrittori greci e latini»). Nell’avvertenza «A chi legge», contenuta nell’edizione del 1636, egli non aveva mancato di fornire un giudizio anche sui «suggetti» della sua poesia, utile per coglierne le regole di partizione tematica (materia morale e amorosa), accanto ad altre importanti dichiarazioni di poetica (la predilezione per Orazio e per gli scrittori elegiaci): I suggetti sono per la maggior parte morali, perché a questi io mi sento singularmente inclinato. Ho però anche trattate alcune materie d’amore, ma con qualche novità: poi che, lasciando quei concetti metafisici e ideali, di cui sono piene le poesie italiane, mi sono provato di spiegare cose più domestiche e di maneggiarle con affetti più famigliari, a imitazione d’Ovidio, di Tibullo, di Properzio e de gli altri migliori153.

In effetti la sezione d’argomento amoroso nelle Poesie liriche viene esplicitamente annunciata da una canzone-proemio, con l’intenzione di delimitare e di distinguere una precisa zona della raccolta poetica, rilevabile per precipue connotazioni (trattazione delle «materie d’amore» come «novità» rispetto all’interpretazione concettistica della lirica coeva), in un impianto strutturale che, per il resto, si caratterizza per nessi connettivi assai laschi e blandi154. Ancora, se le Poesie liriche di Alessandro Guidi (1650-1712) rimasero sempre legate saldamente a un registro encomiastico-morale, anche quando furono ripubblicate con il titolo di Rime nel 1704 155, quelle del campano Cappone (1598-1675)156, composte di soli sonetti e qualificate da evidenti 153 F. Testi, Poesie liriche et Alcina Tragedia opera nova del Sig. Conte Fulvio Testi, Modena, Trotti, 1636, pp. 6-7. 154 I componimenti d’argomento amoroso occupano le pp. 88-128 (cito dall’edizione, già segnalata, del 1683). Fa eccezione la sequenza delle tre odi nelle quali «si descrivono […] gl’accidenti occorsi ad un Cavalier maiorchino, che fu fatto prigione da le Galere d’Algieri» (ivi, pp. 168-180). 155 Ch. Ciampolillo, Il caso Alessandro Guidi, in A. Guidi, Poesie liriche cit., pp. 113-18. 156 Sul Cappone, cfr. G. Mongelli, Un poeta di Conza nel secolo dell’Adone: Francesco Antonio Cappone, Avellino, Jacelli, 1979.

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suggestioni «oziose» nella prima edizione (1645) 157, nella seconda (pubblicata nel 1675, l’anno della morte) cambiarono invece radicalmente la connotazione originaria e passarono a indicare, con sensibile mutazione, raffinate parafrasi di odi oraziane, evidenziando la ricerca di un gusto letterario più moderato e classicizzante158. Ma è possibile cogliere anche casi meno clamorosi di conservazione o di riadattamento di questa titolazione e dei conseguenti criteri di sistemazione della materia creativa ad essa sottesi. La raccolta di Baldassarre Pisani (16501724), coetaneo del Guidi, vide nel 1685 la stampa della seconda parte, divisa in due sezioni: canzoni e sonetti159. Nella lettera di presentazione della sezione di sonetti, dedicata proprio a Cristina di Svezia, il poeta sodale Pietro Casaburi spiega i motivi di questa suddivisione per generi metrici, che risponde peraltro a opzioni tematiche ben definite e che divenne prevalente nella lirica di secondo Seicento: Ma, lasciando tutt’altro, splende il suo chiaro ingegno nel presente volume, che contiene la seconda parte delle sue Poesie liriche, distinte in Sonetti e Canzoni. Ne’ Sonetti imitando i migliori Italiani, e particolarmente il Cavalier Marini nella varietà de’ suggetti, pratica tutte le bellezze de’ poeti Greci e Latini […]. Nelle Canzoni, o sieno Odi, seguendo la scorta di Pindaro tra’ Greci e d’Orazio fra Latini, imita la maniera del Conte Testi, che con plausi universali vola per lo ciel dell’Italia. In tal genere di scrivere, quantunque si veggano occupati tutti i luoghi, così dagli Antichi come da’ Moderni, nulladimanco il Signor Pisani scrive le materie che tratta con felicità di ritrovati, con novità d’erudizione. Sembrando d’aver l’anima d’Orazio, osserva con fior d’avvedimento la brevità delle digressioni. E, se fra le presenti canzoni taluna ve n’ha che non segue l’orme oraziane, ciò adiviene perché vuol dimostrar la forza del suo talento, abile a scrivere eziandio nelle maniere più stravaganti, a somiglianza del Ciampoli160.

Le Poesie liriche del Caraccio ebbero invece una sola stampa e un unico allestimento, in previsione di «un maggior volume di rime», come si è visto, 157

Napoli, Cicconio. Altra edizione, con aggiunte (in particolare, una sezione intitolata Proposte di diversi all’autore con le risposte di esso), nel 1663 (Napoli, Passaro). 158 F.A. Cappone, Poesie liriche di D. Francesco Antonio Cappone Accademico Ozioso. Parafrasi sopra l’ode contenute nei quattro libri e negli Epodi di Q. Orazio Flacco, Venezia, Conzatti, 1675. Traduzioni delle odi oraziane il Cappone aveva già pubblicato nelle Liriche parafrasi […] sopra tutte l’ode di Anacreonte, e sopra alcune altre poesie di diversi lirici poeti greci, Venezia, Conzatti, 1670. 159 Dei sonetti è disponibile un’edizione moderna: B. Pisani, I sonetti, a cura di L. Montella, Salerno, Edisud, 1999. 160 Delle poesie liriche del Signor Baldassar Pisani cit., Parte seconda. I sonetti, p. 18.

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e non è facile stabilire se egli, nel pubblicarle, abbia tenuto in conto qualcuna di queste raccolte. Vero è che solo pochi anni dopo (nel 1689) egli intese perseguire nella scrittura dei suoi componimenti ancora gli stessi modelli del Pisani (Pindaro, Orazio, Testi, Ciampoli), non più nel segno, tuttavia, di una emulativa e agonistica competizione tra scrittori antichi e moderni. Piuttosto li richiamò a garanzia di un composto decoro e di una sobria austerità eticopoetica, pervasa di contenuti gnomici, senza affidarsi, però, alla soluzione della schematica partizione in sezioni o in parti, retaggio delle poetiche del secolo XVII, ma privilegiando invece l’ordinamento destrutturante e alternativo della raccolta assemblatrice e aggregativa secondo percorsi interni e peculiari direzioni tematiche (quasi un continuum lirico), quale notevole e complesso documento dell’evoluzione dall’esperienza barocca verso la riforma neoclassica dell’Arcadia.

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INDICE DEI NOMI* a cura di Pierandrea De Lorenzo

Accetto, Torquato: 139 Achillini, Claudio: 175, 360, 374 Agrippina, Augusta Giulia: 192 Albertino/i, Gentile: 266, 279, 286, 288, 300, 326 Albertino/i, Girolamo: 300, 326 Albertino/i, Giulio: 283 Alconi, Aurelio: 146, 147 Aldobrandini, Olimpia: 356, 364 Aleandro, Girolamo: 265 Alessandro di Fere: 318 Alessandro Magno: 276, 315, 316 Alessandro VII (Fabio Chigi): 324n, 349, 354, 367 Alighieri, Dante: 77, 88n Allacci, Leone: 265, 324n, 325 e n Aloisio, Giovanni: 22 Alonso, Dámaso: 79n, 270n, 296 Alvaro (grammatico): 188 Ambrogio (santo): 245 Andrioli Nemola, Paola: 52n, 69n Angelico, Angelo: 70, 71, 72 Apolloni, Giovanni Filippo: 237 Apollonia (santa): 324 Aprosio, Angelico: 191 Aquilano, Serafino: 14 Arbizzoni, Guido: 341n Arditi, Giacomo: 53n Argan, Carlo Giulio: 371n

Ariosto, Ludovico: 146 Aristotele: 140 Arnò, Gian Battista: 53n, 104n, 105n Artale, Giuseppe: 14, 197, 268n, 269, 289n, 334, 347 Asor Rosa, Alberto: 113n, 130, 196, 351 Avalle D’Arco, Silvio: 346n Avelli, Francesco Xanto da Rovigo: 76n Baba, Andrea: 202 Baba, Francesco: 51, 199, 200 Badoer (famiglia): 97 Baldini, Teofilo: 187 Balducci, Francesco: 139 Bàrberi Squarotti, Giorgio: 264n, 293n, 321n, 327 Barberini, Francesco: 324n Barchiesi, Alessandro: 76n Baricelli, Giulio Cesare: 140 Basile, Bruno: 56n, 284n Basile, Giambattista: 189 e n, 218 Basilio Magno (santo): 245 e n Basso, Antonio: 128 Battista, Cesare: 187 Battista, Domenico: 188 Battista, Giuseppe: 13, 124n, 128, 187-261, 268n, 269, 303n, 304, 334n, 347, 349, 358, 366, 374 e n

* Sono esclusi i nomi che compaiono unicamente nei brani riportati o nei titoli dei componimenti citati. Non sono indicati i nomi degli stampatori dei testi antichi presenti solo nelle citazioni bibliografiche.

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Indice dei nomi Battista, Rosana: 188 Battistini, Andrea: 82n, 352n, 363n, 371n Bellina, Anna Laura: 375n Bellini, Eraldo: 88n Bellocci, Ermanno: 189n Belloni, Antonio: 341n Beltrami, Ottavio: 128n Bembo (famiglia): 97 Bembo, Pietro: 17, 227, 373 Bendidio, Lucrezia: 284, 285 Bernini, Gian Lorenzo: 371 Besomi, Ottavio: 73n, 114n, 132n, 135n, 135, 136, 138n, 273n, 274n, 291 e n, 302n, 303n, 365n, 374n Bettini, Maurizio: 88n Biedermann, Hans: 292n Bigotto, Luciano: 76n Binni, Walter: 193 e n, 333 e n, 334n, 352n Biscia, Lelio: 324n Boccaccio, Giovanni: 23n Boccanera, Giuseppe: 335n Bodini, Vittorio: 85n, 369n Bologna, Corrado: 346n Bonarelli, Prospero: 368 Bonomi, Giovan Francesco: 200, 201, 219n, 255, 257 Borghese, Paolo: 355, 356 Borsellino, Nino: 373n Borsetto, Luciana: 22n Borzelli, Angelo: 54n Bracciolini, Francesco: 374 Bracaloni, Leone: 111n Bragadin, antonio: 348 Branca, Vittore: 85n Brancasi, Scipione: 203 Brandoli, Caterina: 13 Brunacci, Francesco: 336-337 Bruni, Antonio: 12, 53, 55, 57-60, 89 e n, 90, 95 e n, 104, 105 e n, 112 e n, 129, 137-138, 139-140, 141, 146, 147, 231 e n, 265n, 355n Bruni, Giulio Cesare: 57 Bruto, Marco Giunio: 250, 315

382

Buragna, Carlo: 334, 347, 374 Buscaroli, Piero: 290n Byron, Gordon George: 76n Cabani, Maria Cristina: 77n Caccia, Federico: 357, 367 Caira, Rosanna: 371n Calcaterra, Carlo: 333 e n Calì, Stefania: 341n Caloprese, Gregorio:334, 347 Camerino, Giuseppe Antonio: 69n Campanile, Giuseppe: 203, 266 Canale, Giovanni: 268n, 269 Canepa, Vincenzo: 94n Canfora, Davide: 51n Canfora, Luciano: 341n Cannata, Nadia: 70n, 346n Capecelatro, Giuseppe: 203 Cappello, Giovanni: 280 Cappone, Francesco Antonio: 368n, 374n, 377 e n, 278n Capucci, Martino: 51n, 88n, 197 e n Caraccio, Antonio: 14, 333-379 Caraccioli, Tommaso: 216 Caracciolo Aricò, Angela: 51n Caracciolo, Francesco Marino: 191-192, 199, 200, 202, 206, 216, 217, 218, 219, 220, 227, 228, 232, 249, 256, Caracciolo, Gioseppe: 178 Caracciolo, Giovanni Francesco: 22 Carafa, Anna: 162 Caraffa, Carlo: 348 Caramuel Lobkowicz, Giovanni: 265 Carandini, Silvia: 370n Caravaggio (Michelangelo Merisi, detto il): 68 Cardines, Alfonso de: 17, 43 Cardini, Franco: 111n Carducci, Giosuè: 49 e n Caretti, Lanfranco: 284n Carlo d’Austria: 20 Carminati, Clizia: 129n, 267n, 366n Carrai, Stefano: 346n Cartari, Vincenzo: 161, 178n

Indice dei nomi Caruso, Carlo: 375n Casaburi, Antonio: 265 Casaburi, Fulvio: 265 e n Casaburi, Maria: 265 Casaburi, Michele: 265 e n Casaburi Urries, Pietro: 13, 215, 263 e n, 264 e n, 265, 267, 269, 270-273, 275, 276n, 277, 290n, 293n, 295, 303n, 321n, 327 e n, 375, 378 Casaburi Urries, Lorenzo: 12, 13, 274-332 Casoni, Guido: 144-145, 175 Castagnola, Raffaella: 17n Castrignanò, Francesco: 335n Castro, Pietro Fernandez de: 54, 189 Catone, Marco Porcio: 250 Cattaneo Della Volta, Girolamo: 353 Cavallo, Guglielmo: 43, 88n Cavallo, Marco: 43, Cavaniglia, Cesare: 17 Cazzato, Vincenzo: 52n Cenami, Angela: 20 Centurioni, Lavinio: 99n, 104 Cerboni Baiardi, Giorgio: 314n, 325n Cervello, Gustavo Rodolfo: 140n Cerrón Puga, Maria Luisa: 347n Cesare, Gaio Giulio: 304, 315 Cesarini, Virginio: 356, 369, 377 Cesti, Antonio: 237 Cherchi, Paolo: 92n Chiabrera, Gabriello: 94n, 131, 151, 339, 345, 347, 360 e n, 366, 373 e n, 375, 377 Chiodo, Domenico: 13, 129n, 131n, 136n, 137 e n, 139n, 140n, 144n, 173, 264 e n, 271n, 282n, 290n, 293n, 303n, 316n, 352n Ciampoli, Giovanni: 350, 366, 374, 377, 378, 379 Ciampolillo, Chiara: 375n, 377 e n Cicinelli, Giovanni: 193-194, 214, 215n, 334n, 373 Ciotti, Gian Battista: 51, 69 Cipriani, Giovanni: 88n Claudiano, Claudio: 191 Clemente IX (Giulio Rospigliosi): 349, 358 Colombi, Roberta: 83n

Colombo, Cristoforo: 151 Colze, Gualdinello: 71n Comparato, Vittor Ivo: 54n, 268n Consoli, Salvatore: 131n, 145n, 151n, 164n Contardi, Bruno: 371n Contarini, Nicola: 97 Contarino, Rosario: 113n, 128n, 129n, 146n Contini, Gianfranco: 15 e n, Cornelio, Tommaso: 347 Corner, Giovanni: 97 Corradini, Marco: 144n, 145n Cortese, Giulio: 135 Cortese, Nino: 334n Corti, Maria: 15 e n, 22 e n Costaguti, Vincenzo: 348 Crasso, Lorenzo: 188n, 192 e n, 199, 202, 203 Cremante, Renzo: 85n Crescimbeni, Giovanni Mario: 196n, 335n, 339, 342 e n, 343 e n Cristina di Svezia: 341n, 350 e n, 351, 367, 369-371, 378 Croce, Benedetto: 113n, 127 e n, 128, 130, 131, 156, 196 e n, 218n, 268 e n, 270n, 333 e n, 334n, 341n Croce, Franco: 286n, 289n Curzio, Marco: 298 D’Afflitto, Storace: 132-133 D’Agostino, Medea: 52 D’Alessandro, Giovan Pietro: 54 e n, 55, 56n D’Alessio, Silvana: 348n Dalla Valle, Daniela: 76n, 85n Dandolo, Enrico: 340, 343 Danzi, Massimo: 285n, 346n Da Pozzo, Giovanni: 51n De Angelis, Domenico: 53n, 61n, 64n, 68n, 95 e n, 97 e n, 104n, 105 e n, 335 e n, 336n, 342n, 347n, 343n, 344 e n, 347n, 365 e n, 372n De Angelis, Filippo: 343n De Bonis, Novello: 278 De Caprio, Vincenzo: 369n De Caro, Gaspare: 267n De Cunzo, Mario: 218

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Indice dei nomi De’ Dottori, Carlo: 374 Defilippis, Domenico: 52n Degli Andini, Mario: 16n, 17 De Giovanni, Biagio: 334n Dei, Ambrosio: 58 Dei, Bartolomeo: 58 Della Casa, Giovanni: 280n, 285n, 373 De Leo, Annibale: 53n Del Frate, Pietro: 201 Della Rovere, Francesco Maria II: 355n Della Valle, Francesco: 138 De Lorenzo, Pierandrea: 13, 113, 285 De Magistris, Pietro Antonio: 55 De Marco, Mario: 52n De’ Marini, Innocenzo: 75, 104 De Miranda, Girolamo: 56n, 128n, 190n, 269n De Notariis, Camillo: 267, 280 Dentice, Francesco: 203 De Petris, Francesco: 269n De Robertis, Domenico: 346 De’ Rossi, Isabella: 117 De Simeonibus, Gaspare: 265, 325n Diacono, Mario: 81n Di Biase, Carmine: 351n Di Capua, Leonardo: 347 Di Capua, Luigi Vincenzo: 269n Di Dura, Camillo: 203 Di Dura, Giovanni: 203 Diomede: 188 Dionigi Aeropagita (santo): 324 Di Penta, Miriam: 353n Di Salvo, Tommaso: 77n Distaso, Grazia: 51n, 343n Domenichi, Giuseppe: 267 Donati, Claudio: 350n Donato, Maria Pia: 359n Donno, Ferdinando: 13, 51-92, 139 Donno, Giovanni: 52 Doria, Giovanni Andrea: 350, 354 Du Perron, Jacques Davy: 211 Emerix, Giacomo: 367 Ennio, Quinto: 187, 220

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Epitteto: 192 Erasmo da Rotterdam: 228 e n Erculiano, Nicolò: 70, 71 Errico, Scipione: 51n, 57n, 68n, 139, 203, 375 Erspamer, Francesco: 146n Fagiolo Dell’Arco, Maurizio: 370n Fagiolo, Marcello: 52n Faini, Marco: 341n Falaride: 318 Fanelli, Stella: 12 Farnese, Celia: 108 Fasano, Macedonia: 187 Fedeli, Paolo: 88n Ferdinando II (Granduca di Toscana): 149, 150 Fereo (Alessandro di Fere): 318 Ferrante, Pier Paolo: 130 e n Ferrari, Tommaso Maria: 335n Ferrero, Giuseppe Guido: 113, 130 e n, 263 e n, 268 e n, 270n Ferroni, Giulio: 17n, 56n, 92n, 122n, 125n, 346n Fiamma, Carlo: 134 Filicaia, Vincenzo: 360, 369n, 375 Filieri, Emilio: 13, 52n Filippo II di Spagna: 43 Filippo III di Spagna: 356 Filippo, Francesco: 17 Filippo il Macedone: 356 Fiorentino, Gabriele: 203 Flora, Francesco: 130n Fogelberg, Rota Stefano: 371n Fonseca, Cosimo Damiano: 52n Fontanella, Girolamo: 12, 13, 14, 113-118, 127185, 203, 269 Fortunato, Lelio: 20 Foscarini, Amilcare: 53n Fosi, Irene: 345n Fozio I di Costantinopoli: 341 Francesco da Paola (santo): 211 Francesco d’Assisi (santo): 110, 211 Frare, Pierantonio: 78n, 79n, 81n Frattali, Arianna: 373n

Indice dei nomi Frattasi, Anello: 190 Friedrich, Hugo: 120n Frigimelica Roberti, Gerolamo: 211 Frugoni, Chiara: 111n Frugoni, Francesco Fulvio: 78n, 354 Fubini, Mario: 333 e n Fulco, Giorgio: 91n, 106 Fumaroli, Marc: 347 Gabriello di Santamaria, Angelo: 71n Gaetani d’Aragona, Luigi: 17 Galasso, Giuseppe: 341n, 348n Galateo (Antonio de’ Ferraris): 52 e n Galilei, Galileo: 151 Gatti, Marco: 53n Gaudiosi, Tommaso: 268n Gavazzeni, Franco: 284n Genot, Gérard: 280n Gentileschi, Artemisia: 128, 167-168 Getto, Giovanni: 83n, 84n, 86n, 92n, 103n, 113n, 130 e n, 263 e n, 268 e n, 270n, 320n, 364n, 375n Giachery, Alessia: 52n Giandi, Ottavio: 344 Giannantonio, Pompeo: 347n Giannantonio, Valeria: 334n Giannelli, Basilio: 347, 374 Giardina, Andrea: 88n Gigante, Claudio: 56n Gigli, Giuseppe: 53n Gigliucci, Roberto: 42 Giordano, Maria Stefania: 76n Giraldi, Giovanni Battista: 20n Giustiniani, Pier Giuseppe: 94 e n Goethe, Joahnn Wolfgang: 56 Góngora, Luis de: 198 Gonzaga, Arditaviva: 101 Gorni, Guglielmo: 11, 12, 284n, 285n, 346n, 346n Gradenigo (famiglia): 97 Gradenigo, Giorgio: 43 Gravina, Gian Vincenzo: 339, 343 e n, 376n Graziani, Girolamo: 335, 368n Graziosi, Elisabetta: 353n

Grazzini, Giulio Cesare: 335 Greco, Michele: 53n Griffante, Caterina: 52n Grilli, Angelo: 175 Guaragnella, Pasquale: 88n, 89n Guardiani, Francesco: 91 Guarini, Giovan Battista: 57, 203, 264n, 373 Guercio, Vincenzo: 286n, 321n Guevara, Vélez Íñigo de: 191 Guglielminetti Marziano: 131n, 142n, 347n, 364 Guidi, Alessandro: 360, 375, 375n, 377 e n, 378 Hauser, Janina: 73n, 302n, 303n Imperiali, Giovan Vincenzo: 291 Infelise, Mario: 51n, 52n Innocenzo XII (Antonio Pignatelli): 356 Innocenzo XIII (Michelangelo Conti): 349 Isella, Dante: 284n Jacobson, Howard: 82n Jannaco, Carmine: 197n Jori, Giacomo: 54n, 56n, 59n Lacaita, Leonardo: 53n Lavagna, Giovanni Giacomo: 268n Le Goff, Jacques: 111n Leone, Marco: 14, 55n, 56n Leto, Gabriella: 76n Lezzi, Giambattista: 53n Longhi, Giacomo: 200 Longhi, Silvia: 11, 280n, 285n Lopiccoli, Alessandro: 53n Loredano, Giovan Francesco: 104 e n Lattiero, Anello: 203 Lubrano, Giacomo: 14, 197, 203, 334, 347, 349, 371n Lucano: 239 Lucaris, Cirillo: 341 Luciano di Samosata: 161 Lucrezio: 209 Luigi XIV: 350, 372

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Indice dei nomi Macedonio, Marcello: 12, 13, 136-137, 140, 142, 146, 147-148, 282n, 325 Machado, Antonio: 279n Maia Materdona, Giovan Francesco: 55 e n, 95 e n, 139 e n, 175 Maier, Bruno: 212n, 354 Malato, Enrico: 77n, 133n, 375n Malcovati, Enrica: 76n Mâle, Émile: 110n Malvezzi, Antonio: 70, 73 Mancini, Giorgio: 189n Manso, Giambattista: 56 e n, 57, 68, 92, 122n, 125n, 144, 175, 190, 204 e n, 215, 218, 227, 269 e n Manuzio, Aldo: 76n Manzotti, Emilio: 316n Marchetti, Pietro Maria: 284 Marchi, Costanzo: 114n, 273n, 303n Maria I Tudor: 43 Maria Teresa di Spagna: 350, 372 Marinella, Lucrezia: 340 Marini, Quinto: 104n, 316n Marino, Giambattista: 11, 12, 14, 55, 57, 68, 73 e n, 77, 80, 81n, 91-92, 111, 113, 114 e n, 116n, 117, 119, 121n, 123n, 124, 125, 127, 132, 134, 135, 137, 138, 140, 141, 145, 151, 155, 159, 161, 164, 167, 173, 175, 184, 194, 204, 212, 212 e n, 213, 214, 215, 216, 223, 227, 228 e n, 273n, 274n, 285, 286n, 302n, 303n, 321n, 348, 375, 378 Marlowe, Christopher: 76n Marrocco, Dante Bruno: 17n Marti, Mario: 339n Marti, Pietro: 53n Martignone, Vercingetorige: 138n, 284n Martini, Alessandro: 12, 113n, 114n, 134n, 138n, 264n, 273n, 280n, 283, 284 e n, 303, 346n Martini, Stelio Maria: 113n Martino (vescovo di Tours): 110 e n Marziale: 210 Masaniello (Tommaso Aniello d’Amalfi): 189, 198, 268, 348 e n

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Masi, Giorgio: 86n Mastellone, Salvo: 334n Mattei, Francesco Maria: 347 Mattioli, Tiziana: 341n Mazzarino, Giulio 341 Mazziotta, Bernardino: 190 Mazzucchelli, Gian Maria: 196n Medici, Cosimo de’: 43 Medici, Leopoldo de’: 357, 358 Menafoglio, Abbondio: 200, 201 Menetti, Elisabetta: 366n Meninni Federico: 129n, 134 e n, 194 e n, 195 e n, 197, 267 e n, 268n, 269, 312, 334n, 347, 366 e n, 373 Menzini, Benedetto: 335, 351, 352, 360, 373, 375 Merolla, Riccardo: 351n Messere, Gregorio: 347 Metastasio, Pietro: 358 Michiele, Pietro: 203 Milton, John: 56 e n Minatolo, Ettore: 17 Minatolo, Giacomo: 17 Minieri Riccio, Camillo: 52n, 54n , 263n, 266n Minuzzi, Sabrina: 52n Monelli, Giovanni: 377n Montalto, Lucrezia: 17 Montanaro, Pomponio: 76n Montella, Luigi: 378n Montevecchi, Giulio: 341n, 342 Morando, Simona: 94n, 366n Mormone, Raffaele: 68n Mortali, Valentino: 200, 201 Muraro, Michelangelo: 72n Muratori, Ludovico Antonio: 212 en Murtola, Gaspare: 245 Muscetta, Carlo: 130 e n Muscettola, Antonio: 267, 268n, 269, 347, 349 Museo (poeta ellenistico): 76 e n, 121 Musi, Aurelio: 348n Musti, Domenico: 325n Muzio, Girolamo: 13, 23 e n, 24 e n Muzio Scevola (Muzio Cordo): 296

Indice dei nomi Nappo, Tommaso: 266n Negri, Renzo: 369n Neri, Damiano: 111n Nerone: 220, 237 Nigro, Salvatore: 98n, 263n, 335n, 342n, 350n Nomi, Federigo: 375 Orazio, Quinto Flacco: 366, 377, 378, 379 Osanna, Francesco: 284n Ossola, Carlo: 130, 263 e n, 269n Ovidio Nasone, Publio: 76 e n, 88, 121, 239, 377 Padano, Guido: 76n Pagano, Francesco Maria: 343n Pagano, Francesco Gomezio: 33 Pallavicino, Vittorio: 70, 71, 72 Palma, Giovanni: 140, 175 Palmerini, Bartolomeo: 66, 67, 68, 70, 72 Palombo, Pier Fausto: 68n Panfili, Anna: 350, 354 Pamfilio, Camillo: 348 Panfili, Giovanni Battista: 337, 352, 356, 368, 369 Paratore, Ettore: 151n Parenti, Giovanni: 49 e n Pasanisi, Isabella: 57 Passero, Felice: 135, 245 Paterno, Ludovico: 12, 15-50, 134, 284, 285 Pazzaglia, Mario: 374n Pedullà, Walter: 373n Pellegrino, Bruno: 52n, 350n Peperara, Laura: 284, 285 Perillo (scultore ateniese, VI sec. a.C.): 318 Pers, Ciro di: 232 Persio, Aulo Flacco: 239 Personè, Maria Luigi: 335n Petrarca, Francesco: 15, 17, 18, 48, 88n, 107, 136, 141, 227, 285, 373, 374 3 n Pevere, Fulvio: 375n, 376n Picone, Michelangelo: 306n Picot, Emile: 21n Pieri, Marzio: 81n, 82n, 213n, 371n

Pignatelli, Carmelo: 196 e n Pignatelli, Stefano: 356 Pignatello, Ascanio: 43 Pindaro: 314, 345, 366, 379 Pinelli, Cosmo: 336, 364 Pisani, Baldassarre: 228 e n, 268, 268n, 269, 347, 367, 375, 378 e n, 378 e n, 379 Pizzigalli, Daniela: 371n Platone: 140, 152 Plinio il Giovane: 227 Plinio il Vecchio: 116 Plutarco: 276 Poccetti, Bernardino: 88n Poli, Diego: 371n Poliziano (Agnolo Ambrogini): 33 Pompeo Magno, Gneo: 315 Pontano, Giovanni: 363 Porsenna, Lars: 296 Porzio, Simone: 17, 48 Pozzi, Giovanni: 92n Praloran, Marco: 307n Prandi, Stefano: 263n Praz, Mario: 290n Prinari, Marco: 13, 374n Prisciano di Cesarea: 188 Priuli, Michele: 97 Probo, Valerio Marco: 188 Procacciali, Paolo: 373n Properzio, Sesto: 377 Prota Giurleo, Ulisse: 189n Puce, Emanuela: 12, 266n Quadrio, Francesco Saverio: 52n, 71n, 72n, 94n, 196n, 335n, 341n, 342n Quattromani, Sertorio: 347 Querini, Leonardo: 375 Quintiliano: 215 Quondam, Amedeo: 12, 13, 16n, 17n, 19, 20n, 51n, 54 e n, 56n, 68n, 92n, 122n, 125n, 133n, 134n, 135 e n, 137n, 148n, 197 e n, 204n, 269n, 334n, 335n, 338n, 339 e n, 343n, 346n, 347n, 352n, 359n, 367n, 368n, 374n, 376n

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Indice dei nomi Raggi, Lorenzo: 348 Raimondi, Ezio: 347n, 369n Rak, Michele: 189n Rasi, Donatella: 22n Ravaschieri, Anna: 336n, 350n, 364 Rebay, Luciano: 81n Richelieu, Armand-Jean du Plessis, duca di: 341 Rima, Beatrice: 362 Rinaldi, Cesare: 136, 374 Ripa, Cesare: 290 e n Rizzo, Gino: 13, 51n, 52n, 53n, 54n, 55n, 57n, 59n, 60, 65n, 68 e n, 70 e n, 71n, 74n, 76, 77n, 79n, 82n, 89n, 93n, 95n, 96n, 97n, 99n, 104n, 105n, 108, 112n, 113n, 115n, 116n, 118n, 123n, 137n, 139 e n, 146n, 192n, 195 e n, 197 e n, 198 e n, 202, 211 e n, 214, 218n, 303n, 334n, 352n, 355n, 474n Romeo, Rosario: 348n Rosati, Galeazzo: 201 Rospigliosi, Giulio: 358n Rossi, Gian Vittorio: 105n Rota, Bernardino: 24, 112, 134, 164, 274n, 363 Rubens, Peter Paul: 88n Ruozzi, Gino: 210 e n, 212n Ruschioni, Ada: 212n Russo, Piera: 57n Sagredo (famiglia): 97 Saiter, Daniel: 365 Saladina, Beatrice: 365 Salvarani, Luana: 375n San Martino D’Agliè, Lodovico: 90 Sannazaro, Iacopo: 24, 48, 112n, 173 Santagata, Marco: 11, 15e n, 70n, 88n, 98n, 120n, 171n, 280n, 306n, 346n Saprici, Sapricio: 134 Sarzina, Giacomo: 51, 106, 112 Scardino, Peregrino: 52n Schettini, Pirro: 334 e n, 347, 374 Segre, Cesare: 11, 130, 263 e n, 269n, 279n Sempronio, Giovan Leone: 360 Seneca, Lucio Anneo: 209, 220, 237 Sersale, Zaccheria: 218, 219n

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Severino, Marco Aurelio: 347 Signorini, Maddalena: 316n Signorotto, Gianvittorio: 349n Solerti, Angelo: 284n Sopranzi, Giovanni: 73n, 303n Soranzo (famiglia): 97 Spada, Gherardo: 20 Spinola, Giovanbattista: 344, 348, 353, 357 Stigliani, Tommaso: 12, 132, 133, 135, 136, 137, 139, 210, 374 Strabella, Alessandro: 237 Strappini, Lucia: 373n Tabacchi, Stefano: 349 Tafuri, Bernardino: 16n, 23n Tansillo, Luigi: 85n, 86n, 112, 134, 164 Tarentino, Vittorio: 43 Tasso, Bernardo: 24, 49 e n, 212 Tasso, Torquato: 12, 56, 80, 119, 122, 125, 134, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 145, 203, 204 e n, 212 e n, 214, 245, 280n, 284 e n, 285, 303n, 335, 340, 345, 373 Tateo, Francesco: 52n, 85n Testi, Fulvio: 339, 345, 347, 356, 357n, 360, 366, 368n, 373, 374, 375 e n, 376, 377n, 378, 379 Thiery, Thomas: 20-21n Tibullo, Albio: 377 Tissoni Benvenuti, Antonia: 346n Toledo, Eleonora di: 43 Toniani, Pietro Antonio: 70, 71 e n, 72 Toppi, Nicolò: 52n, 263 e n, 270n Toralto, Gaspare: 43 Travi, Ernesto: 197n Trissino, Leonardo: 71n Tron (famiglia): 97 Turchi, Marcello: 360n Ungaretti, Giuseppe: 81 e n Urries, Margarita: 265 e n Valguarnera, Simone: 43 Valletta, Giuseppe: 268 e n Valvassori, Giovanni Andrea: 20, 22n

Indice dei nomi Valvassori, Luigi: 20, 22n Varese, Claudio: 130, 131n Varotti, Carlo: 366n Vendramin, Nicolò: 97 Venier (famiglia): 97 Vetere, Benedetto: 52n Villani, Carlo: 53n Villari, Rosario: 98n Virgilio Marone, Publio: 217, 220, 239

Visceglia, Maria Antonietta: 349 Viti, Paolo: 69n Vittorelli, Andrea: 203 Vittorino, Lorenzo: 20 Zanardi, Bruno: 111n Zeri, Federico: 111n Zito, Mario: 268 Zito, Vincenzo: 268n

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Finito di stampare nel mese di settembre 2008 dalle GRAFICHE TEVERE Coordinamento tecnico CENTRO STAMPA di Meucci Roberto CITTÀ DI CASTELLO (PG)