Il liberismo è di sinistra 884281458X, 9788842814580

Nei giorni successivi alla vittoria elettorale dell'aprile 2006, erano già evidenti le priorità che il nuovo govern

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Il liberismo è di sinistra
 884281458X, 9788842814580

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Alberto Alesina Francesco Giavazzi

Nella collana Pamphlet

Slavoj Zi.zek Contro i diritti umani Ivan Scalfarotto Contro i perpetui Amartya K. Sen - Piero Fassino Sebastiano Maffettone Giustizia globale Pierluigi Pellini La riforma Moratti non esiste Silvia Ballestra Contro le donne nei secoli dei secoli Furio Colombo La fine di Israele Nella collana Infrarossi

Marcia Angeli Farma&Co Marco Travaglio La scomparsa dei fatti Gianfrancesco Turano Tutto il calcio miliardo per miliardo Gianni Barbacetto Compagni che sbagliano

PAMPHLET

Alberto Alesina - Francesco Giavazzi

IL LIBERISMO È DI SINISTRA

il Saggiatore

www.saggiatore.it 1_0_"' © Gruppo editoriale il Saggiatore S.p.A., Milano 2007 ____i_I_S.._ggi_·_a

IL LIBERISMO È DI SINISTRA

a Marco Biagz: Massimo D'Antona, Ezio Tarantelli

Nota degli Autori

Questo libro prende spunto dagli articoli che abbiamo pubbli­ cato in questi ultimi due, tre anni sul Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore, che ringraziamo. Abbiamo anche utilizzato risultati di ricerche svolte con numerosi coautori: li abbiamo citati, quando possibile, e rin­ graziamo anche loro. Questo libro non sarebbe stato scritto senza la collaborazio­ ne e l'entusiasmo di Donatella Minuto. Milano-Boston, luglio 2007

A.A., F.G.

Indice

Introduzione

11

1. Destra e sinistra confuse

17

2. La meritocrazia è di sinistra

27

3. Liberalizzare i mercati è di sinistra

45

4. Riformare il mercato del lavoro è di sinistra

63

5. Ridurre la spesa pubblica è di sinistra

81

6. Il capitalismo di Stato non è di sinistra

103

7. Qualcosa comincia a cambiare

113

Conclusioni

121

Introduzione

Il liberismo è spesso considerato un pensiero politico ed economico di destra. Imbrigliare i mercati, vincolarli e impedirne il funzionamento per raggiungere vari scopi sociali sarebbe invece di sinistra. Non vogliamo addentrarci in una discussione filosofi­ ca su questi parallelismi anche perché giungeremmo alla conclusione che sono imprecisi. Non solo, ma nel caso dell'Italia di oggi, sono profondamente errati. Basta os­ servare le due coalizioni politiche del paese. In quella di centrodestra c'è una componente liberista ma c'è anche una componente determinante, la cosiddetta «destra so­ ciale», che non è certo una destra pro mercato. Le lobby degli ordini professionali, per esempio, che tutto sono fuorché liberiste, sono ben rappresentate da questa co­ alizione. Nel centrosinistra vi sono partiti che si defini­ scono comunisti e che liberisti certo non sono, così come non lo è una buona parte della coalizione che pure si de­ finisce riformista. Anche in questa coalizione però c'è una - 11 -

Il liberismo è di sinistra

vena liberista, tant'è vero che alcune liberalizzazioni si­ gnificative sono arrivate con il governo di centrosinistra. In politica economica, vi sono, al di là delle etichette politiche, due fronti contrapposti: quello liberista che (purtroppo) è minoritario in entrambe le coalizioni, e quello non liberista che invece prevale in entrambe. Al­ leanza nazionale e i partiti comunisti non saranno d' ac­ cordo sulla politica estera, ma su quella economica for­ merebbero un governo perfettamente omogeneo! I «dirigisti» di destra e di sinistra vedono il mercato con sospetto per due motivi. Uno è ideologico: credono che il mercato vada imbrigliato così come il cavaliere (cioè il governo) guida il cavallo (cioè l'economia), perché ri­ tengono che questo sia il modo migliore per creare pro­ sperità: il «cavallo mercato» è troppo bizzarro e impre­ vedibile se non viene domato dalla politica. È una tesi con cui non concordiamo, e ne discuteremo. Ma ciò non significa essere c�ntrari a regole precise e rigorosamen­ te fatte osservare per garantire che i mercati funzionino con legalità, giustizia e senza discriminazioni e favoriti­ smi. Le Autorità antitrust non imbrigliano il mercato, il loro scopo è proprio quello di consentire al mercato di funzionare. E, infatti, spesso sono proprio i non liberisti che protestano contro le Autorità indipendenti, per esempio quando intervengono per limitare il potere mo­ nopolista di qualche grande azienda pubblica o per bloc­ care aiuti di Stato a questo o quel monopolista. La seconda ragione - più politica (e la principale) che spiega questa avversione al mercato non è la paura - 12 -

Introduzione

che sia troppo «selvaggio», ma un'altra: è la volontà di difendere lo status quo e il timore di perdere il consenso di quelle lobby e gruppi di interesse che hanno conqui­ stato la politica italiana (sia a destra sia a sinistra) a sca­ pito dei giovani, dei consumatori e dei contribuenti. Quante volte avete sentito i nostri politici parlare di «consumatori», cioè di tutti noi, invece che di questo o quel gruppo, definito da una professione o da una lobby? Uno dei problemi fondamentali della società italiana è che molti (troppi) si riconoscono in una categoria - l'in­ segnante, l'impiegato pubblico, il commerciante, il pen­ sionato - perdendo così di vista il nostro minimo comun denominatore, owero che siamo tutti consumatori e con­ tribuenti. E chi ci governa concerta le scelte politiche con le lobby e così facendo le rafforza. Il risultato è che la po­ litica spesso diventa una guerra fra lobby, non un modo per accrescere il benessere di consumatori e contribuenti, owero dei cittadini in quanto tali. Nel nostro libro Goodbye Europa. Cronache di un de­ clino economico e politico (Rizzoli 2006) abbiamo soste­ nuto la tesi secondo cui, senza riforme liberiste, l'Euro­ pa continentale in generale e l'Italia in particolare ri­ schiano un declino, cioè una graduale perdita di benes­ sere, relativo e assoluto, dei propri cittadini, e una cor­ rispondente perdita di influenza nel mondo. Goodbye Europa è stato interpretato da alcuni come un manifesto dell'«anti-Europa», come un libro pro americano, e quin­ di di destra; tra equità ed efficienza ci è stato rimprove­ rato di aver scelto la seconda perdendo di vista la prima. - 13 -

Il liberismo è di sinistra

Non è così, e questo è il motivo per cui abbiamo deciso di riprendere la discussione. La tesi che sostenevamo allora, e che continuiamo a sostenere qui, spiegandola - speriamo - meglio, è que­ sta: nell'Italia di oggi non esiste una relazione inversa tra equità ed efficienza: più efficienza non significa me­ no equità, anzi! Le riforme liberiste di cui abbiamo par­ lato in Goodbye Europa, e che in questo volume breve­ mente ricordiamo, renderebbero l'Italia non solo un paese più efficiente ma anche più equo. L'opposizione a questo tipo di riforme deriva non da una sincera preoc­ cupazione per l'equità del paese nel suo complesso, ma dal tentativo di difendere quei gruppi di interesse che hanno conquistato la politica italiana. Spesso, purtrop­ po, anche i rari politici che lo hanno capito mancano della fantasia e del coraggio necessari per esplorare vie nuove, per pensare fuori da schemi precostituiti, «out­ side the box» come dicono gli inglesi. Nonostante un mondo che cambia rapidamente, la politica italiana sem­ bra arenata su discussioni che si trascinano pressoché immutate da anni e anni. L'ala riformista dell'attuale governo Prodi sembra in dif­ ficoltà e in balia della sinistra massimalista e conserva­ trice (nel senso letterale del termine: che non vuole cam­ biare). Perché? Alcuni, per esempio Barbara Spinelli in un articolo su La Stampa del 13 gennaio 2006, pensano che l'errore compiuto dai riformatori e liberalizzatori del1' attuale maggioranza sia stato quello di chiedere all'ala - 14 -

Introduzione

sinistra del governo di rinnegare la propria storia. È esat­ tamente il contrario: se falliranno è perché non saranno stati capaci di spiegare che le riforme sono di sinistra e la conservazione dei privilegi di destra, e che un'orga­ nizzazione politica, anche con una storia alle spalle, de­ ve sapersi adattare a un mondo che cambia: se non lo fa, compromette il raggiungimento di quelli che dovrebbe­ ro essere i suoi veri ideali. È ciò che sta facendo, cinica­ mente, la sinistra massimalista. I riformisti non sono ancora riusciti a far capire la dif­ ferenza tra gli slogan dei partiti che ancora si definisco­ no comunisti e i veri interessi dei cittadini che questi par­ titi dovrebbero rappresentare. I leader della sinistra ra­ dicale e conservatrice, e gran parte dei leader sindacali, si preoccupano di pensionati e pensionandi, owero dei lavoratori anziani dell'industria, categorie certo da non dimenticare, ma i cui interessi non vanno sempre e co­ munque anteposti a quelli di altre categorie ancora più a rischio, come i veri poveri e i giovani senza lavoro o sot­ topagati. Il caso della recente riforma delle pensioni è straordinario. È stupefacente come una palese redistri­ buzione da figli e nipoti a genitori e nonni sia stata fatta passare come una conquista di sinistra. A noi non risul­ ta che Marx parlasse di lotta di generazioni, semmai di lotta di classe. Concorrenza, riforme, merito dovrebbero essere le bandiere della sinistra. La sinistra italiana invece, e spes­ so non solo la sua ala più radicale, opponendosi a rifor­ me liberiste, finisce per difendere il privilegio. Una so- 15 -

Il liberismo è di sinistra

cietà in cui c'è scarsa concorrenza, in cui nell'impiego pubblico, che supera il 10 per cento di tutti i posti di la­ voro, si fa carriera per anzianità e non per merito, è una società in cui il futuro finisce per essere determinato dal censo: proprio ciò contro cui dovrebbe battersi la sini­ stra, quella vera. Ecco quindi le ragioni di un titolo apparentemente paradossale: Il liberismo è di sinistra. Per dire che oggi, in Italia, chi ha a cuore i valori storici della sinistra, cioè equità, pari opportunità, criteri di merito e non di clas­ se, dovrebbe schierarsi in prima linea nelle battaglie a fa­ vore di un mercato nel quale vengano fatte rispettare re­ gole del gioco trasparenti, con politiche fiscali e redi­ stributive efficienti e non «catturate» anch'esse da pochi privilegiati.

1 Destra e sinistra confuse

Da qualche mese in alcuni supermercati e autogrill ita­ liani giovani farmacisti vendono medicinali a un prezzo inferiore del 20-30 per cento rispetto ai prezzi delle vec­ chie farmacie di città. Chi è più di sinistra? Chi libera­ lizza commercio e professioni o chi permette che le far­ macie si tramandino di padre in figlio consentendo loro di far pagare a prezzi esorbitanti anche medicinali co­ munissimi come l'aspirina? All'Università di Lecce il numero dei dipendenti ad­ detti a mansioni tecniche e amministrative supera il nu­ mero degli insegnanti; un dato che non deve sorprende­ re, considerando che lo statuto dell'università prevede che il personale amministrativo abbia il 20 per cento dei voti nell'elezione del rettore. Avendo sprecato risorse in una dissennata politica di assunzioni, l'inverno scorso il rettore è stato costretto a sospendere il riscaldamento, na­ turalmente nelle aule, non negli uffici amministrativi, do­ ve i termosifoni funzionano anche di pomeriggio, quan- 17 -

Il liberismo è di sinistra

do le stanze sono deserte. Pochi in città sembrano preoc­ cupati dello stato della loro università: i figli della buona borghesia salentina studiano a Bologna, a Torino, a Mi­ lano. All'Università di Lecce sono rimasti i figli di chi non può permettersi un trasferimento al Nord. Chi è più di sinistra? Chi vuole riformare l'università, oppure chi nel­ la Finanziaria ha imposto di stanziare più fondi per il rin­ novo dei contratti dei dipendenti pubblici per mantene­ re lo status quo? E infatti puntualmente i salari degli im­ piegati pubblici sono aumentati con riferimenti solo ge­ nerici al merito e alla produttività dei dipendenti. In Danimarca, prima dell'intervento di varie forme di assistenza pubblica, le famiglie a rischio di povertà sono 32 su 100: l'intervento dello Stato le riduce a 12 (i dati, fonte Eurostat, si riferiscono al 2003 ). Ciò significa che il welfare danese riesce a spostare 20 di quelle 32 fami­ glie fuori dall'area a rischio. In Gran Bretagna, un pae­ se anglosassone in cui lo stato sociale è relativamente «leg­ gero», le famiglie a rischio di povertà passano da 26 a 18 dopo un intervento statale che costa relativamente poco ai contribuenti. In Italia le famiglie vicine alla soglia di povertà sono 22, ma lo Stato riesce ad aiutarne solo 3 (in Italia, usando i dati del 2003, una famiglia composta da due genitori e due figli è definita a rischio di povertà se ha un reddito annuo inferiore a 15.000 euro). Quando si tratta di aiutare chi ne ha davvero bisogno, siamo meno efficienti della Turchia, un paese che non è certo un mo­ dello nel welfare e tuttavia sposta 5 famiglie fuori dall'a­ rea a rischio: da 30 a 25.

1. Destra e sinistra con/use

Chi è più di sinistra? Chi vuole riformare alla radice il nostro sistema di welfare nell'interesse dei poveri e dei giovani, oppure chi difende i fortunati che hanno un lavoro a tempo indeterminato e vanno in pensione a 57 anni? Ridurre i vincoli ai licenziamenti riduce la disoccupa­ zione, non la aumenta come molti vorrebbero far crede­ re. Le imprese sono più disposte ad assumere se sanno di non entrare in una situazione contrattuale irreversibi­ le. L'esempio di alcuni paesi nordici e dei paesi anglo­ sassoni parla chiaro: la disoccupazione cala quando ci so­ no sussidi temporanei per i disoccupati e si liberalizza­ no i licenziamenti. Nessun economista serio potrebbe ar­ gomentare il contrario. Chi è più di sinistra allora: chi vuol ridurre la disoccupazione o chi vuol difendere quel­ li che un lavoro ce l'hanno già a scapito di giovani che il lavoro non ce l'hanno? Ma forse non possiamo aspettar­ ci molto, se si pensa che le proposte sulla flessibilità del mercato del lavoro contenute nel nostro libro Goodbye Europa sono state definite «provocatorie» (nel senso ne­ gativo del termine) dal senatore Tiziano Treu, responsa­ bile per i problemi del lavoro della Margherita, che ha preso le difese dell'illicenziabilità. Liberalizzare è di sinistra per molte ragioni. La prima, owia, è che creare vera concorrenza in certe professio­ ni, come farmacisti, notai, awocati, tassisti, riduce prez­ zi e tariffe anche per i consumatori meno abbienti ed evi­ ta che i privilegi di queste professioni si tramandino di - 19 -

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padre in figlio. La sinistra, soprattutto quella più radi­ cale, dovrebbe essere in prima fila in questa battaglia. In­ vece non lo è e non lo è stata mai. Perché? Perché teme che dopo aver liberalizzato le professioni si cominci a parlare di liberalizzazione del mercato del lavoro, toc­ cando gli interessi di quello zoccolo duro di lavoratori anziani illicenziabili e di impiegati pubblici (compresi quelli improduttivi, i «fannulloni» di Pietro !chino), su­ perprotetti dall'attuale legislazione. Ecco allora che si crea un'alleanza «diabolica» tra ordini professionali e si­ nistra estrema, contro il giovane, il consumatore e il con­ tribuente. La seconda ragione è che liberalizzare il mer­ cato del lavoro, proteggendo i disoccupati con sussidi ben congegnati, ma senza impedire alle imprese di li­ cenziare chi non è più adatto alle necessità aziendali, pri­ vilegerebbe i giovani relativamente meno abbienti ri­ spetto ai lavoratori anziani e ben protetti, e favorirebbe il merito e non le rendite di posizione, cioè le rendite di chi un lavoro ce l'ha già. Non solo, ma farebbe anche au­ mentare l'occupazione. Da alcuni anni, da quando cioè l'Europa ha fatto qual­ che passo avanti verso la liberalizzazione del mercato del lavoro, si è registrato un aumento delle assunzioni. Tra il 1980 e il 1995 nell'Unione europea (dei 15 paesi) sono stati creati 12 milioni di posti di lavoro; nello stesso pe­ riodo gli Stati Uniti, un paese di dimensioni analoghe, ne hanno creati quasi 26 milioni. Tuttavia, nel decennio suc­ cessivo, quando in Europa è stata introdotta qualche ti­ mida liberalizzazione, come la legge Biagi in Italia, il nu- 20 -

1. Destra e sinistra con/use

mero di nuovi posti di lavoro è salito a 18 milioni, esat­ tamente lo stesso dei nuovi posti creati negli Usa nel me­ desimo decennio. Facciamo un esempio concreto che riguarda il nostro paese. L'Alitalia è da tempo sull'orlo del fallimento e due sono le alternative per risolvere una situazione di cui si è parlato fino alla nausea. Una è proteggere la compa­ gnia con regolamentazioni vantaggiose e sussidi pagati dai contribuenti per mantenerla in vita e «difendere l'oc­ cupazione», compresa quella dei piloti, una categoria di benestanti, certo non a rischio di povertà. Il fatto che i consumatori abbiano pagato a caro prezzo un servizio scadente - spesso inevitabile, considerato il monopolio pressoché totale di Alitalia su certe rotte (che peraltro esclude i meno abbienti che non possono permettersi ta­ riffe così alte) - non entra nei calcoli. La seconda alternativa è lasciarla fallire o comunque lasciare che sia il mercato a deciderne la sorte. Chi ri­ manesse disoccupato riceverebbe sussidi anche genero­ si per un certo periodo di tempo, magari sussidi in pro­ porzione più generosi per i meno abbienti. Nel frattem­ po, altre compagnie nuove o già esistenti entrerebbero nel mercato. Molti ex dipendenti Alitalia verrebbero as­ sorbiti da queste nuove compagnie, le quali offrirebbe­ ro un servizio migliore e più economico. Non solo la di­ soccupazione non aumenterebbe, ma diminuirebbe, da­ to che i prezzi inferiori attirerebbero nuovi viaggiatori. Qualche giovane in cerca di un primo impiego trove­ rebbe lavoro e questa trasformazione di mercato favori- 21 -

Il liberismo è di sinistra

rebbe chi è veramente produttivo, chi lavora con impe­ gno e non chi ha goduto per decenni di un posto pro­ tetto, indipendentemente dalla produttività. E i sussidi temporanei alla disoccupazione degli ex dipendenti Ali­ talia costerebbero ai contribuenti meno rispetto ai con­ tributi che per anni sono serviti a coprire le perdite del­ la compagnia (200 milioni di euro nel 1998, altri 400 nel 2004, 500 nel 2005 e così via). Naturalmente un adeguato controllo delle Autorità per la concorrenza dovrebbe assicurare che ad Alitalia non si sostituisca un'altra compagnia monopolista. Non a caso, quando il governo ha cercato (fallendo) di privatizzare Ali­ talia, il sindacato dei piloti, tra i vari acquirenti possibili, ha espresso la propria preferenza per Air One. La com­ pagnia che si verrebbe a costituire avrebbe il monopolio della tratta Milano Linate-Roma Fiumicino, una gallina dalle uova d'oro che, grazie alla sua rendita monopolista, consentirebbe di salvare i privilegi dei piloti. Vedremo se governo e Antitrust faranno l'interesse dei cittadini o quel­ lo dei dipendenti Alitalia. E non si dica che la deregola­ mentazione dei servizi aerei fa aumentare gli incidenti. Il mercato americano, tra i primi a essere stato deregola­ mentato, ha la minore percentuale di incidenti aerei ri­ spetto agli altri paesi per numero di miglia viaggiate. È re­ lativamente facile garantire criteri di sicurezza attraverso opportuni regolamenti, e per una linea aerea il timore di perdere la credibilità è in assoluto la prima garanzia. Liberalizzare è di sinistra anche per una terza ragio­ ne: una maggiore concorrenza riduce le barriere all'en- 22 -

1. Destra e sinistra confuse

trata e consente a nuovi imprenditori di entrare nel mer­ cato aumentando la produttività del sistema e riducen­ do le rendite di posizione che si accumulano nelle tasche dei monopolisti. Ciò abbassa prezzi energetici, tariffe, costi finanziari. Non per nulla molti insiders monopoli­ stici o semi-monopolistici non sono certo grandi libera­ lizzatori. Anche in Confindustria parlare di concorren­ za non è sempre benaccetto. Provate per esempio a spie­ gare che sarebbe opportuno obbligare l'Eni a cedere la rete di distribuzione del gas. Molti lettori a questo punto solleveranno un'obiezione: a fronte di tutti questi vantaggi, il mercato tuttavia pro­ duce eccessiva disuguaglianza e può rendere difficile per le fasce meno abbienti della popolazione uscire dalla po­ vertà. Prima di tutto va chiarito che vi è una differenza fondamentale tra disuguaglianza e povertà, una diffe­ renza spesso trascurata, a volte strategicamente. La po­ vertà si può ridurre e ciononostante la disuguaglianza può salire, cosa che infatti spesso accade. I «poveri» di oggi nei paesi Ocse sono molto più ricchi di quanto non lo fossero un paio di decenni orsono (e ciò vale anche per la stragrande maggioranza dei cittadini di paesi in via di sviluppo nonostante la retorica anticapitalista). Questo non significa che la disuguaglianza sia diminui­ ta, anzi, in certi paesi è aumentata. Ma il vero nemico è la povertà, sebbene la disuguaglianza, quando diventa eccessiva, sia socialmente controproducente e moral­ mente da molti non accettabile. - 23 -

Il liberismo è di sinistra

La preoccupazione per la disuguaglianza è da pren­ dere molto sul serio e a maggior ragione oggi, quando le cosiddette economie industrializzate si stanno trasfor­ mando in economie di servizi. In queste economie la di­ suguaglianza spesso aumenta perché spariscono molte professioni tradizionali. Per esempio ci sono, in propor­ zione, sempre meno operai specializzati e sempre più ca­ merieri di fast /ood che servono il pranzo a un numero crescente di giovani laureati arricchitisi nella finanza. Questa è una delle cause principali dell'aumento della disuguaglianza in Usa e Gran Bretagna, paesi che sono in testa a questa trasformazione. Ma i cambiamenti del­ la struttura economica cui stiamo assistendo sono in lar­ ga parte inevitabili, data anche l'ascesa di economie co­ me India e Cina. Non è possibile opporvisi. Secoli di sto­ ria economica ci insegnano che per i paesi più avanzati chiudersi al commercio internazionale è controprodu­ cente. L'ultima volta che il mondo scelse questa via fu ne­ gli anni trenta del secolo scorso, uno dei periodi di mag­ giore crisi del capitalismo mondiale, che poi sfociò nel­ la Seconda guerra mondiale. In conclusione, mercato e concorrenza vanno salva­ guardati e protetti. La povertà e l'eccessiva disuguaglianza (soprattutto la prima) vanno mitigate con un sistema di trasferimenti e di protezione sociale efficaci. Questi an­ drebbero finanziati con una tassazione progressiva sì, ma efficiente, cioè che non disincentivi a lavorare, produrre e investire. Perché se non c'è crescita la povertà non si riduce. Il welfare italiano è ben distante dall'avere que- 24 -

1. Destra e sinistra con/use

ste caratteristiche di efficienza. È troppo sbilanciato a fa­ vore delle pensioni e protegge poco e male chi veramente ne ha bisogno. Le pensioni assorbono il 61,3 per cento del totale della spesa pubblica per il welfare. Se alle pen­ sioni aggiungiamo la spesa previdenziale per malattia e salute (cioè interventi di sostegno motivati dalle condi­ zioni di salute del cittadino, non la spesa sanitaria) si rag­ giunge il 93,3 per cento del welfare. Per tutti gli altri in­ terventi (sostegno ai poveri, alle famiglie, ai disoccupa­ ti} rimane solo il 6,7 per cento. Alle famiglie bisognose va il 4,4 per cento del welfare, circa la metà della media europea, 7 ,8 per cento. Ai sussidi per la disoccupazione il 2 per cento, contro il 6,5 per cento della media euro­ pea. In Italia la percentuale di lavoratori che hanno ac­ cesso a qualche forma di sussidio quando perdono il la­ voro è solo il 28 per cento del totale. Ma quando si parla di riformare il nostro sistema di welfare i conservatori della sinistra si allineano alla de­ stra sociale e si arroccano in una difesa dello status quo. Sarebbe questa una posizione di sinistra che difende i de­ boli? A noi pare proprio di no.

2 La meritocrazia è di sinistra

Una storia che viene dal Kenya insegna molto più di tante parole. Tre economisti, Michael Kremer di Har­ vard, Ted Miguel di Stanford e Rebecca Thornton del­ l'Università del Michigan, hanno fatto il seguente espe­ rimento. Hanno studiato circa 120 scuole elementari in una regione del Kenya e, tra queste, ne hanno scelte (a caso) come campione la metà. Le restanti servivano da «controllo statistico», ovvero per osservare le differen­ ze tra le scuole «trattate» con l'esperimento e le altre. Grazie ai finanziamenti di un'organizzazione non-pro­ fit olandese, al primo gruppo di scuole è stata offerta un·a somma di denaro da usare per attribuire un pre­ mio al 15 per cento delle allieve di quinta elementare che avessero ottenuto i voti migliori nel test di fine an­ no (test identico per tutte le scuole). Il premio, circa 12 dollari, avrebbe consentito alle loro famiglie (nel caso lo avessero desiderato e come di fatto è avvenuto) di fi­ nanziare due anni di scuola aggiuntivi per le bambine - 27 -

Il liberismo è di sinistra

stesse. Veniva inoltre dato un riconoscimento pubblico e un piccolo premio in denaro alla scuola con il mag­ gior numero di vincitrici. I risultati sono stati strabilianti. Nelle 60 scuole sot­ toposte all'esperimento non solo i voti delle bambine che hanno vinto sono migliorati rispetto alla media de­ gli anni precedenti, ma sono cresciuti con la stessa per­ centuale quelli di tutte le bambine, comprese le non premiate. Cosa ancor più curiosa, si sono alzati anche i voti dei maschi, esclusi dall'esperimento. Inoltre l' as­ senteismo degli insegnanti - che nei paesi poveri è un problema endemico - è diminuito grazie alla competi­ zione tra le varie scuole. Ecco un esempio di come la meritocrazia giovi a tutti, non solo ai vincitori ma an­ che a coloro che, per voler dimostrare di farcela e per un generale istinto di competizione, sono incentivati a impegnarsi di più. Se questo vale per una scuola ele­ mentare del Kenya, figuriamoci per un'università di un paese industrializzato ! E a proposito di università, ecco un'altra storia inte­ ressante che viene dalla Bocconi di Milano, risultato di un recente lavoro di ricerca svolto da uno di noi (Gia­ vazzi) insieme ad Andrea !chino dell'Università di Bolo­ gna e Pietro Garibaldi dell'Università di Torino. L'Uni­ versità Bocconi fa pagare tasse universitarie relativamente elevate per gli standard italiani, calcolate in base al red­ dito familiare. Considerate ora due studenti a caso, uno appena al di sotto e uno appena al di sopra della soglia di reddito cha fa scattare una tassa più elevata. La diffe- 28 -

2. La meritocrazia è di sinistra

renza di reddito familiare è quindi minima. Supponen­ do che l'unica differenza tra i due studenti siano le tasse universitarie, si può studiare statisticamente il loro ef­ fetto sul rendimento scolastico. Anche in questo caso i risultati sono molto istruttivi. Un aumento delle tasse universitarie di mille euro al1'anno produce una riduzione del 6 per cento della pro­ babilità che uno studente vada fuori corso, senza che la media dei suoi voti si abbassi. Il motivo è evidente: un incentivo monetario stimola l'impegno a finire gli studi, senza influire sulla qualità. Semplicemente diventa più costoso «prendersela comoda». Ecco perché spostare il finanziamento delle università dai contribuenti agli uten­ ti (gli studenti e le loro famiglie) ha effetti positivi. E, se questo è accompagnato da borse di studio per i meno abbienti - concepite per incentivare la conclusione de­ gli studi entro i tempi previsti -, non penalizzerebbe i più poveri. La sinistra italiana (così come la destra in realtà) sem­ bra invece convinta che il «diritto allo studio» sia garan­ tito dalle tasse che i contribuenti pagano allo Stato. È fal­ so. All'università ci vanno soprattutto i ricchi e le classi medie, che potrebbero contribuire con una percentuale decisamente maggiore al costo delle spese universitarie (con una riduzione, tra l'altro, del carico fiscale, dato che più pagano gli utenti meno pagano i contribuenti). Bor­ se di studio ben congegnate garantirebbero l'accesso al­ l'università a tutti i meritevoli e il sistema nel suo com­ plesso risulterebbe più efficiente ed equo. Nelle univer- 29 -

Il liberismo è di sinistra

sità di eccellenza americane, comprese quelle in cui la­ voriamo (Harvard e Mit), gli studenti vengono ammessi solo per merito, con tasse molto elevate. Ma ad Harvard, per esempio, tutti gli studenti ammessi la cui famiglia è al di sotto di una certa soglia di reddito non pagano nul­ la. A ciò si aggiungono borse di studio basate sul merito e borse basate su una combinazione di merito e reddito. Tutte le altre università americane a ogni livello hanno programmi simili per garantire l'accesso alle famiglie me­ no abbienti e favorire gli studenti più meritevoli. Certo, meritocrazia implica rischio, ma senza pren­ dere dei rischi si ristagna e si declina. Purtroppo i gio­ vani italiani sembrano non riconoscersi in un modello meritocratico proprio per una diffusa awersione al ri­ schio. Come dimostra un'indagine condotta da Renato Mannheimer nel settembre 2006, ciò che affligge i gio­ vani italiani che si affacciano sul mercato del lavoro è il virus della scarsa ambizione. Alla domanda «Preferisci un lavoro sicuro, anche se magari meno redditizio, op­ pure uno meno sicuro ma con migliori prospettive di red­ dito?» 6 giovani su 10 rispondono di preferire quello si­ curo anche se mal pagato. «Supponiamo che un'azienda attraversi un periodo florido e decida di aumentare gli stipendi: preferiresti aumenti uguali per tutti, riservati a quelli che più ne hanno bisogno o a chi ha lavorato me­ glio?»: 4,4 su 10 rispondono o a tutti in egual misura o a chi ne ha più bisogno. Ma non è colpa dei giovani se dimostrano così poca audacia e così tanta awersione al rischio. Sono vittime di un sistema basato sull'anzianità, - 30 -

2. La meritocrazia è di sinistra

anziché sul merito. Se si premia solo l'anzianità, allora è comprensibile che i giovani preferiscano aumenti ugua­ li per tutti: così almeno qualche giovane meritevole ver­ rà premiato. Il Sessantotto, pur avendo giocato un ruolo positivo nella rimozione di alcuni miti e pregiudizi culturali, ha anche avuto un profondo effetto negativo: ha oscurato la meritocrazia, anzi, le ha dichiarato guerra. L'ideologia egualitaria ha finito per cancellare lo strumento princi­ pale a disposizione dei meno abbienti per emergere: in questo il Sessantotto ha gettato le basi per un sistema ra­ dicalmente di destra. Bandito il criterio del merito, i figli di notai, ingegneri, medici, avvocati e professori univer­ sitari sono diventati a loro volta notai, ingegneri, medici, avvocati e professori universitari. Più di quanto non ac­ cadesse prima del 1967 ! In Francia, un paese non certo di destra e baluardo (almeno fino a oggi) dell'antiameri­ canismo europeo, la meritocrazia nelle grandes écoles è ri­ gidissima, e infatti tutto si può dire della Francia, tranne che non produca un'eccellente classe dirigente, andan­ dola a scovare tra i meritevoli, indipendentemente dal censo. La sinistra italiana sbaglia nel non abbracciare senza «se» né «ma» la meritocrazia, un concetto che dovreb­ be appartenere di diritto a una cultura riformista; molti oggi parlano di meritocrazia, ma in gran parte sono solo parole perché poi si scatena un'atavica avversione a qua­ lunque riforma davvero meritocratica. In Italia la meritocrazia vale poco. Lo constatiamo non - 31 -

Il liberismo è di sinistra

solo nel settore pubblico, ma anche in buona parte di quello privato, oltre che nelle nostre scuole e università. E fa sorridere l'allarme periodicamente lanciato dai gior­ nali sulla fuga all'estero dei nostri cervelli migliori. E co­ s'altro dovrebbe fare un giovane brillante in un paese che scoraggia l'ambizione premiando l'età e non il merito? Una conseguenza dell'assenza di meritocrazia è l'in­ vecchiamento della nostra classe dirigente. Un aneddo­ to: nel 1984, quando Franco Modigliani vinse il premio Nobel per l'economia, gli studenti italiani di economia di Harvard e del Mit (tra i quali uno di noi, Alesina) lo invitarono a cena in un ristorante toscano di Boston. Par­ lando di Italia, università e fughe di cervelli all'estero, Modigliani ci raccontò che all'età di 3 7 anni, durante un seminario in un'università italiana, fu presentato come un «brillante giovane economista». E lui rispose: «Gra­ zie per il "giovane", ma negli Stati Uniti mi considerano un po' passé ! ». In un'altra occasione, parlando ai dotto­ randi italiani di quelle due università, aggiunse: «Sareste degli eroi se decideste di tornare nell'università italiana. Come diceva Galileo, "maledetta la terra che ha ancora bisogno di eroi"». Eravamo negli anni ottanta ma la si­ tuazione dell'università italiana non è molto migliorata. I dati relativi all'età media dei docenti universitari ita­ liani pubblicati nel gennaio 2007 sul Corriere della Sera da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, sono strabilianti: tra gli oltre 18.000 cattedratici, solo nove hanno meno di 3 5 anni; tre su dieci ne hanno più di 65. E per fortuna che nelle università la legge impone di andare fuori ruo- 32 -

2. La meritocrazia è di sinistra

lo a 72 anni ! Nei dipartimenti di economia americani si diventa/ull professor (cioè «si sale in cattedra») normal­ mente tra i 28 e i 35 anni al massimo, e i dipartimenti so­ no diretti da quarantenni. Dai 55 anni in su si è consi­ derati in fase «discendente» e, nella gran parte dei casi, i membri più anziani dei dipartimenti sono consapevoli che molte delle scelte gestionali (in particolare le assun­ zioni) vanno delegate ai più giovani. Tra le università ame­ ricane c'è una competizione accesissima per i giovani ripetiamo, giovani - più promettenti. Lo stesso vale per altri ambiti professionali. John Reed divenne capo di Ci­ tibank, una delle maggiori istituzioni finanziarie al mon­ do, a 40 anni, e al compimento dei 60 lasciò. In Italia a 60 anni ci si affaccia al gotha delle istituzioni finanziarie. Certo, ci sono eccezioni importanti. Gli esempi più famosi vengono dalla Fiat e dalla Banca d'Italia, dove la guida è stata affidata a due cinquantenni che hanno ra­ pidamente awiato un profondo ricambio. In entrambi i casi però la svolta è stata imposta da contingenze dram­ matiche: nel primo, l'azienda era tecnicamente fallita, e nel secondo, lo scandalo che travolse Antonio Fazio re­ se impossibile la sua permanenza a capo dell'istituzione. In circostanze normali Sergio Marchionne e Mario Dra­ ghi non sarebbero stati nominati. In politica, invece, neppure le circostanze eccezio­ nali appaiono sufficienti per imporre un ricambio ge­ nerazionale; basti pensare alle elezioni politiche del 2006 in cui sono scesi in campo gli stessi due candidati del 1996, ciascuno con dieci anni di più. Se si chiede di por- 33 -

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tare a 60 anni l'età della pensione, gli italiani insorgo­ no per difendere il proprio diritto al riposo. Berlusco­ ni ha felicemente compiuto 70 anni, ha anche perso le elezioni, ma l'idea di ritirarsi non pare neppure sfio­ rarlo. E lo stesso vale per Prodi che sicuramente non sta brillando per vigore riformatore in un momento cri­ tico per l'Italia. Ma forse la politica in Italia non è un lavoro «usurante», come quelli per cui si va in pensio­ ne a 57 anni. Quando vinse le elezioni in Spagna, Zapatero aveva 44 anni. In Inghilterra, per sfidare Gordon Brown, i con­ servatori hanno scelto un candidato trentanovenne, Da­ vid Cameron. Il nuovo ministro dell'Economia svedese, Anders Borgs, l'artefice della vittoria elettorale dei libe­ rali dopo dodici anni di governo socialdemocratico, ha 3 8 anni. Tommaso Padoa-Schioppa a fine legislatura ne avrà più di 70. Negli Stati Uniti uno dei principali can­ didati alla nomination del Partito repubblicano è John McCain che ha 64 anni: l'età avanzata è considerata uno dei suoi handicap principali. Hillary Clinton ha 50 anni, Barack Obama 46. Come hanno scritto Vincenzo Galasso e Francesco Billari su www.lavoce.info, il «comitato» che dovrà co­ stituire il nuovo Partito democratico non include una so­ la persona (su quarantacinque) sotto i 40 anni ! E pensa­ re che più di un terzo degli elettori ne ha di meno. L'età media del comitato, che si aggira intorno ai 57 anni, di­ mostra che tutto il potere è concentrato nelle mani di cin­ quantenni e sessantenni, la generazione cui appartiene la - 34 -

2. La meritocrazia è di sinistra

maggioranza dei leader politici del nuovo partito. Co­ storo hanno accettato di farsi aiutare da qualche «padre nobile» (due componenti del comitato hanno più di 75 anni), ma non hanno ritenuto necessario coinvolgere i ventenni o i trentenni, cioè coloro che in futuro dovran­ no votare per il nuovo partito. Se non nei fatti, «concorrenza» e «merito» hanno però iniziato a circolare almeno come parole nella sinistra ita­ liana. Meglio di niente. Anche se è curioso che ministri come quello dell'Istruzione, Fabio Mussi, dichiarino con un certo orgoglio la loro scelta coraggiosa di voler far va­ lere la meritocrazia (solo a parole comunque). Ma in che cosa dovrebbe credere un ministro dell'Istruzione se non nel merito? È difficile convincere i giovani che si affacciano al mer­ cato del lavoro a credere nella concorrenza e a scom­ mettere sul merito se ogni evidenza mostra che l'Italia è presidiata da una classe dirigente «vecchia» e se ciò che conta per fare strada sono spesso le parentele, le cono­ scenze giuste, un po' di furbizia e appunto l'età. Alcune soluzioni sono semplici: basterebbe avere la volontà di realizzarle. Nelle nomine di competenza del governo, per esempio (dirigenti generali della pubblica amministra­ zione, manager e consiglieri di amministrazione di im­ prese pubbliche e forze armate), Romano Prodi potreb­ be impegnarsi a non accettare candidati che abbiano più di 55 anni per ruoli operativi e di gestione e più di 60 per ruoli di rappresentanza e controllo (presidenti e consi- 35 -

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glieri). Sarebbe un gesto forte, del quale anche i privati farebbero fatica a non tenere conto. L'università italiana, come abbiamo già avuto modo di notare, non è in grado di produrre capitale umano ade­ guato perché funziona pessimamente. Anche in questo settore, la mancanza di competizione significa difesa del­ la potente lobby dei professori e barriere ali'entrata di iniziative private. Il modo per salvare le università è met­ terle in concorrenza l'una con l'altra, abolendo il valore legale della laurea. Una strada che il ministro Fabio Mus­ si con le reiterate promesse di maggiori finanziamenti agli atenei è ben lontano dal percorrere. Dovrebbe essere or­ mai chiaro, grazie ai lavori estremamente convincenti e mai dimostrati errati del professor Roberto Perotti del­ l'Università Bocconi, che il difetto della nostra universi­ tà, e della scuola più in generale, non è la mancanza di fondi pubblici, ma l'impossibilità di creare gli incentivi corretti, licenziando insegnanti, ricercatori e professori incapaci o, se non altro, pagandoli molto meno dei loro colleghi più produttivi e, come si è visto, spostando l'o­ nere del finanziamento dei costi universitari dai contri­ buenti agli utenti. Nella facoltà di Economia di Bari vi sono sei docenti con lo stesso cognome, cinque dei qua­ li appartengono al medesimo dipartimento. O si tratta di uno straordinario caso di omonimia o in questa famiglia vi è una particolare predisposizione all'eccellenza nel campo della ricerca economica. Negli anni ottanta Margaret T hatcher rivoluzionò le università della Gran Bretagna ponendo i professori che - 36 -

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avevano compiuto 55 anni di fronte a una scelta: o ac­ cettare un modesto incentivo economico e ritirarsi, op­ pure rimanere, ma in tal caso avrebbero dovuto sotto­ porre la loro ricerca e la qualità delle loro lezioni a una valutazione esterna che avrebbe determinato il finanzia­ mento pubblico alla loro università. La maggior parte la­ sciò, anche perché gli sguardi dei colleghi più giovani nei corridoi dei dipartimenti cominciavano a diventare im­ barazzanti. A quei tempi si diceva (la sinistra italiana in testa, compresa quella parte oggi riformatrice che l'ha ri­ valutata con vent'anni di ritardo) che la T hatcher stava distruggendo le università inglesi. Invece, con parte del denaro risparmiato, le università assunsero docenti gio­ vani e furono libere di pagare di più quelli che altrimen­ ti sarebbero emigrati negli Stati Uniti. Cominciò così la rinascita delle università inglesi che oggi sono le miglio­ ri d'Europa e ben competono con quelle americane. In Italia stiamo andando esattamente nella direzione opposta. Nel 2004, di fronte ai risultati di una valuta­ zione sulle risorse che lo Stato spende per la ricerca scien­ tifica - la prima effettuata in Italia per merito dell'ex mi­ nistro Letizia Moratti - qualche rettore ha avuto la se­ guente, curiosa, reazione. Le valutazioni ci indicano qua­ li sono i settori di ricerca più deboli: quindi è lì che dob­ biamo concentrare le risorse. Nulla di più errato, evi­ dentemente, poiché nella ricerca scientifica conta solo l'eccellenza, e per ottenerla bisogna concentrare le ri­ sorse. Trasformare un dipartimento da debole a medio­ cre significa gettare denaro al vento e penalizzare i di- 37 -

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partimenti ottimi rendendoli, appunto, mediocri an­ ch'essi. E così avremo un'università nel suo complesso mediocre. Un bel risultato. La situazione non è molto diversa nella scuola prima­ ria e secondaria dove spendiamo (per allievo) più di ogni altro paese dell'Ocse, abbiamo il maggior numero di in­ segnanti in rapporto al numero di studenti, e cionono­ stante una percentuale bassissima di diplomati. In tutti i test (letteratura, matematica, logica) gli studenti italiani ottengono punteggi inferiori alla media Ocse. Un quadro pressoché identico si ricava confrontando l'Italia ai pae­ si dell'Unione europea. I risultati sono particolarmente sconsolanti nel Mezzogiorno, dove il divario nel livello di apprendimento rispetto al resto d'Europa è significativo già a partire dalla scuola primaria, e tende ad aumentare negli anni successivi: nel Mezzogiorno un quindicenne su cinque versa in una condizione di «povertà di conoscen­ ze», anticamera della povertà economica. La situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che il Sud registra uno dei tassi più elevati di abbandono sco­ lastico. Poiché il sistema scolastico italiano è fortemente centralizzato, il divario che si registra tra Nord e Sud non è attribuibile a differenze nelle normative o nei pro­ grammi ministeriali, che sono identici dappertutto. Un divario territoriale così marcato mostra evidentemente che il problema non sta tanto nelle regole, quanto nella loro applicazione concreta. Come migliorare la pubblica istruzione in Italia? L'in­ segnamento di questi dati è chiaro: investire più soldi - 38 -

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pubblici in questo sistema educativo semplicemente non serve; occorre introdurre incentivi affinché insegnanti, genitori e studenti siano stimolati a fare meglio, ricorda­ tevi le scuole del Kenya! Se un insegnante non ha alcun incentivo salariale o di carriera e non affronta nessun ri­ schio di licenziamento non farà nulla per migliorare il proprio lavoro. Introdurre questi incentivi non coste­ rebbe nulla, anzi il licenziamento di qualche insegnante inadeguato farebbe risparmiare dei soldi, da utilizzare per esempio per premiare i docenti più meritevoli. In­ vece nell'ultima Finanziaria il governo ha stabilizzato (ov­ vero reso illicenziabili) 60.000 insegnanti senza alcun cri­ terio di merito, in un paese a bassissima natalità. Si po­ trebbe per esempio istituire un premio finanziario per le scuole che producono studenti migliori o che dimostra­ no un'alta qualità d'insegnamento. Un tentativo di riforma, sia pure edulcorata, per in­ trodurre la valutazione dei docenti fu fatto nel marzo 2004 dal ministro Moratti con un decreto legislativo, ma incontrò subito la resistenza della lobby degli insegnan­ ti. E invece è proprio il ridimensionamento dell'influen­ za corporativa dei docenti la strada da seguire. Si do­ vrebbe concedere molta più autonomia alle singole scuo­ le nelle assunzioni degli insegnanti, perché, appunto, i migliori vengano premiati e il merito diventi il criterio guida per chi ha il compito così delicato di restituire al paese giovani a loro volta preparati, motivati e ambizio­ si, non giovani che preferiscono un lavoro sicuro, anche se noioso e mal pagato.

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Le uniche realtà da cui provengono segnali positivi in questa direzione sono alcune imprese che non vivono al1'ombra di monopoli ben protetti, ma competono ogni giorno sui mercati internazionali; è al loro interno che è emersa una nuova classe di dirigenti; hanno 40, al mas­ simo 50 anni, considerano l'Europa il loro mercato do­ mestico e il mondo la sfida che devono vincere, pensano che i dazi contro i cinesi siano una stupidaggine e vedo­ no la Cina e l'India come opportunità straordinarie e non nemici da combattere, e alla politica chiedono innanzi­ tutto amministrazioni pubbliche un po' meno inefficienti, che, se non sono in grado di aiutare, per lo meno non creino ostacoli. Purtroppo però si tratta di una minoranza. Negli uf­ fici pubblici i cosiddetti «premi di produttività» sono as­ segnati non sulla base del merito (parola che i sindacati dei dipendenti pubblici hanno cancellato dal dizionario), ma dell'anzianità: così i più anziani, che spesso sono i me­ no produttivi, prendono di più. Illuminante è l'esempio del recente contratto integrativo sottoscritto dal mini­ stero dell'Economia per la distribuzione delle risorse de­ stinate all'incentivazione della produttività tra i dipen­ denti del ministero (proprio quello che dovrebbe dare il buon esempio agli altri ministeri!). Non si tratta di po­ chi euro: il premio è pari a due mesi di stipendio. Il 70 per cento delle risorse (come spiegano Tito Boeri e Pie­ tro !chino su www.lavoce.info) viene assegnato solo sul­ la base della presenza. La presenza include anche l'atti­ vità sindacale retribuita, evidentemente considerata par- 40 -

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te integrante della produttività. Il restante 30 per cento del premio viene ripartito sempre sulla base delle pre­ senze e di punteggi forniti dagli stessi uffici di apparte­ nenza, senza alcuna possibilità di verifica esterna. A Boe­ ri e !chino, che di queste cose se ne intendono, risulta che la quasi totalità dei dipendenti delle varie ammini­ strazioni abbia ottenuto il punteggio massimo. Le tabel­ le riguardanti questo 30 per cento prevedono, tra l'altro, che i premi vengano assegnati anche a chi è stato san­ zionato, con sospensione dal servizio o con multe, per reati commessi sul posto di lavoro. Questi dipendenti avranno un premio leggermente ridotto, il 20 per cento in meno, ma solo per l'anno in cui è stato commesso il reato; la mensilità in più la riceveranno anche loro. Si tratta tuttavia di un passo in avanti: i precedenti contratti integrativi non contemplavano nemmeno questa ridu­ zione del 20 per cento (ma forse questi passi in avanti so­ no sufficienti per i sostenitori del «gradualismo») . In­ somma, per ricevere il premio basta essere presenti, ma­ gari anche avendo procurato qualche danno erariale per le proprie disattenzioni o per dolo. Poniamoci ora una domanda per così dire «filosofi­ ca». Supponiamo pure di riuscire a correggere tutte que­ ste distorsioni: è davvero migliore un mondo in cui la di­ scriminazione dipende dal merito? È desiderabile una società nella quale, come negli Usa e in Gran Bretagna, i differenziali salariali tra coloro che lavorano sulla fron­ tiera della tecnologia e i «comuni mortali», o semplice­ mente i meno dotati di intelligenza, si allargano a vista - 41 -

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d'occhio? La risposta dipende evidentemente dai valori in cui ciascuno crede. È legittimo obiettare alla discri­ minazione fondata sul merito (anche se per quel che ci riguarda non esiste un sistema più equo), ma discrimi­ nare in base al merito è certamente preferibile che di­ scriminare in base al censo. Non solo: se la meritocrazia produce disuguaglianze giudicate troppo estreme, le si può in parte correggere con un sistema di tassazione e di welfare efficiente, cosa che l'Italia non fa. In Italia ancora oggi il reddito dei genitori è più im­ portante nel determinare quello dei figli di quanto non lo sia negli Usa. I giovani sono poco ambiziosi perché in Italia rischiare è più pericoloso che altrove. Come ab­ biamo ricordato nel primo capitolo, la nostra spesa so­ ciale è quasi il doppio di quella inglese: 22,8 per cento del Pil contro il 14. E tuttavia, come vedremo più avan­ ti, tanto denaro pubblico non concorre come dovrebbe ad aiutare chi più ne ha bisogno. I programmi di wel­ fare riducono il numero di famiglie inglesi a rischio di povertà dal 26 al 18 per cento; in Italia dal 22 al 19. Sia­ mo uno dei pochi paesi avanzati in cui non esistono sus­ sidi di disoccupazione accessibili a tutti. Il risultato è che chi ha un lavoro se lo tiene stretto, e l'idea di guardarsi attorno alla ricerca di opportunità migliori non lo sfiora neppure. I giudici reintegrano chi è stato licenziato per­ ché la disoccupàzione è una piaga sociale e le imprese tendono a non assumere a tempo indeterminato perché un errore nella scelta del personale può rivelarsi irrever­ sibile.

2. La meritocrazia è di sinistra

In Italia dunque non abbiamo né un sistema fondato sulla meritocrazia né un sistema fondato sull'uguaglian­ za; viviamo in un'anomalia inquietante in cui prevalgo­ no sia l'ingiustizia sia lo scarso merito. Ciò che serve è l'esatto opposto: premiare il merito proteggendo chi dav­ vero ne ha bisogno. La sinistra, terrorizzata dall'idea di toccare certe lobby e certi «mostri culturali» sacri, come il «diritto allo studio», che di fatto cela una profonda me­ diocrità, finisce per difendere l'ineguaglianza e l'ineffi­ cienza.

3 Liberalizzare i mercati è di sinistra

Poche settimane dopo la decisione del ministro Bersani di consentire la vendita di farmaci da banco nei super­ mercati, il prezzo di alcune medicine è sceso del 30 per cento. E le famiglie italiane hanno scoperto quanto è più semplice, la domenica sera, acquistare l'aspirina senza vagare per la città alla ricerca della farmacia di turno. Liberalizzare i mercati dei beni e dei servizi significa eliminare le rendite di cui godevano alcune categorie pri­ vilegiate (notai, farmacisti, ma anche i dipendenti Enel, Eni, Telecom, Alitalia) e trasferirle ai consumatori. Chi ci guadagna? Evidentemente quelle famiglie che spen­ dono una quota rilevante del loro reddito nell'acquisto dei beni e nell'utilizzo dei servizi che vengono liberaliz­ zati. Quando si liberalizzano servizi essenziali - come lu­ ce, gas, telefoni, farmacie - a trarne maggiori vantaggi sa­ ranno le famiglie più povere, poiché in proporzione im­ piegano una percentuale di reddito superiore per acqui­ stare questi beni di prima necessità. - 45 -

Il liberismo c1 di sinistra

Fino a pochi anni fa, trascorrere un fine settimana a Londra o a Barcellona era un privilegio per ricchi. Il co­ sto del biglietto aereo non era inferiore a 300-400 euro e si poteva partire solo da alcuni aeroporti; al biglietto an­ dava quindi sommato il costo del viaggio per raggiunge­ re l'aeroporto. Oggi Ryanair, Easyjet e le numerose com­ pagnie low-cost portano a Londra con pochi euro. Si può partire da Bergamo, da Brescia, anche da Brindisi, e i ra­ gazzi vanno a Londra o a Barcellona il sabato pomerig­ gio per rincasare la domenica mattina. Chi è più di sini­ stra? Chi vuole maggiore concorrenza nelle linee aeree o chi vuole proteggere Alitalia e i suoi dipendenti? In Italia un negozio su tre ha una superficie inferiore ai 400 metri quadri: i grandi magazzini rappresentano so­ lo il 22 per cento della distribuzione. In Francia, il pae­ se dei prodotti doc, i piccoli esercizi sono il 3 per cento, i grandi il 53. I centri commerciali per lo più non sono belli da vedere, soprattutto se confrontati con le pitto­ resche botteghe a conduzione familiare. Anche il servi­ zio è spesso di qualità inferiore, certamente più anonimo e spiccio. Ma i supermercati discount hanno cambiato la vita delle famiglie a basso reddito inventando i prodotti «non di marca» e vendendo beni di prima necessità a prezzi stracciati. Chi si lamenta? Per lo più i ricchi, il cui senso estetico è disturbato da questi «orrori immobilia­ ri»: lungo l'autostrada preferirebbero paesaggi bucolici. La spesa la fanno in centro da fruttivendoli che, visti i prezzi, paiono gioiellieri. Per una famiglia benestante la quota di reddito dedicata al cibo è molto inferiore ri- 46 -

3. Liberalizzare i mercati è di sinistra

spetto a una famiglia con un reddito più basso. Quindi, mentre per una persona con uno stipendio medio-basso i prezzi degli alimentari sono un problema serio nel bud­ get familiare, per un benestante sono pressoché irrile­ vanti. Nella mentalità di un ricco quindi fare la spesa dai fruttivendoli-gioiellieri del centro non è un gran proble­ ma, mentre lo sono gli orrori immobiliari che è costret­ to a vedere quando viaggia in autostrada a bordo della sua Bmw. Una chiosa: non sta scritto da nessuna parte che i cen­ tri commerciali debbano essere per forza brutti. Se i sin­ daci, anziché limitarsi a incassare gli orieri di urbanizza­ zione, imponessero ai costruttori di assegnare i progetti tramite gare internazionali - e non ai soliti quattro geo­ metri amici - qualche «bella» idea sicuramente arrive­ rebbe. Deregolamentare consente anche di applicare veloce­ mente innovazioni tecnologiche rivoluzionarie che mi­ gliorano, e di molto, la vita dei cittadini, compresi quel­ li poveri. Proteggere le rendite invece le ritarda. Tallin, capitale dell'Estonia, il paese dove è nata Skype, è co­ perta da una rete wi-fi, wireless fidelity, che consente ai cittadini di collegarsi senza fili a internet da qualunque luogo: case, parchi, tram, automobili. Accedendo a que­ sta rete e utilizzando via internet i servizi di Skype è pos­ sibile telefonare gratis a chiunque nel mondo. È la fine delle rendite di cui per anni hanno goduto le società te­ lefoniche tradizionali, non solo quelle che offrono servi­ zi su rete fissa, ma anche le società di telefonia mobile. - 47 -

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Skype ha commercializzato un software che consente di accedere ai suoi servizi - che permettono appunto tele­ fonate gratuite - da un normale cellulare. Il nuovo soft­ ware cancella l'attesa: non ci si accorgerà neppure che la telefonata transita su internet anziché su una normale re­ te telefonica. Skype appartiene a una nuova generazione di aziende che si propongono di eliminare tutti i costi e gli interme­ diari inutili che tutelano interessi diversi da quelli dei con­ sumatori. Sono aziende nuove, in cui non vi sono dipen­ denti che difendono le loro rendite. Se la società guada­ gna, una quota del profitto viene immediatamente distri­ buita ai consumatori, abbassando i prezzi e allargando la quota di mercato. Se perde, il prezzo non cambia e si ta­ gliano gli stipendi dei dipendenti. Qualche altro esempio: Wal-Mart, la più grande catena statunitense di negozi al dettaglio; eBay, dove si fanno acquisti via internet parte­ cipando a un'asta con grande convenienza rispetto al com­ mercio tradizionale; le compagnie aeree low-cost. Per anni abbiamo protetto Alitalia, che non riesce nem­ meno a convincere assistenti di volo e piloti a trasferirsi da Roma a Milano; così, quando il volo su cui prestano servizio parte da Malpensa alle undici del mattino, ven­ gono pagati dalle otto della sera prima, ora in cui si im­ barcano a Roma per raggiungere Milano e iniziare il tur­ no di lavoro. La differenza rispetto al passato è che og­ gi, quando i dipendenti di Alitalia scioperano, non vi so­ no sommosse: i passeggeri scelgono semplicemente altre compagnie lasciando che Alitalia affondi da sola. - 48 -

3. Liberalizzare i mercati è di sinistra

In passato le tariffe di molti servizi - il caso più evi­ dente è quello delle Ferrovie dello Stato - sono state man­ tenute basse ma non grazie a una riduzione dei costi e dei privilegi dei dipendenti - i quali hanno a lungo per­ cepito salari elevati e goduto di condizioni particolar­ mente favorevoli - bensì trasferendo i costi direttamen­ te sui contribuenti. Se ci si abitua alle telefonate gratui­ te di Skype e ai biglietti da pochi euro di Easyjet, si fa fa­ tica ad accettare un'imposizione fiscale elevata o, se la si accetta, ci si chiede che cosa si sta pagando: servizi effi­ cienti o i privilegi di qualche dipendente pubblico ben protetto? La conclusione è evidente: le liberalizzazioni dovreb­ bero essere una bandiera della sinistra perché aiutano so­ prattutto i consumatori più poveri. Spesso aprono anche nuove opportunità nel mercato del lavoro. I supermer­ cati che hanno cominciato a vendere prodotti farmaceu­ tici hanno assunto giovani farmacisti, laureati che non avevano la fortuna di avere una mamma o un papà far­ macista e quindi erano tagliati fuori. Occorre avere il co­ raggio di spiegare agli elettori che ogni protezione dei produttori corrisponde a uno sfruttamento dei consu­ matori. Per anni la sinistra è stata succube di un mito: l' «al­ leanza dei produttori». Un mito che ha le sue radici in una visione marxista del lavoro (inteso nel senso più am­ pio del termine): il marxismo si focalizza sulla produ­ zione, sul conflitto di classe all'interno del sistema pro­ duttivo; la domanda, cioè i consumatori, è pressoché ir- 49 -

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rilevante. In una visione marxista della società l'indivi­ duo si caratterizza per la sua posizione nell'ingranaggio del sistema produttivo, dell'offerta, non della domanda. Ecco perché la sinistra italiana fa tanta fatica a vedere i consumatori come una categoria di cui farsi carico. I «capitalisti» e i «lavoratori» possono scontrarsi, co­ me nell'autunno caldo del '68-'69, o possono trovare ùn accordo, spesso a carico dei contribuenti e dei consu­ matori. Luciano Lama e Gianni Agnelli furono i prota­ gonisti di quell'alleanza: «Basta deleghe alla politica» era il loro motto. E il «punto unico» della scala mobile, un'as­ surdità logica, fu il prezzo che le imprese pagarono per guadagnarsi la benevolenza del sindacato. La realtà è un po' diversa. L'alleanza dei produttori era l'accordo fra un sindacato che voleva proteggere i propri iscritti, insider privilegiati, a danno degli outsider (soprattutto giovani) e degli imprenditori, i quali, per po­ ter pagare quel costo del lavoro, dovevano essere pro­ tetti dalla concorrenza internazionale. I consumatori non sono mai stati rappresentati ai tavoli a cui awenivano quegli accordi. La politica si è subito adeguata. I sussidi alle imprese sono çliventati un modus operandi tipico dei governi sia di destra sia - forse ancor di più - di sinistra. Sussidi per investimenti al Sud, sussidi per evitare la chiusura di im­ pianti, sussidi per garantire l'occupazione, sussidi per fi­ nanziare l'innovazione. La Confindustria è diventata una delle tante lobby che al momento della Legge finanzia­ ria «assaltano la diligenza» per ottenere favori e finan- 50 -

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ziamenti. Per anni la Fiat ha ricevuto sussidi che, messi l'uno sull'altro, ammontano a parecchi punti di Pii. È sta­ ta a lungo anche protetta dalle quote sulle importazioni di automobili giapponesi. Per anni la Confindustria ha appoggiato questo o quel governo a seconda dei benefi­ ci che si aspettava di trarne, spesso in termini di sussidi, a scapito della concorrenza vera. Un altro pregiudizio diffuso, e falso, è che la concor­ renza danneggia i lavoratori. È falso perché essi stessi, fuori dall'azienda in cui lavorano, sono consumatori. Quando si eliminano le rendite, tutte le rendite, come lavoratori perdono sì la quota di rendita di cui godeva­ no nella loro azienda, ma come consumatori pagano prezzi più bassi su tutti i beni e i servizi che acquistano. Il bilancio è positivo anche perché con più concorren­ za si produce di più, owero la «torta» del Pii aumenta. Se poi la «torta» è divisa in modo troppo disuguale la si può correggere con un sistema fiscale e di welfare ben congegnati. Le liberalizzazioni non hanno solo i benefici diretti di cui abbiamo parlato; ne hanno anche di indiretti, altret­ tanto importanti. Primo: sono essenziali per la crescita perché sono cruciali per l'innovazione. Inoltre, come ve­ dremo più avanti, in un'economia avanzata consentono di spostare un po' di attività economiche dall'industria ai servizi, una trasformazione essenziale se si vuole evi­ tare che i salari dei lavoratori dell'industria vengano schiacciati dalla concorrenza dei paesi dove il costo del lavoro è particolarmente basso. - 51 -

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Ma iniziamo dalla crescita, che è sempre stata una ban­ diera della sinistra progressista. Sono i conservatori che generalmente la temono perché la crescita amplia le op­ portunità e rende più difficile difendere i privilegi. Le aristocrazie sono state spazzate via dalla crescita, nel­ l'Inghilterra dell'Ottocento come nella Cina di oggi. A questo punto molti lettori si chiederanno: cari au­ tori, per quasi trent'anni, dal dopoguerra agli anni set­ tanta, l'Italia è cresciuta, si è trasformata da un paese per lo più agricolo in un paese industriale avanzato, ha di­ mezzato la distanza che la separava dai paesi più ricchi in termini di reddito pro capite, e questo senza ricorre­ re alla concorrenza né alle liberalizzazioni, anzi, con un'e­ conomia fondata sull'impresa pubblica e rigidamente re­ golamentata. Perché improwisamente la concorrenza sa­ rebbe tanto importante per ricominciare a crescere? Per anni, luce, gas, telefoni, autostrade, linee aeree, persino la Fiat, sono stati monopoli; eppure non è andata tanto male. Che cosa è cambiato? Non sarà solo una moda, l'influenza di Margaret T hatcher e di Ronald Reagan, mo­ delli che non è detto siano validi anche per l'Italia? È un'ottima domanda. Va considerato però che sono cambiate due cose fondamentali: innanzitutto è cambia­ ta l'Italia. Dopo la guerra eravamo un paese relativamente povero, con poco capitale e lavoratori con un basso li­ vello di istruzione - in media la licenza elementare e non per tutti. In quelle condizioni la ricetta per crescere era piuttosto semplice: risparmiare e investire, sia in capita­ le fisico sia in capitale umano. Non vogliamo sottovalu- 52 -

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tare il «miracolo italiano», owero la rapidità con cui l'I­ talia si è trasformata. Tuttavia in quegli anni per far avan­ zare il paese non c'era bisogno di grande immaginazio­ ne. Le industrie del «miracolo italiano» erano abbastan­ za tradizionali: cemento, acciaio, automobili, elettrodo­ mestici. Ci sono state le eccezioni: i polimeri che valsero a Giulio Natta il premio Nobel o i computer Olivetti, per esempio; ma erano eccezioni appunto. Non ci si doveva preoccupare troppo dell'università, della ricerca e del­ l'istruzione superiore. La concorrenza e l'innovazione non erano importanti. Anzi, forse un po' di rendita è per­ sino servita, almeno quando è stata usata per accelerare gli investimenti. Tuttavia arriva il momento in cui accumulare capita­ le nelle industrie tradizionali non basta più. Per i paesi vicini alla frontiera tecnologica, crescere significa inno­ vare e spostarsi rapidamente in settori che producono servizi meno «commerciabili» (cioè non in competizio­ ne con la Cina) oppure in settori tecnologicamente avan­ zati. Il tessile tradizionale (non il design di lusso) o l'in­ dustria dell'acciaio non bastano più. E se non si cambia strada e ci si trasforma, la crescita si ferma, e allora dav­ vero la Cina diventa un problema invece che uno straor­ dinario nuovo mercato con un miliardo di consumatori. L'incapacità di rinnovarsi ha creato problemi a tanti, a cominciare dall'Unione Sovietica alla fine degli anni cinquanta, un caso macroscopico, ma in un certo senso un esempio estremizzato del capitalismo di Stato italia­ no degli anni settanta. Forse anche la crisi del Giappo- 53 -

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ne, un'economia che non cresce da quindici anni, di­ pende dall'incapacità di abbracciare un modello diver­ so. Le similitudini tra Italia e Giappone, per esempio sul­ la gerontocrazia e l'immobilità, non sono da sottovalu­ tare. Insomma, terminata la fase di accumulazione iniziale, per continuare a crescere occorrono immaginazione, pro­ dotti nuovi, tecnologia: in una parola idee. È a questo punto che la concorrenza diviene essenziale. La ricerca economica ha fatto grandi passi avanti nell'individuare i fattori determinanti perché la crescita continui: scuole e università efficienti, una giustizia, soprattutto civile, ra­ pida nel risolvere le controversie, regole chiare e stabili (antitrust, concessioni governative) , e soprattutto, con­ correnza. Le imprese che innovano spesso sono quelle nuove, che riescono a «entrare» perché i mercati sono privi di barriere all'ingresso. Certo, anche le imprese che già ope­ rano in un mercato talvolta innovano. Ma perché inno­ vano? Perché se il mercato è aperto, nuove imprese po­ tranno liberamente entrarvi e mettere in crisi la soprav­ vivenza di quelle già esistenti. È per soprawivere che que­ ste sono spinte ad aprire nuove linee di produzione, in­ trodurre nuovi prodotti e nuove tecnologie. lbm per esempio è ancora una delle imprese infor­ matiche più innovative e lo è perché si ricorda ancora ciò che le accadde negli anni settanta quando dominava il mercato dei grandi computer e all'orizzonte non si ve­ devano concorrenti. Poi Steve Jobs inventò Macintosh e - 54 -

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fondò Appie. In breve, Ibm si trovò sull'orlo del falli­ mento, ma questo fu il colpo di frusta che salvò l'azien­ da. Chiedetevi che cosa sarebbe accaduto se il governo americano, per difendere Ibm, avesse reso la vita diffici­ le a Steve Jobs. La straordinaria rivoluzione tecnologica che abbiamo vissuto e viviamo tuttora sarebbe stata ri­ tardata di decenni. Non a caso nell'Europa regolamen­ tata degli anni ottanta e novanta la rivoluzione informa­ tica si diffuse molto più lentamente. In Italia esempi di nuove aziende nate per effetto del1' apertura di un mercato sono soprattutto nel settore dei servizi, che era il più chiuso alla concorrenza. Si pensi a come si è trasformato il mercato televisivo dopo che nel 1974 la Corte costituzionale decise che TeleBiella, la pri­ ma tv privata che osò sfidare il monopolio Rai, poteva trasmettere liberamente i suoi programmi. È ciò che accadde nel mercato della tecnologia mobi­ le quando, nel momento del passaggio dal sistema ana­ logico Tacs-un monopolio Stet - al sistema digitale Gsm, Bruxelles ci impose di aprire il mercato consentendo la nascita di Omnitel. Un sistema concorrenziale è vitale non solo per uni­ versità e imprese, ma anche per il mercato finanziario. Senza lo stimolo della concorrenza le banche conti­ nuano a far credito ai clienti abituali, quelli che appa­ rentemente possono dare tranquille garanzie. Un co­ modo tran-tran nel quale i banchieri rischiano poco e non devono preoccuparsi di studiare i progetti dei lo- 55 -

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ro clienti: qualunque progetto è buono, purché l'im­ prenditore possa portare qualche immobile in garanzia. Un giovane con un'idea brillante è tagliato fuori. Lo stesso giovane poi trova una banca inglese disposta a scommettere su di lui, mentre il vecchio cliente abitua­ le della banca italiana è fallito e si scopre che i beni che aveva dato in garanzia erano insufficienti per far fron­ te ai suoi debiti. Le imprese più impegnate in Ricerca e Sviluppo sono quelle che si finanziano emettendo azio­ ni o ricorrendo a fondi privati (private equity /unds) e più fanno ricorso a questi strumenti finanziari, più in­ vestono in R&S. In queste imprese la quota di crediti bancari è relativamente modesta. Dato che la Borsa in Italia è ancora poco sviluppata, è normale che gli inno­ vatori abbiano difficoltà a finanziarsi. Da ultimo va considerato il mercato dei servizi, un set­ tore decisivo attraverso il quale un'economia avanzata come la nostra può ricominciare a crescere. Il termine «economia industrializzata», usato per indicare i sistemi capitalistici più avanzati, è ormai anacronistico. La co­ lonna portante dei sistemi economici avanzati sono i ser­ vizi: finanza, istruzione, sanità, comunicazioni, consu­ lenza, ricerca e innovazione, turismo. I veri paesi «indu­ strializzati» sono sempre più Cina, India, Sud Corea, Mes­ sico, cioè paesi emergenti o da poco usciti dalla povertà. Questo cambio di scenario è stato rapido. Negli anni sessanta a Pittsburgh, la capitale americana dell'acciaio, le luci rimanevano accese anche di giorno e nelle gior­ nate di sole, a causa del fumo prodotto dagli altoforni. - 56 -

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Nei primi anni ottanta di acciaierie in funzione non ne era rimasta neppure una, la città viveva di servizi finan­ ziari, educativi e direzionali e le luci erano accese solo di sera. Le acciaierie abbandonate sono diventate musei del­ la storia industriale americana. Come negli Stati Uniti, così anche in Europa il capi­ talismo delle «tute blu» è in via di estinzione, ma gli Sta­ ti Uniti sono stati più veloci ad abbracciare questa tra­ sformazione. In Italia la quota dell'industria sul totale dell'economia è ancora molto alta: il 28 per cento di tut­ te le attività economiche, contro il 22,2 della Francia e il 21 degli Stati Uniti (i dati si riferiscono al 2003 ). Uno dei motivi del successo americano è l'accesa concorrenza in un mercato vastissimo: gli Stati Uniti costituiscono un vero mercato unico e anche alcune delle più tradiziona­ li (e storiche) barriere, per esempio nel settore bancario, che proteggevano piccoli monopoli locali, sono state smantellate. Risultato: l'aumento della produttività nel settore finanziario degli Stati Uniti è stato straordinario, maggiore che in ogni altro settore. Secondo alcuni cal­ coli, quasi la metà della crescita di produttività registra­ ta negli Stati Uniti rispetto all'area dell'euro è dovuta al settore bancario e finanziario. In Europa, invece, rimangono nel terziario alte bar­ riere tra nazioni, anche quelle appartenenti all'Ue, e per­ sino all'interno dei singoli paesi la concorrenza è imper­ fetta. Recentemente un progetto della Commissione eu­ ropea (la «direttiva Bolkenstein») che avrebbe dovuto smantellare parecchie delle barriere nazionali nel settore - 57 -

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dei servizi è stato molto annacquato e in pratica reso va­ no dall'opposizione dei governi nazionali, in primo luo­ go quello francese, ma non solo. Evidentemente la lobby di chi operava in questi settori è stata sufficientemente forte. Non a caso il proverbiale «idraulico polacco» che toglie il lavoro divenne il simbolo dell'opposizione fran­ cese alla Costituzione europea. In realtà la Costituzione c'entrava poco con gli idraulici, ma lo spauracchio dell'i­ draulico è l'esempio dell'abilità della lobby protezioni­ stica francese. Il risultato è che le barriere tra paèsi ten­ gono i prezzi alti, compresi quelli degli idraulici parigini, a scapito dei parigini poveri. Un dentista tedesco non può aprire uno studio in Italia; una banca inglese non può aprire sportelli in Italia e fino a due anni fa, se la stessa banca avesse voluto acquisire una banca italiana, si sa­ rebbe scontrata con la politica protezionista di Antonio Fazio (la sinistra italiana non fu certo in prima fila nella battaglia politica per liberarsi di Antonio Fazio. Certo, in altri paesi europei, in primis la Francia come abbiamo vi­ sto, vigono analoghe restrizioni; il fatto che non siamo gli unici a sbagliare, però, non giustifica le nostre scelte). Sicuramente un'economia basata sui servizi presenta molti vantaggi, ma crea anche molte difficoltà. Un van­ taggio fondamentale è che è molto meno soggetta alla competizione di paesi come Cina e India, sia perché i ser­ vizi sono beni più difficilmente esportabili, sia perché impiegano un capitale umano più qualificato di cui quei paesi per ora non dispongono - sebbene lo stiano rapi­ damente formando.

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Le difficoltà invece sono soprattutto due. Innanzitut­ to spariscono molti lavori manuali tradizionali, sostitui­ ti dalle macchine, e aumentano lavori a più alto capitale umano, per esempio coloro che fanno funzionare le mac­ chine. Spariscono anche certe occupazioni tradizional­ mente stabili: un tempo tornitori, saldatori, falegnami erano lavori di una vita. Oggi la rapida evoluzione della tecnologia, soprattutto informatica, richiede un capitale umano flessibile, capace di adattarsi a mansioni in con­ tinuo cambiamento. Questo influisce anche sul tipo di formazione che occorre per affrontare i nuovi «mestie­ ri». Le vecchie scuole professionali perdono via via la lo­ ro utilità, mentre occorre sempre più personale con una buona preparazione di base, capace di apprendere rapi­ damente nuove mansioni e di adattarsi al cambiamento. Ecco perché c'è bisogno di una scuola meritocratica che s1 sa rmnovare. La transizione non è semplice perché lo spostamen­ to dell'economia dall'industria ai servizi rende obsole­ te e quindi taglia fuori alcune categorie professionali: per esempio i lavoratori anziani che vedono sparire le loro professioni, le cosiddette «tute blu» sopra i 50 an­ ni che per una vita si sono dedicate a un'attività speci­ fica, oggi in radicale trasformazione o addirittura in via di estinzione. E purtroppo, in molti casi, non ci si può illudere che queste persone possano facilmente con­ vertirsi in tecnici informatici, per fare un esempio. Di­ fendere i loro posti di lavoro tuttavia è la soluzione sba­ gliata: meglio intervenire con sostegni al reddito che - 59 -

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non mantenere in vita imprese, e interi settori indu­ striali, non competitivi. Un altro problema grave è l'ampliamento dei differen­ ziali salariali. In un'economia basata sui servizi non esi­ stono solo lavori ad alto capitale umano. Parallelamente infatti aumenta la richiesta di mano d'opera a bassa qua­ lificazione. E poiché le persone con un «capitale umano elevato» sono relativamente poche, il reddito relativo di chi ha un'istruzione avanzata cresce rispetto a quello di chi non ce l'ha. Vincono agenti di cambio e scienziati im­ pegnati nella ricerca: perdono i lavoratori poco qualifi­ cati, i camerieri dei ristoranti frequentati dagli agenti di cambio, i pony express, i trasportatori a domicilio di mer­ ci acquistate via internet. Negli Stati Uniti le disparità sa­ lariali sono aumentate sensibilmente negli ultimi due de­ cenni proprio perché è cresciuto il premio all'istruzione; cioè sono aumentati di più i salari del personale ad alta istruzione rispetto a quelli del personale con istruzione più bassa. E ciò indipendentemente dai super-stipendi dei grandi manager che sono dovuti a lacune nella go­ vernance delle aziende, altrettanto gravi in Europa quan­ to negli Stati Uniti. In generale gli europei sono più awersi degli ameri­ cani a ogni aumento della disuguaglianza. Il problema è come noi europei cerchiamo di limitare la disuguaglian­ za. Lo facciamo ricorrendo a regolamentazioni sindaca­ li, restrizioni alla concorrenza, salari minimi relativa­ mente alti per impedire che il mercato produca più di- 60 -

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sparirà salariale. Si continuano a proteggere le rendite dei tassisti limitando le licenze e impedendo agli studenti universitari di lavorare qualche ora al giorno guidando taxi la sera, o nelle giornate in cui la domanda è più ele­ vata, come fanno molti studenti americani. Lo stesso ac­ cade nei supermercati, che non possono assumere ragazzi come cassieri per qualche ora al giorno, pagandoli me­ no dei dipendenti regolari. Questo è evidentemente un sistema penalizzante. La disuguaglianza sociale non si eli­ mina sopprimendo la concorrenza e impedendo che le retribuzioni siano decise dal mercato; questo è solo un modo per ammazzare la crescita. Gli strumenti per cor­ reggere la distribuzione dei redditi sono le tasse e il wel­ fare, anche perché il vero nemico è la povertà, non la di­ suguaglianza in quanto tale. Confrontate due economie: una che cresce di più ma in cui le differenze tra poveri e ricchi aumentano; un'al­ tra che cresce di meno e in cui i poveri sono più poveri rispetto alla prima, ma le differenze fra ricchi e poveri so­ no minori. Quale delle due è preferibile? A noi sembra la prima. Invece spesso nel linguaggio e nell'immaginario comune povertà e disuguaglianza vengono confuse. È ve­ ro che spesso maggiore disuguaglianza significa anche maggiore povertà, ma non sempre, e soprattutto, non in economie che crescono molto e nelle quali tutti, sia i po­ veri sia i ricchi, migliorano la loro posizione.

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Riformare il mercato del lavoro è di sinistra

Uno dei miti più falsi ma anche più radicati, sia in Italia sia in gran parte d'Europa, è che schierarsi dalla parte dei poveri, dei meno fortunati, quindi «essere di sini­ stra», significhi opporsi ai licenziamenti e difendere i «po­ sti di lavoro», impedendo così alle imprese di attuare stra­ tegie che consentano loro di massimizzare il profitto. La verità è molto diversa. Negli anni cinquanta e ses­ santa, quando l'Europa aveva un mercato del lavoro me­ no regolamentato, forse ancor meno di quello america­ no, la disoccupazione era più bassa che negli Stati Uni­ ti. Poi, dalla metà degli anni settanta, la disoccupazione europea, diversamente da quanto accadeva negli Stati Uniti, ha cominciato a crescere rapidamente. Il motivo si può individuare in una serie di leggi che imposero vincoli al numero di ore lavorate, indipenden­ temente dalla volontà del lavoratore, resero difficili gli straordinari, la mobilità interna all'azienda, introdusse­ ro o la proibizione assoluta, o uno strettissimo controllo - 63 -

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giuridico su ogni singolo caso di licenziamento. Il risul­ tato è che per anni e anni i paesi dell'Europa continen­ tale come Francia, Italia, Spagna e Germania hanno vis­ suto con tassi di disoccupazione superiori al 10 per cen­ to, la Spagna addirittura superiori al 20 per cento. Mi­ lioni e milioni di giovani non trovavano lavoro; decine di milioni di europei erano (e sono ancora) disoccupati. Non potendo licenziare, si è spesso ricorsi ai pre­ pensionamenti, una prassi che, insieme a una politica pensionistica dissennata (di cui parleremo nel prossimo capitolo), ha fatto sì che in Italia la partecipazione al mercato del lavoro di uomini e donne sopra i 55 anni sia tra le più basse d'Europa (33 per cento, inferiore solo a Belgio e Polonia e 15 punti sotto la media nell'Unione europea). Vi sono alcuni paesi dell'Europa occidentale che han­ no un mercato del lavoro relativamente deregolamenta­ to. Non sono solo i «soliti» paesi a cui in questi casi ci si riferisce, Inghilterra e Irlanda. Sono alcuni paesi nordi­ ci, in particolare Danimarca, Olanda e Svezia che, da qualche anno a questa parte, hanno liberalizzato il loro mercato del lavoro. Risultato: in questi paesi i tassi di di­ soccupazione sono scesi, in qualche caso letteralmente crollati. Italia, Spagna e in parte anche Francia e Germania, hanno seguito una via diversa: hanno introdotto i con­ tratti atipici, sottratti cioè alle regole dei contratti tradi­ zionali. Non appena lo hanno fatto, l'occupazione ha ri­ cominciato a salire, prova che riforme di questo tipo pro- 64 -

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ducono effetti quasi istantanei sull'occupazione. Ma in questi paesi l'introduzione di contratti atipici ha anche creato una dicotomia nel mercato, tra lavori protetti e la­ vori non protetti, un problema su cui ritorneremo più avanti. Qui ci preme ribadire un concetto molto sempli­ ce: quando si liberalizza il mercato del lavoro la disoc­ cupazione diminuisce, non aumenta. Basta guardare i fat­ ti, e il motivo è ·semplice. Quando licenziare un dipen­ dente è impossibile, se non a costi altissimi, un impren­ ditore sarà molto prudente nell'offrire posti di lavoro, per timore di assumere qualcuno che, nel caso si rivelas­ se poco adatto o poco produttivo, non potrà più licen­ ziare. Quindi le imprese cercheranno di ridurre al mini­ mo la forza lavoro impiegata, a costo di dotarsi di tec­ nologie costose che però consentano di ridurre la mano d'opera, o semplicemente di eliminare alcune mansioni manuali. Chiunque abbia visitato gli Stati Uniti avrà notato che in quel paese sopravvivono tipologie di lavori che in Eu­ ropa sono sparite da tempo: parcheggiatori all'ingresso di ristoranti anche di medio livello, addetti che imbu­ stano la spesa nei supermercati e la caricano in macchi­ na, valletti che «guidano» gli ascensori, portabagagli ne­ gli alberghi anche di medio livello, sono occupazioni an­ cora molto diffuse, e non certo perché gli Stati Uniti non si specializzino in settori ad alta tecnologia. Come si spie­ ga? Un lavoro di ricerca di Joseph Zeira dell'Università di Gerusalemme e di uno di noi (Alesina) mette in luce come il progresso tecnologico abbia caratteristiche di- 65 -

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verse in Europa e negli Stati Uniti. L'Europa è più avan­ ti nell'utilizzo di tecnologie che consentono di sostituire lavori con scarso capitale umano, per esempio macchine per effettuare semplici mansioni manuali come i robot. Gli Stati Uniti invece sono più avanti nell'impiego della cosiddetta «alta tecnologia». Uno dei motivi è appunto l'incentivo a non assumere mano d'opera con scarso li­ vello di istruzione, che poi diventa illicenziabile. Proibire i licenziamenti e ostacolare la libera organiz­ zazione della mano d'opera all'interno di un'azienda ri­ duce l'occupazione, perché è un modo per proteggere chi un lavoro già ce l'ha e di ridurre il numero di assun­ zioni, a svantaggio dei giovani, compresi i più bravi e pro­ duttivi i quali sono certamente più poveri di un lavora­ tore che per anni ha goduto di un impiego protetto dai sindacati. Quanto l'Europa sia ancora lontana dal comprende­ re questa semplice verità lo si vede per esempio dalla de­ cisione di una Corte d'appello francese che, nel luglio scorso, ha dichiarato illegittima una legge che liberaliz­ zava i licenziamenti nelle aziende di piccole dimensioni, limitatamente ai primi due anni dall'assunzione del la­ voratore. La Corte ha motivato la sentenza scrivendo che «nella lotta alla disoccupazione la protezione dei posti di lavoro è almeno altrettanto importante che la facoltà del­ le imprese di licenziare un lavoratore». E ha concluso os­ servando che «l'idea che per incoraggiare le assunzioni si debbano rendere più facili i licenziamenti è davvero paradossale». A essere paradossale in realtà è la man- 66 -

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canza di una logica coerente nel ragionamento di questa Corte francese. Ma del resto lo stesso ragionamento vie­ ne fatto dai sindacati italiani e da buona parte della sini­ stra, e dalla destra sociale. Cominciamo quindi subito con p chiarire che ostaco­ lare la facoltà di licenziare favorisce i lavoratori relativa­ mente anziani a scapito di giovani in cerca di lavoro, e quindi non ha nulla a che vedere con l'obiettivo di spo­ stare risorse dai più ricchi ai più poveri. Ciò naturalmente non significa disinteressarsi di chi dovesse perdere il la­ voro e rimanere temporaneamente disoccupato. In pri­ mo luogo, è cruciale sottolineare la parola «tempora­ neamente». Come abbiamo visto, riducendo gli ostacoli ai licenziamenti, gli interventi dei giudici in difesa dei la­ voratori licenziati e liberalizzando le regole per l'impie­ go della mano d'opera, le imprese assumerebbero di più, non di meno. Se dunque un'impresa si trovasse nelle con­ dizioni di dover licenziare un dipendente per sostituirlo con un profilo professionale diverso, o perché costretta a ridurre la mano d'opera complessiva, ve ne sarebbero altre pronte ad assumerlo. Si obietterà, a ragione, che per quanto breve, un periodo di disoccupazione è sempre difficile e doloroso per chi lo subisce. Ma proprio que­ sto è il motivo per cui i paesi che hanno liberalizzato il mercato del lavoro hanno anche introdotto sussidi alla disoccupazione ben congegnati. È il caso della Dani­ marca, un paese che una sinistra moderna dovrebbe stu­ diare attentamente. In quel paese licenziare un lavorato­ re è facile, ma i disoccupati sono protetti meglio che in - 67 -

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ogni altro paese al mondo, con sussidi generosi (due an­ ni fa il New York Times pubblicò un'inchiesta sui sussi­ di per i disoccupati. Cominciava con una domanda: «Do­ ve vorresti vivere se perdessi il lavoro?». La risposta era: a Copenaghen). Risultato: la Danimarca ha il tasso di di­ soccupazione più basso d'Europa, il 3,5 per cento con­ tro il 7 ,6 nella media dell'Europa dei 25 paesi, e il 7 ,7 nell'area dell'euro. Un dato inferiore persino agli Stati Uniti, dove i disoccupati sono il 5 per cento. Certo, una parte - marginale - di questo straordinario successo è anche dovuta all'ampio numero di invalidi, che non so­ no conteggiati tra i disoccupati. E questo non perché in Danimarca ci siano più invalidi che in altri paesi, ma per­ ché lo Stato danese concede abbastanza facilmente pen­ sioni di invalidità a persone non impiegabili. Cionono­ stante è difficile negare che le riforme del mercato del la­ voro danese abbiano giocato un ruolo determinante. La Danimarca ci è arrivata eliminando qualunque osta­ colo ai licenziamenti, soprattutto togliendo di mezzo i giudici e il diritto di chi è licenziato ad appellarsi a un tribunale del lavoro, tranne che in casi dawero estremi. La legge danese permette di licenziare un dipendente con un preawiso di quattro mesi, senza particolari autoriz­ zazioni amministrative e senza versare liquidazioni ele­ vate. Una volta fuori dall'azienda, ma con alle spalle quat­ tro mesi di tempo per cercare un nuovo lavoro, il lavo­ ratore riceve immediatamente il sussidio di disoccupa­ zione che viene sospeso non appena trova un nuovo po­ sto di lavoro.

4. Riformare il mercato del lavoro è di sinistra

È un sistema che favorisce un alto livello di mobilità dei lavoratori. E le imprese danesi, sapendo che sbaglia­ re un'assunzione non è un dramma, hanno più incentivi ad assumere. Certo, nulla è perfetto, neppure in Dani­ marca: può capitare che qualche imprenditore senza scru­ poli licenzi un dipendente solo perché è iscritto al sin­ dacato o per motivi futili. In casi estremi (ma dawero estremi) rimane sempre il ricorso al giudice. Comunque neppure un licenziamento per cause futili è un dramma perché i sussidi di disoccupazione sono generosi e dura­ no fino a tre anni. Non diventano però una fonte di red­ dito infinita per chi non vuole lavorare. Infatti se l'A­ genzia del lavoro danese trova un posto adeguato per un disoccupato, e il disoccupato lo rifiuta, i sussidi vengo­ no sospesi immediatamente. Ma si badi: proprio perché la disoccupazione è bassa, e i disoccupati non rimango­ no tali per molto tempo, i sussidi alla disoccupazione non sono molto costosi per il contribuente. Senza dubbio so­ no meno costosi per il contribuente dei sussidi alle im­ prese mantenute in vita per «difendere l'occupazione», spesso in settori non competitivi, che non hanno più un futuro. Inoltre, come suggeriscono due economisti francesi, Olivier Blanchard e Jean Tirole, per non gravare ulte­ riormente sulle tasche del contribuente si potrebbe in­ trodurre una piccola tassa sui licenziamenti. L'idea è che ogni impresa intenzionata a licenziare un dipendente deb­ ba versare un contributo non troppo esoso al Fondo per i sussidi alla disoccupazione. Sicuramente molte aziende - 69 -

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preferirebbero questa piccola tassa a un sistema in cui ogni licenziamento comporta un ricorso al giudice e una causa che di solito l'azienda perde, con il risultato che poi deve riassumere il lavoratore licenziato. In un articolo pubblicato alcuni mesi fa sul Corriere della Sera si raccontava il caso di un lavoratore che si die­ de malato per partecipare a un torneo di calcio (e lo vin­ se, dimostrando così una salute di ferro). Fu licenziato, ma il giudice gli diede ragione e obbligò l'azienda a rias­ sumerlo. Nel frattempo un giovane senza lavoro che avrebbe voluto quel posto non poteva essere assunto. È di sinistra difendere il calciatore finto malato? Ed è cu­ rioso come la nostra giustizia, notoriamente lentissima, diventi di un'efficienza e di una velocità esemplari quan­ do tratta cause di lavoro. Perché la sinistra italiana non abbraccia sul serio il sistema adottato da un paese nor­ dico che dovrebbe essere un «mito» per la socialdemo­ crazia europea? Seguire l'esempio danese non sarebbe davvero di sinistra? Certo, il sistema danese non è facilmente replicabile in tutta la sua efficienza. Si fonda, tra l'altro, su un alto livello di onestà civica dei cittadini, che non abusano del sistema, per esempio, accettando lavori in nero e conti­ nuando a percepire il sussidio di disoccupazione anche dopo aver trovato lavoro. Michele Salvati cita spesso il caso emblematico di una baby-sitter danese ventenne, assunta a tempo parziale da una famiglia italiana. La gio­ vane danese, prima di trasferirsi in Italia, era disoccupa­ ta: non appena assunta telefonò ali'Agenzia del lavoro di - 70 -

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Copenhagen chiedendo che la sua indennità di disoccu­ pazione venisse temporaneamente sospesa. Avrebbe po­ tuto incassare il salario in nero e continuare a ricevere il sussidio senza correre il rischio di essere colta in fallo, ma non lo ha fatto. Probabilmente, in paesi come Italia, Germania e Francia abusi del sistema sarebbero inevita­ bili, e infatti in Germania si è aperta recentemente una discussione proprio su questo tema in seguito a nume­ rosissimi casi di usi illeciti di vari sussidi. In Italia, abusi nell'assegnazione di pensioni di invalidità sono all' ordi­ ne del giorno. Un dato che si riferisce alla metà degli an­ ni ottanta: nel Mezzogiorno c'erano due pensioni e mez­ zo di invalidità per ogni pensione di anzianità e nella pro­ vincia di Enna ve ne erano sette: sette invalidi per ogni anziano ! Ciò dimostra come le basi del nostro sistema di welfare che si è formato appunto negli anni settanta e ot­ tanta siano bacate. Sono poi ancora numerosi i casi di insegnanti cin­ quantenni in pensione da quando ne avevano 40 e che da anni svolgono un altro lavoro, violando così le rego­ le che impediscono a chi percepisce una baby-pensione di avere un'occupazione (fino a non molto tempo fa nel­ la scuola si aveva diritto alla pensione dopo soli vent'an­ ni di insegnamento e per le donne ogni figlio riduceva la soglia di un anno). Ma questi abusi (che se fossero perseguiti con severi­ tà e non con il tipico buonismo all'italiana si ridurreb­ bero) non sono un motivo valido per rifiutare tout court un sistema basato sulla flessibilità (dei licenziamenti) e - 71 -

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su un welfare efficiente che protegge temporaneamente i disoccupati. Insomma, se riprodurre il modello danese può essere difficile, ciò non significa che in Italia non si possa o non si debba fare nulla. Il nostro sistema previdenziale è mol­ to lontano da criteri di efficienza ed equità perché si fon­ da su un presupposto errato: mentre per i danesi (così come per inglesi e irlandesi) chi va tutelato è il lavorato­ re, noi tuteliamo il posto di lavoro. La rigidità del mo­ dello italiano, oltre a favorire chi un lavoro ce l'ha a sca­ pito di chi non ce l'ha ancora, non incentiva la produtti­ vità, né nel settore privato, né in quello pubblico. Quan­ to costano ai contribuenti gli impiegati improduttivi del­ le aziende di smaltimento rifiuti napoletane, i docenti che passano più giorni in malattia di quanti ne trascorrano nelle aule scolastiche, le inamovibili 11.500 guardie fo­ restali calabresi (in Lombardia sono 450; un primato di guardie, quello della Calabria, cui corrisponde anche un primato di incendi), i marinai «impiegati» ali'Arsenale di Venezia, i 2. 158 dipendenti del Quirinale che costeran­ no quest'anno 224 milioni di euro, i 60.000 insegnanti precari resi permanenti senza alcuna verifica dalla Fi­ nanziaria del 2007 in un paese a natalità bassissima? Quei professori universitari di ruolo - e quindi anziani perché le carriere dei giovani progrediscono come le lumache che, oltre a non produrre ricerca e a non garantire un in­ segnamento di qualità, passano il tempo a fare consu­ lenze ben pagate, spesso facendosi sostituire nelle aule dai loro colleghi più giovani? E ciononostante - lo ve- 72 -

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dremo meglio nel prossimo capitolo - negli ultimi anni i dipendenti pubblici hanno ricevuto aumenti salariali ben superiori a quelli del settore privato e sicuramente non giustificati da un aumento di produttività. Invece di seguire la strada della flessibilità secondo il modello danese, l'Italia, così come la Spagna e in parte la Francia, ha percorso, come abbiamo già detto, una via diversa, che ha finito per creare gravi problemi sociali. La scelta è stata quella di segmentare il mercato del la­ voro: da un lato illicenziabilità e protezione totale per i lavoratori tradizionali già occupati; dall'altro contratti a tempo determinato che non tutelano il lavoratore e, per di più, essendo limitati nel tempo e spesso non rinnova­ bili, non danno alle aziende alcun incentivo a investire nella crescita professionale di questi dipendenti. Risul­ tato: le imprese (sia private che pubbliche) per evitare l'illicenziabilità si sono gettate su questi contratti e così oggi, in Italia, il 15 per cento dei lavoratori (oltre 3,7 mi­ lioni di persone) è «precario»: una cifra che include sia coloro che hanno un lavoro a tempo determinato sia co­ loro che lo hanno avuto, l'hanno perduto e ne cercano uno nuovo (un precario su quattro sta cercando un nuo­ vo posto di lavoro precario). I datori di lavoro, comprese le amministrazioni pub­ bliche, non solo non hanno alcun interesse a investire nella formazione di dipendenti temporanei, ma neppu­ re hanno un incentivo ad assumerli in modo permanen­ te, appunto per evitare le rigidità del mercato tradizio­ nale. Tra l'altro, questo è uno dei motivi del deludente - 73 -

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andamento della produttività per ora lavorata nel nostro paese così come in Spagna. Se poi osserviamo questo fe­ nomeno dalla parte della domanda, i giovani in cerca di lavoro, non trovando un'occupazione nel mercato tradi­ zionale, sono costretti ad accettare impieghi temporanei a stipendi molto bassi, fattore che aumenta la loro rab­ bia e la loro frustrazione, come si è visto recentemente in Francia in modo drammatico e violento. Va aggiunto poi che questi lavoratori stanno inne­ scando una «mina pensionistica»; essi infatti accumula­ no contributi pensionistici solo quando lavorano. Nei pe­ riodi di disoccupazione, tra un lavoro e l'altro, né loro, né evidentemente le imprese, versano alcun contributo, con la conseguenza che molti dovrebbero lavorare fino a 90 anni per guadagnarsi una pensione decente; ma poi­ ché non lo faranno e in qualche modo una pensione glie­ la si dovrà pagare (comunque misera in confronto ai for­ tunati che oggi vanno in pensione a 58 anni), in futuro il deficit dell'Inps esploderà. In Italia questa situazione ha provocato anomalie che hanno raggiunto livelli paradossali. In alcuni uffici pub­ blici due dipendenti seduti uno accanto all'altro fanno lo stesso lavoro; ma, mentre uno è illicenziabile, anche se - come i «fannulloni» descritti da Pietro !chino - non si presenta mai in ufficio, l'altro può essere licenziato fa­ cilmente, e ogni anno, se non ogni sei mesi, vive sotto il capestro del rinnovo del contratto. È chiaro che questa dicotomia rappresenta un problema sociale esplosivo: è uno dei problemi più urgenti del nostro paese. - 74 -

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Qual è la risposta di sinistra? La reazione della sini­ stra conservatrice è la solita: regolarizzare tutti i precari - come è awenuto nel 2007 con i 60.000 precari della scuola - owero rendere tutti i precari lavoratori perma­ nenti, ritornando così al sistema precedente in cui c'era un solo tipo di contratto, quello a tempo indeterminato. Questa soluzione di sinistra avrebbe come unico effetto quello di riportare la disoccupazione oltre il 10 per cen­ to, esattamente come accadeva prima dell'introduzione dei contratti atipici. Riporterebbe cioè l'orologio indie­ tro, al tempo dell' eurosclerosi, quando in Europa l' oc­ cupazione era un problema cronico. Una visione miope, purtroppo ben rappresentata nel governo Prodi. Il ministro per le Riforme e le Innova­ zioni nella pubblica amministrazione, Luigi Nicolais, so­ stiene: «Se vogliamo uno Stato efficiente non possiamo assumere ape legis tutti i precari, ci vogliono criteri di se­ lezione forti». Ma poi si affretta ad aggiungere: «Le va­ lutazioni però non riguarderanno il singolo, bensì la strut­ tura». Un eufemismo per dire che furbi e fannulloni con­ tinueranno a farla franca a spese dei contribuenti e dei loro colleghi onesti. Ma allora perché è tanto radicata l'idea che «difen­ dere il posto di lavoro», cioè impedire i licenziamenti, sia di sinistra? Il motivo è semplice: gli iscritti ai sindacati sono per la maggior parte lavoratori con contratti a tem­ po indeterminato e prossimi alla pensione (gli altri iscrit­ ti, in pensione ci sono già). Difendendoli, il sindacato protegge i propri iscritti: se lo ammettesse, nulla di ma- 75 -

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le. Il guaio è che il sindacato sostiene di difendere gli in­ teressi di tutti i lavoratori, e questa è una bugia. Al sin­ dacato non interessa aumentare l'efficienza del sistema; preferisce mantenere in vita un meccanismo che, seppu­ re inefficiente, garantisce i privilegi dei suoi iscritti, an­ che se questo va a scapito dei giovani con contratti ati­ pici o addirittura senza lavoro. E non essendo questo un messaggio politico molto «spendibile» ecco che si ricor­ re allo slogan della «difesa del posto di lavoro». Lo stesso accade con la riforma delle pensioni, su cui torneremo nel prossimo capitolo. Considerando i nostri tassi di natalità, nel 2050 ogni lavoratore italiano dovrà sostenere più di due persone: se stesso, un anziano e for­ se anche un bambino. È evidente che a quel punto o si lavorerà più a lungo, cioè ben oltre i 65 anni, oppure la pensione non potrà più garantire una vecchiaia dignito­ sa. È giusto che oggi si vada in pensione a 58 anni, sa­ pendo che i nostri figli dovranno lavorare fino ai 70? E tuttavia il sindacato ha obbligato Prodi (che ha imme­ diatamente capitolato) ad abrogare la legge Maroni che portava l'età minima per andare in pensione a 60 anni. A generare tensioni nel mercato del lavoro non è pe­ rò solo il lavoro precario, ma anche «l'azienda precaria». Il meccanismo che genera competizione, innovazione e miglioramento, quello che Joseph Schumpeter chiama­ va «distruzione creativa», è l'entrata e l'uscita dal mer­ cato di attività commerciali e aziende. Anche se può sem­ brare paradossale, ma solo a prima vista, il fallimento del­ le aziende, la distruzione creativa appunto, crea ricchez- 76 -

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za. Per esempio, da anni i governi fanno di tutto per evi­ tare il fallimento di Alitalia: e invece proprio il fallimen­ to di un'azienda in perdita, mal gestita e in preda a sin­ dacati corporativi, introdurrebbe nuovo vigore nel mer­ cato del trasporto aereo, aumentando l'occupazione e producendo un servizio migliore. In Italia il numero di fallimenti di imprese è tra i più bassi dei paesi Ocse. Fallire, in Italia, è un trauma da evi­ tare. La stessa frase «è un fallito» ha una connotazione colpevole e offensiva. Come se il fallimento di un'attivi­ tà economica rischiosa, che non ha prodotto profitti suf­ ficienti, significhi che chi l'ha intrapresa non sia una per­ sona onesta, ma un truffatore. Il termine «fallito», inve­ ce di caratterizzare semplicemente il proprietario di un' a­ zienda che non è soprawissuta alla concorrenza, diven­ ta un macigno che un imprenditore si porta sulle spalle per il resto della vita. In Italia falliscono molte meno imprese che negli Sta­ ti Uniti: lo 0,4 per cento delle imprese, contro il 4 per cento negli Usa. Ma non perché in Italia le imprese sia­ no più sa�e. Il motivo, come ha ben spiegato Daniela Marchesi nei suoi articoli, è che l'inadeguatezza delle pro­ cedure fallimentari induce le imprese a correre meno ri­ schi, a rinunciare a occasioni di espansione e a perdere opportunità di conquistare nuovi spazi nel mercato. Poi­ ché fallire è un «disastro» irrimediabile, le imprese non rischiano e di conseguenza, mediamente, non falliscono. La nuova legge sui fallimenti, entrata in vigore all'inizio del 2007, fa fare qualche passo avanti, in particolare ri- 77 -

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ducendo gli aspetti eccessivamente punitivi nei confronti del fallito, anche se è presto per dire se indurrà le im­ prese a rischiare un po' di più. Non è così negli Stati Uniti. Un aneddoto aiuta a ca­ pire la differenza: la figlia di un nostro collega stava per sposarsi, ma all'ultimo decise di rompere il fidanzamen­ to. All'inevitabile domanda sulle motivazioni di una scel­ ta tanto drastica rispose che, tra l'altro, il fidanzato non «era mai fallito». Il povero ex fidanzato era probabil­ mente un ragazzo che preferiva un posto fisso e non ave­ va partecipato all'effervescente nascita di nuove iniziati­ ve legate a internet, molte delle quali, appunto, sono fal­ lite. La figlia del nostro collega avrebbe serie difficoltà a trovare un «fallito» da sposare in Italia. Anziché lasciare fallire un'azienda che non riesce a sta­ re più sul mercato, in Italia la si «salva», anzi il governo la salva, come appunto accade da anni con Alitalia. «Sal­ vataggio» è la parola magica sia per i manager e i pro­ prietari dell'impresa sia per i sindacati che difendono i posti di lavoro esistenti, anche se poco produttivi, a sca­ pito di quelli più produttivi che si creerebbero se si la­ sciasse operare la concorrenza. Il «salvataggio» è il deus ex machina: sembra non costare nulla e rendere tutti fe­ lici. Invece costa, e caro, a contribuenti, consumatori e al paese nel suo complesso. Molti studi, sia di economi­ sti sia di esperti di gestione aziendale, dimostrano che le imprese più innovative sono le più giovani, che sostitui­ scono quelle in declino. È rarissimo che un'impresa «sal­ vata» si rigeneri e diventi un grande innovatore. - 78 -

4. Riformare il mercato del lavoro è di sinistra

Perché l'Italia riprenda a crescere occorre lasciar ope­ rare la «distruzione creativa» e difendere i lavoratori, non i posti di lavoro. Questo non solo aumenta l'efficienza ma riduce i privilegi dei lavoratori anziani a vantaggio dei giovani, quelli delle imprese già sul mercato e pro­ tette a vantaggio di potenziali nuovi entranti, premia la meritocrazia e non le rendite di posizione, insomma que­ sto sì è di sinistra.

5 Ridurre la spesa pubblica è di sinistra

Un secolo fa in Europa il settore pubblico costituiva me­ no del 10 per cento del Pii. Lo Stato spendeva quasi esclu­ sivamente per garantire la sicurezza internazionale e quel­ la interna. Se si tralasciano i periodi bellici, la spesa pub­ blica rimase relativamente bassa fino agli anni sessanta. Non vi è dubbio che nel 1920, o nel 1950, chiedere che lo Stato garantisse più sostegno ai poveri e stanziasse più fondi per la sicurezza sociale fosse di sinistra. Oggi gli stati dell'Europa continentale spendono (e tassano) per circa il 50 per cento del Pii. È ancora di sinistra chiede­ re che lo Stato continui a spendere denaro pubblico e opporsi ai tagli della spesa, e quindi a un alleggerimen­ to della pressione fiscale? Secondo noi non lo è. Guardiamo ai fatti. Il nostro Stato spende il 48,2 per cento del Pil, 4 punti di Pil in più della Gran Bretagna. E tuttavia quando si tratta di aiutare le famiglie è molto meno efficace. In Gran Bretagna, prima dell'intervento di varie forme di assistenza pubblica, le famiglie a rischio - 81 -

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di povertà sono 26 su 100; l'intervento dello Stato le ri­ duce a 18. In Italia le famiglie vicine alla soglia di povertà sono un po' meno, 22 anziché 26 su 100 (dati Eurostat, 2003), ma lo Stato riesce ad aiutarne solo 3. Anche la Francia fa meglio di noi: sposta 6 famiglie su 26. In Sve­ zia lo Stato spende di più: il 56 per cento del Pil, quasi 8 punti in più che in Italia. Ma in Svezia lavorano 8 don­ ne su 10, in Italia meno di 6. Poiché tante donne svede­ si lavorano, lo Stato riesce a finanziare uno straordinario livello di spesa pubblica con aliquote relativamente bas­ se: in una famiglia in cui lavorino in due, uomo e donna, a parità di reddito, l'aliquota sui redditi della donna (in regime di tassazione separata) è pari al 28 per cento: in Italia è il 39 per cento (dati Ocse, 2001). Dove finisce allora tutto il denaro che spendono le no­ stre amministrazioni pubbliche, se non aiuta i poveri e disincentiva il lavoro delle donne con aliquote troppo al­ te, che non le motivano a entrare e rimanere nel merca­ to del lavoro? In Italia la maggior parte della spesa se ne va per pa­ gare gli stipendi dei dipendenti pubblici e per le pensio­ ni. È impossibile pensare di poterla ridurre senza «toc­ care» questi due beneficiari principali. E infatti la sini­ stra conservatrice insorge non appena si sfiora l'argo­ mento, accusando chi propone tagli di spesa in questi settori di essere un «macellaio sociale» (espressione pes­ sima, ma che non abbiamo coniato noi), affamato di li­ berismo estremo. È una posizione con la quale eviden­ temente non siamo per nulla d'accordo. - 82 -

5. Ridurre la spesa pubblica è di sinistra

Cominciamo dai dipendenti pubblici: 3 ,5 milioni, il 15 per cento di tutti i lavoratori. Passandoli in rassegna si scopre che quelli che lavorano negli ospedali, nella po­ lizia, nelle forze armate, nell'amministrazione della giu­ stizia (comprese le carceri), nelle scuole e nelle universi­ tà sono solo 76 ogni 100. Gli altri 24 sono impiegati al­ trove, in nessuna di queste attività essenziali. Nel luglio del 2006, il ministro dell'Economia Tom­ maso Padoa-Schioppa aveva detto che la Finanziaria avrebbe affrontato il problema del pubblico impiego con «riforme radicali, non con tagli i cui effetti presto svani­ scono». Da cinque anni le retribuzioni lorde dei dipen­ denti pubblici crescono un punto all'anno in più di quel­ le del settore privato, e non ci risulta che la produttività dei dipendenti pubblici giustifichi quel divario. Negli an­ ni novanta la spesa per i dipendenti pubblici era stata ri­ dotta dal 12 al 10,5 per cento del Pil; ora è risalita all' 11. «Da anni la spesa corrente delle pubbliche amministra­ zioni schiva i ripetuti, multiformi tentativi di porvi un freno» scrive la Corte dei Conti. «Un'analisi condivisi­ bile» ha commentato Tommaso Padoa-Schioppa. Ci au­ guriamo ·che quando il ministro terminerà il suo manda­ to, la Corte dei Conti possa esprimere un parere diver­ so, anche se per il momento non c'è alcun elemento che faccia ben sperare. Anzi: a fine maggio 2007 un accordo tra governo e sindacati ha concesso a ciascun impiegato pubblico un aumento mensile di 101 euro, retroattivo da febbraio, e ha prolungato il contratto da due a tre anni. Una concessione che costerà all'erario due miliardi e mez- 83 -

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zo di euro (0, 16 per cento del Pil) nel 2008 e mezzo mi­ liardo in ciascuno degli anni successivi. Nel 2007 si è di­ scusso a lungo su come spendere il cosiddetto «tesoret­ to»: la decisione è stata quella di usare una parte di quel­ le risorse per aumentare gli stipendi dei dipendenti pub­ blici - «nullafacenti» di Pietro Ichino compresi. Un da­ to interessante: nel 2003 le giornate di malattia retribui­ te dei dipendenti pubblici sono state 40. 100.000, cioè 11,9 giorni per ciascuno dei 3.450.000 dipendenti pub­ blici a tempo indeterminato. Questa è una media: poi­ ché ci sono molti impiegati pubblici coscienziosi, imma­ ginatevi quanti giorni di malattia hanno preso i «fannul­ loni» di Pietro Ichino. Se l'analisi della Corte dei Conti era «condivisibile», come mai il ministro dell'Economia ha firmato il nuovo contratto? L'impiego pubblico è anche servito - e continua a ser­ vire - come un sistema perverso e nel lungo periodo con­ troproducente per sostenere il Mezzogiorno. In relazio­ ne alla popolazione, gli impiegati pubblici sono più nu­ merosi al Sud che al Nord: limitandoci agli impiegati del­ lo Stato, ve ne sono 4,3 per 100 abitanti in Trentino e Lombardia, 6 in Sicilia, 6,8 in Calabria e Sardegna, 7 ,5 nel Molise. Percepiscono tutti lo stesso stipendio, no­ nostante al Sud il costo della vita sia molto più basso. An­ che se l'Istat non pubblica statistiche complete sulle dif­ ferenze nel costo della vita tra le diverse località italiane, alcuni studi stimano che la differenza media del costo della vita tra Nord e Sud si aggiri intorno al 20-30 per cento. Pertanto, a parità di salario nominale, il potere - 84 -

5. Ridurre la spesa pubblica è di sinistra

d'acquisto dei salari pubblici è molto più alto al Sud. Questo produce due effetti. Innanzitutto nel Mezzo­ giorno è più difficile per il settore privato competere con gli stipendi pubblici, che sono relativamente elevati in termini reali. E a un lavoratore, o aspirante tale, convie­ ne aspettare anche per anni un impiego pubblico piut­ tosto che accettare stipendi più bassi nel settore privato. È evidente quindi che al Sud la presenza del settore pub­ blico ostacola l'economia privata e quindi lo sviluppo. Uno studio di uno di noi (Alesina) insieme a due eco­ nomisti del Fondo Monetario Internazionale (Massimo Rostagno e Stephan Danninger), che risale ad alcuni an­ ni fa, calcola che nel Mezzogiorno tra un terzo e la metà del monte salari pubblici si può considerare un trasferi­ mento dal Nord al Sud. Owero: se il numero di impie­ gati pubblici, in rapporto alla popolazione totale del Sud, fosse pari a quello del Nord, e se i salari in termini reali fossero pari a quelli del Nord, il monte salari pubblici del Sud sarebbe circa la metà di quello attuale. Sussidia­ re il Sud facendo soprawivere occupazioni improdutti­ ve ed elargendo con grande liberalità pensioni di invali­ dità co�e sussidio permanente alla disoccupazione, non è certo il sistema migliore per affrancarlo dal suo stato di dipendenza economica. Se la reazione della sinistra conservatrice di fronte a queste critiche è chiudersi a riccio e ostinarsi nella dife­ sa di un meccanismo malato, la destra è tutt'altro che di­ sposta a cambiare le cose. Due anni fa, l'allora ministro dell'Economia Giulio Tremonti si rifiutò di avallare un - 85 -

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ricco contratto per i dipendenti pubblici e su richiesta di Alleanza nazionale venne «licenziato». Come dimostra­ no gli aumenti salariali concessi dal governo Prodi, i sin­ dacati dell'impiego pubblico hanno appoggi sia a destra che a sinistra: ecco uno dei tanti temi su cui Alleanza na­ zionale e l'estrema sinistra sono perfettamente d'accor­ do e governerebbero benissimo insieme. Perché i dipendenti pubblici hanno un tale potere? Il motivo è semplice: il settore pubblico è fortemente sin­ dacalizzato e costituisce lo zoccolo duro di molte orga­ nizzazioni sindacali. Invece il loro datore di lavoro, lo Stato, è particolarmente debole nel far valere le proprie esigenze di efficienza e produttività: per accontentare i sindacati del pubblico impiego basta infatti aumentare un po' le imposte sui cittadini, proprio come è accaduto nella Legge finanziaria per il 2007. Non solo: se si mani­ festa un aumento inatteso delle entrate fiscali, come nel 2007, il governo si precipita a destinarne una parte a ge­ nerosi aumenti per i dipendenti pubblici. Si awerte spesso un senso di rassegnazione di fronte alla constatazione che il numero di dipendenti pubblici non possa diminuire per via della loro illicenziabilità. Tut­ tavia, anche volendo rimanere all'interno delle regole at­ tuali, che pure non sono immutabili e andrebbero cam­ biate introducendo la facoltà di licenziare, è possibile fa­ re qualcosa. Il suggerimento più intelligente lo ha dato il professor Nicola Rossi, economista e deputato - un ri­ formista che, non a caso, nel gennaio 2007 ha dato un se­ gnale di forte disagio annunciando le proprie dimissioni - 86 -

5. Ridurre la spesa pubblica è di sinistra

dai Ds. Rossi ha proposto di mandare in pensione anti­ cipata 100.000 dipendenti pubblici su un totale di qua­ si 3 milioni e mezzo, e di sostituirne due su dieci con nuo­ vi assunti giovani. Poiché una pensione costa allo Stato il 65 per cento del salario di un dipendente pubblico, si risparmierebbe anche se i nuovi assunti fossero tre per ogni dieci prepensionati. O, meglio ancora, si potrebbe assumerne solo uno per ogni dieci pensionati, ma più istruito e pagandolo il doppio: si continuerebbe a ri­ sparmiare, rafforzando però l'efficienza della pubblica amministrazione. La proposta è molto diversa dal semplice blocco del turnover che da dieci anni ogni governo si impegna a rea­ lizzare, con il risultato che in questo lasso di tempo il nu­ mero dei dipendenti pubblici non è sostanzialmente cam­ biato, mentre la loro età media è sensibilmente salita. L'o­ biezione che una misura simile solleverebbe è prevedi­ bile: «Non si può obbligare nessuno ad andare in pen­ sione anticipata». Ma se questo vale nel privato, non si capisce perché non debba valere anche nel pubblico. Inoltre, rispetto a un metalmeccanico che lavora 40 ore settimanali, è più probabile che un dipendente pubbli­ co che ne lavora solo 36 ed esce dall'ufficio alle 13 .45 ab­ bia un secondo lavoro e quindi soffra meno di un even­ tuale prepensionamento. Per dare il buon esempio il governatore della Banca d'Italia ha giustamente richiamato il governo sul tema della spesa pubblica. Al 3 1 dicembre 2006, la Banca d'I­ talia aveva 7.548 dipendenti, 409 in meno di un anno pri- 87 -

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ma e 1.782 in meno rispetto a dieci anni fa. E tuttavia la Banca continua ad avere - nonostante alcune funzioni importanti siano state trasferite alla Bee e all'Antitrust un numero relativamente molto elevato di dirigenti: 138 per ogni milione di cittadini, contro 63 per milione in Spagna (un paese dove la Banca Centrale svolge le me­ desime funzioni che in Italia), 104 in Olanda, ma meno che in Francia (220 per ogni milione di abitanti). Dei 7.548 dipendenti della Banca d'Italia, una metà (3 .667) lavora in filiali sparse un po' dovunque in Italia e delle quali non si comprende bene l'utilità. I dipendenti della Banca d'Italia sono anche pagati relativamente bene. Il rapporto tra il salario medio di un dipendente della Ban­ ca d'Italia e quello di un occupato nell'industria è 2,8. Si tratta di uno dei rapporti più elevati nei paesi Ocse: il rapporto è infatti 1,9 in Svezia per la Riksbank, 1,7 per la Banca Centrale danese, 2,3 per quella spagnola, 1,4 per la Bank of England. Come molte altre amministrazioni pubbliche, anche la Banca d'Italia è invecchiata (l'età media del persona­ le è di 47 ,8 anni) e ha rallentato il ritmo di assunzioni, soprattutto di economisti giovani e brillanti. I suoi di­ pendenti godono anche di pensioni tra le più alte d'Ita­ lia. Un po' di prepensionamenti sarebbero opportuni. Mentre il prepensionamento sarebbe particolarmen­ te vantaggioso per gli impiegati pubblici più anziani, la riforma degli ammortizzatori sociali descritta nel capi­ tolo 4 renderebbe possibile superare anche il divieto di licenziamento dei dipendenti pubblici, così come di quel- 88 -

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li privati. L'eventuale periodo temporaneo di disoccu­ pazione sarebbe finanziato da sussidi, sospesi non appe­ na l'ex dipendente pubblico trovasse un altro impiego. Questa soluzione costerebbe allo Stato molto meno che mantenere impiegati pubblici in eccesso fino all'età pen­ sionabile. E parliamo allora di pensioni. L'Italia spende per le pensioni pubbliche quasi il 16 per cento del Pii, oltre 3 punti più della già alta media europea. L'Istat ha calco­ lato che il deficit pensionistico si sta pericolosamente av­ vicinando ai 900 euro a testa, neonati e immigrati inclu­ si. Il nostro paese soffre quindi in modo acuto di una ma­ lattia purtroppo comune a molte nazioni industriali: l'in­ sostenibilità dei sistemi previdenziali a causa di un an­ damento demografico awerso e della generosità delle passate promesse, che comporta aliquote contributive elevate che frenano occupazione e crescita. Dal 1992 a oggi, sono state varate varie riforme del si­ stema previdenziale, senza mai conferire loro un asset­ to stabile. La riforma attuata dal governo Dini nel 1995 prevede_ il passaggio al sistema contributivo: le pensioni cioè dipenderanno da quanto un lavoratore ha contri­ buito durante la sua vita lavorativa. Una soluzione che va nella direzione giusta, ma che ha due difetti gravi. In­ nanzitutto la riforma Dini andrà a regime fra vent'anni: prima di allora milioni di lavoratori continueranno a per­ cepire pensioni non correlate con quanto hanno contri­ buito. In secondo luogo i parametri che trasformano un certo ammontare di contributi in un vitalizio (la pensio- 89 -

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ne appunto) si sarebbero dovuti rivedere ogni dieci an­ ni (quindi una prima volta nel 2005 ) per adattarli all'al­ lungamento dell'aspettativa di vita. È evidente che se si vive, in media, fino a 85 anni, il vitalizio, per un dato am­ montare di contributi, non potrà essere uguale a quello che si percepiva quando si viveva (in media) solo fino a 75 anni. Dal 1995 - anno in cui fu approvata la riforma Dini - a oggi la vita media è aumentata di 2 anni (l'a­ spettativa di vita a 60 anni è aumentata da 20 a 22 anni per gli uomini e da 24 a 26 per le donne), ma i sindaca­ ti si erano finora rifiutati di rivedere i parametri. In ogni altro paese la determinazione di questi parametri è una questione tecnica, delegata ai demografi e agli esperti di calcolo attuariale. In Italia è una decisione politica; peg­ gio, è una decisione che richiede l'accordo dei sindaca­ ti. Nel luglio scorso il governo ha concordato con i sin­ dacati una revisione dei parametri del metodo contri­ butivo. I nuovi coefficienti sono quelli proposti da una commissione tecnica, il Nucleo di valutazione della spe­ sa previdenziale. Tutto bene sembrerebbe. Ma leggen­ do l'accordo tra governo e sindacati si scopre (come han­ no osservato Tito Boeri e Agar Brugiavini su www.lavo­ ce.info) che la revisione potrebbe rivelarsi fittizia. Infat­ ti i sindacati hanno ottenuto che venisse istituita una commissione con il «compito di verificare e proporre modifiche» ai parametri indicati dal Nucleo di valuta­ zione. Delle due l'una: o gli esperti del Nucleo non san­ no fare i conti, oppure - dato che alla nuova commis­ sione parteciperanno anche rappresentanti dei sindaca- 90 -

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ti - i parametri saranno determinati con criteri politici, non demografici e attuariali. Al tavolo intorno al quale nell'estate del 2007 si è di­ scusso di riforma delle pensioni, il governo ha invitato so­ lo i sindacati. Ma che cosa sperava di ottenere dalla trat­ tativa con una controparte i cui iscritti sono per lo più la­ voratori già in pensione o prossimi alla pensione? Un go­ verno lungimirante avrebbe messo intorno a quel tavolo rappresentanze di giovani. Walter Veltroni quando si è candidato alla guida del Partito democratico ha citato Vit­ torio Foa, padre storico della sinistra italiana: «La destra è figlia legittima degli interessi egoistici dell'oggi. La si­ nistra degli interessi di coloro che non sono ancora nati. Dobbiamo essere conseguenti nell'uso del nostro tempo: dedichiamo almeno un'ora al giorno a discutere se si deb­ ba andare in pensione a 57, a 5 8 o a 60 anni, ma solo qual­ che secondo a progettare una risposta al fatto che conti­ nua ad aumentare il numero dei bambini che vivono in famiglie al di sotto della linea di povertà relativa. C'è un patto fra le generazioni che dobbiamo avere il coraggio di non dimenticare». Forse questa è la sinistra che sogna Walter Veltroni, non quella rappresentata nel governo Prodi che ha accettato la richiesta dei sindacati e ha can­ cellato la legge Maroni. Nell'attesa che (fra vent'anni) en­ tri in vigore il metodo contributivo, quella legge stabiliva precisi limiti d'età per andare in pensione: non prima dei 60 anni e non con meno di 35 anni di contributi. «Non si poteva rischiare uno sciopero generale» ha detto Prodi. Si osservi: contro una legge già in vigore, non contro una - 91 -

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proposta rivoluzionaria. E perché no? Perché non co­ gliere l'occasione per spiegare al paese che non è di sini­ stra difendere gli anziani a scapito dei giovani, e che è im­ possibile rimandare una (per giunta modesta) riforma del1'età pensionabile? E invece l'età minima è stata abbassa­ ta da 60 a 58 anni e anche Veltroni ha detto che è stata una buona riforma. Romano Prodi sembra seguire una legge non scritta per cui uno sciopero generale equivale alla caduta del go­ verno: questo significa che la lobby dei lavoratori anzia­ ni e dei pensionati controlla il futuro politico del nostro paese. Se Margaret Thatcher si fosse comportata come Prodi, oggi l'Inghilterra sarebbe un paese in costante de­ clino. Non solo: il cedimento di Prodi sulle pensioni da­ rà nuovo vigore alle altre lobby: si convinceranno che per ottenere quanto vogliono basta minacciare di bloccare strade, aerei, trasporti urbani, esami scolastici di fine an­ no e di chiudere le farmacie. Questi dibattiti su scaloni e scalini non devono però far perdere di vista il punto centrale: l'unico modo per ri­ solvere in maniera definitiva le difficoltà previdenziali soprattutto in un paese come l'Italia in cui la popolazio­ ne non cresce - è passare dai sistemi pay as you go a quel­ li /ully /unded. Dei primi fa parte l'attuale sistema italia­ no, messo a punto in anni in cui la popolazione cresce­ va rapidamente. In un sistema pay as you go chi lavora paga con i propri contributi (e anche con qualche im­ posta) la pensione a chi non lavora più, nella speranza - 92 -

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che i giovani di domani siano in grado di ricambiare il favore. Oggi però, con una popolazione che non cresce più ai ritmi di una volta, questa scelta si sta rivelando sempre più problematica. I sistemi /ully /unded, invece, prevedono che ognuno, mediante periodiche trattenute sul proprio stipendio, accantoni un fondo che servirà al momento del suo ritiro dalla forza lavoro. Questi fondi personali vengono gestiti privatamente e il lavoratore può scegliere la modalità che preferisce, al fine di ottenere rendimenti adeguati. I sistemi /ully /unded sono diversi dal metodo contributivo previsto dalla riforma Dini. Lì il lavoratore continua a percepire una pensione pubbli­ ca, seppur rapportata a quanto ha contribuito. Nei si­ stemi fully /unded invece il lavoratore gestisce i suoi ri­ sparmi investendoli liberamente. I sistemi /ully /unded risolverebbero tutti i problemi di finanziamento pubbli­ co delle pensioni e renderebbero ciascuno «padrone» dei propri risparmi pensionistici. Un'obiezione nasce spontanea: i lavoratori potrebbe­ ro non risparmiare abbastanza e arriverebbero così al momento della pensione senza un capitale sufficiente per la lunga vecchiaia. Può essere, ma basterebbe introdur­ re incentivi fiscali al risparmio pensionistico, come quel­ li in vigore negli Usa (che pure non hanno un sistema completamente/ully /unded) , dove il reddito investito in fondi pensione può essere, entro certi limiti, dedotto dal­ l'imponibile, rimandando la tassazione al momento in cui si riceverà la pensione. Come testimoniano alcune ri­ cerche, è sufficiente che al momento dell'assunzione il - 93 -

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lavoratore sia inserito automaticamente in un piano di trattenute salariali da destinare ai fondi pensione priva­ ti, perché il lavoratore stesso continui, quasi per inerzia, nel piano di accumulo. Studi del professor David Laib­ son di Harvard e di suoi coautori hanno dato esiti del tutto inaspettati. Ci sono due possibilità al momento del1'assunzione. La prima consiste nel chiedere al lavorato­ re se vuole destinare una quota del suo stipendio a un fondo pensione. L'altra è non chiedere nulla e detrarre automaticamente una quota per il fondo pensione, la­ sciando ovviamente al lavoratore la facoltà di interrom­ pere questo meccanismo in qualsiasi momento, inter­ rompendo così l'accumulo del fondo. Ebbene, questa piccola differenza sembra avere implicazioni molto gran­ di: quando un nuovo assunto entra automaticamente in un piano pensione, poi vi rimane. Se invece gli si chiede se vuole partecipare al fondo, spesso risponde di no, «ab­ bagliato» dal maggiore reddito corrente e sottovalutan­ do la necessità di risparmiare per la pensione. È eviden­ te quindi che attraverso opportune scelte, alcune molto semplici, si possono creare gli incentivi giusti perché la gente risparmi. Un'altra obiezione ai sistemi/ully /unded è che le per­ sone potrebbero commettere errori di investimento, sper­ perando il proprio fondo pensione. È vero che molti cit­ tadini hanno scarsa dimestichezza con nozioni di finanza anche molto semplici. La ricerca di un'economista italia­ na, Annamaria Lusardi dell'Università di Dartmouth, pro­ va che una buona metà dei danesi (tra i più istruiti in Eu- 94 -

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ropa) e degli statunitensi non distingue tra un tasso di in­ teresse reale e uno nominale, non sa che cosa sia un tas­ so di interesse composto e, fatto ancor più grave, non ca­ pisce che investire in un solo titolo azionario è più ri­ schioso che diversificare. Si potrebbero, però, porre dei vincoli al tipo di impiego del risparmio pensionistico, per esempio vietando di destinarlo ali' acquisto di azioni di una singola società. Inoltre, al momento dell' awio del proprio piano pensionistico si potrebbe impartire al la­ voratore un breve corso di finanza. Così come si insegna il codice della strada, gli si fornirebbero i rudimenti del­ la finanza, di sicuro più semplici di quelli automobilisti­ ci (il sito www.lavoce.info si appresta a offrire un corso on line designato proprio a questo scopo). E ancora: come garantire una pensione a chi è trop­ po povero per accumulare risparmi sufficienti? Si può affiancare al sistema a capitalizzazione privato che ab­ biamo illustrato sopra, un sistema pubblico di pensioni minime, che costerebbe alle casse statali una piccola fra­ zione degli attuali oneri. Molti dei sistemi pensionistici odierni producono re­ distribuzioni di reddito occulte: nelle intenzioni dai più ricchi ai meno ricchi; in realtà, si sono spesso prodotti flussi redistributivi confusi e non sempre nella direzione «giusta». Inoltre, se una redistribuzione va effettuata, è bene si faccia in modo palese con la curva delle aliquo­ te dell'Irpef, senza coinvolgere il rapporto tra genera­ zioni e compromettere la solvibilità di lungo periodo del sistema previdenziale.

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Certo, la transizione da un sistema a ripartizione, co­ me il nostro, a uno a capitalizzazione non è semplice, in quanto una generazione dovrebbe cominciare a rispar­ miare per la propria vecchiaia e al tempo stesso conti­ nuare a pagare le pensioni degli anziani. Non ci sono so­ luzioni magiche. Ma perché non utilizzare a questo fine il «tesoretto», invece di sprecarlo per aumentare gli sti­ pendi dei dipendenti pubblici? La generazione che oggi lavora ha il dovere morale di non scardinare il sistema pensionistico, altrimenti i nostri figli pagheranno la pen­ sione a noi, ma non ne riceveranno una decente. È di si­ nistra favorire questa generazione a svantaggio di quelle future? Oltre che dai salari dei dipendenti pubblici e dalle pensioni, la riduzione della spesa pubblica deve passare anche dagli sprechi perpetrati quotidianamente dalla po­ litica, ciò che oggi è di moda chiamare, con un eufemi­ smo, «i costi della politica». Per renderci conto più da vicino di come lo Stato getti al vento il pubblico denaro può essere utile soffermarsi su due esempi illuminanti. Il primo riguarda «i ministri di spesa», che sono evidente­ mente troppi e con il governo Prodi sono ulteriormente aumentati. Un ministro di spesa, per giustificare la pro­ pria esistenza deve, per l'appunto, spendere. I trasporti per esempio sono parte integrante delle infrastrutture e invece in Italia i due dicasteri sono separati. Quindi il mi­ nistro dei Trasporti cercherà di investire il più possibile nell'ambito dei trasporti, non curandosi dei «trade off» tra trasporti e altre infrastrutture, di cui non si occupa. - 96 -

5. Ridurre la spesa pubblica è di sinistra

Lo stesso vale per il ministero della Sanità che dovrebbe far parte del Welfare. Per Istruzione e Ricerca sarebbe stato sufficiente un solo ministero invece che due. Le Pa­ ri Opportunità (tra uomo e donna) riguardano il mondo del lavoro e le discriminazioni nell'occupazione: perché non fondere i due ministeri? Più ministri ci sono in un governo, più aumentano le pressioni sulla spesa. Per un'owia ragione: un ministro con competenze estese può pensare a come fare economia in un'area per dedicare più risorse a un'altra. Con tanti ministeri separati invece ci sono minori incentivi a risparmiare e a decidere una scala di priorità. Per non parlare poi di un semplice ef­ fetto numerico: all'interno del governo 25 ministri che vogliono spendere sono più difficili da controllare di 10. Nel primo governo Prodi, nel 1996, c'erano 20 ministe­ ri e la riforma Bassanini approvata da quel governo li ave­ va ridotti a 12 dicasteri con portafoglio. Nel secondo go­ verno Prodi i dicasteri con potere di spesa sono 18. Un altro capitolo esemplare di spreco di denaro pub­ blico riguarda la giustizia e proviene da uno studio di An­ drea Ic4ino dell'Università di Bologna. In una città ita­ liana che non menzioneremo, vi sono 28 giudici di pace. Una carica sempre più importante nel nostro paese per l'amministrazione della giustizia civile: nel 2004 il nu­ mero di cause affidate a giudici di pace è stato di 1,3 mi­ lioni, contro 2,5 milioni affidate a giudici ordinari. I 28 giudici studiati dal professor !chino hanno un carico di lavoro molto simile tra loro sia per il numero che per il tipo di cause loro affidate, cosa che non deve sorpren- 97 -

Il liberismo è di sinistra

dere perché il tribunale assegna le cause ai giudici in mo­ do volutamente casuale. E tuttavia questi 28 giudici non si comportano tutti nello stesso modo. Nel biennio 2003 2005 per emettere un decreto ingiuntivo alcuni hanno impiegato un tempo tre volte superiore a quello di altri. Capita spesso che un'udienza venga rinviata senza preav­ viso, semplicemente attaccando un biglietto scritto a ma­ no sulla porta dell'aula il mattino dell'udienza. Quando questo accade, due dei nostri giudici rinviano l'udienza in media di 50 giorni, tre di 40; altri invece di meno di 20 giorni. Nei casi di cognizione ordinaria il giudice più lento lascia trascorrere 120 giorni tra un'udienza e la suc­ cessiva; il suo collega più veloce solo 40 giorni. Sarà sicuramente vero che i nostri tribunali soffrono per la penuria di risorse: non ci sono i computer, scar­ seggiano i cancellieri, gli archivi sono preistorici e così via. Ma se i nostri 28 giudici si comportassero tutti come i loro colleghi più efficienti le cause in quella città po­ trebbero durare, in media, la metà del tempo, senza spen­ dere un euro in più. E se ci fosse qualche giudice «fan­ nullone» di meno, si potrebbe anche dotare quel tribu­ nale di qualche computer in più. I giudici «fannulloni» potrebbero obiettare che sono sì più lenti, ma le loro sentenze sono più meditate. In­ somma, non è scontato che accelerare i tempi del primo grado sia sempre un bene. Per vedere se questo sia vero si potrebbe contare quante delle loro sentenze sono cam­ biate in un successivo grado di giudizio. Purtroppo è mol­ to difficile saperlo. Quando un procedimento passa da - 98 -

5. Ridurre la spesa pubblica è di sinistra

un grado di giudizio a un altro il fascicolo cambia nu­ mero e rintracciarlo diventa pressoché impossibile. Nelle nostre pubbliche amministrazioni manca la cul­ tura della trasparenza e i dati o non si raccolgono o si buttano, caso mai qualcuno in seguito voglia consultar­ li. Partire dall'alto, studiando i dati della Ragioneria ge­ nerale dello Stato, non è il metodo più efficace per ren­ dersi conto di come lo Stato getti denaro al vento. C'è un modo più efficace e consiste nell'osservare l'esempio del nostro tribunale e obbligare tutte le amministrazio­ ni a raccogliere e rendere pubblici i dati: per esempio, i tempi di espletamento delle pratiche. In pochi anni ana­ lisi come quella che abbiamo appena illustrato fiorireb­ bero spontaneamente senza spendere un centesimo e, tra l'altro, sarebbe anche un modo per finanziare buo­ na ricerca a costo zero. D'altronde così avviene in Gran Bretagna e nei paesi nordici, dove l'efficienza della spe­ sa pubblica non è controllata dai ministri ma diretta­ mente dai cittadini attraverso le informazioni cui hanno quotidianamente accesso. A questo proposito, uno stu­ dio effettuato in Inghilterra da uno studente di dotto­ rato di Harvard, John Friedman, è piuttosto istruttivo. Semplicemente pubblicando i dati sull'efficienza del ser­ vizio di pronto soccorso di tutti gli ospedali inglesi - tempo di attesa e successo nel trattamento del malato il servizio è migliorato in modo straordinario. L' aggiun­ ta di piccoli incentivi finanziari (costati ben poco allo Stato) ne ha aumentato ulteriormente l'efficienza. Non è un obiettivo di sinistra garantire cure adeguate a tut- 99 -

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ti, soprattutto a chi, meno abbiente, è obbligato a ser­ virsi del sistema sanitario pubblico? Infine, vi è un'altra obiezione spesso impugnata sia dalla sinistra conservatrice sia da qualche economista key­ nesiano molto tradizionale, owero che ridurre la spesa pubblica provocherebbe una recessione, facendo au­ mentare la disoccupazione - mentre, per converso, au­ mentare la spesa agevolerebbe la crescita e l'occupazio­ ne. Secondo questa tesi, se si sta attraversando un pe­ riodo di espansione economica non bisogna compro­ metterlo riducendo la spesa, e se si attraversa una fase di recessione, non la si può aggravare. Insomma, non è mai il momento buono per ridurre la spesa pubblica. La realtà è ben diversa. Negli ultimi anni molti eco­ nomisti hanno studiato gli effetti di riduzioni di spesa e di tasse sull'andamento del ciclo economico e i risultati mostrano che tagli della spesa pubblica (specialmente quella destinata a sacche di improduttività, e ce ne sono tante in Italia) insieme a riduzioni del carico fiscale, fan­ no aumentare la crescita e diminuire la disoccupazione, non il contrario. Nei decenni più recenti molti paesi Ocse hanno dovuto affrontare il problema di come ri­ durre il debito pubblico e il deficit. L'esperienza mostra che chi ha ridotto le spese e le imposte (sebbene le se­ conde influiscano meno delle prime sulla riduzione del deficit) non ha compromesso la crescita. Quei paesi che invece hanno ridotto il deficit aumentando le imposte senza ridurre la spesa, hanno sofferto in termini di una diminuzione della crescita del Pil. L'Italia è in questo se- 100 -

5. Ridurre la spesa pubblica è di sinistra

condo gruppo. Il riaggiustamento fiscale che dai primi anni novanta in poi ha permesso al nostro paese di en­ trare nell'euro, riducendo i deficit pubblici e bloccando la crescita del debito, è awenuto pressoché esclusiva­ mente tramite aumenti delle imposte. Questo è uno dei motivi che hanno determinato la scarsa crescita dell'e­ conomia italiana nell'ultimo decennio, inferiore alla già deludente media europea. Non solo: se non si pone un freno alla crescita automatica di numerose voci di spesa, soprattutto pensioni e pubblico impiego, prima o poi neppure le tasse (che tra il 2001 e il 2007 sono salite dal 45 al 46,4 per cento del Pil) riusciranno a far fronte a spe­ se via via crescenti. Un aggiustamento fiscale duraturo richiede pertanto che si metta mano ai meccanismi del­ la spesa corrente, come faceva notare del resto la stessa Corte dei Conti. Ma allora perché questa insistenza sugli effetti ne­ gativi che le riduzioni di spesa pubblica avrebbero su crescita e occupazione? Il motivo è strategico. Tutti co­ loro che non vogliono ridurre la spesa pubblica per i motivi elencati sopra, e che nulla hanno a che fare con il ciclo ecoriomico, hanno interesse a sventolare lo spau­ racchio della recessione per spaventare l'opinione pub­ blica, cosicché anche coloro che sarebbero potenzial­ mente favorevoli a contenere la spesa per motivi di ef­ ficienza ed equità si preoccupino per la recessione. Non riuscendo a contenere la pressione (e i contributi) del­ le lobby che «assaltano la diligenza» del bilancio pub­ blico, i politici si trincerano dietro la scusa del ciclo eco- 101 -

Il liberismo è di sinistra

nomico, mascherando così la loro incapacità di frenare l'aumento della spesa. Durante il quinquennio del go­ verno Berlusconi la spesa pubblica è aumentata di 3 punti, dal 47 ,4 per cento del Pii nel 2000 al 50,5 al 2006: non ci risulta che la crescita economica ne abbia tratto alcun beneficio!

6 Il capitalismo di Stato non è di sinistra

Uno Stato liberista non è uno Stato debole. Tutt'altro. È uno Stato forte nel far rispettare le regole del mercato: divieto a posizioni dominanti, cioè a monopoli veri e di fatto, per impedire che si creino rendite monopolistiche a danno dei consumatori; trasparenza nei mercati finan­ ziari, per evitare che pochi si arricchiscano sfruttando in­ formazioni non disponibili a tutti. In uno Stato liberista le autorità preposte alla regolamentazione dei mercati (Antitrust, Consob, Autorità per l'Energia elettrica e il Gas, Autorità per le Comunicazioni ... ) sono forti e indi­ pendenti dalla politica. Su questo punto la sinistra italiana è sempre stata mol­ to più avanti della destra. Le nostre Autorità indipen­ denti sono frutto del centrosinistra migliore: Nino An­ dreatta, Giuliano Amato, Luigi Spaventa, Franco Bassa­ nini, Guido Rossi. La cultura di uno Stato regolatore, che affida il con­ trollo del mercato ad Autorità indipendenti, è lontana - 103 -

Il liberismo è di sinistra

mille miglia dall'ideologia della destra italiana. E in ef­ fetti, l'assenza di una concezione liberale dell'economia è la più grande delusione della Casa delle Libertà. In cin­ que anni di governo, i pochi liberisti che vi hanno mili­ tato - per esempio Antonio Martino e Benedetto Della Vedova - sono rimasti sempre in posizioni marginali e non hanno mai avuto la capacità di influenzare le scelte del governo di centrodestra. D'altronde Silvio Berlusco­ ni è un imprenditore cresciuto in settori protetti dalla concorrenza (edilizia, media, assicurazioni), in cui le Au­ torità danno fastidio e con lo Stato si negozia. Alleanza nazionale è un partito che ha le sue radici, e molti voti, tra i dipendenti dei grandi monopoli pubblici (Enel, Eni, Ferrovie) e che ha sempre avuto buoni rapporti con i ma­ nager delle aziende di Stato. La Lega tuona contro «Ro­ ma ladrona», ma quando Giulio Tremonti ha cercato di smantellare il capitalismo pubblico locale, obbligando comuni e province a cedere il controllo di autostrade, ae­ roporti e delle mille aziende pubbliche locali, la Lega lo ha bloccato in nome del «Giù le mani, che è roba no­ stra». Tuttavia anche a sinistra il principio di uno Stato re­ golatore viene spesso contraddetto. E non solo nella si­ nistra radicale, che dall'originario alveo marxista è ri­ fluita in una rivalutazione postuma delle partecipazioni statali e fatica ad accettare che la proprietà pubblica dei mezzi di produzione non abbia mai funzionato. In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera del marzo 2006, intitolato «Basta con lo Stato proprietario», - 104 -

6. Il capitalismo di Stato non è di sinistra

Romano Prodi espose la sua visione dei rapporti tra Sta­ to e imprese: «Porteremo lo Stato al ruolo che gli com­ pete in una moderna economia di mercato, quello del re­ golatore, non del proprietario. Renderemo più conten­ dibile e più aperto il mercato delle public utilities per ave­ re imprese efficienti e tariffe meno care». E sul ruolo del­ le Autorità, lo strumento attraverso il quale uno Stato moderno regola i mercati, lo stesso presidente del Con­ siglio aveva illustrato sul Sole 24 Ore dell'agosto 2005 un progetto di riforma ambizioso, volto a rendere il nostro sistema delle Autorità «più forte e più coerente». Ma già nel programma elettorale dell'Unione si pro­ spettava una visione più interventista: «La politica indu­ striale ha oggi un ruolo cruciale nel sostegno allo svilup­ po economico. Il nostro obiettivo è quello di creare un unico centro di responsabilità politica preposto a con­ trastare il declino dell'apparato produttivo italiano [sic!] , coordinato con i diversi livelli istituzionali di competen­ za nazionali e territoriali». Parole in cui risuona una vi­ sione dirigista, secondo la quale lo Stato dovrebbe pro­ muovere una politica industriale. E puntualmente il pri­ mo Documento di programmazione economico-finan­ ziaria del nuovo governo (Dpef) ha dedicato alle priva­ tizzazioni 5 righe su 160 pagine. Come se non bastasse, il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa ha spiegato che lo Stato non può vendere altre azioni di Enel; diversamente rischia di perdere il controllo della società (passi per Enel, ma chissà quale teoria giustifica la pro­ prietà pubblica di una stamperia come il Poligrafico del- 105 -

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lo Stato in un paese che ha un debito pari al 105 per cen­ to del Pii). Il motivo per cui le privatizzazioni sono condizione necessaria per un libero mercato è che uno Stato pro­ prietario è un pessimo regolatore. Se lo Stato è il mag­ gior azionista di Enel, o di Eni, avrà interesse a che que­ ste aziende facciano buoni profitti. Quindi avrà interes­ se a che la regolamentazione non sia troppo severa. C'è una contraddizione evidente tra proprietà pubblica e re­ golamentazione e le Autorità indipendenti possono por­ vi rimedio solo parzialmente perché lo Stato proprieta­ rio ha mille strumenti per influire sulla loro autonomia: al momento della nomina dei commissari, per esempio, o minacciando di privarle di alcune competenze - come è avvenuto durante il governo Berlusconi nel caso del1'Autorità per l'Energia elettrica e il Gas. In casi estremi il governo può anche ricorrere a un articolo, finora mai invocato, della legge che istituì l'Autorità antitrust. L'ar­ ticolo 25 di quella legge consente infatti al governo di au­ torizzare «per rilevanti interessi dell'economia naziona­ le» operazioni di concentrazione altrimenti vietate. In­ somma, il monopolista pubblico è più pericoloso di quel­ lo privato; mentre infatti il privato può cercare di influi­ re sulla politica per ottenere una regolamentazione a lui più favorevole, a uno Stato monopolista basta nominare alle Autorità qualche commissario amico. Ma perché la sinistra, anche quella realmente liberi­ sta, pur rendendosi conto di questa contraddizione, è spesso tanto ostile alle privatizzazioni? Illuminante è la - 1 06 -

6. Il capitalismo di Stato non è di sinistra

sfiducia che traspare da una dichiarazione di Linda Lan­ zillotta, ministro per gli Affari regionali e liberista con­ vinta, che ha costruito la sua reputazione portando in porto le privatizzazioni del Comune di Roma. Com­ mentando il suo disegno di legge per la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, ha dichiarato al Sole 24 Ore del 20 maggio 2007: «C'è una cultura di servizio pub­ blico nelle aziende di proprietà degli enti locali che non va dispersa. D'altra parte, si è visto che i privati non sem­ pre sono stati all'altezza quando si è trattato di gestire servizi pubblici. Il nostro capitalismo ha un'esperienza radicata nel settore manifatturiero, ma non ha dato an­ cora il meglio nei servizi pubblici». È vero che i nostri imprenditori privati, in particola­ re quando operano nel settore dei servizi (telefoni, ener­ gia elettrica, autostrade), sembrano spesso privilegiare la rendita rispetto ai progetti industriali. Se la famiglia Agnelli non avesse cercato di rifugiarsi prima nelle assi­ curazioni e nei telefoni e poi nel mondo ben protetto del1'energia, entrando in Edison, e avesse continuato a in­ vestire nell'auto - oppure avesse venduto l'azienda di fa­ miglia quando ancora guadagnava - la Fiat non sarebbe arrivata così vicina al tracollo. Il capitalismo italiano ap­ pare spesso incerto, incapace di rinnovarsi, poco prepa­ rato a confrontarsi con un mercato che oggi è sempre più difficile proteggere. Forse non è un caso che le nostre aziende di maggior successo siano quelle cresciute al di fuori del circuito pubblico, come per esempio Luxotti­ ca, un'azienda che ha sempre venduto più all'estero che - 107 -

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in Italia, e comunque mai allo Stato, che si è quotata in Borsa a New York prima che a Milano. Tuttavia, anziché limitarsi a puntare il dito contro i numerosi limiti del nostro capitalismo, sarebbe più uti­ le chiedersi quale ne sia l'origine, perché i nostri im­ prenditori sono tanto diversi dai capitalisti anglosasso­ ni. «Non le pare che anche il capitalismo privato nella prima Repubblica non abbia funzionato?» A questa do­ manda l'avvocato Agnelli rispondeva (Corriere della Se­ ra, 20 febbraio 1996): «Certamente. Diciamo che gli an­ ticorpi non hanno funzionato. Ma dovevamo scendere a patti con i politici e con l'impresa pubblica. Se in Ita­ lia, dopo cinquant'anni, la Fiat non è finita all'Iri o in mani estere è già un miracolo». A ben pensarci non si è trattato di un miracolo, ben­ sì della degenerazione del rapporto tra Stato e imprese private che in Italia ha radici lontane. Negli anni sessan­ ta, dopo la nazionalizzazione delle aziende elettriche, si saldò tra lo Stato e i grandi gruppi industriali privati un contratto implicito: i privati delegarono allo Stato la rea­ lizzazione di grandi progetti di investimento, e il peso delle aziende pubbliche nell'economia raddoppiò; in cambio lo Stato garantiva ai privati ampie protezioni dal­ la concorrenza internazionale, non tanto attraverso re­ strizioni esplicite degli scambi (che pur sopravvissero si­ no alla fine degli anni ottanta nel mercato finanziario, e in alcuni casi continuano ancor oggi, come testimonia la quota sulle importazioni di automobili giapponesi), ma soprattutto attraverso la politica degli appalti pubblici - 108 -

6. Il capitalismo di Stato non è di sinistra

riservati alle imprese nazionali. Il Mose di Venezia per esempio, una delle maggiori opere pubbliche mai realiz­ zate in Italia, è costruito da imprese tutte italiane, con una procedura che è riuscita a eludere le norme europee sulle gare di appalto, che dovrebbero essere aperte a tut­ ti. Non c'è quindi da sorprendersi se il nostro capitali­ smo spesso appare impreparato a confrontarsi con il mer­ cato. Purtroppo però, anziché riflettere su questi problemi, e interrogarsi sulle possibili soluzioni, Romano Prodi so­ gna, e progetta, un nuovo capitalismo misto guidato da banchieri e da manager pubblici sotto l'ala protettiva del suo governo. Ha cercato di realizzare questo progetto prima con Telecom Italia, poi con Alitalia, sinora (per fortuna) con scarso successo. Si noti, tra l'altro, un paral­ lelismo curioso: l'attuale presidente del Consiglio ritie­ ne di essere stato un grande imprenditore, ai tempi del­ l'Iri, quando guidava un gruppo che possedeva circa me­ tà delle nostre imprese industriali e che finì in bancarot­ ta. Nel 2002, quando la Fiat fu sull'orlo del fallimento, Berlusconi, allora pr�sidente del Consiglio, disse: «Se fos­ si libero e non avessi questa responsabilità, mi offrirei per prendere in mano la Fiat, me ne occuperei volentie­ ri e saprei cosa fare». La soluzione a un'economia poco competitiva, eviden­ temente, non è uno Stato che si sostituisce ai privati met­ tendosi a scommettere su progetti industriali e a pro­ muovere alleanze tra imprese. Nel mondo ci sono schie- 109 -

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re di imprenditori interessati a investire in Italia. C'è un buon motivo per impedire loro di farlo? Per rispondere a questa domanda occorre chiedersi quali siano gli obiettivi che uno Stato dovrebbe porsi nel settore delle grandi reti di servizi (luce, gas, telefoni, fer­ rovie, autostrade) e quali gli strumenti di cui dispone per raggiungerli. Gli obiettivi dovrebbero essere principal­ mente tre: primo, la tutela dei consumatori; secondo, la tutela dei piccoli azionisti che investono in queste socie­ tà; terzo, se le aziende producono delle esternalità, vale a dire degli effetti esterni positivi nell'ambiente in cui operano, cercare di trattenere quelle esternalità in Italia. Centrare i primi due obiettivi è possibile; centrare il ter­ zo è molto difficile. Il tramite per raggiungere i primi due (tutela dei consumatori e dei piccoli investitori) sono an­ cora le Autorità: Antitrust e Consob. Con un punto a fa­ vore per gli imprenditori non italiani; se l'azionista è stra­ niero, infatti, è più facile per il regolatore essere neutra­ le. Un imprenditore italiano spesso discute con il gover­ no su più tavoli ed è possibile che il governo accetti di essere meno rigido nella regolamentazione in cambio di qualche beneficio su altri tavoli - il caso per esempio di un imprenditore che sia anche il proprietario di un im­ portante quotidiano. Una circostanza più rara se l'im­ prenditore è straniero. Quando la proprietà di grandi aziende di servizi è straniera i consumatori corrono me­ no rischi. L'unico motivo per dubitare della proprietà estera di significative aziende di servizi è se esistano esternalità - 110 -

6. Il capitalismo di Stato non è di sinistra

importanti. L'esempio del Nuovo Pignone, un'azienda fiorentina specializzata nella produzione di turbine, aiu­ ta a capire. A metà degli anni novanta, quando Eni ven­ dette il Nuovo Pignone alla Generai Electric, molti si stracciarono le vesti: gli americani avrebbero smantella­ to la progettazione e lasciato nelle fabbriche fiorentine del Pignone solo attività di assemblaggio più povere. È accaduto l'esatto contrario. Poiché gli operai e i tecnici del Pignone erano molto bravi nel progettare e costrui­ re turbine, GE concentrò su Firenze la sua attività in questi settori. Da importante fabbrica italiana, il Pigno­ ne è diventata un importante centro di progettazione mondiale. Questo significa che le esternalità si cattura­ no dove l'ambiente è favorevole. I laboratori della Mit­ subishi per esempio non sono in Giappone, ma a Bo­ ston, vicino al Mit, perché è lì che si brevettano le in­ venzioni. Se si vogliono trattenere le esternalità occorre investire nella qualità delle università, non obbligare le aziende a fare Ricerca e Sviluppo in un ambiente scien­ tificamente morto. In conclusione: il capitalismo di Stato non è di sinistra perché danneggia i consumatori. L'illusione che lo Sta­ to, o banchieri e manager pubblici nominati dai politici, siano più lungimiranti nelle scelte di investimento è, ap­ punto, un'illusione: basta ripercorrere la storia dell'Iri negli anni settanta quando impiegò nel Sud risorse straor­ dinarie delle quali non si sono mai visti i risultati. Ricer­ ca e Sviluppo non hanno bisogno della proprietà pub- 111 -

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blica, ma di buone università e di incentivi, non alle im­ prese ma ai nostri ricercatori migliori per convincerli a non emigrare negli Stati Uniti. Da ultimo, il capitalismo di Stato non è di sinistra per­ ché è un sistema per proteggere corporazioni piccole ma potenti: alcuni politici, alcuni manager pubblici, i di­ pendenti di qualche impresa pubblica. Altro che l'inte­ resse dei cittadini.

7 Qualcosa comincia a cambiare

Qualcosa si sta muovendo in Europa. Dopo un inizio di secolo con tassi di crescita molto bassi e un clima cupo, si percepisce, se non una ventata, almeno una brezzoli­ na di liberismo. Circa un anno fa, quando stavamo lavo­ rando al libro Goodbye Europa, temevamo che a vincere non sarebbero state le riforme, ma la via del declino. Og­ gi forse c'è qualche speranza. La vittoria di Nicolas Sar­ kozy in Francia e i primi passi (non tutti purtroppo) del nuovo presidente fanno sperare che qualcosa stia cam­ biando. Tra un declino sicuro, che sarebbe risultato da un vittoria dei socialisti con un programma vecchio e con­ fuso, e le proposte di Sarkozy, i francesi hanno espresso una preferenza- netta. La campagna elettorale di Ségo­ lène Royale ricalcava la vecchia piattaforma socialista: maggiore equità retributiva, aumento degli stipendi mi­ nimi, nessun cambiamento della legge sul lavoro, che tu­ tela i lavoratori anziani a scapito dei giovani, estromessi dal mercato del lavoro. Una strada certa verso il declino - 1 13 -

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politico ed economico, ma sorprendentemente quasi tut­ ti gli economisti francesi (non solo quelli marxisti) ave­ vano puntato su di lei. Dall'altra parte, Sarkozy non è certo Mrs. T hatcher: quando sostiene di voler proteggere gli agricoltori (ed è una delle prime cose che ha ripetuto non appena eletto), di essere contrario all'acquisto di aziende francesi da par­ te di investitori stranieri, quando impone che si elimini dalla nuova Costituzione europea qualunque riferimen­ to esplicito alla concorrenza, si comporta come tutti i po­ litici francesi, protezionisti e dirigisti, e questo è preoc­ cupante. Le sue ripetute critiche alla Bee sono allarmanti per l'indipendenza di questa istituzione - che comunque dovrebbe essere più trasparente nelle sue decisioni e più chiara nel comunicarle proprio per evitare di fornire ai politici motivi per attaccarla. In almeno due punti però il messaggio di Sarkozy è innovativo. Innanzitutto il nuovo presidente si è impe­ gnato a riformare la legge sul lavoro: via libera alle azien­ de di assumere e licenziare, attraverso la riduzione dei costi di licenziamento e l'eliminazione dei ricorsi agli or­ gani giudiziari, accompagnato da un corretto funziona­ mento dei sussidi di disoccupazione che non scoraggino la ricerca di un nuovo impiego. In particolare Sarkozy pare abbia fatto propria la proposta di Olivier Blanchard (oggi un suo consigliere) eJean Tirole sul mercato del la­ voro di cui parlavamo nel capitolo 4 . I n secondo luogo la sua visione dell'Europa è prag­ matica, l'esatto opposto della grandiosa prospettiva di - 114 -

7. Qualcosa comincia a cambiare

uno Stato europeo (con un tocco di antiamericanismo) tanto gradita a Bruxelles. Sarkozy auspica un me_rcato comune europeo, rafforzato da politiche di base condi­ vise, l'unione monetaria e poco più. Certo c'è anche un po' di protezionismo (che potrebbe però smorzarsi se la crescita in Francia riprendesse) e un bel po' di vecchio dirigismo francese. Ma liberalizzare il mercato del lavo­ ro è talmente importante che, se ci riuscirà, gli altri sem­ breranno peccati veniali. Quasi certamente in Francia le riforme del mercato del lavoro comporteranno mesi di agitazione sociale. Re­ sta da vedere se Sarkozy sarà abbastanza forte per op­ porvisi. Quando poche centinaia di studenti manifesta­ rono per le strade di Parigi, il precedente governo con­ servatore rimandò ogni riforma. Le cose stanno cambiando anche in Svezia, il capocor­ data del modello nordico: mercati del lavoro, beni e ser­ vizi aperti alla concorrenza, e un sistema di ammortizza­ tori sociali tra i migliori al mondo. Solo sei mesi fa gli elet­ tori svedesi hanno sostituito i socialisti democratici, al po­ tere da oltre dieci anni, con un nuovo, giovane, primo mi­ nistro, Maud Olofsson, deciso a riformare il modello so­ ciale del paese. P�r conservando le basi del sistema di wel­ fare svedese, Olofsson ne sta eliminando le distorsioni. Il suo è sicuramente un programma come si suol dire di flex security, cioè di liberalizzazioni dei mercati accompagna­ te da efficienti sistemi di sicurezza sociale. Flex security è anche il modello danese. In Danimar- 1 15 -

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ca la deregulation del mercato del lavoro di cui abbiamo già parlato diffusamente ha portato il tasso di disoccu­ pazione al di sotto di quello americano; sicuramente a costo di qualche pensione di invalidità di troppo, ma nel complesso la direzione delle riforme è corretta. In Germania, Angela Merkel, nonostante il conflitto interno alla Grande Coalizione, ha introdotto una rifor­ ma del sistema sanitario che conterrà l'aumento delle spe­ se, cosa che gli Usa cercano di fare da un decennio sen­ za vemrne a capo. Per non parlare dell'Irlanda, la tigre d'Europa, salda­ mente ancorata a un modello fortemente liberista. Do­ po la rivoluzione liberista di fine anni ottanta, la relati­ vamente povera Irlanda ha ampiamente superato in ter­ mini di reddito pro capite l'Italia e la Gran Bretagna, e la sua economia continua a volare. Quanto alla Gran Bretagna, i laburisti inglesi sono sal­ damente nel campo liberista, tanto che i conservatori sembrano aver perso il loro spazio ideologico. Certo, Gordon Brown e Tony Blair sono diversi, ma è questio­ ne di sfumature; entrambi sono liberisti convinti. Anche l'Europa ha fatto passi avanti nella direzione giu­ sta. Forse il naufragio della Costituzione europea è ser­ vito da lezione. L'Unione europea pare aver abbando­ nato i progetti grandiosi, verbosi e retorici di una Carta costituzionale unica per paesi tanto diversi come la Ro­ mania e la Danimarca. Invece il 22 giugno 2007 si è mos­ sa nella direzione giusta, approvando pochi ma impor- 1 16 -

7. Qualcosa comincia a cambiare

tanti cambiamenti nelle sue regole di governance che po­ trebbero migliorarne il funzionamento. Per esempio, so­ no stati allungati i termini della presidenza del Consiglio europeo a due anni e mezzo invece dei sei mesi attuali un periodo troppo breve -, è stato ridotto il numero di membri della Commissione europea cancellando la re­ gola per cui ogni paese aveva diritto a un commissario e per più questioni si è deciso di adottare regole di voto . basate su maggioranze qualificate, invece che sull'una­ nimità, con cui è impossibile governare, soprattutto ora che in Europa ci sono 27 paesi (purtroppo queste rego­ le entreranno in vigore solo tra dieci anni). Questo ap­ proccio per così dire minimalista, senza Carte costitu­ zionali di centinaia di pagine, è quello giusto. Per fortu­ na si parla sempre meno dell'Agenda di Lisbona, un al­ tro esercizio di inutile verbosità. E l'Italia? Seppur timidamente, anche il governo Prodi aveva intrapreso la strada delle liberalizzazioni, no­ nostante non abbia ancora affrontato i settori più diffi­ cili: energia, trasporti, telefoni e banche, dove, come ab­ biamo visto, presenze monopolistiche e protezioni dal­ la concorrenza internazionale restano ben salde, a sca­ pito del consumatore. Rimangono da affrontare le que­ stioni più importanti, a cominciare dalla riforma del si­ stema degli ammortizzatori sociali necessaria per libe­ ralizzare il mercato del lavoro e ridurne la dicotomia. Purtroppo negli ultimi tempi questa vena liberista sem­ bra essersi arenata. Il Dpef presentato ai primi di luglio - 1 17 -

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2007 è stato una grande delusione perché ancora una volta non ha affrontato il controllo della spesa pubbli­ ca. Anzi ha speso gran parte del «tesoretto», termine del resto alquanto fuorviante per un paese con un debito pubblico pari al 105 per cento del Pii. Subito dopo la presentazione del Dpef, Romano Prodi ha ceduto ai sin­ dacati sulla questione delle pensioni, in pratica abro­ gando la riforma Maroni, una delle poche eredità posi­ tive del governo precedente. Forse però il segnale che il clima sta cambiando non viene tanto dal governo, sempre più titubante e indeci­ so, quanto dalla stampa e dai cittadini. Qualche anno fa in Italia la parola «liberista» era poco meno che un in­ sulto. Oggi molti si dichiarano liberisti, anche se pochi, per il momento, lo sono dawero. Incoraggianti sono an­ che i risultati di un sondaggio effettuato nel luglio scor­ so da Harris e dal Financial Times. Alla domanda «Pen­ si che la globalizzazione abbia un effetto positivo nel tuo paese?», il 24 per cento degli italiani nel campione ri­ sponde positivamente, più di coloro che rispondono ne­ gativamente, solo il 18 per cento. Il risultato è l'oppo­ sto in Francia: 27 per cento di risposte negative, 17 per cento positive. I più convinti dei vantaggi della globa­ lizzazione paiono essere i tedeschi: 38 per cento di ri­ sposte positive, 20 per cento negative. Gli italiani sono i più convinti dell'importanza di attribuire all'Unione europea un mandato specifico in materia di concorren­ za. Alla domanda «Pensi che la concorrenza debba es­ sere un obiettivo dell'Ue?», 1'80 per cento degli italiani - 1 18 -

7. Qualcosa comincia a cambiare

risponde positivamente, il doppio che in Francia (42 per cento) e più anche che in Germania (70 per cento). Ma c'è un fatto ancora più importante: il cittadino italiano medio sopporta sempre meno i lacci e i lacciuoli impo­ sti da una legislazione soffocante, è sempre più irritato dai servizi inadeguati offerti da aziende protette e iper­ sindacalizzate, come Alitalia e Trenitalia, comincia a chie­ dersi cosa giustifichi un prelievo del 50 per cento del reddito prodotto. E qualche risultato concreto si co­ mincia a vedere: farmacie che abbassano i prezzi, aspi­ rina e giornali al supermercato, negozi aperti la dome­ nica e barbieri il lunedì. All'interno delle università si parla sempre più di me­ ritocrazia, e diventa più oneroso, in termini di reputa­ zione, promuovere gli amici invece che i meritevoli. A Genova l'Istituto Italiano di Tecnologia sta crescendo, nonostante l'opposizione di chi non vuole cambiare le cose e intende mantenere l'università italiana in una si­ tuazione di mediocrità in nome di un egualitarismo di facciata. In questo contesto, l'ala riformista del governo e in particolare il premier, Romano Prodi, hanno di fronte a sé due strade. Una è «soprawivere» con qualche picco­ la liberalizzazione di barbieri e benzinai, ma cedendo ai sindacati sulle pensioni, facendosi ricattare dalla sinistra massimalista, e perdendo così l'occasione della brezza li­ berista che si sta (forse) sollevando in Europa. In questo modo sicuramente perderanno le prossime elezioni. La seconda strada è passare all'attacco e procedere - 119 -

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con forza sulla via delle riforme. Ci sono buone proba­ bilità di successo. Bill Clinton realizzò riforme impor­ tanti e politicamente difficili del welfare americano e fu rieletto a gonfie vele. Lo stesso accadde a Ronald Rea­ gan, Tony Blair e Margaret T hatcher. Invece due presi­ denti timidi come Jimmy Carter e George Bush senior persero alla prima rielezione. Il primo perché, pur aven­ do intrapreso qualche riforma per arrestare quello che sembrava il declino americano, non lo fece con abba­ stanza coraggio e decisione. Il secondo, per aver tradito le promesse fatte in campagna elettorale di ridurre le tas­ se. Spesso alle urne il coraggio riformista paga. Ciò che sicuramente in Europa non paga più è l'immobilismo. Come fa spesso notare Giulio Tremonti per giustificare la sconfitta elettorale del precedente governo, gli eletto­ ri europei recentemente hanno votato sempre contro il governo in carica. Ma gli europei non sono banderuole: se cambiano partito è perché sono preoccupati per il lo­ ro futuro e cercano governi capaci di modificare le cose. Il premier Romano Prodi e il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa hanno storie personali illu­ stri. A questo punto della loro vita politica e professio­ nale l'unica cosa che dovrebbe importare loro è ciò che gli americani chiamano legacy, cioè come saranno valu­ tati dalla storia. Dawero vogliono essere ricordati come leader che, pur di non rischiare nulla, hanno finito per essere superati dagli eventi e puniti dagli elettori? Noi speriamo che vogliano passare alla storia come Bill Clin­ ton, non come Jimmy Carter. - 120 -

Conclusioni

Quali siano i capitoli di un'agenda liberista per l'Italia è ormai noto a chiunque legga, anche distrattamente, i gior­ nali. E già questo è sorprendente. Solo pochi anni fa li­ berismo, almeno in Italia, era un termine quasi scono­ sciuto. L'abolizione degli ordini professionali, l'abolizio­ ne del valore legale delle lauree, l'assegnazione degli slot aeroportuali tramite una gara aperta a tutte le compagnie aeree, la liberalizzazione delle licenze commerciali e via dicendo erano considerate proposte stravaganti e, so­ prattutto, la loro importanza era incomprensibile alla maggior parte dei cittadini. In breve tempo sono cam­ biate molte cose. È un passo fondamentale, perché una battaglia a favore di proposte che nessuno capisce è per­ sa in partenza. Come questo cambiamento sia avvenuto è interessante in sé. Una parte del merito va senz'_altro a battaglie soli­ tarie, come quelle vinte da Mario Monti a Bruxelles, nel suo ruolo di Commissario alla concorrenza, e quelle com- 121 -

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battute da qualche politico coraggioso, come per esem­ pio Daniele Capezzane, Franco Debenedetti, Nicola Ros­ si, Bruno Tabacci e i ministri Pier Luigi Bersani e Linda Lanzillotta. E non sono i soli. Stampa e televisione hanno svolto un ruolo decisivo. Gli articoli di Pietro !chino sui dipendenti pubblici «fan­ nulloni», le inchieste di Gian Antonio Stella pubblicate dal Corriere della Sera sul denaro gettato al vento dalle pubbliche amministrazioni, le analisi del Sole 24 Ore su­ gli sprechi di istituzioni tabù, come il Senato della Re­ pubblica o il Quirinale, le magnifiche puntate di Report, la trasmissione di Milena Gabanelli su Rai 3. Sembrava­ no gocce destinate a dissolversi nel mare dell'indifferen­ za, e invece evidentemente hanno lasciato un segno. È un fatto molto incoraggiante per chiunque voglia impe­ gnarsi in battaglie minoritarie. In questi anni, la consapevolezza che il liberismo è condizione necessaria per una società più equa, nella qua­ le le opportunità di ciascuno non dipendono dal censo o dai rapporti di amicizia e parentela, ha cominciato a diffondersi. Fino a quindici anni fa merito e concorren­ za erano concetti poco di moda in Italia. Nel maggio 2007 un'indagine condotta da Alberto Martinelli in occasione del forum dell'Università Bocconi e del Corriere della Se­ ra «Economia&Società Aperta» ha rilevato che la gran­ de maggioranza degli intervistati (un campione di gio­ vani tra i 25 e i 3 5 anni di età) individua nella concor­ renza e nel merito le priorità dell'Italia. Effetto delle bat­ taglie solitarie che abbiamo ricordato sopra, ma anche, - 122 -

Conclusioni

e forse soprattutto, della globalizzazione. Non c'è nulla che aiuti ad aprire gli occhi delle persone quanto il con­ fronto con paesi e sistemi politici e sociali che non pro­ teggono le rendite di qualche specifica categoria poten­ te. Basta che acquisti un'auto usata negli Stati Uniti per­ ché un italiano medio si trasformi in un talebano del li­ berismo e della battaglia contro l'obbligo di ricorrere a un notaio. Osservare come vanno le cose altrove è il mo­ do più efficace per smascherare miti che spesso sono so­ stenuti solo da chi ne trae un beneficio diretto. Affinché merito e concorrenza si affermino occorre che i cittadini si riconoscano come tali, vale a dire come contribuenti e consumatori; non solo, o non principal­ mente, come membri di una corporazione o di un clas­ se. Certo, la cultura marxista e quella della destra di ispi­ razione corporativa, entrambe ancora molto diffuse in Italia, non giovano. Ma dawero un paese non può eman­ ciparsi dagli aspetti più retrivi della sua tradizione poli­ tica e culturale? Considerate l'Inghilterra di fine anni settanta. Il pae­ se era sull'orlo del baratro economico, preda di sindaca­ ti combattivi e nelle mani di un partito laburista massi­ malista. Era una società bloccata che pareva destinata a un inevitabile declino. È bastata Margaret Thatcher per cambiare prospettiva: certo, la «signora di ferro» ebbe la forza di resistere, ma ora è passata alla storia. Negli an­ ni ottanta era vista come una specie di mostro anche dal­ la sinistra italiana più moderata. Ora è un modello cui ispirarsi; meglio tardi che mai. - 1 23 -

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Alla fine degli anni ottanta l'Irlanda era un paese po­ vero, in pieno declino, dal quale si emigrava, come all'ini­ zio del Novecento. Si era diffusa una cultura della rasse­ gnazione, dell'avversione al rischio, della stagnazione. Og­ gi l'Irlanda è uno dei paesi più vivaci del mondo occiden­ tale. La cultura del disfattismo e della pigrizia si è trasfor­ mata in un vitale spirito imprenditoriale. La lingua non c'entra: sia in Irlanda sia in Inghilterra si parla inglese, ma tranne che per la lingua comune sono due paesi diversi sotto ogni profilo, per religione, dimensione, storia. Alcuni paesi dell'Est hanno fatto una transizione ve­ locissima dal comunismo a un capitalismo relativamen­ te moderno ed efficiente: Repubblica Ceca, Ungheria, Paesi Baltici. Alcuni di essi, a poco più di dieci anni dal­ la caduta del muro di Berlino, sono tra i più dinamici del­ l'Unione europea. Anche in Italia vi è qualche esempio di modelli cul­ turali e di comportamenti che sono cambiati rapidamente a seguito di un cambiamento nelle politiche. Considera­ te il divieto del fumo nei locali pubblici: una legge che ha avuto un successo inaspettato. Gli italiani si sono ade­ guati quasi dall'oggi al domani: chi se lo sarebbe aspet­ tato in un paese di entusiasti fumatori? Da quando è sta­ ta introdotta la patente a punti, le autostrade italiane non sembrano più degli autodromi. Immaginate che cosa po­ trebbe accadere se il sindaco di Milano facesse veramente rispettare il divieto di parcheggiare sui marciapiedi pe­ nalizzando i vigili che non danno le multe, magari per fa­ re un favore ai commercianti. Dall'indomani le multe - 124 -

Conclusioni

fioccherebbero e le mamme non dovrebbero più mette­ re a rischio la vita dei loro bambini perché sul marcia­ piedi le carrozzine non passano. Se le regole sono cor­ rette, i cittadini si adattano rapidamente. Ci sono poi casi eclatanti, vere e proprie svolte per una comunità, come quello reso famoso dal libro di Malcolm Gladwell Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli cam­ biamenti (Rizzali 2000). Sembrava impossibile elimina­ re i graffiti dalla metropolitana di New York, ma per qual­ che settimana il sindaco Giuliani si ostinò a far ripulire tutti i treni tutte le sere. Per un po' la misura non ebbe effetto, ma alla lunga i graffitari si stufarono di non ve­ der ricomparire sui convogli le proprie opere. Oggi so­ no rari i graffiti sulla metropolitana di New York. Ci sono esempi analoghi anche in Italia, che hanno certamente migliorato la qualità della vita dei cittadini. È il caso dei lavavetri ai semafori di Bologna contro cui, nel 2005, il sindaco Cofferati awiò un'azione energica per eliminare quella che di fatto era diventata una «tas­ sa sul rosso». O del centro di Bologna, devastato da bi­ vacchi notturni, in difesa del quale Cofferati ha adotta­ to un'ordinanza che vieta il consumo di bevande alcoli­ che per strada dopo le 9 di sera. Prowedimento simile a quello preso a Milano dal vicesindaco De Corato, che prevede il transennamento dell'area delle colonne di San Lorenzo e del sagrato della basilica dalle 7 di sera alle 7 di mattina, per evitare l'insudiciamento e il danneggia­ mento dell'area. Sono tutte prove che anche nel nostro paese, se si - 125 -

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vuole, è possibile intervenire rapidamente per modifi­ care le cose. Certo, ci vuole coraggio; a Sergio Coffera­ ti queste manovre sono costate le peggiori accuse, non ultima quella di «fascista». Comunque i frutti delle liberalizzazioni maturano in fret­ ta: ne è un segnale un recente sondaggio di Renato Mann­ heimer secondo cui il governo Prodi è popolare solo per una cosa: le liberalizzazioni del ministro Bersani, di cui i consumatori hanno visto i risultati immediatamente, in poche settimane. La popolarità di un governo di centro­ sinistra, in definitiva, si deve unicamente a misure per tradizione considerate di destra. Può apparire un caso di confusione tra ideologie contrapposte, destra e sinistra; ma forse questo tipo di contaminazione politica e cultu­ rale resta l'unica strada. Quando presentiamo questi ragionamenti molti ci cri­ ticano; altri (pochi) danno risposte un po' sconsolate: sì avete ragione, ma in Italia tutto questo non si può fare. Noi non lo crediamo. Ci sono piccoli segnali che le cose stanno cambiando. È possibile che ci voglia ancora qual­ che scossa, una crisi di governo, una riforma elettorale, qualche sciopero cosiddetto «generale», ma a noi pare che il cittadino, il consumatore, sia stufo di vivere in una società dominata da lobby. Prima o poi se ne accorge­ ranno anche i politici.

Ristampa

Anno

2007

2008

Finito di stampare nel settembre 2007 presso Milanostampa / Albaprint, Farigliano (CN)

2009

20 IO

Alberto Alesina ( B roni 1957) è Nathaniel

Ropes Professor of Pol itica! Economy al­ l ' U niversità di H arvard. Con Edward Glae­ ser ha pubblicato Un mondo di differenze (Laterza 2005) e con Fra ncesco Giavazzi, Goodbye Europa (Rizzali 2006). È edito­ ria l ista del Sole 24 Ore.

Francesco Giavazzi ( Bergamo 1 949) i n ­ s e g n a eco n o m i a p o l i t i ca a l l ' U ni vers ità Bocconi d i M i l a n o e al M it. Ha pubbl icato L obby d'Italia ( B u r 2005) e con A l be rto A lesina, Goodbye Europa (Rizzali 2006). È editorial i sta del Corriere della Sera.

«Siamo all'epilogo di u na stag ione politica: · il l i berismo appare sempre più come un'ideologia primitiva.» Fabio M u ssi

m i n i stro per l ' U n iversità e la Ricerca

I l m e rito, n o n il censo. I l l i bero m e rcato, n o n le l o b by. I d i ritti d e l citta d i n o, n o n l o s p reco di d e n a ro p u b b l i co. S e n za m e r itocra z i a le p rofess i o n i s i t ra m a n d a no a i f i g l i come t i t o l i n o b i l i a ri , s e n z a co n correnza il co n s u mato re è ricattato d a i g ra n d i m o n o po l i , senza contro l l i i «fa n n u l l o n i » co n t i n u a n o a g ra va re s u l l e tasc h e d e i cont r i b u e n t i . C h i è davvero d i s i n i st ra? C h i d ife n d e l e categ o r i e p i ù d e b o l i o c h i conserva q u esto stato di cose? 1