Il giro del giorno in ottanta mondi 8869980901, 9788869980909

A cinquant'anni dall'uscita, torna in libreria uno dei classici cortazariani: "Il giro del giorno in otta

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Il giro del giorno in ottanta mondi
 8869980901, 9788869980909

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JUDO CORTAZAR (1914-1984), narra­

tore, poeta e saggista, è uno dei maggiori scrittori argentini di tutti i tempi. Oltre a tre volumi di lettere, SUR ha pubblicato Un certo Lucas, Correzione di bozze in Alta Pro­ venza, Componibile 62 e L’inseguitore, illu­ strato da José Munoz.

ELEONORA MOCAVERO traduce narrati­

va dallo spagnolo per varie case editrici. Ha dato voce italiana, fra gli altri, a Carlos Fuentes, Enrique Vila-Matas, Arturo Pérez-Reverte.

Questo giorno ha ottanta

mondi, la cifra è indicativa ed è questa perché piaceva al mio omonimo, ma forse ieri erano cinque e questo

pomeriggio centoventi, nessuno può sapere

quanti mondi ci siano

nel giorno di un cronopio o di un poeta.

Progetto grafico: Pulcinelli Co. Copertina: Mauro Abbattuta

A cinquantanni dall’uscita, torna in libre­ ria uno dei classici cortazariani: Il giro del giorno in ottanta mondi. Il titolo del libro rimanda a Jules Verne, che Cortàzar defi­ nisce scherzosamente il suo omonimo, e insieme dichiara le intenzioni dell’auto­ re: «Un viaggio intorno al mondo, come quello di Phileas Fogg, ma senza muover­ mi dalla mia scrivania. Un libro pazzo, da fuori di testa, fatto di ritagli e avanzi, co­ me un grande collage». Ed è un vero e proprio viaggio quello che il lettore si trova a intraprendere: un viaggio attraverso un’epoca e un modo di intendere l’arte. Dai cronopios a Eugénie Grandet, da Jack lo Squartatore a Duchamp, dalla letteratura alla boxe al sempre amato jazz: infiniti sono gli spunti che l’autore racco­ glie in questo volume, che si può leggere tutto d’un fiato o centellinare poco a poco. Con una freschezza e una spontaneità ancora intatte, Cortàzar crea il suo primo libro-oggetto, in cui a racconti, articoli e poesie affianca vignette, illustrazioni e foto per sfatare, ancora una volta, il mito della letteratura come esercizio di serietà.

«Con questo libro, la genialità anarchica di Cortàzar spezza le frontiere fra i generi con un misto di humour e serietà, di poesia, gioco, politica e follia».

—Mario Vargas Liosa

sup nuova serie [8]

Julio Cortàzar Il giro del giorno in ottanta mondi

titolo originale: La vuelta al dia en ochenta mundos traduzione di Eleonora Mogavero © Eredi di Julio Cortàzar, 1967 © SUR, 2017 Tutti i diritti riservati

Edizioni SUR via della Polveriera, 14 • 00184 Roma tei. 06.83548987 [email protected] • www.edizionisur.it I edizione: ottobre 2017 ISBN 978-88-6998-090-9 Progetto grafico: Falcinelli&Co.

Composizione tipografica per gli interni: Adobe Caslon Pro (Carol Twombly, 1990) per la copertina: Coco Gothic (Cosimo Lorenzo Pancini, Zetafonts, 2015)

Julio Cortàzar Il giro del giorno in ottanta mondi traduzione di Eleonora Mogavero

Di distanze portate a termine, di risentimenti infedeli, di ereditarie speranze mescolate con ombra, di presenze straziantemente dolci e di giorni di trasparente vena e di statua floreale, che sussiste nel mio scarso dominio, nel mio debole prodotto? Pablo Neruda, Diurno dolente

Ah crevez-moi lesyeux de l'àme S’ils s'habituaient aux nuées.

Luis Aragon, Le roman inachevé

Devo al mio omonimo il titolo di questo libro e a Lester Young la libertà di averlo modificato senza offendere la sa­ ga planetaria di Phileas Fogg, Esq. Una sera in cui Lester riempiva di fumo e pioggia la melodia di «Three Little Words», sentii più che mai cosa rende tali i grandi del jazz, quell’invenzione che rimane fedele al tema mentre lo com­ batte, lo trasforma e lo irida. Chi potrebbe dimenticare l’entrata imperiale di Charlie Parker in «Lady, be good»? Adesso Lester sceglieva il profilo, quasi l’assenza del tema, evocandolo come forse l’antimateria evoca la materia, e io pensai a Mallarmé e a Kid Azteca,’ un pugile che avevo co­ nosciuto a Buenos Aires intorno agli anni Quaranta e che, di fronte al caos santafesino dell’avversario di quella sera,

i. Pseudonimo del leggendario pugile messicano Luis Villanueva. [Tutte le note con apice numerico sono da considerarsi della traduttrice, le note d’autore sono invece segnalate con i simboli e

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costruiva un’assenza perfetta a base di impercettibili schi­ vate, disegnando una lezione di vuoti in cui si sarebbero dissolte le patetiche gragnuole da otto once. E poi, c’è da di­ re che con il jazz esco sempre allo scoperto, mi libero dal ca­ rapace dell’identico per acquistare spugnosità e simultanei­ tà porosa, una partecipazione che in quella sera di Lester era un andirivieni di pezzi di stelle, di anagrammi e palin­ dromi che a un certo punto mi restituirono inspiegabil­ mente il ricordo del mio omonimo e d’improvviso fùrono Passepartout e la bella Aouda, fu il giro del giorno in ottan­ ta mondi perché per me l’analogia funziona come per Le­ ster lo schema melodico che lo lanciava sul rovescio del tap­ peto, là dove gli stessi fili e gli stessi colori si intrecciavano in modo diverso. Tutto ciò che segue partecipa per quanto è possibile (non sempre si riesce ad abbandonare un carapace quoti­ diano di cinquant’anni) a questa respirazione della spugna nella quale continuano a entrare e uscire i pesci del ricordo, alleanze fulminee di tempi e stati e materie che la serietà, quella signora troppo ascoltata, troverebbe inconciliabili. Mi diverte pensare a questo libro e ad alcuni dei suoi pre­ vedibili effetti sulla suddetta signora, un po’come il crono­ pio Man Ray pensava al suo ferro da stiro chiodato e ad al­ tri oggetti enormi quando diceva: «Non bisognava con­ fonderli in alcun modo con le pretese estetiche o con il vir­ tuosismo plastico che ci si aspetta in genere dalle opere d’arte. Naturalmente», aggiungeva la civettina occhialuta pensando alla signora di cui sopra, «i visitatori della mia mostra rimanevano perplessi e non osavano divertirsi, vi­ sto che le gallerie sono considerate santuari e che con l’ar­ te non si scherza». Man Ray, Autoportrait.

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Jules Verne

E loro non osavano divertirsi. Man Ray, quanto ti sa­ rebbe piaciuto sentire quello che ho sentito io qualche me­ se fa a Ginevra, dove una galleria della città vecchia pre­ sentava un omaggio a Dada. C’era proprio il tuo ferro da stiro chiodato e mentre la signora di prima lo contemplava con gelido rispetto, fra un ragazza dai capelli rossi e una biondina si svolgeva questo dialogo esemplare: «In fondo non è poi così diverso dal mio ferro da stiro!» «Come sarebbe a dire?» «Ma sì, con questo ti pungi e con il mio ti bruci». O, per tornare a Lester, alla volta in cui un crìtico musi­ cale serio come la signora gli domandava quali profonde motivazioni estetiche lo avessero spinto ad abbandonare la batteria per il sax tenore, e Lester rispose: «La batteria ti li­ mita. A cosa serve adocchiare le ragazze più carine della platea, se quando hai finito di smontarla se le sono già bec­ cate tutte?» 9

Avrete notato che le citazioni piovono, e questo è nien­ te rispetto a quanto deve ancora venire, ovvero quasi tutto. Negli ottanta mondi del mio giro del giorno ci sono porti, alberghi e letti per i cronopios, e poi citare è citarsi, molti lo hanno detto e fatto, con la differenza che i pedan­ ti citano perché fa elegante, e i cronopios perché sono ter­ ribilmente egoisti e vogliono accaparrarsi gli amici, come faccio io con Lester, Man Ray e quelli che verranno, tipo Robert Lebel che descrive alla perfezione questo libro quando dice: «Tutto quello che lei vede in questa stanza, o meglio in questo magazzino, l’hanno lasciato gli inquilini precedenti e dunque non vedrà grandi cose di mia proprie­ tà, ma io preferisco questi strumenti del caso. La diversità della loro natura mi impedisce di limitarmi a una riflessio­ ne unilaterale, e poi, in questo laboratorio in cui sottopon­ go gli attrezzi a un inventario sistematico e, beninteso, in senso contrario a quello naturale, la mia immaginazione rischia meno di segnare il passo». Certo, a me sarebbe­ ro servite più parole per dirlo. Il personaggio che parla per bocca di Lebel è nienteme­ no che Marcel Duchamp. Al suo modo di suscitare una realtà più ricca - facendo, per esempio, colture di polvere, o creando nuove unità di misura con il sistema, non più con­ venzionale di altri, di lasciar cadere un pezzo di corda su una superficie incollata e rilevarne la lunghezza e il contor­ no - si somma qui qualcosa che non potrei dire esplicita­ mente ma che forse riuscirà a dirsi, a separarsi da tutto que­ sto. Alludo a un sentimento di sostanzialità, a quell’«essere vivo» che manca a tanti nostri libri, al fatto che scrivere e respirare (nel senso indiano della respirazione come flusso e riflusso dell’essere universale) non siano due ritmi diverRobert Lebel, La doublé vue. IO

si. Un po’come quello che cercava di dire Antonin Artaud: «...parlo di quel minimo di vita pensante e allo stato bruto - che non è arrivata alla parola ma che potrebbe farlo, se fosse necessario - senza cui l’anima non può vivere ed è co­ me se non ci fosse più vita». E insieme a tutto questo molto di più - ottanta mondi e in ognuno altri ottanta e in ognuno... - sciocchezze, caf­ fè, informazioni del genere di quelle che fecero la segreta fama di Les admirables secrets d’Albert le Grand, fra cui la storia che se un uomo morde un altro uomo mentre mangia lenticchie, laferita sarà inguaribile, e perfino la meravigliosa formula: Per far ballare una ragazza in camicia Prendete della maggiorana selvatica, dell'origano puro, del ti­ mo selvatico, della verbéna, alcunefoglie di mirto insieme a tre foglie di noce e trepiccoli gambi difinocchio; il tutto verrà rac­ colto la notte di San Giovanni, nel mese di giugno, prima dell'alba. Occorrerà seccarli all’ombra, triturarli epassarli a un colinofine di seta; e quando si vorrà portare a termine questo piacevole gioco, si soffierà la polvere in aria nel luogo in cui si trova la ragazzaperché leipossa respirarla, o glie­ la sifaràprendere come sefosse tabacco dafiuto; l’effètto si manifesterà immediatamente. Un famoso autore aggiunge che il risultato sarà infallibile se questo esperimento malandrino verrà eseguito dove ar­ dono lampade alimentate con grasso di lepre e di caprone giovane.

Antonin Artaud, L'omblic des limbes.

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Una formula che non mancherò di provare nelle mie valli dell’Alta Provenza dove tanto profumano quelle erbe, per non parlare poi delle ragazze. E ci sono anche le poesie, credo, che si lamentano di un oblio forse giusto - ma que­ sto non lo si può mai sapere - e un’aria, un tono che vorrei fosse come quello del Dimanche m'attend del grande Audiberti e di The Unquiet Grave2 e di tante pagine di Lepaysan de Paris,3 e dietro, sempre, Jean l’uccellatore che mi strappò alla mia adolescenza idiota e bonaerense per dirmi quello che Jules Verne mi aveva ripetuto tante volte senza che io lo capissi del tutto: c’è un mondo, ci sono ottanta mondi al giorno; ci sono Dargelos e Hatteras, c’è Gordon Pym, c’è Palinuro e c’è Oppiano Licario (uno sconosciuto, vero? Parleremo più avanti del cronopio Lezama Lima e, prima o poi, anche di Felisberto4 e di Maurice Fourré), e c’è so­ prattutto il gesto di condividere una sigaretta e una passeg­ giata nei più reconditi quartieri di Parigi o di altri mondi, ma adesso basta, vi sarete già fatti un’idea di quello che vi aspetta, e diciamo allora come il grande Macedonio:5 «Evi­ to di essere presente alla fine dei miei scritti, ecco perché li concludo prima».

2. La tomba inquieta, opera pubblicata da Cyril Connolly nel 1944 con lo pseudonimo di Palinuro. 3. Ilpaesano di Parigi, romanzo di Louis Aragon del 1926.

4. Felisberto Hernàndez (1902-1964), scrittore uruguayano.

5. Macedonio Fernàndez (1874-1952), argentino,poeta e scrittore avan­ guardista.

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Estate in collina

Ieri sera ho finito di costruire la gabbia per il vescovo di Evreux, ho giocato con il gatto Teodoro W. Adorno, e ho scoperto nel cielo di Cazeneuve una nuvola solitaria che mi ha fatto pensare a un quadro di René Magritte, La bat­ taglia delleArgonne. Cazeneuve è un paesino sulle colline di fronte alla catena del Lubéron, e quando soffia il maestra­ le che ripulisce l’aria e le sue immagini, mi piace guardarlo dalla mia casa di Saignon e immaginare che tutti gli abi­ tanti incrocino le dita della mano sinistra o si mettano un berretto di lana viola, soprattutto ieri sera, quando quella straordinaria nube Magritte mi ha costretto non solo a in­ terrompere la carcerazione del vescovo, ma anche il piace­ re di rotolarmi sul prato con Teodoro, attività che entram­ bi apprezziamo quasi al di sopra di ogni altra cosa. Nel cie­ lo sfilacciato dell’Alta Provenza, che alle nove di sera pre­ sentava ancora parecchio sole e un quarto di luna crescen­ te, la nube Magritte era sospesa proprio su Cazeneuve e a i3

quel punto sentii ancora una volta che la pallida natura imitava l’arte ardente e che quella nuvola plagiava la so­ spensione vitale sempre ominosa di Magritte e le occulte potenze di un testo da me scritto molti anni prima e pub­ blicato solo in francese, che dice:

Modo semplicissimo per distruggere una città Si aspetta, nascosti nel prato, che una grande nube cumuliforme si posizioni sulla città aborrita. A quel punto sì scocca la freccia pietrificante, la nube si tra­ sforma in marmo, e il resto non merita commenti.

Mia moglie, che mi sa intento a scrivere un libro di cui ho chiaro soltanto il desiderio e il titolo, legge da sopra la mia spalla e domanda: «Sarà un libro di memorie? Non avrai mica un principio di arteriosclerosi? E dove pensi di mette­ re la gabbia del vescovo?» Le rispondo che alla mia età le arterie avranno di sicuro dato avvio alla subdola vetrificazione, ma che le memorie si guarderanno bene dall’incorrere nel narcisismo che ac­ compagna l’andropausa intellettuale e si appoggeranno piuttosto sulla nube Magritte, sul gatto Teodoro W. Ador­ no, e su una condotta che nessuno ha descritto meglio di Felisberto Hernàndez quando in Terre della memoria (non delle memorie) scopre che i suoi pensieri oscillano sempre fra l’infinito e lo starnuto. Quanto alla gabbia, devo ancora incarcerare il vescovo che, per di più, è una mandragora, e vedremo poi dove collocare il suo oscillante inferno. La nostra casa è abbastanza grande, ma io ho sempre avuto la tendenza a lottare contro il vuoto mentre mia moglie si batte in senso contrario, il che ha dato al nostro matrimo­ nio uno suoi vari aspetti esaltanti. Se dipendesse da me, ap­ 14

penderei la gabbia del vescovo in mezzo al soggiorno perché la man­ dragora episcopale partecipi alla nostra estate cadenzata, ci veda bere il mate alle cinque del pomeriggio e il caffè all’ora della nube Magritte, per non parlare della tortuosa batta­ glia contro tafani e ragni. La mia cara Maria Zambrano, che difende con tanto amore le di­ verse manifestazioni di Aracne, mi perdonerà se dico che stasera ho ap­ plicato una scarpa e settantacinque chili di peso su un ragno nero che mirava ad arrampicarsi sui miei pan­ taloni, manovra con la quale sono riuscito a scoraggiarlo notevolmen­ te. Come ovvio i resti del ragno si sono aggiunti agli alimenti destinati al vescovo di Evreux, che si vanno accumulando in un angolo della gabbia dove un mozzicone di cande­ la permette di distinguere pezzi di spago, cicche di Gauloises, fiori sec­ chi, lumache, e un altro mucchio di ingredienti che meriterebbero l’ap­ provazione del pittore Alberto Gironella anche se la gabbia e il vesco­ vo dovessero sembrargli un puro la­ voro amatoriale. Ad ogni modo, non potrò appendere la gabbia in sog­ giorno; come la nube di Cazeneuve, rimarrà minacciosamente sospesa

Teodoro W. Adorno

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sul mio tavolo da lavoro. Ho già rinchiuso il vescovo: con due chiavi inglesi ho serrato il cappio di ferro che gli strin­ ge il collo, lasciandogli solo un punto d’appoggio per il pie­ de destro. La catena che regge la gabbia cigola ogni volta che si apre la porta della mia stanza, e così vedo il vescovo di fronte, poi di tre quarti, a volte di spalle; la catena tende a fissare la gabbia in una sola posizione. Quando è ora di mangiare accendo il mozzicone di candela, l’ombra del ve­ scovo si proietta sulle pareti bianche; il suo lato mandrago­ ra spicca di più nell’ombra. Siccome a Saignon ci sono pochissimi libri, giusto que­ gli ottanta o cento che leggeremo durante l’estate e quelli che compriamo alla libreria Dumas quando scendiamo ad Apt il giorno del mercato, mi mancano riferimenti sul ve­ scovo e non so se nella gabbia stava libero o alla catena. Preferisco tenerlo legato per il collo in quanto vescovo, an­ che se in quanto mandragora il trattamento mi inquieta. Il mio problema è più complicato di quello di Luigi xi per cui esisteva solo il problema episcopale; io ho un vescovo, una mandragora, e le due cose ne fanno una terza che ha la for­ ma di un vecchio sarmento, lungo una quindicina di centimetri, con un enorme sesso confuso, una testa che finisce con due corna o antenne, e braccia capaci di stringere ipo­ critamente un condannato alla ruota o una domestica che non diffidava abbastanza dei pagliai. Io opto per il cappio e per un’alimentazione di radice diabolica; per la mandrago­ ra ci sarà ogni tanto un piattino di latte, senza contare che qualcuno mi ha detto che bisogna accarezzare le mandra­ gore con una piuma così saranno contente e dispenseran­ no i loro favori. L’ironia della domanda di mia moglie incombe come la nube su Cazeneuve. E perché non un libro di memorie? Se ne avessi voglia, perché no? Quant’è ipocrita il continente

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sudamericano! Che paura di essere tacciati di vanità e/o pedanteria! Se Robert Graves o Simone de Beauvoir par­ lano di sé, grande rispetto e deferenza; se Carlos Fuentes o io pubblicassimo le nostre memorie, ci direbbero subito che ci sentiamo importanti. Una delle prove del sottosvi­ luppo dei nostri paesi è la mancanza di spontaneità dei loro scrittori; l’altra è la mancanza di umorismo, visto che que­ sto non nasce senza spontaneità. In altre società è proprio la somma della spontaneità e dell’umorismo a legittimare lo scrittore; Graves e Beauvoir scrivono le loro memorie il giorno stesso in cui gli viene l’ispirazione, senza che loro o i lettori lo considerino un fatto eccezionale. Noi, timidi prodotti dell’autocensura e della sorridente vigilanza di amici e critici, ci limitiamo a scrivere memorie vicarie, con qualche apparizione alla Fregoli nei nostri romanzi. Tutti i romanzieri fanno sempre un po’così, perché è nella natura stessa delle cose, ma noi ci rimaniamo dentro, fissiamo il domicilio legale nei nostri romanzi e quando usciamo in strada siamo signori annoiati, di solito in abito scuro. Ve­ diamo un po’: perché non dovrei scrivere le mie memorie adesso che comincia il mio crepuscolo, ho finito la gabbia del vescovo e sono colpevole di un mucchietto di libri che mi danno un certo diritto alla prima persona singolare? Il problema lo risolve Teodoro W. Adorno saltandomi malamente sulle ginocchia con gli inevitabili graffi, perché mentre gioco con lui mi scordo delle memorie e invece mi piacerebbe chiarire che il suo nome non gli è stato dato per ironia ma per il piacere infinito che certi carteggi argentini procurano a mia moglie e a me. Prima che passi a spiegare questo punto, avrete già notato che mi diverto molto di più a parlare di Teodoro e di altri gatti o persone che di me. O, per venire al dunque, della mandragora, della quale non si è detto quasi nulla.

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Secondo Polanco, che era il più vecchio, vent’anni pri­ ma e per analoghe ragioni il gatto avrebbe dovuto chia­ marsi Rainer Maria, un po’ dopo Albert o William - con­ trolla, controllore - e in seguito Saint-John Perse (gran bel nome per un gatto, a ben vedere) o magari Dylan. Sventolando vecchi ritagli di periodici nazionali sotto gli occhi stupefatti di Juan e Calac, Polanco era in grado di dimostrare inconfutabilmente che i sociologi collaboratori di quelle colonne dovevano essere in fondo un unico socio­ logo, e che la sola cosa che cambiava nel corso degli anni erano le citazioni, vale a dire che l’importante era essere al­ la moda in quel campo ed evitare-sotto-pena-di-discredito ogni riferimento ad autori già utilizzati nel decennio prece­ dente. Pareto, una brutta parola. Durkheim, che volgarità. Appena arrivavano i ritagli, i tre tartari controllavano subi­ to di cosa si era occupato il sociologo nelle ultime settima­ ne, senza preoccuparsi delle diverse firme in fondo agli ar­ ticoli visto che l’unica cosa interessante era scoprire ogni tot centimetri la citazione di Wittgenstein o di Adorno senza la quale nessun articolo era concepibile. «Aspetta un atti­ mo», diceva Polanco, «vedrai che presto sarà il turno di Lévi-Strauss se non è già cominciato, e allora tenetevi for­ te, ragazzi». A quel punto a Juan veniva in mente che i blue jeans più famosi degli Stati Uniti erano prodotti da un cer­ to Levi Strauss, ma Calac e Polanco gli facevano notare che stava uscendo dal seminato e allora i tre cominciavano a in­ dagare sulle ultime attività della grassona. La storia della grassona era di proprietà quasi esclusiva di Calac, che conosceva a memoria decine di sonetti della celebre poetessa e li recitava invertendo quartine e terzine senza che nessuno si accorgesse della differenza, così come il fatto che la grassona di domenica 8 avesse due cognomi e quella del 29 uno solo non turbava affatto la certezza

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dell’esistenza di una sola grassona che abitava in varie di­ more con diversi nomi e mariti, ma che in modo sempre commovente continuava a scrivere lo stesso sonetto o qua­ si. «E pura fantascienza», diceva Calac, «in quei quotidiani stanno entrando in una fase di mutazione, c’è un protopla­ sma complesso che continua a non ren­ dersi conto che potrebbe vivere pa­ gando un solo affitto. I ricercatori dovrebbero provocare l’incontro nient’affatto fortuito tra il So­ ciologo e la Grassona per vede­ re se scocca la scintilla genetica e facciamo un enorme salto in avanti». Di sicuro aTeodoro tutto questo interes­ sava poco finché gli met­ tevano la sua ciotola di latte tiepido accanto al letto di Calac, che era l’agorà in cui si analizzavano questi problemi del destino sudamericano.

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Julios in azione

Nel corso del diciannovesimo secolo, rifugiarsi nella meta­ fisica era una delle più frequenti soluzioni davanti al timor mortis, alle miserie delT^'c et nunc e al sentimento dell’as­ surdo attraverso cui ci definiamo e definiamo il mondo. A quel punto arrivò Jules Laforgue che, in un certo senso, an­ ticipò in qualità di cosmonauta l’altro Jules e indicò una soluzione più semplice: che bisogno c’era della vaporosa metafisica quando avevamo a portata di mano la fisica pal­ pabile? In un’epoca nella quale qualsiasi sentimento aveva l’effetto di un boomerang, Laforgue lanciò il suo come un giavellotto contro il sole, contro lo sconfortante mistero cosmico. Il tempo gli ha dato ragione: nel ventesimo seco­ lo, per guarire dall’antropocentrismo causa di tutti i nostri mali, non c’è niente di meglio che affacciarsi alla fisica dell’infinitamente grande (o piccolo). Con qualunque te­ sto di divulgazione scientifica si recupera un vivo senti­ mento dell’assurdo, ma questa volta è un sentimento a por-

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Encore à cet astre Espèce de soleil! Tu songes: - Voyez-les, Cespantins morphinés, buveurs de lait d’ànesse Et de café; sans trève, en vain,je leur caresse Lochine de mesfeux, ils vont étiolés! -

- Eh! C’est toi, qui ria plus que des rayons gelés! Nous, nous, mais nous crevons de santé, dejeunesse! Cesi vrai, la Terre rìest quune vaste kermesse, Nos hourrahs de gàité courbent au loin les blés. Toi seul claques des dents, car tes taches accrues Te mangent, ó Soleil, ainsi que des verrues Un vaste citron d'or, et bientót, blond moqueur, Après tant de couchants dans la pourpre et la gioire, Tu seras en risée aux étoiles sans coeur, Astrejaune et grèie, flamboyante écumoire!

Va detto di passaggio (ma in un passo privilegiato) che, nel 1911, Marcel Duchamp fece per questa poesia un disegno dal quale sarebbe nato il suo TVw descendant un escalier. Normalissima sequenza patafisica.

tata di mano, nato da cose tangibili o dimostrabili, quasi consolatorio. Non bisogna più credere perché è assurdo, ma è assurdo perché bisogna credere. Le mie erudite letture del supplemento scientifico di Le Monde (esce il giovedì) hanno inoltre il vantaggio che, in­ vece di sottrarmi all’assurdo, mi spingono ad accettarlo co­ me il modo naturale in cui ci si presenta una realtà incon­ cepibile. E questo non equivale più ad accettare la realtà pur ritenendola assurda, ma a sospettare che nell’assurdo ci sia una sfida che la fisica ha raccolto senza sapere come né dove andrà a finire la sua folle corsa lungo il doppio tunnel

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del telescopio e del microscopio (sarà poi davvero doppio quel tunnel?). Voglio dire che un chiaro sentimento dell’assurdo ci colloca in una posizione migliore e più lucida rispetto al­ la sicurezza di matrice kantiana secondo cui i fenomeni sono mediatori di una realtà inafferrabile ma che comun­ que serve da garanzia per un anno contro ogni rischio di rottura. I cronopios hanno fin da piccoli una nozione for­ temente costruttiva dell’assurdo, il che provoca loro un gran soprassalto quando vedono come i famas riescano a rimanere tranquilli leggendo la seguente notizia: La nuova particella elementare («N. Asterisco 3245 ») ha una vita relativamente più lunga delle altre particelle co­ nosciute, anche se raggiunge soltanto un millesimo di milionesimo di milionesimo di milionesimo di secondo. Le Monde, giovedì 7 luglio, 1966

«Dai, Coca», dice il fama dopo aver letto questa infor­ mazione, «passami le scarpe di camoscio che stasera ho 24

una riunione importantissima alla Società degli Scrittori. Verrà discussa la questione dei certami poetici a Curuzù Cuatià e sono già in ritardo di venti minuti». A quel punto vari cronopios si sono sovreccitati perché hanno appena saputo che forse l’universo è asimmetrico, cosa che contraddice la più illustre di tutte le idee ricevu­ te. Un ricercatore di nome Paolo Franzini, e sua moglie Juliet Lee-Franzini (avete notato come partendo da un Julio che scrive e da un altro Julio che disegna6 si sono ag­ giunti qui due Jules e adesso una Juliet, sulla base di un ar­ ticolo apparso un 7 luglio, mese il cui nome deriva da un Giulio?) sono ferratissimi sul mesone Età neutro, che è da poco uscito dall’anonimato e ha la curiosa particolarità di essere l’antiparticella di sé stesso. Appena viene scompo­ sto, il mesone produce tre mesoni Pi dei quali uno, pove­ rino, è neutro, e gli altri due sono rispettivamente positivo e negativo con enorme sollievo di tutti. Finché (ed è qui che centrano i Franzini) si scopre che il comportamento dei due mesoni Pi non è simmetrico; l’armoniosa nozione per cui l’antimateria è l’esatto riflesso della materia si sgonfia come un palloncino. Che cosa ne sarà di noi? I Franzini non si sono affatto spaventati; va benissimo che i due mesoni Pi siano fratelli nemici, perché questo aiuta a riconoscerli e a identificarli. Persino la fisica ha i suoi Talleyrand. I cronopios si sentono fischiare nelle orecchie il vento della vertigine quando leggono in fondo all’articolo: «Così, grazie a questa asimmetria, si potrà forse arrivare all’identi­ ficazione dei corpi celesti composti di antimateria, ammes­ so che quei corpi esistano come sostiene qualcuno basan6.Julio Silva ( 1930),pittore e scultore argentino, vive a Parigi dal 1955. Ha curato rimpianto grafico originale di questo libro.

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dosi sulle radiazioni che emettono». E sempre di giovedì, sempre su Le Monde, sempre con un Julio a tiro. Quanto ai famas, l’ha già detto Laforgue, da una delle sue cabine spaziali: Lapluspart vit et meurt sani soupfonner l'histoire Du globe, sa misere en l’étemelle gioire, Safuture agonie au soleil moribond. Vertiges d’univers, cieux àjamais enféte! Rien, ils naurontrien su. Combien mèmes'en vont Sans avoir seulement visité leurplanète.

p.s. Quando ho scritto in nota «Normalissima sequenza patafisica» dopo aver segnalato quel collegamento LaforgueDuchamp che in un modo o nell’altro mi coinvolge sempre, non immaginavo che mi si sarebbe aperto ancora una volta passaggio verso il mondo dei grandi trasparenti. La stes­ sa sera (11/12/1966), dopo aver lavorato a questo testo, ho deciso di andare a vedere una mostra dedicata al Dadaismo. Il primo quadro che vidi all’ingresso fu il Nu descendant un escalier, inviato a Parigi per l’occasione dal museo di Fila­ delfia.

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Del sentimento di non esserci del tutto

Jamais rèe! et toujours vrai (In un disegno di Antonin Artaud)

Per tante cose sarò sempre come un bambino, ma uno di quei bambini che fin dall’inizio portano dentro di sé l’adul­ to, in maniera che quando il mostriciattolo diventa adulto davvero succede che a sua volta questo porta dentro di sé il bambino, e nel mezzo del cammini si verifica una coesisten­ za raramente pacifica fra almeno due aperture sul mondo. Tutto ciò può essere inteso in senso metaforico ma co­ munque è indice di un temperamento che non ha rinun­ ciato alla visione puerile come prezzo della visione adulta, e questa giustapposizione che crea il poeta e forse il crimi­ nale, e anche il cronopio e l’umorista (questioni di dosaggi diversi, di tronche e di sdrucciole, di scelte: ora gioco, ora uccido) si manifesta nel sentimento di non esserci del tut­ to in nessuna delle strutture, delle tele che tesse la vita e in cui siamo al tempo stesso ragno e mosca. 7. In italiano nel testo.

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Molti miei scritti vanno catalogati sotto il segno dell’^ccentricìtà, visto che fra vivere e scrivere non ho mai ammes­ so una netta differenza; se, vivendo, riesco a dissimulare una partecipazione parziale alla mia circostanza, non pos­ so invece negarla in quello che scrivo dato che scrivo pro­ prio perché non ci sono o perché ci sono a metà. Scrivo per difetto, per dislocazione; e siccome scrivo da un interstizio, non faccio che invitare gli altri a cercare i propri e a guar­ dare, attraverso questi, il giardino in cui gli alberi hanno frutti che ovviamente sono pietre preziose. Il mostriciatto­ lo non demorde. Questa sorta di costante ludica spiega, se non giustifica, buona parte di quello che ho scritto o ho vissuto. Ai miei romanzi si rimprovera una ricerca intellettuale sul roman­ zo stesso - quel gioco sul bordo del balcone, quel fiammi­ fero accanto alla bottiglia di benzina, quella pistola carica sul comodino -, che sarebbe un po’ come un commento continuo dell’azione e spesso l’azione di un commento. Mi annoia argomentare a posteriori che nel corso di questa dialettica magica un uomo-bambino sta lottando per con­ cludere il gioco della sua vita: un-due-tre-a-chi-toccatocca-a-te. Perché un gioco, a ben vedere, non è forse un processo che parte da una dislocazione per arrivare a una collocazione, a un piazzamento - goal, scacco matto, tana libera tutti? Non è il compimento di una cerimonia che si avvia alla fase finale che la corona? L’uomo dei nostri tempi crede con facilità che la sua in­ formazione filosofica e storica lo salvi dal realismo inge­ nuo. Durante conferenze universitarie e chiacchiere da bar arriva ad ammettere che la realtà non è quella che sembra, ed è sempre pronto a riconoscere che i suoi sensi lo ingan­ nano e che la sua intelligenza gli produce una visione tolle­ rabile ma incompleta del mondo. Ogni volta che pensa 28

metafisicamente si sente «più triste e più saggio», ma la sua ammissione è momentanea ed eccezionale mentre il conti­ nuum della vita lo colloca in pieno nell’apparenza, la con­ cretizza intorno a lui, la riveste di definizioni, fùnzioni e va­ lori. Quest’uomo è un ingenuo realista più che un realista ingenuo. Basta osservare il suo comportamento di fronte a tutto ciò che è eccezionale, insolito; o lo riduce a un feno­ meno estetico o poetico («era qualcosa di veramente sur­ realista, te lo giuro») o rinuncia subito ad analizzare l’intravisione che hanno potuto produrgli un sogno, un atto man­ cato, un’associazione verbale o causale fuori dal comune, una coincidenza sconvolgente, qualunque frattura istanta­ nea del continuum. Se lo si interroga, dirà che non crede af­ fatto nella realtà quotidiana e che la accetta soltanto pragmaticamente. E invece sì che ci crede, è l’unica cosa in cui crede. Il suo senso della vita è simile al meccanismo del suo sguardo. A volte ha un’effimera coscienza del fatto che ogni tot secondi le palpebre interrompono la visione che la sua coscienza ha deciso di ritenere permanente e continua; ma quasi subito il battito delle ciglia ridiventa inconscio, il li­ bro o la mela si fissano nella loro ostinata apparenza. C’è

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come un accordo fra gentiluomini tra la circostanza e i cir­ costanziati: tu non modifichi le mie abitudini, e io non ti stuzzicherò con un bastoncino. L’uomo-bambino però non è un gentiluomo ma un cronopio che non capisce bene il si­ stema di linee di fuga grazie alle quali si crea una prospet­ tiva soddisfacente di quella circostanza, oppure, come suc­ cede nei collages mal fatti, si sente su una scala diversa ri­ spetto a quella della circostanza, una formica che non entra in un palazzo o un numero quattro in cui non entrano che tre o cinque unità. A me questo accade in modo palpabile, a volte sono più grande del cavallo che monto, e certi gior­ ni cado dentro una delle mie scarpe e prendo una botta ter­ ribile, senza contare la fatica per uscirne, le scale fabbricate nodo dopo nodo con i lacci e l’orribile scoperta, una volta arrivato al bordo, che qualcuno ha riposto la scarpa in un armadio e che sto peggio di Edmond Dantès nel castello d’If visto che negli armadi di casa mia non c’è neppure un abate a portata di mano. E mi piace, e sono terribilmente felice nel mio inferno, e scrivo. Vivo e scrivo minacciato da questa lateralità, da quella parallasse effettiva, da questo essere sempre un po’ più a sinistra o più sul fondo rispetto al posto in cui si do­ vrebbe essere perché tutto si risolva in modo soddisfacen­ te in un altro giorno di vita senza conflitti. Fin da piccolis­ simo ho assunto, a denti stretti, quella condizione che mi divideva dai miei amici e al tempo stesso li attirava verso chi era strano, chi era diverso, chi infilava il dito nel venti­ latore. Non ero privo di felicità; l’unica condizione era coincidere di tanto in tanto con qualcuno che come me non si adattava in pieno all’etichetta che aveva cucita ad­ dosso (il compagno, il tipo eccentrico, la vecchia pazza), e di certo non era facile; ma ben presto scoprii i gatti, nei quali potevo immaginare la mia stessa condizione, e i libri, 30

dove la ritrovavo in pieno. In quegli anni avrei potuto ripe­ termi i versi, forse apocrifi, di Poe:

From childhood’s hourl bave not been As others mere: I bave not seen As others sano; I could not bring Mypassionsfrom a common spring Ma quelle che per lo scrittore della Virginia8 erano stig­ mate (luciferine, ma proprio per questo mostruose) che lo isolavano e lo condannavano, And all 1 loved, I loved alone

non mi allontanavano da coloro il cui universo rotondo condividevo solo in maniera tangenziale. Sottile ipocrisia, predisposizione per tutti i mimetismi, tenerezza che supe­ rava i limiti e me li dissimulava; le sorprese e le afflizioni della prima età si tingevano di piacevole ironia. Ricordo: a undici anni prestai a un compagno II segreto di Wilhelm Storiti dove Jules Verne mi proponeva, come sempre, un rapporto naturale e intimo con una realtà per niente diver­ sa da quella quotidiana. Il mio amico mi restituì il libro: «Non l’ho finito. E troppo fantastico». Non dimenticherò mai la sorpresa scandalizzata di quel momento. La fanta­ stica ìnvisibilità di un uomo? Dunque, potevamo incon­ trarci solo nel calcio, nel caffellatte, nelle prime confidenze sessuali? Da adolescente, come tanti altri, credetti che il mio con­ tinuo estraniamento fosse il segno premonitore del poeta, 8. In realtà, Poe nacque a Boston, in Massachusetts, e si trasferì poi a Rich­ mond, in Virginia.

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e scrissi le poesie che si scrivono a quell’età e che, in quella fase della vita che ripete nell’individuo le fasi della lettera­ tura, sono sempre più facili da scrivere della prosa. Con gli anni scoprii che se tutti i poeti sono estraniati, non tutti gli estraniati sono poeti nell’accezione generica del termine. Entro qui in un terreno polemico, chi vuole raccogliere il guanto lo raccolga. Se per poeta intendiamo alla lettera chi scrive poesie, la ragione per cui le scrive (non stiamo discu­ tendo della qualità) nasce dal fatto che il suo estraniamento come persona innesca sempre un meccanismo di challenge and responsi, così, ogni volta che il poeta è sensibile al­ la propria lateralità, alla propria situazione estrinseca in una realtà in apparenza intrinseca, reagisce poeticamente (direi quasi professionalmente, soprattutto raggiunta la maturità tecnica); detto altrimenti, scrive poesie che sono come pietrificazioni di questo estraniamento, quello che il poeta vede o sente al posto di, o a fianco di, o al di sotto di, o al contrario di, con questo di che rimanda a ciò che gli al­ tri vedono come credono che sia, senza spiazzamento né critica interna. Dubito che esista una sola grande poesia che non sia nata da questa estraneità o che non la tradu­ ca; ancor più, che non Fattivi e la potenzi sospettando che sia esattamente la zona inter­ stiziale da cui si può accedere. Anche il filosofo si estrania e si disloca di proposito per scoprire le crepe dell’appa­ renza, e anche la sua ricerca nasce da un challenge and response-, in entrambi i casi, seb­ 32

bene i fini siano diversi, c’è una risposta strumentale, un at­ teggiamento tecnico davanti a un oggetto definito. • Abbiamo però già visto che non tutti gli estraniati sono poeti o filosofi professionisti. Cominciano quasi sempre con Tesserlo o il volerlo essere, ma arriva il giorno in cui si rendono conto di non farcela o di non essere obbligati a quella response quasi inevitabile che è la poesia o la filosofia davanti al challenge deH’estraniamento. Il loro atteggia­ mento diventa difensivo, egoista, se vogliamo, visto che si tratta di preservare soprattutto la lucidità, di resistere alla subdola deformazione che la quotidianità codificata pro­ duce a poco a poco nella coscienza con la partecipazione attiva dell’intelligenza raziocinante, dei mezzi di informa­ zione, dell’edonismo, dell’arteriosclerosi e del matrimonio inter alia. Gli umoristi, certi anarchici, non pochi crimina­ li e una quantità di scrittori di racconti e romanzi si collo­ cano in questo settore poco definibile in cui la condizione di estraniato non comporta necessariamente una risposta di ordine poetico. Questi poeti non professionisti soppor­ tano il loro spostamento con maggiore naturalezza e mi­ nore brillantezza, e si potrebbe perfino dire che la loro no­ zione dell’estraniamento è ludica in confronto alla risposta lirica o tragica del poeta. Mentre quest’ultimo ingaggia sempre un combattimento,! semplici estraniati aderiscono all’eccentricità fino al punto in cui l’eccezionaiità di questa condizione, che è motivo di challenge per il poeta o per il fi­ losofo, tende a diventare condizione naturale del soggetto estraniato che così ha voluto e perciò ha adattato la sua condotta a questa accettazione graduale. Penso a Jarry, a una lenta negoziazione a base di umorismo, ironia, fami­ liarità, che finisce per far pendere la bilancia dalla parte delle eccezioni, per annullare la scandalosa differenza fra solito e insolito, e permette il passaggio quotidiano, senza 33

una response concreta perché non c’è più challenge, a un pia­ no che in mancanza di un nome migliore continueremo a chiamare realtà, ma senza che si riduca a unflatus vocis o a un ripiego.

Ritornando a Eugénie Grandet Forse adesso si capirà meglio qualcosa di quanto ho volu­ to fare nei miei scritti per dissipare un malinteso che in­ crementa ingiustamente i guadagni delle ditte Waterman e Pelikan. Chi mi rimprovera di scrivere romanzi nei qua­ li si mette in dubbio quasi di continuo quello che è appe­ na stato detto o si afferma ostinatamente ogni ragione di dubbio, insiste sulla questione che le cose più accettabili nella mia letteratura sono certi racconti in cui si avverte una creazione univoca, senza sguardi all’indietro o pas­ seggiatine amletiche all’interno della stessa struttura nar­ rativa. A me sembra che questa netta distinzione fra due modi di scrivere non si fondi tanto sulle ragioni o sui risul­ tati dell’autore quanto sulla comodità di chi legge. Perché tornare sul fatto risaputo che più un libro somiglia a una pipa da oppio, più il cinese che lo fuma ne rimane soddi­ sfatto, disposto al massimo a mettere in discussione la qualità dell’oppio ma non i suoi effetti letargici? I sosteni­ tori di quei racconti sorvolano sul fatto che il tema di ogni racconto è anche la testimonianza di un estraniamento, quando non una provocazione tendente a suscitarlo nel lettore. E stato detto che nei miei racconti il fantastico si stacca dal «reale» o vi si inserisce, e che è quel brusco e quasi sempre inatteso disaccordo fra un soddisfacente orizzonte ragionevole e l’irruzione dell’insolito a dare lo­ ro efficacia in quanto materia letteraria. Ma allora, cosa 34

importa che in que­ sti racconti si narri senza soluzione di continuità un’azione in grado di sedurre il lettore, se a sedurlo in modo subliminale non è l’unità del pro­ cesso narrativo bensì la disrupzione in pie­ na apparenza univo­ ca? Un buon mestie­ re può soggiogare il lettore senza dargli la possibilità di eser­ citare il suo senso critico nel corso del­ la lettura, ma non è per il mestiere che quelle narrazioni si distinguono da altri tentativi; scritte be­ ne o male, sono per la maggior parte della stessa stoffa dei miei romanzi: aperture sull’estraniamento, istanze di un dislo­ camento a partire dal quale il consueto smette di essere rassicurante perché niente è consueto quando viene sottoposto a un discreto e prolungato scrutinio. Domandatelo a Macedonio, a Fran­ cis Ponge, a Michaux. 35

Qualcuno dirà che una cosa è mostrare un estraniamento così come si verifica o come va parafrasato lettera­ riamente, e un’altra, molto diversa, dibatterne su un piano dialettico come avviene nei miei romanzi. Chi legge, in qualità di lettore ha pieno diritto di preferire l’uno o l’altro veicolo, optare per la partecipazione o per la riflessione. Tuttavia, dovrebbe astenersi dal criticare il romanzo in no­ me del racconto (o al contrario, se mai qualcuno avesse tentato di farlo), visto che l’atteggiamento centrale rimane lo stesso e l’unica cosa diversa è la prospettiva in cui l’auto­ re si colloca per moltiplicare le sue possibilità interstiziali. Rayuela (Ilgioco del mondo) è per certi versi la filosofia dei miei racconti, un’indagine su quello che, nel corso di tanti anni, ha determinato la loro materia o il loro impulso. Quando scrivo un racconto rifletto poco o niente; come succede con le poesie, ho l’impressione che si siano scritti da sé e non credo di vantarmi se dico che molti di questi partecipano a quella sospensione della contingenza e dell’incredulità in cui Coleridge vedeva la nota distintiva della più alta operazione poetica. I romanzi, invece, sono stati imprese più sistematiche, in cui l’alienazione di ma­ trice poetica è intervenuta solo a intermittenza per porta­ re avanti un’azione rallentata dalla riflessione. Ma si è no­ tato a sufficienza che quella riflessione partecipa meno della logica che della mantica, che non è tanto dialettica quanto associazione verbale o immaginativa? Quello che qui chiamo riflessione meriterebbe forse un altro nome o in ogni caso un’altra connotazione; anche Amleto riflette sulla sua azione o inazione, anche l’Ulrich di Musil o il console di Malcolm Lowry. Ma è quasi inevitabile che queste pause nell’ipnosi, in cui l’autore richiede una veglia attiva da parte del lettore, siano accolte dai clienti della fu­ meria con un notevole livello di costernazione. 36

Per concludere: anche a me piacciono quei capitoli di Rayuela che i critici hanno in modo quasi unanime sottoli­ neato: il concerto di Berthe Trépat, la morte di Rocamadour. E tuttavia non credo che contengano, in alcun modo, la giustificazione del libro. Non posso fare a meno di nota­ re che chi elogia quei capitoli sta comunque elogiando un ulteriore anello all’interno della tradizione romanzesca, in un terreno familiare e ortodosso. Mi unisco ai pochi critici che hanno voluto vedere in Rayuela la denuncia imperfet­ ta e disperata àeWestablishment delle lettere, al contempo specchio e schermo dell’altro establishment che sta facendo di Adamo, ciberneticamente e minuziosamente, quello che rivela il suo nome in spagnolo, Adàn, quando lo si legge al contrario: nada, nulla.

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Tema per San Giorgio

Ogni tanto Lopez è costretto a riprendere a lavorare per­ ché ha scoperto che il denaro ha una sgradevole tendenza al restringimento, e che all’improvviso un bel bigliettone da cento franchi esce dalla tasca ridotto a uno da cinquan­ ta e quando meno te l’aspetti si rimpicciolisce trasforman­ dosi in uno da dieci, dopo di che succede una cosa terribi­ le, cioè la tasca pesa molto di più e si sente perfino un sim­ patico tintinnio, ma quelle piacevoli manifestazioni pro­ vengono solo da poche monete da un franco e qui ti voglio. Sicché il poveretto prorompe in cavernosi sospiri e firma un contratto di un mese con una qualsiasi delle aziende per cui già tante volte ha lavorato temporaneamente e lunedì 5 luglio 1966 alle 9 in punto, rientra nella sezione 18,4° pia­ no, scala 2 e paf, si imbatte nell’affabile mostro. Naturalmente non è facile accettare la realtà dell’affabi­ le mostro visto che innanzitutto non c’è nessun mostro, perché come può esserci un mostro lì dove il capo e i colle­

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ghi dell’ufficio lo accolgono a braccia aperte e tutti gli rac­ contano le novità e gli offrono sigarette? La presenza del mostro è un’altra cosa, che si impone come in diagonale o dal rovescio di quanto succede quel giorno e nei giorni suc­ cessivi, e lui deve ammetterla sebbene nessuno abbia mai visto prima il mostro dato che quel mostro è tale proprio perché non esiste, perché è lì come un nulla vivo, una spe­ cie di vuoto che fagocita e possiede e senti cosa mi è suc­ cesso ieri sera, Lopez, figurati, mia moglie. E così ci si ac­ corge quasi subito del mostro perché è incredibile, ragazzi, avevano promesso un aumento entro febbraio e adesso guarda un po’cosa succede, il fatto è che il Ministero... Se lo si dovesse evidenziare, spolverare con un talco di parole per distinguerne la forma e i limiti, magari si trove­ rebbero cose come la pipa di Suàrez, la tosse che ogni tot minuti proviene dall’ufficio della signora Schmidt, il pro­ fumo al limone di miss Roberts, le barzellette di Toguini (te l’ho raccontata quella del giapponese?), quel modo di sottolineare le frasi con colpetti di matita sul tavolo che conferisce alla prosa del dottor Uriarte un’aria di minestro­ ne frullato a suon di metronomo. E anche la luce spoglia di alberi e nubi che trascina un piumaggio mutilato attraver­ so i vetri polarizzati delle finestre, il carrettino del caffè e dei cornetti alle dieci e quaranta, il cinereo fluire delle car­ telle dei documenti. Niente di tutto questo è davvero il mostro o forse sì, ma come una manifestazione insignifi­ cante della sua presenza, come le impronte delle sue zam­ pe, i suoi escrementi o un lontano muggito. E tuttavia il mostro vive della pipa, della tosse o dei colpetti dì matita, il suo sangue e il suo carattere sono fatti di cose così, soprat­ tutto il suo carattere perché Lopez ha finito per capire che il mostro è diverso da altri mostri che lui conosce, tutto di­ pende dal modo in cui si solidifica, da quali tossi, finestre o 39

cicale circolino nelle sue vene. Se a volte aveva immaginato che il 2 mostro fosse sempre lo stesso, ' qualcosa di ubiquo e inevitabile, gli era bastato lavorare in diverse aziende per scoprire che ce n’era più di uno, sebbene, in un certo senso, tutti fossero sempre il mostro nella misura in cui il mostro si lasciava riconoscere soltanto da lui mentre i suoi colleghi d’ufficio non sembra­ vano avvertirne la presenza. Lopez è arrivato a capire che il mostro di place Azincourt, quello di Villa Calvin e quello di Vindobona Street differiscono in oscure qualità, inten­ zioni e tabacchi. Per esempio, sa che quello di place Azin­ court è un bravo ragazzo, garrulo, un mostro affabile se vo­ gliamo, un mostriciattolo che si rotola di continuo per ter­ ra, e sempre pronto alle marachelle e alla dimenticanza, un mostro come non ce ne sono quasi più, mentre quello di Vindobona Street è acido e secco, sembra a disagio con sé stesso e respira banalità e gadget, è un mostro frustrato e infelice. E adesso Lopez è entrato di nuovo in una di quel­ le aziende che lo assumono, e seduto davanti a una scriva­ nia coperta di carte ha sentito a poco a poco, socchiudendo gli occhi mentre fùma e ascolta gli aneddoti dei suoi colle­ ghi, la lenta inesorabile indescrivibile solidificazione del mostro che aspettava il suo ritorno per esistere davvero, per svegliarsi e gonfiarsi con tutte le sue scaglie e le sue pipe e le sue tossi. Per un momento ancora, gli sembra ridicolo che il mostro lo abbia aspettato per ricominciare a vivere, che abbia aspettato lui, l’unico che lo detesta e lo teme, che abbia aspettato proprio lui e non uno qualsiasi di quei col­ leghi che ne ignorano l’esistenza e se pure ne fossero al cor40

rente se ne starebbero tranquilli, ma forse appunto per questo il mostro non esiste quando ci sono soltanto loro e manca Lopez. Gli sembra tutto così assurdo che vorrebbe essere lontano e non dover lavorare, ma è inutile perché la sua assenza non ucciderà il mostro che continuerà ad aspettare nel fumo della pipa, nel rumore del carrettino del caffè delle dieci e quaranta, nella storiella del giapponese. Il mostro è paziente e affabile, non protesterà mai quando Lopez se ne andrà lasciandolo cieco, semplicemente con­ tinuerà ad aspettare lì, nelle sue tenebre, con un’immensa disponibilità pacifica e sonnolenta. La mattina in cui Lopez si piazzerà alla sua scrivania, circondato dai colleghi che lo salutano e lo applaudono, il mostro sarà felice di ri­ svegliarsi, sarà fe­ lice con una orri­ bile felicità inno­ cente del fatto che i suoi occhi siano ancora una volta gli occhi con cui Lopez lo e lo odia.

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Grave problema argentino: caro amico, egregio., o il nome e basta

Voi ridetere, ma è uno dei problemi argentini di più diffi­ cile soluzione. Dato il nostro carattere (problema centra­ le che per questa volta lasceremo ai sociologi), l’intesta­ zione delle lettere presenta difficoltà finora insormonta­ bili. In concreto, quando uno scrittore deve scrivere a un collega di cui non è amico personale, e deve unire la cor­ tesia alla verità, ecco che comincia il fruscio di penne. Siete un romanziere e dovete scrivere a un altro roman­ ziere; siete un poeta, e idem; siete un autore di racconti. Prendete un bel foglio di carta e scrivete: «Signor Oscar Frumento, Garabato 1787, Buenos Aires». Lasciate un bello spazio (le lettere ariose sono le più eleganti) e vi ap­ prestate a cominciare. Non siete affatto in confidenza con Frumento; non siete amico di Frumento; lui è un roman­ ziere e voi anche; in realtà voi siete un romanziere miglio­ re di lui, ma non c’è dubbio che lui pensi il contrario. A un signore che è un collega ma non un amico non si può cer­ 42

to dire: «Caro Frumento». Non si può per la semplice ra­ gione che a voi Frumento non è caro. Chiamarlo caro è quasi lascivo, in ogni caso una men­ zogna che Frumento accoglierà con un sorriso tetanico. La grande soluzione argentina, in questi casi, sembra essere quella di scrivere «Egregio Frumento». E più distante, più obiettivo, dimostra un sentimento cordiale e un riconosci­ mento di valori. Ma se vi rivolgete a Frumento per annun­ ciargli che gli avete inviato per pacco postale il vostro ulti­ mo libro, e nel libro avete scritto una dedica nella quale si parla di ammirazione (è quello di cui più si parla nelle de­ diche) come farete a dargli dell’egregio nella lettera? Egre­ gio è un termine che trasuda indifferenza, ufficio, bilancio annuale, sgombero, interruzione di rapporti, bollette del gas, nota del sarto. Pensate disperatamente a un’alternati­ va, ma non la trovate; in Argentina siamo cari o egregi e fi­ nisce lì. C’è stato un periodo (io ero giovane e portavo la paglietta) in cui molte lettere cominciavano subito dopo il luogo e la data; l’altro giorno ne ho trovata una, tutta in­ giallita, poverina, e mi è sembrata una mostruosità, un abo­ minio. Come possiamo scrivere a Frumento senza prima identificarlo (Frumento) e poi qualificarlo (caro/egregio)? Si capisce perché il messaggio diretto sia caduto in disuso o sia riservato solo a quelle lettere che iniziano: «Una cana­ glia come lei, ecc.», o «Le do tre giorni di tempo per paga­ re l’affitto», cose del genere. Più si pensa, meno si vede la possibilità di una terza opzione fra caro ed egregio; in qual­ che modo bisognerà pure rivolgersi a Frumento, ma il pri­ mo è eccessivo e il secondo è algido. Varianti come «gentile» e «distinto» vengono scartate in quanto affettate e volgari. Se lo si chiama «maestro», c’è il rischio che Frumento si senta preso in giro. Comunque la si metta, sì ricade nel caro o nell’egregio. Insomma, non si 43

potrebbe inventare qualcos’altro? Noi argentini abbiamo bisogno che ci tolgano di dosso un po’di amido, che ci in­ segnino a scrivere con naturalezza: «Amico Frumento, grazie per il tuo ultimo libro», o con affetto: «Sciagurato, ma che razza di romanzo mi mandi?», o con distacco ma sinceramente: «Fratello mio, con tutte le possibilità che cerano nella frutticoltura», modi per entrare nel merito della questione che concilino la veridicità con la semplici­ tà. Ma sarà difficile, perché siamo tutti egregi o cari, ed è così che vanno le cose.

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Sulla serietà delle veglie funebri

Una volta mentre tornavo in Francia a bordo di una delle lussuose barchette della Flotta Mercantile del nostro pae­ se (conosco la Rio Bermejo e la Rio Belgrano, mi ricordo del capitano Locateli! esperto di begonie, del cameriere Fran­ cisco che era un galiziano come ormai non ce ne sono più, e di un barman alla cui scuola imparai a preparare il Corazón de Indio, cocktail che, come indica il nome, è popo­ larissimo in Belgio), ebbi la fortuna di condividere tre set­ timane di bel tempo con il dottor Alejandrò Gancedo, sua moglie e i loro tre figli, uno più cronopio dell’altro. Presto si scoprì che Gancedo apparteneva alla razza di Mansillae di Eduardo Wilde,9 il perfetto causeur che davanti a un bic­ chiere e a un avana si trasforma nel proprio capolavoro e

9. Lucio V. Mansilla (1831-1913), scrittore argentino che intervenne nel­ le lotte contro gli indios. Eduardo Wilde (1844-1913), scrittore e politico argentino, autore di un romanzo autobiografico e di vari romanzi satirici.

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che, come l’altro Wilde, mette il genio al servizio della vita sebbene nei suoi libri non manchi il talento. Di molti racconti di Gancedo conservo un ricordo che è prova dell’efficacia con cui erano narrati (ogni racconto è il modo in cui lo si racconta, la consapevolezza che il con­ tenuto e la forma non sono due cose diverse crea il bravo narratore orale, che non si differenzia così dal bravo scrit­ tore sebbene i pregiudizi e gli editori favoriscano quest’ul­ timo). Fra quei racconti scelgo, sapendo di non renderla bene, la storia di come certi conoscenti di Gancedo, che chiamerò prudentemente Lucas Solano e Copitas, anda­ rono a una veglia funebre e di quello che successe. A Solano toccò porgere le condoglianze a nome dei col­ leghi d’ufficio del defunto, compito che gli pesava tanto da cercare appoggio morale al bancone di un bar di calle Talcahuano dove già si trovava Copitas a riprova dell’esattez­ za del suo soprannome.10 Alla sesta grappa Copitas accon­ sentì ad accompagnare Solano per tirarlo su di morale, e si presentarono alla veglia con un alto tasso di emozione al­ colica. Toccò a Copitas entrare per primo nella camera ar­ dente, e pur non avendo mai visto il morto in vita sua, si av­ vicinò alla bara, la contemplò in raccoglimento, quindi gi­ randosi verso Solano disse con quel tono che forse suscita­ no e sentono solo i defùnti: «E identico». A quel punto Solano ebbe un tale attacco di ilarità che riuscì a dissimularlo soltanto abbracciando forte Copitas, il quale a sua volta rideva con le lacrime, e così rimasero per tre minuti, con le spalle scosse da terribili sussulti, finché uno dei fratelli del morto che conosceva vagamente Sola­ no si avvicinò loro per consolarli. io. Copitas è, in spagnolo, il diminutivo di copas, parola con cui si indica qualunque bevanda, ed equivale al termine italiano «bicchierino».

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«Credetemi, signori, non avrei mai immaginato che in ufficio volessero tanto bene a Pedro», disse, «visto che non ci andava quasi mai...»

Canti di prigionia Con il permesso di Daliapiccola questo è un altro racconto di Gancedo in cui compare Lucas Solano. Ai tempi di una dittatura militare, vale a dire quando preferite, Solano e un gruppo di amici si riunivano in un cantiere a bere vino e chiacchierare fino all’alba. Non so perché si ve­ dessero lì, ma so che quella sera la polizia fece una di quelle retate in cui cadono pesci di ogni tipo, anche se l’unico obiettivo era la cattura da una parte dei comunisti e dall’altra dei nazionalisti cattolici, che misteriosamente convergei vano nel tenere sveglio il v colonnello di turno. Nella ; vicenda si trovarono coinvolti Solano e la sua com*' ' briccola, che erano estranei a qualsiasi militanza poli­ tica, e finirono tutti nel cortile di un commissaria­ to per la cosiddetta identi­ ficazione. «I comunisti si misero su­ bito tutti da una parte», avrebbe poi raccontato Sola47

no a Gancedo, «e i cattolici dall’altra, per cui noi rimanem­ mo in mezzo. Siccome fin dall’inizio si erano sparse voci di bastonate e scosse elettriche, i comunisti si misero a canta­ re l’Internazionale. Appena li sentirono, i cattolici intona­ rono “Mira il tuo popolo o bella Signora”». «E voi che cosa cantavate?», domandò Gancedo. «Noi? Be’, noi cantavamo Percanta que me amuraste...»"

Ancora sulla serietà e altre veglie funebri «Chi ci riscatterà dalla serietà?», chiedo parafrasando un verso di Ricardo Molinari.11 12 La maturità nazionale, imma­ gino, che finalmente ci farà capire che l’umorismo non de­ ve continuare a essere il privilegio degli anglosassoni e di Adolfo Bioy Casares. Cito ex professo Bioy, innanzitutto perché il suo umorismo è di quelli che cominciano con l’ammettere in tutta onestà i propri limiti letterari mentre la serietà si crede onnicomprensiva dal sonetto al romanzo, e poi perché raggiunge quella lieve efficacia che può anda­ re molto più lontano (quando la utilizza un Leopoldo Marechal,13 per esempio) della sbronza di tutto il tremen­ dismo dostoevskiano che prolifera nelle nostre spiagge. Del resto, quelle spiagge vanno molto al di là del Mar de la Piata: con Jean Cocteau, a suo modo un Bioy Casares fran­ cese, è successo pure che gli «impegnati» di qualunque 11. Verso iniziale del famoso tango Mi nache triste, E in lunfardo e signifi­ ca «ragazza che mi hai lasciato».

12. Ricardo Molinari (1898-1996), poeta e scrittore argentino, fece parte del gruppo letterario legato alla rivista Martin Fierro. 13. Leopoldo Marechal ( 1900-1970), scrittore, poeta, saggista e dramma­ turgo argentino, prese parte al gruppo letterario legato alle riviste Martin Fierro e Proa ed è noto soprattutto per il suo romanzo Addn Buenosayres.

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gruppo e gli scrittori notoriamente seri come Francois Mauriac hanno preteso di relegarlo in quelle cucine dello stabilimento feudale della letteratura dove c’è l’angolo dei buffoni e dei giullari. Per non parlare di Jarry, di Desnos, di Duchamp... Nel suo spasmodico Who'sAfraid of Virginia Woolf? Edward Albee fa dire a qualcuno: «Il sintomo più profondo di un’infermità sociale... è la assenza del senso dell’umorismo. Non esiste un monolito capace di stare al­ lo scherzo. Legga la storia. Io la conosco abbastanza bene la storia». Anche noi conosciamo abbastanza bene la storia letteraria da prevedere che Dargelos ed Elisabeth vivranno più a lungo di Thérèse Desqueyroux, e che il Padre Ubu getterà nel pozzo, con il suo chochet à nobles, tutti gli eroi di Jean Anouilh e di Tennessee Williams. Quella pulce prodigiosa di nome Man Ray scrisse una volta: «Se riuscissimo a sradicare la parola serio dal no­ stro vocabolario, si aggiusterebbero tante cose». Ma i monoliti vegliano con la loro aria da lividi tartarugoni, come li ritrae bene José Lezama Lima. Oh, chi ci riscat­ terà dalla serietà per arrivare finalmente a essere davvero seri sul piano di uno Shakespeare, di un Robert Burns, di un Jules Verne, di un Charlie Chaplin? E Buster Keaton? Dovrebbe essere lui il nostro esempio, molto più dei Flaubert, dei Dostoevskij e dei Faulkner, gli unici nei quali riveriamo la carica di profondità mentre dimenti­ chiamo Bouvard e Pécuchet, dimentichiamo Foma Fomich, dimentichiamo il sorriso con cui il gentiluomo del sud rispose a un invito alla Casa Bianca: «Un pranzo a cinquecento miglia è troppo lontano per me». In ogni scuola latinoamericana dovrebbe esserci una grande fo­ tografia di Buster Keaton, e nelle feste nazionali il diret’T Man Ray, Autoportrait.

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tore dovrebbe proiettare film di Chaplin e di Keaton per favorire futuri cronopios, mentre le maestre reciteranno «Il tricheco e il carpentiere»14 o almeno qualcosa di Gui­ do y Spano, per esempio la versione in tedesco della Ne­ nia che comincia così: Klage, klage, Urutau, In den Zweigen des Yatay. Wareinmal ein Paraguay Wogeboren Ich und du: Klage, klage, Urutau!

Ma siamo seri e osserviamo come l’umorismo,sradica­ to dalle nostre lettere contemporanee (Macedonio, il pri­ mo Borges, il primo Nalé, César Bruto, Marechal a tratti, sono outsiders scandalosi nel nostro ippodromo letterario) rappresenti, a dispetto dei tartarugoni, una costante dello spirito argentino in tutti i registri culturali che vanno dalla affilata tradizione di Mansilla, Wilde, Cambaceres e Payró fino all’umorismo sublime di quel barbone di Buenos Ai­ res che alla fermata del tram 85 strapieno, al controllore massificato che gli ordina di smetterla con le sue proteste, risponde: «E cosa vuoi? Che muoia in silenzio?» Senza contare che a volte gli umoristi sono i controllori, come quello dell’autobus 168 che a un signore dall’aria impor­ tante che faceva tintinnare di continuo il campanello per scendere, gridava: «E piantala, che qui siamo sull’autobus, mica in chiesa!» Perché diavolo fra la nostra vita e la nostra letteratura c’è una specie di «muro della vergogna»? Al momento di met14. Titolo di una poesia citata \n Attraverso lo specchio e quel che Alice vi tro­ vò, di Lewis Carroll.

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Macedonio Fernàndez

tersi a lavorare a un racconto o a un romanzo, lo scrittore ti­ pico indossa il colletto rigido e sale sulla parte più alta dell’armadio. Ne ho conosciuti tanti che se avessero scritto come pensavano, inventavano o parlavano ai tavolini dei bar o quando chiacchieravano dopo un concerto o un in­ contro di boxe, avrebbero ottenuto quella ammirazione di cui continuano ad attribuire la mancanza alle ragioni de­ plorate con lacrime e opuscoli dalle società di scrittori: sno­ bismo del pubblico che preferisce gli stranieri senza bada­ re a quello che ha in casa, scellerata perversità degli editori, e piantiamola qui altrimenti faremo piangere anche i bam­ bini. Iato egizio fra una scrittura demotica e un’altra ierati­ ca: il nostro scriba seduto assume la solennità di quello che abita al Louvre non appena toglie la foderina alla Remington, si intuisce subito in lui la piega della bocca, la hamara hesperienza humana che si affaccia sotto forma di ghigno che, come è noto, non viene annoverato tra le smorfie capa­ ci di dar luogo alla miglior prosa. Questi tizi credono che la serietà debba essere solenne o non essere; come se Cervan­ tes fosse stato solenne, cazzo. Danno per scontato che la se­ rietà debba basarsi sugli eventi negativi, tragici, stile Stavrogin, e che soltanto a partire da lì il nostro scrittore acce5i

derà (nei due sensi del termine) ai segni positivi, a un pos­ sibile happy end, a qualcosa che somigli un po’più a questa vita confusa dove nessun manicheo arriva a qualcosa. Af­ facciarsi al grande mistero con l’atteggiamento di un Ma­ cedonio viene in mente a pochissimi; agli umoristi appicci­ cano fin dall’inizio un’etichetta per distinguerli igienica­ mente dagli scrittori seri. Quando i miei cronopios ne combinarono delle belle all’incrocio fra avenida Corrientes e calle Esmeralda, huna heminente hintellettuale hesclamò'. «Che peccato! E pensare che era uno scrittore così serio!» L’umorismo viene accettato solo nella sua gabbietta, e oc­ chio che se trilla mentre suona la sinfonica lo lasciamo sen­ za miglio, così impara. Insomma, signora, l’umorismo è all pervadine o non è umorismo, come hanno sempre saputo Juan Filloy,15 Shakespeare e Max Ernst; ridotto alle sue proprie forze, in gabbia da solo, produrrà Three Men on a Boat ma mai Sancho sull’isola, mai il mio «zio Toby», mai la veglia del calpestatore di fango. Le chiarisco quindi che l’umorismo, di cui deploro l’allarmante carenza nelle nostre terre, risiede nella situazione fisica e metafisica del­ lo scrittore che gli permette quelli che per altri sarebbero errori dì parallasse, per esempio vedere le lancette dell’oro­ logio della sala da pranzo sull’una e mezzo quando sono appena le dodici e venticinque, e di giocare con tutto ciò che sprizza da quella fluttuante disponibilità del mondo e delle sue creature, di entrare senza sforzo nell’ironia, ndXunderstatement, nella rottura dei cliché idiomatici che contaminano le nostre migliori prose così sicure che siano 15. Giornalista, caricaturista, anomala figura di scrittore, l’argentino Juan Filloy (1894-2000) fu praticamente l’inventore della parodia nella lettera­ tura latinoamericana di questo secolo. v L’autore si riferisce, rispettivamente, a Don Chisciotte della Manchay Tristram Shandy e Adàn Buenosayres.

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le dodici e venticinque come se le dodici e venticinque avessero una realtà al di fuori della convenzione che le ha stabilite con grande concorso di cosmografi e calligrafi di Magonza e Ginevra. E la storia dei cliché idiomatici non è uno scherzo; si può verificare il predominio di un linguag­ gio ieratico nella letteratura sudamericana, un linguaggio che al suo più alto livello produce, per esempio, Il secolo dei lumi,16 mentre tutto il resto si raggruma in una prosa che ha più a che vedere con la semola che con la vita cui pretende di dar corpo. In Argentina ci sono indici di un divertente processo; per reazione alla prosa dei lividi tartarugoni, al­ cuni scrittori più giovani si sono messi a scrivere «parlato» e, anche se i migliori lo fanno benissimo, la maggior parte non ha centrato il bersaglio e sta andando ancora più a fon­ do dei puristi (parola che loro mettono sempre da qualche parte). Mi sembra che non sarà passando dal fervore purista a quello da tifo allo stadio che faremo la nostra letteratura. Un Roberto Arlt scriveva idiomaticamente male perché non aveva gli strumenti per farlo in altro modo; ma avere una cultura di serie a come quella che hanno di solito gli ar­ gentini e cadere in una scrittura da pizzeria mi sembra al massimo una reazione da ragazzino che si dichiara comuni­ sta perché il papà è socio dell’esclusivo Club del Progreso.

16. Romanzo dello scrittore cubano Alejo Carpentier, pubblicato nel 1962.

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Per un’antropologia tascabile

Tutto quello che vede lo vede morbido Conosco un tizio che non fa che ammorbidire le cose, uno che tutto quello che vede lo vede morbido, lo ammorbidi­ sce con il solo sguardo, neppure con lo sguardo, perché lui più che guardare vede, e allora va in giro a vedere cose e so­ no tutte morbidissime e lui è felice perché le cose dure non gli piacciono affatto. Ci fù un’epoca in cui magari vedeva duro, forse perché era ancora capace di guardare, e chi guarda vede due volte, vede quello che sta vedendo e inoltre è quello che sta ve­ dendo o perlomeno potrebbe esserlo o vorrebbe esserlo o non esserlo, tutti modi estremamente filosofici ed esisten­ ziali di situarsi e di situare il mondo. Ma un giorno, intor­ no ai vent’anni, questo tizio cominciò a non guardare più, perché in realtà aveva la pelle delicatina e le ultime volte che aveva voluto guardare il mondo in faccia, la visione gli 54

aveva tagliato la pelle in due o tre punti, sicché il mio ami­ co disse accidenti, non è possibile, e una mattina cominciò soltanto a vedere, scrupolosamente a vedere e basta, e come ovvio da quel momento tutto quello che vedeva lo vedeva morbido, lo ammorbidiva solo a vederlo, e lui era felice perché le cose dure non gli piacevano affatto. Un professore di Bahia Bianca definì questa visione ba­ nalizzante, aggettivo molto azzeccato per essere di Bahia Bianca; il mio amico però non solo era tutto soddisfatto ma vedendo il professore lo vide naturalmente morbidissi­ mo, lo invitò a bere un cocktail a casa sua, gli presentò sua sorella e sua zia, e l’incontro si svolse in un clima di grande morbidezza. Io un po’mi affliggo perché quando il mio amico mi ve­ de sento che divento tutto morbido, e pur sapendo che non si tratta di me ma della mia immagine nel mio amico, come direbbe il professore di Bahia Bianca, mi affliggo lo stesso perché a nessuno fa piacere essere visto come un budino di semola e, di conseguenza, essere invitato al cinema dove danno un film di cowboy o stare a sentire per un paio d’ore il racconto di quanto sono carini i tappeti dell’ambasciata del Madagascar. Che cosa fare con il mio amico? Niente, è chiaro. In ogni caso vederlo ma mai guardarlo; come potremmo, mi doman­ do, guardarlo senza la più terribile minaccia di dissoluzione? Chi vede soltanto, deve essere visto soltanto; morale malin­ conica e prudente che, temo, va oltre le leggi dell’ottica.

Teoria del buco appiccicoso

Si chiama per esempio Ramón, e porta il nome appiccica­ to come tutto il resto, quello che la gente vede di lui e quel­ 55

lo che lui vede di sé stesso. Pochi sanno che in realtà Ramón è un buco appiccicoso, a nessuno risulta facile immaginare un simile oggetto. Fino ai quindici anni non ci fu nulla, ov­ vero c’era soltanto un buco circondato da amore materno e maglioni e tavole pitagoriche e partite di calcio. Poi una mattina al risveglio il buco ebbe, cosa di certo rara, una spe­ cie di intravisione di sé, cadde in sé stesso come dice il pro­ fessore di Bahia Bianca citando quello di Friburgo, e si re­ se conto che bisognava fare qualcosa per non scoppiare co­ me una bolla di sapone. Attraverso un atto che continua ad avere i suoi meriti, il buco divenne appiccicoso sul bordo esterno, la bolla di sapone prese prima un po’ di peluria dall’aria, poi l’elegante abitudine di fumare tabacco inglese in un luogo dove gli altri filmavano quello trinciato, e il no-

Unevraie vted'homme!... Oui.cest formidable une vie d'homme I C'est formidable de retrouver chaque matin la fraicheur tonique de son After Shave Old Spice. Oui, toutes les femmes vous le diront :

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me di Ramón, che fino a quel momento aveva fluttuato perché era come un sinonimo del buco, cominciò ad appiccicarglisi fermamente, si circondò di una giacca di tweed, Ramón si vestì in modo sportivo e comprò gadget per ri­ solvere i problemi di igiene, cucina e riscaldamento, diven­ ne un’autorità in quanto a marche di schiuma da barba, al­ la migliore benzina per le macchine svedesi, alla giusta sensibilità delle pellicole fotografiche in un giorno di neb­ bia, si abbonò a Time e a Life, si fece un’idea su Picasso e un’altra sui giradischi, sulle spiagge estive e sull’alimenta­ zione, e da quel momento cominciò a fare carriera, vice ca­ po, capo e gran capo, un esperto nelle più diverse questio­ ni, con una voce sonora dalla quale pochi intuiscono che la sonorità proviene dal buco, che il buco parla mentre Ramón dà delicati colpetti alla sua pipa di erica comprata a Lon­ dra perché non ci sono altre pipe come questa, te lo dice Ramón.

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Cado e mi rialzo

Nessuno può mettere in dubbio che le cose ricadano. Un signore si ammala e, un mercoledì, all’improvviso ha una ricaduta. Una matita sul tavolo ricade di continuo. E le donne, come ricadono! In teoria a nulla o a nessuno ver­ rebbe in mente di ricadere ma si è comunque soggetti a far­ lo, soprattutto perché si ricade senza averne coscienza, si ricade come se non fosse mai successo prima. Per fare un esempio profumato: un gelsomino. Da dove proviene, a quel biancore, la sua triste amicizia con il giallo? Il sempli­ ce permanere è una ricaduta: il gelsomino, dunque. Per non parlare delle deplorevoli parole, sempre pronte a ricadere, o delle frittelle fredde, che sono la ricaduta perfetta. Contro tutto ciò si impone pazientemente la riabilita­ zione. Nelle peggiori ricadute c’è sempre qualcosa che lot­ ta per riabilitarsi, nel fungo calpestato, nell’orologio fermo, nelle poesie di Pérez, in Pérez. Ogni cosa che ricade ne ha già in sé una che si riabilita, ma il problema, per noi che 58

pensiamo la nostra vita, è confuso e quasi infinito. Una lu­ maca secerne e una nube aspira; di sicuro ricadranno, ma una compensazione a esse estranea le riabilita, fa sì che va­ dano inerpicandosi al meglio di sé stesse prima dell’inevi­ tabile ricaduta. Ma noi, cara zia, come faremo, come ci ren­ deremo conto di essere ricaduti se alla mattina stiamo così bene, dopo un buon caffellatte, e non riusciamo a valutare fino a che punto siamo ricaduti nel sonno o sotto la doccia? E se sospettiamo una nostra ricaduta, come faremo a riabi­ litarci? Ce chi ricade quando arriva in cima a una monta­ gna, alla conclusione del proprio capolavoro, quando si ra­ de senza un solo taglietto; non tutte le ricadute vanno dall’alto in basso, perché sopra e sotto non significano un granché quando non sappiamo più dove ci troviamo. Pro­ babilmente Icaro credeva di toccare il cielo quando anne­ gò nel mare omonimo, e Dio ci scampi da un tuffo così maldestro. Cara zia, come faremo a riabilitarci? C’è chi ha sostenuto che la riabilitazione è possibile sol­ tanto evolvendosi, ma ha dimenticato che ogni ricaduta è un’involuzione, un ritorno al fango della colpa. In effetti, siamo quanto di meglio riusciamo a essere perché ci evol­ viamo, usciamo dal fango in cerca della felicità e di coscien­ za e piedi puliti. Chi ricade quindi è qualcuno che subisce un’involuzione, e di conseguenza nessuno si riabilita senza evolversi. Ma pretendere di riabilitarsi evolvendosi è una triste ridondanza: la nostra condizione è la ricaduta e l’in­ voluzione, e a me sembra che chi ricade dovrebbe riabili­ tarsi in un altro modo, che comunque ignoro. Non soltan­ to lo ignoro, ma non ho neppure mai capito in quale mo­ mento mia zia e io ricadiamo. Come riabilitarci, dunque, se magari non siamo ancora ricaduti e la riabilitazione ci tro­ va già riabilitati? Zia cara, non sarà questa la risposta, ades­ so che ci penso? Facciamo così: tu ti riabiliti e io ti osservo.

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Per vari giorni di seguito, insomma, una riabilitazione con­ tinua, tu passi il tempo a riabilitarti e io ti osservo. O al con­ trario, se preferisci, ma a me piacerebbe che cominciassi tu, perché sono un tipo modesto e un buon osservatore. Sic­ ché, se io ricado negli intervalli della mia riabilitazione, mentre tu non dai tempo alla ricaduta e ti riabiliti come in un cinema a spettacolo continuato, in poco tempo la nostra differenza sarà enorme, tu arriverai così in alto che sarà un piacere vederti. A quel punto, saprò che il sistema ha fun­ zionato e comincerò a riabilitarmi furiosamente, metterò la sveglia alle tre del mattino, sospenderò la mia vita coniuga­ le e le altre ricadute che conosco perché rimangano solo quelle che non conosco, e magari a poco a poco un giorno saremo di nuovo insieme, cara zia, e sarà così bello dire: «Adesso andiamo in centro e ci prendiamo un gelato, il mio tutto di frutta e il tuo al cioccolato con un biscottino».

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The smiler with thè knife under thè cloak

Giusto a metà dellVraiaf/Ma/Za’7 si bloccò e disse: Babilonia. Pochissimi capirono che voleva dire il Rio de la Piata. Quando se ne resero conto era ormai tardi, chi fermerà quel puledro che galoppa da Patmos a Gottinga con le redini tese? Si cominciò a parlare di vikings alcaféTortoni, e questo guarì alcuni da Juan Pedro Calou e fece ammalare i più deboli di rune e di David Hume. Lui intanto leggeva romanzi polizieschi.

Scrissi questa poesia nel 1956 in India, ofallplaces. Non ri­ cordo bene le circostanze, avevamo parlato di Borges con altri argentini cercando di dimenticare per un po’ il bom­ bardamento di Suez e un documento dell’Unesco sulla comprensione internazionale che ci avevano dato da tra­ durre; a un certo punto sentii che il mio affetto per lui, all’improvviso quasi tangibile fra sikh e odore di spezie e musica di sitar, era come un practicaljoke telepatico che Borges mi stava facendo dalla sua casa di calle Maipù per poter dire in seguito: «Strano che qualcuno mi voglia bene da un posto inverosimile come Nuova Delhi, vero...?!» E il foglio di carta si inceppò nella macchina mentre ricordavo certe lezioni di letteratura inglese dalle parti di calle Char-17 17. Dolce di pasta sfoglia a forma di spirale.

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cas, in cui lui ci aveva spiegato come il verso di Chaucer fos­ se esattamente la metafora creola di «portare il coltello sot­ to il poncho», e mi invase una tenerezza idiota che annegai nel succo di mango e nella poesia che non inviai mai a Bor­ ges, intanto perché io Borges l’ho visto soltanto due o tre volte in tutta la mia vita, e poi perché quanto a mandare poesie la vita mi ha chiuso i rubinetti verso i trentotto anni. Non volli mai renderla pubblica anche se stavo per farlo quando la rivista L'Herne mi chiese un contributo per il nu­ mero dedicato a Borges, ma sospettai che i borgesiani di professione avrebbero visto un’ironica mancanza di rispetto in quel fùtile riassunto di tutto il bene che ci ha fatto la sua opera. Fu quasi un peccato perché il numero, quando uscì, era così grosso da sembrare un elefante, ragione per cui sa­ rebbe stato il veicolo perfetto per la mia poesia indiana; co­ munque oggi la mischio a questo mazzo di carte e magari qualcuno te la leggerà a Buenos Aires, Borges, e tu sorride­ rai, la tratterrai un attimo nella tua memoria, che conosce migliori occupazioni, e a me questo basta da lontano e da sempre.

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Sul sentimento del fantastico

Stamattina Teodoro W. Adorno ha fatto una cosa da gat­ to: nel bel mezzo di un appassionato discorso, metà gere­ miade e metà insistente strofinamento ai miei pantaloni, è rimasto immobile e rigido a guardare fisso un punto dell’a­ ria in cui per me non c era nulla da vedere fino alla parete dove è appesa la gabbia del vescovo di Evreux, che mai ha suscitato l’interesse di Teodoro. Qualunque signora ingle­ se avrebbe detto che il gatto stava guardando un fantasma mattutino, dei più autentici e comprovabili, e che il passag­ gio dalla rigidità iniziale a un lento movimento della testa da sinistra a destra, conclusosi nella linea di visione della porta, dimostrava pienamente che il fantasma se ne era ap­ pena andato, con ogni probabilità infastidito da quell’avvi­ stamento implacabile. Potrà sembrare strano, ma il sentimento del fantastico in me non è innato come in altre persone che poi non scri­ 64

vono racconti fantastici. Da bambino ero più sensibile al meraviglioso che al fantastico (per le diverse accezioni di questi termini, sempre mal utilizzati, si può consultare con profitto Roger Caillois “®), e a parte i racconti di fate, co­ me il resto della mia famiglia credevo che la realtà esterio­ re si presentasse tutte le mattine con la stessa puntualità e le stesse rubriche fisse della Prensa. L’evidenza che ogni treno dovesse essere trascinato da una locomotiva era una certezza alla quale frequenti viaggi da Banfield a Buenos Aires offrivano una conferma rassicurante, e per questo la mattina in cui per la prima volta vidi entrare in stazione un treno elettrico che sembrava fare a meno della locomotiva scoppiai a piangere con una tale veemenza che, secondo mia zia Enriqueta, ci volle più di un quarto di chilo di ge­ lato al limone per riportarmi al silenzio. (Del mio abomi­ nevole realismo di quel periodo dà un’idea complementa­ re il fatto che, passeggiando con mia zia, trovassi spesso monete per strada, ma soprattutto l’abilità con cui dopo averle rubate a casa le facevo cadere mentre mia zia guar­ dava una vetrina, per poi precipitarmi a raccoglierle ed esercitare l’immediato diritto di comprarmi le caramelle. A mia zia invece il fantastico doveva essere molto familia­ re visto che non trovava mai insolita quella ripetizione un po’troppo frequente e condivideva perfino l’eccitazione del ritrovamento e qualche caramella). In un altro punto ho manifestato il mio stupore perché a un compagno era sembrata fantastica la storia di Wilhelm Storitz che io avevo letto con la più assoluta so­ spensione di incredulità. Capisco che compivo un’opera­ zione inversa e piuttosto ardua: rinchiudere il fantastico Si veda in particolare la prefazione i^Anthologie dufantastique. Club fran^ais du livre, Paris 1958.

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nel reale, realizzarlo. Il prestigio di ogni libro mi facilitava il compito: come dubitare di Jules Verne? Citando Nàsere-Khosrow, nato in Persia nell’undicesimo secolo, sentivo che un libro sebbene abbia un solo dorso, possiede cento volti e che in un modo o nell’altro era necessario estrarre quei volti dal loro forziere, introdurli nella mia condizione per­ sonale, nella stanzetta del soppalco, nei sogni paurosi, nel­ le fantasticherie sotto la chioma di un albero all’ora della siesta. Credo di non aver mai visto o sentito direttamente il fantastico nella mia infanzia; parole, frasi, racconti, bi­ blioteche l’hanno lasciato filtrare a poco a poco nella vita esteriore attraverso un atto di volontà, una scelta. Mi indi­ gnò che il mio amico rifiutasse il caso di Wilhelm Storitz; se qualcuno aveva scritto su un uomo invisibile, non basta­ va questo a rendere la sua esistenza inconfutabilmente possibile? In fondo, il giorno in cui scrissi il mio primo racconto fantastico non feci altro che intervenire di perso­ na in un’operazione che fino a quel momento era stata vi­ caria; un Julio rimpiazzò l’altro con una sensibile perdita per entrambi.

Quel mondo che è questo

In una delle sue Illuminations, Rimbaud mostra il giova­ ne ancora sottomesso «alla tentazione d’Antonio», preda dei «tic d’orgoglio puerile, l’accasciamento e il terrore». Da quell’assoggettamento alla contingenza usciremo at­ traverso la volontà di cambiare il mondo. «Ma ti metterai a questo lavoro», dice e si dice Rimbaud. «Tutte le possi­ bilità armoniche e architettoniche si smuoveranno intor­ no al tuo seggio». La vera alchimia risiede in questa for­ mula: 66

La tua memoria, i tuoi sensi, non saranno altro che alimento al tuo impulso creatore. E il mondo, quando tu uscirai, che sarà di­ venuto? Ad ogni modo, nessuna delle apparenze attuali.

Se il mondo non avrà più niente a che vedere con le ap­ parenze attuali, l’impulso creatore di cui parla il poeta avrà trasformato le funzioni pragmatiche della memoria e dei sensi; tutta Xars combinatoria, l’apprensione delle relazioni soggiacenti, il sentimento che il rovescio smentisce, molti­ plica, annulla il dritto, sono modalità naturali di chi vive per aspettare l'inaspettato. L’estrema familiarità con il fantastico va ancora oltre; in un modo o nell’altro abbiamo già accolto quello che non è ancora arrivato, la porta lascia entrare un vi­ sitatore che verrà domani o è venuto ieri. L’ordine sarà sem­ pre aperto, non tenderemo mai a una conclusione perché niente si conclude e niente inizia in un sistema di cui si pos­ seggono soltanto coordinate immediate. Certe volte ho po­ tuto temere che il fùnzionamento del fantastico fosse anco­ ra più ferreo della casualità fisica; non capivo che mi trovavo davanti ad applicazioni particolari del sistema, che per la lo­ ro forza eccezionale davano l’impressione della fatalità, di un calvinismo del soprannaturale. Poi a poco a poco ho visto che quelle istanze schiaccianti del fantastico si riverberava­ no su virtualità praticamente inconcepibili; la pratica aiuta, lo studio dei cosiddetti casi va ampliando le sponde del bi­ liardo, le pedine degli scacchi, fino a quel limite personale ol­ tre il quale avranno accesso solo altri poteri diversi dai nostri. Non c’è un fantastico chiuso, perché siamo riusciti a cono­ scerne sempre soltanto una parte e per questo lo consideria­ mo fantastico. Avrete già indovinato che come sempre le pa­ role servono a tappare buchi. Arthur Rimbaud,/^72^5^zr.

Un esempio del fantastico circoscritto e fatale ci è offer­ to da un racconto di W.F. Harvey. Il narratore si è mes­ so a disegnare per distrarsi dal caldo di una giornata di agosto; quando si rende conto di quello che ha fatto, ha da­ vanti a sé una scena di tribunale: il giudice ha appena pro­ nunciato una sentenza di morte e il reo, un uomo grosso e calvo, lo guarda con un’espressione più di sgomento che di orrore. Infilatosi il disegno in tasca, il narratore esce di ca­ sa e comincia a vagare finché, stanco, si ferma davanti alla porta del cortile di uno scalpellino. Senza sapere bene per­ ché, si dirige verso l’uomo che sta intagliando una lapide: è lo stesso di cui, senza conoscerlo, ha fatto il ritratto due ore prima. L’uomo lo saluta cordialmente e gli mostra una laW.F. Harvey, «August Heat», in Tfte Beast with Five Fingers, Dent, London 1962.

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pide appena terminata, nella quale il narratore scopre il proprio nome, la data esatta della propria nascita e quella della propria morte: quello stesso giorno. Incredulo e ter­ rorizzato, viene a sapere che la lapide è destinata a un’espo­ sizione e che l’artigiano vi ha inciso un nome e una data per lui immaginari. Siccome fa sempre più caldo, entrano in casa. Il narra­ tore mostra il suo disegno, e i due uomini capiscono che la doppia coincidenza va oltre ogni spiegazione e che l’assur­ do la rende orribile. Lo scalpellino propone al narratore di non muoversi da casa sua fino a dopo mezzanotte, per evi­ tare ogni possibilità di incidente. Si sistemano in una stan­ za solitaria e lo scalpellino si distrae affilando il suo stru­ mento mentre il narratore scrive la storia di quanto è acca­ duto. Sono le undici; un’altra ora e il pericolo sarà passato. Il caldo aumenta; come dice la frase finale del racconto, «è un caldo che può far impazzire chiunque». Lo schema ammirevolmente simmetrico del racconto e la fatalità della sua conclusione non devono far dimentica­ re che le due vittime hanno conosciuto soltanto una maglia della trama che le fa incontrare per distruggerle; quello che è davvero fantastico non sta tanto nelle strette circostanze narrate, quanto nella risonanza della loro pulsazione, del battito impressionante di un cuore estraneo al nostro, di un ordine che può usarci in qualunque momento per uno dei suoi mosaici, strappandoci dalla routine per metterci in mano una matita o uno scalpello. Quando il fantastico vie­ ne a farmi visita (a volte il visitatore sono io e i miei raccon­ ti sono nati da vent’anni di buona educazione reciproca) mi ricordo sempre dell’ammirevole passo di Victor Hugo: «Tutti sanno che cosa sia il centro velico di una nave; luo­ go di convergenza, punto di intersezione misterioso perfi­ no per il costruttore dell’imbarcazione, in cui si sommano

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le forze disperse in tutta la velatura spiegata». Sono con­ vinto che stamattina Teodoro stesse guardando un centro velico dell’aria. Non è difficile trovarli e perfino provocarli, ma c’è una condizione indispensabile: farsi un’idea molto particolare delle eterogeneità ammissibili nella conver­ genza, non temere l’incontro fortuito (che non sarà tale) di un ombrello con una macchina da cucire. Il fantasticofor­ za una crosta dell’apparenza, e per questo ricorda il centro velico; c’è qualcosa che si adopera per scardinarci. Ho sem­ pre saputo che le grosse sorprese ci aspettano dove abbia­ mo finalmente imparato a non sorprenderci di nulla, nel senso che non ci scandalizziamo davanti alle rotture dell’ordine. I soli a credere davvero ai fantasmi sono i fan­ tasmi stessi, come dimostra il famoso dialogo nella galleria dei quadri. Se arrivassimo a tanta naturalezza in ogni ordine del fantastico, Teodoro non sarebbe più l’unico a starsene così tranquillo, povera bestiola, a guardare quello che non sappiamo ancora vedere.

Così famoso che è quasi offensivo nominarne fautore, George Loring Frost (Memorabilia, 1923) e il libro che gli diede la fama: XAntologia della letteraturafantastica (Borges, Silvina Ocampo, Bioy Casares).

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«Io potrei ballare quella poltrona», disse Isadora

On riobserve chez Wòlfli ni inspiration particulière et isolée, ni conception d'idées ou d'imagination bien distinctes; bien plus, sa pensée tout camme safa$on de travailler nani de commencement nifin. Il s>interrompt àpeine, sitót quunefeuille est terminée, il en commence une autre et sans cesse ilécrit, ildessine. Si on lui demande au début ce quii a Pintention de dessiner sur safeuille, il vous répondparfois sans hésiter camme si cela allait de soi, quii va représenter un hòtélgéant, une haute montagne, une grande grande Déesse, etc.; mais souvent aussi il ne peut encore vous dire juste avant de sy mettre, ce quii va dessiner; il ne le saitpas encore, celafi­ nirà bien par prendrefigure: il riest pas rare non plus quii élude avec mauvaise humeur ce genre de questions: quon le laisse tran­ quille, il a plus intéressant àfaire qua bavarder! Morgenthaler, «Un aliéné artiste», in L'artbrut, n° 2,pp. 42-43

Da una gamba rotta e dall’opera di Adolf Wòlfli nasce que­ sta riflessione su un sentimento che Lévy-Bruhl avrebbe definito prelogico, prima che altri antropologi dimostrasse­ ro quanto il termine fosse abusato. Alludo al sospetto di ra­ dice magica, aracaica, secondo cui ci sono fenomeni e anche cose che sono quello che sono e così come sono perché, in un modo o nell’altro, sono o possono essere anche un altro fenomeno o un’altra cosa; e al fatto che non solo l’azione re­ ciproca di un insieme di elementi che appaiono eterogenei all’intelligenza può scatenare analoghe interazioni in altri insiemi apparentemente distinti dal primo, come inteso dalla magia simpatica e da ben più di quattro grassone ri­ sentite che ancora adesso conficcano spilli nelle bamboline

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di cera, ma, per quanto possa sembrare scandaloso all’intel­ letto, esiste un’identità profonda fra i due insiemi. Tutto questo suona come un tam-tam e un mumbojumbo, e al tempo stesso sembra un po’tecnico, ma smette di esserlo appena si spezza la routine e si cede a quella permea­ bilità nei confronti di sé stessi nella quale un Antonin Artaud vedeva l’atto poetico per eccellenza, «la conoscenza di quel destino interno e dinamico del pensiero». Basta segui­ re il consiglio di Fred Astaire, let yourselfgo, per esempio pensando a Wòlfli,perché alcune delle cose che fece quest’ul­ timo furono perfette cristallizzazioni di quelle esperienze vissute. Conobbi Wòlfli attraverso Jean Dubuffet, il quale pubblicò il testo di un medico svizzero che si era occupato dello stesso Wòlfli in manicomio, un testo che neppure tra­ dotto in francese sembra molto intelligente, ma è pieno di buona volontà e di aneddoti, ed è questo è l’importante visto che adesso l’intelligenza saremo tutti noi a mettercela. Ri­ mando al libro per il curriculum vitae, ma mentre ve lo pro­ curate non costa nulla ricordare come il gigante Wòlfli, un montanaro peloso e incredibilmente virile, tutto pantalonci­ ni e deltoidi, un primate fuori posto perfino nel suo villaggio di pastori, finisca in un reparto agitati dopo vari abusi ses­ suali su minori o tentativi equivalenti, carcere e altre violen­ ze carnali nei pagliai, carcere e nuovi stupri finché a un pas­ so da una pesantissima condanna, alcuni uomini saggi si rendono conto dell’irresponsabilità del presunto mostro e lo chiudono in un manicomio. Lì, Wòlfli rende la vita impos­ sibile a tutti gli esseri viventi, ma un giorno a uno psichiatra viene in mente di offrire una banana allo scimpanzé sotto forma di matite colorate e fogli di carta. Lo scimpanzé co­ mincia a scrivere e a disegnare, e in più fa un tubo con un fo­ glio e si costruisce uno strumento musicale, dopodiché, per vent’anni, interrompendosi soltanto per mangiare, dormire 72

e subire i medici, Wòlfli scrive, disegna ed esegue un’opera perfettamente delirante che potrebbe essere consultata con profitto da molti di quegli arti­ sti che, per qualche ragione, continuano a essere in libertà. Mi baso qui su una delle sue opere pittoriche, intitolata (sono costretto a riferirmi alla versione francese) La ville de biscuit à bière St. Adolf. E un disegno colorato a matita (non gli diedero mai colori a olio né tempere, troppo cari per essere sprecati con un matto) che secondo Wòlfli rappresenta una città - cosa che, inter alia, è esatta - ma è una città di biscuit (se il tra­ duttore si riferisce alla porcel­ AdolfWòlfli lana detta biscuit, quella città è di porcellana, di biscuit per la birra o della porcellana da birra, o se il traduttore intende dire bara, quella città è di porcellana, o di biscuit da birra o da bara). Diciamo, per sce­ gliere la cosa più probabile: città di biscuit da birra sant’A­ dolfo, e qui bisogna spiegare che Wòlfli credeva di essere, fra l’altro, un certo Sankt Adolph. Il dipinto, quindi, con­ centra nel titolo un’apparente plurivisione perfettamente univoca per Wòlfli che la vede come città (di biscuit ((di bi­ scuit fa. birra (((città Sant’Adolfo))) )) ). Mi sembra chiaro che sant’Adolfo non è il nome della città ma che, come per il biscuit e la birra, la città è sant’Adolfo e viceversa. 73

Come se non bastasse, quando il dottor Morgenthaler si interessava al significato dell’opera di Wòlfli e questi si degnava di parlare, cosa poco frequente, succedeva a volte che al solito: «Che cosa rappresenta?», il gigante rispon­ desse: «Questo» e prendendo il suo tubo di carta produces­ se una melodia che per lui non era soltanto la spiegazione del dipinto ma anche il dipinto, o quest’ultimo era la me­ lodia, come è provato dal fatto che molti dei suoi disegni contenevano pentagrammi con composizioni musicali dello stesso Wòlfli, il quale riempiva poi buona parte dei quadri con testi in cui ricompariva verbalmente la sua vi­ sione della realtà. Strano, inquietante che Wòlfli abbia po­ tuto smentire (e al tempo stesso confermare con la sua clausura forzata) la frase pessimista di Lichtenberg: Se volessi scrivere su cose del genere, la gente mi prende­ rebbe per pazzo, ecco perché taccio. Parlare di ciò è im­ possibile quanto suonare con un violino, come se fossero note,le macchie di inchiostro che ci sono sul mio tavolo...

Se lo studio psichiatrico insiste su quella vertiginosa spiegazione musicale del dipinto, non dice niente sulla pos­ sibilità simmetrica, quella che Wòlfli dipingesse la sua musi­ ca. A me, ostinato abitante di zone interstiziali, nulla sembra più naturale del fatto che una città, il biscuit, la birra, sant’A­ dolfo e una musica siano cinque in uno e uno in cinque; c’è già un precedente nella Trinità, e c’è il Carje est un autre. Ma sarebbe tutto piuttosto statico se nell’esperienza vissuta non accadesse che quei quintupli univoci compiano nel loro de­ stino interno e dinamico (trasferendo nella loro sfera l’atti­ vità che Artaud attribuiva al pensiero) un’azione equivalen­ te a quella degli elementi dell’atomo, di modo che, per uti­ lizzare in senso metaforico il titolo del dipinto di Wòlfli, l’e­

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ventuale azione del biscuit sulla città può determinare una metamorfosi in sant’Adolfo, così come il minimo gesto di sant’Adolfo può alterare del tutto il comportamento della birra. Se estendiamo adesso questo esempio a insiemi meno gastronomici e agiografici, arriveremo a quello che mi suc­ cesse all’ospedale Cochin con la gamba rotta, vale a dire sa­ pere (non sentire o immaginare: la certezza era dell’ordine di quelle che sono l’orgoglio della logica aristotelica) che la mia gamba infettata era il campo di una battaglia alla quale io as­ sistevo dal posto di osservazione della febbre e del delirio e di cui seguii minuziosamente tutte le alterne vicende, con la sua geografia, la sua strategia, i suoi rovesci e i suoi contrat­ tacchi, osservatore spassionato e al tempo stesso coinvolto nella misura in cui ogni fitta di dolore era un reggimento all’assalto o uno scontro corpo a corpo, e ogni pulsazione di febbre una carica a briglia sciolta o una teoria di stendardi che si spiegavano al vento. Impossibile toccare il fondo fino a questo punto senza tornare in superficie con la definitiva convinzione che qua­ lunque battaglia della storia avrebbe potuto essere un tè con fette biscottate in un rettorato della contea del Kent, o che lo sforzo che sto compiendo da un’ora per scrivere queste pagi­ ne potrebbe forse equivalere a un formicaio ad Adelaide, in Australia, o agli ultimi tre round del quarto incontro preli­ minare di giovedì scorso al Dawson Square di Glasgow. Faccio esempi elementari, ridotti a un’azione che va da x a z sulla base di una coesistenza essenziale di x e z. Ma che im­ portanza ha questo rispetto a un giorno della tua vita, a un amore di Swann, alla concezione della cattedrale di Gaudi a Barcellona? La gente sobbalza quando le si fa capire il senso Molti anni dopo trovai quest’altro aforisma di Lichtenberg: «Per i bel­ ligeranti le battaglie sono come malattie».

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di un anno luce, del volume di una stella nana, del contenu­ to di una galassia. Che dire allora di tre pennellate di Masac­ cio che forse sono l’incendio di Persepoli che forse è il quar­ to delitto di Peter Kiirten che forse è la via di Damasco che forse sono le Galeries Lafayette che forse sono il gatto nero di Hans Magnus Enzensberger che forse è una prostituta di Avignone di nome Jeanne Blanc (1477-1514)? E dire tutto ciò è come dire meno di niente, visto che non si tratta dell’interesistenza in sé ma della sua dinamica (il suo «destino in­ terno e dinamico») che ovviamente si compie ai margini di ogni misurabilità o rilevazione basate sui nostri Greenwich o Geiger. Metafore che indicano quella vaga, stimolante di­ rezione: il colpo di frusta della tripla carambola, la mossa dell’alfiere che modifica le tensioni in tutta la scacchiera: quante volte ho sentito che una folgorante azione calcistica (soprattutto da parte del River Piate, squadra alla quale fili fedele nei miei anni di buon portegno) poteva provocare un’associazione di idee in un fisico di Roma, a meno che non nascesse da quell’associazione, o che, ormai vertiginosa­ mente, fisico e calcio erano elementi di un’altra operazione che si stava forse compiendo su un ramo di ciliegio in Nica­ ragua, e le tre cose, a loro volta...

Il serpente tigre diWòlfli

Un Julio parla di un altro

Questo libro va crescendo come uno di quei misteriosi piatti di certi ristoranti parigini il cui primo ingrediente ri­ sale forse a due secoli fa,fond de cuisson al quale si sono via via aggiunte carni, verdure e spezie in un interminabile processo che conserva nel profondo il sapore accumula­ to in un’infinita cottura. Qui ci sono un Julio che ci osserva da un dagherrotipo con aria un po’beffarda, temo, un Julio che scrive e ricopia in bella fogli su fogli, e un Julio che, nonostante tutto questo, or­ ganizza ogni pagina armato di una pazienza che non gli impedisce, ogni tanto, di in­

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dirizzare un sonoro vaffanculo al suo omonimo più vicino o allo scotch che gli si è arrotolato intorno a un dito con quella veemente necessità di dimostrare la propria efficacia che lo scotch sembra avere. Julio senior se ne sta in silenzio, gli altri due lavorano, di­ scutono e ogni tanto mangiano carne alla griglia e fumano Gitanes. Si conoscono così bene, sono talmente abituati a essere Julio, a sollevare nello stesso istante la testa quando qualcuno pronuncia il loro nome, che aU’improwiso uno dei due fa un salto perché si è reso conto che il libro avanza e che non ha detto nulla dell’altro, di quello che riceve i fo­ gli, prima li guarda come se fossero soltanto oggetti da mi­ surare, attaccare e impaginare, poi, quando rimane da solo, inizia a leggerli e di tanto in tanto, parecchi giorni dopo, tra una sigaretta e l’altra, dice una frase o lascia cadere un’allu­ sione per far sapere a questo Julio-matita che anche lui co­ nosce il libro da dentro e gli piace. Quindi adesso questo Julio-matita sente di dover dire qualcosa su Julio Silva, e la cosa migliore sarà per esempio raccontare come arrivò a Pa­ rigi da Buenos Aires nel '55 e qualche mese dopo venne a casa mia, dove passò un’intera nottata a parlarmi di poesia francese con continui riferimenti a una certa Sara che dice­ va sempre cose molto acute anche se un po’sibilline. A quel tempo non ero abbastanza in confidenza con lui da poter verificare l’identità di quella musa misteriosa che lo guida­ va attraverso il surrealismo, finché quasi alla fine mi resi conto che si trattava diTzara pronunciato come lo pronuncerà sempre, per fortuna, questo cronopio che non ha affat­ to bisogno della pronuncia corretta per offrirci una lingua ricca come la sua. Diventammo molto amici, forse grazie a Sara, e Julio cominciò a esporre i suoi quadri a Parigi e a in­ quietarci con disegni in cui una fauna in perenne metamor­ fosi minaccia un po’burlescamente di riversarsi nel nostro 78

salotto e lì ti voglio. In quegli anni successero cose incredi­ bili, come per esempio il fatto che Julio diede un quadro in cambio di una macchinina molto simile a un vasetto di yo­ gurt nella quale si entrava attraverso un tetto di plexiglas a mo’ di capsula spaziale, e così gli accadde che, essendo con­ vinto di saper guidare benissimo, andò a ritirare il suo ac­ quisto nuovo fiammante mentre la moglie lo aspettava sul­ la porta di casa per una passeggiata inaugurale. Con qual­ che sforzo entrò nello yogurt nel bel mezzo del quartiere la­ tino, e quando mise in moto l’auto ebbe l’impressione che gli alberi lungo il marciapiede arretrassero invece di avan­ zare, piccolo dettaglio che non lo preoccupò affatto anche se un’occhiata al cambio gli avrebbe permesso di notare che aveva inserito la retromarcia, un modo di spostarsi che a Pa­ rigi alle cinque del pomeriggio presenta i suoi inconvenien­ ti e che culminò nello scontro per niente fortuito tra lo yo­ gurt e uno di quegli inverosimili baracchini con dentro una vecchietta infreddolita che vende biglietti della lotteria. Quando se ne rese conto, il mefitico tubo di scappamento dell’auto si era infilato nel gabbiotto e la provetta dispensa-

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trice di fortuna emetteva quegli strilli con cui i parigini compensano di tanto in tanto il silenzio cortese della loro elevata civiltà. Il mio amico cercò di uscire dall’auto per soc­ correre la vittima semiasfissiata, ma poiché ignorava come si aprisse il tetto di plexiglas rimase più intrappolato di Gagarin nella sua capsula, per non dire della folla indignata che si stava radunando intorno al luttuoso scenario dell’in­ cidente e parlava già di linciare gli stranieri come sembra essere d’obbligo per ogni folla che si rispetti. Di cose simili a Julio ne sono successe tante, ma la mia stima per lui si basa soprattutto sul modo in cui a poco a poco si impossessò di un magnifico appartamento situato nientemeno che in un palazzo di rue de Beaune dove vis­ sero i moschettieri (è ancora possibile vedere i supporti di ferro battuto ai quali Porthos e Athos appendevano le spa­ de prima di entrare nelle loro stanze, e ci si immagina Constance Bonacieux che, dall’angolo di rue de Lille, osserva timidamente le finestre dietro cui D’Artagnan sognava chimere e puntali di diamanti). All’inizio Julio aveva una cucina e una camera da letto; con gli anni si aprì un varco verso un salotto più ampio, poi ignorò una porta dietro la quale, dopo tre gradini, c’era quello che ora è il suo studio, e fece tutto questo con l’ostinazione di una talpa mista a una raffinatezza alla Talleyrand per tranquillizzare pro­ prietari e vicini comprensibilmente allarmati di fronte a quel fenomeno di espansione mai studiato da Max Planck. Oggi può vantarsi di avere una casa con due porte su vie di­ verse, il che conserva l’atmosfera che ci si immagina ai tempi in cui il cardinale Richelieu pretendeva di sbaraz­ zarsi dei moschettieri e c’era ogni tipo di scaramuccia e tra­ nello e giuramento davanti a Dio, o voto a brios come dice­ vano sempre i moschettieri nelle traduzioni catalane che afflissero la nostra infanzia.

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Adesso questo cronopio riceve i suoi amici in mezzo a una collezione di prodigi tecnologici fra i quali spiccano a pieno diritto due ingranditori a grandezza naturale e una fotocopiatrice che emette borborigmi inquietanti e tende a fare ciò che vuole ogni volta che può, per non parlare poi di una serie di maschere nere che ti fanno sentire quello che in effetti sei, cioè un povero bianco. E del vino, sulla cui rigorosa selezione non mi dilungherò perché è sempre be­ ne che le persone abbiano i propri segreti; di sua moglie, che sopporta con immutata bontà i cronopios che si aggi­ rano nello studio, e dei due bambini senza dubbio ispirati da un quadro incantevole, Elpintor y su familia, di Juan B autista Mazo, genero di Diego Velàzquez. Questo è il Julio che ha dato forma e ritmo al giro del giorno. Penso che se lo avesse conosciuto, l’altro Julio lo avrebbe messo accanto a Michel Ardan nel razzo lunare per accrescere i felici rischi dell’improvvisazione, della fantasia, del gioco. Oggi mandiamo nello spazio un altro tipo di astronauti, ed è un peccato. Posso con­ cludere questo ritratto con un esempio delle teorie estetiche di Julio, che le signore farebbero meglio a non leg­ gere? Un giorno in cui discutevail grande cronopio perse la pazien­ za e disse una volta per tutte: «Guarda, amico mio, alla mano devi lasciar fare quello che gira alle palle». Dopo una dichiarazione come questa, non credo che il punto finale sia indecoroso. Julio Silva

Aumenta la criminalità infantile negli Stati Uniti (secondo quanto afferma la stampa)

Una moneta cade testa o croce come la croce cade Cristo o i ladroni, come la faccia cade grazia o ombra come la luna cade statua o cane, e su quella linea di confine veglia la Grande Abitudine. La Grande Abitudine con cappuccio di struzzo veglia [sulla linea di confine perché una moneta cada sempre testa e ogni testa sempre ombra cada, perché ogni croce sia Cristo, perché il piede non esca dalla sua impronta veglia [la Grande Abitudine, veglia con lunghi denti che pendono dal labbro cuneiforme, baskerville, elzeviro: il Codice, quel nome dell’uomo [diventato Storia.

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Salve, meravigliosi bambini americani chiamati a lavare la lebbra ereditaria, irrompendo in salotto mentre il padre e la madre [guardavano la tv con una sana, perfetta pugnalata, con un colpo di spranga [alle teste in cui Kolynos o Goodyear vuotavano i loro vermi [di grasso putrido. Saluto Mervyn Rose, Sandy Lee, Roy McCall, [Dick lentigginoso e sporco, e Lana Turner junior, capace di fare quello che non farà [la sedia elettrica. Salve, giovani eroi, assassini di un tempo prosseneta. Legittima difesa, ragazzino, stanno cercando di violentarti, [ti rinchiudono con una museruola di enciclopedie, sconti e De Soto, con il dentifricio perfetto, il telegramma in versione lusso, con dischi di Sinatra o del Quartetto Ungherese, vedi, battili sul tempo, non ti vendo parole, uccidili davvero perché vivano, voglio dire: estirpali alla radice, fa’ a pezzi la ruota delle ruote, distruggi a sputi una storia che masturba le sue scimmie al ritmo delle macchine di Time, che incorona principesse di roulette cattolica, che genera puttane per disprezzarle dal letto legittimo con un disprezzo di cui non sarà mai oggetto [un ammiraglio o un vescovo. Oh piccoli assassini, oh selvagge torce che fulminate le zie divoratrici di stampe e di paralumi [fioriti, i nonni con medaglie d’onore fra le cosce, i papà che pontificano esperienza, le mamme che attaccano i bottoni con aria da martiri.

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Una latta di benzina, un fiammifero ed è finita: il rogo [è una rosa, la notte di san Giovanni comincia, osanna! Finché vivremo così, nella Grande Abitudine, finché la storia proseguirà la sua copula appiccicosa [con la Storia, finché il tempo sarà figlio del Tempo e preserveremo le putride ricorrenze e i putridi eroi da parata, le facce saranno ombre, le croci saranno Cristo, e la luce l’amaro kilowatt, e l’amore rivincita e non leopardo. (Alcuni, pochi, vivono disabituandosi. Ne uccidono a mucchi, ma c’è sempre qualcuno che sfugge, che aspetta all’uscita di scuola per incoraggiare lo studente dagli occhi di ghiaccio e regalargli un temperino).

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Le colonne di Ercole.

Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari

Sul modo di andare da Atene a Capo Sounion

... and thè recollectìon ofthat absence oftreey that nothingnessy is more vivid to me than any memory ofthè tree itself

E.F. Bozman, The Whìte Road

La memoria gioca con il suo contenuto un oscuro gioco di cui qualsiasi trattato di psicologia riporta prove esemplari. Un’aritmia dell’uomo e della sua memoria, che a volte ri­ mane indietro e altre finge di essere uno specchio inecce­ pibile che il confronto sembra smentire scandalosamente. Quando Diaghilev rimise in scena i balletti russi, alcuni critici gli rimproverarono che le scenografie di Petrushka avevano perduto l’abbagliante policromia originale: erano le stesse, conservate alla perfezione. Baskt si vide costretto ad accentuare i toni per adeguarli al loro grandioso ricordo. Lei che frequenta le cineteche, come se la cava con le remi­ niscenze dei film di Pabst, di Dreyer, di Lupu Pick? Strana eco che immagazzina le sue repliche secondo un’acustica diversa da quella della coscienza o della speran­ za; la sala dei busti romani della memoria offre di solito sa­ trapi persiani o, in maniera più sottile, sul volto di Com­ modo o di Gordiano compare un sorriso che proviene da 86

un dagherrotipo di Nadar o da un avorio carolingio, se non da una zia che ci offriva biscottini e porto a Tandil. Il pre­ sunto archivio delle fotocopie restituisce creature bizzarre; il verde paradiso degli amori infantili ricordato da Baude­ laire è per molti un fùturo al contrario, un rovescio della speranza di fronte al grigio purgatorio degli amori adulti, e in quella segreta inversione che ci aiuta a credere di non aver poi vissuto così male, visto che almeno ci furono un lontano eden e una felicità innocente, la memoria somiglia al ragno schizofrenico di un laboratorio dove si sperimen­ tano allucinogeni, che tesse aberranti tele piene di buchi, toppe e rammendi. La memoria ci tesse e al tempo stesso ci intrappola secondo uno schema a cui non partecipiamo lucidamente; non dovremmo mai dire la nostra memoria, perché è tutto tranne che nostra; lavora per conto suo, ci aiuta ingannandoci o forse ci inganna per aiutarci; a ogni modo da Atene si arriva a Capo Sounion con un pullman sgangherato, e questo me lo spiegò a Parigi il mio amico Carlos Courau, cronopio infaticabile se ne esistono. Me lo spiegò insieme ad altri itinerari greci, cedendo al piacere di ogni viaggiatore che quando racconta il suo periplo lo ri­ percorre (ecco perché Penelope aspetterà in eterno) e al tempo stesso assapora un viaggio vicario, quello che farà l’amico a cui ora sta spiegando come si arriva da Atene a Capo Sounion. Tre viaggi in uno, quello reale ma già pas­ sato, quello immaginario ma presente nelle parole, e quel­ lo che un altro farà in fùturo seguendo le orme del passato e in base ai consigli del presente, vale a dire che il pullman partiva da una piazza di Atene verso le dieci del mattino ma conveniva arrivare presto perché si riempiva di passeg­ geri locali e di turisti. Già quella sera, dopo il racconto di peripezie e monumenti, il ragno fece strane scelte perché dopotutto, diamine!, il resoconto che mi fece Carlos del 87

suo arrivo a Delfi, o del viaggio per mare fino alle Cicladi, o della spiaggia di Mykonos al tramonto, o di uno dei mil­ le episodi che comprendevano Olimpia e Mistrà, la visio­ ne del canale di Corinto e l’ospitalità dei pastori, era più in­ teressante e stimolante del modesto consiglio di arrivare presto in una piazza polverosa per prendere un pullman senza rischiare di rimanere in piedi fra ceste di polli e ma­ rine dalle mascelle paleolitiche. Il ragno ascoltò tutto e da quella sequenza di scene, profumi e plinti fissò per sempre la visione immaginaria di una piazza dove sarei dovuto ar­ rivare presto, di un pullman in sosta sotto gli alberi. Partii per la Grecia un mese dopo e venne il giorno in cui cercai quella piazza, che naturalmente non era affatto come l’avevo immaginata. Al momento non feci paragoni, la realtà esteriore si fa largo a gomitate nella coscienza, il posto che occupa un albero non lascia spaziò ad altro, il pullman era sgangherato come aveva detto Carlos ma non somigliava a quello che avevo visto così nitidamente men­ tre lui ne parlava; per fortuna cerano posti liberi,vidi Ca­ po Sounion, cercai la firma di Byron nel tempio di Posei­ done, in un tratto solitario della costa ascoltai il rumore flaccido di un polpo che un pescatore continuava a sbatte­ re contro le rocce. Ma poi, di ritorno a Parigi, ecco cosa accadde: quando raccontai del mio viaggio e si parlò della gita a Capo Sou­ nion, nel descrivere la mia partenza vidi la piazza di Carlos e il pullman di Carlos. All’inizio mi divertii, poi fùi sorpre­ so; da solo, quando potei ripetere l’esperienza, mi misi d’im­ pegno per rivedere il vero scenario di quella banale parten­ za. Ricordai alcuni frammenti, una coppia di contadini che viaggiavano nei posti accanto al mio, ma il pullman conti­ nuava a essere l’altro, quello di Carlos, e quando ricostruivo il mio arrivo nella piazza e l’attesa (Carlos aveva parlato dei 88

venditori di pistacchi e del caldo), l’unica cosa che vedevo senza sforzo, l’unica cosa davvero reale era quest’altra piaz­ za che avevo visto nella mia casa di Parigi mentre ascoltavo il racconto di Carlos; e quel pullman aspettava in mezzo al­ la piazza sotto gli alberi che lo proteggevano dal sole cocen­ te, non a un angolo come sapevo adesso, dopo averlo preso quella mattina per andare a Capo Sounion. Sono passati dieci anni e le immagini di un veloce mese in Grecia si sono via via assottigliate, si riducono sempre più ad alcuni momenti scelti dal mio cuore e dal mio ragno. C’è la notte di Delfi in cui sentii il numinoso e non seppi morire, vale a dire nascere; ci sono le ore tarde di Micene, la scalinata di Festo e le minuzie che il ragno conserva per completare una figura che ci sfugge, il disegno di un me­ diocre frammento del mosaico nel porto romano di Delos, il profumo di un gelato in un vicolo della Plaka. E poi c’è il tragitto da Atene a Capo Sounion, sempre con la piazza di Carlos e il pullman di Carlos, inventati una sera a Parigi mentre lui mi consigliava di arrivare presto per trovare po­ sto; sono la sua piazza e il suo pullman, e quelli che cercai e conobbi ad Atene per me non esistono, rimossi, smentiti da quei fantasmi più forti del mondo reale, che lo inventa­ no in anticipo per poi distruggerlo meglio nella sua ultima roccaforte, la falsa cittadella del ricordo.

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.. .Ma quelgiorno, verso le undici del mattino, Nicholl sifece scappa­ re un bicchiere di mano e il bicchiere, invece di cadere, rimase sospe­ so nell'aria. «Ohi», esclamò Michel, «ecco un'esperienzafisica davvero divertente». Subito diversi oggetti, armi, bottiglie abbandonate a sé stesse rima­ sero librate come per miracolo. Anche Diana, posta nello spazio da Michel, riprodusse, ma senza nessun trucco, la meravigliosa sospen­ sionefatta dai Caston e dai Robert-Houdin. Né la cagnetta sem­ brava accorgersi d'esser librata nell'aria. Essi stessi, sorpresi, stupefatti, nonostante i loro ragionamenti scientifici, sentivano che in quel dominio del meraviglioso nel quale erano arrivati, da uomini avventurosi, ilpeso mancava ai loro cor­ pi. Se stendevano le braccia, esse non tendevano più ad abbassarsi. Le teste vacillavano sulle spalle. Ipiedi non aderivano più alfondo delproiettile. Erano come ubriachi che non hanno più stabilità. La fantasia ha creato uominiprivi di riflessi, altriprivi di ombra! Ma qui la realtà, in virtù della neutralità delleforze attrattive,forma­ va uomini nei quali più nulla pesava e che non pesavano più nulla essi stessi. Improvvisamente Michel, preso un certo slancio, lasciò ilfondo e ri­ mase sospeso per aria come il monaco del quadro La cucina degli an­ geli di Murillo. Isuoi amici lo raggiunsero in un istante e tutti e tre, al centro delproiettile, rappresentavano una miracolosa ascensione.

Jules Verne, Intorno alla luna

Dialogo con i Maori

Un auteurprophétisait lafin de PEtemeL Nous nous contenteronsde travaìller àiafin de Plmmobile. René Crevel, Le clavecin de Diderot Unpochettino più avanti e spostatevi di lato che c èposto...

Un controllore su un autobus a Buenos Aires

Crevel e il controllore hanno ragione: la realtà è flessibile e porosa, e la suddivisione scolastica tra fisica e metafisica perde ogni significato appena ci rifiutiamo di accettare l’immobilità, appena ci spostiamo un po’ più avanti e per quanto possibile di lato. Non sto parlando di imprese filo­ sofiche, mi riferisco al pane e burro della mattina o all’ap­ puntamento con Esther alle otto e mezzo al Gaumont Ri­ ve Gauche, dico soltanto che rimanere è la fisica e spostarsi la metafisica, e inoltre che basta spostarsi perché il rimane­ re scenda al livello delle osservazioni che un rinoceronte potrebbe fare su una scultura di Brancusi. Un giorno Polanco domandò a Calac cosa volesse dire con quelle frasi piene di pane e burro e di pachidermi. «Una cosa molto semplice, caro mio», disse Calac. «In­ nanzitutto, elimina l’idea che fisica e metafisica somiglino alle due manopole del calcio balilla. Se nel momento in cui spalmi il burro sul pane (ti consiglio quello di Isigny che è

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il migliore) riesci a collegare quell’insieme che comprende il tuo appetito, gli ingredienti citati e un coltello con, per esempio, una frase di una sonata di Chopin o con uno di quei ricordi ricorrenti che per qualche ragione sono ricor­ renti, ti renderai conto che a margine delle associazioni analogiche si apre una seconda opzione, quella di conside­ rare il prodotto come realtà arricchita nel senso in cui i fì­ sici parlano di uranio o di plutonio arricchito. Se insisti, se tutti i tuoi atti-vita di quell’ora o di quel giorno si produco­ no all’interno della tendenza a uscire da te stesso, a colle­ garti ad altre manifestazioni fisiche o psichiche come già sapevano fare i romantici più visionari, immediatamente il risultato sarà che nelle ultime tappe di questa sequenza ar­ riverai a una specie di alveare poroso, una sorta di grandis­ simo camino con sbocco nel reale appena dirai: “Che bella bionda!” o ti allaccerai le stringhe delle scarpe. E una pras­ si, caro mio, una prassi, siamo seri». «Ma questo lo fanno tutti i poeti», disse Polanco stupito. «Certo che lo fanno, ma poi lo esprimo­ no nella loro poesia e tu sai che la gente legge quasi sempre la poesia come un momento eccezionale, una formula eccellente per tornare subito dopo al­ la prosa e non agitarsi troppo. Ecco perché ti dico che il consiglio del controllore sull’autobus va appli­ cato alla vita-banana, alla vita­ dentifricio, alla vita-ciao mamma, che se ci pensi bene è il novantotto per cento della vita che facciamo. Alla fine è come ha detto il conte, la vera poesia dovrà essere fatta da tutti e non da uno solo. E l’elasticità,

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lo scorrimento e la refalada' * fra il pane e il prosciutto sono l’unico modo di farla a modo nostro, senza contare che con i centesimi si fanno i pesos, come mi ha insegnato la mia maestra delle elementari». «Tu metti il pane in quasi tutti i tuoi esempi», disse Po­ lanco. «Se non ho capito male, proponi la spugna contro la pietra pomice?» «Ti salverai, fratello, ti salverai», rispose Calac entusia­ sta. «Ti sei reso conto che attraverso gli interstizi vivi ci an­ dremo affacciando al noumeno. Kant non mi ha mai con­ vinto con la storia che siamo definitivamente limitati; mentre lui lo affermava, un certo Jean Paul (Richter, non confonderti) e un certo Novalis ballavano già a un ritmo che la pedanteria non mi impedirà di definire cosmico, e ubbidivano al controllore sull’autobus al punto che finiva­ no per uscire dai finestrini, che è quello che dovremmo fa­ re tutti. Negare la presunta unità e finitezza dei fatti, è tut­ to lì. Ieri è morto il dottor Noriega; è un fatto, e preso così è un fatto comune. Ma allora ascolto l’orco di cui parlava Frazer in The Golden Bough, l’orco che subordinava e seria­ lizzava la propria morte: “La mia morte è lontana da qui nel vasto oceano, ed è difficile trovarla. In quel mare c’è un’isola, e nell’isola cresce una quercia verde, e sotto la quercia c’è un baule di ferro, e nel baule c’è un cestino, e nel cestino c’è una lepre, e nella lepre un’anatra, e nell’anatra c’è un uovo; e colui che riuscirà a trovare l’uovo e a romperlo, al tempo stesso mi ucciderà”. L’orco avrebbe potuto fare il controllore su un autobus, non credi?» «Soprattutto sulla linea per La Palma che forse cono­ scevi da ragazzo», disse Polanco nostalgico. «Prendevo quell’autobus a un angolo di avenida San Martin per anda18. Figura di tango.

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re dalle parti di Floresta a trovare una fidanzatina che ave­ vo allora, ma ci mettevo tanto ad arrivare che alla fine lei mi piantò in asso, sospettando altre inclinazioni, povera stupi­ da. Il fatto era, e noi cinque o sei fessi che aspettavamo all’angolo con un caldo tremendo avevamo tutto il tempo per discuterne, che La Palma disponeva a malapena di uno o due veicoli per un tragitto di più di sette chilometri, dim­ mi tu se il comune non faceva schifo». «E che cosa c’entra l’orco con tutto questo?» «Niente, solo che una volta aspettammo tanto che per il caldo venne un principio di insolazione ad alcuni di quei tizi che ti fanno fuori perché non gli piace come fischietti un tango o perché quel giorno gli gira così, e quando alla fi­ ne arrivò l’autobus fecero a pugni con il conducente e con il controllore e quel giorno finimmo per rimanere tutti a terra con in più un bel po’di arrestati e contusi». «Insomma, a momenti ti guadagni la palma del marti­ rio», osservò Calac. «Certo, ma l’orco sarebbe stato davvero utile per se­ rializzare, come dici tu, un bel po’di calci ben tirati ad altri livelli del settore dei trasporti, e sappiamo bene che un cal­ cio tira l’altro, e poi chissà. Senza contare che la mia pro­ messa mi aspettava con mate e frittelle». «Tu sai come Buddha è entrato nel nirvana?», si infor­ mò Calac. Polanco non lo sapeva, ma Calac lo lasciò nell’ignoranza e insistette invece sull’elasticità di cui potevano dar prova due nozioni o due evidenze contrarie, che secondo lui si col­ locavano in maniera binaria per pura pigrizia vitale, perché non davano retta al controllore. Gli citò una frase di Lezama Lima: «Un medico nostro valuta solo due ritmi cardiaci, mentre un medico cinese riesce a individuare quattrocento suoni ben differenziati». A Polanco quattrocento suoni sem­ 95

bravano troppi, ma Calac re­ spinse la sua obiezione perché troppo letterale. «Se non sei capace di ap­ prezzare il significato di que­ sto aforisma giallo che si ri­ flette in uno specchio cuba­ no», osservò con commisera­ zione, «cerca almeno di capire come i maori passano cosmo­ gonicamente dal caos allo spazio. Sì, i maori, quei primi­ tivi con la faccia piena di ta­ tuaggi. Nonostante l’appa­ renza hanno intuito che tra la confusione originale e l’ordi­ ne anteriore alla concezione di un tempo e di uno spazio razionali, non c’è il nostro ful­ mineo fiat lux né il passaggio alla produzione in serie del creato. Sospettano che già dal caos alla materia ci sia un pro­ cesso sottilissimo, e cercano di darne una rappresentazione cosmogonica. Ti avverto che non arrivano nemmeno alla materia, perché le fasi preli­ minari sono così tante che ci si stanca già ai preparativi. Mi limiterò a enumerarti i passi fra il caotico e un primo stadio che renderà possibile la crea­ 96

zione e la specializzazione della materia, diciamo fra il caos e uno spazio antropologico. Conta con le dita e vedrai che in qualchemodo i quattrocento suoni del cinese non sono nul­ la in confronto a questo». «Ma da dove tiri fuori questi dati?», domandò Polanco, stupefatto. «Da un libro che mi ha prestato Bud Flakoll e che gli ho già restituito. Ecco i primi passi maori verso la creazione: c’è il vuoto originale, e a questo vuoto seguono: il primo vuoto, il secondo vuoto, il vuoto vasto, il vuoto molto este­ so, il vuoto secco, il vuoto generoso, il vuoto delizioso, il vuoto legato, la notte, la notte sospesa, la notte che scorre, la notte che geme, la figlia del sonno agitato, l’alba, il gior­ no permanente, il giorno brillante, e per ultimo lo spazio». «Buon Dio!», esclamò Polanco. «Capirai che si tratta di una traduzione un po’ libera», spiegò con una certa modestia Calac, «se consideri che queste cose si chiamano Te Po-teki,Te Powhawha e altri fonemi del genere».

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Un canto s'alzava ogni tanto dalle piroghe che avanzavano affian­ cate: era un maori che intonava l'inno patriottico dell'enigmatico Pihé: «Papa ra ti wati tidi / I dunga nei...», inno che trascina i Muori a lottare con tutte leforze per l'indipendenza."

Jules Verne, 7figli del capitano Grani

Clifford

Quella difficile abitudine all’idea che sia morto. Come Bird, come Bud, he didrìt stand thè ghost ofa chance, ma prima di morire pronunciò il suo nome più oscuro, so­ stenne a lungo il filo di un discorso segreto, umido di quel pudore che trema fra le stele greche dove un ragazzo pen­ sieroso guarda verso la bian­ ca notte del marmo. Lì la musica di Clifford racchiude qualcosa che sfugge quasi sempre nel jazz, che sfugge

Remember Clifford (Clifford Brown, 1930-1956), disco Mercury mcl 208. Ghost ofa chance (YoungCrosby) è il penultimo pezzo della facciata b.

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quasi sempre in quello che scriviamo o dipingiamo o de­ sideriamo. All’improvviso, più o meno a metà del pezzo, si avverte che quella tromba che per infallibili approssi­ mazioni cerca l’unico modo di superare il limite, non è tanto un soliloquio quanto un contatto. Descrizione di una felicità effimera e difficile, di un appoggio precario: prima e dopo, la normalità. Quando voglio sapere che co­ sa prova lo sciamano in cima all’albero del passaggio, fac­ cia a faccia con la notte fuori dal tempo, ascolto ancora una volta il testamento di Clifford Brown come un colpo d’ala che spezza il continuum, che inventa un’isola di as­ soluto nel disordine. E poi di nuovo l’abitudine, dove lui e tanti altri di noi sono morti.

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«Ebbene, sì, signor Fogg», disse, «sì, scommetto quattromila sterline!»

Jules Vernes, Ilgiro del mondo in ottanta giorni

Notti nei ministeri d’Europa

Vale la pena di essere traduttori freelance perché a poco a poco si conoscono i ministeri d’Europa di notte, ed è tutto molto strano, pieno di statue e di corridoi dove potrebbe succedere qualsiasi cosa e a volte succede. Quando si parla di ministero bisogna intendere anche tribunali e palazzi legislativi, in genere enormi mausolei di marmo pieni di tappeti e di lugubri uscieri che a seconda dell’anno e del luogo parlano finlandese, inglese, danese o parsi. Ho cono­ sciuto così un ministero di Lisbona, poi Dean’s Yard a Lon­ dra, un ministero di Helsinki, un sinistro distaccamento ufficiale a Washington, D.C., il palazzo del Senato a Ber­ na e mi fermo qui per modestia, ma aggiungo che era sem­ pre notte, ossia, sebbene li conoscessi di mattina e di po­ meriggio quando lavoravo nelle conferenze di cui erano la sede momentanea, la loro vera e fùrtiva conoscenza la face­ vo durante la notte e di questo mi vanto, perché non so se altri hanno conosciuto tanti ministeri d’Europa di notte, 102

quando perdono la sillaba che li maschera e tornano a es­ sere quello che forse sono davvero, bocche d’ombra, in­ gressi di un baratro, appuntamenti con uno specchio in cui non si riflettono più le cravatte o le bugie del mezzogiorno. Succedeva sempre così: le sessioni di lavoro si prolun­ gavano fino a tarda ora, ed eravamo in un paese quasi sco­ nosciuto dove si parlavano lingue che disegnavano nell’o­ recchio ogni sorta di oggetti e poliedri inconcludenti, ov­ vero, in generale non serviva a niente capire alcune paro­ le che poi significavano altro e quasi sempre rimandava­ no a un corridoio che, invece di portare alla strada, finiva negli archivi dello scantinato o da un guardiano troppo gentile per non essere inquietante. A Copenhagen, per esempio, nel ministero in cui lavorai una settimana c’era un ascensore come non ne ho mai visti altrove, un ascen­ sore aperto che funzionava ininterrottamente come le scale mobili, ma al posto della tranquillità che offrono quei meccanismi, dato che il peggio che possa capitare se si calcola male la salita su un gradino è che la scarpa vada a colpire quello successivo con uno sgradevole scossone, l’ascensore del ministero di Copenhagen offriva un am­ pio varco nero da cui emergevano con lentezza le gabbie aperte nelle quali bisognava entrare al momento giusto e lasciarsi portare verso l’alto o il basso, vedendo passare uno dopo l’altro i pianerottoli che conducevano a regioni sconosciute e sempre tenebrose o, peggio, come mi accad­ de per una mania suicida della quale non mi pentirò mai abbastanza, arrivando al punto in cui le gabbie, raggiunto l’ultimo piano, entravano in un arco di cerchio tutto al buio e chiuso dove ci si sentiva sull’orlo di un’abominevo­ le rivelazione perché, oltre alle tenebre, c’era un lungo se­ condo scricchiolante e dondolante quando la gabbia at­ traversava la zona fra la salita e la discesa, il misterioso ago

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della bilancia. Come ovvio, si finiva per capire quell’a­ scensore e a quel punto era perfino divertente entrare in una gabbia e fumare una sigaretta facendo vari giri e mostrandosi otto o nove volte dagli uscieri dei diver­ si piani che contemplavano sbalorditi il passeggero, di sicuro non danese, che non si decideva a scendere e ad assumere un atteggiamento coerente; ma di notte non c’erano uscieri, in realtà non c’era nessuno tranne qual­ che guardiano in attesa che noi quattro o cinque tradut­ tori finissimo il nostro lavo­ ro, ed era allora che comin­ ciavo a girare per il ministe­ ro, così a poco a poco li co­ nobbi tutti e dopo cinque anni aggiunsi alcune stanze ai miei incubi, vi sommai gallerie e ascensori e scali­ nate con statue nere, li decorai con bandiere e saloni di rappresentanza e strani incontri. Forse basta l’immaginazione per capire il privilegio di quei soggiorni nei ministeri, il fatto quasi incredibile che uno straniero potesse aggirarsi a mezzanotte in luoghi ai quali un cittadino di quel paese non avrebbe mai avuto ac­ cesso. Il guardaroba di Dean’s Yard a Londra, per esempio, 104

le sue file di appendiabiti ognuno con la sua etichetta e a volte un portadocumenti o un impermeabile o un cap­ pello che rimanevano lì per chissà quali strane abitudini dell’onorevole Cyril Romney o del dottor Humphrey Barnes, Ph.D. Quale incre­ dibile serie di assurdità ave­ va permesso a un sardonico argentino di passeggiare a quell’ora fra gli appendiabi­ ti, di aprire i portadocumen­ ti o di studiare la fodera dei cappelli? Ma la cosa che più mi impressionava era rien­ trare in un ministero a notte fonda (c’erano sempre docu­ menti da tradurre all’ultimo momento), attraverso un in­ gresso laterale, una vera e propria porta da fantasma dell’opera con un guardia­ no che mi faceva passare senza nemmeno chiedermi il tesserino di riconoscimento, lasciandomi libero e quasi solo, a volte del tutto solo, nel ministero pieno di archivi e cassetti e tappeti ostinati. Attraversare la piazza deserta, avvicinarmi al ministero e cercare la porticina laterale, os­ servato a volte con diffidenza da autoctoni nottambuli che non sarebbero mai potuti entrare così in quella che in un certo senso era la loro casa, il loro ministero, quella rottura

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scandalosa di una realtà coerente e finlandese mi faceva sprofondare fin dal principio in uno stato propizio a quan­ to mi aspettava dentro, il lento e furtivo vagare per corridoi e scale e uffici vuoti. I miei rari colleghi preferivano limi­ tarsi al territorio familiare dell’ufficio in cui lavoravamo, ai sorsi di whisky o di slivovitz prima dell’ultima caterva di documenti urgenti; io a quell’ora avevo appuntamento con qualcosa, ero un po’impaurito, ma con una sigaretta in boc­ ca mi aggiravo per i corridoi, mi lasciavo alle spalle la sala di lavoro illuminata, cominciavo a esplorare il ministero. Ho già parlato di statue nere, adesso mi tornano in mente gli enormi simulacri nelle gallerie del Senato a Berna, in un’oscurità appena disturbata da qualche lampadina az­ zurra qua e là, le loro sagome ispide di lance, orsi e bandie­ re che mi precedevano ironicamente, sottolineando anco­ ra una volta la solitudine, la distanza che mi separava dal noto. Non mi sono mai piaciute le porte chiuse, i corridoi dove una doppia fila di cornici di quercia prolunga un sor­ do gioco di ripetizioni. Ogni porta mi mette davanti all’e­ sasperante impossibilità di vivere una stanza vuota, di sa­ pere che cose una stanza vuota quando è vuota (non parlo di immaginarla o definirla, compiti superficiali che po­ tranno essere una consolazione per altri); il corridoio del ministero, di qualsiasi ministero a mezzanotte dove le stanze non solo erano vuote, ma mi erano anche scono­ sciute (ci sarebbero state grandi scrivanie con cartelle ver­ di, archivi, segreterie o anticamere con quadri e diplomi, di che colore sarebbero stati gli arazzi, che forma avrebbero avuto i posacenere, non ci sarebbe stato un segretario mor­ to dentro qualche armadio a muro, non ci sarebbe stata una donna che radunava le carte nell’anticamera del presidente della Corte Suprema?), il passo lento in centro al corridoio, non troppo vicino alle porte chiuse, il passo che a un certo 106

punto mi restituirà alla zo­ na illuminata, alla lingua spagnola in bocche familia­ ri. Una notte, a Helsinki, mi ritrovai in un corridoio che faceva una curva a gomito inaspettata nella regolarità del palazzo; una porta si aprì su una vasta sala dove la luna era già l’inizio di un quadro di Paul Delvaux, ar­ rivai a un balcone e scoprii un giardino segreto, il giar­ dino del ministro o del giu­ dice, un piccolo giardino fra muri alti. Vi si scendeva da una scaletta di ferro in fon­ do al balcone, ed era tutto di dimensione ridotta, come se il ministro fosse stato un nano losco. Quando sentii di nuovo l’incongruenza di trovarmi in quel giardino dentro un palazzo dentro una città dentro un paese a pp. 104-5, Paul Delvaux, migliaia di chilometri dal La mer est proche (particolari). Sopra Nu à l'escalier (particolare). solito io di ogni giorno, mi ricordai l’unicorno bianco prigioniero del piccolo recinto prigioniero dell’arazzo az­ zurro prigioniero dei Cloisters prigionieri di New York. Nel riattraversare la grande sala vidi uno schedario su una scrivania e lo aprii: tutte le schede erano bianche. Io avevo un pennarello blu, e prima di andarmene disegnai cinque o

sei labirinti e li aggiunsi alle altre schede; mi diverte imma­ ginare che un giorno una finlandese sbalordita avrà trova­ to i miei disegni e che forse c’è un procedimento in corso, funzionari che interrogano, segretari costernati. A volte prima di addormentarmi ripenso a tutti i mini­ steri europei che ho conosciuto dì notte, la memoria li ri­ mescola finché rimane soltanto un immenso palazzo in penombra: fuori potrebbe esserci Londra, o Lisbona, o Nuova Delhi, ma adesso il ministero è uno solo e in qual­ che angolo di quel ministero c’è la cosa che mi dava appun­ tamento di notte facendomi vagare impaurito per scale e corridoi. Forse ho ancora altri ministeri davanti a me e non sono ancora arrivato all’appuntamento; mi accenderò un’altra sigaretta che mi faccia compagnia mentre mi per­ derò fra saloni e ascensori, alla vaga ricerca di qualcosa che ignoro e che non vorrei trovare.

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Su un’altra macchina celibe

Fabriquées àpartir du langage, les machines sont cettefabrication en acte; elles sont leurpropre naissance répétée en ellesmèmes; entre leurs tubes, leurs roues dentées, leurs systèmes de métal, l'écbeveau de leursfils, elles emboitent le procede dans lequel elles sont emboités.

Michel Foucault, RaymondRoussel

N'est-cepas des Indes que Raymond Roussel envoya un radiateur électrique à une amie qui lui demandait un souvenir rare de là-basf Roger Vitrac, Raymond Roussel

Non ho a portata di mano i mezzi per dimostrarlo, ma nel libro di Michel Sanouillet su Marcel Duchamp si afferma che il marchanddu sei visitò Buenos Aires nel 1918.^ Per quanto possa sembrare misterioso, quel viaggio dovette ob­ bedire alle leggi dell’arbitrarietà di cui alcuni di noi irrego­ lari della letteratura continuano a cercare le chiavi, e da par­ te mia sono sicuro che della sua fatalità sia prova la prima pagina delle Impressioni d’Afrique'. «Il 15 marzo del 19..., con l’intenzione di fare un lungo viaggio nelle strane regio­ ni dell’America del Sud, a Marsiglia salii a bordo della Lyncée, una veloce nave postale di grosso tonnellaggio desti­ nata alla rotta di Buenos Aires». Fra i passeggeri che avreb­ bero riempito con la poesia dell’eccezionaiità l’incompara­ bile libro di Raymond Roussel, non poteva mancare Du­ champ, il quale dovette viaggiare in incognito, visto che non Michel Sanouillet, Marchanddu seL, Le Terrain Vague, Paris 195 8, p. 7.

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si parla mai di lui, ma senza dubbio giocò a scacchi con Roussel e conversò con la ballerina OlgaTcherwonenkoff il cui cugino, stabilitosi fin da giovane nella Repubblica Ar­ gentina, era appena morto lasciandole una piccola fortuna accumulata con le piantagioni di [r/c] caffè. Non possiamo neppure dubitare che Duchamp avesse fatto amicizia con persone come Balbet, campione di pistola e di scherma, con La Ballandière-Maisonnial, inventore di un fioretto mecca­ nico, e con Luxo, un pirotecnico che andava a Buenos Aires per lanciare alle nozze del giovane barone Ballesteros fùochi d’artificio che avrebbero riprodotto l’immagine dello sposo nello spazio, idea che secondo Roussel rivelava come il mi­ lionario argentino fosse un arricchito ma che, aggiunge, non era priva di una certa originalità. Mi sembra meno probabi­ le che frequentasse i membri della compagnia di operette o l’attrice tragica italiana che interpretava Adinolfa,19 ma di sicuro conversò a lungo con lo scultore Fuxier, creatore di immagini di fùmo e di bassorilievi liquidi; in sintesi, non è diffìcile dedurre che buona parte dei passeggeri della Lyncée dovettero suscitare l’interesse di Duchamp e a loro volta be­ neficiarono del contatto con una persona che in qualche modo li conteneva virtualmente tutti. Com’è logico, la critica seria sa che tutto questo non è possibile, innanzitutto perché la Lyncée era una nave im­ maginaria, e poi perché Duchamp e Roussel non si conob­ bero mai (Duchamp racconta di aver visto una sola volta Roussel al Café de la Régence, quello della poesia di César Vallejo, e che l’autore di Locus Solus stava giocando a scac­ chi con un amico. «Credo di non essermi presentato», ag­ giunge Duchamp). Ma ci sono altre persone per cui 19. Personaggio delle Impressions d'Afrique.

Jean Schuster, «Marcel Duchamp, vite», in Bizarre, No. 34/5,1964. HO

quegli impedimenti fisici non smentiscono una realtà più de­ gna di fede. Non solo Duchamp e Roussel visitarono Buenos Aires, ma in quella città ci sa­ rebbe stata una successiva repli­ ca collegata a loro per ragioni che neppure questa volta la cri­ tica seria avrebbe preso troppo in considerazione. Juan Esteban Fassio preparò il terreno in­ ventando proprio a Buenos Ai­ res una macchina per leggere le

^uan ^steban ^assi°

Nouvelles impressioni d’Afrique nello stesso periodo in cui io, senza conoscerlo, scrivevo i primi monologhi di Persio nel Viaggio premio basandomi su un sistema di analogie fonetiche ispirato a quello di Roussel; qualche anno dopo Fassio si sarebbe messo d’im­ pegno per creare una nuova macchina destinata alla lettu­ ra di Rayuela, completamente ignaro del fatto che le mie fatiche più ossessive di quegli anni a Parigi riguardavano gli stravaganti testi di Duchamp e le opere di Roussel. Un doppio impulso aperto convergeva a poco a poco verso la punta australe in cui Roussel e Duchamp si sarebbero ri­ trovati, a Buenos Aires, quando un inventore e uno scritto­ re che forse anni addietro si erano guardati pure loro da lontano in qualche bar del centro, senza presentarsi, si fos­ sero incontrati in una macchina concepita dal primo per facilitare la lettura del secondo. Se la Lyncée naufragò sulle coste africane, alcuni dei suoi prodigi raggiunsero invece queste terre e la prova è in quanto segue, che verrà esposto a mo’ di scherzo per depistare quelli che cercano l’accesso ai tesori con faccia solenne.

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Cronopios, vino rosso e cassettini Tramite Paco e Sara Porrua, due lati dell’indefinibile poli­ gono che la mia vita va costruendo, con altri lati che si chia­ mano Fredi GuthmannJeanThiercelin, Claude Tarnaud e Sergio de Castro (possono essercene altri che ignoro, parti della figura che si manifesterà un giorno oppure mai), co­ nobbi Juan Esteban Fassio durante un viaggio in Argenti­ na,credo intorno al 1962.Tutto cominciò come si deve, va­ le a dire al bar della stazione di plaza Once, perché chiun­ que abbia un’acuta percezione di cosa sia il bar di una sta­ zione ferroviaria capirà che lì gli incontri e i disincontri av­ vengono inizialmente in un territorio di confine, di transi­ to, capirà che si trattava di eventi marginali. Quella sera ci fu come una oscura volontà materiale e densa, un catrame negativo contro Sara, Paco, mia moglie e me, che doveva­ mo incontrarci a quell’ora e non ci incontrammo, ci telefo­ nammo, ci cercammo ai tavoli e sulle banchine e finimmo per riunirci dopo due ore di interminabili complicazioni e con la sensazione di farci strada gli uni verso gli altri come nei peggiori incubi, dove tutto diventa ritardo e materia collosa. Il programma era di andare da lì a casa di Fassio, e se al momento non sospettai il senso della resistenza delle cose a quell’appuntamento e a quell’incontro, in seguito mi sembrò quasi inevitabile nella misura in cui ogni ordine stabilito fa quadrato davanti al sospetto di una rottura e mette le sue forze peggiori al servizio della continuità. Far sì che tutto prosegua come sempre è l’ideale di una realtà a misura di borghese e borghese essa stessa (in quanto misu­ rata); Buenos Aires e soprattutto il bar dell’Once si coaliz­ zarono sordamente per evitare un incontro dal quale non sarebbe potuto venire fuori nulla di buono per la Repubbli­ ca. Ma arrivammo lo stesso in calle Misiones (ci sono no­

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mi che...), e prima delle otto di sera stavamo bevendo il pri­ mo bicchiere di vino rosso con il Provveditore Propagatore in Mesembrinesia Americana, Amministratore Antartico e Gran Competente ogg, oltre che titolare della cattedra di lavori pratici rousseliani. Ebbi fra le mani la macchina per leggere le Nouvelles impressioni d’Afrique, e anche la valigia di Marcel Duchamp; Passio, che parlava poco, serviva in­ vece normali tramezzini e abbondante vino rosso, e finì per tirare fiiori una Kodak del tempo degli pterodattili con cui ci fotografò tutti sotto un ombrello e in altri atteggiamen­ ti degni delle circostanze. Poco tempo dopo tornai in Fran­ cia, e due anni più tardi mi arrivarono i documenti, prean­ nunciati in confidenza da Paco Porrua che aveva partecipa­ to con Sara alla fase sperimentale della lettura meccanica di Rayuela. Non mi sembra superfluo riprodurre anzitutto l’intestazione e l’incipit di quella trascendentale comuni­ cazione:

«ISTITUTO DE ALTOS ESTUDIOS PATAFISIC08 DE BUENOS AIRE8 ISTITUTO DI ALTI STUDI PATAFISICI DI BUENOS AIRES CATTEDRA DI LAVORI PRATICI ROUSSELIANI Commissione di Rayuela Sottocommissioni aU’Elettronica e alle Relazioni Patabrowniane

Seguivano vari diagrammi, progetti e disegni, e un fo­ glietto con la spiegazione generale del funzionamento della macchina, come pure foto degli esperti delle Sottocommisioni all’Elettronica e alle Relazioni Patabrownia­ ne in piena attività. Personalmente non ho mai capito 113

troppo bene la macchina, perché il suo ideatore non si de­ gnò di fornirmi spiegazioni complementari, e siccome non sono tornato in Argentina continuo a non afferrare al­ cuni particolari del delicato meccanismo. Mi rassegno perfino a questa pubblicazione forse prematura e immo­ desta con la speranza che qualche lettore ingegnere decifri i segreti della rayuel-o-matic, come viene chiamata la macchina in un disegno che, lo dirò apertamente, mi sem­ bra colpevole della frivola intenzione di metterla in com­ mercio, soprattutto vedendo la nota che compare a piè di pagina:

Avrete notato che la vera macchina è quella che compa­ re a sinistra; il mobile con l’aspetto di un triclinio infatti è proprio un triclinio, visto che Fassio aveva capito fin dall’i­ nizio che Rayuela è un libro da leggere a letto per evitare di addormentarsi in altre posizioni dalle funeste conseguen-

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ze. I disegni i e 2 illustrano in modo ammirevole questa ambientazione propizia, soprattutto il numero 2 dove non mancano né il mate né la bottiglia di gin (giurerei che c’è anche un tostapane elettrico, cosa che mi sembra un ecces­ so di ricercatezza):

Non capirò mai perché alcuni disegni fossero numerati mentre altri potevano essere messi in qualsiasi ordine, in­ dole che ho scrupolosamente assecondato. Penso che que­ sto darà un’idea generale della macchina:

Non c’è bisogno di essere Werner von Braun per imma­ ginare cosa custodiscano i cassetti, ma l’inventore ha avuto cura di allegare le seguenti istruzioni: 115

Dà inizio al funzionamento a partire dal capi­ tolo 73 (esce il cassetto 73 ); quando questo si chiude si apre il numero 1, e così via. Se si desidera interrompere la lettura, per esempio a metà del capitolo 16, occorre preme­ re il pulsante prima di chiudere questo cassetto. tasto b) Quando si vorrà riprendere la lettura a partire dal momento in cui è stata interrotta, basterà premere que­ sto pulsante perché ricompaia il cassetto numero 16 e il processo continui. tasto c) Libera tutte le molle, in maniera che si possa scegliere qualunque cassetto semplicemente tirando la maniglia. Il sistema elettrico viene disinserito. tasto d) Pulsante destinato alla lettura del Primo libro, vale a dire, dal capitolo 1 al 5 6 di seguito. Quando il casset­ to numero 1 si chiude, si apre il numero 2, e così via. tasto e) Pulsante per interrompere il funzionamento quando lo si desideri, una volta arrivati al circuito finale: 5 8-131-5 8-131-5 8, eccetera. tasto f) Nel modello con letto incorporato, questo pulsante apre la parte inferiore, e il letto è pronto. tasto a)

(In un foglietto allegato si fa riferimento a un tasto g, che il lettore schiaccerà in caso estremo, e che ha la funzio­ ne di far saltare tutto il congegno.)

I disegni 3,405 permettono di apprezzare il modello con letto incorporato, e il modo in cui questo fùoriesce e si apre non appena si preme il tasto f. Attento alle prevedibili esigenze estetiche dei fruitori dei nostri prodotti, Fassio ha previsto modelli speciali del­ la macchina in stile Luigi xv e Luigi xvi.

Nell’impossibilità di inviarmi la macchina per questio­ ni logistiche, doganali e perfino strategiche che il Collegio di Patafisica non è in condizioni né ha intenzione di ana­ lizzare, Fassio accompagnò i disegni con un grafico della lettura del Rayuela (a letto o seduti). L’interpretazione generale non è difficile: sono indicati chiaramente i punti fondamentali a cominciare da quello di partenza (73), il capitolo murato (55) e i due capitoli del ciclo finale (586131). Dalla lettura emerge una proiezio­ ne grafica alquanto simile a uno scarabocchio, anche se forse un giorno i tecnici potranno spiegarmi perché le linee si infittiscono tanto verso i capitoli 546 64. L’analisi strut­ turale utilizzerà in modo proficuo queste proiezioni in ap­ parenza sconcertanti; io le auguro buona fortuna.

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* Gardel

Fino a pochi giorni fa, l’unico ricordo argentino che la mia finestra su rue de Gentilly riusciva a portarmi era la vista di qualche passero identico ai nostri, allegro, spensierato e pi­ gro come quelli che si bagnano nelle nostre fontane o sal­ tellano nella polvere delle piazze. Adesso certi amici mi hanno lasciato un grammofono e qualche disco di Gardel. Si capisce subito che Gardel va ascoltato su un grammofono, con tutta la distorsione e la perdita immaginabili; la sua voce esce dall’apparecchio co­ me la conobbe la gente che non poteva andare a sentirlo di persona, come proveniva da ingressi e saloni nel 1924 0’25. Il duo Gardel-Razzano in: «La cordobesa», «E1 sapo y la comadreja», «De mi tierra». E anche la sua voce sola, alta e vibrata, con le chitarre metalliche che crepitano al fondo delle trombe verdi e rosa: «Mi noche triste», «La copa del * Questo testo fu pubblicato sulla rivista bonaerense SUR nel 1953.

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olvido», «E1 taita de arrabai». Per l’ascolto si sente perfino la necessità del rituale che lo precede, dare la corda al gram­ mofono, sistemare la puntina. Il Gardel pick-up elettri­ co coincide con la sua gloria, con il cinema, con una fama che gli richiese rinunce e tradimenti. E nel passato, nei cor­ tili all’ora del mate, nelle sere destate, nelle radio a galena o con le prime valvole, che lui è nella sua verità, quando canta i tanghi che lo riassumono e lo fissano nei ricordi. I giovani preferiscono il Gardel di «E1 dia que me quieras», la bella voce sostenuta da una orchestra che lo induce ad assumere un timbro gutturale e a diventare lirico. Noi che siamo cresciuti nell’amicizia dei primi dischi sappiamo quanto si è perso da «Fior de fango» a «Mi Buenos Aires querido», da «Mi noche triste» a «Sus ojos se cerraron». Un ribaltamento della nostra storia morale si riflette in quella trasformazione come in tante altre. Il Gardel degli anni

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Venti contiene ed esprime il portegno chiuso nel suo pic­ colo mondo gratificante: il dolore, il tradimento, la miseria non sono ancora le armi con cui andranno all’attacco a par­ tire dal decennio successivo il portegno e il provinciale ri­ sentiti e frustrati. Un’ultima e precaria purezza preserva ancora dallo struggimento dei boleri e del radioteatro. Gardel, in vita, non è l’artefice della storia diventata ormai palpabile con la sua morte. Genera affetto e ammirazione, come Legni o Justo Suàrez; dà e riceve amicizia, senza nes­ suna delle torbide motivazioni erotiche su cui si regge la fama dei cantanti tropicali che vengono a farci visita, o il puro piacere per il cattivo gusto e la meschinità risentita che spiegano il successo di un Alberto Castillo. Quando Gardel canta un tango, il suo stile esprime quello della gente che lo ha amato. Il dolore o la rabbia per l’abbando­ no della donna sono dolore e rabbia concreti, diretti a Jua­ na o a Pepa, e non quel pretesto per un’aggressione totale che è facile scoprire nella voce del cantante isterico di que­ sti tempi, così in sintonia con l’isterismo dei suoi ascolta­ tori. La differenza di tono morale che c’è fra il cantare «Lejana Buenos Aires, qué linda que has de estar!» come can­ tava Gardel, e l’ululante «jAdiós pampa mia!» di Castillo, mette l’accento su quella trasformazione a cui mi riferisco. Non sono soltanto le arti maggiori a riflettere il processo di una società. Ascolto ancora una volta «Mano a mano», che preferi­ sco a qualsiasi altro tango e a tutte le incisioni di Gardel. Il testo, implacabile nel suo bilancio della vita di una donna che è una donna di vita, racchiude in poche strofe la «som­ ma delle azioni» e l’infallibile vaticinio della decadenza fi­ nale. Chino su quella sorte, che per un momento condivi­ se, il cantante non esprime rabbia né rancore. Disperato nella sua tristezza, la evoca e vede che nella sua povera vita 121

da paria lei è stata soltanto una brava donna. Fino alla fine, nonostante le apparenze, difenderà l’intrinseca onestà del­ la sua vecchia amica. E le augurerà il meglio insistendo sul­ la sua classificazione:

Que el bacàn que te acamala tenga pesos duraderos, que te abrds en lasparadas con cafishos milongueros, y que digan los muchachos: «Es una buena mujer».10

Forse preferisco questo tango perché dà la giusta misu­ ra di quello che rappresenta Carlos Gardel. Se le sue can­ zoni toccarono tutti i registri del sentimentalismo popola­ re, dall’astio implacabile all’allegria del canto per il canto, dalla celebrazione di glorie del turf fino alla glossa del fat­ to poliziesco, il giusto contesto in cui si iscrive per sempre la sua arte è quello di questo tango quasi contemplativo, di una serenità che si direbbe perduta senza possibilità di re­ cupero. Se quell’equilibrio era precario, ed esigeva lo stra­ ripamento di bassa sensualità e il triste umorismo che tra­ suda oggi dagli altoparlanti e dai dischi popolari, è altret­ tanto vero che è toccato a Gardel segnare il suo momento più bello, per molti di noi definitivo e irrecuperabile. Nella sua voce da gagà portegno si riflette come in uno specchio sonoro Un’Argentina che ormai non è facile evocare. Voglio lasciare questa pagina con due aneddoti che ri­ tengo belli e pertinenti. Il primo è rivolto - e speriamo ser­ va da lezione - ai musicologi inamidati. In un ristorante di rue Montmartre, fra una porzione e l’altra di vongole alla marinara, mi capitò di parlare a Jane Bathori del mio aflfet-

20. Che al boss che ti mantiene non manchino mai i quattrini / che tu pos­ sa pavoneggiarti con i magnaccia milongueri / e che dicano i ragazzi: «È una brava donna».

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to per Gardel. Venni a sapere allora che il destino li aveva avvicinati una volta in un viaggio aereo. «E come le è sem­ brato Gardel?», domandai. La voce di Bathori - quella vo­ ce da cui ai suoi tempi era passata la quintessenza di De­ bussy, Fauré e Ravel - mi rispose emozionata: «Ilétait char­ mant, tout àfait charmant. C'était un plaisir de causer avec lui». E poi, sinceramente: «Et quelle mix!» L’altro aneddoto lo devo ad Alberto Girri, e mi sembra un perfetto riassunto dell’ammirazione del nostro popolo per il suo cantore. In un cinema del Barrio Sur, dove proiet­ tavano Questa abajo, un portegno con il fazzoletto al collo aspetta il momento di entrare. Un conoscente lo interpella dalla strada: «Vai al cinema? Che cosa danno?» E l’altro, tranquillo: «Un film muto...»

Non c’è peggior sordo di chi

Qui a Parigi leggo poche cose rioplatensi perché noi fran­ cesizzati, signora mia, siamo terribili. Adesso succede che tantissimi famas, speranze e cronopios mi mandino non si sa bene perché un sacco di pubblicazioni in forma di ma­ noscritti, rotoli, papiri, cilindri, plaquette, estratti, pagine sciolte con o senza cartellina, e soprattutto volumi stampa­ ti a Buenos Aires e a Montevideo, per non parlare delle mie zie che mantengono viva la fiamma dei supplementi do­ menicali, che come fiamma è piuttosto strana perché ap­ pena arriva nelle mie mani tende a trasformarsi in una pal­ la di carta per la gioia e lo scatenamento di Teodoro W. Adorno che vi si avvinghia rotolandosi in stretta conviven­ za bellica. Sarà un po’ per questo o per qualcos’altro, ma credo di avere ancora abbastanza orecchio per il nostro modo di parlare e di scrivere, e a sua volta sarà un po’per questo o per qualcos’altro, ma mi succede tristemente che anche tanti 124

libri e tante plaquette mi si tra­ sformino in palle di carta, quasi mai dal/>««#? di vista intellettuale e. quasi sempre dalpunto di ascol­ to estetico (dando grasso modo a «in­ tellettuale» ed «estetico» i rispettivi si­ gnificati di contenuto e di forma), Dico questo e quanto seguirà a proposito di Néstor Sànchez e del suo romanzo Nosotros dos, di cui venni a conoscenza un paio d’anni fa tramite manoscritto (Sànchez non l’ho mai visto, a volte mi scrive lettere fra il sibillino e il rancoroso); ades­ so hanno appena pubblicato il suo libro e mi è toccato leg­ gere due o tre recensioni, ed è successo quello-che-c’erada-aspettarsi, vale a dire che nel Rio de la Piata ci sono sempre più Beethoven in materia di stile. Non sono un cri­ tico né un saggista né penso di difendere Sànchez che è già grandicello ed esce da solo la sera; né prendo il suo libro come esempio speciale, mi limito ad affermare che è uno dei migliori tentativi attuali di creare uno stile narrativo degno di questo nome, e che al di là dei suoi meriti o deme­ riti rappresenta un raro caso di personalità in un paese co­ sì spersonalizzato in materia di espressione letteraria come l’Argentina. Sànchez ha un sentimento musicale e poetico della lin­ gua: musicale per il senso del ritmo e la cadenza che tra­ scende la prosodia per appoggiarsi a ogni frase che a sua volta si appoggia a ogni paragrafo e così via finché il libro nel suo insieme raccoglie e trasmette la risonanza come la cassa armonica di una chitarra; poetico perché, come tutta Semplice approccio per capirsi, primo round di studio e di accademia; il taglio è falso, come si dimostrerà più avanti.

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la prosa basata sulla simpatia, la comunicazione di segni implica un rovescio carico di latenze, simmetrie, polariz­ zazioni e catalisi in cui risiede la ragion d’essere della gran­ de letteratura. E questo, che riassumo male, è ciò che vari critici del libro sono stati incapaci di vedere, per deplorare invece con una profonda aria di disorientamento quello che chiamano «guazzabuglio», «oscurità», in una monoto­ na ripetizione di quell’incontro fra un critico che guarda indietro e un artista che va avanti. In un altro punto mi riferisco a una seconda pietra del­ lo scandalo, José Lezama Lima. Difensore di cause perse (delle altre si occupano le penne autorizzate e io, come di­ ce una canzone, non lo sono né voglio esserlo), opto per spezzare un bel boomerang a favore di questi soliti ignoti.21 Quanto segue è la trasposizione di un momento di malu­ more e di tristezza, fra mate e sigarette; chiedo scusa per la probabile mancanza di documentazione, ma non posseggo archivi e poi in questo periodo mi sto dedicando più che altro ad ascoltare Ornette Coleman e a perfezionarmi nel­ la tromba, strumento petulante.

Vocabolario minimo per capirsi

Stile', i ) La definizione del dizionario è quella giusta: «Mo­ do caratteristico che ognuno ha di scrivere o di parlare, os­ sia di esprimere le proprie idee o i propri sentimenti». Sic­ come si è soliti circoscrivere la nozione di stile alla scrittu­ ra e lì si parla di «stile caratterizzato da frasi lunghe», ecc., segnalo che qui per stile si intende il prodotto totale dell’e­ conomia di un’opera, delle sue qualità espressive e idioma21. In italiano nel testo. I2Ó

tiche. In ogni grande stile, il linguaggio smette di essere un veicolo per l’«espressione di idee e sentimenti» e accede a quello stadio limite in cui non ha più valore come mero lin­ guaggio perché è in tutto e per tutto presenza di quanto esprime. Un po’ come succede con il raro interprete musi­ cale che stabilisce il contatto diretto dell’ascoltatore con l’opera e smette di agire come intermediario.

Stile-. 2) Questa nozione di stile si apprezzerà meglio da un punto di vista più aperto, più semiologico come dicono gli struttura­ listi seguendo Saussure. Per Michel Foucault, “O in ogni racconto bisogna distinguere innanzitutto la fabula, quello che si racconta, dalla finzione, che è l’«andamento del racconto», la posizione del narratore ri­ spetto al narrato. Ma questa diade si rivela presto una tria­ de. «Quando si parla (nella vita quotidiana), si può ben di­ re che si parla di cose “appartenenti alla fabula”; il triango­ lo disegnato dal soggetto parlante, dal suo discorso e da quello che racconta, è determinato da una situazione ester­ na: lì non c’è nessuna finzione. Invece, in quell’analogon di discorso che è un’opera, quella relazione può stabilirsi sol­ tanto all’interno dell’atto stesso della parola; quello che si racconta deve indicare di per sé chi parla, a che distanza, da quale prospettiva e secondo quale modo di discorso. L’ope­ ra non si definisce tanto per gli elementi della fabula o per In uno studio su... Jules Verne, ovviamente, cfr. L'arcy n° 29, Aix-enProvence 1966.

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il loro ordine quanto per i modi della finzione, indicati tan­ genzialmente dall’enunciato stesso della fabula. Lafabula di un racconto si colloca all’interno delle possibilità mitiche della cultura; la sua scrittura si colloca all’interno delle pos­ sibilità della lingua; la suafinzione, all’interno delle possibi­ lità dell’atto della parola». si allude qui a quel­ li che ovviamente non hanno un sentimento dello stile del genere sopra indicato. Ma appena si scava un po’, la sordi­ tà stilistica si affaccia come sintomo di carenze concomi­ tanti nel senso indicato dal vecchio luogo comune secondo cui lo stile è l’uomo, in questo caso l’uomo argentino o uruguayano, scialacquatore in modo indiscriminato delle sue molte e splendide qualità. Resta inteso che qui si parla an­ che di quegli scrittori che al loro quinto o settimo libro so­ no capaci di scrivere: «Glielo dissi una mattina nella latte­ ria, con i nostri gomiti poggiati sul marmo freddo», come se si potessero poggiare sul marmo i gomiti della bisnonna o come se il marmo delle latterie fosse normalmente in ebollizione; di scrittori che si permettono un atteggiamen­ to sprezzante verso Borges mentre producono cose come: «Il tacito consenso dell’ancestrale e perentorio richiamo della sua natura indocile e concettiva», o grossolanità in cui un viso si accende con «l’indomabile fuoco del rossore», per non parlare di quelli che spiegano come «prendendole il viso fra le due mani», ecc., precisazione dalla quale si po­ trebbe dedurre che ci sono altre persone capaci di prender­ glielo fra tre o fra otto. Questo riguardo ai buffoni delscrittori rioplatensi di finzione:

Se per caso qualche persona menzionata o timorosa di essere menzio­ nata muovesse il giusto rimprovero che è molto comodo citare senza fare nomi (in Argentina non si firmano neppure certe presunte critiche lettera­ rie), provvedo a indicare che le citazioni di questo saggio corrispondono a 128

la scrittura a noi più vicini; dall’insieme delle loro opere si deduce una maggiore o minore sordità per gli elementi eu­ fonici della lingua, il ritmo parziale e quello generale, e questo irritante paradosso: nonostante siano scritte in una lingua sinistramente impoverita dall’incultura e dalla con­ seguente scarsezza del vocabolario, ci sono quasi sempre parole in eccesso. Direpoco con tanto sembra una costante di questo genere di scrittore.

Hanno e non hanno orecchio Non ricordo più né quando né dove Brice Parain ha detto che a seconda di come trattiamo il linguaggio e la scrittu­ ra, così verremo trattati. Nessuno dunque si meravigli che stia trattando piuttosto male quegli scrittori rioplatensi di finzione che nella scrittura sembrano vedere soprattutto un sistema di segni informativi, come se passassero dalla Remington ^imprimatur senz’altro sforzo che quello di sfilare via via i fogli dal rullo. E probabile che nessuno risolverà mai la questione del fondo e della forma visto che, non appena si dimostra che questo è un falso problema, le difficoltà rispuntano da die­ tro un altro angolo. Se è verificabile che l’espressione fini­ sce sempre per riflettere qualitativamente il contenuto, e che ogni scelta manichea a favore dell’una o dell’altro con­ duce al disastro nella misura in cui non ci sono due estre­ mità ma un continuum (il che, come vediamo oggi, non im­ pedisce che il continuum sia più complesso di quanto sem-

brani di (in ordine alfabetico): Julio Cortàzar, Mario E. Lancelotti, Eduar­ do Mallea e Dalmiro Sàenz. Scelti per la semplice ragione che avevo a por­ tata di mano alcuni dei loro libri mentre lo scrivevo. 129

brasse), bisogna pur dire che per raggiungere quello stato della scrit­ tura meritevole di essere chiamato letterario non basta aver riempito ri­ sme bianche o azzurre con la sola preoccupa­ zione della correttezza sintattica o, al massimo, di un vago sentimento delle esigenze euritmiche della lingua. Confesso che un tempo quella letteratura che chiamo sorda mi sembrava soprattutto il prodotto del tetanico «insegnamento» della lingua nel nostro sistema scolastico, e della conseguente ingenuità di secernere un qualunque racconto con la stessa innocenza di un baco da seta. In seguito sospettai cose peg­ giori davanti alla monotonia con cui il quarto libro dello scrittore Tal dei Tali compariva nelle vetrine impeccabil­ mente mal scritto come il primo. Quell’insistere con la stessa brodaglia sembrava un indizio di altre cose; non c’è bisogno di confidare troppo nella prassi per sentirsi certi che un attento esercizio della letteratura dovrebbe condur­ re a un progresso simultaneo nella maniera di guidare l’au­ to e nel senso del viaggio per cui la si guida. Come non ve­ dere che l’unica collocazione del vero scrittore è il centro dell’atomo letterario dove particelle conosciute e altre da conoscere si risolvono nella perfetta intenzionalità dell’o­ pera: quella portare al limite estremo tutto ciò che la susci­ tala fa e la comunica? Se non c’era stato un avanzamento, se ogni nuovo libro del Tal dei Tali reiterava le carenze di quelli precedenti, si poteva soltanto pensare che il difetto fòsse anteriore all’esperienza del mestiere, che la invalidas­

se

se come un blocco, una censura nel modo in cui la intende la psicoanalisi. Indagando su quell’ostacolo iniziale che poteva spiega­ re la sordità letteraria di un simile scrittore, e concentran­ domi per ovvie ragioni sul Rio de la Piata, riesaminai le no­ stre impossibilità come già una volta aveva fatto Borges con un altro proposito e su un altro terreno. Cominciai, come ho detto, ricordando la parodia di educazione linguistica e letteraria che veniva impartita ai giovani argentini del mio tempo con un patriottismo che avrebbe lasciato annichiliti San Martin e Bolivar, visto che se loro avevano sbaragliato gli eserciti spagnoli senza per questo tagliare le radici con la Spagna, i professori di castigliano e di letteratura delle no­ stre scuole superiori commettevano il più orrendo parrici­ dio nello spirito dei loro alunni, instillandovi la morte per noia e per bimestri dell’infante Juan Manuel, dell’Arcipre­ te di Hita, di Cervantes e di qualunque classico avesse avu­ to la sventura di cadere nella trappola dei programmi sco­ lastici e delle letture obbligatorie. Le eccezioni erano come quel solitario biscotto al cioccolato che sorride ai ragazzini nella scatola da un chilo. Per esempio io fui abbastanza for­ tunato da avere come professore, al posto di cinque o sei imbecilli, niente meno che don Arturo Marasso, ed è pos­ sibilissimo che a voi sia toccata una fortuna analoga nella lotteria docente. Ma queste sono lotterie di Eliogabalo; statisticamente parlando siamo stati «educati» (forse il pas­ sato prossimo vale anche come presente, manco dal paese da tanto tempo e non lo so) nell’ignoranza delle Madri del­ la lingua, delle costanti profonde che avremmo dovuto ri­ conoscere prima di procedere al parricidio freudiano che non riusciamo neppure a commettere di proposito, perché dire come un poveraccio, «dai amico, prestami mille sac­ elli», o come nei giornali, «il piano governativo impatta

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l’andamento borsistico», o come in un romanzo, «l’idra del deside­ rio si agglutinava nella sua psiche scossa», non sono conquiste né perdite linguistiche, non sono ri­ bellione o regressione o altera­ zione, ma passività da lappola. Pensai parallelamente all’in­ fluenza neutralizzatrice e devita­ lizzante delle traduzioni sul no­ stro sentimento della lingua. Fra ili93oeili95oil lettore rioplatense ha letto i quattro quinti del­ la letteratura mondiale contem­ poranea in traduzione, e conosco fin troppo bene il mestiere di tur­ cimanno per non sapere che la lingua si riduce lì a una funzione innanzitutto informativa e che, perdendo la sua originalità, fa sì che sfumino gli stimoli eufonici, ritmici, cromatici, scultorei, strutturali, tutta la spinosa que­ stione dello stile che si rivolge al­ la sensibilità del lettore, ferendo­ lo e pungolandolo attraverso gli occhi, le orecchie, le corde vocali e perfino il gusto, in un gioco di risonanze e corrispondenze e adrenalina che entra nel sangue per modificare il sistema di rifles­ si e di risposte e suscitare una partecipazione porosa a quella 132

esperienza vitale che è un raccon­ to o un romanzo. A partire dal 195 o, il vasto pubblico del Rio de la Piata scoprì i propri scrittori e quelli del resto dell’America La­ tina; ma il danno era già fatto e mentre da una parte molti di quegli scrittori partivano da uno strumento degradato per le ra­ gioni che sto cercando di capire, dall’altra i lettori avevano perdu­ to ogni esigenza e leggevano un autore uruguayano o messicano con la stessa passiva accettazione di segni comunicanti con cui leg­ gevano Thomas Mann, Alberto Moravia o Francois Mauriac in traduzione. Ci sono perlomeno due categorie di lingue morte, e quella che utilizzano quegli scrit­ tori e quei lettori appartiene alla peggiore; ma non ci sono giustifi­ cazioni, perché la morta in que­ stione è una specie di zombie al contrario e dipenderebbe solo da noi risvegliarla a una vita ben me­ ritata e in pieno sole. Il guaio è che se non ce orecchio,come di­ ceva Unamuno, se non c’è un rit­ mo verbale che corrisponda a un’economia intellettuale ed estetica, se non c’è quel senso in­ fallibile del vocabolario, delle i33

strutture sintattiche, del rispetto e delle trasgressioni che fanno lo stile di un grande scrittore, se romanziere e letto­ re sono rinchiusi nella stessa cella e mangiano lo stesso pa­ ne secco, allora che vuoi farci, caro mio, siamo al tappeto. Mi sono anche domandato quali potessero essere i pia­ ceri del connubio letterario, a quale segno corrispondesse l’eros verbale di quegli scrittori e lettori rioplatensi che eia­ culano e ricevono letterariamente con la stessa aria noncu­ rante e distratta del gallo e della gallina. Qualunque voyeur della nostra attuale letteratura scoprirà presto che queste ragazze (il sesso qui non ha importanza) si fermano a un superficiale erotismo clitorideo senza arrivare quasi mai a quello vaginale. Così, limitati alla soglia, l’informazione e il «messaggio» trafugano per ingenuità o per incompeten­ za la fusione erotica totale e dispensatrice di essere che na­ sce dal rapporto con ogni letteratura degna di questo no­ me. In Argentina il piacere della letteratura si esaurisce quasi sempre a ragione visto che oltre non c’è granché - ai margini della pura e semplice esposizione. Le premesse di un piacere più profondo vengono create a malapena dalle incursioni dell’autore nella scioltezza orale, in un dialogo nel quale il lunfardo o i linguaggi provinciali e domestici riescono a tratti a recuperare la respirazione della lingua vi­ va; ma quando il romanziere, piccolo dio incartapccorito, riprende la parola fra due dialoghi, si ricade nella suprema­ zia del segno e basta. E il lettore comune non lo nota, e nep­ pure la maggior parte dei critici che confondono la lettera­ tura con l’informazione di lusso. Fra noi sembrano esserci pochissimi creatori e lettori sensibili allo stile come strut­ tura originale nei due significati del termine, nella quale ogni impulso o segno di comunicazione tende alle poten­ ze estreme, agisce in altezza, larghezza e profondità, pro­ muove e commuove, frastorna e tramuta - una alchimie du

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verbe il cui senso ultimo consiste nel trascendere l’opera­ zione poetica per agire con la stessa efficacia alchemica sul lettore. Mettiamo da parte lo pseudostile di superficie che in gran parte ci arriva dalla Spagna verbosa dei cenacoli (l’altra dorme e aspetta) e che consiste nell’arrotondare la frase, nell’assumere un timbro gutturale, in un aggettivare lussuoso e dàgli con cose tipo «verificava l’importo del de­ naro dilapidato», o «due o tre signori di famiglia simile, tronfia, di buon appetito, con i suoi adulti e i suoi impube­ ri» [jx?]; tutto questo stramonio andrà morendo da solo e i suoi ultimi echi saranno i discorsi con cui si congederà dai suoi autori nel peristilio del cimitero della Chacarita. Il pe­ ricolo reale sta nella sordità, non in quelle bande munici­ pali della lingua; il danno risiede nel deliberato impoveri­ mento dell’espressione (simmetricamente paragonabile

all’ubriacatura di ampollosità degli spagnoli di oggi) che coincide con la sopravvalutazione del tema che motiva il testo. Non sembra notarsi che, quando si trasmette in mo­ do imperfetto, la ricezione oscilla fra l’incompletezza e la falsità; sul piano letterario siamo ancora ai tempi delle ra­ dio a galena. Finiremo mai per renderci conto che in que­ sto mestiere il messaggio e il messaggero non fanno parte

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dell’Unione Postale Universale, che non sono due come la lettera e il postino?

Grande fatica a questo punto della disquisizione

«Dai, piantala», si sente dire da qualche parte. Sono sensi­ bile a questi suggerimenti ma non me ne andrò prima di un’ultima riflessione, perché a questo punto del gioco capi­ sco che l’indifferenza per lo stile da parte di autori e letto­ ri porta a sospettare che neppure il «messaggio» così dispo­ sto a prescindere allegramente da uno stile debba essere un granché. E capisco qualcos’altro: la radice morale di quan­ to ci sta succedendo sul piano letterario, quello die, prima delle influenze negative della scuola e delle traduzioni fa già il suo gioco a partire dalla nostra indole, il fatto di esse­ re un uruguayano o un argentino. In letteratura come in tante altre cose subiamo gli svantaggi dei nostri vantaggi: intelligenti, flessibili, rapidi nel cogliere le direzioni della circostanza, ci concediamo il triste lusso di non rispettare la distanza elementare che va dal giornalismo alla letteratu­ ra, dal dilettantismo alla professionalità, dalla vocazione all’opera. Perché i nostri uomini di scienza valgono stati­ sticamente più dei nostri letterati? La scienza e la tecnolo­ gia non ammettono l’improvvisazione, la svogliatezza e la facilità nella misura in cui i nostri letterati credono inno­ centemente che la narrativa le permetta, e invece traggono enorme vantaggio dalle nostre migliori qualità. Nelle let­ tere, come nel calcio, nella boxe e nel teatro professionale, la facilità rioplatense si traduce in sufficienza, in qualcosa di simile a un diritto divino a scrivere o a leggere o a segna­ re gol in modo impeccabile. Tutto ci è dovuto perché tutto ci è dato; lo Stato siamo noi, chi tardi arriva male alloggia, 136

eccetera. Ma per ogni Pascualito Pérez o Jorge Luis Bor­ ges, brother, quante legnate ci becchiamo dappertutto. Vi­ va meè una spiritosaggine che mi sono stufato di leggere e di scrivere sui muri della mia infanzia, quasi sempre ac­ compagnata da quell’altra spiritosaggine che ci dipinge al­ trettanto bene, Abbasso me. Così, un giorno ci proclamia­ mo scrittori o lettori ex officio, senza noviziato e senza ve­ glia d’armi, passando da vaghe letture alla perfetta redazio­ ne del nostro primo romanzo e all’interpellanza patriotti­ ca al povero editore più o meno catalano che non capisce cosa stia succedendo e abbassa spaventato la saracinesca del suo catalogo. A volte mi è venuta voglia di perdere una serata a San Martin e a Corrientes o in un caffè di SaintGermain-des-Prés, e mi sono fermato ad ascoltare alcuni scrittori e lettori argentini imbarcati in quella corrente che considerano «impegnata» e che consiste grosso modo11 nell’essere autentici (?), nell’affrontare la realtà (?), nel far­ la finita con i bizantinismi borgesiani (risolvendo ipocritamente il problema della loro inferiorità davanti al meglio di Borges grazie al solito imbroglio di avvalersi delle sue tristi aberrazioni politiche o sociali per sminuire un’opera che non ha nulla a che vedere con quelle). Era e continua a essere divertente dimostrare come questi tizi credano che basti essere arguti e intelligenti e aver letto moltissimo per­ ché tutto il resto sia solo questione di baskerville e corpo otto. Se gli parli di Flaubert vengono fuori cose come la franche de vie e non pensano a quanto è stato curvo sui libri Gustave; se sono un po’più astuti ti ribattono che Balzac o Emily Brontè o D.H. Lawrence non avevano bisogno di tanto esercizio per produrre capolavori, dimenticando che tanto gli uni quanto gli altri (genio a parte) andavano a 2 2. In italiano nel testo. 137

combattere con armi affilate col­ lettivamente da secoli di tradi­ zione intellettuale, estetica e let­ teraria, mentre noi siamo co­ stretti a crearci una lingua che prima si lasci alle spalle Don Ra­ miro e altre mummie dal ben­ daggio ispanico, che riscopra lo spagnolo che diede Quevedo o Cervantes e che ci diede Martin Fierro e Recuerdos de provincia, che sappia inventare, che sappia aprire la porta per uscire a gioca­ re, che sappia uccidere a destra e a manca come ogni lingua dav­ vero viva, e soprattutto che si li­ beri finalmente dal journalese e dal trandatele, perché quella li­ quidazione generale di penurie e facilità ci conduca un giorno a uno stile nato da una lenta e ar­ dua meditazione sulla nostra realtà e sulla nostra parola. Per­ ché lamentarsi, dopotutto? Non è meraviglioso doverci fare stra­ da nella confùsione di una lingua che, come sempre, è soltanto una nostra confusione interiore? Qui in Francia vengono pubblicati ogni anno centinaia di libri insi­ gnificanti che dimostrano il ri­ schio opposto, quello della facili­ tà di una lingua accessibile ai 138

mediocri in tutta la sua efficacia alla fine degli studi scola­ stici. Quando da lì viene fuori il gran libro, è logico che nel­ le nostre terre si invidi l’uso che il genio riesce a fare di una lingua come il francese o l’inglese; ma anche i nostri libri possono arrivare a essere grandi nella misura in cui siano sempre più un’inevitabile battaglia per la conquista di una lingua prima di aspirare alla piena fioritura, al risultato perfetto. Peccato che qui, tristemente, subentrino di nuovo la poca voglia di lottare, l’ingenuità o la canaglieria di voler raccogliere il bottino senza aver tirato un solo buon fen­ dente, la fiacca rioplatense così lodevole in estate all’ora della siesta, così raccomandabile fra un libro e un altro, ma che non contenta di popolare di sogni e di mate amaro l’o­ zio magnifico dell’uomo rioplatense, è colpevole di buona parte della nostra bibliografia contemporanea. Ciao.

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Bisogna essere proprio idioti per

Me ne rendo conto da anni e non mi importa, ma non ave­ vo mai pensato di scriverne perché l’idiozia mi sembra un argomento sgradevolissimo, soprattutto quando a esporlo è l’idiota. Forse la parola idiota è troppo categorica, ma pre­ ferisco fin dall’inizio metterla bella calda sul piatto anche se gli amici potranno trovarla esagerata, invece di usarne un’altra come tonto, citrullo o babbeo con il rischio che quegli stessi amici pensino che ci sei andato leggero. In realtà non succede nulla di grave ma essere idiota ti isola completamente dagli altri, e nonostante la cosa abbia i suoi lati positivi è evidente che ogni tanto c’è una specie di no­ stalgia, un desiderio di passare dall’altra parte dove amici e parenti si trovano riuniti nella stessa intelligenza e com­ prensione, e di strusciarti un po’ contro di loro per sentire che non c’è poi tanta differenza e che va tutto très bien. La cosa triste è che invece quando si è idioti va tutto très mal, per esempio a teatro, vado a teatro con mia moglie e un 140

amico, c’è uno spettacolo di mimi cechi e ballerine thailan­ desi ed è sicuro che appena comincerà la rappresentazione io troverò tutto meraviglioso. Mi diverto o mi commuovo come non mai, i dialoghi o i gesti o le danze mi sembrano visioni soprannaturali, mi spello le mani a forza di applau­ dire e a volte mi lacrimano gli occhi o rido fino a farmela quasi addosso, e comunque sono felice di vivere e di aver avuto la fortuna di andare quella sera a teatro o al cinema o a una mostra di quadri, in qualsiasi posto dove persone ec­ cezionali stanno facendo o mostrando cose mai immagina­ te prima, stanno inventando un luogo di rivelazione e di in­ contro, qualcosa che lava via i momenti in cui non succede niente di più di quello che succede sempre. Insomma, sono estasiato e così contento che quando ar­ riva l’intervallo mi alzo entusiasta e continuo ad applaudi­ re gli attori, e dico a mia moglie che i mimi cechi sono una meraviglia e che la scena in cui il pescatore getta l’amo e si vede avanzare a mezz’aria un pesce fosforescente è assolu­ tamente incredibile. Anche mia moglie si è divertita e ha applaudito, ma di colpo mi rendo conto (quel momento ha un che di ferita, di buco rauco e umido) che il suo diverti­ mento e i suoi applausi sono stati diversi dai miei, poi qua­ si sempre c’è con noi un amico che si è divertito e ha ap­ plaudito pure lui ma mai come me, e oltretutto gli sento di­ re con estrema sensatezza e intelligenza che lo spettacolo è carino e gli attori non sono male, ma certo non c’è grande originalità nelle idee, senza contare che i colori dei costu­ mi sono banali e l’allestimento è piuttosto dozzinale ecc... Quando mia moglie o il mio amico dicono queste cose - le dicono in modo gentile, senza alcuna aggressività - capisco di essere idiota, ma il brutto è che ogni volta ti scordi che ti meravigli di tutto quello che succede, sicché la caduta im­ provvisa nell’idiozia ti sorprende come se fossi un turac­

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ciolo che ha passato anni in cantina a fare compagnia al vi­ no nella bottiglia e all’improvvisoplop\ un colpo secco e or­ mai sei solo un pezzo di sughero. Mi piacerebbe prendere le difese dei mimi cechi o delle ballerine thailandesi, per­ ché mi sono sembrati ammirevoli e mi hanno reso così fe­ lice che le parole intelligenti e sensate dei miei amici o di mia moglie mi feriscono fin sotto le unghie, anche se capi­ sco benissimo che hanno ragione e lo spettacolo non deve essere bello come mi era sembrato (in realtà a me non sem­ brava né bello né brutto né altro, ma da quell’idiota che so­ no ero semplicemente trasportato da quello che succedeva, e mi bastava per fuggire e andare là dove mi piace andare ogni volta che posso, e non posso quasi mai). Non mi verrebbe mai in mente di mettermi a discutere con mia moglie o con i miei amici perché so bene che han-

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no ragione e in realtà hanno fatto benissimo a non farsi trascinare dall’entusiasmo, visto che i piaceri dell’intelli­ genza e della sensibilità devono nascere da un giudizio ponderato e soprattutto da un atteggiamento comparativo, basarsi, come disse Epitteto, su quanto già si conosce per giudicare quanto si è appena conosciuto, perché in questo e non in altro consistono la cultura e la sophrosyne. Non pretendo affatto di discutere con loro e al massimo mi li­ mito ad allontanarmi di qualche metro per non ascoltare il resto dei confronti e dei giudizi mentre cerco di trattenere ancora per un po’ le ultime immagini del pesce fosfore­ scente che fluttuava a metà del palcoscenico, anche se ades­ so il mio ricordo subisce inevitabili modificazioni per via delle critiche intelligentissime che ho appena ascoltato, e non posso fare a meno di riconoscere la mediocrità di quel­ lo che ho visto e che mi ha entusiasmato solo perché ap­ provo qualsiasi cosa abbia colori e forme un po’ originali. Ripiombo nella consapevolezza di essere idiota, e del fatto che la minima cosa mi basta per sentirmi felice di questa vita incasellata, e a quel punto il ricordo di quello che ho amato e goduto stasera si offusca e diventa complice, di­ venta l’opera di altri idioti che pescavano o ballavano male, con costumi e coreografie mediocri, ed è quasi una conso­ lazione, ma una consolazione sinistra, sapete che siamo tanti noi idioti che stasera ci siamo dati appuntamento in questa sala per ballare, pescare e applaudire. Il peggio è che due giorni dopo apro il giornale e leggo la critica dello spettacolo, e la critica concorda quasi sempre e perfino nel­ le parole con quello che con tanta sensatezza e intelligenza hanno visto e detto mia moglie o i miei amici. Adesso so­ no sicuro che non essere idioti sia una delle cose più im­ portanti nella vita di un uomo, finché a poco a poco me ne dimentico, perché la cosa peggiore è che finisco per di­ i43

menticarmene, per esempio ho appena visto un’anatra che nuotava in un laghetto del Bois de Boulogne, ed era di una bellezza così straordinaria che non ho potuto fare a meno di accoccolarmi accanto al lago e restare per non so quanto tempo a osservarne la bellezza, l’allegria petulante degli occhi, quella doppia linea delicata che il suo petto lascia nell’acqua e che si va aprendo fino a perdersi in lontanan­ za. Il mio entusiasmo non è dovuto solo all’anatra, è qual­ cosa a cui l’anatra di colpo dà consistenza, perché a volte può essere una foglia secca in bilico sul bordo di una pan­ china, o una gru arancione, enorme e delicata contro il cie­ lo blu della sera, o l’odore di un vagone ferroviario quando entri lì e hai un biglietto per un viaggio dì tante ore e tutto avverrà come in un prodigio, le stazioni, il panino al pro­ sciutto, i pulsanti per accendere o spegnere le luci (una bianca e l’altra viola), la ventilazione regolabile, tutto que­ sto mi sembra così bello e quasi così impossibile che aver­ lo qui a portata di mano mi riempie di una specie di salice interiore, di una verde pioggia di delizia che non dovrebbe mai aver fine. Ma molti mi hanno detto che il mio entusia­ smo è una forma di immaturità (vogliono dire che sono un idiota, ma scelgono le parole) e che non ci si può entusia­ smare così per una tela di ragno che brilla al sole, visto che se cadi in simili eccessi per una tela di ragno piena di rugia­ da, che cosa ti rimane per la sera in cui daranno King Lear? Questo mi sorprende un po’, perché l’entusiasmo non è una cosa che si esaurisce quando si è idioti per davvero, lo si esaurisce quando si è intelligenti e si ha il senso dei valo­ ri e della storicità delle cose, quindi anche se corro da una parte all’altra del Bois de Boulogne per vedere meglio l’a­ natra, questo non mi impedirà di fare grandi salti di entu­ siasmo proprio stasera, se mi piacerà come canta Fischer Dieskau. Adesso che ci penso l’idiozia deve essere questo: 144

riuscire a entusiasmarsi di continuo per qualunque cosa piaccia, senza che un disegnino su un muro si veda per for­ za sminuito dal ricordo degli affreschi di Giotto a Padova. L’idiozia deve essere una sorta di presenza o nuovo inizio continui: adesso mi piace questa pietruzza gialla, adesso mi piace L’année dernière à Marienbad, adesso mi piaci tu, to­ pina, adesso mi piace questa incredibile locomotiva che sbuffa alla Gare de Lyon, adesso mi piace questo manifesto strappato e sporco. Adesso mi piace, mi piace tanto, adesso sono io, recidivamente io, l’idiota perfetto nella sua idiozia che non sa di essere idiota e gode perso nel suo godimento, finché la prima frase intelligente lo riporterà alla consape­ volezza della sua idiozia e gli farà cercare subito una siga­ retta con mani impacciate, guardando a terra, disposto a comprendere e a volte accettare perché anche un idiota de­ ve vivere, come ovvio fino alla prossima anatra o al prossi­ mo manifesto, e così per sempre.

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Due storie zoologiche e un’altra quasi

Società anonima

Varie dozzine di spettatori, le confezioni di insetticida sul tavolo a cavalletto, il tavolo piazzato all’angolo di una via, un calore che ti scioglie ma il nostro José, visiera del berretto sollevata, apostrofa i presenti senza la minima cortesia, con il prodotto che ha l’onore di vendere non ha bisogno di lec­ care i piedi a nessuno, questo insetticida da vaporizzare è in­ fallibile e al tempo stesso conveniente, due cose che di rado vanno insieme. Gli altri insetticidi che si vendono nelle drogherie, tanta pubblicità e bombolette colorate con figu­ re di mosche e scarafaggi in piena agonia, ma vi giuro che alcuni sono un vero tonico per l’insetto, lo spruzzate e la be­ stia entra in uno stato di autentica euforia, si arrampica sui muri o svolazza fra le gocce di cristallo del lampadario, va a finire che gli avete fatto un favore e avete pure speso ottan­ ta pesos. Qui niente, una confezione semplice e onesta a un

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prezzo imbattibile, e poi non c’è bisogno di abbindolare l’e­ gregio pubblico con figurine in technicolor, fatti non paro­ le, attenzione gente, vi convincerete subito che il prodotto è eccellente, lei, signore, può metterci la firma, glielo dico io. José tira fuori un barattolo di vetro e lo solleva perché tutti possano vedere la comunissima zanzara che vola sen­ za troppo entusiasmo in così poco spazio. Stappa il vapo­ rizzatore dell’eccellente prodotto, socchiude il barattolo e propina una bella spruzzata al dittero. Il soggetto la riceve da vero uomo, continua a volare per un paio di secondi, si attacca al vetro come per riposarsi, e di colpo stende le zampe, perde l’appoggio e cade in fondo al recipiente dove il pubblico avido ammira le sue varie e vistose convulsioni e la sua rigidità finale. «Due secondi e otto per sentire gli effetti, quattro se­ condi e cinque per tirare le cuoia», dice José con semplici­ tà. «Un momento, un momento, non saltatemi addosso che ce n’è per tutti, prima questa signora che deve aver lasciato l’arrosto sul fuoco. Sessantacinque pesos, signora, e da que­ sta sera potrà andare a letto con suo marito e fare tutto quello che vuole senza che gli insetti vengano a romperle l’anima, tanto più che in certi casi... Ma ci sono bambini, meglio se cambiamo argomento. Una confezione a questo signore, e alla signorina con quella camicetta che le sta co­ sì bene tutta attillata sulle... Ma guarda come mi diventa rossa la ragazza, e sì che non lo avrei detto. Oh, sembrano proprio decisi a esaurirmi le scorte. Su, tutti in fila per uno come a scuola, che ne abbiamo a sufficienza». Gli acquirenti si disperdono in varie direzioni, e José ri­ mane un momento in attesa. Poi solleva il barattolo e lo scuote. «In piedi, Toto», dice José, «non vedi che se ne sono an­ dati tutti? Tirati su con calma, ripiega quelle zampine che x47

sembri una vacca stecchita, datti una sistemata, fratello, che adesso si ricomincia. Così mi piace. Fatti una bella volatina fino al tappo, un paio di giri in tondo come una co­ lombella, e adesso dacci dentro che vedo già due vecchie che arrivano sparate. Bravissimo, Toto», approva José, po­ sando il barattolo. «Se continui a comportarti così, stasera ti lascio un paio di minuti sul culo della mia signora. Roba speciale, te lo giuro, Toto. Poi mi dirai, ragazzo. Non per niente siamo soci, non credi?»

Da gallina una scritto

Succede quello che ci entusiasmante è. Presto del padrone mondo saremo urrà. Era un inoffensivo in apparenza razzo lanciato da Canaveral dagli americani Cape. Motivi sua è per ignoti dalla uscito orbita, e probabil­ mente di qualcosa sfiorato invisibile dopo aver sulla terra ricaduto è. Cre­ sta cascato ci è sulla paf, e mutanti di siamo diventate colpo. Tabelline stia­ mo rapidamente imparando le, dota­ te molto la letteratura per siamo della storia, chimica per la meno un po’, disastro un finora sport gli, importa non ma: delle il sarà galline cosmo, cazzo che.

Sulla soluzione di controversie Nel paese il cui governo dichiarasse inintelligibile un am­ miraglio succederebbero strane cose, perché mai si è senti­ 148

to che a un ammiraglio faccia piacere essere dichiarato inintelligibile e ancor meno che un governo civile abbia di­ chiarato inintelligibile un ammiraglio. Se malgrado ciò il governo lo dichiara tale, l’ammiraglio così dichiarato telefonerà ad altri suoi parigrado e da qual­ che parte sulla nave ammiraglia si terrà una riunione segre­ ta dove numerose decorazioni e spalline uguali si agiteran­ no convulse, tentando di chiarire cose quali il significato di inintelligibilità, il motivo per cui si dichiara inintelligibile un ammiraglio e, qualora la dichiarazione abbia qualche fondamento, come possibile che l’ammiraglio così dichia­ rato abbia potuto procedere inintelligibilmente fino al punto che lo dichiarassero tale, e via dicendo. La cosa più probabile è che gli ammiragli intelligibili solidarizzino con quello dichiarato inintelligibile, nella misura in cui la suddetta dichiarazione lede il buon nome e il prestigio di un collega che nel corso della sua onorevo­ le carriera non ha mai dato il minimo appiglio a una simi­ le dichiarazione. Se si accettasse la dichiarazione del Go­ verno si navigherebbe a tutto vapore verso l’anarchia e il ri­ poso forzato, sicché di fronte alla gravità dei fatti è possibi­ le soltanto una risposta solidale: concentrare la divisione nella rada e bombardare il palazzo del governo, che un ar­ chitetto insensato ha costruito praticamente sul bordo dell’acqua con i conseguenti vantaggi balistici. Tuttavia, non si può scartare la possibilità che gli ammi­ ragli, consapevoli del fatto che il Governo opporrà a un at­ teggiamento tanto legittimo quel basso espediente che con­ siste nel mobilitare l’esercito e l’aviazione con il pretesto che nel bombardamento sono perite diverse migliaia di civili, al­ la fine decidano di convìncere l’ammiraglio dichiarato inin­ telligibile a dimostrare pubblicamente la completa infonda­ tezza della dichiarazione. A questo scopo, dopo ponderate 149

deliberazioni, convinceranno l’ammiraglio a sputare senza ulteriore indugio la gomma con cui si ostina a ruminare e a fare palloncini fin dall’ultimo Natale e se l’ammiraglio obiet­ tasse che la gomma gli piace troppo per sputarla, lo costrin­ geranno in un angolo della cabina e gli tapperanno il naso finché aprirà la bocca, dando modo al dentista di bordo di estrargli la gomma con la pinza che i dentisti sulle navi han­ no sempre a portata di mano per simili evenienze. Conclusa questa tappa tanto amara quanto necessaria, gli ammiragli comunicheranno telefonicamente e senza mezzi termini al Governo che non solo l’ammiraglio di­ chiarato inintelligibile non è mai stato tale, ma che la sua intelligibilità è l’orgoglio e l’allegria dell’ammiragliato, ra­ gione per cui la dichiarazione dovrà essere revocata entro le ventiquattro ore, pena gravi rappresaglie. Il Governo si proclamerà sorpreso per una decisione tanto rigorosa ed esigerà le prove del caso, circostanza nella quale l’ammira­ glio dichiarato inintelligibile si farà sentire di persona per telefono e il Governo avrà ogni opportunità di rendersi conto che il medesimo è un ammiraglio perfettamente in­ telligibile e che la dichiarazione è priva di qualsiasi fonda­ mento, mettendo fine all’episodio con uno scambio di fra­ si festose e reciproche promesse di lealtà e patriottismo. A titolo di prova complementare e decorativa, verrà in­ viata al Governo una scatoletta di plexiglas contenente la gomma, avendo cura di mantenere intatto l’ultimo pallonci­ no prodotto dall’ammiraglio visto che le dà un aspetto simi­ le a quello di una perla ed è risaputo che gli ammiragli e le loro consorti nutrono il più grande rispetto per queste escre­ scenze che simbolizzano il mare, senza contare che quando sono vere costano uno sproposito.

i5°

Interno delproiettile.

Jules Verne, Dalla terra alla luna

L’uomo si è stancato di cambiare la terra

Adesso, sappiamo ormai che l’unica certezza si genera in quello che ci sopravanza. José Lezama Lima, «A partire dalla poesia»

Vivere adesso nelle righe della poesia? Chi ha conosciuto la mano, si accontenterà della parola mano? Della parola mare, della parola sempre? Roberto Fernàndez Retamar, «Storia antica»

Questa notte mi basta la tua silenziosa presenza. 152

Nella mia mente sconvolta la tua poesia illumina più di una lampada i miei cerchi di paura. Non mi distraggo. Tengo fissi gli occhi sulla nera finestra. Passano autocarri pieni di soldati, gente dalle linee del fuoco. Nella mia casa risuonano parole d’ordine violente. Heberto Padilla, «Il giusto tempo umano»

Mostriamo la maggior quantità di luce che, oggi come oggi, possa mostrare un popolo della terra. José Lezama Lima, «A partire dalla poesia»

...E cosa faccio in mezzo a tutto questo dopo tutto questo se la luce che mi ha portato qui mi ferisce e non posso vivere di spalle alla parete né di spalle alla mano che mi cerca né al viso che ha guardato il nostro viso... Rolando Escardó, «Arrivo»

È tempo che la terra cambi l’uomo

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La casa che la luce violenta abbatte mi lascia un sapore di polvere in gola, mi stordisce come un dolore la sua lenta decisione di morire, la sua faticosa decisione di morire, la sua immensa pena. Rovinata per sempre, quanta fatica le costa staccarsi da sé stessa, perché non sa e si inganna sui suoi guasti e spera ma di colpo torna a conoscere questo selvaggio strazio finale e si decide con apparente calma, silenziosa e magnifica nella sua dignità, fatta di polvere. Eliseo Diego, «La rovina»

Quella terra ormai si solleva, ormai ha un nome

L’ignoto è quasi la nostra unica tradizione. José Lezama Lima, «A partire dalla poesia»

Tutto questo e molto di più può accadere e non c’è dubbio [che accadrebbe se solo dedicassi qualche minuto a sentire quello che [ti circonda, se permettessi al mondo di partecipare pienamente [al tuo mondo, se conoscessi il meraviglioso potere di scrivere una poesia. FayadJamis,«Può succedere»

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A volte i poeti partono per un viaggio, e allora indossano berretti scuri, sandali o sciarpe. Salutano ansiosi e fornicano con le donne più belle e fantasticate poi passeggiano per il Boul’Mich e scrivono lunghissimi servizi che le riviste importanti non pubblicano mai. Ma altre volte soffrono, vengono rinchiusi in prigione, con un compagno mangiano salsicce, cipolle, pane e patate fritte. I poeti, decisamente, conoscono molte cose nei loro viaggi: qualcuno mi avvertì abbandonando una nave a Copenhagen. César Lopez, «Appunti per un breve viaggio»

Perché fino a quando la paura sarà sguinzagliata per le città e i monti della terra gli uomini non andranno ogni giorno al mercato né a passeggio la domenica come veri conquistatori. Pablo Armando Femàndez, «Libro degli eroi»

Con gli amici cambieremo l’orologeria del cielo

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Eppure sono qui, la porta aperta. Poi uscirò, usciremo, a costruire la città. Chi è disponibile all’ora futura sa che la vita merita d’essere vissuta. Antón Arrufat, «Scritto sulle porte»

Madre Rivoluzione che sei nel seme sia divoratrice la tua fiamma nel mezzogiorno dell’abitato, sia compreso il tuo segnale dagli umili che ancora ignorano l’alfabeto e fedeli attendono la resurrezione della carne. Insegnaci a coltivarti nella nostra stessa forza, a portarti avanti, nonostante i vecchi scoraggiamenti, ricredendoci e rinnegando più di tre volte, se fosse necessario, i nostri paurosi atavismi. Luis Suardiaz (trovato fra le carte dell’anno 1959)

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Il monumento crollò come un castello di carte.

Jules Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni

What Happens, Minerva?

Some ofus were alreadyfeeling thè necessity to explore thè art that lay between thè arts.

Dick Higgins, prefazione a Four Suits

Non sembra necessario aver assistito a molti happening per sapere di cosa si tratta, in parte perché gli scritti sull’ar­ gomento sono numerosi, e poi perché a volte i veri happe­ ning avvengono senza che uno ne sia consapevole, e sono quasi sempre i migliori. Benjamin Patterson, musicista americano, ideò un’opera dal titolo LawfulDance che con­ siste nel fermarsi a un incrocio finché il semaforo diventa verde, momento in cui si raggiunge il marciapiede opposto e si aspetta che il semaforo ridiventi verde per attraversare di nuovo la strada, operazione da ripetersi finché se ne avrà voglia. Higgins, cui sono debitore di questa notizia, affer­ ma che l’happening in questione gli fruttò la compagnia di tre squinzie che, superata la prima sorpresa di vedere un ti­ zio passare infinite volte da un marciapiede all’altro in per­ fetta sincronia con i semafori, trovarono il ballo diverten­ tissimo e da lì ebbero origine grandi intimità e ogni gene­ re di nuovi happening. Quest’opera di Patterson può esse­ 158

re praticata da chiunque, ma è anche potenzialmente col­ lettiva, perché, come si è visto, non tardano ad arrivare ra­ gazze che si uniscono alla danza. Se voi siete migliori come attori che come ballerini, ho letto da qualche parte che il tedesco Paik (ammesso che sia tedesco) ha lasciato istruzioni dettagliate perché chiunque possa fare teatro non appena sia dell’umore adatto. Partendo dal principio che la distanza che separa il palcoscenico dalla platea ri­ sponde a quel comodo escapismo borghese che garantisce una coscienza tranquilla senz’altro fastidio tranne quello di comprare un biglietto e accomodarsi ad assistere alla reci­ ta, Paik reputa che l’opposizione più radicale a questa marcia istituzione consista nell’abolire la differenza fra at­ tori e pubblico (un ideale mai raggiunto del tutto dai co­ muni happening), fino ad arrivare a un teatro anonimo che eserciterà o meno un’azione sui presenti, ma che si compi­ rà comunque e troverà la propria giustificazione nel sem­ plice fatto di venire rappresentato. Così, per offrire l’em­ brione di un esempio, voi potrete inscenare un’opera teaIn Jeffersoris Birthday, Something Else Press, New York 1964. Si con­ siglia la lettura della maggior parte delle pubblicazioni di questo editore se si vogliono capire certe aree antropologiche contemporanee. In ogni caso, andrebbero consultate da quei latinoamericani ancora convinti che John Coltrane, lonesco-Beckett, Jim Dine o Karlheinz Stockhausen siano Favanguardia di qualcosa, mentre i poveretti non fanno altro che scuotersi le tarme dal gilè. tvot to perforano w/say/act/etc., anything in front of an audience in that nicely handsome middle distanze that was and is usuai in thèfield of thè art (not so wide thatpeople would have to think, and not so narrow that people vjould be attacked: would have to or could react and in this way would get something), which is thè reasonfor thèfact that art never is more than a pleasant alibi for thè people (and alibi that expect to relievefrom really thinking at all about their own life/changing/vitalizing it). Thomas Schmidt, Sesatorium Maximinimum, in Four Suits, Something Else Press, New York 1965, p. 13 5.

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trale che consista nel prendere la metropolitana alla stazio­ ne di Vaugirard e scendere a quella di Chàtelet. Non si trat­ terà di un viaggio ordinario, ma di una prova d’attore che deve obbedire con esattezza alle istruzioni di Paik (che so­ no queste e basta). Anche leggendo Le Monde mentre pas­ seggiate sotto i portici di rue de Rivoli avrete fatto teatro anonimo, purché la vostra lettura e la vostra passeggiata siano conformi alle istruzioni di Paik. Da questi esempi è facile dedurre che la gamma di possibilità offerta da dram­ maturghi come Dick Higgins, Paik,Thomas Schmidt e al­ tri cronopios è quasi infinita. Come al solito, i benpensanti si trincereranno dietro la serie dei valori «permanenza-progresso-umanesimocultura-ecc. » per segnalare con giustizia - un altro valore ca­ pitalizzabile, quando conviene - che la caratteristica più evidente degli happening è la loro futilità. Sono troppo vec­ chio per vivere da vicino la musica di Philip Corner o le to­ pologie di Spoerri, ma in compenso ho cellule di Schultze in abbondanza per fiutare fino a che punto quelle attività così contrastate dalla polizia e dagli impresari stiano ren­ dendo il terreno scivoloso a tanti valori consacrati. Non si può ignorare un concetto come quello che Paik ha svilup­ pato nella sua Omnibus Music No. i, che attacca dall’interno la monotona divisione esecutori-ascoltatori (palcoscenicoplatea) mediante il sistema opposto, ovvero, i suoni si svi­ luppano in diversi punti di un edificio ed è il pubblico a do­ versi spostare da una parte all’altra per ascoltarli. C’è un concerto, credo di Philip Corner, che consiste semplicemente nel fare a pezzi un pianoforte a coda al centro del pal­ coscenico e finire di demolirne le parti fra il pubblico; a Pa­ rigi basta consultare gli enormi falli di ottone su cui sono af­ fissi i programmi dei concerti settimanali per cogliere tutte le aspettative di questa eliminazione di uno strumento che 160

può essere ascoltato solo in una prospettiva storica (a parti­ re da Schumann, da Bartok, ma non da voi stessi, fermi nel 1967 proprio nel punto in cui cadrà la Bomba).

nota iraconda: siccome queste righe non sono una hesposizione herudita sugli happening, mi li­ mito semplicemente a hindicare agli hepigoni di Herasmo, Halfonso Reyes e altri humanisti del­ lo stesso tipo che ogni genere di critica, burla, azione poliziesca, te­ si, lavoro forzato, taglio di capelli, arringa in atenei culturali o decre­ ti legislativi basati sugli epifeno­ meni comportamentali beatnikunderground-happeningy sono pu­ ra ipocrisia di leader culturali che si sentono tremare il parquet sotto gli stivaletti. Che happening, mo­ stre pop, sedute di distruzione di oggetti artistici, siano di per sé eventi discutibili, inutili, stupidi, pericolosi o solo divertenti, quello che conta è la loro motivazione conscia o inconscia, per questo le recensioni serie si prendono cura di farla sparire o di analizzarla li­ mitatamente alla prospettiva marxista o liberale o nazi o zen, e di ridurla quasi sempre a «prote­ sta» o «rivendicazione», il che è vero ma non ci porta troppo lon­ tano. Nella letteratura latinoame­ ricana succede la stessa cosa: la paura di fronte alla narrativa degli

ultimi anni si traduce in febbrili saggi interpretativi in cui si fa l’impossibile per imbrigliare i nar­ ratori-romanzieri di questo ne­ cessario terrore, sia grazie a un’a­ stuta assimilazione nel genere «prosegue e rinnova la linea di un Rómulo Gallegos» (infinite va­ rianti del falso elogio: «ritorno al­ le origini» / «cosmopolitismo uni­ versalista» / «discesa nell’incon­ scio»), sia stringendo le file delle società degli scrittori e dei tè delle signore, in un energico biasimo di quei cannibali delle lettere che non hanno più rispetto per niente. Com’è ovvio la critica di moda koncorda kategoricamente kol fatto ke stiamo vivendo un decen­ nio di ribellione individuale le cui forme più grottesche sono in ge­ nere gli happening di qualsiasi na­ tura, e quella stessa critica nonesita-a-riconoscere che gli artisti e gli scrittori hanno mille ragioni per ribellarsi contro l’hordine kostituito; ma una volta finito di dire e perfino di elogiare tutto questo, il critico continua a vivere come prima e a pensare come prima, nella vaga attesa di una «evoluzio­ ne» che illumini l’orizzonte, così

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come in campo sociale si continua ad attendere una «evoluzione» che migliori ogni cosa ma senza pri­ varci della domestica e della se­ conda casa. Neppure io che scrivo questo sono capace di cambiare la mia vita, anche io vado avanti quasi come prima; molti fra i più accaniti protagonisti degli happe­ ning sono soltanto attori e agita­ tori che poi tornano alle loro abi­ tudini e guardano perfino la tv. Perciò sia chiaro che non attribui­ sco a noi maggior diritto a pun­ tualizzare queste cose, a meno che, forse, puntualizzarle proprio sotto il naso di molti fra quelli che le stanno leggendo in questo mo­ mento possa aiutare altri a sentirsi meno soli, se hanno bisogno di so­

lidarietà e compagnia, o più soli che mai se preferiscono la solitu­ dine, ma consapevoli, come disse una volta René Daumal, che ci so­ no anche altre persone sole come loro e che la solitudine di tanti (questo sono io a dirlo) un giorno farà piazza pulita di un’ipocrita solidarietà sociale che produce soltanto masse elettorali, eserciti di robot, isterie collettive di bobbysoxers, demagogia di teenager ma­ novrati dietro le quinte dai gang­ ster della stampa e del diverti­ mento. Un happening, se non al­ tro, è un buco nel presente; baste­ rebbe guardare attraverso quei fo­ ri per intravedere qualcosa meno insopportabile di tutto quello che sopportiamo quotidianamente.

Per esorcizzare lo spirito della catastrofe, happening di JeanJacques Lebel e Tetsumi Kudo. Foto di Pablo Volta. 162

Louis, grandissimo cronopio

Concerto di Louis Armstrong Parigi, 9 novembre 1952

Fra questi due testi intercorrono quasi quindici anni, ma non cre­ do si noti troppo: quandoparlo dijazz, mi esce sempre la stessa vo­ ce. In ordine cronologico, ilprimo cronopio fu Louis; nel 1952 scrissi queste pagine chefurono pubblicate sulla rivista Buenos Aires literaria grazie all'amicizia di Daniel Devoto e di Alberto Salas. Alcuni anni dopo, i cronopiosfecero il loro ingresso in mas­ sa attraverso i libri e raggiunsero una certa notorietà nei caffè, nelle riunioni intemazionali dipoeti, nelle rivoluzioni socialiste e in altri luoghi diperdizione. Mi sembra giusto ripubblicare que­ sto testo che, a differenza degli altri, è storia, con cronopios verifi­ cabili, senza contare che mifa tanta tenerezza e che Narciso ecc.

Il riferimento all'uccellino dispotico della primafrase rimanda a un ciclo di cui alcune poesie inedite hanno lasciato una testi­ monianza piuttosto discreta. Se la cosa è di suo gradimento (oh sì, oh sì), gliene regalo due a pagina 250 e 251.

Sembra che un uccellino dispotico, meglio noto come Dio, abbia soffiato nel fianco del primo uomo per animarlo e in­ fondergli spirito. Se al posto dell’uccellino a soffiare ci fos­ se stato Louis, l’uomo sarebbe riuscito molto meglio. La cronologia, la storia e altre concatenazioni sono un’im­ mensa sciagura. Un mondo che avesse avuto inizio con Pi­ casso, invece di finire con lui, sarebbe un mondo fatto solo per i cronopios, a ogni angolo i cronopios ballerebbero tre­ gua e ballerebbero provala mentre Louis, salito su un lam­ pione, soffierebbe per ore facendo cadere dal cielo enormi pezzi di stelle di sciroppo e lampone, perché potessero mangiarseli i bambini e i cani. 163

Sono cose che si pensano quando ci si trova insaccati in una poltrona del teatro degli Champs Elysées in at­ tesa che Louis faccia la sua comparsa, perché stasera è sceso su Parigi come un an­ gelo, vale a dire è arrivato con un volo Air France, e immagino l’enorme tram­ busto nella cabina dell’aereo, con tutti i famas provvisti di borse piene di documenti e preventivi, e in mezzo a loro Louis morto dalle risate, con il dito puntato sui paesaggi che i famas preferiscono non guardare perché gli viene il vomito, poveretti. E Louis mentre mangia un hot dog che la ragazza dell’aereo gli ha portato per accontentarlo e perché se non glielo avesse portato lui l’avrebbe rincorsa per tutto l’aereo fino a convincerla a preparargli un hot dog. Nel frattempo arrivano a Parigi e ad attenderlo ci so­ no i giornalisti, ecco perché adesso ho la foto di France-Soir con Louis circondato da facce bianche e, lo dico senza pre­ giudizi, sono davvero convinto che in mezzo a tante facce di reporter la sua sia l’unica faccia umana. Adesso guardate un po’voi come vanno le cose in questo teatro. In questo teatro, dove un tempo il grandissimo cro­ nopio Nijinskij scoprì che nell’aria ci sono altalene segrete e scale che portano alla gioia, fra un minuto comparirà Louis e sarà la fine del mondo. Naturalmente Louis non ha la più 164

pallida idea che lì dove pianta le sue scarpone gialle un tem­ po si sono posate le scarpette di Nijinskij, ma per l’appunto il bello dei cronopios è che non si preoccupano mai di cosa sia accaduto un tempo o del fatto che quel signore lassù nel palco è il principe di Galles. Neppure a Nijinskij sarebbe importato sapere che Louis avrebbe suonato la tromba nel suo teatro. Queste sono cose per i famas e anche per le spe­ ranze, che badano a raccogliere le recensioni, stabilire le da­ te e rilegare il tutto in marocchino e con dorso di tela. Stase­ ra il teatro è invaso da cronopios che, non contenti di strari­ pare in sala e arrampicarsi fin sui lampadari, occupano il pal­ coscenico e si buttano per terra, si rannicchiano in ogni spa­ zio disponibile o non disponibile, con enorme indignazione delle maschere che non più tardi di ieri, al concerto per flau­ to e arpa, avevano a che fare con un pubblico così educato che era un piacere, senza contare che questi cronopios non sono molto generosi con le mance e quando possono si si­ stemano per conto loro e non badano alla maschera. Sicco­ me in genere le maschere sono speranze, si deprimono mol­ tissimo per questo comportamento dei cronopios e accen­ dono e spengono le loro torce con profondi sospiri, il che nelle speranze è indice di grande malinconia. Un’altra cosa che i cronopios fanno immediatamente è mettersi a lancia­ re urla e fischi a più non posso, reclamando Louis che, mor­ to dalle risate, li fa aspettare un po’ solo per divertirsi, e così la sala del teatro degli Champs Elysées oscilla come un fùn­ go mentre i cronopios entusiasti chiamano Louis e nugoli di aeroplanini di carta volano dappertutto andandosi a infilare negli occhi e nel collo di famas ed speranze che si contorco­ no indignati, e anche di cronopios che si alzano fùribondi, afferrano l’aeroplanino e lo rilanciano con una forza tre­ menda, motivo per cui nel teatro degli Champs Elysées le cose vanno di male in peggio. 165

Adesso arriva un signore che viene a dire qualche paro­ la al microfono, ma siccome il pubblico sta aspettando Louis e questo signore si mette in mezzo, i cronopios sono furentissimi e lo insultano con veemenza, coprendo del tutto il discorso del signore di cui si vede soltanto la bocca che si apre e si chiude, cosa che lo fa somigliare in modo straordinario a un pesce in una boccia. Dato che Louis è un grandissimo cronopio, si dispiace per il discorso andato a vuoto e all’improvviso compare da una porticina laterale, e la prima cosa che si vede di lui è il suo fazzolettone bianco, un fazzoletto che fluttua nell’aria e dietro c’è uno zampillo d’oro che fluttua anch’esso nell’a­ ria ed è la tromba di Louis, e dietro ancora, dall’oscurità della porta, si stacca l’altra oscurità piena di luce di Louis che avanza sul palcoscenico, è la fine del mondo e quello che segue è il crollo totale e definitivo degli scaffali con tut­ ta la cristalleria. Dietro Louis ci sono i ragazzi dell’orchestra: ecco Trummy Young che suona il trombone come se tenesse fra le braccia una donna nuda fatta di miele, e Arvel Shaw che suona il contrabbasso come se tenesse fra le braccia una donna nuda e fatta d’ombra, e Cozy Cole che si dimena sulla batteria come il marchese di Sade sui posteriori di ot­ to donne nude e fustigate, e poi altri due musicisti di cui non voglio ricordare i nomi e che credo siano lì per un er­ rore dell’impresario o perché Louis li ha trovati sotto il Pont Neuf e ha visto che avevano una faccia da affamati, per di più uno di loro si chiama Napoleone e questo è un argomento irresistibile per un grandissimo cronopio come Louis. E ormai si è scatenata l’apocalisse, perché Louis non fa che alzare la sua spada d’oro, e l’attacco di «When It’s Sleepy Time Down South» scende sul pubblico come la carezza di 166

un leopardo. Dalla tromba di Louis, la musica esce come i nastri di parole dalla bocca dei santi primitivi, nell’aria si di­ segna la.sua calda scrittura dorata, e dietro questo primo se­ gnale si scatena «Muskat Ramble» e noi nelle poltrone ci aggrappiamo a tutto quello che abbiamo di afferrabile, e an­ che a quello che hanno i vicini, per cui la sala sembra un va­ sta adunata di polpi impazziti e in mezzo ce Louis che mo­ stra il bianco degli occhi dietro la sua tromba, e il suo fazzo­ letto bianco ondeggia ininterrottamente per salutare qual­ cosa che non si sa cosa sia, come se Louis sentisse il bisogno di dare un continuo addio alla musica che crea e si dissolve all’istante, come se conoscesse il prezzo terribile di quella sua meravigliosa libertà. Naturalmente alla fine di ogni ri­ tornello, quando Louis supera sé stesso nella sua ultima fra­ se e il nastro d’oro è come tagliato da una forbice sfolgoran­ te, i cronopios sul palcoscenico fanno salti di diversi metri in ogni direzione, mentre quelli in sala si agitano entusiasti nelle loro poltrone, e i famas venuti al concerto per errore o perché bisognava venirci o perché costa caro si guardano fra loro con un’aria di gentilezza affettata, ma come ovvio non hanno capito nulla, hanno un atroce mal di testa, e in gene­ rale vorrebbero trovarsi a casa loro ad ascoltare buona musi­ ca consigliata e spiegata da bravi presentatori, o in un qual­ siasi posto a diversi chilometri di distanza dal teatro degli Champs Elysées. Un’altra cosa da considerare è che oltre all’enorme valan­ ga di applausi che lo sommerge non appena finisce il ritor­ nello, lo stesso Louis si affretta a mostrarsi visibilmente soddisfatto di sé, ride mostrando la sua enorme dentatura, agita il fazzoletto e va su e giù per il palco, scambiando fra­ si di giubilo con i suoi musicisti in un assoluto compiaci­ mento per come vanno le cose. Poi approfitta del fatto che Trummy Young ha brandito il suo trombone e sta produ­ 167

cendo una fenomenale scarica di suoni concentrata in mas­ se mitragliami e rotolanti per asciugarsi con cura la faccia con il fazzoletto, e dopo la faccia il collo e credo anche fin­ terno degli occhi, a giudicare da come se li strofina. A que­ sto punto abbiamo cominciato a scoprire gli aggeggi che Louis si porta sul palco per sentirsi come a casa e divertirsi a suo piacere. Intanto approfitta della piattaforma dalla quale un Cozy Cole simile a Giove lancia fulmini e saette in quantità soprannaturali, per custodirvi una pila formata da una dozzina di fazzoletti bianchi, che prende uno dopo l’al­ tro a mano a mano che quello precedente si inzuppa. Ma tanto sudore dovrà pure uscire da qualche parte e di lì a po­ co Louis sente che si sta disidratando, così approfitta di un terribile corpo a corpo amoroso di Arvel Shaw con la sua dama bruna per estrarre dalla piattaforma di Giove uno straordinario e misterioso bicchiere rosso, stretto e altissi­ mo, che somiglia a un bussolotto per dadi o al recipiente del Santo Graal, e per bere da questo un liquido che suscita i dubbi e le ipotesi più disparate da parte dei cronopios pre­ senti, visto che non manca chi sostiene che Louis beva lat­ te, mentre altri ruggiscono indignati davanti a questa teoria e dichiarano che un bicchiere come quello può contenere solo sangue di toro o vino di Creta, che è poi la stessa cosa con nomi diversi. Nel frattempo Louis ha nascosto il bic­ chiere, ha in mano un fazzoletto pulito e a quel punto gli viene voglia di cantare e canta, ma quando canta Louis l’or­ dine prestabilito delle cose si blocca, non per ragioni inspie­ gabili ma soltanto perché non può fare a meno di bloccarsi quando Louis canta, e da quella bocca che prima incideva le banderuole d’oro adesso esce un bramito di cervo innamo­ rato, un richiamo di antilope alle stelle, un ronzio di cala­ broni nella siesta dei campi. Smarrito nell’immensa volta del suo canto chiudo gli occhi, e insieme alla voce di questo

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Louis di oggi mi arrivano tutte le altre sue voci nel tempo, la sua voce proveniente da vecchi dischi perduti per sempre, la sua voce che canta «When Your Lover Has Gone», canta «Confessin», canta «Thankful», canta «Dusky Stevedore». E anche se sono soltanto un movimento confùso nel perfet­ tissimo pandemonio della sala appesa come una sfera di cri­ stallo alla voce di Louis, torno in me per un momento e ri­ penso al 193 o, l’anno in cui ascoltai per la prima volta un di­ sco di Louis, al 193 5, quello in cui comprai il mio primo di­ sco di Louis, «Mahogany Hall Stomp» della Polydor. Poi apro gli occhi e lui è lì, su un palcoscenico parigino, apro gli occhi e lui è lì, dopo ventidue anni di amore sudamericano è lì, dopo ventidue anni è lì che canta, e ride con tutta la sua faccia da bambino incorreggibile, cronopio d’un Louis, grandissimo cronopio d’un Louis, Louis gioia degli uomini che ti meritano. Adesso Louis ha appena scoperto che in platea c’è il suo amico Hugues Panassié e siccome questo naturalmente gli procura una immensa gioia, corre al microfono e gli dedi­ ca la sua musica, e fra lui e Trummy Young nasce un con­ trappunto di trombone e tromba da strapparsi la camicia a brandelli e lanciarli in aria a uno a uno o tutti insieme. Trummy Young carica come un bisonte, con certi rimbalzi e certe cadute che ti piegano le orecchie, ma adesso Louis si insinua nelle pause e cominci a sentire solo la sua trom­ ba, cominci a renderti conto ancora una volta che quando Louis soffia, ognuno al proprio posto e guai a chi si muove. Poi Trummy e Louis si riconciliano, crescono insieme co­ me due pioppi e lacerano l’aria dall’alto al basso con una coltellata finale che ci lascia tutti dolcemente inebetiti. Il concerto è finito, ormai Louis si starà cambiando la cami­ cia pensando all’hamburger che gli cucineranno in albergo e alla doccia che farà, ma la sala è ancora piena di cronopios 169

persi nel loro sogno, una massa di cronopios che si avviano lenti e svogliati all’uscita, ognuno con il suo sogno che con­ tinua, e in mezzo al sogno di ognuno ce un minuscolo Louis che suona e canta.

Un onda mostruosa li sommerse...

Jules Verne, Ifigli del capitano Grani

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Il giro del piano di Thelonious Monk

Concerto del quartetto di Thelonious Monk Ginevra, marzo 1966

A Ginevra, di giorno, ci sono gli uffici dell’oNU, ma la sera bisogna vivere ed ecco all’improvviso un cartellone che dappertutto annuncia Thelonious Monk e Charles Rouse, è facile immaginare la corsa al Victoria Hall per la quinta fila centrale, le bevute propiziatorie al bar dell’angolo, le formiche dell’allegria, le 21 che sono interminabilmente le 19.30, le 20, le 20.15, il terzo whisky, Claude Tarnaud che propone una fondue, sua moglie e la mia che si guardano costernate ma poi se la mangiano quasi tutta, specie il fon­ do che è sempre la parte migliore dellafondue, il vino bian­ co che agita le sue zampette nei bicchieri, il mondo alle spalle e Thelonious simile alla cometa che fra cinque minu­ ti esatti si porterà via un pezzo di terra come in Hector Servadac, o comunque un pezzo di Ginevra con la statua di Calvino e i cronometri Vacheron ScConstantin. Adesso le luci si spengono, ci guardiamo ancora una volta con quel leggero tremito di commiato che ci prende

sempre all’inizio di un concerto (attraverseremo un fiume, ci sarà un altro tempo, l’obolo è pronto) e già il bassista sol­ leva il suo strumento e lo prova, la spazzola percorre rapi­ da come un brivido la membrana del timpano, e dal fondo, facendo un giro del tutto superfluo, un orso con una berret­ ta a metà tra un fez e uno zucchetto si dirige verso il piano mettendo un piede davanti all’altro con un’attenzione che fa pensare a un campo minato o a quelle colture di fiori dei despoti sassanidi in cui ogni fiore calpestato significava la lenta morte di un giardiniere. Quando Thelonious si siede al piano, tutta la sala si siede insieme a lui ed emette un so­ spiro collettivo della misura esatta del sollievo, perché l’iti­ nerario tangenziale di Thelonious sul palcoscenico ha qualcosa di un pericoloso cabotaggio fenicio con probabi­ li incagli sulle sirti, e quando la nave di miele scuro con il suo barbuto capitano arriva in porto, la banchina massoni­ ca del Victoria Hall la accoglie con un sospiro come di ali acquietate, di tagliamare in riposo. Ed ecco «Pannonica», o «Blue Monk», tre ombre simili a spighe circondano l’orso analizzando l’alveare della tastiera, le goffe zampe gentili che vanno e vengono fra api sconcertate ed esagoni di suo­ ni, è passato soltanto un minuto e siamo già nella notte fuori dal tempo, la notte primitiva e raffinata di Thelonious Monk. Ma questo non lo si può spiegare: A rose is a rose is a rose. Viviamo in una tregua, qualcuno intercede per noi, forse in qualche sfera c’è chi ci redime. Poi, quando Charles Rouse fa un passo verso il microfono e il suo sax disegna imperio­ samente le ragioni per cui si trova lì,Thelonious lascia cade­ re le mani, rimane un momento in ascolto, deposita ancora un lieve accordo con la sinistra, e l’orso si alza dondolando­ si, sazio di miele o in cerca del muschio adatto a una dormi­ ta, liberandosi dallo sgabello si appoggia al bordo del piano

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segnando il tempo con una scarpa e con il berret­ to, le dita scivolano sul piano, prima proprio sul bordo della tastiera dove potrebbero esserci un po­ sacenere e una birra ma ci sono soltanto Steinway& Sons e poi, in modo im­ percettibile cominciano un safari sul bordo della cassa del piano, mentre l’orso oscilla a ritmo per­ ché Rouse, il bassista e il percussionista sono cat­ turati dal mistero stesso della loro trinità e Thelo­ nious compie un viaggio vertiginoso senza muo­ versi, spostandosi di cen­ timetro in centimetro verso la coda del piano che non raggiungerà, sap­ piamo bene che non la raggiungerà perché per farlo gli ci vorrebbe più tempo che a Phileas Fogg, più slit­ te a vela, rapide di miele d’abete, elefanti e treni irrigiditi dalla velocità per superare l’abisso di un ponte pericolante, quindi Thelonious viaggia a modo suo, si appoggia prima su un piede e poi sull’altro ma senza spostarsi di un millime­ tro, ciondolando sul ponte del suo Pequod arenato in un tea­ tro, e ogni tanto muove un dito per guadagnare un centime­ tro o mille miglia, per poi rimanere di nuovo immobile e, 173

come circospetto, rilevando l’altezza con un sestante di fu­ mo e rinunciando a proseguire e a raggiungere l’estremità della cassa del piano, finché la mano abbandona il bordo, l’orso si gira lentamente e tutto potrebbe accadere in quell’i­ stante in cui gli manca l’appoggio, in cui fluttua come un al­ cione sul ritmo cui Charles Rouse sta dando le ultime pen­ nellate di viola e di rosso, veementi, lunghe e ammirevoli, avvertiamo il vuoto intorno a Thelonious staccatosi dal bordo del piano, l’interminabile diastole di un unico, im­ menso cuore in cui fluisce il sangue di tutti noi, e proprio in quel momento l’altra mano si afferra al pianoforte, l’orso si dondola in modo delicato e di nuvola in nuvola ritorna alla tastiera, la guarda come se la vedesse per la prima volta, muove nell’aria le dita indecise, le lascia ricadere e siamo in salvo, è arrivato capitan Thelonious, per un po’ c’è una rotta da seguire, e il gesto di Rouse che retrocede mentre libera il sax dal supporto ha un che di consegna dei poteri, di dele­ gato che restituisce al doge le chiavi della Serenissima.

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Paesaggio sottomarino dell'isola Crespo.

Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari

Con legittimo orgoglio

In memoriam K,

Nessuno di noi ricorda il testo della legge che impone di raccogliere le foglie secche, ma siamo convinti che a nessu­ no verrebbe mai in mente che si possa smettere di racco­ glierle; è una di quelle cose che risalgono a tempi molto lontani, ai primi insegnamenti dell’infanzia, e ormai non c’è più troppa differenza fra i gesti elementari di allacciarsi le scarpe o aprire l’ombrello e quelli che facciamo racco­ gliendo le foglie secche a partire dal 2 novembre alle nove del mattino. Né a qualcuno verrebbe in mente di discutere l’oppor­ tunità di quella data, è qualcosa che fa parte delle usanze nazionali e ha la sua ragione di essere. La vigilia è dedicata a visitare i cimiteri, non facciamo altro che accudire le tom­ be dei nostri familiari, spazzare le foglie secche che le na­ scondono e le confondono, anche se quel giorno le foglie secche non hanno un’importanza ufficiale, per così dire, al massimo sono una spiacevole seccatura di cui bisogna libe-

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tarsi per poi cambiare l’acqua ai fiori e togliere le tracce delle lumache dalle lapidi. A volte si è arrivati a suggerire che la campagna contro le foglie secche avrebbe potuto es­ sere anticipata di due o tre giorni, in modo che il primo di novembre il cimitero fosse già ripulito e le famiglie potes­ sero raccogliersi davanti alle tombe senza quella fastidiosa necessità di spazzarle che di solito provoca scene penose e ci distrae dai nostri doveri in quella giornata commemora­ tiva. Ma noi non abbiamo mai accettato questi suggeri­ menti, così come non abbiamo mai creduto che si potesse­ ro impedire le spedizioni nelle foreste del nord, per quan­ to ci costino. Sono usanze tradizionali che hanno la loro ragione di essere, e abbiamo più volte sentito i nostri non­ ni replicare con severità a quelle voci anarchiche, facendo notare che l’accumulo di foglie secche sulle tombe serve proprio a dimostrare alla collettività il fastidio che queste rappresentano in autunno inoltrato, e incitarla così a par­ tecipare con maggior entusiasmo al lavoro che deve aver inizio il giorno dopo. Tutta la popolazione è chiamata a svolgere un compito nella campagna. Alla vigilia, al nostro ritorno dal cimitero, il comune ha già fatto installare il suo chiosco dipinto di bianco nel centro della piazza, e via via che arriviamo ci mettiamo in fila ad aspettare il nostro turno. Siccome la fi­ la è interminabile, la maggior parte di noi rincasa tardissi­ mo, ma abbiamo la soddisfazione di aver ricevuto la nostra tessera dalle mani di un dipendente comunale. Così, a par­ tire dal mattino successivo, la nostra partecipazione verrà registrata un giorno dopo l’altro nelle caselle della tessera, che un’apposita apparecchiatura perfora a mano a mano che consegniamo i sacchi di foglie secche o le gabbie con le manguste, a seconda del compito assegnatoci. I bambini sono quelli che si divertono di più, perché ricevono una 177

tessera grandissima che mostrano tutti contenti alle loro madri, e vengono destinati a vari compiti leggeri ma so­ prattutto a sorvegliare il comportamento delle manguste. A noi adulti tocca il lavoro più pesante, dato che oltre a di­ rigere le manguste, dobbiamo riempire i sacchi di tela con le foglie secche raccolte dalle manguste, e portarli in spalla fino ai camion del comune. Ai vecchi vengono affidate le pistole ad aria compressa con cui si nebulizza l’essenza di serpente sulle foglie secche. Ma è il lavoro degli adulti a comportare le maggiori responsabilità, perché capita spes­ so che le manguste si distraggano e non rendano quanto ci si aspetta da loro; in questo caso, dopo qualche giorno le nostre schede riveleranno l’insufficienza del lavoro porta­ to a termine e aumenteranno le probabilità di essere man­ dati nelle foreste del nord. Com’è facile immaginare, noi facciamo di tutto per evitarlo, anche se, quando è il caso, ri­ conosciamo che si tratta di un’usanza naturale quanto la campagna stessa, e non ci verrebbe neppure in mente di protestare; ma è umano far lavorare il più possibile le man­ guste per ottenere il massimo del punteggio sulle nostre schede, ed è per questo che siamo severi con manguste, vecchi e bambini, elementi imprescindibili per il successo della campagna. A volte ci siamo domandati come sia potuta nascere l’i­ dea di nebulizzare le foglie secche con essenza di serpente, ma dopo qualche congettura svogliata abbiamo finito per convenire che l’origine delle usanze, soprattutto quando sono utili e indovinate, si perde nella notte dei tempi. Un bel giorno il comune dovette rendersi conto che la popola­ zione non bastava a raccogliere le foghe che cadono in au­ tunno, e che solo l’utilizzo intelligente delle manguste, nu­ merose nel nostro paese, avrebbe potuto compensare il de­ ficit. Qualche funzionario proveniente dalle città ai confi­ 178

ni con la foresta osservò che le manguste, del tutto indiffe­ renti alle foglie secche, vi si accanivano contro se odorava­ no di serpente. Ci sarà voluto molto tempo per arrivare a queste scoperte, per studiare le loro reazioni davanti alle fo­ glie secche, per nebulizzare le foglie in modo che le man­ guste le raccogliessero in uno slancio vendicativo. Noi sia­ mo cresciuti in un’epoca in cui tutto era già stato stabilito e codificato, gli allevamenti di manguste disponevano del personale necessario per addestrarle e le spedizioni nelle foreste tornavano ogni estate con un’adeguata quantità di serpenti. Troviamo queste cose talmente naturali che solo pochissime volte e con grande sforzo ci rifacciamo le do­ mande alle quali i nostri genitori rispondevano con tanta severità quando eravamo bambini, insegnandoci così a da­ re una risposta a quelle che un giorno ci avrebbero fatto i

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nostri figli. È strano che questo desiderio di interrogarsi si manifesti soltanto, e comunque di rado, prima o dopo la campagna. Il 2 novembre, non appena abbiamo ricevuto le nostre tessere e ci dedichiamo ai compiti che ci sono stati assegnati, la giustificazione di ogni nostro atto ci sembra così evidente che solo un pazzo oserebbe mettere in dubbio l’utilità della campagna e il modo in cui viene portata a ter­ mine. Eppure le nostre autorità devono aver previsto que­ sta ipotesi, visto che nel testo della legge stampato sul retro delle tessere sono indicate le pene inflitte in quei casi; ma nessuno ricorda che sia mai stato necessario applicarle. Abbiamo sempre ammirato il modo in cui il comune ci distribuisce i compiti in maniera tale che la vita dello Sta­ to e del paese non subisca alterazioni per via della campa­ gna. Noi adulti dedichiamo cinque ore al giorno alla rac­ colta delle foglie secche, prima dell’inizio o alla fine del no­ stro orario di lavoro nell’amministrazione o nel commer­ cio. I bambini smettono di frequentare le lezioni di ginna­ stica e quelle di educazione civica e militare, e i vecchi ap­ profittano delle ore di sole per uscire dagli ospizi e occupa­ re i loro rispettivi posti. Nel giro di due o tre giorni la cam­ pagna ha già raggiunto il suo primo obiettivo, e nelle vie e nelle piazze del distretto centrale non ci sono più foglie secche. Allora noi responsabili delle manguste dobbiamo moltiplicare le precauzioni, perché a mano a mano che la campagna procede le manguste mostrano meno accani­ mento nel lavoro, e ci compete la gravosa responsabilità di segnalare il fatto all’ispettore comunale del nostro distret­ to perché ordini di intensificare le nebulizzazioni. Solo l’i­ spettore può dare quest’ordine, dopo essersi assicurato che abbiamo fatto tutto il possibile per indurre le manguste a proseguire la raccolta delle foglie, e se scoprisse che ci sia­ mo affrettati con leggerezza a chiedere di intensificare le 180

nebulizzazioni, correremmo il pericolo di venire subito mobilitati e spediti nelle foreste. Ma quando diciamo peri­ colo è evidente che esageriamo, perché le spedizioni nelle foreste fanno parte delle usanze del paese tanto quanto la campagna propriamente detta, e a nessuno verrebbe in mente di protestare per qualcosa che costituisce un dovere come un altro. A volte si è mormorato che è un errore affidare agli an­ ziani le pistole nebulizzatrici. Visto che è un’usanza anti­ ca non può essere un errore, ma ogni tanto capita che i vec­ chi si distraggano e consumino buona parte dell’essenza di serpente in un piccolo settore di una via o di una piazza, dimenticando che devono distribuirla sulla più ampia su­ perfìcie possibile. Accade così che le manguste si avventi­ no selvaggiamente su un mucchio di foglie secche, le rac­ colgano in pochi minuti e le portino dove le stiamo aspet­ tando con i sacchi pronti; ma poi, quando siamo fiduciosi che proseguiranno con lo stesso impegno, le vediamo ar­ restarsi, annusarsi fra loro come sconcertate, e rinunciare al loro compito mostrando evidenti segni di fatica e perfi­ no disgusto. In questi casi l’addestratore ricorre al suo fi­ schietto, e per un po’ ottiene che le manguste raccattino qualche foglia, ma non tardiamo ad accorgerci che le ne­ bulizzazioni non sono state uniformi e le manguste si ri­ bellano con ragione a un compito che di colpo ha perso qualsiasi interesse per loro. Se disponessimo di una giusta quantità di essenza di serpente, non si verificherebbero mai queste situazioni di tensione in cui i vecchi, noi e l’i­ spettore comunale rischiamo di essere richiamati alle no­ stre rispettive responsabilità e soffriamo moltissimo; ma da tempo immemorabile è noto che le scorte di essenza bastano appena a coprire le necessità della campagna, e che in qualche caso le spedizioni nelle foreste non hanno 181

raggiunto i loro obiettivi, costringendo il comune a ricor­ rere alle sue esigue riserve per far fronte a una nuova cam­ pagna. Questa situazione accentua i timori che la succes­ siva mobilitazione includa un maggior numero di reclute, anche se parlando di timori è evidente che esageriamo, perché l’aumento del numero di reclute fa parte delle usanze del paese tanto quanto la campagna propriamente detta, e a nessuno verrebbe in mente di protestare per qualcosa che costituisce un dovere come un altro. Fra noi si parla poco delle spedizioni nelle foreste, e quelli che tor­ nano sono obbligati al silenzio da un giuramento di cui abbiamo solo vaghe notizie. Siamo convinti che le nostre autorità cerchino di risparmiarci qualsiasi preoccupazione riguardo alle spedizioni nelle foreste del nord, ma pur­ troppo nessuno può chiudere gli occhi davanti alle perdi­ te. Senza la minima intenzione di trarre conclusioni, la morte di tanti familiari o conoscenti nel corso di ogni spe­ dizione ci costringe a supporre che la ricerca dei serpenti nelle foreste si scontri ogni anno con la spietata resistenza degli abitanti del paese confinante, e che i nostri concitta­ dini abbiano dovuto affrontare, a volte con gravi decima­ zioni, la loro crudeltà e la loro astuzia leggendarie. Anche se non lo diciamo apertamente, siamo tutti indignati per il fatto che una nazione che non raccoglie le foglie secche si rifiuti di lasciarci cacciare i serpenti nelle sue foreste. Non abbiamo mai dubitato che le nostre autorità siano dispo­ ste a garantire che l’ingresso delle spedizioni in quel terri­ torio non risponde ad altra logica, e che la resistenza in­ contrata sia dovuta soltanto a uno stupido orgoglio stra­ niero privo di qualsiasi giustificazione. La benevolenza delle nostre autorità non ha limiti, nep­ pure per tutte quelle cose che potrebbero turbare la quiete pubblica. Ecco perché non sapremo mai - né, è bene sotto182

linearlo, vogliamo saperlo - che cosa ne sia dei nostri glo­ riosi feriti. Come per risparmiarci inutili angosce, viene re­ so noto soltanto l’elenco dei cacciatori illesi e di quelli mor­ ti, i cui feretri arrivano con la stessa tradotta che riporta cacciatori e serpenti. Due giorni dopo, le autorità e la po­ polazione affluiscono al cimitero per assistere alla sepoltu­ ra dei caduti. Rifiutando il volgare espediente della fossa comune, le nostre autorità hanno voluto che ogni cacciato­ re avesse la sua tomba, facilmente riconoscibile dalla lapide e dalle iscrizioni che la famiglia può far incidere senza im­ pedimenti di sorta; ma siccome negli ultimi anni il nume­ ro dei decessi è aumen­ tato sempre più, il co­ mune ha espropriato i terreni adiacenti al ci­ mitero per ampliarlo. Si può dunque immagina­ re in quanti arriviamo al cimitero fin dalla matti­ na del primo di novem­ bre per onorare le tombe dei nostri morti. Pur­ troppo siamo già in au­ tunno inoltrato, e le fo­ glie secche ricoprono le strade e le tombe in mo­ do tale che è diffìcile orientarsi; spesso ci con­ fondiamo del tutto e passiamo ore a girare e a chiedere informazioni prima di trovare la tom­ ba che cercavamo. Qua-

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si tutti abbiamo la nostra scopa, e spesso ci capita di spaz­ zare le foglie secche da una tomba credendo che sia quella del nostro morto, per poi scoprire che ci eravamo sbagliati. Ma a poco a poco ritroviamo le tombe, e verso la metà del pomeriggio possiamo riposare e raccoglierci. In un certo senso siamo contenti di esserci scontrati con tante difficol­ tà per individuarle perché questo conferma futilità della campagna che inizierà il mattino dopo, e ci sembra quasi che i nostri morti ci esortino a raccogliere le foglie secche, anche se non possiamo contare sull’aiuto delle manguste che interverranno solo l’indomani, quando le autorità avranno distribuito la nuova razione di essenza di serpente portata dai cacciatori insieme ai feretri dei morti, e che i vecchi nebulizzeranno sulle foglie secche perché le man­ guste le raccolgano.

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Per arrivare a Lezama Lima

Dopo che sulle sabbie, setosepause intermedie, fra l'irreale sommerso e il denso, irrefutabile apparso, sifece l'acquario metrico, e l'ombelico terreno superò il vizioso orizzonte che confondeva l'uomo con la riproduzione degli alberi. José Lezama Lima, «Per arrivare a Montego Bay»

«Ma il signore è diventato matto?», mi chiese infine. Feci un cenno affermativo. «E la porta con sé?» Nuovo cenno affermativo. «Dove?» Indicai con il dito il centro della terra.

Jules Verne, Viaggio al centro della terra

Queste pagine su Paradiso, il romanzo di José Lezama Li­ ma (Ediciones Union, L’Avana, 1966),23 non sono un sag­ gio sull’opera di Lezama romanziere, che richiederebbe un’analisi rigorosa di tutta la sua produzione di poeta e sag­ gista alla luce dei più fecondi sviluppi in campo antropolo­ gico (Bachelard, Eliade, Gilbert Durand...),ma l’approccio per via simpatica che ogni cronopio sceglie quando deve entrare in comunicazione con un altro. Perché Lezama Li­ ma? Perché lui stesso, nel ritrarre un suo personaggio, dice: «Mi piace in lui», gli rispose Cernì, «quel modo di porsi al centro ombelicale delle questioni. Mi suscita l’impressio­ ne che in ognuno dei momenti della sua integrazione lo abbia visitato la grazia. Ha quello che i cinesi chiamano li, cioè condotta d’orientamento cosmico, la configurazione, 23.I riferimenti qui citati sono tratti dall’edizione di Paradiso pubblicata da SUR, Roma 2016, a cura di Glauco Felici.

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la forma perfetta che si adotta di fronte a un fatto, forse, quello che nella nostra tradizione classica si può chiama­ re bellezza all’interno di uno stile. E come uno stratega che sempre offre all’offensiva un fianco molto coperto. Non può essere preso di sorpresa. Mentre avanza sembra che stia passando in rivista le sentinelle della retroguar­ dia. Sa che cosa gli manca e lo ricerca con affanno. Ha una maturità che non si asservisce alla crescita e una saggezza che non prescinde dal successo immediato, ma neppure gli rende un’adulazione beata. La sua saggezza ha un’ec­ cellente fortuna. E uno studente che sa sempre quale nu­ mero uscirà; ma certo, il caso agisce su un continuo, in cui la risposta sprizza come una scintilla. Comincia con lo studiarsi le cento interrogazioni, cosicché non può perde­ re, ma la domanda che porta nel becco l’uccello del caso, è proprio la frutta che gli piace, che è il meglio e che più va­ le la pena di lustrare e far splendere». (Paradiso, p. 45 5)

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Insomma, siamo pazzi tutti e due? Da dove posso emergere con la testa per tirare il fiato, frenetico per la sensazione di affogare dopo aver nuotato nelle profondità di queste ottocento pagine di Paradiso? E perché, all’im­ provviso, Jules Verne in un libro dove niente sembra evo­ carlo? Ma sì, certo che lo evoca: intanto, non è forse lo stesso Lezama a parlare di obliquità in certe esperienze vissute, non ha detto da qualche parte che è «come se un uomo, naturalmente senza saperlo, nel premere un inter­ ruttore della sua stanza inaugurasse una cascata nell’Ontario», mai metafora più verniana? Non ci inizia a questa causalità tangenziale quando ricorda che nel momento in cui San Giorgio conficca la lancia nel drago, il primo a ca­ dere morto è il suo cavallo, così come a volte il fulmine scende lungo il tronco di una quercia e insegue inoffensi­ vo tredici seminaristi dediti al gniviera e all’elogio del tri­ foglio prima di carbonizzare un canarino che trillava in una gabbia a cinquanta metri di distanza? Ecco perché Ju­ les Verne, ed ecco perché per arrivare a Montego Bay di sicuro bisogna passare dal centro della terra. Non solo è vero, ma è anche letterale, e qui c’è la prova: uno sceltissi­ mo Lettore di Paradiso (immagino, vanitoso, un club very exclusive, quello dei pochi che come lei hanno letto L’uo­ mo senza qualità, La morte di Virgilio e Paradiso’, solo in questo - mi riferisco al club - sono simile a Phileas Fogg), si è accorto che a pagina 397 c’era un concreto riferimen­ to a Verne, cui offre un demoniaco spunto un episodio erotico di natura analoga a quella che alcuni ricercatori cominciano prudentemente a rivelare nel padre del Nautilusì II vogatore Leregas, dagli attributi priapei, sta per ricevere la visita di Baena Albornoz, atleta fino a quel mo­ mento insospettato, che discende nell’inferno di una pa­ lestra dell’Avana per ricevere, consenziente Adone, la 187

zanna del cinghiale che lo penetrerà fino a fargli mordere il bordo del letto in un’estasi di piacere. Leregas aspetta lumiliata visita dell’Èrcole che, dopo tante fatiche diurne, di notte fila alla rocca muliebre della sua vera condizione. E allora, nella tensione di quell’attesa, «il ricordo del cra­ tere di Yoculo passò allo scantinato, da lì arrivavano anche le ombre dello Scartaris. L’ombra anellata di Scartaris sul cratere di Sneffels...» Diabolicamente, il risuonare dell’in­ nocente orografia islandese si trasforma in una lasciva cir­ costanza erotica, e il messaggio di Arne Saknussemm, meraviglia della nostra infanzia («Descend dans le cratère du Yocul de Sneffels que l’ombre du Scartaris vieni caresser avant les calendes de Juillet, voyageur audacieux, et tu parviendra au centre de la Terre...»), propone per il suono e per le immagini una lubrica rivelazione. Yoculo, ombra anel­ lata («ilaperdu ses trente-deuxplis», dirà un personaggio di Jean Genet riferendosi a un altro Baena Albornoz), Snef­ fels, che fa pensare a to sniff, Scartaris, che in questo con­ testo evoca lo scroto, e le immagini della discesa nel crate­ re, delle carezze, di una regione oscura... Ah, Phileas Fogg, ah, professor Lidenbrock, in che cosa stiamo trasforman­ do vostro padre? Con buona pace del solitario di Nantes e dei suoi spe­ leologi, io da parte mia prendo un altro passo significativo come se lo avesse estrapolato lo stesso Lezama Lima e lo metto, perché ci serva da laser, in testa a tutto quello che segue: A un certo punto mio zio, afferratomi per il colletto, mi trascinò a quel modo, come un gatto, sino in cima. «Guar­ da, guarda bene! Bisogna pure che tu prenda qualche le­ zione di abisso». Jules Verne, Viaggio al centro della terra 188

In dieci giorni, inter­ rompendomi solo per re­ spirare e dare al mio gatto Teodoro W. Adorno il suo latte, ho letto Paradiso, con­ cludendo (concludendo?) l’itinerario iniziato molti anni fa con la lettura di al­ cuni suoi capitoli apparsi sulla rivista Origenes come altrettanti oggetti diTlòn o di Uqbar. Non sono un cri­ tico; un giorno, che sospet­ to lontano, questa summa prodigiosa troverà il suo Maurice Blanchot, visto che l’uomo che si addentre­ rà nel suo favoloso larvario dovrà appartenere a quella razza. Mi ripropongo soltanto di segnalare un’ignoranza vergognosa e di spezzare in anticipo una lancia contro i malintesi che la seguiranno quando l’A­ merica Latina sentirà finalmente la voce di Lezama Lima. Dell’ignoranza non mi stupisco: neppure io conoscevo Lezama Lima fino a dodici anni fa, e fù necessario che Ri­ cardo Vigón, a Parigi, mi parlasse di Oppiano Licario che Ortgenes aveva appena pubblicato e che adesso conclude Pa­ radiso, ammesso che qualcosa possa concluderlo. Dubito che in questi dodici anni l’opera di Lezama Lima abbia rag­ giunto la presenza attiva che nello stesso lasso di tempo rag­ giunse quella di un Jorge Luis Borges o di un Octavio Paz, di cui è senza dubbio all’altezza. Ragioni di difficoltà stru­ mentale ed essenziale sono una prima causa di tale ignoran­ za; leggere Lezama è una delle fatiche più ardue e spesso più 189

irritanti che possano esistere. La perseveranza richiesta da scrittori di frontiera come Raymond Roussel, Hermann Broch o il maestro cubano è inconsueta perfino tra «specia­ listi», ed ecco perché nel club ci sono poltrone in soprannu­ mero. Rispetto a Lezama Lima, Borges e Paz (li cito di nuo­ vo per appendere il bersaglio in cima all’albero delle nostre terre) hanno il vantaggio di essere scrittori solari, potremmo quasi dire apollinei dal punto di vista del perfetto dosaggio espressivo, del coerente sistema del loro spirito. Le loro dif­ ficoltà e perfino le loro oscurità (Apollo può anche avere un aspetto notturno, scendere nell’abisso per uccidere il serpen­ te Pitone) rispondono alla dialettica del Cimetière mariti:. ...Mais rendre la lumière suppose d’ombre une marne moitié.

Estremi punti di tensione di un arco di origini mediter­ ranee, danno il meglio della loro forza senza i tre previ enigmi che trasformeranno in un eterno Edipo il lettore di Lezama Lima. E se dico che questo costituisce per loro un vantaggio su quest’ultimo, mi riferisco quasi eticamente ai lettori che detestano i travagli di Edipo, che scelgono il rendimento massimo con il minimo rischio. In Argentina, comunque, si tende a rifuggire daH’ermetismo, e Lezama non solo è ermetico in senso letterale, in quanto il meglio della sua opera propone l’apprensione delle essenze trami­ te il mitico e l’esoterico in tutte le loro forme storiche, psi­ chiche e letterarie vertiginosamente combinate all’interno di un sistema poetico in cui spesso su una poltrona Luigi xv siede il dio Anubis, ma lo è anche in senso formale, sia per un’ingenuità che lo porta a immaginare che la più ete­ roclita delle sue serie metaforiche sarà perfettamente com­ presa dagli altri, sia perché la sua espressione è di un baroc-

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chismo originale (da origine, in antitesi a un barocchismo lucidamente mis enpage come quello di un Alejo Carpentier). Si capisce dunque quanto sia difficile entrare nel club, tenendo conto di tutte le difficoltà che si sommano per ostacolare il godimento della lettura, a meno che il godi­ mento non cominci proprio da queste, e in effetti iniziai a leggere Lezama come chi cerca la chiave di mmessunkaSenrA. icefdok.segnittamurtn, ecc., che alla fine si decifra co­ me: Descenddans le cratère du Yoculde Sneffels... ; si direbbe che la fretta e il senso di colpa suscitati dalla proliferazione bibliografica portino il lettore contemporaneo a scartare, spesso con ironia, qualsiasi trovar clus. A ciò si aggiungono i falsi ascetismi e i solenni paraocchi di una malintesa spe­ cializzazione contro cui, finalmente, insorge oggi un atteg­ giamento come quello strutturalista. Goethe riusciva an­ cora a fondere il filosofo e il poeta, in lite già nel suo seco­ lo, grazie a un’imperiosa intuizione unitaria; fino a Thomas Mann (passo ora ai romanzieri) questa coesistenza sembrò mantenersi viva nell’autore e nei suoi lettori, ma è un fatto che già l’opera di un Robert Musil, per rimanere in ambito germanico, si vide privata dell’eco universale che avrebbe dovuto suscitare. Il lettore stesso tende oggi a adottare un atteggiamento specialistico in rapporto a quello che sta leggendo, opponendo resistenza, a volte in modo incen­

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scio, a qualsiasi opera che gli proponga acque mescolate, romanzi che sconfinano nella poesia o metafisiche che na­ scono con il gomito appoggiato al bancone di un bar o sul cuscino di faccende amorose. Accetta con moderazione il carico extraletterario di un qualsiasi romanzo, ma a patto che il genere mantenga le sue prerogative basilari (nessu­ no, sia detto per inciso, sa bene in cosa consistano, ma que­ sta è un’altra faccenda). Paradiso, un romanzo che è anche un trattato ermetico, una poetica e la poesia che ne deriva, avrà difficoltà a trovare i suoi lettori: dove comincia il ro­ manzo, dove finisce la poesia, che cosa significa quell’an­ tropologia embricata a una mantica che è anche folklore tropicale che è anche cronaca familiare? Oggi si parla mol­ to di scienze trasversali, ma il lettore trasversale ci metterà un bel po’a fare la sua comparsa e Paradiso, fendente diago­ nale con essenze e presenze, conoscerà la resistenza che gli oppone il fascio delle idee ricevute. Ma ormai il taglio è stato inferto; come nella storia cinese del perfetto carnefi­ ce, il decapitato rimarrà in piedi senza sapere che la sua te­ sta rotolerà per terra al primo starnuto. Se la difficoltà strumentale è la prima ragione per cui Lezama è così ignorato, le nostre condizioni di sottosvilup­ po politico e storico costituiscono la seconda. A partire dal 1960 la paura, l’ipocrisia e la cattiva coscienza si sono allea­ te per dividere Cuba con i suoi intellettuali e i suoi artisti dal resto dell’America Latina. Quelli già noti, Guillén, Carpentier, Wifredo Lam,24 hanno superato e superano lo sbarramento grazie a un prestigio internazionale anteriore alla Rivoluzione cubana, che costringe a occuparsi di loro al 24. Nicolas Guillén (1902-1989), poeta cubano, fu autore di testi molto legati alla rivoluzione cubana. Wifredo Lam (1902-1982),pittore cubano, si dedicò anche alla scultura, alle incisioni e alla ceramica.

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momento dovuto. Lezama, già allora imperdonabilmente ai margini delle tabelle valutative dei maestri peruviani, messicani o argentini, è rimasto a tal punto dall’altra parte dello sbarramento che perfino chi ha sentito il suo nome e volesse leggere Tratados en La Habana, Analecta del reloj, La fijeza, La expresión americana e Paradiso non riesce né riu­ scirà a reperirne una copia. Tanto lui quanto diversi altri poeti e artisti cubani si vedono costretti a vivere e lavorare in un isolamento di cui il minimo che possa dirsi è che su­ scita disgusto e vergogna. L’importante, com’è ovvio, è sbar­ rare il passo al comuniSmo totalitario. Paradiso^ Niente che meriti questo nome può venire da un simile inferno. Si può dormire tranquilli, la oea25 veglia sui nostri sonni. Rimane, forse, una terza ragione, più occulta, per il cupo silenzio che avvolge l’opera di Lezama; ne parlerò senza al­ cun pudore proprio perché le poche critiche cubane di quest’opera a me note non hanno voluto menzionarla, men­ tre ne conosco tutta la forza negativa nelle mani di tanti fa­ risei delle nostre lettere. Mi riferisco alle inesattezze forma­ li così numerose nella sua prosa e che, in contrasto con la sottigliezza e la profondità del contenuto, suscitano nel let­ tore superficialmente raffinato un moto di indignazione e di impazienza difficile da superare. Se a questo si aggiunge che le edizioni dei libri di Lezama hanno in genere una ve­ ste tipografica ben poco curata, e che Paradiso non fa certo eccezione, non può meravigliare che alle perplessità di fon­ do si sommi l’irritazione provocata dalle stravaganze orto­ grafiche o grammaticali su cui inciampa l’occhio del precet25. La Organización de los Estados Americanos, la cui denominazione originale è Organization of American States (oas), è un’istituzione che si prefigge di favorire lo sviluppo e l’integrazione tra gli stati del continente americano, di affrontare il problema della povertà e di rendere più concre­ ta la cooperazione tecnica fra paesi.

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tore che quasi tutti ci portia­ mo dentro. Quando alcuni anni fa cominciai a mostrare o a leggere brani di Lezama a persone che non lo conosce­ vano, lo stupore suscitato dal­ la sua visione della realtà e dall’audacia delle immagini che la esprimevano era quasi sempre attenuato da una cor­ tese ironia, da un sorriso di stroncatura. Non tardai ad accorgermi che lì scattava un meccanismo di difesa, e che quei minacciati d’assoluto si affrettavano a ingigantire le pecche formali come pretesto forse inconscio per mantene­ re il distacco da Lezama, per non doverlo seguire nella sua implacabile immersione in acque profonde. Il fatto inne­ gabile che Lezama sembri deciso a non scrivere mai cor­ rettamente un nome proprio inglese, francese o russo, e che le sue citazioni in lingua stra­ niera siano costellate di biz­ zarrìe ortografiche, indurreb­ be il tipico intellettuale rioplatense a vedere in lui l’al­ trettanto tipico autodidatta da paese sottosviluppato, coi94

sa esattissima, e a trovare in questo una giustificazione per non penetrare nella sua vera dimensione, cosa estremamente deplorevole. Come ovvio, fra gli argentini idiosincratici la correttezza for­ male nello scrivere come nel vestire è sempre garanzia di serietà, e chiunque annunci che la terra è rotonda in uno «stile» accettabile meriterà più rispetto di un cronopio con una patata in bocca ma con molto da dire dietro la patata. Parlo dell’Argentina perché un po’ la conosco, ma anche a Cuba ho trovato gio­ vani intellettuali che sorride­ vano con ironia ricordando come Lezama pronunciasse malamente il nome di certi poeti stranieri; la differenza si manifestava nel momento in cui quei giovani, dovendo di­ re qualcosa sul poeta in que­ stione, rimanevano fermi alla corretta fonetica, mentre a Lezama bastava parlarne cin­ que minuti per lasciare tutti a bocca aperta. Uno degli indi­ ci del sottosviluppo è la nostra suscettibilità per quanto ri195

guarda la scorza culturale, le apparenze e le targhe sulla porta della cultura. Sappiamo che Dylan si pronuncia Dilan e non Dailan come abbiamo detto la prima volta (e tutti ci hanno guardato con ironia o ci hanno corretto o abbiamo avuto sentore che qualcosa non andava); sappiamo con esattezza come bisogna pro­ nunciare Caen e Laon, Sean O’Casey e Gloucester. E que­ sto va benissimo, come avere le unghie pulite e usare il deo­ dorante. Il resto viene dopo, o non viene affatto. Per molti di quelli che con un sorriso stroncano Lezama, non viene né prima né dopo, ma le un­ ghie, lo giuro, le hanno per­ fette. All’ironia difensiva basata su pecche superficiali, si ag­ giunge quella che l’insolita ingenuità che affiora in certi momenti della narrazione di Lezama deve provocare in molti. In fondo, è per amore di quell’ingenuità che sono qui a parlare di lui; al di là di qualsiasi canone pedantesco, conosco la sua penetrante ef196

Acacia; mentre gli altri cercano, Parsifal trova; mentre gli altri parlano, Myshkin sa. Il barocchismo dalle complesse radici che nella nostra America sta producendo risultati così diversi e al tempo stesso così simili come quelli espres­ si da Vallejo, Neruda, Asturias e Carpentier (non faccia­ mone una questione di generi, ma di essenza), nel partico­ larissimo caso di Lezama si tinge di un’aura per la quale trovo solo questo termine approssimativo: ingenuità. Un’ingenuità sudamericana, insulare in senso stretto e in senso lato, un’innocenza sudamericana. Un’ingenua inno­ cenza sudamericana che apre eleaticamente, orficamente gli occhi proprio all’inizio della creazione, Lezama, un Adamo prima della colpa, Lezama, un Noè identico a quello che nei quadri fiamminghi assiste diligente alla sfi­ lata degli animali: due farfalle, due cavalli, due leopardi, due formiche, due delfini... Un primitivo che sa tutto, un perfetto sorbonnard ma sudamericano nella misura in cui gli albatros imbalsamati del sapere àeWEcclesiaste non lo hanno trasformato in a wiser and a sadder man, anzi, la sua scienza è palingenetica, il suo sapere è originale, gioioso, nasce come l’acqua con Talete e il fùoco con Empedocle. Fra il sapere di Lezama e quello di un europeo (o dei suoi omologhi rioplatensi, molto meno americani nel senso che intendo qui) c’è la differenza che va dall’innocenza alla col­ pa. Ogni scrittore europeo è «schiavo del proprio battesi­ mo», se è concesso parafrasare Rimbaud; lo voglia o no, la sua decisione di scrivere comporta il fardello di un’immen­ sa e quasi spaventosa tradizione; sia che l’accetti sia che la combatta, quella tradizione lo abita, è il suo demone bene­ fico o il suo incubo. Perché scrivere, se in qualche modo tutto è già stato scrìtto? Gide, sarcastico, osservò che sicco­ me nessuno ascolta mai, bisogna sempre ripetere tutto, ma un sospetto di colpa e di superfluità spingono l’intellettua­ 197

le europeo all estrema vigilanza del proprio compito e dei propri mezzi, l’unico modo di non ripercorrere sentieri troppo battuti. Di qui l’entusiasmo suscitato dalle novità, l’assalto in massa alla nuova fetta di invisibile che qualcu­ no è riuscito a materializzare in un libro; basti pensare al simbolismo, al surrealismo, al Nouveau Roman: finalmen­ te qualcosa di veramente nuovo che né Ronsard, né Sten­ dhal, né Proust avevano immaginato. Per un po’ si può la­ sciar dormire il senso di colpa; perfino gli epigoni arrivano a credere di fare qualcosa di nuovo. Poi, pian piano, si ridi­ venta europei e ogni scrittore si risveglia con il suo albatro appeso al collo. Intanto Lezama, nella sua isola, si sveglia con un’alle­ gria da preadamita senza uccelli per cravatta, e non si sen­ te colpevole di alcuna tradizione diretta. Le accoglie tutte, dai fegati etruschi a Leopold Bloom che si soffia il naso con un fazzoletto sporco, ma senza vincoli storici, senza es­ sere uno scrittore francese o austriaco; lui è un cubano con appena una manciata di cultura propria alle spalle e il resto è conoscenza pura e libera, non un testimone da passare. Può scrivere quello che gli pare senza dirsi che già Rabelais o Marziale... Non è l’anello di una catena, non è costretto a fare qualcosa di più o di meno o di diverso, non ha bisogno di giustificarsi come scrittore. Tanto la sua incredibile so­ vrabbondanza quanto le sue carenze derivano da questa innocente libertà, da questa libera innocenza. In certi mo­ menti, leggendo Paradiso, si ha l’impressione di essere su un altro pianeta; come possibile ignorare o sfidare a tal punto i tabù del sapere, i non scriverai così dei nostri vergo­ gnosi comandamenti professionali? Quando affiora l’in­ nocente americano, il buon selvaggio che tesaurizza pac­ cottiglia senza sospettare che è priva di valore o che ormai non si usa più, nel caso di Lezama possono succedere due 198

cose. Una, quella che conta davvero: il genio irrompe sen­ za i complessi di inferiorità che tanto ci opprimono in America Latina, con la forza primordiale del ladro del fuo­ co. L’altra, che fa sorridere i complessati, quelli con una cultura impeccabile, è il lato Doganiere Rousseau, il lato della figuraccia genere Myshkin, l’uomo che in Paradiso, alla fine di un passo straordinario, va a capo e dice con la più assoluta tranquillità: «Che cosa faceva, mentre scorre­ va il racconto delle sue ancestralità familiari, il giovane Ri­ cardo Fronesis?» Scrivo queste pagine proprio perché so che paragrafi co­ me quello appena citato peseranno sul giudizio dei precet­ tori più della prodigiosa inventiva con cui Paradiso dà una nuova rappresentazione del mondo. E se cito la frase sul giovane Fronesis è anche perché questa e molte altre ana­ loghe pretenziosità mi infastidiscono, ma solo quanto può infastidirmi una mosca posata su un Picasso o un miagolio del mio gatto Teodoro mentre ascolto musica di Xenakis. L’impotenza di fronte alla complessità di un’opera ma­ schera la propria ritirata con i pretesti più superficiali - vi­ sto che oltre la superficie non si è spinta. A questo propo­ sito, ho conosciuto un signore che non ascoltava mai dischi di musica classica perché, a suo avviso, lo stridio della pun­ tina gli impediva di godersi l’opera nella sua assoluta per­ fezione; fissato quel criterio così esigente, passava le gior­ nate ad ascoltare un’incredibile sequela di tanghi e boleri. Ogni volta che cito un brano di Lezama e raccolgo un sor­ riso e un cambiamento di tema, penso a quel signore; chi è incapace di accedere a Paradiso si difenderà sempre così, e per lui tutto si ridurrà allo stridio di una puntina, a una mo­ sca e a un miagolio. In Rayuela ho definito e attaccato il let­ tore-femmina, quello incapace di una vera battaglia amo­ rosa con un’opera che sia per lui come l’angelo per Giacob­ 199

be. Se ci fossero dubbi sulla legittimità della mia offensiva, basti questo esempio: illustri critici di Buenos Aires co­ minciarono con il non capire la possibilità di un doppio si­ stema di lettura del romanzo, e di lì passarono pollice ver­ so dopo aver pateticamente assicurato di averlo letto «nei due modi indicati dall’autore», mentre il povero autore si limitava a proporre una scelta e non avrebbe mai avuto l’ar­ roganza di pretendere che al giorno d’oggi si legga due vol­ te lo stesso libro. Che cosa ci si può aspettare, dunque, dal lettore-femmina di fronte a Paradiso, che, come diceva quel personaggio di Lewis Carroll, riuscirebbe a mettere alla prova la pazienza di un’ostrica? Ma non c’è pazienza là dove non ci sono anzitutto umiltà e attesa, dove una cultu­ ra condizionata, prefabbricata, adulata dagli scrittori che bisognerebbe chiamare fùnzionali, con ribellioni ed etero­ dossie accuratamente delimitate dai marchesi di Queensberry della categoria, rifiuta qualsiasi opera davvero con­ trocorrente. Capace di affrontare qualunque difficoltà let­ teraria sul piano intellettuale o sentimentale purché con­ forme alle regole del gioco dell’Occidente, disposta a gio­ care sulle più ardue scacchiere proustiane o joyciane che comportino pezzi noti e strategie indovinabili, retrocede indignata e sardonica non appena la si invita a conoscere un territorio extragenere, a lottare con una lingua e un’a­ zione rispondenti a un sistema narrativo che non nasce dai libri, ma da lunghe lezioni di abisso-, così finalmente ho po­ tuto motivare la mia epigrafe, e adesso è tempo di passare ad altro. Un romanzo, Paradiso^ Sì, visto che ha un filo semicondut­ tore - la vita di José Cernì - a cui tornano o da cui si dira­ mano i molteplici episodi e i racconti collegati o meno a questo. Ma fin dall’inizio questo «soggetto» ha caratteristi­

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che bizzarre: non so se Lezama si sia accorto che lo svilup­ po iniziale del tema avrebbe fatto pensare con giubilo a Tristram Shandy, perché anche se José Cerni è già vivo all’i­ nizio della narrazione, e Tristram, che racconta la propria vita, non è invece ancora nato neppure a metà del libro, è evidente che il protagonista intorno al quale si organizza Paradiso rimane in penombra, mentre il libro procede pren­ dendosi tutto il tempo necessario per raccontare la vita dei nonni, dei genitori e degli zìi di José Cerni. Più importante è osservare che in Paradiso manca quello che chiamerei il rovescio continuo, l’ordito che «fa» un romanzo per quanto frammentari possano sembrare i suoi episodi. Non è una critica, visto che l’essenziale del libro non dipende affatto dal suo essere o meno un romanzo come quello che ci si po­ trebbe aspettare; la mia lettura di Paradiso, come di tutto ciò che conosco di Lezama, è partita dalla rinuncia ad aspettarmi qualcosa di preciso, a esigere un romanzo, ecco perché l’adesione al suo contenuto è avvenuta senza inutili tensioni, senza quella protesta petulante che nasce dal fat­ to di aprire un armadio per prendere la marmellata e di tro­ varci invece tre gilè fantasia. Bisogna leggere Lezama pre­ via resa alfatum, così come saliamo su un aereo senza infor­ marci sul colore degli occhi o sulle condizioni del fegato del pilota; quello che irrita l’intelligenza critica nella sua sala dei pesi e delle misure è connaturale a qualsiasi critica in­ telligente nella sua grotta di Ali Babà. Paradiso potrebbe non essere un romanzo, sia per l’as­ senza di una trama che dia coesione narrativa alla vertigi­ nosa molteplicità del suo contenuto, sia per altre ragioni. Verso la fine, per esempio, Lezama inserisce un lungo rac­ conto che occupa tutto il capitolo xn e non ha niente a che vedere con il corpo del romanzo, sebbene la sua atmosfera e le sue potenzialità siano le stesse. I due capitoli finali, in 201

cui domina la figura fino a quel momento appena intravi­ sta di Oppiano Licario, mentre quella di José Cerni sembra farsi sempre più fantasmatica dopo la scomparsa di Fronesis e di Foción, hanno perfino un che di appendice, di sur­ plus. Ma non sono soprattutto questi squilibri nel montag­ gio narrativo a togliere al libro il carattere di un romanzo; Paradiso si discosta dal concetto abituale di romanzo per­ ché il suo farsi non si colloca in un flusso spazio-tempora­ le e psicologico vitale; in un modo o nell’altro, ogni singo­ lo personaggio è visto molto più nella sua essenza che nel­ la sua presenza, è un archetipo piuttosto che un tipo. La prima conseguenza (che scatena non poche reazioni ironi­ che) è che, mentre il romanzo racconta la storia di alcune famiglie cubane alla fine del secolo scorso e all’inizio di quello attuale, con i più prolissi dettagli relativi a epoca, geografia, arredamento, gastronomia e vestiario, i perso­ naggi in sé sembrano muoversi in un continuum assoluto, estranei a qualsiasi storicità, comprendendosi fra loro al di sopra del lettore e delle circostanze immediate del raccon­ to, in un linguaggio sempre uguale che qualsiasi riferimen­ to alla verosimiglianza psicologica e culturale rende im­ mediatamente inconcepibile. Eppure, niente mi sembra meno inconcepibile di quel linguaggio se soltanto si prescinde dall’ostinata nozione realista del romanzo, che predomina perfino nelle sue for­ me fantastiche o poetiche. Niente è più naturale di un lin­ guaggio che è quello delle radici, delle origini, che è sem­ pre a metà strada fra l’oracolo e la formula magica, che è ombra di miti, mormorio dell’inconscio collettivo; niente è più umano, nel senso più estremo del termine, di un lin­ guaggio poetico come questo, sdegnoso dell’informazione prosaica e pragmatica, rabdomanzia verbale che cerca e fa sgorgare le acque più profonde. Nessuno si stupisce del lin­

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guaggio degli eroi di Ilio o delle saghe nordiche una volta accettata la premessa di trovarsi di fronte a un’epopea, né delle declamazioni del coro greco non appena sa di essere entrato nella dimensione della tragedia (e questo vale an­ che nel caso di un Paul Claudel o di un Christopher Fry). Perché non accettare che i personaggi di Paradiso parlino sempre in quanto immagini,visto che Lezama li proietta da un sistema poetico che ha spiegato in vari testi e che ha la sua chiave nella potenza dell’immagine quale secrezione suprema dello spirito umano in cerca della realtà del mon­ do invisibile? Quindi può succedere che due bambini vadano a scuo­ la e facciano conoscenza, e che questi due bambini cubani parlino così fra loro: «Sin dal primo giorno di lezione», diceva Fibo a José Eu­ genio, «mi sono accorto che tu sei figlio di spagnoli. Non fai bricconate, non ti meravigli molto, sembri non accor­ gerti delle bricconate che fanno gli altri. Eppure, dopo es­ serci soffermati sui banchi, ciò su cui ci si sofferma sei sta­ to tu. Hai la base come una radice. Quando stai in piedi sembra che tu stia crescendo, ma verso Finterno, verso il sogno. Nessuno si può fare una ragione di quella crescita». «Quando sono entrato in classe», gli rispose José Eugenio, «mi sono sentito turbato fino nausea, mi è sembrato che pio vesse. Toccavo nebbia, pizzica­ vo inchiostro di calamaro. In questo modo la tua punta ir­ riverente mi faceva capire dove mi trovavo, mi correg­ geva, mi toccava e io non ero più un albero...» (pp. 151-152)

Capiterà poi che nel corso di un pranzo di famiglia si intavoli la seguente conversazione: Il freschino di novembre, tagliato da raffiche settentrio­ nali, che facevano risuonare le chiome dei pioppi del Prado, giustificava l’arrivo del tacchino dorato, addolcite dal burro le asprezze delle sue estremità, ma con un petto ca­ pace di cingere tutto l’appetito della famiglia e di tenerlo protetto come in un’arca dell’alleanza. «Lo zopilote del Messico è molto più delicato», disse il più grande dei figli di Santurce. «Non lo zopilote, ma ilguajolote»y\o corresse Cerni. «A me hanno consigliato brodo di zopilote giovane per curare l’asma, per non dire il brutto nome di quell’uccellaccio tra noi, ma preferirei morire che bere quel petrolio. Quel brodo deve avere il sapore del latte di scrofa che secondo gli antichi causava la lebbra». «Non si conosce in realtà l’origine di quella malattia», dis­ se Santurce, che come medico non capiva l’inopportunità di parlare di tutti i tipi di malattie mentre si era a tavola. «Parliamo piuttosto dell’usignolo di Pechino», disse dona Augusta, infastidita dall’andamento della conversazione. L’allusione di Cerni al latte di scrofa era stata piacevole perché inattesa, ma lo sviluppo di quel tema in quella si­ tuazione da parte del dottor Santurce, era temibile quan­ to la possibilità di un maremoto che avevano cominciato a far circolare i giornali della sera. «Le macchie rosse della tovaglia devono aver favorito il tema dei vulturidi, ma ricordi anche, mamma, che l’usi­ gnolo di Pechino cantava per un imperatore moribondo», disse Alberto, cominciando a distribuire il tacchino vino­ so e mandorlato. «Lo so, Alberto, che ogni pranzo passa attraverso un vorti­ ce scuro, perché una riunione di famiglia non sarebbe risol­ ta se la morte non cominciasse a voler aprire le finestre, ma i fumi che salgono dal tacchino possono essere un esorci­ smo per mettere in fuga Era, la orribile», (pp. 3 00-1 )

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Dona Augusta menziona Era, a qualsiasi domestica po­ tranno venire in mente Ermes, Nerone o 1’1 Ching. A Leza­ ma non importa affatto che i suoi personaggi parlino in modo conforme alla loro condizione, oppure secondo le circostanze e gli interlocutori; e il miracolo del romanzo si verifica comunque, perché via via che si procede nella let­ tura i personaggi si differenziano, si definiscono, Ricardo Fronesis emerge nella sua dimensione più segreta, Foción si pone di fronte a lui come un’antistrofe o come lo yin ri­ spetto allo yang, José Cerni e Alberto dalla, Oppiano Licario e dona Augusta, José Eugenio e Rialta, ognuno di lo­ ro è una persona come lo sono, sul proprio terreno tragico, Andromaca, Filottete e Creonte, si compie l’impresa di raggiungere antigoethianamente l’individuale partendo dall’universale, rifuggendo quasi con sdegno gli espedien­ ti immediati del romanziere, la tipizzazione secondo il ca­ rattere o le tendenze, i ritratti. E questo perché a Lezama non interessano i caratteri, gli interessa il mistero comple­ to dell’essere umano, «l’esistenza di un midollo universale che regge le serie e le eccezioni» (p. 529). Ecco perché i personaggi in cui l’autore ha profuso il maggior impegno vivono, agiscono, pensano e parlano in accordo con una poetica totale che si insinua nei brani seguenti, altrettante porte per accedere all’universo verbale di Paradiso'. Ma né lo storico, né la futurità, né la tradizione, risveglia­ no l’esercizio, il comportamento dell’uomo, e questo è stato lui [Nietzsche, n.d.t.} quello che meglio e più pro­ fondamente lo ha visto. Ma il desiderio, il desiderio che diventa corale, il desiderio che penetrando riesce, attra­ verso la superficie del sogno condiviso, a elaborare il vero ordito dello storico, questo gli è sfuggito. Difficile lottare contro il desiderio: quello che vuole lo compra con l’anima, la vecchia frase di Eraclito abbraccia la totalità del compor­

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tamento dell’uomo. L’unica cosa che consegue il sopra­ storico è il desiderio, che non si conclude nel dialogo, ma che si rivolge allo spirito universale, anteriore alla stessa comparsa della terra. Possiamo raccogliere la spinta dell’affermazione nietzschiana di trasmutare tutti i valo­ ri, ma i valori che bisogna trovare e fondare sono molto diversi nella nostra epoca da quelli che egli pensasse. Una riunione di studiosi che si avvicinino a nuove materie nel futuro, per esempio: Storia del fuoco, della goccia d’ac­ qua, del respiro, dell’emanazione o aporroia dei greci. Una storia del fuoco, che cominci presentando la sua lotta con gli elementi nettunici o acquei, come si propaga il fuoco, il fuoco nell’albero, colori della fiamma, il rogo e il vento, il rovo ardente di Mosè, il sole e il gallo bianco, il sole e il gallo rosso tra i germani, infine, le trasmutazioni del fuo­ co in energia, tutti quei temi che sono i primi che mi ven­ gono il mente, e di cui l’uomo di oggi ha bisogno per ad­ dentrarsi in nuove regioni di profondità...» (p. 495)

Sull’amore omosessuale di Foción per Fronesis: L’errore apportato dai sensi di Foción nell’awicinarsi a Fronesis, consisteva nel fatto che quella immagine era la forma che assumeva per lui l’insaziabile. Ma come intui­ va che mai avrebbe potuto saziarsi del corpo di Fronesis, perché da tempo era convinto che, senza neppure propor­ selo, Fronesis giocasse con lui, acquistando una prospet­ tiva in cui alla fine veniva sempre grottescamente disar­ cionato dal cavallo, tuttavia, aveva compiuto una traspo­ sizione, in cui il suo verbo di energia sessuale non solleci­ tava più l’altro corpo, cioè, non cercava più la sua incarna­ zione, andare dal verbo al corpo, bensì, al contrario, par­ tendo dal suo corpo, raggiungeva Xaerazione, la sottilizzazione, Apneuma assoluto dell’altro corpo. Volatilizzava la figura di Fronesis, ma lì cera il suo insaziabile, ricostruire

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i cocci per raggiungere almeno la possibilità della sua im­ magine, dove i suoi sensi tornavano a sentirsi pervasi da un fervore senza sostegno, si direbbe un falco che insegue uno pneuma, lo spirito stesso del volo. (p. 526)

La visione del mondo di Fronesis, Cernì e Foción: Quando il resto degli studenti si mostrava sdegnoso e beffardo e la maggioranza dei professori non riusciva a vincere le loro afasie e le loro letargie, Fronesis, Cerni e Foción davano scandalo portando gli dei nuovi, la parola senza ciarle, nel suo puro giallo tuorlesco, e le combinato­ rie e le proporzioni che potevano tracciare nuovi giochi e nuove ironie. Sapevano che il conformismo nell’espressione e nelle idee assumeva nel mondo contemporaneo innumerevoli varianti e mascheramenti, richiedeva all’in­ tellettuale l’asservimento al meccanicismo di un assoluto causale, affinché abbandonasse la sua posizione realmen­ te eroica di essere, come nelle grandi epoche, creatore di valori, di forme, il salutatore del vivente creatore e accusa­ tore dell’awolto in un sudario di blocchi di ghiaccio, che ancora osano fluire nel fiume del temporale, (p. 530-31)

José Cernì parla con sua nonna: «Nonna, ogni giorno sento di più quanto la mamma le so­ migli. Tutt’e due avete quello che io chiamerei lo stesso ritmo interpretativo della natura. Negli ultimi tempi, la maggior parte delle persone mi provoca l’impressione che siano rinchiuse, senza vie d’uscita. Ma voi due sem­ brate dettate, come se continuaste delle parole che arriva­ no al vostro udito. Non dovete fare altro che ascoltare, se­ guire un suono... Non avete interruzioni, quando parlate non sembrate cercare le parole, ma seguire un punto, che è quello che chiarisce tutto. E come se obbediste, come se

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aveste fatto un giuramento perché la quantità di luce non si riduca nel mondo, si sa che avete fatto un sacrificio, che avete rinunciato a ben vaste regioni, direi perfino alla vi­ ta, se una vita meravigliosa non apparisse in voi, in modo tale che noi altri non sappiamo neppure perché esistiamo, né come tiriamo avanti i nostri giorni, perché sembra so­ lo che ci siamo sciolti nella sfera alta di cui parlano i mi­ stici, senza aver trovato ancora Pisola in cui i cerbiatti e i sensi saltano». «Ma, mio caro nipote Cerni, tu osservi tutto questo in tua madre e in me, perché è tipico tuo cogliere quel ritmo di crescita per la natura. Una lentezza molto poco frequente, la lentezza della natura, di fronte a cui tu metti una lentez­ za di osservazione, che è anche natura. Grazie a Dio quel­ la lentezza di portare l’osservazione a un’estensione favo­ losa, è accompagnata da una memoria iperbolica. Tra molti gesti, molte parole, molti suoni, dopo averli osserva­ ti tra il sonno e la veglia, sai quale accompagnerà la memo­ ria per secoli. La visita delle nostre impressioni è di una ra­ pidità inafferrabile, ma la tua capacità di osservazione aspetta come in un teatro dove devono passare, riapparire, lasciarsi accarezzare o mostrarsi schive, quelle impressio­ ni che poi sono leggere come larve, ma allora la tua memo­ ria dà loro una sostanza resistente come il limo degli inizi, come una pietra che raccolga l’immagine dell’ombra del pesce. Tu parli del ritmo di crescita della natura, ma biso­ gna avere molta umiltà per poterlo osservare, seguire e ri­ verire. In ciò anche io osservo che tu sei della nostra fami­ glia, la maggior parte delle persone interrompe, favorisce il vuoto, fa reclami, pesanti esigenze, o declama arie fantasmali, ma tu osservi quel ritmo che fa della conclusione della conclusione di ciò che ignoriamo, ma come tu dici, ci è stato dettato - il segno principale del nostro vivere. Sia­ mo stati dettati, vale a dire, eravamo necessari perché la conclusione di una voce superiore toccasse riva, si sentisse in terreno sicuro. La ritmica interpretazione della voce su­

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periore, quasi senza intervento della volontà, vale a dire, una volontà che ormai era avvolta da un destino superio­ re, ci faceva godere di un impulso che era allo stesso tem­ po un chiarimento...» (pp. 593-94)

Sebbene la sintesi sia quasi impossibile, ecco una se­ quenza che può dare un’idea dei ritmi nascosti che muovo­ no la narrativa di Lezama: L’esercizio della poesia, la ricerca verbale della finalità sconosciuta, gli sviluppava una strana percezione per le parole che assumono un risalto animista negli aggruppa­ menti spaziali, sedute come sibille in un’assemblea di spi­ riti. Quando la sua visione gli offriva una parola, quale che fosse il rapporto che potesse avere con la realtà, quella pa­ rola gli sembrava che passasse nelle sue mani, e sebbene la parola gli rimanesse invisibile, liberata della visione da cui era partita, andava assumendo una ruota in cui girava in­ cessantemente la modulazione invisibile e la modellazio­ ne palpabile, poi tra una modellazione intangibile e una modulazione quasi visibile, poiché sembrava che arrivas­ se a toccare le sue forme, chiudendo un po’gli occhi. Co­ sì andò acquistando l’ambivalenza tra lo spazio gnostico, quello che esprime, quello che conosce, quello della diffe­ renza di densità che si contrae per partorire, e la quantità, che in unità di tempo riavviva lo sguardo, il carattere sa­ cro di quello che in un istante passa dalla visione che on­ deggia allo sguardo che si fissa. Spazio gnostico, albero, uomo, città, aggruppamenti spaziali in cui l’uomo è il punto medio tra natura e sovranatura. (pp. 570-71)

Mentre medita su tutto questo, José Cerni si accosta al­ la vetrina di un antiquario dove una serie di statuette e og­ getti eterogenei sembrano soffrire per mancanza di armo­

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nia,per il reciproco respingersi delle loro forze che cercano invano corrispondenze, connessioni, ritmi fraterni. Cerni sa che ogni volta che sceglie e compra un oggetto, la sua scelta è dovuta al fatto che «il suo sguardo lo distingueva e lo isolava dal resto degli oggetti, lo faceva avanzare come un pezzo degli scacchi che penetra in un mondo che riesce in un attimo a ricomporre tutti i propri vetri», processo in­ tuitivo che il lettore di Paradiso vedrà attuarsi in ogni epi­ sodio, a ogni svolta cruciale del racconto. Cerni sa che «quel pezzo che avanzava era un punto che raggiungeva una in­ finita corrente di analogia»; non si potrebbe descrivere me­ glio di così il meccanismo che imprime un movimento tu­ multuoso, immobilizzandole al tempo stesso come l’Achil­ le immobile à grandipas di Valéry, alle innumerevoli creatu­ re animate e inanimate che popolano ogni pagina del libro. Fidandosi di queirinfallibile decisione dello sguardo interiore, Cerni sceglie due statuette, una baccante «mossa delicatamente dai numeri della danza» e un Cupido al quale manca l’arco e che, così disarmato, ha l’aspetto di un angelo, di «un giovinetto persiano in una miniatura», ma con qualcosa «di atleta greco o di inca al seguito del prodi­ gioso Viracocha». Le porta nel suo studio e quello che ac­ cade in seguito collega la meditazione iniziale sulle parole trasformate in oggetti a quello che succederà con questi oggetti che si comportano come parole, nel sottile legame delle similitudes amies, per citare di nuovo Valéry: Qualche giorno prima, nel suo stesso studio, aveva osser­ vato una coppa d’argento massiccio che aveva portato da Puebla, accanto a un daino cinese, lavorato in un sol pez­ zo di legno. Lì accanto, solo sull’altro tavolo, un ventilato­ re che preoccupava il daino, più di quanto fosse in lui ca­ ratteristico, quando si avvicinava alla coppa d’argento, con la sua paura ancestrale, cosmologica, all’ora di abbe210

verarsi, dopo aver percorso la re­ gione dei pascoli. Il daino, spa­ ventato, perché vedeva levarsi un’improvvisa aria di tormen­ ta, non mostrava più accanto alla coppa la sua abituale po­ sizione allegra, la pelle gli tremava, come quando in­ tuiva il passaggio del soffio sull’erba, l’esalazione del serpente sulla cappa difensi­ va della rugiada. Per la tranquillità del daino di legno, bisognava non solo al­ lontanare la coppa, ma anche spegnere il ventilatore. Cerni spostò la coppa/>flZ>Zflftfl nella parte superiore del piccolo scaffale, tra l’angelo e la baccante. Allora compre­ se che il disagio caotico mostrato dalla vetrina di calle de Obispo, ristagnava nella caoba lucida che chiudeva in alto lo scaffale, mentre si collocava la coppa tra le due statuine di bronzo. Sembrava che l’angelo corresse e saltasse senza perdere l’equilibrio per il cerchio dei bordi della coppa, e che là baccante, stanca di battere sui suoi cembali e dei suoi vistosi salti, sprofondasse fino al fondo della coppa, dove l’angelo tentava di recuperarla per i giochi della luce chiara attraverso i bordi della coppa, (pp. 573-74).

L’ultimo passo sarà metafisico, sarà l’asse intorno al quale prende forma il sistema che rende possibile Paradiso, facendo diventare visibile grazie all’immagine l’universo essenziale di cui, in genere, viviamo solo istanti isolati. Ma a quel punto Cerni si rende conto che la serena allegria che suscitano in lui quegli aggruppamenti «dove una corrente di forza riusciva a fermarsi al centro di una composizione», 211

provoca «una reazione negli altri, aspra e a volte scompo­ sta, quasi di suprema sfiducia». Le città immaginarie che ha visto elevarsi nella conciliazione e nell’armonia dei rit­ mi provocano gesti di collera in chi abita ai margini di quell’architettura intuita e al tempo stesso messa in opera dallo spirito. In un passo che ha l’«oscuro chiarore» del fa­ moso verso di Corneille, Lezama corona la sua visione:

A

Ciò lo condusse a meditare su come si producevano in lui quelle ricomposizioni spaziali, quelTordinamento dell’in­ divisibile, quel senso delle stalattiti. Potè stabilire che quegli aggruppamenti avevano radice tempo­ rale, che non avevano niente a che vedere con gli aggruppamenti spaziali, che sono sempre una natura morta; per lo spetta­ tore lo scorrere del tempo trasformava quelle città spaziali in figure, attraver­ so cui il tempo passando e ripassando, come il lavorio delle maree sulle piat­ taforme coralline, formava come un eterno ritorno delle figure che in quan­ to poste nella lontananza erano un per­ NI I embrione. L’essenza del tem­ braxas manente po, che è l’inafferrabile, per il suo stesso movimento, che esprime ogni distanza, riesce a ricostruire quelle città tibetane, che godono di tutti i miraggi, la gam­ ma di quarzi della via contemplativa, ma in cui non riusciamo a penetrare, perché non è stato dato all’uomo un tempo in cui tutti gli uomini cominci­ no a parlargli, tutto ciò che è esteriore a produrre una irradiazione che lo riduca a un ente diamante senza muraglie. L’uo­ mo sa di non poter penetrare in quelle città,

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ma c’è in lui l’inquietante fascino di quelle immagini, che sono l’unica realtà che viene verso di noi, che ci morde, sanguisuga che morde senza bocca, che attraverso una maniera completiva che sostiene l’immagine, come gran parte della pittura egizia, ci ferisce appunto con ciò di cui è priva, (p. 575)

In questo approccio a Lezama ho dato per scontato che il lettore non conosca Paradiso, la cui uscita recentissima aspetta con tanti altri libri cubani e con tutta Cuba che il resto dell’America Latina si decida a guardare in faccia la realtà del suo legittimo destino. Mi affretto dunque a dissipare il possibile malinteso che nascerebbe dal presumere che l’in­ tero libro sia conforme al tono dei bra­ ni da me citati. I brani propongono al­ cune delle chiavi di accesso al sistema che governa la narrazione, ma questa si sviluppa su una serie di piani che vanno dalla semplice e quasi domesti­ WAfl ca rievocazione biografica all’invenzio­ ne di situazioni estreme nel campo dell’e­ rotismo, della magia e deH’immaginario. Impossibile riassumere la molteplicità degli episodi collegati o sciolti, le se­ quenze cumulative o irradianti, l’ine­ sauribile fantasia di un uomo per cui il regime dell’immagine è una favolosa selva in cui il falconiere, il falcone e la preda triangolano una prima serie di reazioni capaci di moltiplicarsi fino ad aggregarsi in un gigantesco cristallo che racchiude un mondo, la «città tibetana» 213

della meraviglia assoluta. Aggiungerò qui qualche esem­ pio di tutto questo perché vorrei far sentire il sangue vivo che scorre in Paradiso, una presenza umana che riflette l’essenza cubana e sudamericana con un riflesso che è quasi sempre un’ipostasi, un’ardua proposta di potenziamento in lungo e in largo, in alto e in basso, nel mito e nella favola, e che al tempo stesso apre con semplicità la porta ai giochi e ai racconti del dopopranzo, alla nostalgia di amori este­ nuanti e dei teatri d’opera vuoti e del Malecón dell’Avana in un’alba di camminata interminabile. Ecco: José Cerni ricordava come giorni aladineschi quando ap­ pena alzata la Nonna diceva: «Oggi ho voglia di fare una crema, non come quelle che si mangiano oggi, che sem­ brano uscite dalle mense pubbliche, ma quelle che hanno qualcosa del flan, qualcosa del pudding». Allora tutta la ca­ sa si metteva a disposizione dell’anziana donna, perfino il Colonnello le obbediva e obbligava a religiosa sottomis­ sione, come quelle regine che un tempo erano state reg­ genti, ma che molto dopo, dovendo il re visitare le armerie di Amsterdam o di Liverpool, tornavano a occupare i loro vecchi privilegi e ad ascoltare di nuovo il sussurro lusinga­ tore dei loro servitori pensionati. Domandava quale nave avesse portato la cannellata teneva sospesa a lungo davan­ ti al proprio naso, ne palpava con il polpastrello la superfi­ cie, come chi verifica l’antichità di una pergamena, non at­ traverso la data dell’opera che nascondeva, ma attraverso il suo spessore, attraverso le insistenze della zanna di cin­ ghiale che aveva levigato quella superficie. Con la vaniglia indugiava ancora di più, non l’affrontava direttamente nella boccetta, ma la lasciava stillare sul fazzoletto, e poi per cicli irreversibili di tempo che lei misurava, andava an­ nusando di nuovo, fino a che le emissioni di quella essen­ za inebriante si erano estinte, ed era allora che decretava se era un’essenza sapiente, che poteva partecipare all’impasto

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di un dolce di sua elaborazione, oppure scagliava la boccettina aperta nell’erba del giardino, dichiarandola scadente e inutilizzabile. Credo che nello scagliare la boccetta aperta obbedisse al suo segreto principio che ciò che è carente e imperfetto debba essere distrutto, affinché quelli che si ac­ contentano di poco non tornino sull’effimero e se lo ac­ chiappino. Si volgeva con affettuosa imperiosità, tratto la cui cortesia estrema sembrava essere la nota più manifesta, e diceva al Colonnello: «Prepara le piastre per tostare la meringa, perché tra poco c’è da dipingere i baffi al Mont Blanc» diceva ridendo quasi invisibilmente, ma lasciando intravedere che fare un dolce equivaleva a portare la casa all’essenza suprema. «Non dovete battere le uova insieme al latte, ma separati, bisogna unirli già montati separatamente, in modo che crescano ognuno per proprio conto, e poi unire ciò che dai due è cresciuto». Poi si sottoponeva la somma di tante delizie al fuoco, mentre la signora Augu­ sta osservava come cominciava a bollire, come si addensa­ va fino a formare i brani gialli di ceramica, che si servivano in piatti dal fondo rosso scuro, rosso sorto dalla notte. La Nonna passava allora dai suoi ordini nervosi a una inalte­ rabile indifferenza. Non servivano elogi, iperboli, toccati­ ne d’affetto appetitose, frequenze importune nella reitera­ zione della dolcezza, ormai nulla sembrava importarle e tornava a parlare con la figlia. Una sembrava che dormis­ se; l’altra accanto a lei raccontava. Negli angolini, una cu­ civa le calze; l’altra parlava. Cambiavano stanza, una come se stesse cercando qualcosa venutale in mente proprio al­ lora, conduceva per mano l’altra che continuava a parlare, ridere,bisbigliare in segreto, (pp. 33-34)

Si verrà così a sapere della morte di Andresito e di Eloi­ sa, e delle nozze di José Eugenio, con il delizioso episodio degli stivaletti della sua fidanzata Rialta, la madre di José Cerni e la figura femminile più incantevole del libro; la

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scomparsa di José Eugenio porterà in primo piano la vita di suo figlio, e da lui e con lui conosceremo Demetrio e Blanquita, e assisteremo alla meravigliosa partita a scacchi in cui lo zio Alberto legge misteriosi messaggi racchiusi all’interno dei pezzi di giada, creando un’atmosfera magi­ ca, finché José Cerni scopre segretamente che i bigliettini erano in bianco e che la magia era stata ancora più intensa in quanto immaginaria e poetica. I rituali fallici di Leregas e Ferraluque hanno un qualcosa di parodia scimmiesca che prelude allo straordinario dibattito sull’omosessualità in cui si definiscono al tempo stesso le basi di un’antropologia dalle radici mitiche e poetiche e le personalità di Fronesis e di Foción. I capitoli che avviano alla conclusione dell’o­ pera sono i più romanzeschi, in senso narrativo e indivi­ duale: il dramma di Foción nei confronti di Fronesis, la storia beffarda del padre di quest’ultimo e di Serge Diaghi­ lev, per finire con il sorprendente episodio della pazzia di Foción. Povero riassunto di un libro che non ne tollera, che esige una lettura letterale-, ma nell’attesa di questa lettura sarebbe da egoisti resistere al desiderio di citare modi, giri di frase, umori come questi: 216

Mentre si avvicinava contrastava l’olivo della sua unifor­ me con il giallo tuorlesco del melone, scuotendolo di so­ vente per distrarre la stanchezza del suo peso, allora il me­ lone si rianimava fino al punto di sembrare un cane. (p. 3 7)

Andresito, il primo figlio della signora Augusta, prima di scuotere più volte l’acqua dal suo archetto di violino, co­ minciava a riordinare le pagine delle sue partiture, e in quel silenzio da commodoro obeso che precede le prime battute... (p. 77) Il Presidente attraversava il salone del ballo con la lentez­ za di una riverenza gentile nell’etichetta di una scatola di sigari, (p. 178)

Quando si ridestava aveva la sensazione di una sequenza indefinita di silenzi, come quelle battute di caccia che consistono nel non alterare la gamma di silenzi che cir­ condano una tigre, (p. 375) Suscitava la sensazione di essere il trasmutatore delle ore, aveva il segreto delle metamorfosi del tempo, delle ore abitate da un ghiro o da una Emys rugosa^ le trasformava in ore del falco o in quelle di un gatto dagli elettrizzati baffi, (p. 527) Lo considereranno una vittima dell’alta cultura, come esistono quelle vittime dei romanzi polizieschi, che pre­ feriscono entrare nelle loro case per la finestra, (p. 683)

La casa abbagliata nelle sue lampade, sembrava spingere all’estremo i suoi metalli come per preparare da adesso le lucciole del ricordo, (p. 200) Lo zio Alberto quando discuteva con la madre, la signora Augusta, rompeva un vasetto di Sèvres con scene pasto­

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rali, e le capre rimanevano con mezza mascella, o una bra­ ca corta non riusciva a prolungarsi in una gamba da mat­ tutini esercizi per le danze cortigiane. La signora Augu­ sta proseguiva nelle sue imprecazioni da contralto, rifiu­ tando di vendere le ultime azioni della Western Union che le erano rimaste, quando proprio in quel momento il portacenere di cristallo francese intagliato, saltando come una miniera di quarzo sotto la fiamma ossidrica e le paz­ ze corse degli gnomi, depositava i suoi frammenti nel ce­ stino di vimini intrecciati, (pp. 136) Proprietario ne era il colonnello dell’indipendenza Ca­ stello Dimàs, che passava tre mesi nell’ingenio all’epoca della macinazione, tre mesi in alcuni isolotti che aveva dalle parti di Cabanas, luogo del tutto edenico, dove dor­ miva come un gabbiano, mangiava come un palombo e si annoiava come una marmotta nel paranirvana. (p. 349) Allora si rivolse a una vecchia maitresse, Hortensia Schneider, isoldiana e illusionistica bellezza prussiana, ormai ol­ tre i quarantanni, ma con occhiaie e labbra comunicative come i pini del Reno. Nell’invecchiare così wagneriana­ mente, aveva cambiato, nel suo smisurato concetto di grandezza, continente, e adesso in Cina proseguiva nel suo ruolo isoldiano, limitandosi a essere l’amante dell’impera­ tore. (p. 702)

Paradiso è come il mare, e le citazioni precedenti incor­ reranno nel cupo destino di qualsiasi medusa strappata al suo verde grembo. Dopo un iniziale momento di sorpresa, capisco il gesto della mia mano quando prende lo spesso volume per sfogliarlo un’altra volta; questo non è un libro da leggere come si leggono i libri, è un oggetto con recto e verso, peso e densità, odore e sapore, un centro di vibrazio­ ne che non si lascia raggiungere nel suo nucleo più intimo

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se non lo si avvicina con qualcosa che abbia le caratteristi­ che del tatto, che cerchi di penetrarvi per osmosi e per ma­ gia simpatica. E davvero ammirevole che Cuba ci abbia dato al tempo stesso due grandi scrittori che difendono il barocco quale cifra e segno vitale dell’America Latina, e che la loro ricchezza sia tale che Alejo Carpentier e José Lezama Lima possono rappresentare i due poli di quella visione e manifestazione stilistica: Carpentier, l’impecca­ bile romanziere dalla tecnica e dalla lucidità europee, auto­ re di opere letterarie prive di qualsiasi ingenuità, artefice di libri fatti per essere letti, di prodotti raffinatamente orche­ strati per la fruizione di quello specialista occidentale che è il lettore di romanzi; e Lezama Lima, mediatore di oscu­ re operazioni di quello spirito che precede l’intelletto, di quelle zone che godono senza capire, del tatto che ascolta, del labbro che vede, della pelle che sente i flauti nell’ora pa­ nica e dei terrori nei crocicchi sotto la luna piena. Nei suoi momenti più alti, Paradiso è un rito, qualcosa che preesiste a qualsiasi lettura con modalità e fini letterari; possiede quell’incalzante presenza tipica della primordiale visione eleatica, amalgama di quello che in seguito si sarebbe chia­ mato poesia e filosofia, nudo confronto fra il volto dell’uomo e un cielo dis/. . jSL-— seminato di stelle. Un’opera così non si legge; la si consulta, si proce\m/,i de di riga in riga, di succo in succo, /W con una partecipazione dell’intellet^7 r to e dei sensi tesa e impetuosa come (A « 1 i n-i i ■ * l ■ ‘ r’*' quella che da quelle righe e da quei V 1 f X Iy succhi ci cerca e ci rivela. Poveretto quel \ Vi 1 1 « j. \ IA ì lettore che si accingesse alla traversata di \ 1 , y / Paradiso come se si trattasse del «libro del \ )j V/ mese», quella assillante televisione sullo 219

schermo di carta dei soliti romanzi. Fin dal primo incontro con la poesia di Lezama ho capito quanto Paradiso propo­ ne adesso a coronamento di un’opera regale. Sicché, come per arrivare a Montego Bay, dopo che sulle sabbie, setose pause intermedie, fra l’irreale sommerso e il denso, irrefutabile apparso, sifece l’acquario metrico, e l’ombelico terreno superò il ‘vizioso orizzonte che confondeva l’uomo con la riproduzione degli alberi,

bisogna ricordare il mito degli idumei che si riproducevano come i vegetali, senza «ombelico terreno», senza tempo, «ac­ quario metrico», nello stesso modo ogni pagina oscura e insidiosa di Paradiso, ogni immagine sradicante o estraniante, esige un amore umile ma profondo da prima passeggiata mattutina nel giardino dell’Eden, la decifrazione di felci, di an­ goli e di comportamenti, una cadenza da rituale che, tramite l’ipnosi e l’incantesi­ mo, apra le porte di tanto mistero dissol­ vendolo nella grande luce di questa summa. Grazie a Paradiso, come a suo tempo a Locus Solus o alla Morte di Virgilio, ritor­ no alla parola scritta con l’atteggiamento del bambino che viaggiava lentamente con un dito sulle cartine degli atlanti, se­ guendo il contorno delle immagini, e as­ saporava il gusto inebriante dell’incomprensibile, delle parole che erano formule magiche, ritmi e riti di passaggio: «Prima delle calende di luglio...» «Quindici uo­ 220

mini sulla cassa del morto...» «Partirono alla conquista del vello d oro...» «Apriti Sesamo...» «I monsoni e gli alisei...» «Non dimenticare che dobbiamo un gallo a Esculapio...» Adesso si aggiunge il peso dell’albatro morto, adesso siamo saggi; ma l’atteggiamento centrale è sempre lo stesso, visto che è quello di ogni poeta che cerca o offre partecipazione. Paradiso richiede di essere letto come i canti orfici, come i bestiari, come II Milione del veneziano, come Paracelso, co­ me sir John Mandeville, e già in questa ritmica consultazio­ ne oracolare in cui palpita una certezza che trascende gli enigmi e gli assurdi e l’incredulità della veglia intellettiva, il lettore perviene attraverso e grazie al verbo a un contatto tra­ scendente, si trova davanti alle viscere scrutate dall’aruspice, alle tavole mantiche, alle direzioni che indicano 1’1 Ching e i librisfulguralis. Leggere Paradiso in questo modo è come guardare il fuoco del camino ed entrare nel suo vortice di co­ struzione e annichilimento, nel suo momento classico in cui è fuoco sacrificale, nella sua ora romantica di scintille ed esplosioni inattese, nel suo barocco di fùmi azzurri e verdi che moltiplicano le statue fùgaci e le cornucopie, nel suo mo­ mento Aura Mazda, nel suo momento Brunilde, nel segno cosmico di Empedocle, nella spirale di Isadora Duncan, nel segno analitico di Bachelard, con sotto, sempre, le vecchie donne delle coste iperboree che nelle fiamme leggono il de­ stino di chi in alto mare affronta il kraken e il leviatano scate­ nati. L’uomo sta arrivando sulla luna, ma oltre venti se­ coli fa un poeta conosceva le formule capaci di far scendere la luna sulla terra. Qual è, in fondo, la differenza?

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