Roma. Il primo giorno
 9788842088745

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Economica Laterza 488

Dello stesso autore nella «Economica Laterza»:

La casa di Augusto. Dai “Lupercalia” al Natale (con A. Barbero, L. Canfora, A. Foa, E. Gentile, A. Giardina, A. Pinelli, A. Portelli, V. Vidotto)

I giorni di Roma

Dello stesso autore in altre nostre collane:

Le case del potere nell’antica Roma «Grandi Opere»

La fondazione di Roma raccontata da Andrea Carandini «i Robinson/Letture»

Il nuovo dell’Italia è nel passato «Saggi Tascabili Laterza»

Andrea Carandini

Roma Il primo giorno

Editori Laterza

© 2007, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2009 Terza edizione 2012 Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2007 www.laterza.it Progetto grafico di Silvia Placidi / Graficapuntoprint L’Editore ringrazia la Fondazione Valla per aver gentilmente concesso la riproduzione dei testi, qui raccolti nelle Fonti letterarie, tratti da La leggenda di Roma, I: Dalla nascita dei gemelli alla fondazione della città, a cura di Andrea Carandini, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 2006 Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2012 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8874-5

a T.J. Cornell

ROMA

IL PRIMO GIORNO

INTRODUZIONE

PRIME

IDEE

Gli storici ci insegnano che la Roma più antica fu la Roma quadrata, un insediamento cintato sul Palatino [...] Domandiamoci che cosa si possa trovare ancora nella Roma odierna di tali stati precedenti. [...] Degli edifici inclusi un tempo in quest’antica cornice non [si] troverà nulla, o soltanto scarsi resti. [...] Ciò che oggi occupa questi luoghi sono rovine; non si tratta tuttavia delle rovine di tali edifici medesimi, bensì di quelle di loro rifacimenti posteriori, dopo incendi e distruzioni. [...] Facciamo ora l’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, un’entità, dunque, in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti. Nel caso di Roma ciò significherebbe quindi che sul Palatino i palazzi dei Cesari e il Septizonium di Settimio Severo si ergerebbero ancora nella loro antica imponenza, che Castel Sant’Angelo porterebbe ancora sulla sua sommità le belle statue di cui fu adorno fino all’assedio dei Goti, e così via. Ma non basta: nel posto occupato dal Palazzo Caffarelli sorgerebbe di nuovo, senza che tale edificio dovesse esser demolito, il Tempio di Giove Capitolino, e non soltanto nel suo aspetto più recente, quale lo videro i romani nell’epoca imperiale, ma in quello originario quando ancora presentava forme etrusche ed era ornato di antefisse fittili. Dove ora sorge il Colosseo, potremmo del pari ammirare la scomparsa domus Aurea di Nerone; sulla piazza del Pantheon

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troveremmo non solo il Pantheon odierno, quale ci venne lasciato da Adriano, ma, sul medesimo suolo, anche l’edificio originario di Marco Agrippa; sì, lo stesso terreno risulterebbe occupato dalla Chiesa di Santa Maria sopra Minerva e dall’antico tempio su cui fu costruita [...] E, a evocare l’una o l’altra veduta, basterebbe forse soltanto un cambiamento della direzione dello sguardo o del punto di vista da parte dell’osservatore. [...] Ci può venir domandato perché abbiamo scelto proprio il passato di una città per paragonarlo con il passato psichico. L’ipotesi della conservazione di tutto il passato vale per la vita psichica soltanto a condizione che l’organo della psiche sia rimasto intatto, che il suo tessuto non sia stato danneggiato da un trauma o da un’infiammazione. Ma influssi distruttivi paragonabili a queste cause di malattia non mancano nella storia di alcuna città. [...] Lo sviluppo di una città, per pacifico che sia, include demolizioni e sostituzioni di edifici. [...] Nella vita psichica la conservazione del passato è regola più che sorprendente eccezione1. Ho voluto avviare il discorso con questo passo di Sigmund Freud perché coglie l’essenza più profonda di Roma, una città assimilabile a una mente, da cui emergono lembi di memoria che le emozioni legano ad altri ricordi, di altra epoca: una storia intricata al punto da apparirci, almeno in un primo momento, come un coacervo insondabile. Sorprendente è l’accostamento che Freud opera tra l’atemporalità dell’inconscio e Roma: in entrambi sono compresenti rovine immani e costruzioni modeste delle epoche più varie, che formano una realtà pluristratificata. Anche nella città, distruzioni a parte, la conservazione del passato è regola entro una fantasmagorica compresenza di fasi, e quei «cambiamenti di sguardi» evocati da Freud che consentirebbero di vedere in 1 S. Freud, Il disagio della civiltà, in Opere, vol. 10, Bollati-Boringhieri, Torino 1978, p. 562.

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un solo tempo senza tempo tutte le fasi di un edificio sono oggi consentiti dai sistemi informativi archeologici. Viviamo dunque sopra metri di memoria accumulata, sebbene invisibile sotto cementi e asfalti, che hanno condizionato, letteralmente dal basso, quanto ancora oggi sta in piedi, e quindi la nostra vita urbana, in armonia o in contrasto con quanto ha preceduto. Recenti studi hanno dimostrato che pensare il futuro diventa impossibile senza la memoria del passato, perché i circuiti della mente che permettono di veleggiare tra i ricordi sono gli stessi che dipingono gli scenari del domani. D’altra parte il passato non è solo un residuo che naturalmente permane, ma viene continuamente progettato e riprogettato da ogni presente, similmente a come vengono delineati i giorni a venire. Così la stratificazione urbana archiviata sotto i nostri piedi è un accumulo di dati solo in potenza che prendono significato e valore in atto soltanto nella ricostruzione e nel racconto accesi dalle domande del nostro tempo. Io sono un archeologo, cioè uno storico che si avvale prima di tutto delle cose fatte dall’uomo. Sono un narratore di tipo particolare, che prende le mosse dagli oggetti, ma che nell’opera di ricostruzione del passato si avvale poi di ogni genere di fonti, comprese quelle letterarie. La ricostruzione storica, infatti, non può che essere una composizione a più voci, tutte ugualmente significative; ma l’archeologo parte da costruzioni e cose. Non sono certo un portatore di verità assolute – sempre irraggiungibili – ma pongo problemi e avanzo soluzioni, cioè ipotesi più o meno probabili, i cui risultati sono provvisori, esito dello sforzo di sintesi che oggi sono in grado di fare. Come scrive de Finetti, «tutto è costruito su sabbie mobili, benché naturalmente si cerchi di poggiare i pilastri sui punti relativamente meno pericolosi»2.

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B. de Finetti, L’invenzione della verità, Raffaello Cortina, Milano 2006.

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Nel tradurre le cose in un racconto – specie per gli alti-arcaismi e gli arcaismi – oltre che storici, seppure di un genere speciale, bisogna immaginarsi reges-augures, flamines o pontifices, cioè re e sacerdoti, uomini di religione oltre che di ragione, perché i primi Romani credevano fermamente nei loro dèi e nei rituali con cui li veneravano. Il diritto, la politica e lo Stato – in quel tempo alla loro prima apparizione – erano avvolti ancora in una placenta sacrale; religione, morale e politica non erano ancora campi separati della vita e della cultura, ma realtà mentali interconnesse. Lo storico saggio, oltre che laico, non laicizza un passato impregnato di sacralità, ma usa il tagliente pensiero razionale per capire fenomeni alla loro origine imbevuti di teologia, di mito e di rito, regno di emozioni pervasive e unificanti. Non è possibile intendere i primordi di un abitato senza ripercorrere a ritroso la storia cittadina. Un po’ come accade con il gioco dello Shanghai: prima si tolgono le bacchette ultime cadute, che coprono le altre senza esserne coperte, e poi avanti nello stesso modo, fino all’ultima bacchetta, che è stata la prima a disporsi sul tavolo. La domanda che con più frequenza mi capita di fare ai miei collaboratori durante gli scavi è: «Qual è lo strato non coperto da scavare?». In vent’anni di indagini nei terreni tra Palatino e Foro, siamo risaliti, per ampi spazi e tempi, trasformando l’immane congerie del sopravvissuto – la «stratificazione» – in una sequenza di azioni, attività ed eventi ordinati nel tempo e penetrati dall’intelligenza umana – la «stratigrafia». Senza la cultura e la tecnica stratigrafica si può sterrare il suolo, alla ricerca di un tesoro smarrito, ma non scavare nella memoria della città, ricostruendola analiticamente e nel suo insieme. Lo sterratore è come un cacciatore, che per prendere un animale brucia la foresta che lo accoglie. Lo scavatore somiglia invece a un naturalista, che si interessa globalmente alla foresta, e osserva una pianta vile, un insetto, un mammifero, un albero gigantesco.

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Con questo spirito, vorrei prendere per mano il lettore per farlo scendere per circa 13 metri nel sottosuolo della città – lì dove un tempo su macerie e immondizie crescevano gli abitati sopra se medesimi – e per farlo risalire oltre 27 secoli, alla ricerca dei primi atti e del primo giorno di Roma: il 21 aprile di un anno intorno al 750 a.C. (fig. 1). Cosa è nato in quel giorno? Cosa ne è seguito di importante nei millenni per noi e per la storia del mondo? Nelle iscrizioni calendariali romane si legge: Roma condita, cioè fondata (fig. 2). Poco importa l’anno preciso, se il 753 a.C. o, come sostenevano gli storici romani, un altro anno tra il 758 e il 728. Conta piuttosto che Roma sia nata e sia stata attuata come città e come stato tra il 775 e il 675 a.C., nel secolo cui la tradizione attribuisce i regni di tre re fondatori: il latino Romolo e i sabini Tito Tazio e Numa Pompilio.

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1. Roma, tredici metri di stratificazione fra l’VIII secolo a.C. e il XVII d.C. A p. seguente: 2. Il calendario romuleo di dieci mesi (ricostruzione) e il giorno dei Parilia.

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Il problema storico fondamentale consiste nello stabilire se le imprese di questi tre re fondatori siano state inventate in epoca tarda e proiettate nell’VIII secolo a.C. per nobilitare la vile oscurità dei primordi – come ritengono gli storici contemporanei – oppure se si tratti di realtà in parte mitiche e in parte storiche o «mitistoriche», in cui il «vero» è mescolato, più che al «falso», al «finto». Romolo figlio di Marte, ad esempio, è un mito, mentre le sue imprese, come vedremo, non sono soltanto leggendarie. Per saggiare se queste imprese siano nella loro radice verosimili servono testimonianze esterne alla tradizione letteraria antica – rappresentata per un verso da Cicerone, Livio, Dionigi di Alicarnasso e Plutarco e per l’altro da Varrone e da Verrio Flacco – che ci consentano di valutare la leggenda di Roma e di ricostruire quanto oggettivamente accadde nei primi tempi della città.

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3. Un ettaro di Palatino scavato sotto la direzione di A. Carandini.

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Gli storici contemporanei ritengono, generalmente, che la città non sia stata «fondata» da qualcuno, ma si sia gradualmente e anonimamente «formata». Secondo la loro opinione si avrebbe a Roma una città-stato non prima della seconda metà del VII secolo a.C., al tempo cioè di Anco Marcio e di Tarquinio Prisco. In questo modo la leggenda viene ridotta a una favola proiettata in un VIII secolo a.C. completamente falsificato. Gli archeologi, al contrario, e in particolare noi che da vent’anni scaviamo nel cuore della città, fra Palatino e Foro (fig. 3), ritengono che la topografia e la stratigrafia forniscono ormai dati molto rilevanti che convergono con gli avvenimenti principali narrati nella saga di Remo, Romolo e Tito Tazio. Rimandano entrambe ad attuazioni di carattere centrale, a complessi pubblici, per tutto il popolo, che solo un’autorità, centrale anch’essa, può aver ordinato e fatto eseguire: il primo rex-augur chiamato Romulus3.

UN

EVENTO EPOCALE

Nel lungo cammino dell’umanità, la fondazione di Roma rappresenta un evento epocale che ci separa dalla protostoria e che inaugura la storia. Seguiamo per grandi tappe il cammino dell’umanità. Prima del 775/750 a.C., che è il lasso di tempo ritenuto dagli scavatori di Roma come il più probabile per la fondazione della città, non esistevano nel Mediterraneo città e stati a carattere in qualche modo costituzionale. Infatti, i centri minoici e micenei nell’Egeo erano insediamenti che potevano anche fungere da capitali di stati, ma si erano sviluppati a partire da poteri dispotici. Dal 775/750 a.C. fino al V/VI secolo d.C. nel Mediterraneo occidentale, e molto dopo nel Mediterraneo orientale, è stato creato un mondo basato sulle città-stato «antiche» – poi inghiottito nell’Impero romano. Do3

Cfr. La leggenda di Roma, vol. I, a cura di A. Carandini, Mondadori, Milano 2006.

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po il periodo di decadenza delle città in Occidente, tra il V/VI e il X/XI secolo d.C., quando sembra rivivere la protostoria, le città rifioriscono per non decadere mai più. Alcune di queste città raggiungono una proiezione regionale, altre diventano centri e articolazioni di grandi stati. Ancora oggi in Italia la «nazione» – molto giovane – viene poco sentita, e così anche la «regione», mentre vivissimo rimane il sentimento cittadino; al contrario di altri paesi europei, come l’Inghilterra e la Francia, dove si sono formati le grandi capitali e i grandi regni, poi divenuti le nazioni europee. Se ne deduce che senza il substrato delle città romane le città-stato e i regni europei non sarebbero esistiti o sarebbero stati molto diversi. Roma non è meno vecchia di Atene, per cui bene si presta a rappresentare la città-stato più antica e soprattutto più influente, che ha creato un impero esteso tra il Portogallo e la Mesopotamia, tra la Germania e il Fezzan. In questa città e nella sua ecumenica potenza sta una delle radici principali della nostra identità, che nutre ancora il nostro modo di vivere, sentire e pensare. Proseguiamo il medesimo discorso, ma rivolti ora allo spazio. Per via dell’invenzione della città-stato, a partire dal 775/750 a.C. circa, il Mediterraneo e poi l’Europa si sono differenziati sempre più dall’Oriente e dall’Asia, prime fonti di civiltà. Hanno creato, in tal modo, una propria e inedita civiltà occidentale, ora al tramonto, la quale conserva un legame con Roma antica. Di questo legame, nel dopoguerra, ci si è voluti liberare a causa di derive ideologiche fasciste e naziste, ma oggi possiamo riscoprire quel legame, liberato da ogni brutale abuso della politica. In Oriente, la città e lo stato si sono incentrati su un palazzo fortificato, «proibito», corte di un sovrano assoluto, ed era in questa fastosa dimora che il despota prendeva le sue decisioni (figg. 62 e 64). Questa circostanza non ha favorito il corpo sociale che più facilmente poteva bilanciare la sovranità regia e che è all’origine dei primi embrioni di libertà: un’aristocrazia in grado di esercitare una «fronda» nei confronti del potere regio. In Occidente, al contrario, le città-stato «antiche» si sono incentrate, oltre

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che sull’urbe-abitato, da una parte sulla elevata acropoli o arce e dall’altra sull’agorà o foro nella città bassa, i quali costituivano i centri sacrali e politici di una «cosa pubblica». Se la città-stato, specialmente all’origine, è retta da un monarca, essa appare tuttavia di tipo «costituzionale» (come osservò Mommsen per Roma). La casa del re, infatti, pare alquanto modesta, non più lussuosa delle normali dimore aristocratiche (fig. 62), il che sta ad indicare un potere limitato da altri corpi quali il consiglio degli anziani e l’assemblea popolare. Insomma, la «cosa pubblica» o stato era sottoposta, nell’organizzazione cittadina, ad un ordinamento giuridico e politico di tipo costituzionale, sconvolto solo a periodi da tirannidi e dominati. Nell’assolutismo francese, il divario tra l’immane Versailles della cour e gli hôtels nobiliari della ville appare di tipo «orientale», ma l’assolutismo regio è durato in Europa solamente dalla metà del Seicento al Congresso di Vienna. La prevalenza nel lunghissimo periodo di ordinamenti in qualche misura costituzionali determina quella che potrebbe essere chiamata «sindrome occidentale», legata all’invenzione del diritto e della politica. Il suo humus potente – uno strato che manca in altre parti del globo – ha rappresentato il presupposto di un esito finale: la democrazia4.

IL

SITO DI

ROMA,

PRIMA DI

ROMA

La leggenda di Roma, narrata dagli storici e ricordata per dettagli dagli eruditi, rappresenta essa stessa una congerie, questa volta di temi mitici e di presunti avvenimenti, che occorre scavare stratigraficamente, per risalire dai rifacimenti tardi al nocciolo primitivo del racconto. Esso può essere datato molto probabilmente ai tempi della fondazione o poco dopo, fra la metà dell’VIII e la metà del VII secolo a.C.5. Come in tutti i miti del mondo, vi si racconta l’origine 4 5

Cfr. A. Carandini, Sindrome occidentale, Il Melangolo, Genova 2007. La leggenda di Roma cit.

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di qualcosa che emerge dal nulla; così facendo, la leggenda esprime ad un tempo una verità e una finzione. Infatti la fondazione di Roma è senz’altro un inizio epocale, che ha avuto tuttavia alle sue spalle altri inizi importanti, per cui la città non nasce dal niente. Qui il mito, più che sublimare, oscura una realtà precedente, che però siamo in grado di ricostruire. Infatti il sito di Roma, in particolare il Monte Saturnio, chiamato poi Campidoglio, è stato abitato stabilmente fin dalla prima metà del II millennio avanti Cristo, e poi si è ingrandito e articolato in vari stadi prima di giungere alla città. Alla fine del II millennio ha inizio il mondo che più immediatamente ci interessa, quello dei primi Latini e delle loro trenta comunità dagli strani nomi, elencati da Plinio il Vecchio, che face-

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4. Localizzazione ipotetica dei populi Albenses (esclusi Bubetani, Macrales, Octulani, Olliculani, Vimitellani).

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vano capo ad altrettanti populi insediati in villaggi (fig. 4). La metropoli di questi Latini federati era allora Alba «Longa», posta «lungo» l’orlo del cratere contenente il lago, ai piedi del Monte Albano, oggi Monte Cavo (fig. 5). Sulla sua cima si venerava Giove Laziare, somma divinità del Lazio antico: il territorio dei Latini, che il Tevere separava dagli Etruschi e una frontiera oltre l’Aniene dai Sabini (vedi fig. 59). Questa realtà, che emerge dalle fonti letterarie e che ha il suo corrispettivo archeologico in un insediamento «pre-urbano» fatto di villaggi sparsi, è stata accolta generalmente dagli storici contemporanei. Alcuni di questi trenta populi sono attribuibili al sito che sarà di Roma (fig. 6), incentrato su un guado del Tevere posto poco più a valle dell’Isola Ti-

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5. Lazio, Alba Longa.

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6. I tre populi Albenses del sito di Roma: Latinienses, Velienses, Querquetulani.

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berina, ai piedi dell’Aventino, dove Anco Marcio costruirà il ponte Sublicio. Di qui passava la strada del sale – vie Salaria e Campana –, elemento essenziale dell’alimentazione e della conservazione dei cibi (fig. 7). Questa è la prima realtà che la saga della fondazione oscura. Segue un nuovo tipo di insediamento, questa volta non recepito dagli storici contemporanei, che consisteva in un grande borgo o centro, scoperto dagli archeologi e da essi definito «proto-urbano», che i villaggi pre-urbani del luogo aveva assorbito e trasceso. È posto al centro di un suo territorio, dal quale appare ben distinto, ed è per quel tempo di una misura considerevole. Nella prima metà del IX secolo a.C. questo centro si articolava in due blocchi, quello dei montes, chiamato Septimontium, e quello dei colles, di cui non conosciamo il nome; ma già dalla seconda metà dello stesso secolo quei blocchi si erano fusi in un’unica entità, per iniziativa o imposizione del più potente fra essi: il Septimontium. Probabilmente, infatti, sono stati i montes ad aver inglobato i colles: è questo il Septimontium ad essi allargato di Varrone (fig. 8). Questa è la seconda realtà che la saga della fondazione oscura. L’abitato proto-urbano unitario del sito di Roma – 205 ettari circa (montes: 139 ettari; colles: 65 ettari) – è appena più grande di quello di Veio (190 ettari circa). Ha espulso le necropoli nelle periferie – prima si trovavano nei fondovalle fra i rilievi – e i suoi rioni o curiae appaiono ormai ben distinti dai distretti e dalle partizioni dell’agro (fig. 59), di cui rappresenta il centro. La parte meno difendibile di questo centro poteva essere difesa da fossati, le fossae Quiritium. La dimensione originaria di Roma sarà non molto più grande (241 ettari), per cui la fondazione della città non colpisce tanto dal punto di vista quantitativo quanto da quello qualitativo, che consiste nell’invenzione di una nuova forma di organizzazione e di governo. Il rapporto fra gli agri di Roma e di Veio è rovesciato rispetto a quello dei due centri: il territorio di Veio era grande cinque volte quello di Roma (fig. 9).

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7. Tra Campidoglio e Aventino: via Salaria, Salinae e via Campana.

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Gli antiquari romani, che non avevano un disegno mitistorico ma che erano curiosissimi di rari dettagli, come sempre gli eruditi, ci hanno rivelato il nome delle realtà che hanno preceduto immediatamente Roma: Septimontium. Si tratta, come è evidente, di un aggregato unitario di monti, e poi di monti inglobanti colli, anteriore al 775 a.C. circa. Questi monti e colli erano a loro volta articolati in associazioni parentelari di uomini entro rioni dell’abitato o curiae (da *co-viriae), protetti dal dio locale Quirinus (da *Co-virinus); questi uomini si chiamavano Quirites (da *Co-virites): sono i Latini abitanti di quel sito, ben più antichi dei Romani, ultimi arrivati. I rioni dei Quiriti hanno dunque preceduto la città dei Ro-

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VEIO Abitato: 190 ettari = 1,8 kmq; agro: 580 kmq ROMA Abitato: 240 ettari = 2,4 kmq; agro: 120 kmq

8. Colles e montes (il Septimontium di Antistio Labeone) che formano il grande Septimontium di Varrone. Montes: 139 ettari; colles: 65 ettari; Septimontium: 205 ettari. 9. Roma e Veio a confronto.

mani6. Ma gli storici contemporanei continuano a datare il Septimontium alla prima età regia, quindi dopo il 775 a.C. – contravvenendo all’opinione di Varrone –, e a considerare le curie come un’invenzione della città e non della proto-città. Ma il Septimontium, prima ristretto ai montes e poi allargato ai colles, riflette la realtà del centro proto-urbano – ignorato dagli storici stessi –, non di quello urbano, come sta ad indicare il suo carattere di aggregato non centralizzato di quartieri. L’insediamento e il territorio del Septimontium erano abitati – probabilmente già da un secolo prima della città – da famiglie comuni e da gruppi egemoni chiamati gentes, cui corrispondevano gruppi subalterni, chiamati clientes, che lavoravano le loro terre. Da una certa parità originaria si era passati, avanzando nel IX secolo a.C., a una prima articolazione sociale, a una divisione embrionale tra governanti e governati. Erano i patres più eminenti e anziani delle gentes a guidare il grande centro proto-urbano sul Te6 A. Carandini, Remo e Romolo. Dai rioni dei Quiriti alla città dei Romani, Einaudi, Torino 2006.

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vere. Non esisteva allora il potere centrale di un re, né esistevano luoghi centrali e pubblici, ma solo ripartizioni di cui il Palatium – la parte settentrionale del Palatino – era un monte primus inter pares. Ciò non hanno inteso gli storici contemporanei, che fanno cominciare le gentes con la città, contrariamente all’evidenza archeologica che emerge dalle necropoli (in particolare da quella di Osteria dell’Osa, che è poi una di quelle di Gabii). Se esisteva prima di Roma un centro proto-urbano grande quasi quanto l’abitato cittadino della prima Roma, cosa avrebbe fatto di originale Romolo nel fondare la città? Lo vedremo tra poco. Prima è necessario farci un’idea sommaria del luogo di Roma articolato in numerosi rilievi, validi per villaggi ma scomodi per un abitato unitario e centralizzato, che meglio si sarebbe situato su di un pianoro, come quello di Veio. Eppure, era tale l’importanza del guado del Tevere ai piedi dell’Aventino che non era possibile abbandonare quell’insieme di scomodi rilievi. Monti e colli di Roma articolano uno spazio che se fosse stato piano non riusciremmo oggi a distinguere nelle sue parti. Invece a Roma tutti ancora chiamano i monti con i loro nomi originari, e il Viminale è per noi lo stesso rilievo che così definivano i primi Romani. Solo tra il Fagutal e l’Oppius si è fatta confusione, a cui è facile rimediare tornando alla più corretta teoria tradizionale per cui il Fagutal resta vicino alla Velia a San Pietro in Vincoli, e l’Oppio tra il Caelius e il Cispius, culminante dove è ora Palazzo Brancaccio7. Dei montes facevano parte, secondo l’ordine trasmessoci da Verrio Flacco in Festo, Palatium, Velia, Fagutal, Subura, Cermalus, Oppius, Caelius, Cispius. Dei colles facevano parte il Latiaris, il Mucialis, il Salutaris, il Quirinalis e il Viminalis. Il Monte Saturnio – futuro Capitolium/Arx – era connesso da una sella al Latiaris, mentre il

7 M.C. Capanna, A. Amoroso, Velia, Fagutal, Oppius. Il periodo arcaico e le case di Servio Tullio e Tarquinio Prisco, in «Workshop di Archeologia Classica», 3, 2006, pp. 87-111. Anche il confine fra i colles Salutaris e Quirinalis è controverso.

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rilievo dell’Aventinus era separato dal Cermalus/Palatium o Palatino dalla vallis Murcia, dove poi sorgerà il Circo Massimo (fig. 9).

I

LUOGHI DI

ROMA

La leggenda di Roma accenna appena all’abitato dei Quiriti nel suo complesso e mai nomina il Septimontium. Infatti Roma doveva nascere dal nulla perché l’impresa di Romolo apparisse priva di presupposti e potesse consistere in un miracolo: la fondazione. Una fondazione implicava, infatti, non già un’attuazione urbanistica, ma una serie di atti cerimoniali augurali e di interdizioni sacrali che hanno tradotto nel suolo e negli uomini una volontà di potenza espressasi fin dall’origine con caratteri che potremmo dire «moderni» – giuridici, politici, statali, costituzionali –, mascherati ma non negati da istituzioni sacre e sante. Per questo il 21 aprile di un anno intorno al 750 a.C. è una data importante, in quanto giorno della cerimonia iniziale, che ha inaugurato culti, riti e istituzioni poste per la prima volta in luoghi pubblici, per svolgere funzioni centrali, non più solo domestiche, rionali o distrettuali. Così ha origine un progetto che si attuerà nel corso della seconda metà dell’VIII secolo a.C. L’azione dei re fondatori si concentra pertanto su alcuni luoghi mitici della città, trasformati più profondamente dall’organizzazione spaziale e umana della città-stato: da una parte l’Aventino e il Palatino, dall’altra il Foro e il Campidoglio-Arce. Il restante abitato dei Quiriti, non inaugurato, viene presupposto nella leggenda da alcuni avvenimenti che si svolgono su altri monti e colli ed anche dai trenta rioni o curiae che Romolo aveva istituito e che – dato il grande numero – non potevano rientrare nel Palatino (fig. 10). Gli storici contemporanei hanno rifiutato la «fondazione» della città intorno alla metà dell’VIII secolo a.C. – cioè una sua creazione in tempi rapidi – preferendo la «formazione», che si sarebbe attuata in tempi più lunghi e più recenti. E siccome essi vedevano la città in

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atto solamente intorno al 600 a.C., tutta l’età dei primi re – Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio e Anco Marcio – veniva considerata di formazione della città futura e fatta coincidere col Septimontium. Se poniamo invece la fondazione e attuazione della città nel corso della seconda metà dell’VIII secolo a.C., come pensavano i Romani e come pensano oggi gli scavatori del cuore della città, allora il Septimontium deve per forza risalire al secolo tra l’850 e il 750 a.C., come suggerisce Varrone, che lo considera anteriore a Romolo. L’Aventino e il Palatino avevano avuto capi primordiali: prima Caco, nemico di Ercole e da questi ucciso; poi i re aborigeni Pico, Fauno e Latino, discendenti da Marte, frequentanti il Monte Murco e presenti al Lupercal nello specchio da Bolsena (figg. 7 e 12); infine Faustolo, con Acca Larentia genitore putativo di Remo e Romolo, il quale appare come un capo locale, manifestazione in terra di Fauno, come fa pensare il suo nome (fig. 12). Sul rurale Aventino si svolgeranno le osservazioni degli uccelli, rivelatori della volontà divina, riti che preparano la fondazione della città e fanno Romolo re; sul Palatino si svolgeranno le osservazioni degli uccelli legate alla benedizione o inaugurazione di quel monte, grazie alle quali il rilievo diventa una urbs chiamata Roma Quadrata: ad un tempo, cittadella regia e cuore simbolico (pars pro toto) dell’intero abitato, installata sul quadrangolare monte Palatino. Questa è la prima impresa di Romolo (fig. 10). Nel Foro e sul Campidoglio-Arce – un distretto rurale super partes al margine meridionale dell’abitato – si svolgeranno le cerimonie e si istituiranno i luoghi pubblici del centro sacrale e politico della «cosa pubblica» o stato. Questa è la seconda impresa di Romolo, attuata questa volta insieme al sabino Tito Tazio (fig. 10). Uccidendo Remo, Romolo aveva ridotto la dualità gemellare in monarchica unità, ma il compromesso con i Sabini, né vincitori né vinti nello scontro con Roma, aveva portato a una doppia regalità, e quindi ad un rinnovato prevalere del due sull’uno, che farà la sua ultima, più grandiosa e duratura comparsa con i consoli repubblicani, che ci appaiono come due re annuali.

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10

Prima impresa

Seconda impresa

Terza impresa

10. Luoghi delle imprese di Romolo e Tito Tazio.

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Dall’angolo nord-est del Palatino, sede dei pasti comuni delle curie, si (ri)organizzeranno i Quiriti in trenta rioni, come dal Campidoglio si (ri)organizzeranno il tempo calendariale (fig. 2), contenuto in dieci mesi, e il territorio della città, articolato in tre parti o tribus (fig. 59). Uomini, tempo e spazio verranno governati da un re assistito e limitato da un insieme di corpi: un ordine sacerdotale, un consiglio regio e un’assemblea popolare. Ma solo il re, potentissimus, detiene la sovranità, che i poteri minori temperavano. È questa la constitutio Romuli, terza impresa di Romolo, perfezionata con Tito Tazio. La prima impresa del Palatino inaugurato e murato, meglio nota perché ancorata alla data fondante del 21 aprile, non ha senso se la svincoliamo dalle altre due, parti integranti di un singolo progetto di fondazione. Mentre il centro proto-urbano o del Septimontium e poi dell’abitato di Roma sono più grandi dell’etrusca Veio, il territorio originario di Roma appare molto più piccolo: solo un quinto di quello di Veio (fig. 9). Ciò rivela una incapacità a crescere del centro protourbano, che aiuta a spiegare la necessità della transizione cruenta alla città-stato. Il nuovo organismo provvederà subito ad espandersi, grazie all’esercito cittadino, raggiungendo e superando Veio al tempo del quarto re, Anco Marcio (figg. 60-61). Conosciamo male l’abitato dei Quiriti nel suo complesso, soprattutto verso settentrione; ma ne possiamo ricostruire i limiti (per ora) in negativo, tramite lo spazio risparmiato dalle necropoli che lo circondano tra Esquilino e Quirinale; l’Esquilino verrà poi esteso da Servio Tullio (fig. 11). I morti si allontanano dai vivi a Roma molto prima che ad Atene.

REMO E ROMOLO E I RE DI ALBA LONGA Nel Lazio e a Roma le nascite prodigiose riguardano non eroi singoli ma gemelli, generalmente amici ma, scendendo nel tempo,

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come nel caso di Remo e Romolo, nemici. Gemelli sono i Lari, che dai primordi proteggono i limiti dell’abitato, cooperando fra loro, figli di una madre certa, Acca Larenzia, e di un padre incerto, un improbabile e tardo Mercurio, dietro cui si cela probabilmente l’antenato divino Marte, che già aveva generato i re aborigeni (gli Aborigeni erano scesi nel Lazio dal Reatino). Questi re sono Pico il picchio e Fauno il lupo con suo fratello Latino associato a una scrofa che ha partorito trenta maialini – i trenta popoli del Lazio –, fondatore dei Latini; di questi fratelli parla Esiodo nella Teogonia, alla fine dell’VIII secolo a.C. Questi numi legati ad animali – paiono totem australiani – sono stati in seguito offuscati dall’inserimento nel racconto delle origini degli eroi troiani Enea e Ascanio, introdotti nella mitologia latina a partire dal VI secolo a.C. (come indica una ispezione con libagione archeologicamente attestata nel «tumulo di Enea» a Lavinio). Ai re aborigeni del Lazio seguono i Silvi, a partire da Silvio, il capostipite. Segue una lacuna nella memoria culturale dei Latini – poi riempita da nomi artificiali – ma alla fine riemergono i nomi autentici degli ultimi sovrani: Proca e i suoi figli e successori, cioè il perfido Amulio e il buon Numitore. Numitore aveva una figlia, da lui «presa» come sacerdotessa di Vesta per custodire il focolare regio di Alba. Da questo sacro focolare spunta un giorno un fallo, sempre del dio Marte, che possiede la principessa. Dall’unione di questa vergine sacerdotessa con il dio della primavera – Marzo viene da Marte – nascono gemelli (fig. 12). Il primogenito è Remo, sempre nominato per primo dai Romani, e il secondogenito è Romolo, sempre nominato per secondo e per di più detto Altellus, cioè piccolo alter rispetto ad un primus. Sul nome Romulus ci aiuta la linguistica, per la quale si tratterebbe non di un’invenzione tarda – altrimenti il fondatore sarebbe stato chiamato Romanus – e neppure di un nome significante «il romano», come hanno creduto gli storici contemporanei, ma di un nome di persona dalla radice etrusca, databile al più tardi al VI secolo a.C. e più probabilmente al VII e all’VIII

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11. Le Rome di Romolo (abitato: 241 ettari; Foro-Arce/Campidoglio: 12,8 ettari) e Servio Tullio (361,9 ettari).

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12. Genealogia dei re Aborigeni e Silvi. 13. Specchio da Bolsena con rappresentazione del Lupercale, 350-325 a.C.

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secolo a.C., nome che ha la medesima radice di Roma8. È importante ricordare che nei miti del globo è normalmente il secondogenito ad avere fortuna, come Giacobbe, che otterrà la Terra Promessa, mentre il primogenito Esaù dovrà espatriare; secondo una variante morirà come Remo attaccando la cittadella di Giacobbe9. La realtà teologale dei figli di Rea Silvia è raffigurata sul rovescio di uno specchio da Bolsena del IV secolo a.C., che è anche la più antica raffigurazione dei gemelli. Non più tarda della metà del V secolo è la Lupa Capitolina, straordinariamente fedele all’anatomia dell’animale e che ha le mammelle gonfie ma a cui mancano i gemelli, aggiunti nel Rinascimento (una restauratrice di questa lupa ha sostenuto che si tratterebbe di un bronzo medievale, ma la conclusione non convince perché gli animali medievali sembrano mostriciattoli che nulla hanno di realistico). Ma torniamo allo specchio da Bolsena (fig. 13). Alla grotta del Lupercale, ai piedi del luogo del Palatino dove i gemelli verranno alle8 Si vedano in proposito le argomentazioni del linguista C. de Simone, in La leggenda di Roma cit. 9 A. Carandini, Archeologia del mito, Einaudi, Torino 2002.

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vati e presso il quale Roma verrà fondata, Remo e Romolo appaiono fra le gambe della lupa nutritrice, personificazione di Fauna (sotto è probabilmente un lupo, personificazione di Fauno). Remo guarda la testa della lupa e Fauno, demone del disordine posto a sinistra della scena; Romolo guarda dalla parte opposta, verso una figura regale con asta che sta a destra, probabilmente Latino, fondatore dei Latini, il quale lo indica come predestinato alla fondazione di Roma, per cui il conflitto mortale con Remo sembra presupposto fin da principio. Dietro e spostata in alto – per poterla vedere – sta la reliquia disseccata della ficus Ruminalis, su cui sono appollaiati due uccelli, probabilmente il picchio di Marte e la civetta (parra) di Vesta, che rimandano ai genitori dei gemelli: il medesimo dio e la vestale Rea Silvia. Più in alto del Lupercale, dove le fonti letterarie pongono il tugurium Faustuli et Accae, appaiono il Padre (nelle vesti di Mercurio) e la Madre dei Lari. I fratelli Fauno e Latino stanno per i Lari pre-civici dei Latini, come Remo e Romolo fungono da nuovi Lari civici dei Romani. Non compare – fatto strano, data l’epoca dello specchio – Enea, per cui la rappresentazione resta fedele allo strato più antico della saga delle origini (anteriore all’inizio del VI secolo a.C.), testimoniando così la più antica ed autentica tradizione mitica indigena, che evidentemente sopravviveva nella media repubblica accanto a quella che ai re divini degli Aborigeni – dal sapore ritenuto troppo primitivo – aveva preferito eroi troiani. 13

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RITO PRELIMINARE SULL’AVENTINO

La leggenda racconta che Remo e Romolo avevano ottenuto dal nonno Numitore, da loro riportato sul trono di Alba Longa, l’autorizzazione a fondare un abitato ai margini del Lazio, al guado sul Tevere, dove i gemelli erano stati allevati dalla lupa/Fauna e da Acca Larentia. I re di Alba, a partire dal capostipite – l’aborigeno Pico –, erano sovrani che avevano il privilegio di interrogare gli uccelli per conoscere il volere di Giove e ottenerne la benedizione, per cui erano reges e augures (nell’Eneide Virgilio rappresenta Pico seduto, vestito da una piccola trabea, con nella destra il lituus degli auguri e nella sinistra lo scudo/ancile dei sali). Remo e Romolo, in quanto principi della casa regnante albana autorizzati da Numitore, detenevano anch’essi questo privilegio dei Silvi, per cui sondarono entrambi il favore di Giove osservando il volo degli uccelli. Il primo salì sul Monte Murco (o Aventino minore) e il secondo sull’Aventino (maggiore) – secondo Ennio – per sapere dall’auspicio se era lecito fondare un abitato in quei luoghi presso il Tevere, in quale giorno avrebbe dovuto essere fondato, chi avrebbe dovuto esserne il re, quale nome avrebbe dovuto prendere e su quale suolo avrebbe dovuto sorgere. Ove il responso fosse stato favorevole, il vincitore avrebbe dovuto chiedere a Giove di essere ‘inaugurato’, cioè benedetto re, per poter procedere a fondare l’urbs (fig. 14). Come si vede, i riti preliminari si svolgevano in luoghi a carattere rurale, vicini ma esterni al Palatino, dove av-

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Assi visivi verso il Monte Albano

14. Primi auspici di Remo e Romolo su Aventino e Monte Murco. Secondo auspicio di Romolo sul Palatino. Auspici di Tito Tazio (?) e Numa sul Campidoglio (cfr. fig. 17). 15. Bantia (Potenza), osservatorio per il volo degli uccelli con cippi iscritti: 1. Iovi; 2. Solei; 3. Flus(ae); 4. B(ene) iu(vante) a(ve); 5. T(- - -) a(ve) a(rcula?); 6. C(ontraria) av(e) a(uspicium) p(estiferum); 7. Sin(ente) av(e); 8. R(emore) ave; 9. C(ontraria) a(ve) en(ebra). Inizio I secolo a.C.

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venivano le iniziazioni alla vita adulta dei Quiriti del centro protourbano (si vedano poi i culti sull’Aventino a Liber e a Minerva). Per interrogare la volontà degli dei e ottenerne benedizioni che comportavano mutamenti irreversibili di status bisognava creare un recinto di una decina di metri per lato, segnato da nove cippi iscritti (templum), di cui quello a nord-est – su cui si leggeva la scritta bene iuvante ave – indicava il volo degli uccelli più favorevole (fig. 15). L’augure si sedeva al centro del lato ovest del recinto e guardava verso est fino all’orizzonte, dove era il Monte Albano e il culto di Giove Laziare. Sullo spazio rientrante nel suo campo visivo proiettava idealmente sul paesaggio, muovendo in aria il bastone-tromba chiamato lituus (fig. 16), lo schema segnato dai cippi nel recinto. Se gli uccelli volavano da nord-ovest, si otteneva l’autorizzazione piena e la benedizione divina. Remo pone il templum sul saxum del Monte Murco, sopra il luogo dove Numa incontrerà Pico e Fauno e dove oggi è Santa Balbina; Romolo pone il templum sul culmine dell’Aventino, vicino a dove ora è Sant’Alessio, chiesa edificata sul Tempio di Minerva (fig. 17). Tradizione vuole che Romolo all’alba – momento giusto per osservare gli uccelli – abbia avuto un auspicio più favorevole di Remo, per cui viene benedetto re e sceglie di fondare la città sul Palatino il 21 aprile e di chiamarla Roma. Dai doppi auspici di Remo e Romolo si ricava che il regnum governato da un solo re era stata una scelta presa dai gemelli prima degli auspici. Remo avrebbe voluto fondare il suo abitato, chiamato Remo-

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ra o Remoria, sull’Aventino (maggiore), oppure un poco più lontano, dove ora è l’EUR (fig. 59). Voleva dunque che l’insediamento sorgesse in una parte precisa dell’agro, non dove si trovava il centro proto-urbano. Romolo voleva invece fondare una città sul Palatino, proprio nel cuore del centro proto-urbano, scelta innovatrice, dal momento che implicava la conquista e la trasformazione sacrale e giuridica del centro simbolico del Septimontium comprendente due montes: il Palatium e il Cermalus. Completata la fondazione con l’istituzione del Foro e del Campidoglio/Arce, i re verranno inaugurati dal templum centrale dello stato sull’arx, probabilmente già a partire da Tito Tazio – che in quel luogo aveva la sua casa – e sicuramente da Numa Pompilio (fig. 14). I gemelli devono aver concluso la loro iniziazione il 15 dicembre, che nel calendario primitivo di dieci mesi era la festa dei Lupercalia. L’impresa contro Alba e l’uccisione di Amulio possono essere immaginate nella seconda metà dello stesso mese; potremmo attribuire i primi auspici al capodanno di quello stesso calendario, il 15 di marzo; dopo di che, il 23 dello stesso mese, festa dei Tubilustria, aveva inizio la campagna bellica, ed è in questo giorno che potremmo situare nel calendario Romolo che dichiara guerra al Septimontium scagliando una lancia di corniolo dall’Aventino sul versante sud del Palatino (Cermalus) (fig. 18); la lancia si conficca sul ciglio delle Scale di Caco, dove prodigiosamente si trasforma in albero verdeggiante. Il luogo si trova davanti alla capanna di Acca Larentia e del porcaro Fau16. Lazio, Gabii, augure con in mano il lituus. Età tardo-arcaica. 16

17. Gli auspici di Romolo e Remo tra Aventino e Monte Murco (cfr. fig. 14).

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stolo, rappresentante in terra di Fauno e capo pre-civico del luogo dove i gemelli erano stati allevati (fig. 19). Il prodigio del corniolo che rinverdisce manifesta l’assenso divino alla conquista di Romolo e della sua banda di giovani e alla fondazione dell’urbs Roma Quadrata. Se possiamo immaginare i primi auspici-auguri sull’Aventino il primo giorno dell’anno «agricolo», l’auspicio e l’augurio sul Palatino ricevono l’autorizzazione divina in un altro capodanno, immediatamente successivo, quello «pastorale» del 21 aprile. Era questa la festa dei Parilia (da parere, partorire), in cui si venerava la dea Pales. Si svolgeva in quel giorno la purificazione degli uomini e degli ovini, che avveniva saltando su fuochi e che era volta a propiziare i parti delle capre; era prossimo l’atteso momento felice degli abbacchi. È in questo giorno di aprile che Roma, secondo tradizione unanime, sarebbe stata fondata come civitas e regnum – come città-

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18. Traiettoria dell’asta di corniolo. Templum (o auguratorium) dei secondi auspici. Limite del Palatino inaugurato (in grigio) o pomerium. Percorso antiorario del sulcus primigenius e delle mura. 19. Scena del Lupercale, rappresentazione immaginaria con Latino, il picchio, il fico Ruminale, la lupa, i gemelli, Faustolo, Acca Larentia e, in cima, la loro capanna (Studio Inklink).

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stato –, per cui si tratta dell’inizio simbolico di un tempo e di un insediamento nuovi per le terre a sinistra del Tevere, ché a destra c’era l’agro dell’etrusca Veio, probabile modello ideale e pratico prima del Septimontium e poi della stessa Roma. Infatti Romolo fa venire sacerdoti dall’Etruria, dai quali apprende come si deve fondare una urbs (il che presuppone urbes precedentemente fondate alla destra del Tevere). Questi sacerdoti devono aver fatto conoscere al re i libri rituales, manuale etrusco delle fondazioni urbane incentrate su mura sanctae, cioè inviolabili, su articolazioni civiche armonizzate al progetto cittadino (tribus, curiae) e su di un esercito formalmente istituito come riflesso della comunità.

BENEDIZIONE

DEL PALATINO E FONDAZIONE DELLA «ROMA QUADRATA»

Il 21 aprile, prima dell’alba, Romolo esce dalla capanna in cui abita: per fare cosa? Vicino c’era un’altra capanna, a due ambienti, che poteva accogliere i culti di Marte e Ops, la dea dell’opulenza (fig. 20). Le due capanne erano state costruite dove prima sorgeva un’unica e più ampia capanna, corrispettivo archeologico di quella di Acca e Faustolo (fig. 21). Dopo aver sacrificato, il re si reca verosimilmente al centro del lato occidentale del Palatino e qui crea un secondo templum per osservare gli uccelli, rivolto anche questo al Monte Albano (fig. 18). Definisce, prima di tutto, i limiti alla radice del monte entro i quali desidera che scenda la benedizione divina o augurium (da augere, aumentare): una benedizione analoga a quella che aveva ricevuto lui stesso sull’Aventino, per 20. Angolo del Palatino verso il Tevere. Capanna di Romolo con quella dei culti di Marte e Ops, fossa con ara (Roma Quadrata), corniolo e luogo della festa dei Parilia. 21. Angolo del Palatino verso il Tevere. La capanna proto-urbana (del capo?) è il corrispettivo archeologico della capanna di Faustolo e Acca Larentia.

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22. a) Il templum in aere reale tra Palatino e Monte Albano; b) il prospetto sul Palatino/Urbs; c) il prospetto sull’agro dove termina l’orizzonte. I numeri rimandano alla delimitazione del templum in aere ricostruita in base alle tavole in bronzo di Gubbio. 1. Angulus summus; 2. Auguratorium/templum in terra (minus), ricostruito in base al templum di Bantia; 3. Angolo occidentale corrispondente a 1; 4. Limite del confine meridionale del pomerium; 5. Angulus imus; 6. Signum della spectio (Mons Albanus); 7. Angolo orientale corrispondente a 5; 8. Limite del confine settentrionale del pomerium.

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essere intronizzato re. Segna poi questi limiti, a partire dai quattro angoli del monte, facendo infiggere in terra pietre terminali, che costituivano il pomerium o limite continuo, da immaginare dietro alle mura che sarebbero state poi edificate. Nella visione del re-augure ciò rappresentava il prospetto sulla futura urbs (fig. 22b). Ma poi il suo sguardo proseguiva raggiungendo l’orizzonte, per cui, subito oltre il pomerium, si dispiegava davanti a lui il prospetto sull’ager, cioè sul territorio fino ad Alba Longa (fig. 22c). All’alba egli riceve nuovamente il volo favorevole degli uccelli, i quali indicano che la benedizione richiesta è stata ottenuta. Se tutto l’ager era effatus e liberatus, il Palatino era anche inauguratus, come un tempio, salvo che il monte non era consacrato a un dio. Con l’augurio lo statuto del Palatino veniva elevato straordinariamente rispetto a quello degli altri monti e colli del restante abitato. Infatti solo la cittadella regia sul Palatino – microcosmo simbolo dell’intero abitato – viene transustanziata in urbs. In un primitivo luogo di riunione davanti alla capanna regia – dove poi sorgerà la dimora di Augusto, novello Romolo – si svolge la festa dei Parilia che conclude l’augurio, sacra a Pales, dea del luogo simile a Fauna. È il tempo dei parti delle capre, del caglio e del formaggio e degli abbacchi, per cui si purificano gli uomini e le greggi con fuoco e sostanze sacre (fig. 20). In una fossa davanti alla capanna di Romolo i membri della comunità gettano primizie e zolle della propria terra – dai pagi rurali e dalle curiae dell’abitato? – onde unificare le parti celandole sotto terra: ecco il condere o nascondere, che ritualmente significa fondare. Anche Romolo squartato verrà sepolto e nascosto in terra, ma non in una fossa, bensì – possiamo immaginare – in tante fosse, forse una per curia, in modo che ciascun rione dei Quiriti possa disporre di una reliquia del fondatore (come già era avvenuto per Osiride e Buddha). Accanto alla fossa viene poi eretta un’ara, dove viene acceso un nuovo fuoco – regale, perché accolto in un focolare della capanna regia (fig. 23), ma che comincia già

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23. La fossa con ara della fondazione (cfr. fig. 18).

ad essere di tutti, viste le primizie e le terre diverse fuse insieme. Si tratta del superamento del culto di Caco verso quello che ci appare un proto-culto di Vesta (il culto pubblico definitivo sarà nel Foro). Al suono della tromba-bastone o lituus, il re fa risuonare il nome dell’urbs: quello iniziatico Amor, quello sacro Flora e quello politico Roma (Quadrata), pensavano gli antiquari romani. Romolo e Roma hanno una radice comune. Il nome politico dell’urbs trova una conferma in quello della porta eponima del Palatino chiamata Romanula (fig. 18); sappiamo che le porte potevano prendere il nome da una realtà interna, come la porta Quirinale delle mura serviane denominata per il culto di Quirino istituito sopra quel colle. Restava da compiere l’ultimo rituale di quel primo giorno della città. Romolo si reca probabilmente all’angolo nord-ovest del monte, dove era il Sacello di Larunda – altra denominazione di Acca Larentia –, subito oltre il pomerium. Questo punto costituisce un angolo fondamentale (summus) del templum che il fondatore aveva delineato in aere, a partire da quello in terra, che rispondeva all’altro angolo fondamentale (imus), situato invece ad Alba Longa. Qui il re, in-

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24. Il re-augure Romolo traccia il solco primigenio con un aratro dal vomere di bronzo tirato da una vacca e da un toro (Studio Inklink).

dossata una toga alla maniera di Gabii che gli copriva il capo (cinctus Gabinus), dà inizio al rito etrusco del sulcus primigenius, appena appreso dai sacerdoti etruschi convocati (della vicina Veio?). Romolo aggioga a un aratro, con rituale vomere di bronzo, un toro all’esterno e una vacca all’interno, bianchi entrambi, come quelli che da sempre si vedono nella campagna romana (fig. 24), li orienta in senso antiorario e dà inizio al sulcus primigenius muovendo verso l’angolo sud-ovest del Palatino. Non lontano dall’Ara di Ercole gira a sinistra (verso est) e ai piedi delle Scale di Caco alza il vomere prevedendo probabilmente una porta, di cui non conosciamo il nome. Prosegue poi il solco verso l’angolo sud-est del monte, non lontano dall’Ara di Conso, e qui gira a sinistra (verso nord) all’angolo nordest di quel rilievo, dove sorgerà l’edificio che raccoglierà le trenta curiae per i pasti comuni; gira un’ultima volta a sinistra (verso ovest), alzando ad un certo punto il vomere, nel luogo dove doveva sorgere la porta Mugonia, e poi subito lo riabbassa per raggiungere quasi il punto di partenza, dove alza un’ultima volta il vomere, là dove era prevista la porta Romanula (fig. 18). Il pomerium contenente la be-

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nedizione dell’augurio è dunque un limite continuo, mentre il solco primigenio è discontinuo, prevedendo – oltre alle postierle – tre porte rituali. Il nome della porta Romanula – «piccola Romana» – rileva la sua importanza in quanto corrisponde alla scaturigine angolare «somma» del templum in aere, definito per inaugurare il Palatino entro il pomerium. Dietro a Romolo, gli uomini spostano le zolle formate ai due lati del vomere accumulandole all’esterno, in modo da rappresentare, in miniatura e quindi simbolicamente, le mura con fossato. Per consolidare il labile solco e la posizione delle porte vengono disposte pietre terminali – diverse da quelle del pomerium, come si ricava dal nostro scavo di un tratto delle mura con una porta identificabile con la Mugonia (fig. 25). Alla porta Romanula Romolo sacrifica il toro e la vacca rivolgendo una preghiera a Giove, Marte e Vesta. Si tratta forse delle divinità venerate originariamente alle tre porte: Giove Statore, connesso alla porta Mugonia, Marte con Fauno, cui era sacro il Lupercal, connessi alla porta in fondo alle scalae Caci, e Vesta con i Lari, connessi alla porta Romanula. Il rito etrusco prevedeva un semplice murus sanctus – non un agger – la cui fossa di fondazione doveva essere scavata allargando e approfondendo il solco primigenio. Al fondo di questa fossa –

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25. Dal sulcus primigenius al murus sanctus o inviolabile. 26. Palatino, mura romulee, porta Mugonia, sezione ricostruttiva. Intelaiatura lignea interna della porta fra due bastioni. Sotto la soglia il deposito votivo di fondazione.

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nel tratto da noi scavato – gli uomini gettano le pietre terminali già poste lungo il solco – immagini aniconiche del dio Terminus – che vengono pertanto incorporate nelle mura stesse, sancendone la sanctitas-inviolabilità scaturente da fondazioni quasi sacralizzate (fig. 25). Terminate le mura, una bambina viene sacrificata e il suo corredo sepolto sotto la soglia della porta Mugonia. È questo un «deposito di fondazione» i cui reperti – in particolare una tazza – ci hanno consentito di datare il completamento delle mura al secondo quarto dell’VIII secolo a.C. (figg. 26-28). Questa prima opera pubblica di Roma, commissionata evidentemente da un forte potere centrale, quale quello del rex-augur, rappresenta la nostra prima grande scoperta archeologica, che ha confermato la tradizione riguardo alla prima impresa di Romolo. A giudicare dal luogo del Palatium dove sono stati rinvenuti i cippi iscritti che commemoravano il punto in cui si credeva che Remo avesse violato le mura e in cui sarebbe stato ucciso dal fondatore – lungo il cosiddetto Clivo Palatino presso l’Arco di Tito – si direbbe che l’assalitore provenisse dalla Velia, monte svalutato e scartato da Romolo, che lo aveva escluso dal pomerium, nonostante fosse stata la sede antichissima della comunità pre-urbana dei Velienses e avesse rappresentato il secondo monte del Septimontium (fig. 29). Quando le mura verranno distrutte per essere ricostruite, intorno al 700 a.C., due adulti e un bambino saranno seppelliti nelle mura rasate e al loro interno, entro un recinto. Potrebbe trattarsi di sacrifici umani volti a espiare l’obliterazione delle prime mura, un rituale che sembra riflettere il mito di Remo. Chiunque avesse violato o spostato pietre terminali – e le mura palatine includevano pietre di quel genere – doveva essere colpito dalla condanna del sacer esto, maledizione che espungeva il colpevole dalla comunità e lo consacrava alle divinità infere, alle quali poteva essere offerto solo uccidendolo, per cui Romolo sembra compiere, in questa occasione, il primo atto ad un tempo di difesa dell’urbs e di ristabilimento della pax deorum.

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27. Palatino, mura romulee, porta Mugonia, planimetria. 28. Palatino, mura romulee, porta Mugonia, deposito di fondazione sotto la soglia. Corredo funerario di una bambina. 29. I cippi che segnavano dove Remo avrebbe violato le mura. Ricostruzione.

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IL FORO Il Santuario di Vesta Dove è sorto il Foro era, in principio, una valle bassa (6 metri sul livello del mare), invasa frequentemente dalle acque del Tevere e quindi inabitabile: il Velabro. La valle si interponeva fra il Palatino, epicentro dell’abitato, e il Monte Saturnio, poi Campidoglio, che era una rocca abitata fin dal 1700 a.C. circa, rimasta al di fuori del grande centro proto-urbano, dell’abitato dei Quiriti, per cui aveva conservato il suo carattere rurale di villaggio di altura in un distretto dell’agro o pagus, analogo all’Aventino. Si potrebbe dire che il Quirinale stava al Campidoglio come il Palatino stava all’Aventino. Scendendo dal Quirinale, la via Salaria si incuneava in questa valle alla base del Campidoglio, fino al guado sul Tevere, oltre il quale il percorso proseguiva verso il campus Salinarum: la via Campana. Presso il luogo cruciale in cui il percorso che sarà della Sacra via incrociava la via Salaria sorgerà, ai margini del Foro, il luogo in cui si riunivano le curie in assemblea o Comitium (fig. 30). Volendo creare con il Foro un raccordo fra Palatino e Campidoglio, bisognava alzare il suolo di almeno due metri per formare una piazza, che diventerà per Roma quello che l’agorà alto-arcaica sarà per Atene. Subito «fuori» le mura del Palatino – il forum è un campus «fuori le mura» – e in un luogo rilevato alle pendici di quel monte, viene creato il Santuario di Vesta, parte integrante del complesso forense. Qui scenderà ad abitare il re, dopo aver lasciato la

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30. Il Foro tra i culti di Vulcano e di Vesta. 31. Le mura romulee, tracciato originario e primo rifacimento; oltre le mura, nel Foro, il Santuario di Vesta tra le porte Romanula e Mugonia.

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casa sul Palatino (fig. 20), come Egeo che ad Atene lascerà l’Acropoli per la città bassa (astu). All’interno del recinto del luogo sacro c’era una radura (lucus), nella quale erano stati accolti la casa del re con i culti regi di Marte e Ops e dei Lari, la casa delle vestali e il focolare comune sacro a Vesta (fig. 31).

Auspici per creare il Santuario Nella parte est della radura santuariale viene costruita, subito dopo l’erezione delle mura, una capannetta rettangolare, con tracce di recinto antistante. Si tratta probabilmente di un tabernaculum, con antistante templum augurale, questa volta di altro genere, perché rivolto a sud, come d’obbligo per osservare non uccelli ma signa ex caelo, cioè fulmini (figg. 32-33). Scopo dell’auspicio era di ottenere l’assenso divino allo stabilire in quel luogo le case del re e delle vestali, la aedes di Vesta e forse anche l’intero complesso forense. Nel tabernaculum dovette essere accolto il fondatore del Santuario – come si soleva prima degli auspici – per aspettare l’alba, il momento per ricevere segni dal cielo. Ovidio nei Fasti attribuisce l’evento all’ultimo re fondatore, Numa Pompilio, che seduto su un trono d’acero – probabilmente davanti alla capanna – si vela il capo e prega finché ode tre tuoni e osserva altrettanti fulmini, seguiti alla fine da uno scudo di forma speciale caduto dal cielo, chiamato ancile (fig. 34); la cerimonia si conclude con un sacrificio. Lo scudo dovette essere accolto nella dimora regia, costruita poco dopo, insieme ad altri undici, presto commissionati in modo che l’originale non fosse identificabile, essendo necessario proteggere quel massimo talismano del regnum. Ottenuto l’assenso divino, vengono costruiti gli edifici del Santuario su un terreno perfettamente nettato dal vomere di un aratro (fig. 49). Gli antichi erano incerti se attribuire la creazione del culto di Vesta a Romolo o a Numa, scelta quest’ultima che preferivano. Ma il Santuario nella sua prima fase sembra più romuleo che numano, dovendo datarsi a partire dagli anni 775-750 a.C.

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Pavimento di scaglie di cappellaccio

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Mazza

Ancile

32. Santuario di Vesta, il tabernaculum/casa con l’osservatorio per i fulmini o templum in terra (775/750 a.C. circa) e focolari all’aperto. 33. Santuario di Vesta, sezioni e prospetto del tabernaculum/casa (R. Merlo). 34. Veio, Casal Fosso, tomba 1036. 750-725 a.C.

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La casa del re o «domus Regia» Immediatamente dopo la costruzione della piccola capanna o tabernaculum, viene costruita quella che appare come la prima domus di Roma, un palazzetto ancora in tecnica capannicola, che al momento non conosce confronti coevi (salvo forse a Populonia in Etruria); doveva somigliare alle dimore dei maggiorenti di Roma in quell’epoca, che però non conosciamo. Sopra il tabernaculum distrutto viene costruita una grande sala, con protiro sostenuto da due colonne lignee, dotata all’interno di bancone lungo le pareti. È questo forse il sacrario regio di Ops e di Marte, che poteva contenere le aste sacre, immagini aniconiche di questo dio, ed anche alle pareti i 12 ancilia; la sala doveva accogliere, al tempo stesso, il regio banchetto, servito da lussuoso vasellame, anche di provenienza greca; i conviti dovevano essere rallegrati da carmina convivialia, che po-

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Pavimento di scaglie di cappellaccio

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tevano avere per soggetto la saga del fondatore (fig. 38). Ai lati erano le stanze di abitazione e il focolare coperto; il tetto vegetale era sostenuto sul fronte da pali e sul davanti si apriva una corte. Al lato della dimora, verso ovest, era anche un focolare all’aperto; il luogo sarà occupato, in seguito, dall’aedes Larum, per cui è possibile che esso e i successivi focolari alto-arcaici fossero già sacri ai Lari. Una bambina con corredo, sacrificata e seppellita in un angolo della corte, funge da «deposito di fondazione», e il rito – già conosciuto per la porta delle mura – verrà ripetuto nella domus almeno altre due volte. È la ceramica di questi corredi che consente di datare questo edificio, ancora in tecnica capannicola ma che anticipa planimetrie di dimore note più tardi in Etruria (figg. 35-36). La domus subirà poi vari rifacimenti: sono attestate quattro fasi in un secolo e mez-

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35. Santuario di Vesta, domus Regia, 750-725 a.C. In alto a sinistra, la tazza attingitoio del corredo funerario di una bambina, deposito di fondazione della casa. 36. Santuario di Vesta, prospetto ricostruttivo della domus Regia (R. Merlo).

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zo. Prima l’edificio si amplia su un lato formando una «L», onde poter disporre di una seconda sala: quella del sacrarium, distinta ormai da quella del banchetto? (fig. 37). Poi si allarga ed infine si dota di muri con base a scaglie di tufo e di un tetto in tegole. In quest’ultima fase, della seconda metà del VII secolo a.C., la dimora supera la tecnica capannicola e dispone di un focolare all’aperto più strutturato; alla fine della vita di questa casa, intorno al 600 a.C., si data l’ultimo sacrificio umano a noi noto, che funge da «deposito di obliterazione» (fig. 39). Le varie fasi della dimora occupano tutta la prima età regia e rappresentano le case dei re di Roma anteriori a Tarquinio Prisco. Le fonti letterarie, adeguatamente interpretate, associano le case di Numa e di Anco Marcio al Santuario di Vesta e quest’ultima al culto dei Lari. Esse attribuiscono a Tullo Ostilio una dimora sulla Velia, ma doveva trattarsi della residenza gentilizia di questo re, posta in alto e quindi più facilmen-

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Muro esistente

Pavimento in terra battura

Banco tufaceo

Muro probabile

Strati antropici

Limo argilloso naturale

Muro ipotetico Pavimento di scaglie di cappellaccio

Struttura (ara?) con canalette

Lucus Vestae

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te difendibile, non della sede ufficiale di questo sovrano, sempre da presumere nel Santuario. Solo ad un re-augure, quale quello descritto nella constitutio Romuli, che esercitava la patria potestas sulle vestali, poteva essere concesso di abitare nel Santuario forense. Questo insieme di rinvenimenti rappresenta la nostra seconda grande scoperta archeologica.

Il Santuario al tempo dei Tarquini (fine del VII-fine del VI secolo a.C.) Con i Tarquini e Servio Tullio il Santuario viene ristrutturato nel suo complesso (fig. 40), rivelando una grande svolta storica. Viene costruita una seconda domus Regia, tra il limite est del Santuario e la porta Mugonia nella sua versione del VI secolo a.C. Questa grande casa è collegata al lucus Vestae da un passaggio, molto significativo, che consente di identificare la struttura con la dimora dei Tarquini, dal momento che solo il sovrano poteva comu-

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37. Santuario di Vesta, domus Regia, 725-700 a.C. circa. 38. Santuario di Vesta, domus Regia, ricostruzione della sala da banchetto/sacrarium con le aste di Marte e gli ancilia alle pareti (R. Merlo).

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Muro esistente

Pavimento di terrra battuta

Muro probabile

Strati antropici

Muro ipotetico

Limo argilloso naturale

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39. Santuario di Vesta, domus Regia, 650-600 a.C. 40. Il Santuario di Vesta alto-arcaico e arcaico.

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nicare direttamente con le vestali. Le fonti letterarie conoscono una domus dei due Tarquini, da interpretarsi probabilmente come un edificio di più fasi entro un unico lotto, casa che una critica attenta fa rientrare nel complesso di Vesta. È questa la nostra terza grande scoperta archeologica. La nuova dimora esterna al Santuario è un indizio importante di una regalità più secolare e tirannica, che trova giustificazione nei provvedimenti di Tarquinio Prisco e nella riforma costituzionale di Servio Tullio. Con la repubblica questa seconda domus Regia diventerà domus Publica, la residenza del pontefice massimo che conteneva l’archivio più importante della città (fig. 41); d’altra parte lo stesso pontefice massimo potrebbe essere un sacerdote creato al tempo dei Tarquini, divenuto poi, con la repubblica, il primo sacerdote dello stato. La vecchia domus Regia all’interno del Santuario non viene tuttavia abbandonata, anzi viene ristrutturata, mutando impianto (fig. 42). Chi poteva avervi abitato, visto che nel recinto sacro potevano vivere solo le vestali e un uomo di regia dignità? Vi abitava probabilmente un secondo re, creato dai Tarquini: il rex sacrorum, cioè l’antico re-augure ridotto ad sacra, cioè a mere funzioni sacrificali, essendo stati trasferiti tutti i poteri politici e militari a regesmagistri a carattere tirannico, abitanti lì accanto, subito fuori del Santuario. Gli storici contemporanei sono incerti se attribuire la creazione del re dei sacrifici all’età dei Tarquini o alla prima repubblica; l’archeologia conferma la prima ipotesi. È questa la nostra quarta grande scoperta archeologica. Al tempo dei Tarquini i culti di Marte e Ops, già accolti nella più antica domus Regia, non vengono trasferiti in quella di questi re, né vengono lasciati nella casa che è ormai del «re dei sacrifici». Viene costruito in quel tempo un sacrario per essi, subito al di fuori del Santuario, oltre il vicus Vestae – archeologicamente noto come la Regia scavata da F. Brown –, nel quale verranno custoditi le aste del dio Marte e gli ancilia. È questo un altro indizio del carat-

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41. Ricostruzione della domus dei Tarquini, poi domus Publica, tra il Santuario di Vesta e la porta Mugonia, con passaggio dal tablinum al lucus Vestae. 42. Santuario di Vesta, domus Regis sacrorum, 550/530-500 a.C. 43. Santuario di Vesta, aedes Larum, ricostruzione della cella di VI secolo a.C., con il pozzo/silos.

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tere secolarizzato dei tiranni di Roma, che liberano la loro residenza ufficiale dai vincoli sacrali della prima età regia. Al centro del Santuario, fra il lotto del re dei sacrifici e quello delle vestali, viene creato un lotto intermedio, che accoglie ora un silos e, probabilmente, anche un primo edificio o aedes, eretto sopra i focolari all’aperto della più antica reggia (fig. 43): verosimilmente la prima aedes Larum, un culto dei Lari ormai certamente pubblico, staccato sia da quello del Lar Familiaris di Tarquinio Prisco – mitico genitore di Servio Tullio – sia da quello di Marte e Ops, sia da quello di Vesta. Tra il II secolo a.C. e Augusto l’aedes Larum diventerà un complesso monumentale, dotato di cella, corte porticata e larario sotterraneo (fig. 44). Augusto consegnerà poi i suoi Lari e il suo Genio alle vestali – la scena è raffigurata sull’Ara del Belvedere – ed essi diventeranno, d’ora in poi, i Lari dei quartieri della città, come prima lo erano stati quelli di Servio Tullio e prima ancora quelli di Romolo. Alla cella dei Lari pubblici si affianca ora una cella minore, ma identicamente pavimentata a mosaico, destinata probabilmente ad accogliere (con il testamento e le gesta?) i Lari di Augusto (figg. 45-46). È questa la nostra quinta grande scoperta archeologica. Con l’incendio di Nerone (64 d.C.) e la creazione del Clivo Sacro, che congiungeva la Regia superstite al nucleo centrale della domus Aurea, si salva solo l’aedes Vestae, mentre il resto del complesso santuariale viene sepolto sotto l’immane portico del Clivo, per cui verrà edificata, più a monte, una nuova ed enorme casa delle vestali. Una parte della domus di Augusto, edificata sul Cermalo di fronte alla casa Romuli, sarà la nuova domus Publica del princeps pontefice massimo. La casa del re dei sacrifici e l’aedes Larum verranno distrutte; non sappiamo se il re dei sacrifici verrà ospitato in un appartamento della nuova casa delle vestali.

La casa delle vestali e l’«aedes Vestae» Della primitiva aedes Vestae nulla sappiamo e poco potremo ancora trovare sca-

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vando (forse qualche strato orizzontale esterno alla aedes?). Doveva trattarsi, in origine, di una capanna rotonda, situata dove ora si trova l’aedes di età imperiale, la cui fondazione in opera cementizia – unita agli sterri degli archeologi – ha distrutto ogni preesistenza; ma la fondazione stessa rivela un penus rettangolare al centro della rotonda, dove dovevano essere conservati alcuni talismani, fra i quali un misterioso fallo... Siamo riusciti invece a conoscere nelle sue varie parti la domus delle vestali del primo impero e della tarda repubblica e, in proporzione minore, quella dell’età arcaica (fig. 47). Ma la scoperta più grande, la sesta dovuta ai nostri scavi, ha riguardato la primitiva capanna delle vestali, rinvenuta al di sotto della dimora arcaica, di forma probabilmente rettangolare, la cui porta doveva trovarsi davanti a quella della primitiva aedes Vestae, per cui, tramite essa, le vestali potevano controllare il fuoco sacro, che doveva ardere perennemente nel focolare di Vesta ed essere rinnovato ogni primo giorno di marzo. Accanto alla capanna sono stati rinvenuti i primi muri di recinzione del Santuario e le prime pavimentazioni del vicus Vestae (fig. 48): tutte attuazioni databili – grazie anche a un frammento di ceramica euboica – a partire dal secondo quarto dell’VIII secolo a.C. Sotto queste costruzioni è comparso infine l’humus della metà dell’VIII secolo a.C., che presentava tracce di lavorazione con un vomere, relative probabilmente al diboscamento e alla pulizia che hanno preceduto l’edificazione del Santuario (fig. 49).

Sintesi Possiamo concludere che la prima impresa romulea, legata al Palatino benedetto e murato, si data al secondo quarto dell’VIII secolo a.C. e una parte fondamentale della seconda impresa, relativa al Foro – quella del Santuario di Vesta –, si data allo stesso quarto di secolo, per cui rientra anch’essa nello stesso progetto romuleo. Non abbiamo dunque soltanto l’urbs sul Palatino, ma anche il centro sacrale e politico del regnum. Abbiamo inoltre,

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44. Santuario di Vesta, aedes Larum, II secolo a.C.

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45. Santuario di Vesta, aedes Larum, seconda età augustea.

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46. Santuario di Vesta, ricostruzione dell’aedes Larum, seconda età augustea.

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47. Santuario di Vesta, casa delle vestali tardo-repubblicana. Sotto, la capanna delle vestali (770-725 a.C.), di fronte all’ingresso dell’aedes Vestae, e muro di limite del Santuario. 48. Santuario di Vesta, il muro di limite del Santuario e la capanna delle vestali, 770-725 a.C.

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49. Santuario di Vesta, humus con tracce di aratura anteriori al Santuario di Vesta. 50. Il Foro con il primo riempimento e il primo pavimento, 700 a.C. circa (per la localizzazione cfr. fig. 51).

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come vedremo, il culto civico di Giove Feretrio sul Capitolium ed il templum augurale o Auguraculum definitivo dello stato romano – associato a un culto di Giunone? – situato sull’Arx. Abbiamo insomma, fin da principio, la città ma anche lo stato. Gli storici che hanno ammesso l’esistenza della sola città a partire dalla metà dell’VIII secolo a.C. hanno tentato di ritardare nel tempo almeno la dimensione della politica e dello stato, che hanno spostato nell’età dei Tarquini, ma questa soluzione non tiene conto dei dati dei nuovi scavi, si scontra con essi e va scartata.

Il Foro come piazza Sopra un primo riempimento, spesso due metri e databile alla seconda metà dell’VIII secolo a.C., è stato rinvenuto il primo pavimento in ciottoli del Foro, databile all’ultimo quarto di quel secolo o, al più tardi, al primo quarto del successivo (fig. 50). L’impresa di bonifica, rialzamento e allestimento era così cospicua che è stata iniziata in età romulea – come vuole la tradizione – ed è stata terminata in età numana. Al tempo di Tullo Ostilio abbiamo solo perfezionamenti al progetto originario, da ritenersi compiuto al tempo dei re fondatori. Quello che un tempo veniva ritenuto, erroneamente, il primo pavimento del Foro, creato sopra un secondo riempimento della valle, è invece il secondo pavimento della piazza, che si data intorno alla metà del VII secolo a.C.; è su questo errore che si è basata la datazione tarda del Foro. Un nuovo saggio nella piazza, uno scavo del suo lato meridionale sotto la curia Giulia ed uno al Comizio (la cui copertura è ora fatiscente e va rifatta) si impongono.

Il Santuario di Vulcano e il Comizio Come la sede regia era accolta nel Santuario di Vesta, così il consiglio regio, comprendente i maggiorenti di Roma, era accolto nel Santuario di Vulcano o Volcanal. Entrambi i luoghi erano legger-

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mente più elevati della piazza forense e ne costituivano i margini lungo i lati brevi (fig. 30). Purtroppo – come si è visto per l’aedes Vestae – le trasformazioni antiche del Volcanal e il tipo antiquato di scavo attuato hanno reso ardua la ricostruzione archeologica di quel luogo. Sta di fatto che i più antichi reperti votivi associabili al Volcanal sono della fine dell’VIII secolo a.C. e alla stessa epoca si datano due strati, risparmiati dal Comizio a cavea di Tullo Ostilio e che, data la natura del luogo, possono essere attribuiti non all’abitato, bensì al Comizio primitivo (fig. 51). D’altra parte, quale senso potrebbero avere una città-stato e un potere regio senza un luogo dove riunire le curie in assemblea, analogo a quello dove le curiae si riunivano per pasteggiare in comune? La tradizione attribuisce la creazione del Foro e del Comizio a Romolo e a Tito Tazio, che proprio dove sorgerà il Comizio avrebbero stretto alleanza e scelto una doppia monarchia, per cui anche Tito Tazio deve essere stato crea-

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51. Il Foro con il Santuario di Vulcano e il Comizio ricostruiti.

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to, legittimato e inaugurato re di Roma (sull’Arce?). Infine Romolo sarebbe stato ucciso e squartato dai consiglieri regi nello stesso Volcanal, il quale è dunque presupposto in questo mito di morte. Anche la creazione di Numa re presuppone l’esistenza di un Comizio che approva e il templum augurale sull’Arce. Seppure in assenza di scavi adeguati in questi luoghi, l’archeologia nel suo complesso conferma la tradizione anche a proposito di queste istituzioni e delle loro sedi pubbliche. La costituzione romulea tramandata da Cicerone e da Dionigi di Alicarnasso prevede infatti un re-augure, con sede ufficiale nel Santuario di Vesta (come sappiamo dagli antiquari romani), un consiglio regio, prima nel Volcanal e poi nella curia Hostilia, e assemblee popolari al Comizio accanto al Volcanal (comitia curiata) e sul Campidoglio davanti alla curia Calabra (comitia calata). Erano questi i corpi politici previsti dall’ordinamento originario, i quali – assieme ai grandi sacerdoti dello stato – bilanciavano il potere del re-augure, che appare pertanto come un prototipo di sovrano costituzionale. Ad unire il Comizio alla casa del re era la Sacra via, nel suo tratto più rilevante, forense e quindi pubblico, lungo il quale il re una volta l’anno fuggiva (dalla politica) per ripiegare in casa propria: è la misteriosa cerimonia del Regifugium, attribuibile nel calendario romuleo al 24 dicembre.

IL CAMPIDOGLIO

E L’ARCE

Sul Campidoglio, subito al di fuori del basamento che sorreggerà l’enorme Tempio di Giove Re/Ottimo Massimo, sorgeva il primo tempio del culto civico di Roma consacrato da Romolo a Giove Feretrio; quello di Giove Re dei Tarquini era dunque il secondo culto civico della città. Si trattava, probabilmente, di un recinto templare entro cui possiamo immaginare una aedes, in origine una capanna, con davanti un’ara. Il recinto sarebbe stato creato davanti a una quercia sacra, cui Romolo avrebbe appeso le spoglie di Acrone, il si-

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gnore ribelle di Caenina (fig. 59), vinto ed ucciso dal re di Roma, esempio sanguinoso di una fronda soppressa (figg. 52-53). La prima processione trionfale (ovatio), guidata dal re che portava a piedi le spoglie di Acrone, era cominciata alle falde della Velia, al lucus Streniae, e aveva avuto come meta proprio il Tempio di Giove Feretrio. La processione militare dell’ovatio, lungo la Sacra via, si svolgeva dunque fuori dal pomerium Palatino, per l’interdizione sacrale che non voleva l’urbs contaminata da uomini in armi. L’immagine aniconica (signum) di Feretrio era una pietra dura, il lapis silex, probabilmente un’ascia preistorica (fig. 54) considerata un keraunos, cioè la materializzazione di un fulmine (come nel caso di un’altra arma-talismano, l’ancile). Infatti la pietra, sfregata, emanava scintille. Fra le prime manifestazioni del ius era il ius iurandum, o giuramento. Nel sancirlo il sacerdote brandiva questo

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lapis con il quale sacrificava una scrofa. Un’analoga fine – fulminato da Giove – avrebbe fatto lo spergiuro. All’aspetto civico e militare del culto viene dunque ad aggiungersi quello giuridico, per cui in questo culto è da vedere il dispositivo divino ed umano che sta alla base dell’identità dei Romani, il cui rappresentante in terra era il re-augure. Un deposito associato a poche strutture, rinvenuto sul Campidoglio sotto la Protomoteca e riferito giustamente al Tempio di Feretrio, contiene reperti votivi a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C. (fig. 55), indicazione preziosa per stabilire l’origine del culto. Dove poi sorgerà il Tempio di Giove dei Tarquini era esposta al culto, fin da principio, l’immagine aniconica di Terminus, una grande pietra che segnava il vertice dell’agro – il Campidoglio aveva in origine uno statuto paganico, analogo a quello dell’Aventino –, e

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52. Campidoglio, Arce, Foro e suoi santuari. 53. Campidoglio, quercia sacra, templum e capanna di Giove Feretrio (Studio Inklink).

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una pietra simile e corrispondente segnava il limite dell’agro nell’oppidum dell’Acqua Acetosa Laurentina (fig. 59). La festa dei Terminalia, stabilita il 23 dicembre nel calendario romuleo di dieci mesi, doveva coinvolgere pertanto centro e periferia del suolo del regnum. Istituita l’arx sulla cima del Campidoglio più vicina al Quirinale – complemento esterno eppure essenziale dell’urbs –, vi fu installato l’osservatorio augurale definitivo di Roma, poi connesso al culto di Giunone, che potrebbe tuttavia aver avuto antecedenti alto-arcaici, dal momento che la coppia Giove-Giunone veniva venerata all’inizio e alla metà del mese fin dal calendario più antico, per cui questa dea finiva per svolgere un ruolo teologico fondamentale, strutturale, accanto a quello della triade composta da Giove, Marte e Quirino. È possibile farsi un’idea del cuore della città originaria (imprese I e II) attraverso una ricostruzione del paesaggio urbano fra Velia, Palatino, Foro e Campidoglio (fig. 56).

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54. Asce litiche per ricostruire il signum di Iuppiter Feretrius.

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55. Campidoglio, deposito votivo (Protomoteca): vasi miniaturistici, kernos e anelli di bronzo. Seconda metà dell’VIII secolo a.C. (E. Gusberti).

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56. Ricostruzione del paesaggio urbano di Roma: in basso a destra la Velia con il murus Mustellinus; al centro la Sacra via con il Santuario di Vesta; in primo piano la domus Regia (cfr. fig. 37); in fondo la capanna delle vestali (cfr. figg. 47-48) e l’aedes Vestae con dietro il lucus; sullo sfondo, il Palatino e le sue mura; in alto a destra il Foro in allestimento e il Campidoglio (R. Merlo).

L’IMPRESA DELL’ORDINAMENTO DEL «REGNUM» O DELLA «CONSTITUTIO ROMULI»

L’ORDINAMENTO

DEL TEMPO

La tradizione vuole che il primo calendario di Roma fosse di dieci mesi. Già Mommsen aveva notato che le epigrafi che ci trasmettono il calendario della città presentano alcune feste scritte a caratteri più grandi, che sono quelle sempre presenti, nocciolo duro da attribuire, a suo avviso, al calendario originario. Varie fonti letterarie sostengono, inoltre, che l’anno romuleo durava dieci mesi, quanto la gestazione umana. Non sono mancati storici che hanno considerato queste notizie favole, ma non il nostro maggiore storico delle religioni, Angelo Brelich. Incoraggiato dal suo studio sui calendari antichi, ho cercato di ricostruire il calendario romuleo, alternando mesi di 30 e di 29 giorni – infatti l’idiosincrasia per i giorni pari è successiva all’età alto-arcaica. È interessante notare che anche il nostro ultimo mese dell’anno, dicembre, rimanda al numero dieci, dal che si ricava che in origine l’anno doveva cominciare a marzo; e infatti il più antico capodanno dei Romani era fissato al 15 di quel mese. In un primo tempo non riuscivo a spiegarmi perché l’anno terminasse il 23 dicembre, festa dei Terminalia. Si può capire un inizio al principio o alla metà del mese, ma perché proprio quel giorno 23 per la fine? Ricordandomi che gli antichi ritenevano che la gravidanza umana durasse 274 giorni, mi sono messo a contare i giorni dall’alba del 15 marzo all’alba del 24 dicembre e ho notato che sono in totale proprio 274 (fig. 57). Ne ho dedotto che il termine della gravidanza umana simbolica, e quindi il dies natalis dei Romani, cadeva all’alba del giorno 24 di dicembre; quello di

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57. L’anno romuleo di dieci mesi, comprendente 274 giorni, pari alla durata della gravidanza umana, e 21 giorni interposti tra capodanno e fine dell’anno, che simboleggiano un periodo di sterilità.

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Cristo, testimoniato dal IV secolo d.C., cadrà solamente un giorno dopo, il 25 di quel mese. Fra la fine dell’anno il 23 dicembre e il capodanno il 15 marzo, si interponeva un periodo caratterizzato dalla sterilità. Infatti prima dell’insorgere delle mestruazioni e nei giorni dopo il parto la donna è sterile. Il calendario veniva creato dal re all’inizio di ogni mese davanti alla curia Calabra sul Campidoglio, luogo dal quale, osservando il cielo, regolava le feste in base ai movimenti della luna.

L’ORDINAMENTO DELLO SPAZIO E DEGLI UOMINI Tutte le fonti letterarie narrano che suolo e uomini dell’agro di Roma erano divisi in tre parti o tribus, partizione probabilmente di origine proto-urbana: si veda la divisibilità per tre dei 27 sacrari degli Argei, culti pre-civici situati nei rioni dell’abitato, che non seguono ancora il sistema decimale romuleo. Solo con la città quei rioni o curiae sono portati a 30, un numero divisibile anch’esso per tre, ma gli Argei, per congelamento sacrale, rimangono 27 (fig. 58). Si potrebbe sostenere che le tribù coincidevano con i distretti preurbani di tre populi Albenses attestati presso il guado del Tevere (fig. 4). La tribù dei Titienses, tra il Tevere e la via Prenestina, coinciderebbe con i Latinienses, aventi la loro rocca sul Collis Latiaris; la tribù dei Ramnes, tra via Prenestina e via Appia, coinciderebbe con i Querquetulani, aventi la loro rocca sul Querquetual/Caelius; la tribù dei Luceres, tra via Appia e Tevere, coinciderebbe con il distretto dei Velienses, aventi la loro rocca sulla Velia (figg. 59 e 6). Le tribus avevano la loro scaturigine tra la Subura collina, la Subura montana, i Corneta ai piedi della Velia e l’Argileto ai piedi dell’Arce, dove sarà la porticus Absidata – punto nevralgico anche delle successive divisioni in regioni –, e si estendevano poi fino ai limiti dell’agro. Quest’ultimo era suddiviso non solo nei grandi spic-

L’IMPRESA DELL’ORDINAMENTO DEL «REGNUM» O DELLA «CONSTITUTIO ROMULI»

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chi delle tribù, ma anche in senso concentrico. Tra l’abitato e il primo miglio, segnato da santuari (fig. 59), doveva trovarsi la maggior parte dei lotti di due iugera (mezzo ettaro) dei singoli cittadini e tra il primo miglio e il limite dell’agro dovevano trovarsi le terre controllate dalle gentes e coltivate dai clientes. Le tribù dell’abitato si articolavano in quartieri o montes/colles e in rioni o curiae, e oltre l’abitato in distretti rurali o pagi. Comandavano le tribus ausiliari del re chiamate tribuni militum. Alla luce di un recente studio di L. Capogrossi Colognesi1, abbiamo calcolato che l’abitato e l’agro (dalle fossae Quiritium?) fino al primo miglio potevano contenere 3680 lotti romulei di due iugeri (di cui 480 nell’abitato e 3200 nell’agro, se includiamo il Trastevere). Di questi, 3300 dovevano essere assegnati ai giovani in armi, in parte con padre vivente (380) e quindi senza diritto di proprietà (alieno iuri subiecti), in parte (2920) già patres familias e quindi con diritto di proprietà (sui iuris). Dovevano esistere 380 patres familias anziani con diritto di proprietà (sui iuris), titolari dei fondi propri e di quelli dei loro figli maschi adulti. Possiamo pertanto ricostruire, in via teorica, una comunità fatta di 6600 giovani, metà maschi (3300) e metà femmine (pari al 37 per cento circa della popolazione); i bambini e i ragazzi, maschi e femmine, dovevano essere 8918,9 (pari al 50 per cento circa); gli anziani dovevano essere 2318,9 (pari al 13 per cento circa), di cui 1159,4 maschi, ove fossero stati tutti in vita; ma data l’elevata mortalità in quel tempo è prudente calcolarne vivi un numero esiguo, un terzo circa, pari a 380 individui. L’intera comunità dei Quiriti doveva dunque ammontare a 17.837,8 individui circa. I 100 patres familias del consiglio regio dovevano rappresentare di conseguenza una élite di meno di un quarto dei patres sui iuris.

1 Curie, centurie e «heredia», in Studi in onore di Francesco Grelle, Bari 2006, pp. 41-49.

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58. I rioni/curiae (1-27) di origine proto-urbana contenenti i sacrari degli Argei e le tre curiae (28-30) aggiunte da Romolo.

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59. Ager Romanus antiquus (diviso in tre tribù), di origine proto-urbana, e Septem pagi, conquistati da Romolo.

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L’abitato dei Quiriti, diviso in tre tribù, si articolava in montes e colles e più minutamente in 30 curiae, 27 delle quali possono essere ricostruite grazie alle posizioni di alcuni sacrari degli Argei trasmesseci da Varrone. Ciò non implica che gli Argei fossero culti pro curiis, essendo infatti definiti come culti pro sacellis, accolti tuttavia, per forza di cose, nelle curie (fig. 58). Se Quirino è una divinità del politeismo del sito di Roma, probabilmente precedente la città, se esistevano 27 curie proto-urbane, quante gli Argei – difese dalle fossae Quiritium? – e se nella formula della res publica dei Romani – populus Romanus Quiritesque – i Quirites sembrano un elemento più antico del populus Romanus, allora i Romani costituiscono l’elemento nuovo, che fa la differenza con il passato. Le curie si riunivano centralmente nei comitia curiata e i loro iuvenes formavano l’esercito organizzato rispecchiando quei comizi. In questo esercito cittadino ai 3000 fanti si aggiungevano tre centurie inaugurate di cavalleria, che verosimilmente formavano in pace la guardia del corpo del sovrano: sono i 300 celeres comandati da tre tribuni celerum. La constitutio Romuli, descritta da Cicerone e Dionigi, regolava la sovranità regia e i poteri secondari degli altri corpi della civitas. Il rex-augur e in(du)perator (Ennio), che disponeva di ausiliari e di una guardia a cavallo, era potentissimus sia nei riguardi dell’ordine sacerdotale – composto dai flamines della triade divina e dai cinque pontifices, oltre che dalle vestali –, sia nei riguardi dei patres del regium consilium, sia infine nei riguardi dei Quirites riuniti nei comitia calata e curiata, dove il rex «diceva» il ius e a partire dai quali veniva formato l’esercito da lui comandato. Sacerdoti, consiglio regio e comizi erano collegi e corpi che controbilanciavano il potere regio, che non era quindi assoluto. Mommsen definì questo assetto come una monarchia costituzionale.

L’IMPRESA DELL’ORDINAMENTO DEL «REGNUM» O DELLA «CONSTITUTIO ROMULI»

I

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NEMICI

Nemici interni all’«ager» Sia Remo che Romolo dovevano appartenere alla tribus montana dei Luceres – nella sua fase originaria proto-urbana –, essendo stati allevati sul Cermalo. Remo vuol fondare il suo oppidum nell’ager, sull’Aventino o in un luogo poco più lontano, probabilmente all’attuale EUR (fig. 59). Entrambi questi luoghi dovevano far parte dell’ager di Remo o Remorinus. Romolo vuole invece fondare una urbs nel cuore dell’abitato proto-urbano montano, sul Cermalus/Palatium (fig. 18), escludendo la già nobilissima Velia. Provenendo dalla Velia, declassata da Romolo, Remo viola le mura sante della Roma Quadrata (fig. 29) – dove sorgerà l’Arco di Tito – e viene ucciso da Romolo come nemico «interno», in quanto appartiene alla medesima tribù ed è stato strettamente legato all’impresa della fondazione, il che giustifica il suo apparire – nella leggenda – come fratello gemello del fondatore (durante l’iniziazione era stato Remo il leader di successo del suo gruppo di età, ma con i primi auspici e auguri prevale Romolo). Ucciso Remo, la tribus dei Luceres è ormai controllata da Romolo, dominata dal Palatino inaugurato e murato, che funge da cittadella regia. Romolo affronta per secondo Acrone, reuccio di Caenina (La Rustica), oppidum periferico della tribus dei Ramnes, la cui base nell’abitato doveva trovarsi sull’Esquilino (tra Cispio, Fagutal/Oppio e Celio). Il fondatore sconfigge e uccide il signore ribelle, passato ai Sabini, e davanti alle sue spoglie, appese a una quercia sacra sul Campidoglio, istituisce il culto civico di Giove Feretrio, scoraggiante monito per ogni fronda signorile al potere regio. Romolo affronta infine gli avversari della tribus dei Titienses, più ostica e lontana, attestata sui colles. Vince la ribellione di Antemnae (Forte Antenne), non sappiamo da chi guidata, ma non vince il signore della futura Arce Capitolina, Tarpeio, con sua figlia Tarpeia collaborazionisti anch’essi dei Sabini, che aprono que-

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st’oppidum ai margini dell’abitato collino al re Tito Tazio di Cures, che su quel rilievo si insedia, erigendovi la sua dimora (e forse anche il suo tempio augurale). Figlia e padre finiranno uccisi da Tito Tazio e da Romolo, ma l’Arce resterà in mano sabina. Non essendo riusciti i Romani a vincere i Sabini nella valle che sarà del Foro, né essendo riusciti a prevalere i Sabini, il conflitto si conclude con un’alleanza e un’organizzazione di compromesso, per le quali Tito Tazio regnerà con Romolo. La seconda parte dell’attuazione della prima Roma viene dunque realizzata congiuntamente dai due re. Roma appare, pertanto, come l’esito finale di una iniziativa inter-etnica latino-sabina su quel guado del Tevere. Le resistenze interne all’impresa romulea, diffuse come si è visto in tutto il territorio, indicano quanto innovativa e sanguinosa fosse stata la fondazione e l’attuazione della città-stato.

Nemici latini ed etruschi Se confrontiamo l’abitato del sito di Roma con quello di Veio notiamo che il primo è più grande del secondo; ma se paragoniamo i due territori osserviamo il contrario: l’agro originario di Roma è un quinto di quello di Veio, troppo piccolo per un insediamento così cospicuo, maggiore di tutte le città etrusche (fig. 9). Che il centro proto-urbano anteriore a Roma rivelasse segni di debolezza lo si ricava anche da questa inferiorità territoriale; di qui la necessità per i due primi re – provenienti dai villaggi pre-urbani di Alba e di Cures e spalleggiati dalle loro bande – di vincere, una dopo l’altra, le resistenze dei «baroni» del Septimontium, sottoponendoli a una sovranità centrale, regale a livello urbano, straniera e quindi super partes, sia nel senso che non poteva essere conferita ai nobili del luogo, sia nel senso che rispecchiava interessi etnici diversi alla sinistra del Tevere, sia nel senso che implicava un bilanciamento della sovranità stessa, ottenuto con la doppia regalità, oltre che dai corpi secondari del regnum. È un ritorno alla dualità

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dei Lari? Quando Tito Tazio di Cures verrà ucciso a Lavinio, in oscure circostanze, il delicato equilibrio si lacererà e Romolo, poco dopo, sarà ucciso – accusato di aver introdotto un potere assoluto – e verrà nominato successore, a compenso, un altro sabino di Cures, Numa Pompilio. Anche in questa successione si intravede un qualche riequilibrio del potere. Romolo conquista da solo prima Crustumerium e Medullia e infine – scomparso Tito Tazio – Fidenae, i Septem pagi e le Salinae. Romolo e Tito Tazio conquistano insieme Cameria (fig. 60). Fra le conquiste, le uniche definitive sono quelle all’interno dell’ager tradizionale e quella dei Septem pagi, per la quale Veio aveva dovuto arretrare la sua frontiera. Gli altri centri e luoghi dovranno essere nuovamente conquistati. Si nota che le prime guerre riguardano due fronti, uno rivolto alle città originariamente latine poste tra il fiume Aniene e i Sabini – sono state queste ad allarmare e destare la reazione di quel popolo – e l’altro rivolto a Veio. Non esiste, invece, nessun fronte rivolto al mare, che diventerà viceversa il fronte principale con Anco Marcio, quarto re di Roma, fondatore di Ostia. Al suo tempo il territorio di Roma raggiunge e finalmente supera quello di Veio (fig. 61). Il terzo re di Roma, Tullo Ostilio, aveva posto fine alla rocca di Alba Longa, e da allora la metropoli sacrale dei Latini sarà Lavinio, sul mare.

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60. Le conquiste di Romolo.

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61. Conquiste e alleanze di Tullo Ostilio e Anco Marcio.

CONCLUSIONE

Dopo venti anni di scavi tra Palatino e Foro e di studi sulla nascita di Roma, ho potuto constatare che i dati strutturali ricavabili dalla leggenda di Remo e Romolo, dalla constitutio Romuli e dal calendario primitivo dei Romani convergono e si armonizzano con quelli ricavabili dai vecchi scavi, nuovamente vagliati, e soprattutto dai nuovi scavi da noi condotti. Questa constatazione ci ha portato a concludere che l’abitato dei Quirites – il Septimontium allargato ai colles – si era dotato, dal secondo quarto dell’VIII secolo a.C., di una urbs, di un forum, di un’arx e di un ager, formanti insieme un regnum, cioè una res publica – noi diremmo uno stato – governata da un rex e da altri poteri secondari, secondo un ordinamento sacrale, giuridico e politico di carattere costituzionale. I nuovi scavi consentono inoltre di sostenere che la città-stato è stata attuata in un breve lasso di tempo, tra il 775/750 e il 700/675 a.C., ed è stata perfezionata tra il 675 e il 625, dopodiché sopravviene il tempo nuovo dei Tarquini e della riforma costituzionale di Servio Tullio, che risale al 575-550 a.C. circa e che dura intatta fino alla fine del VI secolo a.C., quando verrà instaurata la repubblica. L’argomentazione del contrario ricade ormai sulla vulgata storiografica contemporanea, che sulla base di scavi troppo ristretti e inadeguatamente condotti ed editi ritiene ancora, ma con sempre meno argomenti, che la prima città-stato sia stata realizzata molto più tardi, tra il 625 e il 550 a.C. circa. È venuto così il momento di risalire dai ventisette secoli e mezzo in cui siamo sprofondati fino ai giorni d’oggi, e chiederci se esiste an-

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cora un legame storico-identitario con i primi Romani, o se Romolo equivale per noi a un re primitivo di una qualsiasi altra parte del mondo. Io credo che un legame con il mondo pagano delle origini – al tempo di Omero e di Romolo – sussista ancora, sia vivo e consista nella scoperta che gli antichi fecero – in Grecia, in Etruria e a Roma – di un modo peculiare di vivere organizzati, di un dispositivo sacrale-giuridico-politico-statale per il quale vari corpi della comunità (il re, l’aristocrazia e il popolo) riescono a convivere mitigando il potere centrale entro un’organizzazione unica, che possiamo chiamare, con gli antichi, «costituzione mista». Si tratta dell’arte difficilissima di essere concordi al di sopra delle discordie, di dividersi senza considerarsi nemici. Abbiamo chiamato questo savoir vivre «sindrome occidentale»1. Ne vediamo la più lontana radice nella civitas/regnum della Roma alto-arcaica intesa come res publica, che in principio era una monarchia. Il concetto di «sindrome occidentale» è l’esito di una semplificazione tramite la quale possiamo – rozzamente ma efficacemente – comparare per differenza il carattere preminente della storia occidentale con l’opposta «sindrome orientale», fondata su città e regni a carattere intrinsecamente e perpetuamente dispotico. Anche l’Occidente ha conosciuto tirannidi, dominati, assolutismi e dittature, che hanno snaturato il dispositivo occidentale con meccanismi di genere orientale; ma, fatto un bilancio dei secoli, queste soluzioni orientali non hanno prevalso, tanto da consentire, alla fine di un lungo e contrastato cammino, il risorgere e lo svilupparsi delle democrazie. Democrazie sono state innestate nel Novecento in alcuni paesi asiatici, come l’India e il Giappone, riuscendo miracolosamente ad attecchire, ma si è trattato di eccezioni, ché l’assenza di una «sindrome occidentale» pluristratificata continua a favorirvi i dispotismi. Che i paesi orientali debbano trovare, prima di tutto, 1

A. Carandini, Sindrome occidentale, Il Melangolo, Genova 2007.

CONCLUSIONE

62. Dimore regie orientali, greche e romane: a) Eubea, Lefkandi, capanna del re; b) Eubea, Eretria, capanna del basileus, Tempio di Apollo e ara; c) Capanna sul Cermalo (cfr. fig. 21); d) Capanna e sacrarium sul Cermalo (cfr. fig. 20); e) Tabernaculum/casa nel Santuario di Vesta (cfr. fig. 32); f-i) Domus Regia nel Santuario di Vesta (cfr. figg. 35, 37-39). In basso a sinistra, fuori scala: Creta, Palazzo di Cnosso.

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una loro via alla «sindrome occidentale», prima di potersi incamminare nelle democrazie? Alcuni storici contemporanei criticano le democrazie antiche e moderne per le loro incompiutezze, quasi fossero nient’altro che oligarchie mascherate, confondendo concrete formazioni politiche – fatalmente imperfette – con modelli ideali irraggiungibili se non al prezzo del dispotismo. Così facendo questi storici hanno finito per giustificare gli orrori delle dittature contemporanee fasciste e comuniste, rimarcando il temporaneo consenso su cui si sono basate. Le democrazie occidentali sono certamente piene di difetti, ma hanno il vantaggio di essere perfezionabili, ed infatti si sono per molti aspetti perfezionate. Prevedo che sarà arduo riceverne di migliori da dove sorge il sole. La città-stato antica si è basata su un culto civico posto su un’altura e su un centro politico intorno a una piazza posta in basso (agorà, forum); finché sono durate forme monarchiche costituzionali o magistrature a tempo limitato, da quelle derivate, le dimore regie sono rimaste in Grecia e in Italia, tra l’età alto-arcaica e quella arcaica, costruzioni dignitose ma modeste: non oltre i 620 mq (fig. 62), mentre le città orientali si sono incentrate e si incentrano ancora su palazzi o quartieri «proibiti», grandi oltre un ettaro ed anche molto di più, come a Pechino (fig. 64), che contrastano con Downing Street (fig. 63). Dopo l’alto Medioevo, a partire dal X/XI secolo d.C., le cittàstato sono risorte, soprattutto in Italia, dove tali sono rimaste fino all’età moderna, mentre in Europa si sono formati grandi regni. Le Magnae Chartae in Italia settentrionale e in Inghilterra e gli Stati Generali in Francia si datano tra il 1177 e il 1303. La nostra identità pre-cristiana riguarda pertanto non solamente il ius dei Romani, come generalmente si ritiene, ma quel più ampio dispositivo politico-costituzionale-statale che abbiamo definito «sindrome occidentale».

CONCLUSIONE

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63. Londra, la casa del primo ministro a Downing Street.

64. Pechino, la Città Proibita.

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LE FONTI LETTERARIE a cura di Paolo Carafa

L’IMPRESA DEL PALATINO IL

RITO PRELIMINARE SULL’AVENTINO

ENNIO, Annales

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Allora solleciti con grande sollecitudine, desiderosi del regno, insieme si applicano all’auspicio e all’augurio. Sul monte† siede Remo per l’auspicio e da solo aspetta l’uccello propizio; invece il bel Romolo in cima all’Aventino cerca il segno, aspetta la stirpe degli altovolanti. Gareggiavano per chiamare la città Roma o Remora. Tutti i loro uomini si chiedevano chi sarebbe stato re. Aspettano, come quando il console vuole dare il segnale e tutti ansiosi guardano le soglie delle rimesse a vedere quando farà uscire i carri dai cancelli dipinti; così il popolo aspettava e nel volto era ansioso di vedere a chi dei due gli eventi avrebbero concesso la vittoria per il grande regno. Intanto il chiaro sole si era riposto nel fondo della notte e di nuovo la candida luce, spinta fuori dai raggi, si era mostrata; allora dall’alto, davvero bellissimo e veloce, a sinistra volò un uccello, e nello stesso momento sorse l’aureo sole. Avanzano dal cielo tre volte quattro corpi santi di uccelli, e si recano in luoghi fausti e favorevoli. Da ciò Romolo capisce che sono stati dati proprio a lui dall’auspicio lo stabile trono del regno e il suolo. [I fr. xlvii Skutsch, vv. 72-91]

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DIONIGI DI ALICARNASSO, Antichità Romane 85, 1. Giungo ora a raccontare ciò che accadde al momento della fondazione (infatti mi resta ancora questa parte da narrare). Dunque, dopo che, morto Amulio, Numitore ebbe nuovamente il comando, passato del tempo a riportare la città allo stato in cui era prima dopo il disordine che aveva regnato fino ad allora, pensò subito di conferire ai ragazzi un loro potere fondando un’altra città. 2. Nello stesso tempo, poiché il numero dei cittadini era molto aumentato, pensò che fosse bene liberarsi di una parte di essi, soprattutto quelli che un tempo gli erano stati nemici, in modo da non tenerli in sospetto. Avendo resi partecipi i giovani di questa idea, parsa giusta anche a loro, diede ad essi come regione su cui governare i luoghi dove erano stati nutriti da bambini, e tra il popolo la parte che gli era stata nemica, la quale era in procinto di dare nuovamente vita a un rivolgimento, e chiunque volesse partire volontariamente. 3. Tra questi, come è naturale in una città che migra, c’erano molte persone del popolo, ma c’erano anche in buon numero i più notabili dell’aristocrazia e quelli ritenuti più nobili della stirpe troiana, di cui sono rimasti ancora ai miei tempi alcuni discendenti, circa cinquanta famiglie. Ai giovani vennero fornite ricchezze, armi, bestie da soma e tutto ciò che potesse servire alla fondazione di una città. 4. Appena i giovani partirono da Alba, mischiando al loro popolo quello rimanente degli indigeni che vivevano a Pallanzio e Saturnia, divisero il popolo in due parti. Questa loro decisione generò sentimenti di emulazione, affinché nella competizione reciproca i lavori venissero eseguiti più velocemente, ma fu causa del peggiore dei mali: la discordia civile. 5. Infatti entrambi i gruppi da loro creati, glorificando il loro capo, lo esaltavano come adatto a governare su tutti, e loro due, non avendo più un’opinione concorde e non volendo più provare sentimenti fraterni, come se uno dei due stesse per comandare sull’altro, rifiutando l’uguaglianza desiderarono ciascuno di prevalere. Per un po’ le loro ambizioni rimasero nascoste, ma poi esplosero con il seguente pretesto. 6. Ognuno dei due scelse un luogo diverso su cui fondare la città. Infatti l’idea di Romolo era di colonizzare il Palatino, tra vari motivi anche per la fortuna del luogo, la quale aveva concesso loro di essere salvati e allevati; invece a Romo [Remo] sembrava opportuno colonizzare quel luogo che oggi prende da lui il nome di Remoria. Si tratta di un sito adatto ad accogliere una città, essendo un colle posto non lontano dal Tevere e distante da Roma circa trenta stadi. Da questa discordia subito nacque il desiderio di non condividere il comando: infatti, a chi avesse ceduto ora, la parte vin-

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citrice avrebbe allo stesso modo imposto ogni suo volere. 86, 1. Passato del tempo in questa situazione, poiché la discordia non diminuiva, sembrando giusto a entrambi rivolgersi al nonno si recarono ad Alba. Egli ordinò loro di far giudicare agli dèi a chi dei due spettasse dare il nome alla colonia e avere il comando. Avendo fissato per loro un giorno, ordinò di sedersi all’alba, lontani tra di loro, nel punto che ognuno preferisse, e una volta eseguiti i sacrifici di rito in onore degli dèi, di osservare gli uccelli augurali: chi dei due avesse visto per primo i volatili più favorevoli sarebbe stato il capo della colonia. 2. I giovani, dopo aver lodato il consiglio, se ne andarono e secondo gli accordi si incontrarono nel giorno stabilito. Il luogo scelto da Romolo per osservare gli uccelli fu il punto in cui pensava di fondare la colonia, quello di Romo fu il colle di fronte, l’Aventino, o – come attestano altri – i Remoria; con entrambi era una guardia che impedisse loro di dire ciò che non era accaduto. 3. Quando presero posto nei punti scelti, dopo poco tempo Romolo, per competizione e per la gelosia verso il fratello o forse anche perché un dio lo spingeva a fare così, prima ancora di vedere il benché minimo segno, avendo mandato dei messaggeri al fratello gli chiese di venire al più presto, come se avesse visto per primo gli uccelli augurali. Ma mentre coloro che erano stati inviati da lui, provando vergogna per l’inganno, camminavano senza fretta, a Romo apparvero sei avvoltoi che volavano da destra. Lui, vedendo gli uccelli, fu sommamente contento, ma dopo poco tempo quelli mandati da Romolo, avendolo fatto alzare, lo portarono sul Palatino. 4. Dopo che si trovarono nello stesso luogo, Romolo chiese a Romo quali uccelli avesse visto per primo, e quello si trovò in imbarazzo su che cosa rispondere. In quel momento si videro in volo dodici avvoltoi augurali, vedendo i quali Romolo si rinfrancò e, mostrandoli a Romo, disse: «Ma perché desideri sapere ciò che è accaduto prima? Ecco che tu stesso vedi gli uccelli». Quello si sdegnò e si lamentò di essere stato ingannato, e disse che non gli avrebbe concesso di fondare la colonia. 87, 1. Da ciò nacque una contesa più grande di quella precedente, in cui ognuno dei due di nascosto cercava di prendere il sopravvento ma in pubblico affermava di non essere da meno così giustificandosi: era stato detto loro dal nonno che sarebbe stato capo della colonia quello al quale si fossero mostrati gli uccelli migliori; ora, avendo entrambi visto lo stesso tipo di uccelli, uno poteva vantare di averli visti per primo, l’altro di averne visti di più. Alla loro discordia prese parte anche il resto del popolo, e impugnate le armi iniziò una guerra senza i due capi, e ci fu una violenta battaglia e grande strage da ambo le parti. 2. Alcuni dico-

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no che durante questa Faustolo, che aveva cresciuto i ragazzi, volendo porre fine alla contesa tra i fratelli, poiché non era in grado di fare nulla, si gettò in mezzo ai combattenti disarmato, desiderando la morte più veloce possibile, come in effetti avvenne. Alcuni dicono anche che il leone di pietra che si trovava vicino ai Rostri, nel luogo più importante del Foro, fosse stato posto sopra il corpo di Faustolo, sepolto nel punto in cui era caduto da quelli che ne avevano trovato il corpo. 3. Essendo Romo stato ucciso nella battaglia, Romolo, avendo riportato una vittoria tristissima sia per la morte del fratello sia per la strage reciproca tra concittadini, seppellì Romo nella Remoria, poiché da vivo Romo lo aveva considerato il luogo adatto alla fondazione; quanto a lui, per il dolore e il pentimento di quanto accaduto, si abbatté e si abbandonò al rifiuto della vita. Ma poiché Larenzia, che avendoli presi da piccoli li aveva allevati ed era amata non meno di una madre, lo supplicava e lo consolava, Romolo dandole ascolto si risollevò, e riuniti i Latini che non erano stai uccisi nella battaglia – erano poco più di tremila di quella grandissima folla che erano stati all’inizio, quando partì (scil. da Alba) per fondare la colonia – colonizzò il Palatino. 4. Mi sembra dunque che questa sia la versione più affidabile sulla morte di Romo. [I 85, 1-87, 4]

LIVIO 6, 3. Conferito così a Numitore il regno su Alba, Romolo e Remo furono presi dal desiderio di fondare una città nei luoghi in cui erano stati esposti e allevati. Vi era inoltre un eccesso di popolazione di Albani e Latini; a questi si erano poi aggiunti dei pastori, e tutti costoro pensavano che sicuramente Alba e Lavinio sarebbero state piccole rispetto alla città che si doveva fondare. 4. Poi, si intromise tra questi pensieri un male ancestrale, il desiderio di comando, e così nacque una vergognosa contesa da un motivo piuttosto piccolo. Poiché essi erano gemelli e il rispetto dell’età non poteva costituire un criterio decisivo, affinché gli dèi che proteggevano quei luoghi decidessero chi dovesse dare il nome alla nuova città e chi la dovesse governare una volta fondata. Romolo occupò il Palatino, Remo l’Aventino come sedi augurali per prendere gli auspici. 7, 1. Si narra che a Remo per primo comparvero come augurio sei avvoltoi; e quando ormai l’augurio era stato annunciato, essendosene mostrato un numero doppio a Romolo, tutte e due le schiere salutarono il loro capo come re: 2. Gli uni ritenevano

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che desse diritto al regno l’anteriorità del momento, gli altri il numero degli uccelli. E così, venuti a lite, dalla discussione infervorata passarono alla violenza; allora Remo, colpito nella mischia, morì. [I 6, 3-7, 2]

OVIDIO, Fasti Già il fratello di Numitore aveva pagato il fio, e tutto 810 il popolo dei pastori era sotto i sovrani gemelli. Entrambi decisero di riunire gli abitanti dei campi e fondare le mura: Si discute quale dei due debba fondare le mura. «Non è necessario» disse Romolo «alcun dissidio: grande è la fede negli uccelli, affidiamoci agli uccelli». 815 La proposta piace. Uno va sulle rocce del boscoso Palatino, l’altro al mattino va sulla sommità dell’Aventino. Remo vide sei uccelli, l’altro due volte sei in fila. (traduzione di L. Canali) [IV 809-817]

PLUTARCO, Romolo 1. Morto Amulio e ristabilito l’ordine, i fratelli non vollero abitare ad Alba senza regnare, né regnarvi finché il nonno materno era in vita. Dopo aver restituito il potere a Numitore ed aver reso alla madre gli onori dovuti, decisero di andare a vivere per proprio conto, fondando una città nei luoghi in cui erano stati allevati fin dalla nascita; questo infatti è il motivo più plausibile. 2. Ma forse era una scelta necessaria poiché molti servi e molti ribelli si erano uniti a loro: o sarebbero stati completamente annientati se si fossero dispersi, oppure sarebbero andati a stabilirsi insieme ai loro uomini da un’altra parte. Infatti gli abitanti di Alba non ritenevano giusto mescolarsi con i ribelli né accoglierli come cittadini; lo dimostra in primo luogo il ratto delle donne, che essi osarono non per spirito di violenza ma per necessità, in mancanza di matrimoni spontanei; e in effetti, dopo averle rapite, le rispettarono più del normale. 3. Appena fu realizzata la prima fondazione della città, istituirono (scil. Remo e Romolo) un luogo sacro come asilo per i ribelli, e lo intitolarono al dio Asilo: vi accoglievano tutti, non restituendo lo schiavo ai padroni, né il plebeo ai creditori, né l’omicida ai magistrati; affermavano anzi che per un responso dell’oracolo

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di Delfi potevano garantire a tutti il diritto di asilo, in modo tale che la città si riempì presto di gente, mentre si dice che i primi focolari non fossero più di mille. Ma di questo tratterò in seguito. 4. Mentre si accingevano a fondare una sola città, sorse subito tra di loro una controversia a proposito del luogo. Romolo dunque fondò quella che chiamano Roma quadrata, perché ha la forma di un quadrilatero, e voleva trasformare quel luogo in città; Remo invece scelse una posizione forte sull’Aventino, che da lui prese il nome di Remorium e oggi si chiama Rignarium. 5. Dopo aver stabilito di risolvere la contesa attraverso gli uccelli augurali e dopo essersi messi in luoghi diversi, si racconta che a Remo siano apparsi sei avvoltoi, a Romolo invece il doppio; alcuni sostengono che Remo li abbia visti realmente, che Romolo abbia mentito e che, quando giunse Remo, solo allora sarebbero apparsi a Romolo i dodici avvoltoi. Per questa ragione ancor oggi i Romani, per prendere gli auspici, si servono soprattutto di avvoltoi (traduzione di C. Ampolo). [9, 1-5]

SERVIO, commento a Virgilio, Eneide Romolo, presi gli auguri, gettò un’asta dal colle Aventino al Palatino; ed essa, conficcatasi nel terreno, mise le fronde e divenne un albero. [III 46 ]

BENEDIZIONE DEL PALATINO E FONDAZIONE DELLA «ROMA QUADRATA» DIONIGI DI ALICARNASSO, Antichità Romane 1. Dopo che non rimase più nulla a impedire la fondazione, Romolo, avendo fissato un giorno in cui dare inizio ai lavori dopo aver propiziato gli dèi, e avendo preparato tutto quanto sarebbe stato utile ai sacrifici e a ricevere il popolo, appena giunse il momento stabilito lui stesso sacrificò agli dèi e ordinò agli altri di fare per quanto possibile altrettanto, e come prima cosa prese gli auspici; poi, dopo aver ordinato di accendere dei fuochi di fronte alle tende, fece uscire il popolo e lo fece saltare oltre le fiamme per purificare le impurità. 2. Dopo che ritenne compiuto tutto ciò che secondo la sua opinione era gradito agli dèi, avendo chiamato tutti al luogo stabilito tracciò una

LE FONTI LETTERARIE

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figura quadrangolare attorno al colle, tirando un solco continuo destinato ad accogliere le fondamenta delle mura, con un bue e una giovenca aggiogati assieme all’aratro; da allora è ancora viva questa usanza dei Romani di tracciare un cerchio attorno ai luoghi delle fondazioni. Dopo aver compiuto ciò, dopo aver sacrificato entrambi i bovini e aver dato inizio a molti altri sacrifici, mise il popolo al lavoro. 3. Ancora ai miei giorni la città di Roma festeggia ogni anno questo giorno, non ritenendolo inferiore a nessuna festività, e lo chiamano Parilia. In esso, all’inizio della primavera, i contadini e i pastori fanno sacrifici di ringraziamento per la prosperità del bestiame. Ma non so dire con certezza se abbiano ritenuto questo giorno il più adatto alla fondazione della città perché già in tempi più antichi lo celebravano in allegria, o se lo abbiano reso sacro perché aveva dato inizio alla fondazione e abbiano quindi ritenuto giusto onorare in esso gli dèi cari ai pastori. [I 88, 1-3]

OVIDIO, Fasti Si sceglie il giorno adatto in cui tracciare il cerchio delle mura con l’aratro. 820 Erano vicine le sacre feste di Pales: da lì inizia l’opera. Si scava una fossa fino alla roccia, vi si getta in fondo il raccolto e la terra presa dal suolo vicino. La fossa è riempita di terra; una volta piena vi si colloca un’ara, e il nuovo fuoco vive di fiamma accesa. 825 Poi, premendo la stiva, traccia le mura con un solco; una bianca vacca con un niveo bue sostenne il giogo. Queste furono le parole del re: «O Giove, assistimi mentre fondo la città, e tu, padre Marte, e tu, madre Vesta; Osservatemi tutti, o dèi che è pio invocare! 830 Sotto il vostro auspicio abbia inizio questa mia opera. Abbia essa una lunga età e il potere sul mondo domato, e sia sotto di lei il giorno che nasce e che tramonta». Egli pregava, e Giove con un tuono dalla parte sinistra diede il presagio, e a sinistra nel cielo furono scagliati fulmini. 835 Lieti dell’augurio, i cittadini gettarono le fondamenta, e in poco tempo sorsero le nuove mura. (traduzione di L. Canali) [IV 819-836]

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TACITO, Annali Riguardo a ciò (scil. al diritto di ingrandire la città) l’ambizione o la gloria dei re vengono raccontate in modo diverso. Ma credo che non sia fuori luogo conoscere l’inizio della fondazione e quale pomerium sia stato fissato da Romolo. Dunque, il solco destinato a delimitare la città fu iniziato dal Foro Boario (dove oggi vediamo la statua d’oro di un toro, visto che questo è l’animale che si sottopone all’aratro) in modo che comprendesse la grande ara di Ercole; a partire da lì vennero intervallate le pietre a una distanza ben precisa lungo i piedi del Palatino fino all’ara di Conso, poi fino alle Curie antiche e infine fino al sacello di Larunda. Il Foro Romano e il Campidoglio vennero inglobati nella città, a quanto si crede, non da Romolo ma da Tito Tazio. In seguito il pomerium fu ampliato in proporzione alla fortuna della città. [XII 24]

PLUTARCO, Romolo 11, 1. Romolo, dopo aver sepolto nella Remoria il fratello e allo stesso tempo quelli che li avevano cresciuti, fondò la città, avendo fatto venire dall’Etruria uomini che gli spiegassero ogni cosa con alcune norme e testi sacri e che glieli insegnassero, come durante i misteri. 2. Scavò una fossa di forma circolare nella zona dove ora è il Comizio, per deporvi le primizie di tutto quanto era utile secondo consuetudine o necessario secondo natura. Ed infine ciascuno, portando un po’ di terra dal paese da cui proveniva, la gettò dentro e la mescolò insieme. Chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo, mundus. Poi, considerando questo punto come centro, tracciarono il perimetro della città. 3. Il fondatore attaccò al suo aratro un vomere di bronzo, vi aggiogò un bue e una mucca, ed egli stesso li conduceva, tracciando un solco profondo lungo la linea di confine. Era compito di quanti lo seguivano rivoltare all’interno del solco le zolle che l’aratro sollevava e stare attenti che nessuna restasse fuori. 4. Con questo tracciato dunque fissano il percorso delle mura, e con una forma sincopata lo chiamano pomoerium, che vuol dire «dopo, o dietro, il muro»; dove intendono mettere una porta, tirano fuori il vomere, sollevano l’aratro e lasciano uno spazio in mezzo. 5. Per questo motivo considerano sacra tutta la cinta muraria ad eccezione delle porte; considerando sacre anche le porte, non era possibile far entrare e uscire senza timore religioso le cose ne-

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cessarie e tuttavia impure. 12, 1. C’è accordo sul fatto che la fondazione della città avvenne nell’undicesimo giorno prima delle calende di maggio; e i Romani festeggiano questo giorno, chiamandolo natale della patria. In origine, si dice, non sacrificavano alcun essere animato, ma pensavano che la festa dedicata alla nascita della patria si dovesse conservare pura e senza spargimento di sangue. 2. Tuttavia, anche prima della fondazione, in quel giorno essi celebravano una festa pastorale, che chiamano Parilia. Ora però l’inizio dei mesi romani non coincide con quello dei mesi greci; ma dicono che il giorno in cui Romolo fondò la città era esattamente il trenta del mese; e la congiunzione della luna con il sole in quello stesso giorno aveva provocato una eclissi, che pensano abbia conosciuto anche il poema epico Antimaco di Teos, verificatasi nel terzo anno della sesta Olimpiade (traduzione di C. Ampolo). [11, 1-12, 2]

GELLIO, Notti attiche Ma il pomerium più antico, che fu istituito da Romolo, si arrestava alle radici del monte Palatino. [XIII 14, 2]

GIOVANNI LIDO, I mesi Undici giorni prima delle Calende di maggio Romolo fondò Roma, avendo riunito tutti gli abitanti delle zone vicine e avendo ordinato loro di portare con sé una zolla della propria terra, auspicando che così Roma dominasse tutta la regione. Quanto a lui, postosi a capo dell’intera funzione sacra, presa una tromba sacra – per tradizione avita i Romani sono soliti chiamarla «lituo» da lité, «preghiera» – fece risuonare il nome della città. La città ebbe tre nomi, uno iniziatico, uno sacro e uno politico: quello iniziatico è Amore, cioè Eros, in modo che tutti siano pervasi da un amore divino per la città, motivo per cui il poeta nei carmi bucolici la chiama enigmaticamente Amarillide; quello sacro è Flora, cioè «fiorente», da cui deriva la festa dei Floralia in suo onore; quello politico è Roma. Quello politico era noto a tutti e veniva pronunciato senza alcun timore, mentre evocare quello iniziatico era permesso solo ai pontefici massimi durante i riti sacri; e si dice che una volta un magistrato fu punito per aver osato rendere noto il nome iniziatico al popolo. Dopo la proclamazione della città, aven-

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do aggiogato un toro adulto con una giovenca, tracciò la cerchia delle mura, avendo posto il bovino maschio dal lato dei campi e la femmina dalla parte della città, affinché i maschi terrorizzassero quelli che erano fuori e le femmine generassero quelli che erano dentro le mura. E prendendo una zolla da fuori la città la gettò verso l’interno insieme con quelle portate dagli altri, auspicando così che essa si sarebbe ingrandita a spese degli esterni senza sosta e in breve tempo. Giungendo in essa molti stranieri, gli uomini scelti di Romolo cedettero ai forestieri metà dei loro beni, persuadendoli ad abitare a Roma; e Romolo chiamò loro per primo «patrizi» perché discendevano da nobili padri e avevano dato le loro ricchezze agli stranieri per il bene della patria. [IV, 73]

ZONARA Romolo, avendo sepolto il fratello, iniziò a fondare la città; avendo aggiogato un bue a una giovenca e fissato un vomere di bronzo all’aratro, descrisse un profondo solco circolare, e gli altri seguendolo rivoltavano all’interno del solco tutte le zolle sollevate dall’aratro. E nel punto in cui sarebbero state alzate le mura, come si è detto, veniva tracciato il solco, mentre lì dove pensavano di innalzare le porte facevano un’interruzione del solco sollevando in alto l’aratro. Infatti ritengono sacro tutto il muro; se avessero ritenute sacre le mura, non sarebbe stato lecito far entrare e uscire attraverso esse cose necessarie e tuttavia impure. La fondazione di questa città fu compiuta undici giorni prima delle calende di maggio, che è come dire il ventesimo giorno di aprile; e i Romani festeggiano questo giorno chiamandolo natale della patria. Si tramanda che Romolo avesse diciotto anni quando fondò Roma; la collocò presso la casa di Faustolo, e il luogo fu chiamato Palatino. [VII 3]

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L’IMPRESA DEL FORO, DEL CAMPIDOGLIO E DELL’ARCE IL FORO Il Santuario di Vesta • Auspici per creare il Santuario OVIDIO, Fasti Al mattino la terra era molle di gocce di rugiada: Il popolo è raccolto davanti alla porta del suo re. Egli appare e siede in mezzo a loro sul trono d’acero; 360 Una folla innumerevole si dispone intorno tace Febo era spuntato soltanto con l’orlo superiore del suo disco: I cuori ansiosi trepidano di speranza e timore. Il re rimase immobile, e velato il capo d’un candido Velo sollevò le mani già ben note agli dei, 635 E disse così: «È giunta l’ora del dono annunciato; O Giove tieni fede alle tue parole secondo la promessa». Mentre parla, il sole aveva mostrato intero il suo disco, E dall’alto del cielo venne un profondo fragore. Il dio tuonò tre volte senza una nube, e scagliò 370 Tre fulmini: credetemi, dico cose prodigiose ma vere: Alla metà del suo spazio il cielo cominciò ad aprirsi: La folla insieme con il sovrano sollevò lo sguardo. Ed ecco discende uno scudo oscillante appena nell’aria leggera: Dalla turba si leva un grido che giunge agli astri. 375 Numa solleva il dono da terra, sacrificata prima Una giovenca che non aveva mai sottoposto il collo al giogo, E lo chiama ancile, poiché appariva tagliato in tondo Da ogni parte e privo di qualsiasi angolo comunque lo si guardasse. (traduzione di L. Canali) [III 357-378]

DIONIGI DI ALICARNASSO, Antichità Romane Riguardo la costruzione del santuario (scil. di Vesta), alcuni la attribuiscono a Romolo, ritenendo inconcepibile che quando una città è fondata da

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un uomo esperto in divinazione non sia allestito per prima cosa un focolare comune della città, e in particolare essendo il fondatore allevato ad Alba, dove il tempio di questa dea era stato eretto in tempi antichi, ed essendo stata sua madre sacerdotessa della dea. [II 65, 1]

Il Foro come piazza DIONIGI DI ALICARNASSO, Antichità Romane 1. Romolo e Tazio resero subito la città più grande aggiungendo due colli, chiamati Quirinale e Celio, e avendo diviso le loro abitazioni l’uno dall’altro vivevano ciascuno nella propria zona: Romolo occupava il colle Palatino e il Celio (che è adiacente al Palatino), Tazio le alture del Campidoglio, che occupava fin dall’inizio, e del Quirinale. 2. Quanto alla pianura ai piedi del Campidoglio, tagliato il bosco che vi cresceva e riempita la maggior parte della palude che per la concavità del luogo si arricchiva delle acque che scendevano dai monti, vi posero il Foro, che i Romani continuano a frequentare anche oggi, e vi tenevano le assemblee, mentre gestivano gli affari nel tempio di Vulcano, che si trova poco sopra il Foro. [II 50, 1-2]

Il Santuario di Vulcano e il Comizio PLUTARCO, Romolo 9. Per questo, si misero d’accordo ... che i Romani e i Sabini abitassero in comune la città, e che, mentre la città si sarebbe chiamata Roma da Romolo, tutti i Romani si sarebbero chiamati Quiriti dalla patria di Tazio; e che i due avrebbero regnato in comune e che entrambi avrebbero comandato l’esercito. 10. Il luogo dove si stabilirono questi accordi si chiama ancora oggi comizio. I Romani infatti dicono il riunirsi comire (traduzione di C. Ampolo). [19, 9-10]

CASSIO DIONE ... quelli (scil. Romani e Sabini), che le ascoltavano e le vedevano, scoppiarono a piangere, cessarono la lotta e così come stavano andarono insieme a trattare nel luogo che per questo motivo fu chiamato comizio. [fr. 5, 5 Boissevain]

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L’IMPRESA DELL’ORDINAMENTO DEL «REGNUM» O DELLA «CONSTITUTIO ROMULI» L’ORDINAMENTO

DEL TEMPO

GELLIO, Notti attiche ... , una parte di loro sosteneva che anche all’età di Omero, così come di Romolo, l’anno fosse non di dodici ma di dieci mesi. [III 16, 16]

GIOVANNI LIDO, I mesi Da Crono fino alla fondazione di Roma l’anno continuò a essere osservato in base al corso della luna, e venne misurato da Romolo, ... , in dieci mesi, alcuni con trentuno giorni, altri con trenta giorni. Infatti non basavano ancora la misurazione del tempo sul moto del sole. [I, 16]

CENSORINO È vero che Licinio Macro e poi Fenestella scrissero che l’anno solare fu fin dall’inizio di dodici mesi; ma bisogna credere di più a Giunio Graccano, Fulvio, Varrone, Svetonio e altri, che pensano che fu di dieci mesi, come era allora per gli Albani, da cui ebbero origine i Romani. [XX 2]

Chronographus anni CCCLIIII Romolo, figlio di Marte e di Silvia, regnò 38 anni. ... . Stabilì dieci mesi per anno, da marzo a dicembre; [MGH-AA IX.1 p. 144 ed. Mommsen]

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L’ORDINAMENTO

DELLO SPAZIO E DEGLI UOMINI

CICERONE, La repubblica Ma dopo la morte di Tazio, quando ogni potere era tornato nelle sue (scil. di Romolo) mani, sebbene con Tazio aveva accolto gli uomini più illustri nel consiglio regio (che furono chiamati «Padri» per l’affetto che nutriva verso di loro) e aveva diviso il popolo in tre tribù chiamate con il suo nome, con quello di Tazio e di Lucumone – alleato di Romolo ucciso nella guerra sabina – e in trenta curie (che designò con i nomi delle vergini sabine rapite dopo che erano state supplici di pace e di alleanza), sebbene tali cose erano state realizzate essendo vivo Tazio, tuttavia dopo che era stato ucciso, Romolo regnò ancor più secondo l’autorità e il consiglio dei padri. [II vii, 14]

DIONIGI DI ALICARNASSO, Antichità Romane 1. Vi è accordo sul fatto che Romolo, indicato come re in questo modo dagli uomini e dagli dèi, fu abile e intrepido in guerra e molto sapiente nell’elaborare la costituzione migliore. Passerò in rassegna le sue imprese, tanto politiche quanto guerresche, che si potrebbero menzionare in una narrazione storica. 2. Parlerò innanzitutto dell’ordinamento della costituzione, che io ritengo la più autosufficiente tra i sistemi politici in guerra e in pace. Esso era organizzato così: avendo diviso l’intera popolazione in tre, prepose a ognuna delle parti il capo più nobile; poi, avendo nuovamente diviso ognuna delle tre parti in dieci gruppi, mise a capo anche di questi i comandanti più valorosi; e chiamò quelle più grandi «tribù», quelle più piccole «curie», come vengono chiamate ancora ai miei tempi. 3. Questi nomi si potrebbero rendere in lingua greca chiamando la tribù phyle e trittys, e la curia phratra e lochos, e gli uomini che si trovano a capo delle tribù, che i Romani chiamano «tribuni», phylarchoi e trittyarchoi, mentre quelli che guidano le curie, che loro chiamano «curioni», phratriarchoi e lochagoi. 4. Divise ancora le curie in dieci, e ognuna era comandata da un capo, chiamato nella lingua locale «decurione». Quando tutti furono divisi e organizzati in tribù e curie, avendo diviso il territorio in trenta parti uguali ne assegnò una per ogni curia, dopo averne destinato una parte sufficiente a templi e santuari e riservato altra terra all’uso pubblico. Que-

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st’unica divisione compiuta da Romolo riguardo agli uomini e alla terra era tale da implicare la massima uguaglianza di tutti. [II 7, 1-4]

DIONIGI DI ALICARNASSO, Antichità Romane 1. Subito dopo ... , Romolo ritenne giusto nominare dei consiglieri con cui avrebbe gestito le cose pubbliche, scegliendo cento uomini tra i patrizi. Fece la scelta in questo modo: lui ne nominò uno, il migliore di tutti, cui pensava si dovesse affidare l’amministrazione della città quando lui guidava una campagna militare all’estero; 2. poi ordinò a ogni tribù di scegliere tre uomini che fossero nell’età più assennata e insigni per nobiltà. Dopo questi nove, ordinò ancora a ogni curia di indicare tre patrizi che fossero particolarmente abili; aggiungendo poi ai primi nove scelti dalle tribù questi novanta che erano stati forniti dalle curie, e scegliendone come capo uno che aveva scelto lui, raggiunse il numero di cento consiglieri. 3. Questa assemblea, esprimendosi in greco, potrebbe essere chiamata gherousia, cioè «consiglio degli anziani», e ancora oggi viene chiamata così dai Romani («senato»). Non so però dire con sicurezza se abbia ricevuto questo nome per l’anzianità o per la virtù degli uomini scelti a farne parte; infatti gli antichi solevano chiamare i più anziani e i migliori gerontes («vecchi»). Quelli che facevano parte del senato vennero chiamati «padri coscritti», e ancora al mio tempo ricevono questo appellativo. Anche questa istituzione è un’usanza greca: 4. infatti i re che ricevevano i regni paterni e quelli che erano stati nominati governanti dal popolo avevano un consiglio composto dai migliori, come testimoniano Omero e i poeti più antichi, e il potere dei re antichi non era personale e arbitrario come quello dei nostri tempi. [II 12, 1-4]

DIONIGI DI ALICARNASSO, Antichità Romane Avendo istituito questo corpo, stabilì gli onori e i poteri che voleva spettassero a ogni gruppo. Dunque, al re (scil. Romolo) riservò questi poteri: innanzitutto, l’essere a capo dei riti e dei sacrifici, e che tutte le cerimonie divine venissero eseguite da lui; poi, la custodia delle leggi e delle usanze dei padri e la gestione di tutta la giustizia, tanto quella naturale quanto quella civile, e il potere di giudicare i reati più gravi, affidando il giudizio su quelli minori ai senatori, in modo che nelle sentenze non avvenisse al-

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cun errore; convocare il senato, riunire il popolo, esprimere la propria opinione per primo ed eseguire le decisioni della maggioranza. Al re diede questi poteri e in più il supremo potere decisionale in guerra. [II 14, 1]

DIONIGI DI ALICARNASSO, Antichità Romane Alla massa del popolo riservò queste tre prerogative: scegliere i magistrati, ratificare le leggi e decidere sulla guerra, qualora il re glielo permettesse; ma neanche su queste cose il popolo aveva potere assoluto, qualora anche il senato non avesse deciso lo stesso. Il popolo non votava tutto insieme, ma convocato per curie, e ciò che veniva deciso dalla maggioranza delle curie veniva riferito al senato. L’usanza è rimasta fino ai nostri tempi: infatti il senato non vaglia ciò che è stato votato dal popolo, ma al contrario è il popolo ad avere il potere su ciò che è stato deciso dal senato; lascio in sospeso, per chi lo voglia decidere, quale sia la migliore tra le due cose. [II 14, 3]

LIVIO 1. Compiute le cerimonie divine secondo il rito e chiamata in assemblea la folla, che non si sarebbe fusa nel corpo di un unico popolo se non con le leggi, le dettò il diritto; 2. e avendo pensato che per quella rude stirpe di uomini esso sarebbe stato sacro solo se lui stesso si fosse reso venerabile con le insegne del comando, si rese più splendente non solo con il resto del portamento ma soprattutto con la scelta di dodici littori. 3. Altri pensano che abbia scelto questo numero per quello degli uccelli che gli avevano conferito il regno con l’augurio; a me non dispiace seguire l’opinione di quelli per i quali sia questo genere di guardie sia il loro numero sarebbero stati derivati dai vicini Etruschi, dai quali derivano anche la sella curule e la toga pretesta; gli Etruschi facevano così perché, una volta scelto un re da dodici popoli in comune, ogni popolo forniva un littore. [I 8, 1-3]

SESTO POMPONIO, Digesta Dopo che la città aumentò in una certa misura, si tramanda che Romolo divise il popolo in trenta parti, che chiamò curie perché allora ammini-

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strava la cura dello stato attraverso il parere di quelle parti. E così egli stesso propose al popolo alcune leggi curiate, che restano tutte scritte nel libro di Sestio Papirio, uomo notabile che visse al tempo di Superbo, figlio di Demarato di Corinto. Quel libro, come abbiamo detto, si chiama Diritto civile di Papirio, non perché Papirio vi abbia aggiunto qualcosa di suo, ma perché ordinò in un unico corpo leggi emanate senza ordine. [I 2, 2]

I

NEMICI

Nemici interni all’«ager» • Remo DIONIGI DI ALICARNASSO, Antichità Romane Alcuni dicono che egli cedette a Romolo il comando, ma, adirato e sdegnato per l’inganno, dopo che venne costruito il muro, volendo mostrare che la fortificazione era scadente disse: «Ecco, un vostro nemico potrebbe scavalcarlo senza difficoltà, come me», e subito lo superò con un salto. Celerio, uno di quelli che stavano sul muro e che soprintendeva ai lavori, disse: «E allora uno di noi potrebbe punire questo nemico senza difficoltà!», e lo colpì in testa con una vanga uccidendolo sul colpo; e si dice che questa sia stata la fine della contesa tra i fratelli. [I 87, 4]

LIVIO 2. La versione più diffusa dice che Remo, per schernire il fratello, saltò al di là delle mura appena costruite, e perciò fu ucciso da Romolo, dopo che, aggredendolo anche a parole, concluse: «Lo stesso accada a chiunque scavalcherà le mie mura». 3. Così Romolo si impadronì da solo del regno; la città fondata venne chiamata con il nome del fondatore. Per prima cosa fortificò il Palatino, dove era stato allevato. [I 7, 2-3]

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OVIDIO, Fasti Affretta l’opera Celere, che Romolo stesso aveva chiamato e al quale aveva detto: «Celere, questi lavori siano sotto la tua cura, e nessuno attraversi le mura o il fossato fatto con il vomere: 840 Dà la morte a chi si azzardi a un tale atto!». Non sapendo ciò, Remo iniziò a criticare le umili mura e a dire: «Il popolo sarà protetto da queste?», e senza indugio, le scavalcò. Celere con la zappa colpisce il temerario, e quello preme la dura terra in un lago di sangue. 845 Appena il re lo seppe, rimandò giù le lacrime che nascevano e tenne la ferita chiusa nel cuore. Non vuole piangere apertamente, osserva gli esempi di forza, e dice: «Il nemico attraversi le mie mura in questo modo» (traduzione di L. Canali). [IV 837-848]

PLUTARCO, Romolo 1. Quando Remo scoprì l’inganno (scil. di Romolo), si adirò; e, poiché Romolo scavava un fossato con cui avrebbe circondato tutt’intorno le mura, si faceva beffe dei suoi lavori e cercava di ostacolarli. 2. Alla fine superò il fossato con un salto; dicono che cadde lì, secondo alcuni colpito dallo stesso Romolo, secondo altri da uno dei suoi compagni, un certo Celere. Nello scontro caddero anche Faustolo e Plistino, che – a quanto dicono – era fratello di Faustolo e lo aveva aiutato a tirar su Romolo e il fratello (traduzione di C. Ampolo). [10, 1-2]

PLUTARCO, Questioni romane e greche Perché ritengono (scil. i Romani) ogni fortificazione inviolabile e sacra e le porte no? O, come scrisse Varrone, bisogna considerare sacra una fortificazione perché su quella combattono arditamente e muoiono? Così infatti sembra che anche Romolo uccise il fratello poiché tentava di valicare un luogo sacro e inviolabile. [270 F-271 A]

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FLORO A proteggere la nuova città sembrava bastare un fossato; mentre Remo criticava la sua strettezza saltandolo, venne immolato, non si sa se per ordine del fratello: certo è che fu la prima vittima e che inaugurò con il suo sangue le fortificazioni della nuova città. [I 1, 8]

• Gli abitanti del sito di Roma e dei centri ai limiti dell’«ager» DIONIGI DI ALICARNASSO, Antichità Romane 1. Le altre imprese da lui compiute, sia quelle in guerra sia quelle in patria, di cui si potrebbe parlare in un’opera storica, sono tramandate come segue. 2. Poiché intorno a Roma abitavano molti popoli grandi e valorosi in guerra, nessuno dei quali era amico dei Romani, volendo legarsi a loro per mezzo di matrimoni (costume a quanto pare ben consolidato degli antichi quando volevano stabilire alleanze), ma vedendo che le città non si sarebbero unite volentieri a loro, che si erano stabiliti da poco, non si distinguevano per ricchezze e non avevano compiuto alcuna opera gloriosa, ma che se forzate avrebbero ceduto purché alla forza non si accompagnasse alcuna violenza, ebbe l’idea, alla quale si associò anche suo nonno Numitore, di procurarsi i matrimoni con un rapimento di vergini riunite. [II 30, 1-2]

LIVIO 1. Lo stato romano era già tanto vigoroso da essere pari in guerra a qualsiasi città confinante, ma per la scarsità di donne la grandezza sarebbe durata solo una generazione, visto che non avevano né speranza di fare figli in patria né legami matrimoniali con i popoli confinanti. 2. Allora, su proposta dei senatori, Romolo inviò ambasciatori ai popoli vicini a chiedere alleanza e matrimoni per il nuovo popolo: 3. dicevano che anche le città, come tutte le altre cose, nascono piccole; poi, quelle che vengono aiutate dal proprio valore e dagli dèi, riescono a procurarsi grande potenza e un grande nome; 4. era ben noto che all’origine di Roma avevano contribuito gli dèi, e quanto al valore, non sarebbe mancato; perciò non dovevano vergognarsi di mescolare il sangue e la stirpe, uomini con uomini. 5. L’amba-

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sceria non trovò accoglienza favorevole da nessuna parte, tanto li disprezzavano e insieme temevano per sé e per i loro posteri una simile potenza crescente tra loro. E spesso furono mandati via sentendosi chiedere perché mai non avessero aperto l’asilo anche alle donne; quello sì che sarebbe stato un matrimonio degno! 6. La gioventù Romana si offese e iniziò a pensare senza più dubbi a un atto di forza. [I 9, 1-6]

GIOVANNI MALALA, Cronografia Sotto il regno del medesimo Romo, l’esercito, costituito da uomini di ogni provenienza, si accrebbe molto, e a Roma vi era una folla di uomini rustici, ma rispetto a quella massa di persone non c’erano donne. Gli eserciti di giovani sentivano il naturale desiderio, e così assalirono le donne nella piazza e scoppiò un tumulto e un conflitto tra cittadini. Romo, non sapendo che fare, era scoraggiato, perché nessuna delle donne accettava di unirsi ai soldati in quanto rustici e barbari. Allora proclamò una legge per cui i soldati avrebbero preso in matrimonio le vergini, che chiamò Brutidi, ma nessuno volle dare loro la propria figlia: dicevano che a causa delle guerre quelli non avevano neanche la speranza di una vita quotidiana, e tutti le davano in matrimonio a quelli di città. Romo, scoraggiato, andò a consultare l’oracolo, e gli fu data la risposta di celebrare per le donne uno spettacolo equestre affinché l’esercito potesse procurarsi le donne. [l. VII, pp. 177-178 CSHB]

• Acrone CIL X 809 (Pompei, Edificio di Eumachia) Romolo figlio di Marte fondò la città di Roma e regnò quarantadue anni Come primo condottiero, ucciso il condottiero dei nemici Acrone, re dei Ceninesi, consacrò a Giove Feretrio le spoglie opime.

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LIVIO 1. Ormai gli animi delle rapite erano del tutto mitigati, ma allora più che mai i loro genitori, vestiti a lutto e tra pianti e lamentele, sobillavano i cittadini. E non limitavano la loro indignazione in patria, ma da ogni dove la gente si univa a Tito Tazio, re dei Sabini, e gli giungevano ambascerie, perché in quelle zone il nome di Tazio era grandissimo. 2. I Ceninesi, i Crustumini e gli Antemnati erano in parte toccati da quell’affronto; sembrò loro che Tazio e i Sabini agissero lentamente, e così questi tre popoli prepararono insieme la guerra da sé. 3. Ma neanche i Crustumini e gli Antemnati si mossero abbastanza rapidamente per l’ardore e l’ira dei Ceninesi, e così la stirpe ceninese assalì il territorio romano da sola. 4. Ma mentre saccheggiavano sfrenatamente, Romolo li affrontò con l’esercito, e con un combattimento facile insegnò loro che l’ira senza forze è inutile: sbaragliò e mise in fuga l’esercito, dopo averlo sbaragliato lo inseguì; uccise il re in battaglia e lo spogliò; ucciso il capo dei nemici, prese la loro città al primo assalto. 5. Poi, ricondotto in patria l’esercito vincitore, Romolo, uomo glorioso nel compiere le imprese ma non meno pronto a ostentarle, salì sul Campidoglio portando le spoglie del capo nemico ucciso appese a un carro costruito per l’occasione, e lì, depostele ai piedi di una quercia sacra ai pastori, insieme al dono segnò i confini di un tempio di Giove, e aggiunse al nome del dio un epiteto. 6. «Giove Feretrio – disse – io, re Romolo vincitore, ti porto queste armi regie e ti dedico un tempio in quest’area che ho appena delimitato con la mente, sede di spoglie opime che i posteri, seguendo il mio esempio, ti offriranno dopo aver ucciso i re e i condottieri dei nemici». 7. Questa è l’origine del tempio che per primo venne consacrato a Roma. E così in seguito gli dèi vollero che non fosse vana la preghiera del fondatore del tempio per la quale che i posteri avrebbero portato lì le spoglie, né che la lode di quel dono perdesse valore per la frequenza di chi la conseguì: solo altre due volte, in tanti anni e in tante guerre, furono prese le spoglie opime. Tanto rara fu la fortuna di quell’onore. [I 10, 1-7]

PROPERZIO 1

Ora inizierò a spiegare le origini di Giove Feretrio e le tre spoglie prese a tre condottieri. Affronto una grande salita, ma la gloria mi dà forze:

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non mi piace la corona presa da una cima facile. Tu, Romolo, fornisci l’esempio di questa prima palma e torni dai nemici pieno di spoglie, al tempo in cui vincitore abbattesti con la lancia sul cavallo sdraiato Acrone ceninese, che assaliva le porte della città. Acrone, condottiero erculeo dalla rocca di Cenina, 10 era un tempo un terrore per i tuoi confini, o Roma! Fu lui, che aveva osato sperare di prendere le spoglie dalle spalle di Quirino, a dare le sue, ma non asciutte del suo sangue. Romolo lo vide scagliare lance davanti alle cave torri e lo anticipò con preghiere ascoltate: 15 «Giove, ecco oggi Acrone cadrà per te come vittima». Aveva pregato, e quello cadde come spoglia per Giove. 5

[IV 10, 1-16]

PLUTARCO, Romolo 1. I Sabini erano molti e bellicosi, ma vivevano in villaggi non fortificati, perché essi, come coloni degli Spartani, si sentivano in dovere di essere orgogliosi e senza paura. Nondimeno, vedendosi legati da ostaggi cui tenevano molto e temendo per le loro figlie, mandarono ambasciatori con richieste eque e moderate: che Romolo restituisse loro le fanciulle e riparasse al suo atto di forza; quindi avrebbero instaurato rapporti di amicizia e di familiarità tra i due popoli con la persuasione e secondo le regole. 2. Poiché Romolo non voleva restituire le fanciulle e invitava i Sabini ad accogliere l’unione con Roma, essi passavano il tempo in discussioni e in preparativi. Tuttavia Acrone, re di Cenina, uomo risoluto e temibile in guerra, si insospettì delle prime audacie di Romolo; ritenendo che, dopo quanto era accaduto alle donne, egli sarebbe stato un pericolo intollerabile per tutti se non fosse stato punito, passò all’offensiva e con un grande esercito avanzava contro Romolo, e Romolo contro di lui. 3. Non appena giunsero in vista l’uno dell’altro e si furono scrutati, i due capi si sfidarono a duello, mentre gli eserciti in armi rimanevano fermi. Allora Romolo fece voto che, se avesse vinto e abbattuto l’avversario, egli stesso avrebbe portato a Giove le armi del nemico e gliele avrebbe consacrate; lo vinse e lo uccise e, scoppiata la battaglia, ne mise in fuga l’esercito. Conquistò anche la città; tuttavia, non recò oltraggio ai prigionieri, ma ordinò loro di abbattere le

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case e di seguirlo a Roma, dove sarebbero divenuti cittadini con pieni diritti. Invero, nulla più di questo accrebbe Roma: incorporare sempre e rendere partecipi della cittadinanza i popoli sconfitti. 4. Romolo intanto, riflettendo come potesse soddisfare meglio il voto a Giove e offrire ai cittadini uno spettacolo piacevole a vedersi, là dove erano accampati tagliò una quercia gigantesca e le diede forma di trofeo, poi vi appese le armi di Acrone disposte in ordine una ad una; egli stesso, indossata la veste, si cinse di alloro la testa chiomata. 5. Sollevato il trofeo, che teneva diritto poggiandolo sulla spalla destra, procedeva intonando il canto della vittoria, al quale rispondeva l’esercito che lo seguiva in armi, mentre i cittadini l’accoglievano pieni di gioia e di ammirazione. Questa processione, dunque, fu l’inizio e il modello dei trionfi successivi; il trofeo fu dedicato come offerta votiva a Giove Feretrio. 6. I Romani dicono ferire l’atto di colpire; e Romolo aveva chiesto col suo voto di colpire e di abbattere il nemico. Secondo Varrone queste spoglie furono dette opime poiché i Romani definiscono ops la ricchezza; ma qualcuno potrebbe dire più esattamente che il nome sia derivato dall’opera compiuta; infatti essa si dice opus e il consacrare le spoglie opime si concede al comandante che da solo e con valore abbia ucciso il comandante nemico. 7. Solo tre volte ai comandanti romani è stato concesso questo onore: per primo a Romolo che uccise Acrone di Cenina, come secondo a Cornelio Cosso che abbatte l’etrusco Tolumnio, e da ultimo a Claudio Marcello che vinse il re dei Galli Britomartos. Tanto Cosso quanto Marcello celebrarono il trionfo su quadrighe, portando di persona i loro trofei; Dionisio è inesatto quando dice che Romolo si servì di un carro. 8. Si narra che Tarquinio, figlio di Demarato, fu il primo re a portare i trionfi a questa forma di lusso; altri dicono che il primo a celebrare il trionfo su di un carro sia stato Publicola. Le raffigurazioni di Romolo, che si possono vedere a Roma, lo rappresentano tutte mentre porta il trofeo a piedi (traduzione di C. Ampolo). [16, 1-8]

• Tarpeio e Tito Tazio CICERONE, La repubblica Avendo i Sabini dichiarato guerra ai Romani per questo motivo ed essendo stato alterno e incerto l’esito della battaglia, fece (scil. Romolo) un patto con Tito Tazio, re dei Sabini, su preghiera delle stesse matrone che era-

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no state rapite; e con questo patto non solo accolse i Sabini nella città, avendo messo in comune con loro i riti sacri, ma associò anche il suo regno con il loro re. [II 13]

DIONIGI DI ALICARNASSO, Antichità Romane 1. ... . E i popoli (scil. Romani e Sabini) decisero come prima cosa una tregua, poi, dopo che i re si incontrarono, un trattato di alleanza. 2. Le decisioni prese dai re sotto giuramento furono queste: Romolo e Tazio sarebbero stati re dei Romani alla pari e con gli stessi onori; la città si sarebbe chiamata come il fondatore, conservando lo stesso nome di Roma, e ognuno dei suoi abitanti si sarebbe chiamato Romano, come prima, mentre tutti quelli della patria di Tazio sarebbero stati indicati con il nome comune di Quiriti; i Sabini che lo volevano avrebbero abitato a Roma, partecipando a cerimonie comuni e facendosi assegnare a tribù e curie. 3. Avendo giurato queste cose e, oltre ai giuramenti, avendo costruito altari all’incirca a metà della cosiddetta Via Sacra, si mescolarono. Gli altri generali, riunite le loro truppe, tornarono a casa; invece il re Tazio e con lui tre uomini delle famiglie più nobili restarono a Roma e ricevettero onori di cui godette la stirpe discesa da loro; erano Voluso Valerio, Tallo soprannominato Tiranno e infine Mettio Curzio, che aveva attraversato a nuoto la palude con le armi, con i quali rimasero i loro compagni, parenti e clienti, in numero non inferiore a quello dei nativi. [II 46, 1-3]

LIVIO 5. L’ultima guerra venne dai Sabini, e fu di gran lunga la più difficile: infatti niente venne compiuto per ira o avidità, e prima di muovere guerra non fecero trapelare nulla. 6. Alla prudenza si aggiunse anche l’inganno. Spurio Tarpeio era a capo della rocca romana. Tazio ne corruppe la figlia vergine con l’oro affinché accogliesse i soldati nella rocca; in quel momento essa era uscita per caso dalle mura a cercare acqua per i riti sacri. 7. Dopo che furono fatti entrare, la uccisero coprendola di armi, o perché la rocca desse meglio l’impressione di essere stata presa con la forza o per dare l’esempio che nei confronti di un traditore non vale mai la parola data. 8. La leggenda aggiunge che, poiché i Sabini spesso portavano bracciali d’oro

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di grande peso al braccio sinistro e anelli gemmati di grande bellezza, lei avesse chiesto ciò che portavano alla mano sinistra: perciò vennero ammassati su di lei gli scudi invece dei doni d’oro. [I 11, 5-8]

LIVIO 2. Allora le donne sabine, per il cui rapimento era nata la guerra, con i capelli sciolti e le vesti stracciate, essendo il timore femminile stato vinto dalle disgrazie, osarono mettersi tra le frecce volanti; precipitatesi nel mezzo, separavano le schiere nemiche, separavano le ire, pregando da un lato i padri, dall’altro i mariti di non macchiarsi del sangue maledetto del suocero e del genero, per non contaminare con un omicidio la loro prole, stirpe di nipoti per gli uni, di figli per gli altri: 3. «Se non tollerate la parentela tra di voi e il matrimonio, rivolgete le vostre ire contro di noi: noi siamo la causa della guerra, noi delle ferite e delle uccisioni dei mariti e dei genitori; sarà meglio morire piuttosto che vivere, o vedove o orfane, senza uno di voi due!». 4. Il gesto commosse sia la moltitudine sia i comandanti; d’improvviso calarono il silenzio e la quiete; poi i comandanti avanzarono per stipulare l’alleanza. E non fecero solo la pace, ma fecero anche di due un’unica città. Resero comune il regno, trasferirono ogni comando a Roma. 5. Raddoppiata così la città, per dare comunque qualcosa ai Sabini, si chiamarono «Quiriti» da Curi. [I 13, 2-5]

VALERIO MASSIMO Durante il regno di Romolo, Spurio Tarpeio era il comandante dell’arce. Tazio convinse la figlia di questo, vergine uscita dalle mura per attingere acqua per riti, ad accogliere con sé i Sabini armati nell’arce, avendo stabilito come ricompensa ciò che portavano alle mani sinistre: qui avevano bracciali e anelli d’oro di grande peso. Impadronitosi del luogo, l’esercito sabino uccise la fanciulla che reclamava il compenso, avendola sepolta sotto le armi (scil. gli scudi), così mantenne la promessa poiché anche quelle portavano al braccio sinistro. Non vi sia biasimo, poiché l’empio tradimento fu vendicato da una rapida condanna. [IX 6, 1]

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PLUTARCO, Romolo 2. ... Gli altri Sabini, mal sopportando la situazione, nominarono comandante Tazio e marciarono contro Roma. La città non era facilmente accessibile, poiché la difendeva l’attuale Campidoglio, dove stazionava una guarnigione con a capo Tarpeio, non la vergine Tarpeia, come alcuni dicono, facendo apparire Romolo uno sciocco; Tarpeia, invece, che era la figlia del comandante, consegnò la rocca ai Sabini: desiderosa di possedere i braccialetti d’oro che aveva visto alle loro braccia, chiese come ricompensa del tradimento quello che portavano al braccio sinistro. 3. Tazio si disse d’accordo, e di notte Tarpeia apri una porta e fece entrare i Sabini. Come sembra, dunque, Antigono non fu il solo a dire di amare coloro che tradiscono, ma di odiarli quando hanno tradito; né Cesare che, a proposito di Remetalce il Trace, diceva di amare il tradimento, ma di odiare il traditore. Questo, tuttavia, è un sentimento comune nei confronti degli abbietti da parte di chi ha bisogno di loro, come si ha bisogno del veleno e del fiele di alcuni animali: si prendono volentieri quando servono, ma se ne odia la malvagità quando si è raggiunto lo scopo. 4. E allora Tazio nutrendo lo stesso sentimento nei confronti di Tarpeia, comandò ai Sabini di ricordarsi dei patti e di non negare alla ragazza nulla di ciò che portavano al braccio sinistro: egli per primo si sfilò il bracciale dalla mano e allo stesso tempo le lanciò contro anche lo scudo. Tutti fecero lo stesso e Tarpeia, colpita dall’oro e sepolta dagli scudi, fu uccisa dal loro numero e peso. 5. Anche Tarpeio fu condannato a morte, accusato di tradimento da Romolo, come Giuba sostiene racconti Sulpicio Galba (traduzione di C. Ampolo). [17, 2-5]

APPIANO Al tempo della guerra di Tazio contro Romolo, le donne mogli dei Romani e figlie dei Sabini li riconciliarono. Queste recatesi nell’accampamento dei padri e protese le mani, mostrarono i figli nati loro dai mariti e avendo testimoniato che i mariti nulla di insolente avevano fatto contro di loro, pregarono che i Sabini avessero pietà di loro stessi, dei loro generi, nipoti e figlie che risparmiassero i parenti e che terminassero la turpe guerra o uccidessero prima coloro che erano state la causa di questa. E quelli per la difficoltà del momento e per pietà verso le donne, e compreso che ciò che i Romani avevano fatto era per necessità e non per insolenza, negoziarono

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con loro, e recatisi Romolo e Tazio nel luogo chiamato da quell’evento via Sacra si accordarono in questo modo, Tazio e Romolo avrebbero entrambi regnato e i Sabini che avevano combattuto allora con Tazio, e se altri Sabini lo avessero voluto, si sarebbero trasferiti a Roma a condizioni di perfetta uguaglianza e parità di diritti. [5, 1 in Excerpta de legationibus gentium 1, p. 516]

INDICE

INTRODUZIONE 3

Prime idee 5

Un evento epocale 13

Il sito di Roma, prima di Roma 15

I luoghi di Roma 25

Remo e Romolo e i re di Alba Longa 28

L’IMPRESA DEL PALATINO 35

Il rito preliminare sull’Aventino 37

Benedizione del Palatino e fondazione della «Roma Quadrata» 44

L’IMPRESA DEL FORO, DEL CAMPIDOGLIO E DELL’ARCE 55

Il Foro 57

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INDICE

Il Santuario di Vesta, 57 - Auspici per creare il Santuario, 59 - La casa del re o «domus Regia», 62 - Il Santuario al tempo dei Tarquini (fine del VII-fine del VI secolo a.C.), 65 - La casa delle vestali e l’«aedes Vestae», 70 - Sintesi, 71 - Il Foro come piazza, 77 Il Santuario di Vulcano e il Comizio, 77

Il Campidoglio e l’Arce 79

L’IMPRESA DELL’ORDINAMENTO DEL «REGNUM» O DELLA «CONSTITUTIO ROMULI» 87

L’ordinamento del tempo 89

L’ordinamento dello spazio e degli uomini 92

I nemici 97

Nemici interni all’«ager», 97 - Nemici latini ed etruschi, 98

CONCLUSIONE 103

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