Il fantasma

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Gerhart Hauptmann

Il fantasma

Sellerio editore Palermo

I

ISBN 88-389-1911-9

9788838 919114

«Mia moglie ha arredato per me la cameretta al primo piano sul frontone anteriore di casa; è qui che sto seduto in questo mo­ mento. Dall’altra parte della stra­ da scroscia il ruscello del villag­ gio sotto i frassini e i salici. Mi giunge dal pian terreno il suono del campanello della piccola bot­ tega gestita da mia moglie. Gli affari vanno bene e i guadagni soddisfano pienamente le nostre modeste esigenze. Prima o poi dovrò darmi da fare anch’io. In primo luogo perché ho del tem­ po libero a disposizione, e poi perché sento di aver bisogno di un qualche impegno intellettua­ le. Per il resto sto benissimo, mi par di stare nel grembo di Àbra­ mo. Fumo la pipa. Non mi costa quasi nulla perché nella bottega abbiamo del trinciato di seconda scelta. Il fumo ravviva la fanta­ sia. E trasmette anche un senso di quiete».

In copertina: Fotografia della facciata orientale del Municipio di Breslavia.

Ha un remoto nucleo autobio­ grafico (l’infatuata passione per un’attrice sedicenne) questo rac­ conto dello scrittore e dramma­ turgo tedesco Gerhart Haupt­ mann (1862-1946, Premio Nobel per la letteratura nel 1912) che amava rappresentare i tranelli del destino, come le aspirazioni pri­ marie e i desideri più intensi di un personaggio sono insieme la sua rovina fatale: il fantasma di Lo­ renz Lubota, il protagonista nar­ rante che ritorna con la memoria alla gioventù, è una ereditiera tredicenne, intravista una volta, e per seguirne lo spettro, dall’in­ consapevole potere, egli sconvol­ ge dissennatamente la propria vi­ ta e arriva fino al delitto, rie­ mergendo redento dopo anni a una vita da piccolo borghese, ap­ parentemente idillica, in realtà replica più opaca della precarietà esistenziale dei giorni perduti.

Prezzo Euro 9,00

Il divano

220

Gerhart Hauptmann

Il fantasma A cura di Giovanni Tateo

Sellerio editore Palermo

© by Ullstein Heyne List GmbH & Co. KG, Munich. Published in 1962 by Ullstein Verlag, Berlin 2003 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo e-mail: [email protected]

Hauptmann, Gerhart

Π fantasma / Gerhart Hauptmann ; a cura di Giovan­ ni Tateo. - Palermo : Sellerio, 2003. (Il divano ; 220) Tit. orig.: Phantom. ISBN 88-389-1911-9 I. Tateo, Giovanni. 833.8 CDD-20 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana

Titolo originale: Phantom Traduzione di Giovanni Talco

Il fantasma

Mia moglie ha arredato per me la cameretta al pri­ mo piano sul frontone anteriore di casa; è qui che sto seduto in questo momento. Dall’altra parte della strada scroscia il ruscello del villaggio sot­ to i frassini e i salici. Mi giunge dal pian terreno il suono del campanello della piccola bottega gestita da mia moglie. Gli affari vanno bene e i guadagni soddisfano pienamente le nostre mode­ ste esigenze. Prima o poi dovrò darmi da fare anch’io. In pri­ mo luogo perché ho del tempo libero a dispo­ sizione, e poi perché sento di aver bisogno di un qualche impegno intellettuale. Per il resto sto benissimo, mi par di stare nel grembo di Abramo. Fumo la pipa. Non mi costa quasi nulla perché nel­ la bottega abbiamo del trinciato di seconda scel­ ta. Il fumo ravviva la fantasia. E trasmette anche un senso di quiete. Fumando, ad esempio, riesco a sentirmi in una condizione di piacevole ozio e, 9

al tempo stesso, ad annotare con la penna i miei pensieri. «Scrivi pure» non fa che ripetermi del resto mia moglie, «chissà che non ne possa usci­ re un libro». Io scrivo ogni cosa con molta semplicità, così come me lo detta il cuore. Del resto, se mi riuscisse di farne un libro, per­ ché non ne potrei scrivere un secondo o un ter­ zo ? Allora sarei uno scrittore. Avrei così trova­ to, in modo naturale, l’altra occupazione che vado cercando. Questa casa che sei mesi or sono mio suocero ha acquistata assieme alla bottega è appartenuta alla vedova di un uomo che mi assomigliava. Wander era il nome della signora. Suo marito faceva l’in­ segnante e, per certe sue idee, aveva dovuto rinun­ ciare al posto. Dopo un lungo errare giunse, come me, in questo asilo trovando di che vivere in que­ sta casa. Il lavoro di una vita, molto probabilmente iniziato e portato a termine in questa stessa came­ ra, è un dizionario di proverbi tedeschi in cinque volumi. Qui, per il momento, non mi conosce nessuno. Mia moglie e mio suocero hanno cercato questo piccolo villaggio nella Valle di Hirschberg, perio

ché non volevano che di continuo la gente aves­ se motivo di parlare delle mie «sbandate», ma anche per allontanarmi da un ambiente che potes­ se a ogni piè sospinto destare in me ricordi e man­ tenerli vivi. Però, ora che ci penso: non vado a intralciare così facendo proprio le loro intenzioni ? Sì e no. Il tentativo di riflettere sul mio destino, di acqui­ sire un profilo del mio passato sforzandomi di tra­ scrivere con sincerità ogni circostanza degna di nota, serve anche, fra le altre cose, a liberarmi dai ricordi e non a ricadérvi involontariamente pri­ gioniero, cosa che invece sarebbe accaduta con mol­ ta probabilità se fossi rimasto a Breslavia. Mi auguro di non rivedere mai più quella città. Forse, dopo avventure come quelle che mi sono lasciato alle spalle sarebbe difficile continuare a vivere, se tutto il passato non avesse effettivamente un aspetto irreale. Il passato non agisce mai con la forza della realtà. Devo dunque procedere con grande serenità, pazienza e cura se voglio che la mia mente evochi tutte le circostanze della gran­ de avventura che ho vissuto. Le ultime sono, com’è naturale che sia, le più vive, mentre tutte quelle che precedono il mio ingresso nel peniten­ 11

ziario, sono molto meno definite pur essendo di gran lunga più importanti. Ho scontato una pena detentiva di sei anni, quattro mesi e ventun giorni. E una dura realtà che preferisco mettere subito in chiaro. Sareb­ be per me più che imbarazzante se un giorno, una volta che da quest’avventura, oramai svanita come in un sogno, ne fosse scaturito un libro vero e proprio, mi si rimproverasse di essermi procu­ rato lettori con l’inganno, tacendo questa circo­ stanza. E una realtà, e deve essere espressamente rimarcato il fatto che il suo autore è sta­ to in carcere.

Non potrei di certo scrivere queste righe, e di cer­ to meno che mai continuare a vivere, se non aves­ si incontrato quella che è divenuta in seguito mia moglie, Marie Starke. Starke è un cognome dif­ fuso. Non è però errato sostenere, perché questa è anche la verità, che mia moglie è “forte” di nome e di fatto, benché il suo aspetto esteriore sia quel­ lo di una donna dolce e amabile. Mio suocero face­ va il rilegatore. Se la figlia è stata forte, lo deve anche a lui che si è dimostrato in ogni occasione un ulteriore forte sostegno. I2

Mio suocero ha ottant’anni. Lavora giù in botte­ ga. E un uomo degno di ammirazione. Qui in paese vive uno strano tipo d’insegnante: un ebreo battezzato, il dottor Levin. Suo padre faceva il banchiere a Berlino ed era molto abbien­ te. Si dice che il dottor Levin abbia rinunciato alla parte più cospicua del patrimonio che gli toccava a favore dei fratelli. Faceva il pubblico ministe­ ro ed era stato promosso a procuratore generale, allorquando abbandonò l’incarico e, dopo esser­ si preparato adeguatamente, si fece assumere qui come maestro elementare. A questo modo è riu­ scito, come egli dice, a calmare la propria coscien­ za sociale. Al dottor Levin mio suocero di tanto in tanto fa la cortesia di rilegare dei libri. Mi è capitato qualche volta di raccontare al dot­ tor Levin qualche episodio del mio passato. E lui m’incoraggia a metterlo per iscritto. Ha arredato la mansarda dell’edificio scolastico facendone un confortevole studio. L’altro giorno, quando gli ho consegnato alcuni libri che erano stati rilegati, mi ha invitato a fermarmi. Ho dovu­ to fumare un sigaro e bere il caffè con lui. E sta­ to allora che gli ho mostrato la fotografia. Mia moglie non sa nulla della fotografia. Questa fotografia me la dette Melitta. 13

Fu ai tempi d’oro della mia relazione con Melit­ ta che, in un momento d’intimità, le confessai che avevo un debole per Veronika Harlan, la figlia del commerciante di ferramenta. Melitta aveva un animo buono. Un giorno che era andata nel­ l’atelier di un fotografo per farsi fare un ritrat­ to, vide questa fotografia. Non le fu difficile con­ vincerlo a cedergliela dicendogli che trovava quella testolina di bimba estremamente bella. Anche il dottor Levin trova che sia estremamente bella. È bella, è vero, ma grazie a Dio non esercita più su di me alcun potere. «Non esercita più su di me alcun potere». Quest’affermazione deve essere rettificata. Oggi, con l’aiuto di Dio, sono un uomo comple­ tamente sano. Sono guarito negli anni di completa solitudine trascorsi nella cella della prigione e nel periodo successivo durante il quale, per gentile intercessione del direttore, fui impiegato nella biblioteca del penitenziario. E li che potei com­ pletare la mia formazione. Ora che sono sano come un pesce, questa picco­ la fotografia non ha più nessun potere su di me. Quando Γ immagine originaria da cui essa è trat14

ta cominciò a esercitare un potere su di me ave­ vo ventotto anni, anche se anzitempo invecchia­ to, perché sin da bambino ho sempre avuto una salute malferma. Da giovane, dicevo, sono sem­ pre stato malaticcio; mi ammalai seriamente, però, che avevo all’incirca ventidue anni. Tossivo mol­ to e per diversi anni il fazzoletto mi si macchia­ va di sangue. Ma tutto questo scomparve quan­ do ebbe inizio la malattia spirituale. Si dice che la malattia anticamente chiamata con­ sunzione, dunque la tisi, esalti la vita amorosa. Ma di questo potrò ritornare a dire in seguito. Del resto è un problema della scienza medica stabili­ re in che misura il corpo sia in grado di condi­ zionare l’anima. Io credo di poter dire che, quando la scintilla cadde nella mia anima, nell’anima e nel corpo si era accumulata una quantità enorme di combu­ stibile. Ma di che scintilla si trattava ? E che origine ave­ va questa scintilla ? Avrei potuto scegliere di con­ siderarla parte del fuoco celeste o di quello infer­ nale, di stabilirne l’origine celeste o quella infer­ nale. In realtà, se fossi stato ancora in grado di operare con questi concetti, non si sarebbe pro­ posto nessun problema di scelta. Visto che, infat­ 15

ti, da questa scintilla si è scatenato un vero e pro­ prio incendio infernale, un cristiano non potreb­ be mai ammettere che si trattasse di una scintil­ la discesa dal cielo. Di questo avviso era anche il pastore Walkmüller, il cappellano del peniten­ ziario, che attribuendo alla scintilla un’origine infernale ha poi avuto gioco facile nel dimostra­ re come le conseguenze nefaste per me e per gli altri fossero derivate da questo incendio provocato da Satana. Una tale semplificazione non sarebbe utile alla verità che è invece il mio obiettivo. Ho appena riconsiderato con attenzione la foto­ grafia della tredicenne figlia del commerciante di ferramenta e devo dire che essa possiede un fasci­ no seducente. Vergine, Madre, Regina! direbbe il vecchio maestro. Un’immagine decisamente miracolosa. Non desterebbe meraviglia se da pae­ si vicini e lontani accorressero pellegrini ad ammi­ rarla. Un cattolico osservante potrebbe obiettare che in qualche occasione il demonio è ricorso persino allo stratagemma di coinvolgere l’ignara Madre di Dio, per attirare le anime nella perdizione. Dunque, quando dico che la fotografia non eser­ cita più potere su di me, intendo dire che essa non 16

esercita più potere su di me nel senso dell’abuso da parte del demonio.

Ciò detto, voglio prendere congedo da Satana; per­ tanto spero che non sarà più necessario scomo­ darlo. Fatto sta che questo incendio mi ha ridotto qua­ si in cenere perché, aU’irrompere del fuoco divi­ no nell’esistenza che conducevo simile a quella di una talpa, ero completamente indifeso. Però, proprio perché è il riflesso del fuoco divi­ no, questa piccola fotografia continua ancor oggi a esercitare un potere su di me e lo conserverà fino alla fine dei miei giorni. La prima volta che scorsi Veronika Harlan fu a mezzogiorno di una mattina che mi accingevo, come d’abitudine, a tornarmene a casa. Ero a quei tempi un povero scrivano municipale. Dinan­ zi al Municipio di Breslavia si trova la colonna del supplizio. Vi sono fissati, di lato, degli anelli con i quali la bambina aveva cominciato a giocare. Era il ventotto di maggio, una data che io, si capisce, non potrò mai dimenticare per molte ragioni. Ben­ ché i passanti si girassero a guardare, la governante non riusciva a distogliere l’interesse della bambi­ na dalla colonna. A più riprese aveva tentato di 17

far scendere dai gradini quella creatura di straor­ dinaria bellezza con i capelli sciolti giallo zaffera­ no. Ma non le riusciva. Ricordo soltanto che il cap­ pello mi volò via dal capo - qualcuno mi aveva dato una spinta -, e che questo fece scoppiare la bam­ bina in una risata fragorosa e irrefrenabile. È possibile che, se non fosse accaduto questo sem­ plice fatto, sarei oggi un cittadino onesto e mi sarebbero stati risparmiati tanti e tanti dolori. Ma un proverbio, un proverbio non tedesco, natural­ mente, riportato dall’insigne Wander nella sua rac­ colta, recita: «Il proprio dolore è più prezioso del­ l’altrui felicità!». E se mi chiedessero se avessi preferito che quella mattina non mi fosse accadu­ ta quell’avventura, a prima vista così innocente, ma che ebbe serie conseguenze, dovrei rispondere: Preferisco sacrificare la mia vita piuttosto che quell’avventura. Questa confessione potrebbe essere considerata dai miei giudici di allora un segno di profonda osti­ nazione e dall’uomo di mondo un segno di estre­ ma stupidità. Se mi sarà concesso di vivere abba­ stanza e se non mi verranno meno voglia e capa­ cità di dire tutto quello che serve a render chia­ ra e completa la mia confessione, e se un giorno 18

la leggeranno, potrebbe darsi che i miei giudici cambieranno la loro opinione. Forse riconosce­ ranno quante ambiguità, quante lacune e inesat­ tezze contenesse in fondo la mia confessione con­ segnata agli atti giudiziari. Di contro, l’uomo di mondo, che già ora ha ritenuto di dovermi giu­ dicare uno sciocco, alla fine troverà invece ricon­ fermata l’opinione che si era fatta di me. Io stes­ so, se ripenso al compito che mi sono prefisso, se ci ripenso ma solo superficialmente, non posso fare a meno di vederci la storia di uno sciocco, di un folle e di un criminale. Naturalmente spero, scrivendo questa mia con­ fessione, di potermi elevare al di sopra dello scioc­ co, del folle e del criminale - o, diciamo, di scrol­ larmeli di dosso tutti e tre.

Vorrei ora accennare alle mie origini. Mio padre era ispettore della dogana ed era pre­ disposto al controllo delle distillerie. In queste occa­ sioni lo facevano bere a volontà e un giorno si trovò trasformato in un vero e proprio bevitore. Poiché non stava a casa quasi mai, sempre in viag­ gio per lavoro e costretto a prendere alloggio nel­ le locande, oltre alle diarie se ne andava anche la maggior parte dello stipendio. Se non lo avesse col19

to in tempo un infarto, è probabile che sarebbe stato cacciato dal suo posto e la mamma avrebbe perduto la pensione. Più volte aveva già dovuto coprire gli ammanchi di cassa, e una volta fu costretta persino ad andare dalla zia Schwabe a ele­ mosinare la somma necessaria; operazione, questa, che le costò una grande umiliazione. Mia madre ha avuto la vita difficile. Affatto delusa da mio padre, che l’aveva quasi del tutto abbandonata e resa del tutto infelice, come spesso accade in questi casi, ella rivolse tutto il suo affetto ai figli. Aveva due figli e una figlia. Io ero il maggiore. Fintanto che mio fratello e mia sorel­ la, la più giovane di noi, erano ancora piccoli, le cose andarono abbastanza bene. Superati che ebbero però i diciassette o i diciotto anni d’età apparve chiaro che non si poteva assolutamente contare su di loro. All’epoca mia madre era vedo­ va già da cinque anni. C’è sempre stato un rapporto particolarmente affettuoso fra me e mia madre. Quando ha avu­ to inizio, non lo so. Credo molto presto. Esiste­ va già quando iniziai ad accorgermi che mio padre non mi poteva vedere. E poiché lui era il più del­ le volte in lite con mia madre, io mi attaccai, com’è naturale che sia, a lei. 20

Non so dire quando cominciai a diventare il suo figlio prediletto. Deve essere accaduto prima del­ la morte di mio padre. Già allora diceva spesso che ero io la sua unica consolazione. Più tardi, quan­ do cominciai a lavorare come scrivano di un avvo­ cato e il primo di ogni mese le mettevo in mano tutta la mia busta paga, non era raro sentirle dire che ero io il suo unico sostegno. L’appartamento che andammo ad abitare dopo la morte di mio padre si trovava al primo piano di un vecchio edificio nella Taschenstraße. Noi vi abbiamo alloggiato fino al momento della cata­ strofe, dunque per circa otto anni. Era molto pic­ colo, molto buio, ma, nonostante tutto, non squal­ lido. Era uno di quegli edifici borghesi antiqua­ ti, con le finestre piccole e i soffitti bassi, che con­ servano quasi sempre un grande fascino. Io non avevo altro pensiero che quello di continuare ad abitare in quelle stanze assieme a mia madre, fino alla fine dei nostri giorni. Nella piccola economia domestica venni ad assu­ mere il ruolo del padre, il ruolo del capofamiglia. Poiché ero di molto più anziano rispetto ai miei fratelli, essi mi consideravano già per questo un’autorità. A ciò si aggiungeva che mia madre non perdeva mai l’occasione, alla presenza dei miei fra21

telli, di attestarmi l’esercizio della patria potestà. Questo compito mi fu attribuito perché per lun­ go tempo sono stato io l’unico a percepire uno sti­ pendio. Quando mio fratello e mia sorella comin­ ciarono di tanto in tanto a guadagnare anche loro qualcosa, a mia madre non hanno mai dato nem­ meno un centesimo bucato. Per quel che mi possa ricordare, però, della patria potestà io non ho mai abusato. Per preservare i polmoni e la laringe mi ero abi­ tuato a parlare sottovoce. E divenuta per me una seconda natura. Nella mia mente è ancora impres­ sa con chiarezza la scena di quando, nel corso del processo, molti fra i signori giurati rivolti a me gri­ davano: «Voce! Voce!». Nel rapporto con i miei fratelli non ho mai avuto bisogno di alterare que­ sto mio modo di parlare sommesso, accelerando il ritmo delle parole e alzando la voce, anche quando mi capitava di doverli rimproverare o richiamare all’ordine. Posso affermare di aver sempre goduto presso di loro di una stima mista a una certa ammirazione, di un’autorità pressoché illimitata, quale certo non aveva mai avuto nem­ meno mio padre. «Dovresti fare l’insegnante, o meglio avresti dovu­ to fare l’insegnante», diceva talvolta mia madre 22

quando vedeva come mi prendevo cura dei miei fratelli facendo loro ripetere le date degli avve­ nimenti storici, i versetti della Bibbia e altre cose simili. Non credo d’ingannarmi affermando di essere stato in effetti, per loro, un consigliere e un maestro sempre disponibile e paziente, che li ha aiutati nel momento del bisogno. Anche a me piaceva davvero insegnare. Una volta, sentendo mia madre ripetere la sua soli­ ta frase «Avresti dovuto fare l’insegnante», mi chiesi se non fossi ancora in tempo a farlo, visto che avevo allora venticinque anni. A questo pen­ siero provai un senso di eccitazione, persino di entusiasmo, per quel che si possa definire entu­ siasmo uno dei pochi stati d’animo repressi di cui ero allora capace. In breve tempo avevo raccolto informazioni sufficienti, impiegai per la prima volta una parte dello stipendio per acquistare libri e cominciai, sfruttando tutte le ore che non ero in servizio, a prepararmi agli esami per diventa­ re insegnante di scuola media. Fino a quel momento avevo menato la mia vita in uno stato di naturale rassegnazione, senza riflettere. Studiando l’inglese, il francese e le altre materie, d’inverno e d’estate, nella mia confor­ tevole cameretta, la cui porta si apriva su una gal23

leria in legno del piccolo cortile, facevo per la pri­ ma volta davvero qualcosa di mia iniziativa. Era questo il motivo per il quale provavo un partico­ lare senso di benessere e sentivo come crescere in me una sicurezza interiore. Non ho fatto ancora menzione della doppia frat­ tura che da bambino mi è capitato purtroppo di procurarmi. Mio padre soleva trattarmi con durez­ za militare; una durezza non molto opportuna visto il mio carattere mite, naturalmente incline alla remissione. Quando sentivo risuonare per casa il nome di Lorenz - così mi chiamo, infatti pronunciato dalla sua voce, entravo quasi sempre in uno stato confusionale. Un giorno che ero in uno stato d’animo di questo tipo, nello scendere a precipizio le scale scivolai fratturandomi la gam­ ba. Le ossa furono rimesse insieme in malo modo da un ciarlatano, sicché la gamba offesa rimase più corta dell’altra. Per rimediare al danno, un altro ciarlatano decise di rompermi di nuovo con vio­ lenza la gamba, che alla fine, dopo che fu guari­ ta, era divenuta ancora più corta. Da allora zop­ pico, e questo ha inciso, soprattutto in quel perio­ do, non poco sulla mia vita. Per ragioni com­ prensibili evitavo i giochi con gli altri bambini cui fino a quel momento avevo partecipato con pas­ 24

sione, e mi rivolsi a occupazioni tranquille, pre­ feribilmente in camera e dovunque non ci fosse gente. Credo di aver imparato a pensare per davvero e percepito quanto sia prolifica la riflessione per­ sonale solo durante il periodo di detenzione pre­ ventiva. Per intanto un primo passo in tal senso era stato compiuto nel momento in cui mi ero risol­ to a studiare per intraprendere la carriera d’inse­ gnante e, come ho avuto modo di dire, la bene­ fica conseguenza di questo fu un indubbio aumen­ to della mia sicurezza interiore. In generale, lo studio intrapreso da autodidatta fu per me benefico in ogni senso, e io ricordo con piacere le ore trascorse a tavolino. Mia moglie lo sa, ed è per questo che ha anche fatto il possibi­ le per rendere la camera che abito ora simile a quel­ la dove io mi dedicavo allo studio. La vecchia stu­ fa di ceramica, cui avevo accostato il tavolino da lavoro, era color cioccolata. E forse su consiglio di mio suocero che ne ha fatta mettere qui una mol­ to simile, al lato della quale è stato sistemato di nuovo il vecchio tavolino. Acquistai fascicoli di lezioni per corrispondenza. A poco a poco mi procurai anche gli altri manuali indispensabili. 25

Mia madre era incerta se dover essere preoccupata o accondiscendere. Suo padre, di professione pel­ licciaio, era stato uno stimato cittadino di Breslavia e, negli ultimi suoi quattro anni di vita, era sta­ to addirittura consigliere municipale. Era oramai una donna rassegnata a tutto; vedere tuttavia in me non più il misero scrivano di un avvocato, ma il futuro insegnante di scuola media, lusingava il suo amor proprio. D’altra parte nell’economia della casa si avvertì sensibilmente la mancanza di quel denaro speso nell’acquisto dei libri. Più tar­ di, quando l’interesse per la letteratura, e dunque anche per i libri, oltrepassò l’ambito del mio pro­ gramma di studio ed io cominciai ad acquistare i libricini Reclam e anche qualche classico in edi­ zioni un po’ più care, mi capitava di trovare mia madre in lacrime, e mi costava molta fatica con­ solarla e tranquillizzarla. Non riuscivo tuttavia a convincerla che quello speso per l’acquisto dei libri che non servivano direttamente alla preparazio­ ne dell’esame, non fosse denaro sprecato. E superfluo dire che con la lettura di Schiller e di Goethe si ampliò il mio orizzonte e si arricchì infinitamente la mia immaginazione. Ma la mia debolezza per i libri che si stava allora delinean­ do e di cui mia madre si lamentava così tanto, ha 26

avuto per me un altro vantaggio che non viene mai abbastanza apprezzato: se non l’avessi avuta non avrei mai conosciuto mio suocero e la mia attua­ le moglie, e credo di aver già detto che se così non fosse stato non sarei più in vita. Ricordo ancora bene quale spavento mi colse quel giorno che nella mia camera entrò Marie Starke per consegnarmi un’edizione di Uhland che suo padre aveva appena finito di rilegare. Ha la mia stessa età, e a quei tempi avevamo entrambi ventisei anni. Non portava il cappello, aveva i capelli scuri, pettinati con semplicità, con la riga al centro, gli occhi casta­ ni, e aveva sulle spalle uno scialle azzurro. Per cer­ ti versi la vita che conducevamo era abbastanza simile in quanto, se per mia madre ero io a dover sostituire il capofamiglia, per il padre vedovo era lei a dover sostituire la padrona di casa. Già allo­ ra il suo aspetto aveva un che di donna matura. Era una giovane donna avvenente. Fui colto da uno spavento perché a quei tempi le donne m’incutevano un’incomprensibile timi­ dezza. Oltre a mia madre, a mia sorella e, non biso­ gna dimenticarsene, alla zia Schwabe, non avevo conosciuto altre donne o ragazze. Naturalmente ini era capitato nei negozi di scambiare qualche 27

parola con le proprietarie o con le commesse, ma questo è un particolare che non cambia la sostan­ za di ciò che ho appena detto. Anche con le pro­ stitute non avevo mai avuto a che fare, non per un senso di pudicizia, ma di timore. E poi, era anche troppo costoso. Marie Starke aveva un modo di porsi molto natu­ rale, spigliato e spontaneo. Io stesso fui piace­ volmente sorpreso dalla velocità con la quale mi liberai di ogni timore e imbarazzo. Ho dimenti­ cato di che cosa parlammo durante la sua prima visita. A ogni modo comprese subito che per me la preoccupazione principale era mia madre, come per lei la preoccupazione principale era il padre. Lei idolatrava il padre nel vero senso della paro­ la, come anch’io quasi idolatravo mia madre. Sotto questo aspetto le nostre esperienze coinci­ devano. Fummo contenti di avere anche altre cose in comune e, caso strano, del fatto che entrambi non desiderassimo sposarci e che ritenessimo fosse nostro compito assistere io mia madre e lei suo padre fino alla fine dei loro giorni.

Dunque ci intendevamo bene e avevamo l’im­ pressione di essere fatti l’uno per l’altra. E que28

sto incontro era stato per noi una fortuna. Due anime solitarie, due giovani della stessa età si erano incontrati godendo insieme la felicità che poteva dare un naturale rapporto cameratesco. Cominciammo a prendere l’abitudine di consi­ gliarci a vicenda su ciò che ci pareva importante, preoccupati com’eravamo tanto per i vecchi geni­ tori affidati alle nostre cure, quanto per il gover­ no della casa. Divenne per me un’abitudine deci­ dere spontaneamente di andare a far visita all’an­ ziano rilegatore che era sempre di buon umore, e anche Marie veniva non di rado su da me. Che mamma fosse contenta delle visite di Marie non lo credo. In realtà contro la ragazza non poteva avere nulla da eccepire, suppongo però che in un certo senso la considerasse una rivale; la inquietava cioè il pensiero che la ragazza potesse strapparmi al suo affetto. Io so che s’era orga­ nizzata la vita sulla sicurezza che dovessi rimanere celibe. Mia madre si aggrappava a me come una che sta per annegare. Lo percepivo spesso con una chia­ rezza che mi terrorizzava quasi. Diffidava non solo di Marie, ma di tutti coloro che mi si avvicina­ vano e rivendicavano un qualche diritto su di me. 29

Lo scrivano Lorenz Lubota - il cognome altisonante Lubota proviene dalla parte di mio padre - que­ sto scrivano dunque, che zoppicava come se aves­ se un piede equino e che nel guardarsi allo spec­ chio non poteva mai avere di sé un’impressione che lo soddisfacesse almeno un po’, a quei tempi non era lontano dal provare vanità per la propria per­ sona e il proprio valore. Oltre a mia madre e a Marie Starke esisteva ancora una terza donna, la zia Schwabe, già menzionata da me più volte, che lo considerava un modello di virtù.

Prima di parlare della zia Schwabe, l’unica sorel­ la di mia madre, sarà bene ricordare che sono approdato a un porto tranquillo. Ma voglio anche tirare alcune boccate di fumo dalla mia pipa, per calmarmi in tutti i sensi. Non è male constatare che di sotto il campanello della bottega continua a suonare, la prova di un’attività commerciale rispettabile e onesta. In primavera ho innestato le rose, ho cosparso di calcina i miei sette peri e i miei quattordici meli, ho seminato nel mio orto, ho appeso le gabbie per gli storni e ho persino atti­ vato due arnie... bene, ma basta così. La zia Schwabe, che aveva un banco di pegni, era odiata da mia madre per varie ragioni. 30

Lei aveva decuplicato il patrimonio ereditato dal padre, mentre il patrimonio di mia madre era sta­ to consumato durante la vita coniugale. Dopo una vita fatta di lavoro e di dispiaceri mia madre era divenuta povera, mentre dopo una vita pia­ cevole e in fondo senza pensieri la zia Schwabe era divenuta ricca. E questo mia madre non glie­ lo poteva perdonare. Mamma era persuasa inoltre che sua sorella l’avesse già truffata al momento della divisione del patri­ monio dei genitori. Quando, spinta dall’estremo bisogno, per salvare il marito dalla prigione, ave­ va pregato con insistenza la zia Schwabe di con­ cederle un prestito e quella in un primo momen­ to glielo aveva rifiutato, mamma le rinfacciò que­ sto suo convincimento; il che, naturalmente, portò a un’aspra discussione. Quella volta, però, la zia Schwabe prestò il denaro, come ho già detto pri­ ma. L’antipatia di mia madre per la zia Schwabe si era accentuata considerevolmente a causa di quel litigio e per il debito contratto che non le riusci­ va ovviamente di estinguere. I .a zia giudicava la mamma con clemenza molto maggiore di quella che dimostrasse lei nei confronti lidia zia. «Facendo la strozzina» così andava dicendo mia madre, «quella megera ha infangato 31

e infamato l’onorato nome degli Schwabe. E pen­ sare che nostro padre è stato consigliere munici­ pale. .. ». Certamente non aveva tutti i torti la cara mamma a considerare un percorso di decadimen­ to l’evoluzione che aveva portato la figlia di un consigliere municipale a fare l’usuraia. Ma parla­ va di lei chiamandola «quella megera usuraia» e impiegando epiteti ancora più maligni che allu­ devano a una relazione con individui che si muo­ vevano fra bettole e case pubbliche. La zia Schwabe aveva di me un’opinione simile a quella che aveva mia madre, e mi dimostrava anche una predilezione simile a quella che mia madre nutriva per me. Senza dubbio conosceva il significato dell’amore degli uomini, anche se in tutta la sua vita era stata fidanzata soltanto una o due volte senza andare mai oltre; e del resto era rimasta anche nubile. Gli affari li aveva sempre gestiti da sola seguendo la propria natura calco­ latrice. Superati che ebbe i quarantacinque anni, quando cominciarono a manifestarsi alcuni piccoli acciacchi della vecchiaia, ebbe più volte bisogno di aiuto, e fu così più che naturale che si ricor­ dasse di suo nipote, il quale, a quell’epoca, pote­ va essere considerato a ragione un uomo scrupo­ loso e onesto. 32

Il fatto che con regolarità trascorressi due sere alla settimana in compagnia della zia Schwabe a con­ trollarle i registri mentre si chiacchierava e si beveva il tè, aumentò in mia madre di nuovo l’avversione per la zia, di cui andava dicendo che alla fine l’avrebbe derubata anche del sangue del proprio sangue, del proprio figlio. D’altra parte, però, era abbastanza saggia da non impedirmi di andare a trovare la ricca zia di cui, un giorno, avrei ereditato il patrimonio. Non era tuttavia diffici­ le celare la gelosia e l’odio che provava per la sorel­ la dal momento che non si vedevano quasi mai. La posizione che venni ad assumere fra le due sorelle nemiche o che si erano per lo meno allon­ tanate Luna dall’altra, è di importanza decisiva per quell’intreccio di eventi che portò alla grave catastrofe della mia vita. Vedendo la zia con gli occhi di mia madre imparai a odiarla e a disprez­ zarla. Vedendola con gli occhi miei imparai a giudicarla con maggiore clemenza, in un certo qual modo a comprenderla, ma non ad amarla e a sti­ marla. Mamma non aveva tutti i torti a temere che se mi fossi fatto coinvolgere nel suo giro di al fari la mia anima avrebbe potuto subire qual­ che danno. 33

Innesto a gemma le rose e a marza gli alberi da frutta, taglio i lombrichi con la vanga, vivo in pace con mia moglie e mio suocero, ho trovato un’in­ tesa interiore, un equilibrio e un appagamento, e sono sicuro di finire la mia vita da contemplatore, senza farmi più coinvolgere neppure lontana­ mente in azioni di alcun tipo. Le azioni rendono stupidi! Bisogna dunque accettare che la zia Schwabe mi appaia ancora ogni tanto in sogno. Ho accennato finora soltanto di sfuggita ai due miei fratelli. Fisicamente hanno un aspetto mol­ to diverso dal mio. La differenza è così rilevan­ te, che non è possibile nemmeno ritrovare in noi la cosiddetta aria di famiglia. Ma anche mio fra­ tello e mia sorella sono fisicamente molto diver­ si fra loro. Tutti e due sono decisamente belli, tut­ tavia la bellezza di mio fratello ha più un carat­ tere delicato e spirituale, mentre il fascino di mia sorella consiste in un che di selvatico che le con­ ferisce al tempo stesso una certa aria esotica. Ha il capo di un giovinetto, e poiché porta i capelli corti il suo aspetto mascolino risalta mag­ giormente. Assomiglia molto all’Ermete di Prassitele, che è così diffuso come busto di gesso. Ha la nuca molto pronunciata, e benché il petto sia 34

largo, mi permetto di dire, non è lo stesso molto femminile. E alta di statura e slanciata. Si muo­ ve con agilità e disinvoltura. Che non abbia i fianchi larghi è naturale, visto quello che ho fin qui detto. La voce ha un timbro profondo, il suo modo di parlare è rapido e spigliato. Riponeva mol­ ta fiducia in me, come ho già detto, ma in com­ penso io avevo scarso ascendente su di lei. A quindici anni prese ad andarsene per la sua stra­ da, cosa che d’altro canto corrispondeva in pie­ no al suo carattere ostinato e maschile. Si chia­ mava Melanie, ma il nome non le si addiceva. Si sarebbe potuta chiamare Konrad, Jungsiegfried ο cose del genere. Mio fratello Hugo frequentava la scuola d’arte. La mia natura era troppo concreta, il mio carattere troppo represso per comprendere all’inizio quali esperienze egli facesse in quell’ambiente. Il mon­ do degli artisti, dei pittori e degli scultori mi era allora estraneo. Non me ne interessavo, benché egli facesse di tutto per comunicarmene l’entu­ siasmo. Avevo già sentito esporre la tesi che chi non cre­ de in Gesù Cristo è perduto sia di qua che di là, tanto in questo quanto in quell’altro mondo, ma non avevo mai sentito, come affermava mio fra35

tello, che lo stesso accade a chi non comprende la musica di Beethoven, la poesia di Hölderlin, la pittura di Rembrandt e la scultura dei greci. Non provavo invidia per mio fratello, perché era un bellissimo giovinetto, cui tutte le ragazzine sorridevano quando lo vedevano passare, ma non mi sarebbe dispiaciuto passarmela bene come lui; e quando parlava del potere della bellezza, che si deve esser capaci di percepire per poter vivere davvero, non capivo ciò che intendesse dire, anche se le sue parole mi mettevano, come suol dirsi, una pulce nell’orecchio. Stimolato da quei discorsi, per molto tempo, e prima di averlo sperimentato nella realtà, mi sono lambiccato il cervello a riflet­ tere sul potere della bellezza. Ripetendo le paro­ le di Gesù ma riferendole alla bellezza, egli usava dire: «A meno che non nasciate una seconda vol­ ta, non potrete entrare nel regno dei cieli». E a questo punto sarebbe giunto il momento di ritornare a Veronika Harlan e alla sua piccola fotografia miracolosa.

In questa piccola fotografia e ancor più nell’ori­ ginale che vidi per caso, come ho già annotato, accanto alla colonna del supplizio di fronte al Municipio di Breslavia, mi si è rivelata la poten36

za della bellezza. E mi si è rivelata in un modo che il mio caro fratello Hugo, il pittore, non si sarebbe mai sognato gli potesse accadere. Una certa Melitta, dicevo, mi aveva regalato la picco­ la fotografia. Melitta era una ragazza che io ama­ vo solo perché una certa somiglianza con Veronika le donava un debole riflesso della bellezza dell’altra e, di conseguenza, perché anche in lei agiva il fecondo potere della bellezza. Ma ora basta par­ lare di Melitta, non voglio anticipare nulla. Lo avevo annotato in precedenza: ciò che posso dire è soltanto che, quando la scintilla cadde nel­ la mia anima, nell’anima e nel corpo si era accu­ mulata una quantità enorme di combustibile. Il problema era di che natura fosse la scintilla: era di natura celeste o infernale? Non lo so. Basta dire che questa scintilla significa, più o meno, il «pote­ re della bellezza».

Fu a mezzogiorno in punto del 28 maggio 1900 che mi apparve per la prima volta Veronika Har­ lan; un evento che diede una svolta decisiva e irre­ vocabile al mio destino. Non dimenticherò mai quale incomprensibile tra­ sformazione si verificò quel giorno, una volta tor­ nato a casa, senza che in verità ve ne fosse stata 37

alcuna, seppur minima. Mi colse come un senso di soffocamento entrando in quegli angusti cor­ ridoi e in quelle anguste stanzette simili ai cuni­ coli e alle cavità costruiti da una talpa, benché io vi avessi abitato per anni sentendomi più che a mio agio. Mi accorsi di quanto fossero fatiscenti le assi del pavimento nella mia camera, delle macchie di muffa sulla carta da parati a fiori scolorita, delle grandi crepe che si aprivano nella stufa di cera­ mica, delle macchie d’inchiostro sul piano della scrivania e tutt’intorno, delle ragnatele negli ango­ li, delle piccole panie tutte annerite dalle mosche morte e moribonde, e di tante altre cose. Lo stato d’animo in cui versavo sembrava anche a me incomprensibile e penoso. Come quando Rocchetto, il tessitore del Sogno di una notte di mez­ za estate, trasformato in asino da un incantesimo, sente un improvviso appetito per la biada, così io avevo l’impressione che i miei sensi fossero diven­ tati esigenti come quelli di una creatura regale, i cui occhi sono abituati a deliziarsi della vista di marmi e di ori. Tutto mi appariva di una bruttezza offensiva, francamente disgustosa. Provai un dolore, un dolore doppio e triplo, nel per­ cepire quest’impressione anche durante il solito pranzo nella nostra piccola cucina, nello scoprire 38

che i miei occhi e le mie orecchie si sentivano offe­ si persino dall’aspetto, dai discorsi e dal compor­ tamento della mia cara mamma. Nei suoi capelli incanutiti con onore pendevano delle piume, i den­ ti erano trascurati. Mi sembrava che mi stesse ver­ sando la minestra nel piatto come si fa con quegli animali che consumano il pasto nelle greppie e nei trogoli. Per farla breve: benché stesse facendo i gesti di sempre, benché stesse dicendo le cose di sem­ pre, benché non fosse cambiato nulla di ciò che ogni giorno faceva e diceva, ogni suo gesto e ogni sua parola mi offendeva e mi umiliava.

Questo modo di vedere e di sentire era per me nuo­ vo e assolutamente sconcertante. Si estendeva a ogni cosa quotidiana, a ogni cosa usuale che mi veniva sott’occhi dentro e fuori di casa. Mi era apparsa qualcosa che era come penetrata nella mia anima e vi risiedeva: un qualcosa, forse un’im­ magine sacra, attraverso cui la volgare e meschi­ na casupola della mia anima si era trasformata in una cattedrale consacrata. Questa cattedrale e questa immagine erano però lambite tutt’intorno dalle onde di una quotidianità indicibilmente vol­ gare, indicibilmente brutta, di cui fino a quel momento non mi ero mai reso conto. 39

La sitiiuzioiif ili i-.ih-in.» \ n>1ι·ιi.-.i nella quale ero incorso mi angosciava Infatti, benché mi rige­ nerasse ed elevasse miei ini meule ili un modo insospellalo, la ima i ondizionc unii eia dissimile da quella di una nave i he e strappala via da un sicuro poslo «li aia maggio In tulli i modi, il nuo­ vo modo di vedere persone e i ose mi rendeva infe­ lice Sapevo bene ehe in precedenza avevo visto uomini e cose con aln i ocelli c che mi ero senti­ to in armonia con loro. Solo che ora non potevo più né vedere con quegli occhi né ritrovare quel­ l’armonia perduta. Mi chiedevo se non fossi cadu­ to vittima di una grave malattia mentale che mi aveva come avvelenato la vista. O forse si trattava addirittura di una malattia fisica ? Com’era possibile vivere in un mondo nel quale si prova indifferenza o disgusto per ogni cosa ? Mi sentivo, lo ricordo perfettamente, come uno che è stato morsicato da un serpente, il cui vele­ no gli è penetrato in corpo. Il veleno entra in cir­ colo nel sangue, per quanti rimedi si possano ten­ tare per riuscire a eliminarlo. Ero stato ferito senza dubbio da un morso velenoso, o ero stato infettato dal veleno di una malattia. Non era det­ to che si morisse; ma si poteva sentire che si era 40

innescato un processo patologico morale che avreb­ be arrecato indicibili e inevitabili sofferenze. Lo si doveva sopportare con pazienza, aspettando che giungessero quelle crisi probabilmente infer­ nali, nella speranza di una guarigione finale che, forse, era peggiore della morte? Qualche giorno dopo quell’episodio verificatosi accanto alla colonna del supplizio, la confusione e lo scompiglio interiore erano cresciuti a tal pun­ to che, talvolta, a malapena riuscivo a resistere alla tentazione di gettarmi sotto le ruote di qualche sferragliante autocarro che mi passava davanti.

Se avessi raccontato queste cose ai miei giudici, è probabile che le avrebbero considerate un’esa­ gerazione fin troppo scopertamente asservita a un intendimento ben preciso. In questo caso tale sospetto non ha più ragione d’essere, giacché qui sono al massimo io il giudice di me stesso e davan­ ti ad altri giudici, che non siano Dio, non dovrò più comparire. Non può essere però mia intenzione ingannare Dio o me stesso. A ogni modo non posso dire che il suicidio mi appa­ risse l’unico rimedio per uscire da quella situazione di pur grande difficoltà. Lo prendevo in consi­ derazione e vi ero incline in quei momenti in cui 41

il pensiero della disperazione si andava a coniu­ gare vittoriosamente, mi verrebbe di dire, con la stanchezza nei confronti della vita. 11 combustibile riposto al mio interno che la scintilla aveva acceso, questo incendio che ora covava, ora cre­ pitava soltanto, ora menava un guizzo, per poi, talvolta, trasformarsi in uno scroscio di fiamme, si manifestava in un’innumerevole gamma di colo­ ri, che io, per quanto mi è possibile, desidererei descrivere. Già il primo giorno che, giunto a casa dopo che mi era apparsa la piccola Veronika Harlan, dovet­ ti riscontrare il mutamento occorso alla mia vista, attesi con impazienza di ritornare al lavoro. La camminata verso l’ufficio mitigò in parte l’ecci­ tazione di cui soffrivo, giacché mi stavo avvici­ nando al luogo in cui avevo visto la bambina. Del resto, giunto che fui in cancelleria, con una sicu­ rezza altrimenti sconosciuta al mio carattere timi­ do, scambiai subito il posto con quello di un altro scrivano che si trovava accanto alla finestra dal­ la quale si poteva tener d’occhio la colonna del sup­ plizio. In quel giorno il mio capoufficio mi comu­ nicò che mi era stato concesso un aumento di sti­ pendio. Era questo un riconoscimento per la mia 42

diligenza; un riconoscimento che ancora il gior­ no prima mi avrebbe reso pazzo di gioia. Oggi ne prendevo atto senza molta partecipazione. Tra­ scorsero due o tre giorni prima che ne informas­ si mia madre, cosa che un tempo avrei fatto sen­ za far passare nemmeno un’ora. Allora non sapevo ancora, naturalmente, quale fos­ se il nome della ragazza e di chi fosse figlia. Sentivo benissimo che una volta conosciutone il cognome, ma soprattutto il nome, sarei venuto in possesso di un bene inestimabile, di una parte di lei; questo avrebbe dovuto agire come un balsa­ mo sulle mie ferite, come un ristoro che avrebbe lenito quella tormentosa sensazione di fame e di sete. Io, che ero una persona senza grandi prete­ se, cui fino a quel momento non era mancato nulla, diciamo, per condurre una vita comoda e modesta, cominciai a sentire, infatti, con mio sommo terrore, la mancanza persino dello stret­ to necessario: della luce per vedere, dell’aria da respirare, della musica da ascoltare, d’acqua e di pane. Tutto ciò mi poteva esser accordato solo per grazia di un indispensabile medium in stato di gra­ zia. La mia situazione era avvilente. A una rilettura, quanto ho scritto sembra un’e­ sagerazione bell’e buona. Non era mia intenzio-

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ne dire di essere stato allora un uomo con la pres­ sione a 58 e la temperatura corporea a 35 gradi. E non si deve nemmeno pensare clic non ce l’a­ vessi messa tutta per liberarmi da quella situazione di sudditanza in cui ero precipitato. Λ quella bru­ ciante e morbosa dipendenza di tutti i miei sen­ si, protesi a saziarsi e a ridarsi vita con la presenza della ragazza, continuavo a oppormi cercando di spegnerne in altro modo gli stimoli patologici. Durante i primi giorni presi a considerare ogni solu­ zione possibile, non solo quella del suicidio, dun­ que, ma anche quella della fuga. Mi proposi di por­ re fine a questa situazione con un deciso e violento atto di volontà, liberandomi dalla fantasia insen­ sata di cui ero prigioniero. Non mi riuscì. Spes­ so credevo di esservi riuscito, quando, ad esem­ pio, passavo intere nottate a prepararmi all’esame, sgobbando con un impegno doppio rispetto a quello che ci mettevo prima. Ma alla fine dove­ vo sempre riconoscere che quella malattia pro­ grediva, imperterrita, che la febbre aumentava e che la situazione s’ingarbugliava sempre più. Così mi risolsi a percorrere l’altra strada che mi avrebbe potuto condurre a una possibile soluzio­ ne. Il che significava tentare di appagare, almeno in parte, i miei sensi sovreccitati e insaziabili. 44

La mia riflessione era più o meno questa: cerca di sapere come fa di cognome la ragazza. Comincerai ad arzigogolarci intorno spegnendo così la sete che senti, magari come fa il viandante nel deser­ to tenendo una pietra in bocca. Così facendo pro­ verai comunque un piacere estatico, lo proverai ancora morendo, se ti capiterà lo stesso di morire di sete. Cerca di vederla anche se solo di lontano! Fissala e continua a fissarla finché lei, a furia di lanciarti tutti i suoi strali, non li abbia esauriti! Allo­ ra si raffredderà e non risplenderà più e non potrà più bruciarti, non potrà più farti del male. Oppu­ re, anche se i suoi strali dovessero continuare ad agire, proverai un senso di sazietà e di nausea che ti renderà invulnerabile. Cerca di rivolgerle la parola e pregala di liberarti dal suo fatale incan­ tesimo! Deve poterlo fare, giacché è lei la maga. Cerca di procurarti un suo ritratto, una sua foto­ grafia e impiegala per allestire un rito propiziatorio a porte chiuse! Il ritratto non potrà nulla con­ tro la furia dei tuoi baci, e tu potrai, forse, spe­ gnere per sempre quel fuoco che ti consuma. Pro­ curati un confessore! Un amico fidato, con cui con­ fidarti, ti sgraverà dal petto questa terribile ten­ sione. Ti sfogherai, ed egli si addosserà la metà del peso che porti sulle spalle. L’amante invisibile

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diverrà visibile nelle parole clic pronuncerete a voce alta, percepibile; in poche parole: diverrà presen­ te. E, forse, l’abitudine stessu di questa presenza annullerà il dolore mol lale della separazione. Per­ sino l’esigenza tormentosa di vedere presente l’og­ getto del desiderio si attutirà con l’abitudine. Purtroppo ero così intimidito che durante le pri­ me quattro settimane non rivelai il mio stato a nes­ suno, nemmeno con vaghe allusioni. Credendo però che qualcuno se ne potesse accorgere, ebbi timore di fare qualsiasi passo, seppure prudente, per conoscere anche solo il nome della ragazza.

Erano trascorse circa due settimane, durante le quali il mio stato non aveva subito alcun miglio­ ramento. Quell’immagine terribile e leggiadra si stava comportando con la mia anima come un’e­ screscenza maligna che, se non la si estirpa, con­ tinua a crescere e alla fine corrode tutto il corpo del quale si nutre da parassita qual è. Le cose rea­ li intorno a me avevano cessato di esistere. Breslavia era divenuta una città fantastica, forse una Vineta nella quale ero alla ricerca del palazzo di turchese azzurro e della regina delle ninfe, che vi doveva abitare, e dalla quale riemergevo solo quando era strettamente necessario. 46

In un primo momento nessuno si accorse dell’avvenuto mutamento, essendo io riuscito a cela­ re, per quanto fosse nelle mie forze, il male che si era annidato in me e a fare finta con gli altri di essere quello di sempre. Del resto mia madre aveva distolto la sua atten­ zione dalla mia persona a causa dei dispiaceri e del­ le preoccupazioni che le stava procurando mia sorella Melanie. Nei suoi tiretti e nei suoi arma­ di la mamma era andata a scoprire poco alla vol­ ta oggetti di ogni genere, che lei non avrebbe mai potuto acquistare con lo stipendio che guadagna­ va facendo la fioraia: lunghi guanti svedesi, cal­ ze di seta con i ricami a giorno, scarpe di verni­ ce dorata, camicette con i pizzi, un cappello con sopra una piuma di struzzo, nuovi abiti alla moda, un cappotto nuovo e ancora altri oggetti di valo­ re che superavano di gran lunga le possibilità del suo misero borsellino. Non avevo fatto molto caso al mutamento di mia sorella, e se fossi stato attento come lo ero stato un tempo, l’avrei seriamente rimproverata. Così appoggiai la mamma che con deboli forze si rivol­ geva alla coscienza di Melanie cercando di costrin­ gerla a confessare e, possibilmente, a ritornare sui 47

suoi passi, ma lo feci con una tolleranza tale nei confronti della possibile disonestà di mia sorella che mia madre ne fu evidentemente sorpresa. Si giunse alla rottura dei rapporti Ira mia madre e Melanie, la quale dichiarò di essere maggiorenne e di non aver bisogno né di continuare a vivere in casa, né di sostegno finanziario. E poiché tut­ to questo in un certo senso era vero, lei se ne andò e non si fece più vedere. Ritornò solo una volta a ritirare le sue cose che sistemò su una carrozza portabagagli. Mamma trascorse alcune notti in bianco. «Prevedo sin troppo chiaramente che fine farà» diceva. «Non risparmierà alla sua vecchia mamma l’onta di vedere infangato l’onorato nome che portiamo, e a te di rovinarti la carriera d’insegnante che ti sei costruita con tanti sacrifici. Non si assume un insegnante, la cui sorella nella stessa città ha a che fare con la buoncostume». Grazie a Dio la mamma non immaginava quanto poco mi sconvolgesse già allora quel timore. Stranamente, in quel periodo per me così criti­ co, mi sentivo attratto da papà Starke e da sua figlia più di quanto non fosse accaduto in prece­ denza. Sarà stato per quel bisogno di confessar­ mi che ho già ricordato. Benché non lo soddi­ 48

sfacessi neanche ora e facessi in modo che né il vecchio rilegatore né sua figlia notassero qualco­ sa, sentivo lo stesso in loro compagnia la grandezza dei loro cuori che dimostravano amore e com­ prensione. Il vecchio Starke, il mio attuale suocero - da giù in bottega mi giunge la sua voce calma e buona -, il vecchio Starke non era un semplice rilegatore. Dei libri che rilegava ne leggeva anche molti e si era dedicato persino alla stesura di alcune brevi sto­ rie di calendario. Inoltre a lui si rivolgevano colo­ ro che avevano bisogno di un epitalamio, di un discorso funebre e di altri lavori letterari del gene­ re. Si era fatto un certo nome nella stesura di tali componimenti. Ancora oggi ne possiede una quantità pressoché sterminata, e non è improbabile che un giorno se ne faccia un bel volumetto antologico. Senza che nemmeno io quasi me ne rendessi con­ to, scrissi in quei giorni la mia prima poesia. Me ne accorsi un istante prima di mettervi il punto finale. Non dimenticherò mai la gioia che si dise­ gnò sul viso del vecchio rilegatore dopo che ebbe finito di leggere la poesia che gli avevo portata, e seppe che era sgorgata dalla mia penna. Egli si profuse in calorosissimi elogi.

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«Però, accidenti, lei è proprio mi grande genio poe­ tico! Ecco un uomo clic· se ne sin rincantucciato in un angolo a shicchimiic pei guadagnarsi un tozzo di pane, ina si i ive i ose degne di uno Schil­ ler e di un Goethe!». In questi termini mi parla­ va allora il mio attuale suocero e ogni volta aggiun­ geva: «Ora però è tempo che getti nel fuoco i miei pastrocchi, questa miserabile cartastraccia».

Al giorno più critico che fu il 28 maggio - ne seguì un secondo altrettanto critico, il 13 luglio 1900, che merita di essere annotato con inchio­ stro indelebile nel libro della mia vita. Era una bella giornata, e io ebbi la sfrontatezza di concedermi nella pausa colazione due salsicce calde che acquistai all’entrata dello Schweidnitzer Keller e consumai lì per lì. Mi capitò così di rivolgere lo sguardo verso la par­ te del Breslauer Ring dove si trova la cosiddetta Goldene-Becher-Seite, non molto distante dal famoso e grande negozio di ferramenta di Emmo Harlan, di cui, del resto, vedevo sempre l’insegna dal mio scriviritto in ufficio. All’improvviso avvenne qualcosa che mi scon­ certò al massimo. Non era possibile che fosse un miraggio - perché ciò che vedevo con chiarezza 50

davanti agli occhi non poteva che essere la piccola principessa della colonna del supplizio che era ricomparsa. Oh, quante volte, da mattina a sera, dal mio scriviritto avevo fissato con lo sguardo quella colon­ na, come se, all’improvviso, vi dovesse saltare fuori la fanciulla! M’ero immaginato, e lo facevo di continuo, di rivestire di rose la colonna inte­ ra. Di continuo ritornavo anche a girarci intorno, come un folle, incurante dello scherno dei passanti, e facevo tante altre cose strane. Questa volta quell’incantevole e dolce miracolo di bellezza sedeva in un elegante calessino tirato da due cavalli pezzati, due spiritosi ponies. Teneva in mano le redini dei piccoli cavalli, mentre die­ tro le sedeva un piccolo lacchè e accanto la gover­ nante. Portava un cappello da pastorella sotto al quale si scioglievano quei bellissimi capelli che, visti la prima volta, avevano avuto su di me un effet­ to così magico e seducente. Nel richiamare alla memoria le immagini di quan­ to avvenne, facendole scorrere dall’inizio alla fine, è possibile che esageri in qualche particola­ re. Tuttavia il mio racconto ricostruisce abba­ stanza fedelmente la situazione nella quale mi venni a trovare mio malgrado. Un cocchiere, che 51

con i pantaloni e le maniche rimboccati stava lavando un elegante calesse, afferrò la frusta dal­ l’occhiello della serpa della carrozza e prese a far­ mela schioccare ripetutamente e con violenza davanti al viso. Solo allora compresi dove mi trovavo. Nel lungo cor­ tile della casa di Emmo I Iarlan, stracolmo di moiet­ te, vomeri e altri manufatti, sul quale affacciavano le finestre dei locali adibiti a magazzino. Il bell’edificio di stile antico era conosciuto in tut­ ta la città con il nome di Palazzo Harlan. Mi accorsi in quel momento che un signore ele­ gante e una signora elegante si erano affacciati alla finestra del primo piano e stavano salutando con la mano e rivolgendo qualche parola in direzione del cortile. Il luogo verso cui il signore e la signora si erano affacciati a salutare era ora deserto. Si trovava davanti a un piccolo portale di pietre d’arenaria, simile al portale di una chiesa. Quando si affacciarono a salutare, davanti al por­ tale si fermò una piccola carrozza, dalla quale un vecchio servitore aiutò a scendere una ragazza dal­ l’aspetto di bambina, il cui viso, dal dolcissimo incarnato, effondeva salute, giovinezza e felicità. Accarezzò i cavalli e fece prender loro dello zuc­ 52

chero dalle sue manine ricoperte di guanti bian­ chi, prima di scomparire con la governante sotto al portale. Questo è solo ciò che ricordo di quando con un sibilo il colpo di frusta schioccò vicinissimo alle mie orecchie. Ma nel frattempo doveva essere accaduta qualche altra cosa: altrimenti perché sarebbero accorsi tutti quegli impiegati che con­ tinuavano a fissarmi con le teste ammassate alle finestre del magazzino ? «Insomma, che va cercando?» mi chiese all’im­ provviso un giovanotto ben vestito, che doveva essere probabilmente un commesso. «Nulla» gli risposi io alquanto perplesso. «Se è così, che va inseguendo a fare come un pazzo furioso la car­ rozza della signorina?». A questa seconda domanda che mi aveva rivolto, io ho risposto - se ben ricordo - facendo spallucce. Dopodiché, fra le risate generali, che sembrava­ no provenire da tutte le direzioni, due uomini, che dovevano essere cocchieri o domestici, mi prese­ ro per le braccia, l’uno a destra e l’altro a sinistra, e mi accompagnarono, ma non con brutalità, fuo­ ri dal cortile. Giunti all’ingresso mi liberarono lasciandomi nel bel mezzo della fiumana di gen­ ie che affollava il Ring. 53

Credo di essere rimasto lì impalato per molto tempo, prima di aver incominciato a muovere un passo.

Quella mattina non ritornai in ufficio e rimasi via per tutto il giorno, benché avessi da terminare un lavoro urgente. Ma non andai nemmeno a casa, e credo che quella sia stata la prima volta da quando era vedova, che mia madre dovette atten­ dere invano a mezzogiorno e la sera il mio rien­ tro. Fu verso le nove della mattina del giorno dopo che mia madre mi rivide. Fino a quel momento avevo vagato inquieto per la città, senza né mangiare né bere. Era successo, infatti, che non appena ritornato in me davanti al portale della casa patrizia mi ero sen­ tito pervaso da un’angoscia terribile. Mi resi con­ to che, senza volerlo, anzi, contro la mia volontà, qualcosa mi teneva stretto in suo potere e faceva di me quel che voleva. Ma se ciò era vero, non poteva darsi che questo qualcosa, questo dèmone, che risiedeva in me, mi avrebbe potuto indurre a fare altre cose ancora più gravi ? Era questo timore che impediva a tutte le mie forze sane di lottare per tenere a bada que­ sto dèmone.

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Cercherò di proseguire il mio racconto con la maggiore freddezza possibile, preferendo risulta­ re un po’ superficiale nella descrizione delle mie inquiete peregrinazioni piuttosto che farmi nuo­ vamente turbare dal suo aspetto confuso, o far­ mi addirittura nuovamente imbrigliare nelle sue reti. Α1Γinizio vagabondai per le strade e i vico­ li del centro, fino a quando non giunsi da qual­ che parte in riva alla Oder e, seguendo il corso del fiume, feci ritorno in città. Già all’inizio delle mie peregrinazioni ebbi la sen­ sazione di essermi smarrito e allontanato già mol­ to dal luogo familiare e protetto come da un recin­ to, in cui avevo vissuto al sicuro, prima che nel­ la mia vita si presentasse quell’apparizione accan­ to alla colonna del supplizio. Esiste un sogno che la maggior parte degli uomini ha fatto. Un deter­ minato giorno bisogna essere a una data ora in un luogo. E d’importanza vitale arrivarci puntuali. Non essere puntuali o, addirittura, non presentarsi affatto all’appuntamento è causa d’irreparabili danni dolorosi e gravi al livello tanto materiale quanto ideale. L’occasione perduta non si ripre­ senterà mai più. Il tormentoso corso del sogno è determinato dall’assoluta impossibilità di supera­ re l’incomprensibile quantità di ostacoli che impe­

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discono che si raggiunga in tempo il luogo indi­ cato: manca il colletto, la camicia, un altro indu­ mento importante, e per uno che se ne ritrova un altro ne sparisce. Se alla fine si è riusciti a rag­ giungere lo stesso la stazione, allora si è saliti sul treno sbagliato e si soffre il tormento di viaggia­ re nella direzione contraria e di allontanarsi sem­ pre più dal luogo che si vuol raggiungere. Alla fine si può dare il caso che il treno si fermi, ma che la porta dello scompartimento non si apra e che, pri­ ma di poter scendere, il treno sia stato messo su un traghetto, e ci si ritrovi all’improvviso nel bel mezzo all’oceano, in viaggio per il mondo, dal qua­ le non si potrà sperare di fare rientro che dopo anni... Questa, più o meno, era la condizione in cui mi venni a trovare all’inizio e nel corso della mia peregrinazione. Ogni ora che passava il tor­ mento aumentava. Doveva essere stato lo stesso dèmone che aveva abusato di me, costringendomi ad agire contro la mia volontà, senza quasi che ne avessi consape­ volezza, a predisporre tutti quegli ostacoli che m’impedivano di ritornare all’antica condizione di salute e a trascinarmi con sé lontano dalla via mae­ stra per labirinti di strade. Io facevo l’impossibi­ 56

le per contrastarlo, purtroppo invano, ricorrendo a tutti i miei spiriti benigni. Ogni uomo che pensa, in quanto egli pensa, ha la stoffa del drammaturgo. E poiché in preda alla costernazione continuavo a lambiccarmi il cervello con pensieri tormentosi, nell’immaginazione mi ero organizzato, o si era andato a organizzare da sé, un dramma di cui ero al tempo stesso spetta­ tore e attore coinvolto nei dialoghi. Natural­ mente anche il dèmone si trovava sulla scena. E il suo modo di agire era così raffinato che io, impe­ gnato com’ero in discussioni violentissime con lui, non notavo neppure come i suoi artigli, afferra­ tomi alla nuca, mi spingessero senza tregua con tutto il carro di Tespi che metteva in scena nel­ la mia anima una folle tragedia, fino a che i pie­ di non cominciavano a farmi male e il cervello a bruciare. Era il dèmone, erano mia madre e la zia Schwa­ be, era il direttore della scuola media, il dottor Wohlfeil, che io vedevo sul palcoscenico, tutti e tre impegnati con il dèmone in un violento liti­ gio. Quel dèmone era in tutto e per tutto simile a me. Solo che era vestito oltremodo da bellim­ busto. Portava scarpe di vernice e sulla cravatta la spilla di brillanti. Si dimostrò al dèmone, e io 57

presi parte alla discussione, che egli aveva impie­ gato il miraggio di quell’incantevole signorina per distruggermi. Egli considerava tutte le mie qualità come una spina nell’occhio, l’onestà, la coscienziosità, la modestia, la diligenza e il sin­ cero amore filiale; sua intenzione era, invece, condurmi alla sete di piaceri, all’avidità e alla superbia. Con quel sortilegio, tanto stupido quan­ to diabolico, voleva farmi cadere nella rete della follia, del vaneggiamento e magari della colpa impossibile da espiare. Ma ora basta. Io so solo una cosa: chi mi ha incontrato durante questo cammino, tanto di gior­ no quanto di notte, ha visto un uomo che gesti­ colava, parlava ad alta voce fra sé e sé, un uomo del quale avrebbe dovuto pensare che fosse fug­ gito dal manicomio. Mia madre era profondamente preoccupata della mia assenza, ma lo era maggiormente dello stato in cui mi trovavo quando alla fine ritornai a casa. Anche lei dovette aver temuto il peggio per il mio stato mentale. Persino io pensavo con orrore che sarei probabilmente finito in manicomio. Ne ave­ vo un terrore così grande che, quando mia madre disse di voler chiamare un medico, io sentenziai 58

con decisione che se un medico avesse varcato la soglia di casa mi sarei gettato dalla finestra. Dormii fino alla sera del giorno dopo, assaggiai qualcosa che mia madre mi portò a letto e dormii di nuovo fino al giorno appresso. Quando mi sve­ gliai avevo riacquistato le forze e la calma. Mamma era stata di persona in ufficio e aveva giu­ stificato la mia assenza con argomenti validi, dicendo che mi ero improvvisamente ammalato, sicché per quella volta non ne ebbi un danno.

Vennero poi settimane durante le quali ero ritor­ nato quasi completamente quello di prima. Sem­ brava che la crisi si fosse risolta in mio favore. Di proposito pensavo poco a quelle avventure passate. M’illudevo persino di non aver assistito di persona all’apparizione della colonna del supplizio, ma di averne letto in un libro, e che fosse accaduta la stessa cosa con l’imbarazzante incidente nel cor­ tile del palazzo patrizio sul Ring. Qualche tempo fa, la mia attuale moglie, l’allora Marie Starke, mi ha raccontato che in quei giorni aveva appreso da mia madre della misteriosa crisi da cui ero stato colto. Le due donne si misero tuttavia d’accordo, seguendo un corretto istinto, a non accennare più a ciò che era accaduto, a non ricordarmelo in 59

nessun modo. Il successo che avevo riscosso con la mia poesia dal vecchio rilegatore m’indusse a intraprendere altri tentativi poetici, e un giorno fu spedito da Starke tutto un plico di poesie a un settimanale illustrato di Monaco di Baviera. E indifferente in questa sede stabilire quale fos­ se il contenuto delle poesie e il loro valore. Un ver­ so recitava, ad esempio: «Sei tu, Musa, colei che mi fa suo servitore, e che, come la sfinge, con gli artigli mi strappa dal petto la mia canzone?». Possono sembrare dei versi sciocchi, ma espri­ mevano i miei sentimenti di allora. Però, come ho detto, carattere e valore delle poesie vanno dibat­ tuti davanti a un altro foro. Al momento, inve­ ce, mi preme maggiormente raccontare cosa mi capitò dopo che Starke le ebbe inviate alla rivi­ sta di Monaco. Lo strano comportamento cui ero stato indotto mi avrebbe potuto convincere fin d’allora che non ero ritornato affatto a essere quello di prima. Un’ar­ dente ambizione, che era del tutto estranea al mio carattere, produsse in me una quantità d’illusioni provinciali che cominciarono a spuntare come fun­ ghi dopo una timida pioggia. Le poesie erano per me un dono divino, e io non dubitavo che, aven­ 60

do acconsentito a offrirle in cambio di un compenso, questo compenso sarebbe stato regale. M’imma­ ginavo anche, e senza accorgermene perdevo com­ pletamente il terreno sotto i piedi, che le mie rea­ lizzazioni poetiche avrebbero ottenuto un’enorme risonanza e che in seguito a questo successo il mio nome sarebbe stato celebrato con i massimi onori «dalla Mosa alla Memel, dall’Adige al Belt». Oggi mi sembra del tutto incomprensibile come mi fos­ si potuto avventurare in tali vagheggiamenti; eppu­ re mi ci abbandonai così completamente che mi con­ sideravo, molto prima che la rivista avesse rispo­ sto, un poeta ricco e celebrato. Poiché quel terribile senso che mi faceva appari­ re brutta ogni cosa che avevo considerato prece­ dentemente con indifferenza non si era ancora estinto, anzi aveva preso a rivolgere le sue atten­ zioni alla mia persona e al suo aspetto fisico, un giorno che ero di buon umore entrai nel negozio di abbigliamento più in vista di Breslavia e, dan­ domi le arie dello scrittore famoso, ottenni dav­ vero che registrassero il mio nome e che mi lascias­ sero uscire senza pagare con indosso un abito nuovo. Non credo di aver avuto già allora la consapevo­ lezza di essere un imbroglione. Con quest’azione 61

incomprensibile era stato fatto però il primo pas­ so sulla funesta via che mi avrebbe portato più tar­ di alla prigione. Nel frattempo la rivista aveva rifiutato la pub­ blicazione delle mie poesie, che furono ben pre­ sto rispedite a mastro Starke con una lettera con­ venzionale di ringraziamento. Starke ne fu mas­ simamente indignato e sfogò per circa un quarto d’ora la sua rabbia e il suo disprezzo contro quel­ la insensibile marmaglia di scrittorucoli. Ma ora­ mai la cosa era andata. E pure ammesso che si fos­ se realizzata l’altra ipotesi e che quei miei pastroc­ chi poetici fossero stati onorati, con il denaro ricavato non avrei potuto saldare nemmeno un quarto del mio folle acquisto. A questo punto devo ritornare a parlare della zia Schwabe, cosa che non mi è possibile fare senza un certo sforzo di volontà. Nella mia famiglia non si fa mai il suo nome; io evito di pronunciarlo per riguardo verso me stesso e altrettanto fanno papà Starke e Marie. In fin dei conti era la sorel­ la della mia cara e buona mamma. E quando ripenso alla fine che ha fatto e al ruolo che ho avu­ to io nella concatenazione di eventi che portaro­ no alla sua morte, sento ogni volta come una feri62

ta nella carne, una ferita che non può essere rimarginata benché, stranamente, vi si possa con­ vivere. La casetta in stile antico che mia zia abitava era di sua proprietà. Le camerette erano arredate con grazia, solo un po’ troppo stipate di oggetti d’ar­ te antichi, che lei comprava e vendeva, o che aveva conservato dopo che non le erano più sta­ te corrisposte le somme date in prestito. Non solo s’intendeva di quelle cose, ma talvolta qual­ che oggetto le piaceva tanto che finiva per con­ siderarlo invendibile a dispetto di tutto l’amore che concepiva per il denaro. Una serata trascorsa a casa della zia Schwabe non era priva d’interesse, sia per la sua compagnia, sia per gli incontri con la gente che si vedeva anda­ re e venire. Si potevano fare degli studi sulle per­ sone, e lei stessa ne aveva fatti in abbondanza. La zia Schwabe era astuta, aveva fatto molte espe­ rienze ed era stata testimone di molte vicende, era informata, per esperienza diretta, dei pettegolez­ zi che si facevano in provincia come forse non lo era nessun altro in città, perché capitava che ric­ chi e poveri andassero da lei a confidarle le pro­ prie faccende. Non aveva il minimo rispetto per i più famosi nomi dell’aristocrazia, e il rispetto fini­ 63

vo anch’io per perderlo quando lei scopriva gli alta­ rini di questa o quell’antica famiglia. Mia madre era una donna semplice, la zia Schwabe, invece, aveva uno spirito vivace e un vivo desiderio di cul­ tura. Frequentava concerti e teatri, s’intendeva di musica e di spettacolo, e persino di politica. E non era un’estranea nemmeno in un altro mon­ do, anche se è difficile dire se ne facesse parte o se solo le capitasse di quando in quando di lam­ birne i confini. Si trattava del losco mondo della malavita. Spesso mi dimostrava come la malavita fosse trasversale a ogni classe sociale. Quando passeggiavamo insieme m’indicava rispettabili signori con l’uniforme da ufficiale di cui diceva che se fosse stato di pubblico dominio solo un deci­ mo di quello che lei sapeva di loro, la splendida giubba reale che indossavano gli sarebbe stata sostituita con un’uniforme molto diversa. Faceva i nomi di distinte signore che non avevano nulla da invidiare alle peggiori ladre matricolate. Talu­ ne, sposate con personalità di primo piano, madri di bambini ben educati, possedevano una gran­ dissima abilità nel far sparire, senza che nessuno se ne accorgesse, i brillanti nascondendoseli nei guanti svedesi, nella bocca o ricorrendo a qualche altro espediente. «Preferisco avere a che fare con

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veri e propri malavitosi» diceva spesso mia zia «che con certa gente che non vuole ammettere nel modo più assoluto di essere malavitosa. Ladri, falsari, malversatori di denaro pupillare, contesse e baronesse che si mettono in tasca metà del rica­ vato ai banchetti di beneficenza, continuano a con­ siderarsi non di meno il fior fiore della nazione e a sentirsi autorizzate a guardare, imperterrite, dall’alto in basso e a disprezzare il proprio pros­ simo fatto di gente rispettabile e onesta». Chissà fino a che punto la zia Schwabe avesse ragione. Credo, però, che conoscesse questi malavitosi dilettanti non meno bene di quelli professionisti. Questi ultimi li conosceva senz’ombra di dubbio. In fondo ne ho le prove che hanno lasciato come un marchio a fuoco nella storia della mia vita. Uno degli amici della zia Schwabe era un com­ missario di polizia. Di lui, lei diceva che era un esaltato, ma questo non le aveva impedito di intrattenervi per dieci anni consecutivi un rapporto, credo, molto confidenziale. Sono convinto che costui la dovesse aver tirata d’impaccio varie vol­ te. In realtà la zia apparteneva, e vi apparteneva in un certo qual senso anche il commissario, a quel genere di persone verso cui era meno bendisposta di quanto non lo fosse con i malviventi autentici. 65

Convinti assolutamente della propria onorabilità borghese, non era raro che avessero tratto van­ taggio dai beni acquisiti in modo illegale. A casa della zia Schwabe ho incontrato investi­ gatori privati, mezzani, inventori dei più svaria­ ti articoli destinati alla produzione in serie, falli­ ti di ogni risma, laureandi in teologia che erano divenuti ruffiani, ufficiali degenerati al rango di bari e con precedenti penali, insegnanti di scuo­ la che erano stati in prigione per reati contro la pubblica moralità e altro ancora. Là ho cono­ sciuto sgualdrine che mi davano l’impressione di essere delle signore per bene, e signore per bene e figlie della buona borghesia che facevano le sgualdrine per guadagnare il denaro necessario a pagare una pelliccia o un abito da ballo da indos­ sare a una festa della migliore società, come, ad esempio, quelle che si tenevano nel Palazzo del­ le Corporazioni. La zia Schwabe, che con la sua acuta intelligen­ za era andata oltre la buccia splendente della nostra situazione sociale scoprendovi il verme che aveva intaccato il seme, era giunta a forme di cinismo talora terrificanti. Non si accontentava quasi mai di riconoscere come tali i valori fuori corso. Era capace invece d’intuire di una perso66

na, quasi solo guardandola di spalle, carattere e debiti. Tu stessa dicevi, mia buona zia, di non esserti quasi mai ingannata in vita tua nel giudicare una persona. In questo caso io rappresenterei il tuo unico errore. Il primo e l’ultimo al tempo stes­ so; giacché questo errore ha avuto per te un esi­ to mortale. Lei, che era una persona la cui mano sinistra non si fidava di ciò che faceva la destra, aveva con­ cepito nei miei confronti una sconfinata fiducia francamente imperdonabile, una fiducia così stol­ ta e cieca, che mi stupì già allora e continua a stu­ pirmi ancora oggi. Come sono potuto cadere così in basso e aver ricambiato una tale fiducia in modo così orribile ?

Un giorno andai dalla zia Schwabe che ero pres­ soché irriconoscibile con indosso l’abito appena ottenuto con l’inganno. L’abito fa il monaco! Così abituata com’era a sentirmi dire la pura e sem­ plice verità, prese per oro colato il racconto del­ la ricchezza e della fama di poeta conseguite che le feci nello stesso tono entusiasta impiegato con il negoziante. Non sapeva, come non sapeva nes­ suno all’infuori di me, del pungiglione velenoso 67

che recavo in me e che non ne voleva sapere di uscir fuori con la suppurazione. Non era venuta a sapere nemmeno della crisi che mi aveva por­ tato a vagabondare come un’anima in pena per qua­ si ventiquattr’ore. La zia Schwabe mi voleva bene. S’interessò di tut­ to quello che poteva favorire la mia carriera nel mondo. E poiché, come ho già fatto notare, mi stimava molto, la circostanza che mi fossi rivela­ to un genio poetico sembrò confermarle la sua fede in me, anche se ciò avvenne in modo alquanto ina­ spettato. Le raccontai che un certo dottor Starke - mi meravigliai io stesso con quale improntitudine avessi promosso il rilegatore a dottore - un cer­ to dottor Starke, dicevo, venuto a conoscenza delle mie poesie che, fra una cosa e l’altra, erano anni che buttavo giù, si era congratulato con me esprimendomi parole di elogio irripetibili e pre­ dicendomi un brillante avvenire. Le raccontai anche che egli stava scrivendo un articolo nel quale mi voleva presentare come la nuova stella nascente, che una rivista di Monaco di Baviera, da lui sollecitata, stava per pubblicare alcune del­ le mie poesie e mi aveva mandato, per il momen­ to, un acconto di cinquecento marchi. Ancora 68

vedo come gli occhi di mia zia diventavano più grandi a ogni sfacciata ciarlataneria che andavo dicendo. Alla fine le vidi disegnarsi sul viso una cordiale e affettuosa espressione di sorpresa, che per un momento mi fece quasi passare la sbornia. Ma il breve istante durante il quale la mia coscien­ za si era manifestata, fu subito spazzato via dal flusso delle cose. La zia diede alle mie parole un’importanza che sorprese anche me, e andò a prendere subito una bottiglia di vino per festeg­ giare assieme l’evento. Mentre finivamo di bere la bottiglia, notai che per la zia Schwabe ero divenuto una personalità interessante e che ora mi considerava con una sor­ ta di timido rispetto. Questa metamorfosi mi lusingò tanto che, colto da una specie di delirio di grandezza, caddi ancora di più prigioniero nella trama di menzogne e fantasie che avevo imbastito. Con terrore constatai che la zia Schwabe accet­ tava ciecamente ciò che io ritenevo di aver rac­ contato per scherzo. Questa volta sembrava non volesse farmi in alcun modo il favore di distrug­ gere la trama di bugie con una delle secche bat­ tute di spirito che impiegava in altre occasioni. Piuttosto che farmi passare la sbornia, tanto le sue 69

parole, quanto la bevanda cui non ero abituato, aumentarono la mia ebbrezza. Quel giorno fu di un’ingenuità che non si deve mai avere, di un’in­ genuità che fu per entrambi fatale. Così, cedendo alla tentazione, osai persino accen­ nare, con aria di mistero, a un progetto di matri­ monio che mi era stato consigliato, come lasciai intravedere, dal misterioso dottor Starke. Le dis­ si di aver visto la ragazza, di aver parlato con i genitori di lei e di essere stato introdotto dal dot­ tore nella ricca famiglia. Naturalmente la mia futura sposa era stata conquistata dalle mie poe­ sie, cosa che mi aveva fatto capire con parole e cenni d’intesa. Alla fine buttai lì, come per inci­ so, che era un peccato che, mancandomi i mezzi per ben figurare, era inevitabile che dessi l’im­ pressione di essere troppo modesto e troppo timo­ roso. Non credevo fosse mai possibile che questa don­ na, particolarmente smaliziata per il lavoro che faceva, in questo genere di faccende potesse abboccare a questa grossolana esca. Eppure lo fece senza esitazione, tanto che per la sorpresa e per l’imbarazzante sensazione di spavento fui attra­ versato da un brivido ghiacciato che mi gelò la schiena. 70

Quel giorno uscii dalla casa di mia zia con una ban­ conota da mille marchi che lei mi aveva prestata. Una somma per me alta, da capogiro. Fino a quel momento, infatti, non mi era mai capitato che una banconota simile mi passasse nemmeno per le mani. Nella vita ogni passo è fatale; è questo il motivo per il quale preferisco tralasciare di dire che lo fu quel giorno e in particolare quel passo e quell’attimo in cui mi ritrovai per strada dopo essere uscito dalla casa di mia zia. Sulla città stendeva le sue ali una di quelle ardenti notti d’estate che non sono rare a Breslavia. Appena uscito per strada, sentii la voce di una per­ sona, diretta verso casa di mia zia, che mi salu­ tava chiamandomi per nome. Si trattava di un cer­ to Wigottschinski, un uomo sempre vestito con cura e dall’aspetto giovanile, di cui, però, non era facile dire che età avesse. Sapevo che andava e veniva da casa della zia e che a lei risultava sim­ patico per il suo carattere allegro. Ancora oggi non so in quali rapporti fossero i due a quei tempi. Cer­ to è solo che vi dovevano essere in ballo alcuni loschi affari. Salutandomi, dunque, Wigottschinski mi chiese se la zia Schwabe fosse in casa. Io gli risposi di sì 71

e mi aspettavo che egli salisse subito da lei. Inve­ ce, mentre me ne stavo andando, si rivolse a me per chiedermi se potesse fare un pezzetto di stra­ da in mia compagnia. Non mi è affatto chiaro se già allora avesse deter­ minate intenzioni riguardo alla mia persona. Il carattere di Wigottschinski era affabile come lo è quello dei viennesi: non dovevo meravi­ gliarmi che cercasse di conoscermi più a fondo. Diceva che la vecchia signorina Schwabe parla­ va sempre di me adoperando toni di grande elo­ gio. Era sicuro che nessun altro all’infuori di me avrebbe ereditato il patrimonio della ricca gen­ tildonna.

Queste parole e l’incontro nel suo complesso non mi avevano lasciato una sensazione spiacevole. Non mi si erano ancora spenti in petto i fumi dell’il­ lusoria euforia, ed era in pieno corso il processo d’auto-inganno e d’auto-obnubilamento della ragione. Capitava a proposito l’incontro di una per­ sona con cui poter continuare a fare la parte del­ l’uomo arrivato. Wigottschinski propose di andare a bere un bic­ chiere di Gorkau in una delle birrerie all’aperto sulla Promenade. 72

Ci trattenemmo fino a mezzanotte e non la fini­ vamo mai di raccontarci l’un l’altro ciò che ser­ bavamo in cuore. Io non avevo mai avuto amici, e il piacere, anzi la felicità che si prova a confidarsi con qualcuno mi era, fino a quel momento, sconosciuta. Del resto Wigottschinski era, senza alcun dubbio, un uomo dalla personalità affascinante e mi lusingava che avesse cercato la mia compagnia. Aveva viaggiato a lungo, conosceva le grandi città marinare, da Amburgo fin giù a Napoli, e cono­ sceva Vienna, Berlino, Londra, Parigi e Roma. Non dimenticherò mai il suo modo avvincente di raccontare. Dopo tutto era una meravigliosa sera d’estate sotto il lieve stormire delle cime dei castagni nel giardino di una birreria all’aperto, illuminato e festosamente animato di gente allegra, al quale giungevano, dallo Stadtgraben, i gridi solitari dei cigni. Nel giardino di un’altra birreria vicina suo­ nava un’orchestrina, e le melodie arrivavano al nostro orecchio attutite. Wigottschinski si mostrò davvero sorpreso e mol­ to interessato nell’apprendere delle mie attitudi­ ni letterarie e dei miei primi successi di poeta, che io descrissi a lui in modo ancora più fantastico di 73

quanto non avessi fatto alla zia Schwabe. Alla fine potei costatare che era una persona, per quanto potessi giudicare, sorprendentemente colta. In quella notte fu notevolmente rafforzato l’edi­ ficio fantastico che avevo eretto sopra di me e intorno a me.

Fu la dolce ferita prodottasi neU’interno della mia anima, fu l’abito elegante che indossavo, fu il primo amico, fu il clima di auto-inganno e di imbroglio verso cui avevo fatto oggi, da zia Schwa­ be, un passo coronato dal successo, fu la presun­ ta gloria di poeta e il fatto che la zia ci avesse cre­ duto e che ci avesse creduto Wigottschinski, fu il profumo di paesi stranieri che Wigottschinski recava, fu la notte d’estate, fu la luce e l’allegria che mi circondavano e cui non ero assolutamen­ te abituato, fu la bevanda, un’altra cosa cui non ero abituato, e non ultima la banconota da mille marchi che avevo in tasca, furono tutte cose che insieme contribuirono a completare lo stato di obnubilamento e di ebbrezza. È inevitabile che in occasione di un tale convegno notturno presto o tardi la discussione venga a cade­ re sui rapporti con l’altro sesso. Difatti questo è in

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assoluto il tema preferito. Però, in una birreria all’aperto di Breslavia, in una tiepida notte d’estate, solo un cieco e un sordomuto avrebbero potuto evi­ tare di parlarne. E qui, infatti, che il mondo delle prostitute e dei loro equivoci accompagnatori si va a mescolare con la borghesia, e si vede il fior fio­ re delle graziose ragazze di buona famiglia, con indosso i chiari abiti estivi, che, come inghiottito dall’ostentazione di lusso e sfarzo del demi-mon­ de, forma una folla multicolore. Naturalmente, anche durante questa conversa­ zione, Wigottschinski e io non distogliemmo la nostra attenzione da questa massa di gente. Era­ vamo di continuo attratti da nuovi personaggi. Wigottschinski non immaginava con quale mira­ colo di purezza e grazia mettessi a confronto in cuor mio ognuna di quelle donnine, prima di sca­ raventarla negli inferi. Con disinvoltura alcune di quelle signore vestite con sfarzo rivolsero la parola a Wigottschinski. Ma lui sembrava non averne voglia e preferire la mia com­ pagnia. Quelle, da parte loro, sembravano cono­ scerlo tanto bene da rispettare il suo umore. Egli ebbe per loro parole di disprezzo. Tuttavia, a prestar fede ai suoi racconti, doveva aver condotto una vita molto sfrenata.

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I suoi racconti erano di una sfacciataggine che mi inorridì. Orge celebrate, a suo dire, nelle case di tolleranza, erano collegate a episodi inenarrabili tanto erano bestiali, osceni e immondi. Compresi che doveva essere stato un terribile fla­ gello delle sgualdrine che egli assoggettava. Que­ sta è una circostanza che è emersa anche nel cor­ so del processo. Lo dimostra anche il modo in cui impiegò il denaro rubato che dilapidò in poco tempo, nelle notti sfrenate. Dopo la pubblicazione della sentenza non l’ho più rivisto. Il re non soleva applicare l’indulto, per cui egli fu giustiziato, e ciò avvenne la mattina di un lunedì, alle cinque. Dicevo: con lui ho fatto sicuramente una figura indegna perché gli confidai di essere infatuato di un innominato ideale di purezza e innocenza cele­ stiali, di cui, del resto, non rivelai, naturalmen­ te, quale fosse l’archetipo. Non posso dire che dimostrasse per le mie magni­ ficazioni un atteggiamento canzonatorio o sprez­ zante. Anzi, me lo ricordo molto bene, egli sospirò e disse che se riponevo una qualche speranza in un amore di quel tipo, ero l’uomo più felice del mon­ do. Lui, invece, non poteva più contare di poter 76

provare ancora una felicità del genere. Con il sen­ no di poi mi stupisco che mi sia stato possibile rive­ lare un benché minimo mio segreto intimo a una persona infame e profondamente corrotta, come quella che mi doveva essere apparsa già allora, quando mi ebbe confidato le proprie avventure ero­ tiche, e rispondere alle bestiali confessioni che mi andava facendo con il sacrificio dell’immagine celestiale che serbavo dentro di me. Prima di andarcene io cambiai la banconota da mil­ le marchi. Quello che avevo consumato l’avrei potuto pagare anche senza ricorrervi. Ma non riuscii a resistere alla tentazione di fare sfoggio del­ la mia ricchezza. Quegli incontri con la zia Schwabe e Wigottschinski avvennero prima che a mastro Starke fossero spedite indietro le mie poesie. L’insuccesso che egli addebitava all’innata cecità degli uomini di fronte alle cose nuove e grandi, non ebbe la con­ seguenza né di sradicare la mia presunzione né di disincantarmi in qualche modo. In alcuni momenti, anzi il più delle volte, senti­ vo che qualcosa dentro di me non doveva essere a posto. Anche allora mi sembrava come quando nel sogno si vedono paesaggi splendidi e paradi­ 77

siaci, vi si passeggia provando meraviglia e stupore, ma non ci si riesce a liberare di un senso di ango­ scia che continua a tormentarci. Naturalmente la mia buona mamma, come lei stessa ebbe a dirmi più tardi, notò che ero molto cambiato. Nei suoi confronti mi ero fatto taci­ turno, e lei non riusciva più a comprendere ogni moto della mia anima come avveniva un tempo. Me ne uscivo di casa senza dirle dove andavo, cosa che non avevo mai fatto prima. Come da molto lontano talvolta vedevo i suoi occhi puntati su me che mi guardavano con un’espressione interroga­ tiva, assorta e crucciata, ma quegli sguardi non esercitavano più alcun potere su di me. Lo stesso succedeva degli sguardi che Marie Starke mi rivolgeva con lo stesso stato d’animo. L’istinto mi diceva che di fronte a lei e a mastro Starke non dovessi lasciar trasparire nulla né del­ la portata della mia convinzione di essere un poeta, né, tanto meno, del mio presunto proget­ to di matrimonio. Essi vedevano che ero cambiato, che mi vestivo con abiti costosi da bellimbusto e che non volevo più condurre la vita ritirata da filisteo di un tempo. Io andavo dicendo loro di avere alcuni affari con la zia Schwabe che mi ave­ vano procurato già ora del denaro, ma che con il 78

tempo mi avrebbero fruttato una fortuna. In modo analogo cercavo di spiegare a mia madre le nuove e per lei sconcertanti spese esagerate che facevo. Già allora in mastro Starke e in sua figlia si mostrò quel tratto caratteristico cui io devo la mia sal­ vezza. Lo si può definire semplicemente fedeltà, e derivava da una certa simpatia per la mia per­ sona che nel padre e nella figlia si esprimeva nel medesimo calore e nella medesima forza d’animo. Nella figlia si trattava di un affetto materno, paterno nel vecchio Starke, e giungeva fino al pun­ to che non erano posti limiti all’indulgenza, alla speranza, alla comprensione, che si era sempre disposti a condividere ogni pena, a farsi carico di qualsiasi difficoltà e a darsi anima e corpo. Certo, allora non ebbi altro che una vaga idea del tesoro che possedevo con quelle due persone. Anzi, già soffrivo persino di una forma di pre­ sunzione che mi portava a considerare padre e figlia due creature a me di molto inferiori, al cui livel­ lo dovevo abbassarmi. Per ciò che riguarda il mio piccolo impiego in Municipio, ben presto ebbi la sensazione che non fosse più alla mia altezza. Ero negligente nel lavo­ ro e, per di più, non rispettavo gli orari. Quando 79

un bel giorno ebbi per questo motivo una lavata di capo, con arroganza montai su tutte le furie dichiarando che non avevo bisogno di rovinarmi la vita per qualche centesimo di fame al servizio di quel Municipio che nuotava nell’abbondanza. Questo significava il licenziamento. Tuttavia, alla fine, la faccenda fu accomodata dal mio capoufficio che era bendisposto nei miei riguardi. Ora faccio ritorno all’argomento principale, all’i­ dolo che adoravo e che ebbe a trascinarmi fuori dai binari della mia natura e della mia vita. Con­ tinuavo a lottare contro il suo potere, senza però riuscire a svincolarmi e subendone non di meno la tirannide. Ogni sera e ogni mattina me ne andavo a passeg­ gio per almeno un’ora sul Ring, passando e ripas­ sando davanti al palazzo di Emmo Harlan. Inoltre, per cercare di farmi notare, non passavano due giorni senza che comprassi qualcosa nel nego­ zio di ferramenta. Una volta che mi capitò di veder passare per il negozio il proprietario, quando riconobbi in lui il signore che avevo visto affacciato alla finestra gli feci un profondo inchino. 80

Nel negozio c’erano da una trentina a una qua­ rantina di commessi, e a me pareva che si pren­ dessero gioco di me. Ma io facevo finta di nulla. Voi non potete sapere, pensavo fra me e me, quanto terribilmente seria sia per me questa sto­ ria, e che è stata la ferrea mano di Dio a portar­ mi su questa soglia per accogliervi la vita e la mor­ te. Ridete! Io non rido di meno. Chi ha coraggio di vivere non teme la morte! Naturalmente io facevo di tutto per incontrare la piccola Harlan. Conoscevo l’ora in cui soleva usci­ re per la consueta passeggiata in carrozza e saluta­ vo con un profondo inchino quando il piccolo cales­ se mi passava davanti. Ogni volta dovevo vincere la potente tentazione del dèmone che mi spingeva a rincorrerlo come avevo fatto la prima volta. Come se ciò non bastasse egli m’istigava a com­ piere altre azioni, quasi altrettanto assurde. Quando la bella bambina, che tutti guardavano con stupore e meraviglia, se ne andava a passeggio per la Promenade in compagnia della sua governante o dei suoi distinti genitori, con al guinzaglio ros­ so un levriero bianco, mi sentivo istintivamente trascinato a fare in modo di rincontrarla quattro o cinque volte per ripetere ogni volta la ridicola cerimonia di un saluto profondamente devoto.

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Mi accadde così una domenica che, mentre stavo per fare il consueto omaggio, fossi osservato da Wigottschinski il quale, inaspettatamente, venen­ domi da tergo, mi prese sottobraccio. Egli ammi­ se con franchezza di avere oramai scoperto il mio segreto e di dovermi confessare che trovava il mio gusto ineccepibile.

Ora che il mio segreto era stato scoperto sarebbe servito a poco negare tutto. Decisi dunque di essere franco e - visto che avevo persino trovato la persona desiderata cui affidare le mie confes­ sioni! - di rivelare la mia passione in tutta la sua portata. Io ebbi a ripetere anche la mia affermazione men­ zognera di ricevere i favori della bella bambina e di essere ben visto dai genitori. Wigottschinski si premurò di confermare quanto gli avevo detto, riba­ dendo che questo si vedeva al primo sguardo. Ce ne andammo di nuovo, questa volta a mezzo­ giorno, in una delle birrerie all’aperto. Quel giorno si ruppero gli argini, e io mi abban­ donai ad alleggerire il mio cuore, a confessare la mia assurda passione. Fu una liberazione, un sol­ lievo che non mi era mai stato dato di provare.

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Avevo trovato, o credevo di aver trovato, in Wigottschinski, una persona che non soltanto sapeva rispettare le mie confidenze, ma che dimo­ strava una profondissima comprensione per le mie pene. Io lo pregai di dirmi in tutta sincerità se credeva che ci fosse per me una speranza di possedere, un giorno, quella creatura senza la quale non mi era possibile vivere. E io fui felice nel sentire la sua risposta assolutamente affermativa. Dopo di che egli mi confermò ciò che persino io credevo di sapere, e cioè che un mio successo dipendeva tutto o dalla fama di scrittore o dal patrimonio che fossi riusciti a ottenere con un col­ po di fortuna. Egli mi consigliava di seguire que­ st’ultima via che riteneva fosse la più facile e la più agevole. Mi fece una quantità di esempi di produttori che grazie a un’idea fortunata si erano arricchiti dal­ l’oggi al domani. Mi disse di averne avute spesso anche lui di idee simili, ma che il più delle volte gli erano state rubate da sedicenti amici e aveva­ no fatto arricchire non lui, ma quegli altri. Dopo aver mangiato e continuato a bere, ini­ ziammo a fare una serie infinita di progetti cam­ pati in aria, e con un tale entusiasmo che alla fine 83

decidemmo di formare un sodalizio. Ci alzammo, bevemmo solennemente incrociandoci le braccia l’un l’altro, mentre le persone che sedevano intor­ no a noi ci guardavano stupite, e ci scambiammo persino il rituale bacio fraterno. Dopo di che ci stringemmo la mano, esprimem­ mo la nostra gioia per esserci incontrati e ognu­ no diede la propria parola di non avviare nessu­ na iniziativa senza l’altro. Con questo il nostro rapporto aveva assunto, naturalmente, un altro volto. Ora eravamo ami­ ci, anzi fratelli, e potevamo dirci con franchezza ogni cosa. Wigottschinski disse: «Bene, siamo amici, voglia­ mo farci i soldi. Vogliamo, diciamo così, farci i sol­ di con il commercio. Per conto mio, senza dare nel­ l’occhio, dobbiamo far registrare una ditta e pub­ blicare alcune inserzioni. Oppure procediamo sol­ tanto con le inserzioni e lasciamo stare la regi­ strazione della ditta. Prendiamo in affitto un uffi­ cio e ci procuriamo un articolo qualsiasi per il quale la gente sia disposta a farsi abbindolare: una lozio­ ne per capelli, un dentifricio liquido o dell’acqua minerale amara. Un ricostituente o un prodotto per far sviluppare un bel seno o un’altra cosa va altret­ tanto bene. Gli affari sono affari. Un commerciante

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vero non deve disdegnare nessun articolo che pos­ sa procurargli del denaro. Dopo aver pubblicato le inserzioni ci facciamo mandare il denaro in anticipo. A questo modo, e se tutto procederà per il meglio, cominceremo a incassare un capitale. La rubrica dei quotidiani dedicata agli annunci è come un pianoforte che sputa ducati invece dei suo­ ni, se lo si sa suonare. Una volta ottenuto il capi­ tale se ne distoglie per esempio il due per cento, si manda a confezionare l’articolo e si procede alla spedizione. Non importa se la gente dovrà aspet­ tare qualche giorno». Io feci qualche obiezione. «Macché» continuò a dire lui, «ogni farmacista guadagna il cento per cento, le banche guada­ gnano in modo spropositato. Ogni fabbricante di sigarette vuole riuscire a cavare il settanta, ottan­ ta per cento. Nel commercio non ci si deve fare molti scrupoli». Già due terzi della mia banconota da mille mar­ chi erano stati spesi. Io avevo confidato al mio nuo­ vo amico quale fosse la sua provenienza. Quan­ do gli feci notare che pubblicare le inserzioni sul giornale richiedeva a sua volta un capitale, egli affermò immediatamente e senza esitare che era la zia Schwabe a doverlo anticipare. 85

Così fu quel giorno che si pianificò già il complotto ai suoi danni di cui sarebbe caduta vittima. All’inizio il piano non apparve così perfido come nel tempo si delineò. Wigottschinski sapeva, per­ ché glielo avevo detto io, quale influenza eserci­ tassi sulla zia Schwabe, e a me era noto che anche lui era riuscito a guadagnare sempre più la sua fidu­ cia. Ho già sostenuto che non mi è ben chiaro in quali rapporti stesse con lei. O meglio, diciamo che mi è chiaro. Io non risparmio nessuno perché in questo libro, per quanto mi è possibile, devo servire la verità e, d’altronde, in questa sede il bene e il male sono fuori questione. Se non condanno me stesso, come potrei con­ dannare gli altri ? Forse era stato quel cinico matricolato di Wigott­ schinski a fare in modo che nella zia Schwabe si risvegliasse una seconda primavera per poi appro­ fittarne. Ora che lui ed io, e io e lui, ci eravamo coalizza­ ti contro la zia, costituivamo una potenza contro di lei, che era stata lei stessa a favorire e che pro­ babilmente non era più in grado di controllare. E noi, da consumati cavalieri d’industria, ripo­

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nevamo già tanta fiducia l’uno nell’altro da con­ fessare questa situazione a noi stessi senza riser­ va alcuna, fondando su questo il nostro piano di battaglia. Sarei ancora oggi lo stesso indemoniato mascalzone che dovevo apparire a quei tempi, se fossi rima­ sto allora con i piedi per terra. La potenza dell’eros mi aveva sganciato da terra e mi teneva incatenato in una certa sfera irreale. E il motivo per cui oggi posso dire in tutta coscienza che a farmi sprofon­ dare nel baratro del crimine non fu un motivo pro­ priamente terreno e dunque vile. Per le azioni commesse sotto l’ebbrezza causata dall’alcol, la legge concede, forse a torto, le note circostanze attenuanti. A un uomo non si impu­ ta l’atto cieco, e forse neanche quello sanguino­ so, se riesce a dimostrare di averlo commesso con la febbre a quaranta o anche più alta. Un uomo che si trova in questa condizione non è in grado d’intendere e di volere. E io, in quei giorni, ero in grado d’intendere e di volere? Una bambina dalla bellezza così seducente come Veronika Harlan, sulla scorta delle confessioni che avrei potuto rilasciare circa l’influenza che eser­ citava su di me, nel lugubre Medio Evo sarebbe 87

stata ritenuta una strega e arsa sulla pubblica piazza. Non intendo dire con questo se non che nei tem­ pi passati la potenza dell’amore doveva apparire come qualcosa di soprannaturale. Cosa avrei dovu­ to rivelare a un confessore dell’influenza che su di me esercitava la figlia del commerciante di ferra­ menta all’epoca in cui fu costruito il Municipio di Breslavia con la sua meravigliosa facciata gotica e fu soprattutto eretta la colonna del supplizio? «Reverendo Padre, ero un uomo pacifico e ho per­ duto la mia pace; ero diligente e laborioso come una formica, e ora sono divenuto uno scioperato; non avevo pretese come un fiacco ronzino, e ora sono divenuto un puttaniere e un dissipatore. Amavo mia madre sopra ogni cosa: se oggi stes­ so morisse non verserei nemmeno una lacrima. Amavo Dio e il Cielo, temevo il demonio e l’in­ ferno; ma dimmi oggi dove si trova Veronika Harlan, e se dimorasse all’inferno, rinuncerei per sempre a Dio e al Cielo. «La trasformazione è iniziata nell’istante in cui ho visto per la prima volta la fanciulla. Non ho mai né toccato un dito di Veronika né scambiato con lei due parole, eppure, che sia lontana o vicina, lei esercita un assoluto potere su di me. Benché mate­

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rialmente lontana, percepisco ugualmente la sua pre­ senza ovunque. Di notte entra volando dalla fine­ stra aperta e con la stessa facilità attraversa le pareti più spesse. Mi produce tormenti che non è facile descrivere e delizie altrettanto difficili da descrivere. Mi fa ardere il cervello, mi brucia il fega­ to. Mi rende folle. Fa che la strega abbia pietà di me, oppure sarò io a rinunciare alla beatitudine eter­ na, e voi andrete a tagliare la corda con cui mi sono impiccato alla trave della porta». Dopo una confessione simile, l’inquisitore non avrebbe esitato a lungo a consegnare Veronika Har­ lan al suo torturatore.

Si stava avvicinando la mezzanotte, e Wigottschinski e io ce ne stavamo ancora seduti tran­ quillamente a finire di organizzare i nostri piani. Naturalmente era già da un pezzo che non ci tro­ vavamo più in quella birreria all’aperto, ma ave­ vamo cambiato varie volte il locale. Eravamo passati dalla birra al vino perché la certezza che avevamo di conseguire a breve grossi guadagni aumentava di minuto in minuto, e non c’era per­ tanto più bisogno che mi preoccupassi di conti­ nuare a conservare il resto della mia banconota da mille marchi. 89

Avrebbe dovuto servirmi da monito il fatto che questa giornata era stata assai strana e che, in fin dei conti, non andò a finire bene. Ma io vedevo soltanto la mia meta. Ed era, come sappiamo, una meta che si trovava fra le nuvole. Verso le undici e mezzo entrammo in un certo loca­ le notturno, nel quale Wigottschinski mi aveva condotto perché si trattava di un luogo di ritro­ vo delle prostitute più belle e costose. Lo chia­ mavano café-restaurant, e vi servivano caffè fred­ do con panna e gelato, caffè e latte, tè, cioccola­ ta calda, birra di Pilsen, ogni tipo di liquore e ogni tipo di vino incluso il migliore champagne fran­ cese. A molti tavoli si stava anche cenando. Era la prima volta che vedevo un locale fre­ quentato da donne pubbliche così lussuoso, tut­ to rilucente e splendente dell’oro delle tappez­ zerie, degli specchi e dei sontuosi lampadari da cui pendevano prismi di cristallo. Non ci si deve pertanto meravigliare se in un primo momento fui colto da un senso di grande soggezione per l’abbondanza di luce, per le tolette da sera del­ le signore, per gli smoking dei signori, per gli ele­ ganti frac dei camerieri, per le tovaglie dei tavo­ li e il petto inamidato delle camicie di un bian­ co accecante. Per qualche attimo mi venne di 90

chiedermi persino se alla fine non ci avrebbero messi alla porta. Ma questo, purtroppo, non avvenne. Non erano passati venti minuti che ci eravamo ambientati, e io mi vidi servito da un signore distinto in frac che mi trattava come fossi un ministro. Io ero davvero sorpreso di quanta carriera avessi già fatto. Senza dare nell’occhio Wigottschinski richiamò la mia attenzione su alcune regole del galateo da osservare in questi locali, del tipo che non ci si deve mettere il coltello in bocca, che non si deve bat­ tere contro il bicchiere per chiamare il camerie­ re, anche se, a suo dire, non si notava affatto che non avevo mai frequentato ambienti simili. Pensai a mia madre e alla nostra abitazione, e pro­ vai un brivido di terrore. In cuor mio stavo tra­ dendo mastro Starke e sua figlia, due persone semplici, che ritenevo non fossero più una com­ pagnia adeguata alla mia persona. Caro papà, cara Marie! Voi me lo avete perdonato mille volte. Quattro o cinque zingari con violini e salterio suo­ navano una musica meravigliosa che sembrava cullarci producendo in noi una deliziosa ebbrez­ za. Io decisi subito che per quel giorno non sareb91

be più valsa la pena di star lì a lesinare i trecen­ to marchi che mi erano rimasti in tasca. Non voglio fare qui la parte del tirchio, pensavo io come uno sciocco, visto che sto facendo il pri­ mo passo nel bel mondo, che è anche il mondo di Veronika; ora che ero venuto a conoscenza del nome, ce l’avevo quasi sempre sulla punta della lingua pronto a sussurrarlo. Forse, però, non avevo poi tutti i torti. Fra i signo­ ri c’erano persone che sembravano avere chiare ori­ gini nobili. Successivamente venni anche a sapere che persino il figlio del governatore della provincia con le sue signore occupava il tavolo all’angolo. In una nicchia c’era un tavolo al quale si beveva molto champagne. Vi sedevano intorno sei persone, tre signore e tre signori. Erano mezzi brilli e ride­ vano in continuazione. Benché il buon umore fosse alquanto elevato, per lungo tempo l’allegria non aveva oltrepassato i limiti che si usano rispet­ tare in un locale decoroso. Notai che Wigottschinski era alquanto eccitato e si interessava a una delle signore che ci dava le spal­ le, seduta a quel tavolo. Era un tipo di donna, così ebbe a dirmi, che gli era capitato d’incontrare solo un’altra volta, e si trattava di una circassa.

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Guardai in quella direzione e mi sentii attratto anch’io, senza sapere il perché, dalla figura della ragazza che vedevo soltanto di spalle. Aveva un aspetto vigoroso, da giovinetto, si potrebbe dire apollineo. Ma veniva di pensare che fino a poco tempo prima quella ragazza potesse aver cavalca­ to senza redini e briglie cavalli semiselvaggi nel­ le steppe dell’Asia. Ceravamo fatti una cena come fino ad allora non avevo mai immaginato neppure in sogno. Alla fine Wigottschinski ordinò dello spumante, ben­ ché solo tedesco, che dovetti naturalmente paga­ re io, come pagai io anche un grosso gambero che si era fatto portare. Ora dovevo cominciare a conoscere ogni cosa, mi diceva. Occupato com’ero fra gamberi, champagne, chi­ mere e altre novità di ogni genere, non mi ero più interessato al tavolo e alla ragazza di cui si diceva poc’anzi, e pertanto non avevo nemme­ no notato ciò che Wigottschinski mi comunicò all’improvviso facendo di tutto per non dare nel­ l’occhio. Lui, invece, che aveva tenuto continuamente sott’occhi la ragazza, diceva di aver notato che si era più volte girata verso di me. Quando provai a convincerlo, perché ne ero pienamente convin-

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to, che questo non era possibile, egli mi giurò che era tutto vero e che potevo essere orgoglioso del­ la conquista che avevo fatta. Io volevo cambiare discorso, ma lui continuava a insistere e diceva che al tavolo in questione i signori cominciavano a mostrarsi persino gelosi. Si era fatta intanto l’una di notte. Nel locale non entrava oramai quasi più nessuno, o se ciò acca­ deva si trattava di signori che portavano il cap­ pello sulla nuca, parlavano a voce alta e senza alcu­ na discrezione, ed erano accompagnati da signo­ re che si comportavano allo stesso modo se non peggio, menando talora strilli assai sgradevoli. Anche ai tavoli del ristorante l’allegria era salita di tono. Wigottschinski riteneva che io dovessi cercare di prestare attenzione a ciò che accadeva al tavolo in cui veniva servito lo champagne - del resto ora­ mai ai tavoli si beveva quasi esclusivamente cham­ pagne. E, in effetti, era vero: il signore elegante che sedeva accanto alla circassa aveva cercato, in un primo tempo ancora con fare fra il serio e il faceto, di trattenerla per le braccia per evitare che si voltasse a guardare intorno. Ma la ragazza girò lo stesso il capo apollineo sull’orgoglioso collo tanto da potermi guardare in faccia. 94

Al che tutti quanti gli altri commensali presero a schernire il signore elegante che le sedeva accanto. Fui attraversato come da un brivido quando lei mi rivolse lo sguardo. Solo che ero così tanto lon­ tano dal prevedere un fatto simile, che guardai completamente attonito i begli occhi della ragaz­ za, e fui colpito dalla sua esotica bellezza carica di fascino primitivo. Di proposito Wigottschinski e io avevamo ripre­ so a conversare. Dopo qualche tempo, quando sol­ levai lo sguardo, vidi l’elegante accompagnatore della circassa che aveva girato per metà la sedia e, rivolto verso il nostro tavolo, aveva preso a fis­ sarmi con sarcasmo provocatorio. Alcuni dei presenti cominciarono a fare attenzione a quanto stava accadendo. Ora era la circassa a cercare di fare con l’amante ciò che costui in precedenza aveva tentato inva­ no di fare con lei. Ma come in precedenza non era riuscito all’uomo di riconquistare l’interesse del­ la ragazza per la tavolata, neppure a lei riuscì di far ritornare lui alla conversazione. Fu così che alla circassa venne in mente di mettergli davanti agli occhi il suo fazzoletto di seta. Con un gesto violento egli si scostò dal viso il faz95

zoletto e di colpo balzò in piedi dalla sedia. Anco­ ra vedo il suo bel viso arrossato dal vino diven­ tare di un verde da far paura. Ciò che accadde, e accadde con fulminea rapidità, destò tanta sorpresa in tutti, e non meno in me, che non riesco a ricordare di essermi mai trova­ to in una situazione di tale smarrimento come in quel momento. Prima che avessi potuto decidere quale fosse il modo migliore per smussare le punte di una tale scenata di gelosia quanto mai assurda e infonda­ ta, improvvisamente mi trovai accanto quella fol­ le della circassa che, ridendo, aveva preso davan­ ti a tutti - io ero balzato in piedi sbigottito - a darmi tre, quattro, cinque baci vigorosi. Si sarà già indovinato quale fosse la persona che avevo incontrato in questo modo e in un luogo simile. In un certo senso questa era la dimostra­ zione che mia sorella era rimasta la ragazza voli­ tiva e indipendente di un tempo, e che conti­ nuava ancora a essere una persona di cuore. Fat­ to sta che il suo stravagante modo di agire mi ave­ va messo, però, in grande imbarazzo. Come in imbarazzo mi aveva messo anche la circostanza che l’avessi incontrata in quel luogo. 96

Comunque sia, al geloso amante fu però spiegato quale fosse il rapporto che ci legava. Egli ne fu soddisfatto mentre noi, Wigottschinski e io, fum­ mo invitati a prendere posto nella nicchia con le altre tre coppie. La conversazione al tavolo si era improvvisa­ mente raggelata. L’umore allegro dovuto allo champagne era come svanito. Il commovente incontro di fratello e sorella aveva reso tutti pen­ sierosi. E anch’io, a dispetto del mio bell’abito nuovo, dovevo aver fatto una ben meschina figura. Anche mia sorella Melanie aveva perduto all’im­ provviso la sua esuberante allegria, e da quando c’ero là io si era rinchiusa in se stessa compor­ tandosi come una collegiale. Aveva nel viso un’e­ spressione che mostrava imbarazzo, quasi timi­ dezza. La mia presenza sembrava che l’avesse resa consapevole di essere divenuta una cocotte nota in tutta la città. Questo era un fatto che ora dovevo anch’io digerire. Avrebbe voluto chiedere notizie della mamma, glie­ lo leggevo nel viso. Avrebbe voluto chiedermi chi fosse l’amico che era con me e come mai mi trovassi in quel locale. Si vergognava della sua comitiva e del suo amante, avrebbe dato qualun97

que cosa per liberarsi di quelle persone che le stavano attorno. Non c’era da sorprendersi che i commensali disap­ provassero quel mutamento di umore che anch’essi notavano, e che guardassero con poca simpatia colui che lo aveva causato. La mia situazione era certo tale da indurmi a fare un esame di coscienza. In quel locale e in com­ pagnia di quelle persone, ora che sedevo accanto a mia sorella, avevo davvero la sensazione di esse­ re messo alla berlina. Avrei preferito uscirmene alla chetichella o essere lontano mille miglia, magari anche in una lontana regione della Turchia a custodire una mandria di pecore. Mi sentivo come un lebbroso, uno scabbioso, un paria, men­ tre poco prima mi era sembrato di far parte a pie­ no titolo dell’alta società. Forse per la prima vol­ ta in vita mia fui colto da un moto di rabbia nei confronti di quella casta i cui figli crescevano con cavalli e domestici, governanti e maîtresses, cuci­ na francese e vini costosi, e avevano il denaro per comprarsi il corpo di mia sorella. Alla gente che mi stava attorno non dovevo aver affatto dato l’impressione di persona immacolata. Sentivo crescere in me delle forze pericolose. Mi 98

sembrava che di minuto in minuto la vergogna che provavo si tramutasse sempre più in amarezza e silen­ ziosa rabbia. C’era il pericolo, e mia sorella se ne accorse, che qualche materiale infiammabile caden­ do nel mio animo provocasse un’esplosione. Mia sorella si accorse troppo tardi che sarebbe sta­ to meglio per lei e per me, che non si fosse fatta riconoscere. Benché ripetessi a me stesso di dover fare il possibile per frenare i miei sentimenti, non riuscivo lo stesso a dominarmi e non accettai dal­ l’amante, che la pagava, il bicchiere di spumante che egli mi stava porgendo. Non seppi neppure evi­ tare in quell’occasione di impallidire e di sfuggi­ re al suo sguardo, come mi era capitato prima durante il suo attacco di gelosia. Anche nei confronti di Wigottschinski, strana­ mente, provavo vergogna. Trovai naturale che in un certo qual modo non volessero avere nulla a che fare con lui, ma quegli sguardi di complicità che si lanciavano mi fecero adirare lo stesso. I tre signori davano l’impressione di essere degli aspi­ ranti avvocati, dei sottotenenti in abiti civili o giù di lì. Portavano i baffi impomatati e la cosiddet­ ta scriminatura in mezzo. Pur avendo da inghiottire un disordinato miscu­ glio di sentimenti e già dunque sufficienti problemi 99

per conto mio, mi accorsi ugualmente che Wigottschinski era stato fortemente colpito dalla piega che aveva preso la vicenda della sua circassa. E io notai che egli cercava d’incontrare lo sguardo di mia sorella. Mi venne pertanto subito di pen­ sare che se avesse continuato a farlo si sarebbero potuti creare benissimo i presupposti per una nuova scenata di gelosia. Non molto tempo dopo intercettai però anche uno sguardo di mia sorel­ la diretto, con fare stranamente scrutatore, alla vol­ ta di Wigottschinski. Non erano poche le avventure di cui ero stato pro­ tagonista in quella domenica. AH’inizio l’incontro con Veronika Harlan e il suo levriero, poi tutti i progetti e la decisione di stringere un patto di fra­ tellanza, e infine, durante il pellegrinaggio di taverna in taverna prima a bere birra e poi vino, i miei nervi non avevano cessato di essere pizzi­ cati con violenza come le corde di uno strumen­ to musicale. Con l’incontro di mia sorella mancò poco che saltassero tutte le corde. Ora lo strumento minacciava di andare in frantumi, se qualcuno lo avesse forzato ancora. È sufficiente dire che il pericolo di uno scontro, vista la situazione soffocante e tesa di quella sera, non

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potè essere evitato. Preferirei non entrare nella descrizione di particolari spiacevoli. Ho trascorso un bel pomeriggio autunnale nel mio frutteto e nel mio orto a scuotere il mio albero di prugne e a sbri­ gare ogni tipo di tranquillo lavoro agricolo. Come sono lontano dalle ripugnanti situazioni ingarbu­ gliate di quei giorni che mi si attorcigliavano intor­ no ai piedi come un groviglio infernale di sterpi, perché non avevo gli occhi per terra, ma li tenevo rivolti in direzione di una lontana stella divina! Ma voglio continuare lo stesso il mio racconto. Tutto il giorno seguente lo trascorsi a letto con un terribile mal di testa causatomi dalla sbornia. Mia madre, profondamente abbattuta, in verità sconsolata, mi assistette in silenzio e con un’e­ spressione in viso che, quando le rivolgevo uno sguardo furtivo, mi pareva di pietra. Gli impacchi freddi che mi preparava non servi­ vano a lenire soltanto il lancinante dolor di capo, che era una conseguenza delle bevande gustate, ma anche la contusione che recavo sull’occhio sinistro. Me l’ero procurata durante una rissa notturna davanti al Vinzenz-Haus, e in particolare in segui­ to al perfido pugno sferratomi a tradimento dal­ l'amante di mia sorella. IOI

Con l’ostinata testardaggine tipica di chi è ubria­ co, stavo tentando di convincere mia sorella a non andare con il suo spasimante, ma a ritornarsene con me da nostra madre. Fu questo il motivo per il quale l’elegante mascalzone prese ad apostro­ farmi con gli appellativi più ripugnanti, che sarebbero stati appropriati qualora avessi cerca­ to di fare l’esatto contrario di quello che invece stavo facendo, e cioè se avessi consegnato a lui mia sorella in cambio di denaro. In silenzio sta­ vo camminando davanti a lui con Wigottschinski, quando quello all’improvviso mi assalì da ter­ go assestandomi con la mano destra aperta un vio­ lento schiaffo, con il quale ebbe inizio la rissa. Io non sono forte, ma so che un istante dopo quell’infame e vile canaglia giaceva, stranamente, con la schiena per terra e che io, stringendogli la gola con le mani, ero inginocchiato su di lui. Visto che non potevo rimanere per ore in que­ sta posizione e che non avevo intenzione di strangolarlo, mi dichiarai disposto a lasciare la pre­ sa se egli mi avesse dato la parola d’onore di star­ sene buono. Egli mi diede solennemente la sua parola d’onore di fronte a tutti quelli della com­ pagnia ancora presenti. Però, nello stesso istan­ te in cui gli tolsi le mani di dosso, quello mi sferrò 102

un violento pugno in faccia gridandomi: «Male­ detto ruffiano!». E un miracolo che non abbia perso l’occhio. Mi accorgo che, pur non volendolo, sono di nuo­ vo entrato in dettagli. Ma va bene lo stesso ben­ ché non abbiano importanza ai fini del mio rac­ conto. Non si può evitare che quando il pensiero prende una certa piega la situazione possa in qual­ che modo sfuggire di mano. Erano trascorsi relativamente pochi giorni che fui di nuovo ristabilito e potei dedicarmi con Wigottschinski alla realizzazione dei nostri piani. Mia madre non era riuscita a farmi dire cosa fos­ se realmente accaduto il giorno precedente, e come mi fossi ridotto in quello stato da far pau­ ra. Neppure in seguito riuscì a strapparmi di boc­ ca una parola che le dicesse del mio segreto d’a­ more e dei progetti commerciali. Wigottschinski venne a trovarmi mentre ero ancora a letto. Mia madre disse che per quell’uomo avvertiva un sen­ so di ribrezzo, e io mi accorsi che non diceva così per dire. La tranquillizzai rassicurandola che un giorno si sarebbe convinta di quale fortuna fos­ se per noi che io avessi incontrato quella perso­ na. Wigottschinski e io discutemmo a lungo su 103

come dovessimo agire per spillare alla zia Schwa­ be il capitale che ci era necessario; ma anche su questa circostanza lasciai mia madre del tutto all’o­ scuro. Ci si chiederà se l’avventura con mia sorella non avrebbe dovuto indurmi a ritornare sui miei pas­ si, se il pugno ricevuto non mi avrebbe dovuto risvegliare da quell’orribile sogno riportandomi alla vita reale. Questo non avvenne. La situazione che stavo vivendo e in cui versavo mentre soffri­ vo di mal di capo in seguito alla sbornia, aveva in realtà soltanto aumentato la sofferenza che dove­ vo sopportare ogni giorno e ogni ora dal momen­ to in cui avevo visto la piccola Veronika, perché dovevo privarmi di lei e vivevo in esilio lontano da lei. Fintanto che non alimentavo e nutrivo almeno una speranza di poterla un giorno posse­ dere, la mia vita era divenuta in ogni caso un infer­ no. Poiché questa speranza, l’unica cosa che mi manteneva ancora in vita, non riusciva a trovare un sostentamento nella realtà, e questo non sareb­ be nemmeno potuto avvenire, doveva continua­ re ad arrampicarsi sulle illusioni. Inoltre ero certo uno sprovveduto, un provincia­ le e uno sconsiderato a credere che un povero scri­ vano municipale con una sorella che era una nota

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sgualdrina avrebbe potuto con successo chiedere la mano dell’unica figlia di gente ricca e stimata, anche se fosse riuscito a costruirsi un piccolo patrimonio; e in questo la mia follia aveva un fon­ damento molto reale e naturale.

La mossa che Wigottschinski e io avevamo esco­ gitata riguardo alla zia Schwabe andò a buon fine. Non ha molta importanza come riuscimmo ad abbindolarla e cosa le facemmo credere. Ho già detto della fiducia incomprensibile che aveva dimostrato quel giorno per il mio progetto matri­ moniale, e della sua considerazione per le mie illusioni di poeta e altre esagerazioni. Se oggi ne cerco le ragioni, ne trovo più d’una. Aveva ripo­ sto in me un’incrollabile fiducia quando questa era ancora del tutto giustificata. Per l’aiuto che le ave­ vo dato prima nelle faccende commerciali, mi sapeva quale persona sensata e accorta. Rispetta­ va in me uno spirito di scrupolosa rettitudine, che però la inquietava, per altro verso, inducendola a permettermi di gettare un parziale sguardo nei suoi affari. Dai labirinti dell’inganno si ritorna ogni volta a mani vuote quando se ne vogliono esplorare le tenebre eterne. Così, ad esempio, io credo che la ro5

zia si valesse della mia sprovveduta rettitudine pro­ prio per ingannare se stessa e gli altri. Si era for­ mata il suo giudizio sulla mia persona e così facen­ do aveva, per così dire, archiviato il caso. Giudi­ cava le fandonie che io le davo ora a intendere dal­ lo stesso punto di vista di un tempo, ma oramai non più veritiero. La buona zia sapeva inoltre mol­ to bene di essere caduta a un livello sociale infe­ riore rispetto a quello dei suoi genitori. Solo che su questa ferita della sua coscienza si erano for­ mati i calli. E i calli di questo tipo, com’è noto, sono doppiamente duri. Di conseguenza la zia Schwabe era convinta, malgrado tutto, di poter frequentare la migliore società alla pari; ed era que­ sto il motivo per il quale aveva accolto con tanta simpatia il mio primo passo in questa direzione, come a un morfinomane la confessione di un altro morfinomane. Mia zia nutriva poi un vero e pro­ prio rispetto per gli uomini d’ingegno. Benché non esitasse ad approfittarsi, per quanto possibile, di pittori, di attori, di musicisti, di cantanti, uomi­ ni e donne, di giovani letterati e compagnia bel­ la, costoro erano oggetto della sua fervente ammi­ razione che sfiorava molto spesso l’idolatria, come dimostrava chiaramente un suo album di autografi con i nomi di molti personaggi famosi. Sicché, 106

quando il nipote le comunicò che fra non molto sarebbe entrato a far parte di questo invidiato cir­ colo di persone, lei la considerò già una cosa fat­ ta, tanto più che in tal modo il dolore procurato­ le dalla ferita si attenuava e la sua presunzione ave­ va al tempo stesso di che nutrirsi.

Noi, cioè Wigottschinski e io, avevamo dunque spil­ lato alla zia una somma più cospicua, anzi un vero e proprio capitale, con cui disponemmo un ufficio nella piccola camera ammobiliata dell’austriaco. La rissa di fronte al Vinzenz-Haus aveva prodotto la rottura della relazione di mia sorella con il suo amante. La cosa strana è che fino ad allora non ero mai stato così vicino a mia sorella e tanto meno lo era stata Melanie a me. Solo ora che avevo assun­ to un punto di vista eccentrico, avevo comincia­ to a comprenderla, e in forza di questo muta­ mento della mia natura, a esercitare un’attrazio­ ne su di lei. In fondo era una ragazza buona e one­ sta, e in parte per un residuo senso della famiglia, in parte perché avevo lottato e sofferto per lei, cercò di nuovo la mia compagnia. Ci piaceva stare insie­ me e gustavamo entrambi l’indubbia felicità di cominciare a conoscerci solo adesso per davvero, dopo tanti anni trascorsi insieme.

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È chiaro che questa volta il vincolo che ci uni­ va difficilmente avrebbe retto a lungo senza Wigottschinski. Passò del tempo prima che lo sco­ prissi. In un primo momento non m’insospettii quando egli mi propose di coinvolgere, in un certo qual modo, Melanie nella nostra ditta in qualità di segretaria perché sapevo che con la penna era più abile di me e di mio fratello Hugo. Il nostro ufficio consisteva in una piccola stanza lunga e stretta con una finestra, dalla quale si pote­ va vedere, in basso, l’ingresso del Lobetheater. Qui era sistemato il letto di Wigottschinski, al cui lato c’era a malapena lo spazio necessario per pas­ sare, tanto che ci si doveva stringere contro il muro per raggiungere la scrivania collocata accanto alla finestra. Le pareti erano rivestite di una carta da parati vecchia e annerita, che in alcuni punti si era scollata. Il vano aveva inoltre le volte alte e risul­ tava pertanto davvero lugubre. Trascorremmo quattro settimane in quella stan­ za a discutere. Queste discussioni, tuttavia, non erano altro che chiacchiere inconsistenti che, condite da eccessi­ ve bevute e fumate, si trasformarono in un pia­ cere di cui noi andavamo alla continua ricerca.

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Chiacchiere inconsistenti non è forse un’espres­ sione adeguata, visto che le nostre discussioni, pur non avendo come oggetto fatti reali e ragionevo­ li, avevano una certa consistenza che però si fon­ dava su illusioni e assurdità. Per la gente inetta tali discorsi esercitano un potentissimo fascino. Imbonitori e fannulloni di ogni risma ne sanno qualcosa. Mia sorella era un membro permanente della com­ pagnia. Stranamente si era radicata in me la convinzione di essere riuscito a salvare la virtù morale di mia sorella, di averla strappata via dalla palude del vizio. Ero così cieco da ritenere un ulteriore col­ po di fortuna la simpatia che Wigottschinski dimostrava per lei, soprattutto da quando avevo visto che tale simpatia era ricambiata e che ave­ va dato luogo a un fidanzamento. Cosa poteva essere più conveniente di questo fidanzamento, di un matrimonio, per recuperare mia sorella all’o­ norato decoro borghese ? Era sorprendente, quale ascendente Wigott­ schinski avesse cominciato a esercitare su quella bella ragazza. La sua ostinazione, il suo caratte­ re leale, il suo spirito di contraddizione erano come svaniti. Avrei dovuto insospettirmi molto 109

tempi) prima sul gelin e di rapporto che legava mia sorella al suo umico Ma io avevo già tanti prolil,'mi p, i conio mio, e lauto Wigottschinski quanto Melanie non perdevano occasione per far apparire seria e solidamente borghese la loro rela­ zione. Λ1 Lobet heater davano ogni sera 11 giro del mon­ do in ottanta giorni. Verso le nove, regolarmente, avveniva sulla scena un assalto d’indiani, i cui spa­ ri giungevano distintamente alla nostra stanza. Il desiderio che avevamo di viaggiare, di andare in giro per il mondo percorrendolo in lungo e in lar­ go, veniva a questo modo continuamente stimo­ lato. Sognavamo di avventure, di paesi di fiaba e di ricchezze. In questi e altri modi analoghi si spre­ cava il tempo e si sperperava il denaro, senza che s’incominciasse a fare un benché minimo affare, serio o poco serio che fosse. Io mi ero licenziato dal Municipio non appena ebbi intascato il denaro della zia. Non nego che lascia­ re il posto nell’ufficio del Municipio accanto alla finestra non mi risultò del tutto facile, giacché dovevo rinunciare anche alla vista sulla colonna del supplizio. Al mio capoufficio avevo dato a poco a poco a intendere una favola di una mia improv­ visa fortuna, mettendo con serietà più o meno in no

rilievo, a turno, ora la prospettiva di un matri­ monio ricco, ora l’incipiente fama di scrittore. La cosa più sorprendente in tutta questa faccenda è che io stesso credevo nella favola che raccontavo. Dunque, ora che eravamo dei commercianti dove­ vamo anche avere un aspetto adeguato. Non era possibile fare gli affari senza. Wigottschinski riu­ scì subito a fare una figura abbastanza buona, ben­ ché il suo equipaggiamento non fosse costato nemmeno la metà del mio. Si dice che non di rado le persone con la gobba, o anche gli zoppi, mostri­ no la tendenza ad agghindarsi in modo ridicolo. Di tale tendenza caddi vittima anch’io. Credevo che i miei affari, la mia importanza di scrittore e il mio idolo d’amore mi obbligassero a trasfor­ marmi in un perfetto gagà. Così acquistai colletti bianchi e biancheria intima costosa, quattro o cinque abiti alla moda, scarpe di vernice, guanti, cravatte, cappelli, mi procurai una spilla, i gemelli e un orologio d’oro; e quan­ do, così azzimato, me ne andavo a passeggio su e giù per la Schweidnitzer Straße con indosso il mio paletot estivo foderato in raso, non c’era vetrina davanti alla quale non mi fermassi ad ammirare la mia idolatrata immagine riflessa. Ili

Va da sé che non facevamo passare occasione per darci alla bella vita con il capitale della zia. Ogni giorno frequentavamo birrerie al chiuso e all’a­ perto, di quando in quando andavamo a bere del vino in quelle osterie alla buona come ce ne sono a Breslavia.

Si farebbe un errore a supporre che anche in que­ sto periodo avessi fatto cose che non fossero in relazione con il mio assurdo obiettivo. L’imma­ gine di Veronika Harlan - non quella della foto­ grafia che ho di fronte, ma quella immaginaria non mi abbandonava un solo istante, e tanto meno smettevo di continuare a pensarci. Veronika è, di fatto, la quintessenza della più dolce grazia e lo era maggiormente nell’inebriante nebbia del­ la mia anima. Ero di continuo prigioniero del­ l’incantesimo di una forza coercitiva, di cui ero completamente schiavo; ma si trattava, al tempo stesso, di una schiavitù che mi procurava un pia­ cere immenso. Nel più profondo di questo piace­ re risiedevano tuttavia tormento e disperazione. Osservo questo mio destino che si è compiuto da un punto alto, lontano, sicuro. Con lo sguardo rie­ sco ad abbracciare la strada, la rete stradale e il I 12

paesaggio da cui, alla fine, si è potuta trovare una via d’uscita propizia. Il Lorenz Lubota di oggi, che suocero e moglie chiamano Lenz, ha fatto del Lorenz Lubota di un tempo l’oggetto delle sue riflessioni. Lenz! Mi chiamano Lenz! “Primave­ ra” ! E perché no ? Dal momento che ogni prima­ vera è preceduta da un tempestoso novembre, da un oscuro dicembre, da un gennaio ricoperto di ghiaccio e di neve, in una parola dall’autunno e dall’inverno. In fondo non hanno tutti i torti a chiamarmi così, se l’intenzione è quella di alludere ai nuovi germogli e ai nuovi boccioli da cui si svi­ lupperanno i frutti futuri. Non è forse un frutto ciò che nascerà con questi segni che vado facen­ do con la mia placida penna ? Non è gravida di ger­ mogli e strani boccioli l’aria del mio spirito? Cer­ to questa primavera che sto vivendo io oggi non è nulla se confrontata con quella che a quei tem­ pi attraversava la mia anima con rumorosi tem­ porali, germogli fantastici, sole ardente e ine­ brianti tempeste, quando eravamo impegnati a scia­ lacquare il primo denaro ottenuto con la frode. Da quella volta non ho mai più provato un’euforia come quella che dilatava allora il mio petto fino a farlo scoppiare, e non sono più stato sconvolto nemmeno da dolori come quelli che erano allora 113

il mio pane quotidiano. Non si deve credere, infatti, in alcun modo che la mia situazione di allo­ ra fosse solo un vuoto piacere. Io avevo piutto­ sto la sensazione di avere in petto un ragno che mi suggesse il sangue giorno e notte. E questo il motivo per cui ho scritto, come vedo girando le pagine, che nel più profondo di ogni piacere pro­ vato risiedeva un tormento. Questo tormento era però molto grande. Ci può essere qualcosa di più terribile per una boc­ ca bruciata dalla sete del miraggio di una fonte d’acqua freschissima? Una certezza malata, men­ zognera, fraudolenta, per mezzo della quale la voce della disperazione sia seppellita e ridotta al silenzio con la forza. Cosa ci può essere di più spa­ ventoso per il sonnambulo dell’accidentale risve­ glio, anche se gli riesce di salvarsi dal precipizio nel quale sta per cadere afferrandosi alla grondaia ? Può un uomo in fondo onesto dimenticare del tut­ to di esserlo e annientare la propria coscienza ? Io almeno non ho mai avuto la sensazione di essere senza colpa quando sperperavo il denaro della zia. Anche se non è che poi mi astenessi proprio dal soffocare sul nascere ogni senso di colpa. Il più delle volte, anche se non lo davo a vedere, ingur­ gitavo a forza le leccornie dei ristoranti come fos­ 114

sero veleno e fiele. Inoltre, come si suol dire, ero consumato dal fuoco di una terribile passione. Era un incendio a infuriare dentro di me. Avrei potu­ to gridare ai miei giudici che tutte le mie azioni insensate e i miei errori altro non erano che il ten­ tativo di spegnere questo devastante fuoco. L’a­ vrei potuto dimostrare loro; oppure mi sarà pos­ sibile, forse, riuscire a farlo con questo memoriale. Da qualche parte ho detto che mi sarei voluto get­ tare sotto le ruote di un omnibus. Aggiungo che non presi in considerazione questa possibilità una sola volta, ma innumerevoli volte. Presi in consi­ derazione anche la possibilità di farla finita anne­ gando nella Oder, con un colpo di pistola o con la corda. Ma a farmi desistere fu soprattutto il pensiero che così facendo avrei abbandonato la terra sulla qua­ le viveva Veronika.

Non mi nascondo che, se avessi raggiunto il mio esagerato obiettivo di allora, il grado di felicità con­ seguito in questo modo sarebbe stato molto diver­ so e più alto di quello che oggi mi consente di sta­ re con l’anima tranquilla. La gioia terrena avreb­ be potuto così raggiungere una dimensione ultraterrena, e per un essere mortale sarebbe forse 115

risultata insopportabile nella sua abbagliante magnificenza che eclissa ogni cosa con il suo splen­ dore. Pur essendo perfettamente sereno e tran­ quillo nella piccola e pacifica cerchia di persone che frequento, devo ammettere di non avervi completamente rinunciato. Solo che ho trasferi­ to tutte le soddisfazioni di questo genere nel noto e migliore mondo dell’aldilà.

Ritorno ora all’episodio che, lungo l’intricato sen­ tiero cosparso di errori, di disillusioni, di manie di grandezza e di delitti, fu uno dei più fatali. Con il proposito di chiarirlo nel migliore dei modi, ne ho discusso ancora ieri con mio suocero Starke, facendo in modo che la conversazione vi cadesse sopra come per caso, mentre ce ne stavamo nel per­ golato davanti a un bicchiere di birra. Il buon vec­ chio sa che sto lavorando alla storia dei miei misfatti, a un tardivo scritto con il quale intendo difendermi dalle accuse mossemi e ottenere la comprensione e il perdono dei miei giudici; per­ ché comprendere significa perdonare.

Ancora oggi, come ai tempi del nostro primo incontro, Starke ritiene che io abbia un grande avvenire da scrittore. 116

Non ci potrebbe essere cosa più amabile, cosa più gradevole delle serate trascorse nel pergolato. Ieri è stato particolarmente bello. La mia buona e semplice Marie, il cuore più d’oro di tutti, ci ave­ va preparato, come sempre, la più deliziosa delle cene con uova, formaggio, latte fermentato, bur­ ro fresco e latte fresco. Le zanzare ronzavano; rose, oleandri e madreselve mandavano il loro profumo, al quale si univa quello degli abeti del vicino bosco. Benché si fosse fatto buio, l’aria tiepida e umida non si era rinfrescata. La luna sembrava enormemente grande dietro agli ontani e ai lari­ ci ai bordi del ruscello del villaggio. Nel silenzio notturno, nel quale non si muoveva foglia, il suo scrosciare sembrava aver raddoppiato la propria sonorità. Nel prato della rotonda brillavano le lucciole. Marie era rientrata in casa quando presi a parla­ re della mia dissennata domanda di matrimonio fatta ai genitori di Veronika Harlan. Ma voglio raccontare lo stesso come avvenne. Ero venuto a sapere che l’incantevole ragazza era fidanzata e che nel giro di pochi giorni si sareb­ be addirittura sposata. Era stato Wigottschinski a mettere in giro quella voce. Naturalmente

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si trattava di una sciocchezza bell’e buona. Solo che, come per un verso la mia speranza si aggrap­ pava a ogni filo di paglia, così le più inverosimili dicerie riuscivano a gettarmi in un bollente vor­ tice di tormento. Per farla breve: bruciavo di gelosia. Credo che a quei tempi Veronika dovesse avere all’incirca quattordici anni. Ma era possibile pure che mi fossi sbagliato, e che alla fin fine ne aves­ se quindici o sedici. Perché una ragazza di sedici anni non si sarebbe dovuta sposare? Chi ne poteva sapere delle regole e delle consue­ tudini in uso nella sua invidiata classe sociale? Così scrissi al padre della bambina - al commer­ ciante di ferramenta che da poco aveva assunto la carica di consigliere di commercio - quella lette­ ra che ancora oggi mi risulta incomprensibile. Non potevo fare altrimenti, dovevo scrivere la let­ tera. Era come se ci fosse un’altra persona a gui­ darmi la mano. Ma ogni volta che mi è capitato di parlare di questa circostanza, di parlare in generale di Veronika, e questo accadde durante il periodo di carcerazione preventiva, mi è sem­ pre stato detto che era irrilevante, che non c’en­ trava nulla. E abbastanza singolare che nel momento in cui si vuole decidere della colpevo­

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lezza e dell’innocenza di un imputato, non siano oggetto d’indagine il movente principale e le cir­ costanze attenuanti. «Che importa a noi delle sue lettere?» dicevano. « Scriva pure tutte le lettere che vuole, a noi non interessano, a meno che non contengano, in rife­ rimento al reato commesso, prove a carico o disca­ rico dell’imputato». La mia lettera indirizzata al signor Harlan era alti­ sonante e presuntuosa. Com’era mai possibile, come poteva mai avere un tono così estremamente insolente e arrogante la lettera scritta da una persona in fondo così timo­ rosa, così modesta, anzi misurata, quale ero io, un uomo dalla carnagione pustolosa, che zoppicava, che si era sviluppato miseramente per la man­ canza di cibo sofferta durante la giovinezza e che, per sua stessa convinzione, era disgustosa­ mente brutto? Nella mia natura non poteva che essere stata fatta, per così dire, tabula rasa. «Ancora oggi arrossisco di vergogna» confessai a mio suocero «ripensando a quell’incomprensibile lettera». In essa dichiaravo di non poter consentire in nessun modo al fidanzamento, e tanto meno al matrimonio, di Veronika con un altro che non fossi io. 119

Al che mio suocero replicò: «Perché quella lette­ ra non dovrebbe esserti stata dettata da uno spi­ rito maligno al quale interessava metterti in cat­ tiva luce?». Ho dimenticato di dire che mio suocero per molti anni, prima che ci conoscessimo, è stato un attivo spiritista e che in quel periodo era in contatto, tramite pratiche occulte, con la moglie defunta e con molti altri spiriti. Quando ci conoscemmo egli aveva oramai abbandonato la pratica tiptologica e, in genere, gli altri eserci­ zi di spiritismo. Marie vi era poco incline e a lui stesso, con l’avanzare dell’età, era venuta meno quell’appassionata curiosità per le faccende del­ l’aldilà. Possiede però un’opera unica al mondo, intitolata Manoscritti degli spiriti, che egli stes­ so ha rilegata in quaranta bei volumi e che un giorno, forse, sarà d’importanza capitale quale miniera di rivelazioni inaudite della quarta dimensione. Io stesso me ne tengo alla larga.

C’è da meravigliarsi che la mia dissennata lette­ ra fosse rimasta senza risposta? Lo sanno tutti, non è raro che le persone ricche ricevano lettere di paz­ zi. Non ci si fa caso. Le si getta nel cestino. 120

A quell’epoca io ero invece ben lontano dall’ammettere che le cose stessero, com’era naturale che fosse, in questi termini. Mi si crederà ? Il mio orgoglio era cresciuto a dismi­ sura da quando avevo scritto al ricco commer­ ciante di ferramenta. La lettera, temeraria e riso­ luta, indirizzata al patrizio ebbe l’effetto, con carat­ tere retroattivo, di farmi sentire della sua stessa con­ dizione sociale. Andavo a testa alta molto più di quanto non facessi già prima e nuotavo in un mare d’inebriante presunzione. Camminando per strada e vedendo la folla dei passanti scorrermi accanto, pensavo fra me e me: spero non vogliate discono­ scere che nella mia lettera ho fatto un discorso mol­ to serio al consigliere di commercio Harlan, met­ tendolo al corrente di quali siano i conti che ho con lui da regolare. Non risponde, faccia pure. E pro­ prio una simile condotta la prova evidente che il mio scritto ha sortito il suo effetto. Che cosa dovrebbe rispondere chi, come il signor Harlan, ha tutto il torto dalla sua parte ? Con serietà e freddezza andavo ripetendo a me stesso che il silenzio dell’importante commer­ ciante di ferramenta mi sembrava essere un buon segno in mio favore. La risposta a una lettera come la mia avrebbe dovuto essere considerata con I2I

tutte le cautele del caso. Sciogliere il legame con il promesso sposo aveva bisogno dei suoi tempi, senza considerare che si sarebbero pur dovute prendere informazioni sulla mia persona. Ero tal­ mente avviluppato nel fumo narcotizzante del mio delirio di grandezza - mi è stato detto, del resto, che anche il poeta Bayron aveva un piede varo - da non dubitare che mi avrebbero descrit­ to alla famiglia Harlan come l’astro nascente nel cielo dei poeti.

Un giorno, durante l’attesa, tornò a impossessarsi di me quello che mio suocero aveva definito uno spirito maligno. Avevo di nuovo chiesto al postino se avesse da recapitarmi l’attesa lettera, e ricevuta che ebbi la consueta risposta negati­ va me ne tornai di filato a casa per cambiarmi d’abito. Mi vestii e agghindai con una cura che non esiterei oggi a definire ridicola. Anche il risultato era ridicolo. Non sarebbe stato difficile leggerlo nei visi della gente che mi guardava con un’espressione di stupita ironia. Ma io ero ben lontano dall’accorgermene. Benché vedessi molte cose con la vista periferica, il mio occhio spirituale era irrigidito e bloccato su un solo obiettivo.

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Presi una carrozza e diedi al cocchiere un deter­ minato indirizzo - è facile indovinare quale. Tutto avvenne in un batter d’occhio, come, in verità, non avevo osato sperare. Sul biglietto da visita mi ero arrogato il diritto di porvi il tito­ lo di dottore. Il domestico scomparve nelle stan­ ze interne dell’appartamento con il biglietto che gli avevo consegnato. Quando fece ritorno mi fece accomodare in un salotto azzurro. Dovet­ ti attendere un poco - erano all’incirca le undi­ ci - prima che la bella signora Harlan entrasse nel salone accompagnata dal fruscio del vestito di seta. Fu subito sorpresa nel vedermi, come se si fosse aspettata di trovarvi un’altra persona, e mi spiegò, riprendendosi subito, che, in effet­ ti, era proprio di un’altra persona che aspetta­ va la visita. Si trattava di un certo dottor von Trotha, un giovane assessore amico di suo fra­ tello. Subito dopo disse: «Di che si tratta? Suppongo che voglia parlare con mio marito». Con un’ombra di timidezza le risposi che forse non sarebbe stato ancora necessario, ha signora Harlan mi rivolse uno sguardo scruta­ tore. Forse notava che facevo fatica a dominar­ mi. Sentivo, senza riuscire tuttavia a evitarlo, un 123

fremito sfiorarmi le labbra, un soffocante nodo for­ marsi in gola, mentre gli occhi mi si stavano per riempire di lacrime ardenti. «In che cosa possiamo servirla, dottore?» disse sen­ za indugio. All’improvviso, però, le parve di ricordare, e come se avesse indovinato il motivo della mia visita, esclamò: «Giusto, ora rammento, si acco­ modi! Mi ero quasi dimenticata dell’inserzione che abbiamo fatta pubblicare per quel posto di pre­ cettore per la nostra Veronika. Certamente, se non erro, è a ciò che devo la sua visita». Mi sovvennero le mie inclinazioni pedagogiche e i miei studi. Risposi: «No, signora, i tempi in cui avrei accet­ tato un semplice posto di precettore sono finiti per sempre». Io stesso rimasi alquanto sbigottito per quella strana risposta che mi era sfuggita di bocca. Pro­ vai una vertigine come chi ha fatto un salto sopra un precipizio, ma non ha ancora messo piede dal­ l’altra parte dopo quel salto temerario. E poi la mia risposta non mi soddisfaceva. Se almeno non vi avessi infilato la parola «semplice»! «Trova che fare il precettore a una ragazzina intelligente sia una cosa tanto poco importante?»

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replicò la signora Harlan con un’espressione di sor­ presa nel viso. A quelle parole mi sforzai di raccogliere tutte le energie rimastemi, e dissi che di sicuro avrei accet­ tato volentieri un tale impiego se non mi fossi per­ messo di presentarmi in ordine a un’altra circo­ stanza, molto più importante e seria. In quel momento ero giunto alla sommità estre­ ma della rupe sporgente dalla quale non rimane­ va altro che fare il salto nell’abisso. Oggi non sono più in preda all’ebbrezza di allora e sono sano come un pesce. A maggior ragione devo dire a me stesso che quell’uomo presentatosi quel giorno a casa del commerciante di ferramenta per chiedergli di persona la mano della figlia, era mala­ to. Oggi mi risulta proprio impossibile persino immaginarmi come avessi potuto allora compor­ tarmi in quel modo. Avviene così quando si cre­ sce e nel periodo della pubertà si attraversano del­ le crisi che sono, per così dire, malattie inevitabi­ li, quasi salutari. E probabile che a colpirmi sia sta­ ta una cosiddetta malattia dell’infanzia di questo tipo, una sorta di malattia virale. Avevo la sensazione allora, e la ebbi anche quan­ do mi trovai di fronte alla bella signora Harlan, 125

che non mi sarei comportato come mi stavo com­ portando se non avessi smarrito un certo freno ini­ bitorio su certe forze che avevano preso il soprav­ vento all’interno della mia anima. Il mio comportamento era quello di un imposto­ re, se non quello di un pazzo uscito dal manico­ mio. Ritorno al racconto di quanto mi è rimasto impres­ so nella memoria del discorso e del comporta­ mento in genere, durante quell’ora di alienazio­ ne mentale nella casa del commerciante di ferra­ menta. «Signora» dissi «sarebbe per me un onore molto particolare diventare il precettore di sua figlia, se il destino e la mano di Dio non mi avessero indi­ cato una strada diretta a mete molto più elevate e in particolar modo a una meta molto più eleva­ ta. Mio padre era ufficiale dello stato maggiore» era stata l’uniforme verde di ispettore della doga­ na che mio padre portava a suggerirmi quell’i­ dea - «la mia educazione fu tra le più accurate. Sin dalla più giovane età ho percepito chiari segna­ li che mi indicavano una grande professione futu­ ra. Non vorrei peccare di presunzione ma mi per­ metto lo stesso, a onor del vero, di comunicarle

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che l’autunno prossimo verrà messo in scena al tea­ tro comunale di questa città un mio dramma inti­ tolato Corradino di Svevia. Un grande studioso, di cui non voglio fare il nome e che possiede la più grande biblioteca di Breslavia» - io pensavo al mio attuale suocero, il rilegatore - «l’ha definita la più grande opera che sia stata scritta dai tempi di Frie­ drich Schiller. Sono benestante, signora. Altri­ menti come avrei potuto mai osare un simile pas­ so? I miei averi sono investiti in titoli sicuri. Inol­ tre sono comproprietario di una ditta di com­ missioni ben avviata, benché solo come socio nominale in quanto le mie inclinazioni ideali e le mie capacità mi rendono inadeguato alla vera e propria vita degli affari. Signora, come ogni genio mi trovo certo all’inizio di un lungo cam­ mino ricoperto di spine. Ma spero di essere degno del mio talento e» mi affrettai ad aggiun­ gere ancora «di patire fino alla fine il martirio del grande poeta e pensatore che Dio ha voluto riservarmi. Sono pronto a sopportare lo scherno, il disconoscimento, persino la cecità del mio prossimo, giacché uno molto più in alto di me non ha avuto timore di percorrere la via del Golgo­ ta. Mi permetta, signora, di presentarmi come l’autore di quella lettera, che il suo signor mari-

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to avrà senza dubbio ricevuto circa due settimane fa. L’autore della lettera dice di avere un più anti­ co e alto diritto, sulla mano di sua figlia, di qualsiasi altro, e unisce a questa argomentazio­ ne la sua seria richiesta di matrimonio. Sia cer­ ta, signora, che considero la questione con sacro­ santa serietà». Non so dove fossi andato a pescare tutte quelle frasi artefatte. Mi scivolarono dalle labbra come l’olio e senza difficoltà alcuna. Già solo lo sguardo della madre del mio idolo era stato capace di innalzarmi al di sopra del terreno reale delle cose reali. Del resto era un atto incomprensibile e sconside­ rato quello di lasciarmi trascinare in una rete di menzogne così grossolane, che chiunque, all’infuori di me, avrebbe potuto facilmente distruggere. Dall’altra parte della piazza si trovava l’ufficio nel quale avevo lavorato come un morto di fame per mia madre e per i miei fratelli. Una visita al com­ missariato di polizia sarebbe stata sufficiente a sta­ bilire con estrema esattezza la mia origine e tut­ te le altre circostanze. Invece, nello stato di eufo­ ria nel quale mi ero venuto a trovare, spinto com’ero dall’ansia e attratto com’ero dallo splen128

dore, il pensiero di poter essere smascherato mi era così lontano come lo è all’uomo dalla coscien­ za più immacolata.

La signora Harlan mi aveva ascoltato con atten­ zione. Mi parve che più di una volta si fosse guar­ data intorno, fugacemente, come per cercare aiu­ to. Dopo che ritenni di aver terminato la mia espo­ sizione e tacqui in attesa, si alzò in piedi, si dires­ se verso il muro e, mentre si accingeva a pigiare il bottone di un campanello, disse: «La sua doman­ da di matrimonio ci onora molto». Poi aggiunse press’a poco che sua figlia era ancora compietamente bambina e troppo giovane per sposarsi. Il tempo avrebbe portato consiglio; ma per il momen­ to non mi avrebbe dato una risposta né positiva né negativa. Mentre faceva questi e analoghi discorsi entrò un domestico e subito dopo il signor Harlan in per­ sona. Harlan era snello, vestiva con cura, si potrebbe dire con eleganza, e portava un ciondolo di coral­ lo alla catena d’oro dell’orologio. Mi promisi subi­ to di procurarmi anch’io un ciondolo come quel­ lo. In seguito lo feci per davvero; tutti gli acqui­ sti riconducibili a quel periodo mi sono stati però

sequestrati, senza che io ne rimpianga la perdita, poiché si ritenne che facessero parte dei beni rubati alla zia. Il signor Harlan entrò, e io ebbi modo di notare con chiarezza che fu istruito dal­ la moglie sull’argomento della nostra conversazione con alcune strizzatine d’occhi. Prima di salire di nuovo sulla carrozza che mi sta­ va aspettando davanti al portone di casa Harlan non potei fare a meno di fermarmi e far vagare lo sguardo, mentre mi abbottonavo i guanti glacé, in direzione della parte opposta del Ring. La mia presunzione, o meglio il mio autoinganno, la mia follia, avevano raggiunto il loro apice. Ero con­ vinto di aver ottenuto un successo fantastico. Oggi so, naturalmente, perché il signor Harlan si era comportato in quel modo e perché si doveva comportare in quel modo, facendo finta di esse­ re completamente interessato alla mia domanda di matrimonio. Egli mi giudicò semplicemente per quel che ero. E poiché è pericoloso fare irritare i pazzi, la cosa migliore è fare in modo di non con­ traddirli. Prima di andarmene avevo insistito con caparbietà che fossero ancora discusse le seguenti questioni: se potessi vedere Veronika e parlarle, se potessi 130

scriverle e fino a quando si intendesse rimanda­ re la data delle nozze. «Propongo» disse Harlan come di sfuggita «di lasciar passare tre mesi pri­ ma che lei possa parlare con mia figlia. Mantenere nel frattempo uno scambio epistolare lo riterrei superfluo. Dopo la scadenza dei tre mesi vedre­ mo se i suoi sentimenti, dottore, si saranno man­ tenuti costanti. Due anni» concluse «è assolutamente necessario che passino perché la mia pic­ cola Veronika possa crescere prima di prendere marito». Oggi credo che la mia richiesta di matrimonio sarà stata accolta quel giorno in casa Harlan con favo­ re, come un episodio spassoso su cui farsi grandi e gustose risate. Naturalmente per me fu più di un episodio spas­ soso. Quasi scoppiavo di orgoglio e di presunzione sen­ za riuscire a decidermi a salire in carrozza. Alzai la testa verso le finestre di palazzo Harlan per vede­ re se fosse possibile intercettare ancora uno sguar­ do dell’amata. A un collega del Municipio che vedendomi mi aveva salutato non ricambiai il salu­ to. In quel momento vidi avvicinarsi sul marcia­ piede il mio attuale suocero, il vecchio dalla vene­ 131

randa barba bianca, accompagnato da Marie aveva bisogno di un sostegno perché non ci vede­ va bene. Quelle care persone mi riconobbero. Marie diventò tutta rossa dalla gioia mentre il vecchio, cui lei aveva riferito della mia presenza, mi salutò subito compiaciuto facendomi cenno con il fazzoletto. Ma in quel momento non mi sem­ brava la loro compagnia all’altezza della mia per­ sona, e così mi precipitai a montare in carrozza. «Mi porti al ristorante Hansen» ordinai al coc­ chiere. Sono trascorsi alcuni giorni, durante i quali non ho continuato a scrivere le mie memorie. Ma non fa niente, non ce fretta. Il tempo è stato buo­ no, e ho potuto fare passeggiate, o meglio escur­ sioni, a Erdmannsdorf, passando per il vecchio parco di Buchwald, e nella bella cittadina di Schmie­ deberg. I miei familiari gestiscono quasi da soli il negozio, la piccola attività commerciale, e mi concedono tutto l’ozio immaginabile. Grazie alla mia esperienza di impiegato, le questioni di ragio­ neria e l’evasione della corrispondenza della nostra piccola azienda mi costano poca fatica e mi portano via poco tempo. Le sbrigo in un bat­ ter d’occhio.

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Era già mia intenzione fare una pausa di qualche giorno per meditare, in realtà più per distrarmi, prima di accingermi a dar conto della fatidica storia della mia relazione con Melitta. La piccola era seduta con la madre, la sedicente baronessa, al tavolo accanto al mio, proprio in quel ristorante elegante di cui avevo indicato il nome al cocchiere prima di salire in carrozza, con l’intenzione principalmente di far colpo sui pas­ santi. In realtà fui sorpreso e dovetti in qualche misu­ ra raccapezzarmi una volta che la vettura si fu fer­ mata per davvero davanti alle vetrine del ristorante Hansen. Improvvisamente ero finito, non so nemmeno io come, in quell’eldorado di tutti i buongustai. Nei primi istanti credo di essermi comportato in modo passabile; ma facevo fatica a sostenere gli sguardi degli avventori senza esserne turbato. A sini­ stra dell’entrata del lungo locale sedevano alcuni cadetti e ufficiali del reggimento dei corazzieri imperiali di Breslavia. Erano dei begli uomini, alti, magri, giovani ricchi, distinti, ognuno apparte­ nente a un’antica famiglia aristocratica. Davano l’im­ pressione di essersi voluti degnare di frequentare quel locale. Gli altri tavoli erano occupati da signo­ 133

ri, per lo più di età matura, i cui visi non poteva­ no che incutere rispetto. Sicuramente alcuni di loro, medici, professori universitari, consiglieri comunali, portavano i nomi più prestigiosi della città. Qualcuno, lo sentii con chiarezza, era chia­ mato «altezza». Non so perché, ma da alcune occhiate, di cui dovetti sopportare il fuoco di fila, mi parve che ci fossero anche autorità quali que­ stori e presidenti di tribunale. No, il momento del mio ingresso in quel locale non fu invidiabile, e non vorrei ritrovarmi in una situazione simile. Tutto ciò avrebbe dovuto farmi ritornare alla ragione. In effetti, alla presenza di tutti quei personaggi di rango, fui colto da una sorta di risveglio improv­ viso della coscienza. Dopo essermi tuttavia acco­ modato a un tavolo singolo che mi fu indicato con ricercata cortesia, mi tranquillizzò l’idea di ave­ re in tasca il denaro sufficiente per poter pagare il conto, e di non essere debitore nei confronti di nessuna di quelle persone, ma al massimo nei confronti solo di mia zia. E, del resto, ero un uomo libero, avevo smesso di essere il subalterno scri­ vano municipale. In tutti i modi era certo strano che un morto di fame, insignificante e disprezzato, non fosse sta134

to messo alla porta e potesse anzi pranzare a un tavolo accanto a quelli riservati alle maggiori auto­ rità del Municipio, della Provincia e persino del­ lo Stato, da pari a pari. Sarà stato per farmi coraggio, o per mettermi sin dall’inizio in buona luce, oppure perché preso dalla mia ingannevole sensazione di trionfo - per farla breve, ordinai subito dello champagne. Certo il lusso del gran mondo implica piaceri squisiti. In fondo non c’è da meravigliarsi se chi se ne deve privare dopo averli provati, divenga un malfattore. Questo era accaduto a Wigottschinski. Una sfrenata sete di piaceri ha mandato in rovi­ na quell’uomo dotato, a suo modo, d’ingegno e per molti versi affascinante. Nel mio caso questo peri­ colo è scongiurato.

La minestra sostanziosa, il pesce prelibato, l’ar­ rosto aromatico, la selvaggina, il dolce e non ulti­ mo il vino di una squisitezza impareggiabile ebbe­ ro il merito di mettermi in uno stato d’animo di g rande soddisfazione. La luce artificiale che in quel locale, eccezion fatta per la parte posteriore del­ lo specchio dell’unica finestra, deve rimanere sempre accesa anche durante il giorno, divenne più gradevole. A questo si aggiunga la velata penom135

bra prodotta dalle nuvole di fumo, che in qualche modo isolava i singoli avventori. Dopo una mezz’o­ ra che ero lì seduto, ebbi la sensazione di essere stato accolto in una società segreta in cui ognu­ no si augura tutto il bene possibile dell’altro. Melitta sedeva, l’ho già detto, in compagnia del­ la madre al tavolo accanto al mio. La ragazza ave­ va un cagnolino maltese che portava al collo un sonaglio. Quando Melitta faceva scendere il cagno­ lino a terra, il guinzaglio era abbastanza lungo da consentirgli di venire al mio tavolo ad appoggia­ re le sottili zampine anteriori sulla mia coscia sinistra. Naturalmente mi mostrai cortese con la bestiola. La baronessa ringraziò più volte con un lieve sor­ riso per la simpatia che avevo mostrata. A un cer­ to punto rimproverò Melitta con un tono ama­ bilmente imbronciato perché il signore - il signo­ re ero io - continuava a essere importunato dal cagnolino. Melitta si voltò allora a guardarmi. Quando la vidi in viso, la baronessa dovette accor­ gersi che sul mio volto si disegnò una sorta di sgo­ mento. Vidi che inarcò le sopracciglia con un’e­ spressione in un certo qual modo interrogativa. 136

E io ero davvero sconvolto, perché Melitta asso­ migliava a Veronika in una maniera che a me par­ ve sorprendente. Da quell’istante ebbe inizio in me un meravi­ glioso turbamento, che mi faceva combinare in modo mistico, o meglio patologico, le immagini delle due ragazze. 10 mi andavo dicendo: questa ragazza non è la vera Veronika; ma Veronika mi dà per suo tramite un segnale, si mette in comunicazione con me.

Melitta sembrava avere la stessa età di Veronika. Seppi comunque in seguito che aveva invece mol­ ti più anni, ma non ne fui mai del tutto convin­ to. Che dipendesse dal modo di vestire o dal fat­ to che fosse in ritardo con la crescita, certo è che ai miei occhi lei aveva un’aria da bambina. Ave­ va gli stessi capelli biondi di Veronika, e come lei 11 portava sciolti con lunghe e bellissime onde che le cascavano sulla spalla. Gli occhi erano castani; il nasino sottile aveva la punta sporgen­ te e leggermente flessa all’insù. E il modo in cui la punta del naso si muoveva mentre parlava con una bocca, mi verrebbe di dire, simile a quella di un lattante, aveva per me un fascino tutto parti­ colare. 137

Si poteva notare che la ragazza era oggetto di con­ versazione al tavolo dei corazzieri imperiali. Ma lei sembrava essere indifferente agli sguardi dei signori che sorvegliavano il tavolo della baro­ nessa, e si vedeva bene che non ne ricambiava nes­ suno. Stranamente mostrò invece interesse per la mia persona. Per un verso questo fatto mi sorprese; per l’altro, però, posto che l’ebbi subito in relazione con la mia idea fissa, non mi sembrò poi cosi strano. La mia follia che mi faceva credere nell’esistenza di connessioni soprannaturali, individuava nell’in­ solita condotta della bambina nei miei confronti la presenza di una certa logica. E fu solo per que­ sto motivo, cioè per la mia misteriosa interpreta­ zione della vicenda, che trovai il coraggio di lasciarmici coinvolgere. Voglio anticipare subito un fatto: Melitta nutri­ va nei miei confronti una simpatia vera. Possie­ do una quantità di prove che lo dimostrano. Come mai fosse possibile, trattandosi del sottoscritto che prima della sua grande crisi non avrebbe mai osa­ to immaginare seriamente di poter vivere una tale avventura, è una questione che rimane aper-

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ta. Certo, con Marie avevo un rapporto di ami­ cizia semplice, sobrio, che però a quei tempi né lei né io avremmo potuto scambiare per passione amorosa. Per la verità neanche la simpatia che Melitta mi dimostrava si è mai trasformata in una passione amorosa di questo genere. Eppure per questa ragazza non poteva esistere nulla senza che ci fosse una qualche implicazione amorosa, e cioè un amore molto concreto.

Voglio mettere insieme alcuni particolari rilevati nel corso delle mie riflessioni, che consentono di spiegare in qualche modo la simpatia di Melitta nei miei confronti. Lei era l’esemplare più singolare di donna che pos­ sa esistere al mondo: l’aspetto era quello di un’a­ dolescente ancora acerba, ma aveva un carattere indipendente, inflessibile, virile. Tale indipen­ denza si dimostrava uguale nel modo sia di pen­ sare sia di agire. Ogni tentativo d’infrangerla tante volte aveva cercato di farlo sua madre - ave­ va sortito sempre un esito negativo. Non avrebbe mai permesso, affermava, che il diritto di amare fosse svilito. Con grande tran­ quillità e fermezza diceva in faccia a sua madre

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di non avere a questo riguardo nessuna intenzio­ ne di privarsi d’alcunché. Se un uomo le fosse pia­ ciuto e se ne fosse presentata l’occasione, se lo sarebbe preso. Non aveva alcuna voglia di abban­ donare questo mondo senza averne goduto, e fino in fondo, i frutti migliori. Guai a chi avesse ten­ tato di impedirglielo. Costui sarebbe diventato suo nemico. Era naturale odiare i nemici. Ma lei sarebbe stata capace di un odio persino mortale nei confronti di chi l’avesse voluta defraudare del bene supremo della vita, che sarebbe stato come volerla uccidere. Che Melitta non dicesse solo così per dire, la madre ne sapeva qualcosa. Durante gli interrogatori e dagli avvocati, dai medici e dal sacerdote che mi sono venuti a tro­ vare in prigione, nonché dalle tranquille letture fatte in cella, ho appreso dell’esistenza del con­ cetto di perversità. Melitta aveva tendenze per­ verse. Così, diceva spesso che avrebbe preferito morire piuttosto che compromettersi con uno di quei bambocci azzimati di corazzieri imperiali. Per costoro provava ripugnanza, un’avversione tota­ le, mentre un uomo vecchio, brutto e persino sporco poteva suscitare in lei una forte attrazio­ ne. La baronessa ebbe a raccontarmi che la figlia

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era stata per lungo tempo l’amante devota di un vecchio artista di cabaret che soffriva di gotta. Ma fa lo stesso. Io compresi, pur attraverso la neb­ bia narcotizzante che mi avvolgeva, di che pasta fosse fatta la creatura nelle cui braccia ero casca­ to. Dai discorsi sul cane ne era scaturita sponta­ neamente una conversazione, e al momento di sal­ dare il conto mi presi la libertà, senza avvisare le signore, di pagare anche quello loro. Non so come fossero venute a conoscenza di que­ sta circostanza; fatto sta che poco tempo dopo si alzarono per lasciare il locale senza dire una paro­ la, dopo avermi sorriso in un modo significativo ed eloquente, piegando leggermente il capo in segno di saluto. E inutile dire che dopo due minuti ero anch’io per strada al loro fianco. Ci si può immaginare in quali pasticci mi venni a trovare quando in meno di ventiquattr’ore - lei non mi lasciò tanto tempo - Melitta divenne la mia amante fissa. Quella creatura dolce e massi­ mamente corrotta fu la mia prima maestra nelle arti dell’amore. In men che non si dica appresi da lei tutti i segreti dell’alcova. Di giorno e di not141

te le ero debitore di ogni possibile e immaginabile tributo. Poiché la zia aveva affidato il capitale espressamente nelle mie mani e non in quelle di Wigottschinski, ne diedi a lui una parte consi­ stente, ma trattenni per me la parte del leone che svanì in un batter d’occhio. Non volevo rivelare la mia relazione con Melitta a Wigottschinski e a mia sorella, i quali dovette­ ro però notare che i nostri rapporti si erano raf­ freddati, per cui mi vidi costretto anche in que­ sta circostanza a ricorrere alla menzogna. Forse fu un bene che Wigottschinski con il suo intuito scoprisse presto le mie malefatte sgravandomene il peso. Egli considerò naturale che anche nelle fac­ cende dell’amore avessi smesso di essere un fan­ ciullo e fossi passato all’azione.

Quando avevo ritrovato mia sorella in quel loca­ le notturno, avevo potuto constatare che i suoi modi, se paragonati a quelli di prima, erano dive­ nuti più fini, si direbbe da signora. Fu con Wigott­ schinski che divenne una vera prostituta. Se non fossi stato così preso dalla mia relazione con Melitta, forse avrei potuto evitare che Wigott­ schinski trascinasse completamente con sé mia sorella alla rovina. Lasciato solo con lei, il mascal­ 142

zone ebbe gioco facile a questo riguardo. Nelle pri­ me settimane non sospettai quali strade oscure e sotterranee stesse percorrendo con la ragazza. Quando nella notte più nera della mia vita mi resi conto, all’improvviso, di quanto fosse caduta in basso, fui preso, lo ricordo molto bene, da un sen­ so di orrore. Non riuscivo a capacitarmi di come mi fosse potuto sfuggire a quale terribile scuola quel farabutto nel frattempo avesse avviato Mela­ nie. Che cosa ne era stato di mia sorella che era in fondo una brava ragazza, una ragazza sincera e volitiva, anche se un po’ sventata e troppo asse­ tata di vita ? Egli l’ha infangata trascinandola con sé in ogni fogna, l’ha insozzata facendole attraversare ogni sudicio e squallido immondezzaio. L’ha intro­ dotta nel suo giro di conoscenze, nel giro dei più loschi galantuomini, facendole prendere confi­ denza con questo ambiente. Ha venduto la sua benevolenza o l’ha impiegata come posta da offri­ re quando giocava d’azzardo. E quando la pove­ retta si ribellava, erano i pugni che le mollava a vincere la sua resistenza. Alla fine a lei vennero meno le forze per ribellarsi, perché la schiavitù del vizio aveva reso perfetta la sua sottomissio­ ne. Non poteva più fare a meno delle esalazioni

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di acquavite, dello stato di ubriachezza, dei pia­ ceri bestiali che si procurava nelle spelonche del vizio.

Ma non devo anticipare nulla né divagare. Quel giorno che avevo fatto la mia strampalata richiesta di matrimonio in casa Harlan e che, dopo aver pranzato e bevuto champagne al risto­ rante Hansen, ero stato portato dalla baronessa e da sua figlia a casa loro per risvegliarmi la mat­ tina dopo nelle braccia della ragazza, quel giorno, dico, non solo mi ero sganciato del tutto dal ter­ reno della vita che avevo condotto in preceden­ za, ma in me era stata ridotta al silenzio, una vol­ ta per tutte, la voce della ragione. Ho appena finito di sfogliare le pagine del mano­ scritto, e ritengo che sia giunto il momento di ritor­ nare a parlare della mia povera e buona mamma. Io continuavo ad abitare nella mia vecchia came­ retta o, per meglio dire, ci andavo ancora a dor­ mire. Comunque sia lo facevo con molta irrego­ larità perché il più delle volte me ne ritornavo a casa all’alba e durante la settimana trascorrevo alcune notti di seguito nell’appartamento della baronessa. M4

Mia madre continuava ad avere per me il rispet­ to fondato sulla vita esemplare che avevo condotto prima. Vedeva o voleva ancora vedere in me il bra­ vo figlio, la rupe sulla quale poter erigere con fidu­ cia il sicuro asilo per la vecchiaia. Di Veronika Harlan non ne sapeva nulla, e tan­ to meno sapeva di Melitta, giacché non frequen­ tava nessuno, non metteva quasi mai piede fuori dalla porta di casa, e quelle poche volte che lo face­ va si limitava allo stretto necessario: il panettie­ re, il macellaio o gli spacci vicini. Marie, la mia attuale moglie, le andava a far visita di quando in quando. Ma né Marie né suo padre avevano di me più notizie di quante ne avesse la mamma. Inoltre mia madre era come se avesse timore del­ la luce del giorno. Non capitava che andasse a far visita ad altre persone o che smentisse, per così dire, il suo carattere schivo quando Marie o, ad esempio, una vicina di pianerottolo riusciva a metterla in agitazione andando a bussare alla por­ ta del suo rifugio. Se pure ci fossero state delle persone al corrente di tutto quello che andavo com­ binando, e glielo avessero riferito, non l’avrebbe creduto; è molto probabile, anzi, che non avreb­ be nemmeno permesso loro di tentare di raccon­ tarle alcunché.

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Considerò, ne sono sicuro, come una malattia il mutamento che aveva notato in me e che non riu­ sciva a spiegarsi. E questo il motivo per cui non le passò mai per la mente di farmi rimbrotti mora­ li. Con me non se la sentiva di farlo. Continuava a guardarmi preoccupata, e io evitavo il suo sguar­ do nei limiti del possibile, giacché era l’unica cosa che nelle mie arti estatiche - mentre mi trovavo, per così dire, in equilibrio sulla fune - mi faces­ se vacillare. Mia madre è morta. Il dolore l’ha portata alla tomba. Ne sono sicuro, benché il medico mi abbia detto, per consolarmi, come dagli esami clinici fosse risultato che non avrebbe potuto vivere più a lungo e che i suoi organi erano lo­ gorati. Ma che sto dicendo? fu davvero il do­ lore che le procurai a portarla alla tomba? Né il dolore, né gli organi logorati, ma i pugni, impietosi e crudi, con i quali il destino l’ave­ va colpita al cuore furono la causa della sua morte. Del resto, quando ritornavo nel vecchio appar­ tamento, mi sembrava ogni volta di entrare in una tomba che emanava un odore di muffa. Sarebbe altrettanto giusto dire che si trattasse di una bara. Era la bara nella quale mi sembrava allora

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di essere stato sepolto vivo per lunghi e terribi­ li anni. Mia madre, dicevo, mi credeva malato. Dopo la sua morte mi hanno consegnato in prigione una lettera ritrovata nel tiretto del suo comodino. Era molto lunga e indirizzata a me. Dallo scritto risultava che per lungo tempo aveva ritenuto che io fossi malato di mente, ma che aveva sperato che un giorno sarei guarito e che al mio risveglio mi sarei ritrovato quello di prima. Molti anni pri­ ma aveva fatto un’esperienza simile con un suo fratello.

La baronessa e sua figlia mi dissanguarono. Melitta mangiava poco e non toccava mai la car­ ne. Non beveva e non fumava, altrimenti, dice­ va, ne sarebbe potuta risultare attutita la fine sensibilità dei suoi nervi, dai quali riteneva dipen­ dessero i sommi piaceri della vita. Quale morige­ ratezza in tanta intemperanza! E tuttavia era una persona buona e diceva che mi amava perché ero cosi buono. Melitta affermava che presto sarebbe morta. Oggi, lei vive ancora, ma è scomparsa da Breslavia. Si dice che sia andata in qualche paese del sud. Alcu-

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ni raccontarono che un ricco brasiliano, dopo averla rincorsa per lungo tempo nei suoi viaggi, avesse finito per impiccarsi al saliscendi della camera d’albergo dove lei alloggiava, perché la ragazza aveva continuato a dimostrarsi fredda e insensibile nei suoi confronti. La verità è che a lei piacevano quasi tutti gli uomini. Età, condizione sociale, pregi o difetti di sorta non facevano dif­ ferenza. I compromessi le erano comunque odio­ si, e quando non le garbava di fare qualcosa, non c’era nulla da fare, non c’era verso di ottenere nul­ la, nemmeno se ci fosse stato qualcuno che per lei avesse sperperato milioni all’istante. Non si creda che mi fossi abbandonato in modo semplice e naturale alle delizie procuratemi dalla sua conquista. Il pensiero di Veronika e la sua immagine non mi abbandonavano mai, nemmeno quando ero fra le braccia di Melitta. Abbiamo tra­ scorso notti intere in bianco, stretti l’uno all’al­ tra, e non è accaduto di rado che mi sia sciolto come una donnicciola in singhiozzi e lacrime con­ fessando a Melitta il motivo del mio sconforto. L’ultimo dei sentimenti che lei mostrava era quel­ lo della gelosia. Anzi, mi stringeva a sé con anco­ ra maggior ardore e dolcezza. «Io non amo» dice­ va «le persone che sono felici, io amo solo le per-

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sone infelici. Quanto più soffri, tanto più fervi­ do in me si fa il desiderio di consolarti. Se ti dà sollievo e lenisce il tuo dolore» diceva spesso «chiudi pure gli occhi e immagina di tenere stret­ ta fra le braccia l’altra». Non sapeva come nel suo abbraccio continuasse sempre a rendermi felice e a tormentarmi la paz­ zesca illusione che lei fosse in qualche modo un saluto, una parte, un’emissaria mistica di Veronika Harlan.

Verso la metà dell’estate Wigottschinski e io dovemmo incontrarci per prendere delle serie deci­ sioni. Il denaro della zia era stato dilapidato, e dove­ vamo decidere come potergliene spillare dell’altro. Una tale operazione non era cosa da poco. Per lungo tempo non fummo d’accordo sulla som­ ma da estorcerle, che questa volta - Wigott­ schinski insistette su questo punto - dovevamo amministrare, come diceva lui, in parti uguali. Poi­ ché io avevo bisogno di lui e temevo di perdere il suo aiuto - in un certo qual senso, rispetto alla zia, sentivo che egli mi teneva in pugno - dovet­ ti aderire a quella soluzione. Egli propose una som­ ma doppia, anzi tripla rispetto a quella che ave­ vamo già dissipato. 149

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Continuavo a essere titubante, benché di quel denaro avessi bisogno più di Wigottschinski in quanto avevo saldato grandi e piccoli conti di ogni sorta per la baronessa e sua figlia contraendo persino dei debiti. Gioielli da me acquistati per la piccola, li avevo dovuti dare in pegno alla zia Schwabe sottobanco, facendole intendere che era­ no di un amico. Melitta non disse mai nulla; fu invece la baronessa a farmi notare che o ero in gra­ do di far fronte ai miei debiti, e in quel caso l’a­ vrei dovuto dimostrare con moneta sonante, oppu­ re, come diceva lei in tono ironico, mi sarei dovu­ to rivolgere altrove. Doveva avere di che vivere, doveva provvedere a sua figlia, pensare al suo futu­ ro, e poi - gratis è solo la morte. In un colloquio che avemmo a quattr’occhi smet­ temmo di fingere che si trattasse ancora di capi­ tali destinati alla nostra attività commerciale. Era strano che considerassi la faccenda con tanta obiettività visto lo stato di generale esaltazione in cui versavo, ma vi riuscii perché avevo il coltello alla gola. Mi accorsi che in precedenza il mio amico aveva fatto solo finta di credere alla mia fama di poeta e alle mie prospettive di matrimo­ nio. Ciò che nel frattempo avevo fatto e conse­ guito mi faceva apparire ai suoi occhi invece che 150

uno stupido uno spregiudicato. Su questo non mi lasciava dubbi. Non avevo alcun interesse di iniziarlo ai miei misteri. Ho già detto quanto piacesse a lui ammantare ogni cosa di una qualche rivendicazione sociale. Con­ tinuava a essere ancora, in un certo senso, al ser­ vizio della zia Schwabe, anche se in forma meno impegnativa, e mi fece notare che, se avesse volu­ to, questa sarebbe stata la strada che avrebbe percorso per tirarsi fuori d’ogni impiccio lascian­ domi nei guai. Eppure egli odiava la zia Schwa­ be. Provavo orrore nel vedere con quale accani­ mento si manifestasse quell’odio mentre ordiva­ mo la trama dei nuovi piani. Anche questo sen­ timento, però, gli riusciva di ammantare di una rivendicazione sociale. Il mio complice si diceva un anarchico, e ritene­ va che ogni mezzo fosse lecito quando si tratta­ va di espropriare la società borghese del suo bot­ tino. Aveva dichiarato guerra all’ultimo sangue allo stato fondato sullo sfruttamento, al capitalismo. Affermava che la proprietà era un furto e che era un atto assai meritorio derubare una banda di ladri. Se un furto fosse riuscito sarebbe stato almeno un piccolo ma importante contributo dato alla giustizia. 151

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Donne come la zia Schwabe andavano considerate alla stregua di ulcere cancerose annidatesi nel cor­ po dell’umanità. Di lei diceva che era una san­ guisuga, che era una vecchia iena sempre pronta a tendere un agguato ai danni di coloro che era­ no stati feriti a morte nella lotta sociale, ad avven­ tarsi contro i moribondi, per ingrassarsi con la loro carogna. Di lei diceva anche che era un vecchio e ripugnante avvoltoio che puzzava a distanza di chilometri dei suoi traffici immondi, e che, a vederla nel suo alloggio, assomigliava a questo uccello necrofago che se ne sta fra le costole rosic­ chiate di un bue morto. Così potente era l’odio di Wigottschinski, così ecces­ siva e sfrenata la sua rabbia, che io, purtroppo, almeno fino a un certo punto - si pensi all’odio e al disprezzo che mia madre dimostrava per la sorel­ la - mi feci trascinare dentro a quel vortice. Così fu dunque studiato e, come si è detto, pre­ disposto fra di noi il piano della nuova mascalzo­ nata nei minimi particolari.

Per farla breve: anche questo colpo andò a buon fine. La sua riuscita era dipesa esclusivamente dal fat­ to che la vecchia megera usuraia, come la chia­ 152

mava la mamma, non aveva ancora perso la cie­ ca fiducia in me. Certo, noi avevamo giocato d’astuzia come non mai. La relazione con mia sorella, e i piani riguardanti la mia persona per­ seguiti con tenacia, avevano indotto Wigottschinski a sfruttare l’intimità che aveva con la zia per consolidare in lei la fiducia nella mia retti­ tudine, nella mia prudenza e nel mio senso degli affari. Anche in questo caso egli si assunse l’in­ carico di preparare il terreno per il prossimo salasso ai danni della zia, intessendo unicamen­ te una trama di menzogne ben escogitata sui miei successi negli affari e spendendo solenni parole di elogio e di ammirazione per il mio carattere. La verità è che più tardi, fra un bicchiere e l’al­ tro di vino, ridemmo come degli sciocchi di quell’infame bricconata, e in particolar modo del ruo­ lo di semidio che egli mi aveva attribuito, men­ tre lui, per mettere maggiormente in risalto le mie qualità, aveva sminuito e persino negato il pro­ prio valore sotto ogni aspetto. Noi ricevemmo dalla zia Schwabe un titolo indu­ striale al cento per cento, e io le promisi di ripor­ targlielo così come me l’aveva dato, perché mi sarebbe servito soltanto quale pegno da depositare in banca per non più di tre mesi. 153

In meno di sei settimane questo nuovo denaro era defluito negli stessi canali nei quali si era dileguato quello precedente, e noi ci apprestavamo bene o male a discutere il piano per una nuova truffa, quando la zia Schwabe, all’improvviso, si svegliò dal suo letargo in cui era sprofondata per la trop­ pa fiducia riposta in me. Un giorno, ritornato a casa, appresi che la zia era stata da mia madre. Era da dieci anni che ciò non accadeva. Non so dire cosa si fossero dette le due sorelle che erano divenute due estranee. Trovai mia madre pallida in viso e agitata, e con le lab­ bra tremanti; ma non volle farmi lo stesso alcuna rivelazione di rilievo. Si limitò invece a rivolger­ mi il suo vecchio sguardo interrogativo pieno di dolore e angoscia, forse con minore soggezione del solito. La zia aveva lasciato una lettera con la quale mi pregava di andare da lei. Strano a dirsi, ma in me ci fu una sorta di risve­ glio della coscienza che aumentò fino a trasformarsi in sgomento. Già nelle ultime settimane avevo vissuto come sot­ to la pressione di nubi che si andavano facendo sempre più scure. Nei momenti in cui il cielo si schiariva mi rendevo conto di quanto pericolosi 154

fossero le scogliere e i dirupi su cui avevo osato spingermi. Il peso delle mie angosce cresceva opprimendomi. Non era raro il caso che nel cuo­ re della notte mi mettessi a urlare svegliandomi madido di sudore. Cercai conforto nella religio­ ne e sentii germogliare in me il desiderio di poter rinunciare al mondo, di trascorrere il resto della vita dietro le mura di un convento. Ero protestante e considerai l’eventualità di convertirmi al catto­ licesimo, perché la vecchia e grande madre chie­ sa mi prometteva con maggiore probabilità un asilo. Fui colto da una profonda stanchezza. Era quella stanchezza della vita che non desidera altro che quiete e pace, e teme che ogni resurrezione possa comportare un tormento nuovo. In questo periodo avevo già composto nella bara del mio cuo­ re il bel cadavere di Veronika. Il mio animo era come rivestito di una tappezzeria nera. Al centro era sistemato il catafalco, con le candele accese e ricoperto di fiori. Ma sembrava che lo spazio fos­ se illuminato non dalle candele, ma dallo splen­ dore soprannaturale della bellezza che si effondeva dalla mia amata morta. Con quest’immagine nel­ l’anima volevo spegnermi, per non affrontare, come ho detto, il pericolo di una resurrezione. E vero, c’erano anche altri stati d’animo. Quando

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il mio fisico era meno esausto, era con le speran­ ze ultraterrene che sfondavo il muro della mia nau­ sea di vivere. Mi vedevo poi nella sfera di Vero­ nika, che si era trasformata in un serafino, e Dio aveva concesso a me solo il privilegio di nutrirmi per l’eternità dello splendore che si effondeva dalla sua bellezza.

Sotto l’effetto di questo primo sgomento andai a trovare Wigottschinski per riflettere sul da farsi. Bisognava prima di tutto riuscire a sapere fino a qual punto la zia fosse informata dei nostri traf­ fici o se magari ne avesse solo un vago sospetto. Per questo ci trovammo d’accordo sul fatto che io dovessi immediatamente affrontare lo sgrade­ vole passaggio di una visita alla zia Schwabe. «Perché» diceva il mio bell’amico mettendomi fret­ ta, visibilmente allarmato «in preda al primo spa­ vento, quella è senza dubbio capace di conse­ gnarci al pubblico ministero». Fu la zia Schwabe ad aprirmi la porta di casa dopo che si fu smorzato il debole suono del campanel­ lo di latta. Non mi salutò e mi fece entrare in salot­ to senza dire una parola. 156

Il sofà di felpa rossa scricchiolò quando ci si sedet­ te sopra. Solo allora dissi «Buona sera» e chiesi se doves­ si accendere la lampada che si trovava sul tavolo, visto che si stava facendo buio. Ma non giunse alcuna risposta. Né la zia m’invitò ad accomodarmi. Giungeva dalla Kupferschmiedestraße il rumore delle ruote sul selciato di un carretto che stava pas­ sando. Il canarino nella camera attigua, un cana­ rino dello Harz, stava compiendo un ultimo sfor­ zo per porgere al sole che tramontava il solito tri­ buto canoro. La zia continuava a non proferire parola. «Mi hai fatto chiamare» balbettai «di che si tratta?». Sembrava non rientrare ancora nei piani di mia zia darmi una risposta, finché, dopo qualche tem­ po, non si decise a farlo. Con voce ferma disse chiaro e tondo queste parole: «Lorenz, tu sei il più infame dei mascal­ zoni che mi sia mai capitato di conoscere in vita mia». Nell’udire quelle sorprendenti parole mi sentii come se un chirurgo, affondato il bisturi nella gola e raggiunta la colonna vertebrale, mi stesse squar-

tando, fino all’ombelico e giù nelle viscere. Mai in vita mia ho provato un dolore simile.

E bene fare una breve pausa, riaccendere la pipa che si è raffreddata, affacciarmi alla finestra per udire il canto dei fringuelli e dei pettirossi, e per ricordare a me stesso dove mi trovo, prima di con­ tinuare la mia confessione. Ecco, ora mi sento meglio. Ho salutato il medico che passava per strada con il suo nuovo calesse lo studio medico va bene, se lo può permettere -, ho ascoltato di nascosto le conversazioni dei bam­ bini, che portano bacche e funghi che vogliono ven­ dere giù in bottega. E ho respirato il profumo del­ le mie rose centifoglie che mi giunge dal giardinetto antistante alla casa. Il mio cuore ha così smesso di palpitare. Devo stare attento a conservare mente lucida e sangue freddo mentre mi calo nei pozzi più profondi e pericolosi della mia vita, e mi aggi­ ro nelle sue gallerie e nei suoi labirinti infernali, laddove l’aria è impregnata di veleni mortali. Si potrà realizzare un miracolo più grande che gode­ re oggi, di nuovo, la luce di un giorno dorato? La zia Schwabe dunque, seduta nella penombra sul sofà di felpa rossa e con lo sguardo rivolto

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a me, suo idolatrato nipote, aveva detto queste parole: «Tu sei il più infame dei mascalzoni che mi sia mai capitato di conoscere in vita mia». E io, come ho già scritto, mi sentii messo a nudo da un taglio che giungeva fino alla spina dorsale. In quell’istante si rafforzò in me la convinzione che, in effetti, non ero più degno di Veronika e che la dovessi trattare come una morta. Il mio cuore cominciò comunque a invocarla urlan­ do in quell’ora terribile in cui fu assestato il col­ po mortale alla mia personalità morale. Infatti sarei morto beato, sarei morto esultando simile a un martire cristiano, se mi fosse stato permesso di spiegarle, gettato in terra ai suoi piedi, come avrei cercato e trovato, simile a una falena, la morte alla sua luce. In seguito ho ceduto una volta all’urgenza inte­ riore di scrivere alla bella bambina, che non ave­ va mai scambiata con me una sola parola, per confidarle tutto. La lettera mi ritornò indietro sen­ za che fosse stata aperta. Del resto, va al di là di ogni mia immaginazione descrivere la tempesta che le parole della zia sca­ tenarono nella mia anima. Certo è che, prima di permettere alle mie labbra di fare uscire il primo

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suono della mia risposta, avevo riacquistato il controllo sulla mia persona. Mi resi conto di tutta la gravità della mia situa­ zione ed ero deciso a non lasciare nulla d’inten­ tato per evitare di essere smascherato. Il modo di procedere diretto ed estremamente bru­ tale della zia mi offrì la prima base su cui impian­ tare la mia tattica difensiva. «Consentimi prima di accendere la luce» dissi, e senza fretta mi apprestai a farlo. Poi proseguii: «Ecco, adesso c’è luce, e possiamo discutere di tut­ to con maggiore chiarezza». «Sai che non amo agitarmi» dissi quando vidi che stava per aggredirmi. «Se sono davvero come dici, non serve a nulla agitarci. E poi ho sete» ebbi la faccia tosta di concludere «giacché a me, come sai, non piace farti aspettare quando mi chiami, ho fatto una mezza corsa per venire fin qui. Forse mi potresti dare una bottiglia di bir­ ra». Lei ricominciò daccapo: «Lorenz, tu sei il più infame dei mascalzoni...». «Non farla lunga con queste storie» la interrup­ pi «lo sai che sono insensibile ai discorsi che non hanno un fondo di ragione. Se vuoi insistere su questa linea, non ti meravigliare se prenderò il cap­ 160

pello e me ne andrò. Si troverà senz’altro un’ora in cui sarai di umore migliore». Ansimando lei riuscì a dire: «Voi mi avete ingan­ nata, dimmi la verità!». Piangeva. Non riusciva più a parlare. Io dissi con serenità: «Chi ti ha ingannata? Chi, voi?». Naturalmente non ricordo più tutti i particolari del colloquio. Alla fine non v’era più alcun dub­ bio che la zia, probabilmente dal suo commissa­ rio di polizia, era stata informata abbastanza bene dei nostri traffici. Ero riuscito, così almeno mi sembrò, a farle cre­ dere che fra la baronessa e me ci fossero degli affa­ ri in corso, perché questa si prestava molto bene ad assolvere compiti di intermediazione. Negai di avere una relazione con sua figlia dichiarando che si trattava di un’infame calunnia. Altrettan­ to dissi della relazione di Wigottschinski con mia sorella, visto che era soprattutto questa circo­ stanza ad aver fatto andare su tutte le furie mia zia. Mentre le spiegavo ogni cosa, le feci notare che non approvavo, o almeno feci finta di non approvare, il rapporto che intratteneva lei con Wigottschinski. Già il fatto che io ne fossi al corrente, la mise in imbarazzo. Se avevo espres161

so delle riserve sul carattere di Wigottschinski, l’a­ vevo fatto solo nel senso in cui lui stesso aveva agito, per cercare di rafforzare la fiducia della zia nei miei confronti. Ma andai anche oltre e dissi che un individuo come quello non si sarebbe potu­ to mai inserire come socio nella nuova ditta. Dopo aver sentito ciò che su di lui si raccontava, mi ero convinto, dissi, che non sarebbe stato accettato mai e poi mai negli ambienti commerciali onesti. A volte pareva che tali sotterfugi avessero sorti­ to l’effetto di far cambiare idea alla zia, dandole una rinnovata fiducia, inducendola quasi a chie­ dermi scusa. Dopo qualche tempo ebbi anche la mia birra, e fui invitato addirittura a cenare con lei. Ma continuavo a sentire che si trattava di una pace illusoria. Il discorso, su cui tenne duro, fu all’incirca il seguente: «Ho forse impiegato un’espressione troppo forte definendoti un mascalzone. Può dar­ si che pettegolezzi e calunnie mi abbiano tratta in inganno e che gli affari che state facendo pro­ mettano dei guadagni. Oggi è mercoledì. Avete tempo fino a sabato. O Melanie si presenta entro le dodici in punto di sabato in tua compagnia con tutti i libri contabili, oppure puoi star sicuro che entro la sera dello stesso giorno ti ritroverai in gat162

tabuia con i tuoi manutengoli. Anche la barones­ sa deve stare attenta».

Fino all’imbrunire Wigottschinski, mia sorella e io celebrammo un consiglio di guerra nel nostro cosiddetto ufficio bevendo vino e fumando siga­ ri. Come al solito, verso le nove e mezzo sentim­ mo dall’interno del teatro gli spari a salva del gran­ de assalto degli indiani. Veniva dato ancora lo spet­ tacolo di successo II giro del mondo in ottanta gior­ ni. Il terreno sotto ai nostri piedi si stava facen­ do piuttosto incandescente, e noi avremmo pre­ ferito fuggire e riparare nel Nuovo Mondo o da qualche altra parte. La nostra situazione era alquanto disperata. Non perché non avessimo alcun libro contabile. Non credevamo che per questo la zia ci avrebbe con­ segnato subito all’autorità giudiziaria. In primo luo­ go Wigottschinski voleva fare un altro dei suoi ten­ tativi di riconciliazione, e poi riteneva che anche alla zia non piacesse affatto aver a che fare con le aule giudiziarie. La nostra situazione era dispe­ rata perché avevamo contratto altri debiti e ave­ vamo assolutamente bisogno di nuovo denaro, e non potevamo più sperare di poter cavare nem­ meno un centesimo bucato dalla zia Schwabe.

Questa situazione non sembrava aver colto di sorpresa Wigottschinski; io, invece, non sape­ vo quali pesci prendere. Meditai persino di impiccarmi, ma ciò che non riuscivo assolutamente a tollerare era l’idea di ritornare nella pelle che avevo appena mutato. Meglio morto che confessare a Melitta e a sua madre una ca­ duta così miserabile. E poi: morendo avrei po­ tuto essere strappato a Melitta; vivo, però, non sarei stato capace di distaccarmi da lei. No, nel peggiore dei casi l’avrei fatta finita forse con un salto nella Oder. Wigottschinski, come ho detto, sembrava che avesse previsto che saremmo giunti a quella situazione di crisi, e che si stesse avvicinando al suo obiettivo. In­ veì contro la zia impiegando le espressioni più sconce, che superavano tutto ciò che fino a quel momento il suo odio aveva concepito a questo riguardo, e non esitò a servirsi di ogni mezzo per istigarmi a provare la stessa rabbia nei suoi confronti. Io gli avevo riferito parola per parola la frase con cui la zia mi aveva ac­ colto; e, in effetti, quella frase che mi bollava come il più infame dei mascalzoni si adattava bene a risvegliare in me il desiderio di riscatto e, se adoperata con astuzia, poteva far accen164

dere un fiero sentimento di vendetta nel mio animo sconvolto.

Il giorno dopo non vidi né Melitta, né mia madre, perché mia sorella, Wigottschinski e io non ci separammo. Senza che se ne fosse parlato, sen­ tivo che fra di noi era sopravvenuto un fatto nuovo, terribile, che ci aveva indissolubilmente uniti in un modo fino ad allora sconosciuto. Mi sembrò del tutto naturale che andassimo a far cola­ zione in una cantina fuori mano, che pranzassi­ mo a mezzogiorno in un angolo oscuro a ridosso di un cortile equivoco e fatiscente, bevendo acquavite di Nordhausen e continuando a bere del­ l’acquavite per tutta la sera, che trascorressimo la notte successiva in bianco o dormendo al mas­ simo qualche ora, vestiti, le braccia distese sul tavolo della bettola e la fronte appoggiata sul dorso delle mani. In tutto quello che avevo visto e fatto fino a quel momento durante quelle due notti e quella gior­ nata mi ero comportato in modo sostanzialmen­ te passivo. Sembrava che navigassimo trascinati da una corrente inarrestabile. Wigottschinski era al timone della nostra barca. Talvolta intuivo vagamente quale fosse la rotta che egli voleva

seguire e la meta che si era prefisso di raggiungere; era come quando, passando davanti a vecchi muri diroccati, l’anima rabbrividisce nel percepire, dal basso di una fessura, l’odore freddo di ferro e di muffa proveniente da una camera di tortura sot­ terranea. Per strappare al nocchiere il timone di mano, mi mancavano le forze. E non ne avevo neppure per saltare giù dalla barca. Nei flutti o mi attendeva la morte oppure, alla fine, malgrado il mio tenta­ tivo di fuga, sarei stato condotto vivo lo stesso, nella scia della barca, alla meta che egli voleva rag­ giungere e che io temevo. Nelle dichiarazioni che rilasciò in seguito, Wigottschinski negò con decisione questo mio atteggia­ mento passivo. Disse che mi ero spesso compor­ tato come un esaltato, e che talvolta avevo mes­ so a tacere le sue esitazioni e i suoi scrupoli di coscienza battendo con rabbia i pugni sul tavolo. Davanti al giudice io ho negato questa circostan­ za. Ammettiamo pure che mi fossi comportato in quel modo; se è così, è probabile che a farmi dimenticare ogni cosa sia stato l’eccessivo consu­ mo di acquavite cui non ero abituato. Da allora ho tentato innumerevoli volte di richiamare alla memoria quelle notti terribili che precedettero il

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crimine, e può darsi davvero che talvolta abbia dato quell’impressione di cui si è detto. Me ne ricordo a sprazzi. In questo caso, però, è stato per dissimulare la mia debolezza d’animo, la mia man­ canza di volontà e di azione, che mi sono agitato alzando la voce. Forse, senza volerlo, ho deside­ rato di compiere il crimine pensando, nella mia meschinità, di poter conservare le mani pulite se avessi lasciato che i piani di Wigottschinski seguis­ sero il loro corso. Ma a quelle famose notti seguì quel famoso gior­ no. Nella notte fra il venerdì e il sabato si deci­ se di passare all’azione. In quelle tre notti i capel­ li, lo dico senza esagerare, mi si sono fatti tutti grigi. Già la sera prima del misfatto, che si realizzò senza di me, mi trovavo in uno stato di apatia tota­ le. Avevo conosciuto ogni tipo di delinquente, uomini, ma anche donne, e in preda a una sorta di furia autodistruttiva mi ero precipitato nel vor­ tice delle orge del vizio. Accaddero cose, alle qua­ li partecipava persino mia sorella, che più anima­ lesche e sataniche non è possibile immaginare, e il cui ricordo continua a mantenermi incisi nel­ l’anima marchi d’infamia brucianti. Marchi d’in­ famia indelebili, maleodoranti. 167

Quando la sera prima del misfatto mi congedai da Wigottschinski, dopo aver fissato luogo e ora in cui, per sua sicurezza, avrebbe dovuto consegna­ re a me la refurtiva, sperai che l’insopportabile ten­ sione nel mio cervello degenerasse trasformandosi subito in follia. E quando invece, più tardi, in una cella della prigione, ripresi coscienza, fu anche que­ sta per me una benedizione.

La zia doveva essere derubata. L’“affare” era stato escogitato con un esperto scassinatore, un lesto­ fante amico di Wigottschinski, e quindi dallo stes­ so Wigottschinski, da mia sorella e da me. Impie­ go queste espressioni del gergo malavitoso perché mi sono divenute familiari durante quelle notti spa­ ventose. Mi avevano accolto nella banda persino con un balletto grottesco e un bagno di acquavite. Secon­ do il parere degli esperti, Γ “affare” si poteva rea­ lizzare senza difficoltà. Tutto stava a non avere la sfortuna di un inconveniente molto particolare. Naturalmente non era presa nemmeno in consi­ derazione l’eventualità che, come si dice, fosse tor­ to un solo capello alla derubata. Tutto procedette anche secondo il programma che avevamo stabilito. Non fu rispettato, pur­

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troppo, solo per un particolare che costò tuttavia la testa a Wigottschinski. Wigottschinski fece una visita alla zia valendosi dei rapporti di vecchia data che, anche se si era­ no un po’ raffreddati, sapeva tener vivi, quando gli conveniva, con l’antico calore. Portò alla zia delle buone notizie. Il giorno seguente, le disse, l’attendeva una grande soddisfazione dalla visita mia e di mia sorella. La zia, come c’era da aspettarsi, gli chiese di fer­ marsi a cena con lei; si bevve del vino, e così avven­ ne anche, come da programma, che lei invitasse il furfante a trascorrere la notte a casa sua. Pri­ ma di andare a letto questi le aveva versato nel­ l’ultimo bicchiere di vino del sonnifero; così, anche nel caso si fosse svegliata, con la fiducia di cui poteva valersi per il fatto di starle accanto, gli sarebbe stato facile attirare la sua attenzione distraendola da ciò che stava accadendo nella cameretta attigua adibita a monte dei pegni. Face­ va parte della generale depravazione insita nel carattere di Wigottschinski, che i suoi istinti ses­ suali, quando si trattava di procurarsi un vantag­ gio, non retrocedessero di fronte a niente. Dalla mezzanotte in poi, con il tempo piovoso che imperversava, mia sorella doveva rimanere di sot-

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to, nella Kupferschmidestraße, a fare il palo. Era­ no stati concordati alcuni cenni, cioè segni con­ venzionali, cosa nella quale mia sorella aveva acquisito molta abilità, per il momento in cui lo scassinatore si sarebbe avvicinato. Mia sorella mostrava inoltre una grande destrezza in quelli che i suoi loschi colleghi chiamavano diversivi, cioè nel­ le arti impiegate di fronte a un pericolo incombente per sviare e allontanare la persona importuna dal luogo delle operazioni. Sono convinto, visto che tutto era stato previsto con tanto ingegno e con tante misure precauzionali, che la trama del pia­ no fosse stata organizzata da lungo tempo. Subito dopo le dodici Wigottschinski apri una fine­ stra e, una volta che il guardiano se ne fu anda­ to al termine del suo giro di ronda, gettò giù sul selciato a mia sorella, che nel frattempo era usci­ ta dall’ombra di un portone, la chiave di casa accuratamente avvolta in un pezzo di carta. Mela­ nie raccolse la chiave e s’incamminò, dapprima a passo lento, e poi più veloce dopo aver svoltato per un vicoletto laterale, facendo un determina­ to giro lungo, labirintico, finché non giunse in un luogo concordato dove consegnò la chiave allo scas­ sinatore. Questi si diresse verso la casa della zia, dove lei lo seguì, ma mantenendosi a una distan­ do

za tale da permetterle appena di continuare a tenerlo d’occhio. Proprio nel momento in cui il malfattore scomparve nella casa della zia, lei svol­ tava nella Kupferschmiedestraße.

I

Mi sono domandato spesso perché Wigottschinski non volesse realizzare senza di me il piano che aveva senza dubbio in animo da tanto tempo. Egli conosceva le abitudini di mia zia meglio di me. Sapeva con esattezza dove lei custodiva il dena­ ro contante, certi titoli e i gioielli, e anche dove teneva nascoste le chiavi di tutte quelle cassette particolari. Per anni e anni aveva fatto oggetto di studio minuzioso l’appartamento della zia e lo conosceva meglio della sua proprietaria. E se non veniva a capo della meccanica della cas­ saforte ignifuga, non ero certamente io che pote­ vo aiutarlo, tanto più che la zia non faceva avvi­ cinare chiunque a questa fortezza di acciaio. Non poteva dunque fare a meno dell’aiuto del­ lo scassinatore e degli altri complici della banda di malfattori. E dunque, a che gli servivo io, cui egli doveva con­ segnare, se tutto fosse andato liscio, una parte con­ siderevole del bottino ? Suppongo, innanzi tutto, per coprirsi le spalle, giacché nella professione di 171

malfattore era soltanto alle prime armi. Con l’o­ nestà e la serietà che vedeva incarnate nella mia persona si era procurato il solido sostegno, il palo necessario per farvi arrampicare intorno il cespu­ glio sarmentoso dei suoi progetti criminali. Inol­ tre gli era benvenuta la mia buona fede mista di stupidità. Di uno stupido come me, se manovra­ to a dovere, ci si poteva forse servire per farsi tira­ re da lui le castagne dal fuoco. In fin dei conti non sarebbe stato poi nemmeno difficile imbrogliarlo quando si fosse trattato di spartirsele, senza bru­ ciarsi nemmeno il dito mignolo. Che andasse in malora lui e tutte le ustioni che si era procurato. Ma chi può penetrare per davvero i sofisticati e intricati meccanismi di un’anima e vederci chia­ ro ? E frequente incontrare persone del tutto iner­ ti che sono in grado di sviluppare la propria ener­ gia solo in società con un altro. E chissà, poteva darsi pure che a Wigottschinski stessi semplicemente simpatico. Poiché Wigottschinski non voleva abbandonare l’appartamento, lo scassinatore avrebbe dovuto consegnare una parte del bottino a mia sorella che era rimasta a fare il palo, e il resto a una certa persona di fiducia che quella notte stessa sareb172

be dovuta partire alla volta di Dresda. Mia sorel­ la era attesa invece alla stazione di Friburgo dal­ la sedicente vedova di un ufficiale in viaggio con il figlioletto, la quale avrebbe dovuto prendere in consegna, senza dare nell’occhio, la parte del bottino che si trovava nelle mani di mia sorella, e portarla a Berlino. Si fissò luogo e data del cosid­ detto abboccamento, cioè dell’incontro per la spartizione del bottino, in una città piccola. Wigottschinski garantì che i patti sarebbero sta­ ti rispettati e che non bisognava temere imbro­ gli, giacché fra di loro i malfattori mantengono rapporti di lealtà. Wigottschinski presumeva, svegliandosi la mattina accanto alla vecchia, di partecipare alla scoperta del furto, di dissimulare sgomento, sorpresa, di consolare la zia esortandola a sperare nel recupe­ ro dei beni perduti, di avvertire la polizia, di muovere i primi passi alla scoperta dei ladri. Sono convinto che fosse la sfacciataggine a consentir­ gli di mettere in pratica il suo proposito. Quella notte dalla casa della prestatrice su pegno Helene Schwabe furono trafugati con lo scasso beni, consistenti in denaro contante e altri ogget­ ti di valore, per un importo di almeno centoven-

timila marchi. Del furto furono recuperati solo un anello d’oro e un orologio anch’esso d’oro con inci­ so un monogramma, ma nel complesso solo poche altre cose. A questo successo, che non favorì né Wigottschinski né me, si potè invece pervenire solo per il rotto della cuffia. Alla porta del vecchio edificio, al secondo piano del quale abitava la prestatrice su pegno, c’era il tirante di un campanello che si poteva suonare anche di notte se qualcuno avesse avuto urgenza di parlarle. Era lei a decidere se aprire il portone al nottambulo a corto di denaro, quando questi le ispirasse fiducia e fosse un boccone abbastan­ za ghiotto. Mia sorella ebbe la fortuna di inter­ cettare uno di questi nottambuli, che riuscì ad atti­ rare in un vicolo buio valendosi del suo fascino e di ogni genere di arti femminili. Mentre era indaffarata con quella persona, cosa che le impediva di continuare a sorvegliare la porta, giunse un postino che, alla ricerca di infor­ mazioni su un indirizzo cui doveva recapitare un telegramma, tirò il campanello. Wigottschinski si affrettò a scendere le scale per andare alla porta, e subito dopo il postino, ligio al suo lavoro, si allon­ tanò in fretta lungo i muri delle case. Ma la zia, che Wigottschinski aveva lasciato che dormiva, 174

non dormiva più, si era svegliata, ed egli la trovò che lottava con il ladro. Quando ieri nei miei appunti ero giunto a scrivere di questo momento estremamente critico, mi accorsi che la mia buona moglie era dietro alle mie spalle e mi stava osservando. Faceva finta di tenermi il broncio perché io me ne stavo chiuso in camera, troppo assorto com’ero nel mio lavo­ ro, e l’avevo trascurata. Mi aveva portato basto­ ne e cappello, l’uno me lo aveva messo in mano, l’altro, senza tanti complimenti, in testa, ordi­ nandomi con sorridente serietà di accompagnar­ la a fare una passeggiata a Schmiedeberg. «Con grandissimo piacere» le dissi. E più tardi, mentre in silenzio attraversavamo i campi, le chiesi: «Perché mi hai fatto lasciare il lavoro?» Lei mi rispose: «Avevo la sensazione che ne aves­ si bisogno». «É stata la voce del tuo cuore» dissi «oppure è sta­ ta qualche altra ragione che ti ha spinto a farlo?». «È stata solo la voce del mio cuore» fu la rispo­ sta «e poi ti sentivo camminare su e giù per la camera come un’anima in pena». E aggiunse: «Hai già un aspetto molto diverso». 175

«Perché, avevo un brutto aspetto, Marie?» chie­ si. «Ora hai un colorito migliore» disse. Cercai di sorridere dicendo: «Il mio racconto è giunto al punto più avvincente». Le allodole mandavano grida di gioia intorno a noi. Sentivamo cantare il cucù, benché un terzo del mese di luglio fosse già passato. «Non sarebbe meglio... » cominciò lei dopo una più lunga pausa di silenzio per poi interrompersi e riprendere qualche attimo dopo: «Non sarebbe ora che sospendessi il lavoro per qualche giorno?». Perché disse così ? Né lei né il vecchio ne cono­ scevano una riga. Avevano soltanto un’idea mol­ to generica dell’intricato argomento nel quale mi ero addentrato. 10 dissi senza riflettere: «Sospendere nel momento in cui la storia si sta facendo più avvincente?». Lei tacque e si limitò a stringermi delicatamente 11 braccio. «Non si deve battere il ferro finché è caldo ?» dis­ si. E aggiunsi: «Non posso interrompere ora. Al con­ trario, perché io proceda davvero con maggiore cele­ rità possibile, Marie, mi devi dare una mano». «Guarda che stupenda antiopa» disse lei indi­ cando la farfalla di colore scuro che se ne stava

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placidamente distesa su un fiore giallo con le ali spiegate. Io ripetei: «Mi devi aiutare ad andare avanti». Aggiunsi: «Mi devi aiutare a superare alcuni pas­ saggi difficili». «Sai che non m’intendo di queste cose, e mi vuoi prendere solo un po’ in giro» disse. «Vuoi dirmi che non t’intendi di queste cose, Marie?» le risposi stringendole con forza il brac­ cio a me. «Non hai già dimostrato di avere ben altre forze, non hai dato prova in realtà di ave­ re ben altre forze quando si è trattato di aiutar­ mi? Non mi hai forse portato sulle braccia come un San Cristoforo donna - non attraverso le acque, ma attraverso una larga corrente di fuo­ co infernale ? «Non poteva essere altrimenti, Marie, quando, mentre stavo scrivendo l’ultima frase del lavoro mio di oggi, eri dietro alle mie spalle e mi stavi osservando. Eri sorta davanti a me in una tale splendente purezza e grandezza, eri così presen­ te e bella che mi sono spaventato. Avevo come evo­ cato il tuo corpo astrale, e tu non potevi far altro che seguirlo automaticamente». «Corpo astrale» era un concetto che a Marie era familiare per averlo appreso dal padre. 177

Non disse nient’altro che «Ma che dici, no!»; e mentre pronunciava queste parole, notai che anche i suoi occhi, come i miei, si stavano riempiendo di lacrime. «Mi devi aiutare, Marie» dissi. «Soprattutto ora devi starmi sempre molto vicina, devi sostenermi e sorreggermi, come facesti allora, anche se è solo con la mente che mi trovo ad attraversare di nuo­ vo la corrente infernale». «Come posso farlo?» chiese lei. «Abbi solo la bontà, Marie» dissi «di essere cari­ tatevole ogni volta che ti pregherò di esserlo e di rispondere alle domande, anche se riguarderanno le cose più orribili, anche se ti procureranno sof­ ferenza. A questo modo la tua figura acquisterà nella trama dei miei ricordi il posto che le com­ pete. Sarà al tempo stesso il mio spirito protettore di questi giorni, lo spirito protettore dei miei ricordi, e la santa salvatrice dispensatrice di amo­ re, che mi protegge dalle paure, dalle angosce e dai turbamenti dei miei giorni più neri».

«Come hai fatto» fu la mia prima domanda a Marie «a trovarti già alle sette di mattina, poco tempo dopo l’omicidio della zia Schwabe, nell’a­ bitazione di mia madre, anzi, accanto al mio let178

to, per confidarmi la terribile notizia come nem­ meno la misericordia in persona sarebbe stata capace di fare ? E un compito simile, ma pur sem­ pre un po’ più facile di quello che hai già svolto, Marie».

Ho raggiunto quello che mi ripromettevo di otte­ nere dal colloquio avuto ieri con Marie. Già quan­ do mi ero accorto che stava dietro alle mie spal­ le e mi osservava, avevo provato un’improvvisa sicurezza e un sano coraggio che mi spronavano a proseguire nell’impresa avviata. Una sorda ango­ scia mi aveva colto prima che lei venisse a libe­ rarmi dalle dolorose grinfie di quelle tremende ore fatidiche che avevo vissuto; grinfie che si erano nuovamente attaccate sempre più tutt’intorno alla mia anima da quando mi ero messo a evoca­ re quei giorni. Si sa da tempo, perché in precedenza ne ho fatto menzione diverse volte, che la zia Schwabe fu assas­ sinata. E non ho neppure taciuto la circostanza che lei talvolta mi viene ancora a far visita in sogno. Tali sogni sono accompagnati da uno spiacevole incubo. Grazie a Dio, però, ho accanto a me un vero angelo di Dio - cioè mia moglie - che mi vie­ ne ogni volta a svegliare. 179

Ieri mi sono fatto trasportare da questo forte e ala­ to messaggero celeste che dopo avermi prelevato dall’orlo di un baratro infernale mi ha trasporta­ to dalla parte opposta dello stesso baratro, depo­ sitandomi su una verde collina. Di qui osservo ora le profondità bollenti, la gorgogliante marea di fan­ go dell’ostacolo superato. L’angelo, però, mi sta accanto con tutta la sua indo­ mita forza. Ieri, al tramonto, siamo ritornati a casa. Per qual­ che tempo era come immersa in una luce sopran­ naturale, la mia Marie. E allora, in cuor mio, mi sono rivolto a lei in preghiera. Mi sono rivolto in preghiera a questo serafino! Mi sono rivolto in pre­ ghiera a questo miracolo divino di amore che è in lei incarnato. E con la mente mi rivolgo in preghiera a colei che, come sorta dalla terra, la mattina dopo la notte dell’omicidio mi apparve davanti al letto in casa di mia madre.

Devo ora descrivere quelle fiamme furibonde? Tentare di dare un’idea dell’incendio che imper­ versò nel mio cervello con i sogni di quella not­ te? Dio preservi ciascuno dal riuscire a farsi un’i­ dea, per esperienza diretta, di ciò che sto dicen­ 180

do. Si è parlato finora soltanto di un furto. Solo che l’anima non si faceva ingannare, fiutava la pre­ senza del sangue. Era come un nobile destriero che, annusando di lontano l’odore del mattatoio por­ tato dal vento, si terrorizza e atterrisce. Ho già detto che subito dopo essere stato tradotto in carcere mi dovettero ricoverare nel reparto ospedaliero. Avevo già la febbre alta quando Marie Starke si trovò accanto al mio letto, e le len­ zuola erano bagnate di sudore, che si sarebbero potute letteralmente strizzare. Del resto era già da settimane che soffrivo di sudore notturno. Perché non dovrei scriverne, visto che il mio libro non verrà rilegato in marocchino, né recherà il tito­ lo a caratteri d’oro, né sarà destinato a figurare sullo scrittoio in avorio di una signora tutta pro­ fumata ? Qui si tratta di fatti orribili come non mai. Stranamente divenni complice di un delitto in un periodo in cui Veronika Harlan giaceva come una bella morta nel catafalco della mia anima. Ora desidero qualche istante di raccoglimento.

Tutto mi sarei aspettato tranne che essere svegliato quella mattina da Marie Starke. L’ultima volta che

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avevo visto lei e il rilegatore suo padre - e di que­ sto è stato detto in precedenza -, era stato quan­ do ero salito in carrozza dopo aver fatto la mia richiesta di matrimonio in casa Harlan. Allora mi vergognai di conoscere quelle persone. Mi vergognai di loro fin quando la mia presunzione non affogò nelle segrete pene, ansie, angosce e nel­ la marea di fango del delitto. Allora, però, non pen­ sai al buon Starke e a sua figlia, perché non vole­ vo aumentare inutilmente il mio martirio. Non potevo provare altra sensazione che quella di un marinaio dopo un naufragio, il quale ricorda di essere un giorno approdato su un’isola verde e tran­ quilla illuminata dai raggi del sole. Nel libro di Gesù Sirach, al quarto capitolo, c’è un verso, il ventisettesimo, che recita: «Non aver sog­ gezione del tuo prossimo caduto in fallo».1 Sono mol­ ti gli uomini capaci ancor oggi di comprendere tut­ to il valore di questo motto di saggezza ? Comunque sia: riconoscerne il valore è già molto; metterlo in pratica nella vita è segno di suprema umanità. Questo, e non meno di questo, è ciò che Marie e suo padre hanno fatto per me.

Ieri Marie mi ha dato questa spiegazione: «Ti sve­ gliasti di soprassalto e prendesti a guardarmi fis­ 182

so. In quel momento capii ogni cosa». Bisogna immaginarsi questa situazione se si vuole apprezzare l’anima risoluta e splendida di Marie. Lei sapeva ogni cosa, sapeva che ero implicato nell’omicidio a scopo di rapina in cui era caduta vittima la sorella di mia madre e di cui era stata appena diffusa la notizia nelle edizioni straordinarie dei giornali. Non poteva valutare fino a che pun­ to vi fossi coinvolto. Eppure, mentre gli strilloni passavano giù per strada urlando i titoli dei gior­ nali, lei disse arrossendo e facendomi qualche timi­ da carezza: «Lorenz, hai sofferto tanto e soffrirai ancora. Ma conservati per me! Io ti aspetterò». Vuol tentare qualcuno d’immaginare quale suono hanno avuto per me quelle parole che Marie pro­ nunciò quella mattina ?

Non faceva altro che andare avanti e indietro per stare vicina ora a me, ora alla mamma, e non ci lasciò nemmeno per un istante. E grazie a lei che la mam­ ma venne a conoscenza di quanto era avvenuto solo otto giorni più tardi e solo da lei in forma edulco­ rata. Continuava a ripeterle che nessuno dubitava della mia assoluta innocenza. E a suo modo nem­ meno lei, stranamente, ne dubitava. Il suo verdetto sarebbe stato «innocente-colpevole». 183

k

Verso le dieci Starke venne su a trovarmi. «Corag­ gio» disse quando fummo soli. Nel momento in cui credevo di essere stato abbandonato da Dio e dal mondo, fu per me un miracolo trovarmi improvvisamente queste due persone accanto che erano a conoscenza di ogni cosa senza che ci fos­ se stato bisogno di spiegare alcunché. Piangevo a turno con il padre e con Marie, per­ ché era ora l’uno ora l’altra a dover tenere occu­ pata la mamma. Non si pensò affatto a una fuga. In silenzio tutti e tre partivamo dal presupposto che il calice amaro dell’espiazione e della punizione terrena andasse bevuto fino all’ultima goccia. Non avrei aspettato di essere arrestato, ma mi sarei consegnato spontaneamente all’autorità giudizia­ ria, se un certo sentimento dell’onore nei confronti dei miei complici non mi avesse impedito di far­ lo. Davanti a loro non volevo fare la parte dell’i­ pocrita che cerca solo di migliorare la propria situazione. Se mi fossi costituito avrei potuto anche far ricadere su di me il sospetto di essere un millantatore. Mia intenzione era esclusivamente quella di coin­ volgere il meno possibile gli altri e di non avere nessun riguardo soltanto per la mia persona. 184

Vedevo con favore di avere la febbre, di tossire e di avere il corpo percorso dai brividi. Malgra­ do quei sintomi avevo la sensazione che avrei superato la crisi della mia grave malattia e che la guarigione fosse imminente. Al penitenziario non potevo sfuggire. Intanto avevo trascorso l’intera notte a casa di mia madre, cosa che si poteva assolutamente provare e che escludeva la mia partecipazione all’omicidio. Quella mattina, e in compagnia degli Starke, mi sembrò di essere ritornato da un viaggio molto lun­ go e pericoloso, e di essere appena entrato nelle mie quattro mura di casa. Attendevo l’arresto con impazienza. Vedevo in tut­ to quello che mi attendeva quasi il grande bagno purificatore con il quale mi sarei potuto monda­ re della polvere, delle sostanze venefiche che ave­ vo respirate durante il viaggio: avrebbe guarito le mie ferite e ristabilito le forze che mi erano venu­ te meno. Così è stato, ma la cura l’avevo immaginata trop­ po facile, e il processo di guarigione molto meno stentato. Stranamente riacquistai all’improvviso la capa­ cità che avevo un tempo di giudicare con sere­ 185

nità le cose. Supponevo che il mio arresto sareb­ be stato questione di ore. Pensai appunto al commissario amico della zia che l’aveva infor­ mata dei nostri traffici. Per nascondere a mia madre il più possibile la procedura dell’arresto, Starke fu messo di guardia alla piccola finestra della camera che affacciava sulla strada, perché fossi avvertito subito dell’arrivo di persone sospette. Infatti, dopo qualche tempo, entrò nella camera con la notizia che una carrozza chiusa si era appe­ na fermata quattro o cinque palazzi più avanti, e che ne erano discesi tre signori in borghese. Si sta­ va avvicinando, dunque, il momento atteso eppu­ re così tremendo. Da molto tempo me ne andavo su e giù per la camera inquieto, con il cappello in mano e il paletot sul braccio. A turno abbracciavo ora Marie, ora il vecchio rilegatore, e non avrei potuto pren­ dere congedo in altro modo dalla mia vera moglie e dal mio vero padre. Qui stava mia moglie e quel­ lo era mio padre. Non c’era dubbio alcuno: quel­ l’ora di grande e profonda difficoltà ci aveva indissolubilmente uniti per sempre. Andai incontro ai signori che, entrati nello stret­ to androne del piano terra, si stavano dirigendo 186

verso di me e li raggiunsi. Uno di loro era l’amico di mia zia che aveva l’incarico di identificarmi. Non ce ne fu di bisogno. Io mi consegnai con le parole «Signori, sono a loro disposizione!» e con discrezione mi avviai velocemente verso la carrozza. Desideravo ardentemente la solitudine della cella. «E malato?» chiese uno dei signori. Io dissi «Non lo so» e, stranamente, «Non credo». «Spero che non vorrà tentare di fuggire, sareb­ be inutile» disse il signore che era seduto accan­ to a me. Al che risposi: «Ha dimenticato che sono zoppo». «E vero» gli confermò l’amico della zia «ha una gamba troppo corta». Passammo davanti alla casa di Melitta e di sua madre. Avevano aperto tutte le finestre per far cam­ biare l’aria, e la baronessa con un piccolo annaf­ fiatoio verde era intenta a dare acqua alla fioriera. Addio, addio, pensai, e mi venne un nodo in gola, avevo il corpo che mi doleva tutto per l’amarezza che provavo. La carrozza passò con fracasso sul Ring, e quando sollevai lo sguardo vidi la colonna del supplizio. Era come avvolta da un vapore color di rosa, spettrale, che le si muoveva intorno. Era l’ombra di una morta ? Subito dopo la colonna di

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pietra apparve in tutta la sua vera natura di orro­ re. Mi sembrava di essere stato io stesso incatena­ to agli anelli e che mi stessero frustando a sangue al cospetto della città intera. Di fronte, alle fine­ stre di palazzo Harlan, erano affacciati il padrone di casa, la famiglia, i commessi. E avevo la sensa­ zione, a prescindere dal mio caso specifico, che la cosa peggiore non fosse questa, ma la faccia spa­ ventosa e crudele che mi fissava e di cui qualcuno mi diceva nell’orecchio, mentre sentivo che il cuo­ re mi diventava di pietra, che quello era il vero vol­ to dell’umanità. Quando sollevai nuovamente lo sguardo, poiché avevo passato la maggior parte del tempo a guar­ dare le nostre otto ginocchia disposte in fila, rico­ nobbi un collega della cancelleria che stava andan­ do al lavoro in Municipio. Aveva avuto per tan­ ti anni lo scriviritto accanto al mio, era una per­ sona serena, soddisfatta, e anche adesso si pote­ va vedere che lo era, quando, come Johann, l’al­ legro saponaio della fiaba, gesticolando, salutava un collega prima di scomparire con lui nel porta­ le del Municipio. Perché non vado più in Municipio e non mi sen­ to soddisfatto e felice con questa gente? pensavo. E non era magnifico quando, durante la pausa

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per la colazione, accadeva che ci ritrovassimo a mangiare una salsiccia calda e a bere una birra sot­ to le possenti volte della cantina municipale ? Ebbene, ecco un famoso portone e, tutt’intorno giusto! - c’era il vecchio palazzo di Emmo Har­ lan famoso in tutta la città. Mi venne in mente che per lungo tempo avevo continuato a crede­ re che il commerciante di ferramenta avrebbe dovuto un giorno rispondere in qualche modo alla mia richiesta di matrimonio. Mi ricordai di quel­ la volta che avevo inseguito la carrozza della pic­ cola Veronika ed ero stato trasportato in strada dai domestici; e poi di quella seconda volta, quando, con la mente offuscata da una sorta di ebbrezza della vittoria, con il petto gonfio di stu­ pida presunzione, ero uscito dal portone e mi ero ritrovato sul Ring. Com’ero potuto giungere fino a tanto ? E che cosa era accaduto in precedenza perché dovessi trovarmi nella situazione di sede­ re in una carrozza in compagnia di quei tre signo­ ri sconosciuti? A un tratto presi di tasca il fazzoletto e, affac­ ciatomi al finestrino, lo sventolai, prima che i poliziotti potessero impedirmelo, in direzione del­ la fila delle luccicanti finestre di palazzo Harlan, mentre il petto sembrava colmarsi di lacrime

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ardenti. Naturalmente i poliziotti, che mi ritras­ sero subito il braccio, pensarono che l’avessi fat­ to per comunicare ai miei complici qualcosa con uno dei soliti segni convenzionali. Per qualche tempo rimasi come assente e mi pare­ va di compiere un viaggio. Intorno a me si sten­ deva una città del tutto sconosciuta. Quando mi svegliai potei constatare che l’am­ biente intorno mi era divenuto angosciosamen­ te familiare. Scorgevo oggetti noti, dei quali cre­ devo di aver sognato la notte precedente. Dove­ vo essere condotto nel cosiddetto palazzo del­ l’inquisizione, come credevo di aver inteso dai commenti che andavano facendo i miei accom­ pagnatori. Ma era impossibile che si trattasse del palazzo dell’inquisizione. Tutto avrei sup­ posto, ma non che mi portassero in quella casa, che dovessi salire ancora una volta quelle scale, invece di potermi rifugiare nella pace e nel ripa­ ro della cella di una prigione. Dipendeva da me se ne volessi fare la cella di un devoto, di un peni­ tente, di un santo. Tuttavia questo era davvero troppo. Mi fermai a metà delle scale e chiesi se non si fossero sbagliati. Mi risposero: «Niente affatto». Cento volte ero salito per quella stretta e scricchiolante scala di

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legno, senza provare mai nulla di particolare, per­ ché era la scala che portava all’abitazione della zia Schwabe. Ora, però, erompevano pugni invisibi­ li dalle pareti, ne avvertivo gli innumerevoli e tre­ mendi colpi frontali provenienti dall’oscurità abbattersi su di me, e già pensavo che non mi rima­ neva altro che fuggire. I miei accompagnatori se ne dovettero essere accor­ ti, perché mi trattennero con maggiore forza, e io inciampai, letteralmente scaraventato come fui, nel­ l’ingresso della casa di zia Schwabe. L’abitazione consisteva in una piccola anticame­ ra senza luce, una cucina angusta con dispensa, una camera dove la zia dormiva, un salotto con sofà e poltrone rivestiti di felpa rossa, un piccolo uffi­ cio dove c’erano gli armadi, divisi in molti scom­ partì contenenti gli oggetti che venivano dati in pegno, il libro contabile, la corrispondenza e altre cose del genere. La piccola cassaforte di ferro non si trovava qui, ma nel salotto, accanto al sofà, perché non desse nell’occhio a taluni figuri che andavano e venivano dall’ufficio. Durante l’attesa nell’anticamera, per alcuni secon­ di ebbi la sensazione di trovarmi vicinissimo a un evento che avrebbe per sempre ottenebrato la mia anima, poi mi sentii di nuovo così lontano da 191

tutto ciò che avveniva attorno a me, che mi par­ ve di assistere da semplice spettatore a una mes­ sa in scena. L’ufficio, la cui porta era aperta, era illuminato dal sole mattutino. Anche le altre porte che davano nel salotto e nella cucina erano aperte. Si era cercato il più possibile di lasciare ogni cosa così com’era stata trovata la mattina dopo l’o­ micidio. Il canarino dello Harz rinchiuso nella gabbietta appesa a una parete dell’ufficio, non la smetteva di cantare a squarciagola. I suoi ignari e spensie­ rati gridi di gioia creavano uno strano contrasto con tutto quello che si era verificato, e si stava veri­ ficando ancora, in quel luogo. Accanto alla porta dell’ufficio doveva essere acca­ duta una scena violenta. Rovesciato in terra sta­ va un attaccapanni che si trovava lì vicino, cui era­ no appesi l’impermeabile e l’ombrello della zia, e anche il cappello e il paletot che riconobbi esse­ re quelli di Wigottschinski. Il tavolo del salotto non era stato sparecchiato e c’erano ancora i resti della cena della sera prece­ dente. Si vedevano pane, burro, affettati, rava­ nelli, formaggio svizzero e gusci d’uova nonché una bottiglia di vino completamente vuota e un’altra 192

per metà vuota. Su un piatto da portata c’erano ancora le spine e la testa di una passera di mare affumicata. Un pasto per il quale la zia provava avversione, ma che preparava il più delle volte per Wigottschinski, perché a lui piaceva. A vedere quelle pietanze provai un lieve senso di orrore. Difficile dire quale ne fosse la ragione. For­ se avevo la sensazione che lì si fosse consumato un banchetto di spettri. Perché ad apparirmi così spettrali erano proprio quel pane semplice, estremamente reale, il burro giallo e tutte quelle altre cose ? Mentre invece il mormorio di voci dietro la porta chiusa della camera da letto mi lasciava quasi indifferente ? Il fatto era che stava crescendo intorno a me un’at­ mosfera spettrale. L’istinto mi diceva che l’au­ mento di presenze spiritiche nel mio ambito per­ cettivo poteva essere persino un vantaggio. Ave­ vo bisogno soltanto di incoraggiarle quel tanto che bastava perché alla realtà orribile e dura fosse sot­ tratto quel dato di concretezza e di realtà che, for­ se, avrebbe altrimenti distrutto il mio spirito.

Sentivo di continuo un malessere che di tanto in tan­ to aumentava sino a produrmi conati di vomito con­ vulsivi. Poiché talora avevo degli accessi di rabbia 193

e digrignavo persino i denti, i miei accompagnatori ebbero ancora di più la sensazione di avere a che fare con un pericoloso criminale. Solo che quelle erano espressioni di un’indicibile amarezza che si manife­ stavano in me di fronte all’incomprensibile forza che, in un certo qual modo, mi aveva messo davanti agli occhi l’archetipo della bellezza, per attirarmi, con velata malizia, in un fetido pozzo nero. Ma digrignare i denti e serrare i pugni verso l’alto non serve a nulla. L’uomo ha di sé un concetto esa­ gerato. Viene allevato nella menzogna ed è com­ prensibile che si meravigli quando il destino gli dimostra, con un brutale calcio, quale sia la verità sulla sua presunta somiglianza con gli dei. Ma, in fondo, fu forse positiva quella lugubre ostinazione che mi aveva colto nel momento in cui si aprì la porta della camera da letto dove, come naturalmente avevo inteso già da tempo, mi si vole­ va mettere a confronto con il cadavere della don­ na assassinata. Senza quell’ostinazione, forse, non mi sarebbe riuscito di rimanere in piedi. I poliziotti e io stavamo entrando nella camera da letto, quando ci fu fatto segno di fermarci e ven­ ne di nuovo chiusa la porta. Fui colto da una risata nervosa, una reazione, questa, che fu considerata, naturalmente, una 194

prova di sfacciataggine, di brutalità. Ma a me era venuta in mente una scena che risaliva ai tempi della mia infanzia, quando noi tre fratelli, mia sorella, mio fratello e io, aspettavamo con la mas­ sima trepidazione che si aprisse una porta. Dal­ l’altra parte si trovava il famoso tavolo dei doni di natale e l’abete con le candeline che venivano accese proprio in quel momento. E io singhiozzavo per le risate spasmodiche, per­ ché non potevo fare a meno di pensare che la situa­ zione in quel momento e in quel luogo era molto simile, ma che mi aspettava un tipo completamente diverso di regalo. Nel frattempo la porta si era per davvero spalan­ cata. Mi concentrai per un istante e, mentre entra­ vo nella camera, pensai automaticamente ancora alle parole della mia Marie: «Lorenz, hai soffer­ to tanto e soffrirai ancora. Ma conservati per me! Io ti aspetterò». No, faccio marcia indietro. Devo lasciare che l’om­ bra irreale della mia personalità, il mio sosia spet­ trale attraversi senza di me la soglia dell’alcova del­ la zia, quell’alcova sporca e ripugnante in tutti i sen­ si, dove lei giaceva cadavere, in camicia da notte, dopo essere stata brutalmente strangolata. 195

Oh, rose, rose! È necessario aspirare il profumo delle rose, di migliaia di rose dispensatrici d’in­ censo! Oppure il profumo della fresca e chiara acqua di montagna che scroscia dall’altra parte della strada! Profumo di abeti! Bevanda d’acciaio della pura e celestiale aria di montagna, penetra in me, sii la benvenuta come un bagno quoti­ diano! Detto questo ho deciso di consegnare oggi o doma­ ni la piccola fotografia di Veronika alla mia buo­ na Marie. Strano come di punto in bianco mi sia venuta que­ st’idea. Quale relazione vi può essere fra l’orrore che tutt’oggi mi ha colto, sull’immaginaria soglia del­ la sua porta, al solo ricordo della camera in cui avvenne l’omicidio, e questa tavoletta di cartone dalla quale mi sorride la graziosa testolina infan­ tile di Veronika? Quale relazione vi può essere fra l’archetipo del­ la purezza, fra questa celestiale immagine mira­ colosa, e quel fetido covo infernale il cui solo ricordo mi avvelena l’aria della casa pulita in cui vivo? Non v’è altra relazione che quella esistente fra il principio e la fine di uno stesso tragitto. 196

Nella cella in cui ero rinchiuso ho avuto tempo quanto basta per riflettere sulla relazione esi­ stente fra il momento iniziale e l’esito finale, e quel­ lo che a questo modo sono riuscito ad appurare è comunque solo una piccola parte, come è stato già detto. Infatti, dalla vista della suprema purezza sono sta­ to condotto all’infima bruttezza e dalla vista del­ la più vile bruttezza alla purezza, persino in un senso diverso, migliore. Quando mi trovai alla presenza della morta, i poli­ ziotti cominciarono a spiarmi e a fissarmi, a secon­ da dei casi, più o meno furtivamente, cercando di cogliermi di sorpresa con domande o rivolgendosi a me in tono brusco. Potevano mai immaginare che proprio in quella spelonca di peste e di morte, pro­ prio sotto quel fuoco di fila mi raggiungesse con la potenza del fulmine l’illuminazione, che dalle tene­ bre generò per me il mondo nel quale ora vivo e vivrò fino alla fine dei miei giorni ?

Pensavo di cancellare quest’ultimo capoverso. Ma non l’ho fatto perché esso attesta di una certa con­ fusione che ancora oggi può procurarmi il ricor­ do del confronto con il cadavere e del cadavere con Wigottschinski. 197

Cercherò tuttavia di chiarire il punto principale del capoverso e così facendo, forse, in un certo qual modo, anche gli altri. Di colpo, infatti, la camera in cui era stato com­ piuto l’omicidio mi rivelò tutta la disperata miseria alla quale è condannata ogni esistenza. Questa rivelazione avvenne, come ho detto, con la potenza del fulmine, in una luce accecante che mi apparve al momento quasi mortale. Là giaceva la morta il cui corpo aveva già comin­ ciato a irrigidirsi, seminuda e, si può dire, abban­ donata agli sguardi di tutti in una posizione disonorevole. Quell’essere umano di sesso fem­ minile che era stato strangolato e mostrava le sue forme sgraziate, con le ecchimosi nere sul col­ lo, non aveva un solo tratto che mi ricordasse quello della zia Schwabe. Quella massa di car­ ne dalle forme di un corpo umano mi era così estranea che nel guardarla non provai altro che un orrore animalesco. Era dunque per questo che la zia aveva accumu­ lato centesimo su centesimo, marco su marco, li aveva contati e prestati a usura, si era approfit­ tata sistematicamente della miseria della gente, per fare questa fine, cui in fondo non si sarebbe potu­ ta nemmeno sottrarre se la lascivia del suo vec­

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chio cadavere non l’avesse messa nelle braccia del suo assassino. E lei, era in fondo molto meno colpevole di lui? Mamma raccontava il caso di due clienti della zia che, quando erano andate in protesta le cambiali da loro emesse, si erano tolti la vita in modi diversi. E quei giudici, quei poliziotti, quei pubblici mini­ steri, potrebbero essere definiti persone senza col­ pa e senza peccato ? Non hanno quasi tutti gli uomi­ ni un peccato segreto, un misfatto segreto da tene­ re nascosto, anche se non sono molti, anche se non sono delitti che meritano di essere puniti con la pri­ gione ? E che cosa non avviene, anche a opera del­ l’autorità giudiziaria, in parte per umana incapacità, in parte per negligenza o imprudenza, quando si deve decidere della felicità e della disgrazia, dell’essere e del non essere di persone innocenti! Dunque, da quella camera uscii per un verso pen­ tito, per l’altro, però, con l’anima stranamente sol­ levata. Era come se mi fossi elevato al di sopra di me stesso. Mi era chiaro che, se avessi impiegato bene le esperienze appena fatte, avrei potuto per­ dere poco, ma, in cambio, intascare il vero gua­ dagno della vita: la forza di innalzarsi al di sopra dell’esistenza. Una forza che equivale a quella della rinuncia. 199

E ora si comprenderà probabilmente anche la decisione che ho preso di disfarmi della piccola fotografia di Veronika.

Contrariamente a quanto avevo intenzione di fare, alla fine ho attraversato la soglia della came­ ra in cui si compì l’omicidio, vi sono entrato e usci­ to, ma solo con il pensiero, sicché si è dovuto nota­ re con chiarezza come uscendovi sia divenuto una persona completamente diversa. Dopo esse­ re stato colpito dal fulmine dell’illuminazione vidi le grossolane illusioni di cui ero caduto vit­ tima, come capita a chi crede di attraversare un verde prato fiorito e mette invece il piede in una profonda pozzanghera di liquame, completamen­ te nascosta da verdi lenticchie di palude, nella qua­ le subito sprofonda fino alla testa. Quando, dietro chiavistelli, muri e spesse infer­ riate mi ritrovai nella cella della prigione, priva­ to dagli uomini della libertà, avevo raggiunto in un senso interiore la libertà, mi ero scrollato di dosso corde e catene di gravi errori. Ero di nuo­ vo emerso dalla pozzanghera di liquame e mi ero scrollato di dosso la sporcizia. Credo di essere ora­ mai al sicuro e di non dover più soffrire un altro bagno simile.

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Seguì l’arresto preventivo, seguirono interrogatori su interrogatori. L’istruttoria mise in luce circostanze che avevano così poco a che fare con il vero corso della mia avventura, che non vi hanno rilevanza. E ora che avevo imparato a distinguere l’apparenza dal­ l’essere, continuai anche ad applicare ciò che ave­ vo imparato e non fui toccato nel fondo della mia persona dalle modalità del procedimento penale. Talvolta, durante la sessione penale, mi sembra­ va che sul banco degli imputati sedesse solo un manichino che mi somigliava, sul quale giudice e pubblico ministero sfogavano i loro nervi, men­ tre io ero rimasto in cella.

A questo punto del racconto mi sa di essere rima­ sto un po’ a corto di argomenti. La maggior par­ te di ciò che riguarda la crisi che ha accompagnato la svolta della mia vita è stata già detta quasi tut­ ta. Tuttavia ho la sensazione di aver tralasciato qualcosa d’importante. Oggi farò un salto a scuola dal dottor Levin - più di una volta mi ha chiesto del mio lavoro lettera­ rio -, e fisserò con lui un appuntamento in modo da potergli leggere ciò che ho scritto finora. Ciò che rende il mio caso del tutto particolare è la circostanza che io con esso, cioè con il mio caso, 201

ho un rapporto armonico. E questo il motivo per il quale le mie annotazioni hanno superato i limi­ ti di uno scritto apologetico come quello che potrebbe essere destinato, ad esempio, a giudici terreni. Fra i lettori ai quali intendo rivolgermi ci sono invece quei giudici che non si limitano a eser­ citare la loro professione di magistrati. Un tale uomo è il dottor Levin, di cui ho già parlato pri­ ma. Egli è l’ex pubblico ministero che adesso fa l’insegnante elementare qui in paese. Suo sommo desiderio è quello di vivere fino alla fine dei suoi giorni fra gli ontani, i frassini e le betulle del nostro semplice fazzoletto di terra e, un giorno, di concludere la sua vita nel cimitero del paese, ricoperto di fitta vegetazione. Su questo, come su qualche altra cosa, abbiamo la stessa opinione. Quando affermavo di avere un rapporto armoni­ co con il mio caso, lo dicevo per sottolineare quanto mi distinguessi da coloro che come me sono stati in prigione e non riescono a superare la pena che la reclusione ha cagionato loro. La loro ambi­ zione sembra essersi risvegliata con un’intensità dieci volte maggiore, come accade al nervo di un dente cariato, ad opera della macchia indelebile d’infamia che essi recano agli occhi della borghe­ sia, e che è causa di dolori mille volte più inten­

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si. Non riescono a superare il «oh, se non aves­ si..., oh, se non fossi..., oh, se potessi ritornare indietro...». La loro esistenza è una catena di rimproveri rivolti contro se stessi e di sentimen­ ti di rimorso. Fa loro quasi impazzire il tentativo costantemente ripetuto di far fare marcia indie­ tro alla vita e di ritornare all’epoca anteriore al delitto. Oggi mi comporterei in modo compietamente diverso, pensano. «Perché» chiesi al dottor Levin «ha abbandona­ to la sua professione di magistrato?». «La legge e il diritto si ereditano come una malat­ tia eterna» disse il dottor Levin. E aggiunse: «Non giudicate perché non siate giudicati». Mi sono annotato anche un brano del padre del­ la chiesa Tertulliano che egli mi ha tradotto. E una testimonianza di come i primi cristiani giu­ dicassero coloro che detenevano ed esercitavano il potere, i giudici e i tribunali, e recita: «E sor­ ta di recente una disputa sulla questione se sia concesso a un servo di Dio assumere una carica onorifica o una magistratura. Se ammettiamo che si possa riuscire a esercitare una carica ono­ rifica senza prestare giuramento, senza emettere una sentenza che decida della vita e della morte di un uomo o del suo onore di cittadino, senza 203

applicare alcuna legge penale, senza condannare, senza far incatenare, imprigionare o torturare nessuno - allora anche un servo di Dio potrà accet­ tare una tale carica».2 No, io non sono un signor «Oh-se-non-fossi», «Ob-se-non-avessi». Sono invece un uomo che vive la vita fino in fondo, sono un uomo vivo. La vita è cosa troppo grande perché la si possa tutta immagazzinare nel negozietto e nell’angusto retro­ bottega borghesi, e io la conosco già fin troppo bene per poter provare, stando là dentro, un senso di sta­ bilità, per sentirmi libero e a mio agio. Ecco il sole, ecco la luna, ecco le stelle, ecco la Via Lattea. Respiro aria, profumo, calore, ghiaccio, nebbia, tem­ porale. Godo la luce, godo l’oscurità della notte. Se mi impedissero di frequentare questi piccoli relitti umani, ebbene, cosa potrebbe accadermi di meglio ? Se però mi lasciassero subito completamente solo - ebbene, quale uomo non è alla fine comple­ tamente solo ? E non è la mia coscienza illimitata ? E io mi dovrei sottomettere ai valori umani, a un uomo qualsiasi, quando invece ogni giorno, ogni not­ te, pieno di fervore mi stringo al divino?

Nelle lunghe notti e nelle lunghe giornate trascor­ se nella cella d’isolamento ho studiato, come ho det-

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to, tutti gli aspetti del mio caso con il quale alla fine ho trovato un rapporto armonico. Il piccolo scrivano municipale di un tempo, stretto di torace, stretto di spirito, non esiste più. Il mio petto è carico di orgoglio, il mio spirito è indipendente ed esteso, per­ sino il mio modo di camminare è migliorato. Non voglio abbellire ciò che invece è brutto, ma si potrebbe parlare ad esempio, con un’immagi­ ne ardita, di una perla che ho pescato nel fondo di una pozzanghera e ho portato con me in super­ ficie. E io, senza la catena di illusioni e di pene sofferte, avrei potuto vivere un’ora come quella successiva alla scarcerazione, quando, dopo aver attraversato il portale del palazzo dell’inquisizio­ ne di Breslavia, mi sono ritrovato a cielo aperto che tenevo Marie fra le mie braccia ? No, non voglio andare dal dottor Levin. Non rivelerò nemmeno a lui il contenuto di questi fogli. Nel fare una lettura di quanto ho scritto dimostrerei innanzitutto una certa spudoratezza che, forse, non potrei mai perdonarmi per lungo tempo di aver manifestato. E probabile che in con­ seguenza di ciò debba per anni portare in me un certo disagio. Chi può sapere se questo disagio non possa aumentare a tal punto da costringermi a tra-

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sferirmi di nuovo in un luogo straniero per la semplice ragione che il mio segreto, il mio più sacro e intimo segreto, è nelle mani di un’altra perso­ na ? E poi coinvolgerei mio suocero e mia moglie, che non mi hanno autorizzato a rendere pubbli­ ci i loro più dolci sentimenti. «Scrivi» ha detto la mia buona moglie quando ho cominciato a sten­ dere queste note, «chissà che non ne possa usci­ re un libro». Ecco, il libro è fatto, ma la buona Marie e papà Starke di certo si spaventerebbero vedendo fino a che punto mi sia spinto nel met­ tere a nudo me stesso e noi tutti. E dunque, non dovrei mostrare anche a loro que­ ste pagine? Poi forse verrà una giornata d’inverno, una sera­ ta d’inverno in cui si troverà il momento oppor­ tuno per farlo. Per ora voglio mettere questi fogli sotto chiave. Bisognerebbe fra l’altro prendere in considerazione se con le rivelazioni su Veronika non procurerò un nuovo dolore al cuore di Marie. Mia madre è morta prima che io vedessi la luce della libertà. Spero non di crepacuore, come si dice che sia stato. Oltre a Starke e a Marie, mentre ero in prigione, è stato mio fratello Hugo a prender206

si cura di lei. La mamma non ha mai creduto, così dicono Marie e Starke, alla mia colpevolezza e non ha mai perduto la fiducia nel mio buon carattere e in me.

Non ho idea di come mia sorella sia riuscita a sfug­ gire alla mano castigatrice della legge. Ricevetti da lei un’unica lettera e precisamente da Bahia in Brasile. Scriveva di essersi sposata lì. La lettera terminava con questa frase: «Se la fortuna con­ tinuerà ad arridermi ti scriverò di nuovo fra due anni. Altrimenti addio per sempre! ».

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Note

1 La versione proposta da Lorenz Lubota del motto di saggezza «Ne reverearis proximum tuum in casu suo» è in realtà molto più let­ terale di quella ufficialmente accettata, che recita in tedesco «Unterwirf dich nicht dem Toren», e corrisponde all’italiano «Non inchinarti a uno stolto». La traduzione ufficiale riprende, proba­ bilmente, un uso della parola «stultus» che nel latino cinquecente­ sco sta a indicare anche il peccatore, cioè colui che è caduto in fal­ lo («in casu suo») perché non ha saputo attenersi alla regola mora­ le. Quando C.F.W. Behl e Felix A. Voigt, i due studiosi che sot­ toposero il testo a un lavoro di revisione nell’aprile del 1942, nel controllare la citazione scoprirono nel testo concordato una frase che a loro parve radicalmente diversa da quella citata nel racconto, pensarono a una svista di Hauptmann. Sicché il 16 aprile interpel­ larono lo scrittore il quale, dopo alcuni attimi di riflessione, si recò nella sua biblioteca e ne trasse un libro dal quale lesse il brano deli’ Ecclesiastico così come il protagonista del suo racconto lo citava. Il libro in questione era uno dei sei volumi della famosa e diffusa “Vulgata”, che l’esegeta cattolico Joseph Franz von Allioli (17931873) pubblicò dal 1830 al 1832. Cfr. C.F.W. Behl, Zwiesprache mit Gerhart Hauptmann, Verlag Kurt Desch, München 1948, p. 96. 2 La citazione di Tertulliano è liberamente tratta da De idolatria, 50, 17.

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La regina delle ninfe a Breslavia di Giovanni Tateo

«L’immagine di colei che per la prima volta mi apparve come “Hannele” è quella di una ragazza nobile, pura come la luna, e con un pallido splen­ dore del viso - con tutta la grazia e l’innocenza di bambina. [...] Ama gli animali. Circe. Deve ave­ re forse dei maiali intorno a sé. Non devo soc­ combere a questo incantesimo, non accadrà». La pericolosa “Circe lunare” cui Gerhart Haupt­ mann si riferiva il 25 gennaio 1906 nell’annota­ zione del diario era la sedicenne attrice Ida Orloff, conosciuta qualche mese prima, nel settembre del 1905, in occasione delle prove di una messa in sce­ na berlinese del dramma Hanneles Himmelfahrt [L’ascensione di Hannele] scritto nel 1893. Sul pal­ coscenico del Lessing-Theater di Otto Brahm lo scrittore slesiano sembrava così aver trovato, ina­ spettatamente, dodici anni dopo, l’archetipo “rea­ le” di Hannele, l’innocente bambina colta nel febbricitante delirio mistico-religioso che precedeva la morte, durante il ricovero nell’ospizio per pove­ 215

ri di un villaggio montano. Fra l’ottobre e il novembre del 1906, sotto la forte impressione di quell’incontro, veniva concepito, quasi di getto, il dramma Und Pippa tanzt! [E Pippa balla!], poi messo in scena il 19 gennaio 1906: una “fiaba”, ambientata in una vetreria slesiana, condotta su un registro definitivamente simbolico, per molti versi persino ermetico e oscuro benché l’autore si sia più volte premurato di fornirne chiavi di let­ tura. Con Pippa, enigmatica personificazione del­ la potenza e della caducità della bellezza, Haupt­ mann realizzava il primo personaggio di quella can­ giante e policroma galleria di giovani donne dal­ la sessualità ancora acerba e creaturale che avreb­ be continuato a popolarsi nei quarant’anni suc­ cessivi, fino all’ultima sua opera, la novella Mignon, pubblicata postuma nel 1947. Sono anni, questi, decisivi della maturazione arti­ stica e umana di Hauptmann. Nel primo decen­ nio del Novecento, che si estende idealmente fino al 1912, anno in cui gli fu conferito il Pre­ mio Nobel per la letteratura, si concludeva, infat­ ti, quella fase creativa di assoluta predominanza della scrittura drammatica che ai suoi esordi, all’i­ nizio degli anni Novanta dell’Ottocento, si era imposta quasi come un modello per la giovane

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generazione di quei letterati che nella Germania post-unitaria e guglielmina avevano tentato di porsi al di là del realismo avvertendo il carattere troppo conciliatorio di scelte poetiche oramai inattuali di fronte all’emergere di nuove realtà sociali. Per gli scrittori del Naturalismo in Ger­ mania, ancora intenti a riadattare alla situazione tedesca forme e contenuti maturati nella più recen­ te letteratura francese, la prima opera teatrale di Hauptmann, Vor Sonnenaufgang [Prima dello spuntar del sole], messa in scena per la prima vol­ ta il 20 ottobre 1889 dall’associazione Freie Büh­ ne [Teatro libero] appena fondata a Berlino da Otto Brahm, segnò un vero e proprio punto di svolta. Già a partire però dalla seconda metà degli anni Novanta, subito dopo la novità del dramma corale Die Weber [I tessitori], lo scrittore prese a percorrere altre strade. La fiaba e la leggenda furono cosi recuperate al dramma ed ebbe inizio, soprattutto dopo il viaggio in Grecia nel r9O7 dal quale scaturiranno le pagine odeporiche di Grie­ chischer Frühling [Primavera ellenica], una puntuale riflessione sulle possibilità del mito. Ma a maturare in quella complessa stagione crea­ tiva fu anche l’esigenza di una rinnovata speri­ mentazione delle qualità descrittive ed espositive 217

della narrativa. Sicché nel 1910, a più di vent’anni dalla pubblicazione delle tre prose naturalistiche, Fasching [Carnevale], Bahnwärter Thiel [Il cantoniere Thiel] e Der Apostel [L’apostolo], con cui fra il 1887 e il r890 si era avviata la sua car­ riera di scrittore, Hauptmann ritornava alla pro­ sa con un romanzo, Der Narr in Christo Emanuel Quint [Il folle in Cristo Emanuel Quint], che non era destinato a rimanere un esempio isolato. In immediata successione furono pubblicati i roman­ zi Atlantis [Atlantide] nel 1912 e Die Insel der Großen Mutter [L’isola della Grande Madre] nel 1916 e la novella Der Ketzer von Soana [L’eretico di Soana] nel 1918. Visto il rapporto fra scrittu­ ra drammatica e scrittura narrativa consolidatosi negli anni precedenti, si trattava di un incremen­ to già ragguardevole, che si accentuò negli anni Venti e Trenta con la pubblicazione del romanzo epistolare a sfondo autobiografico Buch der Lei­ denschaft [Libro della passione] nel 1929, dell’au­ tobiografia Das Abenteuer meiner Jugend [L’av­ ventura della mia giovinezza] nel 1935, dei due romanzi Wanda nel 1928 e Im Wirbel der Berufung [Nel vortice della vocazione] nel 1936, nonché di tutte le novelle fino alle due ultimissime riprese goethiane di Das Märchen [La fiaba] e Mignon.

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Com’è documentato dalle annotazioni del diario riconducibili ai primi sei mesi del 1906, rincon­ tro di Hauptmann con Ida Orloff era stato all’o­ rigine di una passione intensa, ancorché di breve durata, che aveva rischiato persino di mettere in crisi il suo secondo matrimonio. Tuttavia non sarebbe del tutto errato affermare che Γ “episodio Orloff” fu paradossalmente più ricco d’implica­ zioni letterarie che di conseguenze strettamente personali e biografiche. Di lì si sviluppò, infatti, uno dei nuclei tematici nodali per il percorso creativo hauptmanniano, in seguito variamente rie­ laborato non solo nei romanzi Atlantis, Wanda e Buch der Leidenschaft, ma anche nei più tardi ten­ tativi autobiografici pervenuti in forma di fram­ mento, quali la continuazione rifiutata di Buch der Leidenschaft, altrimenti nota anche come Neue Leidenschaft [Nuova passione] del 1928-29 e Siri. Selbstbekenntnisse eines jungen Humanisten [Siri. Confessioni di un giovane umanista] del 1938-39. Se per un verso, dunque, la vicenda dell’incontro con l’attrice bambina sarà rielaborata in quelle ope­ re più strettamente autobiografiche, per l’altro la produttiva materializzazione del prototipo lette­ rario di Hannele darà origine a Pippa e alle innu­ merevoli variazioni della fanciulla dal fascino irre219

sistibile, ma fragile come i manufatti in vetro, che in un certo qual modo evocano il mistero stesso dell’esistenza oltre che dell’arte. Vi era del resto qualcosa di magico e di giocoso nel procedimen­ to attraverso cui nelle fornaci la rozza materia sab­ biosa si trasformava prima in una massa incan­ descente - un’immagine, questa, d’impatto evi­ dentemente mitologico, evocativa dell’azione di forze ctonie - e poi, con l’arte della soffiatura, nel­ le luminose creazioni incorporee del vetro delicato e frangibile. Ciò cui il creatore del personaggio di Hannele sem­ brava aver assistito in quella tarda estate del T905 era dunque quasi un singolare capovolgimento, si potrebbe dire persino uno sconvolgimento fanta­ stico, del principio realistico che vuole l’arte qua­ le imitazione della vita. Una vicenda che sembra anticipare quella in cui sarà coinvolto il viaggia­ tore tedesco protagonista e narratore della tarda novella Mignon, quando a Stresa incontrerà uno strano personaggio somigliante in tutto e per tut­ to all’immagine tramandata dal ritratto che Fer­ dinand Jagemann disegnò nel 1817 del sessantottenne Goethe, mentre intorno a lui si mate­ rializzerà Aga, una giovane artista di strada che reca i caratteri della Mignon del 'Wilhelm Meister

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e che, come quel personaggio, si accompagna a un vecchio arpista cieco. Già nelle pagine del diario del 1906 compaiono innumerevoli caratterizzazioni di Ida Orloff, defi­ nita ora «bambina» e «donna» al tempo stesso (27 febbraio), ora una «ninfa» per «metà Maria» e per «metà sirena» (27 marzo), ora “musa ispiratrice” simile alla «Beatrice» dantesca (8 aprile); ma anche «Sumpfnixe» (23 agosto), una “limniade” dunque, la cui origine torbida e palustre se per un verso sembrerebbe porla in contrapposizione rispetto alle altre ninfe delle acque che s’immagi­ nano di aspetto diafano e cristallino, per l’altro sug­ gerisce un collegamento diretto con il Dioniso delle paludi. Si tratta di caratterizzazioni, scelte fra le tante, che al di là del loro valore immedia­ tamente fruibile per l’interprete impegnato a rin­ tracciare nella trasfigurazione letteraria impor­ tanti spunti biografici, consentono, in una pro­ spettiva più generale, di penetrare a fondo l’im­ postazione, la struttura e le articolazioni profon­ de di quel mito privato. Hauptmann appare, infat­ ti, più indaffarato in un’autoreferenziale riflessione sulla propria passione, non senza forti implicazioni di modelli derivati da un immaginario squisita­ mente letterario, che non interessato all’oggetto 221

di essa il quale rimane, per molti versi, distante e imperscrutabile. E tale atteggiamento, che pas­ serà pressoché immutato nelle stilizzazioni lette­ rarie di quel mito, rimanda all’enunciato aforistico contenuto nella lunga intervista che lo scrittore rila­ sciò a Joseph Chapiro nel 1932, quando chiama­ to a motivare la centralità nel dramma del perso­ naggio rispetto alla vicenda, di cui egli si faceva strenuo assertore, riteneva fosse compito del dram­ maturgo mostrare il percorso di «ricerca della verità», ma mai la «verità stessa» percepita qua­ le sostanza difficilmente conciliabile con la pre­ rogativa drammatica e, in generale, artistica. Ed è questo, in definitiva, uno dei fili condutto­ ri, se non il più importante, sicuramente uno dei più seducenti, per comprendere il senso di tre novelle quali Der Ketzer von Soana, Phantom [Il fan­ tasma] e Das Meerwunder [Il prodigio del mare] che, pubblicate rispettivamente nel 1918, 1922 e 1934, non è difficile inquadrare in un’unica compagine tematica e formale. Si tratta di tre narrazioni del­ la «Urleidenschaft», della “passione originaria” come esse sono state definite con una felice espres­ sione - in cui si consolidava significativamente l’abbandono della prospettiva autoriale delle pro­ se naturalistiche degli esordi, già delineatosi nel­ 222

la soluzione di compromesso adottata nel 1910 con il cronista di Emanuel Quint, che si muoveva al confine fra la dimensione esperienziale di un’i­ stanza estranea e ordinatrice e il narratore per­ sonaggio. Hauptmann non si accontenta più di esa­ minare, come aveva fatto nella primissima stagione narrativa naturalistica, ma si adopera a recupera­ re l’interiorità e la centralità del personaggio coin­ volto negli eventi con i propri conflitti interiori. Emerge così nelle tre novelle un approccio nuo­ vo alla sintassi narrativa che non si limiterà a informare di sé la produzione novellistica a par­ tire dalla fine degli anni Dieci, ma che coinvol­ gerà anche e in particolar modo la scrittura autobiografica. Le tre narrazioni ruotano intorno ad altrettante voci di narratori che nel quadro ora di una strut­ tura a cornice, come nelle due novelle Der Ketzer von Soana e Das Meerwunder, ora di un simulato gesto autobiografico come nel “romanzo” Phan­ tom, riferiscono del proprio incontro con una creatura di natura ultraterrena che mette in crisi modelli di vita, equilibrio psichico e integrità sociale. L’esperienza erotica diviene così una stra­ da senza ritorno e dagli esiti tutt’altro che certi. I protagonisti e narratori delle tre vicende si tro­ 223

vano a essere introdotti al mistero profondissimo della vita, ma la loro capacità di penetrazione e qui è tutto il carattere tragico di questo mito moderno - non è sufficientemente profonda per­ ché essa si possa trasformare in fruizione piena e appagante. Nella novella a cornice Der Ketzer von Soana il par­ roco Francesco Vela, travolto dalla passione per la pastorella Agata, cercava di riarticolare la pro­ pria esperienza erotica in una dimensione spiri­ tualizzante che si rivelerà fallimentare. Il pasto­ re cristiano Francesco si è trasformato nel pasto­ re pagano Ludovico che cura ora un gregge di peco­ re e vive in eremitaggio sulle montagne ticinesi. Ma questa nuova esistenza arcadica è, a guardar bene, l’anacronistica costruzione di chi, dopo aver smascherato il vero volto del vivere umano e la falsità di quel complesso di norme e di valo­ ri esteriori e formali ai quali va contrapposta la ricerca di un’alternativa umana, risponde al pro­ prio disagio esistenziale animandosi di una tensione verso un arcaico mondo originario. Ma è proprio in una tale tensione - ben noto motivo corrente del XIX secolo -, in quella disperata ricerca, che egli rivela la propria estraneità rispetto a quel progetto. In questo tanto Francesco quanto Ludo­ 224

vico mostrano tutta la loro diversità dall’“oreade” Agata, la creatura naturale contro il cui potere non esistono né armi per sconfiggerla, né scudi per pro­ teggersi. Cosi l’arcadia di Ludovico, un luogo di emarginazione sociale e tutt’altro che umaniz­ zante, non articola il tempo mitico, ma al contrario il tempo della rassegnazione, della sconfitta di fron­ te all’impossibilità di accedere immediatamente al nesso fra sacrale e umano. Il tema dell’esperienza erotica, che distrugge l’or­ dine della vita, sarà articolato sedici anni più tar­ di in un’altra novella a cornice, Das Meerwunder, in modo decisamente più radicale. Il capitano di lungo corso Cardenio si confronterà prima con il grido disperato di Chimaera, il «gattuccio di mare dall’aspetto umano» che si è pentita di aver rinun­ ciato per amore alla propria natura divina, e quin­ di, dopo il contatto con la sirena Astlik su un’i­ sola incantata dei mari del sud, con l’impossibilità di fondare una nuova esistenza in un mondo che non conosce né dolore né sofferenza. Nel Ketzer von Soana Francesco Vela percepiva soltanto l’effetto delle forze elementari presenti nel pae­ saggio montano al di là della storia, che giunge­ vano a lui per emanazione in un “regno interme­ dio” nel quale egli costruiva la propria dimora. Nel 225

Meerwunder Cardenie» si trova a esser rapito dal­ la «magia delle forze primordiali», che non por­ ta semplicemente a una crisi dell’appartenenza sociale o alla perdita dei princìpi sociali di orien­ tamento, ma che intacca la sostanza stessa della condizione umana. Fra queste due novelle, fra il sentimento di ras­ segnazione dell’“eretico” e il gesto di ribellione del capitano che rifiuterà radicalmente la propria natura umana, s’inserisce il “romanzo” Phantom. L’opera comparve a puntate nel 1922 sulla rivi­ sta «Berliner Illustrierte Zeitung» della casa edi­ trice Ullstein, prima di essere pubblicata defini­ tivamente in volume presso l’editore S. Fischer l’anno dopo. Ancora nello stesso anno della sua prima pubblicazione divenne anche il copione per un film abbastanza famoso di Friedrich Wilhelm Murnau. La riduzione cinematografica portava la firma oltre che di Hans Heinrich Twardowski, della nota scrittrice Thea von Harbou, moglie di Fritz Lang e sua collaboratrice e assistente alla regia nel decennio che va dal 1922 al 1932, nel perio­ do cioè in cui il regista austriaco fu più legato al movimento espressionista. Fra le tante sceneg­ giature da lei redatte si ricorda quella di Metropolis del 1926 e di M-Eine Stadt sucht einen Mör­

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der [M-Il mostro di Düsseldorf] del 1931, nonché, ovviamente, quelle del ciclo dedicato alla figura del dottor Mabuse, il cui primo film, Doktor Mabuse, der Spieler [Il Dottor Mabuse] è, come Phantom di Murnau, del 1922. Dall’analisi delle fonti e della storia redazionale di Phantom è possibile rinvenire quel caratteristico intreccio tematico e formale che attraversa tutta l’opera narrativa hauptmanniana a partire dal 1910 fino alle ultime riprese goethiane degli anni Quaranta. Anche in questo caso lo scrittore rie­ laborava, manipolandoli e sovrapponendoli, alcu­ ni momenti biografici. Lorenz Lubota, il nome assegnato nel romanzo allo scrivano municipale zoppo che si trasforma in un malfattore e, infine, nel complice di un delitto a scopo di rapina ai dan­ ni della ricca zia usuraia, era stato attribuito in precedenza al protagonista del primo progetto autobiografico risalente ai due anni compresi fra il 1887 e il 1889. Inoltre il personaggio di Marie Starke, la donna che alla fine salva Lorenz dal­ l’abisso di abiezione morale nel quale era caduto, reca non solo il nome di battesimo, ma anche i chia­ ri tratti somatici della prima moglie di Hauptmann, Marie Thienemann. E infine il personaggio di Veronika Harlan, la bellissima figlia di un ricco

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commerciante di ferramenta di Breslavia, di cui Lorenz s’innamora senza speranze, cadendo poi nelle braccia della sua sosia Melitta, una giovane ragazza di facili costumi e “perversa”, rimanda, invece, a quel segmento biografico che, si diceva, fu variamente e ciclicamente reimpiegato da Hauptmann nella sua opera. Con Veronika e Melitta lo scrittore riproponeva, infatti, quelle che egli riteneva essere le due anime di Ida Orloff, la purezza angelicata e la sensualità demonica. Del resto, nei paralipomena al racconto, numerosi sono i riferimenti ai diari del 1905-6 dai quali è possibile ricostruire la storia di quella passione amorosa, per altro non corrisposta, per l’allora sedi­ cenne attrice. Per questo nucleo tematico Phan­ tom si ricollegava ad Atlantis·. Γ“amour fou” che coglieva i protagonisti delle due opere si risolve­ va in entrambi i casi grazie all’intervento ex machi­ na di una donna buona, Marie Starke in un caso e Eva Burns nell’altro, anche se nel romanzo del­ l’utopia transoceanica quegli inquietanti ed esiziali elementi demonici che rischieranno di annienta­ re la vita di Lorenz Lubota, sono prospettati più come «tentazione» che come realtà concreta. Gli stessi paralipomena preludono, però, anche alla genesi di una struttura narrativa che, attraverso

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un radicale ripensamento, sarebbe passata per ben due volte dalla terza persona alla prima, per assestarsi definitivamente su una forma di memo­ rialistica quale si ritrova in Buch der Leidenschaft e in Siri. La critica ha posto in evidenza le affinità del romanzo e del frammento autobiografici con il romanzo del 1922, insistendo tuttavia sulla pre­ senza in Phantom di una cornice narrativa che proietterebbe l’opera all’interno del genere del rac­ conto a cornice. La finzione della scrittura pone invece una pesante ipoteca su quest’interpreta­ zione. Pur proponendo una situazione tipica del modulo a cornice, vale a dire il racconto fatto dal personaggio di un avvenimento che ha costitui­ to per lui un’esperienza decisiva dal punto di vista psicologico ed esistenziale, Phantom presenta per altri versi un’unità di azione, data dall’atto della scrittura, riconducibile alla letteratura di memoria, all’autobiografia, al romanzo epistola­ re. A quest’opera di Hauptmann manca inoltre quella nota editoriale preposta tanto a Buch der Leidenschaft quanto a Siri, con la quale s’introduceva la figura dell’“editore” ora impegnato a discutere i criteri editoriali, ora a relazionare, sep­ pur sinteticamente, sulle circostanze relative al 229

reperimento del manoscritto, con il fine di depi­ stare il lettore sul contenuto di realtà che aveva informato di sé la finzione narrativa. Il raccon­ to di Lorenz Lubota si muove invece su un uni­ co livello narrativo con un’unica istanza narrati­ va e un unico atto narrativo. Il ritrovamento del­ la fotografia della bella Veronika Harlan, la fan­ ciulla oggetto del suo amore impetuoso di un tempo e causa della sua rovina, è l’episodio con il quale ha inizio la narrazione di un passato che egli ora, nella quiete borghese del matrimonio e dopo l’espiazione dei suoi crimini in un istituto di pena, ripercorre con la memoria e razionaliz­ za con l’ausilio della scrittura. Il racconto dell’occasione che dà origine alla con­ fessione autobiografica di Lorenz è dunque par­ te della scrittura tanto quanto il medesimo racconto autobiografico, sicché le due sezioni narrative che apparentemente costruirebbero una doppia stratificazione diegetica, non sono fra di loro nel rapporto tradizionale che lega un racconto di pri­ mo a un racconto di secondo grado, tipico della novella a cornice. Il racconto autobiografico di Lorenz è piuttosto una chiara analessi narrativa, documentata dalla presenza di quella tipica distan­ za fra io-narrante e io-narrato, dalla quale il nar­

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ratore riferisce del proprio passato con sguardo retrospettivo inseguendo l’obiettivo di confes­ sarsi, di istruire o di giustificarsi. Tale gesto autobiografico è caratterizzato dall’identità di narra­ tore e allo stesso tempo dalla differenza determi­ nata dalla distanza temporale tendente a con­ trapporre i punti di vista del narratore a quelli del­ l’eroe. Da un confronto fra il titolo del testo che appa­ riva sulla «Berliner Illustrierte Zeitung» e quel­ lo definitivo che compariva nel volume pubblicato nel 1923 da S. Fischer, colpisce la circostanza che l’indicazione di genere letterario, «romanzo» sia stata sostituita da quella di «Memorie di un ex galeotto». A Hauptmann non dovette dunque sfuggire la problematicità di quella prima defini­ zione che andava a individuare una sostanza nar­ rativa tanto protesa verso il genere memorialistico, quanto segnata da movenze tipicamente novel­ listiche, così come esse erano state codificate nel discorso teorico a partire dal Romanticismo e poi per tutto l’Ottocento. Nel sottotitolo scelto nel 1923, Hauptmann dava una rilevanza maggiore alla situazione della scrittura memorialistica, già annun­ ciatasi nel Ketzer von Soana, ma in una forma più problematica. Ludovico leggeva al suo ospite un 231

racconto da lui scritto in precedenza tacendo la palese natura autobiografica dello stesso. Se per un verso la trasformazione del pastore cristiano Francesco nel pastore pagano Ludovico aveva consentito che si realizzasse l’atto narrativo, per l’altro la scrittura si era rivelata un luogo di veri­ fica tale che aveva dimostrato tutti i limiti di quella trasformazione. La medesima impostazio­ ne narrativa tesa a sostenere la validità di un’al­ ternativa pagana contro quella cristiana e la pos­ sibilità di un mitico arcaismo contrapposto al disagio moderno, palesava, drammaticamente, non solo il persistere di una condizione di disa­ gio nella modernità, ma anche quanto fosse arduo, se non impossibile, un suo superamento. E la ragione per la quale il racconto non può proseguire e, in dissolvenza, s’interrompe. Con Phantom la scrittura della memoria è recu­ perata senza residui. Lo iato temporale fra il pas­ sato dell’avventura e il presente della narrazione trova persino una conferma spaziale. Breslavia, la città che era stata teatro delle imprese delittuose di Lorenz Lubota, sembra oramai lontana dalla tranquillità borghese che l’ex galeotto, dopo aver scontato una pena detentiva di sei anni, quattro mesi e ventun giorni, è riuscito a costruire in una 232

cittadina nella Valle di Hirschberg, circondato dal­ l’affetto della moglie e dalla comprensione del suocero. Ed è significativo che, durante la stesu­ ra delle proprie memorie, egli interrompa di fre­ quente e in modo quasi ossessivo il suo racconto, mettendo così a confronto la miseria del percor­ so malavitoso di un tempo con l’idillio borghese presente. Le descrizioni dell’accensione della pipa, del lavoro di giardinaggio, del paesaggio vesper­ tino e della cena in giardino e delle passeggiate nel parco, tanto quanto le parole nelle quali si espri­ me la speranza di terminare la propria vita da con­ templatore, sono tutti elementi contrastivi e sta­ tici in aperta opposizione alla dinamica di quel cam­ mino sul lungo “sentiero intricato” pieno di erro­ ri, di disillusioni, di manie di grandezza e di col­ pe. E, nella sua esistenza, una seconda primave­ ra, tranquilla questa volta, pur subentrando come l’autunno alla stagione della giovinezza, che indu­ ce Lorenz a redigere l’avventura della propria esistenza; un’avventura che ha inizio il 28 mag­ gio 1900 con il primo fatale incontro di Veronika e che ora è rievocata fra una passeggiata e l’altra nel frutteto e nell’orto. Anche le ragioni che hanno mosso il narratore alla scrittura confermano il canone della letteratura 233

memorialistica. Come Hauptmann in Das Aben­ teuer meiner Jugend si riproponeva di affidarsi, nel bene e nel male, alla propria capacità di ricor­ dare, così Lorenz vuole affidarsi alla spontaneità del suo cuore e senza reticenze raccontare unica­ mente la verità. Al tempo stesso egli afferma, però, d’inseguire due progetti: imbastire una sor­ ta di autodifesa indirizzata ai giudici che lo ave­ vano condannato, nel tentativo di far cambiare loro opinione riabilitandosi ai loro occhi; e conte­ stualmente scrivere un libro che gli potrebbe apri­ re le porte alla carriera di scrittore, coronando, ora, per davvero, quel sogno da dilettante che egli aveva rincorso precedentemente a Breslavia con il fine di affrancarsi socialmente e poter ambire alla mano della bellissima ereditiera. Con il suo memoriale Lorenz si propone dunque di dimostrare come a determinare l’inizio della sua rovina fos­ se stato l’intervento di forze oscure e maligne, che avevano cominciato ad agire dal momento del­ l’incontro con Veronika di fronte al Municipio di Breslavia. Da quel momento in poi ogni cosa appare ai suoi occhi come trasformata, ed egli per­ cepisce per la prima volta tutta l’angustia della pro­ pria vita. Come il giovane parroco di Soana dopo il primo incontro con Agata, così l’insignificante 234

scrivano municipale zoppo e malato viene come travolto da un’ossessione erotica, che, tuttavia, dif­ ferentemente da quanto accadeva nella novella del 1918, ha ora assunto caratteristiche decisamente demoniache e devastanti. La tredicenne fanciulla angelicata è «Vergine, Madre, Regina»: Lorenz impiega le stesse parole con cui il Dottor Marianus si rivolge a Gretchen nella seconda parte del Faust ài Goethe (v. 12102), e che poi saranno pronunciate dal narratore nel­ la novella Mignon, allorquando, in preda a un profondo turbamento per il susseguirsi di incon­ tri reali, ma dalle caratteristiche irreali, ascende al Monte Mottarone e, quasi rievocando un’im­ magine bucolica della novella Der Ketzer von Soana, incontra una pastorella. Nello sguardo retro­ spettivo di Lorenz, Veronika si trasforma in una strega, in una presenza sinistra, che in quanto tale rimane nella narrazione in una dimensione remo­ ta e quasi immateriale; mentre sulla scena compare la sua sosia, la “perversa” Melitta, che inizia Lorenz alle arti dell’amore e ai segreti dell’alco­ va. Il motivo del doppio rimanda anche in que­ sto caso, e fin troppo scopertamente, alle proble­ matiche dell’eros. Melitta è tuttavia, nella logica della narrazione, una presenza assolutamente con235

creta; in ogni caso, sicuramente più concreta di Veronika, che Lorenz incontra solo due volte sen­ za poter scambiare con lei mai una parola né poterla toccare mai neppure con un dito. La pri­ ma il 28 maggio 1900, la seconda, a distanza di poche settimane, il 13 luglio. In entrambi gli incontri egli si rende ridicolo. La prima volta quando gli fanno volare il cappello; una scena che suscita l’ilarità immediata della fanciulla, che scoppia in una sonora e incontenibile risata. La seconda volta quando deve essere addirittura allontanato con durezza dai domestici di casa Harlan, fra le risate generali, allorché, intravista la carrozza elegante trainata da due ponies bian­ chi, nella quale si trovano Veronika e la sua gover­ nante che stanno ritornando a casa, è colto da un impulso incontrollabile che lo porta a precipitar­ si fin nel cortile interno del palazzo patrizio. Lorenz è convinto di essere caduto vittima di una forza misteriosa, di un dèmone che, impos­ sessatosi oramai della sua persona, gli impedisce di ritornare sulla retta via, inducendolo alle altre azioni inconsulte e sempre più delittuose, che lo porteranno alla rovina. Questo spirito maligno si rivela essere nient’altro che il suo sosia. E il suo doppio, e dunque il suo vero io, colui che ha osa-

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to varcare la soglia della monotona e grigia realtà; quella soglia che Lorenz più volte aveva vagamente desiderato di oltrepassare, come immaginava aves­ se fatto suo fratello Hugo, che frequentando la scuola d’arte era entrato in contatto con il mon­ do scandaloso e pericoloso della bohème. Se non si rischiasse di interpretare il racconto di Lorenz oltre ciò che il testo medesimo dice mettendo a soqquadro persino l’organizzazione cronologica degli eventi, si azzarderebbe l’ipotesi che è pro­ prio il rapporto erotico con Melitta, indecente e spregevole secondo le norme morali del narrato­ re che coincidono con quelle stabilite dalla società borghese, a creare una storia parallela con l’ir­ raggiungibile Veronika, che assume la funzione di catalizzatore della negatività demonica contenu­ ta in quel rapporto. Si comprenderebbe così il motivo per il quale nei momenti di voluttuosa inti­ mità Melitta divenga per lui una mistica incar­ nazione di Veronika Harlan. Nelle fantasie osses­ sive di Lorenz, Veronika, creatura fisicamente lontana e tuttavia onnipresente, è capace, simile a un fantasma, di attraversare i muri, procuran­ do con le sue apparizioni le più terribili “angosce” e al tempo stesso la “voluttà” più indescrivibile. Nel binomio voluttà/tormento è contenuto il para­ 237

dossale sentimento che coglie il soggetto nel momento in cui riconosce la propria immagine allo specchio: la “voluttà” per la soddisfazione del proprio narcisismo, e il “tormento” nel quale si articola l’angoscia esistenziale per l’improvvisa perdita della propria identità. Melitta è dunque un surrogato “reale” e triste­ mente realizzabile dei sogni irrealizzabili di riscat­ to sociale che nutre lo scrivano municipale storpio e sofferente. Dopo l’incontro con il “fantasma”, per lui il mondo non sarà più lo stesso. Di colpo egli riconosce la mediocrità cui è condannata la propria esistenza e al tempo stesso tenta una strada per supe­ rarla. Il radicale isolamento che genera ora un sen­ timento di disperazione, ora un’irragionevole e sfrenata euforia, si risolve nell’impossibilità di sepa­ rare realtà e illusione. In questa luce va visto il dimi­ nutivo di Lenz che nella nuova vita moglie e suo­ cero gli hanno dato. Lenz - com’è stato acuta­ mente notato - non è solo la forma breve di Lorenz, o l’auspicio di una nuova “primavera” alla quale egli si possa risvegliare, ma anche una chiara allusione al problematico scrittore dello Sturm und Drang, amico di Goethe, divenuto il protagonista di quel­ la novella di Georg Büchner, che tanto ascenden­ te ebbe sulla formazione artistica del giovane

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Hauptmann. Un vero e proprio superamento del ristretto ambito piccolo-borghese di appartenenza è possibile solo all’interno di una costruzione fan­ tastica tanto prossima alla realtà da confondersi con questa. Una confusione che si rivela fatale e tra­ sforma il corretto e virtuoso impiegato in un delin­ quente. La narrazione presenta così una sequenza di doppi. Lorenz Lubota si scinde nella scrittura memorialista in narratore e personaggio, che rac­ conta del proprio presente e del proprio passato, del­ la guarigione da una vera e propria malattia che da onesto scrivano municipale lo ha mutato in malfat­ tore. Veronika Harlan è la versione nobile e plato­ nica della disonorevole e sensuale Melitta; ma è dal momento dell’incontro con Veronika che inizia ad agire il dèmone malefico identificato con il suo sosia. In realtà le immagini delle due donne si confondono e si sovrappongono. Lorenz conserva, infatti, una fotografia di Veronika, che è causa d’inquietudi­ ne ancora nel presente della serenità borghese; e que­ sta fotografia egli l’aveva ricevuta in dono da Melit­ ta, che se l’era fatta a sua volta regalare da un foto­ grafo da cui si era recata per farsi fare un ritratto. Parallelamente a questa sequenza di doppi proce­ de un’altra storia, quella della sorella di Lorenz, Melanie, che si propone come pendant e conferma 239

al femminile della vicenda principale. Altrettanto mortificata nell’angustia piccolo-borghese, anche la giovane fioraia, dai fascinosi lineamenti di un gio­ vanetto che la fanno assomigliare all’Ermete di Prassitele, insegue un sogno di riscatto sociale che si risolverà in un fallimento. Prima cocotte e man­ tenuta, dopo l’incontro con il complice di suo fra­ tello, Wigottschinski, Melanie percorrerà tutte le tappe che la porteranno, alla fine, a esercitare la pro­ stituzione in taverne malfamate e luridi bassifon­ di frequentati da pericolosi delinquenti. Tanto nel Ketzer von Soana, quanto in Phantom è articolata la storia di una metamorfosi, originata dal risveglio improvviso e inquietante della passione ero­ tica. La narrazione autobiografica cui dànno vita i protagonisti delle due vicende deriva da una stes­ sa volontà di chiarimento ed è resa possibile dalla convinzione, nutrita da entrambi, di poter consi­ derare la propria avventura passata dall’osservato­ rio privilegiato della nuova dimensione esistenzia­ le raggiunta. E tuttavia proprio attraverso l’attività narrativa che dalle maglie della creduta sicurezza emerge la precarietà tanto dell’arcadia arcaicopagana quanto dell’idillio piccolo-borghese. Come il pastore non conclude il proprio racconto, così attraverso la scrittura memoriale Lorenz è chiamato

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a fare i conti con un sentimento d’inquietudine, con il timore del ripresentarsi, nella quiete della sicu­ rezza oramai raggiunta, ma in fondo non diversa da quella in cui versava quando era scrivano muni­ cipale, di quella “malattia” che lo aveva portato al delitto. Più tragica e definitiva sarà la variante del mito proposta da Hauptmann nel 1934: il capita­ no Cardenio nella novella Das Meerwunder non appartiene più al mondo della realtà, ma gli è pre­ cluso anche l’accesso a quell’unica dimensione oltre la vita nella quale sa esserci la felicità. Egli si è tra­ sformato in un morto vivente, in un “Halbwe­ sen”, come in un’anima dannata si era trasforma­ ta Chimaera quando per amore aveva dimesso la propria qualità ultraterrena. Ma la vita in questa dimensione intermedia, ancora possibile per Fran­ cesco e per Lorenz, si trasforma per Cardenio in una vera e propria maledizione: a lui non rimarrà altro che far proprio il grido di denuncia con cui Chimaera rigettava ai piedi del Creatore la qualità umana quale insopportabile dono infernale perché fonte soltanto di tormenti e di orrore e, alla fine del suo racconto, con un gesto estremo, andare incontro alla morte. G. T.

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Indice

Il fantasma

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Note

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La regina delle ninfe a Breslavia ài Giovanni Tateo

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Questo volume è stato stampato nel mese di ottobre del 2003 su carta Grifo Vergata delle Cartiere Miliani di Fabriano. La sovracoperta è rea­ lizzata in carta Roma fabbricata a mano e appositamente allestita dalle Cartiere Miliani di Fabriano per la collana « Il divano ».

Stampa: Officine Grafiche Riunite, Palermo Legatura: LE.I.MA. s.r.l., Palermo

Il divano

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Abate Dinouart. L’arte di tacere La volpe amorosa Nino Savarese. Gatterìa Kenelm Digby. La polvere di simpatia Jean-Baptiste Pérès, Richard Whately e Aristarchus Newlight. L’imperatore inesistente Jean-Françcois de Bastide. La petite maison Enrique Vila-Matas. Storia abbreviata della letteratura portatile Choderlos de Laclos. L’educazione delle donne Herbert George Wells. Piccole guerre Champfleury. Il violino di faenza Gustave Amiot. La Duchessa di Vaneuse Gustav Weil. Il racconto più bello del Corano Celio Caleagnini, Celio Malespini, Giuseppe Battista, Pio Rossi. Elogio della menzogna Alexandre Dumas. La cappella gotica Gotthold Ephraim Lessing. Favole in tre libri Cari Jacob Burckhardt. Incontro con Rilke Lady Bell. Piccolo manuale di giochi per viaggiatori Honoré de Balzac. Massimilla Doni Ippocrate. Sul riso e la follia Johann Wier. Le streghe Catalina de Erauso. Storia della monaca alfiere scritta da lei medesima Antonio Tosti. Contributo alla conoscenza della stupidità umana Edmondo De Amicis. Manuel Menendez Konstantin Nicolaevič Leont’ev. Storia di un giovane suliota