Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale 9788806206024

Questo libro propone la ricostruzione di quattro capitoli fondamentali della cultura europea: la teoria del fantasma nel

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Italian Pages 200 [118] Year 1977

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Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale
 9788806206024

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Giorgio Agamhen

Stanze La parola e il fantasma nella cultura occidentale

Einaudi

Editore

SAGGI

579

L'amore (da Ori Apollinis Niliaci De sacris Aegyptiorum notis, Parisiis 15 7 4).



Giorgio gamben \

Stanze

La parola e il fantasma nella cultura occidentale

Giulio Einaudi editore

Indice

p.

xr

Prefazione

Stanze I fantasmi di Eros

PARTE PRIMA

5 15 20 24 28

1.

Il demone meridiano

II.

Melencolia I

IV.

L'oggetto perduto

III.

Eros malinconico

v.

I fantasmi di Eros

PARTE SECONDA

39 44 49 55 65

1.

Freud o l 'oggetto assente

II.

Marx o l 'Esposizione universale

IV.

Beau Brummell o l'appropriazione dell'irrealtà

III.

v.

Baudelaire o la merce assoluta Mme Panckoucke o la Fata del giocattolo

PARTE TERZA

Narciso e Pigmalione

III.

« Spiritus phantasticus »

130

v.

Tra Narciso e Pigmalione

146

VI.

La « gioi che mai non fina »

84 105 121

1977

Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino



La parola e il fantasma

1.

73

Copyright©

Nel mondo di Odradek

n.

IV.

Eros allo specchio Spiriti d'amore

VIII

Indice PARTE QUARTA

p. I 59 I67

I.

II.

L'immagine perversa

Elenco delle illustrazioni

Edipo e la Sfinge Il proprio e l 'improprio

I8I

III. La barriera e

I93

Indice dei nomi

la piega

frontespizio Vamore (da Ori Apollinis Niliaci De sacris Aegyptiorum notis, Parisiis I574). r.

Diirer, Melencolia I.

2. Ve;pertilio (in Ori Apollinis Niliaci De sacris Aegyptiorum notis cit.). 3· Rubens, Eraclito come melanconico. Madrid, Prado.

4-5. Posate e Libreria (dal Catalogo illustrato dell'Esposizione universale di Londra, I85I). 6-7. Grandville, illustrazioni da Un autre monde. 8. Grandville, Système de Fourier (illustrazione da Un autre monde). 9· Grandville, illustrazioni da Petites misères de la vie humaine. IO. Beau Brummell. II-I2. Figure in miniatura in una tomba cinese arcaica. I3. L'amante alla fontana di Narciso (Ms. fr. I2595, fol. I2V). Parigi, Bibliothèque Nationale.

I4. Narciso (Ms. fr. I2595, fol. 12v). Parigi, Bibliothèque Nationale.

I5. Pigmalione come idolatra (Ms. Douce I95, fol. I49v). Oxford, Bodleian Library.

I6. Pigmalione e l'immagine (Ms. Douce I95, fol. I5or). Oxford, Bodleian Library.

I7. Storie di Pigmalione (Ms. fr. I2592, fol. 62v). Parigi, Bibliothèque Nationale.

I8. Vamante e l'immagine (Ms. 387, fol. I46v). Valencia.

I9. Venere e l'immagine (Ms. 387, fol. I44r). Valencia.

20. Venere e l'immagine (Ms. fr. 380, fol. I35V). Parigi, Bibliothèque Nationale.

x

Elenco delle illustrazioni 2r. Vamante) fimmagine e la rosa (Ms. 3 8 7, fol. 146v). Valencia.

Prefazione

22. « Fol amour » come idolatria (particolare del lato sinistro del portale cen­ trale della cattedrale di Notre-Dame). Parigi.

2 3 . Gli amanti come idolatri (vassoio per il parto attribuito al Maestro di

San Martino).

Parigi, Louvre.

24. Vuomo laborioso (da Ori Apollinis Niliaci De sacris Aegyptiorum notis cit.). 25. Vopera futura (da Ori Apollinis Niliaci De sacris Aegyptiorum notis cit.). 26. Ciò che è grave) diletta (da J. Catz, Proteus, Rotterdam 1627). 27. Vamore è padre delreleganza (da Catz, Proteus cit.).

Da un romanzo è possibile, al limite, accettare che la storia che in esso si doveva raccontare non venga raccontata; ma da un'ope­ ra critica si sogliano invece attendere dei risultati o, almeno, tesi da dimostrare e, come si dice, ipotesi di lavoro. Eppure, quando la parola fa la sua apparizione nel vocabolario della filosofia occi­ dentale, critica significa piuttosto indagine sui limiti della cono­ scenza, su quel che, cioè, precisamente non è possibile né porre né afferrare. Se, in quanto ne traccia i confini, la critica apre allo sguardo « il paese della verità », come « un'isola che la natura chiu­ de in confini immutabili », essa deve tuttavia restare esposta al fascino dell'« oceano vasto e tempestoso » che attira « incessante­ mente il navigante in avventure che egli non sa rifiutare e che, tut­ tavia, non può mai condurre a termine » . Nel gruppo di Jena, che cercò di abolire nel progetto di una « poesia universale pro­ gressiva » la distinzione fra poesia e discipline critico-filologiche, un'opera che meritasse di essere qualificata critica non poteva es­ sere altro che un'opera che includesse in se stessa la propria nega­ zione e il cui contenuto essenziale fosse cosi proprio ciò che in essa non si trovava. La saggistica europea di questo secolo non è ricca di opere di tal genere : a voler essere rigorosi, accan to a un'opera che, in quanto assente, sarà sempre « piu che comple­ ta », qual è quella di celui qui silence, Félix Fénéon, forse un solo libro merita, in questo senso, il nome di critico : l'Ursprung des deutschen Trauerspiel, di W alter Benjamin. È certo indizio dello scadimento di questa tradizione di pen­ siero che vi siano oggi molti, fra coloro che da essa piu o meno consapevolmente si autorizzano, che rivendicano il carattere

XII

Prefazione

« creativo » della critica, proprio quando l'arte ha rinunciato da un pezzo a ogni pretesa di creatività. Se la formula che nell'anti­ chità si trova applicata per la prima volta a un poeta e filologo alessandrino, Filita ( 7tOLI)'ti)ç aiJ..a. xa.t xpt.'tt.X6ç (insieme poeta e critico ' ), può oggi tornare a valere come definizione esemplare dell'artista moderno, se la critica s'identifica oggi veramente con l'opera d'arte, ciò non è in quanto è anch'essa « creativa », ma, semmai, in quanto è anch'essa negatività. Essa non è anzi altro che il processo della sua ironica autonegazione : un « autoannien­ tantesi nulla », appunto, o « un dio che si autodistrugge » secondo la profetica, anche se malevola, definizione di Hegel. L'obiezione di Hegel al « signor Friedrich von Schlegel », a Solger, a Novalis e agli altri teorici dell'ironia, secondo cui essi sarebbero rimasti fermi alla « infinita negatività assoluta » e avrebbero finito col fa­ re del meno artistico « il vero principio dell'arte », spacciando « l'inespresso per la cosa migliore », si lascia sfuggire l'essenziale .. e, cioè, che la negatività dell'ironia non è quella provvisoria del­ la dialettica, che la bacchetta magica dell'Aufhebung è sempre già in atto di trasformare in positivo, ma una negatività assoluta e senza riscatto, la quale tuttavia non rinuncia per questo alla co­ noscenza. E che dall'ironia romantica, proprio con gli Schlegel, sia potuto scaturire un atteggiamento autenticamente filologico e scientifico ( che ha dato, fra l'altro, un impulso essenziale alla linguistica indoeuropea), è qualcosa che resta ancora da interro­ gare nella prospettiva di una fondazione critica delle scienze uma­ ne. Poiché, se nelle scienze dell'uomo soggetto e oggetto necessa­ riamente si identificano, allora l'idea di una scienza senza oggetto non è un paradosso scherzoso, ma il compito forse piu serio che, nel nostro tempo, resta affidato al pensiero. Ciò che il perpetuo aguzzar coltelli di una metodologia che non ha piu nulla da ta­ gliare cerca oggi sempre piu spesso di dissimulare, e, cioè, la co­ scienza che l'oggetto che doveva essere appreso ha eluso, alla fine, la conoscenza, è rivendicato, invece, dalla critica come il proprio carattere specifico. L'illuminazione profana, cui essa ri­ volge la sua intenzione piu profonda, non possiede il suo oggetto.

Prefazione

XIII

Come ogni autentica quéte, la quéte della critica non consiste nel ritrovare il proprio oggetto, ma nell'assicurare le condizioni della sua inaccessibilità. I poeti del '2oo chiamavano « stanza » , cioè « dimora capace e ricettacolo » , il nucleo essenziale della loro poesia, perché esso cu­ stodiva, insieme a tutti gli elementi formali della canzone, quel joi d'amor che essi affidavano come unico oggetto alla poesia. Ma che cos'è quest'oggetto ? A quale godimento la poesia dispone la sua « stanza » come « grembo » di tutta l'arte ? Su che cosa si ti­ chiude cosi tenacemente il suo trobar? L'accesso a ciò che fa problema in queste domande è sbarrato dali' oblio di una scissione che si è prodotta fin dali'origine nella nostra cultura e che si suole accettare come la cosa piu naturale e che va, per cosi dire, da sé, mentre è, in realtà, l'unica cosa che meriterebbe veramente di essere interrogata. Questa scissione è quella fra poesia e filosofia, fra parola poetica e parola pensante, ed essa appartiene cosi originalmente alla nostra tradizione cultu­ rale, che già Platone poteva ai suoi tempi dichiararla « una vec­ chia inimicizia » . Secondo una concezione che è solo implicita­ mente contenuta nella critica platonica della poesia, ma che ha ac­ quistato nell'età moderna carattere egemonico, la scissione della parola è interpretata nel senso che la poesia possiede il suo ogget­ to senza conoscerlo e la filosofia lo conosce senza possederlo. La parola occidentale è cosi divisa fra una parola inconsapevole e come caduta dal cielo, che gode dell'oggetto della conoscenza rap­ presentandolo nella forma bella, e una parola che ha per sé tutta la serietà e tutta la coscienza, ma che non gode del suo oggetto perché non lo sa rappresentare. Ciò di cui la scissione fra poesia e filosofia offre testimonianza è l'impossibilità della cultura occidentale di possedere pienamen­ te l'oggetto della conoscenza (poiché il problema della conoscenza è un problema di possesso, e ogni problema di possesso è un pro­ blema di godimento, cioè di linguaggio ). Nella nostra cultura, la conoscenza ( secondo un'antinomia che Aby Warburg ebbe a dia­ gnosticare come la « schizofrenia » dell'uomo occidentale) è scissa

XIV

Prefazione

in un polo estatico-ispirato e in un polo razionale-cosciente, senza che nessuno dei due riesca mai a ridurre integralmente l'altro. In quanto accettano passivamente questa scissione, la filosofia ha omesso di elaborare un proprio linguaggio, come se potesse esi­ stere una « via regia » alla verità che prescinda dal problema della sua rappresentazione, e la poesia non si è dat� né un metodo né una coscienza di sé. Ciò che, in questo modo, viene rimosso, è che ogni autentica intenzione poetica è rivolta alla conoscenza, cosi come ogni vero filosofare è sempre rivolto alla gioia. Il nome di Holderlin (cioè di un poeta per il quale la poesia faceva innanzi­ tutto problema e che aveva espresso la speranza che essa fosse ele­ vata al grado della �T)XCX.'V-f) degli antichi, in modo che il suo pro­ cedimento potesse essere calcolato e insegnato ) e il dialogo che col suo dire intrattiene un pensatore che già non designa piu la propria meditazione col termine di « filosofia », sono qui chiamati a testimoniare dell'urgenza, per la nostra cultura, di ritrovare l'u­ nità della propria parola spezzata. La critica nasce nel momento in cui la scissione raggiunge il suo punto estremo. Essa si situa nella scollatura della parola occi­ dentale e fa segno al di qua o al di là di essa verso uno statuto uni­ tario del dire. Esteriormente, questa situazione della critica può essere espressa nella formula secondo la quale essa non rappre­ senta né conosce, ma conosce la rappresentazione. All'appropria­ zione senza coscienza e alla coscienza senza godimento, la critica oppone il godimento di ciò che non può essere posseduto e il pos­ sesso di ciò che non può essere goduto. In questo modo essa in­ terpreta il precetto di Gargantua : « science sans conscience n 'est que ruine de l' ame ». Ciò che è recluso nella « stanza » della cri­ tica è nulla, ma questo nulla custodisce l'inappropriabilità come il suo bene pili prezioso. Nelle pagine che seguono, il modello della conoscenza è cosi cercato in quelle operazioni, come la disperazione del malinco­ nico o la Verleugnung del feticista, in cui il desiderio nega e, in­ sieme, afferma il suo oggetto e, in questo modo, riesce a entrare in rapporto con qualcosa che non avrebbe potuto altrimenti es-

Prefazione

xv

sere né appropriato né goduto. È questo modello che ha fornito il campo tanto a un esame della trasfigurazione degli oggetti uma­ ni operata dalla merce quanto al tentativo di ritrovare, attraverso l'analisi della forma emblematica e dell'alvoç della Sfinge, un modello del significare che sfuggisse alla posizione primordiale del significante e del significato che domina ogni riflessione occi­ dentale sul segno. Ed è in questa prospettiva che acquista il suo senso proprio la ricostruzione, che occupa il posto centrale nella ricerca, della teoria del fantasma sottesa al progetto poetico che la lirica trobadorico-stilnovista ha lasciato in eredità alla cultura europea e in cui, attraverso il fitto entrebescamen testuale di fan­ tasma, desiderio e parola, la poesia costruiva la propria autorità diventando essa stessa la « stanza » offerta alla gioi che mai non fina dell'esperienza amorosa. Ognuno dei saggi qui raccolti disegna quindi, nel suo circolo ermeneutico, una topologia del gaudium, della « stanza » attraver­ so la quale lo spirito umano risponde all'impossibile compito di appropriarsi di ciò che deve, in ogni caso, restare inappropriabile. Il sentiero di danza del labirinto, che conduce nel cuore di ciò che tiene a distanza, è il modello dello spazio simbolico della cul­ tura umana e della sua òo6ç �acnÀT) LT) a una meta cui solo il dé­ tour è adeguato. Il discorso che, in questa prospettiva, sa infatti che « tenere fermamente ciò che è morto è quel che esige la forza pili grande » e non voglia arrogarsi « il potere magico che trasfor­ ma il negativo in essere », deve necessariamente garantire l'inap­ propriabilità del suo oggetto. Poiché esso non si comporta rispet­ to a questo né come il padrone che semplicemente lo nega nell'at­ to del godimento né come lo schiavo che lo elabora e trasforma nel differimento del proprio desiderio : la sua è l'operazione so­ vrana di una fin'amors che, insieme, gode e differisce, nega e affer­ ma, assume e respinge e la cui sola realtà è l'irrealtà di una parola « qu'amas l'aura l e chatz la lebre ab lo bou l e nadi contra su­ berna ». È in questa prospettiva che si può qui parlare di una « topo­ logia dell'irreale » . Forse il topos, questa cosa, secondo Aristote-

XVI

(

Prefazione

le, « cosi difficile da afferrare », ma il cui potere « è meraviglioso e anteriore a ogni altro » e che Platone, nel Sofista, concepisce ad­ dirittura come un « terzo genere » dell'essere, non è necessaria­ mente qualcosa di « reale » e, in questo senso, si è qui provato a prendere sul serio la domanda che il filosofo pone nel libro IV della Fisica : « 7tOV yap Ècr"n "t'payÉÀacpoç il crcp�v;; » (dov'è il ca­ pricervo, dov'è la sfinge ?' In nessun luogo, certo, ma, forse, per­ ché sono essi stessi dei topoi. Noi dobbiamo ancora abituarci a pensare il « luogo » non come qualcosa di spaziale, ma come qual­ cosa di piu originario dello spazio; forse, secondo il suggerimen­ to di Platone, come una pura differenza, cui compete tuttavia il potere di far si che « ciò che non è, in un certo senso sia e ciò che è, a sua volta, in un certo senso non sia ». Solo una topologia filo­ sofica, analoga a quella che in matematica si definisce analysis si­ tus in opposizione all'analysis magnitudinis, sarebbe adeguata al topos outopos il cui nodo borromeo si è qui cercato di configu­ rare. Cosi l'esplorazione topologica è costantemente orientata nella luce dell'utopia. Se una convinzione sostiene infatti temati­ camente questa ricerca nel vuoto cui la costringe la sua intenzione critica, questa è appunto che solo se si è capaci di entrare in rap­ porto con l'irrealtà e con l'inappropriabile in quanto tali, è possi­ bile appropriarsi della realtà e del positivo. Cosi le pagine che se­ guono intendono porsi come un primo, insufficiente tentativo nel solco del progetto che Musi! aveva affidato al suo romanzo incom­ piuto e che, qualche anno prima, la parola di un poeta aveva espresso nella formula secondo cui « chi afferra la massima irreal­ tà, plasmerà la massima realtà » .

Martin Heidegger in memoriam

Stanze

Et circa hoc sciendum est quod hoc vocabulum per solius artis respectum inventum est, videlicet ut in quo tota cantionis ars esset contenta, illud diceretur stantia - hoc est mansio capax sive re­ ceptaculum - totius artis. Nam, quemadmodum cantio est gremium totius sententiae, sic stantia to­ tam artem ingremiat . . . DANTE,

De vulgari eloquentia I I 9

Parte prima

I fantasmi di Eros

Ora la perdita, per crudele che sia, non può nul­ la contro il possesso : lo completa, se volete, lo af­ ferma : non è, in fondo, che una seconda acquisi­ zione - questa volta tutta interiore ....:. e altrettanto intensa. RILKE

Molti cercarono invano di dire gioiosamente il piu gioioso; qui, finalmente, nel lutto esso si espri­ me.

HOLDERLIN

Capitolo primo

Il demone meridiano

Per tutto il medioevo, un flagello peggiore della peste che infe­ sta i castelli, le ville e i palazzi delle città del mondo si abbatte sulle dimore della vita spirituale, penetra nelle celle e nei chiostri dei monasteri, nelle tebaidi degli eremiti, nelle trappe dei reclusi . Acedia, tristitia, taedium vitae, desidia sono i nomi che i padri della Chiesa dànno alla morte che esso induce nell'anima ; e, ben­ ché negli elenchi delle Summae virtutum et vitiorum, nelle minia­ ture dei manoscritti e nelle rappresentazioni popolari dei sette peccati capitali 1, la sua desolata effigie figuri al quinto posto, un'antica tradizione ermeneutica ne fa il piu letale dei vizi, l'uni­ co per il quale non vi sia alcun perdono possibile. I padri si scagliano con particolare fervore contro i pericoli di questo « demone meridiano » \ che sceglie le sue vittime fra gli 1 Nella piu antica tradizione patristica i peccati capitali non sono sette, ma otto. Nell'elencazione di Cassiano, essi sono: Gastrimargia 'gola', Fornicatio 'lussuria', Phi­ largyria 'avarizia', Ira, Tristitia, Acedia, Cenodoxia 'vanagloria', Superbia. Nella tradi­ zione occidentale, a partire da san Gregorio, la tristitia si fonde con l'acedia, e i sette peccati assumono l'ordine che si ritrova nelle illustrazioni popolari e nelle rappresenta­ zioni allegoriche della fine del medioevo e che ci è diventato familiare attraverso gli affreschi di Giotto a Padova, il tondo di Bosch al museo del Prado o le incisioni di Brueghel. Quando nel testo si parla di acedia, ci si riferisce sempre al complesso risul­ tante da questa fusione, che piu precisamente dovrebbe designarsi « Tristitia-Acedia ». 2 « Maxime circa horam sextam monachum inquietans ... Denique nonnulli senum hunc esse pronuntiant meridianum daemonem, qui in psalmo nonagesimo nuncupatur » (JOANNIS CASSIANI De institutis coenobiorum, l. X, cap. I, in Patrologia latina, 49 ). Analogamente Giovanni Climaco (Scala Paradisi, gr. xm, in Patrologia graeca, 8 8 ) : « mane primum languentes medicus visita t, acedia vero monachos circa meridiem » . Non è quindi casuale che, nell'incisione di Brueghel che rappresenta l'acedia, nella parte in alto, a sinistra, appaia un enorme quadrante, sul quale, in luogo di lancette, una mano indica « circa meridiem ». Sul demone meridiano si veda quanto scrive Leopardi nel suo Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, cap. vn. Il riferimento al « salmo nona­ gesimo » in Cassiano è, per la precisione, al v. 6, e la voce ebraica corrispondente è

6

I fantasmi di Eros

Il demone meridiano

homines religiosi e li assale quando il sole culmina sull'orizzonte; e forse per nessun'altra tentazione dell'anima i loro scritti fanno mostra di una cosf spietata penetrazione psicologica e di una tan­ to puntigliosa e agghiacciante fenomenologia :

non potrà star bene finché non avrà abbandonato la sua cella e che, se vi restasse, vi troverebbe la morte. Poi, verso l 'ora quinta o sesta, gli prende un languore del corpo e una rabbiosa fame di cibo, come fosse stremato da un lungo viaggio o da un duro lavoro, o avesse digiunato per due o tre giorni. Allora comincia a guardarsi intorno qua e là, entra ed esce piu volte dalla cella e fissa gli occhi sul sole come se potesse ral­ lentarne l'occaso; e, alla fine, gli cala sulla mente una dissennata con­ fusione, simile alla caligine che avvolge la terra, e lo lascia inerte e come svuotato 1•

Lo sguardo dell'accidioso si posa ossessivamente sulla finestra e, con la fantasia, egli si finge l'immagine di qualcuno che viene a visitarlo ; a uno scricchiolio della porta, balza in piedi; sente una voce, e corre ad affacciarsi alla finestra a guardare; e tuttavia non scende in strada, ma torna a sedersi dov'era, torpido e come allibito . Se legge, s'interrompe inquieto e, un minuto dopo, scivola nel sonno; si frega la faccia con le mani, distende le dita e, tolti gli occhi dal libro, li fissa sulla parete ; di nuovo li rimette sul libro, va avanti per qualche riga, ribalbettando la fine di ogni parola che legge; e intanto si riempie la testa con calcoli oziosi, conta il numero delle pagine e i fogli dei quaderni ; e gli vengono in odio le lettere e le belle miniature che ha davanti agli occhi, finché, da ultimo, richiude il libro e lo usa come cuscino per il suo capo, caden­ do in un sonno breve e non profondo, da cui lo desta un senso di priva­ zione e di fame che deve saziare 1•

II

Ma è nell'evocazione del corteggio infernale delle filiae ace­ diae 2 che la mentalità allegorizzante dei padri della Chiesa ha fis­ sato magistralmente l'allucinata costellazione psicologica dell'a­ cedia. Essa genera innanzitutto malitia, l'ambiguo e infrenabile odio-amore per il bene in quanto tale, e rancor, la rivolta della cattiva coscienza verso coloro che esortano al bene; pusillanimi-

Non appena questo demone comincia ad ossessionare la mente di qualche sventurato, gli insinua dentro un orrore del luogo in cui si tro­ va, un fastidio della propria cella e uno schifo dei fratelli che vivono con lui, che gli sembrano ora negligenti e grossolani. Lo fa diventare inerte a ogni attività che si svolge fra le pareti della sua cella, gli impe­ disce di restarvi in pace e di attendere alla sua lettura; ed ecco che il disgraziato comincia a lagnarsi di non trarre alcun giovamento dalla vita conventuale, e sospira e geme che il suo spirito non produrrà frutto al­ cuno finché resterà dove si trova; querimoniosamente si proclama inet­ to a far fronte a qualsiasi compito dello spirito e si affiigge di starsene svuotato e immobile sempre nello stesso punto, lui che avrebbe potuto essere utile agli altri e guidarli, e non ha invece concluso nulla né giovato a chicchessia. Si profonde in sperticati elogi di monasteri assenti e lontJni ed evoca i luoghi dove potrebbe essere sano e felice; descrive cenobi soavi di fratelli e flagranti di conversazione spirituale; e, all'op­ posto, tutto quel che ha a portata di mano gli sembra aspro e difficile, i suoi fratelli privi di qualsiasi qualità e persino il cibo gli pare di non poterselo là procurare senza una grande fatica. Alla fine si convince che

Keteb. Secondo Rohde, il demone meridiano degli autori cristiani non è che una rein­ carnazione di Empusa, una delle figure di orchessa del seguito spettrale di Ecate, che appare appunto sul mezzogiorno (cfr. E. ROHDE, Psyche, Freiburg im Breisgau, 1 890-94; trad. it. Bari 1 970, app. II). 1 SANCTI NILI De octo spiritibus malitiae, cap. xrv.

7

l

1 JOANNIS CAS SIANI De institutis coenobiorum cit., l. X, cap. II. La descrizione pa­ tristica dell'accidioso non ha perduto, a tanti secoli di distanza, nulla della sua esempla­ rità e della sua attualità e sembra anzi aver fornito il modello alla letteratura moderna alle prese col suo mal du siècle. Cosf il cavaliere d' Albert, protagonista di quella bibbia ante litteram del decadentismo che è Mademoiselle de Maupin, è presentato da Gautier in termini che ricordano da vicino la fenomenologia medioevale dell'acedia. Ancora piu prossima al modello patristico è la descrizione degli stati d'animo di Des Esseintes ( il quale non nasconde del resto la sua predilezione per le opere dei padri della Chiesa) nell'A rebours huysmansiano. Tratti simili ma, ovviamente, di seconda mano, nel Gior­ gio Aurispa del Trionfo della morte. Per molti aspetti, anche le annotazioni baudele­ riane in Mon cceur mis à /ZU e nelle Fusées rivelano una singolare prossimità con la fenomenologia accidiosa. Del resto, nella poesia che apre Les fleurs du mal, Baudelaire pone sotto il segno dell'acedia (che qui figura come ennui) la sua opera poetica. Tutta la poesia di Baudelaire può essere intesa, in questa prospettiva, come una lotta mortale con l'acedia e, insieme, come un tentativo di rovesciarla in qualcosa di positivo. È da notare che il dandy, che rappresenta, secondo Baudelaire, il tipo perfetto del poeta, si può considerare, in un certo senso, come una reincarnazione dell'accidioso. Se è vero che l'essenza del dandismo consiste in una religione del trascurabile o in un'arte del­ l'incuria (cioè in un prendersi cura dell'incuria stessa), esso si presenta allora come una paradossale rivalutazione dell'acedia, il cui significato etimologico ( da a-)CT)OO(..I.CI!.) è, appunto, in-curia. 2 Secondo Gregorio, le figlie dell'acedia sono sei (malitia, rancor, pusillanimitas, desperatio, torpor circa praecepta, evagatio mentis) . Isidoro ne elenca sette (otiositas, somnolentia, importunitas mentis, inquietudo corporis, instabilitas, verbositas, curiosi­ las), ma, come osserva san Tommaso, esse si possono ridurre a quelle enumerate da Gregorio; infatti, « otiositas et somnolentia reducuntur ad torporem circa praecepta ... omnia autem alia quinque, quae possint oriri ex acedia, pertinent ad evagationem mentis circa illicita ». In Aurora, il primo romanzo di uno dei piu acuti e « accidiosi » scrittori francesi viventi, Michel Leiris, è possibile trovare un elenco di filiae acediae ben altrimenti corpulento ( sessantotto) ; ma è facile constatare che esse si possono quasi tutte sussumere sotto le categorie patristiche.



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I fantasmi di Eros

tas, l'« animo piccolo » e lo scrupolo che si ritrae sgomento di fronte alla difficoltà e all'impegno dell'esistenza spirituale; despe­ ratio, l'oscura e presuntuosa certezza di essere già condannati in anticipo e il compiaciuto sprofondare nella propria rovina, quasi che nulla, nemmeno la grazia divina, possa salvarci ; torpor, l'ot­ tuso e sonnolento stupore che paralizza qualsiasi gesto che po­ trebbe guarirci ; e, infine, evagatio n-tentis, la 'fuga dell'animo da­ vanti a sé e l'inquieto discorrere di fantasia in fantasia 1 che si manifesta nella verbositas, lo sproloquio vanamente proliferante su se stesso, nella curiositas, l'insaziabile sete di vedere per ve­ dere che si disperde in sempre nuove possibilità, nell'instabilitas loci ve! propositi e nell'importunitas mentis, la petulante incapa­ cità di fissare un ordine e un ritmo al proprio pensiero. La psicologia moderna ha talmente svuotato il termine acedia dal suo significato originale, facendone un peccato contro l'etica capitalistica del lavoro che è difficile ravvisare nella spettacolaL'incapacità di controllare l'incessante discorso (la co-agitatio) dei fantasmi inte­ 1 riori è fra i tratti essenziali della caratterizzazione patristica dell'acedia. Tutte le Vitae patrum (Patrologia latina, 73 ) risuonano del grido dei monaci e degli anacoreti che la solitudine confronta al mostruoso e proliferante discorrere della fantasia: « Domine, salvari desidero, sed cogitationes variae non permittunt »; « Quid faciam, pater, quo­ niam nulla opera facio monachi, sed in negligentia constitutus cornedo et bibo et dor­ mio, et de hora in horam transgredior de cogitatione in cogitationem ... » È bene preci­ sare che cogitatio, nel linguaggio medioevale, si riferisce sempre alla fantasia e al suo discorso fantasmatico ; solo col tramonto della concezione greca e medioevale dell'intel­ letto separato, cogitatio comincia a designare l'attività intellettuale. Vedremo oltre che questa ipertrofia dell'immaginazione è uno dei caratteri che ac­ comuna l'acedia dei padri alla sindrome malinconica e all'amore-malattia della medicina umorale ; come queste, l'acedia potrebbe essere definita un vitium corruptae imagina­ tionis. Chiunque, sotto l'effetto della depressione malinconica, di una malattia o di una droga, ha conosciuto questo disordine della fantasia, sa che il flus- so incontrollabile del­ le immagini interiori è, per la coscienza, una delle prove piu ardue e rischiose. Flaubert, che aveva sofferto per tutta la giovinezza di un atroce disordine dell'immaginazione, ha rappresentato nella sua opera piu ambiziosa la condizione di un'anima alle prese con le « tentazioni » della fantasia. La scoperta, familiare alla mistica di ogni paese, di una possibile polarità positiva implicita nella frequentazione dei fantasmi fu, come vedre­ mo, un evento di grande importanza nella storia della cultura occidentale. Uno dei pochissimi tentativi moderni di costruire qualcosa di corrispondente alla fantasmologia medioevale, si deve a quel singolare impasto di genialità e di idiozia che fu Léon Daudet ( un autore molto caro a Walter Benjamin), la cui analisi dei fantasmi interiori ( definiti personimages) dà luogo a una vera e propria teoria biologica dello spirito umano come « sistema di immagini e di figure congenite », che meriterebbe di essere sviluppata. La lettura dei suoi, ormai introvabili, Le monde des images ( 19 1 9 ) e L e réve.eveillé ( 1926) è , i n questa prospettiva, d i grande interesse.

Il demone meridiano

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re personificazione medioevale del demone meridiano e delle sue filiae l'innocente miscuglio di pigrizia e di svogliatezza che siamo abituati ad associare all'immagine dell'accidioso 1• Tuttavia, come spesso avviene, il fraintendimento e la minimizzazione di un fe­ nomeno, lungi dal significare che esso ci è remoto ed estraneo, sono invece indizio di una prossimità cosi intollerabile da dover essere camuffata e repressa. Ciò è tanto vero, che ben pochi avran­ no riconosciuto nell'evocazione patristica delle filiae acediae le stesse categorie di cui si serve Heidegger nella sua celebre analisi della banalità quotidiana e della caduta nella dimensione anoni­ ma e inautentica del « si » , che ha fornito lo spunto ( in verità non sempre a proposito ) a innumerevoli caratterizzazioni sociologiche della nostra esistenza nelle cosiddette società di massa. Eppure la concordanza è perfino terminologica. Evagatio mentis diventa la fuga e il di-vertimento dalle possibilità piu autentiche dell'es­ serci; verbositas è la « chiacchiera », che dovunque e incessante­ mente dissimula ciò che dovrebbe svelare e mantiene cosi l'es­ serci nell'equivoco; curiositas è la « curiosità », che « cerca quel che è nuovo solo per saltare ancora una volta verso ciò che è an­ cora piu nuovo » e, incapace di prendersi veramente cura di ciò che ad essa si offre, si procura, attraverso questa « impossibilità di soffermarsi » (l'instabilitas dei padri ), la costante disponibilità della distrazione. 1 Per un'interpretazione dell'accidia che la riconduce al suo significato originale, cfr. PIEPER, Sulla speranza ( trad. it. Brescia 1 953 ) . Non è certo una pura coincidenza se, parallelamente a l travestimento borghese del­ l'acedia come pigrizia, la pigrizia (insieme alla sterilità, che si cristallizza nell'ideale della donna lesbica) diventa a poco a poco l'emblema che gli artisti oppongono all'etica capi­ talistica della produttività e dell'utile. La poesia di Baudelaire è dominata da cima a fondo dall'idea della paresse come cifra della bellezza. Uno degli effetti fondamentali che Moreau cercava di realizzare nella sua pittura era « la belle inertie ». L'ossessivo ri­ torno, nella sua opera, di un'emblematica figura femminile (quale si è fissata, in parti­ colare, nel gesto ieratico della sua Salomè) non può essere inteso se si prescinde dalla sua concezione della femminilità come crittografia del tedio improduttivo e dell'iner­ zia : « Cette femme ennuyée, fantasque », egli scrive, « à nature animale, se donnant le plaisir, très peu vif pour elle, de voir son ennemi à terre, tant elle est degoutée de toute satisfaction de ses désirs. Cette femme se promenant nonchalamment d'une façon végetale . . . » È da notare che, nella grande tela incompiuta Les chimères, in cui Moreau voleva rappresentare tutti i peccati e tutte le tentazioni dell'uomo, si può scorgere una figura che corrisponde singolarmente alla rappresentazione tradizionale dell'acedia-ma­ linconia.

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I fantasmi di Eros

Il demone meridiano

La resurrezione della saggezza psicologica che il medioevo aveva cristallizzato nella tipologia dell'accidioso rischia quindi di essere qualcosa di piu di un'esercitazione accademica e, fissata da vicino, la maschera ripugnante del demone meridiano rivela dei tratti che ci sono forse piu familiari di quanto si poteva preve­ dere. . Se esaminiamo infatti l'interpretazione che dell'essenza dell'a­ cedia dànno i dottori della Chiesa, vediamo che essa non è posta sotto il segno della pigrizia, ma sotto quello dell'angosciosa tri­ stezza e della disperazione. Secondo san Tommaso, che nella Sum­ ma theologica ha raccolto le osservazioni dei padri in una sintesi rigorosa ed esaustiva, essa è, appunto, una species tristitiae, e, piu esattamente, la tristezza riguardo ai beni spirituali essenziali dell'uomo, cioè alla particolare dignità spirituale che gli è stata conferita da Dio. Ciò che affligge l'accidioso non è, quindi, la con­ sapevolezza di un male, ma, al contrario, la considerazione del piu grande dei beni : acedia è precisamente il vertiginoso e spau­ rito ritrarsi ( recessus ) di fronte all'impegno della stazione dell'uo­ mo davanti a Dio 1• Per questo, in quanto, cioè, essa è la fuga inor­ ridita di fronte a ciò che non può essere eluso in alcun modo, l'a­ cedia è un male mortale : essa è, anzi, la malattia mortale per ec­ cellenza, la cui immagine stravolta Kierkegaard ha fissato nella descrizione della piu temibile delle sue figlie : « la disperazione che è consapevole di essere disperazione, consapevole dunque di avere un io nel quale è qualcosa di eterno, e ora disperatamen­ te non vuole essere se stessa, o disperatamente vuole essere se stessa » . Il senso di questo recessus a bono divino, di questa fuga del­ l'uomo davanti alla ricchezza delle proprie possibilità spirituali, 1 « Acedia non est recessus mentalis a quocumque spirituali bono, sed a bono di­ vino, cui oportet mentem inhaerere ex necessitate » (Summa theologica II 2 . 3 5 ) . Nella descrizione di Guglielmo d'Auvergne, si dice che l'accidioso ha nausea di Dio stesso : « Deum igitur ipsum fontem omnium suavitatem in primis fastidi t acidiosus . . . » (GUI­ LIELMI PARISIENSIS Opera omnia, Venetiis 1 5 9 1 , p. 168). L'immagine del recessus, del ritrarsi indietro, costante nella caratterizzazione patristica dell'acedia, compare an­ che, come vedremo, nella descrizione medica della malinconia, dalla medicina umorale fino a Freud.

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contiene tuttavia in sé una fondamentale ambiguità, la cui indivi­ duazione è tra i piu sorprendenti risultati della scienza psicolo­ gica medioevale. Che l'accidioso si ritragga dal suo fine divino, non significa, infatti, che egli riesca a dimenticarlo o che cessi, in realtà, di desiderarlo. Se, in termini teologici, quel che a lui viene meno non è la salvezza, ma la via che vi conduce, in termini psico­ logici, il recesso dell'accidioso non tradisce un'eclissi del deside­ rio, ma, piuttosto, il diventare inattingibile del suo oggetto : la sua è la perversione di una volontà che vuole l'oggetto, ma non la via che vi conduce e insieme desidera e sbarra la strada al proprio desiderio. San Tommaso coglie perfettamente l'ambiguo rapporto della disperazione col proprio desiderio : « ciò che non bramiamo », egli scrive, « non può essere oggetto né della nostra speranza né della nostra disperazione » ; ed è alla sua equivoca costellazione erotica che si deve se, nella Summa theologica, l'acedia non è opposta al­ la sollicitudo, cioè al desiderio e alla cura, ma al gaudium, cioè all'appagamento dello spirito in Dio 1 • È questo persistere ed esaltarsi del desiderio di fronte a un og­ getto che esso stesso si è reso inattingibile che l'ingenua caratte­ rizzazione popolare dell'acedia di Jacopone da Benevento espri­ me dicendo che « l'acedia ogni cosa vuole avere, ma non si vuole affaticare » e che Pascasio Radberto adombra in una di quelle eti­ mologie fantastiche 2 cui i pensa tori medioevali affidavano le loro

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1 « Ergo acedia nihil aliud est quam pigritia; quod videtur esse falsum; nam pigri­ tia sollicitudini opponitur, acediae autem gaudium » (Summa theologica I_ I 2 .35 ). An­ che Alcuino insiste sull'esacerbazione del desiderio come carattere essenziale dell'ace­ dia : l'accidioso « torpescit in desideriis carnalibus, nec in opere gaudet spirituali, nec in desiderio animae suae laetatur, nec in adjutorio fraterni laboris hilarescit : sed tan­ tum concupiscit et desidera t, et otiosa mens per omnia discurrit ». Il legame fra acedia e desiderio, e, 9 uindi, �ra acedia e amore, è fra le piu g� niali intuizioni de�Ia p� icologia medioevale ed e essenziale per c?mprend� re l� natura di questo pecc ato; c1o spiega ��r_ ché Dante (Purgatorio XVII ) mtenda l aced1a come una forma d1 amore e, precisa- l ». corrotto ordine con ben al mente, come quell'amore « che corre 2 Il modello insuperato di questa scienza fantastica degli etimi è nel Cratilo di Pla­ tone, la cui ricchezza in materia di scienza del linguaggio è lungi dall'essere completa· mente esplorata. Fra le molte etimologie giocose (che non sono però da prendere solo per scherzo) che Platone vi propone, meritano almeno di essere ricordate qui quelle di o'VO!J.IX. 'nome', da ov ov !J.cXCT!J.IX. è:cr-ri.v 'l'essere di cui vi è ricerca bramosa', di tcr-.opi.a

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piu audaci intuizioni speculative : « desperatio dieta est, eo quod desit illi pes in via, quae Christus est, gradiendi » (la disperazione è cosi detta, perché ad essa manca il piede per camminare nella via che è Cristo' . Fisso nella scandalosa contemplazione di una meta che gli si mostra nell'atto stesso in cui viene preclusa e che è per lui tanto piu ossessiva quanto piu gli diyenta inattingibile, l'accidioso si trova cosi in una situazione paradossale in cui, come nell'aforisma di Kafka, « esiste un punto di arrivo, ma nessuna via » e dalla quale non c'è scampo, perché non si può fuggire da ciò che non si può nemmeno raggiungere. È questo disperato sprofondare nell'abisso che si spalanca fra il desiderio e il suo inafferrabile oggetto che l'iconografia medioe­ vale ha fissato nel tipo dell'acedia, rappresentata come una donna che lascia desolatamente cadere a terra lo sguardo e abbandona il capo al sostegno della mano, o come un borghese o un religioso che affida il proprio sconforto al cuscino che il diavolo gli porge 1 • Quel che l'intenzione mnemotecnica del medioevo offriva qui al­ l'edificazione del contemplante, non era una raffigurazione natu­ ralistica del « sonno colpevole » del pigro, ma il gesto esemplare del lasciar cadere il capo e lo sguardo come emblema della dispe­ rata paralisi dell'animo di fronte alla sua situazione senza uscita. Proprio tuttavia per questa sua fondamentale contraddizione, al'storia', Ò"tL Ì:CT"tTJCTL "tÒV pouv 'perché arresta il flusso del tempo', di liÀ:i}DEL€l 'verità' da DEf.€XliÀ.T) 'corsa divina'. 1 Panofsky e Saxl, nella loro indagine sulla genealogia della Melencolia diireriana (Durers « Melencolia I ». Eine quellen- und typengeschichtliche Untersuchung, Leipzig­ Berlin 1923 ) fraintendono la concezione medioevale dell'acedia, che interpretano sem­ plicemente come il sonno colpevole del pigro. La somnolentia (come aspetto del torpor circa praecepta) è solo una delle conseguenze dell'acedia e non ne caratterizza in alcun modo l'essenza. Il facile rifugio del sonno non è che il « cuscino » che il diavolo porge all'accidioso per togliergli ogni possibilità di resistere al peccato. Il gesto di lasciar ca­ dere il capo su una mano sta a significare la disperazione e non il sonno. Ed è proprio a questo gesto emblematico che allude l'antico equivalente tedesco del termine « ace­ dia » : truricheit, da truren den Blick, das Haupt gesenkt halten 'lasciar sprofondare a terra lo sguardo, il capo'. È solo tardi che l'essenza dell'acedia va opacandosi e con­ fondendosi con la pigrizia. È possibile che il tramite di questa conversione sia stata l'assimilazione del demone meridiano dell'acedia al somnus meridianus che il Regimen sanitatis salernitano raccomanda di evitare come causa di molti mali: « Sit brevis aut nullus tibi somnus meridianus. l Febris, pigrities, capitis dolor atque catarrhus l haec tibi proveniunt ex somno meridiano ». =

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l'acedia non appartiene soltanto una polarità negativa. Con la lo­ ro intuizione della capacità di rovesciamento dialettico propria delle categorie della vita spirituale, accanto alla tristitia morti/era (o diabolica, o tristitia saeculi ), i padri pongono una tristitia salu­ ti/era (o utilis, o secundum deum ), che è operatrice di salvezza e « aureo stimolo dell'anima » e, come tale, « non è da considerare come vizio, ma come virtu » 1• Nell'estatica ascensione della Scala Paradisi di Giovanni Climaco, il settimo gradino è cosi occupato dal « lutto che crea gioia » , definito come « una tristezza dell'ani­ ma e un'afflizione del cuore che cerca sempre ciò di cui è ardente­ mente assetata; e, finché ne è priva, ansiosamente lo insegue e con ululati e lamenti gli va dietro mentre esso le sfugge » . Proprio l'ambigua polarità negativa dell'acedia diventa in que­ sto modo il lievito dialettico capace di rovesciare la privazione in possesso. Poiché il suo desiderio rimane fisso in ciò che si è reso inaccessibile, l'acedia non è solo una fuga da . . . , ma anche una fu­ ga per . . , che comunica col suo oggetto nella forma della nega­ zione e della carenza. Come in quelle figure illusorie che possono essere interpretate ora in un modo ora in un altro, cosi ogni suo tratto disegna nella sua concavità la pienezza di ciò da cui si stor­ na e ogni gesto che essa compie nella sua fuga fa fede del perdu­ rare del vincolo che la lega ad esso. In quanto la sua tortuosa intenzione apre uno spazio all'epifa­ nia dell'inafferrabile, l'accidioso testimonia dell'oscura saggezza secondo cui solo per chi non ha piu speranza è stata data la spe­ ranza, e solo per chi in ogni caso non potrà raggiungerle sono state .

1 Già in un'opera attribuita a sant'Agostino (Liber de conflictu vitiorum et virtu­ tum, in Patrologia latina, 40) la tristitia è definita gemina : « Geminam esse tristitiam novi, imo duo esse tristitias novi: unam scilicet quae salutem, alteram vero quae perni· cem operatur; unam quae ad poenitentiam trahit, alteram quae ad desperationem du­ cit ». Cosi anche Alcuino : « Tristitiae duo sunt genera : unum salutiferum, alterum pe­ stiferum » (Liber de virtutis, c. 3 3 ) e Jonas di Orléans : « Tristitia autem cum duobus modis fiat, id est aliquando salubriter, aliquando lethaliter ; quando salubriter fit, non est vitium computanda, sed virtus ». Anche nella terminologia alchimica l'acedia com­ pare in una duplice polarità: nella Clavis totius philosophiae di Dorn ( in Theatrum chemicum, Argentorati r622, v. r ), il forno alchemico è chiamato acedia per la sua len­ tezza, che appare però come una qualità necessaria ( « Nunc furnum habemus comple­ tum, quem acediam solemus appellare, tum quia tardus est in operando, propter len­ tum ignem ... » )

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assegnate delle mete. Cosi dialettica è la natura del suo « demone meridiano » . Come la malattia mortale, che contiene in se stessa la possibilità della propria guarigione, anche di essa si può dire che « la maggior disgrazia è non averla mai avuta » .

Capitolo secondo

Melencolia I

Nella serie dei quattro umori del corpo umano, che un aforisma del Regimen sanitatis salernitano condensa in tre versi : Quatuor humores in humano corpore constant : Sanguis cum cholera, phlegma, melancholia. Terra melancholia, aqua phlegma, aer sanguis, cholera ignis.

la malinconia ', o bile nera ( IJ.ÉÀ.at.va xoÀT) ) è quello il cui disor­ dine può produrre le conseguenze piu nefaste. Nella cosmologia umorale medioevale, esso è associato tradizionalmente alla terra, all'autunno (o all'inverno ), all'elemento secco, al freddo, alla tra­ montana, al color nero, alla vecchiaia (o alla maturità), e il suo pianeta è Sa turno, fra i cui figli il malinconico trova posto accanto all'impiccato, allo zoppo, al contadino, al giocatore d'azzardo, al religioso e al porcaio. La sindrome fisiologica dell' abundantia me­ lancholiae comprende l'annerimento della pelle, del sangue e del­ l'orina, l'indurimento del polso, l'arsura nel ventre, la flatulenza, l'eruttazione acida, il sibilo nell'orecchio sinistro \ la costipazio1 L'indagine piu ampia sulla malinconia resta quella di KLIBANSKY, PANOFSKY e SAXL, Saturn and Melancholy ( London 1 964 ), della quale sono qui segnalate, volta per volta, le lacune e i punti dubbi. 2 È verisimilmente a questo sintomo (e non alla sonnolenza accidiosa, come sem­ bra ritenere Panofsky, tanto piu che l'autorità di Aristotele De somno et vigilia, 457a -: affermava che i malinconici non sono amanti del sonno) che si deve l'atteggia­ mento di sorreggersi il capo con la mano sinistra, cosi caratteristico delle raffigurazioni del temperamento malinconico (nelle rappresentazioni piu antiche, il malinconico ap­ pare spesso in piedi, in atto di comprimersi l'orecchio sinistro con la mano). Probabil­ mente questo atteggiamento poté venire in seguito frainteso come indice di sonnolenza e accostato alle raffigurazioni dell'acedia; il tramite di questa convergenza può essere cercato nella teoria medica degli effetti nocivi del somnus meridianus, messo in rela­ zione col demone meridiano dell'acedia. -

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ne o l'eccesso di feci, i sogni cupi, e, fra le malattie che essa può indurre, figurano l'isteria, la demenza, l'epilessia, la lebbra, le emorroidi, la scabbia e la mania suicida. Conseguentemente, il temperamento che deriva dal suo prevalere nel corpo umano è presentato in una luce sinistra: il malinconico è pexime comple­ xionatus, triste, invidioso, malvagio, avido, �raudolento, timo­ roso e terreo. Un'antica tradizione associava tuttavia proprio al piu sciagu­ rato degli umori l'esercizio della poesia, della filosofia e delle arti. « Perché », suona uno dei piu stravaganti problemata aristotelici, « gli uomini che si sono distinti nella filosofia, nella vita pubblica, nella poesia e nelle arti sono malinconici, e alcuni al punto da sof­ frire dei morbi che vengono dalla bile nera ? » La risposta che Ari­ stotele diede a questo quesito segna il punto di partenza di un processo dialettico nel corso del quale la dottrina del genio si lega indissolubilmente a quella dell'umore malinconico nella fascina­ zione di un complesso simbolico il cui emblema si è ambiguamen­ te fissato nell'angelo alato della Melencolia diireriana : Coloro presso i quali la bile è abbondante e fredda, diventano tor­ pidi e strani ; ma altri, nei quali essa è abbondante e calda, diventano maniaci e gai, molto amorosi e facili ad appassionarsi . E molti, poiché il calore della bile è vicino alla sede dell'intelligenza, sono presi da fu­ rore e entusiasmo, come avviene per le Sibille e le Baccanti, e per tutti coloro che sono ispirati dagli dei, i quali sono fatti tali non da un mor­ bo, ma da un naturale temperamento. Cosf Maraco Siracusano non era mai tanto buon poeta come quando era fuori di sé . E coloro nei quali il calore affluisce verso il mezzo, sono anch'essi malinconici, ma piu savi e meno eccentrici, ed eccellono gli altri uomini chi nelle lettere, chi nel­ le arti e chi nella vita pubblica 1 • . .

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Un aggiornamento della lista di malinconici citati da Aristotele nel problema xxx (Eracle, Bellerofonte, Eraclito, Democrito, Maraco) rischierebbe di essere molto lungo. Dopo una prima riapparizione fra i poeti d'amore del '2oo, il grande ritorno della ma­ li�conia cominc� a a partire dall'umanesimo. Fra gli artisti, restano esemplari i casi di �Ichelangelo, di Diirer, di �ontormo. Una seconda epidemia è nell'Inghilterra elisabet­ tiana (cfr. L. BABB, The Eltzabethan Malady, Lansing 1 95 1 ) : esemplare il caso di ]. Donne. La terza età della malinconia è nel secolo XIX; figurano fra le vittime: Baude­ laire, Nerval, De Quincey, Coleridge, Strindberg, Huysmans. In tutte e tre le epoche, la n;t�linconia, cn un'audace polarizzazione, fu interpretata come qualcosa di, insieme, positivo e negativo.

Questa duplice polarità della bile nera e il suo collegamento con la platonica « mania divina » furono raccolti e sviluppati con particolare fervore da quella curiosa miscela di setta mistica e di cenacolo d'avanguardia che, nella Firenze di Lorenzo il Magni­ fico, si riuniva intorno a Marsilio Ficino. Nel pensiero di Ficino, che si riconosceva un temperamento malinconico e il cui oroscopo mostrava « Saturnum in Aquario ascendentem », la riabilitazione della malinconia andava di pari passo a una nobilitazione dell'in­ flusso di Sa turno 1 , che la tradizione astrologica associava al tem­ peramento malinconico come il piu maligno dei pianeti, nell'in­ tuizione di una polarità degli estremi in cui coesistevano l'una accanto all'altra la rovinosa esperienza dell'opacità e l'estatica ascesa nella contemplazione divina . In questa prospettiva, l'in­ flusso elementare della terra e quello astrale di Saturno si univa­ no per conferire al malinconico una naturale propensione al rac­ coglimento interiore e alla conoscenza contemplativa : La natura dell'umore malinconico segue la qualità della terra, che non si disperde mai quanto gli altri elementi, ma si concentra piu stretta­ mente in se stessa . . . tale è anche la natura di Mercurio e di Saturno, in virtu della quale gli spiriti, raccogliendosi nel centro, richiamano la punta dell'anima da ciò che le è estraneo a ciò che le è proprio, la fis­ sano nella contemplazione e la dispongono a penetrare il centro delle cose 2 •

Cosi il dio cannibale e evirato, che l'imagerie medioevale rappre­ sentava zoppo e nell'atto di brandire la falce mietitrice della mor­ te, diventava ora il segno sotto la cui equivoca dominazione la piu nobile specie di uomini, quella dei « religiosi contemplativi », de1 La riscoperta dell'importanza della teoria astrologica degli influssi di Saturno per l'interpretazione della Melencolia diireriana fu opera di K. Giehlow (Durers Stich « Melencholia I » und der maximilianische Humanistenkreis, Wien 1 903 ) e di A. War­ burg (Heidnisch-antike Weissagung in Wort und Bild zu Luthers Zeiten, in Sitzungsbe­ richte der Heidelberg Akademie der Wissenschaften, vol. XXVI, Heidelberg 1 920), la cui interpretazione dell'immagine diireriana come « foglio di conforto umanistico con­ tro il timore di Saturno », che trasforma l'effige del demone planetario nell'incarnazione plastica dell'uomo contemplativo, ha largamente determinato le conclusioni dello stu­ dio citato di Panofsky e Saxl. 2 M. FICINO, Theologia platonica de animarum immortalitate, ed. critica a cura di R. Marcel, Paris 1 964, l. XIII, cap. II.

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stinata all'investigazione dei supremi misteri, trovava il suo po­ sto accanto alla schiera « tutta rozza e materiale » degli sciagurati figli di Saturno. Non è facile precisare in quale momento la dottrina morale del demone meridiano esce dai chiostri per saldar�i con l'antica sin­ drome medica del temperamento atrabiliare. Certo, quando il ti­ po iconografico dell'accidioso e quello del malinconico appaiono fusi nelle illustrazioni dei calendari e degli almanacchi popolari alla fine del medioevo, il processo doveva già essere iniziato da tempo e solo il fraintendimento dell'acedia, identificata col suo tardo travestimento come « sonno colpevole » del pigro, può spie­ gare lo scarso posto che Panofsky e Saxl hanno riservato alla let­ teratura patristica sul « demone meridiano » nel loro tentativo di ricostruire la genealogia della Melencolia diireriana. Ed è a questo fraintendimento che si deve anche l'erronea opinione ( ri­ petuta tradizionalmente da tutti coloro che si sono occupati di questo problema) 1 secondo la quale l' acedia aveva nel medioevo una valutazione puramente negativa. Si può supporre, al contra­ rio, che proprio la scoperta patristica della duplice polarità di tristitia-acedia abbia contribuito a preparare il terreno alla riva­ lutazione rinascimentale del temperamento atrabiliare nell' am­ bi to di una visione in cui il demone meridiano come tentazione del religioso e l'umor nero come malattia specifica del tipo umano contemplativo dovevano apparire come assimilabili e in cui la malinconia, sottoposta a un graduale processo di moralizzazione, si presentava, per cosi dire, come l'erede laica della tristezza clau­ strale 2 • Nella Medicina dell'anima di Ugo di San Vittore il processo di trasfigurazione allegorica della teoria umorale appare giunto 1 L'errore è cosi ripetuto da uno studioso attento come E. Wind (Pagan Mysteries in the Renaissance, Harmondsworth, 196i, p. 69 ) e da Wittkower. 2 La prova della precoce convergenza fra malinconia e tristitia-acedia, che appaiono piuttosto come due aspetti della medesima realtà, è in una lettera di san Girolamo : « Sunt qui humore cellarum, immoderatisque jeiunis, taedio solitudinis ac nimia lectio­ ne, dum diebus ac noctibus auribus suis personant, vertuntur in melancholiam et Hip­ pocratis magis fomentis quam nostris monitis indigent » (ep. rv) .

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a compimento. Se ancora in Hildegard von Bingen la polarità negativa della malinconia veniva interpretata come il segno della caduta originale, in Ugo l'umor nero si identifica invece ormai con la tristitia utilis in una prospettiva in cui la patologia umorale diventa il veicolo corporeo del meccanismo soteriologico : L'anima umana adopra quattro umori : come sangue la dolcezza, come bile rossa l'amarezza, come bile nera la tristezza . . . La bile nera è fredda e secca, ma gelo e secchezza possono interpretarsi ora in senso buono ora in senso cattivo . . . Essa rende gli uomini ora sonnolenti , ora vigilan­ ti, cioè ora gravi di angoscia, ora vigili e intenti nei desideri celesti . . . Avesti attraverso i l sangue l a dolcezza della carità, abbi ora attraverso la bile nera, o malinconia, la tristezza per i peccati 1 •

È solo in rapporto a questa reciproca compenetrazione di ace­

dia e malinconia, che ne manteneva intatta la duplice polarità nell'idea di un rischio mortale insito nella piu nobile delle inten­ zioni umane o di una possibilità di salvezza nascosta nel pericolo piu estremo, che risulta comprensibile perché negli scritti del ca­ po della scuola medica salernitana, Costantino Africano, fra le cause eminenti della malinconia figuri la « bramosia di vedere il sommo bene » dei religiosi e perché, d'al tra parte, un teologo co­ me Guglielmo d' Auvergne possa addirittura affermàre che ai suoi tempi « molti uomini piissimi e religiosissimi desideravano arden­ temente il morbo malinconico » 2 • Nella tenace vocazione contem­ plativa del temperamento saturnino rivive l'Eros perverso del­ l' accidioso, che mantiene fisso nell'inaccessibile il proprio desi­ derio. 1

L'autore è in realtà Hugo de Folieto (Patrologia latina, 176, n83 sg.).

2 GUILIELMI PARISIENSIS De universo l 3 ·7 (in Opera omnia cit.).

Eros malinconico

Capitolo terzo

Eros malinconico

La stessa tradizione che associa il temperamento malinconico alla poesia, alla filosofia e all'arte, attribuisce ad esso un'esaspe­ rata inclinazione all'eros . Aristotele, dopo aver affermato la voca­ zione geniale dei malinconici, pone infatti la lussuria fra i loro ca­ ratteri essenziali : Il temperamento della bile nera - egli scrive - ha la natura del soffio . . . D a qui viene che, in generale, i malinconici sono debosciati, perché an­ che l'atto venereo ha la natura del soffio. La prova è che il membro vi­ rile si gonfia improvvisamente perché si empie di vento.

A partire da questo momento, la sregolatezza erotica figura fra gli attributi tradizionali dell'umor nero 1 ; e se, analogamente, an­ che l'accidioso è rappresentato nei trattati medioevali sui vizi co­ me av't'aO"(.la't'a ) ( 4oa ). Il tema centrale del Filebo non è, però, la conoscenza, ma il piacere, e, se Platone vi evoca il problema della memoria e della fantasia, ciò è perché gli preme dimostrare che desiderio e piacere non so­ no possibili senza questa «pittura nell'anima » e che non esiste qualcosa come un desiderio puramente corporeo. Fin dall'inizio della nostra ricerca, grazie a un'intuizione che anticipa singolar­ mente la tesi lacaniana secondo cui « le phantasme fait le plaisir propre au sujet » ', il fantasma si pone quindi sotto il segno del de­ siderio ed è questo un particolare che sarà bene non dimenticare. In un altro dialogo, Platone spiega la metafora della « pittura interiore » con un'altra metafora, la cui discendenza doveva esse­ re cosi feconda che è lecito scorgerne ancora un'eco nella teoria freudiana dell'impronta mnemonica : Supponi che vi sia nella nostra anima una cera impressionabile, in alcuni piu abbondante , in altri meno, piu pura negli uni, piu impura negli altri ; e in alcuni piu dura e in altri piu molle e in altri ancora una via di mezzo . . . È un dono, diciamo, della madre delle Muse, Mnemo­ sine : tutto ciò che desideriamo conservare nella memoria di ciò che ab­ biamo visto o udito o concepito si imprime in questa cera che noi pre­ sentiamo alle sensazioni o alle concezioni . E di ciò che s 'imprime noi ne conserviamo memoria e scienza finché ne dura l'immagine ( 't'Ò EÌ:Ow­ Àov ) . Ciò che si cancella o non riesce a imprimersi, lo dimentichiamo e non ne abbiamo scienza 2 • 1 L'affermazione di Lacan si può leggere, fra l'altro, in Kant avec Sade, in Ecrits, Paris 1 966, p. 773 · 2 Teeteto, 1 9 1 d-e.

Eros allo specchio

La storia della psicologia classica è, in buona parte, la storia di queste due metafore. In Aristotele le ritroviamo infatti entram­ be, ma esse sono prese, in un certo senso, alla lettera, e inserite in un'organica teoria psicologica in cui il fantasma svolge una fun­ zione molto importante, sulla quale doveva esercitarsi con parti­ colare vigore la fatica esegetica medioevale. Nel De anima ( 424a ) i l processo della sensazione è riassunto i n questo modo : In generale, per ogni sensazione, bisogna ritenere che il senso è fatto per ricevere le forme sensibili senza la materia, come la cera riceve l'im­ pronta ( a'T}IJ.ELOV ) dell'anello senza il ferro o l'oro . . . In modo simile ogni senso patisce l'azione di ciò che ha colore o sapore o suono . . .

Nel De memoria ( 4 5 oa ) quest'impronta è definita come un dise­ gno ( swypaq>'Y) (J.Cl ) : La passione prodotta dalla sensazione nell'anima e nella parte del corpo che possiede la sensazione è qualcosa come un disegno . . . Infatti il movi­ mento che si produce imprime come un'impronta della cosa percepita, come fanno coloro che segnano un sigillo con l 'anello.

Cosi il meccanismo della visione è concepito da Aristotele, in po­ lemica con coloro che la spiegavano come un flusso che va dall'oc­ chio all'oggetto, come una passione che il colore imprime nell'a­ ria e che dall'aria viene trasmessa all'occhio, nel cui elemento ac­ quoso essa si riflette come in uno specchio. Il movimento o passione prodotto dalla sensazione è poi tra­ smesso alla fantasia, che può produrre il fantasma anche in assen­ za della cosa percepita (De anima, 4 2 8a ) . Che cosa sia questa par­ te dell'anima in cui i fantasmi hanno la loro dimora propria non è facile precisare e Aristotele stesso confessa che si tratta di « un problema senza via d'uscita » '; è certo però che Aristotele è tra i primi a teorizzarla esplicitamente come attività autonoma : « ciò attraverso cui si produce in noi il fantasma » ( 4 2 8a ) . Dopo aver asserito che essa è diversa dalla sensazione, perché i fantasmi si producono anche in assenza delle sensazioni, come quando tenia­ mo gli occhi chiusi, e che non è possibile identificarla con quelle 1 8

1toÀÀT}'.J ck1topi.av : De anima, 432b.

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Eros allo specchio

La parola e il fantasma

operazioni che sono sempre vere, come la scienza e l'intellezione, poiché può essere anche falsa, egli conclude ( 4 2 9a ) : Se dunque nessuna altra cosa, tranne l'immaginazione, possiede i carat­ teri che abbiamo elencato ed essa è proprio quel che si è detto, l 'imma­ ginazione sarà allora un movimento prodotto dalla sensazione giunta a compimento. E, poiché la vista è il senso per eccellenza, l'immagina­ zione ( q>av-racrLa ) anche il nome ha mutuato dalla luce ( q>cioc; ), perché senza luce non si può vedere. E per il fatto che i fantasmi persistono e sono simili alle sensazioni, molte azioni gli animali compiono regolan­ dosi su di essi, gli uni perché privi di intelletto, come le bestie, gli altri perché l'hanno a volte oscurato da passioni, da malattia o da sonno, come gli uomini.

Strettamente connessa alla fantasia è la memoria, che Aristo­ tele definisce come « il possesso di un fantasma come icona di ciò di cui è fantasma » ( definizione che permette di spiegare feno­ nleni abnormi come il déjà vu e la paramnesia ) 1 ; e questo nesso è cosf vincolante che anche delle cose di cui si abbia conoscenza intellettuale non si può avere memoria senza fantasma. La funzione del fantasma nel processo conoscitivo è cosf fon­ damentale che si può dire che esso sia anche, in un certo senso, la condizione necessaria dell'intelligenza : Aristotele giunge perfino a dire che l'intelletto è una specie di fantasia ( q>cx:v"taO'La "tt. ç ) e ripete piu volte il principio che dominerà la teoria medioevale della conoscenza e che la scolastica fisserà nella formula : nihil potest homo intelligere sine phantasmata 2 • Ma la funzione del fantasma non si esaurisce qui. Esso ha una parte essenziale anche nel sogno, che Aristotele definisce appunto 1 Secondo Aristotele (De memoria et reminiscentia, 451a), il déià vu si produce quando, mentre si sta considerando un fantasma della sensazione come realtà e non co­ me icona di qualcosa, improvvisamente si passa a considerarlo come icona di qualcos'al­ tro. Il fenomeno di paramnesia che, nel testo, è attribuito subito dopo a Antiferonte di Orea e a altri « estatici » (« capita anche il contrario, come succedeva a Antiferonte di Orea e a altri estatici : essi parlavano di fantasmi come di realtà e, insieme, come se stessero ricordando. Ciò avviene quando uno guarda come icona una cosa che non lo è » ), sembra riferirsi a una tecnica estatico-mnemonica che attua uno scambio intenzio­ nale fra realtà e ricordo. « Poiché nessun oggetto sembra possa esistere separato dalle grandezze sensibili, è nelle forme sensibili che esistono gli intellegibili . . . Chi non avesse sensazione alcuna, non comprenderebbe né apprenderebbe niente; e quando l'uomo contempla, di neces­ sità contempla insieme un qualche fantasma » (De anima, 432a).

2

come q>av't'aa'IJ.a 't' Lç, una specie di fantasma che appare nel son­ no. I movimenti prodotti dalla sensazione permangono infatti, secondo Aristotele, negli organi dei sensi non solo durante la ve­ glia, ma anche nel sonno, come il proiettile continua a muoversi anche quando si è staccato dallo strumento che l'ha messo in mo­ to 1 • E la divinazione nel sonno, cosf cara all'antichità, si spiega grazie ai fantasmi dei sogni che ci inducono a compiere una volta desti le azioni che siamo soliti associare inconsapevolmente ad essi, ovvero con la maggiore ricettività della fantasia, durante il sonno o l'estasi, ai movimenti e alle emanazioni esterne ·2 • Un altro aspetto della teoria aristotelica del fantasma cui con­ verrà qui accennare è la funzione che esso svolge nel linguaggio. Nel De anima ( 42ob ) , a proposito della fonazione, Aristotele af­ ferma che non ogni suono emesso da un animale è voce, ma solo quello che sia accompagnato da qualche fantasma ( IJ.E't'CÌ cpav't'a­ a-t:aç 't'Lvoç ), perché la voce è un suono significativo. Il carattere semantico del linguaggio è cosf indissolubilmente associato alla presenza di un fantasma, e vedremo piu tardi quanta importanza questa associazione acquisterà nel pensiero medioevale. Nel pensiero di Aristotele, il fantasma appare cosf al centro di una costellazione psichica che può essere riassunta graficamente in questo schema : linguaggio

sensazione

-

\

/ intelletto

l

. d ''' \ memor1a,

8

sogno e divinazione

e1a

vu,

paramnesia, estasi

Noi moderni, forse per l'abitudine ad accentuare l'aspettò ra­ zionale e astratto dei processi conoscitivi, abbiamo cessato da un pezzo di stupirei del misterioso potere dell'immagine interiore, 1

2

De insomniis, 459a. De divinatione per somnium, 463a-464a.

La parola e il fantasma

di questo inquieto popolo di « meticci » ( come lo chiamerà Freud) che anima i nostri sogni e domina la nostra veglia forse piu di quanto siamo disposti ad ammettere. Cosi non ci riesce certo fa­ cile comprendere immediatamente l'ossessiva e quasi reverenzia­ le attenzione che la psicologia medioevale riserva alla costellazio­ ne fantasmologica aristotelica che, drammatizzata e arricchita da­ gli apporti dello stoicismo e del neoplatonismo, 'occupa un posto centrale nel firmamento spirituale del medioevo. In questo pro­ cesso esegetico, in cui il medioevo nasconde una delle sue inten­ zioni più originali e creatrici, il fantasma si polarizza e diventa il luogo di un'estrema esperienza dell'anima, in cui essa può salire fino al limite abbagliante del divino o precipitare nell'abisso ver­ tiginoso della perdizione e del male. Questo spiega perché nes­ sun'epoca è stata, nello stesso tempo, cosi « idolatra » e cosi « ido­ loclasta » come quella che vedeva nei fantasmi « l'alta fantasia » cui Dante affida la sua visione suprema e, insieme, le cogitationes malae che, negli scritti patristici sui peccati capitali, tormentano l'anima dell'accidioso, la mediatrice spirituale fra senso e ragione che innalza l'uomo lungo la mistica scala di Giacobbe di cui parla Ugo di San Vittore e le « vane immaginazioni » che seducono l'a­ nimo nell'errore che sant'Agostino riconosce nel proprio travia­ mento manicheo. Nel nostro esame della fantasmologia medioevale noi prende­ remo le mosse da Avicenna, non perché egli sia il primo a darne una chiara formulazione, ma perché la sua meticolosa classifica­ zione del « senso interno » ha esercitato un'influenza cosi profon­ da su quella che è stata definita « la rivoluzione spirituale del se­ colo XIII », che è possibile scorgerne le tracce ancora in pieno umanesimo. Inoltre in Avicenna, che, come Averroè, è anche, anzi, forse, innanzi tutto un medico 1 ( il suo Canone rimase come testo di medicina in alcune università europee almeno fino al XVII secolo), appare ormai perfettamente stabilito il collegamento tra 1 È significativo che Dante ( Inferno IV 143-44) nomini Avicenna e Averroè ac­ canto a lppocrate e Galeno.

Eros allo specchio

facoltà dell'anima e anatomia cerebrale, per cui ciascuna facoltà è localizzata in una delle tre camere o cavità che una tradizione medica già compiutamente elaborata in Galeno identificava nel cervello. È opportuno ricordare, a questo proposito, che mentre oggi ci stupiremmo di incontrare riferimenti strettamente medici e anatomici in un trattato di filosofia, il sistema intellettuale del medioevo è cosi compatto che opere che a noi appaiono filoso­ fiche o religiose hanno spesso per oggetto minuziose questioni di anatomia cerebrale o di patologia clinica, e viceversa. In genere (come, appunto, nel caso di Avicenna e di Averroè, ma lo stesso potrebbe dirsi di buona parte degli autori compresi nei volumi della Patrologia del Migne) è semplicemente impossibile distin­ guere fra il medico e il filosofo. Un tale intreccio di motivi schiet­ tamente medici con temi che noi consideriamo filosofico-letterari si ritrova anche nei poeti, l'opera dei quali, come avremo modo di vedere, è spesso assolutamente inintellegibile senza una buona conoscenza dell'anatomia dell'occhio, del cuore e del cervello, dei modelli circolatori e dell'embriologia medioevali, non solo perché i poeti si riferiscono direttamente alle dottrine fisiologiche del loro tempo, ma perché spesso questo riferimento è complicato da un'intenzione allegorica che si esercita in modo privilegiato sul­ l'anatomia e la fisiologia del corpo umano. Avicenna esordisce dividendo il senso esterno ( vis apprehen­ dendi a foris) da quello interno ( vis apprehendendi ab intus) e articola poi il senso in terno in cinque « virtu » 1 : La prima delle virtu apprensive interne è la fantasia o senso co­ mune, che è una forza ordinata nella prima cavità del cervello che riceve per se stessa tutte le forme che sono impresse nei cinque sensi e a essa trasmesse. Dopo di questa vi è l'immaginazione, che è la forza ordinata nell'estremità della cavità anteriore del cervello, la quale trattiene ciò che il senso comune riceve dai sensi e che resta in essa anche dopo la rimozione degli oggetti sensibili [qui Avicenna spiega che l'immagina1 L'Avicenna che qui ci interessa è l'Avicenna latinus, cioè quello che potevano leg­ gere gli uomini colti del XIII secolo in occidente. L'edizione consultata è Avicennae arabum medicorum principis opera ex Gerardi cremonensis versione, Venetiis 1 545. Per i l De anima, si è consultato anche i l testo dell'edizione critica d i van Riet (Leuven­ Leiden 1972).

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La parola e il fantasma zione, a differenza della fantasia, non è solo ricettiva, ma anche attiva e che il « trattenere » è diverso dal mero « ricevere », come si vede nel­ l'acqua, che ha la facoltà di ricevere le immagini ma non quella di trat­ tenerle] . . . Dopo di questa è la forza che si chiama. immaginativa rispetto all'anima vitale e cogitativa rispetto all'anima umana ; essa è ordinata nella cavità mediana del cervello e compone secondo la sua volontà le forme che sono nell'immaginazione con altre 1 • Poi :vi è la forza estima­ tiva, ordinata nella sommità della cavità mediana del cervello, che ap­ prende le intenzioni 2 non sensibili che si trovano nei singoli oggetti sensibili, come la forza che permette alla pecora di giudicare che il lupo è da fuggire . . . Vi è poi la forza memoriale e reminiscibile, che è quella ordinata nella cavità posteriore del cervello e che trattiene ciò che l'esti­ mativa apprende dalle intenzioni non sensibili dei singoli oggetti . Il rapporto fra questa virtu e quella estimativa è analogo a quello fra l'im­ maginazione e il senso comune. E il rapporto fra essa e le intenzioni è analogo a quello fra l 'immaginazione e i fantasmi.

Avicenna presenta questa quintuplice gradazione del senso in­ terno come una progressiva « messa a nudo » (denudatio ) del fan­ tasma dai suoi accidenti materiali : rispetto ai sensi, che non spo­ gliano la forma sensibile denudatione perfecta, l'immaginazione la mette invece a nudo denudatione vera, ma senza però privarla degli accidenti materiali, perché i fantasmi dell'immaginazione sono « secondo una certa quantità e qualità e secondo un certo luogo », sono cioè, diremmo noi, immagini individuate e non con­ cetti astratti . Al sommo della cavità mediana del cervello, l'esti­ mativa procede ulteriormente in questa « messa a nudo » del fan­ tasma, di cui apprende le intenzioni non sensibili, come la bontà o la malizia, la convenienza o l'incongruità. È solo quando il pro­ cesso del senso interno si è compiuto che l'anima razionale può venire informata dal fantasma completamente denudato : nell'at­ to dell'intellezione, la forma è nuda e, « se già non fosse nuda, 1 L'isolamento di questa facoltà immaginativa distinta dalla fantasia passiva (che è l'origine non tanto remota della distinzione di Coleridge tra fancy e imagination ) è un carattere costante della psicologia medioevale. Esso permette di spiegare, fra l'altro, al­ cuni aspetti dell'amore ses vezer, come la domna soiseubuda, cioè fatta di pezzi « presi in prestito » a altre donne, del trovatore Bertran de Born. 2 « Intenzione » è, nel vocabolario della psicologia medioevale, « ciò che l'anima ap­ prende da un oggetto sensibile e che non è stato già appreso dal senso esterno » (Avi­ cenna) ; essa « non è parte della cosa, come la forma, ma piuttosto è la forma della cono­ scenza della cosa » ( Alberto Magno) .

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tuttavia lo diventa, perché la virtu contemplativa · la spoglia in modo che nessuna affezione materiale rimanga in essa » . Questo schema psicologico, spesso semplificato i n una tripar­ tizione corrispondente alle tre camere del cervello della tradizione medica, si ritrova costantemente negli autori medioevali. Cosi nella Philosophia mundi di Guglielmo di Conches, uno dei mae­ stri della scuola di Chartres nel XII secolo, il processo psichico è espresso nei crudi termini temperamentali della medicina umo­ rale : Nel capo vi sono tre celle . . . la prima è calda e secca e vien detta fanta­ stica, cioè visuale o immaginativa, poiché in essa è la capacità di vedere

e di immaginare, e appunto è calda e secca, affinché possa attrarre le for­ me delle cose e i colori. La cella di mezzo è detta Àoyt.cr"t't.x6v , cioè ra­ zionale : in essa è, infatti, la capacità di discernere. Ciò che la fantastica attrae, passa a questa e ivi l'anima discerne. È calda e umida, affinché, meglio discernendo, si conformi alle proprietà delle cose. La terza cella è detta memoriale, poiché in essa è la capacità di trattenere qualcosa nella memoria 1 •

Il procedimento del pensiero medioevale può essere parago­ nato, e non soltanto in questo caso, a quelle composizioni musi­ cali che prendono il nome di « variazioni su un tema » : esso la­ vora, infatti, su un tema dato che riproduce e traspone attraverso piccole divergenze che possono arrivare, in qualche caso, a tra­ sformare totalmente il materiale da cui prende le mosse. Mentre il « tema » avicenniano si ritrova cosi, con qualche variazione, in Alberto Magno, in Tommaso d'Aquino e in Jean de la Rochelle, lo schema tripartito s'incontra in opere cosi diverse come l'Ana­ tomia di Ricardus Anglicus, l'Opus maius di Ruggero Bacone, i Documenti d }amore del poeta Francesco da Barberino e la Glossa di Dino del Garbo alla canzone di Cavalcanti Donna mi prega. Non può quindi sorprendere se un « tema » psicologico ana­ logo ( anche qui con qualche signific�iva variazione ) appare nel­ l'opera del pensatore che forse più di ogni altro ha mediato la let­ tura di Aristotele per il secolo XIII e nel quale a ragione Dante 1 La Philosophia mundi è pubblicata nella Patrologia latina ( q2, 3 9-102 ) come opera di Onorio di Autun.

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vede il commentatore per eccellenza del testo aristotelico : « Aver­ rofs, che 'l gran comento feo » . Nella sua parafrasi del De senso et sensibilibus, egli compendia il processo che va dalla sensazione all'immaginazione in una sintesi in cui la psicofìsiologia medioe­ vale trova la sua espressione esemplare. Intanto troviamo qui su­ bito la spiegazione della domanda che Giacomo da Lentini for­ mula nel suo sonetto : Or come pote si gran donna entrare : L 'opinione di coloro che dicono che le forme degli oggetti sensibili si imprimono nell'anima con un'impressione corporale si distrugge . . . an­ che per il fatto che i corpi piu grandi sono compresi dalla vista attra­ verso la pupilla, benché essa sia cosi piccola . . . per questo si dice che questi sensi non comprendono le intenzioni degli oggetti sensibili se non astratte dalla materia 1 •

L'occhio appare qui come uno specchio in cui si riflettono i fan­ tasmi, « in quanto in questo strumento domina l'acqua, che è ter­ sa e diafana, in modo che in essa si iscrivono le forme degli og­ getti sensibili, come in uno specchio » . E come uno specchio ha bisogno, per riflettere le immagini, di essere illuminato, cosf l'oc­ chio non vede se la sua acqua ( cioè gli umori contenuti nella com­ plessa articolazione di « tuniche » che lo compongono secondo l'a­ natomia medioevale) non è illuminata attraverso l'aria. Diciamo dunque - continua Averroè - che l 'aria mediante la luce riceve per prima la forma delle cose, poi la rende alla rete esterna dell'occhio e questa la trasmette via via fino alla rete ultima, dopo la quale si trova il senso comune. Nel mezzo la rete grandinosa comprende la forma del­ le cose : essa è come uno specchio la cui natura è intermedia fra quella dell'aria e quella dell'acqua. Per questo essa riceve le forme dall'aria, poiché è simile a uno specchio, e le trasmette all'acqua, poiché la sua natura è comune ad entrambe. L'acqua, di cui Aristotele dice che si tro­ va dopo l 'umore grandinoso, è ciò che Galeno chiama vitreo ed è l'e­ strema porzione dell'occhio : è attraverso di essa che il senso comune vede la forma. Non appena il senso comune riceve la forma, la trasmet­ te alla virtu immaginativa, la quale la riceve in modo piu spirituale; 1 Già nel libro De oculis attribuito a Galeno, si trovava la medesima questione per spiegare che la visione non è un'emanazione dalla cosa all'occhio : « Si ergo ad visum ex re videnda aliquid dirigitur ... quomodo illum angustum foramen intrare poterit? » (GALENI De oculis liber, cap. VI, in Operum Hippocratis Coi et Galeni pergameni me­ dicorum omnium principum, Lutetiae 1679, t. X).

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questa forma appartiene dunque al terzo ordine. Le forme hanno in­ fatti tre ordini : il primo è corporeo, il secondo è nel senso comune, ed è spirituale, il terzo si trova nell'immaginazione, ed è piu spirituale. E, poiché è piu spirituale che nel senso comune, l'immaginazione non ha bisogno, per renderla presente, della presenza della cosa esterna; per converso, nel senso l'immaginazione non vede quella forma e non ne astrae l 'intenzione se non dopo attenta e protratta intuizione. Gli or­ dini di questa forma in queste virtu sono dunque, secondo Aristotele, come se un uomo prendesse uno specchio che avesse due facce e, guar­ dando in una di esse, ponesse l'altra in direzione dell'acqua. Se ora qual­ cuno guardasse nella seconda faccia dello specchio, cioè in quella rivolta verso l 'acqua, vedrebbe quella stessa forma descritta dall'acqua nello specchio . La forma di colui che guarda è la cosa sensibile, lo specchio è l'aria mediana, e l'acqua è l'occhio ; la seconda faccia dello specchio è la virtu sensitiva e l'uomo che la comprende è la virtu immaginativa. Se dunque colui che guarda guardasse ora in questò secondo specchio, la forma sparirebbe dallo specchio e dall'acqua e rimarrebbe colui che guarda nella seconda faccia dello specchio immaginando la forma. E co­ si avviene alla virtu immaginativa con la forma che è nel senso comune; e perché, quando l'oggetto sensibile si assenta, subito si assenta anche la sua forma dal senso comune e rimane l'immaginazione in atto di im­ maginarla, ciò si spiega per il fatto che il senso comune vede la forma mediante l'occhio, l 'occhio mediante l 'aria, e la vede nell'umore acquo­ so che è nell'occhio . . 1 • .

Se ci siamo soffermati su questo passo di Averroè, ciò è perché tutto il processo conoscitivo è qui concepito come una specula­ zione in senso stretto, un riflettersi di fantasmi di specchio in specchio : specchio e acqua sono gli occhi e il senso, che riflettono la forma dell'oggetto, ma speculazione è anche la fantasia, che « immagina » i fantasmi in assenza dell'oggetto. E conoscere è cur­ varsi su uno specchio dove il mondo si riflette, uno spiare imma­ gini riverberate di spera in spera : e l'uomo medioevale è sempre davanti a uno specchio, tanto quando si guarda intorno che quan­ do si abbandona �Ila propria immaginazione. Ma anèhe amare· è necessariamente una speculazione, non tanto peréhé, come ripe­ tono i poeti, « gli occhi in prima generan l'amore » e perché esso, 1 Il brano citato è contenuto nella parafrasi di Averroè al De sensu et sensibilibus aristotelico, in Aristotelis stagiritae omnia quae extant opera cum Averrois corduben­ sis. . . commentariis (Venetiis 1552, vol. VI).

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come scrive Cavalcanti nella sua canzone, « vien da veduta forma che s'in tende » ( cioè da una forma che, secondo il processo che ab­ biamo illustrato, penetra attraverso i sensi esterni e interni fino a diventare fantasma o « intenzione » nella celta fantastica e nella memoriale ), ma perché la psicologia medioevale, con un'inven­ zione che è fra le eredità piu feconde che essa }:la trasmesso alla cultura occidentale, concepisce l'amore come un processo essen­ zialmente fantasmatico, che coinvolge immaginazione e memoria in un assiduo rovello intorno a un'immagine dipinta o riflessa nel­ l'intimo dell'uomo 1 • Andrea Cappellano, il cui De amore è consi­ derato come la teorizzazione esemplare della nuova concezione, definisce cosi l'amore come immoderata cogitatio di un fantasma interiore e aggiunge che « ex sola cogitatione, quam concipit ani­ mus ex eo, quod vidit, passio illa procedit » 2 • La scoperta medioevale dell'amore su cui, non sempre a proposito, si è cosi spesso discusso, è la scoperta dell'irrealtà dell'amore, cioè del suo carat­ tere fantasmatico. Ed è in questa scoperta, che spinge fino alle estreme conseguenze quella connessione di desiderio e fantasmà che l'antichità aveva appena presentito nel Filebo platonico, che consiste la novità della concezione medioevale dell'eros, e non certo in una pretesa assenza di spiritualità erotica del mondo clas­ sico. 1 L'accostamento fra amore e visione è già nel Fedro platonico ( 255c-d), in cui l'a­ more è paragonato a una « malattia degli occhi » ( Òq>�CX.À!J.LCX.), e aveva portato Plotino (Enneadi I I I v 3 ) a ipotizzare una curiosa etimologia: « Eros, il cui nome viene dal fatto che esso deve la sua esistenza alla visione ( opacnç) ». In questa prospettiva, il passaggio dalla concezione classica dell'amore a quella medioevale può essere efficacemente carat­ terizzato come il passaggio da una « malattia della vista » a una « malattia dell 'imma­ ginazione » ( « maladie de pensée » è definito l'amore nel Roman de la Rose cit., v. 4348 ). . 2 ANDREA CAPPELLANO, Trattato d'amore, a cura di S. Battaglia, Roma 1947, cap. r . « Nam quum aliquis », continua il passo citato, « videt aliquam aptam amori et suo for­ matam arbitrio, statim eam incipit concupiscere corde; postea vero, quotiens de ipsa cogitat, totiens eius magis ardescit amore, quousque ad cogitationem advenit pleriiorem. Postmodum mulieris incipit cogitare facturas et eius distinguere membra et suosque actus iìnaginari eiusque corporis secreta rimari . . . » Dante, nella canzone Amor, da che convien pur ch'io mi doglia, descrive minuta­ mente il processo fantasmatico di questa cogitatio immoderata : « lo non posso fuggir, ch'ella non vegna l ne l'imagine mia, l se non come il penser che la vi mena. l L'animo folle, ch'al suo mal s'ingegna, l com'ella è bella e ria l cosi dipinge, e forma la sua pe­ na : l poi la riguarda, e quando ella è ben piena l del gran disio che de li occhi le tira, l incontro a sé s'adira, l c'ha fatto il foco ond'ella trista incende ».

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In tutto il mondo classico non s 'incontra nulla di simile alla concezione dell'amore come processo fantasmatico, mentre non mancano certo teorizzazioni « alte » dell'amore, le quali hanno an­ zi in ogni tempo trovato in Platone il loro paradigma originale. I soli esempi di una concezione « fantasmatica » dell'amore si in­ contrano nei tardi neoplatonici e nei medici ( in modo certo solo a partire dall'viii secolo ); ma si tratta, in entrambi i casi, di con­ cezioni « basse » dell'amore, in teso ora come un influsso demoni­ co, ora, addirittura, come malattia mentale. È solo nella cultura medioevale che il .fantasma emerge in primo piano come origine e oggetto d'amore, e la situazione propria dell'eros si sposta dalla visione alla fantasia. Non deve quindi stupire se il luogo amoroso per eccellenza è, per il medioevo, una fontana o uno specchio, e se, nel Roman de la Rose, il dio d'amore dimora presso una fonte che non è altro che il miroers perilleus di Narciso. Noi siamo cosi abituati all'in­ terpretazione che del p-1ito di Narciso ha dato la psicologia mo­ derna, che definisce narcisismo il chiudersi e il ritrarsi della libido nell'io, che finiamo col dimenticare che, dopo tutto, nel mito il giovinetto non è innamorato direttamente di sé, ma della propria immagine riflessa nell'acqua, che egli scambia per .una creatura reale. Diversamente da noi (e non poteva essere altrimenti, se si considera l'importanza che il fantasma ha nella psicologia medio­ evale), il medioevo vede il tratto saliente dell'infelice vicenda di Narciso non nel suo essere un amore di sé (la filautia non è ne­ cessariamente riprovevole per la mentalità medioevale ); ma, nel suo essere amore di un'immagine, un « innamorarsi per ombra » 1 • Questa è la ragione per cui la favola di Narciso ha avuto un cosi 1 Cfr. CHIARO DAVANZATI : « Come Narcissi in sua spera mirando l s'inamorao per ombra a la fontana. . . », in Poeti del '200 cit., t. l, p. 425. Che questa interpretazione del mito di Narciso sia una scoperta medioevale, da intendere in stretta connessione con la teoria poetica del carattere fantasmatico del processo amoroso, risulta evidente se si mettono a confronto le versioni medioevali col racconto di Ovidio (Metamorfosi I I I 345-5 10) che n e costituisce l a fonte. In Ovidio il tema dell'immagine riflessa è natu­ ralmente presente, ma non è il centro della vicenda ; la punizione in cui Narciso incorre per aver rifiutato l'amore di Eco è senz'ombra di dubbio l'impossibile amore di sé, cosa di cui il giovinetto è perfettamente cosciente ( « iste ego sum ! sensi; nec me mea fallit

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ostinato rilievo nella formazione dell'idea medioevale dell'amo­ re, tanto che il miroers perilleus è diventato uno degli accessori indispensabili del rituale amoroso e l'immagine del giovinetto al­ la fontana è fra i temi preferiti dell'iconografia erotica medioe­ vale : come allegoria d'amore, tanto la storia di Narciso che quella di Pigmalione alludono esemplarmente al ca�attere fantasmati­ co di un processo inteso essenzialmente all'ossessivo vagheggia­ mento di un'immagine, secondo uno schema psicologico per cui ogni autentico innamoramento è sempre un « amare per ombra » o « per figura » 1 , ogni profonda intenzione erotica è sempre rivol­ ta idolatricamente a un'ymage. In questa prospettiva nulla impedisce di vedere nella scena dell'innamoramento del protagonista alla fontana di Eros-Narciso nel Roman de la Rose un'allegoria abbastanza fedele della psico­ fisiologia fantasmatica descritta nel passo di Averroè che abbia­ mo appena esaminato : « aqua est oculus », come dice Averroè (e ciò spiega perché solo quando « il sole, che tutto osserva, l getta i suoi raggi nella fontana l e la luce scende fino al fondo l allora appaiono piu di cento colori l nel cristallo . . . » ) e il cristallo dop­ pio che riflette ora una metà ora l'altra del giardino e mai entram­ be nello stesso tempo è quello della virtu sensitiva e dell'imma­ ginativa, il che s'intende abbastanza chiaramente se si ricorda che, come Averroè mostra con l'immagine delle due facce dello specchio nelle quali non si può guardare contemporaneamente, è possibile contemplare il fantasma nell'immaginazione (cogita­ re ) o la forma dell'oggetto nel senso, ma mai entrambi nello stesz so tempo . imago, l uror amor mei, flammas moveoque feroque » ). Proprio al contrario, quando Dante vuole far comprendere al lettore come egli abbia scambiato le anime dei beati per immagini riflesse ( « spetchiati sembianti » ), il paragone che gli viene in mente è di definire il proprio errore. come contrario a quello di Narciso (« per ch'io dentro a l'error contrario corsi l a quel ch'accese amor tra l'orno e 'l fonte », Paradiso III 1 7- 1 8 ). Agli occhi di un lettore medioevale, l'errore di Narciso non era t,anto l'amore di sé, ma lo . scambio fra immagine e creatura reale. 1 « Vos amador, que amatz per figura » è in una poesia del trovatore Ozil de Cadars (cfr. LANGFORS, Le troubadour Ozil de Cadars, Helsinki 1 9 1 3 ). 2 Nessuna delle spiegazioni finora proposte per la scena della fontana nel Roman de la Rose è pienamente convincente. Cosi Lewis (The Allegory of Love, Oxford 1 936;

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La fontana di Amore, che « inebria di morte i vivi » , e lo spec­ chio di Narciso alludono dunque entrambi all'immaginazione, do­ ve dimora il fantasma che è il vero oggetto dell'amore : e Narciso, che s'innamora di un'immagine, è il paradigma esemplare della fin'amors e, insieme, con una polarità che caratterizza la saggezza trad. it. L'allegoria d'amore, Torino 1 969, p. 1 2 3 ) ritiene di poter affermare « senz'om­ bra di dubbio » che le due pietre sono gli occhi della donna, sulla base del celebre passo di Bernart de Ventadorn (« Anc non agui de mi poder l Ni no fui meus cles l'or' en sai l Que. m laisset en sos ohls vezer l En un mirahl que mout mi plai. l Mirahls, pos me mirei en te l M'an mort li sospir de preon, l Qu'aissi .m perdei cum perdet se l Lo bel Narcissus en la font »). Non mi pare che sia stato finora però notato che Bernart non dice che gli occhi della sua donna sono lo specchio, ma che egli guarda in essi in uno specchio ( « en un mirahl ») che, se la nostra interpretazione fosse esatta, potrebbe essere appunto quello della fantasia. Né si capisce perché, se le pietre fossero gli occhi della donna, in essi debba essere riflessa la Rosa, né soprattutto perché essi riflettano ora una metà ora l'altra del giardino. È curioso che si sia potuto interpretare, contro ogni verisimiglianza, l'innamora­ mento alla fontana di Narciso come un incontro con se stesso e col proprio destino (cosi E. Kohler : « Le regard dans le miroir n'est autre chose que sa rencontre avec sa propre destinée. . . Les deux cristaux sont en premier lieu le. reflet cles yeux de celui qui s'y mire, c'est à dire les yeux de Narcisse » ; cfr. RUNGE, The Narcissus Theme in European Literature, Lund 1 967, p. 85 ). Come vedremo nel capitolo seguente, la concezione della fantasia come specchio è già in Sinesio di Cirene, e fu da lui trasmessa ai mistici cristiani. Che lo specchio nella poesia del '2oo si riferisca all'immaginazione, è provato da vari passi. Cosi in CINO DA PISTOIA ( Rimatori del dolce stil novo ci t., p. 209 ) : « Fa de la mente tua specchio so­ vente l se vuoi campar, guardando 'l doke viso I lo qual so che v'è pinto il suo bel riso, l che fa tornar gioioso 'l cor dolente. I l Tu sentirai cosi di quella gente, l allor come non fossi mai divi �o ; l ma se lo imaginar serà ben fiso, I la bella donna t'apparrà presente » ; nell'Acerba d 1 CECCO D 'ASCOLI ( 'Acerb�, � cura d i Achille Crespi, Ascoli Piceno 1 927, vv. 1 959-6 1 ) : « Senza vedere, l uom puo mnamorare l formando specchio della nuda mente l veggendo vista sua nel 'maginare » ; in AMICO DI DANTE (Poeti del '2oo cit . t. II, p. 73 1 ), la fantasia è descritta come uno specchio sorretto da Amore : « Talor ere� dete voi, Amore, ch'i' dorma l che eco lo core i' penso a voi e veglio l mirandomi tut­ tora ne lo speglio l che 'nnanzi mi tenete e ne la forma » . Quest'identificazione dell'atto di guardare in uno specchio con l'immaginazione, permette anche di interpretare in mo­ d? nuovo la figu�a di Oiseuse che, nel Roman de la Rose, introduce l'amante nel giar­ . dmo. Come ha giUstamente osservato Flemmg (T he « Roman de la Rose » cit., p. 73 ) , questa donna con lo specchio non è certo una personificazione dell'ozio necessario al­ l'amore cortese; ma nemmeno è semplicemente, come ritiene Fleming, una personifica­ zione della lussuria. È stata spesso notata la curiosa contraddizione per cui una donna allo specchio simboleggia, nell'iconografia medioevale, ora la lussuria ora la prudenza. �on notevole incoerenza, lo specchio è qui una volta un oggetto reale e, un'-altra, un stmbolo della contemplazione spirituale. La contraddizione si risolve se si interpreta lo specchio come l'immaginazione e, tenendo presente la polarità della concezione medio­ evale della fantasia, in un caso come imaginatio falsa o bestialis, e, nel secondo come �maginatio �era