Il fanatismo dell'apocalisse. Salvare la Terra, punire l'uomo 8860889316, 9788860889317

La Terra è malata, sovrappopolata, degradata; gli ecosistemi stanno per collassare; mutamenti climatici e cataclismi ina

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Il fanatismo dell'apocalisse. Salvare la Terra, punire l'uomo
 8860889316, 9788860889317

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Pascal Bruckner Il fanatismo dell’Apocalisse Salvare la Terra, punire l’Uomo Traduzione di Leila Beauté

Ugo Guanda Editore in Parma

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Titolo originale: Le fanatisme de l’Apocalypse. Sauver la Terre, punir l’Homme In copertina: « Umbrellas II », 2010. Image from the series « Sacred Bird » © Janne Lehtinen Grafica di Guido Scarabottolo ISBN 978-88-235-0890-3 © Éditions Grasset & Fasquelle, 2011 © 2014 Ugo Guanda Editore S.r.l., Viale Solferino 28, Parma Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Ai miei figli, Éric e Anna, che mi hanno procurato tanta gioia

Il mondo sta per finire. La sola ragione per la quale potrebbe durare, è che esiste. Quanto è debole, questa ragione, paragonata a tutte quelle che annunziano il contrario (...) periremo per quello di cui abbiamo creduto di vivere. La meccanica ci avrà talmente americanizzati, il progresso avrà così bene atrofizzato in noi tutta la parte spirituale che nulla, fra le fantasticherie sanguinarie, sacrileghe o antinaturali degli utopisti, potrà essere paragonato ai suoi risultati positivi. Baudelaire, Razzi Perché odiamo il nostro essere? Voltaire (contro Pascal)

Introduzione Il ritorno del peccato originale

Da bambini i gesuiti ci invitavano a rafforzare la fede con i ritiri in monastero. Ci imponevano esercizi di rinnovamento della fede che venivano debitamente registrati su quadernetti per riaffermare le promesse del battesimo, per celebrare le virtù dell’amore e del soccorso ai deboli. Non bastava credere, bisognava testimoniare la propria adesione alle Sacre Scritture e allontanare Satana dal proprio cuore. La pratica era corroborata da confessioni quotidiane sotto la tutela di un padre spirituale. Ciascuno di noi frugava nel proprio cuore per estirparne i germi di iniquità e controllare, con una piacevole vertigine, la frontiera che separa la grazia dal peccato. Eravamo immersi in un’atmosfera di raccoglimento e il desiderio di essere buoni conferiva alle giornate un rilievo particolare. Sapevamo che Dio ci osservava con indulgenza: eravamo giovani, avevamo il diritto di sbagliare. Registrava tutte le nostre azioni nel suo grande libro dei conti e le soppesava con perfetta equità. Per guadagnarci il suo favore eccedevamo in pietà. Riconsiderate in età adulta, anche una volta persa la fede, queste attività infantili, simili agli esami spirituali degli antichi, non appaiono prive di nobiltà. Docilità ed elevazione spirituale erano in perpetua sfida. Almeno in quel modo imparavamo, prima delle burrasche della pubertà, l’arte del conoscersi e del competere. Quello che stupisce, cinquant’anni dopo e in una società agnostica, è la grande rinascita dello stesso stato d’ani9

mo, scaturito però dagli appelli della scienza. Pensiamo a cosa significa, in gergo contemporaneo, la famosa impronta di carbonio che ciascuno di noi si lascia dietro. Che cos’è se non l’equivalente gassoso del peccato originale, della sporcizia che infliggiamo a Madre Gea con la nostra semplice presenza, anche solo respirando? Ognuno può misurare il volume delle proprie emissioni giornaliere con l’obiettivo di ridurle, come i bambini al catechismo devono arginare le proprie colpe. La creatura umana è colpevole dei danni inflitti al proprio habitat. Cambiamento di scala: accanto agli oppressi e agli umiliati di sempre, entra in scena un nuovo personaggio storico: la Terra. È compito nostro evitare che questa culla diventi una tomba collettiva. Unica forza originale nata negli ultimi cinquant’anni, l’ambientalismo – questo il suo merito – ha rimesso in discussione le finalità del progresso e ha posto la questione dei limiti. Ha risvegliato la nostra sensibilità verso la natura, messo in rilievo gli effetti dello sconvolgimento climatico e constatato l’esaurimento delle risorse fossili. A partire da questo credo collettivo, si è innestata una scenografia dell’apocalisse, già sperimentata col comunismo, che si ispira allo gnosticismo e ai messianismi medievali. Nel kit di base della critica verde, il cataclisma è d’obbligo e abbondano i profeti della decomposizione, che abusano del­l’espe­dien­te allarmistico del panico, intimandoci di fare penitenza al più presto. La paura del futuro, della scienza, della tecnica contraddistingue questo momento in cui l’umanità, soprattutto quella del mondo occidentale, prova antipatia per se stessa e non tollera più la propria espansione. Che ci piaccia o no, ci ritroviamo aggrovigliati a sette miliardi d’individui. L’ambientalismo, con il suo rifiuto di capitalismo e socialismo, non è salito al potere da nessuna parte (tranne 10

in un Land tedesco) e non ha mai versato sangue, almeno finora. Ha vinto però la battaglia delle idee e, approfittando del fallimento dei suoi predecessori, marxismo e terzomondismo, trionfa per capillarità al­l’onu, nei governi e nelle scuole. È diventato l’umore dominante di questo inizio secolo ed eccelle nell’ostacolare, più che nel proporre: chiudere fabbriche, bloccare progetti, impedire la costruzione di autostrade, aeroporti, linee ferroviarie. È la forza che dice sempre no. Laddove rappresenta un movimento politico, si divide in gruppi, fazioni che si odiano l’un l’altra in preda al narcisismo delle piccole differenze: più forti sono le connivenze, più saranno aspri i conflitti. Qui, come altrove, sono sempre i più veementi a vincere, portando l’ideologia all’eccesso. L’ambiente è la nuova religione laica che s’innalza, almeno in Europa, sulle macerie di un mondo miscredente, una religione che a sua volta andrebbe sottoposta a critica, per stanare questa malattia infantile che la corrode e la scredita: il catastrofismo. Esistono almeno due tipi di ambientalismo: uno della ragione, l’altro della divagazione, uno di ampliamento, l’altro di restrizione, uno democratico e l’altro totalitario. Il primo vuole mostrarci i danni della civiltà industriale, il secondo vuole dedurne la colpevolezza del genere umano, individuando nella natura nient’altro che un bastone per picchiare meglio l’umanità. Allo stesso modo in cui il terzomondismo incarna la vergogna per la storia coloniale e la penitenza nei confronti del presente,1 il catastrofismo non è che il rimorso anticipato per il futuro: poiché il sen  Ho trattato questi due argomenti rispettivamente in Le Sanglot de l’homme blanc (trad. it. di Simona Martini Vigezzi: Il singhiozzo del­l’uo­mo bianco, Longanesi, Milano, 1983) e La Tyrannie de la péni­ tence (trad. it. di Tina D’Agostini, Monica Fiorini: La tirannia della penitenza, Guanda, Parma, 2007). 1

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so della storia è svanito, qualsiasi cambiamento rappresenta un potenziale collasso e non può annunciare niente di buono. La sua forma di espressione preferita è l’accusa: se i rivoluzionari volevano fare tabula rasa del passato, ormai siamo pieni zeppi di pubblici ministeri che condannano e intentano processi. Il Diciottesimo secolo aveva assolto l’uomo e dichiarato innocente la creatura: riapriamo le pratiche, ripristiniamo tutte le denunce. Ormai non è ammessa alcuna indulgenza, la colpa è codificata e calcolata in termini di foreste devastate, terre bruciate, specie scomparse, rientrando così nel dominio inesorabile della statistica. Il male non viene più dalla natura o dai fanatismi politici o religiosi, ma dall’ambizione prometeica del­ l’uo­mo che ha devastato il pianeta. La storia recente della cultura occidentale non è altro che l’accumulo simultaneo di colpe e liberazioni: emancipiamo da una parte solo per poter confinare dal­l’al­tra, distruggiamo i tabù solo per poterne creare di nuovi. I veti si spostano, ma non spariscono mai. L’ansia dominante è al contempo consapevolezza dei problemi reali e sintomo dell’invecchiamento dell’Occidente, specchio della sua fatica fisica. Il pathos di oggi è quello della fine dei tempi. E poiché non pensiamo mai in completa autonomia, e lo spirito di un’epoca è sempre opera collettiva, viene voglia di abbandonarsi a questo flusso tenebroso. O, al contrario, di svegliarsi come da un incubo per scongiurarlo.

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Prima parte Il fascino del disastro

I Restituitemi il mio nemico

Viviamo tutti in una casa che brucia. Nessun vigile del fuoco da chiamare. Nessuna via d’uscita. Tennessee Williams O Dio, mostrami il nemico. Quando avete trovato il nemico, potete ucciderlo. Ma queste persone m’inducono in errore. Chi mi ferisce? Chi rovina la mia vita? Ditemi a chi devo restituire i colpi. V.S. Naipaul

Era il 1989, ma sembrano passati secoli. Il mondo era appena uscito dalla guerra fredda e l’Unione Sovietica, distrutta, lasciava andare le popolazioni in suo dominio e si preparava alla transizione verso un’economia di mercato. Regnava l’euforia: la civiltà occidentale aveva vinto senza dover combattere. Per due volte, nel corso del Novecento, aveva trionfato sui suoi peggiori oppositori, il fascismo e il comunismo, come figli illegittimi nati dal suo grembo, che aveva saputo schiacciare. Chiunque esprimesse una riserva o sottolineasse che si trattava più di una sconfitta del comunismo che di una vittoria del capitalismo, passava per guastafeste.

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1) L’addio alla spensieratezza Mentre il sistema sovietico ci giocava un brutto tiro piantandoci in asso, l’entusiasmo rivaleggiava con l’ansia: un avversario è un’assicurazione sul futuro, un termine di paragone permanente che ci costringe a migliorarci. Se non siamo mai sicuri dell’affetto dei nostri cari, possiamo dormire tranquilli con l’odio dei nostri nemici, che rappresentano la garanzia assoluta della nostra esistenza e ci permettono di sapere chi siamo. La loro avversione è quasi un omaggio. Non ispirare alcuna antipatia significa approfittare della tranquillità di chi non conta. Il conflitto Est-Ovest dava senso a tutto quanto: liberava dall’inerzia popolazioni pronte a sprofondare nelle delizie dell’abbondanza. Manteneva una certa chiarezza in un mondo diviso in due campi ben distinti. Il comunismo ambiva a cancellare del tutto le democrazie borghesi, a porre fine allo sfruttamento del­l’uo­mo da parte del­l’uo­ mo, a inventare un nuovo metodo di produzione che avrebbe archiviato le società precedenti come preistoria. Dalla biologia alla filosofia, non c’era disciplina che non toccasse, convinto di inventare un nuovo tipo antropologico. Con il comunismo, l’uomo diventerà incomparabilmente più forte, più saggio, più acuto. Il suo corpo diventerà più armonioso, i suoi movimenti più ritmati, la sua voce più melodiosa. Le forme della sua esistenza acquisteranno una eccezionale potenza drammatica. L’uomo medio raggiungerà la statura di Aristotele, Goethe, Marx. E a quote ancora più alte si ergeranno nuove vette. (Lev Trockij, Letteratura e rivoluzione, 1924)

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L’implosione dell’Unione Sovietica ci ha lusingato e inquietato allo stesso tempo: essere l’unico vincitore di una battaglia significa concentrare su di sé le critiche che prima potevano cadere altrove. Il comunismo aveva cessato di esistere, ma il capitalismo si sarebbe presto pentito di averlo ucciso. Unico rimasto in lizza, pesa ormai sui destini del pianeta come una sentenza: non gli viene attribuito alcun beneficio, ma gli viene addebitato ogni genere di fastidio. Con la crisi del 2008, il capitalismo si indebolisce in Occidente nel momento in cui la sua logica viene fatta propria da un gran numero di nazioni. Un mondo che vive a credito (gli Stati Uniti e l’Europa) affronta un mondo che vive in sospeso (la Cina, l’India e il Brasile) e che lavora duramente, senza protezioni sociali, per uscire dalla disgrazia. Per una tremenda ironia della sorte, che ricorda la dialettica hegeliana del servo e del padrone, sono le nazioni del Sud del mondo a diventare i creditori dei paesi ricchi, rinegoziandone i debiti, inondandone i mercati, riacquistandone aziende e patrimoni, come è accaduto alla Grecia, che ha messo in vendita spiagge, siti ar­cheo­lo­gi­ci, porti, acqua. Si contrappongono così due epoche del capitalismo: quella dell’ascetismo per i paesi emergenti e quella dell’edonismo per gli occidentali, con il timore che i primi soggioghino i secondi. Insomma, un’amara vittoria: l’economia di mercato, almeno nell’Occidente, è in preda a una confusione incontrollabile, come se volesse sotterrarsi dopo la scomparsa dell’antico rivale. L’Unione Sovietica, a modo suo, assicurava il mantenimento del nostro sistema immunitario, mentre il trionfo rischia di disarmarci.1  Rinvio qui a La Mélancolie démocratique (trad. it. di Laura Colombo: La malinconia democratica: come vivere senza nemici, Monteleone, Vibo Valentia, 1990). 1

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Inoltre, il mercato senza regole lascia libero sfogo ai peggiori difetti, tra cui l’avidità, virtù fondatrice del pensiero liberista, per il quale i vizi privati concorrono all’armonia generale. Ma la fame di guadagno ha conosciuto in questi ultimi tren­t’an­ni, specialmente negli Stati Uniti, con la rivoluzione finanziaria, una crescita vertiginosa, aumentando le disuguaglianze e provocando una potenziale proletarizzazione delle classi medie. La bolla immobiliare del 2008 non fu altro che la conseguenza di un’equazione impossibile: concedere la proprietà ai lavoratori dipendenti senza aumentarne gli stipendi, indebitandoli in modo irragionevole. Una minoranza di imprenditori, banchieri e operatori di borsa vede la sua fortuna decuplicarsi, mentre operai e impiegati di ogni livello accumulano montagne di debiti fino al fallimento. Se da un lato la svolta liberista inaugurata con la Thatcher e con Reagan, nel nome della lotta contro le tasse, ha accompagnato la rivoluzione del web, dal­l’al­tro ha costituito un neo-feudalesimo per i ricchi, che si sono cooptati e aiutati vicendevolmente per accumulare risorse gigantesche, slegate da qualsiasi merito o risultato. Gli ammiratori del capitalismo sono giunti al punto di violarne una delle leggi più elementari, quella della concorrenza.

2) I candidati alla successione Chi pretenderà, come il comunismo, di sostituire un altro sistema ai nostri valori? Chi ci lancerà una sfida di tale portata? L’islam fondamentalista? Sebbene stia prendendo piede in molti paesi, accompagnando come un’ombra i progressi di una mentalità laica, si concentra principalmente contro i musulmani stessi, colpevoli di indifferenza e compromissione con il mondo moderno. Il terrorismo? 18

Ancora vivo, nonostante la morte di Osama bin Laden, e suddiviso in diramazioni in Africa, Medio Oriente e Asia centrale, ha perso il suo splendore dopo l’11 settembre 2001, integrandosi nel paesaggio mentale della vita quotidiana e entrando a far parte di quelle minacce di cui dobbiamo tutti tener conto, poiché qualsiasi squilibrato con una cintura esplosiva può massacrare decine di persone tra la folla o su un autobus. Esistono nemici utili e fecondi e nemici sterili, estenuanti. Il terrorismo islamico è un cancro che non ci insegna niente, se non la paranoia. Insieme al lavoro dei servizi segreti e della polizia, freddezza e prudenza sono la migliore risposta alla barbarie dei dinamitardi. I francesi convivono da quasi trent’anni con questo rischio ormai integrato nella loro quotidianità. Quelli che avevano sperato, come i repubblicani o i democratici americani, che l’11 settembre sarebbe stato l’equivalente simbolico di Pearl Harbor e che avrebbe portato alla riscossa un popolo egoisticamente sprofondato nel proprio benessere, sono rimasti delusi, nonostante i governi abbiano sfruttato questo pericolo per imporre lo stato d’emergenza e limitare le libertà fondamentali.2 2  Secondo un giornalista di usa Today, il presidente George W. Bush era particolarmente entusiasta delle prospettive aperte dall’11 settembre; vi scorgeva l’occasione per presentare se stesso e la sua generazione come gli araldi di un ampio progetto di rigenerazione culturale: « Bush ha detto ai suoi consiglieri di essere convinto che un confronto con il nemico offrisse la possibilità a lui e ai suoi compatrioti del baby-boom di riprendere il controllo e mostrare di condividere gli stessi valori e lo stesso coraggio dimostrati dai loro padri all’epoca della Seconda guerra mondiale ». usa Today, Judy Keen, « Same President, Different Man in Oval Office », 29 ottobre 2001, citato in Corey Robin, Fear. The History of a Political Idea, Oxford University Press, Oxford, 2004 (trad. it. di Ulisse Mangialaio: Paura. La politica del dominio, egea, Milano, 2005).

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È difficile che un avversario risulti credibile, se è disperso per il mondo e può assumere un’infinità di volti. Bisogna andare oltre e giungere alle radici del male. Il male è la nostra aggressività, il nostro accanimento sulla natura. Gli uomini combattono stupidamente tra loro senza rendersi conto che il vero conflitto è ormai altrove, come dice Michel Serres, ad esempio. Siamo come i duellanti di un quadro di Goya che incrociano le spade nel bel mezzo delle sabbie mobili in cui stanno piano piano affondando. Mentre siamo intenti a bisticciare, ci lasciamo sfuggire l’essenziale: il destino del mondo materiale distrutto dai nostri imbrogli. Per secoli, abbiamo fatto la guerra al mondo, con l’obiettivo di dominarlo, adesso dobbiamo fare la guerra alla guerra e firmare un armistizio con l’acqua, l’albero, la pietra, l’oceano. Il bilancio dei danni inflitti sinora al mondo equivale a quello delle devastazioni che una guerra mondiale si sarebbe lasciata alle spalle. I nostri rapporti economici di pace producono, con continuità e lentamente, gli stessi risultati che darebbe un conflitto breve e globale, come se le guerre non appartenessero più soltanto ai militari (...). Non ci battiamo più gli uni con gli altri, noi, le nazioni che si dicono sviluppate, ci volgiamo piuttosto tutti insieme, contro il mondo. Guerra veramente mondiale, alla lettera e doppiamente, perché tutto il mondo, nel senso di tutti gli uomini, infligge perdite al mondo, nel senso delle cose.3  Michel Serres, Le Contrat naturel, Champs, Essais, 1992, pp. 5859 (trad. it. di Alessandro Serra: Il contratto naturale, Feltrinelli, Milano, 1991). Anche secondo Ivan Illich il boom economico postbellico ha avuto in Europa lo stesso effetto devastante della Seconda guerra mondiale. 3

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Ci comportiamo come parassiti che distruggono il loro ospite invadendolo. Nel 2009, i verdi e i socialisti svizzeri non hanno forse chiesto la dissoluzione del­l’eser­ci­to elvetico, diventato ormai inutile, poiché il vero pericolo è il riscaldamento climatico? Una strana constatazione: più la Terra si restringe e si unifica sotto l’influenza dei mezzi di comunicazione e della tecnologia, meno ne dominiamo il corso. Espropriazione per vicinanza. Le armi di distruzione di massa, atomiche, biologiche o chimiche, mettono l’umanità nella stessa situazione di un uomo che si ritrova con una pistola puntata alla tempia senza avere la libertà di trattenere il proprio dito premuto sul grilletto. In qualsiasi momento, il fuoco nucleare innescato dalla follia di un dottor Stranamore può eliminare centinaia di milioni di persone e cancellare per sempre interi continenti. Il genere umano è una specie programmata per diventare obsoleta, secondo la formula del filosofo tedesco Günther Anders, marito di Hannah Arendt, schierato fin dalla prima ora contro l’atomo. « Siamo giunti alla fine dei tempi. » Il villaggio globale è la somma dei vincoli che assoggettano tutti gli uomini alla stessa esteriorità da cui tentano di difendersi. Questo determinismo implacabile rende ciascuno ostaggio di tutti: più i mezzi di comunicazione, il commercio, gli scambi avvicinano continenti e culture, più la pressione si fa opprimente. Le maglie si stringono, creando un senso di claustrofobia e un desiderio di fuggire in luoghi appartati o di colonizzare altri pianeti. Le tribù umane continuano a straripare le une sulle altre, provocando un violento desiderio di separazione e frontiere. Non riusciamo più a collegarci perché non siamo più separati: ci manca la distanza per comunicare e la profondità per familiarizzare. In un mondo pieno come un uovo, in cui brulicano quasi sette miliardi di abitanti, l’isolamento, la lentezza, la cal21

ma, la contemplazione diventano un lusso per il quale alcuni sono pronti a pagare cifre esorbitanti. Come trasformare questo disagio in legittima rabbia, come individuare il bersaglio? Designando l’uomo come pericolo principale. Rousseau l’aveva già stabilito, opponendosi all’ottimismo illuminista: Uomo, non affannarti a cercare l’autore del male; quel­ l’au­to­re sei proprio tu. Non esiste altro male di quello che commetti o che sopporti, ed entrambi provengono da te. (Emilio)

L’umanità nel suo complesso è aberrante, sostengono molti pensatori. Va trattata come una malattia da curare d’ur­genza. L’uomo è il tumore della Terra (...) una specie usa e getta, come la civiltà che ha inventato.4

E Nicolas Hulot: Il nemico non viene dall’esterno, ma si trova al­l’in­ter­no del nostro sistema e delle nostre coscienze. (Pour un pacte écologique, 2007)

Da mezzo secolo vediamo i capri espiatori cadere, uno dopo l’altro: il marxismo aveva individuato il capitalismo come responsabile delle miserie umane. Il terzomondismo, deluso dall’imborghesimento delle classi lavoratrici, aveva optato per l’Occidente, grande criminale della sto  Yves Paccalet: « Non capisco come l’evoluzione darwiniana abbia potuto promuovere una specie così invadente, nociva, sboccata e poco resistente ». L’Humanité disparaîtra, bon débarras!, Arthaud, Paris, 2006. 4

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ria e « inventore » della schiavitù, del colonialismo e del­ l’im­pe­ria­li­smo. Il movimento no-global, più effimero, si era accontentato di fondere i due nemici. Con l’ambientalismo, saliamo di livello: il colpevole è l’uomo stesso con la sua volontà di dominare la Terra, di « imporsi » su di essa, per usare un termine heideggeriano. Stiamo tornando alle fondamenta del cristianesimo: il male è la superbia della creatura che si ribella al suo Creatore e va oltre le proprie prerogative. I tre capri espiatori si possono cumulare: l’ecologia può rifiutare il capitalismo inventato da un Occidente predatore di popoli e distruttore della Terra. È una serie di matrioske chiuse una dentro l’altra, fino alla sintesi finale. Ecco perché molti bolscevichi in pensione si riconvertono all’ambientalismo per ampliare la loro gamma di accuse. Il riciclaggio di luoghi comuni anticapitalisti è come il riciclo delle acque: l’ambientalismo aggiunge un’ulteriore condanna, presentandosi come il risultato di tutte le critiche precedenti. Una larga parte della sinistra sudamericana adotta questo cavallo di battaglia per rafforzare le proprie tesi: « Ci sono solo due soluzioni: o muore il capitalismo, o scompare la Terra Madre » ha detto, ad esempio, il presidente boliviano Evo Morales nel 2009. Il pianeta diventa il nuovo proletario che va salvato dallo sfruttamento, magari riducendo la specie umana a cinquecento milioni di abitanti, come già chiedeva il comandante Cous­teau,5 e come affermano anche certi « antispecisti » (contrari all’oppressione delle specie animali da   « Vogliamo eliminare la sofferenza, le malattie? È una buona idea, ma forse non così vantaggiosa a lungo termine. Il rischio è compromettere la nostra specie. È terribile da dire. È necessario che la popolazione umana si stabilizzi, e per questo bisognerebbe eliminare 350.000 uomini al giorno. È così tremendo da dire che non bisognerebbe neanche dirlo. » Le courrier de l’unesco, novembre 1991, p. 13. 5

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parte del­l’uo­mo).6 L’essere umano, razza nociva e infestante, potrebbe scomparire senza problemi: La scomparsa totale della specie umana non sarebbe una catastrofe morale, ma piuttosto un evento che il resto della comunità accoglierebbe con entusiasmo. (Paul Taylor)7

Una frase davvero gustosa: provate a immaginare le balene, gli alberi, le carote che applaudono entusiasti l’eliminazione degli uomini! Paul Taylor rimane disperatamente antropocentrico, perfino nelle metafore. La sua visione è condivisa dal Movimento per l’estinzione umana volontaria o vhemt (Voluntary Human Extinction Movement), un’organizzazione formata da persone che hanno deciso di non riprodursi: Ogni volta che qualcuno decide di non generare altri umani da aggiungere ai miliardi brulicanti che già si accalcano su questo pianeta devastato, un nuovo raggio di speranza attenua le tenebre. Quando ogni essere umano deciderà di non riprodursi, la biosfera della Terra potrà tornare alla sua gloria di un tempo...8

« Amo troppo i miei figli per dare loro la vita » affermava lo storico francese Hippolyte Taine nel Diciannovesimo secolo. Anche il biogeografo Jared Diamond, autore di  Gli antispecisti reclamano inoltre un’uguaglianza biosferica, ossia gli stessi diritti per tutti gli esseri viventi e non, animali, vegetali, alberi, montagne. Ovviamente si scagliano contro i carnivori. 7  Paul Taylor, Respect for Nature, Princeton University Press, Princeton, 1986, citato in Stéphane Ferret, Deepwater Horizon, Seuil, Paris, 2011, p. 212. 8  Dal sito www.vhemt.org. 6

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uno studio magistrale sulla scomparsa delle società, racconta ad alta voce uno strano sogno: Se la maggior parte dei sei miliardi di abitanti venissero criogenizzati e non potessero più mangiare, respirare, metabolizzare, l’immensa popolazione umana non porrebbe più alcun problema.9

Il coma artificiale come soluzione ai problemi del pianeta. Che cos’è l’ecologia? Un litigio condominiale in un edificio sovraffollato. Il pianeta è troppo piccolo e noi siamo troppi. Eliminateli! Secondo James Lovelock, chimico di formazione, la Terra è un organismo animato, costituito da molteplici cellule in equilibrio instabile. In questo conglomerato, gli esseri umani si comportano come metastasi cancerose, proliferando a scapito dell’insieme che le rifiuta e le espelle come uno scarto inutile. In pratica, l’Homo Sapiens non sarebbe altro che l’Homo Demens. In Francia, un deputato verde, Yves Cochet, il 6 aprile 2009 non invitò forse allo sciopero della pancia, proponendo di penalizzare le coppie che mettono al mondo un terzo figlio, perché un bebè, in termini di inquinamento, equivale a 620 voli andata-ritorno Parigi-New York?

3) L’offesa a Gaia Il pessimismo delle nazioni europee è sorprendente se si considera che godiamo ancora di una dolce vita senza pa  Jared Diamond, Collapse. How Societies Choose to Fail or Suc­ ceed, Allen Lane, London, 2005 (trad. it. di Francesca Leardini: Col­ lasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino, 2005). 9

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ri: ovunque predomina la cultura del lamento. Non solo ogni minoranza si sforza di assumere il titolo di paria, ma ogni cittadino, prima o poi, vuole indossare i panni del perseguitato per attirare l’attenzione su di sé. La piacevole spensieratezza del « boom economico » è un ricordo lontano, i giorni felici sono ormai alle nostre spalle. Bisogna avere lo sguardo cupo e aggrottare la fronte: i pericoli sono così numerosi che c’è l’imbarazzo della scelta. Suonare un campanello d’allarme, questo è il nostro viatico. La salvaguardia del pianeta induce a denigrare tutto ciò che deriva dallo spirito imprenditoriale, dal gusto per la scoperta, soprattutto in ambito scientifico. Abbiamo smesso di ammirare, sappiamo solo denunciare, denigrare, piagnucolare. La capacità di entusiasmarsi è in via d’estinzione. Verso la fine del Ventunesimo secolo si è verificato un cambio di paradigma: siamo passati dall’epoca delle rivoluzioni all’« epoca delle catastrofi ».10 Le prime implicavano per lo meno un orizzonte di speranza, un soggetto preciso capace di trascinare dietro di sé il genere umano. Da quando è suonata la fine della storia, almeno in Occidente, l’idea di progresso sta morendo, il tempo si rannicchia su se stesso, privandosi della sua dimensione proiettiva. Non è altro che un cumulo di disgrazie. L’avvenire del mondo inteso come totalità materiale ha la meglio sul mondo futuro delle società umane. Alla lunga lista di vittime emblematiche – ebrei, neri, schiavi, proletari, popoli colonizzati – si sostituisce gradualmente il pianeta, divenuto il simbolo di tutti i miserabili. È lui il reietto per eccellenza. « La Terra si scuote » scrive Michel Serres, ritraducendo la celebre frase di Galileo « E pur si muove », borbottata nel 1633 mentre l’Inquisizione lo costringeva ad abiurare la  François-Xavier Albouy, Le Temps des catastrophes, Descartes & Cie, Paris, 2002. 10

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teoria dell’eliocentrismo.11 Nelle convulsioni del nostro pianeta, una sorta di Cristo minerale e vegetale, è l’enorme coorte di dannati a gridare e domandare giustizia. Un cambiamento fondamentale: ormai non siamo più invitati a identificarci con una specifica comunità, ma con la piccola navicella spaziale su cui siamo imbarcati e di cui ascoltiamo i lamenti. Non si tratta più di trasformare il mondo, ma di salvarlo. Nutriamo una visione nostalgica di laghi, foreste e paesaggi, che ci colpiscono con la loro fragilità e che tentiamo di preservare dalla scomparsa. Guardiamo il mondo intero come un autunno eterno che relega nel passato la bella estate della fioritura. Il futuro ha in serbo solo disgregazione. Ogni minimo incidente, una marea nera, un’inondazione, una pioggia torrenziale, un’ondata di caldo, è un presagio funesto di ciò che ci attende. Un esempio? Nel 1947, un gruppo di scienziati nucleari, preoccupati per la tensione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, costruisce un orologio dell’apocalisse (Dooms­ day Clock in inglese) in cui la lancetta dei minuti indica il tempo che ci separa dalla fine del mondo, fissata a mezzanotte. L’apogeo del rischio viene raggiunto nel 1953, quando Washington e Mosca sperimentano la bomba termonucleare a nove mesi di distanza l’una dal­l’al­tra, e nel 1962, durante la crisi dei missili a Cuba. Da allora, l’orologio viene aggiornato di continuo e tiene conto anche delle minacce prodotte dai mutamenti climatici e dalle nuove tecnologie. Nel gennaio 2010, ad esempio, l’orologio stabilì che l’umanità si trovava a meno di sei minuti dall’annientamento totale. In questo breve intervallo, ogni istante diventa prezioso: siamo sul­l’or­lo del precipizio, come ci ricorda questo strumento capace di ravvivare i terrori cri Michel Serres, op. cit., p. 136.

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stiani per il giorno del giudizio. L’umanità corre verso la sua fine, è bene rappresentare il concetto simbolicamente per metterla meglio in guardia contro se stessa. « Il nostro pianeta sta bruciando, ma noi guardiamo altrove » dice Jacques Chirac nel 2002 al vertice di Johannes­burg, invitando i partecipanti a escogitare « un nuovo rapporto tra l’uomo e la natura ». Sir Martin Rees, astrofisico che occupa la cattedra di Isaac Newton a Cambridge, ha pubblicato un libro dal titolo clamoroso, in cui concede al­l’uma­ni­ tà una possibilità su due di sopravvivere al Ventunesimo secolo a causa delle sue malefiche invenzioni e della sua stessa proliferazione.12 Sì, la fine è vicina, bisogna prepararsi, ponendo termine a ogni cosa. È fin troppo tardi, come ci avverte un giornalista inglese: Sia che lo sussurrino in pubblico sia che lo gridino ad alta voce in privato, i climatologi di tutto il mondo affermano la stessa cosa: è finita. La scadenza prima della quale avremmo potuto evitare un riscaldamento del pianeta superiore a 2 °C è stata superata: a forza di rinviare, ci siamo fatti scappare l’ultima opportunità di risolvere il problema. (...) Anche se da oggi riuscissimo a ridurre a zero le emissioni di anidride carbonica, la sua concentrazione 12   Our Final Hour. A Scientist’s Warning: how terror, error, and environmental disaster threaten humankind’s future in this century on earth and beyond, Basic Books, New York, 2003 (trad. it. di Valentina Pecchiar: Il secolo finale: perché l’umanità rischia di autodistruggersi nei prossimi cento anni, Mondadori, Milano, 2005). « Il secolo finale. L’avvertimento di uno scienziato: perché terrore, errori umani e disastro ecologico minacciano il futuro del­l’uma­ni­tà in questo secolo su questa Terra e non solo... » Si noti la megalomania di un titolo che fa del­l’uo­mo un titano malefico in grado di scuotere l’intero universo. Prima o poi qualcuno ci dirà che l’inquinamento disturba l’eterna beatitudine delle anime in paradiso.

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nell’atmosfera diminuirebbe solo del 40% da qui al 3003.13

Con uno strano miscuglio di fatalismo e attivismo a cui ci aveva già abituati il marxismo, una parte del movimento ambientalista dà per inesorabile la morte del pianeta, esortandoci però a ritardarla con tutte le nostre forze. Non solo assistiamo a un’ecatombe delle specie che procede a un ritmo spaventoso compreso tra le 50 e le 200 al giorno (è la « sesta estinzione » nella vulgata ufficiale),14 non solo le barriere coralline minacciano di scomparire entro il 2050, ma secondo gli oncologi e i tossicologi « la fine del­l’uma­ni­tà dovrebbe avvenire ancora prima del previsto, ovvero verso il 2060, a causa della sterilità diffusa dello sperma maschile prodotta dal­l’ef­fet­to di pesticidi e altri pop o cmr (inquinanti organici persistenti e cancerogeni mutageni e reprotossici) ».15 Accelerazione dei disturbi naturali, aumento delle temperature, innumerevoli pandemie, « ormai è noto a tutti che stiamo andando verso il collasso definitivo » (Serge Latouche). L’immagine del bolide che irrompe sulla scena è la metafora più usata in questo genere letterario, l’altra è quella del  George Monbiot, The Guardian, Courrier International, « La Vie meilleure, mode d’emploi », ottobre-novembre 2009, p. 19. 14  Le prime cinque estinzioni sono il risultato di calamità naturali, mentre la sesta sarebbe dovuta all’attività del­l’uo­mo. Il numero di specie scomparse si potrebbe paragonare, su un breve periodo, alle altre cinque grandi estinzioni di massa tra cui quella dei dinosauri che hanno segnato il passato geologico della Terra. 15  Citato da Serge Latouche, Le Pari de décroissance, Pluriel, Paris, 2010, prefazione inedita, pp. 10-11 (trad. it. di Matteo Schianchi: La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2012). 13

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Titanic, simbolo dell’arroganza umana lanciata verso l’iceberg che lo farà affondare. Il Titanic o l’antiarca di Noè: mentre il profeta vuole salvare il genere umano dal diluvio prendendo una coppia per ogni specie, il transatlantico lo fa precipitare. La prudenza del primo lo salva, la folle superbia del secondo lo distrugge. La prosecuzione dell’attuale dinamica di crescita ci pone di fronte alla prospettiva di una scomparsa della civiltà in cui viviamo, non tra milioni di anni o millenni, ma entro la fine di questo secolo.16

Questa è la situazione che ci troviamo ad affrontare: la scomparsa del meglio e la sopravvivenza del peggio. Mentre la diversità biologica si spegne e i ghiacciai si sciolgono, detriti e sacchetti di plastica proliferano. La salute del pianeta? Degrada in modo irreparabile poiché l’impronta ecologica supera del 50% le capacità di rigenerazione della Terra, ossia l’assorbimento dei rifiuti e la produzione di nuove risorse. Miracolo della matematica: l’umanità vive a credito, a spese della Terra, e si trova in uno stato di quasi fallimento, come le nostre economie occidentali. Nel 2007, l’umanità ha utilizzato l’equivalente di un pianeta e mezzo!17

Perbacco, il calcolo è strano, ma colpisce. Eccoci soggetti al regime della doppia pena: al debito colossale accumulato dal Nord e finanziato, per un incredibile capovolgimento della situazione, dal Sud, si aggiunge il bilancio altrettanto gigantesco del Nord nei confronti dell’intero   Peter Barrett, direttore del Centro di ricerca per l’Antartico al­ l’uni­ver­si­tà Victoria, Nuova Zelanda. 17   Hervé Kempf, Le Monde, 14 ottobre 2010. 16

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pianeta. Da questo punto di vista, i vari cataclismi non sono altro che gli avvisi un po’ brutali delle rate da onorare. « Tra dieci anni » ci dice Al Gore, ex vicepresidente americano, autore del film Una scomoda verità (2006), « non saremo più in grado di invertire il processo di degrado della Terra »:18 le nostre civiltà devono passare dalla negazione alla consapevolezza, se non vogliono sprofondare nella disperazione. Le citazioni potrebbero moltiplicarsi all’infinito poiché la bibliografia del settore è sterminata e si trasforma facilmente in stereotipo. La litania dei fallimenti è infinita. L’ecologismo è diventato un’ideologia globale che ricopre l’intera esistenza, i mezzi di produzione così come gli stili di vita. Si applicano all’ambiente tutte le stranezze tipiche del marxismo: lo scientismo onnipresente, le visioni cupe della realtà, l’ammonimento al­l’uma­ni­tà colpevole di non capire coloro che davvero le vogliono bene. Tutte le sciocchezze del bolscevismo, del maoismo, del trotzkismo vengono in qualche modo riformulate, nel nome della salvezza del pianeta. Scrittori, giornalisti, politici, scienziati sono uno più abominevole del­l’al­tro ma rivendicano la propria estrema lucidità: sono gli unici a scorgere la verità; gli altri vegetano nelle tenebre da cui si sveglieranno un giorno, terrorizzati. Sono gli unici a essere usciti dalla caverna dell’ignoranza in cui il gregge del­l’uma­ni­tà procede a tentoni, sordo e cieco di fronte all’evidenza. Già nel 1979, il filosofo tedesco Hans Jonas, discepolo di Heidegger e guida intellettuale dei verdi, indicava in un libro davvero impressionante che « la festa industriale è finita » e che bisogna ripensare l’etica in direzione di una maggiore responsabilità nei confronti della natura.19 Di fronte al Pro Al Gore, intervista a L’Express, 6 ottobre 2006.   Hans Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Suhrkamp, Frankfurt

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meteo scatenato della tecnica che impone ordini di grandezza completamente nuovi, la natura non può più prendersi cura di sé e deve essere protetta come si protegge un bambino malato. In caso contrario, l’apocalisse sarà inevitabile. « Abbiamo le ore contate » ci avvertono due professori.20 Stiamo vivendo le nostre ultime ore. Il mensile La Décroissance affermava, ad esempio, nel settembre 2010: I nemici della vita non si trovano solo tra gli industriali, ma sono tutti quelli che non credono alla catastrofe.

Non bisogna dunque temere la catastrofe, ma crederci, come altri credono in Dio! Non è una questione di dimostrazione, ma di fede. Bisognerebbe fermare tutto, sospendere le attività umane come accadde nell’aprile del 2010 dopo l’eruzione di un vulcano islandese che bloccò l’intero traffico aereo nel Nord Europa, suscitando la gioia dei militanti ambientalisti, felici di vedere i grandi velivoli immobili sull’asfalto, gli aeroporti chiusi, gli uomini d’affari e i turisti puniti per le loro manie girovaghe, bloccati a migliaia di chilometri di distanza dai paesi d’origine. Le ceneri calde dell’esplosione suscitarono tristi sentimenti di rivincita e di pentimento. Non si tratta di minimizzare i pericoli che ci minacciano, ma di capire perché così tanti studiosi e grandi intellettuali, spinti dalle migliori intenzioni, finiscono per ragionare come le più trite sceneggiature hollywoodiane: L’alba del giorno dopo, Independence Day, 2012.

am Main, 1984 (trad. it. di Pier Paolo Portinaro: Il principio responsa­ bilità, Einaudi, Torino, 2002). 20  Dominique Bourg, Kerry Whiteside, Le Débat, marzo-aprile 2011, n. 164, p. 169. 32

L’auto: fine della libido? Nel 2008, in piena recessione finanziaria, in Europa e in America migliaia di carcasse nuove erano allineate sui parcheggi, sotto i capannoni, nella vana attesa di un acquirente. Niente a che vedere con i classici cimiteri d’auto, mucchi di lamiere ammaccate che arrugginivano nei campi, come la mitica scultura Cadillac Ranch sulla Route 66, negli Stati Uniti, monoliti di metallo piantati nella sabbia del deserto californiano. Quelli riflettevano la vitalità di un settore che lasciava dietro di sé i propri rifiuti a conferma dei propri trionfi. Oggi invece il disamore verso l’automobile è evidente, nonostante un mercato orientale in piena espansione: ovunque i grandi costruttori ridisegnano la produzione e si orientano verso veicoli ibridi o elettrici. È la crisi di un oggetto feticcio che è stato l’eroe del Ventesimo secolo e che si lascia alle spalle molti capolavori. L’automobile ha incarnato per lungo tempo il sogno dell’autonomia, la libertà di andare al proprio ritmo. Per un mondo immerso nella ruralità, chiuso nei confini del villaggio o della provincia, sembrava un miracolo. Guidare notti intere, partire al­l’im­prov­vi­so, correre verso l’ignoto, qui sta il fascino di questa casa mobile che incarna la nostra individualità. Un sogno crollato lentamente nella congestione urbana: se ogni cittadino possiede un veicolo, nessuno potrà più circolare e il bolide scattante torna alla lentezza del carro merovingio. L’automobile si trasforma sempre più nell’autoimmobilizzazione. Finché era riservata a una minoranza, era meravigliosa, ma nella confusione delle metropoli si trasforma in un incubo, gravata dai costi di assicurazione, parcheggio, multe, benzina. Cos’è un privi33

legio condiviso da tutti? Una maledizione! L’effetto demoltiplicatore della demografia elimina il diritto alla mobilità: quando tutti vogliono prendere l’aereo o il treno lo stesso giorno, finiscono per restare bloccati nelle stazioni e negli aeroporti sovraffollati, o per scoprire spiagge strapiene e locali gremiti. « La democrazia » come ha detto giustamente Roberto Calasso, « è l’accesso di tutti a beni che non esistono più. » Un tempo simbolo di affrancamento, la macchina è diventata nel giro di mezzo secolo il simbolo della pesantezza e dell’alienazione. L’addensamento generalizzato ha soppiantato l’ebbrezza dei grandi spazi. È finito il prestigio legato allo statuto aristocratico. Non si tratta di una dieta temporanea prima dell’orgia: è davvero la fine di un ciclo, almeno nei paesi sviluppati (in Giappone, i proprietari di macchine sono diminuiti della metà). Molte città francesi intendono mettere al bando le auto diesel e fuoristrada, grandi produttori di polveri sottili. L’ultima speranza delle case automobilistiche risiede, come è noto, nei paesi emergenti, luogo di tregua per tutte le nostre illusioni. Si continuerà a fabbricare automobili – 14 milioni al­ l’an­no solo in Cina quando tutte le città sono già sature, come in India – ma pulite, elettriche che si ricaricano su prese di corrente, sul modello delle decappottabili amate dalle star californiane. La condivisione delle auto si sta diffondendo. Saremo tutti « eco-cittadini responsabili » secondo la definizione in voga tra i verdi, prenderemo il bus, il tram, i veicoli a due ruote, smetteremo di finanziare, con la nostra ingordigia di oro nero, dittature e regimi tirannici. Ma cos’è una macchina se non è appariscente, inquinante, rumorosa? Un mezzo di circolazione, di lavoro, non un oggetto del desiderio. È finita l’ostentazione delle splendide cabriolet, capaci con 34

il loro lusso di schiacciare la marmaglia umana, finite le imprese degli amanti della velocità, che godevano delle accelerazioni mozzafiato e flirtavano con la morte a ogni curva. Finché la macchina era riservata a una casta, si accettavano, o addirittura si ammiravano, le spaventose mutilazioni che imponeva alla società, e l’incidente fatale sembrava il tributo indispensabile da pagare a una divinità. Ridotta a semplice servizio economico, l’auto perde, almeno in città, la sua gloria simbolica. A dispetto di un luogo comune assai diffuso, le distanze tra i vari punti del globo continuano ad aumentare: partire in treno, in aereo può trasformarsi in un ristagno di massa fin dai controlli di sicurezza. Basta uno sciopero, un incidente, una tempesta di neve per far prolungare il vostro viaggio di qualche ora o di vari giorni. I viaggiatori, sempre con i nervi a fior di pelle, sono stupefatti di arrivare sani e salvi e in tempo. Il funerale del Concorde fu un evento sintomatico: abbiamo raggiunto la velocità massima e, per ragioni economiche, non la supereremo più per molto tempo. Sul nostro pianeta, che amiamo definire minuscolo, lo spazio si allarga e i mezzi di trasporto ricreano le distanze che avrebbero dovuto abolire. Ma non si uccide una passione senza sostituirla con un’altra. Le nostre macchine luccicanti sono sostituite dai cellulari, dai computer che ci consentono di essere ovunque senza muoverci di casa, collegati a tutti senza essere con nessuno. Miracolo del mondo in miniatura: al posto dei mostri energivori, « oggetti ambulanti » multifunzioni, schermi piatti, l’intero universo in un unico strumento di qualche centinaio di grammi che potremo ben presto integrare al nostro corpo. La libertà si sposa con l’ubiquità. 35

II Abbiate il coraggio di avere paura

Non aver paura di aver paura, abbi il coraggio di aver paura. Abbi anche il coraggio di fare paura. Comunica ai tuoi vicini una paura pari alla tua. Günther Anders Thesen zum Atomzeitalter, 1959 Un piccolo disastro adesso ne eviterà uno più grande in futuro. Theodore Kaczynski detto Unabomber The Road to Revolution, 2008

In Austria, alla fine del xix secolo, un medico è chiamato in una locanda al capezzale di una giovane donna che sta partorendo. Il marito, un bruto avvinazzato, è appena stato nominato doganiere nella città vicina. Lei dà alla luce un esserino fragile, mingherlino, un maschio che chiama Adolfus: ha già perso tre figli in tenera età e teme che anche questo non sopravviva. Perfino il padre, quando entra nella stanza, è spaventato dal­l’a­spet­to gracile del neonato. Il medico gli ordina di mostrare un po’ di tenerezza verso la moglie e baciarla. Lei piange, prega Dio affinché il bimbo non muoia. Quando se ne va, il dottore posa una mano sulla spalla del marito. « Dovete dimenticare gli altri. Lui ce la farà. » Questa fiaba straordinaria di Roald Dahl1 pone 1

 Roald Dahl, « Genesis and Catastrophe: A True Story », Kiss 36

un problema capitale: si può prevenire il male colpendolo alla radice, prevedere il futuro con tale acutezza da impedire che avvenga?

1) La massima imputazione In ogni angolo del mondo e in qualsiasi ambito, tutti denunciano la retorica della paura, ma solo per sostituirla con un’altra paura. Ognuno vuole una paura tagliata su misura per i suoi pregiudizi ideologici. Con le parole di Giovanni Paolo ii, i cattolici proclamano: « Non abbiate paura », ma denunciano l’assenza di Dio nel mondo contemporaneo, il relativismo morale, causa di derive spaventose. La destra ridicolizza la paura assurda del mercato e della libera impresa, ma insiste sull’insicurezza urbana e sulla decadenza dei costumi. La sinistra non è da meno e sbeffeggia il ricatto a base di terrorismo e delinquenza (ai suoi occhi i fatti di cronaca sono semplici diversivi), ma essa stessa pone l’accento sui pericoli della globalizzazione, del riscaldamento globale. Le nostre paure sono tutte costruite; in un certo senso, scegliamo sempre la sciagura che vogliamo evitare. Dimmi ciò che dovrei temere per orientarmi nella vita. Abbiamo giustamente ridicolizzato la campagna lanciata nel 2009 contro il virus H1N1, meno virulento di quanto si pensasse, abbiamo sospettato che l’oms si fosse lasciata influenzare dalle case farmaceutiche, desiderose di smaltire i vaccini. Ma se l’influenza si fosse dimostrata letale, l’opinione pubblica avrebbe accusato il governo di negligenza e impreparazione. Kiss, Penguin, Harmondsworth, 1959 (trad. it. di Attilio Veraldi: « Genesi e catastrofe: una storia vera », Tutti i racconti, Longanesi, Milano, 2009). 37

La paura ha la capacità di mobilitare gli uomini, li spinge a superare le loro divisioni grazie a una repulsione collettiva, all’identificazione di un capro espiatorio che li unisce o li induce a consegnare il loro destino nelle mani di un terzo. Era il progetto di Thomas Hobbes nel Levia­ tano (1651): far nascere un nuovo ordine politico dall’impotenza umana, offrire agli individui la protezione dello Stato in cambio della rinuncia alla libertà personale. Poiché l’uomo è un lupo per l’uomo, può ottenere la tranquillità solo delegando i suoi poteri al sovrano, che gli assicura di salvaguardarli. La paura di morire diventa un sentimento ragionevole quando pone fine alla guerra di tutti contro tutti, sottomettendo i cittadini alla volontà di uno solo. Oggi, come ai tempi di Hobbes, l’ansia è elevata al rango di virtù politica, mentre l’entusiasmo è assimilato all’incoscienza. Un tempo, bisognava domare le proprie angosce; ormai, per quelli che « provano dolore per il pianeta » (Nicolas Hulot), bisogna coltivarle. Esperti di terrore si sforzano di distinguere per voi tra apprensioni legittime e fobie infantili. Un filosofo ha proposto addirittura di creare un’« università del disastro » (Paul Vi­ri­lio)2 in cui si studi, tra le altre cose, la comprensione dei limiti « per cui la Terra è troppo piccola e il mondo è oppresso ». Hans Jonas ha fatto dell’« euristica della paura » uno strumento di conoscenza e di chiaroveggenza, un mezzo per risparmiare alle generazioni future i pericoli insiti nella tecnologia.3 Timore e tremori sono diventati indispensabili perché non siamo in grado di prevedere il potenziale distruttivo dei nostri stessi strumenti. Ma c’è la grande tentazione di abusare di questa tendenza per sostituire al governo della ragione la dittatura del terrore. Lo stesso   Paul Virilio, L’Administration de la peur, Textuel, Paris, 2010.   Hans Jonas, op. cit.

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Hans Jonas, diffidente nei confronti della democrazia, profetizzava una « tirannia benevola » di persone illuminate, capaci di prendere in considerazione i problemi del­ l’am­biente. Negli Stati Uniti, all’indomani dell’11 settembre, abbiamo visto l’amministrazione Bush giustificare con la lotta al terrorismo ogni genere di violazione della legalità: repressione del dissenso, arresto arbitrario dei sospetti, alleanze con regimi lestofanti o corrotti per debellare Al-Qaida. Si profila così il rischio di uno smantellamento progressivo dello Stato di diritto come testimoniato dall’approvazione del Patriot Act (ottobre 2001), che assegna poteri esorbitanti alla polizia e alle agenzie di sicurezza: violazione della vita privata, uso d’intercettazioni telefoniche, corruzione delle istituzioni.4 Viene da chiedersi se AlQaida, in parte sconfitta militarmente, non abbia vinto almeno su un punto: danneggiare l’intero edificio dei diritti e delle libertà proprie dei sistemi parlamentari, costringendoli per proteggersi a rinnegare se stessi. Le procedure di sicurezza che dovrebbero tutelarci da un eventuale attentato trasformano ciascuno di noi in un potenziale sospetto. Vittime e carnefici sono accomunati in un’unica massa indistinta. Siamo perquisiti e sorvegliati per essere rassicurati. Esiste dunque il pericolo di distruggere la democrazia con la scusa di salvarla, di moltiplicare le categorie criminali, di mettere un intero paese sotto la sorveglianza della polizia. La cultura della paura è sempre stata lo strumento preferito delle dittature: le democrazie possono farne solo un uso limitato, se non vogliono correre il rischio di distruggersi. Aderire alla logica del proprio ne A questo proposito, Mireille Delmas-Marty, Libertés et sûreté dans un monde dangereux, Seuil, Paris, 2010, pp. 135-137. 4

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mico per sconfiggerlo meglio significa riprodurlo in casa per distruggerlo fuori. La religione apocalittica usa lo stesso procedimento: affligge, spaventa. L’assioma principale è che siamo tutti, volenti o nolenti, responsabili delle disgrazie del pianeta: Fino a poco tempo fa, gli effetti delle azioni degli uomini comuni riguardavano solo i loro vicini. Ma non è più così per il consumatore di oggi, che contribuisce, indirettamente (...), a produrre effetti a distanza (...). Molti agricoltori del delta del Nilo o del golfo del Bengala sono già stati costretti ad abbandonare le loro terre destinate da secoli all’agricoltura, poiché sono state salinizzate in seguito alla crescita del livello del mare dovuta al cambiamento climatico.5

Il semplice corso della vita quotidiana provoca ogni giorno danni spaventosi. Preoccuparsi del proprio egoistico benessere può uccidere come un omicidio premeditato. Mangiare, abitare, viaggiare ci rende assassini i cui atti più banali hanno ripercussioni incalcolabili. La distinzione tra uccidere intenzionalmente e uccidere per coltivare il proprio benessere di cittadino di un paese ricco, mentre altri muoiono di fame, è sempre meno giustificabile,6

scrive ancora Jean-Pierre Dupuy, un brillante discepolo di René Girard e Ivan Illich. Un’intera civiltà pronuncia una condanna senza appello contro se stessa e vuole invertire  Dominique Bourg, Kerry Whiteside, Vers une démocratie écolo­ gique, Seuil, Paris, 2010, pp. 12-13. 6   Jean-Pierre Dupuy, Pour un catastrophisme éclairé, Seuil, Paris, 2002, p. 154. 5

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l’ordine dei secoli, disfare, come Penelope, la tela che ha tessuto con tanta pazienza. Il pericolo viene da noi, gli occidentali opulenti, il cui modo di produzione, se esteso a tutti gli uomini, porterebbe la Terra alla catastrofe. Siamo nemici del genere umano, ma anche di noi stessi, poiché scaviamo la nostra tomba e quella dei nostri figli. Lo stile di vita occidentale non è morale.7

Siamo innocenti con le mani sporche di sangue o piuttosto colpevoli senza cattiveria, un po’ come, fatte le dovute proporzioni, i piloti che lanciarono le bombe su Hiroshima o Nagasaki: non erano mossi da nessuna animosità verso le popolazioni che stavano distruggendo.8 Ma la nostra passività nasconde a fatica un consenso assoluto. La routine della civiltà moderna (...), il semplice esercizio quotidiano del nostro potere (...) diventano un problema etico. (Hans Jonas)

Dobbiamo espiare peccati che non abbiamo scelto di commettere, a patto di prenderne atto. Come scriveva Joseph de Maistre, teorico francese della controrivoluzione 7   Vittorio Hösle, Philosophie der ökologischen Krise, Beck, München, 1991 (trad. it. di Paolo Scibelli: Filosofia della crisi ecologica, Einaudi, Torino, 1992). 8  Cfr. Günther Anders a proposito del fuoco nucleare: « Viviamo in un’epoca in cui c’è un eccesso di mani pulite: l’inflazione di uomini pieni di buona volontà è notevole. Moriremo affogati sotto un diluvio d’innocenza. Intorno al­l’uo­mo che premerà il pulsante e che muovendo un solo dito non insanguinato sarà in grado di innescare il disastro, si stenderà l’oceano di sangue di quelli che non avranno alimentato alcuna intenzione oscura e non si saranno nemmeno accorti di aver collaborato », op. cit., pp. 277-278.

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e sostenitore di una teodicea vendicativa: « Non c’è nessun giusto sulla Terra! »9 La bravura in questo campo sta nell’invertire l’onere della prova. Anziché chiedere, ad esempio, ai climatologi di dimostrare che effettivamente è in corso un mutamento climatico, esigiamo dai climascettici che ci dimostrino che il disastro non si produrrà. Lo scetticismo che finora era considerato indice di saggezza è diventato sintomo di cecità. Come non pensare al sofisma usato da Bush nel marzo del 2003, alla vigilia della seconda guerra del Golfo? Interrogato dai giornalisti che volevano sapere se le armi di distruzione di massa imputate a Saddam Hussein erano un fatto accertato, rispose con una formula degna dei migliori retori: « L’assenza di prove non è la prova dell’assenza ». Jean-Pierre Dupuy fa di meglio, in scala minore: l’apparente sicurezza di un prodotto, nel campo dell’innovazione tecnologica e commerciale, dipende dal fatto che non si è ancora riusciti a dimostrarne la nocività. Spetta quindi all’innovatore dimostrare che il suo prodotto non è nocivo, poiché l’assenza di prove della sua nocività non basta a confermarlo.10

Poiché soltanto l’uso dimostra se un oggetto è utile o dannoso, il solo modo per andare sul sicuro è non servirsene mai, sterilizzare ogni invenzione. L’eventuale pericolo viene così trasformato in certezza. Nel caso dell’Iraq, il sospetto che, se non si fosse intervenuti subito, potessero prodursi eventi tremendi, riconsegnava gli scettici alla loro superficialità. La paura dà al proprio oggetto una con Citato in Antoine Compagnon, Les Antimodernes, Bibliothèque des idées, nrf Gallimard, Paris, 2005, p. 95. 10   Jean-Pierre Dupuy, op. cit., p. 91. 9

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sistenza più evidente della realtà stessa: pensiamo a quelli che affogando vengono presi dal panico e annegano il loro soccorritore o a quelli che si gettano nel vuoto per paura di cadere. « La paura è assurda » diceva Kant, « teme anche colui da cui si attende un aiuto. »

2) L’addestramento al panico Il fenomeno delle profezie che si autoavverano: la stampa si stupisce di ritrovare nei giovani l’ossessione per il riscaldamento globale che i giornali stessi instillano in loro di continuo. Come in una galleria di specchi, i sondaggi riflettono un’opinione creata dai media. L’angoscia è inoculata tramite la ripetizione degli stessi argomenti e si trasforma in un narcotico di cui non si può più fare a meno. Per risvegliare gli animi, si pratica spudoratamente l’iperbole, la reductio ad Hitlerum, come nel caso di Michel Rocard che paragona la nostra passività di fronte ai cambiamenti climatici niente meno che a un « crimine contro l’umanità »!11 Il vocabolario della shoah si mescola così alla meteorologia. Noël Mamère, deputato francese dei verdi, può definire quindi Claude Allègre un « negazionista del clima », alludendo a chi nega il genocidio ebraico e armeno. Rajendra Pachauri, economista e presidente del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico  Michel Rocard, 24 marzo 2010, France Inter: « Non permetteremo che il nostro pianeta si trasformi lentamente in una friggitrice in cui diventerà impossibile vivere. Certo, c’è tempo. Sarà tra dieci o dodici generazioni, ma sarà talmente difficile da evitare che è meglio cominciare presto, per prudenza. Tra una decina d’anni, per quelli che avranno cominciato in ritardo a combattere contro il clima, si parlerà di crimine contro l’umanità ». Citato da Franck Nouchi, Le Monde, 6 marzo 2010. 11

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(ipcc), ha paragonato lo statistico Bjorn Lomborg, un ecoscettico, a Adolf Hitler. Il climatologo americano della nasa, James Hansen, ha accusato nel 2007 di « crimine contro l’umanità e la natura » le compagnie petrolifere che tentavano di minimizzare l’impatto delle loro attività sul clima e ha paragonato i treni che trasportano il carbone americano ai treni della morte della Seconda guerra mondiale! Ellen Goodman, editorialista del Boston Globe, scrive nel 2008: Chi nega il riscaldamento globale deve essere messo sullo stesso piano di chi nega l’Olocausto.

Il primo premio va al presidente boliviano, Evo Morales, che nel dicembre 2010 dichiara alla Conferenza di Can­ cún: Se gettiamo nella spazzatura il protocollo di Kyoto, saremo responsabili di un economicidio, di un ecocidio, di un genocidio, poiché si tratterebbe di un affronto all’intera uma­nità.

O meglio ancora, mettiamo da parte il condizionale e parliamo la lingua del futuro al presente, scartando così la possibilità di un eventuale miglioramento della situazione. Come i bagnanti in Thailandia che hanno visto solo all’ultimo l’onda gigantesca che si abbatteva su di loro, non sembriamo accorgerci delle centinaia di milioni di sventurati che, in un futuro vicino, scacciati di casa per colpa della siccità, dell’innalzamento del livello del mare, degli uragani o delle tempeste, cercheranno asilo da noi per fuggire da regimi oppressivi, ma anche da territori che avremo saccheggiato senza neanche conoscerli, per semplice noncuranza (...). Oggi l’azione politica deve essere 44

pensata non più nella prospettiva della rivoluzione da compiere, ma della catastrofe da respingere, sempre che siamo ancora in tempo.12

E di nuovo Al Gore: L’umanità è seduta su una bomba a orologeria. Gli scienziati di tutto il mondo concordano nel dire che ci restano solo dieci anni per evitare una catastrofe planetaria, un grave squilibrio del sistema climatico che provocherebbe fenomeni meteorologici estremi, inondazioni, lunghe siccità, ondate di calore letali. Di questa catastrofe senza precedenti noi saremmo i primi responsabili, solo noi possiamo ancora evitarla.13

La figura immancabile in qualsiasi discorso catastrofista è la correzione retroattiva, ben nota a predicatori e propagandisti, che procede per accumulo di notizie spaventose, temperate sul finale da un sottile raggio di speranza. Una volta abbattuta ogni resistenza offre un’uscita di sicurezza ai cittadini sbalorditi. Sebbene Al Gore, da buon americano, non voglia cedere al disfattismo, l’enormità del messaggio che trasmette non può che indurre alla desolazione. Tutti i discorsi catastrofisti soffrono di una doppia contraddizione: se la situazione è così grave come si intende far credere, a cosa serve ribellarsi? Perché non poltrire   Jean-Pierre Dupuy, Le Débat, « De quoi l’avenir intellectuel sera-t-il fait?», 2010, p. 228. Questa visione da incubo è infondata. Come spiega Cecilia Tacoli dell’Istituto internazionale per l’ambiente e lo sviluppo di Londra: « Non c’è nessuna ragione di credere che il danno ambientale condurrà a vasti flussi di migranti internazionali. Non bisogna vedere i migranti come vittime, la migrazione è piuttosto una strategia razionale di sviluppo economico e adattamento ai cambiamenti climatici ». Citato in Le Monde, 8 febbraio 2011. 13  Trailer francese del film Una scomoda verità, 2006. 12

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in attesa del disastro? Ma soprattutto le soluzioni proposte sono risibili rispetto ai rischi. In generale, un’informazione ha valore solo se spinge a un’azione concreta: spiegarci, ad esempio, che « gli oceani sarebbero sul­l’or­lo di una crisi biologica mai vista negli ultimi 55 milioni di anni »,14 che gli ecosistemi marini crolleranno entro il 2050, significa volerci sbalordire. La notizia esclude qualsiasi tipo di reazione che non sia lo sconforto o la passività. Ma dopo un messaggio iniziale così grave, si limita a proporci delle « raccomandazioni ». Prendete le soluzioni proposte dall’ex vicepresidente, come dalla maggior parte degli ecologisti, per ridurre le emissioni di CO2: usare lampadine a basso consumo, lasciare l’auto in garage, controllare gli pneumatici, riciclare i rifiuti, non accettare imballaggi ingombranti, regolare i termostati, piantare un albero, spegnere gli elettrodomestici (lettore dvd, stereo, computer). Tutto questo per cosa? Diagnosi abnorme, rimedi ri­ dicoli. Da bravi boy scout, i verdi ci inondano di consigli di economia domestica degni delle nostre nonne. Essendo privi di qualsiasi potere nei confronti del pianeta, barattiamo la nostra impotenza con una serie di piccoli gesti propiziatori, come salire le scale a piedi, diventare vegetariani, andare in bicicletta, che ci danno l’illusione di agire. Intendiamoci: non si evita una calamità cosmica mangiando verdura o facendo la raccolta differenziata dei rifiuti. Prima ci spiegano che il potere della tecnologia ci impedisce ormai di prevedere le conseguenze delle nostre azioni; poi ci implorano di « rinunciare alle auto di grossa cilindrata, modificare la nostra dieta a base di carne, limitare gli spostamenti in aereo », in pratica di « consumare meno beni materiali ».15 Come possiamo essere certi che  Stéphane Foucart, Le Monde, 24 giugno 2011.  Dominique Bourg, Kerry Whiteside, op. cit., p. 15.

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questi sacrifici avranno un effetto positivo, visto che non non siamo in grado di valutare nemmeno le conseguenze delle nostre azioni più banali? È questa l’aporia in cui cade il neoascetismo verde: dà un’importanza eccessiva ai comportamenti quotidiani che contraddice il suo appello all’umiltà. Sovrastima il potere del­l’uo­mo definito un tempo « come padrone e possessore della natura » da Descartes, « come distruttore e riparatore del mondo » dai nostri contemporanei! Per guarire il nostro caro vecchio pianeta basterebbe quindi diventare tutti pedoni? Che presunzione! Almeno su questo punto, i sostenitori della decrescita sono razionali nel volere un rallentamento globale delle attività umane e un ritorno ai secoli passati. Il catastrofismo, invece, prima ci terrorizza, poi ci mette il cuore in pace con piccoli gesti rituali degni di un animismo post­ tec­no­logico.

3) Il dolce spettacolo del terrore Prima di essere uno strumento di manipolazione politica, la paura è un singolare motore estetico. Il genio umano ha saputo fare di questo sentimento così vile una grande fonte di piacere. È importante essere iniziati fin dall’infanzia alla realtà del male, ascoltare racconti di rapimenti, torture, prigioni, in modo da imparare come un essere privo di tutto possa sfuggire ai suoi aguzzini. Il debole contro il forte, l’innocente contro il cattivo, ecco quello che tutte le storie mettono in scena. Mantenendoci a distanza dal­l’or­ ro­re grazie alla finzione, ne usciamo purificati, rigenerati. Come ha spiegato Bruno Bettelheim a proposito delle fiabe, i racconti di streghe, orchi, mele avvelenate rispondono alle ansie dei bambini e li informano sulle prove che dovranno affrontare, offrendo loro una soluzione elegante 47

che li condurrà alla maturità.16 È la famosa analisi dello psicoanalista austroamericano dei tre porcellini che vogliono sfuggire al lupo cattivo: il primo costruisce una casa di paglia che il lupo distrugge soffiandoci sopra; il secondo costruisce una casa di legno che il lupo tira giù con una zampata. Allora i due fratelli si rifugiano dal terzo porcellino, che ha costruito una casa di mattoni abbastanza solida da resistere a tutti gli assalti del lupo. Quando il predatore cerca di entrare attraverso il caminetto, i porcellini mettono sul fuoco una pentola d’acqua bollente che lo ustiona. La morale della storia, secondo Bettelheim, è che i primi due porcellini hanno agito secondo il principio del piacere, sforzandosi il meno possibile, mentre il terzo ha applicato il principio di realtà e si è salvato, mettendo in campo coraggio e ragionevolezza per vincere il suo rivale. Il bambino che ascolta questa storia impara come orientarsi nella vita e come risolvere i problemi complessi. La stessa cosa si può dire per altri due generi minori, il cinema dell’orrore e i film catastrofici, che hanno anch’essi un’ambizione catartica: purificarci dalle nostre paure inducendoci a concentrarci su un pericolo preciso. Tremare per un paio d’ore davanti a orde di zombi, a un grattacielo in fiamme o a un incidente aereo aiuta a liberarsi temporaneamente del proprio malessere attraverso la percezione di un male circoscritto. Smettiamo di soffrire per un timore indefinito dedicandoci a uno ben preciso. L’an Non posso fare a meno di evocare in proposito la vita del matematico britannico Alan Turing (1912-1954), fondatore della scienza informatica, geniale decodificatore della macchina Enigma utilizzata dai nazisti. Perseguitato dopo la guerra a causa della sua omosessualità, decise di suicidarsi mangiando una mela imbevuta di cianuro. Secondo i suoi biografi, si ispirò alla strega di Biancaneve e i sette nani, che crea la mela avvelenata immergendola nel calderone, un metodo da lui particolarmente apprezzato (fonte Wikipedia). 16

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goscia priva di un oggetto, essendo paura di esistere, deve stemperarsi nelle finzioni che la incarnano. Chi è terrorizzato non ha più paura, essendo completamente posseduto dal terrore. Per una o due ore, nelle sale buie dei cinema, lo spettacolo confonde i punti di riferimento, colma la realtà di fantasia, calma le menti in preda ai demoni. È il grande paradosso della paura che rassicura e ci purifica dal nostro malessere. Anche i romanzi gotici o fantastici, tanto di moda nei secoli scorsi, procuravano il doppio piacere della mostruosità e della ricompensa.17 È la stessa funzione che ha Halloween, un’usanza di origine irlandese, negli Stati Uniti: fissare la paura in date precise e nelle forme pagane di bambini travestiti da fantasmi, scheletri che invadono le strade e le case, chiedendo caramelle. Sullo sfondo idilliaco di un lago tra i monti, di un picnic in campagna, di un’allegra cittadina, il male colpisce con la rapidità del fulmine, scatenando l’inferno. Coppie teneramente abbracciate, famiglie felici e sorridenti vengono massacrate, tagliate con la motosega, appese a ganci da macelleria da uno psicopatico, da un gruppo di maniaci. Tutto avviene in uno o due giorni, con una serie di shock visivi, di effetti fulminanti. Il peggio deve ancora arrivare e, quando si pensa di aver toccato il fondo, emerge una nuova atrocità da pelle d’oca. Con il proseguire della storia siamo sempre più disorientati da una serie di pugni allo stomaco che ci lasciano ko. Il fatto terrificante è l’infezione dello spazio e del tempo, la progressiva corruzio Sulla fortuna dei resoconti di naufragi nell’epopea nazionale olandese, paese da sempre sotto la minaccia delle acque e della rottura delle dighe, si veda Simon Schama, The Embarrassment of Riches, Collins, London, 1987 (trad. it. di Valeria Sperti: Il disagio dell’abbon­ danza, Mondadori, Milano, 1993): « Gli editori olandesi furono i primi imprenditori della calamità da salotto ». 17

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ne della vita quotidiana da parte di una cancrena che la consuma. I grandi registi sono abili nella costruzione del­ l’in­quie­tu­di­ne che corrode lentamente lo spazio e il tempo. I gesti più ordinari – dormire, alzarsi, mangiare, fare la doccia (basta ripensare alla scena clou della coltellata in Psyco e della tenda strappata) – sono gravidi di pericoli. In questo senso, la paranoia, passione politica pericolosa, è un perfetto motore da fiction: evoca forze in agguato nella vita quotidiana, intensifica la routine quotidiana innalzandola a livello di complotto. Lo stato d’emergenza diventa la norma. Veniamo collocati nell’universo delle decisioni irrevocabili, delle scelte tra la vita e la morte. Bisogna muoversi subito per evitare di morire. Il discorso apocalittico non è altro che il trasferimento alla sfera politica delle regole del cinema horror. Ecco perché, nonostante il loro apparente ottimismo, gli Stati Uniti, ossessionati dal­l’im­ ma­gi­na­rio della cospirazione, hanno creato anche tutti i classici dell’orrore e rimangono uno dei massimi laboratori narrativi in questo settore. Il film funziona come una sorta di setaccio, che deve colpirci e proteggerci allo stesso tempo. Kant e Edmund Burke definivano il sublime come lo spettacolo orrendo di cui godiamo poiché è distante da noi: un misto di terrore e di estasi in cui siamo posti di fronte a una visione che ci oltrepassa e ci eleva. Solo a partire dal xvii secolo, le montagne, in particolare le orribili protuberanze delle Alpi, sono diventate spettacoli estetici degni di colpire la sensibilità.18 Ciò che era mostruoso ieri può diventare meraviglioso oggi. Il compito della forma cinematografica sarà  Si veda Keith Thomas, Man and the Natural World, Allen Lane, London, 1983 (trad. it. di Elda Negri Monateri: L’uomo e la natura. Dallo sfruttamento all’estetica dell’ambiente, 1500-1800, Einaudi, Torino, 1994). 18

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quindi quello di operare una selezione. Il terrore è delizioso quando ci urta senza toccarci. Un buon film ci lascia sollevati se riesce a dare consistenza al nostro turbamento e a dissipare le inquietudini dell’anima. La distanza consente la catarsi. I capelli si rizzano in testa mentre, dopo un atterraggio d’emergenza o una strage, seguiamo, ansimanti, l’epopea dei sopravvissuti. E io, cosa avrei fatto nella loro situazione? Sono molti gli sfortunati che al cinema o nei romanzi agonizzano sotto i nostri occhi, rendendoci ancora più felici di non essere noi a morire. Uno storico racconta che nel xviii secolo i gentlemen inglesi andavano pazzi per le esecuzioni capitali, in cui vedevano un’occasione per provare emozioni forti.19 L’appetito per i gialli e i thriller nelle società democratiche è inversamente proporzionale alla nostra propensione per il crimine. Più un popolo diventa civile e frena i propri impulsi omicidi, più apprezza le storie atroci. A modo suo, il genere catastrofico, con le sue città sventrate e i grattacieli rasi al suolo, è anch’esso un’utopia livellatrice, in cui ricchi e poveri sono massacrati senza distinzione, e al tempo stesso una lezione di umiltà, come lo erano le vanità dell’Ancien Régime, i teschi sghignazzanti che ricordavano al bel mondo la caducità dell’esistenza. Gli edifici più imponenti, gli imperi più vasti sono destinati alla rovina. Guai a coloro che lo scordano! Bisogna sentirsi al sicuro per apprezzare lo spettacolo della furia degli elementi, una grande tempesta, un tornado, fenomeni proporzionali alla nostra irrilevanza. Il cinema ci offre il brivido del pericolo senza il pericolo. Rannicchiati nella nostra poltrona, gustiamo il terrore senza le   Jean Starobinski, L’Invention de la liberté, riedizione, Gallimard, Paris, 2006, pp. 68-69 (trad. it. di Manuela Busino Maschietto: L’invenzione della libertà, Abscondita, Milano, 2008). 19

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conseguenze che subiremmo se davvero lo dovessimo affrontare (vengono in mente quei gestori burloni che in alcune sale specializzate in cinema fantastico avevano installato mani meccaniche che si posavano sulle spalle o sul collo degli spettatori nei momenti cruciali). Sfioriamo il peggio e l’unico rischio che corriamo è l’acquisto di un biglietto. Ma quando affrontiamo di persona una situazione pericolosa, è tutta un’altra storia. Esistono, come noto, i « cacciatori di tornado », pecore nere a cui piace trovarsi nell’occhio del ciclone, dove tutto è calmo, mentre intorno impazza la furia degli elementi. Chiunque abbia fatto un po’ di alpinismo sa come la paura aumenti la carica emotiva di un’ascensione. Affrontare le cime, i muri di ghiaccio, i crinali insidiosi è come vincere ciò che ci abbatte. Conoscere « la sensazione frizzante, nauseante, leggermente erotica del vero terrore », per usare le parole dell’alpinista inglese Robert Macfarlane, resistere alle vertigini, ai dolori, ai geloni è come operare una trasmutazione dentro di sé. Senza il rischio estremo, senza la paura di scomparire seppelliti o schiacciati, non c’è gusto. « Dopo aver rischiato di morire, ci si sente più vivi che mai. »20 Moralità ambigua: ci compiacciamo di veder morire personaggi di fantasia, ma proviamo sollievo constatando la loro capacità di trovare una soluzione nelle situazioni peggiori. Il film dell’orrore, come il film catastrofico, è un genere di confine: non solo si trova all’incrocio tra il mondo quotidiano e quello soprannaturale, ma conduce gli uomini comuni ai loro limiti estremi, facendone prede impotenti o eroi riluttanti. Come nell’adattamento del ro Robert Macfarlane, Mountains of the Mind, Granta Books, New York, Pantheon Books, London, 2003 (trad. it. di Paola Mazzarelli: Come le montagne conquistarono gli uomini, Mondadori, Milano, 2005). 20

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manzo di Cormac McCarthy, La strada,21 dove un padre e un figlio, nell’America devastata dall’inverno nucleare, fuggono verso l’oceano, inseguiti da bande di cannibali. In qualunque istante la morte può colpire, ogni vagabondo in cui i protagonisti si imbattono è un potenziale assassino. Questi individui ordinari, alle prese con l’eccezionale, devono trovare in se stessi risorse a loro volta eccezionali. Raccontare un incidente, un’aggressione alla quale siamo sopravvissuti è come raccontare un miracolo, quello della nostra sopravvivenza. Bisogna esorcizzare il pericolo appena superato con le parole.

4) Il ritorno della Parca Non sorprende che l’apogeo del film dell’orrore coincida con l’emergere della questione ecologica negli ultimi tren­ t’an­ni. Entrambi mostrano un’ossessione per la morte violenta in un mondo che dai tempi della guerra la nascondeva. Nell’uccisione di massa, come nel cataclisma naturale, chiunque può trasformarsi in vittima. L’azione si svolge spesso in un luogo che in passato è stato teatro di un crimine non vendicato: in tal caso la punizione ricade sui lontani discendenti dell’assassino o su persone innocenti, colpevoli solo di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Allo stesso modo, i nostri figli pagheranno per la tremenda noncuranza con cui abbiamo affrontato i mali della tecnologia. I film di zombi ci dicono in particolare che i morti devono essere sempre eliminati una seconda volta, per poter essere certi della loro definitiva sepoltura, suggerendo così che anche i vivi siano già morti senza sa Un film di John Hillcoat con Viggo Mortensen, tratto da un bel romanzo di Cormac McCarthy, 2009. 21

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perlo, mentre i morti sono più vivi di loro. Philippe Ariès ci ricorda che uno degli scopi dei funerali, fin dai tempi della Roma antica, « era impedire che i defunti ritornassero a disturbare i vivi ».22 Bisognava placare il loro rancore, la loro rabbia per essere morti prima degli altri. Per questo la maggior parte dei cimiteri si trovava fuori dalle mura, usanza che scomparirà al­l’ini­zio della cristianità, quando i defunti entreranno nelle città e troveranno posto vicino alle chiese, accanto alle ossa dei santi martiri. A partire dal Rinascimento, in Europa si sviluppa un’arte macabra con connotazioni erotiche, scene d’amore nelle tombe, cadaveri ancora dotati degli organi genitali, come il cavaliere dell’Apocalisse di Dürer, e capaci di violentare giovani mortali: ci si compiace di fronte allo spettacolo di monumenti funebri o degli scorticati vivi nei corsi di anatomia.23 Nel xviii secolo, la dissezione diventa un’arte per appassionati che collezionano nei loro studi cadaveri con vene e muscoli. Il tema dei morti che producono suoni strani, divorano i sudari, aprono le tombe e seminano il terrore nelle campagne, diffondendo spesso epidemie di peste, compare nel xvi secolo. Dopo che in Occidente, a partire dal 1945, la morte è diventata la pornografia estrema – il sesso non è più osceno, è esposto e mostrato nei media e sui manifesti – il tema dei morti viventi che escono dalla terra per sopraffarci è ricomparso nella cultura popolare, soprattutto dopo il film cult di George Romero.24 Scacciata dai di  Philippe Ariès, Essais sur l’histoire de la mort en Occident, du Moyen Âge à nos jours, Points Seuil, Paris, 1975, p. 25, edizione tascabile (trad. it. di Simona Vigezzi: Storia della morte in Occidente: dal Medioevo ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 1989). 23   Ivi, pp. 105 ssg. 24  George Romero, La notte dei morti viventi, 1968. 22

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scorsi, ridotta a eufemismo – nel linguaggio politicamente corretto per dire che una persona è scomparsa si usa l’espressione « definitivamente impossibilitata » –, confinata alle stanze degli ospedali, la morte ritorna come sintomo nei generi minori e nel catastrofismo. Strana coincidenza: sotto il fuoco nucleare, ci dice il filosofo Günther Anders, siamo « tutti senza eccezione e senza differenza condannati a morte e rappresentiamo un’unica massa di vittime ».25 Nel cinema dell’orrore, i morti hanno un guizzo di vita che li spinge a risalire in superficie, orrendi e barcollanti, per divorarci. Il semplice fatto di venire dopo ottanta miliardi di esseri umani fa di noi dei colpevoli, che emergono sopra mucchi di cadaveri. Cambiamo scala: alla mortalità dell’individuo si aggiunge oggi, grazie all’arma atomica, la mortalità della specie umana in se stessa. La bomba nucleare rappresenta a livello collettivo il destino attribuito a ciascuno di noi: la certezza dell’annientamento possibile in ogni istante. La precarietà medievale si è estesa al mondo intero. Viviamo più a lungo, ma il genere umano potrebbe essere annientato in un istante. Che cos’è un morto vivente? Un essere distratto che ha sbagliato giorno e ritorna prima della data prestabilita, imitando la Risurrezione promessa alla fine dei tempi: bisogna ucciderlo di nuovo perché riposi in pace. Come si nasce almeno due volte, prima nella vita e poi in se stessi, così si muore sempre due volte, una prima volta per arresto delle funzioni vitali, una seconda quando, superato il lutto, si è collocati nella grande schiera dei morti. Non moriamo mai il giorno esatto della nostra morte: o prima o dopo. Ci vuole un po’ di tempo prima che i parenti si  Günther Anders, op. cit.

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rendano conto che il defunto non c’è più, che se n’è andato per sempre. Niente di più triste per un artista, ad esempio, che sopravvivere alla propria fama quando tutti lo credevano scomparso da anni. Nei primi film di zombi, il passo zoppicante e grottesco dei cadaveri dava l’illusione di potergli sfuggire. L’unica innovazione dei registi più recenti, forse sintomo di un aumento dell’angoscia, è avere accordato ai morti di ritorno il dono della velocità. Queste carogne scattanti, a volte risvegliate da un virus, in cui si può riconoscere un parente, un padre, un vicino, una ragazza con la carne già rosicchiata dai vermi, sono in grado di correre come noi. Cadaveri instancabili, che mangiano di tutto, anche gli animali, e contaminano già al primo morso. La morte ci raggiunge sempre, attende paziente la sua ora poiché la portiamo dentro di noi, nell’aria che respiriamo, nei tessuti che ci compongono, nei battiti del nostro cuore.

5) I limiti del Grand Guignol Fin dai tempi della guerra fredda, gli strateghi militari, come Herman Kahn, elaborano scenari di guerra nucleare per « pensare l’impensabile » e prepararsi a un’eventuale deflagrazione.26 Oggi, il Pentagono si rivolge agli esperti di effetti speciali per limitare le perdite di soldati sul campo di battaglia, ma anche a scrittori incaricati di mettere in scena possibili incidenti. Hollywood aveva immaginato, con parecchi anni d’anticipo, gli attentati dell’11 settembre. Una catastrofe è una sceneggiatura che si realizza. Siamo abituati a frugare nella nostra memoria cinemato Si veda Andrew Lakoff, Esprit, marzo-aprile 2008, p. 106.

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grafica per riconoscere un nuovo evento che abbiamo l’impressione di aver già vissuto. Forse il futuro è scritto in un libro che non abbiamo letto, in un b-movie che abbiamo guardato distrattamente e che un giorno, dopo il dramma, verrà riscoperto. Per i responsabili della sicurezza nucleare, civile, industriale simulare il peggiore scenario possibile è un modo per riconoscere i rischi e neutralizzarli. Bisogna sempre essere in anticipo sull’incidente. La stessa simulazione fatta dai catastrofisti, invece, ha il solo scopo di paralizzarci. Non ci salveremo: la tragedia ci schiaccerà! L’ambientalismo catastrofista riflette il trionfo del senso di colpa: i figli devono pagare per le colpe dei padri, il progresso, lo sviluppo e il consumismo. E crea un universo saturo di crimini, lutti, dolore: la profanazione della natura merita una punizione implacabile. Ma come ogni forma di narrazione, anche il catastrofismo deve sottostare a un’esigenza di equilibrio che ne garantisce la forza persuasiva. Anche i generi cinematografici, quando oltrepassano la misura, degenerano: il film dell’orrore diventa gore quando supera un certo livello d’ignominia,27 il film poliziesco cade nel ridicolo quando accumula omicidi e mutilazioni, il film porno risulta noioso quando moltiplica le acrobazie genitali o ginecologiche. Le immagini esagerate disinnescano il loro potere esplosivo. L’apatia nasce dal­ l’ec­ces­so: di emoglobina, di violenza, d’accoppiamento meccanico, e l’emozione agonizza, uccisa dall’intemperanza. Anziché tremare, sbadigliamo o ridiamo: l’assuefazione all’oltraggio trionfa sulle scene più truculente. Anche il discorso politico si esaurisce quando eccede in pro Mi riferisco qui all’eccellente album illustrato di Marc Godin, Gore, autopsie d’un cinéma, Editions du Collectionneur, Paris, 1994. 27

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messe esagerate. A volte nelle affermazioni più sensazionali scivola un pizzico di umorismo involontario: Quando gli oceani si saranno riscaldati, non potremo più raffreddarli.28

Splendida immagine – degna di Bouvard e Pécuchet – che funziona nei due sensi. Vien voglia di rispondere: ma sì, basta metterci qualche cubetto di ghiaccio! Se il profetismo a tinte fosche spesso non risulta convincente, è perché disinnesca le proprie predizioni con il massimalismo. La matrice di ogni discorso ambientalista è il racconto della « caduta » nella Genesi: in origine c’era il paradiso terrestre, dove gli uomini hanno assaggiato il frutto del­l’al­ be­ro della conoscenza. Dio li ha cacciati. Proprio nel momento in cui nega le proprie radici cristiane, l’Europa le rivela in ogni minimo riferimento: oggi più che mai noi pensiamo alla luce della Bibbia, il cui lessico e la cui struttura nutrono ancora la nostra vita quotidiana. Ciascuno daterà a suo piacimento la dannazione. Per Rousseau, la disgrazia comincia con l’invenzione della metallurgia e dell’agricoltura, ossia della proprietà privata che vide « ben presto germogliare e crescere insieme alle messi la schiavitù e la miseria ».29 Per altri, la disgrazia è il mondo moderno (René Guénon), « una mostruosità (...) una civiltà costruita su qualcosa di negativo, su ciò che potremmo definire un’assenza di principio »;30 per altri ancora, è l’Il Michel Rocard, Dominique Bourg, Floran Augagneur, « Le genre humain menacé », Le Monde, 3 aprile 2011. 29   Discours sur l’origine de l’inégalite (trad. it. di Diego Giordano: Discorso sull’origine della disuguaglianza, Bompiani, Milano, 2012, p. 193). 30  René Guénon, La Crise du monde moderne, Gallimard, collection Idées, Paris, 1974, pp. 90-91. 28

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luminismo, la rivoluzione industriale, il macchinismo, il tec­no­scien­ti­smo,31 o la manipolazione dell’atomo, del dna, « due confini che l’uomo non avrebbe dovuto superare » (Ewing Chargas). Al limite, si potrebbe dire che la catastrofe si è già verificata, a partire dal momento in cui l’uomo primitivo ha inventato il suo primo utensile e si è allontanato dal­l’es­se­re. L’intera storia non è che il racconto di un crollo, da quando l’umanità ha abbandonato il giardino del­l’Eden. Oggi, gli uomini si ritrovano nell’inferno dello sviluppo da cui devono uscire per non correre il rischio di disintegrare il pianeta. Foreste disboscate, montagne sventrate, animali decimati, oceani inquinati, megalopoli invivibili: la nostra epoca è l’apice del fallimento, il naufragio è inevitabile. Non agire significherebbe essere complici, commettere un crimine. Bisogna svegliarsi prima che sia troppo tardi, « possiamo ancora trasformare la minaccia in promessa desiderabile e credibile ».32 Ma questa tensione eccessiva ci terrorizza senza coinvolgerci. L’esibizione di questo spettacolo orrendo, la litania delle statistiche ripetute all’infinito finisce per procurare assuefazione. È il rischio di questo genere di retorica che degenera in lamento inconsistente. Vorrebbero allarmarci, ma riescono solo a disarmarci. C’è una certa ironia nel vedere i più accaniti propagato  Per Jacques Grinevald, filosofo ed epistemologo, il « peccato originale » deve essere ricercato nel mondo dell’ingegnere, nell’invenzione della termodinamica. L’ingegnere è colpevole di aver inventato le ruote idrauliche, le centrali termiche e le turbine! (Le Monde Maga­ zine, 2, 1° gennaio 2011.) 32  Michel Rocard, Dominique Bourg, Floran Augagneur, Le Mon­ de, op. cit. La frase in sé è strana: come si può trasformare una minaccia in promessa desiderabile? Si esclude una minaccia, ma non la si trasforma! 31

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ri di codardia deplorare la nostra apatia, mentre è proprio quello che cercano di produrre: L’imperativo di proteggere l’ambiente non è più eludibile, a meno che non si voglia correre incontro alla catastrofe. Eppure in quest’ambito regna un sorprendente attendismo. Si dedica una semplice attenzione di cortesia a questioni cruciali; si rinviano riforme da cui dipende il futuro del­l’uma­ni­tà (...): è il paradosso in cui ci troviamo oggi: gli avvertimenti degli scienziati sul pericolo e l’urgenza della situazione ci lasciano indifferenti.33

Questa pioggia di brutte notizie vuole solo demoralizzarci per metterci in riga, come scolaretti, con rabbiosa sollecitudine. Vuole opprimerci e privarci di ogni capacità di agire. Concedere alla paura il ruolo di guida razionale presuppone che il pericolo sia visibile e il vantaggio evidente: solo questo distingue il legittimo allarme dall’allarmismo delirante. Il primo nasce da un pericolo immediato che possiamo respingere con un’azione collettiva o individuale. Battersi contro un laboratorio che non ritira dal mercato un medicinale pericoloso, contro uno stabilimento chimico che avvelena un’intera regione non equivale a immaginare di essere responsabili del destino del­l’uma­ni­tà nei secoli dei secoli. Nel primo caso, dipende da noi evitare una disgrazia, nel secondo siamo di fronte a scadenze incommensurabili. Una democrazia è tanto più viva quanto più dispone di « sentinelle sacrificali », individui, associazioni, grandi menti che scovano i segreti vergognosi, i lavori loschi dei potenti e denunciano gli scandali. La cronaca contemporanea è piena di questo genere di storie in  Dominique Bourg, Kerry Whiteside, Vers une démocratie écolo­ gique, cit., p. 9. 33

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cui ricercatori o giornalisti hanno rischiato la loro reputazione e perfino la loro vita per un’ostinazione che merita tutta la nostra ammirazione. Ma come possiamo mobilitarci per un rischio virtuale se i termini sono rinviati a secoli o millenni di distanza? Nel gennaio 2011 alcuni informatici canadesi hanno predetto, attraverso una simulazione, che la Terra, per semplice inerzia, impiegherà più di mille anni per smaltire le emissioni di CO2 prodotte nel Ventunesimo secolo. Anche se fosse, e allora?! Questo genere di previsioni ha il difetto di sfuggire al controllo empirico; chi ci sarà tra mille anni per dirci come è andata? Sono ipotesi eccitanti per lo spirito, ma invalidanti in vista di una mobilitazione. La credibilità di un disastro si può basare solo su elementi tangibili. Se si tratta, come chiede Hans Jonas ribaltando il postulato cartesiano, di dubitare di tutto ma non del peggio, che diventa indubitabile,34 allora bisogna eliminare le nostre preoccupazioni immediate nel nome del flagello che incombe su di noi. Per sfuggire all’incertezza della storia, si decreta la certezza del caos, e così possiamo riposare tranquillamente nella dolcezza di uno scenario spaventoso. Bisogna comportarsi come se l’orrore fosse inevitabile per deviarne il corso.35 Il « come se » è diventato più reale del reale, trasformatosi in fantasma di fronte al­l’im­mi­nen­za dei disastri che si accumulano. La catastro  « Abbiamo qui a che fare con un rovesciamento del principio cartesiano del dubbio. Per stabilire il vero indubitabile, secondo ­Descartes, dobbiamo tener conto di tutto ciò che in un modo o nel­ l’al­tro può essere messo in discussione come equivalente al falso dimostrato. Qui invece, dobbiamo tener conto di ciò che può essere messo in dubbio, pur essendo possibile, dal momento in cui si tratta di un certo tipo di possibile, come una certezza in previsione della decisione. » Hans Jonas, op. cit. 35   Jean-Pierre Dupuy, op. cit., p. 63. 34

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fe è l’ipotesi più ragionevole e ci conviene crederci se vogliamo evitare il prezzo esorbitante che dovremmo pagare qualora si rivelasse esatta. Certo, ma prendere per veri gli assiomi più cupi fintanto che non sono confutati, come imposto dal principio di precauzione, significa dimenticare che la storia ci sorprende anche con i suoi lati buoni e omettere « la fecondità dell’imprevisto » (Proudhon). Nella sequenza di cause ed effetti, può accadere qualcosa di nuovo, di migliore. Chi avrebbe potuto immaginare trent’anni fa il formidabile decollo indiano, cinese, brasiliano: centinaia di milioni di persone sottratte alla miseria (ma per gli ecologisti duri e puri, questo miracolo è una calamità), chi avrebbe potuto immaginare la primavera araba, con tutta la sua complessità, e il rovesciamento dei tiranni? Il romanzo poliziesco classico racconta la storia di una violazione: l’ordine sociale ammaccato da un crimine che bisogna risolvere per ritrovare la pace. Il thriller descrive invece un mondo di disordine imperante in cui l’assassinio e la corruzione non hanno mai fine e rappresentano la normalità dell’esistenza. Allo stesso modo, all’era classica della stabilità sconvolta da un incidente, segue l’era della crisi permanente: entriamo nell’epoca dei « mega rischi » (Patrick Lagadec) che possono bloccare la totalità dei nostri sistemi economici e sociali, sempre più intrecciati tra loro. Il genio umano sta nel sopravvivere ai flagelli e trarne una lezione in modo che non si ripresentino. Tutti conoscono la celebre frase pronunciata da Adorno nel 1949, sulla quale poi è ritornato: « Dopo Auschwitz, non è più possibile scrivere poesie ». Non c’è catastrofe, per quanto tremenda, da cui le società non si rialzino, straziate ma vive. Lì dove gli ipocriti vedono un’indifferenza colpevole, bisogna scorgere piuttosto un’eccezionale resistenza. La vita continua: è questa frase tremendamente banale che 62

bisogna opporre a tutti i profeti di disgrazie. La cicatrizzazione è più o meno lenta, ma prima o poi arriva. La vita è andata avanti in Europa dopo il 1945 – sia in Germania sia in Polonia si è ricostituita una comunità ebraica importante – e continuerà in Giappone dopo Fukushima, anche se i sopravvissuti dovranno evitare le negligenze criminali che hanno condotto all’abisso. Non sottovalutiamo le capacità di resistenza, di solidarietà di popoli che solo in apparenza sono intorpiditi dal benessere. Quando scoppia una tempesta, o quando siamo sommersi da un’alluvione, un genio cattivo può spingere i codardi a salvarsi, un genio buono può incitare gli altri al coraggio, all’aiuto reciproco, all’eroismo. Così la catastrofe rivela quel che c’è di peggiore e di migliore nel­l’uo­mo. Possiamo pensare alla paura, ma la paura non pensa. Salda il soggetto all’oggetto del suo terrore, come la mosca che si attacca alla carta adesiva che la ucciderà. La paura paralizza, provoca una sonnolenza del corpo e dello spirito che può risultare fatale. Può svegliarci, ma anche bloccarci, accelerare la disgrazia da cui doveva premunirci. Esistono quindi due paure: una salutare, capace di mobilitarci; una deleteria, che si limita a indebolirci. Lo spavento è la via più breve verso la schiavitù.

Piccolo lessico contemporaneo Ogni epoca produce le sue patologie linguistiche e si aggrega attorno a una serie di mantra che tutti ripetono per rassicurarsi. Non potendo cambiare la realtà, si cerca di riqualificarla e abbellirla. ETICO: più elegante di morale, ormai in disuso, questo aggettivo avvolge qualunque parola in un alone di 63

santità. È come una carta bianca che scagiona qualsiasi attività da ogni possibile sospetto. Esistono un mar­ keting etico, un turismo etico, un’alimentazione etica e perfino le penne etiche. ETNICO: contrapposto a maggioritario, etnico combina la forza morale della minoranza, perennemente oppressa, e la profondità dell’autenticità. Ciò che è etnico è saporito, colorato, ciò che non lo è, è insipido e bianco. EQUO: il commercio equo punta a garantire un reddito adeguato ai produttori del Sud in modo che continuino a lavorare in condizioni accettabili, anche a costo di pagare un prezzo aggiuntivo. Quest’etichetta conferisce ai prodotti – caffè, vestiti, oggetti artigianali – un tocco di legittimità e paternalismo. « Insieme ha più senso » dicono i loghi stampati sulle confezioni. Quando un prodotto è contemporaneamente etnico, etico ed equo, raggiunge il massimo grado di significato e giustizia. Aggiungere « eco » (ecologia ha sconfitto economia) e « bio » a tutte le parole è sufficiente per santificarle. Nella proliferazione delle sigle, non cerchiamo altro che un’assoluzione. La nomenclatura ha una capacità purificatrice. CIVICO: un altro aggettivo usato in tutte le salse. La perdita del civismo e della civiltà va di pari passo con l’inflazione dell’epiteto « civico », incaricato di promuovere il merito del dibattito, di un’iniziativa, di un concerto, di un corteo. SOSTENIBILE: ormai tutto deve essere durevole e sostenibile, lo sviluppo come la mobilità, l’avvenire come l’amore. In nome della volontà di conservare a ogni co64

sto, vorremmo farla finita con l’effimero, « la grandezza straziante » della caducità (Péguy). Ciò che rimproveriamo al progresso, ai rifiuti, ai sacchi di plastica, non è proprio il fatto di essere durevoli, di voler persistere nell’esistenza? Uno studioso americano non ha forse dimostrato che in caso di scomparsa del­l’uma­ni­tà, le tracce delle città e delle fabbriche rimarranno ancora per almeno cinquecento anni, nonostante l’erosione e il deterioramento dei materiali?36 Se tutto durasse, la vita potrebbe trasformarsi rapidamente in un incubo. Perderemmo il fascino incredibile di quel che succede una sola volta, di cui la natura stessa, con il ciclo delle stagioni, dà un buon esempio. Perderemmo ciò che il buddismo definisce come l’impermanenza delle cose. UN ALTRO MONDO È POSSIBILE: perché questo slogan è invecchiato così male? Rientra nello stesso genere di espressioni della famosa apostrofe di Rimbaud: « la vera vita è altrove », un modo per denigrare il mondo terreno, colpevole di essere solo ciò che è. Eleggere un’altra forma di esistenza come ideale, significa calunniare quella che abbiamo anziché realizzarla in tutte le sue dimensioni. Possiamo batterci per un mondo migliore, ma perché dovrebbe essere « un altro »? Ricadiamo nel difetto rinfacciato ai sistemi religiosi: la malattia della rinuncia. Domani sarà diverso, e così riusciamo a sopportare il presente, una vecchia tecnica degli asceti. Ma è una soluzione unicamente verbale: travestiamo una realtà complessa con un nuovo abito semantico.  Alan Weisman, The World Without Us, Thomas Dunne, New York, 2007 (trad. it. di Norman Gobetti: Il mondo senza di noi, Einaudi, Torino, 2008). 36

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III Il ricatto alle generazioni future

Tutto è previsto, naturalmente, salvo ciò che succederà. René Ladreit de La Charrière (1833-1903) Il modo migliore per predire il futuro è inventarlo. Dominique Nora, Les pionniers de l’or vert, 2009

Nel 1954, Leon Festinger, giovane psicologo e futuro inventore della « dissonanza cognitiva », s’infiltra, con due colleghi, in una setta millenarista del Minnesota che, attraverso la stampa, annuncia il diluvio universale per il 21 dicembre di quell’anno.1 La leader del gruppo, una certa signora Keech, finge di ricevere messaggi per scrittura automatica da esseri superiori provenienti da un pianeta chiamato Carion. I discepoli si preparano febbrilmente alla fine del mondo, certi che una flotta di dischi volanti giungerà a salvarli. Ricevono un passaporto per imbarcarsi, un semplice quaderno, si sbarazzano di tutti gli oggetti metallici, uno di loro deve perfino staccare la cerniera dei  Leon Festinger, Henry W. Riecken, Stanley Schachter, When Prophecy Fails, University of Minnesota Press, 1956; Pinter and Martin, London, 2008 (trad. it. di Roberto Merlini: Quando la profezia non si avvera, Il Mulino, Bologna, 2012). 1

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pantaloni con un rasoio per essere ammesso a bordo. Imparano a memoria la parola d’ordine: « Ho lasciato a casa il cappello » e a ciascuno è assegnato un posto a sedere nella navicella spaziale.2 Per quattro giorni e quattro notti, attendono al freddo l’arrivo dei loro salvatori, aspettando un lampo nel cielo. Vari contrordini provenienti da un « creatore » aiutano a pazientare e consentono di continuare a credere. Tutti si sono licenziati, hanno ipotecato i propri beni, hanno rotto i legami familiari. Ma il mattino del 24 dicembre devono arrendersi all’evidenza: non ci sarà nessuna inondazione, l’America si prepara a festeggiare il Natale. Gli « eletti » devono affrontare lo scherno dei parenti, i lazzi della stampa. La delusione è immensa e cominciano le prime defezioni. Poi avviene il miracolo. La smentita dei fatti diventa conferma della fede. Un nuovo messaggio degli « esseri superiori » rinvia la data della punizione: all’ultimo momento, nella sua infinita bontà, Dio ha voluto risparmiare i suoi figli e accordare loro un periodo supplementare per riscattarsi. I fedeli ricominciano a predicare, il proselitismo riparte con più vigore. Discutono tra loro, credono di vedere ovunque uomini dello spazio venuti a incoraggiarli, cercano segni sullo schermo del televisore, registrano le telefonate sperando che un sussurro, un messaggio subliminale indichi loro come dovranno agire. L’errore della profezia si tramuta in conferma della sua veridicità. Ciò che avrebbe dovuto abbattere la fede la rinvigorisce. Alla fine, la setta si disperderà per mancanza di apostoli abbastanza eloquenti per reclutare nuovi adepti. Non è caratteristico di un certo tipo di messianismo resistere a ogni critica, rimanere impermeabili alle confutazioni poiché si   Ivi, p. 132.

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sa ciò che deve accadere? « Le convinzioni, più delle bugie, sono nemiche pericolose della verità » (Nietzsche).

1) La delizia dello stato d’emergenza Perché noi occidentali godiamo tanto nel predire la nostra scomparsa? In situazioni di guerra implacabile, la capacità di immaginare il peggio è prova di lucidità: « Gli ottimisti sono ad Auschwitz, i pessimisti a Los Angeles », dirà genialmente Billy Wilder nel 1945. Ci può essere un ottimismo senza speranza e un pessimismo attivo, fonte di energia. Ma il disfattismo è anche il rifugio dei popoli privi­ legiati, il sospiro di grossi gatti che fanno comodamente le fusa. Grazie ai media, cresciamo in uno spazio cacofonico in cui un terremoto in Giappone si confonde con le riflessioni sulla nostra minuscola esistenza. La tragedia che colpisce chi è lontano trasforma la piattezza della nostra vita quotidiana in avventura ad alto rischio: viviamo sul­l’or­lo del precipizio! Lucrezio aveva già descritto il saggio seduto sul bordo della scogliera che contempla marinai e navigatori incoscienti travolti dal mare in burrasca. La televisione porta l’orrore nelle nostre case, all’ora di cena, ci rende partecipi dell’evento come se fosse successo sotto i nostri occhi. Tuttavia, non ci rende per forza solidali con la disgrazia altrui, ma piuttosto ci indica la fragilità del nostro benessere. L’ironia involontaria dei proclami catastrofisti sta nel neutralizzare tutto: nel tentativo di convincerci del caos planetario, finiscono per integrare la nostra eventuale scomparsa nel tepore degli eventi quotidiani. Vorrebbero svegliarci, ma c’intorpidiscono. I fenomeni atmosferici, le eruzioni vulcaniche, gli incidenti, gli attentati infervorano la nostra tranquilla esistenza con un brivido inedito. Il nemico è tra noi e osserva ogni nostra mini68

ma debolezza, ed è ancora più insidioso poiché si nasconde. Se i riti antichi servivano a scaricare la violenza di una comunità su un capro espiatorio, i nostri riti contemporanei servono a drammatizzare lo status quo e a farci vivere nel­l’ec­ci­tan­te vicinanza del cataclisma. Suonare l’allarme significa rendere elettrizzante il tran tran quotidiano per effetto del pericolo. Nei paesi ricchi, il contrasto tra i progressi realizzati e il modo in cui li descriviamo è incredibile. Nonostante la crisi, in Europa viviamo meglio che altrove. Eppure non abbiamo mai denigrato le nostre società quanto ora. Ecco un paradosso su cui vale la pena riflettere.3 Delizia dello stato di assedio: se un virus influenzale, qualche linea di febbre, è sufficiente per mettere intere popolazioni sul piede di guerra, significa che la nostra passione moderna per la sicurezza ha bisogno della catastrofe per consolidarsi. Dietro l’apparenza della regolarità, il nostro tran tran quotidiano sarebbe un disordine assoluto che va scongiurato. Eccolo così innalzato al rango di crimine contro la vita: fare il bagno nella vasca, mangiare carne, alzare al massimo il riscaldamento, guidare un fuoristrada diventano atti altamente nocivi, le cui conseguenze possono estendersi fino alla stratosfera. L’inganno in questo caso sta nell’attribuire alle realtà della vita quotidiana, il cibo, la casa, lo stesso potenziale distruttivo di un’arma atomica. Ciascuno di noi si sente dire: sei una potenziale te Sull’aumento parallelo del benessere e della cultura del lamento, rimando al mio saggio La Tentation de l’innocence, Grasset, Paris, 1995 (trad. it. di Antonio Cavicchia Scalamonti: La tentazione dell’in­ nocenza, Ipermedium, Napoli, 2001). A tale proposito, Bruno Tertrais, in L’Apocalypse n’est pas pour demain. Pour en finir avec le ca­ tastro­phisme, Denoël, Paris, 2011, sviluppa eccellenti argomenti con dati precisi sulla diminuzione della povertà, la pseudobomba demografica, la fine delle guerre. 3

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stata nucleare. È con il disastro di Černobyl’ (1986), rinnovato da Fukushima (2011), che il nucleare civile si è rivelato un vettore di rischi incontrollabili. Sentite cosa dice a riguardo Günther Anders con il suo caratteristico gusto per la li­tote: I fautori dell’energia nucleare, ma anche, e soprattutto, quelli degli impianti per il trattamento dei rifiuti e dei reattori, non sono affatto migliori del presidente Truman, che fece bombardare Hiroshima. Sono persino peggio di lui, poiché la gente oggi ne sa più di quanto l’ingenuo presidente potesse saperne all’epoca. La gente sa cosa fa, lui non sapeva cosa faceva.4

Possiamo dubitare della sicurezza delle nostre centrali, possiamo volere la fine del nucleare, ma non possiamo, se non siamo in malafede, confondere le bombe termonucleari costruite per annientare interi continenti con i reattori a uso civile che illuminano e riscaldano le nostre case da mezzo secolo. A questo proposito, l’incredibile dibattito sulle cifre delle vittime di Černobyl’ dimostra che le radiazioni alterano il cervello di alcuni commentatori: 212 morti secondo l’oms, 200.000 secondo Greenpeace, nove milioni secondo quanto afferma Corinne Lepage su L’Ex­ press.5 Nove milioni sono un genocidio, è molto grave! È indice di buon senso attribuire alla nostra società una bruttezza che non le si addice? Abbiamo visto che la propaganda apocalittica è il migliore antidoto contro il potere di persuasione dei suoi slogan. Il terrore che essa cerca di inculcare si affloscia come un soufflé venuto male. L’ultima parola spetta all’inquietudine, o piuttosto alla volontà  Günther Anders, op. cit., pp. 317-318.   L’Express, 20 aprile 2011.

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timorosa di evitare a tutti i costi qualsiasi rischio. Il profeta serve a ridurre l’incertezza: non contento di confondere l’incidente con la catastrofe, offre sempre le stesse risposte a qualunque domanda. Pensate a Fukushima: l’incidente ha solo confermato una preoccupazione precedente che cercava un alibi per giustificarsi. È stato come l’affare Dreyfus per l’estrema destra francese, « una sorpresa divina »: finalmente abbiamo la nostra tragedia! La paura è permanente, ma la sua causa è del tutto contingente: ieri a scatenarla era il Millennium Bug, oggi sono il riscaldamento globale e l’energia nucleare, domani ci sarà un nuovo ninnolo a spaventarci. Questo allarmismo non è meno pigro e illusorio del beato ottimismo. Gli adepti dello scenario peggiore sono anch’essi vittime di un’illusione di onnipotenza: secondo loro, prevedere significa scongiurare un destino insopportabile. Un conto è insegnare la scienza delle catastrofi come scienza dei modi con cui rispondere e resistere a disgrazie spropositate; un altro è credere che potremmo domare l’imprevisto con la preveggenza. Ritroviamo qui un’eco della pratica stoica della premeditazione, previsione degli eventuali mali futuri per sventarli. Digiunare, sopportare il freddo, la fame, il dolore fisico serviva ad attenuare, secondo Seneca, l’impatto di queste sofferenze nel giorno in cui si fossero presentate, a inoculare l’esperienza della disgrazia in dosi omeopatiche. E tuttavia restiamo sempre sorpresi anche da ciò che avevamo previsto: la morte, la malattia e il dolore ci schiacciano senza che ce ne rendiamo conto, sebbene li avessimo anticipati. Sul piano dell’azione collettiva, non possiamo prevedere la quantità di turbolenze che si potrebbero abbattere su di noi. Possiamo però prevenire la loro comparsa con una serie di reazioni appropriate. Le strategie di gestione delle emergenze in caso di crisi industriali, cicloni, incendi, terremoti o aggressioni nemiche mirano a fornire un venta71

glio di risposte rapide, per non essere colti alla sprovvista e lasciarci prendere dall’impotenza: mobilitazione della difesa civile, della polizia o del­l’eser­ci­to. Non c’è niente di peggio in queste circostanze dell’esitazione o dell’indugio da parte delle autorità, come nel caso dell’amministrazione Bush al momento del­l’ura­ga­no Katrina. Alla disgrazia collettiva bisogna opporre istantaneamente grandi parole e grandi azioni. Non verrà mai perdonato a un governo di non aver reagito in modo efficace a una calamità pubblica. Il diritto all’errore non è concesso neppure quando la previsione è incerta e può risultare erronea in due modi: per sottovalutazione delle minacce o per sopravalutazione (come accadde con il virus dell’influenza A H1N1). La grandezza e il dramma della politica stanno nel prepararsi a qualcosa che non si presta a previsioni. Ci si può premunire con una pianificazione prudente, una gestione razionale del territorio, con il rifiuto di rilasciare permessi di costruzione in aree soggette a inondazioni, sulle pendici dei vulcani, nelle vallate esposte alle valanghe, nelle regioni ad alto rischio sismico, e con la creazione di squadre di pronto intervento. È meglio che i poteri pubblici sbaglino per eccesso di diffidenza che per accecamento dovuto alla credulità; è l’opposto dei rapporti umani, in cui deve prevalere la fiducia, a dispetto dei tradimenti contingenti. Ma gli uragani, le epidemie, gli attacchi terroristici sono sempre associati allo spettro del loro aggravamento, portano in sé un potenziale di degenerazione che la mente umana non può contemplare senza tremare.6 Ci vuole un niente perché un attentato si tramuti in massacro, un’eruzione vulcanica in una devastazione totale. Che cosa sarebbe  François-Xavier Albouy: « In ogni catastrofe, ci sono tre parametri essenziali: la sua realizzazione, la possibilità che si ripeta e la vastità massima che potrebbe raggiungere », op. cit., p. 71. 6

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successo se il piano dei terroristi dell’11 settembre avesse funzionato, se tutte le centrali nucleari giapponesi fossero state colpite allo stesso tempo dal terremoto della primavera del 2011? Ci sarebbe stata una valanga di contagi, il terrore assicurato, l’annientamento totale, visto che per di più in un mondo sovrappopolato le vittime si contano a migliaia, a decine di migliaia come ad Haiti durante il terremoto del 2010. Contro i colpi del destino, i brutti tiri degli dei, diceva Hannah Arendt, l’uomo può sempre proteggersi con la parola: è a essa che si affida la tragedia greca. Le frasi nobili rispondono ai dolori più tremendi e si innalzano a una dignità pari a quella dell’azione stessa.7 Ma come ci si può difendere quando gli uomini si riempiono la bocca di formule tanto vuote quanto spaventose, quando il linguaggio stesso è colpito al cuore? A questo punto, non è più un naufragio della Terra, ma dell’intelligenza. L’ossessione della sicurezza a tutti i costi ci paralizza, alziamo il tasso di terrore nel tentativo di scacciare il rischio. È questo l’aspetto ridicolo di queste grandi esplosioni mediatiche: ci si sveglia per rivendicare maggiore passività, per reclamare un’esistenza più sicura. La sfida non è soltanto diminuire la superficie esposta al rischio, ma aumentare la capacità di resistenza alle disgrazie. Intensificare la nostra resistenza piuttosto che il nostro sgomento.

  Hannah Arendt, Was ist Politik?, Piper, München-Zürich, 1993 (trad. it. di Marina Bistolfi: Che cos’è la politica?, Edizioni di Comunità, Milano, 1995). 7

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2) L’arte di sviare l’attenzione In quest’ebbrezza retorica, il futuro torna a essere, come in passato nel cristianesimo e nel comunismo, il termine principale del ricatto. La religione cattolica ci chiedeva di sacrificare le nostre gioie presenti alla cura per la vita eterna; il marxismo di dimenticare la nostra felicità borghese in favore di una società senza classi. L’ambientalismo ci incita alla Grande Dieta nel nome delle generazioni future. Anche quest’idea è stata teorizzata dal filosofo tedesco Hans Jonas, che ha inventato il concetto di « pentimento anticipato ». La sproporzione tra il nostro potere tecnologico e scientifico e le nostre conoscenze ci costringe a immaginare i torti che potremmo infliggere ai nostri discendenti vivendo come facciamo. Il ragionamento è brillante ma contorto: il male che farò in futuro conta più dei mali di cui soffrono gli uomini adesso. Fino a oggi il rimorso si era concentrato solo sugli errori già commessi; con Jonas riguarda i peccati che saranno commessi in futuro. Gli uomini del futuro hanno tutto il diritto di accusarci, in quanto predecessori e autori delle loro disgrazie, se con i nostri comportamenti indifferenti, che si sarebbero potuti evitare, deterioriamo il mondo o la costituzione umana.8

Dobbiamo quindi intralciare noi stessi per inibire la nostra eventuale crudeltà. Il futuro, elevato a tribunale, ci supplica di non compromettere ulteriormente le condizioni di vita sul pianeta. Gli sceneggiatori conoscono bene questo procedimento definito con il termine anglosassone di flash-for­ward, proiezione in avanti per contrapposizio  Hans Jonas, op. cit.

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ne al flash-back, ritorno indietro: lasciare intravedere alcuni minuti dell’azione successiva per stuzzicare l’appetito dello spettatore. Lasciare ai nostri pronipoti un mondo vivibile significa dichiarare che l’umanità esisterà ancora nei secoli a venire, significa giudicare il nostro comportamento attuale con lo sguardo delle generazioni di domani. Questo obbligo si fonda su un’etica della non reciprocità: dobbiamo tutto ai nostri discendenti, senza che loro ci debbano qualcosa in cambio. Le generazioni future finiscono così per incarnare un dovere solenne al quale non abbiamo il diritto di sottrarci. Nel cristianesimo, il credente era costretto a scegliere tra la salvezza e la dannazione, con Jonas bisogna trasferirsi, spiritualmente, all’inferno, perché non ci finiscano i nostri posteri! Strana inversione: il passato rimane aperto, ma il futuro è scritto, e nel modo peggiore, come « un’eventualità indesiderabile ». Dobbiamo pentirci in anticipo di ciò che potrebbe succedere dopo di noi, per sadismo anticipato. Bisogna mettere la camicia di forza a Prometeo! Preoccuparsi per ciò che non esiste ancora è un gesto d’amore o è la peggior forma di pressione sui viventi, un eccesso della coscienza scrupolosa? Per paura di non avere le mani pulite, preferiamo tagliarcele. Quando alcuni evocano una possibile « asimmetria giuridica » a favore dei nostri discendenti a causa dei rischi tecnologici,9 pongono un importante problema filosofico: fin dove può spingersi la responsabilità senza cadere nell’astrazione? Estenderla a tutte le generazioni future significa svuotarla di senso, mettere sulle nostre spalle un peso titanico. A forza di essere responsabili di tutto, non siamo più re Emilie Sébileau, citato da Mireille Delmas-Marty, op. cit., pp. 172-173. 9

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sponsabili di niente. Non possiamo nemmeno ottenere il perdono per le nostre colpe poiché quelli che avrebbero il diritto di concedercelo non sono ancora nati! Circolo vizioso: sacrificando gli uomini di oggi a favore di quelli di domani non si finisce per penalizzare questi ultimi, soprattutto se si rinuncia alla procreazione? Pierre Rosanvallon propone di creare un’Accademia del futuro, un consiglio di saggi composto da studiosi, filosofi, rappresentanti di associazioni, incaricati di evitare i danni irreversibili: iniziativa ammirevole, ma a forte rischio di somigliare a una seduta spiritica. Sono gli spettri nati dalle nostre angosce che invitiamo a comparire: intorno ai tavolini, convochiamo i nostri cari scomparsi, nella nuova accademia, quelli che non sono ancora nati e vegetano nel limbo. A parte il fatto che esistono almeno due futuri – uno vicino, quello dei nostri figli e nipoti, sul quale abbiamo ancora un potere, e uno lontano che ci sfugge – nessuno può decidere sul futuro, poiché per definizione esso annullerà il nostro modo di pensare, i nostri schemi mentali, supererà le condizioni stesse del nostro sapere.10 Tocqueville l’aveva previsto: in una democrazia, scriveva, ogni generazione è una nuova nazione e la tradizione è più un insieme di conoscenze che un imperativo. È vero che la libera scelta di un’epoca diventa il destino della successiva e che subiamo le decisioni dei nostri predecessori come se fossero una condanna: come l’architettura del dopoguerra   È l’argomento epistemologico che oppone giustamente Jean de Kervasdoué al principio di precauzione: un evento che rimette in discussione i modelli esistenti non può essere oggetto di una previsione. « Affermare di essere in grado di proteggere una popolazione da un fenomeno di cui non si conosce la natura è assurdo, pretendere che lo si possa fare è diventata una necessità politica. » La peur est au-dessus de nos moyens, Plon, Paris, 2011, p. 220. 10

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che ha invaso e sfigurato per sempre l’intero pianeta. Ma agiamo in primo luogo sulla base di ciò che dipende da noi, con cui possiamo creare legami. Estenuarsi immaginando gli scenari più assurdi per il futuro – infezioni batteriche, bug informatici, guerre stellari, cataclismi meteorologici o nucleari, cadute di asteroidi –, sacrificare tutto per questo ectoplasma concettuale di « generazioni future », è come comprarsi una coscienza a buon mercato e chiudere gli occhi sugli scandali attuali. Come per Rimbaud, ma in modo più prosaico, dovremmo diventare veggenti: Per capire la gravità di un problema come il cambiamento climatico, l’uomo deve guardare ben oltre le sue preferenze, la sua famiglia, la sua casa, le sue comodità.11

Riabilitazione di piccoli commerci: lettore di fondi di caffè, medium, cartomante: ciascuno dovrà ingegnarsi a modo suo per sviluppare una vista da aquila. « Rendere visibile il male invisibile » diceva Ivan Illich. D’accordo, ma chi sono questi esseri superiori capaci di vedere ciò che gli altri non colgono, di fiutare un potenziale pericolo perfino nei luoghi più ridenti? Sono indovini dotati di una speciale empatia? Questo altro lontano è un fantasma passeggero che consente di mettere gli altri attuali tra parentesi. Il « destino che ci osserva dal futuro » ci rende indifferenti ai nostri doveri nei confronti dei nostri cari. Il terzomondismo sottolineava i crimini del colonialismo per passare sotto silenzio i crimini dei decolonizzati; gli ecologisti, con la loro fantascienza etica, si preoccupano più dei nostri misfatti ipotetici che delle ingiustizie reali. Sotto l’ingegnosa profezia si nascondono i grandi trucchi della propa Dominique Bourg, Kerry Whiteside, op. cit., p. 47.

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ganda: distogliere l’attenzione dalle miserie odierne. Per gli uomini esistono cinque grandi piaghe: la fame, la povertà, la malattia, le calamità naturali e le stragi di massa. Alle classiche domande della giustizia, dell’uguaglianza, della sicurezza, l’ecologia nel nome del « pianeta » sostituisce un solo imperativo: la sopravvivenza. Per quanto indossino i paraocchi, ossessionati come sono dal profitto a breve termine, i capitalisti non ignorano la preoccupazione per il futuro manifestata dalle popolazioni ricche. Le minacce climatiche, energetiche, atomiche e tecnologiche agitano gli animi e trasformano i consumatori passivi in cittadini che s’interrogano: a cosa serve proseguire sulla stessa strada se ci conduce verso il baratro? (...) se i « miracoli » brasiliano e cinese continuano, affonderemo tutti in­sieme.12

L’esperto ha parlato: che brasiliani, indiani, cinesi si rassegnino a sguazzare nella melma: ne va della salvezza del mondo. Peccato per quei bastardi affamati che sperano di migliorare anche se di poco il loro destino! Consentire alla Terra di girare merita il sacrificio di miliardi di asiatici e sudamericani. Serve quindi l’imminenza di una catastrofe sconfinata per redimere l’avventura umana. Su questo piano, la nostra epoca esprime un narcisismo della maledizione che la strappa alla sua insulsaggine e ne ribadisce la centralità: designandosi come dannata, non fa altro che sottolineare la sua eccezionalità, mentre in apparenza si svaluta:

  Jean-Pierre Dupuy, Le Monde, 24-25 ottobre 2010.

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La nostra epoca non è fugace per caso: la fugacità è la sua stessa essenza. Essa non può passare in un’altra epoca, ma soltanto affondare.13

Che sollievo sapere che non viviamo in una piccola provincia del tempo, ma nel­l’istan­te storico in cui il tempo stesso sarà inghiottito! Che presunzione e che ingenuità credere che ci troviamo all’apice della storia! Non riuscendo a essere i migliori, siamo pur sempre i peggiori. Dietro ai loro lamenti, i catastrofisti sono pieni di tracotanza.

3) Gli arrabbiati della sciagura A partire dal secolo dei Lumi, l’intellettuale europeo ha unito tre funzioni: critico dei pregiudizi del proprio tempo, interprete dell’azione collettiva, guida di un partito o di uno schieramento. Nel xix secolo ne ha aggiunta una quarta, quella di profeta laico, pastore del popolo, investito di un potere spirituale: dire alla gente della sua epoca le verità che non vuole sentire. È quindi un ribelle che si rivolta e un visionario che predice. Nel giudaismo classico, il profeta sposava la causa di Dio contro re e potenti. Bandendo ogni distinzione tra spirituale e temporale, voleva instaurare una comunità autentica in questo mondo e non nel­l’al­di­là.14 Nel cristianesimo, le insurrezioni millenariste portavano in sé una speranza di giustizia contro la Chiesa che tradiva i poveri e i Vangeli sguazzando nel lusso.15  Günther Anders, op. cit., p. 100.  Martin Buber, Judaïsme, Tel Gallimard, Paris, 1998, p. 98. 15  Si veda il fondamentale libro di Norman Cohn, The Pursuit of the Millennium, Secker & Warburg, London, 1957 (trad. it. di Ame13 14

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Queste rivolte, duramente represse, promettevano un mondo senza violenza, in cui il lupo e l’agnello avrebbero pascolato insieme, in cui il Signore avrebbe asciugato « le lacrime su ogni volto » (Apocalisse secondo san Giovanni). In una società laica, il profeta non intercede più tra Dio e gli uomini, ma è posseduto da una certezza morale e il suo unico viatico è l’indignazione. Solleva le masse con il suo carisma e crea una « comunità emozionale » (Max Weber), per aprire nuove strade in una storia statica. Ma capita che, inebriato dalle sue stesse parole, si attribuisca una legittimità che non gli spetta, invocando quella stessa distruzione che sostiene di contrastare.16 Qui sta il ribaltamento: l’apocalisse diventa per i suoi sostenitori la nostra unica speranza di salvezza. Se l’escatologia, nel cattolicesimo, è la scienza dei destini ultimi, il catastrofismo è la storia dell’« ultimo destino », se così si può dire, dopo il quale non ci sarà più nulla. Come i reazionari degli anni Sessanta e Settanta, che auguravano ai giovani europei di calmarsi con una bella guerra, le sinistre sperano che toccheremo il fondo per svegliarci. Meritate una lezione, non avete sofferto abbastanza, dovete penare. È un vero e proprio voto di morte che augurano alle popolazioni: la punizione è in sé una redenzione. Ci sono quindi due tipi di pessimismo che non vanno confusi tra loro: il pessimismo culturale, che pone le società davanti a uno specchio ed evidenzia la loro crisi morale quando si mostrano inferiori ai valori che ostentano, e rigo Guadagnin: I fanatici dell’Apocalisse, Edizioni di Comunità, Milano, 1965). 16   « La nostra passione apocalittica ha come unico obiettivo quello di impedire l’apocalisse. Siamo apocalittici solo per essere smentiti » diceva ad esempio Günther Anders nel 1960, op. cit., p. 259. Si può dubitare di questa ostentata umiltà. 80

il pessimismo antropologico, che condanna la creatura umana, decaduta per sempre. Il profeta non è un animo nobile che ci mette in guardia, ma un ometto cattivo che ci augura un’infinità di disgrazie se abbiamo la tracotanza di non starlo a sentire. La catastrofe non è la sua ossessione, ma la sua gioia. Non gli basta sommergerci di previsioni cupe e di numeri senza speranza; dal fondo della sua acredine, vuole convincerci e conquistare nuovi proseliti. Prende molto sul serio il suo disincanto. Certe menti sono affascinate dal disastro perché ha un effetto chiarificante: taglia in due la storia, la allontana dall’indeterminatezza della vita quotidiana, in cui le cose non sono né del tutto buone, né del tutto cattive. Meglio il caos che l’incertezza. Così come nella narrativa esistono i turisti del genocidio (Jonathan Littell e le sue Benevole ad esempio), in filosofia esistono i fanatici dell’afflizione, che vanno in giro per il mondo a fiutare le carneficine, a saziare la propria sete di dolore. Nel maggio del 1897 a Parigi il Bazar de la Charité, luogo di beneficenza dell’alta società cattolica, viene distrutto dalle fiamme provocate da una lampada a etere che ha incendiato le tende. Nella confusione muoiono più di un centinaio di persone, quasi tutte donne aristocratiche. Fu una tragedia terribile, un’ecatombe di particelle nobili. Un libellista cattolico, oggi dimenticato, Léon Bloy, pubblica subito un’epistola sulfurea: gioisce dell’incendio, scorgendovi la mano di Dio che si vuole vendicare del materialismo dell’epoca e della mancanza di fede della Francia. Accostare la parola bazar alla carità meritava la punizione più crudele. Il suo unico rimpianto? Che non ci fossero state più vittime. Ma spera che questa conflagrazione purifichi un popolo corrotto e giovi agli eserciti del Signore. La nostra epoca è piena di Léon Bloy che si strofinano le mani aspettando il diluvio universale: vorrebbero alme81

no tre Fukushima all’anno. La distanza tra lucidità e astio, tra intuizione e spirito di vendetta, è breve. Accompagnati da un’intera tribù di maghi e pitonesse farneticanti, i nostri chiaroveggenti maledicono le masse indifferenti e augurano loro ogni sfortuna. Sebbene alcuni spiriti nobili si sforzino di smorzare i toni e introdurre qualche distinguo, i nostri cortigiani del giudizio finale non ne vogliono sapere. Forse bisognerebbe invertire il discorso: forse l’ambientalaismo non vuole proteggerci dalla fine del mon­ do, ma punta ad accelerarla. Al tempo stesso è la fonte e il veicolo del nostro desiderio di morte. Se prospera nel vecchio continente più che altrove è perché una parte delle élite europee non vuole più vivere e vuole la nostra scomparsa. Gli ambientalisti radicali ci amministrano cure palliative prima del Grande Inghiottimento. Jared Diamond ha dimostrato in un brillante studio già citato come alcune società, tra cui i maya, i vichinghi, gli abitanti dell’isola di Pasqua, abbiano collaborato alla loro stessa rovina.17 Una nazione o un insieme di nazioni possono volutamente scegliere il fallimento, per odio verso se stesse. Qual è allora il giusto equilibrio tra l’avvertimento fondato e l’inutile panico? Ogni discorso critico al­l’ini­zio è inopportuno, spezza il consenso generale e infrange la legge del silenzio. Ma quando il consenso è per la desolazione generale, quando un’intera società si unisce in un unico coro gonfio di imprecazioni, quando giorno e notte i media elencano con precisione maniacale tutti gli aspetti della devastazione, la critica si trasforma in vaneggiamento. Di anno in anno, bisognerebbe interrogarsi sulla ricorrenza mediatica delle catastrofi. Epidemie, fenomeni naturali, virus, incidenti industriali punteggiano la nostra vi  Jared Diamond, op. cit.

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ta quotidiana con una regolarità da metronomo e provocano iniezioni di paura collettiva seguite da periodi di quiete che precedono il picco d’ansia successivo. Secondo il calcolo di uno storico, da Nostradamus in poi saremmo sfuggiti a 183 fini del mondo annunciate18 e negli ultimi dodici anni ad almeno cinque: quella dell’astrologa Elizabeth Teissier, che nel 1999 annunciò lo schianto al suolo della sonda Cassini, previsto per il 24 luglio; quella dello stilista Paco Rabanne, convinto che l’11 agosto dello stesso anno, giorno dell’eclisse totale di sole, Parigi sarebbe stata annientata dalla stazione spaziale Mir; sempre nel 1999, quella del filosofo Paul Virilio che predisse un bug informatico in coincidenza con il passaggio al 2000; nel 2008 quando l’avvio dell’acceleratore gigante di particelle del cern, vicino a Ginevra, fece temere a molti scienziati la formazione di un buco nero che avrebbe scisso l’universo (un tribunale di Honolulu denunciò il progetto); e infine il 21 maggio 2011, giorno in cui il pastore Harold Camping, capo di una setta protestante, previde lo sprofondamento della Nuova Zelanda e dell’Australia. Che sfortuna: sarà per la prossima volta. Ci sono almeno due tipi di Cassandre: quelli che deducono un pericolo imminente da una situazione concreta, come Maurice Allais nel 2004 o Nouriel Roubini, che preannunciò nel 2006 un crollo del settore immobiliare americano. E quelli che ci mettono alla berlina, come il profeta Philippulus in L’Étoile mystérieuse di Hergé (Casterman, 1947) che annuncia con un colpo di gong la fine del mondo, causata da una meteorite che si avvicina alla Terra (secondo i più autorevoli esegeti di Tintin, Philippulus sarebbe una caricatura del maresciallo Pétain che chiede ai  Luc Mary, Le Mythe de la fin du monde, Editions Trajectoire, Paris, 2009. Fonte: Journal du Dimanche, 7 novembre 2009. 18

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francesi, dopo aver preso il potere nel 1940, di pentirsi di peccati immaginari).19 Nel caso della crisi finanziaria, l’indifferenza con cui gli affari sono ricominciati è di pessimo auspicio per il futuro: una società che non impara niente dagli errori passati è condannata non solo a ripeterli, ma ad aggravarli. Che cosa possiamo controbattere a un uomo o una donna che promettono il cataclisma con la calma formidabile dei fanatici? Che si dedicano giorno e notte all’apo­ stolato della disperazione? Niente più che un’alzata di spalle. Non possiamo confutare le loro tesi perché sono « infalsificabili ». Il successo, per lo meno mediatico, delle profezie più cupe fa seguito a un xx secolo di catastrofi totalitarie, tra nazismo e comunismo. Siamo gli eredi di un doppio disastro, Auschwitz e Hiroshima: nel primo caso un’orgia di odio pianificata industrialmente, nel­l’al­tro un fuoco atomico scagliato senza odio su popolazioni civili per costringere il Giappone alla resa. Noi siamo tenuti a riflettere su entrambi, senza esclusioni. Poiché nessuno ha voluto credere e neppure concepire l’eliminazione di massa realizzata dai nazisti oppure i gulag sovietici e maoisti, facciamo a gara ormai nell’immaginare l’apocalisse per scongiurarne il ritorno. Si noti che tre dei maggiori crimini del dopoguerra sono stati compiuti con tecnologie rudimentali: l’auto-genocidio cambogiano con attrezzi agricoli o sacchetti di plastica (per risparmiare munizioni), il genocidio dei tutsi in Ruanda con i machete, il dirotta  Il pétainismo è doppiamente precursore di un certo tipo di ambientalismo: nell’affermare che « la Terra non mente » e tramite l’appello reiterato alla mortificazione collettiva. Niente da fare per i nostri penitenti, l’unico regime in Francia ad avere adottato questa parola d’ordine è quello collaborazionista. I legami tra ambientalismo e fascismo sono stati spesso segnalati e meriterebbero uno studio specifico. 19

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mento degli aerei dell’11 settembre con taglierini infilati sotto la gola dei piloti. E ogni volta, siamo rimasti interdetti davanti all’evento che ha sconvolto tutti i calcoli. L’ambientalismo radicale non cade nell’errore del marxismo: promettere il paradiso in Terra. Si limita a denunciare l’inferno delle nostre società. Non essendo vincolato a un calendario preciso, sfugge alla prova della verifica. Gli ecosistemi impiegano secoli per rispondere al degrado inflitto dal­l’uo­mo, quindi nessuno di noi sarà qui per verificare se aveva torto o ragione. I nostri uccelli del malaugurio vincono in tutti i casi. Se non succede niente, ne saranno fieri: è merito nostro. Dialettica meravigliosa: l’avverarsi della previsione, l’irruzione del trauma tanto temuto, sarebbe una disgrazia, ma il suo fallimento è in realtà un successo, una sventura evitata. Vincere vorrebbe dire perdere, ma perdere significa vincere. La profezia della disgrazia è fatta per evitare che si verifichi; prendere ulteriormente in giro eventuali sirene d’allarme ricordando loro che il peggio non si è realizzato, sarebbe l’ingiustizia peggiore: può darsi che la loro inettitudine sia il loro merito.20

Il dispiacere più grande per gli oracoli biblici era essere seguiti (è la tragedia del profeta Giona che, evitata la distruzione di Ninive, viene poi scacciato dai suoi stessi abitanti). Avevano bisogno di restare marginali, solitari, per accentuare la radicalità del loro verbo. Gli aruspici contemporanei continuano a essere consultati, mantengono una posizione di rilievo, sebbene il loro messaggio si confonda rapidamente tra le chiacchiere mediatiche. L’apocalisse cristiana voleva essere una rivelazione, il passaggio   Hans Jonas, op. cit., p. 233.

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a un altro ordine di tempo, questa invece è senza rivelazione, pronuncia la sentenza finale: l’apocalisse, e basta. Nessuna promessa di redenzione, solo un ideale per sopravvissuti, un’« epidemia di rimorsi », l’aggregazione di centinaia di milioni di uomini che si pentono e tentano di sfuggire al caos. Se tutti questi spiriti superiori sbandano, non c’è da stupirsi che fioriscano le previsioni più aberranti, come quella del calendario maya che prevedeva la fine del mondo per il dicembre 2012. L’intera superficie terrestre scomparsa, tranne un piccolo villaggio del dipartimento dell’Aude, in Francia, Bugarach, un borgo di duecento anime, preso d’assalto da tutti gli illuminati del mondo. L’Armageddon è imminente. Sogniamo di essere Giobbe o Geremia, ma finiamo per essere Paco Rabanne!

La Francia: una depressione feconda? Gli scioperi dell’autunno 2010 in Francia hanno mostrato lo spettacolo sorprendente di liceali che manifestavano per le pensioni. Strano ribaltamento: prima ancora di aver intrapreso la vita lavorativa, gli adolescenti dei tempi grigi pensano già alla sua conclusione. Il futuro va scritto in anticipo e l’esistenza deve essere sicura dal­l’ini­zio alla fine. Pensiamo al sondaggio sorprendente pubblicato qualche anno fa in cui il 70% dei francesi sotto i trent’anni dichiarava di desiderare una carriera da funzionario, protetta da ogni rischio. I giovani, colpiti duramente dalla disoccupazione, sono l’avanguardia del più grande partito francese, il partito della paura. I francesi hanno paura del mondo, paura della precarietà, paura degli altri, e ancor più paura della loro stessa paura che si propaga alla velocità della 86

luce. È una sensazione che viene alimentata ogni giorno dai media e dalle élite, che deriva dalla nostra incapacità di ritrovarci in un universo ormai troppo complesso. La passione francese per lo sciopero, nostro sport nazionale, è un segno di assuefazione più che di vitalità, un ottimo esempio di una conquista diventata sintomo depressivo. Olivier Besancenot non aveva proposto nel 2003 di creare un grande partito dello sciopero? Gli studenti potrebbero entrarci prima ancora di aver trovato un impiego. Dato che il nostro paese ha smesso da tempo di essere la « nazione indispensabile », bisogna scioperare contro il mondo esterno, esorcizzare questa pressione di tutti su ciascuno, che chiamiamo globalizzazione. Ci aspettiamo gli scioperi a ogni stagione, nelle stazioni, sui mezzi pubblici, negli aeroporti, come quando aspettiamo l’autunno con un misto di fatalismo e di eccitazione. C’è dell’angoscia, ma anche il capriccio da bambino viziato in questa routine della rivolta. I francesi, maestri nel­l’ar­te del sovrastimarsi, sono anche i più grandi consumatori europei di psicofarmaci e calmanti. Il centro del villaggio non è più la chiesa o il municipio, ma la farmacia. Francia va a braccetto con sofferenza, con decadenza, non siamo mai abbastanza riconosciuti, amati, coccolati. L’intera nazione è un enorme sindacato di litiganti, ogni minima difficoltà assume l’aspetto mirabolante della tragedia. Siamo afflitti dall’incapacità di superare le avversità, che aumenta la nostra debolezza. Da qui il sogno francese di una vita congelata e appartata, in cui ricchi e poveri si rinchiudono nella propria comunità, nel proprio ghetto o quartiere, come Asterix nel suo villaggio. Ecco perché così tanti giovani fuggono verso altri orizzonti, America, Asia, Africa, soffocati da questa chiusura nazionale. Se fosse solo questo minuscolo cantone in preda ai 87

tormenti del­l’età, la Francia, questa mosca cocchiera universale che s’immischia in tutto ciò che non la riguarda, questo paese edonistico, fanatico delle vacanze, creatore di una cultura del piacere unica al mondo, sarebbe una delle metafore dell’Europa in declino. Ma il nostro paese, che nel 2010 è stato inserito tra le nazioni più pessimiste, davanti all’Iraq, all’Afghanistan e alla Nigeria, è anche quello in cui il tasso di fecondità è uno dei più alti dell’Occidente, senza distinzione di classe sociale, grazie a una politica familiare incisiva che consente di conciliare lavoro femminile e maternità. Una strana schizofrenia, che ci induce a contrastare il pessimismo ripopolando le culle. È come se in ogni francese convivessero due esseri separati, uno che si lamenta e l’altro che procrea: il primo si avvia alla fine del mondo, il secondo al­l’ini­zio di una nuova era. Deleghiamo, non senza narcisismo, ai nostri piccoli la speranza che ci ha abbandonati, ci riavviciniamo al gesto più antico: la natalità, cioè la facoltà di ricominciare, la possibilità offerta alle nuove generazioni di gettare uno sguardo stupito sulla Terra, di ripartire con entusiasmo. Così si risolve la dialettica tra il bisogno di protezione e il gusto dell’avventura.

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Seconda parte I progressisti antiprogresso

IV L’ultima trasformazione di Prometeo?

Ogni aumento della capacità di produzione è stato accompagnato negli ultimi secoli da una crescita della capacità di distruzione. Raymond Aron, prefazione a Le Savant et le politique di Max Weber, 1959.

In un Vangelo apocrifo, il libro di Stefano, mai ritenuto autentico né integrato nel canone protestante o cattolico, Noè al momento di imbarcare gli animali sull’arca è preoccupato per il gran numero di candidati. Mammiferi, uccelli, marsupiali, pinguini, primati, lucertole sono già saliti a bordo. L’asino, il bue, la giraffa, l’alce, il cervo, il leone e il gatto convincono il patriarca a ritirare la passerella e a chiudere i boccaporti. La barca è piena fino al­l’or­ lo, lo scafo di cedro rischia di rompersi e sta per scatenarsi il diluvio. Fuori dalla barca si accalca una folla di bestiole nocive o deformi: scarafaggi, rospi, lumache, ragni, che cercano d’imbarcarsi. Il rospo prende la parola in nome dei suoi compagni disgraziati: sostiene la loro causa con eloquenza, mostrando al patriarca l’utilità della loro funzione in natura. Nei disegni di Dio, non c’è niente di brutto e ripugnante: ogni cosa è ingegnosa, perfino gli invertebrati e i molluschi hanno il loro ruolo. Nessuno ha il diritto di distruggere le creature del Signore. Ma Noè si allontana e decide di levare l’ancora. Allora una nuvola d’insetti e di bestiole gli si avventa addosso: le pulci sulle gambe, le piattole nei peli, i pidocchi tra i capelli, le sanguisughe, 91

le cimici e le zanzare si attaccano alla pelle senza che lui se ne accorga. I serpenti s’infilano nella folta chioma, i ragni s’insediano nella barba. E così tutto il bestiario inferiore viene salvato. Chi non sognerebbe oggigiorno di salvare, a bordo di un’arca gigante, di un razzo o di una navicella spaziale, le decine di milioni di specie superstiti, vegetali o animali, per sottrarle alla rapacità degli uomini e depositarle su una stella o un pianeta dove potrebbero prosperare senza ostacoli?

1) La fatalità del progresso Il processo contro il progresso è vecchio quanto il progresso stesso: Rousseau, contemporaneo delle prime macchine a vapore, critica l’invenzione del ferro e la coltura del grano: le prigioni di Piranesi (1720-1778), con le carrucole, le volte, le rampe di scale spaventose e gli strumenti di tortura, rappresentano il gigantesco carcere che suo malgrado l’uomo dei Lumi ha edificato nel tentativo di sottrarsi alla notte dell’Ancien Régime.1 Mary Shelley pubblica Frankenstein nel 1818, in piena euforia sansimoniana. Nel xx secolo, secondo una critica lanciata dalla Scuola di Francoforte e ripresa da Jacques Ellul e Ivan Illich, la marcia trionfale del­l’uma­ni­tà verso il progresso si contraddice nelle sue stesse ambizioni: la medicina ci uccide e produce nuove patologie, la scuola crea un’ignoranza di massa, l’alimentazione ci rende obesi, i trasporti allontanano gli uomini anziché avvicinarli. È il regno della contro-produttività generale: « La corruzione del meglio  Su Piranesi, si veda Jean Starobinski, op. cit., pp. 174-175.

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produce il peggio » (Ivan Illich). Tuttavia, il principale crimine del progresso è liberare in noi il demone della dismisura, il genio cattivo dell’onnipotenza. È il motivo per cui, secondo Illich, le imprese industriali in tempo di pace hanno raggiunto una capacità distruttiva pari a quella delle guerre mondiali: perché risvegliano in noi il sogno malsano di essere divinità. Con l’industrializzazione del desiderio, l’hybris diventa collettiva e la società è la realizzazione materiale dell’incubo. L’hybris industriale ha rotto l’impostazione mitica che poneva limiti alla follia dei sogni (...). Il contraccolpo inevitabile del progresso materiale è Nemesi per le masse, il mostro materiale nato dal sogno industriale.2

Oltre una certa soglia critica, i sistemi più performanti assumono configurazioni altamente sgradevoli e si rivoltano contro i loro stessi utilizzatori per distruggerli. Nel 1848, riferisce Walter Benjamin, gli insorti francesi sparavano sugli orologi per protestare contro la tirannia del tempo. Nel 1909, Marinetti pubblica il suo manifesto futurista intitolato Uccidiamo il chiaro di luna!, in cui professa un odio violento contro la natura e le donne; oggi, su iniziativa della Repubblica Ceca, alcuni paesi vogliono spegnere l’illuminazione notturna nelle città per preservare l’oscurità e la bellezza delle stelle.3 Si distinguono tre   Ivan Illich, Némésis médicale, Seuil, Paris, 1975, pp. 203-204 (trad. it. di Donato Barbone: Nemesi medica, Mondadori, Milano, 1977). Nella mitologia greca, Nemesi è la dea della vendetta. 3  Alain Finkielkraut offre un interessante commento su questa decisione in Nous autres, modernes, Ellipses, Paris, 2005, pp. 353 sgg. (trad. it. di Marina Valensise: Noi, i moderni, Lindau, Torino, 2006). Il 26 marzo 2011, l’operazione Earth Hour ha immerso nel buio 134 paesi per un’ora « per aiutare il mondo a vedere la luce », secondo le 2

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momenti: la rivolta contro la scansione del tempo operata dal capitalismo, il gusto violento per tutto ciò che è artificiale e infine il rifiuto della fata Elettricità che acceca la notte nel tentativo di rischiararci. Pur continuando ad avanzare, il progresso è scaduto a invenzione automatica; abbiamo perso la speranza degli illuministi di conciliare l’avanzata morale del­l’uo­mo con quella della prosperità e dell’istruzione. Siamo diventati più ricchi, più istruiti, ma non siamo diventati migliori. Il xx secolo ha raggiunto, con i campi di sterminio nazisti e i gulag sovietici, cinesi, cambogiani, un livello senza pari di barbarie. Heidegger non ha forse detto in una conferenza del 1949, per minimizzare la sua adesione al nazionalsocialismo, che l’agricoltura meccanizzata e la « produzione di cadaveri » ad Auschwitz sono la stessa cosa?4 Il progresso è ormai l’oggetto di un culto ambiguo, è un dato di fatto più che una speranza, la ricompensa di una società che produce, a qualunque costo, il suo numero di novità e di gadget in ogni settore. Il progressismo, cioè la fede nelle virtù del futuro, è in parte una sfida e in parte una certezza, un misto di volontarismo e sudditanza. Il movimento fine a se stesso, ecco ciò che rimane di questa speranza trasformatasi nell’apoteosi del conformismo. Come la regina bianca in Alice nel paese delle meraviglie, anche noi siamo coparole di Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite. A Parigi la cattedrale di Notre-Dame, i teatri dell’Opéra Garnier e Bastille e perfino la Tour Eiffel sono rimasti spenti per qualche minuto. 4   « L’agricoltura è ormai un’industria alimentare meccanizzata, come la fabbrica di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, come i blocchi che riducono interi paesi alla fame, come la produzione di bombe all’idrogreno », citato da Philippe Lacoue-Labarthe, La Fiction du politique, Christian Bourgois, Paris, 1987, p. 58 (trad. it. di Giovanni Scibilia: La finzione del politico, Il Melangolo, Genova, 1991). 94

stretti a correre in continuazione, solo per rimanere allo stesso livello del paesaggio. Ci muoviamo per restare immobili. Chi, in questo senso, può non dirsi progressista, perfino nella destra, conservatrice sul piano dei valori, ma seguace accanita dei mutamenti tecnologici? Il movimentismo, o bougisme secondo l’espressione coniata da Pierre-André Taguieff, ci ha conquistati e sembra sempre più un cambiamento inesorabile. La festa del progresso non si ferma mai e ci risparmia i due vicoli ciechi del­l’an­go­scia: non c’è vuoto, né saturazione, poiché il desiderio si rinnova in continuazione. Anziché avanzare a grandi passi sui viali del futuro, ci pieghiamo all’inerzia di un cambiamento incontenibile. C’è una maledizione in quest’avanzata che non tollera sosta né ritorno al passato. Kant scriveva: Comunque rimane sempre sorprendente che le generazioni anteriori sembrino solo affaticarsi per quelle che sopravvengono (...) e che quindi solo le generazioni posteriori sembrino dover avere la fortuna di abitare nel­l’edi­fi­ cio intorno a cui i loro predecessori (...) lavorarono.5

Ma in questo edificio terminato, l’acqua è inquinata, l’aria irrespirabile, la natura devastata e quelli che sono nati per ultimi maledicono i genitori per aver lasciato loro in eredità un regalo avvelenato.

  Immanuel Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in welt­bür­ ger­licher Absicht (trad. it. di Gioele Solari e Giovanni Vidari: Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, utet, Torino, 1956, pp. 126-127). 5

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2) Il demiurgo intermittente La cosa peggiore è che i guai continuano a rispuntare come le teste della mitica Idra. Appena una fonte di dolore si spegne, se ne presenta un’altra, rendendo inutili gli sforzi compiuti. Ciò che pensavamo debellato continua a ferirci; le conquiste irrefutabili, la sconfitta di una serie di malattie confinate nella preistoria sono rimesse in discussione con il ritorno di antichi virus o la propagazione di bacilli più aggressivi, per non parlare della comparsa di nuovi batteri ultraresistenti sui quali gli antibiotici non hanno più effetto. Non passiamo dal buio alla chiarezza, come pensavano i positivisti del xix secolo, ma distribuiamo in modo diverso luci e ombre. Non potendo prevedere gli effetti a lungo termine delle nostre invenzioni, della diffusione di una nuova molecola o di semi transgenici, dobbiamo dare prova di moderazione. Una decisione presa alla leggera oggi potrebbe compromettere la sopravvivenza del­l’uma­ni­tà futura. La nostra responsabilità non riguarda solo la zona a noi nota, ma anche lo spazio più vasto di ciò che ignoriamo. Da qui deriva l’aspetto potenzialmente tragico di ogni innovazione che « in una specie di rivelazione retroattiva » (François Ewald)6 può nascondere un male che non avevamo voluto vedere. Questo nuovo tipo di rischio sconvolge l’ordine del tempo e ci rende colpevoli pur non essendolo, visto che non potevamo immaginare ciò che stavamo facendo. In altre parole, siamo diventati co-responsabili della natura, avendola regolata e devastata: il suo destino si confonde con il nostro. Il nostro parziale dominio ci rende suoi debitori, e questo debito si trasforma in eterno esproprio.  François Ewald, Encyclopaedia Universalis, 2001. Articolo: « Risque tecnhnologique ». 6

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Un tempo, la scienza voleva emancipare l’uomo dalla tirannia della materia, che costituiva una riserva illimitata di minerali, energie fossili, specie animali, vegetali di cui appropriarsi. Ma la materia è entrata a sua volta nell’ordine della finitezza, cessando di essere inesauribile. Il problema si complica poiché gli strumenti del nostro dominio sulla materia sono diventati gli strumenti del dominio della tecnologia su di noi. La tecnologia, infatti, non è più un mezzo al servizio di un fine, ma il nostro destino – secondo l’analisi che ne fa Heidegger –, un processo che non possiamo più fermare, ma tutt’al più frenare. La potenza incredibile concentrata nelle mani del­l’uo­mo fa il paio con l’incapacità di arginare questa stessa potenza. Nel tentativo di liberarsi dai vincoli naturali, l’uomo si è sottoposto al giogo di un nuovo padrone, le macchine, le quali, nella loro estrema sofisticazione, superano la nostra comprensione, lasciando intravedere ad alcuni la futura presa del potere da parte di una rete di computer dotati d’intelligenza artificiale. Pur affermando che l’obiettivo della scienza era ripristinare l’autorità del­l’uo­mo sul mondo dopo la Caduta, il filosofo e scienziato inglese Francis Bacon (1561-1626) si manteneva entro il solco dell’eredità giudaico-cristiana: la possibilità per l’umanità di sfruttare le cosiddette specie inferiori andava di pari passo con un dovere di benevolenza e compassione verso di loro. In tal senso, il cristianesimo si è mostrato più antropocentrico del giudaismo, il quale include gli animali tra i membri dell’alleanza con Dio.7 Rimane il fatto che la paura di vedere la natura sotto il controllo del­l’uo­mo è in gran parte una finzione. La nostra sovranità sulle cose è al tempo stesso smisurata e in Si veda Keith Thomas, op. cit.

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completa. Abbiamo mezzi a sufficienza per distruggere l’universo da cima a fondo, soprattutto nel settore nucleare, ma non abbastanza per piegarlo alla nostra volontà. La Terra è stata in parte soggiogata, ma non l’abbiamo addomesticata, come dimostrano le eruzioni vulcaniche, i tornado, i terremoti, i capricci meteorologici. L’uomo è un demiurgo intermittente e patetico.

3) Facciamo il bello e il cattivo tempo? Da una ventina d’anni, assistiamo a un importante evento epistemologico: non ci sono più catastrofi naturali. Gli tsunami nel Sudest asiatico o in Giappone, i terremoti in Cile, in Italia o a Haiti, le tempeste in Vandea, il ritorno degli inverni rigidi, le estati cocenti, sarebbero tutti fenomeni di origine umana. Proprio mentre diciamo di voler ridurre la superbia dell’essere creato, gli attribuiamo tutti i danni possibili e immaginabili. Niente accade senza un motivo, non ci sono più incidenti, ma solo conseguenze, volute o meno, del nostro controllo sul globo. Camminando su questo pianeta, vediamo ovunque e unicamente la nostra opera, specchio delle nostre azioni. E i pericoli che crediamo naturali, le scosse sotto la superficie del mare, l’epilessia della crosta terrestre, le erosioni, gli uragani, sono le nostre stesse trasformazioni che si scagliano come un boo­mer­ang contro di noi. Come sostiene la nuova vulgata, da dieci anni stiamo subendo un aumento delle catastrofi. Non è piuttosto la nostra sensibilità alle perturbazioni climatiche che si è intensificata?8 Se il xx secolo vedeva an Secondo l’Istituto geologico americano, il numero di terremoti è stato relativamente stabile nel corso degli ultimi cento anni, ossia secondo le previsioni circa 18 all’anno, superiori a 7 gradi sulla scala 8

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cora nello tsunami o nelle convulsioni telluriche semplici fatti di cronaca, adesso li consideriamo indizi. In ogni calamità naturale vediamo la conferma di un disastro futuro: ogni minimo cambiamento di temperatura, ogni smottamento ci predice un evento tragico. Ragioniamo secondo la logica implacabile del conto alla rovescia. Non possiamo più consentirci distrazioni, poiché le crisi si accumulano. Nel 2000, un giornalista britannico, riferendosi al­l’In­ ghil­ter­ra, non aveva forse scritto sull’Independent: « Le nevicate appartengono ormai al passato »?9 Aspettiamo ancora una spiegazione o delle scuse... Che cos’è una catastrofe, in questa prospettiva? Un orizzonte di senso che dà un significato a eventi incomprensibili. La riflessione di Anthony Giddens e di Martin Rees sugli eventi del 2010: Nessuno può dire con certezza se le inondazioni in Pakistan, i disastri senza precedenti in America, l’ondata di calore e la siccità in Russia o ancora le inondazioni e le frane in Cina siano state provocate dai cambiamenti climatici. Questi eventi rappresentano tuttavia un duro avvertimento. Le manifestazioni estreme del clima saranno Richter. L’aumento del numero delle vittime dipende dal fatto che le popolazioni nelle zone a rischio sono più numerose rispetto al secolo scorso. Senza contare che nell’era di Twitter e degli smartphone, il rumore mediatico delle catastrofi esplode. Tuttavia, alcuni faranno notare che il numero di terremoti distruttivi (superiori a 8,0) sembra cresciuto negli ultimi tren­t’an­ni: quattro negli anni Ottanta, sei negli anni Novanta, tredici dal 2000. « C’è un aumento evidente a partire dagli anni Novanta » riconosce il geologo Stephen Gao, del­l’uni­ver­si­ tà del Missouri. « Non sappiamo il perché. Potrebbe essere dovuto a semplici variazioni temporanee di pressione nella litosfera. » (Fonte 20 Minutes, 15 marzo 2011.) 9  Charles Onians, The Independent, 20 marzo 2000. 99

sempre più frequenti e intense per effetto del riscaldamento globale.10

Ecco una forzatura semantica tipica della nuova ideologia che spiega tutti i fenomeni con un’ipotesi: « Nessuno può dire... », ma noi lo diciamo. Si stravolge l’interpretazione per risvegliare il pubblico dal suo torpore. Il procedimento è palesemente disonesto, ma lo si adotta con le migliori intenzioni. Nel Medioevo, i cataclismi naturali erano interpretati come una punizione di Dio. Nel xiv secolo, ad esempio, i terremoti avvenuti in Italia e in Carinzia, ma soprattutto l’epidemia di peste, furono paragonati dalle sette millenariste a « dolori messianici » che annunciavano la fine del mondo, una prova tremenda prima della redenzione del­l’uma­ni­tà.11 Ma a quei tempi erano l’insicurezza e la carestia a condurre al parossismo la febbre escatologica. Le disgrazie dipendevano dall’impotenza della creatura. Oggi, derivano dalla nostra eccessiva potenza, proprio mentre godiamo, almeno nei paesi sviluppati, di una speranza di vita superiore di venti anni rispetto a mezzo secolo fa, di cure mediche e di un’abbondanza alimentare mai viste nella storia. Gli antichi utilizzavano le interiora dei polli o il volo degli uccelli per leggere il futuro. Noi scrutiamo il cielo per leggere i segni del nostro destino: che cosa non è dovuto al riscaldamento globale? La pioggia è dovuta al riscaldamento, così come la siccità, il vento, le bufere, i cicloni, perfino il freddo, secondo la meravigliosa astuzia logica inventata da Al Gore:12 l’aumento delle temperature  Anthony Giddens, Martin Rees, versione francese, Le Monde, 27 novembre 2010. 11  Norman Cohn, op. cit., p. 131. 12  « Global warming is global cooling. » Il riscaldamento globale è un raffreddamento globale. 10

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rende il nostro clima più freddo, poiché lo scioglimento dei ghiacci della banchisa provocherà la fine della Corrente del Golfo, che consente di mantenere un clima temperato sulle coste europee. Tra dieci o vent’anni, avremo trovato un’altra spiegazione per calmare le nostre angosce. Per il momento, è questa la chiave che apre tutte le porte, come un magico passepartout. Ma se anche lo sconvolgimento climatico fosse probabile, bisogna farne una priorità? Spendere miliardi di euro per contrastarne gli effetti anziché usarli per combattere i veri flagelli come la miseria e le malattie? Bisogna sforzarsi di far scendere il termometro con i mezzi più strambi (diffondendo nella stratosfera un milione di tonnellate di particelle di solfato, che rifletterebbero la luce del sole, secondo il consiglio di un premio Nobel per la chimica, Paul Crutzen), anziché aiutare le isole e i paesi minacciati da un eventuale aumento del livello del mare (sebbene dal 1992 la crescita del livello dei mari si sia mantenuta incredibilmente stabile, a 3,3 millimetri al­l’an­no, nonostante lo scioglimento delle calotte po­la­ri)?13 Nel momento in cui accusiamo l’uomo di tutti i mali del­l’uni­ver­so, attribuiamo a madre natura intenzioni umane e la trasformiamo in un’entità dotata di volontà e sentimenti. I grandi sconvolgimenti geologici sono da intendere come la rivolta della nostra Madre Terra che punisce i propri figli indegni inviandogli le sette piaghe d’Egitto. Strano scambio: alla presunta onnipotenza del­l’uo­mo si opporrebbe la resistenza accanita del pianeta martirizza C’è da sperare che il riscaldamento globale venga confermato in un futuro prossimo: se per disgrazia i climatologi si sbagliassero nelle loro simulazioni, sarebbe davvero una catastrofe simbolica, anni d’indottrinamento rimessi in discussione. In fondo, un clima da Riviera in Bretagna, i vigneti sul Tamigi, le palme in Svezia, chi si lamenterebbe? 13

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to. Morendo, la Terra ci trascina nella sua agonia e ne approfitta per somministrarci una bella lezione. Il tempo atmosferico annuncia la fine dei tempi, le inclemenze climatiche ci parlano del nostro futuro, sono come frecce, presagi inviati dal cielo per avvertirci. Volendo spiegare « il disarmo dello spirito umano di fronte alle sue creazioni prodigiose », una giornalista insegnante scrive: Il sonno della coscienza genera mostri. Le bombe a orologeria – nucleari, climatiche, chimiche – cominciano a esplodere. Ci siamo.14

Lo tsunami del marzo 2011 e l’incidente nucleare di Fu­ ku­shima? L’unico colpevole è l’uomo: È come se la Natura si innalzasse di fronte al­l’uo­mo e gli dicesse dal­l’al­to dei suoi flutti dirompenti alti venti metri: « Hai voluto dissimulare il male che dimora in te assimilandolo alla mia violenza. Ma la mia violenza è pura, va oltre le tue categorie di bene e male. Ti punisco prendendo alla lettera l’assimilazione che tu hai fatto tra i tuoi strumenti e la mia forza immacolata. Muori dunque con lo tsunami ».15

Ecco che la Terra si « vendica »! Siamo immersi fino al collo nella magia nera e le calamità sono punizioni contro gli eccessi umani. Dobbiamo calmare la collera di Dio o degli elementi, ci vogliono in primo luogo capri espiatori,  Agnès Sinaï, « Fukushima ou la fin de l’anthropocène. Sortir d’urgence de l’inanité de notre mode de croissance », Le Monde, 19 marzo 2011. 15   Jean-Pierre Dupuy, « Une catastrophe monstre », Le Monde, 20-21 marzo 2011. 14

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e il principio d’imputazione li cerca disperatamente per spiegare i drammi. Il terremoto a Haiti nel gennaio 2010? È anch’esso colpa nostra, perché nel xix secolo abbiamo colonizzato que­ st’iso­la, spiega un giornalista.16 In quale modo l’antica potenza coloniale, che ha lasciato Haiti nel 1825, non senza in effetti esigere un tributo ingiusto, abbia provocato 185 anni dopo un terribile terremoto, resta un mistero! Durante l’inverno 2001, nel Nord della Francia, in Piccardia, è straripata la Somme. Le vittime del disastro accusano le autorità dell’Île de France di aver deviato l’acqua della Senna nella Somme per decongestionare il bacino parigino, come quando si svuota il lavello. Il clamore che sale da Abbeville costringe le autorità pubbliche a diramare una smentita ufficiale. Lo tsunami del 2004 nel Sudest asiatico è stato anch’esso interpretato come una catastrofe biblica (quando non è stato attribuito, da certi siti cospirazionisti, alle forze sioniste o nordamericane). È un’opportuna correzione che ci viene impartita dagli oceani e dalla crosta terrestre: a forza di occupare la costa per sviluppare il turismo, a forza di distruggere le foreste di mangrovie, di intensificare la pesca, di disboscare pianure e colline per estendere le zone di allevamento, gli uomini preparano le condizioni della propria scomparsa. La natura è come Dio, le si possono attribuire tutti i disegni, perfino i più aggressivi, li confermerà senza rifiutarne nessuno. Secondo i più informati, ossia i più paranoici, il capitalismo è così machiavellico che si butta a capofitto sui disastri naturali per porvi rimedio e si arricchisce con la ricostruzione, quando non cerca addirittura lui stesso di provocarli.17 Si scaglia sulla miseria del mondo con la furia di un torna  Hervé Kempf, Le Monde, 17-18 gennaio 2010.  Naomi Klein, The Shock Doctrine: the Rise of Disaster Ca­pi­tal­

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do per trarne profitto. Se la natura per Galileo era un libro scritto con il linguaggio della matematica, oggi la si interpreta con il linguaggio esoterico delle cospirazioni o della stregoneria. A questa intemperanza corrisponde quella che potremmo definire « teoria delle causalità deliranti »: attribuire al traffico dei camion sulle autostrade i quindicimila decessi del­l’on­da­ta di caldo del 2003 in Francia, come sostiene Serge Latouche, significa farneticare. Un conto è far riscoprire a « Danone e ad altri produttori di yogurt le virtù del latte, del cartone e del profumo della vicinanza »18 un altro è accusarli della scomparsa di migliaia di anziani nel Nord della Francia, dovuta piuttosto alla negligenza del governo e degli ospedali. Ma qualsiasi spiegazione è rassicurante nel momento in cui la sofisticazione estrema degli strumenti della conoscenza rende i fenomeni climatici difficili da capire e prevedere. È la nostra inadeguatezza che viene così confermata, piuttosto che le nostre certezze. Ci dirigiamo matematicamente verso sconvolgimenti esponenziali, poiché gli uomini sono più numerosi, soprattutto nelle città, occupano una quota in costante crescita di territori in costante diminuzione e concentrano, nei paesi ricchi, un maggiore valore aggiunto per chilometro quadrato. Ogni disastro naturale vedrà moltiplicare i suoi effetti, in aree sempre più densamente popolate, dall’impreparazione dei governi. Subiamo gli effetti delle convulsioni del­ la Terra e del­l’in­co­scien­za umana. In Giappone, nel marzo 2011, a un terremoto d’inaudita violenza e allo tsunami, ism, Allen Lane, London, 2007 (trad. it. di Ilaria Katerinov: Shock economy: l’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, Milano, 2007). 18  Serge Latouche, op. cit., p. 224. Il libro di Latouche offre in un centinaio di pagine una piacevole sintesi di tutte le stupidaggini ecologiste. 104

responsabili di almeno trentamila morti, si è aggiunta l’incompetenza di un’industria nucleare che costruiva reattori su una faglia sismica, in riva al mare. Le stele degli antenati, su cui era scritto di non edificare abitazioni a meno di ottocento metri dalla riva, sono state ignorate. Il sisma di magnitudo 7 del gennaio 2010 a Haiti, paese povero e mal governato, ha fatto 250.000 vittime. Quello di magnitudo 8,8, avvenuto poco dopo in Cile, che ha da tempo introdotto leggi antisismiche, ne ha fatte settecento. Quanto all’uragano Katrina, che si è scatenato su New Orleans il 29 agosto 2005, ha colpito le popolazioni diseredate, per lo più nere, abbandonate alla furia delle acque, in seguito alla rottura delle dighe sul Mississippi e sui canali (la città sorge sei metri sotto il livello del mare). In democrazia, serve un’equa ripartizione dei rischi, così come delle ricchezze, che in questo caso non è stata rispettata. Non è corretto dire, come fa il teorico della guerra climatica Harald Welzer, che « l’uragano ha causato il crollo completo dell’ordine sociale ».19 Nonostante le sparatorie, le scene di saccheggi e sommosse, inevitabili in questo genere di situazione, quasi un milione di abitanti sono stati evacuati; tra le vittime è emersa una grande solidarietà; quanto alle violenze, sono state in parte causate da forze dell’ordine note per la loro corruzione e il loro razzismo,20 tanto che alcuni cartelli, durante le manifestazioni contro l’inerzia delle autorità federali, proclamavano con sarcasmo: « Chirac, riprendici ». (La Louisiana fu francese fino   Harald Welzer, Le Monde, 31 ottobre 2009.  Tra i numerosi scritti su Katrina, una buona sintesi è offerta da Cybergeo, rivista europea di geografia, n. 353, 12 ottobre 2006. Si veda anche l’eccellente serie televisiva Treme, sulla buona volontà dei sopravvissuti nel ricostruire e ritrovare la loro città. 19 20

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al 1803 quando fu ceduta agli Stati Uniti appena nati da Napoleone in cambio di una somma considerevole.) In un’epoca in cui la pressione demografica è ovunque in aumento, abbiamo meno che mai diritto alla negligenza in materia di edilizia e di rischi industriali. La responsabilità umana può senza dubbio fare la sua parte per fronteggiare i fenomeni naturali, prevedibili e ricorrenti. Ma estenderla al­l’in­te­ro pianeta, o addirittura al sistema solare, è tanto irragionevole quanto la volontà scientista di sottomettere la materia. Non abbiamo gli strumenti per ordinare al creato di provocare neve, sole o pioggia a volontà. La Terra non è mai arrabbiata o felice: obbedisce alle sue leggi, che ci conviene conoscere, se non vogliamo soccombere.

4) Gli esseri viventi, un soggetto giuridico? Quali sono le caratteristiche della natura? Non parla, o forse parla troppo, con messaggi oscuri. È quel « tempio ove viventi pilastri a volte confuse parole mandano fuori » (Baudelaire). Si esprime per mezzo di mille voci mormoranti che il poeta, lo scienziato, l’erborista tentano di captare, di enunciare. È un colloquio al di là delle parole, uno schiamazzo che non cessa mai e che si esprime con il soffio dei venti, il fruscio delle foglie, il crepitio della pioggia, il fragore dei torrenti. Accordare il dono del linguaggio alle mucche, ai maiali, agli orsi, agli alberi come hanno fatto gli antichi e più di recente Jean de La Fontaine, Rudyard Kipling, Jules Renard o Marcel Aymé, significa proiettare su di loro i nostri sentimenti: « I giardini parlano poco, tranne che nel mio libro » ha detto La Fontaine. Poiché la natura, come Dio, è muta o troppo chiacchierona, dobbiamo farle da interpreti, come Leibniz si fece avvocato 106

dell’Altissimo nella Teodicea, per giustificare l’ordine delle cose. « Bisogna restituire la parola al mondo del silenzio. »21 L’esercizio è delicato e richiede molto talento: quali discorsi si possono mettere in bocca al plancton, alle barriere coralline, alle fosse oceaniche, a parte fargli spiegare con le parole giuste la loro funzione, la loro complessità, il loro splendore? Chiamare ogni cosa col nome corretto significa darle il diritto di esistere. Il sociologo Bruno Latour propone, ad esempio, d’istituire un « Senato dei Non Viventi » per estendere il campo politico all’intero pianeta. In tal caso, chi parlerà a nome del mondo? Vedremo comparire una casta di chierici, traduttori delle volontà rocciose, argillose e vegetali, adattatori di segnali cosmici così come esistono esperti di ufo? Forse gli uomini torneranno a ragionare solo quando verrà accordato il diritto di voto attivo e passivo all’erba e al verme. (Ulrich Beck)22

C’è da sperare che si tratti di umorismo involontario in un libro peraltro interessante. Chi censirà i fili d’erba, chi porterà le loro schede elettorali alle urne, chi proporrà una selezione di candidati? Abbiamo bisogno di « mondologhi » dice Edgar Morin, citando Ernesto Sábato, ossia di spiriti capaci di sintetizzare l’insieme delle conoscenze e dei dati che riguardano l’intero pianeta. È un progetto nobile, che rischia però di ridursi a una compilazione da autodidatti, un po’ come l’enciclopedia burlesca di Bouvard  Trailer del film di Jacques Perrin, La vita negli oceani, febbraio 2011. 22  Ulrich Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1986 (trad. it. di Walter Privitera, Carlo Sandrelli: La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2000). 21

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e Pécuchet. Ci fa rabbrividire l’idea di un’università che consegna diplomi da « mondologo », da specialista del vago, a esperti di tutto e niente, capaci di tenere con la stessa autorità un discorso sull’acidificazione degli oceani, la scomparsa dei lupi grigi nel Nord America, le condizioni di lavoro in Cina, i progressi della biologia molecolare, l’ipofertilità dei vermi maschi, la spiritualità degli sciamani eccetera. La loro incompetenza in ogni singolo settore sarà pari al loro entusiasmo nello svelarvi i meccanismi più segreti. Secondo la vulgata oggi in voga, ci sarebbero quindi due modi di ragionare: un pensiero di tipo U, che ruota attorno al­l’uo­mo e al suo benessere, e un pensiero di tipo non-U, che vuole denunciare il primato dell’antropocentrismo e promuovere l’etica animale, « biocentrica » o « della Terra », ossia che include la totalità degli esseri viventi.23 Perché no? Ridurre la tracotanza del­l’uo­mo, non considerarlo più il signore del mondo, ma un abitante come gli altri, è il compito svolto, da diversi secoli, da un certo genere di filosofia. Ma « pensare come una montagna », secondo la bella frase di Aldo Leopold (1887-1948), difendere la nobiltà degli alberi come patrimonio da salvare, far parlare i fiumi, accordare uno statuto giuridico a una pianura, a una miniera, significa solo spostare il problema. Gli esseri naturali, gli animali, hanno il diritto di avere diritti? Senza dubbio, poiché soffrono esattamente come noi e vogliono godersi la propria vita. Si tratta però di diritti derivati di cui solo l’umanità è garante: la caratteristica di un soggetto legale è innanzitutto la capacità di difen  Prendo in prestito questa distinzione da Stéphane Ferret, op. cit., pp. 124-125. L’etica animale è rappresentata da Peter Singer e Tom Regan, l’etica biocentrica da Albert Schweitzer e Paul Taylor, l’etica della Terra da Aldo Leopold, Arne Naess e John Baird Callicott. 23

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dere i propri diritti. Non è il caso né degli animali, né delle piante: possono impietosirci, commuoverci, ma non sono in grado far valere la loro causa senza il tramite di uomini sensibili alla loro condizione. Bisogna concedere diritti agli umanoidi, agli automi, redigere una « Carta etica dei robot » come ha proposto la Corea del Sud? Se davvero sono autonomi, tocca a loro prenderseli!24 Obiettare che concediamo diritti a esseri incoscienti o incapaci d’indipendenza – feti, neonati, schiavi, moribondi, malati mentali – non è convincente: il feto parlerà e diventerà indipendente, lo schiavo può affrancarsi e diventare un uomo libero, quanto al malato in stato comatoso, è stato un essere sano sebbene la sua condizione si sia deteriorata. Non è una novità il fatto che siamo solo un « frammento del mondo » (Stéphane Ferret), ma siamo l’unica specie a pretendere di essere considerata come una tra le tante. Chi difende i diritti delle foreste e delle scogliere se non l’uomo contro altri uomini? Assimilare lo specismo al sessismo, scrivere ad esempio: « Gli animali sono carne, cavie per esperimenti e corpi oggettivati; le donne sono trattate come carne, come cavie e corpi oggettivati »25 significa cadere nel grottesco. Che io sappia, non si divorano le donne allo spiedo. Chi confonde la propria moglie con un pezzo di arrosto ha seri problemi oculistici o psichiatrici e deve consultare un medico al più presto. Se poi il pianeta diventa un soggetto giuridico, bisognerà citarlo in giudizio ogni volta che una valanga, una frana o un tifone distrugge non solo qualche comunità umana,  Come fa notare Dominique Lecourt, L’Âge de la peur, Bayard Presse, Paris, 2009, pp. 136-137. 25  Carol Adams, « Anima, animus, animal », Les Cahiers anti­spé­ cistes, n. 3, aprile 1992, citato in Jean-Baptiste Jeangène Vilmer, L’Éthique animale, puf, Paris, 2011. 24

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ma anche un’area naturale protetta. Che si accordi un primato inalienabile all’essere umano oppure lo si accordi al mondo inanimato è irrilevante, perché è sempre l’uomo a parlare, agire o decidere. Si può concedere il diritto di voto al cavallo o al platano, ma saremo sempre noi a fare il conteggio dei voti. « Non affermerò mai di avere un diritto alla vita superiore a quello di una mosca » scrive Arne Naess, fondatore norvegese della deep ecology. Ecco una riflessione da scandinavo che non ha mai sofferto di malaria! Già Albert Schweitzer diceva di capire che si uccidessero le zanzare in Africa, dove causano la malaria, ma non in Europa, dove sono innocue. In un altro ambito: su Internet è disponibile una dichiarazione universale dei diritti delle piante. Bisogna tutelare questi « esseri straordinari » che hanno sviluppato un meraviglioso sistema di crescita e di fotosintesi e « limitare l’uso incontrollato di macchine altamente distruttive », i tosaerba, ad esempio, e soprattutto « eliminare ogni termine dispregiativo associato alle piante: macchia, erbaccia, sterpaglia ». Una commissione federale svizzera di etica per la biotecnologia si è interrogata seriamente nel 2008 sulla dignità e la sensibilità delle piante.26 In futuro, dinanzi a un tribunale antirazzista, puniremo l’uso della parola « gramigna » nelle conversazioni o vieteremo l’uso del prezzemolo, dell’insalata, della cicoria nell’alimentazione perché mangiarle e tagliarle significa attentare al loro onore? L’argomento non è del tutto infondato ed è citato spesso, con loro grande rabbia, contro vegetariani e vegani con il nome di « grido della carota »:27 che cosa sappiamo  Si veda Stéphane Ferret, op. cit., che s’interroga sui meriti di queste proposte, pp. 180 sgg. 27  Si veda la discussione condotta da Jean-Baptiste Jeangène Vilmer, op. cit., pp. 12-13. 26

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davvero delle sofferenze provate dalla verdura che cuociamo, dal grano che mietiamo, dagli alberi che abbattiamo? Se ammettiamo che la Terra soffre per colpa dei nostri comportamenti, perché non dovrebbero patire le piante, anche se le loro sensazioni non sono paragonabili a quelle dei quadrupedi o degli uccelli? Ogni buon subacqueo sa che le alghe si ritraggono al contatto di un corpo estraneo e poi si distendono. Que­st’obie­zio­ne, all’apparenza irrisoria, dimostra che prosperiamo tutti, volenti o nolenti, sulla morte di una serie di entità vegetali, animali o altro, e che i vegetariani non sono meno indifferenti ai tormenti dei pomodori, dei fagioli, di quanto lo siano i carnivori a quelli delle bestie. L’ironia di questo tipo di domande è che non ci aiutano a riscoprire le perfezioni dell’infinitamente piccolo o del cielo stellato, ma soltanto a vedere l’edificio mostruosamente complesso della giustizia estendere i propri confini su nuovi settori. Può darsi che ci troviamo nel pieno di un rinnovamento concettuale, ma siamo soprattutto nel mezzo di un’esplosione di schiamazzi, di una proliferazione di sproloqui. I film sulla natura sono sempre odi alla bellezza del mondo. I film militanti (Una scomoda verità, Home, Le Syndrome du Titanic) non sono altro che requisitorie contro la crudeltà degli uomini. Aumentare la lista dei soggetti che beneficiano di diritti equivale ad accrescere la responsabilità del­l’uo­mo e a moltiplicare i suoi doveri, ossia a difendere un antropocentrismo più ampio e non un ecosferismo utopico.28 Da qualunque punto di vista si consideri la questione, è sempre  Su questo argomento, si legga la brillante dimostrazione di Luc Ferry, Le Nouvel Ordre écologique, Grasset, Paris, 1993 (trad. it. di Carlo Gazzelli, Phyllis Kern: Il nuovo ordine ecologico, Costa & Nolan, Genova, 1994) e Dominique Bourg, L’Homme artifice, le Débat, Gallimard, Paris, 1996, pp. 332-333. 28

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l’uomo a stabilire senso e diritti: la natura è un soggetto eti­ co solo per procura, ecco perché il problema è così difficile. Per proteggere un certo tipo di animale, un sito o un lago, bisogna scontrarsi contro determinati gruppi umani. I dispregiatori dell’eccezionalità umana non smettono di affermarla pur non volendola. Più tentano di sminuire l’uomo più lo esaltano! Definire desueta la distinzione tra naturale e artificiale, come fa Hans Jonas, fare del bipede « un cittadino tra gli altri nella comunità terrestre » (Aldo Leopold), significa, con il pretesto di umiliarlo, incoronarlo nuovamente re della creazione poiché solo lui sarà giudice, procuratore e parte in causa. Pensiamo di difendere le specie, ma facciamo rimbalzare ovunque l’eco della nostra voce, appesantiamo il nostro fardello all’infinito. Avremmo quindi sconvolto la genesi dei fenomeni atmosferici, l’orbita della Terra, il ciclo del­l’ac­qua, la dinamica interna dell’evoluzione naturale,29 saremmo in grado di modificare perfino il ciclo del carbone. Dopo il pleistocene e l’olocene, saremmo entrati nell’« antropocene » (Paul Crut­zen), secondo la scansione proposta dai geologi, cioè nella produzione integrale dell’ambiente da parte del­ l’uo­mo.30 Rispettiamo le competenze degli scienziati. Sette miliardi d’individui che brulicano su questo pianeta conducono senza dubbio a una configurazione inedita. Costruttori, distruttori, profanatori, la loro moltiplicazione non è certo priva di impatti sull’ambiente circostante. Ma fino a che punto? Rimettere la specie umana al centro del mondo, da un punto di vista filosofico, non è come prolungare il cartesianesimo con il pretesto di confutarlo, non equivale a ritrovare l’ebbrezza di Auguste Comte, convin Stéphane Ferret, op. cit., p. 32.   The Economist, 2 giugno 2011, « A man-made world ». Si tratta sempre di un’ipotesi. 29 30

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to che l’umanità sarebbe stata in grado di raddrizzare l’asse di rotazione della Terra?31 Descartes ha avuto almeno la prudenza di affermare che l’uomo era « come il padrone e il detentore della natura » e di sottolineare con questa congiunzione il ruolo subalterno della creatura, che non poteva attribuirsi l’onnipotenza del Creatore senza offuscarlo, essendo solo la rappresentante di Dio sulla Terra. Ormai non abbiamo più certi pudori e ci proclamiamo piloti della navicella Terra, nuovi principi del mondo. Appena abbattuti dal nostro piedistallo, eccoci su un trono ancora più grande. L’ambientalismo radicale? Solo l’ultima trasforma­ zione di Prometeo, benché si tratti di un Prometeo pentito.

Il misantropo, il riflessivo, il soldato Negli ultimi anni della sua vita, Rousseau scrive Le fan­ tasticherie del passeggiatore solitario (1782), libere riflessioni sulla vecchiaia e sul mondo. Il titolo è ingannevole: Rousseau non sogna, ma tuona e rimugina, non cammina, ma morde il freno, non è mai solo, ma è sempre assalito dal ricordo dei suoi simili che hanno fomentato un complotto contro di lui. Sdraiato su una barca sul lago di Biel, in Svizzera, mentre si gode il semplice piacere di esistere, sente ancora dietro lo scia Ringrazio Jean-Francois Braunstein, professore di filosofia e scienze alla Sorbona, per quest’informazione. Quest’ambizione è al centro della trama di un romanzo di Jules Verne, Il mondo sottosopra, in cui un gruppo di industriali americani decide di raddrizzare l’asse terrestre per accedere alle ricchezze minerarie del grande Nord. Milton, nel Paradiso perduto, parlava dell’inclinazione dell’asse terrestre come di una conseguenza del peccato originale (Michel Serres, Jules Verne ou l’enchantement du monde, conversazioni con Jean-Paul Dekiss, Poche, Le Pommier, Paris, 2010, p. 158). 31

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bordio delle onde il mormorio delle calunnie e i sogghigni dei nemici. « Avevo un bel fuggire in fondo ai boschi, una folla importuna mi seguiva dappertutto e velava ai miei occhi tutta la natura. » La compagnia dei malvagi continua a molestarlo. Bisognerebbe ripulire il paradiso dalla presenza sgradita degli uomini. Meno di un secolo dopo (1854), l’americano Henry D. Thoreau, inventore del concetto di disobbedienza civile, si isola per due anni tra i boschi di Concord nel Massachusetts, vicino al lago Walden. Durante questo periodo, scrive un lungo diario, a metà strada tra un elogio del « poema della creazione » e una critica della società americana dedita al dio del commercio e della frenesia. Quest’opera, un appello a intensificare la vita attraverso la semplicità ritrovata, a tratti illuminante, a tratti fastidioso, avrà una grande influenza sulla cultura americana e segnerà la nascita dell’interesse per l’ambiente (in particolare con una delle prime critiche del­ l’ali­men­ta­zio­ne carnivora). Il testo di Henry D. Tho­ reau, diviso tra cultura classica, saggezza orientale e prosaicismo rurale, è innanzitutto una meditazione sullo spirito delle foreste, la meraviglia di un lago ghiacciato, la bellezza degli aceri in autunno. Rifugiarsi nelle foreste conduce a un unico atteggiamento: la sconcertata contemplazione. A metà strada tra la vena biliosa di Rousseau e il lirismo di Thoreau, che ritrova in mezzo agli alberi e ai prati una certa purezza morale, compare negli Stati Uniti una terza corrente, i survivalisti, gruppi di ribelli che si rifugiano sulle montagne, fanno scorte di cibo e medicine, si fanno costruire un bunker e si esercitano a usare le armi. Si allontanano per poter fronteggiare l’eventualità di una guerra totale, ritornano alla vita selvaggia per prepararsi al peggio. E finiscono a volte per 114

commettere qualche crimine: come il francese John Pitner che negli anni Novanta reclutò una milizia d’insoddisfatti, la trasformò in un esercito per lottare contro i nemici dell’America, prima di essere arrestato dall’fbi nel 1997.32 Ciascuna di queste visioni si articola in modo diverso: la natura come fuga, la natura come favola, la natura come fortezza. Oggi noi sembriamo indecisi fra le tre: l’ambientalismo nella maggior parte dei casi non è la riscoperta estasiata di paesaggi e foreste, ma piuttosto l’umanità che si odia vedendosi riflessa nello specchio della creazione. Alla nostra epoca manca una virtù fondamentale: la capacità di celebrare.  Jane Kramer, Lone Patriot, Vintage Books, New York, 2002. 32

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V La natura, matrigna o vittima?

Articolo i: dal 14 luglio prossimo, i giorni saranno uguali alle notti su tutta la superficie terrestre, le giornate cominceranno alle cinque (...). Articolo iv: il fulmine e la grandine non cadranno mai sulle foreste. L’umanità non sarà mai sommersa e la Terra, in tutta la sua estensione, non riceverà più rugiade salutari. Rivarol fa la parodia dei decreti rivoluzionari, 1790, Les Actes des apôtres Nell’amore della natura, l’odio degli uomini. Marcel Gauchet, Le Débat, n. 60, 1990

Nel 1855, il capo indiano Seattle scriveva al presidente degli Stati Uniti: « Ogni particella della Terra è sacra al mio popolo. Siamo parte della Terra ed essa è parte di noi... L’uomo bianco tratta Madre Terra e fratello Cielo come cose da comprare, rubare o vendere. Il suo appetito divorerà la Terra e lascerà dietro di lui il deserto... L’uomo non ha tessuto la trama della vita, ne è solo un filo. Tutto ciò che l’uomo fa alla Terra, lo fa a se stesso ».1 Leggendo  Citato in Frederic Lenoir, Le Temps de la responsabilité, Fayard, Paris, 1991, p. 77 (trad. it. di Linda Cottino: Il tempo della responsabi­ lità, Società Editrice Internazionale, Torino, 1994). Secondo il New York Times dell’aprile 1992, questo discorso sarebbe un falso scritto da uno sceneggiatore dalla sensibilità ecologista nel 1971. 1

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queste frasi ci si stringe il cuore: oltre ad annunciare la grande spoliazione dei pellerossa da parte del governo americano, suonano come un avvertimento che non vogliamo ascoltare. Ci sarebbe stata dunque un’epoca nella storia in cui l’uomo e la natura vivevano insieme in armonia? E per aver spezzato quest’alleanza, pagheremo a caro prezzo con degli sconvolgimenti?

1) Una ricostruzione bucolica Dopo aver congedato, almeno in Europa, il mondo contadino, rimpiangiamo questo universo dai ritmi stagionali. La nostra passione urbana per la campagna è decisamente malinconica: la natura è per definizione ciò che è andato perduto. Eppure le pecore, i boschi, i campi di cui cantiamo la dolcezza, sono anch’essi manipolati dal­l’uo­mo. Proiettiamo sul passato una purezza che non è mai esistita: un’alba del mondo non c’è mai stata, mentre l’artificio comincia già con l’uomo di Neanderthal, quando i primi coltivatori o nomadi, per sopravvivere, sfruttavano sistematicamente l’ambiente. Secondo il biologo americano Edward Osborne Wilson, l’estinzione di massa di alcune specie animali ha inizio nel Paleolitico con il ricorso agli utensili. In America come in Nuova Zelanda, in Madagascar come in Australia, gli uomini hanno provocato la scomparsa di gran parte della megafauna, mammiferi, uccelli, rettili di grandi dimensioni. Senza offesa per il nostro capo Seattle citato in precedenza, gli aborigeni d’Australia e gli indiani del Nord America, spesso presentati come archetipi di un atteggiamento « ecologico », praticavano la caccia col fuoco, distruggendo senza scrupolo immensi territori e sterminando specie animali incapaci di opporre resistenza. Su questo piano e contrariamente alla 117

nostra visione intenerita, non esiste alcuna saggezza dei « popoli primitivi », brutali e distruttori dell’ambiente quanto noi ma certamente meno numerosi.2 È vero che, per molto tempo, agricoltura e caccia sono state legate alla preghiera e alle offerte, ignorando la logica dell’efficienza e del calcolo: fino al xix secolo, in Germania, i boscaioli chiedevano perdono agli alberi prima di abbatterli. Un bel contrasto rispetto a Buffalo Bill che si vanta di aver sterminato sessantanove bisonti in una sola giornata! Fin dalla comparsa del primo uomo, la natura fu pregata di ritirarsi o di rimanere in disparte. La bella campagna che celebriamo è un artificio come lo era la foresta per Heidegger e come lo è oggi la « Wilderness » del Nord America, selvaggia e protettrice. Il sogno di un’Arcadia rurale, di un Eden scomparso che provveda ai bisogni di tutti, senza eccezioni, è una proiezione sul passato. Lo stato di natura è un’invenzione del progresso e se per l’uomo cittadino, come aveva già detto Goethe, è « il grande calmante dell’anima moderna », è perché incarna un’armonia che contrasta con il caos delle metropoli. In questi paesaggi mitigati da secoli di cultura mi rilasso, mi riposo, rimango « avvinghiato a me stesso » (Rousseau). È così che la vita campestre è diventata, nell’epoca moderna, il paradigma della salute, dell’idillio e della misura. Mettere mano a questa norma, violarne la maestà, significa mettere in pericolo l’intero edificio cosmico. La Terra è la grande sconfitta della storia umana e bisogna proteggerla, ci dice Michel Serres, come la Dichiarazione dei di­  Edward O. Wilson, The Diversity of Life, Allen Lane, London, 1992 (trad. it. di Diego Maria Rossi: La diversità della vita, Rizzoli, Milano, 1993), citato in Dominique Bourg, Nature et technique, Hatier, Paris, 1997, pp. 38-39. 2

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ritti del­l’uo­mo ha protetto gli schiavi e gli esclusi.3 Ma preconizzare questo tipo di « contratto naturale » a base di reciprocità e di simbiosi significa considerare le proprie forze pari a quelle di Gaia. E qui sta il problema: talvolta l’uomo è visto come un onnipotente fautore di tumulti universali, mentre in altri casi viene rimesso al suo posto da un’entità furiosa per essere stata violentata. È un ragazzino da sgridare oppure un uomo vigoroso che prende tra le braccia la Madre Terra.4 Così forse un giorno diventeremo la madre di nostra Madre in ago­nia!5 Giona invitava a guardare il mondo come l’immagine della madre che dispensa le sue tenere cure al neonato: la potenza dell’amore si china di fronte alla fragilità assoluta. È un’immagine commovente, ma è difficile trovarne una traduzione empirica. Come si è già detto: il discorso ambientalista oscilla costantemente tra megalomania e umiltà senza riuscire a scegliere tra le due opzioni. In campo scientifico si sono fatti grandi passi avanti rifiutando il concetto di simpatia come condizione preliminare alla conoscenza, denunciando il pensiero analogico come una superstizione: vedere nel comportamento degli animali, della vegetazione, dei pianeti una corrispondenza morale con quello degli uomini significa non voler capire le loro stesse leggi. Dobbiamo andare oltre la percezione dei nostri sensi e la scienza non è altro che « una sequenza di errori confutati » (Bachelard). È la fine del cosmo antico che detta legge su tutto ciò che esiste in Terra e in cielo.6 Abbiamo dovuto allontanarci dalla natura, oggettivarla e sostituire alle classificazioni antropocentriche un ordi Michel Serres, Le Contrat naturel.   Ivi, p. 187. 5   Ivi, p. 188. 6  Gaston Bachelard, La Formation de l’esprit scientifique, Vrin, 3 4

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ne più neutro. Ma dai tempi degli illuministi e del romanticismo, una nuova sensibilità cerca di riunire ciò che gli scienziati hanno separato – dando vita a discipline diverse come la chimica, la botanica, la geologia, l’astrofisica – in nome di una riconciliazione tra l’uomo e gli esseri viventi. Una poetica del fuoco, del­l’ac­qua, dell’aria, degli elementi (Gaston Bachelard) non fa che incrementare la repulsione che la scienza manifesta nei confronti di un approccio affettivo ai fenomeni naturali. Ritroviamo così l’idea platonica di un’anima universale in azione che, in ogni specie, concede una forma di immortalità agli animali, i quali sono nostri fratelli poiché soffrono e gioiscono esattamente come noi. Risusciteranno nel giorno del giudizio finale così come le pulci, i ragni e i rospi e, una volta eliminata la maledizione del peccato originale, smetteranno di soffrire.7 Se i pionieri dello spirito scientifico esaltavano la differenza, i poeti e i filantropi predicano l’amicizia e le regole di un’immaginazione cordiale. Gli animali, le piante e le montagne dipendono se­ nz’al­tro dalle loro leggi, ma sono anche il nostro riflesso, una parte della nostra presenza diffusa nell’universo. Fanno parte di noi come noi facciamo parte di loro. Non riuParis, 1938 (trad. it. di Fortuna Albergamo: Il nuovo spirito scientifi­ co, Laterza, Bari, 1951). 7   « Cristo ha versato il suo sangue per le mucche e i cavalli così come per gli uomini », dice nel 1646 William Bowling, membro di una setta protestante del Kent. Citato in Keith Thomas, op. cit. Lutero: gli animali velenosi e carnivori sono la conseguenza dei nostri peccati. Una volta pronunciato il giudizio finale, diventeranno «  belli, gentili, carezzevoli », come cagnolini scodinzolanti dalla pelle d’oro e dal pelo ricoperto di pietre preziose. Lutero, Discorsi a tavola, citato in Jean Delumeau, Histoire de la peur en Occident, Pluriel, Paris, 1978, p. 271 (trad. it. di Paolo Traniello: La paura in Occidente, Società Editrice Internazionale, Torino, 1978). 120

sciamo più a credere che in Inghilterra, fino al xix secolo, abbattere una quercia significasse lavorare per il pro­gres­ so,8 domare le « barbarie », mentre noi consideriamo quasi sacri gli alberi, i platani, i faggi. Quando li distruggiamo, una parte di noi scompare. Nei momenti di comunione con un panorama meraviglioso, proviamo una sorta di solidarietà tra gli esseri viventi uniti da uno stesso involucro, da un’unica veste. L’utopista Charles Fourier non proponeva forse di moltiplicare la Via Lattea, proiezione luminosa dell’attività seminale degli uomini, accelerando le unioni amorose? Così risolveremmo il problema dell’illuminazione notturna delle grandi città, a condizione che uomini e donne si accoppino costantemente e in tutti i modi possibili (è una proposta da sottoporre al più presto al segretario generale dell’onu). Nel suo Nuovo mondo, egli immaginava anche, grazie « ai brillanti prodotti della nuova creazione », le specie più restie all’addomesticazione messe al servizio di tutti: antibalene che portano in salvo vascelli in caso di tempesta, anticoccodrilli o « cooperatori di fiume », antifoche o animali marini che trasportano gli esseri viventi a tutta velocità.

2) Zoofilia teorica e pratica Non crediamo più che il creato sia al servizio del­l’uo­mo per divertirlo o nutrirlo; non puniamo più con la pena di morte cavalli, orsi e maiali colpevoli di omicidio.9 Non pensiamo più che ci sia animalità nei manicomi, nelle classi povere, nei selvaggi o nei mendicanti. Puniamo a giusto   Ivi, p. 259.  Sui processi agli animali, l’analisi molto convincente di Luc Ferry, op. cit. 8 9

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titolo qualsiasi manifestazione di crudeltà verso i nostri « fratelli inferiori », cerchiamo di colmare l’abisso che ci separa dagli animali e di sapere se siano mossi dall’istinto o dalla ragione, se si possano ammaestrare, o se potranno un giorno, come alcune grandi scimmie, imparare a parlare combinando fino a duecento parole. Condividiamo il loro stesso destino, la loro gioia ci rallegra, il loro dolore ci rattrista. Sfruttati, picchiati e costantemente cacciati, come se fossero una risorsa inesauribile, gli animali sono stati anche valorizzati e considerati amici. Lo sfruttamento sistematico di molte specie è compensato dalla promozione di qualche altra, selezionata come omaggio, con la quale interagiamo e conviviamo. Abbiamo integrato nella nostra vita cani, gatti, canarini, fringuelli, cavalli, spesso trattati meglio degli esseri umani (e che pongono seri problemi escrementizi nei centri abitati). La cinofilia dell’aristocrazia inglese, ad esempio, appassionata di caccia e ossessionata dal problema del pedigree, la lenta promozione del gatto fin dal Medioevo, inizialmente deplorato come satanico e poi integrato nella sfera famigliare come un dio domestico, segnano l’ascesa di alcune specie a scapito di altre. L’infatuazione per i felini e la loro bellezza indolente, la mania delle voliere e degli animali esotici fanno pensare al sentimentalismo e all’estetica. Questa zoolatria selettiva, l’amore smisurato per un siamese, un bulldog, uno stallone degenera a volte in misantropia e può sfociare in una ferocia inaudita verso altri animali. Il quadrupede, il volatile avranno sempre, sui nostri fratelli umani, il vantaggio di non parlare e di sembrare consenzienti, col loro mutismo, a ogni nostro minimo proposito. Schopenhauer, grande misantropo e fondatore di un Ente per la protezione degli animali a Francoforte, adorava il suo cagnolino. Quando lo esasperava, lo chiamava « Mensch », cioè razza d’uomo! Lo zoo domestico di un popolo la dice lunga sulla sua 122

mentalità. Esisteranno sempre tipi originali che allevano animali rifiutati dal senso comune come ratti, insetti, serpenti, ragni, corvi. Non esistono relazioni tranquille e serene con la specie animale, ma solo capricci e repulsioni. Da un secolo, viviamo un’emozionante ridefinizione delle barriere che separano l’uomo dagli animali, il selvaggio dal domestico. Un’intera tradizione sepolta, da Ovidio fino a san Francesco d’Assisi, viene riesumata e riesaminata. Si è sviluppata così una riflessione tra etologi, neurologi e filosofi a ridefinire antiche separazioni. Anche l’animale è dotato, entro certi limiti, di perfettibilità e può innalzarsi a una qualche forma di umanizzazione, così come l’uomo può sconfinare nell’animalità. Siamo però lontani dalla riconciliazione promessa nei Vangeli: questo grande disordine non significa che un giorno regnerà l’armonia, che il cacciatore brinderà col lupo, che smetteremo di mangiare carne, di addomesticare e di sfruttare alcune specie. Le relazioni saranno sempre conflittuali, invasive, amorevoli o indifferenti. Si racconta che il pappagallo di Enrico viii, caduto nel Tamigi, urlò: « Una barca, una barca! Venti sterline per una barca! » Quando un marinaio lo ripescò e lo riportò al re, l’uccello, cambiando tono, disse: « Date una moneta da quattro pence a questo ragazzo ».10 Cosa c’è di affascinante in certi animali? La distanza nella vicinanza. Rous­seau considerava gli oranghi come una razza di uomini che non avevano potuto sviluppare le proprie facoltà a causa di una vita troppo breve. Da Victor, il bambino selvaggio dell’Aveyron, raccolto nudo e irsuto da alcuni cacciatori nel xviii secolo, fino ai nostri cani e gatti, « civilizzati » a tal punto da soffrire di depressione, andare dal parrucchiere,  L’aneddotto è raccontato da Keith Thomas, op. cit.

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dal profumiere, dalla manicure e perfino dallo psicologo, è un continuo scambio di prerogative. Sappiamo che alcuni cani si lasciano morire di dolore sulla tomba dei loro padroni, che l’uomo può essere sottoposto a un allevamento selettivo come il cavallo o il bue, e che alcuni animali sono utilizzati in certe terapie per lenire l’angoscia di persone malate, in particolare nelle case di riposo. Il fatto che le nostre specie siano legate l’una al­l’al­tra non le rende più trasparenti. Anzi. Constatare molte somiglianze significa ammettere un divario insormontabile. Chi vuol fare l’angelo, fa la bestia, diceva Pascal. Ma chi vuol fare la bestia, fa l’uomo, e lo fa disperatamente. Non siamo solo animali ed è questo il problema. Ciò che ci avvicina alle scimmie non rappresenta tutto quel che siamo. Questa manciata di geni che ci differenziano rappresenta un abisso. Siamo dei primati con in più un certo non so che che ci rende umani.11 « Se il leone potesse parlare, non lo capiremmo », ha detto seriamente Wittgenstein (un altro non sempre facile da capire). Ciò non c’impedisce di chiacchierare gli uni con gli altri in un meraviglioso dialogo tra sordi. Facciamo finta di conversare coi nostri compagni col pelo e le piume, e loro hanno l’accortezza di fingere approvazione, e su tale malinteso fioriscono le intese più armoniose (è un po’ come la definizione di un matrimonio felice). Il lungo soliloquio della signora che porta a spasso il suo cane e ci parla forse non è assurdo né per lei né per lui. Lei lo coccola, lui la rassicura: è una musica che si suonano a vicenda. Tuttavia, questa nuova distribuzione dei ruoli crea qualche deriva: al desiderio di rinaturalizzare l’uomo, colpevole di essersi liberato della propria essenza, risponde  A questo riguardo, si leggano le riflessioni pertinenti di Elisabeth de Fontenay, Le Silence des bêtes, Fayard, Paris, 1998. 11

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la tentazione in alcuni militanti vegetariani di snaturalizzare l’animale selvatico, di rieducare i carnivori, di insegnare ai rottweiler, alle volpi, ai giaguari, agli sciacalli le gioie della frutta e delle bacche. Questi missionari dei diritti umani nel regno animale hanno lunghi anni di lavoro davanti a sé! Citiamo anche i progetti più o meno demoniaci degli ibridi, sullo stile del dottor Moreau, eroe del romanzo eponimo di H.G. Wells (1896), scienziato pazzo per la vivisezione che crea su un’isola sperduta una razza di esseri artificiali, mezzi umani, mezzi animali, per poi venire ucciso da una delle sue creature ribelli, l’uomo puma. Ancora peggio: i filosofi dell’etica animale prevedono, come Peter Singer, l’heavy petting, il flirt con il proprio cane, cavallo, bue, capra o asino. Con grande serietà, Singer tenta di analizzare la nozione di carezza amorosa con gatti e cagnolini.12 La bestialità non è che un tabù come un altro di cui la mitologia e la storia ci offrono parecchi esempi, soprattutto nelle zone rurali dove la moralità severamente sorvegliata delle ragazze non lasciava sfogo alle pulsioni sessuali dei maschi che si rifacevano con giovenche e giumente. Si può praticare il french kiss con un cane, ossia baciarlo con la lingua, o sedurre la propria scrofa? Abbiamo il diritto, chiede l’eminente professore, di fare sesso orale con un vitellino, abituato a succhiare il latte di sua madre? Sodomizzare una gallina, un atto crudele che si conclude spesso con la sua morte, non è forse meno grave che allevarla in batteria dove sarà comunque uccisa? Non dovremmo stupirci che le scimmie ci desiderino o che un cane strofini il pene contro la nostra gamba durante un’assemblea. Siamo anche noi animali13 e obbediamo   Nerve Magazine, marzo-aprile 2001, Peter Singer, « Heavy Petting ». 13  Si legga anche il libro When Species Meet di Donna Haraway, 12

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alle stesse pulsioni. Non c’è niente di male nel procurarsi piacere tra specie diverse. Il testo di Singer, oltre a suscitare perplessità, pone almeno due problemi. Il primo è quello dell’ossessione carnale che emerge anche nei rapporti tra donne e uomini: si può amare il proprio cane senza andarci a letto? Il secondo è morale: prima di toccare un animale bisogna avere il suo consenso? Fra qualche anno, ci saranno avvocati specializzati in molestie sessuali agli animali? Chi sporgerà denuncia? Ci aspettano delle belle battaglie giuridiche. L’aggiunta alla sfera domestica di alcune specie di mammiferi o di roditori amplia il campo del simile solo in apparenza. Tuttavia, identificando un quasi-fratello in un pony, un micio o un labrador, passiamo dalla somiglianza a una sorprendente alterità. Pensando di antropomorfizzare i nostri fratelli inferiori, ci « inebetiamo ». Tentiamo di insegnargli la nostra lingua, ma anche di acquisire l’istinto e l’olfatto che li caratterizzano e che noi umani abbiamo perso, o l’« ecolocazione », la capacità tipica di pipistrelli e delfini, sviluppata anche da certi non vedenti, di visualizzare l’ambiente in tre dimensioni rilevando gli echi riflessi dagli oggetti circostanti. La particolarità del­l’uo­mo è di non sapere chi è, di eccedere nella propria definizione: pensando di poter estendere il proprio regno, si trasforma in pianta, albero, cetaceo, riacquista capacità perdute con la posizione eretta e con il progresso. Questa nuova divisione della sovranità, questo grande consolidamento catastale è una nuova interrogazione su di sé: « Se non esistessero gli animali, la natura del­l’uo­mo sarebbe ancora più incomprensibile » (Buffon). femminista americana che studia i rapporti post-umani che ha con la sua cagna, Madame Cayenne Pepper, che bacia con la lingua. University of Minnesota Press, 2007. 126

3) La natura non è la nostra legge L’ambientalismo può scegliere tra due direzioni: mostrare un anti-umanesimo per principio, celebrando fiumi e boschi per meglio fustigare l’essere umano, oppure adottare un antropocentrismo più ampio che includa l’umanità, la natura e gli animali con la stessa clemenza, in modo tale che nessuna categoria venga inutilmente danneggiata. Nel­l’An­ti­co Testamento, i Padri della Chiesa rilevavano come la cattiveria verso i nostri fratelli inferiori conducesse alla crudeltà verso i nostri fratelli uomini. « Amate Dio, amate le sue creature », dicevano preti e pastori. Brutalizzare asini, cavalli, buoi, cani e gatti condurrà un giorno a brutalizzare i propri simili: Claude Lévi-Strauss avrebbe ripreso questo argomento parola per parola. L’incredibile contraddizione è che, al­l’in­ter­no della tradizione antropocentrica, emerge un nuovo atteggiamento di rispetto per le altre specie (Keith Thomas).14 Esistono quindi due umanesimi: uno ventriloquo, che presta la voce alla Terra affinché si erga contro l’uomo, e un altro che difende un nuovo approccio della natura e della specie umana e l’unione delle loro forze. Preservare la natura è anche un modo per preservare noi stessi. Perché voler salvare gli esemplari rimasti di tigri o di rinoceronti o affliggersi per la deforestazione di vaste aree del Brasile o del Borneo? Per sentimentalismo, poiché « ogni cosa che vive è santa, ogni arbusto è sacro, ogni erba è divina » (William Blake)? Certamente, ma soprattutto per salvaguardare una ricchezza senza la quale l’umanità si sentirebbe sminuita, per proteggere i molteplici volti della creazione con la sua meravigliosa prodigalità. Un   Op. cit., p. 206.

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mondo devastato non segnerebbe il trionfo, ma la devastazione del­l’uma­ni­tà. L’importanza del varano di Komodo, del puma della Florida, dell’avvoltoio barbuto è rappresentata dalla loro profonda gratuità. Non « servono » a niente da un punto di vista utilitaristico, ma sono preziosi perché proteggono a modo loro gli ecosistemi e testimoniano l’esuberanza barocca del creato. Bisogna intervenire per ampliare in noi stessi il sentimento del­l’uma­ni­tà e dei suoi doveri e non per restringere il regno del­l’uo­mo, la cui responsabilità si estende ormai a un campo più vasto della semplice prassi. Siamo quindi costretti a diventare « medici planetari », secondo l’espressione di Lovelock, cioè medici di noi stessi, ma con competenze limitate, poiché curando l’ambiente contribuiamo al nostro stesso sviluppo. Creare un reato di violazione al patrimonio del­ l’uma­ni­tà significa innanzitutto combattere per noi stessi. Ma questa volontà di rispettare il nostro habitat non deve condurci a idolatrare la natura. È in essa che si troverebbero i fini supremi, spiegava ad esempio Hans Jonas, riproducendo l’antica visione del cosmo come struttura e modello del­l’or­di­ne sociale e individuale. La tecnica commetterebbe quindi, agli occhi del filosofo tedesco, un doppio crimine: distruggerebbe l’ambiente e modificherebbe il confine tra vivente e non vivente, sostituendosi al primo in caso di bisogno. Ai suoi occhi, la robotica o la clonazione, tanto gravi quanto un’eventuale distruzione nucleare del mondo, sono spaventose poiché vogliono migliorare l’essere umano, « aumentarlo », per usare una terminologia attuale. A spaventare il padre dell’ambientalismo non è tanto il rischio del peggio, ma la « minaccia del meglio », secondo la bella formula di Etienne Barilier.15 Arriviamo  Etienne Barilier, Contre le nouvel obscurantisme, Editions Zoé, L’Hebdo, Genève, 1995, pp. 71-72. 15

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così al reale obiettivo di un ambientalismo radicale: condannare l’uomo, ribellatosi alla propria sorte per migliorare la propria condizione. Gaia sarebbe quindi il contromodello che servirà per rimettere al suo posto l’impudente creatura. La nostra madre adottiva oppone ovunque il suo veto ai nostri smarrimenti e ci ordina di fermare tutto per evitare rappresaglie. Quanto alla natura circostante, ha ancora la meglio su di noi a livello fisico, climatico e geologico. Non è né buona né cattiva, bensì indifferente: ci fa la guerra in modo spietato, programma la nostra vita ma anche la nostra scomparsa, ci offre le più ridenti prospettive, ci sottopone alle peggiori torture, si mostra meravigliosa e abietta. In nessun caso potrebbe costituire la nostra legge, una guida operativa. L’intera avventura umana è un’accanita lotta contro le fatalità fisiche, biologiche e psichiche imposte alla nostra specie. Stringere « un patto di cortesia » con gli elementi? chiede Michel Serres. Provate a essere cortesi con uno tsunami o un tornado! Bisogna proteggere la natura e proteggersi dalla natura.

Dopo la fine del mondo In un monastero buddista in Tibet, situato a oltre 5000 metri di altitudine, dei monaci recitano giorno e notte il nome di Dio in nove miliardi di versioni, ognuna delle quali contiene almeno nove caratteri. Una leggenda racconta che alla fine di questo esercizio la vita sulla Terra dovrebbe cessare. Due monaci che hanno sentito parlare di una macchina straordinaria, il computer, chiedono ai loro superiori di comprarne una, laggiù, nella lontana America. Arrivano negli Stati Uniti dopo un viaggio di un mese e ritornano con un enorme appa129

recchio trasportato a dorso d’uomo. Due tecnici increduli li accompagnano per programmarla: la macchina comincia a digerire la lista dei nomi a una velocità che stupisce i religiosi. Dopo mesi di liste, i nomi di Dio sono esauriti. Gli americani fuggono dal monastero, temendo l’irritazione dei credenti nel constatare il fallimento della predizione. Mentre se la svignano verso valle, si girano: nel cielo himalayano, le stelle si spengono una dopo l’altra, il disco della luna svanisce... Questo racconto di Arthur C. Clarke, scritto nel 1954, ha il pregio di mettere la scienza più avanzata al servizio delle credenze più superstiziose. E se fosse vero che basta recitare i nomi di Dio per farla finita? Il tema della fine del mondo ha una doppia connotazione, messianica e punitiva. Nel primo caso, si tratta di scavare una breccia nel tempo degli uomini per liberarli e favorire così l’accesso al regno dei cieli: nell’anno Mille i flutti si scateneranno, le montagne crolleranno, eserciti di demoni semineranno discordia e Cristo ritornerà per salvare i giusti. Nel secondo, si tratta di punire l’uomo per la sua audacia: la scienza e l’industria hanno gravemente danneggiato la nostra dimora. Un’esperienza iniziata nel xvi secolo sotto l’egida della ragione e della felicità finirebbe nel caos, secondo i suoi detrattori. Nella primavera del 2011, alcuni premi Nobel si sono costituiti in tribunale per giudicare l’umanità e rimproverarla. Nel tentativo di liberare l’uomo dal peccato originale, i tempi moderni hanno esteso il processo a tutta la storia. Non c’è da stupirsi se i verdi francesi hanno scelto come candidato alle elezioni presidenziali del 2012 l’ex giudice istruttore Eva Joly. Ah, se si potesse ammanettare il pianeta e sottoporre a giudizio il genere umano... Anche se facessimo saltare l’intero arsenale nucleare, 130

provocando l’interruzione della fotosintesi e l’estinzione del genere umano, ci dice un paleontologo, David M. Raup, la biosfera non scomparirebbe e la vita batterica sarebbe colpita solo leggermente, continuando a esistere come dopo la caduta dei meteoriti giganti sulla Terra. « Virtualmente, se parliamo di ere geologiche, non abbiamo alcun potere sul nostro pianeta » (Stephen Jay Gould). Un piccolo enigma: se domani doveste morire per un’arma atomica, che cosa fareste? L’essenziale: l’amore con la persona amata o con altri, fino a sazietà, grandi bagordi, tutti gli eccessi possibili poiché niente avrebbe più importanza. Anche nelle peggiori situazioni, nelle guerre, nei genocidi, ci sono sempre dei sopravvissuti che dimostrano la straordinaria resistenza della specie umana, che emergono dalle rovine e dai massacri cercando di ricominciare l’avventura umana. Sono dei mutanti, come i personaggi già evocati in La strada di Cormac McCarthy, un padre e un figlio, due spiriti risuscitati in un paesaggio di ceneri da cui sono scomparsi la vegetazione e gli animali. Dopo l’orrore, c’è ancora un mondo possibile per l’uomo. Non è mai la fine del mondo, è sempre la fine di un mondo.

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VI La scienza nel­l’età del sospetto

Da re della Creazione che era o che pensava di essere, l’uomo è salito o ridisceso (come lo si vorrà intendere) al ruolo di concessionario di un pianeta. Antoine Augustin Cournot, matematico francese, 1872 Le « certezze » proprie della conoscenza scientifica non sono « altrettanto certe »: niente indica che ci avviciniamo (...) al punto in cui si opererebbe l’unione definitiva del sapere perfetto e dell’ignoranza sovrana. Stanisław Lem, Bibliothèque du xxie siècle, 1989

Intorno al letto di morte di Madame Bovary, due nemici inconciliabili vegliano sulla defunta: l’abate Bournisien, bacchettone ignorante e intransigente, e il farmacista Homais, voltairiano convinto, libero pensatore, erede degli illuministi, che aborre la Chiesa e le sue superstizioni. Ai suoi occhi, solo la scienza può eliminare i pregiudizi e liberare l’uomo dalle frottole bibliche. La genialità di Flaubert, in questo dialogo, non sta nello schierarsi a favore dell’abito talare o dello speziale: nello scontro notturno tra i due personaggi, l’autore mostra l’essenza di una duplice stupidità, religiosa e scientista. A colpire, nello scambio di battute, sono le somiglianze: l’abate e il farmacista 132

recitano entrambi un catechismo. La scienza ha combattuto la religione per diventare a sua volta una religione. I due personaggi di Flaubert rientrano così nella categoria dei falsi avversari: due persone che inspiegabilmente si fronteggiano pur essendo del tutto identiche. Al mattino, Bournisien e Homais, uniti dalla fame, cominciano a bere e si gettano su una colazione abbondante, confidandosi: « Finiremo per intenderci! » Potremmo immaginare ai nostri tempi, accanto a questa coppia leggendaria, un terzo personaggio piuttosto simile a entrambi: lo scienziato che rifiuta la scienza per timore dei suoi effetti devastanti, come Einstein che si pente di aver spinto il presidente Roosevelt a produrre la bomba atomica e diventa un oppositore delle armi nucleari. Non è più il prete a denunciare la follia degli uomini, è l’apprendista stregone che rifiuta le proprie invenzioni. Il salvatore è diventato l’assassino: un tempo la sua grandezza era scoprire, oggigiorno la sua saggezza è pentirsi. All’ebbrezza della rivelazione si sostituisce la passione per la smentita.

1) L’universo del maleficio La scienza è sul banco degli imputati; ha alterato il mondo, non l’ha guarito. Ha cancellato molti mali ormai dimenticati, ma le rimproveriamo quelli che ha aggiunto. Ci prometteva l’emancipazione del­l’uma­ni­tà: adesso vorremmo emanciparci dall’emancipatore. Siamo gli eredi di ­Pasteur e di Frankenstein, di una speranza folle unita a un terrore infinito. Gli errori medici di questi ultimi vent’anni in Francia e in Europa – l’ormone della crescita, il talidomide, il Vioxx, il caso del sangue contaminato o quello più recente del Mediator – hanno contribuito non poco a 133

questa diffidenza. In cosa consiste lo scandalo in medicina? Ciò che dovrebbe guarirci può anche ucciderci. Questa sovrapposizione tra medicinale e veleno, messa già in evidenza da Platone con il termine pharmakon, è intollerabile. Basta che un solo marchio e una sola molecola rivelino una qualche nocività perché un’intera catena della farmacovigilanza venga contaminata: ciò che ci garantiva la salute diventa causa della nostra distruzione. Il progresso moltiplica i fattori d’incertezza: nutrirsi, curarsi, spostarsi diventano azioni delicate quanto attraversare un campo minato. L’intero universo tecnologico si ribella contro di noi come un esercito di spiriti maligni che vogliono farci a pezzettini. Dietro le sembianze della quotidianità si celano pericoli tremendi: Il mondo del visibile deve essere interrogato (...), giudicato alla luce di una seconda realtà nascosta in lui (...). Dietro le facciate più innocenti si nascondono sostanze ostili e pericolose (...). Se ci accontentiamo di respirare, di mangiare senza informarci sulla realtà tossica, non solo siamo ingenui ma ignoriamo le minacce che incombono su di noi e ci sottomettiamo senza alcuna difesa. L’appagamento, la beatitudine, il semplice vivere sono così spezzati. Sentiamo ovunque il mormorio dei prodotti tossici e inquinanti che brulicano come i demoni del Medioevo.1 (Ulrich Beck)

Sebbene nei nostri paesi le vittime causate da incidenti tecnologici non siano particolarmente numerose (dodicimila morti a Bhopal in India nel 1984 per l’esplosione di un impianto chimico dell’Union Carbide, trenta morti nel settembre 2001 a Tolosa in seguito all’incidente di azf), il  Ulrich Beck, op.cit.

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loro impatto simbolico è devastante. Si tratta di cifre irrisorie rispetto ai venti milioni di morti dell’influenza spagnola nel 1918, ai 500.000 morti del ciclone Bhola nel 1970 in Bangladesh; ma i numeri non parlano da soli. Questi eventi sono provocati dal­l’uo­mo, rivelano le promesse non mantenute dalle industrie del benessere, la medicina e la chimica. Immaginate che vostro figlio sia ricoverato per un’appendicite benigna e finisca in coma a seguito di un’infezione nosocomiale (cioè contratta in una struttura ospedaliera. In Francia si registrano ogni anno ben 4200 casi). Crolla così la cieca fiducia che consente di affidarsi agli specialisti come fossero preti. La cura contro il male è diventata un nuovo male. Gli scienziati vogliono il nostro bene e ci distruggono senza saperlo. La scienza ha perso parte del suo lustro: non è più l’insieme di scoperte prodigiose che procuravano lo stupore di Jules Verne o di Victor Hugo e giungevano ai limiti del sublime, ancor meno la via maestra verso l’Eden immaginata da Francis Bacon nel xvii secolo. Il mito dello scienziato pazzo, in preda a impulsi tirannici, dal dottor Mabuse a Mengele, ha soppiantato la bontà generosa di Pasteur o di Albert Schweitzer. Un uomo investito di un potere smisurato, grazie alle sue conoscenze, vuole sottomettere l’umanità ai suoi progetti criminali. Si trasforma così nel consulente specializzato del dittatore, se non nel suo alleato, e concentra nelle proprie mani una potenza inaudita. Dopo Hiroshima, Cernobyl’, Fukushima, sembra che la serenità non sia più possibile. La vita quotidiana è così sottoposta nel suo complesso a una revisione, a partire dall’alimentazione. Mangiare è diventato pericoloso quanto il bungee jumping: « Mangiare uccide » titolava sobriamente la rivista Télérama (marzo 2011), un enunciato lapidario che nessun anoressico rinnegherebbe, ma che lascerebbe perplesso chi muore di fa135

me in Somalia. I nostri antenati soffrivano la fame, noi soffriamo d’indigestione. « È già arrivato il momento in cui, a tavola, piuttosto che augurarsi buon appetito è meglio augurarsi buona fortuna » spiega Pierre Rabhi, apostolo dell’agricoltura biologica. Nella frutta e nella verdura è stata introdotta una valanga di prodotti velenosi, pesticidi e altri elementi chimici che ci tolgono l’appetito. Ogni boccone è potenzialmente un cancro che accogliamo dentro di noi. Quanto alla carne, non solo è nociva, ma anche criminale, e la sua produzione intensiva conduce alla deforestazione, alla devastazione dei terreni, al­ l’ero­sio­ne, all’impoverimento delle agricolture, allo spreco smisurato di energia, al mantenimento di centinaia di milioni di capi di bestiame i cui gas intestinali contribuiscono all’effetto serra.2 Il carnivoro verrebbe doppiamente ingannato: complice di sanguinarie fabbriche di bestiame, di spaventosi allevamenti in batteria, collabora alla sua stessa distruzione ingerendo bistecche o polli dalla carne contaminata. Il vegetarianismo è diventato un vero e proprio genere letterario, diviso in conventicole ostili e in costante lotta tra loro.3 Ricordiamoci che presso molte 2  Si veda ad esempio il sito asv, www.vegetarisme.ch, secondo il quale la produzione mondiale di carne provoca un enorme consumo d’acqua e una deforestazione massiccia (il 70% del disboscamento della foresta amazzonica è attribuito al mangime per bestiame). I germogli di soia necessari per produrre la carne sono coltivati a scapito dei cereali; le massicce dosi di antibiotici somministrati ai bovini si ritrovano nel latte e nella carne. I liquami e gli escrementi degli animali inquinano le acque e distruggono gli alberi. Infine, le emissioni da parte delle bestie di gas metano sono tra i maggiori responsabili del cambiamento climatico. Conclusione: « Meno prodotti animali consumiamo, più agiamo a favore del clima ». 3  Si veda l’ultimo libro di Jonathan Safran Foer, Eating Animals, Little, Brown and Company, New York, 2010 (trad. it. di Irene Abi-

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culture, i mestieri del macellaio e del boia sono tabù: in Francia, nel giugno del 2011, i macellai hanno protestato, per mezzo della loro associazione, contro l’espressione « macellaio dei Balcani », usata per il generale Mladi|, arrestato a Belgrado con l’accusa di genocidio. Ma la maledizione si abbatte anche sulle verdure, come ha dimostrato nella primavera del 2011 il caso del « cetriolo-killer » in Germania, che ha dato luogo a una vera e propria rinuncia alla ragione e a una crisi che è costata all’Europa quasi 500 milioni di euro. Le autorità federali accusarono in primo luogo i prodotti spagnoli, per poi ammettere che i batteri mortali venivano da semi germogliati utilizzati nell’alimentazione biologica. L’etichettatura bio è fondamentalmente uno strumento per dissipare il dubbio, che però si ripresenta con forza inaudita appena gli si offre la benché minima breccia. Questo attacco ai vegetali, a cui fino a quel momento era attribuito ogni genere di virtù, è una tragedia emblematica: nessuna filiera sfugge al sospetto. Ecco che anche la verdura, frutto sacro del ventre di Gaia, tramite della redenzione, ci tradisce! Il biologico, attraverso il rifiuto dei pesticidi e l’uso di fertilizzanti naturali, tra cui il letame, è potenzialmente nocivo quanto l’agricoltura industriale (ma non abbiamo sentito i suoi seguaci recitare il mea culpa). Non esistono santuari, siamo circondati. Zucche, cavoli, patate, ciliegie possono trasformarsi in mostri (ancora una volta, il cinema ha anticipato la realtà con un filmaccio molto divertente uscito nel 1978, gail Piccinini: Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?, Guanda, Parma, 2010). Accanto ai vegetariani che non mangiano la carne, troviamo i vegani che si astengono anche dal mangiare pesce, latte, panna, yogurt, e perfino alcuni che rifiutano d’indossare il cuoio, la lana, la seta e di consumare il miele che proviene dallo sfruttamento delle api. Più puro di così, si muore! 137

L’attacco dei pomodori assassini di John De Bello, una parodia dello Squalo: i pomodori, in apparenza mansueti, attaccano i nuotatori, aggrediscono i cuochi e sommergono la tranquilla America sotto torrenti di ketchup). L’alimentazione pone un duplice problema: etico e dietetico. Bisogna assicurarsi che ai produttori sia stato pagato un giusto compenso e che non ci sia stato maltrattamento degli animali. Bisogna poi verificare che non ci sia alcun rischio grave per la nostra salute. Mangiare è un mestiere in sé, che dipende dal calcolo delle calorie, dallo spionaggio industriale, dalla rilevazione di spiriti malvagi, dai forum di discussione. La zuppa riscaldata sul fuoco, il ragù delizioso che cuoce piano piano, sono altrettante Seveso dentro la vostra cucina, piccoli impianti chimici che ingerirete a vostra insaputa. Il gioco è truccato, le ditte agroalimentari e le multinazionali cospirano da mezzo secolo per avvelenarci con il nostro consenso. Le bevande gassate aumenterebbero le probabilità di partorire prima del termine, la saccarina e il ciclammato moltiplicherebbero i rischi di sviluppare il cancro; quanto agli additivi e ai coloranti, ci distruggerebbero subdolamente. Dal pane al tè, nessun prodotto ormai sfugge al discredito. Un tempo eravamo protetti da un velo d’ignoranza. Più sappiamo, più soffriamo. La conoscenza aumenta a discapito dell’indifferenza. Lo spirito d’investigazione a volte si autodistrugge a causa del suo estremismo. Leggete ad esempio il risultato di una ricerca uscito il 1° dicembre 2010: In una giornata, un bambino di dieci anni rischia di essere esposto, per colpa della sua alimentazione, a 128 residui chimici provenienti da 81 sostanze diverse. Quarantadue di esse sono classificate come « potenzialmente o probabilmente cancerogene » e cinque come « sicuramente 138

cancerogene ». Trentasette sostanze sono inoltre perturbatori endocrini.4

Viene da chiedersi come mai i nostri figli, dopo un tale diluvio, non escano dalla mensa con la testa da Elephant Man o da Quasimodo. Quanto ai sapori, allo stile di vita incarnato da una ricca tavola, rischiano di essere le prime vittime del­l’os­ses­sio­ne igienica. Il valore del prodotto nobile svanisce davanti all’attenzione per il prodotto sano. La passione per i buoni piatti, la tradizione delle ricette, il piacere di condividere le cose buone sono in costante lotta con il timore di scavarsi la fossa con i denti. In quest’ottica, i ristoranti bio sono templi di rigenerazione, piuttosto che luoghi di godimento: è come essere a messa, si mastica con cura, ci si percepisce come superstiti del grande sistema industriale. Si beve il succo di ortiche, la zuppa di topinambur, la tisana di santoreggia con la serietà dei grandi officianti. I rituali alimentari, un tempo prescritti dalla religione o dalla tradizione, sono ormai regolati dal timore di non sopravvivere ai pasti. Non è più la rarità, ma l’abbondanza dei nostri piatti a essere vista con sospetto. Nei paesi ricchi, specialmente nel Nord America, è messa in discussione l’enormità delle porzioni, a partire dalla prima colazione, in una civiltà dell’abbondanza che produce obesi in serie. Ovunque, la preoccupazione per la qualità deve lottare contro l’ossessione della quantità, che non è altro che la paura di non avere abbastanza.

  Le Monde, 2 dicembre 2010, ricerca commissionata dall’associazione Générations futures e dalla rivista Health and Environment Alliance, in collaborazione con la rete Environnement santé e il wwf Francia. 4

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2) Il medico immaginario Fin dai tempi di Molière e del dottor Knock sappiamo che la medicina può farci ammalare. Dalle infezioni iatrogene alle cure pericolose, ecco la medicina che uccide. Siamo stati sciocchi a credere alle proprietà curative dei farmaci: aspirina e paracetamolo rischiano di rendere sterili i nostri figli, di accelerare la pubertà delle nostre figlie. Nomi strani – ftalati, parabeni – entrano nel vocabolario corrente. Sembriamo farmacisti chini sulle ricette mediche, intenti a studiare con circospezione i prodotti prescritti. Non ingoiamo nessuno sciroppo e nessuna capsula senza aver letto prima attentamente la lista terrificante degli effetti indesiderati. L’antidoto sembra più pericoloso del male. Giudichiamo tutto nella totale ignoranza, ma ogni indagine pubblicata sui giornali o resa nota in televisione contraddice le precedenti, aumentando la nostra perplessità. Il budget farmaceutico delle famiglie esplode: i nostri armadi traboccano di fiale, pillole, pozioni inutilizzate che finiranno in pattumiera. Ogni malato vuole comportarsi anche da medico e mostra la folle erudizione dell’incompetente: accumula una scienza immane sui dettagli mostrando un’ignoranza abissale sugli aspetti essenziali. Più la medicina ci cura, più rafforza la nostra ansia. Il russare, l’acne, la potenza sessuale, tutto diventa motivo d’inquietudine: anche la fellatio e il cunnilingus sono sospettati di propagare il cancro, il papilloma virus. Il godimento non è più compatibile con la salute. Sono tempi duri per gli ipocondriaci, sconfitti ormai sul proprio terreno da una società che continua a ripetere: fate bene a preoccuparvi. Bisogna preoccuparsi! Il dubbio si rafforza grazie agli strumenti messi in campo per smentirlo. Ogni giorno s’inventano nuove malattie, chi oserà ancora dire senza spacconeria di essere in buona salute? 140

La scomparsa della religione, almeno in Europa, non è sintomo di un mondo disilluso, ma di un ritorno del sovrannaturale, ovunque, anche negli oggetti tecnologici. Il bestiario fantastico dell’Ancien Régime – diavoli, fantasmi, vampiri, lupi mannari – si è reincarnato nelle comodità di cui dovremmo servirci. Quelle in apparenza più insignificanti, come i cellulari, i giocattoli di Natale, le antenne radio, sono portatrici di sortilegi. Alcune agiscono come perturbatori endocrini, altre sono allergeni o provocano il cancro. Poiché il sospetto è una malattia contagiosa, le soluzioni al male provocano an­ch’es­se effetti pericolosi. Prendete ad esempio le lampadine a basso consumo: oltre a non fare luce, contengono il mercurio, che è molto nocivo se si sparge nel suolo. Quanto alle tanto decantate turbine eoliche, provocherebbero per gli abitanti un frastuono simile a quello di una stazione ferroviaria di smistamento merci, oltre a produrre acufeni e pressioni sui timpani. Le pale riflettono il sole abbagliando i passanti e l’immensa struttura provoca una specifica tipologia di vertigine. Inoltre provocherebbero disturbi del sonno, aritmie cardiache, mal di testa e disturberebbero il bestiame e gli animali domestici in un raggio di due chilometri.5 Le turbine ucciderebbero i pipistrelli, decimando una specie che svolge il ruolo d’insetticida naturale. Perfino le medicine alternative, con la loro sfilza di oli essenziali, chiodi di garofano, valeriana, sono da temere: alcune piante, anche a piccole dosi, sono veri e propri veleni. I nostri tentativi di correggere i danni del progresso provocano a loro volta nuove calamità. Non passiamo da un male a un bene, ma da un inconveniente a un altro. Progredire significa cambiare schiavitù, strappare una catena per legarsi a un’altra.  Si veda il sito www.eoliennesatoutprix.be.

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Evolviamo in un universo carico di presagi, di forze demoniache da stanare. Il principio di precauzione, inserito nella Costituzione francese dopo il caso del sangue infetto, non ha attenuato la tendenza a drammatizzare, poiché si è trasformato in principio del sospetto e della congiura. Non agisce « come una complicazione della decisione scientifica ma piuttosto come un progressivo discredito delle capacità decisionali della scienza ».6 Da un punto di vista semantico, in francese, prendere delle precauzioni equivale a dire ai bambini, prima di un viaggio, di fare i propri bisogni. Per un’azione collettiva, sembrerebbe più adatto il significato che i greci attribuivano alla prudenza, l’arte di trovare la propria strada in una storia incerta. Il desiderio di eliminare ogni incertezza si somma all’impossibilità di riuscirci e degenera in avversione al rischio. La richiesta di sicurezza è insaziabile e alimenta un mercato in continua espansione che va dai medici alle assicurazioni passando per i tribunali e per le società di revisione contabile: lo psichiatra, il giudice e il consulente finanziario formano un trio implacabile, necessario per registrare le nostre lamentele e lenire le nostre ansie. Questa volontà di protezione moltiplica i pericoli immaginari: tutto diventa rischio, baratro, caduta. Il semplice vivere è un’esperienza troppo gravosa. L’edificio tecnologico, medico, alimentare ha assunto l’aspetto di una mostruosa fatalità. Paul Virilio fa notare che « inventare il treno significa inventare il deragliamento e inventare l’energia elettrica significa inventare anche la sedia elettrica ».7 Allo stesso modo, si potrebbe dire che inventare la corda equivale a inventare  François Ewald, Au risque d’innover, Autrement, Paris, 2009.   Interviste con Guy Lacroix, Terminal, inverno 1993, p. 123. « Si va verso nuove Cernobyl’ informatiche » in Dominique Bourg, L’Homme artifice, Gallimard, Le Débat, Paris, 1996, p. 268. 6 7

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l’impiccato, inventare l’ago equivale a inventare la puntura. Arriva un momento in cui è il filosofo stesso che, in preda ai suoi deliri, deraglia.

3) Il panico della ragione La scienza, scuola d’integrità e di rigore, perde così il suo primato morale. È disertata in Europa da numerosi studenti che le preferiscono insegnamenti più redditizi come il diritto e la finanza. Il trionfo dell’avidità e la cultura del processo corrodono l’intera struttura delle nostre società, specialmente negli Stati Uniti. Frenano l’innovazione – a meno di considerare come un progresso gli algoritmi deliranti costruiti dai broker per diversificare i debiti – e generano un’infinità di mestieri parassitari: litiganti, avvocati, uomini di legge, trader.8 Non vogliamo più affidarci alla scienza per essere guidati, perché ha perso « fino a nuovo ordine il suo credito di razionalità ».9 Da essa esigiamo due atteggiamenti: la pedagogia e l’autocritica. Deve ammettere i propri errori, praticare l’umiltà, moltiplicare le opere divulgative intelligenti e mettere a livello di tutti le conoscenze più ardue. Per quanto sia informato, il cittadino comune non è in grado d’imparare una disciplina per intero o di farsi un’opinione su un argomento preciso di fisica o di biotecnolo  In Francia, secondo le statistiche del ministero della Pubblica Istruzione relative al 2011, le facoltà scientifiche attirano solo l’11% degli studenti rispetto al 24% nel 1996 e al 17% nel 2002. Tra il 2002 e il 2009, il numero di studenti che ricevono una formazione scientifica o ingegneristica è diminuito del 5,9%, quello degli studenti di scienze fondamentali del 17%, quello degli iscritti alla facoltà di scienze della vita e della Terra del 9,4%. 9  Ulrich Beck, op. cit. 8

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gia. Mettere la scienza sotto sorveglianza non significa per forza dotarla di una coscienza, ma piuttosto moltiplicare le procedure complesse mediante un interventismo che può ricordare l’oscurantismo della rivoluzione culturale o dei Khmer rossi. Lo scienziato, il biologo, il ricercatore hanno perso autorità, ma il prestigio così dissipato si è trasferito a un individuo qualunque che approfitta della propria posizione per decidere tutto e niente. Come si può stabilire se valga la pena costruire un reattore epr se non si è esperti di energia atomica in grado di discuterne con i propri pari? Eppure, la democrazia esige da noi che, una volta avvertiti e informati, prendiamo decisioni in modo intelligente. In chirurgia, ad esempio, i medici possono spiegarci le opzioni tra le varie cure, senza liberarci dal­ l’ob­bli­go di correre un rischio. È quindi necessario che il paziente, assistito dai medici, scelga in modo pienamente cosciente una cura che, con l’accordo degli esperti, si spera sia la meno pericolosa possibile. In altri termini, la scienza e la tecnologia sono innanzitutto atti di fede e oggi attraversiamo, da questo punto di vista, una crisi di fiducia molto grave. Ogni disciplina deve essere in grado di ritradurre la propria simbologia in una lingua accessibile al profano, evitando il gergo specialistico. Questo discorso semplificato richiede tuttavia anch’esso un grado di competenza che non è accessibile a tutti. In nome di quale principio rifiutiamo, ad esempio, un’invenzione nel settore agricolo? In nome della competenza del contadino, dell’allevatore, del viticoltore o in nome della reazione emotiva di un cittadino che decide tutto e niente? È l’ambiguità dei « forum deliberativi » che dovrebbero stabilire regole giuste per definire la vita comune. Quale legittimità si può accordare ai comitati di militanti, alle ong, ai residenti che si mobilitano nel nome di un danno potenziale? Il trattato di 144

Lisbona del 2006 introduce una nuova procedura, « l’iniziativa dei cittadini europei », che permetterà a ogni petizione firmata da almeno un milione di persone dell’ue di promuovere nuove procedure giuridiche. Come garantire che questo interventismo non sarà la punta dell’iceberg di un’ignoranza militante che brandirà la propria ideologia politica e le proprie sofferenze per ostacolare ogni minimo progetto? Prima di decidere sull’ingegneria genetica, la robotica, le nanotecnologie, bisogna capire, ascoltare e imparare. Oppure si può dare la parola agli esperti ufficiali, spesso consulenti di grandi imprese, o agli attivisti che hanno di solito una conoscenza molto parziale e un’intolleranza assoluta: basti pensare al movimento dei falciatori volontari francesi sotto la guida del maurrassiano di estrema sinistra José Bové.10 Estendere la cerchia degli esperti alle ong, diventate al­  Nel 2002, in seguito all’incendio di numerose sinagoghe in Francia, José Bové, fervente accusatore del colonialismo israeliano, nel quale vedeva un’emanazione della piovra liberista, affermò, durante una conferenza stampa: « Dobbiamo chiederci chi trae vantaggio da questo crimine. Sono contrario a tutti gli atti che colpiscono i luoghi di culto. Ma credo che il governo israeliano e i suoi servizi segreti abbiano interesse a creare una certa psicosi, a far credere che in Francia si sia instaurato un clima antisemita, per sviare l’attenzione » (Libération, 3 aprile 2002). Si sarebbe scusato in seguito di aver eventualmente ferito con le proprie affermazioni alcune sensibilità. Piccola domanda supplementare: a chi giovano questi colpi di spugna dei falciatori volontari? Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 2010, alcuni commando hanno distrutto interi vigneti transgenici piantati dall’Istituto nazionale di ricerca agronomica di Colmar, in Alsazia, per testare i prodotti destinati a lottare contro una malattia diffusa nelle vigne, il court-noué. I danni così provocati hanno ucciso sul nascere la ricerca in corso. Risultato: l’industria francese degli ogm è annientata, grazie a questi interventi massicci, complici, forse involontari, dell’onnipotente Monsanto. 10

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l’im­prov­vi­so fondamentali nelle decisioni sulle politiche ambientali, al di là delle istituzioni rappresentative, significa sostanzialmente estendere la cerchia dell’arbitrario. Qual è in fondo la legittimità delle grandi associazioni? In nome di chi parlano? Chi li incarica, chi li paga, quali sono i loro metodi? Chi indagherà sul wwf, su Oxfam, su Greenpeace, su Friends of the Earth come si indaga su Monsanto, Total o British Petroleum? Nell’immaginario contemporaneo, le multinazionali sono l’equivalente degli Stati totalitari: mostri freddi, indifferenti alle vite umane, pronti a tutto pur di arricchirsi. È questo a rendere il dibattito sull’atomo così astruso: all’arroganza dei tecnocrati e delle lobby nucleari rispondono le invettive dei loro avversari. Doppio vicolo cieco che lascia i cittadini comuni insoddisfatti, come se fossero le vittime di un duplice malinteso. Possiamo screditare le grandi imprese, oppure servirci delle loro competenze, ostacolarle con azioni concrete, oppure cercare di cooperare, come fanno alcune ong, in modo da evitare errori fatali. Dopotutto, è nell’interesse di un’impresa rispettare l’ambiente e farsi accettare dalla popolazione. Secondo una logica puramente economica, ogni incidente si paga caro in termini d’immagine e di costi, e può essere fatale per un grande gruppo (pensate alla Union Carbide, scomparsa dopo Bhopal, e a British Petroleum, colpita duramente dalla marea nera del golfo del Messico nel 2009). Il mondo va più in fretta di quanto pensiamo. Gli stessi scienziati spesso non capiscono nulla dei settori circoscritti di cui si occupano i loro colleghi. È la difficoltà della « scienza al servizio dei cittadini » che cerca d’informare il grande pubblico sulle scoperte più recenti. Che cosa succede quando il pubblico vuole passare da spettatore a « sovrintendente delle decisioni », o a « collaboratore legi146

slativo » (Etienne Klein)?11 Per quanto ci informiamo, non sarà mai abbastanza, soprattutto quando si tratterà di prendere una decisione sulle nuove fonti di energia, sul gas di scisto o sui reattori di terza o quarta generazione. Bisogna sempre emettere un giudizio nella semioscurità poiché la scienza per natura produce l’ignoto. È giusto procedere a vaste consultazioni nazionali sui temi cruciali, ma è illusorio pensare che risolveranno magicamente tutti i problemi. Nessuno sfugge all’imprevisto, neppure gli astensionisti: come possiamo sapere, ad esempio, se il blocco degli ogm, in un contesto di declino globale delle rese agricole, non risulterà un atto criminale e non condannerà intere nazioni alla denutrizione? La messa al bando del ddt negli anni Settanta, sotto la pressione di gruppi ambientalisti dei paesi ricchi, ha provocato un aggravamento della malaria nei paesi del Sud del mondo con milioni di morti, sebbene la controversia sulla nocività di questo insetticida continui ancora oggi. Il non interventismo non è meno pericoloso dell’interventismo: i « precauzionisti » vorrebbero barricarsi dietro una posizione inattaccabile. Ma quest’atteggiamento non è più sicuro degli altri. Arriva un momento in cui bisogna decidere, saltare nel vuoto: nessuna forma di prudenza metterà fine al lato aleatorio, inevitabile in qualsiasi tipo di decisione. Dato che non tutto ciò che è possibile in ambito scientifico è auspicabile, dobbiamo prosciugare tutte le possibilità e rifiutare ogni minima innovazione? Viviamo in piena « epistemofobia », come ha detto molto bene Dominique Lecourt.12 Mentre gli strumenti tecnici stimolano la natura, la modificano, si sostituiscono a essa fabbricando  Si veda l’articolo illuminante di Etienne Klein, « La scienza sotto esame », Le Débat, aprile-maggio 2004, pp. 148-149. 12  Dominique Lecourt, op. cit., p. 64. 11

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esseri viventi, come avviene con l’ingegneria genetica, si diffonde un vero e proprio panico dovuto all’eventuale confusione degli ordini. Allo stesso modo in cui il virus informatico imita il virus biologico infettando i software, i fantasmi dell’alieno o del cyborg, combinazione di cervello e computer, si ripresentano a ogni novità. La creatura ibrida, mezza uomo e mezza animale, mezza uomo e mezza macchina (Terminator, Robocop, Matrix), mezza rettile e mezza germe patogeno, incarna a modo suo i tratti peggiori di ogni specie: l’istinto della bestia feroce, la crudeltà dell’essere umano, l’automatismo implacabile delle macchine. Il tentativo di trasformare il vivente sembra diabolico poiché oltrepassa i confini e combina ciò che dovrebbe restare separato. Nell’estetica dei film di fantascienza si mescolano il bestiario medievale e la tecnologia più avanzata: gargoyle e grifi elettronici, mutanti dalle forme animali dotati di zanne e artigli, strutture metalliche coperte di pelo, robot alati e via dicendo. (In un celebre romanzo di Clifford D. Simak, i cani hanno preso il potere e offrono come regalo di compleanno a un robot di settemila anni, Jenkins, maggiordomo elettronico, una nuova e scintillante armatura che lui non osa indossare subito, tanto è in­ti­mi­di­to.)13 Certe scienze ci appassionano o ci spaventano, come la clonazione o le nanotecnologie, perché alimentano o confermano i nostri sogni più folli: immortalità, onnipotenza, ubiquità. Definiscono l’immagine di una postumanità dotata di uno stato metafisico inedito. Liberandoci da ogni barriera, ci fanno intravedere un’uscita dalla condizione umana, scenario tanto seducente quanto ingenuo. Il pericolo in questo caso viene dal desiderio puerile di superare ogni ostacolo. La demonizzazione del Clifford D. Simak, City, Gnome Press, New York, 1952 (trad. it. di Giorgio Monicelli: Anni senza fine, Mondadori, Milano, 1953). 13

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la tecnica è il ribaltamento del sogno progressista trasformatosi in incubo. Ci si augura dunque che i ricercatori condividano con le nuove generazioni le meraviglie dell’attività scientifica. « Che cosa vedrei se cercassi un raggio di luce? » chiedeva Einstein. La scienza è anche poesia, connessione intuitiva degli oggetti, arte di costruire ponti tra ambiti che nessuno aveva mai unito, finzione, spiritualità. Come riconciliarla con l’opinione pubblica, aiutarla a ritrovare gli obiettivi emancipatori che furono fin dalle origini le sue ragioni di esistere? Tagliando il cordone ombelicale che la lega ai grandi gruppi o ai laboratori privati e che fa gravare su di lei il sospetto di collusione (ma si porrebbe allora il problema del finanziamento pubblico della ricerca). Mettendo alla portata di tutti le conoscenze più astruse, promuovendo pubblicamente uno scambio intelligente tra scienziati e profani, restituendo all’opinione pubblica il gusto per l’innovazione. E soprattutto ponendo fine al mito che negli ultimi tre secoli ha fatto della scienza il sostituto della fede e che continua a nutrire le correnti in apparenza più ostili alla sua diffusione.

4) Gli scienziati ci dicono... Una constatazione sorprendente: proprio mentre esigiamo da parte degli scienziati una autoanalisi spietata, continuiamo comunque a ragionare in termini scientifici. È sotto questi auspici che si sviluppa un nuovo oscurantismo sostenuto dall’idolatria per la matematica. Un sito internet dedicato alla « cucina etica » e ai misfatti dell’alimentazione carnivora non ci spiega forse che « la produzione di un chilo di vitello libera una quantità di gas serra pari a quella di un viaggio in macchina di 220 chilome149

tri »? In base a quale procedimento si è giunti a un risultato così preciso? Possiamo esporre nei particolari quest’operazione che comincia con una fetta di vitello e finisce con un tragitto in macchina? Siamo sempre ossessionati dall’automobile, come se il vero nemico dell’ambiente fosse la mobilità umana. Ricordiamoci che il governo di Vichy in Francia fu un grande sostenitore della bicicletta per tutti, d’estate come d’inverno, mentre la macchina era riservata ai medici, ai soldati e ai poliziotti. La reclusione per il popolo, il nomadismo per l’aristocrazia. In una città come Parigi, la politica dei verdi al governo consiste nel paralizzare la circolazione per scoraggiare i guidatori, col rischio di aumentare l’inquinamento prodotto da migliaia di veicoli bloccati in coda. E questo è solo l’inizio: promettono la chiusura imminente del lungo Senna e della tangenziale, riservati alle bici e ai roller. Gioco di prestigio: si denuncia la confusione tra progresso e positivismo ma si conserva la tendenza sfrenata a quantificare! Ci battiamo contro il razionalismo scimmiottando la razionalità: ricorso ai modelli informatici, invocazione dello scienziato come figura di autorità, fede nella grandezza della statistica come se i numeri fossero la traduzione automatica della verità. Tutte queste sciocchezze a base di frazioni e percentuali servono a sbatterci sotto il naso proposte irrefutabili. Mentre l’atto scientifico per eccellenza consiste nel dire « non lo so », « sospendo il mio giudizio », i nuovi Trissotin sanno tutto di tutto e non lasciano spazio alla discussione. Un esempio tra mille: un filosofo, preoccupato di combattere ancora una volta i danni provocati dalle confezioni di yogurt, scrive: Si è addirittura calcolato che un vasetto di yogurt alla fragola da 125 grammi venduto a Stoccarda, nel 1992, aveva 150

percorso 9115 chilometri, tenuto conto del percorso del latte, delle fragole coltivate in Polonia, dell’alluminio del­ l’eti­chet­ta, della distanza di distribuzione ecc.14

O ancora, per restare alla metafora alimentare: In media, gli elementi di un pasto hanno viaggiato 2400 chilometri prima di arrivare sulla nostra tavola.15 (Bill McKibben)

Un’immagine davvero strana: una serie di alimenti che attraversano continenti interi prima di arrivare, probabilmente freddi, nella bocca dei consumatori. Qual è lo scopo di questo conteggio insensato? Bloccare ogni possibile obiezione! Allineiamo colonne di numeri come carri armati per sostenere le nostre tesi. Nel momento stesso in cui denunciamo l’immaginario scientifico, gli chiediamo di garantirci una posizione inespugnabile. La folle intesa tra calcolo e ideologia e l’alta sofisticazione di certi discorsi mirano a imporre il silenzio ai rivali e servono come modelli riproducibili all’infinito. « Gli scienziati ci dicono che... »: così comincia la maggior parte dei moniti ecologisti. L’esperto militante è il nuovo tipo di attivista formato dalle associazioni, la cui erudizione è messa interamente al servizio esclusivo di una linea politica. Successore dell’esperto in economia d’estrema sinistra, si presenta come un’enciclopedia vivente delle sciagure planetarie, dispone di una valanga di dati su tutti i problemi e ci spiattella in faccia i suoi teore Serge Latouche, op. cit., p. 221. L’ossessione per le confezioni è una costante tra gli ambientalisti. Anche André Gorz, negli anni Settanta, ne aveva fatto il suo cavallo di battaglia. 15   Bill McKibben, Harper’s, 2003, citato in Serge Latouche, op. cit., p. 221. 14

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mi. Ne sa molto più di tutti gli altri e ha sempre l’informazione, il dettaglio che vi zittirà. Il suo titolo più importante è il diploma d’intimidazione. Ricordiamo che, secondo Karl Popper, bisogna imputare agli pseudoscienziati non di sbagliarsi, ma di avere sempre ragione, di essere impermeabili alle smentite.16 E che ogni disciplina scientifica ha il suo doppione semplificato in una forma accessibile a tutti: la numerologia per la matematica, l’astrologia per l’astronomia, l’alchimia per la chimica, il creazionismo per la teoria dell’evoluzione, senza contare le innumerevoli varianti delle medicine alternative. Basare una dimostrazione su una serie di calcoli non verificabili o fantasiosi significa sostituire l’indottrinamento al rispetto dei fatti e rendere un pessimo servizio alla causa dell’ambiente: il risultato così ottenuto potrà essere sempre contestato da un matematico più abile. Più che i suoi metodi, alla scienza viene contestato l’ottimismo ingenuo che le è stato cucito addosso, quello di un dominio assoluto della vita, di una divinità illusoria restituita al­l’uo­mo. Dimentichiamo che ai tempi di Jules Verne, Auguste Comte, Victor Hugo non era solo dominio e sfruttamento, ma soprattutto stupore e ammirazione. Scimmiottare i suoi metodi e al tempo stesso accollarle un’ideologia totalizzante significa schernire il suo spirito. Sommergere l’opinione pubblica di miriadi di cifre non illumina l’intelletto. Rabbrividiamo già all’idea degli arresti che un Tribunale penale internazionale per l’ambiente, proposto dal presidente boliviano Evo Mora  Benoît Rittaud, Le Mythe climatique, Seuil, Paris, 2010, p. 176. In quest’eccellente opera polemica, il matematico Benoît Rittaud dà questa definizione della pseudoscienza che viene accostata alla climatologia: « la climatomanzia, arte divinatoria che mira a dedurre dal comportamento umano il futuro climatico della Terra, con l’idea di prescrivere a ciascuno degli atti di penitenza », p. 169. 16

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les e sostenuto in Francia da Jean-Luc Mélenchon, potrebbe ordinare sulla base di ipotesi del tutto tendenziose.

5) La quarta rivoluzione copernicana In un celebre confronto, Sigmund Freud paragona il proprio lavoro a una nuova rivoluzione copernicana: la prima mostrava la Terra come « una particella insignificante del sistema cosmico » e non come il centro dell’universo; la seconda con Darwin descriveva un uomo discendente della scimmia e non generato da Dio. La terza, la psicoanalisi, sottrae all’io la vita cosciente e gli dimostra che non è padrone in casa propria, ma è sballottato tra le pulsioni del­ l’in­con­scio e del Super-Io.17 Oggi al nostro orgoglio viene inflitta una quarta smentita: non siamo più padroni del mondo, ma esseri viventi come gli altri, che hanno usurpato il loro posto e devono abdicare « alla loro regalità immaginaria » (Montaigne). L’uomo viene così spodestato, il mondo non è stato creato per lui: i maiali, come aveva già detto Porfirio nel iii secolo, non sono fatti per essere mangiati, così come noi non siamo stati concepiti per andare in pasto ai coccodrilli. Sobrietà, modestia, temperanza: sarebbe questa la nuova etica da opporre alla hybris tecnica. Siamo invitati a limitare il consumo di petrolio, a frenare il nostro appetito, a porre fine agli sprechi. Ma l’elogio della misura è anch’esso fatto con dismisura. La semplicità, il ritegno, non possono essere le parole conclusive dell’avventura umana, soprattutto quando a questo programma estenuante si offre un entusiasmo inquietante.  Sigmund Freud, Vorlesungen zur Einführung in die Psycho­ana­ lyse (1915-17) (trad. it. di Marilisa Tonin Dogana e Ermanno Sagittario, Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri, Torino, 1981). 17

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La frontiera tra naturale e artificiale continua a spostarsi senza mai scomparire, ogni generazione la modifica a suo modo, senza riuscire a eliminarla. L’uomo, « animale snaturato » (Vercors), non è mai al posto giusto nel proprio ambiente: sempre di troppo o in disparte, oltrepassa le proprie prerogative e procede a continui aggiustamenti tra sapere e potere. La saggezza all’occorrenza sta nel cooperare con gli altri esseri viventi per cercare di sfruttare nuove possibilità. Va bene lo sviluppo, ma non a costo di gravare sul futuro, di distruggere paesaggi e colture, di devastare per sempre intere regioni: in Canada, ad esempio, le popolazioni autoctone hanno ottenuto il diritto di veto sulla costruzione di dighe, sui progetti di sfruttamento di gas e petrolio, sulla realizzazione di nuovi oleodotti. L’Europa ha creato aree naturali protette in cui le attività umane diventano compatibili con la tutela dell’ambiente. A ogni modo, quando nasce un progetto industriale, minerario, idroelettrico, conviene sempre coinvolgere i residenti, le organizzazioni locali, piuttosto che tramare alle loro spalle. La marea nera in Louisiana, nell’estate del 2010, offre un esempio opposto; i pescatori di gamberetti e aragoste, pur essendo stati fortemente penalizzati dall’esplosione della piattaforma Deepwater Horizon e dall’inquinamento permanente delle coste, non hanno chiesto la fine delle perforazioni in mare aperto da parte della British Petroleum, ma un aumento delle misure di sicurezza e un adeguato risarcimento. Per loro, la coabitazione della pesca e del petrolio è una buona cosa di cui vorrebbero tutti i vantaggi senza gli svantaggi. Il governo di Ottawa vuole avviare un progetto per valorizzare il grande Nord canadese? Il progetto viene approvato dalla maggioranza delle tribù indiane d’America, a certe precise condizioni. Gli ecologisti sono ovviamente contrari. Esistono in genere tre modi per gestire la natura: la sal154

vaguardia, la conservazione, la ricostituzione.18 I grandi parchi americani e canadesi, immaginati da John Muir, rispondono al primo principio e proteggono vaste aree di vita selvaggia: la cosa più bella in America, oltre alle sue città simbolo, sono le distese infinite, i deserti immensi, le foreste dagli alberi giganteschi. La conservazione consiste nello sfruttare le risorse di un territorio senza causare danni irreparabili, con una politica di scelte intelligenti. Si può infine operare ripristinando ambienti distrutti o compromessi: le torbiere delle Ardenne, i suoli erosi in Manitoba, le paludi in Iraq, le barriere coralline ad Antigua, la taiga in Russia. In Francia, il patrimonio forestale ha raddoppiato la sua superficie rispetto al 1827, e ricopre oggi il 28,6% del territorio, cioè 15,7 milioni di ettari. A titolo di paragone, nel 1690, in Inghilterra e nel Galles rimanevano solo 1,2 milioni di ettari di boschi coltivati, dopo due secoli di abbattimento frenetico. Molti ecosistemi possono rigenerarsi nel giro di venti anni, esiste una reversibilità dei danni: il buco nell’ozono sopra l’Antartico, ad esempio, si è ridotto del 30% rispetto al 2006,19 senza che si conoscano le ragioni precise del fenomeno. Quanto al­ l’in­va­den­za degli uomini, può rivelarsi addirittura benefica. Le parti della foresta amazzonica trasformate dalla presenza umana hanno una vegetazione e un bestiame più ricco delle parti vergini.20 Al livello empirico di chi passeggia lungo le strade, è stupefacente costatare come la flora e la fauna si riprendano i propri spazi nelle grandi città, nei giardini pubblici,  Su questo argomento, si veda la tesi illuminante di Stéphane Ferret, op. cit., pp. 273 sgg. 19  Secondo l’Agenzia spaziale europea, la quale precisa che ciò non riflette necessariamente una tendenza a lungo termine. 20  Si veda Dominique Bourg, Nature et technique, p. 54. 18

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appena l’uomo gliene dà la possibilità. Basti pensare che le volpi stanno tornando nelle periferie di Parigi, che gli uccelli rapaci nidificano sulle torri di Notre-Dame, che le rondini fanno il nido sui tetti della capitale, abbandonando le coste per nutrirsi dei rifiuti del mercato di Rungis. Alcuni grandi hotel parigini hanno al proprio servizio falconieri che addestrano poiane, aquile e sparvieri per allontanare i piccioni. I procioni proliferano intorno al Bundestag di Berlino, i cinghiali e le talpe popolano i prati del Reichstag, i gabbiani pescano nelle acque della Sprea, le aquile cacciano di nuovo nei parchi cittadini. Londra è invasa dai parrocchetti dal collare che resistono al grande freddo, svuotano le mangiatoie, attaccano le specie più deboli e assordano gli abitanti con i loro pigolii. Migliaia di scimmie invadono i tetti di Dacca, capitale del Bangladesh, costringendo gli abitanti a munire di reti le loro abitazioni: i primati sono molto aggressivi, rubano i panni stesi e non li restituiscono se non in cambio di cibo, a costo di distruggerli. Vedere un gatto, in un bel giorno di primavera, attraversare con passo regale una strada del Marais a Parigi sulle strisce pedonali, senza fretta, sicuro di sé, è uno spettacolo splendido.

6) Salvare lo spirito d’esplorazione Tutto ciò implica un nuovo rapporto d’amicizia, di collaborazione con il mondo, ma non di rinuncia. Bisogna ovviamente sostenere la creazione di riserve naturali inviolabili, riconoscere gli oceani come beni comuni del­l’uma­ni­ tà. Tuttavia, non si può ridurre l’attività umana al giardinaggio. La tenera cura dei parchi, delle spiagge, la protezione imperativa delle specie in via d’estinzione possono coesistere con lo sfruttamento di altre parti della Terra. 156

Fino agli anni Settanta, la caccia in Francia consisteva nello sparare su tutto ciò che si muoveva, nell’eliminare una dopo l’altra ogni specie di selvaggina. L’introduzione della licenza ha trasformato la caccia in una scuola di conoscenza e rispetto del mondo selvatico, contribuendo a ripopolare intere regioni di cinghiali, cervi, camosci e uccelli. La reintroduzione del lupo sulle Alpi, a partire dall’Italia, dell’orso sloveno sui Pirenei, del bisonte europeo nella Repubblica Ceca, contribuiscono allo stesso processo. Se un domani fosse abolita la corrida, con essa si estinguerebbe la razza di tori che combatte nelle arene; se smettessimo di mangiare carne, svanirebbero le ragioni per allevare vitelli, mucche, maiali, polli, così come altri animali. È quello che vorrebbe un certo numero di attivisti per i diritti degli animali, per i quali l’estinzione di categorie schiavizzate, come le anatre allevate per il foie gras, i bovini, gli ovini, i gallinacei, i volatili, è preferibile al loro sfruttamento da parte del­l’uo­mo.21 È meglio non essere nati piuttosto che vivere male. A parte il fatto che non si chiede mai il parere dei diretti interessati (è il paternalismo insito in questo movimento), è strano che la soluzione proposta per eliminare la sofferenza degli esseri viventi sia la loro pura e semplice scomparsa, così come certi ecologisti radicali vogliono cancellare il genere umano. Se non si devono più utilizzare gli animali, né addomesticarli per lavoro o per divertimento, se si devono cioè chiudere gli zoo, i circhi, le voliere, i laboratori di ricerca, i centri ippici, non ci resta che proteggere gli animali assicurandoci che non si riproducano e che siano gli ultimi (è la posizione sostenuta da un certo Tom Regan e da un certo Gary Francione). Si giunge così al seguente paradosso: anziché esplora Su questo argomento, si veda Jean-Baptiste Jeangène Vilmer, op. cit., pp. 56-58. 21

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re nuove forme di convivenza, i difensori dei diritti degli animali preconizzano il loro dolce sterminio. Esistono molti modi per usare la natura e il nostro errore consiste nell’averne trascurati alcuni, scegliendo un rapporto di sfruttamento o di prelievo. Siamo dentro e fuori di essa, siamo incorporati in essa e al di sopra di essa. Il mondo non ci è dovuto, ci viene affidato come un incarico, per trasmetterlo alle generazioni future, possibilmente in condizioni migliori. « Non ereditiamo la Terra dai nostri genitori, ma la diamo in prestito ai nostri figli » (proverbio indiano). Ma il dialogo con la natura non vieta di domarla o coltivarla. Celebrare lo sfavillio del mondo, la trama delle nuvole, lo splendore delle aurore boreali, ammirare l’incredibile abbondanza di esseri minuscoli non significa rinunciare a ogni tipo di attività industriale o agricola. Continueremo a batterci contro le malattie, così « naturali », le mutazioni dei virus o dei batteri, le piogge torrenziali, le ondate di freddo, i cicloni, ma continueremo anche a costruire città, sicuramente meno assetate di energia, case intelligenti, grattacieli sobrii, e non smetteremo nemmeno di innalzare dighe, di perforare pozzi, di scavare miniere, ma con un po’ più di buon senso. La sperimentazione non è incompatibile con la contemplazione: sono due ordini diversi che siamo in grado di riequilibrare senza confonderli. Nell’attesa che la specie umana colonizzi lo spazio e si disperda su altre galassie per trasformarle in territori abitabili,22 nell’attesa della fusione tra uomo e macchina, dobbiamo sostenere un nuo Secondo il metodo di « terraformazione », già in programma per Marte: « creare un effetto serra (...) impiantare batteri geneticamente modificati in grado di convertire in ossigeno l’anidride carbonica della Terra, far fondere le calotte polari, ricreare gli oceani », processi descritti dal­l’au­to­re di fantascienza Kim Stanley Robinson. Si 22

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vo tipo di progresso, autocritico e cosciente della propria ambivalenza. La civilizzazione crea tanti problemi quanti ne risolve e le soluzioni generano a loro volta nuovi problemi. Non esiste un solo progresso generale, ma più progressi localizzati, an­ch’es­si paradossali e capaci di causare regressioni. Lo sapeva già Jules Verne, secondo il quale allo sviluppo segue sempre la decadenza, in un eterno ritorno: la stessa eruzione vulcanica che crea un atollo in mezzo al mare, più tardi lo distruggerà; il romanzo della scienza è emozionante e opprimente.23 Forse siamo fedeli disincantati, ma questo non ha mai spinto nessuno a rifiutare l’elettricità e a ritornare ai tempi del calesse (a parte certi figli viziati della società dell’abbondanza). Perché privarsi degli innumerevoli frutti di una scoperta? Chiunque abbia subito un’operazione chirurgica finita bene, chiunque sia stato salvato da un antibiotico o abbia eliminato un tremendo mal di testa con l’aspirina, sa cosa significa il progresso. Rinunciare alla distruzione sconsiderata non significa rinunciare alla ricerca. L’alternativa non è tra la natura incontaminata che cicatrizza lentamente la ferita dell’intrusione umana e un produttivismo devastatore che forgia, trafora, sfigura, ma tra uno stato di regressione e uno sviluppo accettato coscientemente con i suoi rischi e i vantaggi. Georges Canguilhem distingue tra la luce, motore della storia nel xviii secolo, e il calore, simbolo del xix secolo, che dipende dai combustibili fossili, cioè da giacimenti esauribili. Da questo punto di vista, alla nostra epoca, almeno in Occidente, mancano sia il calore sia la luce; è veda Jean Staune, La science en otage, Presses de la Renaissance, Paris, 2010, pp. 334-335. 23  Secondo la brillante interpretazione che ne dà Michel Serres, op. cit., pp. 60-61. 159

un’epoca a basso consumo come le lampadine, in un universo dominato dal­l’en­tro­pia. L’ambientalismo è la filosofia del crepuscolo, della morte. Riusciremo in futuro, grazie all’industria genetica, a creare una zanzara ogm in grado di sterilizzare quelle anofeli, portatrici della malaria? Sarebbe un’invenzione prodigiosa capace di sradicare uno dei peggiori flagelli dei nostri tempi. I nostri censori si scatenano al­l’istan­te, le associazioni si mobilitano: niente ogm! Il giec (Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico) propone di sviluppare una serie di tecniche per controllare il clima per mezzo della geoingegneria e di schermare una parte della radiazione solare? I puritani del pianeta si indignano: immaginate se funzionasse, immaginate per un istante che le cose migliorino, che una di queste soluzioni, per quanto improbabile, abbia un effetto positivo? Per i nostri inquisitori sarebbe l’esito peggiore: bisogna che tutto vada sempre peggio, che soffriamo... Supponiamo che un laboratorio di biotecnologia scopra il prodotto di sintesi miracoloso o l’idrocarburo alternativo che consente di soppiantare petrolio e nucleare; immaginiamo che grazie all’ingegneria genetica si possa creare un essere umano che abbia un minore impatto sull’ambiente, più adatto alle risorse limitate del nostro pianeta. Le lobby dei verdi insorgerebbero subito, evocando gli androidi che assaltano l’umanità o una materia intelligente che si rivolta contro il proprio creatore. Da cosa si riconosce un ambientalista? Dal fatto che è contrario a tutto, al carbone, anche con cattura e sequestro di CO2, al gas naturale, al gas di scisto, all’etanolo, al carburante pesante, al nucleare, al petrolio, alle dighe, ai camion, al tgv, alla macchina, all’aereo. Come la bambola che dice sempre no nella canzone di Polnareff. Il vero desiderio di questo movimento non è salvaguardare la natura, ma punire l’uomo. 160

Il terremoto di Lisbona Il 1° novembre 1755, la città di Lisbona fu devastata da un terremoto, seguito da un maremoto e da un incendio che durò cinque giorni. Vi furono tra le 50.000 e le 100.000 vittime. L’evento non fu solo fisico ma metafisico, e mise in crisi l’ottimismo degli illuministi, suscitando tre generi di risposte. La prima risposta fu di Voltaire: a sessant’anni, il più celebre proscritto d’Europa, turbato dal sisma nelle sue più profonde convinzioni, esprime la propria rabbia, la propria rivolta in un celebre poema: « Filosofi che osate gridare tutto è bene, / venite a contemplar queste rovine orrende: / muri a pezzi, carni a brandelli e ceneri. / Donne e infanti ammucchiati uno sul­l’al­tro / sotto pezzi di pietre, membra sparse; / centomila feriti che la terra divora, / straziati e insanguinati ma ancor palpitanti, / sepolti dai lor tetti, perdono senza soccorsi, / tra atroci tormenti, le lor misere vite. (...) / Direte, vedendo questi mucchi di vittime: / fu questo il prezzo che Dio fece pagar pei lor peccati? / Quali peccati ? Qual colpa han commesso questi infanti / schiacciati e insanguinati sul materno seno? (...) / Tutto ben sarà un giorno: è questa la speranza / tutto oggi è bene: è questa l’illusione ». Il male esiste in una duplice forma: in natura e nel­l’uo­ mo. Dobbiamo dimenticare l’euforia di inizio secolo. Se esiste un Dio, è tremendamente crudele o del tutto impotente. La speranza di una riconciliazione del­l’uo­ mo con se stesso sotto l’egida del commercio, dell’istruzione e della tolleranza è svanita, o almeno ridi161

mensionata. A questo pessimismo, Rousseau replica con strano buon senso: « Converrete » risponde a Voltaire « che la natura non aveva affatto riunito in quel luogo mille case da sei o sette piani e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minore imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o forse non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe trovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto. Ma bisogna restare, ostinarsi intorno alle misere stamberghe, esporsi al rischio di nuove scosse perché quello che si lascia vale più di quello che si può portar via con sé. Quanti infelici sono morti in questo disastro per voler prendere chi i propri abiti, chi i documenti, chi i soldi? » Rousseau mette in evidenza tutti i difetti che più odia nella civiltà: l’avidità degli uomini, il loro istinto per la proprietà, ma soprattutto il bisogno assurdo di ammassarsi gli uni sugli altri nelle città, con la corruzione che ne deriva. Contro ogni aspettativa, non ragiona in modo fatalistico, ma moderno. L’orrore avrebbe potuto essere evitato, con un po’ di buon senso e di cautela. Il mondo non è assurdo, come lo vorrà Candido, è solo male organizzato. Due celebri personaggi si porranno sulla stessa linea di Rousseau: Immanuel Kant scrive una breve monografia sui terremoti, che attribuisce a gas concentrati al­ l’in­ter­no d’immense caverne sotterranee, primo tentativo di ricondurre il fenomeno a cause naturali e non sovrannaturali. Ma la reazione più equilibrata fu quella del marchese di Pombal, primo ministro del re del Por162

togallo: fece ricostruire Lisbona secondo un piano urbanistico antisismico saggiamente congegnato, con grandi piazze, ampi viali e costruzioni meno alte. Provò i modelli delle case sottoponendoli giorno e notte al passaggio di carri particolarmente carichi le cui vibrazioni ricordavano quelle di un terremoto. Con lui stava per nascere la sismologia.24 Stupore rabbioso, umiltà prudente, resistenza razionale al caos: queste sono le tre risposte che possiamo dare alle catastrofi. Di fronte a esse, l’uomo può abbandonarsi all’invettiva o mostrarsi più forte di ciò che vuole annientarlo. Il caos è anche creatore, rende intelligenti, genera configurazioni inedite secondo la teoria definita nel 1830 dal famoso paleontologo e anatomista Cuvier.25 La furia cosmica delle stelle e le eruzioni insensate della materia fanno nascere nuove forme di vita. Sade, quel gran filibustiere lanciato contro l’ottimismo degli illuministi, l’aveva dimostrato in modo provocatorio: l’unico comandamento della natura è il crimine in tutte le sue forme. Si tratta di una matrigna che sperpera energie immense e inghiotte le sue stesse creature nei propri sussulti. Secondo Sade, uccidere non significa eliminare una vita insostituibile, ma piegarsi alla legge della metamorfosi che inghiotte le forme per farle rinascere in modo diverso. L’uomo è solo un accidente, un parassita chiacchierone la cui estinzione non peserebbe sul corso dell’universo più della scomparsa di una mosca. Sade, precursore dei nostri moderni attivisti in difesa del pianeta? Scommetto che li avrebbe tro Sull’argomento, si veda il libro già citato di François-Xavier Albouy, Le Temps des catastrophes, pp. 30-32. 25  Si veda il classico di fantascienza di Stanisław Lem, Bi­ bliothèque du xxie siècle, Seuil, Paris, 1989, pp. 133 sgg. 24

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vati molto blandi, ma che avrebbe applaudito l’attuale ecofascismo e i suoi progetti di eliminazione del genere umano. Gaia non è né buona né cattiva: non ci offre nessuna lezione. L’uomo è solo!

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Terza parte La grande regressione ascetica

VII L’umanità a stecchetto

La frugalità, come l’onestà, è una virtù mediocre e malnutrita, adatta soltanto a piccole società di uomini buoni e pacifici, disposti a essere poveri pur di stare tranquilli; ma in una nazione grande e indaffarata (...) è una virtù oziosa e sognatrice che non dà lavoro, e quindi è del tutto inutile in un paese commerciale (...). Mandeville, La favola delle api Chi è quello stupido che, avendo un buon letto, preferisce dormire fuori? Voltaire, Dizionario filosofico, Voce « Lusso »

Il 30 agosto 1755, Voltaire invia una lettera a Rousseau per ringraziarlo del suo libro Discorso sull’origine della di­ suguaglianza: Ho ricevuto il vostro nuovo libro contro il genere umano. Vi ringrazio; piacerete agli uomini ai quali dite la verità e non li cambierete. Non si possono descrivere con toni più forti gli orrori della società umana la cui ignoranza e debolezza prevedono tante consolazioni. Non abbiamo mai impiegato così tanti sforzi per renderci stupidi. Leggendo il vostro libro, viene voglia di mettersi a quattro zampe...

L’attacco è incisivo quanto ingiusto. L’autore dell’Emilio rileva uno iato tra il progresso delle scienze e delle arti e 167

quello della specie umana. La perfettibilità nel destino dell’individuo non va di pari passo con il progresso della civiltà. Per riconciliare cuore e ragione nel­l’uo­mo e nella società, bisognerebbe assumere come modello la rettitudine della natura. Rousseau vuole cittadini virtuosi e austeri, in grado di difendere la patria, Voltaire uomini felici, educati, brillanti. Il primo attacca con violenza il lusso che deruba i poveri, suscita la corruzione dei gusti e dei costumi. Al di là della gravità ferita dell’uno e della vivacità altezzosa del­l’al­tro, la loro disputa continua a risuonare oggi tra i sostenitori di una vita dispendiosa e gli attivisti del rigore, profeti del rustico e del minimale.

1) L’etica della rinuncia « Cambiare il mondo, cambiare vita. » A questa formula ereditata da Rimbaud e dalla tradizione comunista, l’ambientalismo apporta un correttivo fondamentale: bisogna cambiare vita per preservare il mondo, per salvarlo da quel flagello che si chiama produttivismo. Con l’ambientalismo, l’ambito domestico diventa immediatamente politico; possiamo modificare in modo decisivo il corso delle società spegnendo la luce, abbassando il termostato, diventando parsimoniosi e possibilmente vegetariani. Poiché il nostro metodo di produzione distrugge le risorse del pianeta, bisogna innanzitutto limitare i nostri desideri, insegnando a tutti il senso della rinuncia. La nostra casa non è un luogo neutro e insignificante in cui ci intratteniamo con i nostri cari, ma l’epicentro del crimine per antonomasia. È nel calore domestico che si fomenta il complotto contro la Terra, in un misto di negligenza, avidità e dipendenza che rappresenta il fulcro della cancrena civilizzata. Studenti, pensionati, pescatori, agricoltori, inge168

gneri, impiegati, siamo tutti potenziali assassini e viviamo solo per distruggere. Una società incapace di permettere alla maggioranza dei suoi membri di guadagnarsi da vivere attraverso un lavoro onesto e che li condanna, per poter sopravvivere, ad agire contro la loro stessa coscienza facendone dei complici della banalità del male è una società profondamente in crisi. Eppure, questa è la nostra tardiva modernità: pescatori che riescono a sopravvivere solo distruggendo i fondali marini, allevatori che torturano i loro animali, agricoltori che distruggono il suolo fertile, dinamici dirigenti che diventano de­spoti.1

Grande ritorno, come abbiamo visto, del peccato originale sotto l’egida dell’estinzione delle specie, del collasso degli ecosistemi marini, dell’aumento delle temperature. Ogni minimo gesto, mangiare una bistecca, accendere il riscaldamento, lasciare scorrere l’acqua quando ci laviamo i denti (impariamo già sui banchi di scuola che è un grave attentato alla salute del pianeta) si carica di conseguenze inaspettate. Secondo i suoi avversari, la società in crescita è criminale per tre motivi: Produce enormi disuguaglianze e ingiustizie, crea un benessere ampiamente illusorio, perfino per i ricchi non crea una società conviviale, sviluppa una « antisocietà » malata della sua ricchezza e in fin dei conti poco armoniosa per gli stessi « ricchi ».2  Serge Latouche, op. cit., p. 56. Si noti l’allusione discreta alla « banalità del male », che rimanda al nazismo e suggerisce implicitamente che le nostre società democratiche non sono migliori del Terzo Reich. Ah, la facilità delle associazioni... 2   Ivi, pp. 53-54. 1

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Viviamo peggio che mai poiché l’aria, l’acqua, l’ambiente si degradano: Le nostre società occidentali sono da anni nella stessa situazione di un individuo che, per guadagnare 3000 euro, deve avere uno stile di vita talmente contro natura che è costretto a spendere 2000 euro per cercare (invano) di compensare gli effetti catastrofici sulla sua sanità fisica e mentale.3

Il secolo scorso ha inventato un fenomeno che si attira la rabbia di tutti gli schieramenti e concentra in sé l’ignominia del gregge umano: la società dei consumi. Henry Miller, descrivendo l’America degli anni Cinquanta, la definisce come un « incubo climatizzato », Georges Duhamel, imprecando negli anni Trenta contro l’invenzione del cinema negli Stati Uniti, lo definisce un « intrattenimento per schiavi ». Oggi le invettive, da destra o da sinistra, contro quelli « che vivono e pensano come porci »4 sono innumerevoli. Il consumatore cumula, in effetti, tre difetti fondamentali: si comporta da predatore che contribuisce a saccheggiare le ricchezze della Terra; si presenta come una mostruosità antropologica, un essere pavloviano mosso dagli automatismi rudimentali della fame e della sazietà; peggio ancora, è come Sisifo, condannato a un’eterna insoddisfazione e a un eterno inizio. Preda di bisogni artificiali che  Denis Bayon, Décroissance économique, vers une société de so­ briété écologique, www.decroissance.org, citato in Serge Latouche, op. cit., p. 60. 4  Gilles Châtelet, Vivre et penser comme des porcs, Gallimard, Folio, Paris, 1998. L’autore, oppositore della controriforma liberista, attacca anche il « petro-nomadismo » e il « pétainismo con le ruote », cioè il culto dell’automobile. 3

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fanno di lui lo schiavo del proprio benessere – è la critica di Tocqueville sulla scorta di Benjamin Constant –, vede il solo interesse materiale a scapito della propria libertà e del bene comune. In breve, riconcilia contro di sé tutti i punti di vista: volgare, egoista, sprecone; insulta in noi l’idea di giustizia, di uguaglianza e di bellezza. « La società di massa » diceva Theodor Adorno « non ha prodotto soltanto robaccia per i clienti, ma i clienti stessi. » In altre parole, l’acquirente è trasformato a sua volta in paccottiglia umana: tale è l’impatto tremendo del consumismo sulla soggettività. Ne nascono robot che desiderano tutti le stesse cose, prima di concentrarsi su altre di cui si stancheranno subito. Rousseau aveva già colto questo meccanismo perverso dell’insaziabilità: ... per l’uomo nella società le cose sono ben diverse: si tratta prima di tutto di provvedere al necessario, e poi al superfluo; in seguito vengono i piaceri, e poi le immense ricchezze, e poi i sudditi, e poi gli schiavi; non vi è mai un momento di tregua; e la cosa più singolare è che meno i bisogni sono naturali o urgenti, più aumentano le passioni e, peggio ancora, il potere di soddisfarle.5

Il progresso è una maledizione: ci impedisce di accontentarci della nostra condizione, ci rende avidi di ogni minima innovazione, e il fenomeno si moltiplica in una società di massa in cui milioni d’individui sono colpiti dal demone della rapacità. « Il superfluo è cosa molto necessaria » diceva Voltaire. Ma si tratta di un appetito a tratti diabolico e a tratti mediocre; oltre a procurare un’abbondanza   Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglian­ za, cit., p. 269. 5

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artificiale, causa l’invidia di quelli che cercano invano di ottenere l’agiatezza dei più fortunati. Per fortuna, dal fondo dell’abisso, è possibile redimersi: da creature arroganti che siamo, possiamo correggerci adottando un comportamento di estrema rinuncia. La decrescita è il nostro destino. Non abbiamo scampo! (...) Abbiamo vissuto come principi, la festa è finita.6

Qui bisogna considerare una figura retorica molto diffusa in questo ambito, della quale il cristianesimo, in primis, fece grande uso: il meno è più. Gli ultimi sulla Terra saranno i primi in cielo, gli sciocchi di questo mondo saranno i saggi nel­l’al­di­là, beati i poveri di spirito perché saranno ricoperti d’oro. Questo pensiero per antonimia, per cui il male è un bene mascherato che si rivelerà nel giorno prestabilito, è soprattutto un meccanismo per legittimare lo status quo. L’apparente iniquità cela una promessa che bisogna saper attendere. Le successive manifestazioni di questo ragionamento saranno di grande utilità per i Padri della Chiesa, per Leibniz, ma anche per i teorici della mano invisibile, da Mandeville a Von Hayek, senza tralasciare i regimi totalitari che ne faranno un’arma di sottomissione spietata. Nella propaganda ambientalista, questo genere di logica serve a invertire i valori: lo scopo è trasformare il consumismo in una patologia spaventosa, « la più grande arma di distruzione di massa » pensata dal genere umano,7 per rendere accettabile il neopauperismo, cioè « il distacco dallo spirito del guadagno » (Manifesto per la   Yves Cochet, Le Point, 24 marzo 2011.  Mathis Wackernagel, Il nostro pianeta si sta esaurendo, Delta 3 Edizioni, Grottaminarda, 2004, p. 95, citato in Serge Latouche, op. cit., p. 134. 6 7

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decrescita felice, 2009). Se la ricchezza genera disperazione, il bisogno dovrebbe produrre un aumento della speranza. In effetti, « il miglioramento delle condizioni materiali di vita negli Stati Uniti si accompagna a una indiscutibile riduzione della felicità reale per la maggioranza degli americani ».8 Conclusione: poiché avere significa stare peggio, avere meno significherà stare meglio! Meravigliosa acrobazia: bisogna volutamente spogliarsi per arricchirsi spiritualmente. La sottrazione come aumento!

2) Diventate poveri! A quelli che si allarmano vedendo, ad esempio, molte regioni africane colpite dalla miseria e dall’anarchia, i nostri apostoli della povertà fanno notare: in realtà gli africani sono avanti rispetto a noi, hanno una lunga tradizione di povertà a cui dovremmo ispirarci per abbandonare le nostre pessime abitudini. Africa, contribuisci al nostro sviluppo mentale. Africa, aiuta l’Europa a intraprendere una nuova storia (...). L’Africa può insegnare all’Occidente ad abituarsi alla fru­ga­ lità.9

 Robert E. Lane, The Loss of Happiness in Market Democracies, Yale University Press, New Haven, 2000, citato da Serge Latouche, op. cit., p. 80. L’argomento non regge. Non esistono strumenti per misurare la felicità, che non è una quantità fissa, ma un sentimento impalpabile. L’autore confonde benessere e felicità, ma soprattutto è la nostra concezione della felicità a essere cambiata negli ultimi cinquant’anni, avendola noi trasformata in una condizione essenziale per il nostro successo. Siamo infelici di non essere felici. 9   Hervé Kempf, Le Monde, 28-29 giugno 2009. 8

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Non soffermiamoci sul paternalismo di quest’invettiva, non troppo dissimile dai consigli dei ricchi, sempre pronti a spiegare ai bisognosi che il denaro non rende felici. Beati i poveri che non hanno domestici da sorvegliare (o da sgridare), case a cui badare, tasse da pagare, fortune da gestire. Maestri di miseria nera: ecco il ruolo a cui sono ridotte le popolazioni subsahariane. Senegalesi, maliani, nigeriani, congolesi, desiderosi di sfuggire al sottosviluppo, apprezzeranno questa visione degna di un neocolonialismo compiuto. Dobbiamo riadattare la nostra apparecchiatura mentale alle società bisognose, capaci di una maggiore resistenza ai tormenti e alle restrizioni. Americani ed europei devono ridurre i loro consumi. Impoverirsi. Stiamo già cominciando a farlo, volenti o nolenti, a causa della crisi economica, nata perché abbiamo ignorato l’ambiente con un consumo eccessivo che ha generato un indebitamento smisurato.10

Tra i neopuritani verdi fa furore questo slogan: la semplicità volontaria. Ereditato dall’americano Thoreau, fautore del « downshifting » (ridimensionamento) e dell’abbandono delle città, sostenuto da Tolstoj e Gandhi, ripreso in Francia da personalità come Lanza del Vasto, attivista non violento, si ispira a questo aforisma: « Bisogna vivere più semplicemente in modo che gli altri possano semplicemente vivere » (Gandhi). Dato che le società ricche devono moderare la propria avidità, viene riproposto con insistenza alle nostre orecchie un ritornello ascetico: bisogna amare la miseria, adorarla come il nostro bene più prezioso. Solo lei è « conviviale » e ci insegna a gestire in compagnia la mancanza di gioia. La vera ricchezza sta nel rende  Hervé Kempf, Le Monde, 30 giugno 2010.

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re alla privazione la sua dignità. « Orientare l’intera economia al benessere è l’ostacolo principale a una vita migliore », come aveva già detto nel 1973 Ivan Illich.11 È il trionfo dell’ossimoro: celebriamo « la frugalità felice », « l’austerità giusta », « la sobrietà festosa », « l’abbondanza frugale », e perché no?, « la miseria sorridente », « la morte divertente », « la fame simpatica »? Nella corsa a elogiare la nuova precarietà, rivaleggiamo nel giustapporre termini incompatibili. Che cos’è un ossimoro? Nient’altro che un produttore di miracoli, che consente di salvarsi dalle situazioni più imbarazzanti. All’eliminazione della povertà, prevista dal programma di tutti i partiti politici, l’ambientalismo risponde: terzomondizzazione volontaria per tutti. Poiché la ricchezza materiale è sinonimo di miseria morale, la miseria materiale non può che incoraggiare l’opulenza spirituale. Alla riduzione deve corrispondere un aumento della salute, del benessere e della gioia di vivere.12

Per vivere meglio, dobbiamo abbandonare i nostri beni. Non bisogna compatire le poche famiglie che vivono senza televisione.13

Può darsi! Ma si tratta di una scelta volontaria, non di un obbligo imposto dalla penuria. In pratica, per realizzare questo grande progetto di disinfezione sociale, dovremmo abbandonare la macchina, dimenticare i bagni caldi a fa  Ivan Illich, La Convivialité, Seuil, Paris, 1973, p. 572 (trad. it. di Maurizio Cucchi: La convivialità, Mondadori, Milano, 1978). 12  Serge Latouche, op. cit., pp. 214-215. 13  François Brune, De l’idéologie, aujourd’hui, Parangon, Paris, 2005. 11

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vore della doccia, limitata anch’essa a quattro minuti (sono in vendita apposite miniclessidre), non comprare più frutta e verdura importata, praticare il « localismo », cioè mangiare solo prodotti a chilometri zero, diminuire o smettere di consumare carne e pesce, evitare l’ascensore e perfino il frigo: Il frigo verrà sostituito da una stanza fredda, il viaggio alle Antille da una passeggiata in bici nelle Cevenne, l’aspirapolvere dalla scopa e dallo strofinaccio, l’alimentazione carnivora da cibo vegetariano e così via.14

Dobbiamo uccidere il consumatore frenetico che è in noi; è lui il reietto, l’infame, che con la sua avidità causa lo scioglimento dei poli, l’aumento del livello degli oceani, i sommovimenti della crosta terrestre, le piogge acide e via dicendo. Dobbiamo quindi disfarci di un vizio che ci corrode, l’abbondanza. Scegliere di vivere diversamente, cioè senza televisione, macchina, computer, microonde, è una strada difficile ma eccitante: È la scelta di vivere il presente, piuttosto che sacrificare la vita al consumo o all’accumulo di valori senza valore, alla costruzione di un progetto di carriera che dovrebbe rendere il futuro soddisfacente o alla creazione di un piano pensionistico che ci protegga dalla paura di non avere mai abbastanza.15

Le realtà sgradevoli sono rivestite di parole dolci! Compiamo un sacrificio in nome di un guadagno garantito, quello a cui rinunciamo dovremmo ritrovarlo magicamen  Bruno Clémentin e Vincent Cheynet, Objectif décroissance, Parangon, Paris, 2003, p. 103. 15  François Brune, op. cit., p. 103. 14

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te centuplicato. Che differenza c’è tra i predicatori di ieri e di oggi? Questi ci parlano con la gentilezza dei responsabili di un Club Med, avvolgendo ogni minima scelta in un aggettivo cool. D’inverno avete freddo? Mettete un maglione, che diavolo, invece di alzare il riscaldamento, ci spiega il deputato Yves Cochet, e andate a letto presto: Bisogna riuscire a vivere con il 50% di elettricità in meno (...). Bisogna approfittare al massimo della luce del giorno, mettere un maglione piuttosto che alzare il riscaldamento di tre gradi!

Spetta all’amico del­l’uma­ni­tà suggerire un’imposta speciale per chi abusa dell’interruttore e della caldaia. Creeremo brigate di estintori d’elettricità che metteranno il coprifuoco ai francesi o ai tedeschi? Ah, che brava gente! Il sindaco verde del secondo arrondissement di Parigi ha imposto nella primavera del 2011 una giornata di cibo vegetariano nelle mense scolastiche. Eccellente iniziativa, ma perché imporre piuttosto che proporre? L’ambientalismo è inquietante poiché s’insinua negli aspetti più intimi della vita, nelle scelte alimentari, di abbigliamento, energetiche, per controllarle meglio. Leggendo le sue raccomandazioni, abbiamo l’impressione di sentire la porta pesante di una cella che si chiude dietro di noi. Comunque, « il modello capitalista si autodistruggerà », « l’era del consumo e delle comodità finirà » (Harald Welzer) grazie ai numerosi flagelli che si abbattono su di noi, e tanto meglio così: Aderiamo continuamente al nostro criterio cardinale dello spreco e dell’irresponsabilità: prendendo la macchina ogni mattina per andare al lavoro, perdendo tempo durante il fine settimana in un centro benessere, o stipando177

ci in un aereo per andare a inebetirci dal­l’al­tra parte del pianeta.16

Ma soprattutto: La maggior parte dei nostri contemporanei è anch’essa malconcia. Come potrebbero fabbricare bambini sani e normali?17

Soffermiamoci un istante su queste righe che tradiscono un raro odio verso il genere umano! Come si può proporre una rivoluzione dello stile di vita disprezzando i propri simili? Su quali basi giudichiamo gli uomini senza includere noi stessi in questa sentenza di condanna? Si tratta di un progetto autoritario: imporre il malessere materiale, cioè il ritorno alla candela e alla trazione animale, e presentarlo come un progresso inaudito del­l’uma­ni­tà. Osserva Sylvia Pérez-Vitoria: L’espressione « tornare alla candela » allude a un arretramento tecnologico (...). Bisogna innanzitutto constatare che la maggior parte dei contadini del mondo è ancora « alla candela » (o tutt’al più alla lampada a petrolio) (...). Se si tornasse « alla candela », la grande maggioranza del­ l’uma­ni­tà continuerebbe a vivere come vive oggi con una pressione molto meno forte sulle proprie risorse e sulle proprie culture. (...) Questo « ritorno alla candela » non sarebbe un azzeramento completo della storia (...). Insomma, dopo tutto non sarebbe poi così male!18

  Harald Welzer, Le Monde, 26 marzo 2011.  Serge Latouche, op. cit., p. 161. 18  Sylvia Pérez-Vitoria, Les Paysans sont de retour, citato in Serge Latouche, op. cit., pp. 95-96. 16 17

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I nostri paladini della decrescita dovranno ricorrere al­l’ar­ te oratoria dei grandi industriali del xix secolo per spiegare agli operai che uno stipendio troppo alto e ferie troppo frequenti favoriscono l’immoralità e la voluttà e che bisognerà accontentarsi di topaie puzzolenti, paghe miserevoli e orari folli. Modellando le norme di vita sui più derelitti, i saggi inquisitori propongono un concetto inedito: la miseria nera con il buon umore. Capita proprio nel momento più opportuno, mentre la crisi colpisce l’Europa, lasciando i giovani diplomati ai margini del sistema, scatenando tumulti di rabbia ovunque: quando bisogna lesinare su tutto – elettricità, carne, vestiti, viaggi, tempo libero – è più eccitante autoconvincersi di voler contribuire alla salvaguardia della Terra. L’arte d’inserire l’avarizia indivi­ duale nel­l’al­truismo cosmico. In questo modo, la decrescita non è più il programma di una minoranza illuminata che vuole fermare il convoglio impazzito del progresso, ma la legge ferrea di un capitalismo finanziario che penalizza le classi medie e popolari: il punto è trasformare la necessità in libera scelta. I verdi sono anche i divulgatori della nuova realtà economica che consente a una minoranza di ricchi di moltiplicare le proprie fortune, mentre tutti gli altri devono tirare la cinghia. Ratificano la situazione di stasi delle nuove generazioni che non hanno più la garanzia di vivere meglio dei loro genitori e devono rassegnarsi a questa sfortuna. Molto prima di Rousseau, il tema dell’abbondanza frugale fu reso popolare, in un’epoca di grande penuria, da Jean de Meung nel suo Roman de la Rose (xiii secolo), in cui immaginò una condizione naturale, in un’epoca lontana in cui i gusti erano semplici e la Terra forniva in abbondanza tutto ciò di cui la gente aveva bisogno. Gli uomini vivevano felici prima che la comparsa di un esercito di vizi – Astuzia, Lussuria, Invidia – seminasse la discordia, ge179

nerando l’agricoltura, il gusto per l’oro, la proprietà privata e il potere. A quell’epoca, esisteva davvero il paese della cuccagna, finché la crisi non ne allontanò gli abitanti.19 Oggi, « la felice sobrietà » (Pierre Rabhi)20 e la vita frugale « dai desideri limitati » devono essere scelte con serenità. Parsimonia e avarizia in perfetto equilibrio etico. Affiancare il termine « conviviale » all’austerità è un balsamo semantico che non inganna nessuno, un po’ come le defunte democrazie popolari del blocco sovietico che non erano né popolari né democratiche. C’è qualcosa di nauseabondo in queste dichiarazioni che ricordano i peggiori manifesti pubblicitari o gli slogan stalinisti derisi da George Orwell. Siamo nella categoria delle consolazioni fallaci. Se vogliono farci ingoiare l’amara pozione del rigore, è meglio dircelo subito.

3) I predicatori dell’austerità Le difficoltà devono quindi essere piacevoli, come il naso rosso di un pagliaccio. La rivista La décroissance si fa chiamare, senza dubbio ironicamente, « il giornale della gioia di vivere ». Le sinistre vogliono attribuirsi le doti dello spirito e dell’allegria per nascondere la piaga ascetica che cercano di propagandare! Mistero della transustanziazione! Vi mancherà tutto, vivrete frugalmente, ma conoscerete un’ondata di beatitudine e in più contribuirete a combattere il riscaldamento globale. Esiste un’ebbrezza del­  Si veda Norman Cohn, op. cit., pp. 198 sgg.   Padre del movimento della decrescita, Pierre Rabhi, recluso sulle Cevenne in Ardèche, è soprannominato il « Gandhi locale ». Permetteteci di pensare che Gandhi avesse un’altra statura morale e politica... 19

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l’asce­si, una voluttà della privazione e della vita con il minimo indispensabile. Avete mai visto asceti più petulanti, flagellanti più gioviali? D’altra parte l’ambizione non è più quella di affinare l’anima, d’irrobustire il corpo e lo spirito, come esigevano gli antichi, ma di sopravvivere al cataclisma della rivoluzione industriale. E la sopravvivenza si accontenta di piccoli desideri, di ambizioni rinsecchite, di piaceri raggrinziti. L’uomo è insensato nel suo eccesso di appetiti e la sua follia consiste nel desiderare ciò che non ha. Mi dispiace, ma l’umanità è folle. Non potrà durare a lungo: con nove miliardi di abitanti, si muore! Questo pianeta diventerà sempre più violento. Se non se ne tiene conto, ci si farà del male e si finirà per creare una Fukushima di dimensioni enormi.21

Per i Robespierre ecologisti, sarà necessario rinunciare al lusso, al consumismo, ai viaggi esotici per contribuire in modo limitato ma decisivo al buon funzionamento dell’universo. Per liberarci dalle nostre brutte abitudini, un « Movimento di transizione »22 ci propone sedute di disintossicazione simili a quelle a cui si sottopongono alcolisti o tossicodipendenti, in cui imparare a disabituarsi alla dipendenza dal petrolio, a adottare uno stile di vita più parsimonioso e autosufficiente. Questi maestri del bisogno sono l’opposto dei terapisti della fortuna che insegnano ai vincitori della lotteria a gestire i loro guadagni senza dila Dominique Bourg, Le Point, 24 marzo 2011.   Inventato in Inghilterra, il Movimento di transizione prende avvio dalla « discesa energetica » (Rob Hopkins), ritenuta un’immensa opportunità per riconsiderare il nostro modo di vivere. Prevede la decrescita, la delocalizzazione, il localismo alimentare, il consumo di prodotti locali. 21 22

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pidarli. Ma i desideri superficiali che abbandoniamo, creati dalla pubblicità e dal marketing, li recuperiamo centuplicati in allegria e in rapporti autentici. Ascoltate la lunga schiera di ipocriti che ci predicano in tutte le solfe l’urgenza della povertà. Criticano l’incoscienza di chi parte per le vacanze, disperdendo emissioni di carbonio in giro per il mondo, di chi naviga in rete o guida fuoristrada anziché cospargersi il capo di cenere per dedicarsi al pentimento e al risparmio. Di cosa si tratta? Di stendere un velo pietoso su ogni gioia umana! Vi piace trasferirvi lontano da casa ogni estate? Dobbiamo porre fine a questa brutta abitudine perché il turismo viola la dignità delle persone, distrugge la diversità culturale e danneggia l’ambiente!23 Vi piace andare a sciare sulle Alpi o sui Pirenei d’inverno? I nostri carcerieri fremono per l’indignazione: sapete quanto costa alla natura questo divertimento superfluo? I soli cannoni da neve provocano l’emissione di otto tonnellate di CO2 per ettaro.24 Basta con gli sci, gli snowboard, il free style, lo slittino, i quad e gli sport motorizzati lungo le spiagge. Bisogna mollare tutto. Bici e biologico, oppure niente.25 Un tempo eravate felici? Ora espiate le vostre colpe! Come negli ordini monastici, povertà significa scegliere l’essenziale e rinunciare al superfluo e ai miraggi del mondo. La privazione è descritta in termini lirici come un incredibile accrescimento del­l’uo­mo. Non è ciò che Ivan ­Illich e André Gorz intendevano per « austerità felice » quando proclamavano una limitazione delle necessità e delle ore di lavoro a favore di una vita sociale più varia? In  Serge Latouche, op. cit., p. 240.   Hervé Kempf, Le Monde, 9 marzo 2011. 25  I bobios, borghesi bohémien bio, ossessionati dall’igiene e dalla salute, formano la nuova classe alla moda che caccia le classi popolari dal centro città e dalle periferie con grandi agglomerati urbani. 23 24

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altre parole, si tratta di « addolcire la pillola ». Perché una diminuzione della ricchezza dovrebbe condurre automaticamente a un miglioramento della vita intellettuale? Una cosa è rinunciare volutamente, come i monaci e i santi, un’altra essere costretti al sacrificio: Sostengo la rinascita delle pratiche ascetiche per mantenere vivi i nostri sensi, in paesi devastati dallo « show », in mezzo a un’informazione soffocante, tra consigli perenni, diagnosi intensive, gestione terapeutica, invenzione di consiglieri, cure terminali e velocità mozzafiato.26

Ivan Illich reclama un ritorno al sacrificio, difendendo an­ ch’egli il « tecno-digiuno ». Buon per lui! Ma perché si vuole fare di tutta l’erba un fascio, imponendo alla popolazione un regime da tempi di guerra? Ci viene il dubbio che questo elogio di una vita di rinunce sia dettato più che dalla necessità, dall’odio puro e semplice per il sistema, il « totalitarismo ipocrita della società dei consumi globalizzata ».27 Anche se avessimo la possibilità di conservarla così com’è, sarebbe preferibile eliminarla poiché il vero errore del consumismo è morale. Il nostro stile di vita è insostenibile sia ecologicamente sia moralmente. Tuttavia, anche se potesse continuare all’infinito, non diventerebbe meno insopportabile e sarebbe comunque opportuno cambiarlo.28

Per gli « obiettori della crescita » non serve a niente volere trasformare il mondo, bisogna abbatterlo definitivamente.   Ivan Illich, La Perte des sens, inédit, Fayard, Paris, 2004.  Serge Latouche, op. cit., p. viii. 28  Paul Ariès, Décroissance ou barbarie, Editions Golias, Paris, 2005, citato in Serge Latouche, op. cit., p. 41. 26 27

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VIII Le miserie della macerazione

L’avidità, per troppo voler, perde tutto. Jean de La Fontaine

Qual è dunque questa gioia che i fanatici ci propongono al posto dell’inferno dell’abbondanza? È ciò che potremmo chiamare « il trionfo di Arpagone » sul piano cosmico. Niente deve sfuggire alla vigilanza contabile: non abbandoniamo mai il campo abietto dell’avere per la splendida patria dell’essere e viviamo più che mai del fascino della quantità. Perfino le emissioni di gas intestinali dei bovini sono contabilizzate nella formazione del buco nell’ozono. Un pioniere americano dell’« aquilone elettrico », Saul Griffith, ammette questa brutta abi­tu­dine: Ho fatto calcoli esageratamente precisi, fino a calcolare il consumo energetico della carta igienica e dello spazzolino da denti elettrico.1

Questa persona non è più in grado di guardare un oggetto di consumo quotidiano senza veder scorrere davanti a sé « le cifre verdi dell’energia necessaria per la sua fabbricazione ».

 Dominique Nora, op. cit., p. 305.

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1) Sacralità del letame Un cameraman di Los Angeles, Dave Chameides, ha scommesso di non gettare la spazzatura per tutto il 2008 e l’ha conservata in cantina, aprendo la propria casa alle visite dei curiosi. Appartiene alla tribù dei « carboressici », quelli che vogliono diminuire a tutti i costi la propria impronta di carbonio. Nel suo seminterrato scatoloni, barattoli di pittura, cartoni della pizza, bottiglie di plastica, elettrodomestici conoscono una seconda o terza vita. Chameides rende minuziosamente conto della loro decomposizione sul suo sito web: per risolvere il problema degli odori, ha installato una vera e propria fabbrica di lombrichi, voraci e fecondi. Oltre al compost, producono un liquido che serve alle piante, il tè di larva.2 I vermi stanno diventando molto apprezzati nelle grandi città americane ed europee: vengono allevati per le loro qualità fertilizzanti e il loro succo benefico. Chameides, nuovo vate dell’immondizia, racconta la metamorfosi dei suoi resti giorno dopo giorno, come se nascondesse un tesoro, e si vanta di produrre solo un chilo di rifiuti al mese anziché i due al giorno dell’americano medio. Meravigliosa epopea delle bucce e santità degli scarti. Bisogna sfruttare le proprie scorie, familiarizzare con il mondo affascinante degli anellidi. La vera vita è nella discarica. È un po’ come Robinson Crusoe in un appartamento, la gioia dello sguazzare nel fango at home. Il compostaggio promuove i legami sociali e crea un nuovo modo di vivere in città.3   Ivi, pp. 6 sgg.  François Dagnaud, vicesindaco di Parigi, sui contenitori per il compostaggio collocati di fronte ad alcuni edifici. Citato da Iegor 2 3

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Vieni da me, ti faccio vedere i miei vermi! Per scatenare una crisi mistica non serve un oggetto specifico: perfino un porcile può risvegliare l’anima. A questo proposito, dobbiamo distinguere tra due tipi di immaginario ecologista: un immaginario scatologico della decomposizione, che ha inizio con la raccolta differenziata dei rifiuti, e un immaginario dell’alleggerimento, che cerca di eliminare ogni genere di peso. Il primo atteggiamento è un po’ l’opposto della tesaurizzazione, come quella che i moralisti classici chiamavano avaritia (che ha la stessa etimologia dell’avidità), uno dei sette peccati capitali.4 Per l’utopista Charles Fourier, la passione per la spazzatura era una peculiarità dell’infanzia: nel suo falansterio, alle orde di bambini animati da uno smodato gusto per la sporcizia si affidavano i lavori più ripugnanti, come raccogliere i rifiuti, svuotare le fosse biologiche ecc. L’amore per il denaro ha qualcosa in comune con la passione per i rifiuti e la ritenzione anale: si accumula quando diventa fine a se stesso. Persino all’inferno, nell’iconografia del giudizio universale, l’avaro porta una borsa al collo e venera per l’eternità il suo sacco di monete.5 Il partito dei verdi vorrebbe trasformare in virtù questo appetito insaziabile, allo stesso modo in cui il liberalismo economico conta sul­l’egoi­smo degli individui per costruire una società prospera. Allo scopo di preservare la natura, l’ambientalismo la inserisce in un vasto sistema dove tutto ciò che era forza tellurica, venti, sole, uragani, maree, è sottoposto Gran nel suo libro, L’Écologie en bas de chez moi, pol, Paris, 2011, p. 148. 4  Nel Medioevo, l’avaritia era una passione smaniosa per la vita e gli esseri viventi, e non la meschineria che condanniamo dai tempi di Mo­lière. Si veda Philippe Ariès, op. cit., p. 82. 5   Ivi, p. 83. 186

a un rigore matematico. Non siamo più ai tempi di Rousseau o di Thoreau, cantori della vita naturale, ma ai tempi dell’Avaro, il cui tesoro è grande come l’universo. La visione del mondo è quella di una famiglia squattrinata che per sopravvivere deve risparmiare su tutto. Riabilitate, tirchieria e avarizia sono diventate, in questo inizio del Ventunesimo secolo, le grandi qualità civiche. I nostri attivisti verdi e i fautori della decrescita si mantengono, a qualunque costo, sotto l’egida dell’ethos utilitarista che li ossessiona. Non bisogna gettare o spendere niente, bisogna conservare ogni minimo rifiuto come fosse un tesoro. « Diventate avari » sentenziava una pubblicità di PriceMinister nella metropolitana parigina. Lo spirito mercantile ha infettato perfino i suoi peggiori nemici, che parlano la sua lingua convinti di demolirlo. L’ambientalismo si presenta come la vendetta del mondo rurale contro una civiltà urbana che in parte l’ha eliminato. Essa riflette il sogno di una comunità vicina alla Terra, senza un’eccessiva spartizione del lavoro, in cui ciascuno, uomo o donna, ne compie una parte secondo le sue capacità e riceve gli stessi benefici degli altri. Dietro a queste arringhe si profila l’immagine degli amish, col loro abbigliamento ridicolo, le loro capigliature antiquate, i loro calessi. Sono gli eroi di molti attivisti che celebrano il rifiuto delle innovazioni superflue e il senso della democrazia locale e propongono vacanze in Pennsylvania in una comunità ingegnosa e ospitale. Ecco ad esempio, come si pronuncia un membro californiano del wwoof (World Wide Opportunities on Organic Farms), una rete di aziende agricole biologiche fondate da neo-hippy, ci spiega sul rifiuto di fertilizzanti chimici, pesticidi e agricoltura meccanizzata (i campi sono arati dai cavalli): 187

I nostri ortaggi sono pieni di vitalità perché rispettano il ciclo di fertilità della Terra. Le preparazioni biodinamiche consentono alla verdura di essere ricettiva alle influenze cosmiche e minerali... La Terra è nostra Madre: se la rispetti nutrendola col letame giusto, lei ti ricompensa. Il letame è come il direttore di una grande orchestra. Il suo lavoro è spirituale.6

Spiritualità del letame! Pensiamo a cosa avrebbero potuto trarre da questa metafora Rabelais o un poeta come Quevedo. La spazzatura è affascinante perché può disintegrarsi al­l’in­fin ­ i­to e conoscere molteplici esistenze. È una creatura della metamorfosi, come gli dei, e come loro è sottoposta ai grandi cicli del cambiamento perpetuo. La rivoluzione comincia al gabinetto! Il sistema del compost toilet di José Bové ha impressionato molto Cohn-Bendit

titolava con ammirazione Le Nouvel Observateur nel 2009!7 L’ong brasiliana sos Mata Atlântica milita inoltre per risparmiare l’acqua di scarico, incitando la gente a urinare sotto la doccia o nella vasca da bagno. Se tutta la famiglia adottasse questo comportamento, potremmo risparmiare dodici litri d’acqua al giorno per famiglia!8 Niente più consigli educativi per i più piccoli: non trattenetevi, liberate gli sfinteri, fa bene alla Terra! Defecare vuol dire creare. Viva la grande regressione! La rivista on line militante Alternet, con sede a San Francisco, propone   Le Monde Magazine, 28 agosto 2010, Olivier Guez, « La rivoluzione verde in versione californiana ». 7   Le Nouvel Observateur, numero speciale sull’ambiente, 3-9 dicembre 2009, su Daniel Cohn-Bendit. 8  Citato da Iegor Gran, op. cit., p. 42. 6

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in modo semibeffardo e semiserio di « urinare in modo ecologico » e di « carburare con lo sterco » riciclando i pannolini sporchi dei neonati.9 Sempre in California, un giornalista francese in visita a una fattoria ecologica racconta: Mi infilo gli stivali di gomma per partecipare al ciclo di fertilità facendo il compost, pietra angolare della cultura biodinamica. Raccolgo lo sterco di cavallo e trasporto il tesoro nei campi, dove procederemo alla pozione magica. « È come il pâté », spiega Ryan: uno strato di escrementi, uno di terra, uno di paglia, uno di erba e così via, il tutto annaffiato d’acqua per amalgamare bene. Poi arriva il momento clou: bisogna introdurre le palline biodinamiche, preparati barocchi (...) mescolati alla terra per « fertilizzare ulteriormente l’humus » spiega Mike. Ogni bambino mette la sua pallina nel letame, a mani nude. Karina, che ha studiato lettere, mi invita a imitarla. « Vedrai, è calda, sembra di penetrare nell’utero di Gaia! »10

Ci si stupirà che l’utero di Gaia sia confuso con l’intestino, ma questi misteri superano la nostra comprensione. È vero che questa piramide fecale è a metà strada tra la ricetta di cucina e il rito mistico. La rivelazione dell’escremento è simile alla redenzione: poesia delle budella, lirismo della pestilenza, maestà della sporcizia! Nello stesso ordine di idee fioriscono le proposte più bizzarre, come ad esempio alimentare i server automatici delle banche col gas dei liquami o pagare i dipendenti delle aziende in ortaggi! Ah, se gli aumenti di stipendio fossero in porri e rape!  Citato nel Courrier International, autunno 2009, « La vita migliore, istruzioni », p. 67. 10  Olivier Guez, art. cit. 9

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2) Per una politica della leggerezza Un’altra via offerta ai pentiti della crescita: l’alleggerimento dell’essere umano. Un giovane newyorchese, Colin ­Beavan, ha deciso di vivere per un anno con la sua famiglia, nel centro di Manhattan, al nono piano di un edificio, riducendo al minimo la propria impronta di carbonio. Ha deciso di non prendere più l’ascensore, di spegnere l’aria condizionata e il frigo, di evitare i trasporti motorizzati, bus e metro inclusi, di non usare la plastica, di non comprare prodotti provenienti da paesi lontani, di non usare carta igienica. Ha cercato anche, non senza ironia, di fare rispettare queste nuove regole alla moglie e al figlio. Non volevo semplicemente ridurre a zero la mia impronta di carbonio, non volevo avere alcun impatto sull’ambiente.11

Non lasciare tracce, non aggredire l’atmosfera terrestre, giungere alla neutralità carbonica, sfidare la gravità: uno strano ideale di annullamento di sé. La leggerezza ha i suoi martiri, gli anoressici, i suoi eroi, acrobati, saltimbanchi e ballerini, e i suoi fedeli, i fautori della decrescita che non credono più nell’esistenza. Il termine ultimo di questa mentalità è la dolce estinzione del genere umano, specie invasiva che dovrebbe ridursi alla dimensione di uno spillo. Bisognerebbe comportarsi come una tribù invisibile che non emette alcun segnale. Col giovane newyorchese, siamo nell’epopea dell’estenuazione, nella vertigine della riduzione infinita. Ridurre l’impatto sulla Terra significa per lui non solo privarsi di qualunque piacere della  Colin Beavan, No Impact Man, Picador, New York, 2010 (trad. it. di Nello Giugliano: Un anno a impatto zero, Cairo, Milano, 2010). 11

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vita – tè, caffè, alcol – ma soprattutto sottoporsi a un calcolo quotidiano, non uscire mai dalla logica matematica, porsi domande martellanti del tipo: In che misura possiamo definire biologica l’insalata confezionata venduta da Whole Foods a cinquemila chilometri e cinque giorni dal campo in cui è stata coltivata?12

Un semplice viaggio in aereo nel New England per il Giorno del Ringraziamento provoca grandi speculazioni. Alla fine, ci si rinuncia « perché viaggiare in aereo è la cosa più inquinante che io e la mia famigliola potremmo fare ».13 Chi l’avrebbe mai detto che, più di un secolo dopo Edison, la gioventù dorata dei paesi ricchi avrebbe sognato di farla finita con l’elettricità e di « staccare le prese elettriche come il 57% degli africani » (Colin Beavan), quei fortunati che non hanno né acqua corrente, né una rete affidabile di alimentazione energetica. La parte fortunata del­l’uma­ni­tà opterebbe per l’impoverimento volontario mentre l’altra, la più numerosa, entrerebbe con fragore ed entusiasmo nella società dell’abbondanza? Ma in questo modo, anziché abbandonare l’universo infernale del consumismo lo si consolida ulteriormente. Siamo semplicemente diventati consumatori consapevoli che non si fanno ingannare e che si chiedono, per ogni cosa, kiwi, banana o yogurt che sia, quanto costa alla Terra? Mettiamo la doppia etichetta per completare ogni prezzo esposto col prezzo reale in termini di inquinamento e gas a effetto serra. (L’etichetta di riduzione dell’impronta di car Michael Pollan, The Omnivore’s Dilemma, Random House, New York, 2001 (trad. it. di Luigi Civalleri: Il dilemma dell’onnivoro, Adelphi, Milano, 2013). 13   Ivi, p. 84. 12

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bonio è in particolare anche una misura di protezione, che penalizzerà i prodotti importati non conformi.)

3) I commissari politici del carbonio Su quali valori vogliamo fondare la vita comune? Per gli ambientalisti sulla penuria condivisa da tutti, una volta stabilita « una norma della sufficienza » (André Gorz), cioè su un materialismo alla rovescia. Rimaniamo legati alla sfera mercantile per una preoccupazione critica permanente e ciò fa pensare al comportamento maniacale di chi scruta ogni suo gesto per paura che un movimento inavvertito lo strappi alle sue abitudini. Con queste procedure ossessive, siamo ben lungi dall’« uomo dalle suole di vento » di Arthur Rimbaud, ma ci avviciniamo piuttosto al­ l’uo­mo con la calcolatrice che sottopone ogni acquisto a un conto inesorabile. Miseria morale della mortificazione! Ormai ci soffiamo il naso in modo ecologico, utilizzando ogni centimetro del fazzoletto, scriviamo su entrambi i lati di un foglio per non sprecare niente e ci fabbrichiamo da soli, possibilmente, pannolini lavabili.14 Non si è forse previsto, e seriamente, di distribuire « biglietti di razionamento climatico » che penalizzerebbero chi è colpevole di aver superato il proprio budget di carbonio? E così, in un attimo, l’amabile sproloquio di qualche pazzoide potrebbe trasformarsi in fascismo se per pura sfortuna costoro dovessero assumere il potere. Il consumo d’acqua e di energia diventerebbe segno di stigmatizzazione sociale, con un premio per il più avaro. Proviamo a immaginare i nuovi  Settimana internazionale del pannolino lavabile (sicl) organizzata dall’associazione Bulle de coton. Fonte Economag, le gratuit des écolos pratiques, n. 22, marzo-aprile 2011. 14

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commissari politici del carbonio, che creerebbero categorie di paria in funzione del loro bilancio di CO2: attenzione ai single, che consumano il doppio di chi vive in una casa con tre persone. Attenzione ai neonati, per i quali bisognerebbe creare una tassa supplementare di cinquenila dollari, secondo un professore che scrive sul­l’Aus­tra­lian Journal of Medicine, oltre a una tassa annua di ottocento dollari. Al contrario, gli adulti che accettassero di farsi sterilizzare dovrebbero beneficiare di crediti di carbonio. Attenzione anche agli obesi e ai divorziati, che secondo il New Scien­ tist impongono un carico supplementare alla Terra. Infine, attenzione agli uomini che, secondo il ministro svedese per lo sviluppo sostenibile, emanano una dose di diossido di carbonio superiore a quella delle donne (questione di ormoni, senza dubbio, ma il motivo non è precisato).15 Ovunque sorgono gruppi di eretici da rieducare o di irrecuperabili dal destino irrisolto. Queste classificazioni hanno un che di comico, ma il pensiero che un giorno « un governo di liberazione ecologica », agendo nel nome del pianeta, possa decidere di salvare le popolazioni contro il loro volere fa venire i brividi. Come nella religione cristiana, una tentazione evitata equivale a una buona azione, come testimoniano la nozione di « negawatt », che consiste nel non usare energia diminuendo così « la nostra razione giornaliera di watt » (Amory Lovins), e il concetto di « inquinamento netto evitato » lanciato dal presidente ecuadoriano Rafael Correa, con la proposta di non sfruttare la regione petrolifera del parco Yasuni, modello di biodiversità, in cambio di un risarcimento finanziario internazionale, con l’ambizione di uscire un giorno dall’« economia estrattiva ». Anche in questo caso, però, la virtù degli uni  Citato in un articolo di Joel Garreau, « Environmentalism as religion », The New Atlantis, estate 2010. 15

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presuppone il vizio della maggioranza: un peccato non commesso equivale a una grazia, a condizione che altri, altrove, siano colpevoli. Come ai tempi dell’Unione Sovietica esisteva il socialismo in un unico paese, oggi c’è la morale praticata in un solo luogo. In realtà, queste contraddizioni non riguardano tutti: vorremmo rafforzare la salvaguardia della natura senza rinunciare ai vantaggi del comfort (le grandi invenzioni del futuro saranno celebrate se risponderanno a queste due esigenze). È il dilemma di un paese come la Norvegia, grande difensore dell’ambiente ma anche ricchissimo produttore di petrolio, che difende una causa e al tempo stesso la disonora. Anche la Germania, fiera della sua recente probità antinucleare – chiuderà le centrali entro il 2020 – in attesa di sviluppare fonti di energia alternative, si troverà a dover comprare elettricità « impura » dalla Francia, continuando a consumare carbone comprato in Russia, altamente inquinante. Tutto costa, ecco il messaggio dei ribelli: non dovremmo più mettere il sale sulle strade perché il sale inquina le falde acquifere e produce anidride carbonica per mezzo dei camion che lo trasportano. Le macchine finiranno contro gli alberi, la gente si rinchiuderà in casa, ma almeno il terreno non patirà. Dobbiamo riciclare, ridurre, rilocalizzare, rattoppare, riparare, tutte operazioni senza dubbio utili, ma per niente entusiasmanti. Oscilliamo in continuazione tra l’aggressività verso la nostra stirpe e uno scoutismo generalizzato: sui suoi bicchieri di cartone, il marchio Starbucks ha stampato questo messaggio edificante: Questo bicchiere di carta Starbucks ha salvato oltre centomila alberi l’anno scorso (...). Questo bicchiere salva gli alberi usando il 10% di fibra riciclata.

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Apologia del negativo: conta solo ciò che non si fa, la grandezza del­l’uo­mo sta nell’evitare e non nel compiere. Ma in questo modo tutto diventa molto drammatico. Basta bere un bicchiere d’acqua o una tazza di tè o mordere una mela e subito si evocano immagini di foreste martirizzate, terre sventrate, montagne sradicate, oceani devastati. Il dolore della Terra ci risuona nelle orecchie e noi diventiamo sordi e ciechi, limitandoci a un godimento egoistico. Feriamo la Terra con ogni respiro: questo grande corpo malato ci supplica di porre fine al caffè, alla frutta esotica importata, ai prodotti chimici, agli spostamenti in macchina, in treno e in aereo, che strappano alle viscere del globo tonnellate di petrolio maturate per milioni di anni e dilapidate in poche ore. Ci supplicano di restare a casa, di porre fine al desiderio universale di viaggio che ha colpito i nostri contemporanei.16 Due secoli dopo che la ferrovia ha cominciato a porre fine all’isolamento delle campagne, a mettere in contatto gli uomini, cantiamo di nuovo le gioie della chiusura, della sedentarietà. Ciò che imponevano un tempo la povertà e la tradizione, oggi ce lo raccomanda madre Gaia. È la fine di un ciclo apertosi col Rinascimento, che proclamava l’abolizione delle frontiere, dei gioghi: bisogna ritornare agli spazi chiusi del Medioevo, idolatrare la propria strada, il proprio borgo, rimanere inchiodati al proprio luogo di nascita. Ma coloro che sostengono il divieto o la riduzione del viaggio, soggetti come negli ex paesi comunisti a una specie di suffragio censitario, passano il tempo in aereo, corrono da una convention al­l’al­tra e vogliono essere presenti in ogni parte del mondo per predicare la buona novella. Le   Ivan Illich: « La gente (...) romperà i legami coi trasporti appena saprà apprezzare l’orizzonte delle isole di traffico e avrà paura ad allontanarsi da casa. » (Energie et équité, Seuil, Paris, 1973, p. 43.) 16

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due figure più mediatiche del movimento dei verdi in Francia, Nicolas Hulot e Yann Arthus-Bertrand, non abusano forse del jet e dell’elicottero, a tal punto che il secondo è stato definito l’inventore dell’« elicologia » (Paul Ariès)? Che conclusioni trarremo da queste pie esortazioni? Che non possiamo lasciare che una minoranza di autocrati verdi decida per noi sull’importanza o meno di una rinuncia. Stiamo attraversando una crisi degli stili di vita che rende imperativi alcuni cambiamenti. Catastrofe è solo un parolone per dire metamorfosi. È una disgrazia e un epilogo, una tragedia e una transizione. L’angoscia della nostra epoca è l’angoscia del passaggio, dello sgretolamento di un ordine che si decompone senza sapere cosa verrà dopo. Come non stupirsi, tuttavia, della mediocrità delle soluzioni proposte, che si accontentano di riciclare, sotto una maschera più affabile, il vecchio ideale della penitenza? Se dobbiamo autolimitarci e diminuire i nostri consumi, avviamo un ampio dibattito o proponiamo un referendum importante come quello sul nucleare. Fin dal 1973, con la prima crisi energetica, i nostri concittadini hanno dimostrato di saper fare di necessità virtù. Gli ecologisti sono oggi nella stessa situazione in cui si trovava il movimento operaio alla fine del xix secolo, divisi tra correnti liberali, democratiche e totalitarie. Se questi ultimi vincono, con la crisi o col ricatto, o se gli estremisti sconfiggono i moderati, la nuova sobrietà avrà il gusto amaro dei campi e delle prigioni. La migliore delle cause, in cattive mani, può degenerare in abominio. E questa diventerà la grande lezione del xx secolo.

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Robinson Crusoe o il mondo desertificato Siamo tutti Robinson Crusoe, naufraghi del mondo senza la speranza che qualcuno ci liberi. Per lui come per noi, l’esistenza consiste nel sopravvivere in un ambiente ostile. Scagliato dalle onde sulle rive di un’isola lussureggiante, al largo della foce del fiume Orinoco, l’eroe di Daniel Defoe si affretta a recuperare dal relitto della nave i viveri necessari alla sua sopravvivenza. Ne ricava « il più gran numero di oggetti di ogni genere che siano mai stati radunati da un solo uomo ».17 Da una cassetta da falegname tira fuori tutto il necessario per segare, piantare chiodi e piallare, ma anche polvere da cannone, moschetti, fucili, occhiali, un badile, una zappa, una pala, del filo e degli spilli, due gatti e un cane. Uomo tuttofare assai maldestro, di volta in volta muratore, agricoltore, cestaio, vasaio, fornaio, Robinson è un erede indegno e sopravvive nell’estrema precarietà. Il minimo imprevisto gli può essere fatale, non spreca niente e limita al massimo le proprie necessità. Contro la follia dell’oceano e l’efferatezza della natura, costruisce un mondo di ordine e ragione: semina il grano, addomestica un gregge di capre, costruisce due dimore. James Joyce e Coetzee ne hanno fatto il simbolo della conquista britannica, il portavoce del colonialismo. Si dimentica che Robinson era un trasgressore, un irregolare che ha commesso il crimine peggiore: non essersi accontentato della vita mediocre che suo padre gli aveva destinato, aver ceduto agli impulsi vagabondi e aver preso il largo. Una volta raggiunto il benessere, dopo una decina  Daniel Defoe, Robinson Crusoe.

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d’anni, regna come un pascià sulla giungla cordiale che comanda a bacchetta. Eppure, « bandito dalla società umana », soffre di solitudine, sebbene abbia ammaestrato un pappagallo a chiamarlo per nome. L’idillio tropicale non gli basta. La natura disciplinata dovrebbe essere solo un preludio ai legami con i propri simili. L’impronta di un piede su una spiaggia lo fa precipitare nel terrore e nella speranza: teme di essere mangiato dai cannibali o catturato dagli spagnoli, araldi dell’In­ qui­si­zio­ne. L’incontro con Venerdì, che salva dai cannibali, lo cambia, anche se farà di lui il suo domestico – spesso più geniale del padrone – e forse anche il suo amante (è così che, da maliziosi moderni, possiamo interpretarlo). La sua esistenza si trasforma in un tripudio. Nel magnifico seguito di questa storia, scritto da Michel Tournie,18 l’isola diventa il luogo in cui Robinson si incivilisce, si disabitua a se stesso, fino a deporre il proprio seme in una valle rosa, diventando « una fava prigioniera della carne massiccia » dell’arcipelago. Venerdì non è più il docile servitore, ma il tentatore che inselvatichisce di nuovo il suo padrone, spingendolo sulla strada dell’erotismo solare, di una stretta comunione con gli elementi. L’isola, sperduta in mezzo agli oceani come lo è il mondo ai confini delle galassie, è una metafora del contratto sociale, l’alba del mondo. Approdare sulle rive di una terra sconosciuta significa ricominciare in pochi mesi o in pochi anni l’intera avventura umana, ripartendo da zero. Come nella serie americana Lost, in cui i   Vendredi ou les limbes du Pacifique, Gallimard, Folio, Paris, 1972, postfazione di Gilles Deleuze (trad. it. di Clara Lusignoli: Venerdì, o il limbo del Pacifico, Einaudi, Torino, 1983). 18

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superstiti di un incidente aereo, sbarcati su un atollo dai poteri misteriosi (l’influsso di Jules Verne è evidente), si rendono conto di essere già stati smarriti nella vita precedente e di non potersi più riadattare al mondo civilizzato. L’isola spopola l’universo, lo lascia in mano alle forze telluriche. Se con il termine « robinsonata » ci si riferisce a un mondo spopolato (Gilles Deleuze), è perché questo tratto viene indebitamente attribuito a Robinson. Alla domanda oziosa « che libro portereste su un’isola deserta? » sembra rispondere: nessuno, solo la compagnia di un essere umano. Questo essere irsuto, vestito di pelle di capra e con un bizzarro copricapo, era a modo suo più civilizzato di noi.

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IX Il buon selvaggio nella natura

Che cos’è la velocità? Una strofa alla ricerca del proprio inizio. Saint-Pol-Roux

Nel 1970 appare su Politique Hebdo e poi su Charlie Men­ suel una striscia di Gébé intitolata: On arrête tout, on réfléchit et c’est pas triste (« Fermiamo tutto, riflettiamo, e non è affatto triste »). Era L’Anno 01, cronaca di un mondo di ozio felice, senza lavoro né mercato, in cui la siesta e l’amore libero regnavano sovrani. Tutti i servizi si fermano, tranne l’essenziale: acqua, elettricità, alimentazione. È in questa rubrica a fumetti che compare per la prima volta il tema dell’ambientalismo libertario e felice, ben lontano dal settarismo di oggi. Una rivolta dolce nata dalla nausea suscitata dall’invasione del cemento e dei palazzoni del dopoguerra, che hanno provocato un imbruttimento senza pari del pianeta. (Si dimentica troppo spesso che gli anni Sessanta e Settanta sono il periodo del crimine estetico universale di cui Le Corbusier, geniale carceriere del­ l’uma­ni­tà, fu, insieme ad altri, il prototipo.) Fermare tutto, tirare il fiato, fare una pausa: era il sintomo di una speranza messianica invertita. Bisognava sospendere il tempo, correggere lo sbandamento funesto che aveva precipitato il mondo europeo in un irragionevole affanno. Grande estasi dell’interruzione. Nella loro frenesia, i paesi ricchi si convincono di aver perso qualcosa di essenziale che devono recuperare. Il terzo mondo ha 200

rappresentato a lungo un possibile luogo di rigenerazione per gli animi smarriti. Ma quando non sprofonda nella dittatura, ecco che viene colto, specialmente in Asia, dalla febbre commerciale e industriale. Il pellegrinaggio alla fonte non potrà che scegliere tra due strade: ricreare l’Eden nell’inferno civilizzato da un simulacro di vita rurale. Oppure ricercare i mondi primitivi precedenti alla crisi, dove si trovano « le origini del­l’uma­ni­tà » (Gauguin).

1) L’età dell’oro ritrovata « Dobbiamo tornare al Paleolitico superiore o almeno al­ l’ini­zio del­l’Età del ferro » affermano i neoprimitivisti nordamericani, sicuri che salveremo l’umanità soltanto ritornando a una società di cacciatori-raccoglitori. Non dobbiamo più considerare solo « i due secoli di storia rivoluzionaria » che ci hanno preceduti, ma l’insieme delle civiltà che si sono succedute dall’alba del­l’uma­ni­tà in poi, in modo da scegliere la fase migliore.1 Proprio quando ci incitano a disertare la società consumistica, ci sottopongono alla filosofia del menu o più precisamente del piluccare antropologico. Come nel libro di Philip José Farmer, Il fiume della vita (1972), in cui vari personaggi, da un uomo di Neanderthal a Sir Richard Burton fino a Hermann Goering, risalgono il fiume infinito della storia universale e incrociano tutte le culture senza mai raggiungere il mare. I popoli primitivi, le cui arti sono tanto lodate dall’ex presidente francese Jacques Chirac, peraltro grande difenso David Graeber, Fragments of an Anarchist Anthropology, Prick­ly Paradigm Press, Chicago, 2004 (trad. it. di Alberto Prunetti: Fram­ menti di antropologia anarchica, Elèuthera, Milano, 2006). 1

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re dell’ambiente, sono ammirevoli, agli occhi dei loro fautori, perché producono poca anidride carbonica, rispettano i cicli stagionali e sono più egualitari di noi. Presentano inoltre il vantaggio di organizzarsi in piccoli gruppi di individui che si conoscono tra loro e non si disperdono nel­ l’ano­ni­ma­to della moltitudine. L’uomo naturale, come diceva già Rousseau, nonostante l’ostilità del suo habitat, era di costituzione robusta, vedeva anche da lontano e non aveva alcun bisogno di farmaci né tanto meno di medici.2 Il selvaggio, come ripeteranno i moderni, è padrone di se stesso, pratica l’uguaglianza dei generi, lavora poco, gode di un’abbondanza incredibile (Marshall Sahlins), si serve direttamente dagli alberi come i consumatori dagli scaffali del supermercato, ma soprattutto non patisce né lo stress né l’insicurezza dei moderni.3 Questo neoindigenismo attraversa tutta la letteratura contestataria, dal premio Nobel Jean-Marie Gustave Le Clézio fino alle varie antropologie alternative e ad altre discipline subalterne.4 Il selvaggio è la guida spirituale di cui abbiamo urgente bisogno per non cadere nel baratro: sfugge alla duplice disgrazia della rivoluzione industriale e della sovrappopolazione, deride il boom tecnologico e sembra arretrato solo perché è avanti rispetto a noi. Con la sua indifferenza per la nostra civiltà, la sua testardaggine nel non adottare i nostri ritmi di lavoro, i nostri passa  Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglian­ za, cit. 3  Theodore J. Kaczynski, The Road to Revolution, Xenia, Vevey, pp. 36 e 104. Kaczynski deride con sagacia i miti neoprimitivisti di una parte della sinistra americana, ma lui stesso ne riproduce altri, per la rabbia contro il tecnoscientismo. 4  Sulla comparsa di nuove metafisiche indigene nel pensiero postcoloniale, si veda il libro illuminante di Jean-Loup Amselle, Révolu­ tions, Stock, Paris, 2010. 2

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tempi capaci solo di inebetirci, dimostra in quale vicolo cieco ci siamo ficcati. Seguire il suo esempio non significa condurre una lotta regressiva, ma rimanere in prima linea verso un cambiamento capitale: Conduciamo una battaglia di retroguardia, ma paradossalmente questa battaglia è una lotta per il futuro. Quando un esercito si trova in un vicolo cieco, a un certo punto deve fare marcia indietro, e a quel punto la retroguardia si ritrova in prima linea.5

Insomma, il progressismo di oggi, nell’ottica di una « decrescita temperata » (François Brune), presuppone un ritorno al passato, per ricavarne lezioni di saggezza e moderazione. I papua kapauku della Nuova Guinea non dedicano più di due ore al giorno al lavoro nell’agricoltura di sussistenza. La stessa cosa vale per gli indiani kuikuru del bacino amazzonico e per i contadini russi prima della rivoluzione d’ottobre (...). Davvero questi gruppi non avevano intuito che lavorare di più avrebbe condotto a un surplus pro­ dut­tivo?6

Per un curioso riflesso, proiettiamo su questi popoli lontani un’ingegnosità che corrisponde al rovesciamento delle nostre convinzioni. Non esistono per se stessi, nella loro singolarità: li consideriamo nel modo più etnocentrico possibile e attribuiamo loro l’unico valore di non assomigliarci (tra l’altro, prendere come modello il mužik russo soggetto alle corvées e oppresso – la schiavitù in Russia fu  François Brune, op. cit., p. 165.   Yves Cochet, Pétrole Apocalypse, Fayard, Paris, 2005, pp. 166167. 5 6

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abolita solo nel 1861 – rivela una strana concezione della storia). Una cosa è voler proteggere i « primitivi » dall’avidità degli affaristi, dai cercatori d’oro, dallo zelo dei missionari; un’altra è prenderli come modelli con il rischio di cadere nel folclore del buon selvaggio. Queste micronazioni hanno dunque capito che un aumento di produttività porterà loro soltanto sfortuna e rivalità. Hanno avuto il presentimento di tutte le disgrazie che la cultura della rendita e del profitto provoca alle società sviluppate. Ma osservarle con la nostra mentalità industriale non significa forse cadere in un’illusione retrospettiva? Queste tribù mostrano uno stile di vita dolce e puro che il disastro della conquista dell’America latina, ad esempio, ha spezzato senza cancellarne il ricordo nostalgico. Sono ancora legate a noi in modo negativo, rappresentano il nostro contrario. Prendiamo ad esempio la pubblicità comparsa sul New York Times Magazine che mostra la foto di una giovane indiana d’America « cresciuta con il riso selvatico e lo sviluppo sostenibile »: Pensate indiano! Pensare indiano significa fare bioedilizia con le radici d’abete o con materiali di recupero. Aiutate gli studenti del college tribale a mantenere il proprio modo di pensare.7

Con la scusa di preservare uno stile di vita, non cerchiamo forse di proiettare sulle ultime tribù nordamericane i nostri problemi con l’inquinamento? L’indiano dell’Amazzonia, l’aborigeno australiano, l’inuit del grande Nord possiederebbero tutte le qualità che ci mancano. Sono ancora legati alle grandi forze della natura, sanno che ogni albero incarna una divinità, praticano « la condivisione   The New York Times Magazine, 27 febbraio 2011.

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delle ricchezze (...), la medicina per mezzo dell’incantesimo o delle piante ».8 Rispettano la vita mentre noi la maltrattiamo, vivono in un tempo tanto mitico quanto reale, sono legati a una tradizione orale che noi abbiamo perso. Ma soprattutto ci avvertono « dell’imminenza della distruzione finale del mondo » (Le Clézio). Essendo stati loro stessi perseguitati, dispersi, annientati, sono esperti di cataclismi, intuiscono il sopraggiungere del crollo. L’uomo primitivo è la combinazione perfetta tra frugalità, intelligenza e concordia. Se la nostra cultura invade la Terra con la sua volgarità, producendo solo topaie, bidonville e discariche, gli indigeni di tutto il mondo, nella loro resistenza alla nostra civiltà, hanno molto da insegnarci. Soltanto l’iniziazione con uno sciamano, le vacanze in una capanna o la fuga verso le ultime tribù del mondo possono procurarci una sensazione di salvezza, strapparci da questo mondo preda di un razionalismo meschino. Oggi, l’incontro con il pianeta indiano non è un lusso; è diventato una necessità per chi vuole capire cosa succede nel mondo moderno. Capire è una cosa da nulla; ma bisogna tentare di andare oltre i corridoi bui, di aprire alcune porte: cioè in pratica tentare di sopravvivere.9

Queste tribù fragili sono la metafora della nostra vulnerabilità. Con il loro apparente distacco, dimostrano che siamo fuori strada. Con i loro saperi misteriosi e sacri, ci offrono il quadro di un’innocenza che soltanto un flashback nell’avventura umana permetterebbe di ritrovare. Mettersi sulle loro tracce significa seguire la loro scuola di pensiero, ritornare a un tempo primordiale in cui l’uomo   J.-M.G. Le Clézio, intervista a François Armanet sugli indiani d’America, Le Nouvel Observateur, estate 2006. 9   J.-M.G. Le Clézio, Haï, Skira, Genève, 1971, p. 11. 8

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e la natura non erano dissociati, ma mantenevano un rapporto di convivenza ed empatia. Si spiega così il successo mediatico di Raoni, capo dei kayapó, un popolo brasiliano, con la sua parrucca e il labbro inferiore deformato da un piatto di legno che dà alla bocca la forma di un posacenere o di una coppetta (è l’attributo tradizionale dei guerrieri che devono spaventare gli avversari). Diventato celebre in tutto il mondo per la sua lotta contro la deforestazione in Amazzonia e la costruzione della diga di Belo Monte nello Stato di Pará, è stato accolto da tutti i grandi del mondo, dal papa a François Mitterrand, al principe Carlo, a re Juan Carlos e Jacques Chirac, che ha scritto la prefazione di uno dei suoi libri. Invitato al Festival di Cannes nel 2010 con Mathieu Amalric, fotografato con Nicolas Hulot, questo « guardiano della coscienza ecoconsapevole » sta per diventare per la difesa della Terra ciò che il Dalai Lama è stato per la spiritualità postcristiana in Occidente. Un conto è proteggere le culture scomparse o fragili, un altro è cercare in esse la risposta ai nostri problemi, o peggio ancora imitarle per trasformarsi nell’ultimo dei mohicani, testimone bianco di una comunità umana scomparsa. Lo sciamano, lo stregone, il bardo diventano i nostri maestri di autenticità, spunti rigeneratori di una civiltà distrutta. La difesa appassionata delle società primitive è un modo per giudicare noi stessi attraverso di loro; se ai tempi dell’imperialismo si sottolineava la loro arretratezza, oggi ci si meraviglia di un equilibrio sbalorditivo, ma il metodo è lo stesso: il presupposto rimane lo stile di vita occidentale, un tempo esaltato e ora denigrato. Esaltare la saggezza degli irochesi e dei navajo, la bontà dei melanesiani, la moderazione degli aborigeni, vuol dire osservarli ancora attraverso i nostri difetti e le nostre difficoltà, porli come controvalori esemplari del mondo in cui 206

viviamo. Dimentichiamo che si tratta in questo caso di una ricostruzione fantastica. La « purezza » ecologica dei popoli primitivi, come abbiamo visto, è un mito ambientalista forgiato nei dipartimenti di antropologia; come noi, hanno a loro modo partecipato alla grande deforestazione e contribuito allo sterminio di molte specie. Erano an­ ch’es­si saccheggiatori, ma con mezzi meno efficaci.10 Dietro l’accozzaglia di riti e tradizioni disparate, applichiamo sempre le nostre ossessioni a quel « naturale » che diventa portavoce delle nostre paure, delle nostre difficoltà. Opponiamo idee pure alla sovrappopolazione, al degrado, al mercato. Possiamo cercarle nel passato del­l’uma­ ni­tà o nel futuro prossimo: testimonianza di questa fantastoria ambientalista è il film Avatar di James Cameron (2009), che racconta l’invasione nel 2154 del pianeta Pandora da parte di un esercito assoldato da una compagnia terrestre, ovviamente yankee, inviato alla ricerca di un minerale magico, il cui possesso permetterebbe di risolvere la crisi energetica. Pandora è abitata da una tribù di superuomini, con la pelle blu, metà puffi, metà Tarzan, i na’vi, alti tre metri, che vivono in una foresta lussureggiante popolata di mostri e di draghi, in un ambiente bioluminescente. Scoppia la guerra tra invasori e indigeni, prima vinti e poi vincitori grazie a migliaia di animali (tra cui titanosauri simili a enormi rinoceronti) che respingono i marine fuori da Pandora. Gli industriali rappresentati dai cow-boy malvagi e armati fino ai denti sono doppiamente colpevoli, di opprimere i popoli e di profanare per cupidigia la natura. L’enorme successo di Avatar, paragonabile a quello di Balla coi lupi di Kevin Costner del 1990, si fonda sulla confluenza tra favola anti-imperialista e allegoria am Si veda Jared Diamond, op. cit.

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bientalista. La causa della Terra e quella delle culture assoggettate è unica e uguale per tutti.11

2) Bisogna coltivare il proprio orto La ricerca di autenticità è anche la molla che spinge numerosi gruppi alternativi a riscoprire le attività agricole. Mentre il contadino è diventato il guardiano del paesaggio, ma anche imprenditore all’avanguardia che gestisce l’agricoltura in modo informatizzato, noi siamo invitati a coltivare il nostro orto in città. Bisogna riempire le città di orti, far crescere insalata, pomodori, ravanelli sui balconi, allevare galline e conigli in casa. Giardinieri urbani insegnano le basi del mestiere, danno lezioni di semina, zappatura, annaffiatura. È il ritorno dell’umile seminatore in mezzo al cemento e la rivalutazione dell’orticoltura, come un tempo gli orti di famiglia fuori città. Riconciliare città e campagna vuol dire moderare l’asfissia con l’ossigeno, la monotonia della pietra con la diversità delle piante, compensare il galoppo dello stress con il trotto della maturazione e della fioritura. L’ideale della città-giardino non è una novità e risale almeno al xvii secolo, quando fu promosso dagli aristocratici che piantavano alberi, boschi e siepi per creare oasi di solitudine in mezzo alla folla e alla confusione.12 La fredda geometria dei viali viene rotta con  Secondo Wikipedia, nel 2010 alcuni militanti palestinesi si sono travestiti da na’vi per protestare contro la barriera di separazione israe­ lia­na, mentre altre comunità si rifanno a questo film per protestare contro l’apparato militare-industriale, in Cina, nel Borneo o in Amazzonia. Avatar è diventato il film feticcio dell’ong Survival che si occupa del destino delle tribù oppresse, guaranì, pigmei, adivasi eccetera. 12  Si veda Keith Thomas, op. cit. 11

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sentieri equestri, cortine di vegetazione, filari di tigli e platani; la sorpresa si unisce al piacere, l’incanto degli occhi alla dolcezza olfattiva. Che contrasto tra Londra, Amsterdam e Berlino, ricoperte da vasti parchi, e Parigi, che ha ridotto gli spazi verdi allo stretto necessario! Il giardino ha anche un effetto civilizzatore: le aiuole fiorite riflettono il valore morale del proprietario. Prendersi cura di rose e ortensie, creare un tappeto erboso spesso e morbido è un modo per competere con i vicini, un’affermazione della propria personalità. Oggi, alcuni cittadini prediligono le fattorie biologiche nei sobborghi dei centri abitati, da cui si procurano frutta e verdura evitando gli intermediari, coniugando freschezza e vicinanza. In Giappone i Teikei, in Svizzera i Food Guilds, in Francia gli amap (Associazione per la salvaguardia dell’agricoltura contadina) stabiliscono un contratto senza intermediari tra compratori e produttori, che si spartiscono il raccolto della settimana e garantiscono a un prezzo equo un’agricoltura senza pesticidi né fertilizzanti chimici. Negli Stati Uniti, il movimento dei « Greenthusiasts » (i verdi entusiasti), che nel 2007 contava quasi trenta milioni di aderenti, raggruppa tutti coloro che ricercano uno stile di vita sano e sostenibile, i lohas (in inglese, Lifestyle Of Health And Sustainability).13 In Germania, gli attivisti immaginano una vasta cintura verde alimentare intorno alle metropoli « a una giornata di cavallo dal centro (25 chilometri) », una precisazione utile a sottolineare la volontà di ritornare a un’epoca anteriore ai veicoli a motore.14 Contro l’influenza dei grandi supermerca Stile di vita sano e sostenibile. Citato da Dominique Nora che dà una descrizione dettagliata di questi movimenti, op. cit., p. 81. 14   J.P. Gené, « Un orto in città », Le Monde Magazine, 1° gennaio 2011. 13

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ti e l’importazione costosa di prodotti stranieri, in Francia siamo invitati a riscoprire le virtù del cavolo di Pontoise, dell’asparago di Argenteuil, della gallina di Houdan, del tarassaco di Montmagny. Quando arriveranno i pomodorini della pianura di Monceau, i fagioli della Butte-auxCailles, le zucche di Saint-Germain-des-Prés, il miele di Mouffetard, la marijuana bio di Montmartre, le barbe di prete di Belleville? Al cittadino viene richiesto di diventare orticoltore, vivaista, di conciliare nella convivialità tecniche dolci, animali domestici e colture alimentari. « Guerriglieri verdi » pacifisti lanciano piccole bombe vegetali sui terreni incolti, seminano le terre incustodite e le rotaie abbandonate. Non è richiesto alcun talento particolare, solo buona volontà e coraggio: anche a New York esiste un’associazione di giardinieri incompetenti che rivendicano la loro inettitudine! Questa stessa ambizione anima le « città lente » preoccupate di limitare la propria taglia promuovendo i prodotti locali e le « bio-regioni ». Si sta creando così una nuova utopia neo-ortolana che vuole coniugare il rispetto dei ritmi stagionali e il controllo del­l’ali­men­ta­zio­ ne, evitando ogni manomissione impropria. In attesa che la grande distribuzione recuperi queste reti e faccia della rivolta contro la sua influenza il vettore della propria espansione. Il trucco del capitalismo verde è prosperare grazie alla contestazione. Smantellare la carcassa di asfalto delle metropoli rinverdendole, costruire giardini pensili, boschi verticali, seppellire strade, viali, piazze sotto alberi ed erba, riempire i cortili di capre, galli, i tetti di alveari, non è un ritorno alla terra degli anni Settanta o l’esilio in Lozère o in Ar­dèche, ma il rimpatrio della terra a casa nostra, sebbene sia grande quanto un francobollo. Quest’appartamento campestre mira a porre fine alla divisione del lavoro che è puro esproprio, a ricreare un individuo indipendente capace di 210

produrre da solo i propri mezzi di sussistenza. Mentre il coltivatore di cereali e l’allevatore sono sospettati di sfruttare il suolo, il nuovo « coltivatore urbano » è guidato dallo scrupolo, dalla lentezza e dallo spirito di autonomia. Interrogato su quale dovrebbe essere l’etica del­l’uo­mo nei confronti della Terra, Jean-Marie Pelt risponde: Immagino qualcosa di molto simile al giardinaggio. E immagino qualcosa di simile al giardinaggio in un mondo in cui si utilizzano venti ettari esclusivamente per coltivare grano. Un atteggiamento è l’esatto opposto del­l’al­tro. Quello che lavora i cento ettari di grano si definisce coltivatore diretto, ma in realtà è uno sfruttatore (...) il giardiniere ha un rapporto umile con la Terra. È molto vicino alla Terra, la ama.15

Coltiviamo il nostro orto per ridare sapore agli alimenti e per proteggerci dai grandi flussi incontrollabili. Ma queste isole di purezza sorte contro la corruzione del mondo sembrano animate più da un ideale di fuga che dalla voglia di scoperta. Qui come altrove, l’istinto di ritrarsi ha soppiantato quello di espandersi. Seminare i cavoli, cuocere il pane, piantare fiori in città, cosa c’è di più nobile? Ma può servire a placare la sete d’infinito delle nuove generazioni? A frenare l’attuale degrado, a porre fine ai processi planetari che ci trascendono?

  J.-M. Pelt, intervista con Frédéric Lenoir, in Le Temps de la ­responsabilité, prefazione di Paul Ricoeur, Fayard, Paris, 1991, p. 91 (trad. it. di Linda Cottino: Il tempo della responsabilità, Società Editrice Internazionale, Torino, 1994). 15

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3) L’uomo sminuito o l’uomo liberato Ciò che colpisce, dalla caduta del comunismo in poi, è la mancanza di alternative al sistema, come se il 1989 avesse spento l’utopia. Ricicliamo all’infinito i detriti del progetto socialista o anarchico, invece di ritrovarne l’energia. Nel xix e nel xx secolo, le minoranze politiche e artistiche si erano dimostrate capaci di arricchire le aspirazioni collettive, di trascinare i popoli verso un aumento della gioia e del benessere. Oggi, almeno in Europa, sono diventate gli apostoli della calunnia contro il mondo che ci circonda. Stiamo vivendo l’epoca delle avanguardie regressive: al posto d’inventare, denigrano. A questo risentimento generale, l’ambientalismo aggiunge la cautela dubbiosa della scienza. È strano, ad esempio, l’accanimento generale contro la società dei consumi. Anziché indignarci per la povertà, ci arrabbiamo per le comodità di cui godiamo. Il consumismo scandalizza poiché rivela la struttura semplice del desiderio, che vuole soddisfare gli appetiti e insieme rinnovarli. Ci consente di evitare la duplice esperienza dolorosa della frustrazione e della sazietà, essendo al tempo stesso appagati e stimolati dalla quantità di oggetti possibili. La sua virtù e la sua maledizione consistono nel rendere indispensabile il superfluo. Ma la civiltà non è altro che questo: l’aumento esponenziale dei desideri che allargano l’anima e gli orizzonti. È un « miracolo miserabile » forse, ma così potente da essere incontestabile e acclamato in tutto il mondo. Per quale motivo dovremmo negare le meraviglie del commercio ai popoli che ne sono privi, vietare gli schermi piatti o i computer portatili, tenendo presente poi che certi grandi magazzini, certe vetrine sono splendide creazioni collettive? Ricordiamo la reazione sprezzante degli intellettuali progressisti nella Germania occidentale 212

al momento della caduta del Muro nel 1989: questi borghesi privilegiati paragonavano i loro futuri compatrioti della ddr che si gettavano con foga sui negozi alimentari e d’abbigliamento alle scimmie che si lanciano sulle banane e le arance. Le nostre menti illustri che si turano il naso davanti ai paesi emergenti si comportano con gli indiani, i cinesi e i brasiliani come Maria Antonietta con gli affamati della rivoluzione francese. Chi sarà in grado, con la sua « abbondanza frugale » (J.-B. de Foucauld), di rivaleggiare con un regime del desiderio così potente, oltretutto amplificato dai media, dalla pubblicità e dalla moda? Bisogna lottare per la moltiplicazione dei piaceri e delle passioni, non per la loro estinzione. Possiamo trovare deprimenti i supermercati, patetici gli acquirenti che nel periodo dei saldi si comportano come saccheggiatori avidi di recuperare la loro parte di bottino. Ma nessuno si aspetta che lo shopping dia un senso alla vita. Il discorso sul vuoto del consumismo è vuoto quanto ciò che denuncia e la follia dei detrattori è pari alla follia degli ammiratori. Oltretutto, gli oggetti che ci circondano hanno un’anima, che ci piaccia o no. Macchine, cellulari, schermi, vestiti, non sono affatto gadget, ma espansioni di noi stessi. Non susciterebbero tanto entusiasmo se non fossero abitati da noi come noi siamo abitati da loro. Ampliando il campo delle nostre possibilità, ci garantiscono maggiore autonomia. Questi meravigliosi strumenti ci liberano dal tempo e dallo spazio, ci consentono di agire, di parlare, di comunicare a migliaia di chilometri di distanza, mettono a nostra disposizione capacità attribuite un tempo soltanto a maghi e indovini: l’ubiquità e il teletrasporto. Sono come organi supplementari trapiantati nel nostro corpo. L’uomo, produttore di strumenti, è anche il prodotto dei suoi strumenti, degli artifici che ha inventato e che lo potenziano. 213

Inoltre, il lusso e la raffinatezza sono essenziali per lo sviluppo di tutte le grandi civiltà. Dobbiamo assolutamente sostenere la diffusione di apparecchi resistenti e a basso consumo di carbonio, le lampadine che non si bruciano dopo poche settimane, i frigoriferi solidi come carri armati, le batterie che durano nel tempo. Ma niente sarebbe più triste di oggetti indistruttibili che ci sottraggano la frenesia degli acquisti, la folle seduzione della novità. Non c’è niente che sia puramente materiale e non abbia anche risonanze psichiche; gli oggetti familiari hanno un’anima. La tecnologia, a dispetto degli anatemi di Heidegger, è diventata una seconda natura, un’estensione del nostro sistema nervoso. Questo fenomeno è in crescita grazie al­ l’in­ne­sto già possibile d’impianti e microprocessori nel corpo umano per compensare funzioni difettose, riparare cellule, e alla simultanea introduzione di « neuroni viventi » nei nostri computer. L’artificio è la nostra seconda o terza pelle, indispensabile come la prima. L’uomo del futuro sarà dotato di protesi o non esisterà. Come non estasiarsi di fronte alla bellezza della fusoliera di un aereo, alla grazia di un aeroporto, allo slancio di un grattacielo che sfida il cielo, all’eleganza dello schermo di un computer? Tocqueville si sbagliava quando fustigava la passione per il benessere che avrebbe allontanato gli uomini dall’interesse per la politica: il paesaggio materiale non è pura futilità, ma un supporto alla realizzazione di se stessi. Le comodità consentono di progredire senza dilapidare le proprie forze, senza bisogno di riscaldarsi, di lottare per nutrirsi, di cacciare la selvaggina, di cucire i propri abiti. Grazie alle comodità, dedichiamo la nostra energia a qualcos’altro e non alla semplice sopravvivenza in cui vorrebbe rinchiuderci la scuola della fustigazione. Il benessere ci consente quindi, per riprendere la terminologia marxista, la riproduzione allargata, al posto della sem214

plice riproduzione alla quale era dedito il proletariato sottomesso al lavoro. La povertà è anche la riduzione di ciascuno ai suoi bisogni elementari: mangiare, vestirsi, spostarsi, procurarsi un alloggio. È l’impossibilità di vivere senza fare calcoli. La gente si rivolta quando le manca qualcosa, non quando ha troppo. Avete mai visto dei milionari sfilare per le strade al grido di: Basta con la fortuna! Basta con i vestiti firmati, le macchine di lusso, i palazzi, gli orologi d’oro! L’orrore è la recessione che spinge centinaia di migliaia di persone, da Madrid a Tel Aviv, a reclamare migliori condizioni economiche. Lo sviluppo del­l’uma­ni­tà può passare per canali diversi dal successo materiale? Questa domanda, sollevata tra gli altri da George Steiner che condanna « la crudeltà della ricchezza », è del tutto inutile: lo sviluppo può passare da entrambi i canali, dallo spirito e dalla materia. Una parte del­l’uma­ni­tà ha provato i frutti del benessere; sarebbe ingenuo toglierglieli brutalmente in nome di un ipotetico innalzamento culturale; oltre alla miseria avremmo così anche l’ignoranza. Se trionfasse il credo ambientalista, la definizione di sicurezza proposta dal­ l’onu – « la liberazione dal bisogno e dalla paura » – verrebbe invertita: il minimo indispensabile e il terrore. Chi deciderebbe inoltre sulla legittimità di certi bisogni e sulla futilità di altri? Contrapporre, secondo un luogo comune in voga, le ricchezze ai rapporti umani significa dimenticare che le prime non hanno mai impedito i secondi, piuttosto il contrario: se i regali di Natale a volte diventano un’orgia commerciale, è perché questo è anche un modo per rafforzare i legami familiari e coniugali e manifestare affetto. Donare significa dichiarare un legame a condizione di non umiliare l’altro con un regalo troppo lussuoso o troppo meschino. I rapporti tra gli uomini, in qualunque 215

società, passano attraverso gli oggetti, a cui si attribuiscono un valore emotivo e una rara intensità. Noi interpretiamo più personaggi allo stesso tempo – lavoratori, compratori di servizi, cittadini di una nazione, individui che vogliono realizzarsi – e dobbiamo soddisfare ognuno di questi ruoli senza sacrificarne alcuno. Il consumismo rimane un progresso incontestabile finché si limita alle sue funzioni e non vuole amministrare con la sua logica tutti i problemi: l’istruzione, la politica, la cultura. Dobbiamo quindi rinegoziare di continuo le linee di confine che separano il commerciale dal non commerciale, e non mettere all’asta territori simbolici come la scuola, la giustizia, la salute, i servizi pubblici e la natura. Nel nostro rapporto con gli oggetti, potremmo distinguere tre epoche dal xviii secolo in poi: l’epoca della scarsità per la maggioranza della popolazione, fino alla metà del xx secolo, l’epoca dell’ingordigia, con l’invenzione del credito (di cui la crisi dei subprime negli Stati Uniti ha rappresentato l’apogeo nel 2008), infine l’epoca dei desideri ragionevoli in cui stiamo forse entrando e che ci farà passare da un’economia della proprietà a un’economia dell’affitto. Perché sopportare il possesso costoso di oggetti che possiamo affittare e restituire di continuo, come nel caso, ad esempio, della macchina? L’acquisto con le sue regole semplici e i suoi piaceri evidenti continuerà a esistere perché procura a tutti le gioie di un’offerta illimitata e di un appetito soddisfatto al­l’istan­te. È meglio democratizzare il consumo piuttosto che abolirlo: il vero scandalo è esserne esclusi per mancanza di mezzi. In ogni caso, il denaro, come diceva Seneca, fa parte, insieme alla salute, delle cose preferibili, qualunque sia il destino che scegliamo. Una società civile non disprezza i beni materiali, ma propone varie definizioni di ricchezza – finanziaria, morale e spirituale – senza escluderne alcuna. Ciascuno 216

riorganizzi pure la gerarchia tra essenziale e accessorio, ridistribuisca le carte in funzione dei propri imperativi; ma ogni esistenza vale solo per la poesia e lo splendore che emana e che le dà valore. Negli Stati Uniti, il contrappeso alle frenesie commerciali sta nel patriottismo e nella fede, le due sacralità di questo impero democratico. In Europa, sta nella cultura intesa come tesoro comune e come capacità creativa, nell’ozio studioso, nello stile di vita e nel vivere bene con gli altri. Contro le dinastie del denaro, la Francia ha promosso l’aristocrazia dello spirito accessibile ai migliori nelle arti e nelle scienze. Forse il Vecchio Mondo è più adatto al cambiamento del Nuovo Mondo, poiché qui l’ideale della competizione è meno radicato, il culto del lavoro meno frenetico e la capacità di riscoprire la lentezza e la dolcezza più affermata, grazie a nuovi modi di concepire il tempo e a nuove capacità di godere delle piccole cose.

4) L’angoscia dello spostamento La sfida contemporanea, forse impossibile, è questa: non rinunciare a nessun vantaggio dello sviluppo, senza subirne gli effetti collaterali. Promuovere una vita decente per sette miliardi di persone, senza esaurire le risorse della Terra. Trovare un’energia pulita e sicura che non si esaurisca, sia essa solare, nucleare, idroelettrica, geotermica, mareomotrice o altro. Chiederci di abbandonare al più presto il petrolio, l’atomo, il gas, gli scisti bituminosi e il carbone, perché sono pericolosi e inquinanti, mentre l’energia eolica e fotovoltaica sono ancora allo stato embrionale e la domanda raggiunge nuovi picchi, è irragionevole. Non è sicuro che l’atomo non abbia più niente da dire, contrariamente a ciò che proclamano i suoi detrattori, fe217

lici di presentarlo come una tecnologia obsoleta. È probabile che nell’immediato futuro la formula giusta sia un mix energetico in cui saranno incluse tutte le fonti, anche le più arcaiche, nell’attesa di una soluzione migliore. È possibile poi che maggiori investimenti nelle tecnologie più innovative permettano al­l’uma­ni­tà di fare nei prossimi trent’anni un salto esponenziale, rendendo così obsoleti i dibattiti attuali. Risparmiare, diminuire, tirare la cinghia è solo un obiettivo a breve termine. Lo sviluppo è indispensabile e potenzialmente distruttivo se si estende a tutto il genere umano. È questa la folle scommessa che siamo condannati a vincere; non togliere nulla ai progressi umani diminuendone i costi. Gli europei non sono mai stati così preoccupati del futuro come da quando non credono più nel domani. Lo invocano per scongiurarne l’assenza e confinarsi nell’angoscia del presente. Una pandemia di stanchezza sta attraversando il Vecchio Mondo, un predominio delle passioni tristi, per usare il linguaggio di Spinoza. In contrasto con questo disfattismo, potremmo elencare le buone notizie degli ultimi vent’anni: il mondo arabo ha iniziato la sua lunga e caotica rivoluzione; la democrazia avanza, seppur lentamente; l’India, la Cina, il Brasile, il Sudafrica emergono come grandi potenze; quasi un miliardo di persone è uscito dalla povertà assoluta; la speranza di vita aumenta nella maggior parte dei paesi – solo in Cina, è passata da trentotto a sessant’anni –;16 le guerre diminuiscono;17 una serie di malattie gravi, tra cui molto di recente la peste bovina,   Jean de Kervasdoué, op. cit., p. 11.   Bruno Tertrais ne dà una dimostrazione molto convincente, op. cit. 16

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sono state debellate. Abbiamo appena vissuto uno dei decenni più prosperi e meno violenti della storia, eppure lo descriviamo in termini abominevoli. La nostra percezione è inversamente proporzionale alla realtà. I popoli non europei sono diventati padroni del loro destino, è questa la grande novità di quest’epoca: hanno smesso di girarci intorno, di considerarci modelli infallibili. Si sviluppano a partire dalle loro tradizioni e non dalle nostre. Paradosso appassionante: il trionfo dei valori occidentali, l’economia di mercato e la democrazia vanno di pari passo con la marginalizzazione dell’Europa e dell’America, civiltà dominanti che crollano sotto i loro debiti. È la fine di quattro secoli di egemonia e, come ben sappiamo, il centro di gravità si sposta da ovest verso est. Anche gli Stati Uniti non sono più la Roma magnetica da cui ci si attendono sempre nuove idee, mode eccentriche, iniziative sorprendenti. Sprofondati in guerre infinite alimentate da una mafia industrial-militare ultrapotente, rovinati da una politica irresponsabile, dopo aver rinunciato alla conquista spaziale ed essersi immersi nelle proprie nevrosi fondatrici – il fanatismo religioso, la diffidenza verso il governo, il puritanesimo immorale – somigliano a un gigante ferito che rimugina la sua sconfitta. Ma da un giorno al­l’al­ tro potrebbero rialzarsi, e più in fretta di quanto crediamo. Per decenni, destra e sinistra hanno promosso lo sviluppo e la democrazia nei paesi del Sud. Per gli uni, il libero mercato e la privatizzazione erano la panacea di tutti i mali; per gli altri, le uniche possibilità per liberare i popoli dall’umiliazione coloniale erano la guerriglia e la collettivizzazione. Questi consigli sono stati in parte seguiti, ma non come ci aspettavamo. I liberisti si rendono conto con fastidio di essere incalzati da miserabili che credevano unicamente dediti alla contraffazione e che, come la Cina, si rinnovano, inventano e hanno in pugno il debito esorbi219

tante dello Zio Sam. I terzomondisti non sopportano la vista delle masse che abbracciano con trasporto i sortilegi del mercato e del consumo. Per non parlare dei militanti verdi furibondi all’idea che asiatici, africani e sudamericani aumentino il debito di carbonio del pianeta. I popoli non europei – definiti un tempo il Sud del mondo – sono colpevoli di essere sfuggiti ai loro stereotipi: non solo ci raggiungono, ma ci soppiantano, si risparmiano decenni di ricerca laboriosa adottando le rivoluzioni tecnologiche più avanzate (si pensi al successo del cellulare in Africa, che ha permesso di fare a meno della rete telefonica tradizionale). Collisioni improbabili sconvolgono i nostri schemi mentali quando a Pechino il capitalismo più sfrenato si giustappone all’autoritarismo comunista, o quando in India si rafforza, in una società di caste, la democrazia parlamentare, facendo sì che questa grande potenza sia più pronta ad affrontare la crisi rispetto alla sua vicina marxista. Fine del duplice discorso condiscendente o compassionevole: tutte queste giovani nazioni hanno inventato la strada verso l’emancipazione a danno degli autoproclamati salvatori, ovunque i rimedi proposti da neoliberisti, terzomondisti o altermondialisti sono falliti. Le nostre professioni di fede ambientalista rischiano seriamente di sprofondare nell’indifferenza. Migliaia di uomini si attendono dalla crescita un futuro migliore. In nome di quale principio oseremmo rifiutarglielo? Il miglior rimedio contro il degrado ambientale è l’arricchimento materiale generale e l’industrializzazione a tappe forzate. Bisogna avere accesso all’abbondanza per combatterne i mali e correggerne le storture. Il nuovo puritanesimo verde forse non è altro che la reazione di un Occidente indispettito, l’ultima disavventura di un neocolonialismo triste che predica alle altre civiltà una saggezza che non ha mai praticato. Sommersi dai pronostici allarmisti, dimentichiamo che 220

la crisi del capitalismo non è mondiale ma occidentale, che non viviamo la fine dei tempi, ma la fine della supremazia dell’Europa e dell’America sul resto del mondo. Mentre mettiamo il muso, i cinesi, gli indiani, i sudafricani e i brasiliani festeggiano la loro risurrezione, per quanto fragile. « I vecchi amano dare buoni consigli per consolarsi di non poter più dare cattivi esempi » (La Rochefoucauld). Le sinistre europee hanno violato ben due volte i loro principi: confondendo istruzione e divertimento, concorrendo così al crollo della scuola; abbandonando la lotta per l’uguaglianza a favore delle politiche d’identità, tanto da dimenticare la questione sociale e da lasciarsi sfuggire il proletariato verso l’estrema destra. Se adesso abbandonano l’idea di progresso che è stata la spina dorsale di tutta la loro lotta, non avranno più ragione di esistere. Ma il tempo non torna mai indietro. Le nostre vecchie nazioni possono morire di terrore e la morbosità può distruggerle. Per cambiare rotta, dovremo prima cambiare le nostre paure, cioè le nostre priorità, porre fine alla nostra attrazione per la sconfitta. La preoccupazione ambientale è universale, la malattia della fine del mondo è esclusivamente occidentale.

L’immortalità, fino a quanti anni? L’aumento della speranza di vita è una conquista meravigliosa della medicina, che aggiunge nuova profondità temporale a esistenze che entravano in età crepuscolare dai trenta-quarant’anni. Concedersi un supplemento di ebbrezze; continuare ad amare e desiderare a un’età in cui i nostri antenati scendevano lentamente nella tomba, cosa c’è di più bello? Nella vita di un uomo ci sono 221

più vite, gli anni hanno smesso di essere un verdetto, non è mai detta l’ultima parola. L’ideale però sarebbe crescere senza mai invecchiare, mantenere fino all’ultimo la tonicità, l’elasticità dei trent’anni, morire in piena forma. Tutti sembrerebbero così avere la stessa età: gli ottuagenari salterebbero la corda, avrebbero rapporti torridi con giovincelle, la differenza di età non sbalordirebbe più, poiché tutti e tutte avrebbero lo stesso aspetto. Un individuo con una serie di protesi microelettroniche inserite nel cervello, nanocapsule in grado di ripulire il sangue e impianti in grado di garantirgli la visione notturna, potrebbe vivere fino a cen­to­cin­quan­ t’an­ni. Bisognerebbe prolungare la giovinezza al­l’in­fi­ni­ to e non la vecchiaia. E invece le società sviluppate somigliano a ospizi in cui i più vecchi sono colpiti da tutte le malattie tipiche della vecchiaia: tumore, Parkinson, Alzheimer. La dipendenza dagli altri, la debolezza, la senilità sono gli incubi generati dal progresso. Ben presto l’intera umanità sarà colpita dallo stesso male, poiché, oltre la soglia di nove miliardi di abitanti prevista per il 2030, si assisterà a una riduzione drastica della natalità. Ci dirigiamo verso un mondo di vecchi che governerà una piccola casta di giovincelli. Quanto all’immortalità, che al momento resta un’ipotesi, non sarebbe per forza piacevole. Nei Viaggi di Gulliver, l’eroe di Jonathan Swift incontra un popolo d’immortali, gli Struldbrug: sono tutti soli e molto tristi. L’utopia di un uomo superiore e dotato di un’incredibile longevità inverte l’ordine delle priorità: la riparazione delle cellule e dei tessuti, la ricostruzione delle molecole come fossero pezzi di lego rischiano di assorbire tutte le energie e di distoglierci dal vero problema: cosa fare della propria esistenza? Cosa fare di questi 222

anni supplementari, se non sappiamo ancora come usare gli altri? Cercare in tutti i modi di durare, privarsi del tabacco, dell’alcol, della buona carne e dell’amore, vuol dire negarsi la vita per sopravvivere a ogni costo oltre i cento anni. In un certo senso voler essere immortali è come morire. Proviamo a immaginare un mondo di centenari, di figli, nipoti, padri, nonni, tutti con i capelli bianchi, canuti, rugosi, ingobbiti e attempati; ognuno incarnerebbe una fase della lunga strada verso la senilità? Ogni famiglia coprirebbe almeno il ventaglio di un secolo. La grande domanda delle religioni di un tempo era: c’è una vita dopo la morte? La grande domanda delle società laiche di oggi è invece: c’è una vita prima della morte? Abbiamo amato, scialacquato, donato e baciato a sufficienza? La vita non è una gara di tenacia in cui bisogna resistere il più a lungo possibile, ma sta in una certa qualità dei legami, delle emozioni, degli impegni. Quando si riduce a una semplice ruminazione dei nostri organi, ha ancora senso vivere? Che cosa c’è di più triste degli anziani abbandonati da tutti, che aspettano la fine, inerti, rivangando i ricordi, e intanto si lasciano vestire, lavare, alimentare come neonati sgualciti e rimbambiti. Che si voglia rallentare il tempo o accelerarlo, nel cuore del­l’uo­mo deve comunque avvenire qualcosa di sconvolgente e inatteso. La vera vita è nell’intensità, non nella durata. Finché amiamo, studiamo, ci stupiamo, siamo immortali fino all’ultimo giorno.

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Epilogo Il rimedio è nel male

Le alternative sono due: o i pessimisti dicono la verità, noi siamo lanciati verso l’abisso e l’unica possibilità è l’autoestinzione del genere umano, con le buone o con le cattive. Oppure esistono margini di manovra e dobbiamo esplorarli a tutti i costi. L’ambientalismo catastrofista è innanzitutto una catastrofe per l’ambientalismo: usa una retorica così spudorata che scoraggia le migliori intenzioni. È tanto determinata a evitare la rovina che finirà per provocarla, se avvolgeremo il pianeta nel cellofan, seguendo i consigli di certi ambientalisti, come se fosse una scultura di Christo (è noto che nelle Alpi svizzere e austriache alcune stazioni sciistiche hanno ricoperto i ghiacciai con teli isotermici per prevenire lo scioglimento). O l’ambientalismo si ostina a inveire, a gesticolare invano, o riprende in maniera lucida la grande idea di un progresso morale del­ l’uma­ni­tà, evitando gli smarrimenti del passato. È in corso una gara tra le forze della disperazione e la potenza del­ l’au­da­cia. In altri termini, il rimedio è nel male (Jean Starobinski), in questa civiltà industriale tanto biasimata, in questa scienza che spaventa, in questa crisi che non finisce mai, in questa globalizzazione che ci sovrasta: solo un aumento delle ricerche, un’esplosione di creatività, un salto tecnologico inedito potranno salvarci. Dobbiamo sforzarci di allontanare le frontiere dell’impossibile, incoraggiando le iniziative più folli, le idee più sorprendenti. Dobbiamo 225

trasformare la scarsità di risorse in abbondanza di invenzioni. Potremmo essere all’alba di un rinnovamento senza precedenti dell’architettura, dell’edilizia, dell’industria, dell’agricoltura (pensiamo alla costruzione degli aerei e delle navi a pannelli solari, del jet ipersonico che volerà nella stratosfera, alla fusione dell’idrogeno, alle case costruite sul modello dei termitai, alla semina di minerale ferroso negli oceani per far crescere le alghe planctoniche, alla costruzione di una grande muraglia verde in Africa che collegherà Gibuti al Senegal, alle centrali solari termodinamiche, alle minicentrali nucleari sottomarine e via dicendo). Ogni nuova invenzione deve fare colpo sul desiderio umano, generare stupore, sorpresa, condurre i popoli in un viaggio inedito. È una « porta stretta » (Luca, 13, 24), ma è la porta della salvezza. Dobbiamo puntare sul genio del­l’uma­ni­tà, capace di domare le paure e improvvisare nuove soluzioni. Se nel prossimo secolo si dovrà sviluppare una generosa tutela dell’ambiente, sarà in funzione del­l’uo­mo e della natura nella loro interazione reciproca, e non come avvocato ventriloquo di un’entità chiamata Terra. Gli amici della Terra sono stati troppo a lungo nemici del­l’uma­ni­tà: è ora che l’ambientalismo dell’ammirazione prenda il posto del­l’ambientalismo del­l’ac­cusa. Ovunque si parla di salvare il pianeta: dal capitalismo alla scienza, dal consumismo al materialismo. Bisogna soprattutto salvare il pianeta da quelli che si autoproclamano suoi salvatori e che minacciano il caos generale per imporre i loro impulsi letali. Dietro ai loro clamori, dobbiamo leggere la volontà di demoralizzarci per soggiogarci meglio. Ne va del piacere di vivere insieme su questa Terra, che in ogni caso ci sopravviverà, qualunque cosa faremo per lei. 226

Abbiamo bisogno di pionieri, di esploratori, non di guastafeste travestiti da indovini. Abbiamo bisogno di nuove frontiere da superare, non di nuove prigioni in cui marcire. L’umanità si emanciperà solo puntando in alto.

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Indice delle cornici

L’auto: fine della libido?

33

Piccolo lessico contemporaneo

63

La Francia: una depressione feconda?

86

Il misantropo, il riflessivo, il soldato

113

Dopo la fine del mondo

129

Il terremoto di Lisbona

161

Robinson Crusoe o il mondo desertificato

197

L’immortalità, fino a quanti anni?

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Indice dei capitoli

Introduzione. Il ritorno del peccato originale

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Prima parte Il fascino del disastro I. Restituitemi il mio nemico 15 1) L’addio alla spensieratezza 16 2) I candidati alla successione 18 3) L’offesa a Gaia 25 II. Abbiate il coraggio di avere paura 36 1) La massima imputazione 37 2) L’addestramento al panico 43 3) Il dolce spettacolo del terrore 47 4) Il ritorno della Parca 53 5) I limiti del Grand Guignol 56 III.  Il ricatto alle generazioni future 66 1) La delizia dello stato d’emergenza 68 2) L’arte di sviare l’attenzione 74 3) Gli arrabbiati della sciagura 79

Seconda parte I progressisti antiprogresso IV. L’ultima trasformazione di Prometeo? 91 1) La fatalità del progresso 92 2) Il demiurgo intermittente 96 3) Facciamo il bello e il cattivo tempo? 98 4) Gli esseri viventi, un soggetto giuridico? 106 V. La natura, matrigna o vittima? 116 1) Una ricostruzione bucolica 117 2) Zoofilia teorica e pratica 121 3) La natura non è la nostra legge 127 VI. La scienza nel­l’età del sospetto 132 1) L’universo del maleficio 133 2) Il medico immaginario 140 3) Il panico della ragione 143 4) Gli scienziati ci dicono... 149 5) La quarta rivoluzione copernicana 153 6) Salvare lo spirito d’esplorazione 156 Terza parte La grande regressione ascetica VII. L’umanità a stecchetto 167 1) L’etica della rinuncia 168 2) Diventate poveri! 173 3) I predicatori dell’austerità 180 VIII. Le miserie della macerazione 184 1) Sacralità del letame 185 2) Per una politica della leggerezza 190 3) I commissari politici del carbonio 192

IX.  Il buon selvaggio nella natura 200 1) L’età dell’oro ritrovata 201 2) Bisogna coltivare il proprio orto 208 3) L’uomo sminuito o l’uomo liberato 212 4) L’angoscia dello spostamento 217 Epilogo. Il rimedio è nel male

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