Il corpo e l'immagine. Il primo cinema di Philippe Garrel 8860814898, 9788860814890

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Il corpo e l'immagine. Il primo cinema di Philippe Garrel
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Prefazione GIORGIO DE VINCENTI

Il posto di Philippe Garrel nel cinema contemporaneo è legato alle contingenze di un particolare momento storico - il cinema del Sessan­ totto - ma anche a una particolare modalità stilistica, che definisce una linea interna al cinema “moderno”, e che è rappresentata, tra gli altri, da autori come Jean Eustache, Jean-Daniel Pollet, Jacques Doillon e Chantal Akerman. Una linea che, raccogliendo alcune delle istanze più produttive della Nouvelle Vague, dialoga con quella di altri cineasti della modernità, in primis Jean-Luc Godard e Chris Marker, contribuendo a definire uno dei più vivaci contesti di lavoro cinematografico anti-istituzionale che siano apparsi in Europa nel secondo dopoguerra. Un contesto segnato da un lavoro formale rigoroso, punto di rife­ rimento imprescindibile per ogni pratica realizzativa e teorico-critica che voglia commisurarsi con il passato del cinema ma anche e soprat­ tutto con il suo futuro, di linguaggio che dialoga con le trasformazioni dell’universo audiovisuale. Di questo contesto l’opera di Garrel rappresenta un momento im­ portante, all’insegna di una sperimentazione linguistica strettamente intrecciata con l’esperienzialità esistenziale e, per questa via, capace di stabilire un ponte oltreoceano con la Factory warholiana, indirettamen­ te conosciuta e sperimentata attraverso il lungo connubio artistico e di vita con l’attrice, cantante e modella tedesca Nico, che dalla Factory proveniva e che di Garrel fu compagna e musa per più di dieci anni. In sintonia con un tale contesto, quella che si dipana dalle prime opere di Garrel è una fisicità tutta particolare, ricondotta a una dimen­ sione primigenia che interroga il sociale e il politico ponendogli do­ mande la cui ragione affonda nelle profondità di ima ricerca sull’uomo e dell’uomo dentro, prima e intorno alla sua storia culturale. E perciò 7

anche dopo la sua storia culturale, in una vertigine esplorativa che nel quotidiano disegna mondi utopici, o meglio ancora disegna lo slancio utopico di un’impossibile riconciliazione. Le coordinate di questa avventura vengono utilmente tracciate da questo libro di Valentina Domenici. Tratto da una bella tesi di laurea ma­ gistrale presso l’Università Roma Tre, esso interpreta tre opere-chiave del cineasta francese secondo un punto di vista, in larga misura desunto dal modello deleuziano, capace di lavorare produttivamente i principali motivi che il cinema di Garrel mette in gioco e di legare inscindibilmen­ te tra loro il discorso sulTesperienzialità e quello sul cinema.

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Introduzione

All’interno del panorama artistico della modernità il cinema di Phi­ lippe Garrel ricopre un ruolo di indubbio rilievo e spessore. Conosciuto e studiato prevalentemente nel suo Paese, la Francia, oltre che in Italia, egli fa parte di quella generazione di cineasti che ha appreso e fatto pro­ prio il significato profondo della Nouvelle Vague, tentando di portarne avanti l’eredità attraverso il filtro di esperienze esistenziali assolutamente personali. Il percorso artistico di Garrel è stato caratterizzato soprattutto dall’ecletticità che lo ha condotto, a partire dalla metà degli anni Ses­ santa del Novecento, attraverso sentieri molto diversi tra loro: da un cinema degli esordi radicalmente sperimentale a un cinema più narra­ tivo, la cui originalità è data dalla compresenza di elementi sia classici che moderni. Il regista muove i primi passi nel cinema nel 1964, anno in cui gira, poco più che sedicenne, il suo primo cortometraggio, spinto da una pas­ sione nata osservando il lavoro del padre, Maurice Garrel, attore e ma­ rionettista, che sarà per lui una presenza costante, a volte solo simbolica e a volte concreta (Maurice Garrel è spesso interprete dei suoi film), e un suo imprescindibile punto di riferimento. I primi film, girati a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, restitu­ iscono bene, più o meno direttamente, il clima del contesto culturale, politico e sociale del periodo post-sessantotto: l’ansia e le aspettative dei giovani, il rifiuto e l’insofferenza verso le norme codificate e le con­ venzioni, gli scontri con le autorità, la profonda delusione in seguito a un mancato effettivo cambiamento sociale. Gli anni Settanta aprono invece un periodo definito dalla criti­ ca “underground”1, caratterizzato dalla collaborazione di Garrel con l’attrice e cantante tedesca Nico, che proveniva dalla Factory di Andy 1 L’aggettivo, che è in riferimento al cinema underground americano degli anni Sessanta, rimanda al carattere fortemente sperimentale dei film del secondo periodo di Garrel.

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Warhol e con la quale il regista inizia una lunga relazione sentimentale e lavorativa (i due realizzeranno ben sette film insieme). I suoi lavori a più spiccato carattere sperimentale appartengono pro­ prio a questo periodo, durante il quale egli si avvicina ai film di Warhol, la cui filmografia è caratterizzata da opere completamente svincolate da finalità puramente narrative e realizzate in modalità di produzione autonome rispetto all’industria cinematografica. Successivamente, nel corso degli anni Ottanta, Garrel sentirà l’esi­ genza di riavvicinarsi ad uno stile più narrativo e tradizionale ma non per questo più accademico, tornando a dare importanza alla sceneggia­ tura ma attingendo come sempre dal suo vissuto, dalle sue esperienze personali di uomo e di artista. Il cosiddetto ultimo periodo cinematografico del regista, inaugurato secondo molti da un film del 1989, Les baisers de secours, racchiude alcuni dei suoi film più conosciuti e memorabili, quali J’entends plus la guitare (1991), e rappresenta un ritorno delle linee di ricerca che lo avevano guidato fin dall’inizio, rese però attraverso mezzi espressivi meno sperimentali. Autore sempre sui generis nelle scelte spesso anticommerciali, Garrel si è distinto per aver ricondotto il cinema a una dimensione puramente visiva e sensoriale, restituendo valore e senso profondo al corpo, al gesto più che alla parola, o al suono, e per aver scandagliato l’immagine nelle sue componenti fondamentali e originarie, oltre che oscure e indecifrabili. Nel suo cinema si riconoscono i debiti verso l’arte di alcuni grandi cineasti, soprattutto Jean-Luc Godard (al quale Garrel è peraltro legato da una profonda amicizia), e si riscontrano influenze reciproche con altri registi, uomini di cinema e di teatro suoi contemporanei, quali Jean Eustache2 e Jacques Doillon. Nonostante le naturali evoluzioni del proprio linguaggio cinemato­ grafico (da lui stesso individuate), Garrel ha mantenuto tuttavia dei punti fermi e riconoscibili, seppur sotto forme diverse, all’intemo della sua vasta produzione filmica: in primis la costante indagine sulla genesi fi­ gurativa dell’immagine cinematografica, l’attenzione rivolta alla fisicità dei corpi e all’espressività dei volti, di cui egli traccia delle vere e pro­ prie cartografie, e l’importanza primaria accordata al ruolo della visione, 2 Garrel ha condiviso con Eustache la passione per i film dei registi francesi della Nouvelle Vague e ha ricordato l’amico, morto suicida nel 1981, in alcuni suoi film, da Elle a passé tant d’heures sous les sunlights (1984), al più recente Les amants réguliers (2005).

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attraverso la messa in scena di imo sguardo che si fa sempre portatore di senso, un senso mai pre-determinato e, anzi, in continuo divenire. Nel presente lavoro ci si è voluti occupare soprattutto del primo pe­ riodo dell’autore, al quale appartengono le opere forse più complesse e radicali ma nello stesso tempo più stimolanti e rivoluzionarie. Il punto di partenza per l’analisi di queste prime opere di Garrel è stato suggerito soprattutto dall’apporto teorico e critico dato da Gilles Deleuze, il quale ha analizzato le opere giovanili dell’autore francese in relazione ad un preciso discorso che mette al primo posto il ruolo del corpo dell’attore. Il primo cinema di Garrel si contraddistingue infatti, secondo De­ leuze, per un’importanza radicale assegnata alla dimensione del corpo, concepito non come un ostacolo per arrivare al pensiero e alla riflessio­ ne ma, al contrario, come il luogo privilegiato per accedervi. Il corpo assume in queste prime opere una funzione di primaria importanza, tan­ to da essere sottoposto a quella che Deleuze definisce una vera e propria liturgia, una cerimonia che non ha a che vedere con la religione quanto piuttosto con il mito, e che vede come protagonisti ricorrenti un uomo, una donna e un bambino. L’assenza di sonoro e di dialoghi, che caratterizza i principali film di questo periodo, accentua ulteriormente il valore del gesto, che “si fa parola”. Da ciò deriva necessariamente un interesse particolare, da parte dell’autore, per gli elementi formali che costruiscono visivamente l’immagine cinematografica, la cui composizione plastica presenta del­ le caratteristiche costanti riscontrabili, come si vedrà, in ogni film. A questo proposito si è voluto fare qui un confronto puramente te­ orico con l’arte di un grande pittore come Paul Klee, la cui tendenza a catturare la genesi del processo artistico di figurazione sembra essere condivisa, del resto, dallo stesso Garrel. Il discorso deleuziano, dal quale si è deciso di partire, rappresenta co­ munque il filo conduttore di questo lavoro, a partire dal quale trovano un senso profondo anche tutti gli ulteriori rinvii e le successive riflessioni. L’altro importante punto di riferimento impiegato come chiave di lettura dell’opera del primo Garrel, al pari della critica deleuziana, è il concetto di modernità cinematografica, così come lo ha elaborato e sviluppato Giorgio De Vincenti3. Le cifre stilistiche e tematiche del mo­ derno cinematografico sono riscontrabili prima di tutto nell’autorefe3 Tra i diversi lavori in cui la questione della modernità cinematografica viene trat­ tata da De Vincenti, si veda in particolare II concetto di modernità nel cinema, Parma, Pratiche, 1993.

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renzialità presente in molti film del regista francese, ma anche nel suo modo di guardare alla pratica di cineasta, oltre che nella scelta di ima direzione antipsicologistica del proprio cinema. Questi due poli, lo studio specifico di Deleuze da un lato e il concetto di modernità dall’altro, sono fortemente interconnessi e rappresentano perciò le due prospettive privilegiate dell’analisi qui condotta. Le cifre del moderno cinematografico hanno permesso infatti di av­ vicinare il cineasta francese anche ad un altro importante autore come Robert Bresson, con cui Garrel condivide il metodo di lavoro indirizza­ to verso un cinema anti-spettacolare, affidato all’improvvisazione e alla spontaneità della recitazione, e costruito intomo a quelli che Christian Metz ha definito gli “istanti di verità”. Al di là dei possibili e importanti rinvii teorici, le prime opere di Garrel sono state anche studiate in relazione al loro contesto storico e politico, che in alcuni casi, come quello del film Le Révélateur, si è dimostrato imprescindibile per una più profonda e articolata lettura dell’opera stessa. E soprattutto l’esperienza del Sessantotto francese, come si vedrà, ad aver segnato la vita e il cinema di Garrel e a rappresentare ancora oggi un tema sul quale il regista non si stanca di tornare. Come lui, negli stessi anni, anche altri cineasti quali Bernardo Bertolucci e Pier Paolo Pasolini si sono confrontati con i fatti politici e sociali del Sessantotto, in un gioco di rimandi e parallelismi che legano, con ottiche differenti anche se convergenti, film come Porcile (1969) e Partner (1968) ai più recenti The Dreamers (2003) o Les Amants Réguliers (2005) di Garrel. Si è voluto infine concludere questo lavoro con uno sguardo rivolto all’estetica garreliana delle opere degli anni Settanta, un periodo in cui la sperimentazione del regista (influenzato profondamente dalle avanguardie artistiche americane di quegli anni), si mescola e si alterna ad ima mag­ giore tendenza alla figurazione che ha, tra i suoi modelli di riferimento, la pittura di fine Ottocento, come ha giustamente osservato il critico france­ se Dominique Noguez, paragonando le inquadrature del film di Garrel La cicatrice intérieure (1972) ad alcune tele di Puvis de Chavannes. Attraverso l’evoluzione del suo cinema, in cui anche i lavori più re­ centi contengono dei rimandi significativi ai primi film, Philippe Garrel si è dimostrato ogni volta un autore capace di essere sia in linea che controcorrente rispetto al suo tempo, un cineasta che non ha tuttora smesso di sperimentare il mezzo cinematografico e di interrogarsi sul significato del cinema come forma d’arte. V.D. 12

Capitolo primo

Il corpo, il gesto e la politica nel primo Garrel

Con il corpo (e non più tramite il corpo) il cinema sposa lo spirito, il pensiero. (Gilles Deleuze)

1.1 Le Révélateur (1968), o la funzione rivelatrice del cinema

Gli anni Sessanta del Novecento segnano l’esordio di Philippe Garrel alla regia e, di conseguenza, inaugurano quello che può essere definito il primo periodo della sua produzione che, rispetto ai periodi successivi, si contraddistingue per una particolare originalità dei modi di espressio­ ne e per una maggiore sperimentazione del mezzo cinematografico1. Il regista francese appare da subito attratto dalla dimensione “fisica” del cinema, ovvero dalla capacità che esso ha di agire prima di tutto sul corpo dello spettatore, a livello di impulsi, e solo successivamente sul pensiero, operando quindi su diversi livelli. L’elemento puramente visivo, relativo alla composizione plastica dell’immagine, diventa quindi essenziale, fondamentale nell’esperien­ za di fruizione dello spettatore, ancora prima della definizione e del delinearsi di una storia o, per meglio dire, al di là del delinearsi di una storia da raccontare. Gli anni Sessanta non possono tuttavia essere presi in considerazio­ ne a prescindere dal più ampio contesto storico e sociale di cui fanno 1 Garrel stesso ha distinto quattro periodi del suo cinema: un Primo periodo gio­ vanile più sperimentale che racchiude i suoi film fino al 1968: un Secondo periodo cosiddetto “underground” (fino alla fine degli anni ’70) frutto delle collaborazioni con l’attrice e cantante Nico; un Terzo periodo pili narrativo, e un ultimo Quarto periodo di film più maturi definiti del “ritorno al dialogo”, inaugurato dal film Les baisers de secours, del 1989.

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parte e di cui i film di Garrel di quel periodo rappresentano una cartina di tornasole. Gli anni delle contestazioni giovanili, vissute in prima persona dal regista, e le loro dirette conseguenze sul tessuto sociale e a livello cul­ turale, hanno un peso non indifferente sui primi lavori di Garrel, anche se spesso emergono in maniera volutamente indiretta, nascosti dietro storie apparentemente intimiste e lontane da realtà politiche e attuali. Un’opera del primo periodo che risulta essere fondamentale, sotto questo e sotto altri aspetti, è Le Révélateur (1968). Il film, il terzo lungometraggio del regista dopo Anemone (1966) e Marie pour mémoire (1967), è uno dei pochi della sua intera produzio­ ne ad essere stato girato in bianco e nero e ad essere totalmente muto. Lo spettatore, sin dalle prime inquadrature, si trova di fronte a quelli che sono i tre personaggi, o sarebbe meglio dire le tre figure, intorno alle quali ruota l’intero sviluppo del film: un uomo, una donna e il loro bambino. I tre percorrono luoghi e ambienti difficilmente localizzabili geograficamente dallo spettatore (il film in realtà è stato girato in Ger­ mania), ma fortemente simbolici, come strade deserte, foreste notturne, stanze di abitazioni non ben definite. Il bambino, che appare da subito come il personaggio più importan­ te fra i tre, segue inizialmente i genitori, si fa chiamare e condurre da loro, li osserva e vi si frappone in alcuni momenti per poi, verso la fine, distaccarsene. La macchina da presa riproduce i movimenti dei personaggi attra­ verso lente e numerose carrellate, segue i loro percorsi, asseconda i loro cambiamenti di velocità e, in generale, alterna una certa frontalità ad una maggiore mobilità nelle riprese. L’assenza totale di dialoghi e di sonoro contribuisce a concentra­ re l’attenzione sui corpi e sulle azioni dei protagonisti, mentre l’uso particolare della luce crea contrasti visivi molto netti, accentuando lo scarto tra i personaggi, spesso fortemente illuminati dalla luce artifi­ ciale, e l’oscurità dei paesaggi circostanti, ripresi prevalentemente di notte. Il film costruisce, anche attraverso questi elementi, un clima di ten­ sione e drammaticità che avvolge i tre protagonisti cosi come lo spetta­ tore, e che sembra risolversi solo nelle ultime scene, seppur non com­ pletamente. Alla luce dei primi elementi evidenziati, Le Révélateur si presenta come un film fortemente ambiguo e complesso, di non facile lettura, soprattutto in quanto dichiaratamente onirico. 14

È per quest’ultimo motivo che il film è stato letto da molti, tra cui Garrel stesso, in chiave freudiana, utilizzando, per l’analisi, molte delle categorie e dei motivi della psicanalisi presenti soprattutto ne L’inter­ pretazione dei sogni. Effettivamente il film è costellato sin da subito di elementi e luoghi tipicamente onirici quali la scala, la foresta, i tunnel, le strade tortuose che i protagonisti percorrono, e si presenta muto, esattamente come si presentano solitamente i sogni. A questo proposito lo stesso regista, commentando la lavorazione del film, ha affermato: «volevo riferirmi al sogno e mi sono detto che il modo in cui si reperisce il sogno è muto [...]. Ho tentato di avvicinarmi al tipo di visualizzazione che si ha del sogno, vale a dire che non si reagisce in­ tellettualmente, che si è persi in ima specie di labirinto che si percorre»2. Al di là di questi elementi simbolici che ritornano costantemente nel corso del film e che sono evidenti da subito, l’influenza della psicanali­ si, in relazione al sogno, ha però a che vedere soprattutto con il legame che viene costruito tra la madre, il padre e il bambino. Le sequenze che a questo proposito rimandano di più ai temi freu­ diani sono quelle in cui il bambino diventa spettatore dei suoi genitori, assistendo, in alcuni casi, alla visione del loro rapporto fìsico. Garrel, quindi, mette in scena e costruisce quella che Freud definì la “scena primaria” e Lacan il “fantasma primario”, la cui visione è fondamentale nel futuro processo di crescita sessuale del bambino, e che nel film assume connotati a volte strettamente onirici, a volte espli­ citamente teatrali. In una sequenza del film, in particolare, il bambino assiste ad una vera e propria rappresentazione teatrale che ha per protagonisti i suoi genitori: i due, in un contesto verosimilmente domestico, litigano, e ad un certo punto interpellano direttamente il bambino, indicandolo dal palcoscenico. Quando i due smettono di litigare il sipario si chiude. Il ruolo dei tre personaggi del film si fa ancora più esplicitamente metaforico se si pensa al fatto che Garrel non delinea un’identità preci­ sa per nessuno di loro, ma lascia che ognuno dei tre si configuri come una figura universale. La biografìa dei personaggi, così come i loro percorsi individuali, questa volta non interessano molto al regista, il quale mette in scena 2 J.L. Comolli, J. Narboni, J. Rivette, Cerclé sous vide. Entretien aree Philippe Garrel, trad, it., in R.M. Salvatore, Traiettorie dello sguardo. Il cinema di Philippe Garrel, Padova, Il Poligrafo, 2002, p. 31.

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l’uomo, la donna e il bambino in quanto tali, ancor prima che essi ab­ biano un nome e che si esprimano attraverso il linguaggio verbale. La famiglia non è né definita né connotata in un modo particolare, ma è la famiglia primaria, matrice di tutti i rapporti sociali. La questione relativa all’assenza del linguaggio verbale è anch’essa interessante e sembra chiamare di nuovo in causa la psicanalisi di La­ can, per il quale il linguaggio provoca nell’individuo un’alienazione, un allontanamento e ima frattura rispetto alla realtà, in quanto rappresenta «un ordine simbolico che preesiste e condiziona»3. La macchina da presa, in questo senso, interviene ancor prima che il linguaggio e la parola si manifestino, e assume a tutti gli effetti una funzione, appunto, rivelatrice, contribuendo a portare alla luce i fanta­ smi edipici del bambino. Se, come si è detto, il linguaggio verbale nel film è assente, appare invece rafforzato il linguaggio del corpo, che si gioca sugli atteggia­ menti, le posture, le geometrie costruite e disegnate nello spazio. Chi ha mostrato di aver compreso soprattutto questo aspetto del cine­ ma di Garrel è stato Deleuze, il quale ha spinto le proprie riflessioni verso direzioni più lontane che, come si vedrà, convergono tutte in un discorso più profondo che ha a che vedere con la modernità cinematografica.

1.2 La “liturgia” dei corpi nel film Le Révélateur Secondo Deleuze, Garrel non si limita a focalizzare l’attenzione del­ lo sguardo della macchina da presa e dello spettatore sui corpi, ma li fa diventare addirittura il centro propulsivo dei propri film, arrivando a costruire intorno ad essi una vera e propria “liturgia”. Questa caratte­ ristica, secondo Deleuze, è riscontrabile soprattutto nei primi film del regista, in cui «la ieraticità teatrale dei personaggi [...] è sempre più ricondotta a una fisica dei corpi fondamentali»4. L’attenzione di Deleuze si è focalizzata, in particolare, sulla funzio­ ne e sul ruolo del bambino, figura ricorrente da sempre nei film di Gar­ rel e assolutamente centrale in Le Révélateur. egli, infatti, rappresenta il punto più problematico, in quanto è proprio intorno a lui che si distribu­ iscono e si compongono i gesti degli altri personaggi, gli atteggiamenti dell’uomo e della donna. 3 R.M. Salvatore, Traiettorie..., cit., pp. 31-32. 4 G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Milano, Ubulibri, 2006, p. 220.

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Nel corso del film è il bambino a determinare gli equilibri della coppia, a scardinarli per poi ricomporli, assumendo ora la funzione di spettatore-voyeur, ora quella di oggetto di sguardo e di contesa da parte dei genitori. Il corpo, ripreso da Garrel, non viene più seguito o inseguito nella sua quotidianità e meccanicità, ma introdotto all’intemo di una sorta di rito, di cerimonia fatta di posture e movimenti che acquistano un senso nuovo. I termini cerimonia e rito non devono rimandare, come sottolinea Deleuze, ad un’ipotetica religiosità insita nel cinema di Garrel, ma han­ no a che fare con l’importanza accordata dal regista al singolo gesto, con la sua capacità di ridurre la storia a un puro gioco di forze che si stabiliscono tra i personaggi. Le Révélateur rappresenta uno dei film più estremi da questo punto di vista e sicuramente uno dei più sperimentali del regista, nei quali, seguendo ancora il percorso critico tracciato da Deleuze, si possono, in generale, ritrovare entrambi i poli, sia quello del corpo quotidiano che quello del corpo cerimoniale. In alcuni casi, come ha sotto lineato il filosofo e critico francese, il cinema sperimentale monta la macchina da presa su un corpo quotidiano e su azioni normalmente considerate banali e ordinarie; in altri casi, invece, la macchina da presa costruisce una cerimonia, una liturgia nella quale il movimento si riscopre e si eleva a “gestus” dotato di per sé di importanza, a prescindere dall’in­ treccio5. In un film come Le Révélateur, infatti, l’intreccio e la storia sono annullati, ridotti ad un grado zero, e i corpi diventano i protagonisti assoluti, così come i gesti che li guidano all’interno di spazi essenziali, facendo loro tracciare traiettorie quasi geometriche. Le tre figure del film sono state anche paragonate a quelle di Maria, Giuseppe e il bambino, considerati però, come si è già accennato prima, non nel loro significato prettamente religioso, ma piuttosto in un’ottica laica, che non esclude una certa sacralità. Quest’ultima, infatti, è asso­ ciata proprio al gesto, al comportamento dei protagonisti, alle relazioni che li legano e che cambiano nel corso del film. Per questo e per altri aspetti Le Révélateur si avvicina molto ad un’altra opera di Garrel, Le lit de la vierge, girato solo un anno dopo dal regista e anch’esso incentrato su una coppia, formata questa volta da Maria e Gesù. 5 Ivi, pp. 212-213.

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Il riferimento alla religione cristiana è evidentemente più esplicito, ma il regista sceglie comunque di rappresentare i personaggi attraverso la pura forma del mito e quindi all’interno di una visione laica. Ciò che accomuna maggiormente i due film ha a che vedere, tut­ tavia, con la forma: Le lit de la vierge, infatti, come Le Révélateur, è girato in un bianco e nero quasi accecante ed è costruito soprattutto intorno al corpo degli attori, alle loro pose, al loro muoversi nello spa­ zio. Lo stile stesso di ripresa dei due film è molto simile, ed è caratte­ rizzato da lunghi carrelli in avanti e indietro e dall’alternanza di grandi panoramiche e primi piani dei volti, attraverso movimenti di macchina che a partire da un particolare arrivano gradualmente a svelare l’intero ambiente. Anche l’uso e la manipolazione del suono rivestono un ruolo impor­ tante: in numerose scene, infatti, si sentono spari assordanti senza che ne vengano mostrate le immagini e senza quindi poter vedere da dove essi provengano, lasciando così allo spettatore solo l’idea, l’eco di una guerra in corso, che resta adeguatamente fuoricampo. La parola, infine, assente in Le Révélateur, si carica in Le lit de la vierge di un senso profondo e metaforico: basti pensare, infatti, alla scena iniziale del film, in cui il protagonista, un Cristo contemporaneo interpretato da Pierre Clémenti, invoca il Padre affinché intervenga per porre fine alla sofferenza e alla violenza del mondo di oggi. Il suo è un personaggio fortemente umano, che scopre la propria fragilità e debolezza di fronte alle tragedie e alla miseria che lo circon­ dano, e che si sente inadeguato, oltre che solo, a svolgere il compito che gli è stato assegnato, quello di salvatore dell’umanità.

1.3 Un cinema del Gesto. Garrel e la rottura, tipica del cinema moderno, del rapporto tra uomo e mondo In entrambe le opere appena esaminate Garrel ci presenta dei perso­ naggi erranti, smarriti, fuggitivi da una realtà della quale non vogliono far parte e nella quale sembrano non riconoscersi, incapaci di reagire a ciò che succede intorno a loro e inermi di fronte alla desolazione e al dolore. Numerose sono le scene in cui, di fronte all’insostenibilità di ciò che vede o sente, il personaggio di Clémenti si rannicchia in una posizione quasi fetale, di difesa nei confronti di quel mondo esterno insopportabi­ le anche alla sola visione. 18

La modernità dei personaggi di Garrel, in questo come in altri film, si manifesta soprattutto nella loro ricerca d’identità che si attua, in Le Révélateur come in Le Ut de la vierge, solo attraverso la fuga e l’erranza, che tuttavia non sempre conducono alle risposte tanto agognate. Il cinema moderno mette in scena, attraverso modalità differenti, il percorso di questa crisi, che non concerne solo la dimensione indi­ viduale ma investe, in un’ottica più grande, il rapporto tra l’uomo e il mondo. La riflessione, a questo punto, si apre ancora necessariamente agli spunti fomiti da Deleuze, secondo cui il cinema moderno esprime un cambiamento radicale rispetto al cinema precedente, soprattutto il cine­ ma classico, e lo fa attraverso la messa in scena di situazioni puramente visive, nelle quali il dramma dei personaggi non concerne più l’azione, o almeno non più soltanto. E un dramma della vista, che ha a che fare con l’esperienza stessa dello sguardo. Il personaggio moderno, in particolare, non è più il semplice oggetto della visione dello spettatore, qualcuno nel quale quest’ultimo possa passivamente identificarsi, ma diventa esso stesso un soggetto impe­ gnato in una visione, come un secondo spettatore, nel quale il pubblico non può più necessariamente rispecchiarsi. Questo capovolgimento di posizioni, connesso all’atto del guar­ dare, determina un blocco evidente della fluidità della narrazione, in quanto il personaggio stesso è consegnato ad una visione e non più so­ lamente all’azione, diventando così un personaggio-medium, in grado cioè di vedere e sentire piuttosto che di agire o di raggiungere mete e obiettivi. Con il cinema moderno cambia quindi lo statuto dell’immagine, che da immagine-movimento passa ad essere un’immagine ottico-sonora pura: i personaggi garreliani sono, in questo senso, dei veri e propri veggenti nell’accezione di Deleuze, «colpiti da qualcosa di intollerabile nel mondo e confrontato con qualcosa di impensabile nel pensiero»6. Il mondo, infatti, è diventato ima realtà inaccettabile sia per gli oc­ chi, che non riescono più a sostenerne la visione, che per la parola, che non è più in grado di esprimere adeguatamente ciò che accade e che si converte spesso, per questo, in silenzio.

6 Ivi, p. 190.

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1.4 Un nuovo statuto dell’immagine: l’immagine-tempo Il cinema della modernità, come si è potuto vedere, si manifesta come un cinema fatto di personaggi veggenti e non più esclusivamente affanti, che si muovono in uno spazio che si fa esso stesso puramen­ te ottico e sonoro: in alcune scene di Le Ut de la vierge, non a caso, il paesaggio sovrasta totalmente l’inquadratura e sembra risucchiare, accorpare in sé i personaggi, che spesso risultano dei semplici punti in lontananza. Altre volte, invece, lo spazio si fa totalmente vuoto, astratto, diven­ tando direttamente superfìcie bianca, neutra, priva di ogni legame con­ venzionale con la realtà tangibile e raffigurabile. In entrambi i casi non si è più in presenza di uno spazio inteso come puro centro di forze e di mete o come semplice cornice degli avveni­ menti, ma di uno spazio che assume una propria autonomia rispetto all’azione e che può diventare il luogo in cui la dimensione mentale dei personaggi e quella reale, fìsica, confluiscono. Il nuovo statuto dell’immagine include anche una nuova concezione del tempo7, che diventa un continuum fluido nel quale vi è una totale indiscemibilità tra passato e presente, reale ed immaginario, un aspetto, quest’ultimo, altrettanto visibile in entrambi i film di Garrel. Risulta difficile, infatti, riuscire a discemere se ciò che avviene ai protagonisti sia reale o frutto della loro immaginazione, se si tratti di immagini oni­ riche o di ricordi, soprattutto perchè la memoria stessa diventa oggetto di una rappresentazione diretta. Il tempo, che tradizionalmente dipende dall’azione ed è strettamente legato al movimento, diventa con il cinema moderno un tempo non misurabile e del tutto svincolato dall’azione, un tempo non più necessa­ riamente cronologico ma, come lo definisce Deleuze, “cronico”. Lo spazio neutro di cui si è parlato precedentemente, del resto, non è altro che una rappresentazione diretta del tempo, un luogo non-luogo nel quale la dimensione fìsica e quella mentale confluiscono, fino a per­ dersi l’una nell’altra. L’avvento dell’immagine-tempo non cancella l’immagine-movi­ mento, ovvero l’immagine-azione, ma semplicemente ne ribalta il rap­ porto di subordinazione, quindi l’importanza: se con la prima, infatti, si ha una rappresentazione indiretta del tempo, facendolo diventare la 7 A questo proposito è da sottolineare che Deleuze è stato profondamente influenza­ to dalla concezione del tempo di Bergson, di cui ha commentato analiticamente l’opera Materia e memoria, del 1896.

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misura del movimento, con la seconda, al contrario, il cinema offre una rappresentazione diretta del tempo, di cui poi il movimento non è che una conseguenza. Da un punto di vista strettamente formale, secondo Deleuze, è so­ prattutto il piano sequenza a rendere visivamente questa nuova im­ magine-tempo, il quale sostituisce il ritmo del montaggio e riproduce movimenti non necessariamente verosimili alla realtà, ma anzi spesso dilatati nella loro durata. I lunghi piani sequenza, di cui il cinema di Garrel è pieno, rappresen­ tano proprio l’esplorazione di grandi o piccole regioni del passato, che non sono connesse con il presente necessariamente attraverso rapporti di causa-effetto o di logicità, ma al contrario vi si possono sovrapporre o confondere. Il crollo, la rottura di quelli che Deleuze definisce gli schemi senso­ motori, fa posto a quelle situazioni ottico-sonore di cui si è parlato e nelle quali i personaggi si perdono, mostrandosi incapaci di reagire, di dominare la realtà. È questo un altro aspetto che vale la pena sottolineare: il cinema di Garrel, in quanto cinema della modernità, mette spesso in scena degli individui scissi, fragili, in perenne conflitto con l’esterno, testimoni di una realtà intollerabile e nello stesso tempo inaffrontabile. Nonostante la frattura tra uomo e mondo appaia difficilmente sana­ bile, però, Garrel lascia comunque intravedere nei suoi film una solu­ zione, una via d’uscita che pur non risolvendo sostanzialmente il pro­ blema, riesce in ogni caso a spostare l’asse su un altro punto di vista, quello della “verità” del corpo. A questo punto occorre tornare nuovamente sulle riflessioni di De­ leuze, secondo il quale il cinema della modernità si può sviluppare e si è di fatto sviluppato attraverso filoni molto differenti tra loro per il modo di affrontare il problema della crisi dell’immagine-movimento e il conseguente avvento deH’immagine-tempo. Alcuni registi, in primis, hanno realizzato un cinema concepito come manifestazione diretta del pensiero, fatto di immagini intese come vere e proprie cartografie cere­ brali: è il caso, questo, di un cineasta come Resnais, i cui film non sono altro che lo svolgimento e la visione dei meccanismi del cervello, «[...] meccanismi mostruosi, caotici o creatori»8. Il mondo, rappresentato in questo modo, diventa esso stesso cervello e memoria, un luogo in cui si sovrappongono passato, presente e futuro, 8 Ivi, p. 141.

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senza che ci sia alcun punto di riferimento a guidare né i personaggi né lo spettatore. Il passato, in particolare, viene spesso presentato da Re­ snais come un insieme di alternative diverse ma tutte possibili e dotate di una loro verità e autonomia. Ne deriva, quindi, che non esiste un ricordo univoco, oggettivo, generalmente e universalmente condiviso. Quello della perdita di un centro è un topos rilevante in tutto il cine­ ma moderno e strettamente connesso allo statuto dell’immagine-tempo, un’immagine non più costruita sul movimento, lo spazio e la conse­ quenzialità e trasparenza narrativa, ma sulla complessa e tortuosa topo­ grafia del tempo. A differenza di Resnais, invece, altri cineasti, pur essendo approdati alla stessa crisi moderna dell’immagine-azione, vi hanno tuttavia trova­ to soluzioni differenti. Garrel, in particolare, ha diametralmente ribalta­ to l’idea di cinema espressa da Resnais, contrapponendo alla dimensio­ ne del pensiero (seppur inteso concretamente e non in senso astratto o psicologico), quella del corpo.

1.5 La “verità” del corpo Laddove il pensiero non è più in grado di pensare il mondo, poiché diventato intollerabile, inaccettabile, emerge per il cineasta la necessità di pensare e credere ad un’altra realtà, quella del corpo, della carne. Solo attraverso la credenza nel corpo, infatti, si potrà riacquisire anche una certa credenza nel mondo. I film più sperimentali di Garrel non esprimono altro che questa vo­ lontà, quella di «rendere le parole al corpo, alla carne»9 Da questo punto di vista, per esempio, Deleuze parla del cineasta francese e di un regista teatrale come Artaud negli stessi termini, ovvero come di due artisti che si sono voluti rimpossessare della dimensione fisica e non più psicologi­ ca del cinema e del teatro, come via privilegiata per accedere alla vita. Il corpo è anche ciò che mette l’uomo in rapporto diretto con il tem­ po, in quanto contiene esso stesso già il passato e il presente, è rivela­ tore del prima e del dopo, e quindi si sposa perfettamente con il nuovo statuto deH’immagine-tempo: il corpo racchiude la cartografìa del tem­ po, il tempo personale e interiore di ognuno. La direzione intrapresa da Garrel risulta ancora più evidente se si pensa al suo modo di concepire l’attore e il personaggio e se lo si pa­ 9 Ivi, p. 193.

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ragona a quello concepito da Resnais. Se quest’ultimo, infatti, non era interessato tanto al personaggio in sé ma piuttosto ai sentimenti che lo muovevano, spesso legati ai meccanismi della memoria in relazione al presente, Garrel dimostra piuttosto di essere interessato a come quegli stessi sentimenti si manifestano attraverso i movimenti esteriori dell’at­ tore, attraverso le pause del suo corpo, le sue resistenze, le sue posture, il suo rapporto con lo spazio circostante. Quest’attenzione per la “verità” del corpo spiega anche ulteriormen­ te perché il regista, sia in Le Révélateur che in Le Ut de la vierge, non abbia voluto indagare l’aspetto religioso della Trinità, ma solo quello legato al mito e alla storia. Il personaggio interpretato da Clémenti, in­ fatti, è un Cristo moderno, nel quale confluiscono insieme sia la figura del bambino, con il suo approccio ingenuo alla realtà, sia quella del primo o dell’ultimo uomo della Terra. Ciò che interessa veramente Garrel, come ha ancora evidenziato De­ leuze, sono gli esseri prima che essi vengano nominati, prima che gli vengano attribuiti discorsi e parole: i loro corpi sono corpi primordiali, l’Uomo, la Donna, il Bambino, nella loro accezione sia individuale che universale. Ancora una volta Garrel ha mostrato un modo alternativo di entrare nel personaggio, non attraverso la strada della psicologia o della pura costruzione narrativa, ma puntando al cuore della sua violenza emo­ tiva. Ritrovare il mondo e recuperare quella credenza in esso che è andata perduta significa, per il regista, ritornare al di qua delle parole, del ver­ bo, dei codici espressivi tradizionali, riconsiderando il valore e l’impor­ tanza del gesto inteso non come mera azione svincolata dal pensiero, ma come nuova dimensione comunicativa. Da ciò deriva inevitabilmente che «il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per ar­ rivare a pensare. Al contrario è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato, cioè la vita»10.

1.6 La dimensione politica nei film Le Révélateur (1968) e Le Ut de la vierge Gli aspetti e le riflessioni fin qui emersi, benché fondamentali per comprendere a fondo la modernità del cinema di Garrel, non risultano 10 Ivi, p. 210.

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comunque del tutto sufficienti ad interpretare un’opera ambigua e par­ ticolare come Le Révélateur. Come è stato detto, il film ha a che vedere con le dinamiche oniriche e dell’inconscio e rispecchia, soprattutto per la simbologia dei luoghi e per l’assenza di sonoro, la rappresentazione stessa tipica del sogno; il titolo, in particolare, fa riferimento alla capacità della macchina da presa di rilevare e mettere in superfìcie i desideri e le pulsioni inconsce del bambino protagonista, ma anche quelle relative alla coppia uomodonna. Nonostante, quindi, il film si presti evidentemente ad una lettura di tipo psicanalitico, può tuttavia essere anche analizzato attraverso ima diversa prospettiva che, pur avendo anch’essa agganci esterni al testo filmico, non è collegato alle dinamiche e alle categorie della psicanalisi ma è invece connessa al contesto storico che precede e segue la realiz­ zazione del film. Garrel realizza Le Révélateur nei mesi che precedono il 1968 e deci­ de di girarlo in circa una settimana con una piccola troupe, interamente fuori dalla Francia, in Germania, nei pressi di Monaco. Nonostante quindi la lontananza geografica dell’ambientazione del film e l’apparente mancanza di legami con la realtà francese sia politica che sociale di quel periodo, l’influenza di ciò che stava accadendo a Parigi in quei mesi ha avuto un impatto comunque decisivo sul lavoro del regista. Il film mostra una famiglia in fuga da una supposta guerra, vittima di un dramma che non è solo interiore ma che ha a che vedere anche con la mancanza di libertà e con la conseguente esigenza di ribellione, senza che pure queste realtà siano mostrate apertamente dal regista. Garrel evita di fare un film dichiaratamente politico, preferendo alla narrazione dei temi legati all’attualità parigina di quei mesi, una pura narrazione delle emozioni che guidano i personaggi. Come ha osservato Stefano Della Casa, «Garrel riconduce la battaglia nell’alveo di una re­ lazione tra individui. Un apparente microcosmo in cui è contenuta una visione del mondo»11. Dell’attualità francese del ’68 si ha quindi solo un eco nel film, pro­ iettato sugli atteggiamenti dei personaggi, sulle loro azioni, sul loro modo di rapportarsi agli ambienti che li circondano. 11 S. Della Casa, Guardate i nostri film, si avanza senza armi, a mani nude, in S. Della Casa, R. Turigliatto (a cura di), Philippe Garrel, Torino, Lindau, 1994, pp. 7374.

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I movimenti della macchina da presa, che li segue con lunghe e continue carrellate, rendono bene l’angoscia dell’essere pedinati, ac­ cerchiati, oltre che l’ansia della fuga verso una meta mai del tutto iden­ tificabile né concretamente raggiungibile. I protagonisti vivono in imo stato di continua emergenza e in un clima di morte e desolazione: perduti in luoghi anonimi e a loro ostili, sembrano fuggire da un nemico comune ed essere alla continua ricerca di aiuto. In una scena del film, spesso non ricordata, il personaggio del pa­ dre, interpretato da Laurent Terzieff, entra durante la fuga in una cabina telefonica pubblica. Non ci è dato sapere con chi stia parlando ma le parole da lui pronunciate, senza sonoro, amplificano la sensazione di totale isolamento e di angoscia, il disperato bisogno di comunicazione interrotto o reso impossibile. Un clima di tensione analogo è rintracciabile, in maniera forse più estrema, anche in Le Ut de la vierge, nel quale la paura e la sofferenza vengono rappresentate più esplicitamente nel corso del film: il lungo percorso della passione del protagonista, infatti, lo vede assistere a sce­ ne di torture e di violenza, a lotte ed ostilità tra gli uomini, diventati ormai indifferenti al dolore altrui. Alcuni momenti del film sono, da questo punto di vista, emblematici e significativi: in una scena fra tutte, in particolare, Maria apre una cas­ sa di cui la macchina da presa svela il contenuto, mostrando immagini drammatiche e di forte impatto relative a persone imprigionate, tortura­ te o addirittura uccise. In altre scene, come si è detto, è la guerra stessa ad essere evocata in maniera evidente, seppur non tramite immagini dirette, ma attraverso la presenza continua e martellante di suoni off di sirene ed esplosioni. Il Cristo interpretato da Clémenti, come dichiarò Garrel stesso, è da un lato una figura mitica ed allegorica trasposta in tempi moderni, ma dall’altro rappresenta semplicemente un uomo, che prende atto della follia del mondo e che vorrebbe per questo sottrarsi al compito troppo grande assegnatogli dal Padre. Il film infatti, come è stato osservato, non pone la questione dell’esi­ stenza o meno della divinità di Cristo, ma piuttosto mette in luce il pro­ blema del suo impossibile ritorno, della sua impossibile resurrezione in un mondo dominato dall’irrazionalità e nel quale è sempre più diffìcile credere. Le Ut de la vierge si gioca proprio su questo scarto: da un lato il bi­ sogno, insito nella natura umana, di credere in qualche verità assoluta, e 25

dall’altro l’impossibilità di riuscirci concretamente perché la realtà, con il suo dolore, sovrasta e rende vano ogni tentativo. In entrambi i film Garrel si è servito del cinema per denunciare im­ plicitamente ciò che stava accadendo durante i mesi del Sessantotto francese, in particolare il clima di forte tensione tra i giovani contestatori e la polizia, le dimostrazioni pubbliche degli studenti e la dura repressione da parte delle forze dell’ordine, tutte esperienze vissute di­ rettamente dal regista, che all’epoca aveva solo vent’anni12. Le Ut de la vierge, come Le Révélateur, è un film che fa i conti con quella pagina di storia, parte dalle sue rovine, ne mostra le ferite ancora aperte e forse insanabili, prospettando un futuro non migliore del pas­ sato. Le due opere mettono quindi in scena delle variazioni sullo stesso atto di accusa rivolto contro ogni forma di ordine, di autorità, di domi­ nio. Il volto di queste forme può essere ugualmente la legge, la figura del padre, l’insieme delle regole sociali. La denuncia, in particolare, di una società ancora fortemente patriar­ cale e nella quale la libertà di pensiero e di manifestazione delle idee è ancora un lusso da conquistare, è molto forte, e rappresenta la presa d’atto di un’intera generazione che in quegli anni trovò il coraggio di ribellarsi contro le maggiori forme di potere, anche solo simbolico, e di autorità. Il tentativo di rivolta, soprattutto nei due film analizzati, passa ne­ cessariamente attraverso quella che è definita freudianamente l’ucci­ sione del padre come simbolo dell’autorità, della regola, del divieto. Questa uccisione avviene in due modi diversi in Le Révélateur e in Le Ut de la vierge'. nel primo film è il bambino a mettere in crisi la coppia, il loro equilibrio, amando la madre e allontanando il padre, che diventa da subito l’elemento di disequilibrio del triangolo. Nel secondo, invece, Clémenti si ribella alla volontà imposta dall’alto dal Padre, non ricono­ scendosi nel ruolo che gli è stato assegnato e rispetto al quale si sente inadeguato. Al di là di questi due casi più evidenti, l’intera filmografia di Garrel vede costantemente la presenza simbolica del Padre, come figura con la 12 II regista, particolarmente segnato da quel periodo, aveva già ripreso nel 1968 le azioni dei dimostranti durante il “maggio francese”, all’interno del progetto di un corto­ metraggio collettivo intitolato Actualités révoìutionnaires N. 1, andato poi perduto. Il tema del ’68 ritorna nel cinema di Garrel anche in tempi più recenti: nel 2005, infatti, egli gira Les arnants réguliers, un film interamente ambientato a Parigi durante il periodo delle contestazioni giovanili e girato volutamente in bianco e nero.

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quale da un lato è fondamentale e imprescindibile confrontarsi ma che, dall’altro, va necessariamente contestata e superata. Un’altra figura altrettanto importante, soprattutto in relazione a ciò che concerne la dimensione politica del cinema di Garrel di quegli anni, è quella della donna. Quest’ultima, negli anni della realizzazione de Le Révélateur e Le Ut de la vierge, comincia a non essere più considerata soltanto un’icona da contemplare o venerare, ima musa ispiratrice per l’artista, ma inizia ad assumere un ruolo più realistico e meno idealizzato. La donna del cinema di Garrel agisce, rivendica il suo diritto a compiere delle scelte, a decidere della sua vita, ad essere indipendente dall’uomo. Questo aspetto, apparentemente in secondo piano, basta in realtà, da solo, a rendere lo spirito di un preciso momento storico. È la donna, in molti casi, a scatenare il conflitto all’interno della cop­ pia, a rompere i suoi equilibri, a determinare la separazione e il distacco dal partner. La partecipazione attiva della donna, insieme ad una crescente con­ sapevolezza di sé, mette in crisi le certezze dell’uomo, e di riflesso quel­ le del sistema di ruoli all’intemo della famiglia. Proprio attraverso la rappresentazione di un nucleo familiare, che come si è detto va considerato il nucleo familiare primario, il regista riesce quindi a costruire il ritratto di una generazione e delle sue rivolu­ zioni, dei suoi risultati e dei suoi insuccessi. Garrel, come ha efficacemente sottolineato Stefano Della Casa, è un autore figlio del suo tempo, ovvero figlio degli anni Sessanta e Settanta e di una «controcultura che mescolava psichedelia, impegno politico, psicanalisi e sperimentazione testuale: una coscienza espansa che lotta contro il potere soprattutto perché il potere non può essere ricettivo rispetto alle nuove emergenze»13. Queste considerazioni risultano particolarmente vere e calzanti se si pensa proprio all’intera prima produzione del regista, quella giova­ nile, caratterizzata come si è visto da film molto diversi l’uno dall’altro (alcuni più sperimentali, altri più intimisti), ma tutti riconducibili allo stesso clima culturale di quegli anni, e tutti uniti dal filo rosso della contestazione, espressa nelle sue forme più rivoluzionarie.

13 S. Della Casa, R. Turigliatto (a cura di), Philippe Garrel, cit., p. 71.

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1.7 II Sessantotto attraverso gli occhi di Garrel, Pasolini e Bertolucci Negli stessi anni di Le Révélateur e Le Ut de la vierge uscivano due film uniti anch’essi dal tema della contestazione e del Sessantotto: Part­ ner (1968) di Bernardo Bertolucci e Porcile (1969) di Pier Paolo Pasoli­ ni, entrambi interpretati dall’attore francese Pierre Clémenti, protagoni­ sta anche di Le Ut de la vierge e di molti altri film di Garrel. La realtà del Sessantotto, vissuta da ognuno dei tre autori con espe­ rienze diverse eppure comuni, è rappresentata da Pasolini e Bertolucci soprattutto attraverso il suo impatto e le sue conseguenze indirette sul­ la società (di cui viene fatta una parabola grottesca e tragica al tempo stesso), e da Garrel attraverso un’opera come Le Révélateur, a carattere prevalentemente onirico. Nel film di Pasolini, ancora più che in quello di Bertolucci, la forte critica sociale avviene attraverso l’uso della metafora, come suggerisce il titolo stesso dell’opera: il porcile, infatti, è lo status in cui si trova la società occidentale capitalistica, che promuove l’omologazione ad ogni costo e reprime qualsiasi voce dissidente. AH’intemo di questo analogo contesto sociale, entrambi i registi mettono in scena una coppia di personaggi antitetici: da un lato un per­ sonaggio più sovversivo, ribelle alla società e al suo sistema di valori; dall’altro uno incapace di agire, di disobbedire in alcun modo alle rego­ le e di prendere posizione. In Porcile questa ambivalenza si snoda attraverso le due storie pa­ rallele del personaggio interpretato da Clémenti, che rappresenta il di­ sobbediente, e quello di Jean-Pierre Léaud, l’ignavo, un giovane inca­ pace di prendere decisioni, che rifiuta il sistema ma non lo combatte, caduto in un “grande sonno” dal quale non riesce né vuole svegliarsi. Entrambi saranno destinati ad essere divorati (sia letteralmente che metaforicamente) da una società che non permette né rivoluzioni né cambiamenti. Anche Bertolucci, in Partner, mette in scena un simile dualismo, tramite lo sdoppiamento del protagonista, che trova nel suo sosia un alter ego capace di agire e di rendere concrete quelle che in lui restano delle aspirazioni impossibili da attuare. In queste due opere, i cui finali hanno risvolti differenti, il Sessan­ totto diventa una simbologia molto forte della rivoluzione intesa come cambiamento, dinamismo contrapposto alla staticità del potere, ma an­ che come profonda utopia, come un obiettivo la cui realizzazione ha però un prezzo molto alto. 28

Se si pensa, a questo punto, all’universo del cinema di Garrel e spe­ cialmente ad un’opera come Le Révélateur, il rimando più evidente è però ad un altro lavoro di Bertolucci, il più recente, dal titolo The Dreamers (2003). In questo film, girato e ambientato in Francia, i protagonisti vivono un Sessantotto del tutto personale, lontani dalle barricate, dalle mani­ festazioni, dalla realtà che pure fuori imperversa con la sua violenza, restando in un isolamento volutamente costruito. Esattamente come accade in Le Révélateur, il luogo nel quale i per­ sonaggi si muovono è un non-luogo, un ambiente simbolico che sem­ bra essere sospeso in un tempo non definibile, apparentemente lontano dall’attualità del reale. La sensazione che si ha in entrambi i film è quella di una reclusione, che in The Dreamers è ricercata dai protagonisti e avviene prevalente­ mente in un unico spazio chiuso (che è quello di un appartamento bor­ ghese), mentre in Le Révélateur è piuttosto una segregazione subita. Il Sessantotto è rappresentato comunque dai due autori come un’esperienza prima di tutto personale, di formazione, vissuta attra­ verso una trasgressione che non riguarda la sfera pubblica ma quella intima, privata. Al termine di questa esperienza, che si manifesta prin­ cipalmente come viaggio alla scoperta della sessualità (sia essa quella adolescenziale o connessa alle dinamiche e ai rapporti all’interno del nucleo familiare), i protagonisti si scopriranno profondamente cambiati e partiranno da esigenze nuove. La rivoluzione del Sessantotto è anche strettamente connessa alla “rivoluzione” dell’esperienza psicoanalitica dell’inconscio, sulla quale si gioca il senso profondo delle due opere. I protagonisti dei due film, non a caso, vivono un’esperienza anche metaforicamente onirica, fuori dalla realtà contingente e nello stesso tempo determinata da essa. Nel film di Bertolucci il sogno finisce necessariamente con il prorompe­ re della realtà esterna, che scuote i personaggi e li costringe ad uscire dal loro isolamento e ad agire; nel film di Garrel, invece, il confine tra sogno e realtà resta costantemente labile e confuso, fino ad una totale indiscemibilità tra i due piani.

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Capitolo secondo

Un punto di riferimento importante: Robert Bresson

Il cinema sonoro ha inventato il silenzio. (Robert Bresson)

2.1 L’influenza delle riflessioni teoriche di Bresson sul modo di operare di Garrel

L’approccio di Philippe Garrel al cinema e alla lavorazione dei suoi film, come si è visto, è decisamente particolare rispetto a quello di molti altri autori della sua stessa generazione e presuppone una concezione del mestiere di cineasta anche come pratica esistenziale profonda, pun­ to di partenza e di arrivo di ogni lavoro. Dietro al suo modo di concepire la realizzazione di un’opera, ma an­ che la composizione deH’immagine cinematografica fino all’esperienza stessa del set, è possibile rintracciare in maniera evidente la lezione di un grande autore francese, Robert Bresson. L’influenza di Bresson sul cinema di Garrel, anche se raramente di­ chiarata in maniera esplicita da quest’ultimo, è tuttavia riscontrabile soprattutto nel suo metodo di lavoro, dettato da determinate premesse teoriche che ne orientano il senso. Risulta quindi necessario approfondire dapprima il metodo di Bres­ son, per poi osservare quali elementi teorici e formali sono estendibili e riscontrabili, con le dovute ed evidenti differenze, anche nel cinema di Garrel. L’importanza di un autore come Bresson è stata da sempre giusta­ mente individuata soprattutto nelle sue scelte formali, di stile e di lin­ guaggio, che hanno contraddistinto in maniera coerente ogni sua opera, 31

tanto da poter rintracciare una vera e propria cifra estetica costante del suo cinema, che potrebbe tradursi bene nel concetto generale di sottra­ zione. Il regista francese, infatti, ha costantemente realizzato film formal­ mente minimali, asciutti, in cui la riduzione della forma all’essenziale, ricercata e voluta, diventa fonte di profondi e molteplici significati, al di là dei temi e delle storie portate sullo schermo. Da ciò deriva necessariamente il rifiuto di forme stilistiche sovrab­ bondanti ed eccessive che, secondo Bresson, producono un impoveri­ mento del linguaggio audiovisivo e non un suo arricchimento: è quanto emerge dalle famose Note sul cinematografo scritte dall’autore, che racchiudono molte delle sue principali considerazioni teoriche sul ci­ nema. Il regista francese aveva, a questo proposito, definito più volte il suo metodo un “anti-sistema”, sottolineando così la sua lontananza dall’idea di cinema inteso come spettacolo e come industria e presen­ tandosi quindi da subito attraverso il segno della differenza. Da un punto di vista prettamente stilistico e formale la sobrietà del linguaggio bressoniano si traduce in primis nell’uso particolare del so­ noro, spesso completamente assente o comunque rarefatto, e nel tipo di inquadrature scelte: Bresson, solitamente, preferisce evitare le inqua­ drature lunghe e predilige, invece, riprendere soprattutto piccole por­ zioni dello spazio, dettagli anche minuziosi della realtà circostante. Egli, in particolare, «resta ancorato a primi e primissimi piani, in­ daga la realtà attraverso la macchina da presa, cui viene attribuito - sia pure senza proclami - un ruolo di disvelamento dell’immanente»1. Non si possono non ricordare, a questo proposito, le considerazioni fatte da André Bazin2 sul modo dell’autore francese di riprendere i visi dei suoi interpreti, di cui il più memorabile è senza dubbio quello del protagonista di Journal d’un cure de campagne, “ridotti all’epidermi­ de” e ripresi nella loro essenzialità espressiva. Questo stile, e soprattutto la suddetta utilizzazione del sonoro in rap­ porto aH’immagine, spinge lo spettatore alla massima concentrazione e attenzione, finalizzate a cogliere particolari fìsici dei personaggi, ol­ tre che sfumature relative al loro stato d’animo e alla loro intimità che resta, tuttavia, sempre difficilmente afferrabile. Lo spettatore, più pre­ cisamente, «è sollecitato a una lettura appassionante e difficile, a uno 1 M. Comand. R. Menarmi, Il cinema europeo, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 123. 2 G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Parma, Pratiche, 1993, cap. 2.

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strenuo esercizio della fantasia e dell’intelligenza, a un lavoro continuo di decifrazione e integrazione [,..]»3. È soprattutto in questi aspetti che si possono riscontrare delle affinità significative tra i due cineasti francesi: per entrambi il senso di un film è qualcosa che si gioca soprattutto in superfìcie, da un lato attraverso la materialità dei volti degli attori e la loro fisicità, dall’altro tramite il ricorso a una voluta essenzialità e sobrietà formale. Anche per Garrel il sonoro può non necessariamente arricchire un’immagine, completarla e, anzi, spesso la impoverisce, ne sminuisce il valore e la potenza visiva, in quanto può rappresentare un elemento sovrabbondante e quindi poco efficace.

2.2 La parola, la sua assenza e il lavoro dell’attore L’immagine cosi definita e costruita dai due autori, svuotata di ogni orpello puramente decorativo o accessorio, riscopre una nuova dimen­ sione comunicativa, affidata al valore del gesto più che della parola e, laddove manchi totalmente quest’ultima, all’espressività degli attori, oltre che alla loro presenza scenica. Bordwell e Thompson, a proposito del ruolo e dell’uso del suono nel cinema di Bresson, hanno osservato che «spiccando su uno sfondo di pervasivo silenzio, ogni oggetto di un film di Bresson acquista un personale sapore acustico»4. Ancora una volta, quindi, si ritoma al rigore formale bressoniano, attraverso cui proprio ciò che non è evidenziato dalla macchina da pre­ sa emerge in tutta la sua efficacia ed evidenza e si carica di un valore nuovo e profondo. Il risultato verso cui confluiscono entrambi i cineasti francesi, quin­ di, è quello di un cinema antipsicologistico: l’attore viene spogliato di ogni possibile valenza psicologica, legata tradizionalmente all’attribu­ zione di ruoli o identità precise e vincolanti, ed esprime la propria in­ teriorità attraverso la concretezza dei propri movimenti e il linguaggio del proprio corpo. Nel cinema di Garrel questo discorso si estremizza, in quanto il ge­ sto può essere addirittura svincolato dalla parola, non è più legato ad 3 A. Ferrero, N. Lodato, Robert Bresson, Milano. Il Castoro, 2004, p. 143. 4 D. Bordwell, K. Thompson, Storia del cinema e dei film, dal dopoguerra a oggi, vol. n, Milano, Il Castoro, 1998, p. 178.

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essa da relazioni di causa-effetto ed assurge spesso ad una posizione di autosufficienza: Thierry Jousse ha parlato di Garrel come di colui che ha riproposto, dopo Godard, un cinema “intransitivo”, in cui tra parola e azione non esiste più una corrispondenza diretta e necessaria, né i gesti dei personaggi sono indirizzati sempre verso uno scopo preciso, una finalità ultima5. La parola, anzi, appare spesso svuotata di senso e rende evidente, come nel cinema di Godard, l’assenza di un rapporto lineare con le cose; ne deriva che i personaggi o non riescono a comunicare adeguatamente tramite il linguaggio verbale, o sono sommersi da flussi di parole che finiscono col risultare vane e insignificanti. Ecco che, allora, la parola assume più importanza per la sua assenza piuttosto che per la sua presenza: quando essa manca, infatti, sono i gesti, è il corpo a sostituirla, caricandosi di forti e suggestive valenze comunicative; come ha affermato ancora Jousse, nel cinema di Garrel è «il gesto che diventa parola»6. Questo spiega perché anche nei film parlati di Garrel la parola sia sempre ugualmente circondata e incorniciata dal non detto, dal non ri­ velato, o come minacciata di ricadere da un momento all’altro nel si­ lenzio. I film di Bresson, dall’altro lato, sono caratterizzati sempre da ima forte parsimonia di dialoghi, anche quando la drammaticità di una sce­ na o di una situazione sembrerebbero richiederli, e la sua macchina da presa risulta spesso schiva e reticente nel riprendere i momenti di mag­ gior pathos o di svolta all’intemo della storia. L’attore, da parte sua, sottratto a ogni attribuzione identitaria e di ruolo, diventa piuttosto « una sorta di dispositivo, di punto centrale at­ traverso il quale affiorano gesti, affetti e parole »7, il centro dal quale le emozioni emergono e si esprimono prima di tutto a livello fisico e quasi epidermico. A questo proposito è interessante notare come Garrel, pur facendo ripetere la parte più volte ai suoi attori, si affidi spesso a una sola ri­ presa, così da catturare in pieno la loro naturalezza, che può includere anche elementi non previsti, che arricchiscono l’esperienza della messa in scena: per lui, come per Bresson, è fondamentale tendere verso un di più di realtà anche nella recitazione, limitando ogni tipo di artificio o 5 T. Jousse, Garrel: Là où la parole devient geste, in J. Aumont (a cura di), L ’image et la parole, Paris, Cinémathèque Fran^aise, 1999. 6 Ivi, p. 199. 7 R.M. Salvatore, Traiettorie..., cit., p. 20.

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automatismo. Non è un caso, infatti, che quest’ultimo abbia sostituito la definizione di attore con quella di modello. Il cinema, secondo Bresson, non dovrebbe servirsi di attori che recitano una parte (di cui invece si serve il teatro), ma di modelli presi direttamente dalla vita, che non si limitano ad apparire ma vivono, esistono, palpitano sullo schermo. Se i primi, nell’ottica del regista francese, risultano inevitabilmente ancorati alle regole implicite dello star system e ad una recitazione artificiosa, i modelli, al contrario, sono gli unici capaci di restituire la vera essenza e intensità delle emozioni così come esse sono nella vita.

2.3 La costruzione visiva dell’immagine e il rapporto con il suono I due cineasti francesi sono accomunati, come si è visto, anche dal modo di comporre e costruire visivamente l’immagine cinematografica e, in particolare, dal valore che accordano al fuoricampo: per entram­ bi, infatti, il fuori campo sia visivo che sonoro assume un’importanza tutt’altro che secondaria. In Garrel l’uso del fuoricampo rimanda emblematicamente all’as­ senza, alla dimensione del non visibile che, come si è detto, è inscritta nel visibile stesso e ne rappresenta la condizione di esistenza; più pre­ cisamente è il luogo in cui si nega la visione, la zona d’ombra dell’immagine in cui tuttavia si gioca il massimo del senso. In maniera analoga, se non addirittura più estrema, «i film di Bresson mostrano poco ma suggeriscono molto: spesso gli eventi più importanti avvengono fuori campo o addirittura in sequenze tralasciate [...]»8 e i personaggi sono ripresi frequentemente anche di spalle o comunque attraverso primi piani che negano una visione d’insieme. Philippe Arnaud9 ha parlato di un vero e proprio “effetto di metoni­ mia” a proposito delle riprese bressoniane: secondo lo studioso france­ se, infatti, la macchina da presa di Bresson si mantiene costantemente alla periferia dell’azione, ovvero non riprende mai il centro dell’azione stessa attraverso inquadrature totali e, in questo modo, fa sì che sia il particolare o l’inquadratura parziale a suggerire, per contiguità, ciò che sta accadendo. Questo effetto volutamente ricercato fa sì che le immagini cosiddette periferiche vibrino e si carichino ogni volta di una particolare tensione 8 D. Bordwell, K. Thompson, Storia del cinema.... cit., p. 111. 9 P. Amaud, Robert Bresson, Paris, Editions Cahiers du cinéma, 1986, p. 26.

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che tuttavia non si libera mai esplicitamente e completamente, almeno a livello visivo, per tutta la durata del film. I due cineasti francesi, allora, appaiono più vicini di quanto si potrebbe pensare e da un confronto attento si può osservare come Garrel abbia continuato dopo Bresson, più o meno consapevolmente, a sostenere un forte rifiuto per ogni forma o regola cinematografica tradizionale e consolidata, intraprendendo una ricerca verso l’attua­ zione di un diverso tipo di cinema, fondato su nuovi presupposti e obiettivi. Tra le riflessioni teoriche di Bresson che sembrano aver inciso mag­ giormente sul cinema di Garrel, le più significative sono quelle relative ai nuovi rapporti che dovrebbero instaurarsi tra l’occhio e l’orecchio, ovvero tra immagine e suono. Bresson afferma: «se l’occhio è completamente conquistato, non dare nulla o quasi nulla all’orecchio [...]. Quando un suono può sosti­ tuire un’immagine, sopprimere l’immagine o neutralizzarla. [...] Un suono non deve mai venire in aiuto a un’immagine, né un’immagine in aiuto a un suono»10. Come ha osservato giustamente Alfonso Canziani, Bresson è sta­ to uno dei pochi registi ad usare il sonoro «elevandolo a equivalente dell’immagine visiva»11, intuendo in questo modo, prima degli altri, le risorse di questo mezzo relativamente recente. I suoni, nei film di Bresson, sono come prelevati dal regista, isolati nella loro potenza comunicativa e separati dall’immagine, così da as­ sumere un valore autonomo, che prescinde dalla visione e costringe lo spettatore a focalizzare la propria attenzione su particolari sempre di­ versi; in linea con la logica bressoniana della frammentazione, il suono è quindi usato in un rapporto di sostituzione rispetto alle immagini, per cui imo non si sovrappone all’altra e viceversa, attraverso uno scambio reciproco. E proprio il suono ad attestare ciò che accade e che resta fuoricam­ po, che, come si è visto, non è mai superfluo o necessariamente in se­ condo piano rispetto a ciò che invece viene mostrato dalla macchina da presa di Bresson. Queste ed altre considerazioni contenute nelle Note del regista, tanto lapidarie quanto significative, riassumono il suo modo di concepire il linguaggio audiovisivo e rimandano a quella tendenza alla riduzione 10 R. Bresson. Note sul cinematografo, Venezia. Marsilio, 2003, pp. 57-58. 11 A. Canziani, Robert Bresson, Milano, Silva Editore, 1965, p. 76.

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all’essenziale di cui si è già parlato; Garrel, da parte sua, sembra averle comprese profondamente in quanto le ha applicate in molte delle sue opere e, in maniera più evidente, in alcune. Film come Le Révélateur (1968) o Les hautes solitudes (1974) o an­ cora Le blue des origines (1978), sono caratterizzati dalla totale assenza sia di colonna sonora che di dialoghi parlati, e rappresentano il risulta­ to più alto del lavoro di spoliazione sonora ma anche visiva ricercato da Garrel; in queste opere la mancanza del sonoro è compensata dalla grande forza visiva delle immagini, che non hanno bisogno di accom­ pagnamenti musicali che risulterebbero semplicemente inutili12. La comunicazione messa in atto da Garrel non presuppone tanto, in quei casi, l’uso della parola, del linguaggio verbale, ma si gioca invece su livelli diversi, ognuno dei quali ha a che vedere con aspetti puramen­ te formali del film quali la luce, l’uso del colore o del bianco e nero, i movimenti dei corpi nello spazio. L’espressività della recitazione, quindi, non deve essere necessaria­ mente il risultato di procedimenti esterni o anche semplicemente della comunicazione verbale, ma può nascere dal viso stesso dell’attore o affidarsi al linguaggio del suo corpo. Anche dal punto di vista della messa in scena e del montaggio le analogie tra i due autori continuano a farsi evidenti, poiché l’obiettivo di entrambi è l’essenzialità figurativa che riguarda anche gli spazi e i luoghi: come nel cinema di Bresson, anche in quello di Garrel si colgo­ no solo frammenti o porzioni sia degli intemi che degli esterni, senza che ne sia data mai una visione totale d’insieme. Spesso di una città vengono mostrate zone e strade ambigue e total­ mente anonime, riprese in momenti di desolazione e solitudine; degli interni, invece, ciò che colpisce è la povertà e la nudità degli arredi e delle stanze, dominate da pareti vuote e monocromatiche. Gli spazi, desolati e silenziosi, diventano paradossalmente quasi so­ nori, si fondono con i personaggi e fanno da cornice ai loro silenzi e ai loro movimenti. Il suono, così come la parola, riesce a comunicare profondamente anche quando è assente e quando la sua mancanza, anzi, non è sentita come tale, in termini di privazione o negazione, ma appare come strut­ turale rispetto al film e alla narrazione. 12 Per quanto riguarda Le Révélateur il discorso sull’assenza del sonoro si arricchi­ sce ulteriormente, in quanto si tr atta di un film dichiar atamente onirico, come si è detto nel primo capitolo di questo lavoro.

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La mancanza di arricchimenti scenografici e la più generale sobrietà formale rimandano anche al fatto che Garrel ha spesso lavorato con budget molto ridotti, occupandosi lui stesso degli aspetti tecnici dei film e comportandosi quindi da autore assoluto delle sue opere. Questa condizione è stata dapprima, all’inizio del suo percorso come cineasta, una scelta obbligata e dettata dalla difficoltà a trovare dei produttori, per poi diventare, in seguito, una decisione consapevole e perfettamente in linea con i presupposti estetici del suo cinema. Si è anche parlato, a questo proposito, di un “cinema della povertà”, nel quale ci si sforza di ottenere il massimo dei risultati a partire da mezzi ridotti al minimo, lavorando, come è successo a Garrel, ai margi­ ni dei grandi sistemi di produzione. Come ha osservato il critico Jean-Sébastien Bouilloux sulla stori­ ca rivista francese di cinema Bande a part, «Garrel est encore un des demiers cinéastes pour lequel le mot magie du cinéma signifie: loin de l’effet spectaculaire, ses films naissent avant tout de sa jubilation à fìlmer, à capter les étres, à captiver les sens du spectateur [. ..]. Le cinéma fait partie intégrante de sa vie, et done des ses films»13. Dalle parole sentite di Bouilloux emerge la volontà di Garrel di su­ perare quella che secondo lui è l’alienazione prodotta dal cinema spet­ tacolare, attraverso un cinema diametralmente opposto, sussurrato, la­ conico, aperto all’universo dell’interiorità e nello stesso tempo anche all’esterno, al contesto sociale e politico respirato e vissuto dal regista. Tornando sulla questione della recitazione, è evidente come nel ci­ nema di Garrel sia centrale la presenza degli attori, che non si limitano ad interpretare semplicemente una parte, ma sono «individui che “esi­ stono” in un rapporto dialettico di scambio con chi li dirige»14, e che sul set mettono in gioco il loro background artistico e personale, il loro vissuto; il regista costruisce con loro dei legami forti che trascendono l’obiettivo della realizzazione di un film. Rispetto a Bresson, che ricercava dagli attori il massimo del reali­ smo, affermando che «non si tratta di recitazione “semplice” o di reci­ 13 «Garrel è ancora uno degli ultimi cineasti per il quale la paiola magia dei cinema ha senso: lontano dall’effetto spettacolare, i suoi film nascono prima di tutto dalla sua gioia a filmare, a captare gli esseri, ad appassionare i sensi dello spettatore [...]. Il cine­ ma fa parte integrante della sua vita, e dunque dei suoi film». J.S. Bouilloux, Philippe Garrel: un rectangle de lumière, in «Bande a part, Revue de cinéma», 1, febbraio 1990, pp. 10-11. 14 A. Aprà, La maturità di Garrel, in S. Della Casa, R. Turigliatto (a cura di), Phi­ lippe Garrel, cit., p. 26.

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tazione “interiore”, ma di non recitare affatto»15, Garrel ammorbidisce il rigore del metodo di lavoro (non arriverà, infatti, al rifiuto totale di attori professionisti), pur tendendo a conseguire effetti analoghi a quelli ottenuti dall’altro cineasta francese.

2.4 II rapporto tra cinema e teatro. Il corpo dell’attore Per proseguire sul terreno delle affinità elettive tra questi due autori, si deve aggiungere ima riflessione importante che ha a che vedere con il complesso rapporto tra il cinema e il teatro. Secondo entrambi, infatti, il cinema dovrebbe avvicinarsi, sotto alcuni aspetti, al teatro, per poi allontanarsene sotto altri: a questo proposito appare provocatoria ma rilevante la definizione di cinema data da Bresson, come di un «teatro bastardo a cui manca il proprio del teatro: presenza fìsica di attori vivi, azione diretta del pubblico sugli attori»16. Il cinema, secondo le parole di Bresson, dovrebbe quindi riscoprire dapprima il valore del rapporto diretto tra film e spettatore e cercare di restituire, attraverso i modi che competono al suo linguaggio, la presen­ za fisica dell’attore. Per quanto riguarda i modi di espressione, tuttavia, Bresson è cate­ gorico sul fatto che il cinema debba servirsi comunque di mezzi espres­ sivi propri, diversi necessariamente da quelli del teatro, e in particolare debba abbandonare quella convenzionalità, relativa soprattutto alla re­ citazione, che ne è tipica. La questione relativa alla presenza fisica dell’attore e alle differenze strutturali tra le due arti, comunque, apre un problema complesso e non nuovo al mondo della critica, che da molto tempo dibatte su questo tema: dalle considerazioni fatte da André Bazin17 a proposito di come cambino, dal cinema al teatro, la nozione di presenza e il processo di identificazione da parte dello spettatore, fino a quelle portate avanti da Walter Benjamin18. Quest’ultimo, all’intemo del quadro di uno studio sull’avvento del­ la riproducibilità tecnica delle opere d’arte, ha dedicato un’attenzione particolare al cambiamento apportato dalla nascita della fotografia e 15 R. Bresson, Note..., cit., p. 92. 16 Ivi, p. 15. 17 A. Bazin, Che cos ’è il cinema?, Milano, Garbanti, 2000, pp. 142 e sgg. 18 W. Benjamin, L’opera d’arte nell ’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 2000.

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del cinema sulle altre arti più antiche, quali il teatro. Con il cinema, secondo l’analisi di Benjamin, si è persa in un certo senso l’aura dello spettacolo dal vivo e della presenza fisica dell’attore sul palcoscenico, che è legata evidentemente alVhic et mine della rappresentazione. Ciò ha comportato inevitabilmente la fine di quello che egli ha definito il rituale della fruizione dell’opera. Ne consegue, in un certo senso, an­ che una diminuzione del godimento dell’arte da parte del pubblico, che si abitua gradualmente ad una fruizione più distaccata, meno sentita e meno contemplativa dell’opera, che si tratti di un quadro, di uno spetta­ colo, di una foto, di un film. Se da un lato, infatti, la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte ha permesso una sua maggiore apertura alle masse e quindi un accesso più ampio e non più elitario, dall’altro ha sottratto quella sacralità che le era insita. L’aura dell’opera d’arte si manifesta nell’interazione diretta di quest’ultima con il soggetto che la fruisce, nell’attualità di quel mo­ mento, che è ogni volta diverso. Il cinema, come la fotografia, permette invece una moltiplicazione e una riproduzione infinita delle immagini che precedentemente era im­ pensabile e che richiede una fruizione totalmente diversa, attuabile e ripetibile in ogni momento. Senza approfondire ulteriormente il discorso di Benjamin, che con­ clude la sua riflessione, in ultima analisi, affermando la presenza di un’implicita politicità dell’opera d’arte riproducibile, è utile continuare ad approfondire il rapporto e le differenze intrinseche ed estrinseche che intercorrono tra il più recente linguaggio cinematografico e quello teatrale. Un altro contributo importante arriva da Gilles Deleuze, le cui con­ siderazioni si sposano bene con il discorso fatto precedentemente su Bresson. Il filosofo francese, infatti, ha messo in luce quello che per molto tempo è stato considerato il limite più grande del cinema rispetto al teatro, ovvero che «al cinema mancherebbe sempre qualcosa, la pre­ senza, la presenza dei corpi [.. ,]»19 che il teatro, invece, può garantire. Tra il linguaggio cinematografico e quello teatrale, quindi, vi è a tutti gli effetti «un’incompabilità ontologica: da un lato la fisicità, dall’altro la virtualità»20, da cui deriva necessariamente, in linea anche con le 19 G. Deleuze, L’immagine-tempo..., cit., p. 223. 20 G. De Vincenti, Appunti sul rapporto tra cinema e teatro, in Teatro e Storia, 2021, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 304.

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osservazioni di Benjamin, una diversa fruizione da parte del pubblico, una differente esperienza spettatoriale. Tuttavia anche se il cinema non può, evidentemente, offrire una re­ ale presenza dei corpi ma farlo solo «alla maniera di uno specchio [...] dal riflesso differito»21, può comunque affrontare la questione da un altro punto di vista: è l’obiettivo che va modificato, come ha notato Deleuze, il quale, citando Jean-Louis Schefer, ha affermato che «il ci­ nema non ha come obiettivo di ricostruire una presenza dei corpi, in percezione e azione, ma di operare una genesi primordiale dei corpi, in funzione di un bianco, di un nero, di un grigio, [...], in funzione di un “cominciamento di visibile che non è ancora una figura, che non è ancora un’azione”»22. E anche in quest’ottica che possono essere lette le scelte stilistiche di Bresson e il suo metodo di lavoro che si spinge verso ima sottrazione e depurazione della forma, che contiene essa stessa il massimo del senso. Appare, a questo punto, maggiormente interessante che il regista ab­ bia iniziato il suo percorso di artista dedicandosi alla pittura e abbia pa­ ragonato spesso un film alla tela di un pittore che si esprime attraverso linee e colori essenziali che ne formano gradualmente la composizione visiva. Tra i due, tuttavia, è stato soprattutto Garrel ad attuare, in maniera più estrema, quanto osservato da Deleuze, a metterlo in pratica nei suoi film più sperimentali e, in generale, a restituire al cinema quella che il filosofo francese definisce una nuova credenza nel corpo. Garrel ha in­ fatti contribuito a «restituire il discorso al corpo e, per questo, raggiun­ gere il corpo prima dei discorsi, prima delle parole, prima che le cose siano nominate: il “prenome” e perfino prima del prenome»23. Il corpo, quindi, quando è mostrato, è qualcosa che riesce ad arriva­ re prima delle parole, della comunicazione verbale che, a sua volta, si dimostra poco efficace e comunque mai sufficientemente adeguata; in altri casi, invece, come si è detto già nel precedente capitolo, Garrel ci fa assistere all’impossibilità di una piena e totale visibilità e figurabilità del corpo. In questo secondo caso l’obiettivo diventa non tanto quello di dare una presenza dei corpi, quanto quello di «restituirci il mondo e il corpo a partire da quel che la loro assenza significa»24. 21 A. Bazin, Che cos’è..., cit., p. 163. 22 G. Deleuze, L’ininiagine-tempo..., cit., p. 223. 23 Ivi, p. 193. 24 Ivi, p. 224.

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Con Garrel e attraverso l’eredità di Bresson, da lui raccolta, il cine­ ma ha tentato di recuperare una dimensione che potremmo definire fi­ sica, piuttosto che psicologica, come via privilegiata attraverso la quale accedere al pensiero e alla vita stessa e tramite cui attivare i processi di significazione di un’opera cinematografica. In questa dimensione del cinema, che rientra a pieno titolo nella modernità, aspetti come quello dell’improvvisazione e dell’happening giocano un ruolo di primaria importanza e rappresentano, nello stesso tempo, anche il reale punto di contatto tra il cinema e il teatro. Come ha osservato De Vincenti, che si è impegnato in un’importante e ampia ridefinizione del concetto di “teatralità” nel cinema moderno, il set cinematografico diventa, per questi autori, «una sorta di palcosceni­ co teatrale, un palcoscenico sul quale le funzioni attoriale e spettatoriale si intersecano costantemente»25 e in cui il dispositivo cinematografico tenta di riappropriarsi proprio dell’/j/'c et mine tipico della messa in sce­ na teatrale. Appare quindi evidente quanto la lezione bressoniana portata avanti da Garrel sia prima di tutto una lezione di modernità cinematografica, grazie alla quale il cinema attua anche un recupero dell’elemento ripro­ duttivo insito già nel dispositivo cinematografico stesso, e attraverso questo recupero svolge anche una forte operazione metalinguistica. La teatralità, non a caso, è profondamente legata all’autocoscienza che il cinema ha di se stesso come dispositivo di riproduzione. L’ele­ mento metalinguistico e quello riproduttivo, in particolare, appaiono decisivi, nella loro reciproca articolazione, per cogliere quello che può essere altrimenti chiamato il “corpo” nel cinema26.

2.5 Un cinema antipsicologistico Il cinema di Bresson, in cui la teatralità sopra indicata ricopre un ruolo fondamentale, è anche indirizzato a riscoprire il valore dei par­ ticolari, per mezzo di quel principio di economia formale e visiva, di sottrazione e di attenuazione di cui si è parlato, che produce un senso spesso inatteso. 25 G. De Vincenti, Appunti sul..., cit., p. 307. 26 G. De Vincenti, Corpi e autoreferenzialità nei film statunitensi degli ultimi anni: per una ridefìnizione della domanda sui rapporti tra cinema e teatro, in F. La Polla (a cura di). Poetiche del cinema hollywoodiano con temporaneo, Torino, Lindau, 1997, pp. 106-107.

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Ferrero e Lodato, a proposito di uno studio monografico dedicato al cinema di Bresson27, hanno evidenziato come le figure ricorrenti nei suoi film quali l’ellissi, l’omissione, i tempi morti e i vuoti di azione, facciano parte di una visione specifica della scrittura cinematografica, per la quale il particolare normalmente trascurato è invece da valorizza­ re, in rapporto e in contrasto con la totalità di cui fa parte. Questa tota­ lità, che nega il particolare, deve essere rimpiazzata da un’altra totalità, nuova, diversa, verso cui il particolare, così delineato, possa tendere. La figura dell’ellissi, in particolare, rispecchia anche profondamente la realtà stessa, fatta di lacune e di punti vuoti, di mancanze e di assenze spesso incolmabili. Quasi tutti i protagonisti dei film di Bresson, inoltre, vengono pre­ sentati in continua tensione con il mondo esterno esistente, tensione che, tuttavia, non si manifesta mai (e in questo vi è un fondamentale punto di incontro con Garrel), in forma di conflitto psicologico o nella prospettiva di un acme drammatico, ma è trasposta nell’automatismo dei gesti e dei movimenti e addirittura negli oggetti, senza risultare, per questo, meno ricca o riflessiva28. La definizione tradizionale di personaggio inteso come tramite di una finzione narrativa costruita non è, evidentemente, applicabile del tutto ai modelli di Bresson, i quali oltrepassano la mediazione sia della psicologia che della storia raccontata. L’esplorazione interiore dei modelli bressoniani trova maggiore si­ gnificato e profondità proprio in quanto si sottrae a qualsiasi identi­ ficazione emotiva. L’autore si impegna, in questo senso, a «svelare il movimento interiore attraverso quello esteriore»29, facendo si che ogni curva, ogni muscolo del viso, ogni movimento diventi significante e comunichi i moti interiori dei protagonisti. Bresson e Garrel come teorici e pratici, quindi, di un cinema inteso non come spettacolo ma prima di tutto come scrittura, fatto di immagi­ ni-rivelazioni che subentrano sostituendo spesso le parole, e legato ad un’estetica che ricorda molto quella del cinema muto. Il richiamo ai film muti e in particolare ad alcuni autori trova riscon­ tro soprattutto in relazione al modo di utilizzare la macchina da presa, e quindi allo stile dei due registi: i primi piani di Bresson, per esempio, ricordano, per asciuttezza formale, quelli di Dreyer, che aveva dimo27 A. Ferrero, N. Lodato, Robert Bresson, cit., p. 142. 28 Ivi, p. 143. 29 Ivi, p. 44.

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Strato già di aver intrapreso la via di un’analisi profonda dell’interio­ rità umana, utilizzando l’intensità e l’espressività naturale dei volti dei suoi interpreti. Il cinema di Bresson è poi, in alcuni casi, ulteriormente svuotato di quegli elementi drammatici presenti invece nel cinema di Dreyer, come dimostra già in maniera evidente un confronto diretto tra II processo di Giovanna D’Arco (1962) di Bresson e La passione di Giovanna D’Arco (1928), uno dei capolavori del regista danese. Al di là di ogni confronto, che potrebbe apparire comunque forzato, va riconosciuta la volontà, comune a Bresson come a Dreyer, di arrivare all’essenza delle cose, essenza che non va riferita al cinema in sé ma, semmai, al volto o al gesto che emerge da una determinata inquadra­ tura. L’essenza, per entrambi, viene ritrovata «non nella costruita vertica­ lità di una progressione drammatica ma nella orizzontalità e continuità dell’esperienza interiore che traspare e si manifesta, appunto, sui volti, nei gesti, nei comportamenti»30. Le parole di Canziani31, a proposito questa volta dei primi piani di Bresson, tornano ad essere fondamentali. Lo studioso, infatti, ha osser­ vato come essi non rappresentino mai una mitizzazione o una esibizione dei sentimenti, ma siano sempre l’espressione di stati d’animo profondi e drammatici e, per questo, si sottraggano all’effetto per cui sono invece ordinariamente utilizzati nel cinema. L’immagine cinematografica, così costruita, abbandona la sua fun­ zione meramente seduttiva e i suoi cliché e diventa, invece, ima lente per rompere con il modo di guardare tradizionale, un mezzo di creazio­ ne e non di mera riproduzione. Bresson stesso era solito fare una distinzione particolare tra quello che viene definito generalmente cinema e quello che per lui era invece il cinematografo: il primo era inteso come semplice teatro filmato total­ mente distante dal cinematografo che, invece, prevede una fase impor­ tante di riflessione e scrittura.

2.6 L’aspetto mistico del cinema di Bresson Molti critici hanno anche parlato del cinema di Bresson come di un cinema mistico, non solo per la tematica religiosa ricorrente nell’autore, 30 A. Ferrero, N. Lodato, Robert Bresson, cit., p. 144. 31 A. Canziani, Robert Bresson.... cit.

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ma anche in relazione ad una funzione che si potrebbe definire “rivelatoria” della sua macchina da presa, che filma il mondo come se fosse visto e mostrato per la prima volta. Nel cinema di Bresson, più precisamente, confluiscono tematiche filosofiche importanti relative per esempio al problema della Grazia e dell’attesa della Rivelazione, fondamentali nel già citato Journal d’un curé de campagne. Come ha osservato De Vincenti, questi temi sono di derivazione pascaliana, in particolare l’idea, centrale in Bresson, per cui la condizione umana consiste nell’«attesa della Rivelazione, trascorsa operosamente nella moralità del quotidiano»32. In Bresson, infatti, è possibile riscontrare lo stesso nodo teorico, fon­ damentale in Pascal, relativo al problema della relazione tra Ragione e Grazia, tra conoscenza razionale e quello che il filosofo definì “esprit de finesse”, l’unico sentimento in grado di cogliere la contraddittorietà dell’esperienza umana. Questo rapporto va colto precisamente nello sti­ le bressoniano, nella sua “ascesa dei mezzi” che conduce proprio verso l’intuizione del divino di cui ha parlato Pascal. È proprio l’estrema sobrietà formale di Bresson, il suo restare co­ stantemente sulla superfìcie (unica realtà tangibile e afferrabile da parte dell’uomo), a permettere un’apertura verso il divino, verso la Rivela­ zione. Il rigore formale adottato dal cineasta, inoltre, fa sì che la sua mac­ china da presa mantenga costantemente una sorta di reverenza nei con­ fronti della realtà filmata, del mondo di cui si fa testimone, evitando accuratamente ogni tipo di celebrazione o ostentazione gratuite e cer­ cando di omettere piuttosto che sottolineare. L’estetica della sottrazione, della depurazione, che si è fin qui deline­ ata, carica ogni momento di ima sacralità fuori dal comune. E attraverso questa sacralità che Bresson filma la realtà e tutto ciò che ne fa parte: il dolore dell’esistenza, la sua insensatezza, le utopie dell’uomo ma anche il suo libero arbitrio, che si manifesta spesso con la scelta della morte. Il momento della morte, rappresentato frequentemente da entrambi i registi, è messo in scena sempre attraverso ima forte sobrietà formale che non lascia mai spazio alla retorica: nei film di Garrel la morte spes­ so non è mostrata, semmai solo accennata o raccontata indirettamente, 32 G. De Vincenti, Il cinema e il sacro, relazione tenuta in occasione della “Tren­ tesima Giornata della Romanistica”, presso l’Università di Vieima, Campus, dal 24 al 27 settembre 2007.

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mentre in quelli di Bresson rappresenta uno dei momenti più alti, che meglio racchiudono quella spiritualità di cui tanto si è parlato a propo­ sito del suo cinema. Come hanno ancora osservato Ferrero e Lodato il cinema di Bresson è «[...] un cinema indiretto dove oggetto della scrittura è la morte, che non si può, impudicamente, ritrarre ma solo presentire evocandone, per virtù di approssimazione, la futilità e l’orrore, che procedono di pari passo»33. E per questo che lo sguardo di Bresson non risulta mai invadente e resta sempre ad una certa distanza anche dai drammi che spesso raccon­ ta; quando si avvicina molto, invece, scrutando per esempio il viso di un personaggio, decide di farlo lasciando che sia il viso stesso a parlare, e non i meccanismi della messa in scena. «Emozione prodotta attraverso una resistenza all’emozione» aveva affermato lo stesso Bresson in una delle sue Note sul cinematografo34 che rende meglio di altre l’avversione del regista per ogni tipo di rap­ presentazione stereotipata delle emozioni, puramente finalizzata a com­ muovere e sedurre il pubblico. La sua macchina da presa non avanza né indietreggia mai eccessi­ vamente ma conserva sempre la stessa distanza, lasciando che siano i personaggi ad avvicinarsi, semmai, e non il contrario e, così facendo, contribuisce a costruire un quadro impassibile sulla realtà circostante. Lo sguardo di Bresson, infatti, è uno sguardo che non può e non vuole intervenire sulla realtà e si limita ad attestarla; la sintassi del suo cinema, caratterizzata come si è visto dalla rarefazione e dalla fram­ mentazione, costruisce ogni volta il compiersi di un destino, di una sto­ ria che ha il sapore dell’ineluttabilità. Il cinema, con Bresson, si fa testimone dell’indifferenza cieca del mondo, dell’inclinazione delle persone verso un male che, negli ultimi film del regista, si incarna metaforicamente anche negli oggetti oltre che nelle azioni, primo fra tutti il denaro; eppure, al di là di questo sguardo apparentemente distante e disincantato, ogni opera di Bresson cela un interesse e una fiducia profondi nei confronti dell’uomo e della sua capacità di cambiare e migliorare. Per Bresson come per Garrel l’impassibilità della macchina da presa non fa altro che rendere con più fermezza ed evidenza le emozioni por­ tate sullo schermo, emozioni che vengono incise in un particolare, sia 33 Ibidem.

34 R. Bresson. Note..., cit., p. 113.

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esso un volto o, al contrario, l’omissione di un volto stesso, e liberate in superficie, senza necessità di espanderle o moltiplicarle. In un’epoca, come quella attuale, caratterizzata da un eccesso e da una moltiplicazione continua e martellante di immagini fino alla loro totale saturazione, Bresson, e Garrel a partire da lui, hanno tentato di mettere in discussione ogni convenzione legata tradizionalmente al lin­ guaggio cinematografico, e hanno lasciato importanti riflessioni sul si­ gnificato dell’atto stesso del guardare, del mettere la macchina da presa davanti a un corpo e su tutto ciò che questo atto comporta.

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La cicatrice intérieure (1972)

La cicatrice intérieure (1972) 48

Le lit de la vierge (1969)

Le lit de la vierge (1969) 49

Le Révélateur ( 1968)

Le Révélateur ( 1968) 50

Capitolo terzo

Il cinema di Philippe Garrel: un cinema dell’assenza, della perdita, della riflessione sull’origine

L’arte non ripete te cose visibili, ma rende visibile ciò che non sempre lo è. (Paul Klee)

3.1 II tema dell’origine: la composizione del nucleo familiare e quella dell’immagine cinematografica Il cinema di Philippe Garrel si articola a partire da alcuni nuclei tematici, veri e propri tòpoi che pervadono tutta la produzione del re­ gista e consistono, in primis, in ima profonda quanto inedita riflessione sull’origine (si vedrà in quale accezione usare questo termine) e sulla perdita. Questi temi, dai quali parte l’indagine sia artistica che esistenziale del cineasta francese, hanno assunto naturalmente forme differenti ep­ pure complementari lungo i diversi periodi del suo cinema. Se nel cosiddetto primo periodo, l’autore appare interessato a una ricerca sull’origine che trovi la sua attuazione in una riflessione sul pro­ cedimento filmico, sui materiali usati e sulla genesi stessa dell’imma­ gine, nei successivi, e soprattutto nelle opere più mature, questa ricerca invade le tematiche trattate e la caratterizzazione stessa dei personaggi. Iniziamo a chiarire il tema dell’origine: esso si configura innanzi tutto come riflessione e ricerca intorno alla composizione e alla nascita del visibile e quindi, necessariamente, dell’immagine cinematografica e della pellicola filmica. Appare fortemente significativo che Garrel, soprattutto nel primo periodo del suo cinema, si serva di pellicole scadute o con la grana 51

estremamente visibile o ancora, quando questo non avviene, ne esibisca sovraesposizioni o sottoesposizioni: ognuno di questi procedimenti è finalizzato alla dimostrazione da un lato, della materialità del supporto filmico e, dall’altro, della sua fragilità e finitezza. Il discorso suH’origine è infatti, inevitabilmente, anche un discorso sul tempo, sui suoi effetti e sul suo fluire: la pellicola alterata o scadu­ ta e l’intero deperimento del supporto testimoniano la contraddizione insita nel cinema, che da un lato nasce come tentativo di difesa contro il tempo, tentativo di «...salvare l’essere mediante l’apparenza»1 ma, dall’altro, ne subisce esso stesso, suo malgrado, gli effetti. Il regista quindi, fin dai suoi inizi, «difende con i suoi film un at­ teggiamento che è alla base della storia del cinema, e che si potrebbe definire come la scelta (sebbene non si tratti propriamente di scelta) della rarità. Il cinema è raro, difficile, materiale, opaco. Ogni immagine è unica ed è il prodotto di una lotta, di una scommessa vitale»2. Attraverso l’uso della macchina da presa e in particolare i lunghi piani sequenza, Garrel sembra voler trattenere i corpi e i volti dei suoi attori dall’inevitabile scorrere del tempo; la durata molto lunga delle inquadrature, che spesso mette a dura prova lo spettatore, non fa che confermare questa tendenza, questa esigenza irrealizzabile di impedire la perdita, l’assenza, la separazione. È quest’ultimo termine, “separazione” appunto, che gioca un ruo­ lo importante nel cinema di Garrel, come ha giustamente osservato il critico francese Revault D’Allones, affermando: «se dovessi esprimere con una sola parola un motivo garreliano, sarebbe separazione [...]. A livello tematico, il cinema di Garrel non smette mai di riprodurre que­ sta separazione. Dal punto di vista formale, il piano di Garrel contem­ poraneamente lotta contro tale sparizione degli esseri amati e cerca di trattenerli, di riguardarli il più a lungo possibile e, fatalmente, registra il carattere inesorabile, irrimediabile della loro scomparsa. Della loro separazione dallo sguardo del cineasta, dello spettatore»3. I due temi, quello della perdita o della separazione e quello dell’ori­ gine, sono evidentemente correlati tra loro e si esplicitano anche at­ traverso una serie di significative figure-simbolo che caratterizzano 1 A. Bazin, Che cos ’è..., cit., p. 3. 2 B. Eisenschitz, Anno tino, premieres notes, in S. Della Casa, R.Turigliatto (a cura di), Philippe Garreì, cit., p. 39. 3 F. Revault D’Allones, Séparations, p. 29, in J. Deniel (a ciua di), Philippe Garrel, Smdio43 e Maison de Jeunes et de la Culture di Dunkerque, 1989; citato da R.M. Sal­ vatore. Traiettorie..., cit., pp. 15-16.

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soprattutto le opere giovanili di Garrel, come Le Révélateur (1968) o L'Enfant secret (1979). La prima di queste figure è quella del bambino che rimanda da subi­ to, nella sua essenza, all’esperienza della nascita e, nello stesso tempo, al dolore della separazione inevitabile dal nucleo familiare: il bambino è la figura che incarna simbolicamente le domande esistenziali dell’uo­ mo, prima fra tutte quella relativa al mistero della propria origine. Il suo ruolo, sempre messo in relazione con quello della madre e del padre, partecipa anche alla dimensione fortemente autobiografica del cinema di Garrel; il rapporto padre-figlio, in particolare, ricorre nella maggior parte delle sue opere, senza contare la presenza, in alcuni film, dello stesso Maurice Garrel, attore nonché padre del regista. La dimensione autobiografica si riscontra anche attraverso i ritratti femminili che popolano i film di Garrel, ritratti di attrici che hanno condiviso col regista esperienze esistenziali profonde, e in alcuni casi sentimentali, tanto da diventare vere e proprie muse ispiratrici di alcune sue opere4. La vita del regista, segnata emblematicamente dall’esperienza della paternità, diventa in questo modo il materiale stesso della produzione artistica dell’autore, fino a un totale coinvolgimento e assorbimento re­ ciproco dei due aspetti, la vita e l’arte, che diventano uno la condizione dell’altro e viceversa. Come è stato osservato anche da Adriano Aprà, nel cinema di Gar­ rel vi è un «gioco di parallelismi e di incroci fra vita e cinema che si manifesta anche a livello della costruzione delle storie (per non dire delle sceneggiature), [...] che si alternano sullo sfondo di un intreccio sempre molto labile»5. Tornando alla questione della riflessione sull’origine, essa, come si è detto, percorre tutto il cinema di Garrel ma, cosa più importante, si gioca contemporaneamente su due piani, uno relativo ai soggetti trattati e uno prettamente estetico-formale, che si rinviano reciprocamente. Sul piano dei temi trattati l’attenzione è focalizzata sul rapporto uomo-donna, in particolare sui momenti aurorali delle relazioni senti­ mentali, che contengono in sé già la paura e la minaccia della perdita, dell’abbandono, della fine. 4 È il caso della cantante e attrice Nico, compagna di Philippe Garrel per molti anni e a cui, dopo la morte improvvisa, il regista dedicò il film J’entends plus la guitare (1991). 5 A. Aprà, La maturità di Garrel, in S. Della Casa, R. Turigliatto (a cura di), Phi­ lippe Garrel, cit., p. 23.

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I personaggi dei film di Garrel vivono questa ambivalenza, questa contraddizione in termini che si traduce in una forte instabilità, insicu­ rezza e indecisione. Il cineasta analizza e scandaglia i loro comportamenti tanto quanto gli equilibri in gioco all’intemo della coppia e del nucleo familiare (sia esso quello di origine o quello creato al di fuori), ne osserva le evolu­ zioni e i mutamenti dei ruoli nel corso del tempo. La paura della perdita, del distacco, della separazione con la quale devono convivere, loro malgrado, i personaggi, si manifesta, sul piano espressivo e formale, attraverso una perdita della vista: è questo uno degli aspetti forse più interessanti e significativi del discorso sul cinema di Garrel. Questo concetto si potrebbe altrimenti definire meglio come una sottrazione dell’orizzonte del visibile: il campo visivo non si presenta mai, nei film dell’autore, come omogeneo o nitido, ma al contrario ha sempre delle rarefazioni, delle imperfezioni. Dietro queste considerazioni c’è un discorso teorico importante che è alla base dell’intero lavoro del regista e che investe lo statuto stesso della visione: essa non produce mai trasparenza ma, piuttosto, oscura­ mento, ambiguità, distorsioni. L’atto del vedere non è mai, per Garrel, un atto che prevede o im­ plica ima rispondenza immediata e cristallina con la realtà, ma, anzi, ripropone i punti oscuri che la pervadono; il visibile, dall’altra parte, non è mai facilmente penetrabile. Ecco quindi che l’assenza, la separazione si concretizzano nell’im­ possibilità di filmare e perciò di fissare ciò che il vedere ci restituisce nell’istante, nel momento presente. Garrel è ben consapevole, inoltre, che lo sguardo sulla realtà non si esaurisce nella semplice individuazione delle cose, ma, in maniera più complessa, rimanda e implica sempre qualcosa d’altro. L’uso frequente del primo piano, da parte del regista, esplicita ul­ teriormente questo discorso: là dove i volti degli attori sono ripresi da vicino, infatti, appaiono paradossalmente quasi non figurabili, non rap­ presentabili a pieno, tanto dalla macchina da presa quanto dall’occhio dello spettatore.

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3.2 Verso una “preistoria” del visibile: un breve confronto teorico con la pittura di Paul Klee

Appare molto appropriata, a questo punto, l’osservazione fatta da Rosa Maria Salvatore a proposito della relazione che intercorre, a livel­ lo di riflessioni teoriche, tra il cinema di Garrel e la pittura di un grande artista del Novecento, Paul Klee. Secondo la Salvatore entrambi hanno una «tensione a catturare ima preistoria del visibile»6 che in Klee si manifesta nelle figure astratte e “in movimento” delle sue tele, e in Garrel nella tensione continua della macchina da presa a trattenere i volti e i corpi e a cogliere non tanto la forma compiuta delle cose, quanto la loro formazione in atto. L’arte, attraverso mezzi espressivi evidentemente diversi, ha quindi lo scopo di rendere visibile la realtà non ancora tale, ovvero la realtà colta nel momento della sua genesi. L’obiettivo dell’artista, quindi, non è quello di raffigurare le forme esteriori della realtà, ma quello di riper­ correrne l’atto generativo. La pittura di Klee, definita astratta, non è tale in quanto negazio­ ne dell’oggetto, ma, semmai, in quanto arte che va all’origine della creazione, cercando di cogliere il processo di genesi e di formazione dell’oggetto stesso; la genesi, precisamente, si riferisce al momento in cui la realtà sorge per la prima volta nella percezione. In un modo analogo l’immagine di Garrel non è qualcosa di statico, che rimanda a una realtà esterna e oggettiva, ma qualcosa che mostra il suo interno, che è di natura essenzialmente temporale; l’immagine garreliana è un evento che si manifesta alla vista grazie al lavoro del regista. Garrel, in questo modo, si pone evidentemente al centro di quella che è la riflessione inaugurata dall’intera arte contemporanea, per la quale, al di là delle differenze tra i singoli artisti, l’opera d’arte non ha più il com­ pito di rappresentare una realtà oggettiva riconoscibile, ma è piuttosto essa stessa una sorta di presentazione, di inaugurale esibizione di senso. Ne deriva che non è tanto l’opera d’arte circoscritta e definita ad avere vero significato, quanto il procedimento artistico che porta alla sua realizzazione, il gesto compiuto dall’artista, che racchiude gli inter­ rogativi e le esigenze da cui egli è mosso. Il rapporto tra rappresentazione e presentazione appartiene, in realtà, all’essenza stessa dell’immagine, che Garrel non fa altro che esplicita­ 6 R.M. Salvatore, Traiettorie..., cit., p. 121.

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re: è proprio dell’immagine, infatti, il suo presentarsi al tempo stesso chiusa e aperta, opaca e trasparente, vicina e lontana; l’atto del filmare rappresenta quindi un tentativo di tornare al sorgere dell’immagine, al suo stato nascente e perciò, in un certo senso, di andare al di qua del visibile rappresentato. Oltre al rapporto e alle differenze tra rappresentazione e presenta­ zione, il lavoro di Garrel fa emergere anche un altro tipo di riflessione, più sottile, che concerne lo scarto esistente tra rappresentazione e figu­ razione. Come ha osservato Paolo Bertetto, a proposito dell’analisi sul rapporto tra cinema e pittura, «la figurazione costituisce un momen­ to essenziale nella composizione della struttura formale del film» e si differenzia dalla mera rappresentazione che è «una riproduzione di un oggetto, un’imitazione degli aspetti somiglianti di un oggetto, che si sostituisce all’oggetto stesso»7. Da ciò deriva necessariamente che la rappresentazione «conside­ ra coerente e conforme il rapporto oggetto/rappresentazione e quindi mondo/linguaggio [...] e implica un universo in cui il rapporto tra esse­ re e parola, tra essere e immagine sia organico e adeguato»8. Su questo punto vale la pena soffermarsi, focalizzandolo in relazio­ ne alla riflessione di Garrel sull’atto del vedere: nelle sue opere, infat­ ti, l’esperienza dello sguardo è un’esperienza che conferma e sancisce ogni volta l’impossibilità di un rapporto trasparente tra chi guarda e l’oggetto dello sguardo. E anche questo, in ultima analisi, il motivo per cui il regista segue il sentiero della figurazione piuttosto che quello della semplice rappre­ sentazione; se quest’ultima rimanda simbolicamente alla visione, intesa come uniforme, la figurazione appare invece legata allo sguardo, che «annulla l’illusione di una trasparenza del mondo, favorendo l’emerge­ re dell’inatteso, di un volto non nitido degli oggetti e quindi non facil­ mente inquadrabile e governabile [...]»9. Lo stesso Klee, del resto, aveva già riflettuto nei suoi scritti teorici10 sul concetto di figurazione, soprattutto in contrapposizione a quello di forma, concependola come un procedimento che contiene due qualità, 7 P. Bertetto, La figurazione e la visualizzazione nell’immagine fìlmica, in L. De Franceschi (a cura di), Cinema-Pittura, dinamiche di scambio, Torino, Lindau, 2003, p. 55. 8 Ibidem.

9 R.M. Salvatore, Traiettorie..., cit., p. 114. 10 P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, Milano, Feltrinelli, 1959.

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due aspetti collegati l’uno all’altro: «innanzi tutto è processo in atto, produzione in corso, e insieme è energia, vitalità intrinseca, capacità di trasformazione dell’inerte»11. Le considerazioni di Klee riguardano evidentemente più da vicino la pittura, ma possono essere allargate al campo dell’arte in generale e del cinema in particolare, dato che rappresentano prima di tutto dei concetti estetici. Il cinema di Garrel, come si è detto, si è allontanato dalla pura rap­ presentazione per avvicinarsi alla figurazione, in cui non conta tanto l’aderenza all’oggetto rappresentato, quanto le procedure che conduco­ no alla sua rappresentazione. La figurazione «afferma un’autonomia della forma rispetto alla mera riproduzione somigliante» e tuttavia «non cancella il rapporto con l’og­ getto - che tiene vivo e rilevante - ma lo subordina alla composizione estetica, al progetto formale»12. Come è stato osservato anche per la pittura rivoluzionaria di Klee, ciò che conta è infatti il linguaggio plastico, di per sé già profondamen­ te significante, molto prima del riconoscimento dell’oggetto rappresen­ tato, che passa in secondo piano. Per Garrel potrebbero farsi considerazioni analoghe: nel suo cine­ ma, in modo più spiccato ed esplicito nel primo periodo, assume par­ ticolare rilievo il gioco stesso delle componenti formali (in primis la componente cromatica), che comporta già una significazione profonda e non irrilevante.

3.3 II rapporto tra il visibile e Finvisibile Portando il discorso alle estreme conseguenze si potrebbe affermare che il tentativo di entrambi gli artisti è quello di rappresentare l’irrap­ presentabile. Ciò non significa che si vuol rendere visibile un invisibile misterioso, ma che si vuole rappresentare un visibile che è sempre altro da ciò che appare. Questa ricerca dell’irrappresentabile è volta a mette­ re in luce uno spazio primario, che è a monte di ogni oggettivazione e razionalizzazione del mondo. Anche il filosofo Merleau-Ponty, nel suo famoso scritto II visibile e l’invisibile13, afferma, come ha potuto osservare Rosa Maria Salvato­ 11 P. Belletto, La figurazione..., cit., p. 57. 12 Ivi, pp. 55-56. 13 M. Merleau Ponty, Il visibile e l’invisibile, Milano, Bompiani, 1999.

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re14, che lo sguardo sulle cose rimanda sempre a qualcosa d’altro che è l’invisibile, inteso come l’insieme delle possibilità del visibile, e che si manifesta attraverso l’assenza, l’allontanamento, la distanza. L’atto della visione, quindi, non si esaurisce nell’individuazione e definizione dell’oggetto percepito, ma cela un procedimento più com­ plesso destinato a non esaurirsi mai definitivamente, in quanto le pos­ sibilità del visibile sono infinite; il mondo, la realtà, non si configurano come un insieme di cose già date, ma come un continuo e perpetuo generarsi. Il rapporto tra il visibile e l’invisibile va perciò considerato, secon­ do Merleau-Ponty, in termini di co-implicazione reciproca: il visibile è tale e può essere colto solo in virtù dell’invisibile che è inscritto al suo interno. Bertetto stesso, a questo proposito, ha aggiunto che «la messa in scena cinematografica dà forma visiva non solo al visibile manifesto, ma anche alle tracce che si collocano sul crinale tra visibile e invisibile, trasforma in immagine quanto prima non esisteva con quella figurazio­ ne [...]. E visualizzazione insieme del fenomenico e dell’immateriale, del visibile e dei suoi margini»15. Tornando al confronto con la pittura di Klee, esso appare estremamente utile per comprendere la scommessa lanciata e seguita da Garrel: il suo cinema, lo si vedrà bene in seguito, rompe ogni tipo di rapporto convenzionale e meccanico con la realtà o meglio, più precisamente, cambia il modo di vedere la realtà; come ha osservato il teorico cinema­ tografico ungherese Bàlazs, «l’abitudine quotidiana ci ha reso invisibile l’ambiente che ci circonda [...]. Noi non vediamo, ma ci orientiamo. L’inquadratura insolita strappa il volto delle cose dalla nebbia dell’in­ sensibilità che lo inviluppa e ce lo fa vedere»16. Garrel apre l’immagine cinematografica alla visione piuttosto che al veduto, stabilendo il primato della possibilità sulla realtà statica: egli ha la necessità, in particolare, di connettere l’occhio e lo sguardo, vale a dire una visione esteriore che ci restituisce lo stato delle cose e uno sguardo penetrante che ne manifesta la cosiddetta preistoria del visibi­ le. Le inquadrature insolite, come le definisce Bàlazs, potrebbero esse­ re, nel cinema di Garrel, quelle che mostrano gli spazi e i corpi che li 14 R.M. Salvatore, Traiettorie.... cit. 13 P. Bertetto, La figurazione..., cit., p. 64. 16 B. Bàlazs, Estetica del film, Roma, Editori Riuniti, 1954, p. 41; citato da R.M. Salvatore, Traiettorie...., cit.,p. 119.

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abitano solo per frammenti e per porzioni e mai per intero, attraverso inquadrature che sembrano seguire una frammentazione anche tempo­ rale: è a partire dalle cose, dalla forma compiuta, che si risale al proces­ so della creazione. Questi frammenti di realtà, a loro volta, celano imperfezioni, incon­ gruenze, mostrano zone d’ombra, di assenza, di vuoto, e diventano gli elementi espressivi di un cinema che si pone come profondamente anti­ spettacolare e in cui la forma è, per molti versi, il vero soggetto, al di là della storia narrata. Attraverso queste scelte stilistiche Garrel riesce ad evocare il dolore per la perdita, per l’abbandono, che minacciano le relazioni umane e le condannano sin dal loro inizio: i personaggi dei suoi film vivono e con­ vivono con traumi generati dall’impossibilità di evitare questa minaccia e dall’incapacità di amare completamente l’altro. Ecco allora che la configurazione formale dei film è fortemente in­ fluenzata dai nuclei tematici e narrativi e viceversa, in un gioco di rinvii continui e reciproci attraverso i quali il senso si accresce e acquista ogni volta nuove sfumature. La granulosità e l’opacità deH’immagine ripropongono la profon­ da complessità del reale, l’impossibilità per l’uomo di esercitare su di esso alcun tipo di padronanza o controllo effettivi, ma di averne solo l’illusione; altrimenti detto, l’esperienza stessa dello sguardo non è riducibile a un rapporto diretto e lineare tra chi guarda e la realtà osservata, ma è costellata di punti non chiari e quindi non facilmente interpretabili. Sotto questo aspetto, più che sotto altri, il regista francese ha mostra­ to di essere uno degli osservatori e degli interpreti più attenti del mondo moderno, essendo riuscito a metterne in luce le sconcertanti ambiguità e contraddizioni, e insistendo sull’impossibilità di una sola e univoca chiave interpretativa della realtà così come di ima morale che non sia complessa e indeterminata. Lo statuto dell’immagine cinematografica cosi concepito da Garrel sottolinea anche con maggior forza la minaccia continua che la rap­ presentazione vada verso la sparizione o l’oscuramento: è la minaccia dell’assenza, della scomparsa, oltre che della corrosione ad opera del tempo. E il terrore della fine ad ossessionare emblematicamente i personag­ gi garreliani: che sia la fine di una relazione, di un sentimento o della vita stessa, essi vivono ed agiscono con la ferma consapevolezza che ogni esperienza ha un destino di perdita, inscritto nella sua origine. 59

Questo destino non è qualcosa che ha a che vedere con la dimensio­ ne del futuro ma, come si è cercato di dire, qualcosa che convive con il presente, tanto da esserne il presupposto stesso di esistenza. Lo sguardo della macchina da presa che si posa sulle cose diventa, di conseguenza, un tentativo di fissare nella memoria una realtà che, già all’alba del suo svolgersi, rischia di perdersi, di svanire; anche la me­ moria, infatti, non rappresenta sempre un rifugio sicuro né una valida consolazione o difesa contro il flusso implacabile del tempo. Come ha evidenziato Jean Douchet «se Garrel filma così bene la vita è perché prima egli filma la morte dell’opera. Fisicamente e chimi­ camente, il lavoro della morte [...] Perché egli filma il cinema nella e attraverso la sua costituzione»17. A questo punto, ormai, i rimandi dai nuclei tematici a quelli formali e viceversa del primo cinema di Garrel sono evidenti: da un lato, infatti, gli elementi narrativi influenzano la composizione plastica dell’imma­ gine e le scelte stilistiche dell’autore, dall’altro, è proprio il particolare approccio del regista all’immagine fìlmica a spingerlo a portare in sce­ na determinate storie, nelle quali si descrive l’allontanamento continuo dell’altro, la desolante solitudine insita in ogni tipo di rapporto umano. In entrambi i casi l’elemento fondamentale consiste nell’aver sot­ tratto all’immagine cinematografica una funzione puramente referen­ ziale o rappresentativa, e nell’aver fatto emergere le zone d’ombra che ne fanno parte da sempre. Queste ultime acquistano un valore addirittura strutturale e portante, allo stesso modo dello schermo totalmente bianco o nero che caratte­ rizzerà alcune opere del regista, a testimonianza di ima vera e propria assenza dell’inunagine, tuttavia pregna di significati. Il luogo dell’arte e del cinema sembra essere rappresentato, per Gar­ rel, dal limite stesso che esiste tra il visibile e il non visibile, vale a dire tra la forma compiuta, attuata, e il processo stesso di formazione: se il primo dà oggetti che nascondono il loro senso, il secondo, invece, restituisce quel senso, che è qualcosa su cui bisogna tornare e ritornare a riflettere.

17 J. Douchet, L’arte del ritratto, in S. Della Casa, R. Turigliatto (a cura di), Philip­ pe Garrel, cit., p. 9.

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Capitolo quarto

L’estetica di Garrel: classicismo e sperimentazione

L’importante al cinema è il classicismo dato che si tratta di un ’arte molto giovane. Quando giro in bianco e nero è come se facessi un disegno a carboncino. Quando si gira a colori è come dipingere una tempe­ ra o un olio. (Philippe Garrel)

4.1 La cicatrice intérieure (1972), ovvero il tentativo di “regressio­ ne” ad un linguaggio delle origini intrapreso verso una direzione moderna Il primo periodo della cinematografia di Philippe Garrel, di cui si è cercato di tracciare la topografia mettendone in evidenza i motivi tema­ tici e stilistici essenziali e ricorrenti, non può essere considerato pre­ scindendo da due film fondamentali che inaugurano gli anni Settanta: La cicatrice intérieure (1972) e Les hautes solitudes (1974). Nonostante le due opere siano generalmente considerate a parte, in relazione ai primi lavori del regista, in realtà le loro analogie rispetto a un film come Le Révélateur sono forti e dimostrano una continuazione sostanziale, con alcune variazioni, della stessa estetica fatta propria sin dall’inizio dall’autore. Dopo aver terminato le riprese di Le Ut de la vierge, Garrel incontra e conosce Nico, allora cantante del gruppo rock dei Velvet Underground, con la quale decide di lavorare ai progetti dei suoi film successivi e il cui sodalizio cinematografico e privato durerà fino al 1978. Nico collabora intensamente con il regista alle riprese di La cica­ trice intérieure (come attrice, ma anche scrivendo i dialoghi e firman­ 61

do la colonna sonora), un film il cui stesso titolo potrebbe riassumere perfettamente il nucleo tematico di molte opere di Garrel. Ancora una volta, infatti, il riferimento è ad una rottura, un trauma che coinvolge i protagonisti a livello privato, ovvero il trauma della separazione tra un uomo e una donna, e a livello più intimo, una frattura esistenziale. Il film, uno dei più sperimentali del regista, fu realizzato soprattut­ to grazie alla presenza e all’intervento del gruppo francese Zanzibar Produtions (specializzato in produzioni di cinema sperimentale) e in particolare grazie a Sylvina Boissonas, che faceva parte del gruppo e che aveva sostenuto economicamente, come vera e propria mecenate, anche il precedente film, Le Ut de la vierge. La cicatrice intérieure è un’opera dalla forte potenza visiva e tra tutte quelle del regista è forse quella che più si avvicina all’universo della pittura: ciò che è in primo piano, infatti, è la composizione plasti­ ca dell’inquadratura mentre tutto il resto, in primis la dimensione della comunicazione verbale, passa ancora una volta in secondo piano. Anche la musica ha un ruolo importante e va spesso a sostituire i dialoghi, che sono quasi del tutto assenti; in alcuni momenti del film le canzoni struggenti interpretate da Nico accompagnano delle intere sequenze, prendendo il posto delle parole che l’attrice non riesce ad esprimere in altro modo. Come nei precedenti film, anche questa volta i personaggi sono legati alla dimensione simbolica: un uomo, una donna, un bambino e un quar­ to personaggio, interpretato nuovamente da Pierre Clémenti, immersi in spazi immensi e sconfinati che fanno da eco alle loro solitudini. Il film fu girato in alcuni deserti dell’Islanda, degli Stati Uniti e dell’Africa, che appaiono in tutta la loro maestosità e in tutto il loro silenzio, tanto da diventare dei veri e propri co-personaggi. Tornano ad essere importanti, a questo proposito, le considerazioni di Gilles Deleuze sulla nuova dimensione dello spazio inaugurata dal cinema moderno, uno spazio che lo studioso definisce pre-odologico in quanto viene prima dell’azione e ne resta del tutto indipendente, oltre che sospeso in un tempo non definito. Ne La cicatrice intérieure lo spazio è il protagonista assoluto, in quanto abbandona la sua funzione semplicemente rappresentativa e as­ sume una forte potenza comunicativa sulla quale si gioca la maggior parte del senso del film. In particolare, esso assume continuamente le caratteristiche di una realtà archetipica, legata all’origine dell’uomo e della vita: non è un caso, infatti, che nel film compaiano simbolicamen­ te gli elementi primordiali quali il fuoco, la terra e l’acqua, a sottoli­ 62

neare da un lato il tempo indefinito nel quale la pellicola è ambientata, dall’altro la dimensione mitica della storia. I due protagonisti, interpretati da Garrel stesso e da Nico, si muo­ vono come a rilento in questi spazi deserti che sembrano ingigantire il vuoto incolmabile esistente tra di loro e il cui silenzio va di pari passo con la loro assenza di comunicazione. Come in Le Révélateur e in Le Ut de la vierge anche in questo film i personaggi non hanno un nome (ciò ad indicare la mancanza di ruoli intesi in maniera tradizionale), ma ricoprono delle identità che si po­ trebbero definire universali. Accanto alla coppia appare un altro perso­ naggio, un cavaliere, anch’esso presentato come una figura sospesa in un tempo indefinibile, che arriva dal mare e porta il fuoco alla donna per poi scomparire, nelle ultime inquadrature del film, nelle viscere della terra. Il rapporto tra i personaggi e l’ambiente circostante, come si può quindi osservare, è di forte interconnessione: spesso i protagonisti sem­ brano uscire direttamente dai luoghi circostanti o fondersi totalmente con essi, altre volte paiono interrogarli, rivolgere a loro domande che restano tuttavia insolute. Nello stesso tempo i luoghi e i paesaggi assumono una loro indipen­ denza rispetto ai personaggi e alle dinamiche della narrazione, parteci­ pando attivamente ai meccanismi di attivazione del senso, da un lato, e alla sostanza stessa deH’immagine, dall’altro. Gli ambienti naturali che compaiono nel film sono indefiniti: dune desertiche, montagne rocciose, distese innevate, grotte. Essi rappresen­ tano visivamente il disorientamento e il peregrinare dei protagonisti, il loro camminare senza meta. Garrel esplora gli ambienti soprattutto attraverso lunghi travelling della macchina da presa, molto usati già nei precedenti film, alternati ad inquadrature invece fìsse, statiche, che ricordano delle vere e proprie tele dipinte. La sequenza che apre il film è emblematica da questo punto di vi­ sta: Nico è seduta sulle rocce di un deserto con lo sguardo perso verso l’orizzonte, mentre da lontano Garrel, al margine destro dell’inquadra­ tura, si avvicina lentamente verso di lei camminando. La macchina da presa, fissa sulla donna, aspetta che il personaggio maschile arrivi vici­ no a lei, per poi seguirli entrambi con un lento carrello laterale. La scena descritta esprime già da sola un’estetica particolare che è stata definita contemplativa e che è alla base dei film di Garrel di quegli anni. Essa risente soprattutto deH’influenza della pittura sul lavoro del 63

regista, il quale non hai mai negato una certa somiglianza tra l’arte del dipingere e quella di girare un film. Ne La cicatrice intérieure, come si è detto, il legame con la pittura è più evidente che in altre opere e si manifesta attraverso la costruzione visiva dell’immagine da parte dell’autore: la scelta di girare tutto il film in esterni, le inquadrature nelle quali i personaggi sono in pose plastiche e incorniciati dai paesaggi desertici, l’uso frequente del campo lungo e lunghissimo sono alcuni degli elementi formali più importanti che richiamano una certa pittura e che fanno sì che il film sembri costruito da un insieme di veri e propri tableaux vivants. A questo proposito Dominique Noguez1, all’intemo di uno stu­ dio dedicato al cinema sperimentale francese, in cui annovera anche quest’opera di Garrel, ha affermato che la composizione dello spazio ricercata e realizzata in La cicatrice intérieure richiama in maniera evi­ dente la pittura di fine Ottocento. Noguez cita in particolare un pittore francese di quel periodo, Puvis de Chavannes, i cui quadri, secondo lo studioso, sembrano rivivere nelle inquadrature del regista e riflettere la stessa armonia contemplativa che si respira attraverso le sequenze del film di Garrel. Il critico francese parla di un certo classicismo ricercato volutamen­ te dal regista (riscontrabile peraltro già dai film immediatamente pre­ cedenti a La cicatrice intérieure) e realizzato soprattutto attraverso la scelta dei luoghi, ripresi in un formato simile allo scope, e del modo di comporre le singole inquadrature. Garrel sembra così voler attuare un ritorno ad un linguaggio cinema­ tografico essenziale, scarno, ma al tempo stesso profondo e suggestivo, perché nei suoi film ogni immagine assume ima forza unica e irripe­ tibile e diventa importante di per sé e non solo in rapporto alle altre immagini. In questo senso il cinema dell’autore di quegli anni si conferma un cinema non narrativo, nel senso almeno tradizionale del termine, ma profondamente innovatore e sperimentale, un cinema che trascura la dimensione strettamente diegetica e pone invece l’accento su elementi nuovi sui quali riflettere, primo fra tutti il tessuto visivo del film. Secondo Noguez La cicatrice intérieure esprime la volontà di Garrel di ottenere i risultati della pittura e delle arti plastiche attraverso il mez­ zo cinematografico. Inoltre il film non fa altro che esplicitare e portare a compimento la tendenza contemplativa già presente a partire da Le 1 D. Noguez, Le cinénia, autrenient, Paris, Editions du Cerf, 1987.

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Révélateur, anche se in maniera meno evidente perché lì intrecciata con altri elementi, in particolare con quello della dimensione politica. Questa tendenza contemplativa, continua Noguez, fa sì che La cica­ trice intérieure si sviluppi come un poema lento, delicato e straziante al tempo stesso, nel quale la comunicazione è affidata al silenzio incom­ bente del paesaggio, alla ripetizione dei gesti e dei movimenti. Come è stato detto, infatti, lo stile del film si gioca sulla ripetizione di alcune figure formali che tornano più e più volte, tra i quali l’uso e la ricorrenza di carrelli ampi e lenti che seguono o anticipano i per­ sonaggi. Una sequenza fra tutte, a questo proposito, merita di essere analizzata: Nico è ripresa frontalmente, accasciata sul terreno, accanto a Garrel che le tiene la mano e al quale la donna si rivolge piangendo. Di li a poco inizia un lungo piano sequenza durante il quale la macchina da presa segue Garrel che, staccatosi dalla donna, cammina percorrendo la traiettoria di un cerchio immaginario che si apre e si conclude nello stesso punto. La macchina da presa, quindi, compie un lento giro di 360 gradi tornando e fermandosi sul punto di partenza, ovvero accanto a Nico che, disperata, continua il suo pianto straziante e inascoltato. A proposito di questa sequenza, peraltro particolarmente suggesti­ va, il regista stesso ha affermato di aver voluto ricreare una sorta di scrittura originaria, primordiale, del cinema. Questa considerazione ha a che vedere sia con le riflessioni fatte da Noguez, che ha accostato il cinema di Garrel a un certo classicismo pittorico, che con quelle di De­ leuze. Il primo, in particolare, parla del linguaggio di Garrel, in questo film, come di un linguaggio elementare, ovvero fatto di figure archeti­ piche, quasi mitologiche, costruito intomo alla bellezza e all’immobi­ lità dei paesaggi naturali nei quali lo sguardo della macchina da presa si perde. Deleuze, invece, ha osservato come quasi tutti i film sperimentali del regista si focalizzino, da un punto di vista formale, intorno a precise geometrie dello spazio e del movimento. Se in Le Révélateur, infatti, la figura geometrica ricorrente era quella del triangolo, in La cicatrice intérieure è invece quella del cerchio, la cui traiettoria invisibile è per­ corsa continuamente dalla macchina da presa attraverso numerosi piani sequenza. In alcuni casi, osserva Deleuze, sono i personaggi stessi a diventare dei punti immobili o in movimento nello spazio, delle figure in collut­ tazione o al contrario in armonia le une con le altre. La figura del cerchio, particolarmente evidente nella sequenza del film precedentemente descritta, evoca metaforicamente il vuoto intor65

no al quale ruota la rappresentazione e nel quale essa rischia sempre di cadere; si tratta di una figura, quindi, che rimanda all’assenza, alla perdita. Il connubio tra i nodi tematici e gli elementi formali e strutturali del film è ormai evidente: l’autore, in particolare, predilige l’uso del piano sequenza come mezzo attraverso il quale riuscire a tracciare e a far emergere l’assenza, il vuoto strutturale che caratterizza da sempre l’immagine. Come si è avuto già modo di vedere, infatti, ogni opera di Garrel è accompagnata da una profonda riflessione sul cinema come arte della rappresentazione e della creazione artistica, e quindi necessariamente sul supporto fìlmico, da un lato, e sulla struttura deH’immagine, dall’al­ tro. In questo senso anche il classicismo riscontrato da Noguez nel modo di organizzare e costruire visivamente lo spazio dell’inquadratura non va affatto generalizzato, ma al contrario studiato all’interno di un qua­ dro più ampio di sperimentazione, che è portata avanti continuamente dal regista. L’accento sperimentale dei film di Garrel è dato in primis dall’enfa­ si messa dall’autore sulla percezione piuttosto che sulla comprensione logica o razionale di ciò che avviene sullo schermo. Inoltre, esso si svi­ luppa attraverso una decostruzione lenta e graduale di quelle che sono le regole del cinema cosiddetto narrativo. Gli elementi relativi all’intrigo, al ritmo, alla durata, alla scenografìa sono messi e rimessi in questione da Garrel, diventano oggetto di interrogazione e di riflessione. Ne La cicatrice intérieure, ad esempio, il filo narrativo diventa sem­ pre meno chiaro, meno razionale, fino a minacciare di rompersi del tut­ to: i dialoghi spariscono, la dimensione temporale si dilata, gli spazi incombono sui personaggi. La narrazione sembra costruita per episodi piuttosto che per sequen­ ze, in linea con il rifiuto del principio di causalità tradizionale, e proce­ de per blocchi visivi autosufficienti. Garrel si affianca definitivamente sia dalla grammatica che dalla sintassi tradizionale del cinema e si affida all’intensità delle immagini, alla loro potenza visiva, piuttosto che alla loro logica. Jean-Louis Bory è riuscito a descrivere perfettamente la posizione e le scelte adottate da Garrel come regista, affermando che davanti al cinema egli si trova «nella situazione del pittore che la fotografia ha sgravato dal problema di dover rappresentare la realtà». Secondo Bory, infatti, il cinema di Garrel è un cinema fatto di visioni poetiche, che 66

non appartengono né al realismo né alla riflessione logica, ma che anzi la rifuggono2. Lo spettatore dei suoi film è invitato ancora una volta ad una lettura e ad un compito non semplici: dapprima riflettere sull’esperienza stessa della visione, della fruizione cinematografica, poi affrontare l’ambigui­ tà dell’opera che ha di fronte, ma anche, infine, abbandonarsi al flusso di immagini e goderne l’enorme fascinazione visiva.

4.2 L’influenza delle avanguardie artistiche e cinematografiche degli anni Sessanta

La cicatrice intérieure è un opera che risente anche fortemente dell’influenza delle avanguardie artistiche sia francesi che intemazio­ nali di quegli anni, prima fra tutte l’influenza della Factory di Andy Warhol, dalla quale proveniva Nico e con cui Garrel stesso era entrato in contatto verso la fine degli anni Sessanta. Il regista aveva avuto modo di vedere molti dei film realizzati dall’ar­ tista americano e ne era rimasto profondamente colpito; in particolare egli ne condivideva il modo di concepire il cinema e di costruire i film, pur non essendo mai arrivato ai risultati estremi messi in atto da Warhol con opere quali Empire (1964), The Chelsea Girls (1966) o Vinyl (1965). Garrel, come Warhol, si era mostrato attratto da un cinema che fosse il più possibile svincolato e indipendente rispetto alle regole e alle fina­ lità narrative tradizionali, a partire da quelle legate alla recitazione degli attori fino a quelle relative al montaggio o all’uso della sceneggiatura, e aveva condiviso più in generale, rispetto al regista americano, un ana­ logo modo di vedere l’arte e di relazionarsi con essa. Il rifiuto della narrazione canonicamente e tradizionalmente intesa, del resto, aveva ima condivisione diffusa tra numerosi autori americani di quegli anni e si stava esprimendo nella ricerca di una dimensione non solo orizzontale del film e della storia, ma anche di una loro esplorazio­ ne verticale, così che ogni immagine fosse intensa ed evocativa da un punto di vista prima di tutto percettivo. Già all’inizio degli anni Sessanta era nato a New York il movimento del New American Cinema, attraverso il quale molti registi americani indipendenti avevano iniziato a realizzare e a promuovere delle opere 2 J.-L. Bory, Attenzione poesia, in S. Della Casa. R. Turigliatto (a cura di). Philippe Garrel, cit., pp. 45-47.

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fortemente personali che ribaltavano completamente l’idea di film con­ cepita dall’industria di Hollywood. Tutti gli esponenti del movimento, al di là dei loro percorsi artistici personali e diversi, erano d’accordo nel voler promuovere un cinema che crescesse e si sviluppasse al di fuori dei normali circuiti produttivi e distributivi e che si sottraesse agli standard imposti dal sistema hol­ lywoodiano. L’aspetto più interessante nell’analisi di questa stagione del cinema americano risiede nel fatto che il New American Cinema, che diede vita ad alcuni film poi definiti “underground” per il loro essere “sotterranei” e alternativi rispetto a quella che era considerata la norma di produ­ zione e distribuzione cinematografica, raccoglieva a sua volta l’eredità lasciata dalle più importanti avanguardie artistiche del Novecento, dal Dadaismo al Surrealismo. Dalla rivoluzione artistica apportata dalle avanguardie il New Ame­ rican Cinema ereditò soprattutto il gusto per la trasgressione e la pro­ vocazione, oltre che l’importanza e la riscoperta, in alcuni casi, della dimensione onirica, come nuova realtà da trasportare sullo schermo. Un cinema così definito non doveva più avere come obiettivo prin­ cipale la commercializzazione dei film, ma puntare piuttosto sulla spe­ rimentazione, sulla scoperta di nuovi e diversi universi comunicativi, affidati in molti casi alla musica o alla danza. Punti di riferimento importanti, non a caso, erano autori come Maya Deren, la pioniera del cinema sperimentale, i cui lavori avevano in­ fluenzato fortemente le teorie e i film dei registi del New American Cinema. La Deren, che ispirerà molti film-makers successivi, utilizzava la cinepresa spinta soprattutto da una profonda «fascinazione per il mo­ vimento, per le pulsazioni percettive ed emotive che il medium attiva a partire da un reale che viene poi trasceso nei suoi confini spazio-tempo­ rali, geografici e gravitazionali»3. Il cinema, così concepito, doveva affrancarsi dall’idea di puro spet­ tacolo o di intrattenimento cui era stato legato fino a quel momento, ed essere utilizzato come dispositivo di trasfigurazione della realtà, come «[...] lo strumento più funzionale a rivelare la preziosa filigrana, invisi­ bile a “occhio nudo”, sottesa al mondo fenomenico»4. 3 A. Trivelli, Sulle tracce di Maya Deren. Il cinema come progetto e avventura, Torino, Lindau, 2003, p. 116. 4 Ivi, p. 170.

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Anche Warhol si avvicinò presto al movimento, con cui condivideva la forte spinta di contestazione e l’ansia di cambiamento del modo di fare arte e di sperimentazione del mezzo cinematografico. Guardando i suoi film Garrel rimase affascinato soprattutto dal fatto che il montaggio era quasi totalmente assente e l’immagine cinemato­ grafica veniva in questo modo rallentata o amplificata, così da provoca­ re nello spettatore un evidente effetto di straniamente. Quando invece veniva utilizzato, il montaggio serviva a collegare o a tagliare brusca­ mente sequenze lontane tra loro per consequenzialità narrativa e per nessi logici di causalità, spazialità e temporalità. Warhol, soprattutto nei suoi primi film, aveva sperimentato fino alle estreme conseguenze il concetto di durata temporale, fissando l’imma­ gine cinematografica in un’immobilità che sconcertava lo spettatore e metteva in crisi le sue normali abitudini di fruizione artistica. Negando il primo presupposto del cinema, che è quello dell’immagine in movimento, e proponendo come soggetti azioni e gesti della banalità quotidiana come il mangiare o il dormire, Warhol annullava drasticamente l’illusione e il fascino legati tradizionalmente alla storia e al racconto, costringendo così il pubblico a fare i conti con l’artificialità del mezzo cinematografico. Questo modo arbitrario e controcorrente dell’artista di servirsi del cinema e del montaggio, che mostrava sia la violenza insita nell’im­ magine che l’autonomia di quest’ultima rispetto ad ima storia, ispirò profondamente Garrel, il cui percorso di cineasta, tra l’altro, era iniziato e stava continuando esattamente come quello di Warhol, ovvero in ma­ niera del tutto indipendente rispetto alle grandi produzioni. Tuttavia, mentre l’obiettivo del regista americano era in primis quel­ lo di desacralizzare il cinema (in particolare l’idea di cinema inteso esclusivamente come spettacolo), soprattutto attraverso un ribaltamen­ to delle sue regole classiche, quello di Garrel seguiva una direzione di­ versa, che non passava necessariamente per la provocazione indirizzata a destabilizzare e sconvolgere il pubblico. Si potrebbe affermare, in un certo senso, che Garrel abbia al contra­ rio cercato di recuperare una certa sacralità del cinema che era andata perduta e che è strettamente connessa con la pura dimensione comuni­ cativa e poetica dell’immagine. La cicatrice intérieure riesce a tradurre bene sia le affinità che le divergenze tra i due autori, presentandosi come un film profondamente anti-narrativo, realizzato senza una vera sceneggiatura e quasi intera­ mente muto, a parte la presenza di pochi e scarni dialoghi, ma anche 69

come un film lontano dalla serialità delle opere di Warhol, nel quale ogni inquadratura assume un carattere di unicità e irripetibilità. E su quest’ultimo punto che si gioca forse lo scarto maggiore con l’autore della Pop Art, ovvero sul contrasto tra la ripetibilità e la ri­ produzione infinita delle immagini da un lato e l’irripetibilità del ge­ sto del filmare dall’altro: è stato già osservato, a questo proposito, come nei film di Garrel sia sempre inscritta la paura della perdita, la minaccia del deperimento dei materiali fisici del cinema, come la pellicola. Nel cinema di Warhol l’immobilità e la lentezza deH’immagine tra­ ducono un’insistenza e un’ossessione dello sguardo voyeuristico che si esprime attraverso ima vera e propria coazione a ripetere. In Garrel, invece, l’indugiare della macchina da presa sui paesaggi o sui volti e la presenza frequente di tempi morti denunciano piuttosto una forte auto­ riflessività del mezzo cinematografico, che si manifesta spesso attraver­ so delle situazioni ottico-sonore pure. Accade cosi che la macchina da presa si fermi, o al contrario vaghi verso direzioni non calcolate e non definite, quasi mossa dalla stessa inquietudine e crisi che anima i suoi personaggi.

4.3 Les hautes solitudes (1974) e l’uso del primo piano

A due anni di distanza da La cicatrice intérieure Garrel gira un film ancora più estremo dal punto di vista della sperimentazione, spesso poco ricordato all’intemo della sua filmografia, dal titolo Les hautes solitudes. Il film, girato in 35 mm, completamente muto e in bianco e nero, vede come protagoniste tre donne molto diverse tra loro, interpretate da Nico, Jean Seberg e Tina Aumont. Ancora una volta il regista non si avvale né di una vera sceneggiatu­ ra né di un soggetto ben definito, ma lascia alle attrici una grande libertà di interpretazione e improvvisazione. L’opera, come si è detto, porta a estremo compimento quel proces­ so di sperimentazione iniziato già con Le Révélateur e diventato più concreto con La cicatrice intérieure, che si era manifestato attraverso una graduale indagine e ricerca sul tessuto visivo del film e sui mecca­ nismi stessi della visione, oltre che attraverso un ridimensionamento dell’aspetto prettamente diegetico e narrativo.

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Garrel si confronta con le idee di Jean Seberg e si affida a pochi ap­ punti per intraprendere la direzione del film, riducendo la storia ad un grado zero e costruendo piuttosto un percorso puramente visivo come principio di organizzazione delle inquadrature. Il regista decide di seguire con la macchina da presa le tre attrici in diversi contesti, per la strada, in camere d’albergo o nei loro apparta­ menti, dedicando un’attenzione particolare a Jean Seberg, che compare in un numero maggiore di inquadrature rispetto alle altre. Garrel riprende le donne quasi esclusivamente in primo piano, la­ sciando fuori campo sia i corpi che gli ambienti circostanti, dei quali è possibile notare solo alcuni elementi o alcune porzioni. Così come era avvenuto con i corpi in Le Révélateur e con i paesag­ gi in La cicatrice intérieure, anche in quest’opera il regista pone l’at­ tenzione su alcuni elementi in particolare, che diventano predominanti rispetto a tutti gli altri. In questo caso l’autore mostra di prediligere il volto umano, cattu­ rato dalla macchina da presa in tutte le sue sfumature e colto nei suoi cambiamenti e nelle sue diverse espressioni a seconda dei sentimenti che lo animano. Deleuze aveva affermato provocatoriamente che al cinema non esi­ stono primi piani del viso, in quanto il viso stesso è di per sé un primo piano, indipendentemente da come è trattato e filmato dal regista. Il primo piano, inoltre, avrebbe la capacità di astrarre l’immagine da ogni elemento spazio-temporale, elevando il suo soggetto (il viso stesso) di­ rettamente allo stato di “Entità”5. Questa definizione, applicata soprattutto al cinema classico, appare particolarmente calzante e appropriata ad un film come Les hautes soli­ tudes, interamente costruito, come si è detto, sul primo piano. Quella che Deleuze chiama Entità è in un certo senso la figurazione concreta del sentimento che il primo piano riesce a rappresentare e a trasmettere, dando una lettura affettiva all’intero film. Il volto, o primo piano, diventa infatti il veicolo e l’espressione pura di un affetto, che si incarna in esso. Il primo piano, dunque, non si presenta, secondo Deleuze, come ima normale immagine tra le altre, né può essere concepito come un sempli­ ce ingrandimento di una porzione di realtà, ma assume un valore e un significato propri, indipendentemente dallo spazio di cui fa parte. Più che un ingrandimento il primo piano implica semmai, per De5 G. Deleuze, L’imniagine-nioviniento, Milano, Ubulibri, 2006, cap. 6.

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lenze, un cambiamento del movimento dell’immagine filmata, il quale si trasforma in vera e propria espressione. L’espressione, così intesa, si materializza interamente in Les hautes solitudes, un’opera che è stata definita giustamente come un film-ritratto, in quanto la macchina da presa sembra essere consacrata ad una vera e propria contemplazione del viso femminile. Le inquadrature, prevalentemente fisse, catturano i volti delle attrici e i loro sguardi che in alcuni momenti sono rivolti direttamente verso la macchina da presa, quasi a volerla interrogare. Il viso bianco e silenzioso di Jean Seberg viene trattato da Garrel come ima tela porosa, la cui superficie quasi trasparente mostra le im­ perfezioni e la granulosità della pellicola, accentuandone la materialità e quindi la finitezza. Rispetto a La cicatrice intérieure, in cui la mancanza di dialoghi era sostituita spesso dalla musica e dalle canzoni di Nico, Les hautes soltudes si presenta invece come un film totalmente muto, costruito in­ teramente sulla forza delle immagini. Il silenzio porta l’attenzione dello spettatore sull’espressività dei volti delle protagoniste, su ogni loro particolare e, in generale, sugli elementi plastici dell’immagine. L’assenza totale di sonoro è accentuata ulteriormente dai movimenti della bocca delle attrici, che pronunciano delle parole che non è possi­ bile ascoltare ma solo intuire seguendo il loro labiale. Garrel mette letteralmente in scena una rappresentazione del silen­ zio come dimensione costitutiva deH’immagine e del cinema stesso, e non tanto come semplice elemento tra i vari del film. A questo proposito Jacques Aumont6 ha fatto delle considerazioni interessanti, osservando come il cinema di Garrel ruoti intorno ad ar­ chetipi e a figure ricorrenti di cui il silenzio è una delle più importanti. Secondo lo studioso francese il silenzio ha in Garrel un valore pro­ fondamente strutturale, poiché non rappresenta necessariamente una mancanza, un elemento negativo che rimanda ad una privazione, ma attesta piuttosto l’incapacità dell’uomo di comunicare realmente attra­ verso la parola. Se si osserva attentamente Les hautes solitudes, si può riscontrare questa incapacità nelle parole mute e mimate a fior di labbra dalle tre protagoniste, parole pronunciate ma non udibili, che restano sospese e non arrivano a destinazione. 6 J. Aumont, Du visage au cinema, Paris, Ed. Cahiers du cinéma, 1992.

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Rosa Maria Salvatore ha osservato come la parola venga continuamente messa in crisi da Garrel, scavata e spogliata della pretesa assurda di poter significare tutto, di poter essere sufficiente ad una comunica­ zione profonda e reale. Anche quando filma la parola, il regista ne fa comunque percepire la sua ambiguità ed insensatezza, il vuoto che la avvolge e dal quale essa può difficilmente uscire. La scelta di mostrare l’atto del parlare senza farne ascoltare il con­ tenuto serve allora a dimostrare l’inadeguatezza del linguaggio verbale, sgretolando definitivamente l’illusione di una coincidenza tra enuncia­ zione e soggettività7. Come aveva già suggerito L.M. Lotman, la comunicazione si fa maggiormente interessante proprio quando ci sono delle condizioni che la rendono diffìcile, o addirittura impossibile. L’incomprensione, in al­ tre parole, si presenta come «un meccanismo di senso prezioso quanto la comprensione»8. La presenza del silenzio, nel caso del film Les hautes solitudes, è im­ mediatamente tangibile, e diventa un vero e proprio «muro che impri­ giona i personaggi, anzi un vetro dietro al quale li guardiamo agitarsi, soffrire o non soffrire»9.

4.4 L’immagine “neutra” e il valore autonomo della luce La mancanza di dialoghi e di musica sposta l’asse dell’attenzione da un lato sulla recitazione delle attrici, dall’altro sugli elementi esclusivamente plastici e visivi dell’immagine, oltre che sul modo di organizza­ zione delle inquadrature e quindi sul montaggio. Il lavoro di Garrel sull’immagine, già portato avanti con La cicatrice intérieure, diventa anche in quest’opera di fondamentale rilievo: il film è infatti costruito attraverso ima lunga serie di piani sequenza associati l’uno all’altro unicamente secondo principi di corrispondenze e giochi di luce. Si potrebbe affermare che l’intero montaggio del film sia regola­ to dall’elemento luministico, che diventa così il principio governatore dell’intera costruzione visiva dell’opera. 7 R.M. Salvatore, Traiettorie..., cit., p. 48. 8 J.M. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 15. 9 J.L. Bory, Attenzione poesia, in S. Della Casa. R. Turigliatto (a cura di), Philippe Garrel, cit., p. 47.

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Sono i cambiamenti della luce, infatti, a determinare l’organizza­ zione delle diverse inquadrature, a sottolinearne i contrasti e a rendere visibile la consistenza stessa del supporto. L’uso di pellicole scadute e la scelta di girare il film in bianco e nero fa sì che ogni minima variazione di luce assuma un’importanza primaria. Garrel lascia che la pellicola mostri le sue imperfezioni e la sua opacità, e che questi particolari si riflettano direttamente sui visi in primo piano delle protagoniste. Il regista decide addirittura di riprendere più volte uno stesso volto variando però l’intensità della luce, per esaminare i diversi effetti sulla stessa superficie del viso e i giochi di ombre e chiaroscuri ogni volta diversi. In primo piano c’è quindi la superficie-materia del volto, esaltata nei suoi tratti essenziali e studiata attraverso le differenti tonalità di luce e i suoi effetti su di essa. Garrel si allontana definitivamente da un uso retorico o drammatico della luce e al contrario la utilizza per esplorare le diverse pieghe del visibile, l’ambiguità iscritta da sempre nella visione. In alcune scene del film si assiste ad un “eccesso” di visibilità dato dalla presenza dei volti in primissimo piano, che conduce paradossal­ mente ad una sottrazione del visibile e ad un’impossibilità di mettere a fuoco l’oggetto della visione. Si passa, in questo modo, da una visibilità totale del volto, all’impossibilità di focalizzarlo veramente. Ancora una volta l’orizzonte del visibile e quello dell’invisibile si intrecciano e si mostrano non in termini di opposizione, ma di profonda interrelazione reciproca. Gilles Deleuze, che ai film più sperimentali di Garrel ha dedicato come si è visto un’ampia trattazione, è tornato sulla questione dei corpi proprio in relazione all’uso e al valore particolari del bianco e nero e della luce. Il corpo (e in molti casi il viso quando è in primo piano) si costitui­ sce nel cinema di Garrel proprio a partire da quella che Deleuze defini­ sce 1’immagine neutra, bianca o nera. Secondo il filosofo questo tipo di immagine, normalmente conside­ rata secondaria o di punteggiatura, acquista invece in Garrel una valen­ za propriamente strutturale, essendo il punto di partenza da cui avviene la genesi visiva dei corpi. Più precisamente l’immagine nera o bianca dello schermo assume un valore appunto genetico, in quanto partecipa alla nascita dei corpi e delle loro posture, alla loro comparsa nell’orizzonte della visione. 74

Deleuze approfondisce la sua analisi prendendo in considerazione anche il montaggio dei film di Garrel, in primis quelli più sperimentali, e osservando come la frequente interruzione (costituita dallo schermo totalmente nero o bianco) all’interno di ima successione di immagini non sia un’interruzione razionale, che segnala logicamente l’effettivo inizio di una sequenza o di un’immagine o la loro fine; al contrario essa rappresenta un’interruzione che egli definisce irrazionale e che assume un valore di per sé. Con ciò egli intende sottolineare il carattere di assoluta indipenden­ za e autonomia del colore e dell’immagine monocroma bianca e nera nel cinema di Garrel, da sempre impegnato a far emergere la materialità deH’immagine filmica e della pellicola, la loro composizione fìsica e visiva. L’immagine bianca o nera, insomma, non avrebbe più la sua funzio­ ne tradizionale di interpunzione o di semplice passaggio da una scena all’altra, ma inizierebbe ad assumere un valore costitutivo, organico ri­ spetto alla costruzione del film, strutturale appunto. Queste considerazioni, in realtà, valgono anche per buona parte del cinema contemporaneo e soprattutto per il cinema sperimentale, abitua­ to già a lavorare su quella che Deleuze ha definito 1’“assenza di imma­ gine”. Tra gli autori contemporanei più significativi da questo punto di vi­ sta Deleuze annovera Stan Brakhage10, i cui lavori si sono contraddi­ stinti per una forte sperimentazione suH’immagine cinematografica, sul colore e sulla materia stessa della pellicola. Brakhage, che rispetto a Garrel ha intrapreso un percorso evidente­ mente più sperimentale, ha dimostrato tuttavia di essere partito da pre­ messe teoriche non distanti da quelle del regista francese. Entrambi si sono mostrati innanzi tutto consapevoli del fatto che l’immagine cine­ matografica rimandi ad un universo non necessariamente riconducibile all’esperienza immediata e tangibile. Brakhage, come Garrel e come molti altri autori sperimentali, ha fo­ calizzato la propria attenzione sul medium cinematografico in sé, sulla sua propria espressività, possibilmente svincolata dalle restrizioni della narrazione. Ciò ha comportato di conseguenza un interesse del tutto particolare per elementi quali la luce, il colore, il montaggio. E soprattutto sulla luce, che non a caso è la prima condizione della visione, che entrambi 10 G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Milano, Ubulibri, 2006, p. 222.

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gli autori hanno lavorato, utilizzando la macchina da presa come mezzo che permette di studiarne le qualità e le proprietà infinite. Lo studio sulla luce e sulle sue sfumature e trasformazioni permette successivamente di analizzare anche il colore, di sperimentarne le di­ verse intensità in rapporto airimmagine. La macchina da presa diventa anche, in questo modo, un mezzo at­ traverso il quale è possibile oltrepassare i limiti stessi dell’occhio uma­ no, della visione normale sulla realtà delle cose, cogliendo delle sfuma­ ture del reale altrimenti inaccessibili. Brakhage è andato ancora oltre con il suo lavoro, intervenendo in molti casi materialmente sulla pellicola, colorandola, incidendola o graffiandola. In Garrel, che come si è visto ha utilizzato spesso e volontariamente delle pellicole scadute, si ritrova la stessa esigenza di intervenire sul supporto filmico, come se rimmagine in movimento, e quindi il cine­ ma, non potesse essere considerato a prescindere dal materiale che lo supporta. Montare le immagini non basta, è necessario operare anche sul sup­ porto fisico, che è parte integrante del mezzo cinematografico e fonda­ mentale nella produzione artistica. Il cinema di Brakhage si è poi sviluppato, rispetto a quello di Garrel, seguendo una linea fortemente antinarrativa, costruito intorno ad im­ magini che si presentano come un vero e proprio flusso apparentemente a-logico, legato spesso alle dinamiche dell’inconscio e del sogno. Tornando sulla questione della luce, si è già visto come essa rap­ presenti uno dei principi fondamentali del cinema di Garrel, essendo concepita come un elemento del tutto autonomo rispetto ad altri che costituiscono il film. La luce è per Garrel «corpo, spessore e profondità»11, costituisce una componente ontologica, strutturale dei suoi film, abbandona ogni tipo di funzione puramente denotativa e assume un valore e un senso in se stessa. Garreì non utilizza mai la luce secondo una funzione né naturalisti­ ca né espressiva, ma ne mostra ogni volta la consistenza e la corposità, la granulosità o l’opacità. Il regista lavora e manipola la luce come se fosse materia, la modella insieme all’immagine attraverso sovraesposizioni e sottoesposizioni, la utilizza per mostrare le imperfezioni e le sgranature della pellicola. 11 R.M. Salvatore, Traiettorie..., cit., p. 155.

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In film come Le Révélateur o Les hautes solitudes sono frequenti delle alternanze tra schermi monocromi bianchi o neri e flash chiari di luce, che si sovrappongono facendo vacillare l’immagine cinematogra­ fica, interrompendo la sua limpidezza e la sua fluidità. Deleuze, come si è visto, ha ben interpretato questi momenti del cinema di Garrel, considerandoli come organici e strutturali rispet­ to ad un’immagine che non si pone più come trasparente rispetto al mondo, ma che al contrario ne vuole riportare l’ambiguità e le zone d’ombra. Avviene in questo modo che siano proprio le pause monocrome, gli interstizi e le interruzioni tra un’immagine e l’altra a ricoprire il ruolo più importante, in quanto è soprattutto a partire da questi che si avvia il processo di formazione e figurazione dei corpi. Attraverso questa logica, anche le dissolvenze incrociate che segna­ no il passaggio da una sequenza all’altra abbandonano la loro tradizio­ nale funzione di interpunzione, per ricoprirne una propriamente costitu­ tiva rispetto alla strutturazione plastica e visiva dell’immagine. Lo schermo totalmente nero, grigio o bianco, così come il colore altalenante della pellicola scaduta, danno il via a forme, volumi e figure, per poi inghiottirli nuovamente in quella che Deleuze ha definito poeti­ camente una “notte sperimentale”12.

4.5 Classicismo o modernità?

Attraverso l’analisi e lo studio, appena affrontati, dei film più rile­ vanti della produzione di Philippe Garrel a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta del Novecento, si sono potuti riscon­ trare degli elementi formali e dei nodi tematici significativi e ricorrenti, ma fortemente ambivalenti e a volte difficili da inquadrare o definire esaustivamente. Le scelte stilistiche operate dall’autore, in particolare, mostrano co­ stantemente una doppia matrice e tendenza, che si potrebbe definire tradizionale e sperimentale al tempo stesso. Se in alcuni film emerge con più evidenza una propensione ad ima forma di racconto più tra­ dizionale, in altri, al contrario, la volontà di sperimentazione da parte dell’autore si fa più forte, diventando un segno distintivo che influenza interamente la costruzione e la realizzazione dell’opera. 12 G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 223.

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Come è stato già osservato la prima produzione del regista è con­ traddistinta proprio da una profonda sperimentazione (relativa, come si è visto, al modo di concepire, produrre e realizzare il film, oltre che al modo di dirigere gli attori) che verrà in parte abbandonata con le opere più mature degli anni Ottanta e Novanta, caratterizzate da una sorta di ritorno alla narrazione tradizionale, oltre che da condizioni di produzio­ ne e distribuzione meno precarie. Di questa duplice tendenza Garrel ha mostrato di essere profon­ damente consapevole, avendo affermato più volte di voler perseguire una forma che contenga insieme classicismo e modernità, senza che un aspetto predomini necessariamente sull’altro. A questo punto risulta necessario fare una precisazione, al fine di chiarire meglio il significato del termine classicismo, qui usato. Esso non rimanda, come si potrebbe pensare, alla realtà del cinema classi­ co americano, le cui caratteristiche e peculiarità stilistico-formali non hanno a che vedere con la regia di Garrel, né traducono il suo desiderio di tornare alle origini del cinema, di cui si è parlato precedentemente a proposito di La cicatrice intérieure. Il termine classicismo, piuttosto, è connesso all’esigenza e all’attitudine, da parte dell’autore francese, di guardare al passato (cinematografico ma soprattutto artistico) come punto di riferimento costante per ogni suo lavoro presente. Tornando alla linea intrapresa da Garrel, essa è stata definita da lui stesso come “tentazione moderna”13. Essa si traduce nella compresen­ za e nella «tensione tra figurazione e astrazione»14 che si rincorrono e si alternano, in maniera più o meno evidente, nell’intera filmografia dell’autore. Proprio quando la tendenza alla figurazione sembra essere più pre­ ponderante, immediatamente questa si apre all’universo della sperimen­ tazione e della modernità e, viceversa, la sperimentazione non esclude mai in Garrel l’annullamento radicale di un ritorno ad una narrazione più tradizionale. Quest’ultima, infatti, non viene mai completamente abbandonata dal regista, che tuttavia lotta continuamente contro i mec­ canismi del cinema di identificazione, legato soprattutto all’universo del personaggio. L’uso che egli fa del primo piano, per esempio, conferma questa tendenza ambivalente. Garrel, infatti, utilizza il primo piano in un modo fortemente ambiguo, tradizionale e moderno al tempo stesso, in quanto 13 R.M. Salvatore, Traiettorie.... cit., p. 66. 14 Ibidem.

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da un lato ne sfrutta al massimo la funzione drammatica e patetica, ma dall’altro se ne serve anche in maniera metalinguistica. Il primo piano in Garrel implica spesso lo sguardo in macchina, ele­ mento che rompe con il classicismo e introduce nei film un’evidente autorifìessività del mezzo cinematografico, tipica della modernità. I meccanismi di straniamento, uniti a codici formali più tradizionali (come le riprese prevalentemente frontali), si intrecciano e si ripetono frequentemente nella filmografìa dell’autore, anche in quella relativa al suo primo periodo. Il punto di riferimento di Garrel più esplicito e più importante, pro­ prio in relazione alla definizione di “tentazione moderna” da lui conia­ ta, è il cinema di Godard, il quale è stato tra i primi a mescolare magi­ stralmente modernità e classicismo. Basti ricordare, tra tutte, un’opera come Passion (1982), significati­ va da questo punto di vista, in cui alla bellezza senza tempo e al classi­ cismo evocati dalla pittura di Goya, Rembrandt o Delacroix, che rivive nei tableaux vivants del film, si alterna un forte discorso metalinguisti­ co sull’arte e sulla creazione cinematografica, tipico della modernità. Il cinema moderno, rispetto al cinema narrativo classico, tende a creare delle relazioni, che siano il più possibile ricche e feconde, tra le diverse realtà formate dai materiali presenti in un film. È proprio sulla realtà dei materiali sui quali il film lavora che si gioca il massimo del significato, e in particolare sulla loro capacità di rimandare conti­ nuamente ad altro da sé, attuando così una moltiplicazione prolifica di senso. Il realismo del cinema moderno, quindi, non è realismo della narra­ zione, ma è realismo dei materiali usati e lavorati nel film, fondamentali per i loro rimandi ad altre serie culturali esterne ad esso. Anche un’opera come La cicatrice intérieure può essere letta in buo­ na parte secondo quest’ottica, in quanto ogni immagine che la compone riesce a rinviare ad altro da sé, soprattutto, come si è visto, all’universo artistico della pittura e dei grandi quadri di fine Ottocento. Le diverse serie di materiali sui quali Garrel, in questo come in altri film, lavora, contribuiscono anche a sciogliere e a smembrare l’intrec­ cio, la sua continuità e la sua verosimiglianza (intese in maniera tradi­ zionale), nonostante non avvenga mai un loro totale annullamento. La modernità delle sue opere consiste proprio nell’autonomia dei materiali culturali usati da quelle che sono le strutture drammatiche e narrative del film. Alla normale costruzione narrativa è sostituita una forma diversa di découpage delle immagini, non più legata alla logica 79

dell’intreccio, ma a quella delle associazioni di idee a cui ogni materiale rimanda. Ne La cicatrice intérieure la forza dell’immagine dipende in buona parte dalla sua capacità di stabilire e creare nessi e rinvii sempre nuovi a serie culturali esterne ad essa; dalla sua apertura, in altre parole, all’uni­ verso infinito del senso. Garrel non è molto distante dalla modernità di Godard, in quanto i suoi film sembrano essere costruiti, riprendendo la definizione dei for­ malisti russi, seguendo una “motivazione stilistica” piuttosto che diegetica15, che si discosta dai principi di quella che è la fabula del film, per abbandonarsi alla realtà della visione pura. La motivazione stilistica è, in altri termini, strettamente legata a quella che si può definire la “materia dell’espressione”16 del film piutto­ sto che alla sua diegesi, e regola le diverse associazioni tra le immagini. Queste ultime, come si è detto, nel cinema moderno non sono né banali né casuali, ma indirizzate alla ricerca e alla creazione di nessi sempre nuovi e diversi. La modernità, nel caso di Garrel e di molti altri cineasti della sua stessa generazione, è stata sentita anche come un tentativo di provoca­ zione rispetto ai modelli e ai codici prestabiliti, di capovolgimento delle norme classiche del cinema e dell’arte. Il riferimento ad un lavoro del regista, realizzato nel 1987, è utile per spiegare ulteriormente questo particolare tipo di approccio all’arte. Si tratta di un documentario girato per la televisione, dal titolo Les Ministères de l’art, in memoria di Jean Eustache, l’artista e amico di Garrel, scomparso qualche tempo prima. Il regista realizza il documentario mettendo insieme spezzoni di film e diverse interviste realizzate ad artisti e compagni, quali Chantal Aker­ man, Jacques Doillon, Jean-Pierre Léaud, Brigitte Sy. Il filo conduttore è una riflessione a tutto tondo sull’arte e sul ci­ nema: si parla molto di pittura, in particolare dei capolavori esposti al museo del Louvre di Parigi, i cui corridoi appaiono in alcune scene. Garrel stesso fa delle riflessioni in prima persona sulla grande pittura del passato, citando artisti quali Ingres o La Tour, per poi passare anche al cinema, soprattutto quello della sua generazione. Il regista sottolinea l’esigenza, da parte di chiunque faccia arte, di porsi sempre in maniera critica ma intelligente rispetto al passato, re­ 15 G. De Vincenti, Il concetto di modernità..., cit., pp. 115-116. 16 Ivi, pp. 126-127.

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alizzando opere che siano il più possibile controcorrente rispetto alla norma. La modernità è intesa anche in questo senso, quindi, da Garrel come dagli altri artisti che compaiono nel documentario, proprio in qualità di testimoni di un modo preciso di concepire l’arte e la vita. Nello stesso tempo, però, vi è anche una certa esigenza di guardare al passato, come dimostrano i riferimenti continui di Garrel ai quadri esposti al Louvre e a tutti i grandi artisti che lo hanno preceduto. La pittura (soprattutto una certa pittura) continua ad avere un ruolo fondamentale nel cinema del regista e all’interno di ogni sua riflessione sull’arte, influenzando il suo modo di osservare la realtà e di ricomporla sullo schermo attraverso le immagini. In imo dei suoi film forse più belli degli anni Ottanta, Elle a passé tant d’heures sous les sunlights (1984), Garrel continua a far fare ai pro­ tagonisti ampie riflessioni sul cinema e sull’arte, soprattutto relative al binomio tra la pittura classica e quella moderna, inaugurata da Picasso. Quest’ultimo viene paragonato più volte a Godard nell’ambito cinema­ tografico, in opposizione a Truffaut, che invece è annoverato insieme agli autori più classici. Entrambi i poli appaiono dunque ugualmente importanti per il regi­ sta, la cui “tentazione moderna” si è di fatto tradotta, in ultima sintesi, in un forte desiderio di sovversione che fosse, tuttavia, il frutto di un confronto continuo e intelligente con la tradizione e con il passato.

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Garrel e... oltre

La modernità riscontrata nel cinema di Philippe Garrel, analizzata nel corso di questo lavoro nella sua complessità e ambivalenza, riman­ da il discorso anche a quello che è stato definito il cinema puro, o di poesia. La definizione, nata nel contesto dei formalisti russi, dall’applica­ zione al linguaggio cinematografico di termini usati dapprima in ambito letterario, si snoda a partire dalla distinzione tra il cinema poetico, ap­ punto, e il cinema di prosa. Mentre il primo sarebbe caratterizzato da una prevalenza di momen­ ti che potremmo definire formali piuttosto che narrativi, nel secondo, al contrario, prevarrebbero dei momenti prettamente diegetici o, volendo usare un termine precisamente linguistico, semantici. Il discorso sulla modernità cinematografica si focalizza significati­ vamente su questa distinzione, puntando l’attenzione proprio sul con­ cetto relativo alla poeticità dell’immagine moderna, che si distacca dal mondo del riconoscimento per esplorare quello della visione1. Garrel ha confermato e sviluppato a pieno il concetto di poeticità, avendo costruito un cinema in cui, come ha affermato Revault D’Allonnes con una formula indubbiamente efficace, «il vero soggetto è la forma»2. Rispetto al cinema narrativo, o di prosa, il cinema poetico si sforza di dimostrare ogni volta la non esauribilità dell’immagine come illu­ strazione o descrizione della realtà, e vuole invece esprimere quest’ultima attraverso la lente della metafora. Questa tendenza si è manifestata da subito in Garrel, i cui i primi lungometraggi si sono presentati come fortemente anti-narrativi, incen­ 1 G. De Vincenti, Il concetto di modernità..., cit., p. 115. 2 F. Revault D’Allonnes, Séparations, in J. Deniel (a cura di), Philippe Garrel, Stu­ dio 43 e Maison de Jeunes et de la Culture di Dunkerque, 1989, cit. in R.M. Salvatore, Traiettorie..., cit., p. 16.

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trati soprattutto sulla composizione visiva e plastica deH’immagine, co­ stantemente indagata e manipolata dal regista. Ne è derivata, come si è visto, un’attenzione particolare per elementi formali quali il colore, la luce (dotata di una forte autonomia espressiva rispetto agli altri elementi stilistici e trattata dal regista come se fosse materia, corpo), e per il tessuto stesso della pellicola, esposta volonta­ riamente nelle sue imperfezioni e nei suoi punti di non nitidezza. L’immagine cinematografica garreliana, come si è potuto vedere, non è mai omogenea, compatta, ma riporta sullo schermo la stessa am­ biguità e complessità del reale, e tutti gli interrogativi legati aH’atto della visione. Alla base di tutto, come è stato osservato, in Garrel c’è l’esigenza di mostrare, stilisticamente come tematicamente, il conflitto e la sepa­ razione come condizioni esistenziali dell’uomo, perennemente in bilico tra il desiderio e l’impossibilità di governare e comprendere a pieno la realtà. L’uso particolare del fuoricampo, figura stilistica frequentemente usata nei suoi film, sottolinea la frammentazione e sembra riproporre proprio il fantasma dell’assenza, della sparizione della realtà dal campo della visione. I corpi presenti sullo schermo prendono parte ad un processo di fi­ gurazione che li vede costituirsi a partire da un’immagine non nitida, spesso monocroma, che assume, come si è detto, un valore non di sem­ plice interpunzione, ma propriamente generativo. Lo schermo totalmente bianco o nero, i flash ripetuti di luce, le infi­ nite tonalità del bianco e del grigio, non rappresentano solo il passaggio da un’immagine all’altra ma, nella loro rilevante durata temporale, sono la base a partire dalla quale i corpi prendono visivamente forma. Il corpo, a sua volta, assume un ruolo centrale nel cinema di Garrel, come ha saputo rilevare Gilles Deleuze. Il filosofo ha parlato di una vera e propria liturgia dei corpi messa in scena dall’autore, di una cerimonia che li erge a centro e punto di partenza di ogni processo figurativo, e che vede ai suoi vertici tre figure archetipiche fondamentali: l’Uomo, la Donna e il Bambino. I personaggi garreliani, nel primo periodo del cinema dell’autore, non sono quindi altro che figure primordiali, lontane da identità di ruolo precise o riconoscibili, e solo in alcuni casi legate alla sfera del mito. Attraverso di esse l’autore ha tentato di costruire un tipo di comu­ nicazione affidata soprattutto al significato del gesto piuttosto che della parola, della quale egli ha invece mostrato i limiti e le lacune. Nei film 84

del regista, non a caso, l’atto dell’enunciazione è spesso svuotato di senso o di logica e, anche laddove è mostrato, resta un atto silenzioso, senza repliche o risposte. Come si è avuto modo di osservare, il percorso di Garrel è passato proprio attraverso un recupero dell’importanza accordata al corpo, dal quale l’uomo contemporaneo dovrebbe ripartire per poter riacquistare parte della sua credenza nel mondo che è andata perduta. Tutte queste considerazioni, benché di fondamentale importanza per una lettura dell’opera garreliana, non sono risultate comunque suffi­ cienti, da sole, ad affrontarne un’analisi esaustiva. Il lavoro di interrogazione e studio sull’immagine cinematografica, da un lato, e il ruolo estremamente moderno affidato dall’autore al cor­ po detrattore, dall’altro, non possono infatti prescindere da un’analisi del suo cinema che prenda in considerazione anche il contesto sociale nel quale Garrel è stato immerso, e che lo ha unito profondamente ad altri cineasti come Jean Eustache o Chantal Akerman. Si potrebbe affermare che il lavoro e la ricerca formali portati avanti da Garrel nascondano, in un certo senso, 1’attualità storica dei suoi film, che, invece, è altrettanto rilevante. Secondo Jean Douchet, le opere di Garrel, al di là della loro qualità formale, offrono la rappresentazione precisa e fedele di una genera­ zione collocata nel tempo; i suoi personaggi, in particolare, cercano di sfuggire da una società in disfacimento, che aliena e disgrega ogni rapporto sociale3. Questi aspetti spiegherebbero anche la limitata applicabilità delle nu­ merose interpretazioni psicanalitiche ad un’analisi dei film di Garrel. Nonostante, per esempio, un’opera come Te Révélateur sia evidente­ mente costruita, su dichiarazione dell’autore stesso, a partire dalle dina­ miche freudiane del sogno e dell’inconscio, un’analisi di tipo psicana­ litico non avrebbe potuto esaurire, da sola, il suo significato profondo, e avrebbe messo in luce gli aspetti forse meno interessanti del film. Le Révélateur, invece, così come altre opere del regista a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi del decennio successivo, ha rappresentato il risultato più diretto e sentito del Sessantotto francese, i cui fatti hanno influenzato profondamente la vita e il cinema dell’autore. A distanza di molti anni, non a caso, gli stessi fatti sono tornati a scuotere la memoria di Garrel, diventando il soggetto del suo ultimo 3 J. Douchet, L’arte del ritratto, in S. Della Casa, R.Turigliatto (a cura di), Philippe Garrel, cit., p. 13.

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film, Les amants réguliers (2005), ambientato proprio durante i mesi caldi delle contestazioni studentesche a Parigi e girato in bianco e nero, a sottolineare il richiamo ad un passato che non si può dimenticare fa­ cilmente. Un’analisi esclusivamente formalista o al contrario strettamente psi­ canalitica delle opere di Garrel appare di conseguenza poco feconda o parzialmente accettabile, in quanto andrebbe integrata con un’analisi, altrettanto puntuale, del clima culturale che precede e circonda la loro realizzazione. Si è avuto modo di osservare, per esempio, l’influenza non indiffe­ rente ricevuta dalle avanguardie artistiche americane degli anni Cin­ quanta e Sessanta, e in particolare da quel grande laboratorio creativo che è stato la Factory di Warhol, a partire dal quale il regista ha iniziato la sua collaborazione con Nico. Se un’analisi che non astragga l’opera di un artista dal contesto nel quale essa è immersa è generalmente sempre auspicabile, nel caso di Garrel essa lo è in maniera particolare. Il suo cinema, infatti, ha la capacità di riportare, di volta in volta, lo spirito più profondo degli anni attraversati dal regista, non tanto attra­ verso i soggetti scelti (raramente espliciti, come nel caso di Le vent de la nuit, del 1998, altra pellicola sulla generazione del Sessantotto e sui suoi fantasmi), quanto, piuttosto, attraverso le atmosfere e gli interpreti dei suoi film, o più semplicemente, riuscendo a far penetrare la vita in ogni opera. La dimensione autobiografica si carica nel cinema dell’autore di un significato profondo, in quanto si fonde perfettamente con la pratica artistica diventandone una componente essenziale, costitutiva. Allo stesso modo l’esperienza del set si trasforma anche in un’espe­ rienza esistenziale importante, nella quale il regista mette in gioco il suo vissuto, spesso condiviso da altri artisti, suoi amici e compagni di viaggio. Il già citato documentario Les ministeres de 1’art, che Garrel realizza nel 1987 e che ruota intorno a precise ed esplicite riflessioni sull’arte e sul cinema della sua generazione, è la dimostrazione più chiara della totale compenetrazione tra arte e vita dell’autore. La permeabilità tra esperienza artistica ed esistenziale, che si lascia­ no penetrare e influire a vicenda, rappresenta un’altra marca fondamen­ tale della modernità cinematografica, forse una delle più importanti, che Garrel ha reso e continua a rendere concreta ancora oggi nelle sue opere. 86

Schede filmografiche e descrizione delle macrosequenze

Le Révélateur (1968)

Regia: Philippe Garrel Soggetto: Philippe Garrel

Produzione: Philippe Garrel e Claude Nedjar; Francia Fotografia: Michel Foumier

Pellicola: 35 mm, b/n Montaggio: Philippe Garrel

Durata: 62’ Cast: Laurent Terzieff (il padre); Bemardette Lafont (la madre); Stanislas Robiolles (il bambino-figlio)

Le Ut de la vierge (1969)

Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: Philippe Garrel

Produzione: Philippe Garrel e Silvina Boissonas; Francia Fotografia: Michel Foumier

Pellicola: 35mm scope, b/n Montaggio: Philippe Garrel

Durata: 95’ Cast: Pierre Clémenti (Jésus); Zouzou (Maria); Tina Aumont (pri­ gioniera); Philippe Garrel (apostolo); Jean-Pierre Kalfon (un cavaliere); Margareth Clémenti (la donna torturata); Pierre-Richard Bré; Nicole Laguigné; Babette Lamy; Didier Léon; Jaime Semprun (prigioniero) 87

La cicatrice intérieure (1972) Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: Philippe Garrel con la collaborazione di Nico

Produzione: Philippe Garrel, Silvina Boissonas, Zanzibar, Open Films; Francia Fotografia: Michel Fournier

Pellicola: 35mm, colore Montaggio: Philippe Garrel

Durata: 57’ Cast: Nico; Pierre Clémenti; Philippe Garrel; Balthazar Clémenti; Daniel Pommeruelle; Jean-Pierre Kalfon

Les hautes solitudes (1974) Regia: Philippe Garrel Soggetto: Philippe Garrel

Produzione: Philippe Garrel; Francia Fotografia: Philippe Garrel

Pellicola: 35mm, b/n Montaggio: Philippe Garrel

Durata: 80’ Cast: Jean Seberg; Nico; Tina Aumont; Laurent Terzieff

Descrizione delle macrosequenze Le Révélateur (1968) Copia: Dvd Edition Léo Scheer, 2004, 62 min.

1) Intro. La scala Interno di una stanza da letto buia. La macchina da presa riprende frontalmente un bambino seduto su un letto a castello. Poco dopo si apre la porta, entra un uomo, e la luce illumina la stanza, svelando an­ 88

che la presenza, sul lato destro dell’inquadratura, di una donna. I due sono verosimilmente i genitori del bambino. La coppia esce dalla stan­ za e lascia il bambino da solo. Una scala è ripresa frontalmente dal basso. In cima ci sono l’uomo e la donna. Lei inizia a scendere lentamente le scale, lui la segue. La m.d.p. riprende il sottoscala in cui si trova il bambino, seduto a gambe incrociate, che guarda in macchina. Sullo schermo nero compare il titolo del film.

2) Il tunnel Esterno. Notte. Il padre, di cui si vede solo la silouette bianca, è chino sopra un tunnel e guarda di sotto. La m.d.p. scende e mostra l’intemo del tunnel: c’è il bambino, ripre­ so di spalle, che cammina verso la madre seduta alla fine del tunnel. La m.d.p. lo segue con un lento carello in avanti. Il bambino raggiunge la madre, la abbraccia e la slega (la donna è in ginocchio con i polsi legati). Una luce bianca accecante illumina entrambi. Stacco. Esterno. Notte. I tre personaggi camminano lungo il ciglio di una strada anonima. La m.d.p. li segue con un carrello all’indietro. La donna stende un lenzuolo per terra, sul quale il bambino si sdraia.

3) La foresta La m.d.p. riprende il profilo della donna nell’oscurità, poi svela gra­ dualmente l’ambiente circostante: ci troviamo su ima strada analoga alla precedente. E notte. La donna si dirige verso gli alberi di una foresta che costeggia la strada e si appoggia ad un albero, girata verso la m.d.p. Poi si addentra nella foresta, seguita da un carrello laterale. Inizia a correre. L’uomo compare bruscamente nell’inquadratura e la rincorre. I due si siedono ai lati opposti di un albero. Il bambino subentra e gira intorno a loro. I tre cambiano posizione, si muovono, si cercano a vicenda, quasi in un gioco notturno a nascondino.

4) La “rappresentazione” teatrale Esterno. Notte. Il bambino entra in un capannone isolato. I due genitori si trovano all’intemo, seduti a un tavolo, in quella che sembra essere una cucina. Il bambino li accarezza. Poco dopo si allontana e va a giocare con un bambolotto trovato lì quasi per caso, poi esce dalla stanza, che si scopre far parte della sceno­ grafia di un piccolo teatro. 89

Il bambino si siede al posto del pubblico e assiste da solo alla “rap­ presentazione” dei due genitori che discutono e litigano violentemente. Alla fine della rappresentazione il sipario si chiude.

5) La scena primaria Esterno. Giorno. Stessa strada anonima. La coppia di genitori sta camminando, lui prende in braccio la donna. Arrivano in un punto in cui c’è lo stesso lenzuolo di prima steso per terra, la donna ci si sdraia sopra, fingendo di dormire, l’uomo la segue, i due restano abbracciati davanti al bambino, sopraggiunto, che li osserva. La m.d.p. si allontana dai personaggi con un rapido carrello all’indietro, per poi ritornare sulla coppia, ripresa questa volta di spalle. I tre si incamminano insieme. Il passaggio da questa sequenza alla successiva è segnato dallo schermo totalmente bianco.

6) L’armadio Interno di una camera da letto. Il bambino è nel letto, i genitori sono accanto a lui. Successivamente entra in un armadio aperto e ci si nasconde. L’inquadratura rivela, attraverso la porta socchiusa, anche l’esterno della stanza da letto, e in particolare la scala vista all’inizio nella prima sequenza. 7) La fuga Esterno. Giorno. I tre personaggi corrono in un campo di grano, sembrano fuggire da qualcuno, che tuttavia non è mostrato nell’inqua­ dratura. La madre trascina con sé il figlio. I tre si nascondono sotto l’erba alta, circondata da un filo spinato. La m.d.p. li segue dall’alto, attraverso una panoramica, mentre scen­ dono una scarpata e arrivano ad una piccola baita, chiedendo aiuto. La m.d.p. li raggiunge e compie un giro di 360 gradi, fino a tornare sui tre personaggi. La fuga continua, ma questa volta la coppia lascia indietro il bam­ bino. 8) La stanza Interno di una stanza. 90

Il bambino è solo, apre una porta ed entra in bagno. Stacco sulla porta chiusa.

9) La cabina telefonica Esterno. Il padre entra in una cabina telefonica, prova a telefonare senza riuscirci, poi si dirige verso la donna, accucciata su un materasso messo sul ciglio della strada. Arriva anche il bambino, i tre alternano la stessa posizione, ognuno si sdraia sul materasso. Successivamente il bambino si allontana dalla coppia.

10) Il sogno Interno della stessa camera da letto. Il bambino è sul letto, guarda in macchina, sorride e scherza con la m.d.p. A questo punto inizia una lunga sequenza probabilmente onirica, intervallata da brevi momenti di realtà. Sequenza onirica: il bambino immagina di essere sulla strada, i ge­ nitori lo stanno rincorrendo senza riuscire a raggiungerlo. Stacco. Interno della stanza da letto. Il bambino è a letto, dietro di lui si possono vedere solo le teste dei genitori. Sequenza reale: esterno, giorno. Il bambino è di nuovo sulla strada, lungo la quale si possono notare degli edifici, dei camion della Croce Rossa e delle recinzioni militari. Stacco. Cambia completamente ambientazione: l’obiettivo si re­ stringe attraverso un iris, fino a riprendere solo il bambino, seduto su un prato. Stacco. Interno della stanza da letto. Il bambino piange durante il sonno, sta sognando.

Sequenza onirica: esterno, notte. Stessa strada. Il bambino sta cam­ minando lungo la strada, trova sul suo sentiero gli stessi oggetti già visti precedentemente: il bambolotto, il lenzuolo. Stacco. Il bambino si trova ora dentro ad un furgone, dal cui finestri­ no vede la madre. Stacco sulla strada. Il bambino cammina da solo. Ad aspettarlo c’è il padre, accanto ad una botola aperta in cui il bambino si chiude. Stacco nella camera da letto. Il bambino continua a sognare: si trova con i genitori, di notte, nella foresta; si incammina da solo, fino ad arri­ vare, il mattino seguente, ad un corso d’acqua.

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Le lit de la vierge (1969) Copia: Dvd Revoir Video Editions, collection Zanzibar, 2006, 96 min.

1) L’invocazione del Padre Primo piano del viso di ima donna (Maria). Con un carrello all’ndietro la m.d.p. svela il suo corpo, sdraiato su un letto in riva al mare. Un uomo (Jésus) sopraggiunge accanto a lei. È bagnato e infreddo­ lito. La donna lo asciuga, lo rassicura sulla “bellezza” del mondo intorno a loro e gli mette una corona di spine sulla testa. L’uomo si alza in piedi e invoca, con lo sguardo verso il cielo, il Padre, chiedendogli di scendere sulla Terra. La donna lo abbraccia e intona una canzone. Poi gli passa un mega­ fono e lascia andare l’uomo sulla Terra, tra le persone. Dissolvenza in chiusura. 2) L’arrivo di Jésus tra le persone Esterno. Giorno. Jésus, in groppa ad un asino, gira per le vie di un paese non iden­ tificato. La sua presenza attira l’attenzione delle persone locali, che lo seguono incuriosite. La m.d.p. lo segue attraverso un lungo piano sequenza. Dissolvenza in chiusura.

3) Le esplosioni Interno di una caverna. Jésus è seduto su un letto accanto a Maria. Il letto si muove percor­ rendo i corridoi bui della caverna. L’uomo esce ed inizia ad andare di porta in porta, tra le case degli abitanti del paese, chiedendo di farsi aprire. Tra le strade notturne Jésus invoca nuovamente il Padre, affinché si faccia vedere. Durante il suo peregrinare Jésus incontra diverse persone, tra cui una donna sdraiata per terra e avvolta da un lenzuolo. Stacco all’interno di una stanza buia. Jésus si trova seduto ad un tavolo davanti a Maria. I due mangiano in silenzio. Un orologio a pendolo scandisce i secondi.

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Si sente una sirena dall’esterno. L’uomo apre la finestra ed esce da lì. Schermo bianco.

Esterno, notte. Si sentono delle forti esplosioni, come se ci fosse ima guerra in atto. Jesus si incammina verso Maria, che si trova nascosta in una grotta. La m.d.p. li riprende da lontano mentre parlano, restando sempre ad una certa distanza da loro. Gli spari sembrano più lontani. 4) Il paesaggio Esterno, giorno. Jesus è ripreso in campo lunghissimo mentre contempla il paesag­ gio. Il clima sembra essere tornato sereno.

5) La preghiera Interno di una grotta. Maria prega lentamente da sola, ad alta voce. Dissolvenza in chiusura. 6) La fune Esterno, notte. Jesus è sdraiato sulla riva del mare, ha un piede legato ad una fune, dalla quale viene tirato da Maria. 7) Il lavatoio Esterno, giorno. Jésus esce fuori da un canale d’acqua. Prende in braccio Maria, che è accanto a lui, e la mette su un letto. Il letto inizia a muoversi. Stacco su una fontana. Maria spoglia e lava Jésus ad un lavatoio. 8) La lite Jésus entra in una casa semidistrutta. L’uomo va alla finestra e invo­ ca nuovamente il Padre, lo chiama ad alta voce, poi entra in una stanza e vi trova Maria, intenta a stirare. Jésus si scaglia contro la donna, urlandole contro, poi prende una cassa di legno che è nella stanza ed esce. La m.d.p. riprende la scena dall’esterno della casa, attraverso la fi­ nestra. Dissolvenza in chiusura. 93

9) I corridoi bui Interno. Jesus attraversa i corridoi bui di quella che sembra essere una cata­ comba. Vi incontra degli animali, delle donne che parlano tra di loro, una bambina che si è persa. Dai corridoi si ascoltano urla e lamenti di donne torturate. Stacco. Esterno, notte. Jesus si incammina da solo con la cassa sulle spalle, poi si stende sul ciglio di una strada. Maria compare accanto a lui, gli benda i piedi e si mette a danzargli intorno. Jesus continua il suo tragitto, mentre cammina si ascolta una voceover femminile che gli dice di essere lì, accanto a lui. Stacco all’interno dei corridoi della catacomba, nei quali si vedono scene di torture e uccisioni. Stacco all’esterno, notte. Jésus prende in braccio Maria e la porta lontano da quell’orrore. Dissolvenza in chiusura.

10) La cassa Esterno, giorno. Jésus e altri personaggi danzano in riva al mare a ritmo di musica. Maria, poco lontano, è intenta a riparare i danni che la casa ha subito per le esplosioni. Jésus la raggiunge. I due accendono un fuoco. La don­ na apre la cassa di legno portata da lui, e la m.d.p. ne rivela il contenuto: si susseguono così altre immagini di torture e uccisioni. 11) Il mare Esterno, notte. Maria appare incinta sulla riva del mare. Poco lontano si vede Jésus crocifisso. Stacco. Jésus e Maria sono sdraiati su un letto sulla riva del mare, in una scena simile a quella di apertura del film. Lei è incinta. Poco dopo Jésus scende dal letto ed entra in acqua, allontanandosi verso l’oriz­ zonte.

La cicatrice intérieure (1972) Copia: Dvd Uplink collection, 1990, 60 min. 1) Il deserto e il cerchio. Esterno. Un deserto non identificato geograficamente. 94

Una donna (Nico) è seduta sul terreno polveroso. Un uomo (Phi­ lippe) compare da lontano, dall’estremità destra dell’inquadratura, e si dirige verso di lei lentamente, camminando. Arrivato accanto alla donna le prende la mano e i due camminano insieme. Lei ha gli occhi chiusi e un’espressione triste sul volto. La coppia scompare in fondo all’orizzonte. Dissolvenza in chiusura. Esterno, stesso ambiente. La coppia è ripresa frontalmente. Philip­ pe è in piedi e tiene la mano della donna, che invece è seduta a terra e piange disperatamente rivolta verso di lui. Philippe, indifferente al pianto di lei, le lascia la mano e inizia a camminare. La macchina da presa lo segue attraverso un carrello circo­ lare, che compie due giri di 360 gradi, che terminano sullo stesso punto di partenza, accanto alla donna ancora in lacrime. Nell’inquadratura successiva Philippe è accanto alla donna, che lo spinge e lo strattona, urlandogli contro. Dissolvenza in chiusura. Esterno. Stesso deserto. I due camminano di nuovo insieme, la don­ na si rivolge all’uomo, che non le risponde. La scena è ripresa attraver­ so un lungo piano sequenza, alla fine del quale la m.d.p. prosegue da sola il suo tragitto, lasciando indietro i protagonisti. Dissolvenza in chiusura. 2) La grotta Interno di ima grotta di stalattiti. La donna, ripresa frontalmente, si rivolge alla m.d.p. parlando in tedesco. Dissolvenza in chiusura. 3) Il fuoco Esterno. Deserto. Un altro personaggio maschile (senza nome) è a cavallo al centro di un cerchio di fuoco acceso sul terreno. Davanti a lui, fuori del cerchio, c’è un ragazzino, che lo osserva e si incammina da solo. La m.d.p. lo segue con un carrello laterale, in un lungo piano sequenza. Dissolvenza in chiusura.

Esterno. Deserto. La donna è su un cavallo bianco, guidato dallo stesso ragazzino di prima. Altra dissolvenza in chiusura.

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Esterno. Stesso paesaggio. Philippe arriva sullo stesso cavallo e in­ crocia sulla sua strada la donna. I due si guardano senza parlare. L’uomo scende da cavallo e inizia a seguire un gregge di pecore lungo la strada. Dissolvenza in chiusura. 4) L’arrivo dell’arciere Esterno. Mare. Un altro uomo (anch’esso senza nome) arriva dal mare scendendo da una barca. E nudo, indossa solo un arco con delle frecce. Si siede su uno scoglio e osserva il mare, poi sale su un cavallo bianco e cavalca fino ad arrivare ad una cascata d’acqua, sotto la quale c’è Nico.

5) Il vulcano Esterno. Notte. Paesaggio vulcanico. L’arciere, ripreso di spalle, osserva un vulcano in eruzione. Poi pren­ de in mano una fiaccola accesa e la porta con sé. 6) Il bambino Esterno. Paesaggio innevato. Disteso sulla neve, completamente nudo, un bambino guarda in camera sorridendo e scherzando.

7) La donna e l’arciere Esterno. Giorno. L’arciere si trova su una barca su un corso d’acqua ghiacciato. Nella mano destra ha una fiaccola accesa. Stacco su un paesaggio verdeggiante: l’arciere corre sui prati e in­ contra la donna. I due si osservano e lei gli lancia parole incomprensi­ bili. Si alternano una serie di campi medi della donna e dell’arciere im­ mersi nella contemplazione del paesaggio. I due camminano insieme verso il mare, poi lui sale sulla barca e si allontana. 8) La lancia L’arciere emerge dalle rocce di un vulcano con in mano una spada. La m.d.p. si allontana e mostra gradualmente l’intero paesaggio. Su una montagna sopra di lui c’è la donna. L’uomo le passa la spada e scompa­ re tra le rocce. L’ultima inquadratura è un campo medio della donna.

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Les hautes solitudes (1974)

Di questo film abbiamo visionato l’unica copia conservata alla Bifì, la Bibliotheque du Film della Cinématheque Franchise, e per questo motivo non è stato possibile fare un’analisi dettagliata delle macrose­ quenze, come è stato fatto, invece, per gli altri film. Per un’analisi critica dell’opera si rimanda al paragrafo 4.3 del quar­ to capitolo di questo lavoro.

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Filmografìa di Philippe Garrel

1964 Les enfants désaccordés

Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: P. Garrel Produzione: Les Réalisateurs associés, Francia Fotografia (bianco e nero): A. Weinfeld Montaggio: P Garrel Durata: 15 min Cast: C. Pérez; P. Roy; M. Garrel; M. Domerc; J. N. Roy

1965 Droit de visite Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: P. Garrel Produzione: P Garrel Fotografia (bianco e nero): A. Weinfeld Montaggio: M. Giordano Durata: 15 min Cast: D. Chiabaut; G. Laperrousaz; F. Reinberg; M. Garrel

1966 Anémone Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: P. Garrel 99

Produzione: ORTF Fotografia: F. Espresate Montaggio: M. Boisnard Durata: 60 min Cast: A.M. Bourguignon; P. Laperrousaz; M. Garrel 1967

Marie pour mémoire Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: P. Garrel Produzione: P Garrel; C. Berri; ORTF Fotografia (bianco e nero): M. Fournier Montaggio: P. Garrel Durata: 74 min Cast: Zouzou; D. Léon; N. Laguigné; M. Garrel; T. Garrel; F. Ortega; E. Lami; J. Robiolles; S. Robiolles; S. Massart; A. Binault 1968

Le Révélateur Regia: Philippe Garrel Soggetto: P. Garrel Produzione: P. Garrel e C. Nedjar; Francia Fotografia: M. Foumier Montaggio: P. Garrel Durata: 62 min Cast: L. Terzieff; B. Lafont; S. Robiolles

Actualités révolutionnaires N. 1 o Actua 1 Film collettivo andato perduto. Collaboratori: S. Bard; L. Condominas; P. Devai

La concentration Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: P. Garrel Produzione: P. Garrel e S. Boissonnas (Zanzibar) 100

Fotografia (colore): M. Founder Montaggio: P. Ganel Durata: 84 min Cast: J.P. Léaud; Zouzou 1969

Le lit de la vierge Regia: Philippe Ganel Soggetto e sceneggiatura: P. Ganel Produzione: P. Ganel e S. Boissonas Fotografia: M. Foumier Montaggio: P Ganel Durata: 95 min Cast: P. Clementi; Zouzou; T. Aumont; P. Ganel; J-P. Kalfon; M. Cle­ menti; P.R. Bré; N. Laguigné; B. Lamy; D. Léon; J. Semprun 1972 La cicatrice intérieure

Regia: Philippe Ganel Soggetto e sceneggiatura: P. Ganel con la collaborazione di Nico Produzione: P. Ganel, S. Boissonas, Zanzibar, Open Films; Francia Fotografia: M. Foumier Montaggio: P. Ganel Durata: 57 min Cast: Nico; P. Clémenti; P. Ganel; B. Clementi; D. Pommeruelle; J.P. Kalfon

Athanor Regia: Philippe Ganel Soggetto: P. Ganel Produzione: P. Ganel Fotografia: A. Weinfeld; M. Foumier Montaggio: P. Ganel Durata: 20 min Cast: Nico; Musky 101

1974 Les hautes solitudes Regia: Philippe Garrel Soggetto: P. Garrel Produzione: P. Garrel Fotografia: P. Garrel Montaggio: P. Garrel Durata: 80 min Cast: J. Seberg; Nico; T. Aumont; L. Terzieff

1975

Un ange passe Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: P. Garrel Produzione: P. Garrel Fotografia (bianco e nero): P Garrel Montaggio: P. Garrel Durata: 79 min Cast: L. Terzieff; Nico; B. Ogier; M. Garrel; J. P. Kalfon

Le berceau de cristal Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: P. Garrel Produzione: P. Garrel Fotografia (colore): P Garrel Montaggio: P. Garrel Durata: 70 min Cast: Nico; D. Sanda; M. Clémenti; P. Garrel

1976

Voyage au jardin des morts Regia: Philippe Garrel 102

Soggetto e sceneggiatura: P. Garrel (alcuni brani sono tratti da II trion­ fo della Morte, di G. D’Annunzio) Produzione: P. Garrel Fotografia (colore): P Garrel Montaggio: P Garrel Durata: 40 min Cast: M. Schneider; L. Terzieff; Nico 1978

Les bleus des origines Regia: Philippe Garrel Soggetto: P Garrel Produzione: P Garrel Fotografia (bianco e nero): P Garrel Montaggio: P Garrel Durata: 50 min Cast: Nico; Zouzou; J. Seberg; P Garrel

1979 L’enfant secret Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: P Garrel Produzione: P Garrel Fotografia (bianco e nero): P Laperrousaz Montaggio: P Garrel Durata: 92 min Cast: A. Wiazemsky; H. de Maublanc; X. Lindenmayer; C. le Bailly; E. Madeiros; B. Ferreux; P Garrel

1983 Libertà, la nuit Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: P Garrel Produzione: Institut National de la Comunication Audiovisuelle 103

Fotografia (bianco e nero): P. Laperrousaz Montaggio: P. Garrel; D. Auvray Durata: 80 min Cast: E. Riva; M. Garrel; C. Boisson; L. Szabo; B. Sy; P. Forest; G. Demond; B. Teillaud; M. Oger; R. Portalier; J. Barbouth; J. Sarfati; M. Fellag; S. Teskouk; H. Laidi

1984 Rue Fontaine (Episodio di Paris vupar... vingt-cinq ans après) Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: P. Garrel Produzione: Jm Production Fotografia (colore): P. Laperrousaz Montaggio: S. Coussein Durata: 17 min Cast: C. Boisson; J. P. Léaud; P. Garrel

Elle a passé tant d’heures sous les sunlighs... Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: P. Garrel Produzione: G. I. E., P. Garrel Fotografia (bianco e nero): P Laperrousaz Montaggio: P. Garrel Durata: 132 min Cast: M. Perrier; J. Bonaffé; A. Wiazemsky; L. Castel; P Garrel; C. Akerman; J. Doillon 1988

Les ministères de Part Film per la televisione Regia: Philippe Garrel Produzione: C. Lesson; J. P. Jacquement per la LASA Productions e la Sept; Centre National de la Cinematographic; Direction de la Comunication du Ministère des Affaires Etrangères, Francia. 104

Fotografia (bianco e nero): J. Loiseleux Montaggio: S. Coussein Durata: 56 min Cast: C. Akerman; J. Berto; L. Carax; J. Doillon; H. Garidou; B. Jaquot; J.P. Léaud; B. Sy; A. Téchiné Les baisers de secours Regia: Philippe Garrel Soggetto: P Garrel Dialoghi: M. Cholodenko Produzione: G. Vaugeois per Les Films de L’Atalante-La Sept-Planète et Compagnie; Centre National de la Cinématographie; Théàtre Ga­ brielle Dorziat a Epemay Fotografia (bianco e nero): J. Loiseleux Montaggio: S. Coussein Durata: S3 min Cast: B. Sy; Anémone; P Garrel; M. Garrel; L. Garrel; Y. Etiéviant; A. Recoing; V. Dréville; P. Romans; J. Kébadian; C. Clamens; L. Wen­ ning

1991 J’entends plus la guitare

Regia: Philippe Garrel Sceneggiatura: P. Garrel Produzione: G. Vaugeois per Les Films de L’Atalante, con la parteci­ pazione del Centre National de la Cinématographie e della Procirep Fotografia (colore): C. Champetier Montaggio: S. Coussein; Y. Dedet Durata: 98 min Cast: B. Régent; J. Ter Steege; Y Collette; M. Perrier; B. Sy; A. Grin­ berg; A. Blasquez; con la partecipazione di P. Morier-Genoud e la sua famiglia; T. Salsmann

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1993 La naissance de l’amour

Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura e dialoghi: P. Garrel; M. Cholodenko Produzione: Why Not Productions; Vega Film Zurigo; La Sépt Cine­ ma; Canal Plus, Ministèro de la Culture et de la Francophonie; Centre National de la Cinématographie; Sacem; Département Fédéral de L’Interieur; SSV/RTSI-Televisione Svizzera; Procirep; Maison des Ecrivains Fotografia (bianco e nero): R. Coutard; A. Clément Montaggio: S. Coussein; Y. Dedet; N. Hubert; A. Strauss Durata: 94 min Cast: L. Castel; J.P. Léaud; J. Ter Steege; D. Reymond; M.P. Lavai; A. Alcais; M. Clarke; M. McCarthy; G. Lavaudant

1996

Le Coeur Fantòme Regia: Philippe Garrel Soggetto: P. Garrel Sceneggiatura e dialoghi: P Garrel; M. Cholodenko; N. Lvovsky Produzione: P. Branco Fotografia (colore): R. Coutard; J. Loiseleux Montaggio: S. Coussein; Y. Dedet; N. Hubert Durata: 87 min Cast: L. Rego; A. Alcais; M. Garrel; E. Didi; R. Zem; C. Chain; L. Régo; V. Bruni Tedeschi; J. Ter Steege; O. Perrier; V. Silvan

1999

Le vent de la nuit Regia: Philippe Garrel Soggetto: P. Garrel Sceneggiatura e dialoghi: P. Garrel; M. Cholodenko; X. Beauvois; A. Langmann Produzione: Why Not Productions; Les Films Alain Sarde; Vega Film; 106

Classic (Italia); con la partecipazione di Canal Plus e del Centre Natio­ nal de la Cinématographie Fotografia (colore): C. Champetier Montaggio: F. Collin Durata: 95 min Cast: C. Deneuve; D. Duval; X. Beauvois; J. Lassalle; D. Pommereulle; M. Faure; A. Blond; J. Poissoner 2001 Sauvage Innocence

Regia: Philippe Garrel Soggetto: P. Garrel Sceneggiatura e dialoghi: P Garrel; A. Langmann; M. Cholodenko Produzione: Why Not Productions; Les Films Alain Sarde; The Kasander Film Co Fotografia (bianco e nero): R. Coutard Montaggio: F. Collin Durata: 117 min Cast: J. Faure; M. Kacem; M. Subor; J. Huguet; Z. Varkonyi; F. Bergé; M. Garrel; H. Maillard; M. Genet; J. Pommier 2005 Les amants réguliers

Regia: Philippe Garrel Sceneggiatura e dialoghi: P. Garrel; A. Langmann; M. Cholodenko Produzione: Maia Films e Arte France; con il sostegno del Programma Mèdia Plus e con la partecipazione del Centre National de la Cinéma­ tographie Fotografia: W. Lubtchansky Montaggio: F. Collin; P. Garrel; A. Strauss Durata: 178 min Cast: L. Garrel; C. Hesme; E. Rulliat; J. Lucas; N. Bridet; M. Genet; R. Mariotti; B. Sy; M. Garrel; M. Girardin; C. Garcia Fogel; M. Barbé

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2008

La frontière de l’aube

Regia: Philippe Garrel Soggetto e sceneggiatura: P. Garrel; A. Langmann; M. Cholodenko Produzione: Rectangle productions; Studiourania Fotografia: W. Lubtchansky Montaggio: Y. Dedet Durata: 106 min Cast: L. Garrel; L. Smet; C. Poidatz

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