Il cinema dei paesi arabi 8831758837, 9788831758833

Il cinema dei Paesi Arabi non è più un oggetto misterioso. Numerose manifestazioni hanno contribuito a rivelare l'e

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Il cinema dei paesi arabi
 8831758837, 9788831758833

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Nuovodneina

IL CINEMA DEI PAESI ARABI j cura ch Andrva Mortai. Erùn Rjoiud. Anna Di Martino c Adriano Ajna

Saggi Marsilio

© 1993 BY MARSILIO EDITORI S.P.A. IN VENEZIA

Mostra Intemazionale del Nuovo Cinema

XXIX edizione, Pesaro, 11-19 giugno 1993

ISBN 88M7 5885-7

Prima edizione: giugno 1993

INDICE

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Introduzione

Il mondo arabo: centocinquant’anni di storia di Biancamaria Scarda Amoretti Una o più cinematografie arabe? di Mùmin Smihi Situazione del cinema arabo di Samir Farid IL CINEMA DEI PAESI ARABI

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Algeria Arabia Saudita e Paesi del Golfo Egitto: dalle origini agli anni Settanta Il nuovo cinema egiziano di Ibrahim al-Aris Cinema egiziano degli anni Novanta di Samir Farid Giordania Iraq Libano Immagini della guerra del Libano di Walid Shmayt Libia Marocco Palestina Siria Sudan

INDICE

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Tunisia: dalle origini a «Sajnan» (1921-1974) Cinema in Tunisia e cinema tunisino: da un fenomeno socioculturale a un progetto di società di Hamdi H'ntaidi DIZIONARIO DEI REGISTI

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Algeria Arabia Saudita Bahrain Egitto Giordania Iraq Kuwait Libano Libia Marocco Mauritania Palestina Siria Sudan Tunisia

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Indice dei registi

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Bibliografia

INTRODUZIONE

Il cinema dei Paesi Arabi non è più un oggetto misterioso. Numerose manifestazioni hanno contribuito a rivelare 1’esistenza, nel mondo arabo, di strutture cinematografiche nazionali ricche di storia e di personalità di assoluto rilievo. Tuttavia, mentre l’attenzione del pubblico e della critica è orientata all’esplorazione della produzione contemporanea o immediatamente retrospettiva, ciò che viene lascia­ to in ombra è il percorso che il cinema arabo ha compiuto per giungere all’attuale grado di sviluppo. La storia del cinema, nei Paesi Arabi, differisce sensibilmente da Stato a Stato e si collega strettamente al processo che ha portato la regione ad uscire dalla fase della dominazione coloniale diretta e ad assumere la conformazione geo-politica attuale. Partito dall’Egitto e dall’area mediorientale, paesi in cui è giunto nei primi anni del secolo, il -cinématographe Lumière- è penetrato con ritardo nella regione maghrebina, dove è rimasto a lungo espressione delle potenze colonizzatrici e delle elites intellettuali ad esse collegate, assumendo uno statuto autonomo solo in seguito ai processi di liberazione nazionale avviatisi nel secondo dopoguerra. Un volume sulla storia del cinema nei Paesi Arabi non poteva ignorare questo percorso né sottrarsi dal documentarlo dettagliatamante. Il viaggio nelle origini delle differenti cinematografie nazionali ha concesso l’occasione di rievocare non solo esperienze eroiche compiute dai pionieri che hanno creato dal nulla le prime strutture produttive - ma anche articolate strategie commerciali e profili artistici di indiscusso valore. I saggi che costituiscono l’ordito di questo itinerario esplorativo attraverso la storia delle cinematografìe arabe sono stati realizzati con

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IL CINEMA DEI PAESI ARABI

l’obbiettivo di portare a conoscenza del lettore non specialista le linee essenziali lungo le quali esse si sono sviluppate e di fornire informa­ zioni utili sulla produzione cinematografica di paesi solitamente poco frequentati dalla storiografìa e dalla critica. Nella consapevolezza di non poter comunque esaurire un argomento straordinariamente ricco di implicazioni storiche, politiche, artistiche e culturali, è stato redatto un dizionario dei cineasti, posto a corollario della prima parte del volume e concepito con la precisa finalità di suggerire - oltre all’estrema differenza che intercorre tra un paese e l’altro in campo produttivo - la vastità dell’esperienza creativa accumulata dalla cine­ matografìa araba. L’appendice bibliografica, infine, riunendo la pub­ blicistica intemazionale più significativa sull’argomento, rimanda a quanto non è stato possibile affrontare nel corpo del volume.

Autori delle sezioni storiche non firmate, delle biofilmografie e della bibliografìa sono Andrea Morini, Erfan Rashid e Anna Di Martino che hanno per l’occasione rielaborato e completato un lavoro inedito svolto per la Cineteca Comunale di Bologna e la Mostra del Cinema Libero. Adriano Aprà ha curato per la Mostra Intemazionale del Nuovo Cinema l’impostazione complessiva del volume e la selezione dei saggi firmati, valendosi anche della collaborazione di Samir Farid. Un grosso problema si è posto nel momento in cui si è deciso di usare nei testi e nelle filmografìe un sistema di traslitterazione di nomi e titoli che rendesse conto della scrittura (e in parte della pronuncia) araba, piuttosto che delle francesizzazioni e anglicizzazioni in uso. Abbiamo adottato il sistema intemazionale scientifico -semplifica­ to». La semplificazione consiste in sostanza nella rinuncia a tutta una serie di segni diacritici che mal si prestavano alla lettura da parte di non specialisti. Ce ne scusiamo col lettore, e comunque ci sembra che valesse la pena fare uno sforzo per avvicinarci all'originale piuttosto che rinunciare a ogni sistema e riprendere le grafìe totalmente disomogenee che ci derivano dalle fonti francesi e inglesi. Nel nostro sistema semplificato non viene quasi mai indicata la hamza, che si suole traslitterare con un apostrofo e che indica l’attacco vocalico, ovvero un piccolo arresto del respiro, come in italiano tra due parole che finiscono e iniziano con una vocale (p .es. -sarà avvertito»). Non sono neppure indicate le cosiddette consonanti enfatiche (/?, s, d, t, z) che andrebbero traslitterate con un puntino sotto la lettera e che invece qui lo sono come le corrispondenti lettere non enfatiche (ma a volte si trova la z enfatica traslitterata dh). È 8

INTRODUZIONE

indicata a volte con apostrofo la ayn, che rappresenta un suono laringale diffìcile a spiegarsi, e che si trascriverebbe correttamente con un apostrofo rovesciato ovvero con una piccolac posta in alto della lettera corrispondente. Le varie consonanti si pronunciano come in italiano; la a è sempre sorda (come in saponè)\ la zè come la nostra s sonora di rosa, la h è aspirata; la g si pronuncia come la g palatale di geloo la j di Jolly (ma in Egitto si pronuncia come la g di gatto); la q ha un suono come la k ma pronunciata più profondamente in gola; th si pronuncia come l’inglese think, dh come l’inglese this, kh come la j spagnola (jota) di Jaime o come il eh del tedesco Friedrich, gh più o meno come la r grasseyé (gutturale o moscia) del francese parigino; sh come in sciarpa, we jcome la u e la i di uomoe ieri. Le vocali nella scrittura araba sono solo a, i, u-, nella traslitterazione un accento circonflesso indica l’allungamento. Gli autori desiderano ringraziare per la preziosa collaborazione: Kajdi Abdu al-Rahman, Fahad al-Ahmad, Abdu al-Allah al Muhaisin, Ibra­ him al-Aris, Qàsim Awal, Rashid Binhaj, Basàm al-Dwadi, Arizki Hamidi, Nasir al-Khatib, Zind Khatian, Kamais Khayati, Adnan Madanat, Sa’ad al-Mas’udi, Manrico Mattioli, Jocelyne Sa’ab, Abdu al-Sattar Naji, Murad al-Shaik, Hala Yakub.

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BIANCAMARIA SCARCIA AMORETTI

IL MONDO ARABO: CENTOCINQUANT’ANNI DI STORIA

1. Una doppia coppia di termini, alternativi ma in questo caso complementari tra loro, riassumono la problematica del mondo arabo nei suoi ultimi centocinquant’anni di storia: modemità/tradizione, nazionalismo/Islam. Analizziamoli brevemente. Si suole dire che, dopo secoli di silenzio e di decadenza, il mondo arabo toma ad essere protagonista a partire dall’ottocento, quando, cioè, per influenza dell’occidente e al tempo stesso come reazione al colonialismo europeo, hanno inizio i suoi tentativi di modernizzazione. Modernizzazione non significa necessariamente modernità, ma per il mondo arabo, almeno durante un periodo relativamente lungo, cioè fino alla prima guerra mondiale, non si configura contrapposizione: modernizzarsi implica accettazio­ ne di una forma di adeguamento al modello di sviluppo occidentale, il quale, a sua volta, se trascritto in armonia con le proprie radici culturali, può garantire la modernità. Una modernità che si postula dunque nell’idea degli intellettuali che la teorizzano e deH’élites che intendono realizzarla come rivisitazione della propria tradizione. Ottimismo e ingenuità, fattori magari eticamente positivi, caratte­ rizzano una simile persuasione, la quale, però, può anche poggiare su considerazioni storicamente inesatte. Una di queste riguarda l’analisi che data il declino del mondo arabo dall’affermarsi sulla scena vicinorientale (XVI secolo) di quella potenza ottomana che sui paesi arabi costituirà parte del suo impero, quando non addirittura all’XI-Xn secolo, al momento cioè di dinastie locali per lo più turche, indipen­ denti anche se formalmente investite d’autorità dal califfo. Ricostruendo la propria storia in questa prospettiva risulta anche

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BIANCAMARIA SCARCIA AMORETTI

troppo ovvio, da parte araba, individuare nell’impero ottomano e nei turchi che ne costituiscono l’etnia dominante il nemico primo colpe­ vole di avere sottoposto il mondo arabo a oppressione e a sfruttamen­ to. La parziale esattezza di quest’ultimo fatto pone in ombra l’altro, ben più importante, costituito dal mantenimento nella regione di una struttura sovranazionale al cui intemo identità ed entità diverse trovano comune spazio ed espressione coerentemente con l’esperien­ za storica dei popoli vicinorientali e con il dettato islamico, il quale, quando definisce il soggetto politico, lo fa in termini di comunità e non di etnia. L’idea di un -confine», che esprime sia esperienze storiche, anche anteriori all’IsIam, sia la concezione musulmana cui si fa qui riferimento, si traduce per lo più in una questione amministrati­ va, o di rispetto della peculiarità dell’entità comunitaria interessata, quando questa può rivendicare un suo territorio specifico o anche solo tradizionale. Di rado un tal confine diventa frontiera. Questa delimita piuttosto l’ecumene islamica nei confronti del mondo della miscredenza, cristiana o altro che sia. Speculazione filosofica e pragmatismo giuridico, che pur continua­ no ad affermarsi nel mondo islamico - anche se in maniera più originale in Iran o in India che non nel mondo arabo - cessano, nella visione storica di cui si parla, di essere, come era stato fino ad allora, valori di tutti, a prescindere da questa o quella collocazione geografi­ ca, da questo o quel contesto socioculturale che può averli nutriti. La circolazione del sapere, che è forse uno dei tratti caratterizzanti la civiltà islamica fino all’ottocento (circolazione - va detto - che non coinvolge le masse ma crea una sorta di intellighentzia cosmopolita che ha cittadinanza in tutto il mondo islamico), diventa con ciò problematica, poiché il sapere tende a configurarsi come prodotto di qualche istanza particolare e perde, in questa maniera, la rappresen­ tativa dell’insieme. Ciò non significa che i canali della trasmissione delle idee siano drasticamente tagliati. Le teorie sul nazionalismo turco, per esempio, serviranno da piattaforma ideologica per non pochi ideologi arabi nazionalisti. Ma solo i fautori del panislamismo, che si concretizza come corrente di pensiero verso la metà del secolo scorso grazie all’azione del suo fondatore, Giamal ai-din al-Afghani, di origine persiana ed educato in ambiente sciita ma che si pretende sunnita (perciò afghano) al fine di trovare più ascolto, manterranno fermo il concetto della sostanziale unità del mondo islamico e della sua conseguente comune reattività di fronte ad un evento che tocchi o si produca in un qualunque suo punto.

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IL MONDO ARABO: CENTOCINQUANT'ANNJ DI STORIA

In relazione alla modernizzazione le implicazioni sono contraddit­ torie. Da un lato il mondo arabo innesca un processo culturale di ampio respiro che riguarda soprattutto la lingua e la produzione letteraria. E a cavallo del XIX e XX secolo che prendono consistenza gli esperimenti per integrare nell’arabo la terminologia tecnico-scien­ tifica occidentale e renderlo così strumento moderno di comunicazio­ ne e di elaborazione. Lo scarto tra l’attualità e l’epoca in cui era dall’arabo che il mondo civile, Europa compresa, traeva parte del suo vocabolario scientifico non appare incolmabile. Anzi la sperimenta­ zione linguistica permette un’acculturazione di idee e di fenomeni relativamente indolore. Dall’altro lato, però, proprio perché rivendi­ cato, per così dire, dagli arabi come proprio ed esclusivo patrimonio, l’arabo perde la sua universalità ad esso derivata dall’essere la lingua della Rivelazione, ribadita e consolidata dall’uso plurisecolare come voce della filosofia e della scienza, oltre che della teologia e del diritto. Non è perdita da poco: quanto prodotto in arabo si rivolge così a un’utenza limitata quantitativamente e qualitativamente, nella misura in cui l’intellighentzia cui si è accennato inizia a perdere il suo connotato cosmopolita, quindi poliglotta. Conseguenza evidente è una sorta di provincializzazione del sapere, anche quand’esso si presenta secondo il metro di giudizio occidentale come aggiornato nei contenuti e in certe metodologie. Che si assista a una notevole produzione culturale (a fine Ottocento compaiono i primi giornali arabi e nei primi decenni del Novecento si hanno i primi esempi di romanzi sulla falsariga della letteratura europea, così come le prime sistematiche opere di traduzione in arabo dall’inglese e dal francese) è indice di un’indubbia rinascita, ma anche della rottura di un tessuto culturale che vantava ben altre dimensioni. Nel nuovo clima il termine «tradizione» viene ad assumere un significato ambiguo, nel momento in cui si pretende di riportare in vita, con gli aggiustamenti del caso, la tradizione stessa. Difficile sottrarsi all’impatto della valutazione negativa espressa dall’occidente nei confronti del passato arabo, o islamico che sia, la superiorità tecnologica e militare europea funzionando da conferma obbiettiva. I valori da salvare, e da restaurare, passano dunque per il filtro europeo che, a sua volta, è fortemente condizionato dal romanticismo e dallo spirito risorgimentale che in un modo o nell’altro permeano la cultura occidentale ottocentesca. Se è ininterrotta la testimonianza del pregiudizio che vuole l’arabo beduino e primitivo, o mercante astuto e fanatico, nei fatti il contatto che per secoli si è protratto attraverso il Mediterraneo con il mondo arabo-islamico, in termini di parità o comunque di convenienza 13

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reciproca, ha tuttavia impedito che il preconcetto prevalesse sulla realtà. Che è quanto occorre, invece, quando il preconcetto diventa funzionale ad un progetto politico - il colonialismo - e l’immagine di sé proposta dal mondo arabo (che è quello che qui ci interessa, anche se il discorso può applicarsi al mondo musulmano nel suo comples­ so), utilizzando schemi concettuali e pratiche di importazione occi­ dentale, diventa subalterna e inautentica. La critica che, per molti versi giustamente, investe la propria visione del mondo e di sé svolge il ruolo piuttosto della negazione che della propositività. Si dice quello che non ha funzionato, quello di cui ci si deve liberare, mentre in pratica si affida all’occidente il compito di maestro per il futuro. E ciò anche quando, formalmente, a livello teorico, dell’occidente si denuncia l’aspetto della prevaricazione e della strumentalizzazione. Si guarda alla religiosità popolare come a una forma degradata di Islam, si guarda al mosaico composito delle società vicinorientali come a un fattore di arcaicità e di impedimento nei confronti di uno sviluppo moderno, si guarda all’esperienza statuale ottomana come a un’aberrazione politica. Si proclama la necessità di un ritomo alle radici (passato o trapassato remoto, spesso un’astrazione) e si tagliano le trame che collegano il presente con il passato (prossimo). Sempre nei fatti la ricerca delle motivazioni profonde del proprio arretrare si formula innanzi tutto contro se stessi e solo in seconda istanza contro chi, nelle circostanze specifiche, ne è il massimo responsabile, cioè l’Occidente coloniale: atteggiamento, questo e in questo senso sì, conforme alla tradizione arabo-islamica che, poco attenta all’estemo, si mette in discussione prima di trovare fuori di sé i colpevoli della propria crisi. Come le Crociate erano state lette nel senso di un’ammonizione divina a contenere e a risalire la china della decadenza, così, invece di dare credito alla propria storia che, non diversamente da quanto succede altrove, allinea elementi di staticità a indubbie spinte innovative, si costruisce un’idea di passato e di tradizione che si risolve in un dar ragione all’occidente, anche quando il giudizio espresso in merito è di segno opposto.

2. Un simile quadro, che evidenzia i danni dell’acculturazione anche quando volta verso la modernizzazione, è indispensabile per colloca­ re nel suo giusto contesto l’altro binomio da cui si è partiti: nazionalismo/Islam. Il desiderio e il diritto di essere considerati soggetti politici in piena regola costituiscono il fondamento del nazionalismo arabo. L’irre­ quietezza dimostrata ininterrottamente o quasi nei confronti dell’im-

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pero ottomano durante i quattro secoli di quella dominazione viene interpretata come premessa alla reazione nazionale all’ingerenza straniera. Storicamente tale irrequietezza si spiega vuoi come una costante del rapporto tra le realtà beduine presenti nel Crescente fertile e un qualunque potere centrale, vuoi come una sequela di rivendicazioni socioeconomiche, assolutamente spiegabile ma che non si può ascrivere a una volontà di contrapposizione etnico-nazionale. A partire dall’ottocento, in concomitanza con un’interferenza occidentale che si rivela coloniale ben prima dell’acquisizione della gestione diretta del potere da parte degli stati europei, il contesto muta sostanzialmente. La crisi dell’impero ottomano ha radici nella sua parte europea, scossa dai vari risorgimenti nazionali balcanici, ma si ripercuote nell’oriente arabo a sua volta colpito da una decadenza economica derivante dalla crescente presenza di manufatti europei sui suoi mercati, a prezzi assolutamente competitivi grazie alle tecnologie che la rivoluzione industriale ha prodotto e diffuso in Europa. Non è questa la sede per tentare di dare una risposta, quand’anche solo indicativa, al quesito: perché il mondo islamico, e quindi quello arabo, non abbiano autonomamente vissuto un’evoluzione scientifi­ co-tecnologica analoga a quella occidentale, e tale da sfociare appunto in una rivoluzione industriale. È certo che molte premesse, se pur non tutte, si davano: inutile ripetere come la ricerca scientifica che il mondo musulmano ha sviluppato nel momento del suo splendore politico tra il IX e il XII secolo non si sia limitata a teorizzare ma si sia accompagnata a una sperimentazione che ha avuto docu­ mentati effetti tecnologici. Inutile anche insistere sull’assenza in IsIam, in termini concettuali o dottrinali, di qualunque pregiudizio contro il fatto di perseguire, come dice il Profeta, «la scienza foss’anche in Cina». La scoperta delle Americhe e il conseguente spostamento dell’asse commerciale intemazionale dal Mediterraneo all’Atlantico può essere una delle ragioni del mancato salto qualitativo. Ma riguarda solo una parte del mondo musulmano. Il mai avvenuto saldo, da parte europea, del debito contratto nei confronti dell’IsIam quand’esso è stato tramite, specialmente in Spagna, dell’eredità greca arricchita dalla speculazione musulmana di secoli, è un’altra concau­ sa. Ma rimane ampiamente aperto il problema della mancata evolu­ zione dei sistemi di sfruttamento agricolo, dell’attività produttiva in settori determinanti come quello tessile, dell’organizzazione del lavoro, nell’insieme dell’ecumene islamica e nei singoli paesi musul­ mani. Tutto ciò per sottolineare come le tensioni socioeconomiche

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verificatesi nell’ottocento, che vanno a sommarsi agli effetti accultu­ ranti di cui si è detto, assumano una dimensione e un impatto diversi rispetto al passato, e che di tutto ciò si alimenti il fenomeno del nazionalismo arabo. Questo procede per tappe. Fatto ideologico-culturale nell'ottocento, diventa fatto politico quando la prima guerra mondiale, che ha visto gli arabi allineati con Francia e Gran Bretagna contro l’impero ottomano, si conclude con la clamorosa - e vergogno­ sa - smentita delle rivendicazioni arabe. In luogo dell’indipendenza promessa, gli arabi assistono alla divisione del Vicino Oriente in stati sottoposti a regime mandatario e ai prodromi, sia pure indiretti, del futuro Stato di Israele. E nel Nordafrica arabo, con la parziale eccezione dell’Egitto, si consolidano i domini coloniali, francese nel Maghreb, italiano in Libia. Presentando il nazionalismo arabo attraverso una sorta di progres­ sione da fenomeno culturale a fenomeno politico non si intende negare le valenze politiche preesistenti e, direi, connaturate al nazionalismo stesso. Quanto si vuole evidenziare è la crescente assunzione da parte del movimento o dei movimenti nazionalistici arabi di strutture ampiamente mutuate dall’esperienza europea, come quelle partitiche. Con un doppio esito: da un lato una relativa estraneità delle masse ai partiti nazionalistici che rimangono, nella stragrande maggioranza dei casi, retaggio di élites acculturate, dall’al­ tro un recupero consapevole dell’istanza -Islam- come elemento portante dell’identità nazionale o, per meglio dire, dell’arabicità. Alle origini del nazionalismo arabo si registra una notevole presenza minoritaria, cristiana e talvolta ebraica: non esclusiva, beninteso, nel senso che, a cavallo del secolo scorso e del nostro, i musulmani arabi che hanno optato per un’ideologia nazionalistica non sono certo stati pochi. Ciò nondimeno tale presenza è stata importante per un approccio laico alla definizione di sé, essenziale visto che solo su una base non confessionale si poteva costruire l’idea di nazione araba. Arabo era, allora, semplicemente colui che parla arabo, a prescindere dal credo di appartenenza. Tale approccio si modifica quando diventa necessario mobilitare le masse in funzione di un’azione, si tratti di una lotta di indipendenza nazionale o di un comportamento definito nei confronti della potenza coloniale. Le masse sono maggioritariamente musulmane, e, soprattutto, sono meno acculturate delle élites nazionalistiche. Esse rispondono, quin­ di, a parole d’ordine che siano loro comprensibili, che, cioè, in un modo o nell’altro, si pongano su una linea di continuità con il passato. Di qui l’inserzione necessaria dell'IsIam nel patrimonio nazionale: l'IsIam è qualche cosa di più che una religione; esso è una civiltà, una

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IL MONDO ARABO: CENTOCINQUANTANNI DI STORIA

cultura, e come tale coinvolge anche chi musulmano non è, e in modo particolare gli arabi, poiché l’arabo, di tale civiltà e di tale cultura, è stato il veicolo primo. Non si è certo di fronte a un approccio o visione clericale e integralista, anche se è per tale via che l’IsIam acquista o riacquista una valenza privilegiata. Lo dimostra il fatto che tale assunzione di importanza non esclude che, negli anni Venti, si assista alla nascita di movimenti che si proclamano musulmani - i Fratelli musulmani, per esempio - e i cui obbiettivi vanno al di là del mondo arabo, sebbene, più o meno consapevolmente, si nutrano dell’ideolo­ gia nazionalistica, e in questo senso possano qualificarsi eredi del panislamismo ottocentesco. In ogni caso, quel particolare intreccio tra nazionalismo e IsIam che caratterizza molte situazioni contempora­ nee è già in nuce nella realtà politica araba tra le due guerre.

3. Quanto detto vale per tutti i paesi arabi, qualunque sia stata l'esperienza specifica che essi hanno vissuto. È però ovvio che le vicende dei vari paesi non possono essere omologate secondo un unico schema e vanno, invece, analizzate singolarmente. 3.1 Incominciamo dalla regione siro-palestinese: la Siria o -la grande Siria», come qualcuno la definisce. Essa è un’entità unitaria sino alla fine della prima guerra mondiale, quando la Francia ottiene il mandato su quelli che oggi sono gli stati del Libano e della Siria e l’Inghilterra sulla provincia meridionale, la Palestina. Sul territorio palestinese, in base ad una famosa quanto contestata decisione delle Nazioni Unite, la n. 181 che gli arabi non applicheranno, si creerà lo Stato di Israele, mentre non verrà costituito il previsto Stato palestine­ se che si vedeva riconosciuta quella parte di territorio nota oggi come Cisgiordania, la striscia di Gaza e la zona di Nazareth. La partizione non corrisponde, se non in teoria, al criterio del rispetto della maggioranza della popolazione residente, visto che la popolazione ebraica all’epoca è valutata nell’ordine del 35% e le terre in mano ebraica sono il 7% del territorio palestinese, mentre lo Stato ebraico si vede assegnare il 56,5% del tutto. Come reazione immedi­ ata, gli stati arabi tentano di opporsi con la forza alla partizione, e di occupare la Palestina. È la prima guerra arabo-israeliana. Essa si conclude con un’avanzata israeliana, consolidata irreversibilmente da una politica del terrore che spinge molti palestinesi ad abbandonare il paese e da un’annessione della parte rimasta sotto controllo arabo all’allora Transgiordania che prende il nome di Giordania, con l’eccezione della striscia di Gaza che verrà amministrata dall'Egitto. Israele riunificherà in pratica il territorio della Palestina classica nel

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1967, con la guerra dei sei giorni, sebbene la Cisgiordania e Gaza non vengano annesse (annessa è solo la parte est di Gerusalemme, che viene proclamata capitale di Israele, senza riconoscimento intemazio­ nale) ma rimangono sotto occupazione militare. La questione palestinese rientra nel quadro delle vicende coloniali: con una sua specificità, peraltro, che va segnalata. L’interesse europeo per la Palestina è alquanto peculiare. Se è vero che l’Inghilterra tende a controllare tutti i punti strategici della via che porta alla sua colonia più importante, cioè l’india (da Suez a Aden al Golfo Persico, quindi alla Palestina per lo sbocco attraverso il Sinai sul Mar Morto), è altrettanto vero che i luoghi santi cristiani attirano l’attenzione roman­ tica e risorgimentale europea. Da un lato si vuole dare valore di documento scientifico alle scritture bibliche, dall’altro siamo in un’e­ poca di esplorazioni, e la Palestina si presta a essere oggetto privilegiato di indagini archeologiche e scientifiche. Allo spirito di crociata che accompagna tali indagini partecipano, sia pure con un intento economico più immediato, alcuni membri della grande finanza occidentale di religione e/o di ascendenza ebraica. Questi sperimenteranno, con poco successo, alcune forme di sfruttamento agricolo per le quali o ci si rivolge a una manodopera ebraica locale numericamente poco consistente o si favorisce un’immigrazione dall’Europa, immigrazione tanto più facilmente provocabile quanto più drammatica si fa la situazione degli ebrei sudditi dell’impero zarista, sottoposti a pogrom e persecuzioni di varia natura. Su un terreno almeno in parte precostituito, e comunque favorevole, nasce­ rà alla fine dell’ottocento il sionismo politico, con l’esplicita finalità di creare uno Stato ebraico, la cui collocazione per accettazione e incoraggiamento delle grandi potenze, Gran Bretagna in prima istanza, verrà ipotizzata in Palestina. Un po’ come dire che la logica formazione in Europa di un nazionalismo ebraico, partecipe del clima culturale del tempo e plausibile risposta all’integrazione sollecitata dalla rivoluzione france­ se, si deteriora e si deforma nell’intreccio tra sionismo e colonialismo. Dopo di che i fatti sono relativamente semplici. Cresce la richiesta di immigrazione in Palestina da parte di ebrei europei, e cresce la sollecitazione ad acquistare terre in mano araba, attraverso l’azione di Un’Agenzia sionista a ciò preposta. Ambiguo l’atteggiamento ottoma­ no, in relazione alle pressioni cui l’impero è sottoposto; tollerante, in prima battuta, quello palestinese, sebbene fin dall’inizio si percepisca il pericolo connesso con tale immigrazione. I contadini, in particolare, protestano a più riprese, consapevoli che i capitali e le tecnologie che gli ebrei importano nel paese sono destinati a sostenere un modello 18

IL MONDO ARABO: CENTOC1NQUANTANNI DI STORIA

economico che li esclude. Ma la data con cui ufficialmente si fa iniziare la questione palestinese è quella della dichiarazione Balfour (1917). Unilateralmente, per voce del suo Ministro degli Esteri, la Gran Bretagna promette un «focolare ebraico* in Palestina. Secondo la storiografìa più accreditata ciò risponde alla necessità di impegnare al proprio fianco contro le potenze dell’Asse gli Stati Uniti, dove i potenti circoli finanziari ebraici riescono a imporre alcune loro condizioni tra cui, appunto, la «home* ebraica in Palestina. 11 mandato britannico si compirà all’insegna della contraddizione. La Gran Bretagna negherà di lavorare a creare le premesse di uno Stato ebraico, e in determinate circostanze tenterà effettivamente di regolamentare il flusso di immigrazione ebraica. Più spesso, però, le sue decisioni corrisponderanno ai desideri delle organizzazioni sioniste, alle quali viene concesso di strutturarsi localmente, sia sul piano militare sia a livello amministrativo e economico, in funzione di un’ipotesi statuale a breve termine. La tragedia provocata dai nazisti compirà il resto. A ben poco varranno le proteste palestinesi, anche quando assumeranno le dimensioni di una rivolta popolare di tre anni (1936-39), o quando verranno espresse da movimenti e partiti rivendicanti una larga base di massa, vedendo militare fianco a fianco cristiani e musulmani, accomunati dal fatto di essere palestinesi. Bisognerà attendere il 1965 con le prime azioni di al-Fatah, e poi il 1967 con la nascita dell’odierna versione dell’OLP (una prima edizio­ ne del 1964 non è molto significativa) perché i palestinesi ritornino sulla scena politica da protagonisti. A questo punto, però, va registrata un’ulteriore specificità del caso. Una larga parte della popolazione palestinese, più della metà, vive fuori del suo territorio. Impossibile, ma anche indesiderata l’assimilazione all’interno degli stati ospiti, per lo più arabi (c’è una diaspora palestinese anche in Europa e negli Stati Uniti), perché il fatto di essere portatori di una causa nazionale frustrata porta i palestinesi ad assumere posizioni scomode per i regimi arabi, in quanto una forma avanzata di democrazia viene postulata come via da seguire nel corso della lotta oltre che come risultato della medesima. Ovvie le conseguenze di una modernità palestinese che non si riscontra facilmente in altre società arabe. Scontata anche la reazione da parte araba. A livello di massa, e in linea generale, si registra una solidarietà di fondo; da parte dei governi in carica si assiste a un formale sostegno e a una ricorrente repressione (settembre nero in Giordania, 1970; Teli Zaatar nel Libano, 1976; evacuazione dell’apparato militare dell’OLP sempre dal Libano, 1982, ecc.). Non si vuole presentare come esente da errori la politica palestinese fuori e dentro la Palestina, sebbene fenomeni come quello

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dellintifada nei territori occupati, una sorta di rivoluzione popolare permanente dal 1987 a tutt’oggi, spingano a sottolineare conquiste e maturità raggiunte piuttosto che ritardi e incongruenze. L’elemento importante sta invece nella consapevole e libera scelta dei palestinesi di essere popolo e società a prescindere dal frazionamento operato sul loro tessuto sociale. La memoria del passato accompagna l’esule e vitalizza il mito del ritorno; l’esperienza diretta di che cosa significhi essere vittime del sistema dominante alimenta la volontà di resistenza in chi è rimasto e trasforma in testimonianza universale la lotta per il diritto alla sopravvivenza e all’autodeterminazione. La produzione culturale, dalla letteratura alla musica al teatro e al cinema, registra la complessità delle molte anime palestinesi ed evidenzia, nel contem­ po, l’unitarietà del tutto. 3.2 Emblematica di una certa traiettoria nazionalistica araba è la storia della Siria moderna. Da sempre pluriconfessionale e plurietnica, la Siria è senza dubbio la culla dell’arabismo. Non a caso sull’arabismo o meglio sulla necessità di perseguire la causa araba fino alla sua logica soluzione, la costituzione di un’entità politica capace di rappresentare la nazione araba nel suo insieme - si costruisce l’ideologia della dirigenza siriana attuale. Paese povero ma con risorse umane notevoli, la Siria conosce, ormai da più di un secolo, in maniera meno drammatica per esempio dell’Egitto, gli effetti di una crisi economica endemica. I tentativi di industrializzazione, per i quali si sono avviati grandi progetti idraulici (dighe sull’Eufrate), non sono operati a danno di una forma di agricoltura, spesso arcaica, ma che permette al paese una relativa autosufficienza per alcuni fabbisogni alimentari di base. Sotto mandato francese fino al 1943 (in realtà le ultime truppe straniere lasciano il paese nel 1946), la Siria conosce un tormentato processo di assestamento. I colpi di Stato si succedono a ritmo serrato tra il 1949 e il 1958. Una pausa che pure non elude tensioni sociali di notevole portata - si pensi all’opposizione in realtà guidata dai Fratelli musulmani che si conclude con una decisa repressione governativa (occupazione devastatrice di Hama nel 1982) - è dovuta all’avvento al potere di una corrente del Ba’th, il partito nazionalista della rinascita araba, sotto la presidenza di al-Asad, nel 1970. Siriana è in larga misura la storia del Ba’th, che è al potere anche in Iraq, e siriano e cristiano, ma convinto assertore dei valori culturali dell’IsIam nella formazione dell’identità araba, è il suo fondatore Michel Aflaq. In Siria si danno i primi e più significativi tentativi di presa del potere ba’thista (1963,1966), e ancora in Siria, più coerente­

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mente che altrove, il Ba’th ispira una scelta di campo intemazionale antiisraeliana, sebbene più in funzione degli interessi dello Stato e del regime che non dei palestinesi: scelta che solo oggi appare meno rigida in concomitanza con le ipotesi di soluzione dei conflitti della regione attraverso i colloqui di pace promossi dagli Stati Uniti a partire da quelli di Madrid nel 1991, e tuttora in corso. Parte in causa visto che Israele occupa dal 1967 una parte del suo territorio nazionale (le alture del Golan), e in quanto interessata a una giusta ridistribuzione delle risorse idriche che sono tra gli obbiettivi prioritari dell’espansionismo israeliano, sulla stabilità o meno della Siria si gioca l’assetto della regione. L’esempio più probante in merito è il peso del suo intervento negli avvenimenti libanesi a partire dalla guerra civile del 1975 e fino ad oggi. Ciò nonostante, o, se si preferisce, proprio a causa di tutto ciò, la realtà siriana è poco nota in Europa. Si favoleggia dell’anomalia di un regime che vede nelle sue sfere più alte la presenza massiccia di una minoranza musulmana, gli alawiti, sorta di setta di matrice sciita, esoterica e chiusa; si attribuisce al regime una specie di vocazione terroristica che va al di là del documentabile; si ascrive, troppo semplicisticamente, l'egemonia che la Siria si va indubbiamente costruendo sul Libano a nostalgie per un passato che vedeva unita la regione. Meno si parla di una continuità culturale che dà frutti notevoli, o di una capacità di convivenza tra cristiani e musulmani tutt’altro che scontata nella situazione attuale. Certo, la democrazia è un terreno ancora da esplorare, in Siria come in tutto il mondo arabo, ma in Siria i guasti del colonialismo, e della deculturazione da esso indotta, sono stati senza dubbio contenuti, in nome, probabilmente, di un legame con le proprie matrici culturali interiorizzato dalle masse e non solo dalle élites occidentalizzate. Il che non è cosa di poco conto nel delineare un profilo storico anche sommario. 3.3 . Per molti aspetti le vicende libanesi possono essere omologate a quelle siriane. È stato anch’esso sotto mandato francese, e partecipe dei fermenti culturali e politici che sfoceranno nel nazionalismo arabo, ed è anch’esso pluriconfessionale. Senonché, la più incisiva presenza cristiana rende il Libano eccezionale agli occhi dell’Europa, che lo individua come suo interlocutore privilegiato. Di qui una persistente azione europea volta a esaltare la componente cristiana a svantaggio di quella musulmana, in contrasto con la tradizione storica del paese che lo ha visto da sempre integrato nel mondo musulmano, anche quando, localmente, si è dato un potere cristiano semindipendente. In questa prospettiva va considerato il Patto nazionale, verbal­

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mente concluso nel 1943 tra la comunità cristiana più numerosa all’epoca, quella maronita, e i musulmani, patto la cui responsabilità ricade in massima parte sulla Francia. Tuttavia l’indipendenza, ottenu­ ta nel 1943, non ne rivela immediatamente le conseguenze disastrose. È vero che le grandi famiglie locali, cristiane, druse o altro, si fanno la guerra, è vero che i governi si alternano e il paese vive uno stato di instabilità perenne, ma è anche vero che il Libano ha un’economia florida - lo si considerava la Svizzera del Vicino Oriente -, che i paesi arabi vicini vi importano e vi depositano i loro capitali, che l’agricol­ tura riesce a trovare sbocchi nei paesi del Golfo, che la vivacità culturale - si pensi che Beirut ha almeno quattro grandi università - lo rende il rifùgio di quell’intellettualità araba che altrove è sottoposta a censure più o meno rigide. Lo stesso Patto nazionale che vuole maronita il capo dello Stato, sunnita il presidente del Consiglio e sciita il presidente del Parlamento viene utilizzato per sancire una convivenza interconfessionale accet­ tabile. Ma il contesto non aiuta a mantenere in vita quest’oasi felice. I rifugiati palestinesi, presenti nel sud del paese dal 1948, aumentano drammaticamente a seguito dell’esodo dalla Giordania dopo il settem­ bre nero. L’OLP stabilisce a Beirut il suo quartiere generale e viene autorizzata a usare il territorio libanese come base per le sue azioni di guerriglia contro Israele. Risultato: si denuncia una sorta di Stato nello Stato, e la solidarietà popolare nel sud diminuisce nella misura in cui le ritorsioni israeliane non discriminano tra la popolazione locale e i palestinesi. Sempre negli anni Settanta la comunità sciita, che vive in condizioni di emarginazione nel sud, nella Biqa’ e nei quartieri periferici di Beirut, in uno sforzo di emancipazione voluto da un leader prestigioso di origine araba ma educato in Iran, Musa Sadr, pretende in nome del Patto nazionale di veder riconosciuto il suo ruolo di comunità maggioritaria. Senonché un nuovo censimento non viene indetto e si rimane fermi ai dati ormai anacronistici del 1932. Ma così inizia l’attivismo politico sciita, quello di Amai, da cui si stacche­ ranno per una più decisa presa di posizione integralista alcune frange che si dedicheranno a un’attività di indubbia matrice terroristica. Nel 1975 scoppia una guerra civile nella quale la Siria interviene e si istalla militarmente nel paese. Nel 1982 Israele, nell’intento di portare i suoi confini al fiume Litani, indispensabile al suo sviluppo industriale, occupa con un’operazione spettacolare il Libano e se ne ritirerà solo dopo un’aspra resistenza e l’indebolimento dello strapotere maronita, che si avvale delle organizzazioni militari falangiste messe in piedi dal -patriarca» della grande famiglia dei Gemayyel già nel 1936. Le lotte intestine proseguono. Il paese è attraversato da una crisi 22

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economica senza precedenti, cui fa da risvolto un’altrettanto inaudita impasse politica. Beirut è teatro di una guerra tra fazioni, tra clan, tra famiglie, che vista dail’estemo non risponde a nessuna logica ed è addirittura difficile da raccontare. I segnali di ripresa oggi percepibili sono lenti e per lo più incerti: tutto potrebbe riprecipitare, così come tutto potrebbe riassestarsi pur senza che vi si diano modificazioni strutturali e politiche profonde e irreversibili. In un simile contesto rimangono in vita la società libanese e il nazionalismo libanese. Il nazionalismo è certamente un prodotto di questo secolo, legato all’esperienza coloniale e al distacco forzato dalla Siria; la società libanese è ben più antica. Non è un paradosso: al contrario, la cosa testimonia della fisionomia della regione, al cui interno i particolarismi hanno sempre potuto esprimersi e conservarsi. Di qui quella specifica apertura, che si sarebbe tentati di definire mediterranea, nei confronti dell’esterno, quel cosmopolitismo che si percepisce in tutte o quasi le manifestazioni sociali e culturali che si etichettano come libanesi, quello spirito di sopravvivenza che fa sì che anche sotto le bombe si pubblichino più libri a Beirut che in tutto il resto del mondo arabo, per non dare che l’esempio più clamoroso. In tutto ciò va identificato il Libano e ricercata la decifrazione della sua storia.

4. Se l’arabismo nasce in terra siro-palestinese, è l’Egitto che ne diventa poi il simbolo. Alcune ragioni sono strutturali. Concerne l’Egitto la data da cui si computa l’era moderna per il mondo arabo. È il 1799, data della spedizione di Napoleone Bonaparte, che ha sul piano culturale un risultato di tutto rilievo: Champollion, che ne è al seguito, scoprirà il segreto dei geroglifici e aprirà, per così dire, l’era dell’orientalistica scientifica. Sul piano politico, è il primo impatto con l’Occidente in un paese che, grazie all’importanza economica che riveste per l’impero ottomano, ha un peso particolare. E la lezione della modernizzazione può tradursi in Egitto in una serie di sperimen­ tazioni che, a detta di alcuni studiosi, avrebbero potuto darvi adito a uno sviluppo industriale non dissimile da quello di molti stati della riva nord del Mediterraneo. Compie tali sperimenti un governatore, Muhammad ’Ali, che finisce con l’acquisire una sostanziale autonomia nei confronti della Sublime Porta. Inizia così la monocoltura del cotone, positiva nella prospettiva dell’impianto di un’industria tessile, dannosa dal momento che l’industrializzazione non si realizza nei termini dovuti. Tuttavia la società egiziana vive prima di altre società arabe le trasformazioni legate al passaggio da un modello di sviluppo arcaico a uno moderno. 23

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Già nell’ottocento la condizione femminile viene sottoposta a discussione, si aprono scuole di tipo tecnologico, si sviluppa un embrione di borghesia. Il governo egiziano è interessato da un lato a espandersi verso la regione siro-palestinese - vocazione antica e persistente dell’Egitto -, dall’altro a servire da braccio armato al sultano ottomano nei casi, come quello della penisola araba, in cui l’autorità ottomana viene contestata in nome di un movimento religioso rigorista e militante, il wahabismo, cui si affianca una famiglia, gli Al Sa’ud, decisa a imporsi in loco da sovrana. Ciò accelera e la sua costituzione e il potenziamento di scuole militari che diventano il laboratorio di un nuovo ceto dirigente, aperto alle tecnologie occidentali e persuaso di essere destinato a guidare il paese nella sua evoluzione. Fallimentare dal punto di vista finanziario - l’Egitto si indebiterà pesantemente con Francia e Inghilterra -, ma importante sotto il profilo strategico è il canale di Suez, che viene aperto nel 1867. Cosmopolite le grandi città egiziane, come Alessandria e il Cairo, composita la popolazione anche rurale, data la consistenza dei copti che rappresentano il 15% circa. Ma proprio il vantaggio che l’Egitto registra sul resto dei mondo arabo in fatto di modernizzazione determina un atteggiamento con­ traddittorio nella sua politica. Indiscutibile il formarsi di un sentimento nazionale abbastanza saldo, tant’è vero che una delle prime manife­ stazioni clamorose dell’ostilità contro l’ingerenza straniera, nel caso britannica, è la rivolta di ’Urabi Pasha, un militare appunto, nel 1881-82. La rivolta fallisce e la Gran Bretagna ne trae il pretesto per occupare militarmente il paese. Nello stesso tempo, però, l’Egitto partecipa a fianco della stessa Gran Bretagna alla repressione della ribellione del Mahdi nel Sudan (1881-1885). Questa, condotta all’inse­ gna della denuncia della debolezza ottomana e del pericolo europeo e in nome dell’IsIam (mahdi, cioè messia, si proclama il suo capo, Muhammad Ahmad appartenente a una confraternita religiosa), persegue peraltro finalità meno limpide, tra cui la tratta degli schiavi, tradizionalmente in mano araba nella regione. La ribellione viene soffocata nel sangue e si instaura un condomi­ nio anglo-egiziano sul Sudan. Nonostante l’ingerenza inglese, grazie all’autonomia acquisita fin dal primo Ottocento nei confronti di Costantinopoli, la prima guerra mondiale sancisce una formale indipendenza egiziana (1929) sotto un discendente di Muhammad ’Ali, che si può considerare il fondatore della dinastia, con l’appoggio del Wafd, il partito che ha contrattato con le grandi potenze tale soluzione. 24

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Perché socialmente più evoluto, l'Egitto diventa il teatro più importante delle vicende politiche vicinorientali tra le due guerre, in relazione non tanto ai fatti quanto alle dinamiche che le sottendono, e che indicano come il paese possa giustamente considerarsi avan­ guardia ed espressione per eccellenza dell'arabismo. In Egitto si danno, come si è detto, organizzazioni politiche maggiormente strutturate, anche di matrice o islamica o marxista, le più consistenti lotte sindacali, i più significativi movimenti femminili. In Egitto si apre un lungo dibattito condotto da musulmani sinceri sul significato da attribuire alla tradizione e al retaggio culturale dell'IsIam, anche in tema di concezioni politiche e statuali. In Egitto si rinnova, introdu­ cendo accanto alle discipline teologiche e giuridiche le scienze occidentali, l'università musulmana di al-Azhar, destinata così a diventare uno dei poli per la formazione dell’intellettualità musulma­ na del mondo intero. Nulla di eccezionale, quindi, che in Egitto si operi il primo radicale mutamento di rotta nella politica araba con la rivoluzione dei Liberi Ufficiali (1952) che porterà al potere (1954) 'Abd al-Naser. Con questo incomincia la stagione d’oro del nazionalismo arabo. Una prima vittoria l’Egitto l’ottiene nazionalizzando il canale di Suez, anche se ciò comporta una guerra (1956) che vede alleati Inghilterra e Francia, i principali interessati, e Israele (guerra che ha termine con la mediazio­ ne degli Stati Uniti che stabiliscono le basi per il loro futuro ruolo egemonico nella regione). Ma le speranze concernono tutti i settori. Irrealizzabili nei fatti, ma persuasive come parola d’ordine, si ipotizza­ no federazioni di stati arabi, funzionali a quell’unità della nazione araba alla cui idea anche le masse sembrano convertite-, si avvia una riforma agraria, nell’interesse dei contadini ma soprattutto in funzione del mutamento di sviluppo economico del paese; culturalmente il Cairo diventa il centro propulsore panarabo in tutti i settori, e vengono denunciati tutti i mali sociali, l’oppressione sulle donne, l’arretratezza delle campagne, la piaga dell’analfabetismo, il problema demografico, l’urbanizzazione selvaggia. Spesso il cinema è il grande veicolo attraverso cui presentare tali problemi all’opinione pubblica, egiziana e araba in generale. Interromperà il sogno, e con il sogno cadranno le possibilità di continuare, senza aggiustamenti vistosi, la via del nazionalismo intrapresa da ’Abd al-Naser, la guerra dei sei giorni (1967). Israele distrugge la potenza bellica egiziana e occupa il Sinai con tutto quello che la cosa comporta. Quanto segue è storia di oggi. La successione di Sadat a 'Abd alNaser, morto nel 1970, determina un cambiamento di rotta. Il regime 25

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tende ad appoggiarsi a quel movimento che convoglia il malessere e la delusione verso una ripresa dello •spirito autentico- dell’IsIam come unica garanzia di successo, ma proprio da tale movimento Sadat verrà travolto, assassinato nel 1981 dal commando di un’organizzazione islamica radicale. La sua politica, culminante nella visita a Gerusalem­ me (1977) e nella pace separata con Israele, sancita con gli accordi di Camp David (1978), rompe l’alleanza araba antiisraeliana, fa passare l’Egitto nel campo occidentale, ma non determina né una svolta democratica sostanziale, né una soluzione alla depressione economi­ ca nel paese che, al contrario, registra un arretramento complessivo, solo recentemente - pare - in via di riassorbimento. L’esperienza passata resta comunque per garantire un senso dello Stato che, magari inadeguato alle necessità, è senza dubbio più forte che altrove. Ciò permette al paese di contenere le spinte eversive dell’integralismo islamico, pur attivo e diffuso. Piuttosto che sull’arabicità, sarà sull’egizianità che l’intellighentzia punterà per recuperare un ruolo egemoni­ co compromesso. E, nel caso, l'egizianità non è parola vuota, visto che si alimenta di un passato, e vecchio e recente, di protagonismo vitale. 5. Resta il Maghreb, la regione più occidentale del mondo arabo, spesso considerata come unitaria, pur se suddivisa oggi - ma anche nel passato - in entità statuali diverse. Dal punto di vista della storia recente l’unitarietà si conferma per il fatto d’aver essa subito nel suo insieme, al di là delle forme che possono differire, il colonialismo francese e con esso una deculturazione tra le più vistose registrate. Ciò a dire che il Maghreb, nonostante l’esistenza di un’etnia berbera numericamente importante e molto presente, non poteva non abbrac­ ciare la causa dell’arabismo, se non altro per affermare la volontà di tornare alle radici della sua cultura e riprendere in mano le fila della sua storia. Il Marocco, in particolare, contribuirà, fin dal secolo scorso, ad alimentare le teorie nazionalistiche, ma politicamente sarà l’Algeria a esprimere e a realizzarne i contenuti in modo esemplare.

5.1 Nella storia dell’IsIam il Marocco è certamente il paese del Maghreb più significativo. Qui sorgono grandi scuole di pensiero, e si impongono confraternite la cui influenza toccherà tutta l’ecumene islamica. Non solo: il Marocco è o zona di passaggio obbligato o centro propulsore di movimenti religioso-politici che creeranno grandi stati in Africa e nella Spagna, spesso entroterra naturale del Marocco stesso. Si pensi agli Almoravidi (1056-1147) o agli Almohadi (1130-1269), per non citare che esempi troppo noti per dovercisi soffermare. Complementarmente, il Marocco diventa lo sbocco ovvio 26

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per chi dalla Spagna intenda o debba emigrare. Infatti in Marocco si rifugieranno i musulmani e gli ebrei cacciati dai re cattolici, a seguito della riconquista delia penisola (1492). Il Marocco è forse l’unico paese arabo che abbia avuto un’ininter­ rotta esperienza statuale, e quindi una più connotata coscienza di sé, sebbene lo Stato, più che altrove, si sia identificato, e continui a esserlo, con una dinastia che si legittima spesso religiosamente (oggi si dice discendente del Profeta) oltre che politicamente. Una simile continuità condiziona le vicende marocchine dell’ulti­ mo secolo. Il paese diventa oggetto di interesse coloniale già dalla fine del Settecento e il processo si conclude con la spartizione tra Francia e Spagna che assumono il protettorato nel 1911-1912. Inizialmente la reazione locale, come nel resto del Maghreb, avviene attraverso la mobilitazione di gruppi accomunati dall’appar­ tenenza a una confraternita religiosa, il cui capo pronuncia la necessità della lotta contro Io straniero. E il caso di ’Abd al-Karim che si oppone nel Rif all’espansione spagnola (1921-1926). Senonché l’opposizione che porterà all’indipendenza del paese è gestita in definitiva, specie nel periodo che va dal 1947 al 1956, direttamente dalla famiglia reale. E, di conseguenza, Muhammad V, padre del sovrano attuale, quando riprende il potere è a ciò legittimato pure dal suo comportamento anticoloniale. Nei fatti l’indipendenza si ottiene per tappe, in relazione alla duplice presenza, francese e spagnola, sul territorio. Infatti la zona di Ifni passa dalla Spagna al Marocco alcuni anni dopo la proclamazione dell’indipendenza. Rimangono aperti la questione di Ceuta e Melilla, ancora in mano spagnola e, fatto gravido di ben più pesanti conseguenze, il problema del Sahara Occidentale, ex-colonia spagnola che abbraccia la regione sahariana e atlantica a sud dei confini naturali del Marocco, ma che il Marocco rivendica in nome di una sorta di egemonia cultural-religiosa che da sempre avrebbe esercitato sulle tribù sahariane. Dal 1975 una guerra è in atto tra Marocco e istanze nazionalistiche sahrawi. La guerra ha conosciuto alterne vicende, senonché nel 1991 si è aperta concretamente l'ipotesi di una soluzione negoziata del conflitto attraverso un referendum che le Nazioni Unite dovrebbero garantire e gestire. Accennare a tale problema è indispensabile se si vuol rendere ragione della contraddittorietà della politica marocchina, più di quanto non si otterrebbe seguendo la storia delle rivendicazioni sindacali, delle varie rivolte del pane, delle aperture ai partiti di opposizione e relative repressioni condotte dal regime contro chi non 27

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si allinea sulle decisioni reali. Analogamente la disparità tra città e campagne, tra ceti abbienti e masse, il dramma di una demografìa in rapida ascesa e di una disoccupazione dilagante che spinge ad un’emigrazione i cui effetti sono ormai visibili anche da noi, non costituiscono di per sé elementi che rendano esplicita l’eventuale specificità marocchina, tanto sono comuni ad altre aree dei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Peculiare, invece, il fatto che il Marocco sia il paese che più coerentemente persegue l’obbiettivo di omologarsi all’occidente, vuoi nella strutturazione della vita politica vuoi nel modello di sviluppo perseguito, nonostante che la crisi della demo­ crazia vantata dal regime sia di tutta evidenza, così come lo è il sottosviluppo economico, dovuto in larga misura all’impegno bellico assunto dal paese. Qualche cosa come una doppia anima caratterizza il Marocco anche sul piano culturale. Aperto, e senza complessi, agli influssi europei, francesi in particolare (si pensi a uno scrittore come Tahar ben Jallun che si è imposto come autore europeo con la scelta di adottare il francese quale sua prima lingua d’arte), esso conosce la più interessante sperimentazione di rinnovamento della tradizione mu­ sulmana classica, al punto che si può ipotizzare, senza tema di grandi smentite, che sarà il Marocco a fornire all'arabismo l’esempio culturale più persuasivo di equilibrio tra innovazione e tradizione.

5.2 La Tunisia, o per meglio dire quella parte dell’Africa costiera che era nota nel Medioevo islamico come Ifriqya d’Africa romana), è stata sede di uno dei centri di cultura musulmani più noti, Qayrawan, e, nel contempo, rifugio di non pochi oppositori al califfato di Baghdad, tant’è vero che è dall’Ifriqya che prendono l’avvio le conquiste che porteranno alla creazione del califfato fatimida del Cairo (909-1171) e quelle che dall’827 al 1072 circa faranno entrare la Sicilia nell’ecumene islamica. Quasi sempre sottomessa a dinastie indipendenti dal potere califfale e/o sultaniale, anche quando ne veniva formalmente ricono­ sciuta la legittimità, il suo destino è intimamente legato al fatto di essere paese mediterraneo per eccellenza. Così se pure essa conosce il fenomeno corsaro, è su un’economia agricola e sulla pesca che si basa, tradizionalmente, la sua economia. Cosmopolita, soprattutto nelle sue realtà urbane (nota la consisten­ za della colonia italiana a Tunisi fino alla seconda guerra mondiale), pluriconfessionale (importante la presenza ebraica, in parte ancora testimoniata per esempio a Gerba), la Tunisia vive anche sotto questo aspetto la sua mediterraneità. 28

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Concupita dall’Italia, oltre che dalla Francia, come ipotetica quarta sponda, la Tunisia entra a far parte dei domini coloniali francesi tra il 1881 e il 1883, e la sua lotta di indipendenza, condotta da un uomo di grande prestigio come Burghiba e da un partito nazionalista, il neo-Dustur, termina nel 1954. Dopo di che il processo di democratiz­ zazione segue le traversie proprie dei paesi che hanno subito il trauma coloniale. Pur se, per esempio, è viva l’attività sindacale, e originale certa teorizzazione politica, il regime si irrigidisce, per forza di cose, in forme autoritarie e personalistiche. La destituzione di Burghiba, nel 1987, apre la strada a alcune concessioni formali, ma a niente di più, sebbene continui da un lato la tradizionale opposizione al regime che preme perché si impianti nel paese una reale democrazia e dall’altro lato si faccia strada una pericolosa popolarità dei movimenti di matrice islamica integralista. Tuttavia un riconoscimento alla Tunisia è doveroso, e riguarda la condizione femminile. Essa è infatti il paese arabo-musulmano che con più coerenza, senza rinnegare le proprie matrici religiose e culturali, ha sancito l’illegalità della poligamia. E basterebbe un simile atto, che ha trovato il consenso della maggioranza della popolazione, a far cogliere il senso del contributo dato dal paese e dalla sua dirigenza alla causa dell’emancipazione araba. 5.31 recenti avvenimenti, che hanno portato alla ribalta intemazionale l’azione di un movimento islamico come il FIS, vicino alla presa del potere, non dovrebbero far dimenticare che l’Algeria, nel nostro secolo, è stata l’emblema del dramma coloniale e, nello stesso tempo, della rivincita contro il colonialismo. Poche date a inquadrare i fatti: la Francia occupa l’Algeria nel 1830 e fa dell’Algeria, a partire dal 1870, con l’introduzione dell’amministrazione civile, una sua provincia d’oltremare, promuovendovi una politica di insediamento francese, tesa sul piano economico a emargi­ nare l’elemento locale e su quello culturale a cancellare l’identità araba attraverso un’intensa, sistematica e conseguente azione di francesizzazione, i cui risultati più vistosi sono la dearabizzazione della stragrande maggioranza della popolazione. L’arabo, nella sua forma parlata e dialettale, resterà come idioma familiare e non come strumento di cultura e di comunicazione. Tralasciamo la menzione di un’opposizione all’occupazione fran­ cese che pure ha avuto momenti di grande rilievo (si pensi all’emiro ’Abd al-Qadir che nel 1839 dichiara addirittura guerra alla Francia, o a Muhammad al-Muqrani e alla sua rivolta in Cabilia del 1871-1872). I momenti che interessa qui segnalare sono quelli della fondazione del

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Fronte di liberazione nazionale (FLN) e l’inizio della rivoluzione (1954). Ma la prima coerente rivendicazione dell’indipendenza è del 1927 con Messali al-Hajj e l’Étoile Nord-africaine. Inutile, perché note anche al grande pubblico, seguire le tappe della guerra di Algeria che si conclude con l’indipendenza del paese nel 1962. Più opportuno, perché funzionale a delineare il contesto entro cui si sviluppa la cultura algerina contemporanea, enucleare il ruolo dell’Algeria nel complesso del mondo arabo. Anzitutto lo slogan destinato a rappresentare la volontà del popolo algerino, incentrato sui tre concetti di arabismo, algerinità e Islam, diventa punto di partenza concreto nella politica dell’epoca posterio­ re all’indipendenza. L’arabo viene imposto come lingua nazionale; la matrice islamica viene rivendicata come essenziale anche se, nella teorizzazione datane, si presta a servire nella stessa misura la causa del progresso e quella della conservazione; il senso dello Stato-nazio­ ne recepito dalla potenza coloniale permette di tradurre in pratica il concetto di algerinità. In campo intemazionale, grazie al prestigio acquisito durante la lotta di indipendenza, che è lotta popolare e di massa, e non semplice impegno di élites occidentalizzate, l’Algeria diventa per i paesi del cosiddetto terzo mondo un punto di riferimento obbligato, poiché essa mette a disposizione l’esperienza diplomatica, oltre che organizzativa, accumulata durante gli anni della guerra: il tutto attuato non solo in nome dell’Algeria ma più in generale dell’arabismo. Ciò è tanto più significativo in quanto l’Algeria regge al colpo infetto dalla guerra dei sei giorni al nazionalismo arabo e alla politica che lo esprime. Pur senza negare che molte delle speranze che avevano animato la guerra di liberazione e l’indomani dell’indipen­ denza si sono rivelate utopiche, almeno a partire dagli anni Settanta, e senza eludere il problema connesso con l’involuzione autoritaria del FLN e soprattutto con la burocratizzazione del regime, bisognerà che si dia un contesto intemazionale particolarmente complesso - caduta del bipolarismo e crisi economica diffusa (tra l’altro va rilevato l’impatto del calo del prezzo del petrolio e delle materie affini da cui dipendono i massimi introiti algerini) - perché la situazione precipiti e si giunga appunto all’ipotesi di cui si è detto in apertura di paragrafo. Non sono certo i tentativi di spiegazione del fenomeno che qui mancano. Ma non è con una difesa d’ufficio, che troppo avrebbe il tono di un paternalismo improponibile, che si vuole concludere il rapido profilo del mondo arabo che si è andati fin qui tracciando. Piuttosto ci preme segnalare come sia azzardato emettere giudizi definitivi e non problematici sulla realtà araba odierna. Infatti, - ed è

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forse l’acquisizione più notevole che il mondo arabo-musulmano può rivendicare nella sua storia contemporanea - al di là delle strategie intemazionali e degli obbiettivi condizionamenti economici, esiste, con una capacità di impatto assolutamente nuova, un elemento imponderabile che affonda nella coscienza collettiva dei popoli, si esprime attraverso una soggettiva visione di sé e del mondo e si traduce in azioni che, non rispondendo alla logica che sottende strategie e costrizioni, apre spazi di intervento inesplorati e impreve­ dibili, dove la periferia del mondo può essere soggetto politico attivo e mettere a rischio gli equilibri del centro, se questi non contemplano anche le esigenze della periferia in questione.

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MÙMIN SMiHl

UNA O PIÙ CINEMATOGRAFIE ARABE?

•UNA» CINEMATOGRAFIA ARABA

Vi è un cinema arabo, il cinema arabo, e non diverse cinematografie arabe. Da sempre, istintivamente, non ho mai pensato che potessero esistere diverse cinematografìe arabe, come non ho mai pensato che esistessero diverse letterature arabe: malgrado le specificità regionali, all’interno del mondo arabo vi è un’unica letteratura araba. Le distinzioni operanti nell’ambito dell’insegnamento della storia della letteratura araba sono più funzione di una tradizione culturale che di suddivisioni territoriali e politiche. Si è sempre parlato della letteratura della penisola araba (Al-Jazira al-’Arabiya), di quella del paese del Cham, che comprende gli attuali Iraq, Siria, Libano e Palestina, e infine della letteratura di quella che è sempre stata tradizionalmente considerata come la terza grande regione del mon­ do arabo, Vlfriqia, composta dal Nord Africa (e dall’Andalusia). Tale distinzione è valida ancora oggi, malgrado la suddivisione della regione in diverse nazioni. Nei testi di critica letteraria si parla semplicemente di «letteratura araba» e si fa seguire tale definizione dall’indicazione del paese di appartenenza: si parla della «letteratura araba in Algeria» o della «letteratura araba in Egitto». LA REALTÀ CULTURALE ARABA

Il mondo arabo coincide con una realtà culturale, determinata da una storia, una tradizione, una produzione e dei fatti attinenti sia alla sfera del passato che all’epoca moderna. Ben lungi dall’essere omogeneo, tale mondo presenta aspetti polimorfi: ne fanno parte, al contempo, i 33

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Berberi del Nord Africa e gli Arabi -puri- dell’Arabia, nonché popoli di confessioni diverse. Oltre ai musulmani, il mondo arabo comprende i Copti in Egitto, gli Ortodossi della Siria e del Libano e i popoli di origine giudaica che hanno sempre avuto un ruolo rilevante nei vari paesi arabi, ruolo che attualmente esercitano all’interno di uno Stato. E un mondo nel senso etimologico del termine, caratterizzato dall’ete­ rogeneità, dalla molteplicità e da svariate contraddizioni. È un mondo in cui il concetto di purezza etnica non ha più ragion d’essere: non esistono più popoli di pura razza araba. L’Arabo si è mescolato con i Berberi, i Curdi, gli Armeni, i Sudanesi, i Neri dell’Africa, acquisendo un significato moderno, diverso. Da una simile realtà culturale possono scaturire differenze assai rilevanti a livello confessionale o in materia di dialetti: le confessioni e i dialetti dell’oriente arabo non corrispondono a quelli dell’occidente arabo. Tali differenze, però, non hanno dato luogo a una frammenta­ zione del mondo arabo. Tutti questi motivi mi hanno sempre portato a considerare il cinema in un contesto molto ampio. Ritengo che il cinema arabo, o la pratica cinematografica nei paesi arabi, debbano necessariamente essere ricollegati a un cursus storico peculiare a quel mondo. Per ragioni analoghe, sono portato a ricollegare il cinema arabo alle altre arti, quali la letteratura, la musica o l’architettura. Non esiste il concetto di un’architettura marocchina o musulmana, esisto­ no, invece, l’arte e l'architettura arabo-musulmane. È una realtà araba. Non parlo di nazione perché non sono un politico, non parlo di unità perché non sono un ideologo, non parlo di avvenire perché non sono un sognatore. La realtà araba è un qualcosa di tangibile che trovo, in primo luogo, in me stesso, sia come elemento costitutivo che come desiderio e che, inoltre, mi si para davanti ovunque io vada. RILEGGERE LA STORIA ARABA

Tale realtà della cultura araba implica una realtà della storia del mondo arabo. Attualmente, sono particolarmente interessato a una rilettura della storia araba che prenda le distanze da un certo tipo di categorie stereotipate in cui è stata racchiusa. In brevissimo tempo, la civiltà arabo-islamica si costituisce in impero. È quanto avviene tra il VII e il IX secolo. Il IX secolo coincide con il momento di massima espansione: dopo essere stato greco, poi romano, il Mediterraneo è ormai arabo, sia sulla sponda meridionale che su quella settentriona­ le. È il periodo della pax arabica, alla stregua di ciò che un tempo fu la pax romana. Già a quell’epoca è un mondo che per via delle etnie che lo compongono, delle lingue, del pensiero e della cultura che

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esprime, è estremamente cosmopolita, composito e pluriconfessionale. Col tempo, gli stereotipi e lo stesso insegnamento universitario della storia del mondo arabo hanno messo in evidenza un vuoto, un -buco nero». La rilettura di cui parlavo consiste nel tessere delle fila che ricolleghino quel periodo all'epoca moderna. Il mondo arabo-musul­ mano non scompare con la fine dell’apogeo; a quel periodo fa seguito un terzo impero che l’occidente ha sempre enucleato dalla storia araba e che gli Arabi consideravano, invece, come un proseguimento naturale: si tratta dell’impero Ottomano, con il terzo Califfato ad Istanbul, dopo Damasco e Baghdad, e con figure eminenti quali Solimano il Magnifico. Mentre gli occidentali hanno sempre visto nell’impero turco qualcosa di avulso dalla storia arabo-musulmana, gli Arabi hanno sempre visto, nell'impero Ottomano, un Califfato arabo-musulmano. Per lungo tempo, l'unico tipo di divisione politica vigente nel mondo arabo è stato il governatorato. Vi erano i bey di Algeri, di Tunisi, d’Egitto, di Siria, ecc. Si tratta di un Califfato che, tra guerre e conflitti violenti con le nuove potenze occidentali, giunge fino all’epoca moderna. La caduta dell’impero arabo-musulmano avviene solo dopo le guerre contro la Russia e le potenze alleate: sarà, infatti, Ataturk a proclamare la fine del Califfato nel 1924. Si tratta di un evento recente: l’impero arabo-musulmano, e con esso il ruolo politico esercitato da questo mondo, hanno perdurato fino al XX secolo. Nel XX secolo, il fenomeno coloniale - di origine francese, inglese, italiana, tedesca, spagnola - divide, smembra e fraziona il mondo arabo-musulmano. Una siffatta rilettura della storia mette in risalto una realtà storica presente da 15 secoli; si tratta di una profondità e di una dimensione storiche che evidenziano la fisicità di un territorio, nonché la gestazio­ ne di aspetti compositi: Arabi, Berberi, Copti, Armeni... L'ISLAM

L’Islam costituisce il fondamento maggioritario, e al contempo storico e ideologico, di quel mondo arabo che ho appena descritto. Ritengo, però, che la denominazione -cultura arabo-islamica- in campo archi­ tettonico, musicale o perfino cinematografico abbia la stessa funzione della nozione di cultura giudaico-cristiana utilizzata in occidente: il rapporto con la religione è più una relazione di tipo culturale e storico che l’espletamento di un esercizio o di una pratica religiosi. Le mie opere si collocano nella cultura arabo-islamica in modo analogo a 35

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come un Woody Alien a New York o un altro regista, a Roma o a Parigi, iscrive le proprie nella cultura giudaico-cristiana. L’IsIam è stato formatore e fondante. Non va dimenticato che in quanto pura religione, dal punto di vista teologico, l’IsIam ha proclamato il proprio carattere universale, andando quindi ben al di là del concetto di religione degli Arabi o per gli Arabi. La presenza di un mondo arabo-musulmano nei miei film si spiega con la mia appartenenza alla cultura arabo-musulmana. Vi sono registi di origine egiziana che appartengono alla cultura arabo-cristia­ na e che mostrano nei propri film dei rituali cristiani e delle messe, in Siria come in Egitto. L’aspetto importante è il carattere di massa: nel mondo arabo, la stragrande maggioranza della popolazione è di confessione musulmana, fatto che rende operante una sorta di legge maggioritaria che finisce con il minimizzare le restanti modalità di espressione. Il problema si ricollega alla realtà democratica esistente nel mondo arabo: a un contesto maggiormente democratico corri­ sponderebbero più concrete possibilità d’espressione da parte delle diverse minoranze culturali. Anche se da quanto detto emerge un’impressione di omogeneizza­ zione totale del versante musulmano, non va dimenticato che anche gli intellettuali arabi cristiani si sono espressi nel cinema, che Shàhin, per esempio, è di origine cristiana. L'IDENTITÀ GLOBALE

Oggi, la storia del mondo arabo è ben presente e compare nelle varie produzioni culturali. Le vecchie componenti, infatti, - Berberi, Copti e Drusi - continuano a essere facilmente rintracciabili. Alle componenti storiche sono venute ad aggiungersi gli elementi scaturiti dalla storia più recente: accanto alle lingue berbere figurano le lingue dei colonizzatori, quali il francese, l’inglese o l’italiano. In fondo, oggi le produzioni intellettuali del mondo arabo sono frutto di un rapporto estremamente ambiguo con l’immagine della realtà araba. Secondo il tipo di provenienza - da una data tribù, scuola o indirizzo accademico - e il tipo di visione - intellettuale, religiosa o ideologica - adottata, viene rivendicata l’appartenenza a questa o quella tradizione piuttosto che ad una globalità. La rilettura di cui parlavo poc’anzi consiste nella definizione di un’identità globale. Quando tale identità complessiva rivendica unicamente alcune delle sue componenti, finisce con il collocarsi al di fuori della storia, con l’occupare un’esteriorità storica. L’immagine che ho di me stesso è più composita e mi ricollego sia alla poesia dell’Arabia anteriore all’IsIam che al mondo occidentale per via 36

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dei contatti avuti alla scuola francese. Il cinema deve saper rappresen­ tare tutto ciò in quanto, qualora non riesca a conquistare una vera padronanza di questa immagine, finirà per non offrire altro che un’immagine incompiuta di tale situazione. L'IMMAGINE DI SÉ

Il cinema è essenzialmente immagine. L’immagine in senso lato, nell’accezione simbolica, originale e forte del termine: immagine di sé. Il grande cinema mondiale è sempre stato un cinema capace di rivolgersi a tutta una popolazione ed esercita un ruolo simile a quello che potrebbe avere uno specchio. Il grande cinema americano ha formato l’America quanto Lincoln o l’invenzione del taylorismo. L’avventura americana ha prodotto il cinema, ma da questo è stata anche plasmata, creata. I grandi film americani costituiscono, per il mondo, lo specchio dell’America e questo fatto, a prescindere dalle posizioni ideologiche di ciascuno nei confronti dell’America, costitui­ sce un fenomeno sociologico, attinente a una civiltà. Negli Stati Uniti il cinema è diventato un'arte di peso analogo alla letteratura o alla scultura. Altrettanto si può dire del grande cinema italiano: è il prodotto di quella meravigliosa cultura italiana che al contempo fonda la società italiana. Tramite il neoralismo alcuni registi italiani sono riusciti a sintetizzare l’immagine dell’Italia per darla all’Italia, creando così l’Italia moderna. Per poter svolgere lo stesso ruolo, il cinema arabo dovrà priorita­ riamente confrontarsi con le questioni che abbiamo appena evocato. Si tratta di questioni formatrici e fondanti, in quanto organizzano il problema dell’immagine araba, della sua identità. Porsi il problema dell’identità dell’uomo arabo significa confrontarsi con concetti dal­ l’effetto dirompente, esplosivo, quali colonizzazione, tradizione, reli­ gione, modernità, molteplicità del mondo arabo, tolleranza, democrazia, sviluppo... LA PADRONANZA

Innanzi tutto sarebbe essenziale raggiungere la padronanza del film. Se un film marocchino, siriano o egiziano fosse realizzato con la stessa padronanza con cui si realizza un film americano o italiano, potrebbe rivolgersi a un pubblico universale. La padronanza implica l’esistenza di precise condizioni produttive: non si può fare un film con quello che passa il convento, bisogna farlo tenendo conto delle esigenze cinematografiche dell’opera in questione. Se serve che nevichi, 37

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bisogna avere il denaro per creare la neve. Il cinema arabo, oltre a non godere delle condizioni produttive indicate, si trova in difficoltà anche per altri aspetti, quali il controllo della circolazione dei film che dovrebbe assicurarne la distribuzione presso tutto il pubblico arabo. Nella storia del cinema arabo non è mai accaduto che un dato periodo o un autore abbiano potuto contare sulla presenza di tutte quelle condizioni che dovrebbero permettere di realizzare un cinema arabo che sia parte integrante della storia mondiale; un cinema che sia padrone della lingua, della forza espressiva deU’immagine e del suono, dell’impatto del soggetto e dei temi prescelti, nonché del rapporto fondamentale fra cinema e popolo, cioè di un immaginario che sia il prodotto di tale cinema e che al contempo lo generi. Tutto ciò non è dovuto unicamente a carenze di mezzi economici o tecnici. LA TRAGEDIA

C’è un lato tragico del regista arabo. Le «lamentazioni» si fanno sentire in occasione dei vari festival o incontri: desiderano tutti fare cose straordinarie, ma non possono, perché i regimi arabi si disinteressano della cultura, il pubblico è analfabeta, mancano le sale, i critici, i film da vedere. Un simile quadro risponde a verità e merita di essere analizzato. Effettivamente la situazione del regista arabo è tragica in quanto questi, più dello scrittore o del musicista, accentra in sé questioni che dipendono dalla sua persona e, contemporaneamente, dalla cultura araba in generale. LETTERATURA E CINEMA

Tra il cinema e le altre arti, la letteratura per esempio, vi è un netto sfasamento. In letteratura, soprattutto negli anni Trenta e Quaranta, è stato compiuto un lavoro decisivo, vi sono stati momenti di grande importanza. Tawfiq al-Hakim ha introdotto il teatro nei paesi arabi, fondando così il teatro arabo. Ha scritto opere, come Sbéhérazade o La gente della caverna, che, in Marocco come in Giordania, hanno suscitato l’entusiasmo di varie generazioni. Il loro successo non è attribuibile unicamente al fatto che sono scritte in arabo classico, parlano di Shahrazad o trattano dell’essenza islamico-araba, ma all’insieme di questi aspetti. Si tratta, infatti, di un teatro che corrispon­ de a un immaginario dal quale, a sua volta, si lascia plasmare. Un fenomeno analogo è rintracciabile nel campo della critica letteraria con Taha Hussein e le sue celebri opere sulla poesia araba o su Maari (AvecMaari dans sa prison) o nel romanzo, con Najib Mahfuz, la cui

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trilogia e i cui romanzi sono estremamente popolari. Con Taha Hussein, per la prima volta sentiamo dire: «Il mondo arabo è composito, la cultura araba non si limita alla lingua araba, ma comprende anche il greco, il latino e l’ebraico. La critica letteraria è una scienza che si basa su dati storici e su di una rilettura della letteratura nel suo insieme». Najib Mahfuz crea il romanzo arabo e, pur annoverando lettori dal Marocco fino allo Yemen, continua a essere conosciuto come lo scrittore del Cairo. Non ci troviamo, quindi, di fronte a un’impossibilità radicale: la società araba è riuscita (con il teatro, la critica letteraria e il romanzo) ad arrivare a una modernità completa e a padroneggiarla perfettamente. Nel cinema, ciò sembra molto diffìcile. Najib Mahfuz opera in una tradizione letteraria, nella letteratura araba. Scrive in arabo, lo padroneggia perfettamente e tratta di temi iscritti nella modernità, raggiungendo una maturità che è impossibile trovare nella nostra cinematografìa. I nostri film risultano immaturi e incompiuti perché, pur non potendo sottrarvisi, non si sono ancora confrontati in modo soddisfa­ cente con tale problematica. Le mie osservazioni non vogliono essere delle critiche e mi limito a segnalare le mie impressioni di regista. Il cinema arabo non suscita in me un grande piacere cinematografico. O meglio, provo un certo piacere, ma nessun godimento. La società araba sta vivendo un’importante evoluzione rispetto alla lingua e all’immaginario e i romanzi di Najib Mahfuz sono l’espressione di questo momento. CULTURA POPOLARE

Poiché la cultura araba e quelle del Terzo Mondo in genere hanno una forma di espressione essenzialmente orale, in tali culture la tradizione popolare costituisce un tema di particolare importanza. In realtà, rorientalismo ha finito per occultare il fatto che la cultura araba è duplice, al contempo letteraria e orale. Sarebbe interessante poter studiare le nostre società secondo un approccio antropologico ma, purtroppo, a causa di un pessimo riflesso che ci ha portato a dire che la nostra antropologia è stata fatta dagli occidentali, tale disciplina non è materia di insegnamento nei nostri atenei. È stata la scienza dei colonizzatori a vedere nell’Arabo un -uomo primitivo». Forse è proprio merito del cinema arabo, e della sua diversità, se è possibile riempire questo vuoto, questa mancanza di antropologia. Sono stati, infatti, i registi, dopo le varie indipendenze nazionali, a cercare di divenire i portavoce della gente comune, dei

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problemi concreti della società araba, a raccogliere le testimonianze antropologiche della cultura araba orale. È quasi esclusivamente questo l’interesse che presentano i nostri film, e anche in questo caso è possibile avere conferma di un fenomeno che riguarda l’insieme del mondo arabo. Quando vedo un film iracheno, yemenita o algerino rimango estremamente colpito dal fatto che, antropologicamente parlando, i punti in comune sono numerosissimi, mentre le differenze sono quasi inesistenti. Nel mondo arabo ci si sposa, si mangia e ci si veste ovunque allo stesso modo. Anche il modo di pensare tali aspetti antropologici è identico. Malgrado la suddivisione in mondi anglofo­ ni, francofoni, ispanofoni, italiofoni, il pensiero della cultura orale permane identico. Accade spesso che i critici cinematografici trovino lo stesso significato in una scena rituale di un film palestinese o marocchino. In occasione di vari festival, mi è stato chiesto se la scena del matrimonio che ho girato in Caffetano d’amore (Quftàn al-hubb) è identica a quella del film di Mishìl Khlìfì (Michel Khleifì), Nozze in GalileaCUrs fìal-Jalìl). L’uomo arabo, la società araba vivono, oggi, un problema analogo rispetto alla donna, al pensiero della donna. Si tratta dello stesso tipo d’immaginario. Ho presentato Caffetano d’amore in un grande cinema popolare del Cairo e sono rimasto sorpreso dal carattere personale delle reazioni che ha suscitato: gli spettatori avevano avuto l’impressione di ritrovare se stessi, anche se sotto forma diversa. Il pubblico reagiva dicendo: «Hai sentito che anche loro dicono la stessa cosa?» Poiché non esiste una reale volontà di far comunicare le popolazioni dei vari paesi arabi grazie alla stampa, ecc., le nostre opere - salvo i film egiziani - continuano a rimanere nella condizione di qualcosa che è uguale, pur essendo, al contempo, altro. La figura etnografica presen­ tata nei film arabi viene percepita dallo spettatore arabo come un’immagine a ricalco di se stesso. Tra la galabia e la jellaba l’unica differenza sta nel cappuccio, ed è proprio questo a suscitare il riso. LA CENSURA

Nelle città arabe, il pubblico giovane chiede libertà d’espressione in vari campi: sessualità, politica, economia, cultura. Le generazioni meno giovani sono più titubanti, anche se ormai, con le antenne paraboliche e il satellite, l’occidente ci sta colpevolizzando del nostro anacronismo. Nel vedere tutte le immagini che sono liberamente in circolazione oggi, la società araba si sente relegata in un’epoca medievale. Anche in questo caso, in quanto intellettuale arabo, non posso fare a meno di rifiutare tale senso di colpa e di riconoscere che 40

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esiste una tradizione di libertà a cui far riferimento. Qualora la volontà di censura e il desiderio di perpetuare una struttura arcaica esistano veramente, non saprei dire quanto ciò sia auspicabile. Non rivesto alcun ruolo politico, ma non ritengo che la censura della cultura costituisca una scelta augurabile. La soluzione dei problemi legati alla libertà d’espressione costitui­ sce, e costituirà sempre di più, una prova della solvibilità del mondo arabo. È su questioni simili che il mondo arabo dovrà dimostrare la propria reale identità: o sarà solvibile o dovrà dichiarare bancarotta. Viviamo una fase di stallo ma, per fortuna, ne siamo consapevoli e cerchiamo di reagire. Anche in questo caso, però, l’occidente ignora quanto sta avvenendo: le uniche nozioni di cui dispone sui mondo arabo vengono divulgate da alcuni intellettuali arabi integrati. Gli arabisti tradotti sono, infatti, pochissimi: fra gli autori di lavori particolarmente degni di nota figurano Edward Said negli Stati Uniti, Salah Aissa al Cairo e Jabiri in Marocco. LA CIRCOLAZIONE DEI FILM ARABI

Nel passato, il cinema egiziano coinvolgeva un pubblico che andava ben oltre i confini del mondo arabo. Era una cinematografia in cui figuravano film spettacolari per il grande pubblico, con danze del ventre e spettacoli analoghi, e che, quindi, circolava nei paesi africani di fede musulmana, dal Senegai al Sudan, nonché in numerosi paesi asiatici, quali il Pakistan e l’Afghanistan. I film delia nuova generazio­ ne hanno, invece, una circolazione commerciale limitata. Pur non interessando il pubblico dei film spettacolari, in occasione dei festival i film d’autore possono essere apprezzati da spettatori più intellettuali ed essere visti in Europa nel corso di rassegne destinate a un pubblico di cinefili. È importante essere apprezzati in Europa? Il dramma del cinema arabo, e forse di tutta la cultura araba in genere, è che la qualità di un’opera viene stabilita in base ai riconoscimenti ottenuti in Europa. Il fatto che in Europa la cultura faccia parte integrante delle componenti che partecipano all’evoluzione di un paese determina il trionfo e il ruolo dominante delle società occidentali. Gli Arabi sono rimasti affascinati dall’aver scoperto che nel mondo occidentale l’economia, l'industria, la morale e la cultura sono delle componenti di pari importanza in seno a una società. In occidente, la cultura è considera­ ta un'industria, alla stregua di quella automobilistica. I paesi arabi sono ben lungi dall’aver raggiunto risultati analoghi e nelle nostre società la cultura occupa una posizione di netta emarginazione. La 41

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priorità viene data allo sviluppo economico, anche se non è mai esistito uno sviluppo che fosse esclusivamente economico. L’antropo­ logia insegna che oltre al lavoro l’uomo ha bisogno di svago, che l’economiaela cultura devono procedere su binari paralleli. Un uomo senza cultura non può produrre in modo soddisfacente. Nella società araba moderna, il produttore di oggetti culturali, il creatore, l’intellet­ tuale arabo non tarda ad accorgersi di essere emarginato. Le carenze della stampa scritta, la mancanza di orchestre, di cineteche, i limiti delle possibilità di finanziamento sono fatti ben noti, ma non bastano a scoraggiare gli artisti arabi. Spesso questi artisti hanno avuto dei contatti con il mondo occidentale, se non altro a livello formativo, e si rendono conto che in occidente potranno suscitare un’eco, portare qualcosa di nuovo, immagini di un mondo altro, in un certo senso avere un effetto esotico. E dal momento che le loro opere potranno suscitare un’eco in occidente, è evidente che tale riconoscimento, anche se iniziale, avrà, di riflesso, effetti non trascurabili sulle società d’origine degli artisti in questione. Tuttavia è una possibilità molto esigua in quanto, anche nel caso in cui ci sia, l’apprezzamento per i film arabi proviene da una fetta marginale della società occidentale. Un’emarginazione di tipo diverso ha colpito dei grossi film - come II mess#gg/o(Al-risala) del siriano Mustafa al-Aqqad o le opere dell’alge­ rino Muhammad Lakhdar Hamina - che sono stati definiti poco interessanti in quanto appartenenti al filone commerciale. Fino ad oggi non siamo riusciti a diventare parte integrante della storia del cinema mondiale, a fare un cinema arabo significativo per la storia del cinema. La colpa non può essere imputata ai registi, alla carenza di mezzi finanziari, all’inesistenza di una tradizione cinematografica o all’insufficiente padronanza dei mezzi tecnici. La realtà esistente è il frutto di tutti gli elementi citati, nonché del rifiuto da parte della società araba di raggiungere una produzione cinematografica che sia di livello sufficiente per figurare nella storia del cinema. LE IMMAGINI DEGLI ARABI

L’occidente ha una percezione stereotipata degli Arabi: in un Palesti­ nese o un Libico vede un terrorista, nel Maghrebino un immigrato o al massimo il pizzicagnolo sotto casa, nel Saudita il proprietario di un pozzo petrolifero. Il cinema, non ha forse un ruolo da svolgere per modificare questa immagine? L’occidente nega l’Arabo nella sua identità. Da parte araba, la confusione è enorme: sentimenti ambigui di attrazione-repulsione, mancanza di fiducia in se stessi, problemi di identità. Per l’occidente, da quando sono iniziati i conflitti fra i nostri 42

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due mondi, l’Arabo è innanzi tutto un terrorista, è prima il Saladino, poi ììfellagba algerino che si ribella e infine il palestinese che oppone resistenza. Inoltre, in occidente gli Arabi sono sinonimo di immigrati, ma si dimentica che gli immigrati non sono arrivati di loro spontanea volontà: all’inizio del secolo sono stati i colonizzatori occidentali a trasferire intere tribù di marocchini e di algerini. C’è poi l’elenco delle altre possibili immagini che l’occidente potrebbe avere degli Arabi, ma che non ha. Per esempio, l’immagine degli Arabi in quanto veicolo di una delle religioni rivelate. È sorprendente constatare come gli scrittori europei degli anni Sessanta e Settanta parlassero dell’IsIam come di una delle grandi religioni del mondo molto di più di quanto non lo facciano oggi gli autori contemporanei. L’Arabo non è visto come veicolo di monoteismo, né si pensa ai quindici secoli di storia e alle loro possibili riletture. L’occidente dimentica che i nostri due mondi hanno una storia comune, segnata da tanti conflitti. L’occidente non sente l’Arabo moderno come un essere profondamente dilaniato, in preda alla tragicità. L’occidente occulta il ruolo di tramite che gli Arabi hanno avuto rispetto al Rinascimento. In realtà, sono stati gli Arabi ad avviare il processo rinascimentale ed è questo che ci permette di giustificare la nostra richiesta di cultura occidentale. Sono stati i pensatori, gli uomini di scienza, i letterati, gli inventori, i razionalisti arabi a innescare le trasformazioni rinascimentali. Infine, l’occidente non si rende conto del fatto che l’aspirazione alla democrazia non è appannaggio esclusivo degli intellettuali. L’aspirazione alla democra­ zia coincide con la tradizione democratica del mondo arabo. In particolare, con la tradizione della shura, che non viene quasi mai studiata e, comunque, non in termini scientifici. Anche la tradizione razionalistica è stata completamente rimossa. Rimane però il fatto che l’aspirazione ai diritti umani è una realtà ed è un segno della modernità araba. Il mondo arabo aspira profondamente alla dignità raggiunta in occidente. Gli Arabi sanno che esistono dei luoghi in cui gli abitanti hanno diritto alla previdenza sociale, partecipano a elezioni in cui ciascuno può esprimere il proprio voto, dove la burocrazia non è poi così repressiva, dove ottenere un passaporto non è un affare di Stato. L’uomo aspira alla tolleranza: l’integralismo, in tutte le sue manifesta­ zioni, è una forma di provocazione da parte dei poveri, degli umiliati, null’altro che provocazione, certo non il fondamento di un principio politico. Rispetto al grave problema delle folle immense che oggi nei nostri paesi fantasticano su di un Islam come dottrina politica, credo

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che sia giusto ricordare la lunga storia religiosa dell’occidente ed episodi quali la notte di San Bartolomeo. E il cinema in tutto questo? Appare evidente che non siamo ancora all’altezza del compito, del ruolo da svolgere, della funzione da assolvere. Bisognerebbe parlare del dramma del cinema. Oggi è in corso una guerra intemazionale delie immagini: tramite il satellite e le antenne paraboliche le diverse società cercano di affermare il proprio dominio culturale sulle altre. In questa guerra, gli eserciti arabi sono quasi ovunque assenti. E i vari argomenti citati figurano nei nostri film? I creatori di immagini, i registi arabi hanno dei temi prioritari e preferiscono parlare degli aspetti che paiono loro più urgenti. Ancora una volta, la miseria, le disuguaglianze sociali, la donna oppressa e analoghe priorità, perfettamente legittime, finiscono per far perdere di vista l’importanza della posta in gioco. Riaffiora nuovamente il dramma del sottosviluppo, il rifiuto da parte della società araba di lottare anche su questo piano. E non si tratta di lottare solo per lo sviluppo, ma anche in nome della cultura. IMMAGINE-TIPO (IMAGE DE MARQUE)

Nel corso di questa guerra intemazionale, gli Arabi si sono preoccu­ pati di dare di loro stessi un’immagine-tipo, ma l’hanno fatto in modo artigianale, dilettantesco, senza mai curarsi di offrire un’immagine professionale. Le immagini proposte sono sempre dilettantesche in quanto, giunte sulla scena intemazionale, hanno un effetto meramen­ te propagandistico. Per essere vincenti, le immagini-tipo devono, invece, schierarsi dalla parte della creazione, dell’invenzione, della libertà d’espressione. L’immagine americana è vincente perché negli Stati Uniti è possibile girare dei film ad altissimo budget, con sceneggiatori, tecnici e registi professionisti, su argomenti spinosi come la guerra del Vietnam o il caso Watergate e nell’ultima inquadratura bruciare la bandiera americana, senza correre il rìschio di finire in galera. E non si può certo dire che gli Americani non siano innamorati del loro paese. Vorrei poter rappresentare una passione analoga per il mio paese, ma in epoca moderna. Mi pare indispensa­ bile accettare tutti i rischi che una scelta di libertà comporta e, pur capendo i limiti presenti nel mondo arabo, non penso sia possibile arginare un fiume in piena. Come, in certa misura, ha rilevato Edward Said, una parte del problema deriva dal fatto che i film arabi spesso tengono a proporre l’immagine che desiderano gli occidentali, ad applicare a se stessi l’orientalistica occidentale per soddisfare una certa voglia di oriente.

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Libertà significa un artista che assuma, in modo totale e assoluto, il rischio di andare a scavare in un ambito in cui si sia affrancato da qualsiasi forma di suggestione o di tentazione di mimetismo. Presen­ tare delle immagini gradite al mondo occidentale significa vedere nell’occidentale una proiezione del padre, del super-io. L’EFFETTO SPECCHIO

Mentre la letteratura è indipendente, a livello di infrastrutture il cinema è molto più soggetto all’apparato sociale, cioè alla situazione economica, a decisioni di tipo politico e, perfino, al fatto che la società, inconsciamente, accetti o meno di diventare oggetto di rappresentazione. Infatti, nel corso delle proiezioni nelle sale dei nostri paesi, i film arabi suscitano spesso una reazione d’ilarità di tipo isterico, carica di disagio. La gente è ancora molto imbarazzata nel vedersi raffigurata sullo schermo. In questi casi entra in gioco reffetto specchio, che, in realtà, sta a significare che la società araba non vuole mostrare se stessa al mondo, non vuole accedere alla scena intema­ zionale. E per evitare di farlo accampa scuse e dichiara che coloro che dispongono di denaro non vogliono metterlo a disposizione e che coloro che detengono il potere non vogliono concedere la libertà d’espressione. Ritengo che si tratti di pretesti. La vera ragione sta nel fatto che la società araba esita a mostrare se stessa al mondo, mentre gli Americani e gli Italiani lo hanno fatto senza timore. Esprimere odio verso il proprio paese significa amarlo profondamente. IL SISTEMA PRODUTTIVO

L’infrastruttura cinematografica araba nasce in Egitto, per opera della borghesia egiziana e grazie al banchiere Talaat Harb. Negli anni Trenta infatti, con la collaborazione di vari partner mediterranei (francesi, greci, italiani) e ispirandosi agli studios hollywoodiani, viene decisa la creazione di alcuni teatri di posa per la produzione di film arabi destinati al mercato arabo. L’iniziativa nasce in Egitto in quanto la società egiziana, per via dei contatti avuti molto presto con l’Europa, è particolarmente avanzata. (I contatti risalgono alle campa­ gne di Napoleone, nonché alle missioni compiute sotto Mehmet Ali e in coincidenza con quel fenomeno socioculturale conosciuto sotto il nome di Nahda, rinascimento arabo). Le infrastrutture furono conce­ pite a imitazione di quelle dell’industria hollywoodiana o europea e furono previsti dipartimenti, laboratori e agenzie di distribuzione in quasi tutti i paesi arabi. 45

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Fino agli anni Sessanta, il cinema egiziano è l’unico cinema arabo e svolge un ruolo analogo a quello dei centri più importanti della grande industria cinematografica quali Hollywood o Cinecittà. In seguito, dagli anni Sessanta in poi, dopo le varie indipendenze nazionali e in concomitanza con l’eclissi del cinema hollywoodiano, nei paesi arabi cominciano a nascere le cinematografie nazionali. In contrapposizione ai cinema hollywoodiano dominante, negli anni Sessanta la nouvelle vague in Francia con Godard o Truffaut e Rossellini in Italia dimostrano che è possibile fare un cinema indipen­ dente, scendere in strada con una macchina da presa, filmare la gente e le preoccupazioni della vita reale. In questo stesso periodo i primi paesi arabi conquistano l’indipendenza. In campo cinematografico questa indipendenza significa fare un film con un budget limitato, con mezzi tecnici poco sofisticati, girare, in presa diretta, delle storie sulla realtà sociologica o culturale di quei paesi. Tutto ciò porta alla scomparsa di quel cinema arabo di stampo hollywoodiano che fino ad allora era stato girato nei teatri di posa del Nilo che, a loro volta, vengono abbandonati da vari registi, fra cui Shàhìn. Si potrebbe parlare di una «nouvelle vague- araba, di una corrente originale che riunisce nello stesso tempo rappresentanti della vecchia generazione, la Hollywood sul Nilo, ed esponenti della generazione dell’indipendenza in paesi come l’Algeria, la Siria, il Kuwait. A quell’epoca le infrastrutture erano molto eterogenee: nei paesi a orientamento socialista erano esclusivamente statali; in quelli a economia liberale, di fronte al totale disinteresse sia da parte dello Stato che del settore privato, dipendevano dall’iniziativa personale degli appassionati che cercavano di ottenere aiuti un po’ ovunque, rivolgendosi sia al settore pubblico che a quello privato, nonché all’estero. In Marocco è stato ideato un sistema che consiste nell’ottenere finanziamenti sia dallo Stato marocchino che dal settore privato (dalle imprese) interessato a investire nel cinema e nel chiedere l’assistenza della Francia, di produttori, o crediti professionali all’este­ ro. È evidente che anche tale meccanismo non era in grado di suscitare un processo industriale o economico. Era, comunqe, il sistema in vigore in paesi come il Marocco, la Tunisia e il Libano e, negli anni Settanta e Ottanta, esso finirà per diventare l’unica soluzio­ ne praticabile per i registi arabi: per portare a termine un progetto personale non sarà più possibile contare solo sullo Stato, sul settore privato o sull’estero, ma bisognerà puntare in tutte e tre le direzioni contemporaneamente. Il desiderio è tale che cerchiamo di far film contro tutto e contro tutti.

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UNA O PIÙ CINEMATOGRAFIE ARABE?

LA SITUAZIONE AUDIOVISIVA ARABA

Subito dopo, alla stregua di quanto è avvenuto in occidente, la situazione subisce profonde trasformazioni. Negli anni Ottanta la supremazia del cinema viene seriamente messa in pericolo dalla televisione, che diventa il principale veicolo delle immagini. Se l’occidente ha saputo reagire, per esempio creando le multisale, nei paesi arabi i cinematografi si sono svuotati. Il tipo stesso di pubblico si è trasformato: la televisione prima, poi il mercato video, hanno provocato la disaffezione degli strati sociali più agiati e hanno abbandonato il cinema ai ceti sociali più poveri, indigenti. Le sale cinematografiche sono state prese d’assalto dai protagonisti dell’eso­ do rurale. Il pubblico indigente vuole, praticamente, solo film violenti. Bruce Lee ha detronizzato il western. Gli unici film che reggano il confronto con quelli alla Bruce Lee sono i film polizieschi, pieni di inseguimenti e di violenza. In questo campo, il cinema egiziano è stato vittima della concorrenza del cinema indiano, più abile nei manipolare la violenza sullo schermo. Poiché nelle sale del Cairo i film indiani facevano il tutto esaurito, il governo egiziano è stato costretto a imporre dei contingentamenti. Durante il mese del Ramadan, per offrire spettacoli di alto gradimento agli egiziani la televisione trasmette film indiani. Questa situazione ha completamente dissestato la produzione egizia­ na. Il mercato video riveste grande importanza in Medio Oriente, in particolare in Arabia Saudita, dove, pare, ci possono essere fino a dieci videoregistratori per famiglia. In Arabia Saudita non esistono sale cinematografiche e il consumo di film, estremamente alto, viene fatto in ambito familiare. La richiesta di film è così importante che da quindici o vent’anni a questa parte il cinema egiziano viene finanziato dalla penisola araba tramite gli uffici finanziari di Riyad o di Kuwait City. Il cinema egiziano è quindi diventato un cinema prevalentemente sovvenzionato dai Paesi del Golfo. Vista la bassissima frequentazione delle sale cinematografiche e poiché - contrariamente a quanto avviene in Europa dove la TV ha salvato il cinema - la televisione non compra film, il cinema egiziano non possiede più fonti di finanzia­ mento sul territorio nazionale. La circolazione dei film egiziani nel mondo arabo non rende in quanto le televisioni, alla stregua delle sale cinematografiche, comprano i film a prezzi irrisori. Praticamente gli egiziani, oggi, operano in una sorta di economia di sussistenza, girando film a costi minimi, il cui finanziamento, nella maggior parte

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dei casi, proviene dalle vendite dei video nel Golfo e riuscendo a mantenere un’industria che produce fino a trecento film l’anno (fra lungo e cortometraggi per il cinema e la televisione) e che alimenta di immagini arabe quasi tutte le televisioni della regione. Ma, ancora una volta, l’Egitto si rivela all’avanguardia rispetto al mondo arabo: i teatri di posa del Cairo sono decrepiti e polverosi e le attrezzature tecniche risalgono agli anni Cinquanta, epoca in cui vennero offerte dai fratelli socialisti, cecoslovacchi o polacchi, eppu­ re, malgrado tutto cada a pezzi, vi vengono girati più di cento film l’anno. Ben altro sono, invece, i modernissimi teatri di posa della televisione egiziana. Lo Stato egiziano ha, infatti, deciso di sviluppare al massimo il settore televisivo, creando tre reti, alimentate da una produzione televisiva complessiva di venti ore al giorno. Le reti televisive trasmettono tutto l’anno produzioni arabe: la televisione ha finito con il fare quello che i teatri di posa avevano cercato di realizzare negli anni Cinquanta. La situazione degli altri paesi arabi, sprovvisti di un'industria cinematografica, è assai diversa: sempre più spesso, su iniziativa individuale, nascono dei gruppi che, autonomamente, provvedono alla produzione di film, di documentari o di altro materiale. Al di fuori dell’Egitto, le reti televisive trasmettono un numero limitato di pro­ grammi e, comunque, non intervengono nella produzione cinemato­ grafica. Sempre più spesso queste iniziative individuali a livello produttivo finiscono per non trovare mercato: da un lato le sale sono totalmente colonizzate dai film di violenza, gli unici ad assicurare incassi, e dall’altro, quando i film arabi vengono trasmessi in televisio­ ne, le tariffe sono talmente basse che non portano alcun utile alla produzione. Ecco un ulteriore esempio della tragedia del cinema arabo. CAMBIAMENTO D'IMMAGINE

L’immagine veicolata dai film egiziani è ormai drasticamente cambia­ ta, sia a livello di idee presentate che di articolazione del film. Ciò si spiega con il fatto che oggi si cerca di ricorrere a temi attuali, quali la droga e la lotta al traffico di stupefacenti o lo stupro. I film in questione affrontano i temi citati con poco rigore ed è proprio questo a garantire loro il successo di pubblico nelle sale delle città. Al Cairo, per esempio, il successo del film è assicurato a condizione che la storia si chiuda con una sanzione morale prettamente religiosa, cioè inerente alla dottrina islamica. Per girare un film su di uno strupro, per esempio, si sceglie un’attrice prosperosa come Layla ’Alwi e la si fascia

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con abiti tanto aderenti da rasentare il film pomo. Alla fine, però, Layla ’Alwi indossa il velo bianco, si reca in pellegrinaggio alla Mecca per purificarsi dall’onta e, naturalmente, gli stupratori vengono condan­ nati; l’importante, più che la condanna, è che alla fine del film i violentatori dichiarino di essersi pentiti. Le sceneggiature sono siste­ maticamente sempre uguali. I film romantici all’acqua di rose sono totalmente scomparsi, rimpianti da quasi tutti gli addetti ai lavori e soprattutto da attori, attrici e registi interessanti che ne parlano con nostalgia, rammaricandosi di non potersi più dedicare, per mancanza di finanziamenti, a quello che fu il prodotto essenziale dell’industria cinematografica. CHE FARE?

Cosa si può fare? La realtà e il pragmatismo impongono di tener conto della situazione esistente. Attualmente, a livello internazionale, è in corso un’evoluzione sempre più evidente verso una nuova definizio­ ne dell’immagine e del modo di produrla. È una situazione estranea al cinema arabo: il vecchio iter che seguivano i film è definitivamente scomparso. La realtà audiovisiva diventa sempre più un intreccio complesso a cui partecipano i film, la televisione, il cavo, il grande schermo video, l’alta definizione, il disco laser... La tecnologia dell’immagine è sempre stata segnata da nuove invenzioni, ma credo che l’elemento centrale rimanga l’idea, il concetto di immagine come scrittura, la scrittura per immagini. Siamo entrati nella civiltà dell’im­ magine, come una volta eravamo entrati nella civiltà della scrittura. In veste di regista, cerco di individuare l’immagine in quanto scrittura e non mi interesso a ciò che è necessario per veicolarla o alle infrastrutture. Il futuro cinema arabo sarà necessariamente a immagi­ ne e somiglianza delle trasformazioni della nostra società. Finché non vi sarà uno sblocco della società araba nel campo delle libertà e dello sviluppo politico ed economico, saremo sempre confrontati a un’im­ magine incompiuta. Personalmente, sono determinato a far film, e continuerò a farli cercando finanziamenti nel mio paese, in occidente o in Egitto. L’ARTE CINEMATOGRAFICA ARABA

Sono pochi i film arabi che suscitano in me un vero godimento da cinefilo. Mi capita più spesso di apprezzare una parte o un momento di un film più che l’intera opera. Rimane pur vero che nel mondo arabo esistono alcuni film, registi, scuole o categorie di opere che 49

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sono stati determinanti nel mio desiderio di fare cinema. Si tratta essenzialmente di personaggi che risalgono all’epoca della mia infanzia e adolescenza, dei protagonisti degli anni d’oro del cinema egiziano quali, per esempio, Abdel Halim Hafez, un attore e cantante meraviglioso che è stato l’idolo di varie generazioni nel mondo arabo. Considero Hind Rustum, Farid Shawqi e Layla Lurad, attori dell’epoca gloriosa del cinema egiziano degli anni Trenta e Quaranta, come i fondatori del cinema arabo. Rispetto al Marocco, c’è stato un film che mi ha turbato profonda­ mente e che ho conservato come costante punto di riferimento: Noces de sable, scritto e commentato da Jean Cocteau e girato nel 1948 da André Zwoboda. Sono sempre molto commosso dai film che i grandi registi del cinema mondiale hanno girato in Marocco o nel mondo arabo, a prescindere dal mio amore per l’oriente o dalla mia cinefilia. Per esempio, il film di Josef von Sternberg Morocco con Marlene Dietrich. Mi turba profondamente il fatto che Sternberg, senza essere stato in Marocco, riesca a presentare la colonizzazione come nessun altro: ecco un regista hollywoodiano che, con mezzi classici, ha saputo cogliere una verità della cultura e della società a cui apparten­ go. Citerò The Man Who Knew Too Much di Hitchcock, senza dimenticare Othello di Orson Welles. Un altro film americano che mi ha colpito è stato The Man Who Would Be King di John Huston. Anche Lawrence ofArabia dì David Lean mi ha molto scosso. Si tratta di film importanti della storia del cinema, di vere opere d’arte. La cosa che più mi interessa è la rappresentazione dell’oriente nell’opera, forse perché non mi pare che il cinema arabo abbia mai realizzato delle vere e proprie opere. Il cinema arabo è ricco di ricerche, di desideri, di potenzialità ed è questo che mi porta ad apprezzare delle sequenze o delle scene, più che dei film completi. Alcuni film mi hanno realmente segnato, come Stazione centrale (Bab al-Hadid) di Yusif Shàhìn, Diario di un procuratore di campagna (Yawmiyyat nàib fi al-ariaf) di Tawfiq Sàlìh, che ha anche girato Gli ingannati (Al-makkdu’un), e Rudda Qalbidi Azadin Zulfiqar. Per l’Algeria ricorderò II vento degli Aurès (Asifa al-Uras) di Muhammad Lakhdar Hamina e Omar Gatlatu (Umar Gatlatu) di Mirzàq Alwash. Per la Tunisia Aziza di Abdu al-Latif Bin Ammar. Per la Siria // rapporto (Al-taqrir) di Duraid Lahham. Per il Marocco Tracce(Washma) di Hamid Binnani. Per l’Egitto attualmente sono tre i film che considero essenziali: Il ritorno di un cittadino (Awdat muwatin) di Muhammad Khàn, La collana e il braccialetto (Al-tawq wa al-aswira) di Khayrì Bishàra e Una strada da prendere (Sikit safar) di Bashir al-Dyq; voglio però anche ricordare Un cittadino 50

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egiziano (Al-muwatin Misti) di Salàh Abu Sayf. Sfruttare le potenzialità di cui parlavo significa creare un’immagine che riesca a parlare del nostro mondo in modo estetico, spettacolare, divertente, ponendo quegli interrogativi di base sulla cultura, l’identi­ tà e la storia araba che abbiamo evocato. Il che spiega come alcuni di noi desiderino creare un cinema arabo che entri a pieno diritto nella storia del cinema. Concetti e analisi discussi con Rym Brahimi (Traduzione dal francese di Cristina Dall'Oglio)

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SITUAZIONE DEL CINEMA ARABO

La regione araba è costituita da 21 stati distribuiti tra l’Asia e l’Africa; in Asia troviamo l’Arabia Saudita, lo Yemen, il Qatar, il Bahrain, il Kuwait, l’Oman, gli Emirati, l’Iraq, la Siria, il Libano, la Giordania e la Palestina, mentre in Africa abbiamo il Marocco, l’Algeria, la Tunisia, la Mauritania, la Libia, l’Egitto, la Somalia, il Sudan e Gibuti. Elementi comuni a questi paesi sono la lingua araba e la religione musulmana, professata dalla maggior parte degli abitanti. L’Egitto, situato tra Asia e Africa, costituisce il cuore del mondo arabo Questa area geografica ha anche dato i natali alle più grandi religioni del mondo: l’IsIam, il Cristianesimo e l’Ebraismo; inoltre in Egitto, in Iraq, in Libano, in Tunisia, in Marocco e in Sudan sono fiorite le più importanti civiltà antiche, cioè quella dei Faraoni, dei Babilone­ si, degli Assiri, dei Fenici e dei regni africani. Il cinema, in Europa, ha rappresentato uno dei risultati del progresso scientifico del XIX secolo e fin dai suoi esordi è giunto nel mondo arabo. Al momento deH’arrivo del cinema il mondo arabo era sotto l’occupazione europea (inglese, francese e italiana), il cui scopo principale era lo sfruttamento dei territori conquistati, ostacolandone la produttività. La cinematografia araba inizia quindi con l’indipen­ denza dei singoli Stati che, come d’altra parte l’occupazione, ha avuto gradi e forme diversificate. Troviamo però in Egitto una produzione che si sviluppa prima rispetto agli altri paesi arabi e che inizia dopo la grande rivoluzione del 1919. In Egitto, molteplici fattori hanno contribuito allo sviluppo di un’industria cinematografica simile a quella europea. Tale industria, se si considera il suo pubblico, supera più della metà di quella europea. Bisogna poi notare che la società egiziana, che fin dai tempi

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antichi ha avuto una identità culturale nazionale, si caratterizza per un forte legame con la cultura occidentale, legame che risale ai tempi di Muhammad ’Ali (inizio del XIX secolo). Questa identità culturale ha contribuito anche allo sviluppo del teatro e nel 1869 al Cairo fu costruito il teatro dell’opera. Al momento dell’arrivo del cinema in Egitto, il Cairo e Alessandria erano già poli di attrazione culturale per tutto il mondo arabo, in particolare per il teatro. L’industria cinematografica egiziana già dal primo film, non rivol­ gendosi solamente al proprio pubblico egiziano, si è configurata come una industria araba. Questo spiega perché i primi film di molti paesi arabi imitassero quelli egiziani e che i film commerciali arabi fossero influenzati dalla scuola egiziana. Attualmente gli egiziani collaborano a film di altri paesi arabi come in passato molti arabi hanno preso parte a film egiziani; inutile dire che il cinema arabo trova degli oppositori sia in Egitto che in altri paesi. Conformemente al principio secondo il quale l’età contemporanea inizia con l’ultimo avvenimento che influenza la realtà, riteniamo che il cinema arabo contemporaneo inizi dopo la guerra del 1967, che ha visto da un lato schierati l’Egitto, la Siria e la Giordania, dall’altro il movimento sionista che aveva occupato la Palestina. Le tracce di questa guerra sono ancora presenti su di noi, o per meglio dire avvertiamo la sconfìtta subita. Se non ci fosse stata la guerra del 1967 non ci sarebbero stati i negoziati con i Sionisti svoltisi nei 1979 a Washington a proposito del Sinai, né ci sarebbero stati i negoziati di Madrid del 1991 sul Golan. Ma nella storia non esistono «se», ciò che è stato è stato, e non si poteva evitarlo. Quanto a noi dobbiamo capire il perché e impedire che si ripeta. Nella seconda metà degli anni Cinquanta il neorealismo italiano influenza il cinema egiziano (Salàh Abu Sayf, Tawfiq Sàlih e Kamàl al-Shaykh), il cinema iracheno (Kàmyràn Husni in Mister Saffi - Said Afandi, 1956) e quello libanese (George Nasr in Dove? - Uà ayna, 1957); mentre la guerra del 1967 si è ripercossa in tutto il cinema arabo. La produzione cinematografica araba è dunque iniziata in Egitto, non a causa di una supremazia razziale, come sostengono alcuni, ma a causa della posizione geografica e della situazione politica del paese. Sempre in Egitto, a metà degli anni Sessanta, l’istituto Supe­ riore del Cinema rilasciò i primi diplomi, si iniziò la produzione nel settore cinematografico, sorse una nuova corrente di critica che legava il cinema alle altre arti; allo stesso tempo il cinema entrò a far parte della cultura nazionale e della vita politica. In seguito alle dimostrazioni studentesche del febbraio 1968, si formò -per strada-, in 54

SITUAZIONE DEL CINEMA ARABO

uno dei tanti caffè all’aperto, ’Umad al-Dìn, un’associazione di critici e cineasti. Tale movimento costituì il punto di partenza del nuovo cinema egiziano degli anni Ottanta. Nella seconda metà degli anni Sessanta si inaugurarono in Libano il festival cinematografico di Beirut e in Tunisia, nel 1966, quello di Cartagine, col desiderio di costruire una cinematografìa nazionale, espressione della cultura araba. In questa fase storica tutti i paesi arabi avevano già raggiunto l’indipendenza; i vari ministeri della cultura iniziavano a porre tra le proprie finalità l’incremento della produzione cinematografica in lingua araba; molti registi, dopo essersi formati in Europa o negli Stati Uniti, rimpatriavano, sperando di poter girare i propri film. Nei primi anni Settanta si è avuta una nuova produzione cinemato­ grafica. In Egitto troviamo: Canzone sul sentiero (Ughniyya ’alà al-mamarr) di ’Alì ’Abd al-Khàliq e Ombre sull’altra riva (Al-zilàl fi al-jànib al-akhar) di Ghàlib Sha’th; in Libano: Kufr Qàsim di Burhan ’Alawiyya e Beirut oh Beirut (Bayrut ya Bayrut) di Martin Baghdad!; in Siria: Al-yàzarali di Qays al-Zubaydì, L’uomo (Al-rajul) di Faysal al-Yàsrì, Vita quotidiana in un villaggio siriano (Al-haya al-yawmiyya fi garya suriyya) di ’Umar Amìralày, La pantera (Al-fahd) di Nabli al-Màlih; in Iraq: Gli assetati (Al-zamiùna) di Muhammad Shukri Jamìl; nel Kuwait: Mare crudele (Bas ya bahr) di Khàlid al-Siddìq; in Tunisia: E domani? (Wa ghadàn) di Ibrahim Bàbay e Lettere dal carcere (Rasàil min sijnàn) di ’Abd al-Latìf bin ’Amar; in Marocco: Tracce (Washma) di Hamìd Binàni e Mille e una mano (Alf yad wa yad) di Sahil bin Barka; in Algeria: Il carbonaio (Al-fahhàm) di Muhammad Bu ’Amari, Stirpe nera (Al-’irg al-aswad) di Sayyid ’Ali Mazif, Gli usurpatori(Al-ghàsibuna) di al-Anun Mirbàh, Nuba di ’Abd al-’Aziz Talbì; in Mauritania: Il sole/Soleil (Al-shams) di Muhammad Hundu 'Abid (Med Hondo). Questi film rivelavano che il cinema arabo aveva intrapreso un proprio percorso autonomo. Il festival cinematografico di Alessandria del 1969 ha rappresentato la nascita del nuovo cinema egiziano, mentre quello di Damasco del 1972 la nascita del cinema arabo contemporaneo. Entrambi i festival hanno avuto luogo una sola volta e hanno rappresentato la nuova corrente che si contrapponeva alla cinematografìa commerciale predominante in Egitto e in tutti i paesi arabi. Da metà degli anni Settanta fino agli inizi degli anni Novanta il cinema arabo si è sviluppato notevolmente. In Egitto un gruppo di registi - tra i quali Rafat al-Mìhì, Muhammad Khàn, Khayri Bishara, Dawd ’Abd al-Sayyid, ’Atif al-Tayyib - ha dato vita al neorealismo; tra

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i loro film, a titolo di esempio citiamo: L’avvocato(Al-awfàkatu) di al-Mìhì, Isogni di Hind e Camelia (Ahlàm Hind wa Kamìlyà) di Khàn, Alla ricerca di Sayyid Marzùq (Al-bahth ’an Sayyid Marzuq) di ’Abd al-Sayyid, L’innocente(Al-bari) di al-Tayyib. Ritroviamo il neoreali­ smo in Siria in Isogni della città (Ahlàm al al-madìna) di Muhammad Malas, in Sayyid Dhikrì, in La dichiarazione (Al-tagrìr) di Hìtham Haqì, Stelle di giorno al-nahàr) di Usama Muhammad, Ze notti dello sciacallo (Layàlì ibn awà) di 'Abd al-Latìf ’Abd al-Hamìd; in Tunisia in // vento della diga/L’uomo di cenere(Rih al-sadd) di Nuri Buzayd (Nouri Bouzid), // sole delle iene (Al-shams al-sibà’) di Bidà al-Bàhì, Miraggio (Sirab) di ’Abd al-Hafìz Bu’asìma e nei film di Nasìr Khamìr; in Algeria nei film di Marzùq al-’Alwàsh e in Ultimo regalo (Al-hidayya al-akhìra) di Ghùtì bin Durush; in Marocco in La guerra del petrolio non c’è stata (Harb al-bitrul lan yaqa’) di Sahil bin Barka, Asfalto (Zift) di al-Tayyib al-Sadìqi, Venti orientali (Righnyàh al-sharqiyya) di Mumin Smìhì, Il viandante (’Abir sabìl) di ’Abd al-Rahman Tàzi. Il conflitto Iraq-Iran ha relegato il cinema iracheno a una mera funzione di propaganda bellica; in Libano la guerra civile ha causato l’espatrio, soprattutto verso la Francia, della maggior parte dei registi, che hanno continuato però ad ambientare i film in Libano: si pensi, ad esempio, a Piccole guerre (Al-hurub al-saghìra) di Marun Baghdadi, Incontro a Beirut (Bayrut al-Iigà) di Burhàn ’Alawiyya, Il corteggia­ mento delle ragazze (Ghazal al-banàt di Juslim (Jocelyne) Sa’ab, Leila e i lupi (Laylà wa al-dhiàb) di Hayni Surur; possiamo appunto considerare tutti questi film testimonianze della corrente neorealistica del cinema arabo. Negli altri paesi arabi troviamo alcuni esempi di sperimentazione cinematografica come il film kuwaitiano-sudanese Le nozze della bellezza (’Urs al-zayn) di Khàlid al-Sadìq, il film mauritano Schiavi degli arabi CUmmàl ’arab ’abìd) di Muhammad Hundu, il film libico La scheggia (Al-shaziyya) di ’Alì al-Firjànì, il film degli Emirati Il viandante ('kbit sabìl) di ’Alì al-’Abdul, il film giordano Storia orientale (Hikàya sharqiyya) di Najda Anzur, il film sudanese Distruzione (Taiawwuh) di Jàd Allah Jibàra, i documentari sulla guerra in Libano e in Afghanistan del regista saudita ’Abd Allah al-Muhìsin. Oggi il cinema arabo si trova ad affrontare il grave problema della chiusura dei suoi mercati alla propria produzione, fatta eccezione per i film egiziani. Questo fenomeno è chiaramente riscontrabile all’inter­ no del mercato egiziano, il più importante dell’intera regione. I produttori arabi appoggiano solo film egiziani, poiché gli altri film arabi non darebbero garanzie di mercato; inoltre il Ministero egiziano

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SITUAZIONE DEL CINEMA ARABO

della Cultura non ha nessun interesse a promuovere film di altri paesi, inducendo la maggior parte dei cineasti non egiziani a rivolgersi all’estero per vedere appoggiati i loro film. L’Europa, più esattamente la Francia, nell’ambito della politica ufficiale, ha promosso la produ­ zione degli stati del Maghreb, del Libano, della Siria, allo scopo di conservare la sua influenza culturale negli ex territori coloniali. Non si può paragonare l’attuale situazione culturale del cinema arabo con quella degli anni Sessanta-inizio Ottanta: in questo campo si registra infatti un netto peggioramento. Declino culturale vuol dire chiusura dei mercati e scarsa diffusione dei film. La situazione è aggravata dalla televisione e dalia circolazione dei film in videocasset­ ta. La situazione culturale del cinema è influenzata dalla legislazione, cioè dal rapporto tra lo Stato e il cinema. Nella quasi totalità dei paesi arabi le leggi sul cinema si contraddistinguono per la censura e le tasse, cioè da un lato si considera il cinema come fonte di pericoli per la società, dall’altro lato come oggetto di imposte; le tasse sul cinema non differiscono da quelle sugli spettacoli notturni e per ragazzi. Il declino della posizione culturale del cinema è evidente anche nel rapporto con stampa ed editoria. In tutto il mondo arabo non esiste un’editoria specializzata in cinema, ad eccezione della casa editrice «Al-maktaba al-’arabiyya» (Biblioteca araba). All’infuori della rivista •Al-hayà al-sinimaiyya« (Vita cinematografica) che si pubblica una o due volte all’anno a Damasco, non vi sono altre riviste specializzate in cinema e la stampa quotidiana riserva poco spazio al cinema, per lo più dedicandovi dei fascicoli illustrati. I festival «intemazionali- dei Cairo, di Damasco, di Tunisi, allonta­ nandosi sempre più dalla cultura per avvicinarsi al turismo, alla propaganda e alla divulgazione, sono un chiaro esempio dell’attuale declino culturale del cinema. Tuttavia questi festival, anche con i loro punti deboli, conservano una certa funzione culturale, ma nessun ruolo hanno i festival delle piccole città, come ad esempio Alessandria e Tetuan. Non esistono archivi nazionali per i film arabi, non ci sono garanzie legali o artistiche che permettano la conservazione di questi film, come mancano informazioni precise su questa realtà, poiché si impediscono studi scientifici sull’argomento. Benché il video non sia la stessa cosa del cinema, la maggior parte dei film arabi non egiziani si trova solo su videocassetta, e i film egiziani d’autore sono disponi­ bili solo in bianco e nero. Ogni paese arabo ha più canali televisivi, ma questi promuovono il cinema solo nel caso di coproduzioni o di preacquisti. I programmi 57

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televisivi si inseriscono nella programmazione generale, non in quella culturale, e si trasmettono perlopiù film europei o americani. Per concludere, nei paesi arabi l’istruzione non si occupa di cinema e questa disciplina non rientra nei programmi di studio delle arti figurative. In Egitto c’è un unico istituto dove, tra mille difficoltà, si può studiare cinema. (Traduzione dall’arabo di Anna Baldinetti)

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IL CINEMA DEI PAESI ARABI

ALGERIA

1. IL CINEMA PRIMA DELL'INDIPENDENZA

Per descrivere e valutare il cinema algerino occorre considerare la specificità storica del paese nordafricano all’interno del mondo arabo. Punto di partenza della cinematografìa nazionale è infatti la guerra che l’Algeria ha combattuto per affrancarsi dalla dominazione france­ se. Il conflitto, la cui durata e il cui bilancio di sangue - a parte il caso vietnamita - non hanno probabilmente eguali nella storia dei processi di decolonizzazione avvenuti dopo la fine della seconda guerra mondiale, esplose nel 1954 con l’insurrezione della capitale e terminò nel 1962 con la proclamazione della Repubblica Algerina. Per l’intima coincidenza che si verificò in Algeria nella seconda metà degli anni Cinquanta tra evoluzione politica e sviluppo della produzione cine­ matografica, è senza dubbio possibile estendere ai cineasti di quel paese - come sostiene Rashid Bu Jidna 1 - l’attribuzione della frase pronunciata da Ousmane Sembène: -Pour moi le cinema est un moyen d’action politique*2. L’Algeria ha subito la dominazione francese - iniziata nel 1830 con l’occupazione di Algeri3 senza mai sopire fermenti di rivolta ed aspirazioni autonomistiche. Le relazioni tra il paese nordafricano e la potenza colonizzatrice sono state assai complesse e hanno visto intrecciarsi tensioni di segno opposto: l’Algeria ha nutrito per la Francia un profondo e inalienabile antagonismo, ma ha subito nello stesso tempo - come dimostra la diffusione e la persistenza della francofonia - l’influenza della cultura francese. La particolare colloca­ zione nell’ordinamento coloniale francese ha consentito quindi al paese di affiancare all’orgogliosa difesa della propria identità storica 61

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un’atipica conformazione del ceto intellettuale, che ha potuto attinge­ re alla tradizione più fertile del pensiero occidentale nel momento stesso in cui partecipava al processo di rinnovamento politico della nazione e ne promuoveva la rinascita culturale. La decisione di avviare un programma di produzione cinematogra­ fica fu un atto -rivoluzionario*, determinato sia dalla volontà di esprimere le istanze del movimento insurrezionale sia dalla necessità di diffondere gli orientamenti tattici e programmatici del Front de Liberation Nationale (FLN). Esclusa dalla possibilità di accedere autonomamente alla pratica del cinema, la società intellettuale algeri­ na non potè trasferire a coloro che si preparavano a realizzare le prime produzioni alcuna esperienza concreta né consegnare alcun testimone che appartenesse alla tradizione cinematografica naziona­ le. I primi cineasti algerini non furono neppure in grado di eseguire direttamente la lavorazione postproduttiva delle proprie opere, poi­ ché il paese era privo delle apparecchiature per lo sviluppo, il montaggio e la sonorizzazione di un film4. Dovettero operare nella clandestinità, custodire all’estero il materiale girato e creare le prime strutture di formazione nelle stesse zone di combattimento. Contrariamente a quanto era avvenuto in altri paesi arabi, nei quali una seppur modesta produzione indigena aveva affiancato sugli schermi la massiccia presenza di prodotti stranieri, in Algeria non vi furono tracce apprezzabili di produzioni locali fino allo scoppio della guerra di liberazione. Il paese nordafricano si era infatti limitato a fornire all’industria cinematografica europea ed americana lo splen­ dore dei paesaggi e l’aroma del proprio esotismo, rappresentando il décor ideale per la materializzazione di fantasie trasgressive, aspira­ zioni catartiche e fughe impossibili. Luogo arcano e primordiale, mitico -altrove* in cui ogni avventura era plausibile, l’ambiente algerino fu nella maggioranza dei casi un astratto elemento scenogra­ fico ed una pura proiezione degli stereotipi con cui il pubblico •evoluto» delle platee occidentali identificava l’altro da sé. Per meglio comprendere il significato di queste affermazioni, è utile riportare il giudizio che Rashid Bu Jidra formula al termine di una approfondita disamina del cinema d’atmosfera coloniale:

Verso gli anni Trenta, dieci anni dopo la fine della guerra del Marocco, i produttori affermarono che il pubblico francese esigeva la zuffa, il combattimento, il duello a morte contro i -malvagi Arabi-. [...] I cineasti, rafforzati da una simile richiesta, andarono a cercare dentro una pseudo-realtà la conferma di questi ridicoli dichés, senza preoccuparsi di ciò che essa avrebbe potuto effettivamente significa­

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re. D’un tratto, l’intero cinema francese risentì di questo orientamento ed inflisse agli spettatori, che del resto accorrevano nelle sale proprio per i motivi addotti dai produttori, dosi massicce d’eroismo, riservate tuttavia ai bianchi europei sempre in grado di venire a capo della furbizia di qualche indigeno in rivolta... Gli schermi coloniali videro prosperare un’altra figura invadente: quella del militare, in particolare del legionario, colui che «sous le soleil algérien sentait bon le sable chaud*, come affermava una canzone dell’epoca. Il soldato dal képi bianco divenne il simbolo prestigioso dell’evasione sociale e morale, della fuga, della morte eroica in difesa dell’occidente cristiano contro le orde musulmane, guidate da capi crudeli e dispotici. Questa immagine rasentava la fantasia pura e semplice ed invertiva i ruoli dei soggetti in campo: il belligerante diventava colui che resisteva ed il resistente, di fronte al rassicurante aspetto di coloro che volevano introdurre «la civiltà e le buone maniere*, finiva con l’assumere la connotazione del predatore senza scrupoli. [...] Il pubblico non sembrava stancarsi di questo genere cinematografico - i cui film vennero definiti -dell’entroterra* (cfr. Le bled, 1929, di Jean Renoir) che nel suo rigido manicheismo mostrava, in contrasto con l’eroe positivo e virtuoso, l’Arabo astuto e traditore, disobbediente e sleale, pronto a battersi solo per motivi immorali e illeciti5La vasta produzione connessa al genere «coloniale*, che affiancava titoli deteriori, quali Le sang d’Allah (1922) di Georges Bourgeois e Les fìls du soleil (1924) di René Le Somptier, a grandi successi come Le grand jeu (1934) di Jacques Feyder e Pépé le Moko (1937) di Julien Duvivier, impose all’Algeria - nazione dominata - l’immagine che il paese dominante le aveva assegnato. Non fu per caso che la Francia ostacolò la nascita di un’industria cinematografica locale. Impedendo che il paese detenesse l’autonomia produttiva, gli negò il diritto all’autorappresentazione. Naturalmente il cinema francese non si limitò a parlare dell’Algeria in termini folkloristici. Sia immediatamente prima che durante la guerra di liberazione, ad esempio, furono molti i film che squarciaro­ no le convenzioni del genere coloniale cercando di interpretare il paese nella sua verità storica ed umana. Ai cineasti algerini fu comunque ben chiaro che la lotta per l’affrancamento dalla soggezio­ ne politica non poteva essere disgiunta dalla riconquista di una piena autonomia culturale. Perciò vollero documentare, proprio dal punto di vista di una riconquistata identità nazionale, le fasi del processo stesso di liberazione. Nel 1957, tre anni dopo l’insurrezione di Algeri, venne aperta nella Zona 5 del Primo Distretto (Willaya d’Alger) l’École de Formation du

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Cinéma. Promosso dall’FLN, il centro venne diretto da René Vautier, un cineasta francese che aveva aderito alla resistenza algerina. Gli allievi non furono più di cinque e la maggior parte di essi morì in combattimento 6. Contemporaneamente, altri registi vennero inviati all’estero, principalmente nei paesi socialisti, per approfondire la conoscenza del mezzo cinematografico. Muhammad Lakhdar Hamina seguì corsi di formazione in Cecoslovacchia e Ali Yahia si perfezionò prima a Berlino Est quindi in Jugoslavia. Il gruppo di operatori-registi che si formò nell’ambito del Governo Provvisorio della Repubblica Algerina (GPRA) - dando vita dapprima al Comité de Cinéma (legato al GPRA), quindi al Service du Cinéma du GPRA ed in seguito al Service du Cinéma de l’ALN7 - operò in condizioni tecniche e logistiche estremamente precarie. La mancanza pressoché totale di attrezzature cinematografiche e di laboratori per lo sviluppo li costrinse a servirsi della collaborazione di paesi amici, la Tunisia ed il Marocco in primo luogo. Tra i filmati realizzati in questo periodo esclusivamente finalizzati alla documentazione della guerra di libera­ zione - emersero i lavori di Jamail Sbandarli e Muhammad Lakhdar Hamina, i quali diressero tra il 1959 ed il 1962 un lungometraggio e tre cortometraggi: Jazairuna, un film di montaggio dedicato alla storia dell’Algeria e della sua lotta per l’indipendenza basato sulle immagini di Une nation, l’Algérie diretto nel 1955 da René Vautier; La voix du peuple, riedizione del primo con l’aggiunta di ulteriori testimonianze sulla guerra; Jasmina, racconto della vita quotidiana di una bambina algerina rifugiata in Tunisia; Lesfusils de la liberté, dedicato al diffìcile recupero di un convoglio di munizioni. Questi film furono commissio­ nati dal Service du Cinéma du GPRA ed avevano chiare finalità didattiche. Gli altri documentari girati in questa fase della guerra di liberazione furono: Les réfugiés, realizzato tra il 1956 e il 1957 da Cécile de Cujis, L’Algérie en flammes, diretto tra il 1957 e il 1958 da René Vautier, tre cortometraggi prodotti nel 1957 dalla stessa École de Formation du Cinéma (JL’école, Lesinfìrmièresdel’ALNe L’attaquedes mines de l’Ouenza), Les réfugiés (1958) di Pierre Clément, fai huit «ns(196D di Yann e Olga Le Masson e René Vautier, Cinq bommeset un peuple (1962) di René Vautier. Per comprendere meglio le condizioni in cui vennero realizzati i lavori sopra ricordati è opportu­ no citare nuovamente Rashid Bu Jidra: Occorre tuttavia aggiungere, per essere completi, che la morale a tratti manichea di questi documenti poteva infastidire gli spettatori che dovevano essere acquisiti alla causa algerina. Si trattava di facile schematismo o di sciovinismo mal applicato? Certamente no. Il fatto 64

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era che quei cineasti dovevano andare spediti alia meta senza disperdere gli scarsi mezzi di cui potevano disporre. Per il GPRA era prioritaria l’esaltazione della guerra di liberazione. 1...] Avevamo finalmente un cinema militante che mostrava un paese in guerra: il nuovo cinema di un paese che stava facendo la rivoluzione 8. 2. IL CINEMA DOPO L'INDIPENDENZA (1962-1971)

Dati strutturali

Nel periodo compreso tra il 1958 ed il 1962 l’Algeria possedeva 196 delle 457 sale di proiezione dell'intero Maghreb, 95 in meno rispetto alle sale presenti nell'insieme dei paesi mediorientali9. La loro densità era di 18,6 unità per milione di abitanti; la media mondiale, nello stesso periodo, era di 70 unità, quella europea di 160, quella italiana in particolare di 350. Tuttavia, mentre ad esempio in Egitto lo spettacolo cinematografico si concentrava prevalentemente nelle aree urbane (oltre un terzo dei biglietti venivano venduti al Cairo e ad Alessandria), in Algeria, dopo l’indipendenza, le sale si diffusero soprattutto nelle aree rurali. A fronte delle 44 sale di Algeri, delle 34 di Orano e delle 9 di Costantina, vi erano rispettivamente 69, 77 e 50 cinematografi nelle regioni circostanti,0. In queste zone le sale di proiezione erano state costruite molto tempo prima, principalmente per i soldati e i cittadini stranieri residenti, e fu solo a partire dal 1962 che esse cominciarono ad essere affollate dalla popolazione locale. Nel 1959 vi erano in circolazione 2.301 film ed il numero complessivo di spettatori fu di 27.666.000 unità: 11.550.000 per il cinema americano (41,74%), 9.064.000 per quello francese (32,76%), 1.702.000 per quello inglese (6,15%) e 1.023.000 per quello italiano (3,69%). Il resto va suddiviso tra diverse altre cinematografie, tra cui in particolare quella egiziana. A partire dalla proclamazione dell’indipendenza, l’Algeria iniziò a dotarsi di strutture produttive in grado di supportare la nascente attività cinematografica nazionale. Gli obbiettivi primari erano la rievocazione del recente passato rivoluzionario e la promozione di campagne atte a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle questioni d’interesse generale. L’unico studio esistente, quello della televisione, fu nazionalizzato nel 1962 all’atto della creazione della RTA". Non esistevano laboratori per il trattamento della pellicola in 35 nun e l’archivio in cui erano conservati i materiali realizzati durante la guerra di liberazione si trovava in Jugoslavia. I film realizzati e gli stessi cinegiornali dovevano essere sviluppati e montati a Parigi presso 65

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laboratori privati. Il governo algerino, col decreto 64-241 del 19 agosto 1964, provvide a nazionalizzare l’intero circuito cinematografico in 35 mm e ad affidarne la gestione all’appena costituito Centre National du Cinéma. Nel 1967 le autorità del paese decisero di affidare la gestione delle sale alle Assemblées Populaires Communales (decreto 67-49). L’incasso lordo ricavato dalla vendita dei biglietti, detratte le imposte, veniva distribuito tra i vari organismi che costituivano l’apparato cinematografico pubblico e solo parzialmente investito nella produ­ zione di lungometraggi nazionali1?. È opinione diffusa, tuttavia, che il cinema algerino, benché le nazionalizzazioni rispondessero al biso­ gno di centralizzare i servizi cinematografici, trovò un ostacolo al proprio sviluppo, nei primi anni successivi all’indipendenza, proprio nella persistenza di un’imprecisa suddivisione di competenze tra i vari organismi preposti alla sua gestione All’indomani della liberazione la struttura produttiva algerina era costituita dalle seguenti unità operative: - Il Centre Audio-Visuel di Ben Aknoun, diretto da René Vautier e Ahmad Rashidi, che aveva preso in carico l’animazione dei cosiddetti -ciné-pops< mediante l’organizzazione delle proiezioni nelle zone rurali. Esso cessò l’attività nel 1964 per motivi burocra­ tici e disfunzioni interne. L’istituto, peraltro dotato di mezzi assai limitati, aveva tuttavia potuto dirigere tra il 1962 ed il 1964 alcuni film (Référendum, Dimanchespour l'Algérie, Tébessa année zèro, Comité de gestion, Plus d’hommes agenouillés, Le premier T* Mai, Campagne de l’Arbre, Des mains comme des oiseaux, Cuba si, Les Ouadhias, Problèmes de la jeunesse), uno dei quali, Peuple en marche (1963), fu tenuto sotto sequestro dalle autorità poiché alludeva ai ruolo di Ben Bella prima del cambio di regime avvenuto nel giugno 1965. - La Casbah Film, società privata di produzione, fondata nel 1963 da Yacef Saadi, dirigente del movimento di liberazione e protago­ nista dell’insurrezione di Algeri. Essa realizzò, tra gli altri film, La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo. - L’Office des Actualités Aigériennes (OAA), istituito col decreto 63-151’8 gennaio 1963, diretto da Muhammad Lakhdar Hamina e collegato al Ministero dell’informazione; esso produsse numerosi cortometraggi su diversi aspetti della vita sociale del paese e promosse campagne di educazione popolare con film quali Alphabétisation, Campagne d’assainissement e L ’hygiene, tutti del 1963. - Il Servizio Cinematografico dell’FLN, una sorta di supervisore politico dei diversi organismi che operavano nel settore. Ad esso 66

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venne affidato anche il compito di realizzare film di propaganda ideologica. Per superare l'impasse provocata dall'eccessiva parcellizzazione delle competenze cinematografiche, coordinare il programma di sviluppo del settore e pianificare l’intervento economico dello Stato a favore del cinema vennero costituiti, nel 1964, il Centre National du Cinéma (CNC) e l’Institut National du Cinéma (decreto 64-164 dell’8 giugno 1964); a quest’ultimo furono tra l’altro assegnate finalità didattiche, perseguite principalmente mediante l’organizzazione di corsi propedeutici alle varie discipline cinematografiche, corsi della durata di diciotto mesi. Nello stesso anno venne fondata, con l’aiuto di Henri Langlois, la Cinémathèque Algérienne, che iniziò ad organiz­ zare rassegne organiche sul cinema internazionale e a presentare settimanalmente film algerini. Posto sotto la giurisdizione del Ministère de l’Information et de la Culture, il CNC controllava più di tre quarti della produzione e della distribuzione cinematografiche, aveva com­ piti formativi e sovrintendeva al decentramento territoriale dell’attività cinematografica attraverso il Centre Diffusion Populaire; il quale nel biennio 1963-1965, ad esempio, operando mediante 17 unità mobili e un parco film di 3.000 titoli messi a disposizione delle varie istituzioni pubbliche (scuole, associazioni, ecc.), organizzò proiezioni in 225 località coinvolgendo 2.400.000 spettatori H. L’istituzione del CNC, tuttavia, non risolse i problemi tecnici e i conflitti politici ereditati dalla precedente organizzazione del settore. Lo Stato intervenne nuova­ mente e nel 1967, al posto degli organismi creati tre anni prima, istituì l’ONCIC (Office National du Commerce et de l’Industrie du Cinéma) e il CAC (Centre Algérien Cinématographique), il primo per dirigere i settori della produzione e distribuzione cinematografiche ed il secon­ do per regolamentare la censura, la programmazione nelle sale, l’attività dei cineclub e le proiezioni mediante i ciné-bus. Nel 1969 venne decretato il regime di monopolio sulle importazioni cinemato­ grafiche, l’espletamento delle quali fu affidato all’ONCIC. Nel 1974 l’Office des Actualités Algériennes, diretto per undici anni da Lakhdar Hamina, venne fatto confluire nello stesso organismo generale. Nel 1972 erano in funzione in Algeria 300 sale in 35 mm,5, circa 280 delle quali gestite dalle Assemblee Comunali e una ventina affidate ai privati; esse non erano tuttavia distribuite uniformemente nel territo­ rio nazionale, poiché su 691 comuni in cui erano suddivisi i 15 distretti nazionali 1’83,07% non possedeva alcuna sala16. La creazione del monopolio statale sulle importazioni fu un atto politico ed economico molto importante sia per l’Algeria che per gli altri paesi africani. Il provvedimento venne varato per arginare la penetrazione intema del 67

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cinema straniero, per liquidare l’attività distributiva esercitata sul territorio dello Stato dalle compagnie intemazionali e per assicurare spazi di programmazione più consistenti alla produzione nazionale. Fino al 1969, il CNC prima e l’ONCIC dopo avevano infatti potuto controllare solo una quota minoritaria del mercato distributivo interno (il 30% nel 1965, costituito soprattutto da film di qualità: Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, The Loneliness of the Long Distance Runner di Tony Richardson, The Tokyo Olympiad, ecc.) e non erano riusciti ad influire sulla composizione dell’offerta di film nelle sale. L’introduzione del monopolio distributivo coincise con una nuova fase della vita politica algerina ed estese a questo settore dell’econo­ mia e della cultura nazionali il radicalismo nazionalista espresso dal nuovo corso del regime. Come sostiene Farid Bughadir analizzando il cinema africano degli anni Settanta, la tappa successiva della cinematografia del continente fu significati­ vamente marcata dall’Algeria, il primo paese ad aver dimostrato la possibilità di spezzare il dominio delle case occidentali di distribuzio­ ne sul mercato africano. Dopo aver fatto ampia provvista di film prima di decretare il regime di monopolio sulle importazioni, l’Algeria potè resistere per cinque anni al boicottaggio della potentissima MPEAA (Motion Pictures Export Association of America), la quale finì per raggiungere un accordo col governo locale17 e riconoscere a questo paese indipendente il diritto sia di scegliere i film da importare sia di liberare una parte dei propri schermi a favore della produzione nazionale; la quale in tal modo non tardò a svilupparsi e a divenire una delle più cospicue del continente18.

In seguito alla completa nazionalizzazione del settore distributivo, il patrimonio fìlmico dell’ONCIC passò, nel periodo 1967-1973, dalle 400 alle 2.362 copie (corrispondenti a 1.794 titoli), 1.288 delle quali ottenute requisendo nel 1969 i magazzini delle agenzie straniere che avevano operato in Algeria sino a quella data Il provvedimento protezionistico attuato dal governo ebbe positive ripercussioni so­ prattutto sulla partecipazione del pubblico agli spettacoli cinemato­ grafici. Avendo potuto immettere nel circuito delle sale un più consistente pacchetto di film, l’ONCIC riuscì ad incrementare gradual­ mente - con l’eccezione del biennio 1969-1971 in cui furono maggior­ mente avvertite le conseguenze dell’embargo attuato dalla MPEAA - il numero degli spettatori, i quali passarono dai 26.953.154 del 1965 ai 44.899.247 del 197320. La complessa manovra legislativa determinata dal dibattito politico 68

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che si sviluppò, negli anni immediatamente successivi all’indipenden­ za, attorno alle funzioni che il cinema avrebbe dovuto svolgere, non ebbe solo l’intento di assegnare alia cinematografìa algerina gli strumenti per un corretto funzionamento, ma si prefìsse di codificarne il ruolo in sintonia con le opzioni rivoluzionarie. Essa tuttavia non penetrò uniformemente nel settore ed i suoi effetti furono più evidenti in ambito produttivo che in ambito distributivo. Il cinema algerino accentuò in tal modo lo scarto - peraltro esistente dai primi passi della cinematografìa nazionale - tra l’originalità delle proprie realizzazioni e la ricettività che il mercato intemo era in grado di assicurare loro. È impossibile sintetizzare in questa sede l’ampiezza della discussione che scaturì dalla presa d’atto di questa contraddizione. Essa si inserì nel confronto ideologico che scosse la società algerina sul finire degli anni Sessanta. Le preoccupazioni espresse da quanti - criticando l’angustia della prospettiva culturale del regime e in particolare l’assetto verticistico e burocratico dell’apparato cinematografico sta­ tale uscito dalle riforme - temevano che il cinema fosse abbandonato ai compromessi commerciali e alla retorica celebrativa, coincisero con le posizioni teoriche e pratiche che la nuova generazione dei cineasti andava assumendo. Lo scontro ideologico fece emergere i contrasti tra società intellettuale, classe politica e burocrazia statale ed eviden­ ziò i motivi per cui la giovane cinematografìa algerina non aveva potuto dispiegane compiutamente le proprie potenzialità commerciali. Da un paragone con il quinquennio 1968-1973, appare immedi­ atamente quanto poco incisiva sia stata l’azione del governo a sostegno della produzione nazionale. Nel secondo trimestre del 1968, il 48,19% dei film programmati nell'ambito dell’intero parco sale del paese era di nazionalità statunitense e britannica 21, il 20,44% italiana, il 18,64% francese, il 4,96% egiziana e indiana. Il residuo 7,3% era da attribuire alle produzioni provenienti da tutti gli altri paesi (3,12%), alle coproduzioni (2,35%) ed ai film importati dai paesi europei del blocco socialista (1,83%). Nel secondo semestre del 1970, un anno dopo l’attuazione delle misure protezionistiche da parte algerina e l’applicazione dell’embargo voluto dall’MPEAA, il profilo dell’offerta cinematografica del paese era notevolmente cambiato. Alla Francia spettava il primato con il 25,48% delle programmazioni; seguivano l’Italia (24,27%), gli Stati Uniti e la Gran Bretagna (22,84%), i paesi dell’Est europeo (8,77%), l’india (7,65%), l’Egitto (5,52%), i diversi e le coproduzioni (7,43%). Nel 1973, a fronte di 174 film distribuiti, vennero importati 170 titoli, di cui 22 americani e britannici (12,64%), 58 italiani (33,33%), 32 francesi (18,39%), 17 dei paesi dell’Est (9,77%), 8 indiani (4,59%), 21 egiziani e mediorientali (12,06%), 12 di altri

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paesi22.1 quattro film realizzati in Algeria (Afaadi Abdu al-AzizTulbi, prodotto dalla RTA, Zona proibita di Ahmid Lallam, La guerre de liberation del Service Audio-Visuel del Ministère de ('Information et de la Culture e Les vacances de llnspecteur Tahar di Musa Hadad) costituirono meno del 2% del prodotto distribuito nelle sale del paese. Poiché la situazione rilevata nel 1972 non differiva da quella registrata negli anni precedenti, è evidente come la produzione nazionale sia sempre giunta al pubblico algerino in modo del tutto insufficiente. Tuttavia, alle soglie degli anni Settanta il fenomeno assunse un maggiore rilievo. Il sistema cinematografico statale non seppe e non volle cogliere le sollecitazioni che venivano da un ambiente produtti­ vo in rapida evoluzione. La produzione

Il primo lungometraggio algerino di fiction - Une si jeune paix di Jacques Charby - fu prodotto nel 1964 dal Centre National du Cinéma ed aprì la fase del cosiddetto -cinema di guerra-. Tutti i film realizzati fino al 1970, con la parziale eccezione di Hassan Terrò, trattarono infatti l’argomento della lotta di liberazione: La notte ha paura del sole (Al-laylu yakhàf al-shams, 1965) di Mustafa Badi, L’aube des damnés (1965) di Ahmad Rashidi, Il vento degli XunèsCAsifa al-Uras, 1965/66) di Muhammad Lakhdar Hamina, La voie(1968) di Muhammad Slimàn Riad, Hassan Terrò(1967768) di Muhammad Lakhdar Hamina, L’enfer à dix ans (1968, a episodi) di Abdu al-Rahmàn Bugarmuh, Ammàr Laskri, Ghauti Bindadush, Yùsuf Aqiqa e Sid Ali Mazif, Les bors-la-loi (1968/69) di Tawfik Faris, Histoires de la Revolution (1969, a episodi) di Rabah Laraji, Ahmad Bijawi e Sid Ali Mazif, Thala - L’Opium et le baton (1969) di Ahmad Rashidi. Fra questi, il più importante fu certamente II vento degli Aurès, il film con cui Lakhdar Hamina vinse il premio per la miglior opera prima al Festival di Cannes del 1966 e rivelò al pubblico intemazionale la maturità del giovane cinema algerino. Interpretato con profonda partecipazione da una delle più note attrici del paese, Kalthum, Il vento degli Aurès narrava l’odissea di una donna alla ricerca del figlio detenuto in un campo di concentramento francese. Il realismo con cui il regista affrontò l’argomento non impedì al film di combinare la vicenda personale e il dramma collettivo con lirismo e commozione e di proporre al pubblico personaggi di vibrante spessore umano. Concludendo la carrellata sulla prima fase della cinematografìa algerina, è opportuno citare anche Thala -L'Opium et le bàton, il film con cui Rashidi tentò di allargare la rappresentazione della guerra di 70

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liberazione introducendo elementi del vissuto quotidiano ed affron­ tando, nel contrasto fra due personaggi, il conflitto ideologico e morale che opponeva rassegnazione e spirito di lotta, supina accetta­ zione dello statu quo e aspirazione rivoluzionaria. Oltre al debutto dei cineasti nazionali, l’apparato produttivo algerino permise la realizzazione di diverse coproduzioni, alcune delle quali - La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, Lo straniero di Luchino Visconti, Zdi Costa-Gavras - divennero prove essenziali della cinematografìa intemazionale d’autore in quegli anni. Il film di Pontecorvo registrò un notevole successo di pubblico ed assieme ad Hassan Terrò di Lakhdar Hamina fu la sola pellicola a recuperare attraverso gli incassi i costi di produzione. La cinematografìa naziona­ le, come si è detto nelle pagine precedenti, veniva infatti pressoché totalmente ignorata dal pubblico. Il dibattito politico-culturale dei primi anni Settanta portò alla ribalta un nuovo soggetto: la seconda generazione dei cineasti algerini. Cresciuti nel clima postrivoluzionario, formati all’IDHEC e negli altri istituti specializzati d’Europa, essi ereditarono una cinema­ tografìa compromessa dalla retorica, appesantita da una burocrazia conformista e minata dalla disaffezione del pubblico. Questa genera­ zione si introdusse nel processo evolutivo della società nazionale portando una nuova e più dialettica concezione dell’utilità «politica* del cinema e rifiutando le rigide tutele ideologiche di un apparato incapace di adeguarsi alla fase storica che il nuovo decennio aveva aperto. 3. GLI ANNI SETTANTA: DAL GENERALE AL PARTICOLARE

La seconda ondata produttiva algerina coincise col varo, avvenuto nel 1971, della Riforma Agraria. Meno legato agli aspetti puramente rievocativi della guerra di liberazione e più attento all’analisi storica dello stesso processo rivoluzionario, il «cinema della terra- - il filone più rappresentativo della nuova produzione nazionale - annoverò titoli quali La corda (Al-tarfa, 1972) di Sharif Hàshimi, Nua (1972) di Abdu al-Aziz Tulbi, L’embouchure {1972} di Muhammad Shwaikh, I profanatori (Al-mufsidun, 1972) di Lamin Muhammad Mirbah e Accanto al safsaf{Mxn qurb al-safsaf, 1972) di Musa Hadad. Prodotti dall’RTA, questi film esaminarono concretamente le contraddizioni presenti nella società algerina anteriormente all’indipendenza e con­ sentirono alla cinematografìa del paese di acquisire uno spessore problematico del tutto inedito. Mettendo essenzialmente l’accento sulla collusione d’interessi che vi era stata tra la proprietà fondiaria

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nazionale e i coloni stranieri all’epoca della guerra di liberazione e sulle rivendicazioni politiche dei contadini privati delle terre, questo gruppo di film rivelò un’interessante e dinamica concezione della storia e contestò la rappresentazione monolitica del nazionalismo effettuata sino ad allora. La sua immagine astratta trovò un terreno concreto su cui applicarsi e l'affermazione secondo cui la lotta per l’indipendenza politica si era affermata attraverso la lotta per la terra mostrò di essere una chiave di lettura dei passato perfettamente iscritta nella realtà algerina del 1972, caratterizzata dalla promulgazione delle disposizio­ ni relative alla «rivoluzione agraria» e dai conflitti ad essa collegati. In sintonia coi tempi, il «cinema della terra* permise un’analisi più efficace del passato. Al cambiamento dei criteri dell’analisi storica vennero affiancate rilevanti modifiche formali: le strutture narrative furono maggiormente elaborate, venne introdotto l’utilizzo di attori non professionisti e si giunse ad un controllo maggiore della lingua, anche se ciò non introdusse automaticamente il dominio del linguag­ gio cinematografico sulla parola 23. Nel biennio 1971-1972 vennero realizzati due film importanti per il nuovo corso della cinematografia algerina: Viva Didù (Tahya ya DìduI, 1971, di Muhammad Zinat e II carbonaio (Al-fahàm, 1972) di Muhammad Buammari. Pur inserendosi rispettivamente nella proble­ matica della liberazione e nella corrente de) «cinema della terra», essi costituirono un elemento di novità perché espressero particolare consapevolezza nel ricondurre gli ambienti e le situazioni analizzate all’interno di coordinate sociologiche immediatamente riferibili alla situazione del paese. Il carbonaio si fece anche apprezzare per il suo equilibrato e terso realismo e la generosità con cui affrontò il problema della condizione della donna nell’arretrata società rurale algerina. I film realizzati successivamente, giovandosi della lezione introdotta dai «film della terra» e spingendosi ancora più avanti nell’esplorazione di soggetti inediti, articolarono un ampio ventaglio problematico e dettero vita alla stagione più ricca della cinematografia algerina. Il quadro produttivo nazionale degli anni Settanta segnò pertanto il progressivo superamento dei generi sorti per celebrare la lotta di liberazione e I’affermazione del nuovo Stato, e favorì l’assimi­ lazione, da parte dei giovani autori, di un linguaggio assai più articolato e moderno. L’eroe positivo e granitico del cinema d’argo­ mento resistenziale lasciò il posto ad un’umanità più reale. Gli schermi algerini si popolarono di personaggi rappresentativi della vita

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quotidiana ed in alcuni casi addirittura si fecero portatori di -vizi» nazionali. Nel periodo 1972-1978 vennero editati 38 lungometraggi: 26 furono realizzati dalle strutture produttive del settore cinematografico (ONCIC in primo luogo, FLN e OAA) e 12 dalla RTA. Tra i titoli di maggior rilievo è opportuno segnalare, oltre a Cronaca degli anni di brace (Waqà’a sanawàt al-jamr/Chronique des années de braise, 1975) - con cui Muhammad Lakhdar Hamina vinse nel 1975 la Palma d’oro al Festival di Cannes -, Vento del Sud (Rih al-janub, 1975) di Muhammad Sliman Riad (sui conflitti fra tradizione e modernità nell'Algeria postrivoluzionaria) e Umar Gallato (1976) di Mirzaq Alwash. Quest’ultimo - uno dei più grandi successi del cinema algerino - ricoprì un ruolo molto importante nell’evoluzione di questa cinematografia sciogliendola ulteriormente dai vincoli contenutistici e formali della retorica celebrativa e assegnando lo status di protagoni­ sta ad un autentico «antieroe*. Nonostante il fatto che fino al 1978 il cinema algerino godesse di una certa stabilità produttiva, esso non riuscì a superare la diffidenza del pubblico, che continuò a riservargli una quota non superiore al 2% del proprio gradimento. Le opere degli autori algerini non furono mai in grado di recuperare attraverso il mercato nazionale le spese di produzione e rimasero ostaggio di una distribuzione sostanzialmente indifferente alla loro qualità. Dal 1979 al 1982 gli organismi di Stato preposti alla produzione cinematografica sospesero ogni attività. GLI ANNI OTTANTA

Nel 1982 la direzione dell’ONCIC venne affidata a Muhammad Lakhdar Hamina, che varò immediatamente un ambizioso program­ ma produttivo e permise la realizzazione di alcuni importanti lungometraggi: L'impero dei sogni (Mamlakat al-ahlàm) di Jean-Pierre Lledo, Un toit, une famille di Ràbah Laraji, Vento di sabbia (Rih al-rimài) dello stesso Lakhdar Hamina, L’uomo che guardava le finestre (Rajul wa nawàfìdh) di Mirzaq Alwash e Storia di un incontro (Hikàya liqà) di Brahim Tsaki. Quest’ultimo film «occupa nel cinema arabo la stessa posizione de L’uomo di cenere (Tunisia, 1986) di Nuri Buzid e de 7 sogni della città (Siria, 1984) di Muhammad Malas. Interamente affidato a significati riposti, rappresenta la più lucida e spietata analisi della società algerina apparsa sugli schermi. Lontano da ogni discorso politico e da ogni posizione di parte, è un film profondamente sovversivo ed una singolare riflessione sul potere»24. Dopo il 1983 lo Stato trasformò l’ONCIC in due distinte società: 73

IL CINEMA DEI PAESI ARABI

l'ENADEC, incaricata della distribuzione, e l’ENAPROC, che aveva competenza sulla produzione. Nel triennio 1984-87 l’ENAPROC per­ mise la realizzazione di Les portes du silence di Ammar Laskri, De l’aube au crépuscule di Muhammad Shwaikh, Nous irons sur la montagne di Manjushi Mustafa, Cri des pierres di Abdu al-Rahmàn Bugarmuh, La demière image di Muhammad Lakhdar Hamina (coprodotto con la Francia), Le réscapé di Ukasha Twita e Un amour à Paris di Mirzaq Alwash. A partire dai primi anni Ottanta la televisione algerina, attraverso l’intelligente politica del critico e animatore culturale Ahmad Bijawi, direttore del settore cinematografico dell’emittente, dette un notevole impulso alla produzione di lungometraggi, favorendo in particolare l’esordio di giovani autori. Il polo produttivo costituitosi in seno alla RTA, più libero da condizionamenti politici, rappresentò un serio concorrente per l’ENAPROC, che andò gradualmente esaurendo il proprio ruolo. Nel 1988 questa società venne infatti sostituita dal CAAIC (Centre algérien pour l’art et l’industrie cinématographique), che assorbì anche le competenze dell’ENADEC e svolse le funzioni che erano state proprie dell’ONCIC fino al 1982. Il CAAIC, tuttavia, dopo aver favorito la preparazione di diversi lungometraggi, non fu in grado di realizzare che pochi lungometraggi e a partire dal 1989 cessò praticamente l’attività produttiva. Ben più incisiva è stata, dal 1987 in avanti, l’attività produttiva della televisione algerina, la quale ha creato al proprio interno l’ENPA (Entreprise Nationale de Production Audiovisuelle), un settore auto­ nomo specificamente dedicato alla realizzazione di lungometraggi ed a cui si deve la quasi totalità dei film prodotti in Algeria negli ultimi anni. Tra questi è opportuno ricordare: Le cri des hommes (1989) di Ukasha Twita, La maison du triedbomme(199G) di Mustafa Badi, Sous la cendreiWD di Baba Aish Abdu al-Karim, Leclandestin (1991) di Bakhti Bin Ammar e Le troisième acte (1992) di Rashid Binbrahim. Nel corso degli anni Ottanta il cinema algerino non ha incrementa­ to il proprio successo presso il pubblico delle sale ed ha continuato ad occupare una posizione assolutamente minoritaria del mercato inter­ no. Principalmente per questo motivo, oltre che per ragioni di carattere culturale e politico, la cinematografia nazionale non è mai riuscita a superare le difficoltà produttive ed è stata costretta ad osservare, come ricordava nel 1983 lo stesso direttore dell’ONCIC25, lunghi periodi di silenzio. La tendenza alla privatizzazione delle sale, iniziata alla metà del decennio precedente, ha subito nel corso degli anni Ottanta una forte accelerazione ed ha contribuito ad aggravare la situazione produttiva nazionale. Il circuito cinematografico algerino, 74

ALGERIA

che nel 1972 contava 300 saie di cui 280 appartenenti alle Assemblee Comunali, era costituito nel febbraio 1987 da 230 locali, 120 dei quali chiusi perché inagibili. L’80% delle entrate veniva controllato dai privati, ai quali l’ONCIC aveva ceduto, prima della scomparsa, la maggioranza delle sale in attività. Alla fine degli anni Ottanta la struttura cinematografica algerina presentava un’acuta contraddizione tra la componente pubblica, detentrice del monopolio della distribu­ zione, e la componente privata, alla quale era affidata la gestione della quasi totalità delle sale. Questo dato ha favorito ulteriormente la circolazione del prodotto straniero, al quale il pubblico accordava il proprio favore, ed ha causato situazioni paradossali quali ad esempio la scomparsa dagli schermi dei film algerini dopo appena un giorno di programmazione. La cinematografia algerina, costretta a vivere in una situazione di profonda incertezza, ha cercato nelle coproduzioni e nei trasferimento all’estero dei suoi più validi rappresentanti un mezzo per sopravvivere. Non è un caso, infatti, che due tra i più significativi film algerini degli ultimi anni, C7fowzn