Il cervello aumentato, l’uomo diminuito 9788859010739

Da Platone in poi, la tradizione occidentale ha da sempre visto nel cervello la sede del pensiero, un organo con un ruol

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Il cervello aumentato, l’uomo diminuito
 9788859010739

Table of contents :
Indice......Page 200
Frontespizio......Page 3
L’autore......Page 4
Prefazione......Page 9
Introduzione......Page 12
1. Il cervello aumentato, un uomo alterato?......Page 17
2. Quando il cervello costruisce un mondo......Page 44
3. La temporalità del cervello: la macchina del tempo......Page 53
4. La scultura del cervello......Page 57
5. Il cervello sradicato......Page 66
6. Informazione, comprensione e significato......Page 73
7. La delega di funzioni nella coevoluzione......Page 78
8. Possibili e compossibili......Page 85
9. I tre modi di essere......Page 95
10. Il cervello senza organi, gli organi senza cervello......Page 109
11. Il cervello non pensa, pensa tutto il corpo......Page 127
12. La memoria e l’identità......Page 143
13. Morale e cervello......Page 152
14. Il cervello modulare (sordi e competenze)......Page 168
15. Gli affetti e i moduli, il cervello degli affetti......Page 177
A mo’ di inconclusione......Page 188
Bibliografia......Page 194

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La traduzione dell’opera è stata realizzata grazie al contributo del SEPS SEGRETARIATO EUROPEO PER LE PUBBLICAZIONI SCIENTIFICHE Via Val d’Aposa 7, 40123 Bologna – [email protected] – www.seps.it Traduzione Riccardo Mazzeo Progettazione/Editing Riccardo Mazzeo Rottermaier – Servizi Letterari Impaginazione Alessandro Stech Illustrazione di copertina Fotografia di Lina Etchesuri Copertina Giordano Pacenza © 2015 Paidós, Buenos Aires El cerebro aumentado, el hombre disminuido © 2016 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. Via del Pioppeto 24 38121 TRENTO Tel. 0461 950690 Fax 0461 950698 www.erickson.it [email protected] ISBN: 978-88-590-1073-9 Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo effettuata, se non previa autorizzazione dell’Editore.

Miguel Benasayag

Il cervello aumentato, l’uomo diminuito Prefazione e traduzione di Riccardo Mazzeo

L’AUTORE

Miguel Benasayag Filosofo e psicoanalista di origine argentina che vive ed esercita la professione di psicoterapeuta a Parigi, partecipò attivamente alla guerrilla guevarista nel suo Paese dove restò in carcere per anni. È divenuto famosissimo, dapprima in Francia e anche in Italia, grazie al suo libro L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli, 2005). Per le Edizioni Erickson ha pubblicato, con Riccardo Mazzeo, C’è una vita prima della morte? (2015).

INDICE

L’autore Prefazione (Riccardo Mazzeo) Introduzione Capitolo primo Il cervello aumentato, un uomo alterato?

Capitolo secondo Quando il cervello costruisce un mondo

Capitolo terzo La temporalità del cervello: la macchina del tempo

Capitolo quarto La scultura del cervello

Capitolo quinto Il cervello sradicato

Capitolo sesto Informazione, comprensione e significato

Capitolo settimo La delega di funzioni nella coevoluzione

Capitolo ottavo Possibili e compossibili

Capitolo nono I tre modi di essere

Capitolo decimo Il cervello senza organi, gli organi senza cervello

Capitolo undicesimo Il cervello non pensa, pensa tutto il corpo

Capitolo dodicesimo La memoria e l’identità

Capitolo tredicesimo Morale e cervello

Capitolo quattordicesimo Il cervello modulare (sordi e competenze)

Capitolo quindicesimo Gli affetti e i moduli, il cervello degli affetti A mo’ di inconclusione

Bibliografia

Per la mia Amandita, il mio piccolo sole. Come in attesa di tornare a giocare, questo libro è stato scritto durante i suoi pisolini.

RINGRAZIAMENTI

Sono grato per la collaborazione fondamentale di Mariana Morales e di Constanza Penacini, così come per la fiducia e l’amicizia manifestatemi da Emilce Paz.

PREFAZIONE Il cervello è più esteso del cielo Perché, mettili fianco a fianco, L’uno l’altro conterrà Con facilità, e te, in aggiunta. Il cervello è più profondo del mare, Perché, tienili azzurro contro azzurro, L’uno l’altro assorbirà, Come le spugne, i secchi, assorbono. Il cervello ha giusto il peso di Dio Perché, soppesali, libbra per libbra, Ed essi differiranno, se differiranno, Come la sillaba dal suono. (Emily Dickinson)

Il cervello poetico di Emily Dickinson s’incastona nel nostro immaginario come un tempo l’anima o lo spirito s’inguainava nei nostri moti del cuore. Perdurava, in ciascuno di noi, una radicata consapevolezza dell’esistenza dell’insondabile, la confortante certezza di essere trascesi nella nostra dimensione umana da qualcosa di più grande di noi, di inconoscibile, che opacizzandoci ci apparentava al brulicare del nostro gruppo, della nostra specie, all’inarrestabilità del mondo. Quello era il tempo in cui si accettava la propria finitezza, il proprio «non essere tutto», e le grandi imprese così come le utopie erano concepibili soltanto insieme ad altri individui, con un occhio attento a tutto ciò che era vivente, poiché si coglieva l’essenzialità dell’esistente e l’imprescindibilità di armonizzarsi e di consonare con la natura, pur perseguendo i nostri obiettivi personali. Non c’è più traccia di quel tempo oggigiorno. Forse la nostra capacità di accettare i limiti umani si è andata a nascondere in una piega della Storia e riaffiorerà in un momento più propizio, forse bisogna solo aspettare che il pendolo temerariamente sospinto in una corsa folle verso l’attuale estremo di egocentrismo assetato di trasparenza e di immortalità, giunto al suo approdo, rioscillerà tornando a una dimensione che abbandoni il farnetico del trans e del post (transumanismo, postumanismo...) per rientrare nell’alveo dell’umano.

Oggi le neuroscienze tendono a ritenere che il cervello possa essere aumentato a dismisura, che tutto sia possibile, che si sia gloriosamente in marcia verso un’estensione delle capacità cerebrali in grado di operare anche indipendentemente dal corpo, attraverso una esternalizzazione che ne prolunghi indefinitamente la potenza e la durata. E tutto questo è non solo dissennato ma anche impossibile, come dimostra questo libro. Miguel Benasayag, che oltreché filosofo è biologo e porta avanti una cospicua ricerca internazionale con, fra gli altri, Giuseppe Longo dell’École Normale Supérieure di Parigi, spiega le asimmetrie che ci compongono come esseri umani e come esse siano la condizione stessa della vita. Il cervello è solo una parte del nostro corpo e scinderlo da esso, trattarlo come un organo indipendente, è semplicemente folle. La modularizzazione, l’arrotondamento digitale, le competenze da coltivare in se stesse per diventare sempre più «performanti», sono i criteri su cui si fonda l’illusione manageriale odierna secondo cui la sagace flessibilità dei direttori d’impresa può gestire qualunque situazione, vendere qualunque prodotto. Vale la pena citare un’amaca di Michele Serra scritta dopo l’abbandono di Umberto Eco e altri scrittori importanti del nuovo Leviatano editoriale nato dalla fusione di Mondadori e Rizzoli: «Uno non può fare tutto, come si crede — sbagliando — nell’evo dei manager. Commerciare telenovelas e poi cultura non è la stessa cosa. Si consoli Marina pensando che il suo autorevole papà, parecchi anni fa, chiese stizzito “ma chi è questo Tabucchi?”, che non gli aveva manifestato la dovuta simpatia. Gli risposero che Tabucchi era uno scrittore della sua casa editrice, primo in classifica da un paio di mesi. Già allora si doveva capire che i libri, per i Berlusconi, non sono pane quotidiano». L’illusione di poter trattare la letteratura come una fornitura di petrolio o una fabbrica di scatole di latta è molto più diffusa di quanto si potrebbe immaginare: nelle aziende le parole chiave sono ottimizzazione, riduzione dei costi, semplificazione, flessibilità, ma in questo modo i dipendenti, al pari dei loro capi, non agiscono ma sono agiti come delle macchine. Trasferire il cervello su una memoria esterna, scinderlo o pensarlo come una cosa a sé, indipendente dal corpo che lo ospita, un corpo scolpito dalla vita insieme al cervello, alle mani che hanno accarezzato

la persona amata, ai piedi che ci hanno sorretti e portati dove ci troviamo, equivale a frantumare l’equilibrio che ci appartiene, con tutte le sue faglie e le sue dissonanze, nel nostro essere Persone, un equilibrio fatto della nostra storia, delle gioie e delle sofferenze che ci hanno fatti diventare quello che siamo e che non potremmo mai essere se ci svuotassimo della nostra complessità e assumessimo i tratti inquietanti di una Macchina di Turing lineare, priva di spigoli e sfasature, perfettamente matematizzata, perfettamente disumana. Riccardo Mazzeo

INTRODUZIONE Il cervello umano è pensato — o forse dovremmo dire piuttosto «si pensa» — come il punto culminante dell’evoluzione delle specie. Questo, va da sé, da un punto di vista materialistico — o anche scientifico -, dato che da altri punti di vista il cervello è il nido, il ricettacolo dell’anima. È come se, in un mondo caratterizzato dall’amore per la novità (il nuovo è buono perché è nuovo), questa novità particolare non fosse «una novità in più», bensì quella che modifica l’insieme delle nostre conoscenze e credenze: siamo riusciti a conoscere i segreti del funzionamento del cervello. Il cervello umano conosce, studia, si spiega delle cose e comprende, ma è arrivato il momento in cui il suo oggetto di studio è esso stesso. Il fatto che il cervello conosca se stesso implica il venir meno di molte credenze e presupposti della cultura occidentale, senza dimenticare che queste potenti e recenti conoscenze sono accompagnate dalla possibilità — e dal desiderio — di modificare e aumentare il cervello nelle sue capacità, riducendo al contempo le sue debolezze e i suoi «difetti». Siamo così entusiasti delle conoscenze oggi accessibili sulla chimica e sulla fisiologia del cervello che ci dimentichiamo, semplicemente, di accorgerci che in realtà la possibilità di conoscere il cervello ha un corollario fondamentale: una vera e propria rivoluzione antropologica nelle nostre culture. In quest’opera cerco di mostrare, al lettore interessato ai cambiamenti radicali del nostro mondo in piena mutazione, non già l’una o l’altra delle conoscenze che le scansioni mediche e la biochimica cerebrale ci permettono oggi di vedere. Il mio intento è piuttosto quello di analizzare, nei termini di una contestualizzazione, ciò che tali conoscenze e possibilità di modificazione implicano come rottura storica fondamentale. Una cosa è sapere quale neurone si attivi per pensare il numero 5 o come, grazie alle nuove neuroprotesi, sia possibile che i sordi sentano e i paralitici camminino; o anche come si speri in un futuro prossimo

di modificare il contenuto della memoria di un essere umano; o come il richiamo «chimico dell’amore» ci permetta di comprendere i meccanismi in gioco nel sentimento e nell’affetto degli umani. Ma è ben altra cosa comprendere che cosa avvenga nel mondo e nella cultura che possono manipolare e modificare questa dimensione dell’uomo. Il cervello, come si dice nella tradizione occidentale, è il nido, il ricettacolo dello spirito ma, forse proprio per questo, come organo ha sempre occupato un posto particolare nella comprensione dei fenomeni umani. Detto altrimenti, a partire da Cartesio il cervello è ciò che si trova in questa interfaccia che articola il divino con la materia, lo spirito e il corpo. Non è dunque un dettaglio poter oggi studiare il cervello e modificarlo come se fosse un organo qualunque, sottostante alle stesse leggi come il resto del corpo. La tradizione filosofica che fonda l’Occidente si basa, fin da Platone, sull’ipotesi secondo cui il corpo e gli organi, sottomessi alle leggi della natura e alle leggi della fisica, non rivelano la vera essenza dell’uomo. Per Platone l’uomo non è un insieme di organi. Vediamo come lo spiega in questo notissimo passaggio del Timeo: «Noi, dice Socrate, siamo una pianta del cielo e non della Terra. Dio, nel sollevare il nostro capo verso ciò che è per noi come la radice del nostro essere, verso il luogo dove è stato al principio generato, dirige così tutto il nostro corpo» (Platone, 1997). Per Platone il corpo è la parte mortale dell’essere, mentre lo spirito è quel che ci permette di accedere alla realtà vera, all’immortalità dell’anima. Questa citazione evoca quel che fu, in diversi modi, il nucleo dell’Occidente: il cervello, generatore di pensiero, affetti e tendenze, non poteva essere studiato né curato, e tanto meno modificato, come se obbedisse alle stesse leggi dell’insieme del corpo e alle leggi della fisica e della chimica. È questo il fondamento della nostra cultura, che risale ai greci classici e che sta subendo una trasformazione a causa della conoscenza del cervello e delle sue funzioni «nobili». Oggi, così, il cervello perde tale «nobiltà». Attraverso le tecnoscienze contemporanee, conoscere richiede che in una certa misura il sistema studiato venga scomposto e, come vedremo, questo riduzionismo fisicalista (naturalmente tutto deve essere compreso in linea con le leggi della fisica) ignora qualunque esistenza di un livello o

di una dimensione di organizzazione che trascenda le parti elementari che costituiscono l’organo. Tutti gli studi attuali sono governati da una tendenza bottom-up, cioè dal basso — le parti — verso l’alto — il tutto. Questo tutto non sarebbe altro che una somma delle parti secondo la tendenza oggi dominante nella ricerca. Dunque, è ovvio che una tendenza olistica non sarebbe gradita per sviluppare la conoscenza dato che, se «tutto è nel tutto» e le parti non sono separabili a fini di studio, la conoscenza è impossibile. Si tratta, allora, di come sia possibile oggigiorno articolare la tendenza bottomup con un lavoro a sua volta top-down, partendo dall’ipotesi che in biologia non c’è una dimensione privilegiata ma è necessario pensare in termini di un’integrazione organica complessa. È questa la modesta ambizione di quest’opera. La biologia molecolare e quelle che vengono chiamate «neuroscienze» si presentano come se partissero da una posizione «quasi» senza ipotesi. Si tratterebbe di studiare empiricamente quel che esiste nel modo in cui esiste. Tuttavia, in realtà, se senza un minimo di riduzionismo qualunque studio è impossibile, tale riduzionismo dovrebbe essere un «momento del lavoro» per poi poter passare in seguito a un’integrazione organica complessa. L’attuale tendenza dominante nella ricerca pretenderebbe, in tal modo, di operare senza modelli, senza «a priori», ma questa è appunto un’illusione, e si tratta di un’illusione pericolosa visto che è impossibile lavorare senza un’ipotesi di partenza, come ha scritto Merleau-Ponty (1972): «Nella ricerca, se non sappiamo che cosa stiamo cercando non possiamo trovarlo, ma anche se sappiamo troppo non possiamo trovarlo». È fra questi due poli che la ricerca deve essere effettuata; in realtà, i modelli che oggi pretenderebbero di essere neutri — poiché sono semplicemente quantitativi — eclissano o ignorano la sua ipotesi di base. Cercheremo di comprendere quale sia questo modello implicito che oggi guida la ricerca e l’azione. La questione del cervello, vale a dire della recente conoscenza del funzionamento del sistema nervoso centrale (SNC), segna una svolta per l’umanità, come vedremo; questo «autoincontro» fra il soggetto e l’oggetto in esame, che si riconosce come «lo stesso», si spinge molto in là nel progresso della conoscenza scientifica dell’umanità. Ma è

indispensabile tenere presente che lo studio del cervello non è affatto indipendente dallo sviluppo delle tecnologie che stanno modificando il mondo stesso, vale a dire, la digitalizzazione del reale. La comparazione e l’interazione, senza dimenticare la già operante ibridazione del cervello con le macchine digitali, fa sì che chiunque desideri comprendere i progressi nello studio del cervello debba al tempo stesso comprendere l’articolazione che queste nuove vie pongono con il mondo della computazione. Lo studio del cervello mette in discussione le basi medesime di quello che culturalmente si considera il soggetto umano. In effetti, se l’amore, la ricerca della libertà, le nostre tendenze e la mia memoria, ecc., sono effetti più o meno illusori di processi fisiologici cerebrali, è la stessa unità dell’essere umano, il suo «io» che sembra disperdersi, svisarsi in un movimento centrifugo. Per molti ricercatori di neuroscienze, lo stesso sentimento di «essere io» è un’illusione creata dal cervello al servizio di determinati fini ma che non possiede una realtà in sé. I problemi che credevamo «psicologici» e soggettivi, ma anche quelli morali e sociali, devono essere compresi come imperfezioni, disordini di un organo, certo complesso, ma il cui funzionamento si basa su leggi «semplici» e fisiche, dicono i nostri colleghi. Questa decostruzione, questa alterazione del soggetto nelle sue parti e funzioni cerebrali non avviene in un momento qualunque della storia della nostra piccola umanità: avviene nel momento in cui la fede nel futuro, le promesse storicistiche e teleologiche di un mondo venturo e perfetto sono venute meno una dopo l’altra. È in questo mondo del disincanto, dove la tecnologia occupa antropologicamente un posto che solo di rado ci fermiamo a pensare. Lungi da qualunque posizione di sfiducia e meno ancora tecnofoba, si tratta di comprendere come la tecnologia abbia occupato il posto lasciato vacante dalle utopie logorate fino all’esaurimento. La nuova promessa già esiste, il mondo disincantato che si è delineato dopo la caduta dei muri e delle ideologie si è già ristrutturato attorno a nuove profezie e a nuovi orizzonti. Domani per certo, oggi chissà, l’uomo nuovo comincia già a respirare: è l’uomo dal cervello aumentato. Grazie all’ibridazione fra cervello e computer, gli impianti e le neuroprotesi ci presentano un mondo incredibile: vedere al buio,

udire a distanza, scaricare competenze, recuperare i ricordi perduti, modificare tali ricordi, teledirigere macchine per il pensiero, ecc. L’elenco è molto lungo e comprende impianti cerebrali che, fra le altre «meraviglie», potrebbero — come afferma un gruppo di ricercatori francesi — curare i nostri stati depressivi e governare a piacimento la nostra coscienza e i nostri affetti con un dispositivo: un magnete che attraverso una stimolazione magnetica transcranica attiverebbe i neuroni della corteccia prefrontale. Altri impianti più sofisticati potranno, ci dicono, ben presto calibrare lo stato psicologico delle persone o ridurre il dolore. L’ibridazione umano-biologia-artefatto è già oggi una realtà; si tratta, allora, di comprendere che in tale ibridazione esistono, contrariamente a quanto si crede, varie vie possibili e che, quantunque per adesso la tecnologia abbia colonizzato la cultura e la vita, si può sviluppare una modalità di ibridazione che favorisca la colonizzazione della tecnologia da parte della vita e della cultura. Infine, nella questione riguardante il cervello e il cervello aumentato, entrano in gioco altre questioni: la libertà, l’essenza di ciò che è umano, la vita stessa. Se ogni atto non è niente di più che la conseguenza di una catena sovradeterminata di processi fisiologici, non c’è posto per concepire l’atto di un essere umano come frutto della sua singolarità. Quel che è peggio, la stessa singolarità tende a sparire. Non si tratta di piangere su illusori mondi passati in cui l’essere umano era libero; al contrario, in questo lavoro si tratta di offrire un’umile partecipazione al pensiero, alla cassetta degli attrezzi — come la chiamava Michel Foucault (1969) — che ci permetta di individuare dove si sia posizionata la singolarità in un mondo e in un paesaggio che cambiano giorno dopo giorno. L’alternativa sembra essere fra un mondo svisato in cui la vita e la cultura sarebbero segmenti della tecnologia e della macroeconomia, o la produzione di nuovi paesaggi da parte della vita e della cultura che includano e sviluppino una tecnologia addomesticata dalla e per la vita.

CAPITOLO PRIMO

IL CERVELLO AUMENTATO, UN UOMO ALTERATO? La novità è, senza dubbio, il segno distintivo della nostra epoca. Ciò che è nuovo viene quasi immediatamente associato a ciò che è buono: novità tecniche e scientifiche, nuove conoscenze, nuovi possibili di ogni tipo, nuove pratiche sociali e individuali, ecc. Fra di esse emerge una novità che per certi aspetti è centrale rispetto alle altre: le nuove scienze e tecnologie del cervello. Se fino a non molto tempo fa ogni conoscenza, ogni riflessione e pensiero sul mondo, sulla realtà e sulla vita provenivano dalla capacità dei cervelli umani di pensare e comprendere, ora il cervello ha preso se stesso come oggetto di studio. Studiandosi, il cervello è al tempo stesso soggetto e oggetto. Un bel giorno, come in un racconto per bambini, il cervello, a forza di cercare, curioso com’è, incontrò... un cervello. Lo studio del cervello da parte di altri cervelli, allora, costituisce, come cercherò di dimostrare, un’alterazione del cervello medesimo, che in realtà si effettua in onore di un «cervello aumentato». Questa alterazione è segnata da due grandi spartiacque, che con le scienze e la tecnologia come protagoniste hanno prodotto immense modificazioni nelle nostre società e nelle nostre culture.

Il primo momento possiamo situarlo, in modo un po’ schematico e simbolico, quando un computer IBM vince un campionato di scacchi contro il grande Kasparov. Fino ad allora, le capacità delle macchine di «intelligenza artificiale» erano riconosciute, utilizzate e diffuse, ma giocoforza si riconosceva che restava sempre, perlomeno implicitamente, la certezza o la speranza che l’intelligenza dell’essere umano fosse «un’altra cosa», un «qualcosa di più» — o un qualcosa di meno — che non avrebbe potuto essere fatto da una macchina. La macchina ci ha raggiunti e ci ha superati di volata. Questo è stato il primo colpo inferto al narcisismo umano: la nostra intelligenza genuflessa di fronte a un insieme di cavi e siliconi. La seconda tappa è quella implicata nella modellizzazione dei processi e dei meccanismi affettivi che avvengono nel cervello umano. Avevamo detto e creduto che, sebbene da un punto di vista logicoformale una macchina potesse muovere i passi capaci di raggiungere e superare in intelligenza l’essere umano, restava però un luogo, una dimensione che ci era assolutamente propria e che permaneva inaccessibile alla macchina: gli affetti. C’era una certezza quasi monolitica, che non aveva bisogno di spiegazioni, rispetto al fatto che i sentimenti, gli affetti — amori e odi, desideri e nostalgie — non avessero niente a che fare, ma proprio niente, con le macchine, con gli «1 e 0», con i circuiti integrati. La sorpresa è stata grande. Come vedremo, le relazioni «affettive», erotiche o amichevoli con delle macchine hanno già smesso di sembrarci una chimera, un incubo o un sogno proprio di un futuro lontano. Questo affronto alla «dignità umana» e il duello che ne scaturisce sono alcuni dei corollari della comprensione dei funzionamenti del complesso cervello umano (complesso, sì, ma non inaccessibile o segreto). Come non ricordare quelle che sono state definite le «tre ferite al narcisismo umano» nella storia dell’Occidente? La prima fu causata da Copernico e Galileo: la Terra non solo non si trovava al centro dell’universo, contemplata da Dio con amore paterno, ma era invece una semplice pietruzza in più, perduta nell’infinito dell’universo. La seconda fu causata indubbiamente da Darwin: noi umani, che occupavamo un luogo così speciale nella Creazione, abbiamo dovuto prendere atto che siamo i primi fratelli delle scimmie del giardino zoologico... La terza fu causata da Freud: noi uomini non siamo capaci

di governare le nostre vite razionalmente, siamo marionette di pulsioni e desideri che ci manovrano; così, se anche riusciamo talvolta a ottenere quel che desideriamo, non possiamo però «desiderare quel che desideriamo» poiché questo viene da un «al di fuori». L’alterazione del cervello umano è per certo una quarta ferita che, come le precedenti, sprigiona una potenza e una conoscenza immense e al tempo stesso ci fa sprofondare nella perplessità e ci disorienta. Quando si studiano il cosmo o i microbi, quando si tratta di trovare «invarianti» etici o logici nel divenire della storia, il soggetto di questo lavoro di riflessione e conoscenza resta, per così dire, fuori fuoco. Il cervello pensa, studia, riflette e gli oggetti di tale studio gli sono esteriori. Oggi però il cervello, grazie ai progressi delle diverse tecnologie di «immagine cerebrale» e alla conoscenza della chimica del sistema nervoso centrale, può finalmente rivolgersi a se stesso come oggetto di studio. Non è affatto banale una cosa del genere. Ci troviamo di fronte all’immensità di immaginare la novità implicata in questo «soggetto di conoscenza» (il cervello) che, coadiuvato dalle nuove tecnologie, decide di dedicarsi allo studio di se stesso. Tale studio mostra la sovradeterminazione del funzionamento cerebrale, non solo nei meccanismi della percezione o del movimento, ma anche in ciò che costituisce le basi del pensiero e degli affetti. Ad uno ad uno gli emblemi che privilegiavano questo organo crollano di fronte alle conoscenze sempre nuove che si ottengono da esso. Il cervello considera il suo nuovo oggetto di studio cercando di comprendere quali siano i meccanismi che ordinano il funzionamento di tale oggetto. Il paradosso è che il soggetto ricercatore si accorge, attraverso l’oggetto esaminato, che esso non è niente di più che una macchina, sofisticata, certo, ma assolutamente assoggettata alle stesse determinazioni di qualunque altro artefatto dalla natura meccanica (Cartesio dixit). Tutto avviene come se la marionetta a un certo punto dicesse al burattinaio: «Sei una marionetta». O come nel racconto di Borges, dove l’uomo che sogna di star creando un uomo si scopre tanto irreale quanto la sua creazione. Fino a poco tempo fa, le conoscenze del funzionamento cerebrale si fondavano sui lavori sviluppati, ad esempio, da Broca: ricerche basate soprattutto su lesioni cerebrali o sullo studio dei cervelli di cadaveri.

Più tardi fece la sua comparsa l’elettroencefalogramma. Ora però si può vedere dal vivo e in diretta quale neurone, quale rete neuronale, quale area cerebrale si attivi per ciascun compito specifico, con una precisione inimmaginabile fino a trent’anni fa. Allo studio (reso possibile dalla tecnologia) del funzionamento cerebrale, si aggiungono le nuove conoscenze della biochimica del sistema nervoso, che insegnano come le molecole intervengano nella regolazione fine di pensieri, sensazioni e affetti. Giunti a questo punto, la modellizzazione delle funzioni e dei meccanismi cerebrali ha permesso l’affiorare dell’ipotesi, oggi presa alquanto sul serio, secondo cui, se «tutto è informazione modellabile» e riproducibile, si potrebbe programmare una sorta di «cervello esterno al corpo». Con tale cervello aumentato i dati che si incorporano durante la vita di una persona permetterebbero che, in una specie di «trasferimento di funzioni», tale persona continuasse a pensare (a esistere?) dopo la sua morte. Vedremo più avanti l’incredibile potenza della produzione di una persona come un puro profilo, che consente apparentemente un sapere quasi senza limiti per gli umani. D’altro canto, la comprensione di questi meccanismi rende possibile che artefatti sofisticati presumano di poter «leggere» il pensiero. Come non restare esterrefatti quando l’azienda giapponese Hitachi — già quindici anni fa — annunciava la creazione di una nuova interfaccia non invasiva (non veniva impiantata nel cervello) che permetteva a chi se ne muniva di «agire attraverso il pensiero» (questa era, per lo meno, la presentazione che ne aveva offerto l’azienda giapponese). In effetti, grazie a un commutatore di potenza (avanzamento-arresto), basandosi sulle tecnologie della «neuroimmagine» che usano una luce vicina infrarossa per tracciare la concentrazione di emoglobina nel cervello, il sistema «traduce» questi cambiamenti in segnali che si digitalizzano e attivano, ad esempio, un braccio robotico. Così, grazie a tale sistema, la persona produce nel suo cervello l’immagine di prendere un bicchiere che si trova davanti a lei e un braccio robot connesso al sensore di emoglobina prende il bicchiere e lo porta alle labbra della persona. Come non provare sconcerto di fronte a tale divenire trasparente del cervello con le sue immense conseguenze culturali, storiche e sociali? Dal canto suo, la biochimica del cervello ci sorprende con i

continui annunci dell’importanza fondamentale dei neurotrasmettitori, ad esempio, nella chimica dell’amore. Che cosa rimane dei milioni di poesie che cantano ed evocano questo sentimento, se la mancanza o l’eccesso di ossitocina appaiono, in questo fisicalismo riduzionista trionfante, come la vera spiegazione di un sentimento tanto famoso? Il cervello però non è e non sarà mai «un organo fra gli altri». Cercheremo di comprendere come gli studi sul cervello, scaturiti da lavori di intelligenza e vita artificiale, siano centrali in questa rivoluzione antropologica che le nostre società stanno inscenando. Chiunque tocchi il cervello tocca la pietra fondamentale dell’edificio della modernità, questa potrebbe essere l’ipotesi sintetica del nostro saggio. Ed è accaduto: si è toccato il cervello; pertanto, si è mossa la pietra fondamentale dell’edificio della modernità. In linea con l’analogia, si giunge alla domanda: che cosa accadrà a questo edificio? Ci cadrà addosso o si tratterà semplicemente di una rimodellazione? Non tutte le civiltà hanno saputo o immaginato che il cervello fosse il centro del pensiero. Come molte altre cose negli andirivieni della storia, la localizzazione del cervello come centro del pensiero esisté in alcune civiltà e si perse nel tempo per riemergere in altre. Nella cultura e nella società che chiamiamo «moderne» — in cui Michel Foucault ravvisa «l’epoca dell’uomo» — il cervello fu identificato come il centro del fenomeno umano. Luogo dello spirito che, nell’interpretazione offerta dall’evoluzione delle specie, appare come il vertice di tale evoluzione. È chiaro che, come abbiamo detto, nello studio del funzionamento cerebrale la sovversione non consiste solo nella conoscenza dei meccanismi del pensiero bensì — e soprattutto — nella possibilità di modellare e riprodurre o modificare i meccanismi dei sentimenti umani fin qui considerati come assolutamente superiori: l’amore, la poesia, la libertà e i principi etici ed estetici, fra gli altri. La conoscenza del cervello da parte dei cervelli stessi non rappresenta soltanto un grande progresso nel sapere dell’umanità. Al contrario, come cercheremo di formulare e sviluppare in quest’opera, l’esibizione dei meccanismi cerebrali si pone al centro di quel che potremmo considerare come l’alterazione di tutta una cultura: delle credenze e

dei principi che fondavano la nostra civiltà. Detto altrimenti, le conoscenze del funzionamento del sistema nervoso centrale e la possibilità di intervenire su di esse aprono una breccia importante nel paradigma antropologico dell’Occidente. Lo sviluppo tecnologico, in un momento dato della sua storia, senza alcuna intenzionalità soggettiva, vale a dire senza che nessuno lo abbia desiderato né tanto meno determinato, sovverte la struttura della nostra società con una forza comparabile soltanto all’emergenza storica del Rinascimento, con le sue speranze e le sue paure. L’antropologo francese André Leroi-Gourhan, specialista di storia della tecnica, lungi da qualunque prurito tecnofobo scrive ne Il gesto e la parola (1976): «L’analisi delle tecniche mostra che nel tempo si comportano allo stesso modo delle specie viventi, godendo di una forza di evoluzione che sembra essere loro propria e che tende a farle sfuggire al dominio dell’uomo». Sulla strada del cervello aumentato Se risulta che, storicamente, ogni cultura ha posseduto una tecnologia, la nostra è forse la prima che si ritrovi, nel significato più sciamanico, posseduta dalla tecnologia. Alla mancata realizzazione delle promesse messianiche delle ideologie in cui gli uomini credettero, succede un’altra promessa, stavolta stimolata e sostenuta dalla tecnologia. Senza discorsi, bandiere o manifestazioni, un «altro» dall’uomo, un «altro» rispetto a ciò che è vivente, la tecnoscienza, ci promette, senza voce né volontà, di giungere finalmente a un mondo senza limiti, frontiere, infermità, vecchiaia, stupidità o povertà: il mondo dell’essere umano e della natura aumentati. La tecnologia ci promette e ci prepara a un mondo in cui non esisteranno più né la sessualità né la morte né alcun altro limite fondamentale: il mondo del «tutto è possibile» e dove ciò che ci appare come impossibile si intende come «ciò che non è ancora possibile». «La res publica è morta, viva la res tecnologica», dice il credo della tecnoscienza. «L’osservazione di sistemi di regolazione di organismi viventi — e fondamentalmente il cervello umano —, che sono considerati come sistemi complessi, rivela che sono lontani dall’essere

sistemi ottimi, ma ciò nonostante riescono a realizzare abbastanza bene le loro funzioni». La tecnologia si occuperà — si occupa già — di ottimizzare e correggere questi deficit di produzione, dovuti ad alcuni «difetti» nella evoluzione naturale (?), oppure agli inevitabili «guasti» causati dalla fretta, un po’ sbadata, di una Creazione fatta in soli sei giorni. Strana epoca quella in cui ci tocca vivere. È un modo, come qualunque altro, di presentare quel che ci circonda e ci contiene, il mondo tecnologico-scientifico, la potenza di ciò che è nuovo. E, soprattutto, lo stupore dell’uomo e della cultura di fronte a un mondo che si trasforma a tal punto e con tale velocità da lasciarci affascinati, sedotti, speranzosi ma anche, talvolta, intimoriti. Allo sviluppo, apparentemente illimitato, delle nuove potenze tecnologiche si accompagna, paradossalmente, un senso di impotenza ogni volta più profondo in quelli fra i nostri contemporanei che si sentono come «foglie nella tempesta», incapaci di gestire o orientare il corso degli eventi sia sociali sia personali. Da sempre il problema dell’uomo, in qualunque cultura, epoca o civiltà, è stato ed è la necessità di sapere chi agisce. Da chi o da che cosa sono mossi gli esseri umani e le cose? Chi muove? Chi è mosso? Basta pensare semplicemente alla tragedia greca, che alimentò e fondò la cultura occidentale: gli dei, forze esteriori agli uomini, muovono gli esseri umani come marionette nei loro capricci, ragioni e ingiustizie; gli uomini sono trascinati in destini che devono comprendere, fare propri, per poter esistere, senza essere essi stessi motori, soggetti o produttori di tali destini. Allo stesso modo, la nostra epoca appare fortemente segnata da macroprocessi tecnoeconomici, demografici... che sembrano ancora una volta far muovere gli umani da qualcosa che è esterno all’uomo. Promessa di potenze illimitate, minaccia di futuri invivibili: fra tecnofobi e tecnofili non si tratta di scegliere in modo manicheo. Il nuovo mondo è già qui. Al pari di Colombo, lo vediamo, lo esploriamo, lo scopriamo, ma non possiamo nominarlo. È proprio questo che accadde allo scopritore: non seppe mai che cosa aveva scoperto. Nemmeno nel suo declino, in un’oscura prigione, indovinò quale fosse il contorno del «nuovo mondo» e come esso, a sua volta, ridisegnasse quello antico. Anche noi, come Colombo, di fronte alle terre

(deterritorializzate e virtuali) di questo «nuovo mondo», guardiamo, ci avventuriamo, lo abitiamo a poco a poco, ma non riusciamo a cogliere i suoi contorni, i suoi limiti, le sue frontiere, le sue potenze. Ma, soprattutto, ignoriamo le modificazioni che determina nelle nostre vite, nei nostri cervelli, nei nostri corpi ed ecosistemi. Il cervello: nuovo mondo? nuovo orizzonte? Non si tratta di costruire nuove cartografie che ci consentano di navigare nel nostro mondo, non è una semplice storia di naviganti con carte e mappe. Il nuovo continente, il nuovo universo da cartografare è infinito ed è tutto racchiuso in un cranio. Si tratta di comprendere che cosa sta cambiando e che cosa in buona parte è già cambiato, che non è altro che il territorio medesimo. Non è questione, allora, di affinare la cartografia, bensì di cercare di comprendere e conoscere questi nuovi paesaggi della vita e della cultura in cui si sviluppano sempre di più l’avventura umana e la vita sul nostro pianeta. Si prospetta oggi per l’uomo la possibilità di spingersi «più in là», più in là dei territori che conosce e che lo hanno intessuto, un «più in là» che, per certo e come sempre, affascina, inquieta, attrae e atterrisce. L’interrogazione che apre questo «più in là» non è sinonimo di una domanda graziosa o leggera di quelle che formulano i turisti che vanno a caccia di paesaggi pittoreschi. Questi nuovi territori ci coinvolgono e generano inquietudine. Chi saremo, come saremo una volta che avremo attraversato queste frontiere? Di fronte a noi, esploratori curiosi: noi stessi. Le nuove conoscenze sul cervello umano non sono semplici conoscenze passive che si possano ammirare o su cui si possa meditare; sono accompagnate immediatamente dalle nuove possibilità di modificazione dei limiti e delle funzioni degli organi che chiamiamo «nobili». Per alludere alla profondità e al tipo dei cambiamenti che stiamo vivendo, gli scienziati che se ne occupano usano da qualche tempo il concetto di «antropocene», a indicare che siamo entrati in una nuova tappa geologica della Terra nel suo insieme. Vale a dire che con il termine «antropocene» si fa riferimento a questa trasformazione del pianeta determinata dall’azione di una

specie: l’uomo. Immaginiamo per un momento un esempio abbastanza realista: un’isola è occupata dalle formiche; a poco a poco le formiche si trasformano nell’unica forma vivente dell’isola; poi cominciano a consumare tutte le «materie prime» e, in questo modo, modificano la struttura medesima dell’isola. Dopo qualche tempo l’isola diventerebbe una specie di «formicacene» e, alla fine di questo processo, il «formicacene» si trasformerebbe in un posto invivibile per le stesse formiche. Ed è questo che sta accadendo con l’antropocene e l’uomo. Dall’apparizione della vita sulla Terra annoveriamo: la tappa paleozoica, quando la vita marina giunge allo sviluppo dei pesci; il mesozoico, quando vediamo comparire la vita sulla Terra con i rettili; il cenozoico, con l’apparizione dei primi mammiferi. In tale ascesa evolutiva, il cervello umano apparirà come il punto culminante del processo. Ciascuna di queste tappe è durata fra i trecento e i novecento milioni di anni, e fra l’una e l’altra si sono verificati fenomeni di estinzione massiva di specie, collegati a successive modificazioni del sistema. Ciascuno di questi periodi è concepito come una vera e propria «scultura del mondo». Non alla maniera di uno scenario con le sue montagne, fiumi e mari in cui avvengono i cambiamenti, bensì una modificazione dello stesso contesto, di questa materialità del mondo. Ciò che caratterizza ciascuna tappa o periodo geologico sono le trasformazioni radicali, non solo delle specie che compaiono e si sviluppano, ma del suo clima, della sua geografia, dei suoi strati geologici, dell’atmosfera e, infine, della Terra medesima. Che in questo senso si parli di «antropocene» come nuova tappa o periodo geologico implica, quindi, che l’attività dell’uomo, diciamo, dalla Rivoluzione industriale fino ai giorni nostri, abbia modificato a tal punto l’insieme materiale del pianeta che ci troviamo in una nuova era geologica. Heisenberg (1971), il padre della famosa teoria dell’incertezza, scriveva che ovunque l’uomo rivolga lo sguardo non vede altro che tratti e manifestazioni dell’uomo stesso. Finanche sotto la cappa di ghiacci profondi del Polo Antartico, l’attività dell’uomo ha prodotto cambiamenti irreversibili nell’ecosistema e quindi nelle specie che lo abitano. Atmosfera, biosfera, stratosfera: nulla resta esente dal «segno dell’uomo». Tale «segno dell’uomo» è, certamente, il marchio e le tracce del fatto che l’uomo possiede le particolarità conferitegli dal suo

cervello. Tuttavia questo antropocene non sarebbe tale se negli ultimi sessant’anni i cambiamenti non si fossero succeduti in modo ultraaccelerato fino a portarci sul bordo (o addirittura oltre) di quel che nelle scienze della vita chiamiamo «perno evolutivo». L’uomo, gran «trasformatore» del mondo, si vede colpito dalla sua stessa attività, sperimentando in se stesso la profondità di tale cambiamento, la sua propria trasformazione. Paradossalmente, nel momento in cui finalmente tutto il mondo si è trasformato ne «la casa dell’uomo», la domanda angosciante è: «Potrà l’uomo adattarsi, sopravvivere in questo antropocene?». Non è un caso che non siano solo alcuni illuminati marginali coloro che cominciano a parlare del «postumano» per alludere a queste nuove forme di vita che saranno frutto dell’ibridazione e della manipolazione tecnologica, ma al tempo stesso delle mutazioni, non desiderate né programmate, dovute al cambiamento nell’habitat. Tuttavia (e questo non è un dettaglio), contrariamente ai grandi periodi di cambiamento, l’antropocene non ha avuto bisogno di milioni di anni per emergere; al contrario, in un tempo incredibilmente breve si sono prodotti — e soprattutto si producono — mutamenti che «normalmente» nell’evoluzione della vita sulla Terra erano dell’ordine di milioni e milioni di anni. Non è difficile sospettare la brutalità che implica tale accelerazione né immaginare che questo cambiamento iperaccelerato non possa verificarsi senza conseguenze. Pensiamo per un momento agli ultimi sessant’anni, vale a dire dal 1953 quando Watson e Crick scoprono la doppia elica del DNA (i cromosomi), e anche ad alcuni anni prima, quando si riuscì a rompere il nucleo stesso dell’atomo. Da allora, le porte si sono spalancate liberando una serie di potenze tecnologiche di una forza tale che è urgente comprenderle. Senza dubbio, le recenti scoperte sul funzionamento del cervello hanno segnato una svolta in questa decostruzione del mondo moderno e l’entrata in un’«altra dimensione». Non dimentichiamo che il cervello umano è pensato — o, come abbiamo detto, pensa se stesso — come il punto più alto dell’evoluzione delle specie. Tutto avviene come se l’insieme dell’evoluzione e la selezione naturale avessero prodotto la propria sintesi, il loro proprio superamento (Aufhebung): il cervello umano.

Che succede, allora, quando questo centro/vetta si vede a sua volta decostruito, spodestato dal trono, per essere trattato e compreso come un organo qualunque, assoggettato alle leggi banali del funzionamento elettrico e chimico? Sedotti e affascinati dalla potenza della tecnologia, tralasciamo di avvederci del rovesciamento: dalle tecnologie al servizio dell’umano, all’umano al servizio della tecnologia. Non c’è alcun ideale nostalgico di profilo «tecnofobo» che orienti quel che precede e neppure quel che segue; piuttosto il contrario. Ogni separazione del tipo «fin qui l’uomo e a partire da qui l’artefatto» si rivela impossibile, e non è neppure desiderabile. Un «uomo puro» di fronte alla potenza tecnologica risulta inconcepibile. L’ibridazione uomo-natura-tecnologia è una realtà fattuale. E allora, di che cosa si tratta? Né più né meno che di analizzare questi cambiamenti cercando di comprendere i loro significati senza lasciarsi irretire da ciò che semplicemente «funziona», né precipitare nella nostalgia di un passato illusorio in cui l’umano avrebbe regnato. I grandi cambiamenti, quelli veramente irreversibili e radicali, avvengono generalmente in modo impercettibile — o incomprensibile — per i contemporanei di queste grandi rotture. Tutto succede come quando ci troviamo di fronte a quel che si chiama «transizione di fase», ad esempio quando l’acqua passa dallo stato liquido a quello gassoso. I parametri di misura (la scala di gradi centigradi) restano costanti, senza salti né discontinuità; ma dietro tale rappresentazione priva di rotture si è verificata una transizione di fase, una vera e propria «rivoluzione» nelle molecole. Nella ricostruzione permanente, effettuata dal cervello, della coerenza minima che ci permette di vivere in un mondo in costante divenire, cambiamento e discontinuità, funzioniamo in questo modo, all’interno di «parametri costanti», che ci fanno apparire i cambiamenti permanenti come una permanenza nel cambiamento. Il cervello, architetto della realtà Se analizziamo il ruolo del cervello e della coscienza, ci rendiamo conto che uno dei suoi compiti principali è quello di procedere in modo permanente a un «montaggio», come se si trattasse

dell’elaborazione di una pellicola la cui funzione consiste nel presentare un’immagine sincronizzata e continua di fenomeni che non sono quasi mai sincronici ma quasi sempre discontinui, creando così, nell’immagine, l’illusione di unità laddove, in verità, il substrato reale è la molteplicità di processi. Si tratta di produrre coerenza omogenea a partire dall’eterogeneità del mondo. Basta pensare semplicemente al montaggio che effettuano i cervelli fra il visivo e il sonoro. Come è evidente, le immagini visive arrivano al cervello in modo più rapido dei suoni, ma noi vediamo un’immagine coordinata: un neurone provvede nel cervello a ritardare l’affiorare dell’immagine finché non giunga il suono. Il cervello funziona creando ipotesi, confrontando informazioni. È innanzitutto un sistema di prevenzione, un «predittore» in un certo senso, che opera come un autentico simulatore di azioni possibili. Ciò gli è indispensabile, come spiega il neurofisiologo francese Alain Berthoz (1997), per varie ragioni: prima di tutto per essere veloce, circostanza vitale per il cervello. Così, come nel caso del pilota di aerei, del calciatore, di chi vuole catturare una preda o non essere catturato, il cervello non ha il tempo di passare al vaglio tutte le possibilità ad una ad una razionalmente per poi dar vita a un’azione; è per questo che è importante possa simulare internamente le possibilità prima di «sceglierne» una. Come è del resto chiaro in molte opportunità, non c’è una seconda possibilità né il diritto di sbagliare. Tuttavia questi scenari possibili che sviluppa il cervello non corrispondono in alcun caso a una maggiore capacità adattiva alla situazione presente; al contrario, il cervello «immagina» possibilità che sono sempre legate e condizionate dalla sua struttura organica, una struttura che proviene dalla lunga durata della coevoluzione. Come vedremo più avanti, per quanto appaia impossibile, molte delle interpretazioni attuali del funzionamento del cervello tendono a «dimenticare» che i cervelli esistono in degli organismi (con storie e interscambi propri di un sistema aperto e dinamico) e non si adattano da soli. Tali meccanismi furono selezionati molto precocemente e non sono esclusivi dei cervelli umani, ma esistono in tutti gli animali. In questo modo il cervello è, innanzitutto, una macchina biologica che permette di anticipare. Il cervello anticipa e crea coerenza, ma il cervello umano

ha sviluppato nel corso dell’evoluzione potenzialità che gli altri animali non possiedono. Possiamo affermare senza tema di smentita che il cervello umano è ciò che, a un dato momento dell’evoluzione della vita sulla Terra, opera una rottura radicale e irreversibile grazie all’affiorare delle sue nuove capacità che gli hanno permesso di cambiare o aumentare le regole stesse della coevoluzione delle specie. L’asse principale di queste nuove potenze ha fatto sì che, quantunque ogni specie che attraversi una coevoluzione con l’ambiente lo modifichi modificandosi a causa di una serie di costrizioni evolutive, la specie umana abbia moltiplicato la sua capacità di modificazione e automodificazione in maniera esponenziale. Ma tali «cambiamenti» a poco a poco si sono trasformati in un vero e proprio periodo di mutazioni maggiori per la nostra specie umana e quindi, inevitabilmente, per l’insieme dell’ecosistema — degli ecosistemi — che abitiamo. Prendiamo un esempio banale e quotidiano. Il telefono cellulare. Con il suo avvento sulla Terra, i membri della specie umana hanno la capacità di essere connessi fra loro in «tempo reale» e in modo permanente. Possono comunicare in modo immediato con l’insieme degli esseri umani che abitano il pianeta. Al contrario, ciò che caratterizza il funzionamento del cervello è non reagire mai in «tempo reale»: il cervello «sano» si prende il suo tempo o, detto altrimenti, il tempo fisico lineare non è quello del cervello. I cervelli funzionano in una temporalità biologica che risulta da una doppia costrizione: un movimento di ritenzione, legato alla storia (personale e della specie), e un movimento di propensione, una tendenza o tropismo verso la predizione e la prevenzione del futuro. Ciò significa che quello che viene chiamato «tempo reale» è il tempo della comunicazione artefattuale, non quello dei cervelli o degli organismi biologici. Dunque la telefonia mobile ha provocato una mutazione maggiore, trasformando la specie umana in una specie connessa in permanenza in una certa simultaneità. Le mutazioni tecnologiche presentano la particolarità che, quand’anche non siano «anatomiche» (il telefono non è ancora impiantato), producono comunque un fenomeno di ibridazione biotecnologica. L’ibridazione che modifica una specie non ha assolutamente bisogno di essere visibile nel fenotipo (forma e

anatomia) dei suoi membri per essere reale. Come vedremo in alcuni capitoli successivi, si tratta di ibridazioni che implicano mutazioni funzionali e fisiologiche. Come scriveva l’oggi dimenticato Karl Marx (1977), «nella produzione sociale della sua esistenza l’uomo produce se stesso». In sintesi, esistono una serie di cambiamenti radicali che modificano la nostra vita e il nostro pianeta, prendendo le distanze dall’ideale «ingenuo» secondo cui l’uomo sarebbe «sempre lo stesso» e possiederebbe utensili differenti per servirsi meglio. Negli anni Sessanta, una serie di cartoni animati raccontava la vita quotidiana di una famiglia preistorica alla maniera dell’American way of life. Si trattava di una coppia monogama e nucleare, che viveva nella sua bella caverna con due figli, portava a spasso il dinosauro — il cane non esisteva ancora — e viaggiava su un’auto con pneumatici quadrati visto che l’invenzione della ruota si faceva ancora attendere. Ben lungi dall’essere una fiction per bambini, presentava così l’uomo che, guarda caso, era l’essenza dell’uomo nordamericano, e al di là delle apparenti differenze poggiavamo tutto sulla stessa base. Imparavamo così che l’uomo era sempre rimasto lo stesso e che, grazie alla sua inventiva e al suo ingegno, si procurava con il passare dei secoli sempre più utensili per facilitarsi la vita, rimanendo però essenzialmente lo stesso. D’altro canto, i nostri contemporanei continuano a pensare che le tecnologie che aumentano il potere delle nostre vite, che creano questo «uomo aumentato», implichino una dinamica grazie a cui l’uomo, restando essenzialmente uguale a se stesso, gode di nuove «funzioni» o «applicazioni». L’itinerario che ora ha inizio riflette un tentativo di comprendere come, in che modo, nella relazione essere viventecultura-tecnologia, ci troviamo immersi in una vera e propria coevoluzione in cui l’insieme si modifica insieme agli elementi che lo compongono. I cervelli esistono in corpi e in ecosistemi: un cervello isolato non funziona; ecco perché studiare il cervello implica la comprensione di interazioni complesse e multiple. Ciò che caratterizza la nostra epoca è l’irruzione della complessità nel paradigma epistemologico della modernità (la stessa che ci prometteva un sapere totale, capace di emancipare l’uomo da qualunque servitù). La complessità non è un modo per definire un grado superiore di complicazione del mondo e dei suoi processi, la

complessità è il concetto che implica l’irruzione come evento storico dell’aleatorio che porta alla rottura del paradigma della modernità. Orbene, la complessità implica, fra le altre cose, che un processo complesso non sia interamente rappresentabile o, detto altrimenti, che vi sono strutturalmente — e non accidentalmente — dimensioni del non sapere in cui l’alea è irriducibile. Basta pensare a Heisenberg, con il suo principio dell’incertezza, o ai citatissimi teoremi di Gödel dell’incompletezza e dell’inconsistenza, o ai cosiddetti «risultati negativi di Poincaré», con cui il matematico francese mostrava che in un sistema deterministico, dal momento in cui c’erano tre corpi nello spazio, risultava impossibile predire lo sviluppo futuro del sistema in questione. Non cessa di essere straordinario questo segno della nostra epoca, in cui l’aumento vertiginoso del sapere si sviluppa all’ombra del «sapere di un non sapere». Comprendere o prevedere? Una delle conseguenze «epocali» dell’irruzione della complessità è, come ricorda il matematico René Thom (1980a), che la scienza attuale ha rinunciato a qualunque ambizione di comprensione in favore di un principio empirico di efficacia e predizione. Vale a dire che la difficoltà di comprendere la nostra epoca non sarebbe un incidente bensì, al contrario, un tratto, un sintomo emergente dalla sua stessa struttura, in cui saperi e pratiche sparse si strutturano senza alcun centro che dia loro una coerenza, una comprensibilità o un significato globale. La capacità e la possibilità di prevedere è, come spiega Alain Berthoz (1997), una funzione principale del cervello. Il cervello è, come dicevo prima, innanzitutto un predittore e un simulatore dell’azione. Come avviene per il giocatore di ping-pong, bisogna andare ad aspettare la pallina dove il cervello calcola che si troverà nel futuro prossimo e non dove si trova quando la vede il giocatore. Il biologo Francisco Varela (1993) usa spesso l’esempio dell’uccello dal nome «martin pescatore» che, quando vede un pesce nell’acqua, può effettuare nel suo cervello un’operazione che, tenendo conto del riflesso dell’acqua, gli permette di tuffarsi non dove il pesce si vede, ma dove si trova realmente. Dunque questa funzione di simulare e predire

è fondamentale. Il cervello del martin pescatore calcola, e lo fa utilizzando forme geometriche e non effettuando un calcolo aritmetico della rifrazione, ma tale differenza fa sì che l’uccello non pensi di star calcolando: non pensa che sta pensando. In ogni caso nel mondo biologico la predizione non è, nonostante la sua importanza fondamentale, la funzione principale. Potremmo dire con la formula consueta che è necessaria ma non sufficiente dato che, per la vita, la funzione principale del cervello è quella di permettere la comprensione. Vale a dire, dare un significato a quel che succede. Per ogni organismo biologico, l’ambiente possiede un significato e gli dà un significato. L’ameba che si allontana da un ambiente minaccioso lo fa perché tale ambiente ha un «significato» per lei; se l’ameba non fosse altro che una serie di macromolecole aggregate, si dissolverebbe meccanicamente nell’ambiente. Dunque il significato dipende sempre dall’esistenza di un organismo integrato: i moduli separati non producono significato. La possibilità che tale significato «emerga» dipende, allora, non dall’uno o dall’altro dei meccanismi o «moduli» posseduti dall’organismo o dal cervello, ma dall’insieme dell’organismo integrato. Ciò vuol dire che le parti che compongono, ad esempio, un animale non producono separatamente un significato nell’agire dell’animale, perché sono sempre strutture integrate quelle che possono produrre un significato. Ciò è quanto oggigiorno viene messo fortemente in discussione dalla biologia molecolare, che ha prodotto un modello di ciò che è vivo come un insieme di meccanismi e funzioni che evolvono in modalità bottomup (costruzione dal basso verso l’alto, dal semplice al complesso), senza poter pensare una fisiologia che tenga in conto a loro volta sistemi e funzioni top-down (costruzione dall’alto verso il basso, dal complesso al semplice). Nello studio della fisiologia del cervello questa è una vera e propria sfida. La capacità di previsione aumenta nella misura in cui le situazioni e i sistemi studiati si semplificano, allontanandosi dalla complessità. È per questo che la predizione viene accompagnata, nella nostra attuale tecnoscienza, da una forte tendenza riduzionista fisicalista che opera a partire dall’ipotesi che ogni processo è originato dalle sue parti e componenti semplici (principio di dispersione), in cui il locale ha la meglio su ogni considerazione organica globale. Come vedremo,

questa tendenza fisicalista, che interpreta i differenti funzionamenti del cervello come un insieme di sistemi distinti, si trova di fronte un problema centrale. Il cervello umano tende a «contemplare l’esistente» e non sembra accontentarsi di «essere l’esistente». Vale a dire che il realismo scientista non tiene in alcun conto, nella sua visione quantitativa del cervello aumentato, la nostra «finitezza epistemica»; ciò significa che i limiti dell’organismo, lungi dall’essere un difetto, sono la condizione stessa della possibilità di vivere in un mondo in cui vi siano il significato e la comprensione. Evidentemente questo non ci indurrà a studiare le teorie epistemologiche che cercano di sviluppare nuove relazioni fra il globale e il locale, tentativi che sarebbero preziosi per recuperare soprattutto la capacità di agire nel nostro mondo. Potremmo quindi chiamare la sfida della nostra epoca agire nella complessità, dato che essa richiede una comprensione globale dei sistemi auto-organizzati. La potenza tecnologico-scientifica ha finito per alterare il mondo a tal punto da alterare l’uomo medesimo. È, come dicevo, l’alteratore alterato dato che, studiando se stesso come se fosse un aggregato di parti alterate, si è alterato a sua volta. In tal modo un riduzionismo radicale, che identifica l’insieme dell’esistente con un’infinità di processi e di particelle elementari, lascia l’uomo senza un «altro» di fronte a sé. La solitudine dell’uomo della modernità potrebbe essere definita dal fatto che se, come pensavano Cartesio e Kant, la natura è soltanto un insieme di processi meccanici «disabitati», l’uomo è solo di fronte a un universo disincantato. In cambio, l’uomo postmoderno, che si toglie da solo i pesi di dosso, si ritrova in una solitudine in cui egli stesso come soggetto è assente. L’uomo postmoderno continua a funzionare, ma il problema è che le parti alterate funzionano senza che in tale funzionamento di tipo meccanico emerga un soggetto o una soggettività. L’uomo ha perso una parte, quella che lo unifica, ed così che si trasforma in «modulare»: possiede dei moduli, cambia dei moduli, ma non possiede più l’unità che lo soggettivava. Per questo dicevo che, se l’uomo della modernità si sente «solo di fronte a un mondo disincantato», l’uomo postmoderno non è proprio più presente, perché da solo si è assentato.

Arrivando al cervello Dobbiamo riconoscere che, non solo per il grande pubblico, il punto pivotale dei grandi cambiamenti e mutazioni attuali si tocca quando le cosiddette «neuroscienze» riescono a studiare il cervello umano con le stesse leggi, forme e processi validi per l’insieme della natura, considerando quest’ultima cartesianamente assoggettata alle leggi della meccanica. In linea con il desiderio e il «programma» di Cartesio (1840), l’uomo non poteva trasformarsi in signore e padrone della natura se le negava qualunque finalità e se teneva tutta la natura, compresa quella «apparentemente» animata, fuori da se stesso. Una delle basi medesime della cosiddetta «modernità» — o, come la chiama Foucault, «l’epoca dell’uomo» — risiede nel dispositivo di accordo con cui l’uomo (o quel che si chiamerà «l’uomo», che non è certo «tutto l’umano» bensì un dispositivo antropologico) si pone come soggetto di fronte alla natura e a un mondo che saranno i suoi oggetti. Non dimentichiamo che, per Cartesio, questa cosiddetta «natura apparentemente animata» includeva gli animali; per questo nel suo Discorso del metodo spiega che se, ad esempio, spelliamo vivo un cane, i suoi latrati e le sue urla dovranno essere compresi come il rumore prodotto da una molla nel distendersi... Vale a dire, nessun significato proprio, solo un semplice meccanismo fra gli altri. Allo stesso modo Cartesio spiega che «l’uomo» è libero solamente quando non è né troppo giovane, né troppo vecchio, né malato, né pazzo, né addormentato... né donna. Ciò che qui è in questione è la categoria di «atto», di agire come un soggetto, a ciò che gli si oppone da parte dei movimenti meccanici dei corpi in interazione. In linea di principio il peso, i movimenti meccanici, ecc. sono quindi considerati «disabitati», privi di anima e di qualunque intenzionalità. L’uomo come soggetto è questa istanza spirituale che constata la propria esistenza grazie al fatto che crede di possedere un’interiorità e un’intenzionalità non riducibili a meri movimenti meccanici. In tal modo, il cervello umano appare da allora come la parte nobile dell’uomo che sfugge alle leggi meccaniche della natura. Questa «natura» esterna all’uomo comprende anche il corpo stesso dell’uomo, escludendone solo il cervello, nido dell’anima. Anche il cervello sarebbe fatto di materia, ma, anche, di una nobiltà particolare, poiché

in esso si annida lo spirito, vale a dire ciò che nell’uomo è divino, ciò che lo rende protagonista di «atti» e non semplicemente un dispositivo naturale fra i tanti, assoggettato passivamente a movimenti meccanici. Basterà ricordare qui la frase, nota, «il cervello che armò il braccio»; questa frase, ad esempio, viene pronunciata quotidianamente nei tribunali, volendo significare con essa il fatto che la persona sottoposta a giudizio non è niente di più che «un braccio», ovvero che non è signora e padrona degli atti che commette, ma che obbedisce agli ordini del «cervello», ovvero di qualcuno che è «libero dei suoi atti» e che non obbedisce a nulla. Chi riesce a provare l’obbedienza come causalità dei suoi atti dichiara così che essi furono puramente meccanici, senza intenzione né comprensione da parte sua. Immaginiamo un episodio banale: ci troviamo nella metropolitana in un vagone strapieno e, a un certo momento, a causa di uno scossone pestiamo una signora che si trova di fianco a noi; può succedere che per scusarci diciamo: «Mi scusi, non volevo», ovvero che non è un atto, ma un movimento. O, in modo meno banale, ricordiamo i libri di Hannah Arendt (1999) sul processo di Adolf Eichmann, in cui il gerarca nazista cercò di difendersi invocando la propria condizione di «dispositivo meccanico»; è la stessa cosa che cercano di fare i militari argentini della dittatura quando parlano di «obbedienza dovuta». Obbedire significa in questo caso che l’istanza soggetto, l’«io», non ha niente a che vedere con quel che succede. Non obbedire, essere causa sui, cioè non obbedire ad alcuna causa esterna, tale è il ruolo, tale la qualità fondamentale che il cervello possiede... fino alle neuroscienze, quando cominciamo a capire a quali ordini obbediscano gli ordini che dà il cervello... Catastrofe, eresia! Ricordiamo, allora, che fra questo nobile organo, nido e fortezza dello spirito, e il corpo, assoggettato alle leggi meccaniche, si situava — doveva situarsi, in ogni caso, secondo Cartesio — la famosa «ghiandola pineale», passaggio e ponte, filtro e frontiera fra il cervello e il corpo. La ghiandola pineale, di cui la neurologia attuale ha serbato una lieve traccia chiamando così l’ipofisi, era incaricata di garantire l’interfaccia fra lo spirito e il corpo, lasciando in tal modo, anche topologicamente, il cervello dall’«altro lato», dal lato nobile. Il cervello pensa, riflette, esiste e dà ordini al corpo grazie a questa specie di caposquadra che è la ghiandola pineale.

Le «leggi meccaniche», che dovevano dirigere e spiegare i funzionamenti della natura, sono le leggi che spiegano il movimento, secondo la logica di azione-reazione, inerzia, ecc. Di fronte al movimento, in maniera qualitativamente diversa, si situerà, allora, l’azione. Un’azione implica l’esistenza di ciò che chiameremmo «soggetto», «organismo»; in sintesi, un protagonista che non è soltanto mosso da leggi meccaniche, ma che agisce disponendo di una certa «libertà»: egli è, perciò, causa sui. Nell’idea stessa di libertà si intende che ci troviamo di fronte a un «soggetto» che è capace di agire al di fuori di qualunque necessità, in linea con dimensioni e ragioni che essenzialmente sfuggono a qualunque sovradeterminazione. Un cervello trasparente... e i suoi segreti Il progresso delle cosiddette «neuroscienze», che ha fatto un passo avanti gigantesco grazie alle tecnologie di immagine cerebrale e alle conoscenze biochimiche del sistema nervoso, attacca direttamente il principio di un pensiero umano libero da qualunque sovradeterminazione meccanica. Principio che è, come sappiamo, un fondamento centrale della cultura occidentale: per la cultura umanistica tutto nell’uomo doveva essere «acquisito»; niente — o quasi — doveva obbedire all’innato. In effetti, a partire dalla conoscenza e dallo studio del funzionamento del sistema nervoso centrale come un oggetto fra gli altri della natura, apparirà la possibilità di comprendere i gesti e le abitudini dell’essere umano nella forma meccanica di una serie di movimenti sovradeterminati da leggi fisiche e chimiche. Il centro dei centri, il rifugio dell’anima e dello spirito, il fondamento del libero arbitrio umano, era caduto. Il cervello, antico baluardo di questa specificità umana, non sarà più considerato di qualità diversa da quella del resto del corpo; in questo modo, l’amore tanto citato e celebrato sarà una questione di ossitocina e vasopressina, responsabili della possibilità — o no — di un comportamento di fedeltà o di forte attaccamento per i figli. I sentimenti si vedranno ridotti all’espressione del funzionamento dell’ippocampo e così uno stato depressivo, una botta di allegria, la

capacità di pensare, ecc. saranno studiati come funzioni analoghe alla produzione di ormoni da parte di altre ghiandole del corpo o della bile da parte della vescica biliare. Un semplice dato della neurofisiologia mostra il funzionamento denominato «potenziale di preparazione»: nel momento in cui si muove un dito, si può misurare sulla totalità del cuoio capelluto un potenziale elettrico al tempo stesso ampio e lento che precede di una frazione di secondo l’inizio del movimento; ma non solo questo, al tempo stesso e soprattutto, anticipa la capacità del soggetto di enunciare che ha «deciso» di dare avvio al movimento. Questo semplice esempio mostra che i movimenti non sono «decisi» da una volontà, ma anche che il movimento anticipa la coscienza. Si consideri che qui non stiamo parlando di archi riflessi o del sistema nervoso periferico (che produce movimento grazie a un loop neuronale che non passa per la corteccia cerebrale) ma di atti, in linea di principio, frutto della nostra volontà. Mi muovo e poi, in un vero e proprio après coup,1 «decido» di muovermi... È questo ciò che rende possibile, ad esempio, che, nel confronto fra la macchina e il cervello, i ricercatori di intelligenza artificiale affermino che i loro robot non abbiano bisogno di comprendere per essere intelligenti, poiché le loro risposte e atti sono tali senza alcuna necessità di «comprendere» o alcuna istanza di volontà cosciente. Il cervello, allora, sarà considerato come la macchina capace di dare buone risposte e di maneggiare e gestire informazioni; in questo senso, le macchine sarebbero superiori ai cervelli poiché nelle loro risposte feedback e nei loro loop automatici non verrebbero disturbate da presunte istanze di «riflessione». Evochiamo qui il verso un po’ enigmatico di una poesia di Borges: «È la porta che sceglie, non l’uomo». È questo l’impatto culturale, antropologico, di tali progressi nella neurobiologia. Un impatto che, come vedremo, trae tutta la sua forza storica quando alla comparazione teorica del cervello con la macchina facciano seguito le possibilità attuali di ibridazione del cervello con macchine «intelligenti», nel desiderio di un suo «aumento». Promesse di modificazione della memoria, di un aumento della capacità di comprendere e agire; siamo già in grado di far udire i sordi e di insegnare a muoversi ai paralitici, e prossimamente potremo far

vedere i ciechi. Riconosciamo qui due o tre «miracoli» che in questo caso non hanno nulla di sacro, e implicano invece una conoscenza e una modellizzazione del cervello molto concrete che dobbiamo studiare. Sarà allora certo, come pretendono i sostenitori del riduzionismo fisico-chimico, che niente è «atto», che tutto è movimento? In ogni caso, la questione non è né periferica né minore dato che, dopotutto, la differenza fra «atto» e «movimento» risiede, fondamentalmente, nel fatto che solo in un mondo e in un dispositivo in cui esistano degli atti può esistere un significato. Cominciamo un poco a comprendere forse il cambiamento di paradigma che va dalla comprensione alla previsione, ovvero dal significato degli atti alla possibilità di prevedere i movimenti. In un dispositivo meccanico, dove tutto è movimento, azionereazione, senza storia né singolarità, l’identificazione medesima di un movimento — vale a dire, il fatto di separare un segmento di movimento in un meccanismo e chiamarlo «movimento» — è già un poco arbitraria, dato che i movimenti meccanici si articolano gli uni con gli altri senza che esista la possibilità di determinare limiti, frontiere o obiettivi. Al contrario, tale identificazione è valida anche negli organismi più semplici, come può esserlo un’ameba: possiamo identificare l’atto di ritrazione e scivolamento dell’ameba quando cerca di distanziarsi da un ambiente acido, ad esempio, come un atto di base, certo, che ha però un significato per la sopravvivenza dell’organismo. Il significato dipende dal fatto che un organismo finito, cioè limitato, possa ritagliare e limitare unità discrete nel suo ambiente. Non si tratta necessariamente di intendere gli atti all’interno di una visione teleologica olistica, ma perlomeno nell’ambito di quella che Jacques Monod (1975) chiama «teleonomia», ovvero atti provvisti di un significato, quand’anche tale significato non si articoli con un «grande significato» globale. L’atto avrà significato poiché coordina un organismo che, per il fatto di essere limitato, può limitare e interpretare il suo mondo. Limitare e ritagliare il mondo vuol dire che un organismo, poiché possiede un principio organico di omogeneità, è capace di produrre unità omogenee a partire dalla eterogeneità del mondo. Indubbiamente il cervello umano è per eccellenza l’organo di

interpretazione e di delineazione del mondo più complesso che esista, ma che questo sia uno dei ruoli principali del cervello l’umanità ha dovuto scoprirlo, non è stato evidente fin dall’inizio. Nella sua opera che ebbe l’effetto storico di una bomba epistemologica, L’homme néuronal (L’uomo neuronale), Jean-Pierre Changeux (1976) inizia con la storia della scoperta, da parte degli umani, del cervello come luogo del pensiero o, per lo meno, come il luogo del coordinamento delle azioni degli uomini. L’autore fa riferimento a un papiro del XVII secolo a.C. che si riferiva a un manoscritto ancora molto più antico, risalente all’Antico Impero, ovvero circa all’anno 3000 a.C. In questo papiro, i geroglifici riferiscono quarantun casi di ferite alla testa e al collo ed espongono le conseguenze e le diagnosi legate a tali ferite. La scoperta è notevole, benché non sia evidente che la conclusione segnali direttamente che i cervelli pensano. Ma è questa la circostanza in cui il cervello appare per la prima volta con il suo nome e viene descritto. Per gli antichi egizi, come per i mesopotamici e gli ebrei, nonostante questo, sarà il cuore la fonte dell’intelligenza... Molto più tardi, per Platone e per Galeno, l’anima razionale si anniderà nel cervello, ma bisognerà attendere il secolo XVIII perché vengano poste le prime correlazioni fra il cervello come organo e le funzioni del pensiero razionale. Buridano e l’asino stupido La modernità aveva bisogno di vincere la guerra con il corpo. Questa affermazione può essere una pista appropriata per comprendere quel che a poco a poco si farà strada come le basi dell’Occidente, questa cultura che è stata chiamata «modernità» e che nasce in Europa, o più precisamente in Francia, rompendo con l’ancien régime. L’uomo della modernità, che inizia la sua salita lenta ma sicura verso la cima, può essere identificato più o meno a partire dall’anno 1100. Abelardo, che con Eloisa «inventa l’amore», sarà uno dei mitici fondatori della nostra epoca. Così, nel tribunale dell’Inquisizione di Soisson, san Bernardo accuserà il filosofo libertario di «voler vedere senza veli», ossia di pensare al di là del dogma. In effetti, Abelardo è

parte dell’inizio di questa rivolta in cui comincia ad autoprodursi una nuova figura antropologica e storica: l’individuo, l’uomo, capace di pensare da sé e per sé, ben al di là dell’autorità della Chiesa. L’invenzione dell’amore, che come riferisce la storia medievale inizia con Abelardo ed Eloisa, non è un fenomeno marginale in tale produzione dell’uomo della modernità. Al contrario, l’amore in Occidente è, a sua volta, una delle vie attraverso cui si produce questo stesso Occidente. Le unioni fra uomini e donne dipenderanno da allora sempre di più da un incontro «sincronico» fra due individui, lasciando indietro le ragioni «diacroniche» delle unioni regolate dal lignaggio. Con l’abbandono delle unioni forzate e stabilite in anticipo, appare la figura di un amore fatto di pura affinità elettiva personale e intima. Ciò avviene perché l’uomo possiede, da allora in poi, un’interiorità che è al tempo stesso soggetto dei suoi desideri. Chi l’avrebbe mai detto alla focosa Eloisa che il suo «fuoco» dipendeva dalla chimica del cervello! L’amor cortese e romantico, così come lo presenta ad Abelardo Eloisa nelle sue lettere, significa né più né meno che l’uomo non si considera più come una creatura mossa da forze esterne, bensì come un soggetto produttore di azione in sé e per sé. Emergono così al tempo stesso i due assi centrali del dispositivo: un’interiorità e un’intenzionalità. Gli atti, gli affetti, i pensieri dell’uomo non saranno più dettati da un’istanza diversa da quella dell’uomo medesimo, ben lungi dunque da qualsivoglia sovradeterminazione neurobiologica. Gli storici del Medioevo, come Ariès e Duby (1999), spiegano come dei meccanismi molto concreti partecipino allo sviluppo oggettivo e materiale di questa nuova figura: l’uomo. È importante, dicono questi autori, tenere presenti nuove pratiche che a loro volta sviluppano nuove dimensioni concrete: ad esempio, si estende la pratica della lettura silenziosa, dando avvio a questa soggettività che evoca un «giardino interiore», un dialogo interno a noi stessi, nuovi modi di percepire lo spazio e il tempo che, naturalmente, implicano delle modificazioni nella scultura neuronale così come la presenteremo più avanti. L’uomo comincia a emergere, comincia ad alzarsi in piedi. Più tardi Thomas Müntzer, uno dei capi delle cosiddette «guerre di religione», enuncerà, radicalizzando ciò che Lutero e Calvino avevano cominciato

ad affermare, che la storia ha le sue leggi e che spetta agli uomini conoscerle e anche trasformarle. L’umanità non si trova più di fronte a misteri impenetrabili: al contrario, la comprensione, l’indagine, la riflessione appaiono come consustanziali all’uomo, come il suo vero destino. L’uomo che sorge, non nel significato della specie umana ma come dispositivo antropologico e storico, è un’entità che pensa, ragiona, conosce e comincia a situarsi, di fronte a un mondo oggetto, come soggetto. L’inizio della comprensione del mondo come oggetto segnerà a sua volta l’inizio dell’esilio dell’uomo, che si allontana dal mondo per comprenderlo meglio. Se finora la verità dipendeva da un’interiorizzazione mistica che poneva l’uomo in rapporto con la divinità, da allora in poi la verità dipenderà dalla capacità dei cervelli umani di comprendere questo mondo che è loro esterno. Tale posizione rivoluzionaria incorreva direttamente nella condanna per pelagianismo, eresia che ricevette tale nome da Pelagio (1998) che nel secolo V, contro tutta la filosofia e la teologia del suo tempo, aveva scritto che l’uomo può riuscire a somigliare a Dio grazie ai suoi atti e ai suoi sforzi. Orrore ed eresia. Pensiamo, fra gli altri innumerevoli esempi, a quello della biblica torre di Babele: l’uomo non deve cercare di somigliare a Dio né di imitarlo. Finanche cercare di comprendere le proprie azioni costituisce un peccato suscettibile di mettere in pericolo l’ordine dell’universo: ricordiamo semplicemente gli effetti della citatissima mela della sapienza, con i diavoli e le donne seduttrici. È lo stesso Sant’Agostino (2002) che vi risponde, condannando Pelagio, in uno scritto che (affinché tutto fosse chiaro fin dal titolo) si chiama L’impotenza umana, seguito da un testo di Innocenzo III (2001), Della miseria umana, titolo che, anche se forse in modo un po’ esagerato, potrebbe corrispondere al nuovo paradigma neurofisiologico che scompone l’uomo in funzioni e moduli. È a partire dal nuovo millennio che le cose cominciano a cambiare, in questo territorio non solo geografico ma piuttosto soprattutto mentale, che si chiamerà «Occidente», e Pico della Mirandola (2008) scrive il Discorso sulla dignità dell’uomo. Si consolida la nuova figura, «l’uomo». La creatura comincia il suo lento e contraddittorio cammino di emancipazione rispetto al

Creatore. Stavolta la torre di Babele non sarà fatta di pietre e laterizi ma di ragione e libero arbitrio. È in questo contesto, culturale e storico, che Jean Buridan (1300-1358), un nominalista francese, immagina il dispositivo teorico che permette di spiegare ciò che nell’uomo si sottrae alle leggi puramente meccaniche del movimento per installarlo definitivamente nel ruolo di protagonista, di soggetto. Non dimentichiamo che se l’uomo dell’ancien régime, come quelli di altre culture come l’animismo, il totemismo e l’analogismo, si concepisce «mosso» da forze esterne, o se l’uomo del Medioevo si pensa come una creatura mossa per e dalla gloria di Dio, si tratterà d’ora in poi di spiegare che la forza motrice, la causa delle azioni, è l’uomo medesimo. Buridano immagina uno schema in cui un asino si trovi di fronte a due mucchi di fieno (alcune versioni parlano di acqua e fieno); l’asino ha fame ma, trovandosi a una perfetta equidistanza dai due mucchi, che farà? Semplicemente, morirà di fame. Ciò che Buridano cerca di mostrare è che l’asino, assoggettato alle leggi della pura meccanica, è strattonato da due forze di identica intensità che lo attirano in direzioni simmetricamente opposte, il che determina l’annullamento di qualunque movimento. La «genialità» del nominalista risiede nel fatto che egli cerca di mostrare che cosa accadrebbe se il mondo fisicomeccanico non esistesse o venisse annullato. Creare un’esperienza al di fuori delle forze fisico-meccaniche non è possibile, ma Buridano pensa che, se si annullano per simmetria, tutto avverrà come se il meccanico non esistesse. È per questo che l’asino (natura puramente meccanica) resta paralizzato quando le forze che lo determinano si neutralizzano. Quod erat demonstrandum. Nel mondo meccanico non esiste nulla che superi le forze senz’anima della meccanica. Allora, continua Buridano, se invece è un uomo a trovarsi nella stessa posizione, lui sì potrà scegliere dato che, una volta che le forze meccaniche si siano eliminate tra loro, apparirà con chiarezza l’istanza non meccanica, l’atto, frutto della libertà libera, del libero arbitrio dell’essere umano, capace di agire senza alcuna costrizione contestuale. L’uomo può porre in essere atti che siano causa sui. Questa istanza che offre la possibilità di sottrarsi a quanto è puramente meccanico sarà chiamata «anima», «coscienza»... «cervello umano». Troviamo qui le tracce e le basi del futuro discorso

di Cartesio, che dominerà e costituirà la base dell’Occidente per secoli. Ciò che è animale, ciò che è somatico, i corpi sono assoggettati alle forze meccaniche del movimento senza significato; al contrario, il cervello dell’uomo sarà il luogo del libero arbitrio, il luogo della non determinazione, il luogo della produzione di significato. Vedremo allora in che modo le neuroscienze bucano e mettono in discussione queste teorie, con asini, che sono di sinistra o di destra, e uomini che muoiono di fame nonostante il fieno abbondante. Il corpo è sempre «già» in movimento, non esiste un simile momento di simmetria pura in cui un’istanza spirituale di conoscenza e coscienza del contesto dia un ordine: il corpo in movimento è asimmetria. Allo stesso modo, come vedremo, qualunque fenomeno proprio della vita dipende dal fatto che la stabilità dell’organismo vivente si trovi lontana dall’equilibrio. Per la vita, equilibrio e simmetria indicano soltanto la morte. 1

In francese nell’originale.

CAPITOLO SECONDO

QUANDO IL CERVELLO COSTRUISCE UN MONDO Il cervello raccoglie costantemente una serie immensa di stimoli a cui normalmente facciamo riferimento parlando di «informazioni» o di «conoscenza». Il compito principale del cervello consiste, allora, nell’immaginare — in questa sorta di continuità amorfa — che cosa sia «il mondo»: linee curve, limiti, forme ritagliate che non sono già ritagliate nel mondo e dal mondo. Pensiamo a quei giochi per bambini in cui su una sagoma di cartone c’è un disegno delimitato da alcuni puntini seguendo i quali il bambino deve ritagliare la figura. Il cervello deve «discretizzare» ovvero «rendere discrete» o «porvi limiti», ritagliare forme da ciò che appare o esiste come un continuum di stimoli. Possiamo dire che solo in una visione troppo ingenua del realismo si crede che quel che viene percepito dal cervello corrisponda esattamente a qualcosa che esiste così, in quella forma e in quelle relazioni, nel mondo come un «mondo dato». Vale a dire che solo un realismo un po’ primitivo può illudersi che quel che viene percepito da ciascuno dei nostri sensi rifletta esattamente quel che esiste nel mondo. In primo luogo, allora, per comprendere tale «produzione di

realtà» come compito del cervello, devo fare un piccolo chiarimento sulla differenza radicale che esiste tra informazione e conoscenza. Diciamo che l’idea più semplice della conoscenza è quella che consiste nell’affermare che, una volta che sappiamo come andare dalla fermata Costituzione alla fermata Ritiro, abbiamo acquisito un’informazione della quale potremo valerci quando ci sia necessario farlo. Nel tempo dei computer possiamo immaginare che in qualche posto del cervello un disco rigido conservi tale informazione nella speranza che uno stimolo riattivi tale dato immagazzinato. Nell’esempio del tragitto da Ritiro a Costituzione, qualcosa ci appare con chiarezza: questo percorso che ora ci è noto esisteva «in sé», indipendentemente dal fatto che lo conoscessimo, che qualcuno lo conoscesse o che non lo conoscesse nessuno. Questa è la concezione predominante oggigiorno, ma devo dire che, da un punto di vista epistemologico e neurofisiologico, non è solo ingenua ma anche errata. Per cominciare, enunciamo un principio epistemologico di base, che ci serve per sviluppare questo punto: quando conosciamo qualcosa di una cosa, ciò che conosciamo è il conoscibile della cosa, non la cosa stessa. Conoscere il conoscibile della cosa non implica né un’impossibilità agnostica di conoscere né una posizione puramente kantiana, nel senso di conoscere un «per sé» che eclissa per sempre un «in sé». Non significa né una posizione di tipo agnostico cioè l’impossibilità di conoscere, e neppure la posizione classicamente kantiana secondo cui abbiamo accesso a un «per sé» fenomenico che ci priva per sempre di un «in sé» della cosa. Il conoscibile della cosa è una dimensione comprodotta fra chi conosce e la manifestazione della cosa. Esiste quindi un resto, una «x» che non permette che la conoscenza offra una trasparenza finale della cosa. Possiamo dire che la conoscenza desidera la cosa, ma ottiene il conoscibile. Per il cervello, la conoscenza non è mai uno stadio passivo su cui il mondo imprime i suoi segni. Al contrario, è sempre un’attività del cervello nel processo di produzione di tale interfaccia fra colui che conosce e la cosa quel che viene prodotto dalla conoscenza.

Forse è per questo che possiamo parlare di una nostalgia della conoscenza, poiché desiderando l’unione con la cosa non si ottiene nel processo niente di più dell’interfaccia della conoscenza. Tale «nostalgia», però, non è dovuta a un errore o a una mancanza nell’attività del conoscere. Al contrario, la conoscenza non si vede deprivata di una parte nascosta ma, se non può giungere alla totalità, di cui magari sente la mancanza, ciò dipende dal fatto che si trova sempre in un processo dinamico di comproduzione: si tratta sempre di un fenomeno e non del disvelamento di ciò che è nascosto. Per comprendere il funzionamento di cattura o di arresto e di quel che chiameremo «coscultura» del mondo da parte del nostro cervello — indissociabilmente dal nostro corpo —, dobbiamo ricorrere a due autori in linea di principio piuttosto diversi l’uno dall’altro. Si tratta di Gottfried Wilhelm Leibniz (filosofo del secolo XVII) e di Francisco Varela (biologo protagonista di una vera e propria rivoluzione nella fisiologia della percezione, che ho avuto la fortuna di conoscere e con cui ho potuto scambiare lavori e ipotesi negli anni che precedettero la sua morte prematura). Entrambi gli autori cercano di comprendere come funzionino i meccanismi di percezione e di «discretizzazione» che stabiliscono limiti, ritagliano una realtà dal fluire continuo del mondo finché questa non emerge in termini di immagini percettive nel cervello. Leibniz prospetta che si debbano tenere presenti almeno tre livelli nello sviluppo della percezione. Il primo è quello della percezione propriamente detta. In questa dimensione possiamo affermare che i corpi si trovano in una dimensione non separabile, vale a dire che le molecole e i flussi di energia interagiscono influenzandosi reciprocamente. La dimensione della percezione è la percezione del continuo, in cui le parti «estensive» dei corpi (vale a dire, le molecole, gli atomi, l’interscambio di energia, ecc.) sono influenzate e influenzano l’ambiente in cui il corpo si trova. Il secondo livello è quello che Leibniz chiama «appercezione». Qui ci troviamo già in una dimensione in cui un corpo possiede la capacità di «registrare» che gli sta succedendo qualcosa. Un «io» limitato e circoscritto a un’unità registra — per dir così — che sta accadendo qualcosa e che lo riguarda. Nella appercezione possiamo dire che emerge un’immagine

unificata della «cosa», nel senso che questa riguarda l’organismo in questione. Per il momento, queste immagini emergenti nell’interiorità dell’organismo non implicano necessariamente che si tratti di un organismo con un SNC (sistema nervoso centrale). Oppure, nel caso di un organismo con un SNC, in ogni modo l’emergenza di un’immagine unificata di ciò che lo sta interessando non è solo cerebrale ma al tempo stesso e forse prima di tutto corporea. Vale a dire che il corpo, in quanto corpo, può reagire, identificare una serie di stimoli in un’unità appercettiva che, per l’organismo in questione, possiede un «significato». Con «significato» non sto alludendo qui a un significato simbolico, bensì a un significato corporeo come quello esemplificato prima dell’ameba che, in un ambiente acido, tende a ritrarsi. Nell’appercezione esiste una unificazione. È questo che permette all’organismo di reagire, sempre in linea con i «comportamenti propri» della specie a cui appartiene. Se invece di poter essere unificati da un’immagine appercettiva gli stimoli restano una pura molteplicità amorfa al livello della percezione propriamente detta, quel che avviene è che l’organismo non potrà agire. Sarà semplicemente e passivamente colpito con le conseguenze che verranno determinate dall’ambiente: dissolversi, bruciarsi, intossicarsi, ecc. Pensiamo al caso in cui ci ritrovassimo a essere vittime di radiazioni emesse da una fonte radioattiva. Questa agisce al livello percettivo, vale a dire che scatena una serie di fenomeni e di processi nel nostro organismo (parti estensive) senza che in nessun momento possa emergere una forma appercettiva che, unificando gli stimoli, ci permetta di agire (tenendo presente che questo «agire» è a sua volta limitato e reso possibile da una batteria ristretta di quelli che Varela chiamerà «comportamenti propri»). Ciò significa che nella dimensione percettiva gli organismi reagiscono passivamente (in modo feedback) all’ambiente. Al livello appercettivo emerge la possibilità di agire non più solo in termini di reazione meccanica, bensì in accordo con le caratteristiche proprie di ciascun organismo. Leibniz dà come esempio di questa differenza quella delle onde del mare. Ogni corpo colpito dal rumore prodotto da milioni di

microgocce percepisce queste onde sonore, reagisce o no (nell’uno e nell’altro caso con una reazione meccanica) a questi milioni di microstimoli. Ma affinché esista più tardi l’appercezione di un’onda, è evidentemente necessario che, in maniera infinitesimale, milioni e milioni di microgocce d’acqua abbiano interagito con i nostri corpi. Al livello esatto delle gocce d’acqua che interagiscono con l’aria, la terra e i nostri timpani e corpi, siamo nella dimensione della «percezione»; non possiamo «appercepire», registrare le gocce infinitesimali. Ma a partire da un certo punto, emerge in interazione con il nostro udito, il nostro corpo, il nostro sistema nervoso centrale quel che appercepiamo come l’onda. Il punto in cui si passa dalla percezione all’appercezione (l’effetto zoccolo o base) dipende, chiaramente, da specie a specie e presenta una certa variabilità. Ovvero possiamo dire che per la maggior parte dei mammiferi l’effetto zoccolo produrrà l’immagine uditiva «onda». Immaginiamo però una formica, o addirittura un microbo: gli zoccoli di appercezione determinano che per loro, i quali vivono in un altro mondo percettivo, l’onda non sia mai esistita. Tornando all’analisi di Leibniz, arriviamo a un terzo livello, che nel caso degli organismi in possesso di un funzionamento riflessivo che produce immagini evocabili consciamente è quello della coscienza. I mammiferi in generale possiedono meccanismi di coscienza in questo senso, vale a dire che possono produrre, a partire dalle appercezioni — tanto esterocettive quanto propriocettive — immagini coscienti nel loro cervello. I cervelli capaci di produrre immagini coscienti possiedono, evidentemente, strumenti molto più potenti rispetto a quelli degli altri poiché possono produrre queste immagini a partire da stimoli parziali o finanche autoprovocarle attraverso vari stimoli propriocettivi. Possiamo quindi dire che un cane o un ratto sono capaci — a partire da stimoli esterni o interni — di evocare le immagini di oggetto totalmente o parzialmente assente. Una mascotte, sulla base del nome del suo padrone, può produrre le immagini gradevoli che sono associate al suo nome; tali immagini si producono nel cervello grazie all’affiorare di forme geometriche articolate; il cervello geometrizza il mondo per ricostruirlo. Abbiamo già fatto l’esempio del martin pescatore che riesce a

effettuare un calcolo dell’entità del riflesso dell’acqua, anche tenendo conto dei livelli diversi e cangianti di opacità dello stagno o della laguna, grazie alla produzione di forme geometriche nella sua corteccia cerebrale. Queste forme geometriche sono derivate dai movimenti che l’animale pensa di dover compiere per catturare la sua preda. Come vedremo, nel caso della coscienza umana esiste per lo meno una dimensione possibile in più, cioè la capacità di una coscienza autoriflessiva — propria dell’umano —: la possibilità di essere coscienti di essere coscienti. La coscienza riflessiva è, d’altro canto, quella che costituisce l’interfaccia con le strutture simboliche, culturali, tecnologiche, ecc. Implica una vera e propria «fuoriuscita da sé». Per pensare quello che pensiamo, lo facciamo da strutture e combinazioni che sono a noi esterne, queste strutture esterne che ci catturano e a cui partecipiamo. Il pensiero non è un processo personale, non lo è in ogni caso il pensiero strutturato, simbolico e logico-formale. Al contrario, in quanto esseri umani pensiamo da strutture esterne alla nostra individualità: il pensiero e i suoi processi si possono comprendere come una specie di catena di montaggio a cui gli uomini prestano le loro forze: la produzione è maggiore degli operai che partecipano alla catena. Allora, se possiamo considerare che l’appercezione è un sottoinsieme della percezione, a sua volta la coscienza sarà un sottoinsieme dell’appercezione. Nel passaggio da una dimensione all’altra si verifica una perdita di «informazione» (concetto un po’ vago). Non sarebbe dunque esatto pensare la coscienza come il vertice superiore di una piramide che avesse la base formata dai fenomeni della percezione e una parte intermedia costituita dall’appercezione, poiché i fenomeni coscienti sono — per così dire — lacunosi, non continui. I livelli coscienti non funzionano come una sintesi — Aufhebung nei termini di Hegel — dei processi percettivi e appercettivi; i meccanismi coscienti operano in cicli permanenti di retroazione e interazione con gli altri livelli. Da questo punto di vista, se vogliamo usare l’immagine della piramide, dobbiamo immaginare una formazione del tutto atipica in cui la coscienza «vertice» si sposta in continuazione da un lato

all’altro, oppure una piramide con vertici multipli e dispersi. Nelle prime due dimensioni i processi non devono comprendere una quantità di informazione codificabile, al contrario tutto ci induce a pensare che le interazioni in queste dimensioni non sono né codificate né codificabili. Vale a dire, le interazioni percettive e appercettive esistono in processi di continuità non ritagliabili in unità discrete. Tutto il corpo è impegnato nel livello percettivo, poiché è catturato dall’interazione sottile di ciò che esiste come un campo fenomenico. Sarà il sistema nervoso centrale (quando esiste) che si occuperà di registrare l’emergenza di un livello appercettivo. Tuttavia, negli animali e nelle piante che non possiedono un sistema nervoso centrale, l’appercezione funziona come una specie di delimitazione fra un «io» e un «non io» (nel senso più basilare di un dentro e di un fuori) la quale permette che gli organismi più semplici e i vegetali reagiscano e interagiscano con il loro ambiente non in termini di puro feedback ma in linea con la propria singolarità. Qui vediamo apparire la differenza fra un organismo, come forma autoorganizzata, e un artefatto. La differenza risiede appunto nel fatto che gli organismi producono «significato», mentre gli artefatti o gli aggregati in generale esistono solo al livello dell’interazione feedback. Analizzeremo le modalità di esistenza di un aggregato e, in particolare, di un artefatto. Vedremo che essendo questo programmato, prodotto per compiere determinate funzioni, le sue parti reagiscono agli impulsi o agli ordini dell’ambiente. Le differenze con l’organismo sono strutturali: un artefatto non possiede in alcun caso un’interiorità a partire dalla quale possa porre in essere comportamenti propri. La produzione delle forme emergenti non dipende, allora, da un’azione meccanica passiva in cui l’organismo registrerebbe quel che gli viene offerto. Con «effetto zoccolo» si intende il fatto che, una volta che l’organismo cattura gli stimoli che gli arrivano, questi vengono ordinati con i pattern cerebrali che esistono. È ciò che Varela chiama «enazione», con un neologismo che include la radice in action. Ciò vuol dire che sono i pattern propri di ciascun organismo, di ciascuna specie, con minime variazioni fra i suoi membri, quelli che determinano le forme che emergeranno a partire dagli stimoli offerti.

Una mosca non enagisce l’ambiente allo stesso modo in cui lo fa un gatto, e nessuno dei due lo fa come un essere umano. L’esempio approssimativo del carillon può risultare efficace. Un carillon agitato dal vento produce le note musicali determinate dalla sua costituzione e struttura. In questo caso prendiamo il vento che lo agita come l’insieme amorfo dell’ambiente e il suo modo permanente di produrre effetti percettivi nei corpi; in questo modo, il suono prodotto dal carillon ci parla della struttura dell’oggetto e non di una musica che esisterebbe nell’ambiente e della quale il carillon si trasformerebbe in un apparecchio emittente o in un traduttore. In sostanza, il fenomeno di produzione di suoni ci parla del carillon, non del vento. Qui non ci troviamo, è chiaro, di fronte a un organismo che enagisca, ma in ogni caso il funzionamento del carillon mostra la relazione fra ciò che viene prodotto e il dispositivo di produzione. Si tratta di comprendere che la produzione di immagini, l’enazione, non ci parla di un funzionamento legato soltanto ai cervelli: è tutto il corpo ad agire. In questo modo, possiamo dire ad esempio che una mela non è commestibile come se la qualità di essere commestibile appartenesse intrinsecamente alla mela, perché può essere mangiata da alcuni animali. In questo esempio, come in quello del carillon, il fatto che la mela sia o no commestibile ci parla molto più dell’organismo che della mela in sé. Basta pensare alla famosa opera di Molière Il medico per forza (Le médecin malgré lui), quando il presunto medico, cercando di spiegare perché la paziente si addormenti assumendo oppio, dice che dipende dal fatto che l’oppio possiede una qualità soporifera. Il fatto è che in realtà l’esperienza è una relazione attiva con i dati, con quanto ci è dato, non è solo un sentire. È anche, allora, una tendenza e un desiderio, una produzione di relazioni e una possibilità di valutazione. Per questo possiamo dire che ogni conoscenza è un’esperienza, ma non potremmo affermare il contrario. Così, quel che chiamiamo «manifestazione della cosa» dipenderà e cambierà a seconda delle diverse costituzioni degli organismi che interagiranno con essa. Negli organismi più complessi, tali manifestazioni saranno più ricche e varie, dipendendo ogni volta da più variabili, in buona parte acquisite non solo grazie alle

caratteristiche proprie della specie, ma anche a quelle del sottogruppo. È chiaro che i cervelli e i corpi producono un mondo perché, in realtà, a partire dalle caratteristiche di ogni organismo e di ogni specie si sviluppano i fenomeni di coevoluzione e di cofabbricazione dell’ambiente e delle specie, in una serie di costruzioni mutue e dinamiche. Le immagini prodotte dai cervelli determinano i comportamenti della specie, il che produce una scultura dell’ambiente che a sua volta agisce sulla specie. Gli organi possiedono, quindi, un’interiorità che genera, attraverso comportamenti propri, un’intenzionalità; ciò è dovuto al fatto che il mondo dell’organico è qualitativamente diverso dal mondo fisico.

CAPITOLO TERZO

LA TEMPORALITÀ DEL CERVELLO: LA MACCHINA DEL TEMPO Il cervello, al pari dell’insieme del mondo biologico, possiede una temporalità particolare: la temporalità biologica, che corrisponde a cicli e ritmi che non obbediscono alla temporalità lineare del mondo della fisica. Tale temporalità complessa è la temporalità biologica e il cervello funziona con un grado di complessità forse superiore; questo tipo di temporalità non lineare si manifesta nel suo punto e nella sua forma culminanti nel funzionamento e nella temporalità del cervello. Le opere dell’epistemologo italiano Giuseppe Longo sulla temporalità biologica puntualizzano che ciò che è vivo possiede una fenomenologia propria, che è originale. Ciò che è più rilevante nella sua differenza dalla temporalità fisica si manifesta indubbiamente nei casi di natura ciclica: ciclo cardiaco, ciclo respiratorio, cicli circadiani, ma soprattutto nei cicli e nei ritmi cerebrali. Contrariamente al tempo fisico, questi cicli e questi ritmi sembrano avere una natura irreversibile fondamentale: conoscenza, nutrimento, sviluppo, invecchiamento, evoluzione, ecc. Quasi tutti gli organismi che funzionano in base a tali cicli

coordinati possiedono quelli che vengono chiamati «orologi interni». Questi orologi, va detto chiaramente, non sono caratterizzati dallo stesso tempo né dalla stessa durata del tempo fisico. Siamo così abituati a considerare il tempo lineare fisico (che è reversibile: si pensi alla possibilità che un elemento passi da un lato all’altro del segno; si tratta del fatto che nel mondo della fisica il tempo è, in linea di principio, reversibile; non c’è quella che si chiama una «linea del tempo») che facciamo fatica a prendere atto del fatto che tale misura lineare sia arbitraria e che lo siano da un tempo molto breve — e solo in Occidente la misura del tempo è stata unificata — in un certo modo i fenomeni e i processi che con essa si misurano. Così, ad esempio, possiamo dire che il tempo misurato che esiste fra le ore 13 e le ore 14 è uguale al tempo che esiste fra le ore 23 e le ore 24. La domanda è: che cos’è uguale? Ciò che è uguale è la misura. I processi che esistono dietro questa misura non hanno alcun punto di comparazione. Né per le piante, né per gli animali, né per le maree, né per nessuno è successa la stessa cosa. Il tempo fisico crea così un’illusione di identità che, applicata a fenomeni fisici reversibili e lineari, è molto utile, ma dipende da che cosa vogliamo farne. Lo ripeto, è interessante ricordare che l’unificazione di tempi, misure e pesi è molto recente. Si è trattato di un lavoro effettuato agli inizi del XX secolo a cui parteciparono fra gli altri il fisico tedesco Albert Einstein e lo scienziato francese Henri Poincaré i quali, prima di essere i geni che oggi riconosciamo, si occuparono dell’«unificazione delle misure» in due Paesi e laboratori differenti nella stessa epoca. Dunque i cosiddetti «orologi biologici» sono meccanismi di regolazione e autoregolazione dei corpi. Non misurano, ma accompagnano i ritmi dei processi reali che esistono dietro le misure. Questi processi hanno velocità, modi, ritmi e fasi multiple e variate che solo in una misura esterna possono corrispondere a minuti, secondi, ore. Nella realtà, gli organismi viventi esistono per lo meno in due dimensioni del tempo e dello spazio. La prima è quella del tempo e dello spazio fisici, sottolineando qui che non si tratta di tutta la fisica ma di quella newtoniana, quella per cui il tempo e lo spazio sono il

dato, lo scenario in cui deve svilupparsi la vita. Ma nelle altre fisiche, che corrispondono ad altre geometrie, come le geometrie non euclidee — per lo meno due, quelle di Riemann e Lobachevski, sono geometrie con spazi di dimensioni multiple, non solo tre dove, ad esempio, da un punto esterno a una retta passano infinite parallele o lo spazio curvo —, tempo e spazio si trovano già più vicino a ciò che è biologico. Senza essere uguali, per lo meno possiamo dire che il tempo e lo spazio in queste fisiche sono ciò che dipende dai corpi in movimento e non da un accordo preesistente. In questo senso, gli organismi non solo non abitano uno spazio e un tempo, ma appunto modificano e creano spazi e tempi che corrispondono obiettivamente alle loro attività corporee. Come scrive Poincaré, esistono tante dimensioni dello spazio quanti sono i muscoli di un corpo. Torneremo più avanti su questo concetto quando parleremo della scultura del cervello. Per ora, restiamo su tale concetto: come funzionano i cervelli in questa temporalità che si ritrova in una tensione permanente fra la ritenzione e la propensione. Pensiamo la ritenzione come il mantenimento elementare del passato e la propensione come un prolungamento (il cervello calcola e prevede) elementare del futuro. Queste componenti sono il risultato dell’attività biologica del cervello, ma implicano sempre una certa passività o ritardo rispetto alla situazione presente, sincronica o immediata. Il biologo francese Francis Bailly e Giuseppe Longo (2006) concettualizzano tale temporalità e tale modalità del cervello dicendo che condividono o producono un «presente esteso» o ciò che è stato chiamato in altre opere «presente multidimensionale». Tempo e presente che, a differenza del mondo fisico, possiedono ciascuno una struttura complessa interna. Così, la temporalità biologica del cervello può essere presa in esame come se fosse costituita da una tensione fra un passato prossimo e un futuro virtuale. Ciò pone il cervello in una certa dislocazione rispetto al mondo esterno. Tale dislocazione conserva certo una corrispondenza, per lo meno parziale, con il tempo fisico. Torniamo per un momento ai meccanismi di percezione e coscienza. In un primo tempo, che potremmo dire istantaneo o in armonia con il tempo della situazione, si sviluppano i processi di

percezione. L’appercezione implica, senza dubbio, un secondo tempo. Anche se esisteranno sempre loop di retroazione, andate e ritorni, composizioni e ricomposizioni, perché emerga l’immagine appercettiva bisognerà che l’attività nel primo momento della percezione sia giunta a compimento. Da questo punto di vista, la coscienza, i fenomeni di emergenza di immagini coscientemente enagite, sarebbero parte di un terzo tempo. È questa la base concreta della dislocazione biologica e cerebrale. Anche tenendo conto, come facciamo qui, del tempo fisico, la dislocazione è inerente all’attività stessa della coscienza, che non agisce mai in tempo reale. Il cervello, funzionando fra queste due dimensioni della temporalità, possiede ciò che potremmo chiamare allora «dimensione intensiva» della vita, che non corrisponde alla dimensione estensiva del tempo fisico. Questa dimensione intensiva è quella che ci permette di comprendere che un cervello non vive la stessa quantità di vita di un altro per il solo fatto di aver avuto lo stesso tempo fisico. La durata lineare del tempo non è l’elemento centrale per comprendere la vita cerebrale. Una persona che sviluppi connessioni cerebrali, che scolpisca il suo cervello con apprendistati ed esperienze potenti e ricche, vive concretamente più vita di una persona la cui attività cerebrale sia minima. Esistono, in una stessa unità di tempo, differenti quantità di vita per ogni cervello. Questo tipo di osservazioni è in un certo modo banale quando lo pensiamo da un punto di vista soggettivo. È chiaro che un’ora di noia non sembra la stessa di un’ora di allegria; per non parlare di un’ora di tortura. Quel che il cervello ci permette di constatare è che, obiettivamente, la quantità di vita intensiva è differente da un cervello a un altro, a seconda di quel che ciascun cervello sperimenta.

CAPITOLO QUARTO

LA SCULTURA DEL CERVELLO Il senso comune — sostenitore delle ipotesi tecnologiche del cosiddetto «uomo neuronale» — identifica il cervello umano con un computer o, per essere più precisi, con una macchina di stadi discreti o Macchina di Turing (MdT). Una Macchina di Turing è capace di elaborare una quantità enorme di dati e di «trarre conclusioni» a partire dall’utilizzazione degli algoritmi del programma incorporato, il software. In questo modo, il cervello è equiparato, per la sua parte materiale, all’hardware e, per il suo funzionamento al software. Pensiamo quindi che l’intelligenza umana sia puramente «logicocomputazionale» o, detto in un altro modo, che non abbia una relazione di dipendenza rispetto ai corpi e ai contesti. Se fosse questo il caso, potremmo — come affermano i difensori dell’intelligenza artificiale — riprodurre il funzionamento del pensiero umano con una macchina che elaborasse eccanicamente serie finite di simboli — 0 e 1 — e che codificasse formule logiche. Questa tesi tralascia quel che è la nostra presenza: siamo corpi dentro al mondo, formiamo parte di questa unità di esseri pensanti perché siamo esseri viventi. Alla MdT non piace combattere con il caso. Nel linguaggio informatico il caso sarebbe semplicemente un’imperfezione mentre nel mondo biologico il caso è, con la sua variabilità permanente, una costante dell’organismo.

Negli esseri viventi non incontriamo questa differenza tra materiale e software. Quel che troviamo nei cervelli è che apprendimenti ed esperienze differenti modificano e scolpiscono il cervello stesso. Non si accontentano di percorrere circuiti stabiliti. Il cervello seleziona e integra una pluralità di sensazioni che, a loro volta, lo modificano in continuazione. In questo meccanismo di modellamento del cervello sono fondamentali il movimento del corpo e le sue relazioni sensomotorie a vari livelli, sia corticali sia subcorticali. La parte corticale del cervello è quella apparsa più recentemente nell’evoluzione della specie. È la parte esterna, dove hanno luogo le attività legate alla coscienza. Il resto si trova più in profondità, nei nuclei subcorticali incaricati di altre funzioni. Gli stimoli che arrivano al cervello dipendono, in gran parte, dal movimento del corpo, dove il cervello esiste, e non solo da informazioni codificate coscienti. Le componenti fondamentali dell’integrazione cerebrale provengono dalla percezione muscolare. In questo modo il cervello viene informato in modo permanente degli zoccoli variabili delle tensioni muscolari. Questi processi corporei sono fondamentali nei meccanismi dell’apprendimento, nella memoria e nella scultura cerebrale. Un cervello funziona sempre in modo situato. Vale a dire che è situato in un corpo che esiste in uno spazio, contrariamente a una MdT che funziona in modo autoreferenziale e senza un interscambio dinamico aperto con il mondo, e neppure con il tavolo su cui la macchina è posta. È importante tener conto del fatto che, per noi, il significato stesso dello spazio è imprescindibile affinché nel livello corticale possa emergere un concetto matematico dello spazio. Ma questa integrazione cerebrale che ha bisogno dello spazio è ben lungi dal ridursi all’attività corticale simbolica. Esiste quella che possiamo chiamare «intelligenza subcorticale» del movimento, che non ha una rappresentazione esplicita e nemmeno simbolica, ma che partecipa all’emergenza di qualunque livello simbolico come condizione necessaria e indispensabile. Nella produzione del pensiero simbolico, così come in ciò che si può esprimere concettualmente, interviene un substrato presimbolico non codificabile, che costituisce una condizione indispensabile

affinché il pensiero si dispieghi. Tutto avviene come se quanto è pensato, quanto è più altamente simbolico, trascinasse con sé necessariamente parti di tale substrato che gli dà sostanza. Così, ad esempio, la riproduzione di una distanza sarà elaborata dal cervello attraverso la comparazione fra simulazioni esterne di movimenti memorizzati insieme alla informazione dei sensi. Come spiega Alain Berthoz (1997) nel libro Il senso del movimento: «Il cervello è un comparatore che misura le differenze fra le sue predizioni basate sul passato (la memoria e le esperienze che lo hanno costruito) e le informazioni che raccoglie sul mondo in funzione di un dato obiettivo». La simulazione è un meccanismo fondamentale nel cervello. Gli stessi neuroni e le zone cerebrali si attivano quando facciamo un gesto, quando lo vediamo fare a un’altra persona e quando lo evochiamo. Pensiamo ai tanto pubblicizzati neuroni specchio, questa serie di neuroni cerebrali che si attivano quando la persona ne vede un’altra fare qualcosa, ovvero che si attivano a specchio, come se la persona stesse facendo essa stessa quel che vede fare. È per questo che il cervello fatica a distinguere quel che è prodotto da un’allucinazione da ciò che è frutto di un’esperienza concreta. Come succede con le macchine più efficienti che, agendo sui centri cerebrali appropriati, producono le stesse reazioni e sensazioni di un’esperienza reale. Alain Prochiantz e Giuseppe Longo (2006) precisano che è importante tenere presente che, appunto, l’integrazione e la scultura del cervello non si verificano una volta per tutte né a un solo livello. Il cervello dei bambini, ad esempio, ha uno sguardo sul mondo che possiamo definire egocentrico; dipenderà dalle esperienze di vita e dallo sviluppo materiale del sistema nervoso centrale come si realizzerà la costruzione di molteplici riferimenti allocentrici; spaziali, certo, ma anche emozionali e intenzionali. All’inizio solo i primati possiedono una visione allocentrica dello spazio, vale a dire che possono — possiamo — rilevare la distanza fra due alberi, fra il tavolo e la sedia, senza considerare in modo ponderato la loro posizione nello spazio. È questa la base cerebrale per poter cominciare a dar vita a una geometria oggettiva. È chiaro che se si presta fede alla credenza «cervello = Macchina di

Turing (MdT)» nulla succede in questo modo. Le informazioni che immettiamo nella macchina entrano in un sistema che è, per eccellenza, «non situato» o, detto altrimenti, non si prende in considerazione la sua situazione materiale. Il computer è programmato e pensato per ripetere in permanenza in modo identico. Non può — né desideriamo possa — sorprenderci. Al contrario, vogliamo che tutto ciò che «è dentro» stia bene e nel posto in cui deve stare, e che tutte le volte che lo vogliamo la macchina possa ripetere il procedimento nella maniera esattamente identica. Il cervello, sotto questo punto di vista, funziona molto meglio come un sistema dinamico e sensibile alle condizioni iniziali e ai cosiddetti «effetti di frontiera». Vale a dire che stimoli minimi sono in grado di provocare grandi cambiamenti non prevedibili e a loro volta grandi cause possono determinare piccoli effetti concreti. La complessità del cervello consente che avvenga il contrario di ciò che progetta la MdT. Avviene così nel caso di gravi lesioni cerebrali che, compensate dal cervello, si constatano o post mortem o in occasione di analisi effettuate per qualcos’altro. Pensiamo a una MdT: ogni parte danneggiata del nostro disco rigido ci lascia privi di ciò che conteneva. Il computer non può compensare, per integrazione di funzioni, la parte colpita. Il cervello, invece, sì. La sensibilità alle condizioni iniziali, propria dei sistemi complessi, è quel che è stato chiamato «effetto farfalla» (in un sistema complesso come l’atmosfera terrestre, il battito d’ali di una farfalla a Parigi può provocare un maremoto in India, nel senso che cause piccole non prevedibili possono provocare effetti maggiori) o «sistema caotico». In realtà, prima che venisse denominato in questo modo, già Poincaré (1979) aveva gettato le basi di queste dinamiche complesse e caotiche, in cui non si osserva una simmetria regolare della relazione causaeffetto. Gli organismi viventi sono estremamente sensibili alle piccole variazioni dato che, nel biologico, la stabilità del sistema dipende dal fatto che l’organismo si trovi in permanenza lontano dall’equilibrio. Per un organismo biologico l’equilibrio non è la sua stabilità bensì la sua morte. Come abbiamo visto, ciò dipende dal fatto che un organismo è sempre limitato e autoregolato. La Macchina di Turing (MdT) funziona senza quelli che

chiameremmo «limiti di autoregolazione». Al contrario, le è sempre possibile aumentare la propria potenza, è tipico della tecnologia cercare di farlo. Ma nel caso del cervello umano ciò che possiamo chiamare «il nostro io» si forma in relazione con il mondo, in cui i limiti propri del nostro corpo e delle nostre capacità cerebrali non solo non sono un problema, quanto piuttosto la condizione medesima di qualunque conoscenza e pensiero. Una macchina senza limiti tesaurizza informazioni, un corpo con dei limiti produce un universo di significato. Esperienze di laboratorio mostrano che un ratto può costruire una visione cerebrale allocentrica, può cioè immaginare se stesso, nella sua mappa cerebrale, includendovisi, nello spazio che percepisce, non come centro. È evidente che, da questo punto di vista, la geometria non può essere considerata come una scienza delle figure, bensì come una scienza dello spazio nel modo in cui la presenta Riemann. La percezione, come abbiamo visto, non è una rappresentazione passiva nel cervello: è sempre un’azione simulata che viene proiettata sul mondo a partire dalle produzioni geometriche elaborate dal cervello. Come scrive Poincaré (1979): «Localizzare un corpo nello spazio significa poter produrre nel cervello la rappresentazione del movimento che occorre per raggiungerlo». Questa rappresentazione evoca le sensazioni muscolari che accompagnano tale movimento. Lo spazio, per il cervello, non è concepito come uno scenario ma è soprattutto la presenza dei corpi, i «solidi naturali»; allo stesso modo in cui i nostri stessi corpi, i nostri movimenti costituiscono a poco a poco lo spazio. In realtà dobbiamo constatare che per comprendere il funzionamento del cervello la geometria euclidea non ci è di grande aiuto. Come nel caso di Einstein, a cui neppure servì per pensare lo spazio e il tempo nella relatività e che dovette valersi di geometrie non euclidee per pensare la curvatura dello spazio. Anche la neurofisiologia attuale deve fare riferimento a geometrie non euclidee, le stesse che consentirono a Einstein di comprendere lo spazio e il tempo come il prodotto dei corpi e non come il contenente che preesiste al suo contenuto. In genere è il nostro cervello tutto intero quello che si forma

secondo determinati parametri spazio-temporali. Come scrive A. Prochiantz: «È così perché la nostra intelligenza del mondo dipende fortemente dal codice della rappresentazione specifica che si effettua nel cervello, perché la geometria del sistema nervoso e la sua dinamica strutturale costituiscono il suo centro». In tal modo, i nostri cinquecento milioni di neuroni cambiano continuamente forma a seconda della vita e dell’esperienza, e ciò avviene anche nel soggetto adulto, come mostra la plasticità cerebrale. Tale integrazione dinamica corpo-cervello spiega perché possiamo dire che il pensiero non è depositato nel cervello come un software si installa in un hardware. Il pensiero si trova distribuito nel corpo, nell’ambiente, nel dialogo e nell’interscambio così come nella storia. Si sprigiona dall’analisi del ruolo centrale delle dimensioni sensomotorie nella produzione del pensiero. Così vediamo all’opera la plasticità cerebrale ogni volta che è possibile una retroazione, vale a dire in quelle attività cerebrali in cui la sensazione stimola un’azione che provoca a sua volta una nuova sensazione. Le attività scolpiscono i nostri cervelli. Come nel caso dei neuroni corticali associati alle dita della mano sinistra del violinista che, a mano a mano che progrediscono il suo lavoro e la sua devozione, aumentano nella struttura nel numero e nelle connessioni. Ciò significa che i pianisti e i ballerini (al pari di tutti noi) pensano anche con i piedi e con le mani. Forse è per questo che il grande matematico francese Gilles Chatelet (2002) ha affermato in proposito: «Peccato che Cartesio abbia scritto: “Penso, dunque esisto”. Se avesse detto: “Mi gratto il pisello, dunque esisto”, il mondo occidentale avrebbe conosciuto un divenire diverso». La comparazione troppo affrettata tra cervello e hardware porta, inevitabilmente, a pratiche che sono per lo meno inquietanti per le nostre società. In questo senso, ad esempio, si è decretata la fine della scrittura manoscritta in dieci Stati degli Stati Uniti. Più o meno da un anno gli alunni, fin dal primo ciclo, si accontentano di premere i tasti di un computer. Imparare a scrivere a mano mette in movimento reti neuronali e modifica la quantità di neuroni, la loro dimensione, le sinapsi, ecc.

Certo tutti noi siamo ricorsi alla tattica di copiare a mano le idee principali quando dovevamo studiare cose complicate. Non è una sensazione, è un fatto: per comprenderle meglio, le copiamo. Il gesto produce tracce mnestiche differenti, che coinvolgono e occupano altre dimensioni del cervello. Scrivere a mano vuol dire, in altri termini, impegnarsi in una pratica che territorializza quel che stiamo pensando. La questione della territorializzazione cerebrale è, senza alcun dubbio, una problematica centrale della nostra epoca, dato che in generale tutto ciò che ci facilita digitalmente la vita ci deterritorializza in modi e con intensità differenti. Possiamo comprendere la differenza fondamentale che rivestirà per il cervello un’informazione rispetto a una conoscenza. Ricordiamo che una conoscenza implica sempre un’esperienza, un’esperienza in cui il cervello modifica se stesso, si scolpisce. L’apprendimento è una trasformazione relativamente permanente del comportamento che modifica i neuroni, crea nuove connessioni e reti. In tal modo, quando un bambino impara a fare una radice quadrata, nel suo cervello si producono modificazioni, connessioni, reti, un’infinità di processi. In seguito, il bambino magari dimenticherà come si ricavi una radice quadrata, ma queste reti verranno utilizzate per eseguire altre funzioni più o meno complesse. Se invece il bambino si accontenta di schiacciare un bottone per ottenere l’informazione relativa al risultato di una radice quadrata, è evidente che tale scultura cerebrale non potrà essere costruita. Di conseguenza, tanto più ci valiamo di informazioni custodite nella macchina, tanto meno il cervello potrà scolpirsi, svilupparsi. Un cervello che maneggi fondamentalmente informazioni disponibili in formato digitale è un cervello che, a poco a poco, vede le sue funzioni rimpiazzate da un meccanismo semplice di on e off. Riflettiamo sul fenomeno banale di un conducente di taxi in una grande città. Riferiamo l’esempio di una ricerca realizzata con un gruppo di giovani autisti che non avevano mai guidato senza GPS. Nel loro caso, i nuclei subcorticali incaricati della produzione di una mappatura cerebrale e che sono evidentemente legati alla capacità di individuare l’ubicazione spazio-temporale non si erano sviluppati, oppure erano colonizzati da altre funzioni. Una delle conseguenze di

questo fatto è che, nel volgere di poco tempo (diciamo, tre anni), questi autisti finirono per sviluppare una specie di dislessia artificiale a causa della perdita dei riferimenti spazio-temporali. L’informazione digitalizzata arriva direttamente alla coscienza come informazione codificata, senza che il corpo e il cervello abbiano la necessità di sperimentare il tragitto (nell’esempio del taxi) o di simularlo (che è quanto fa il cervello, produrre una simulazione, vale a dire una proiezione immaginaria di ciò che potrebbe avvenire se facesse questo o facesse quello). Tutto è on-off, destra-sinistra. Al contrario, la stessa ricerca studiò un altro gruppo di tassisti che però guidavano senza GPS. Si chiese loro di immaginare un tragitto in una grande città. Nel frattempo, furono monitorati con una tecnologia PET-Scan (Positron Emission Tomography, cioè tomografia a emissione di positroni) per registrare la loro attività mentale. Il compito, per essi abituale, di guidare senza GPS provocava un’attività nei loro ippocampi destri. Varie ricerche avevano già reso noto che l’ippocampo rivestirebbe un ruolo fondamentale nella memoria spaziale in molte specie fra cui quella umana. Dall’esempio di conducenti di taxi si deduce che l’ippocampo umano potrebbe contribuire alla costruzione di questa mappa mentale, fornendo a ogni ricordo un quadro e un contesto spaziale, permettendo poi di restituirlo nella pratica. Già nel 1970 si scoprì che l’ippocampo del ratto contiene una vera e propria cartografia speciale del contesto in cui si muove. Alcuni neuroni si attivano in relazione ai suoi spostamenti, consentendo una cartografia evolutiva e dinamica. Questo funzionamento dipende dalle cosiddette place cells, che come per i campi recettivi sembrano attivarsi a seguito dell’occupazione di una determinata regione spaziale e nei ratti sono circa un milione nell’area cerebrale identificata coma CA1. Ciò permette all’animale di sapere in ogni istante dove si trova. Ma, soprattutto, l’esplorazione di un nuovo contesto induce la formazione di una nuova mappa mentale che può essere abbastanza stabile. Questo tipo di funzionamento integra nel sistema nervoso centrale le esperienze corporee. Vale a dire, si integrano non come un dato, come un’informazione circoscritta, ma come un funzionamento possibile. Si comprenderà dunque la differenza che esiste con il

comportamento del tassista che, obbedendo (on-off) alla voce meccanica del suo GPS, gira a sinistra o a destra: non sta mai incorporando dati che situino e lo risituino in un contesto che sia in rapporto con i suoi stimoli propriocettivi. Per dirlo altrimenti: se la produzione di cartografie spaziotemporali — dato che nella cartografia prodotta dall’ippocampo si comprende anche la stima del tempo del percorso — serve di fatto in qualunque territorio, l’ordine meccanico «gira a destra» difficilmente ci sarà d’aiuto, di per se stesso, in qualunque spazio e territorio. In realtà, le place cell sono inoltre associate a dei sensori spaziali del movimento, il che permette anche che quando una persona sbaglia direzione percepisca, corporalmente, i segnali dell’errore, in una sorta di sollecitazione corporea a correggere la traiettoria. Nel mondo digitale, certamente una delle numerose conseguenze delle connessioni, fondamentalmente quelle coscienti e codificate, è che passiamo il nostro tempo ignorando tutte queste informazioni corporee, evidentemente e qualitativamente distinte da quelle della macchina. Come abbiamo visto, una Macchina di Turing non è situata. O comunque il posto che occupa nello spazio non ha alcuna importanza per il suo funzionamento. O ancora tale articolazione, tale ibridazione uomo-macchina, fa sì che a poco a poco il funzionamento dell’artefatto inizi a colonizzare il cervello umano, che comincia a comportarsi come se neppure lui fosse situato. Forse il caso del GPS è appropriato se lo forziamo un po’. Pensiamo per un minuto a una situazione concreta: una persona «disabilitata artificialmente» — ovvero noi che, in linea di principio non disabilitati, ci disabilitiamo a causa della nostra dipendenza dal piccolo dispositivo elettronico — chiede al suo dispositivo la traiettoria che deve seguire per correre i cento metri. Il dispositivo si mette in contatto con un satellite e questo satellite trova dove si trovi questa persona e gli spiega come correre i cento metri. Le macchine e gli artefatti ibridano gli umani, ogni volta di più, senza che noi ci rendiamo conto di quanto sta avvenendo. Come aveva scritto Jean-Jacques Rousseau (1992): «Il problema, con il progresso, è che vediamo quel che guadagniamo ma ignoriamo quello che perdiamo».

CAPITOLO QUINTO

IL CERVELLO SRADICATO Facciamo un piccolo esercizio di immaginazione: cosa vediamo? Un anziano, un bambino, o un ragazzo. Poco importa la differenza, troppo legata, forse, al mondo «non virtuale». Un comune denominatore forte li unifica, li confonde e cancella quasi ogni differenza: tutti loro si trovano nella posizione «normale» del mondo attuale, vale a dire che sono seduti di fronte a uno, due o tre schermi di macchine varie e diverse, però in fin dei conti macchine. O guardiamo l’immagine di questa coppia, oggi tristemente banale: «uniti», seduti al tavolo di un bar, uniti ma separati, ciascuno col piccolo schermo del suo iPhone, che smettono di guardare quando si concentrano sullo schermo grande del bar. Quando lavoravo — e lo feci per molti anni — in un servizio di psichiatria infantile e dell’età evolutiva nella città di Reims, durante una consulenza accadde qualcosa che mi segnò. Una madre venuta in visita con il suo figlioletto preadolescente mi disse che lui passava più o meno otto ore al giorno immerso nei suoi giochi elettronici e che nei fine settimana quelle ore potevano arrivare a sedici. La signora mi spiegava che diceva a suo figlio: «Questo non può essere; pensa che un giorno avrai una famiglia e dovrai imparare a guardare la televisione con tua moglie». Da un punto di vista neurofisiologico, gli schermi possiedono una

forza, una particolarità, di cui sono privi gli altri artefatti e gli altri stimoli che giungono agli altri sensi. Possiamo, ad esempio, accendere la musica in una stanza, che le darà una dimensione supplementare: sarà come se un profumo fluttuasse nell’aria; anche il profumo darà al luogo un’altra particolarità che si integrerà, più o meno, con l’insieme dell’ambiente. Ma se si prende uno schermo, l’effetto imbuto, l’effetto di bucare quel che c’era, è immediato. Tutto il resto sparisce. Gli schermi non solo non aggregano le dimensioni, ma annientano tutte le dimensioni, creando questa forza irresistibile che ci affascina, ci pone in uno stato subipnotico, né gradevole né sgradevole: assente. Gli schermi ci fanno assentare e ci allontanano, ma non dico questo con una valenza morale (non è che «non si debba»): gli schermi attivano centri cerebrali e inducono funzionamenti percettivi che polarizzano l’attenzione. Questa particolarità della polarizzazione è, come è noto, alla base di qualunque processo ipnotico o subipnotico. Così, ad esempio, i ricercatori di neurofisiologia si resero conto che, quando si gioca al Super Mario Bros (un gioco elettronico abbastanza comune, uno dei primi), il cervello modifica la sua architettura: le zone prefrontali si ispessiscono. Allorché la notizia venne resa nota, i giocatori se ne rallegrarono, ma mancava loro la seconda parte della notizia: gli studi sullo sviluppo dell’intelligenza dimostrano, senza tema di smentita, che queste zone si affinano come segno di sviluppo dell’intelligenza (e non il contrario). Ogni attività esercita un’influenza sulla riorganizzazione del cervello; non esistono attività neutre. La credenza secondo cui chi guarda i suoi molteplici schermi in permanenza non si modifichi è assolutamente falsa; quando ci grattiamo il naso il cervello reagisce nel senso della sua integrazione permanente. Ma... non tutto è come grattarsi il naso. La macchina colonizza il cervello. È facile rendersi conto, ad esempio, di come la nostra temporalità e le nostre esigenze si stiano trasformando a poco a poco in quelle di una macchina esigente: basta pensare al nervosismo che ci provoca un computer che non risponde rapidamente o al nostro desiderio — bisogno — che le diverse connessioni si attivino in un tempo che tende, idealmente, a zero. Da quando in qua abbiamo una simile fretta?

I videogiochi e la pratica permanente della telefonia mobile (che in realtà funziona più come un gioco che come soddisfacimento di una necessità: non siamo tutti pompieri o medici di pronto soccorso), e in sintesi gli schermi in generale, sviluppano il sistema dell’attenzione esterna. Detto altrimenti: è il mondo che viene a cercarci molto più di quanto noi abbiamo bisogno di andare verso di esso. Questa posizione di passività così forte sradica il cervello dai corpi, dato che tale ipertrofia del sistema di attenzione esterna va a detrimento del sistema di attenzione endogena. Prendiamo l’esempio del telefono. Vediamo come la pratica sociale oggi così generalizzata e banalizzata del cellulare abbia finito per abolire le frontiere culturali e psichiche fra gli spazi pubblici e quelli privati. Il cellulare crea un «non luogo», un no man’s land che ci installa in un funzionamento deterritorializzato. Si tratta del fatto che a poco a poco i corpi funzionano in dispositivi non situati. Ad esempio, ricevere la notizia della morte di una persona cara in un luogo indistinto è un orrore visto che c’è bisogno di un luogo tangibile per esistere, pensare, sentire. L’insieme di dispositivi cerebrali che sono coinvolti nel meccanismo di attenzione esterna obbedisce a una forma particolare: la distrazione. Quando si sente che un videogioco o una comunicazione (generalmente, compulsiva e inutile) richiedono la propria attenzione, si parla di un’attenzione che è simmetricamente contraria a quella di cui abbiamo bisogno, ad esempio, per gli studi o per qualunque altra forma di pensiero complesso. Questi meccanismi funzionano in base a una serie di loop rapidi, che a poco a poco disabilitano la possibilità di pratiche che richiedono un tipo diverso di temporalità e di attenzione. I circuiti della distrazione si articolano (troppo) bene con i circuiti dopaminici di ricompensa, creando in tal modo dipendenza (che non è esattamente lo stesso di addiction) e stati di mancanza chimica, come in qualunque altra forma di dipendenza molecolare. Riuscire a concentrarsi finisce per risultare concentrarsi su stimoli «noiosi» o che, in ogni caso, non scatenano la cascata di neuromediatori dei circuiti della ricompensa e del piacere immediati. La civiltà delle persone sedute davanti agli schermi si trova di fronte a un altro problema legato all’educazione dei bambini: i

bambini non sanno più annoiarsi, non sopportano la frustrazione ingenerata dall’interruzione della cascata di stimoli nei loro giorni regolarmente strutturati da un diluvio di immagini. In momenti come questi i bambini si sentono come di fronte a un vuoto angoscioso, il che è un problema perché, in realtà, la noia è fondamentale per lo sviluppo delle zone cerebrali associate all’immaginazione e alla creatività. La domanda è allora: che cosa succede con i corpi? Prima abbiamo visto come i cervelli pensino e lavorino in permanente dipendenza dai loro corpi; inoltre, un corpo che si muova è indispensabile perché un cervello funzioni. Come spiegano Francis Bailly e Giuseppe Longo (2006): L’azione, il gesto, precedono qualunque comprensione, e ciò stesso è la condizione della possibilità di comprendere. È la stessa cosa che, prima degli studi sulla cognizione, ci insegnava la biologia, in particolare la biologia evolutiva, perché sembrerebbe che i neuroni, il sistema nervoso e le strutture cerebrali non possano differenziarsi e svilupparsi se non negli organismi che possiedono una vera autonomia motoria.

Immaginiamo un caso. Prendiamo due persone adulte. Una di esse ha deciso di trascorrere le sue vacanze in un Club Méditerranée a Tunisi. I Club Méditerranée funzionano in maniera tale che, indipendentemente da dove ci troviamo, è tutto uguale, benché vi sia sempre una sfumatura di «colore locale»: vale a dire che a Tunisi, in mezzo al campo cinto di filo spinato e guardie armate, i turisti potranno vedere delle palme e magari un cammello. Il nostro amico passa così un mese a Tunisi, ma di Tunisi vede l’aeroporto e il luogo sterilizzato del Club Med, non molto più di questo. Nello stesso periodo, un altro amico, per ragioni legate al suo lavoro di giornalista, passa lo stesso mese a Parigi studiando Tunisi e lo fa servendosi unicamente di internet e delle informazioni che la rete gli mette a disposizione. Fin qui due esperienze che, in linea di principio, potremmo pensare si riferiscano alla stessa cosa: Tunisi. Quali sono stati i risultati? Vediamo: alla fine di questo mese, passato in relazione a Tunisi in due modi molto diversi, la domanda che mi sono posto è: quale dei due avrà conosciuto meglio Tunisi? Mi è bastato poco tempo per rendermi conto che il mio amico che era stato nel Club Méditerranée non aveva idea di che cosa accadesse nel Paese, nemmeno durante il suo mese di permanenza laggiù; per

contro, l’altro mio amico, il giornalista, era una fonte inesauribile di conoscenza su Tunisi. Miracolo di internet: seduto alla sua scrivania, era stato a Tunisi più del turista? Poco probabile. Il giornalista era molto ben informato su Tunisi, ma il turista si era trascinato nel corpo un’influenza strana, con un virus che resisteva al calore; aveva riportato anche un’abbronzatura molto vistosa e una serie di segni corporei tipicamente tunisini. Il suo corpo ha «conosciuto» Tunisi: i suoi organi, la sua pelle, i suoi polmoni, sono stati a Tunisi, molto al di là delle informazioni codificate, per certo miserrime, che la sua coscienza ha raccolto. Il giornalista, al contrario, continuava ad avere il tipico colorito grigio dei parigini, senza influenza ma con i polmoni pieni di contaminazioni, e insisteva nel dire di sapere quel che accadeva a Tunisi. Ma a Tunisi, nella Tunisi reale che occupa un luogo nello spazio, accadono molte cose e a livelli differenti, alcune più o meno codificabili, altre meno intuitive e altre ancora che restano nell’interscambio sottile e profondo dei livelli percettivi corporei. Ciò che fra le altre cose variava fra l’uno e l’altro era il modo in cui avevano «raccolto i dati» per costruire i rispettivi modelli interiori di Tunisi. Il giornalista aveva avuto accesso alle informazioni raccolte unicamente attraverso la codifica; vale a dire, attraverso il ritaglio del «continuo» ovvero la realtà di un Paese colta in linea con il funzionamento della macchina, la cattura dei dati «digitalizzabili». Il carattere di quel che è codificabile obbedisce a ciò che in epistemologia si chiama «arrotondamento digitale». Arrotondamento digitale significa che ogni punto che raccolgo, che misuro nel mondo reale per produrre il mio modello, viene misurato, computato come un punto. Ma (ed è qui che si pone il problema) qualunque misura è sempre misura di un intervallo, e una profondità non è riducibile a un punto. Tutto avviene come se, nel cercare di copiare una forma qualunque, invece di tracciare delle linee ponessi una serie di punti in successione; il risultato sarà una forma di una realtà che non è così: nella realtà le forme obbediscono a linee, profondità continue. Sono io che ho reso «discreto», vale a dire ritagliato come punti, ciò che nella realtà esterna esiste come una continuità. Non si tratta di un problema che potremmo descrivere come la necessità di affinare la cattura, di affinare la misura per raccogliere più

dati (punti). Al contrario, la quantità di dati o punti modellati in questo caso non ha niente a che vedere con la questione strutturale, vale a dire che per quanti punti io possa raccogliere di un oggetto del mondo esterno per costruire il mio modello, resterò sempre in piena perdita di informazione dato che, indipendentemente dalla quantità di punti che avrò raccolto, ogni misura a sua volta si misura come punto di un intervallo. La questione è come si costruisca un modello «naturale» (enazione), vale a dire la relazione del turista con il luogo, o come si costruisca un modello artificiale (digitalizzato). Nei due casi la cosa dipende da come si rende «discreto» ciò che è continuo, come si ritaglia il flusso amorfo di dati, dimensioni e processi che sto modellando. Nel caso del turista, al di là di quel che può aver compreso o no di Tunisi, il corpo di quest’uomo si è trovato in una relazione dinamica e organica con questo Paese. Al contrario, il giornalista, al di là del lavoro serio che ha svolto, lo ha fatto in modo artificiale. Non «metterci il corpo», come si dice, implica che i circuiti di percezione-appercezione-coscienza vengano eclissati, poiché il cervello funziona in questo modo connesso con un circuito in cui esso stesso, nonostante le informazioni degne di fiducia che possiede, funziona in modo autoreferenziale. Bisogna dire che il cervello riceve le informazioni «codificate», quel che gli racconta la macchina, e non fa differenza fra ciò che è reale e ciò che produce come percezione. La differenza si trova, allora, nel corpo, e il cervello sperimenterà tale differenza in un secondo momento perché è situato in un corpo che ha vissuto o no l’esperienza concreta. Se ogni pratica modifica il cervello in un corpo, la pratica che si restringe all’informazione meramente codificata modifica di meno e in modo non radicato; le informazioni, in questo senso, non saranno conoscenze che scolpiscano il cervello ma conoscenze che, semplicemente e sempre di più, circolano nel cervello. Ogni volta più separato dal corpo, dalla sua fonte principale di conoscenza e di pensiero, il cervello si trasforma così, a poco a poco, in una lastra di gestione di informazioni, informazioni che non modellano il cervello perché non passano per il corpo. È evidente che la particolarità della specie umana risiede nel fatto

di poter trasmettere conoscenze per vie indirette, cioè conoscere quel che sperimentiamo. Certo, però, detto questo, è importante vedere che i mezzi di trasmissione di conoscenze indirette si articolano organicamente con la vita concreta delle persone, con le loro pratiche. L’integrazione organica di conoscenze è questo modo di esistenza delle culture umane, dove ciò che avviene è che le conoscenze acquisite hanno un forte rapporto con la vita concreta delle persone, anche quando tali conoscenze siano astratte, teoriche o molto sofisticate. La digitalizzazione del mondo, la sostituzione di qualunque riferimento al mondo, per passare a funzionare con modellizzazioni di esso, implica un vero mutamento qualitativo maggiore, dato che il ruolo degli umani diventa secondario nella circolazione ultrafluida dell’informazione. L’umano è un segmento di tale circolazione, un segmento ogni volta più destrutturato e fluido. Questo cervello «senza corpo» è l’ideale assoluto della maggior parte dei ricercatori che attualmente si occupano di tecnoscienze, ricercatori che ottengono sempre più emolumenti per i loro obiettivi. Gli obiettivi che grosso modo orientano tali indagini possono essere illustrati così: come fare affinché il corpo, con i suoi limiti e le sue fragilità, non dia fastidio. Come si possa, in sintesi, superare il corpo. Senza dimenticare tutti i progetti, oggi molto avanzati, di intelligenza e affetti artificiali che programmano di modellare i cervelli medesimi per raccogliere l’insieme delle informazioni che possiedono, per poi reinstallare tale insieme in una vera Macchina di Turing. Utopia finale, finirla con i corpi. Utopia, sì, ma per chi?

CAPITOLO SESTO

INFORMAZIONE, COMPRENSIONE E SIGNIFICATO Un corpo organico non è, fondamentalmente né solamente, un corpo fisico. O, detto altrimenti, ciò che singolarizza un corpo organico non è il suo carattere fisico, bensì ciò che lo differenzia da esso. Solo al livello dello sviluppo organico della materia esiste ciò che potremmo identificare con il «significato» e con l’evento. Se per ciò che è organico il mondo possiede un significato, per i cervelli tale significato è più complesso e sviluppato. Nel mondo organico e nel cervello in particolare i processi che possiamo identificare esprimono una relazione di causa-effetto in virtù dell’esistenza di ciò che chiamiamo «evento». Con «evento» voglio riferirmi qui all’esistenza di una singolarità che riordina ciò che è dato. Ciò in quanto tale evento è esistito come causa un istante prima dell’effetto. Al contrario, nel mondo della fisica vediamo in generale una causalità senza evento; ciò che un po’ impropriamente chiamiamo «causa» è in realtà, nel mondo fisico, un funzionamento di campo che produce effetti su un altro campo che a sua volta retroagisce sul primo.

I campi sono collegati, esistono semplicemente. Solo lo sguardo che possiamo volgere a essi ci consente di ritagliare un fatto, ma nel mondo fisico la continuità di azioni, retroazioni, ecc. di campi collegati è la regola, regola di un continuo, e non di un evento irreversibile, con un «prima» e un «poi». Nella dimensione dell’organismo troviamo un modo di relazione che non si riduce al locale, poiché esiste una forte correlazione localeglobale. Se nella fisica ogni continuità è dovuta alla contiguità, nei sistemi organici la continuità non è locale; al contrario, esiste nell’organismo una relazione locale-globale molto particolare che rende possibili le relazioni di integrazione e gerarchia che lo caratterizzano. Così, ad esempio, possiamo dire che la chimica è locale e la fisiologia non lo è. Per illustrare ciò che stiamo vedendo, basta ricordare quel che abbiamo detto sul funzionamento del cervello, nella sua relazione permanente e dinamica con il corpo, e con il corpo in un ambiente: il funzionamento del cervello non si può comprendere in una forma meramente locale. Quel che è specifico delle Macchine di Turing è che, al contrario, tutto quel che avviene in esse, per quanto possa essere complesso, è sempre un’articolazione locale; anche se può provocare effetti di «campo», resta comunque locale. Per comprendere che le complesse interazioni di un campo di forze in fisica sono, in ogni modo, di tipo «locale», possiamo ricordare la curvatura dello spazio, il campo gravitazionale di Einstein. In questi casi, gli effetti globali di un campo fisico si esercitano per interazioni locali, vale a dire per contiguità-continuità. Pensiamo, ad esempio, a un ciclo metabolico fondamentale per gli esseri viventi: il ciclo di Krebs. Vediamo in questo esempio che gli enzimi e le macromolecole passano attraverso grandi discontinuità strutturali per «raggiungere il loro obiettivo», come espressione della gerarchia del sistema. Si tratta di quella che chiamiamo «interazione funzionale», che non può essere spiegata con interazioni locali di campo. E dobbiamo tornare sulla descrizione delle basi di un organismo e sui suoi invarianti. L’interazione funzionale è la funzione fisiologica più elementare, è la «pietra di base» con cui può essere costruita l’organizzazione funzionale. Gli ormoni attraversano i tessuti partendo da una fonte, la

ghiandola, fino a un pozzo, il tessuto, agendo solo in direzione del bersaglio mirato. La differenza risiede, allora, nel fatto che se la fisica si occupa di «unità di struttura», la biologia si interessa di «unità di funzioni». I cervelli, come dispositivi organici, producono continuamente significato; significato del mondo per l’organismo e significato che il cervello dà al mondo. La condizione indispensabile perché ciò avvenga è nel fatto che un cervello sia limitato, nel tempo e nello spazio, e che viva in un corpo ugualmente limitato. Sono i limiti funzionali quelli che costituiscono la condicio sine qua non dell’esistenza del significato. In sostanza, poiché un organismo è situato e limitato, nonché frutto di una storia singolare, non tutto gli è possibile. Ed è proprio in quanto non tutto è possibile che può emergere il significato. Al contrario, come ho già detto, negli artefatti la tendenza «naturale» della tecnologia è un principio del «tutto è possibile» senza meccanismi di autoregolazione, di «negatività integrata», che limitino il suo funzionamento. Per gli artefatti non c’è «comprensione» ma solo funzionamento. La limitazione propria di ogni organismo fa sì che non sia possibile studiarlo come si potrebbe fare con un sistema fisico, vale a dire smontandolo. Per il riduzionismo fisicalista oggi dominante, conoscere una cosa esige che anzitutto la scomponiamo nelle sue parti; ma, come è evidente, comprendere un organismo non è qualcosa che si possa fare partendo dalle sue parti separate. La fisica funziona secondo il principio unico bottom-up; per l’organismo si tratta di articolare simultaneamente una dimensione top-down. Negli artefatti, attraverso la via ascendente è possibile raggiungere livelli di complessità, ma i suoi elementi di base permangono semplici: questa è una differenza importante, dato che in biologia questi elementi di base sono sempre già complessi o comunque sono avviluppati in una certa complessità. Nella produzione di significato, nei nostri cervelli non avviene niente o quasi di quello che avviene nei computer. In una Macchina di Turing, la successione di algoritmi logici garantisce un buon funzionamento, senza salti né vuoti. Al contrario, quando un cervello pensa — ad esempio, quando qualcuno cerca di risolvere un problema

complesso di matematica o di fisica —, sappiamo oggi che la coscienza riflessiva che «dirige le operazioni» non funziona come una frase unita o lineare che a poco a poco si sviluppa. Al contrario, il processo di pensiero simbolico, nella sua insularità, fa sì che chi sta pensando mescoli in permanenza un funzionamento che possiamo chiamare «lineare», ovvero logico-formale, con sensazioni corporee, con appercezioni da cui viene raggiunto e che non sono rappresentabili. Il corpo «si intromette», interferisce in continuazione. Improvvisamente il cervello salta alla conclusione. Chiamiamo questa cosa «intuizione»: il fatto che la soluzione di ciò a cui stavamo lavorando teoricamente (ma può trattarsi di qualunque tipo di pensiero in cui fossimo impegnati) affiori, all’improvviso, e in modo non lineare. «Sappiamo» allora che quel che stavamo cercando passava da quel lato, ma siamo incapaci di ricostruire in modo rappresentabile il percorso che ci ha consentito di arrivare a quel punto. Per cercare di essere chiari dobbiamo dire che questo «percorso» verso la conclusione non è, quindi, fatto soltanto di pensiero lineare, in cui una formula segue all’altra, un ragionamento all’altro. Niente di tutto questo: nel bel mezzo di una catena di ragionamenti apparirà, ad esempio, un’appercezione di colori o un’evocazione corporea o qualunque altra manifestazione propriocettiva che influisce sul ragionamento; il nostro corpo, interagendo con il suo ambiente, incorpora così segmenti non rappresentabili, ma che sono la condizione medesima della possibilità di qualunque rappresentazione. Se possiamo assimilare gli algoritmi a una serie di calcoli, è chiaro che la possibilità di comprendere non è mai il prodotto o il frutto di una serie di algoritmi, bensì la manifestazione di un’altra funzione di un cervello integrato. Non è un caso se i ricercatori di intelligenza artificiale si sforzano di dimostrare che, sebbene i loro robot non possano comprendere, ciò non impedisce loro di essere «intelligenti». Forse è necessario notare qui che le attività considerate «intelligenti», quando siano separate da un soggetto o un organismo della comprensione, cadono, senza che costoro se ne rendano conto, in una condizione di metafisica tecnologica oggi dominante. Lo scienziato o l’artista che cerca di risolvere un problema si vale,

allora, di funzionamenti considerati intelligenti, che però non gli servirebbero a niente se non gli permettessero, in un modo integrato al contesto corporeo, prima di tutto, e più ampiamente al contesto dove questo esiste, di produrre livelli di comprensione e significato. Questa confusione induce nel nostro tempo ad attribuire un’«intelligenza» a persone capaci di sviluppare meccanismi tipici di un calcolatore. Siamo così circondati da persone che, con un’incomprensione quasi patologica della loro vita e del mondo, vengono chiamate «intelligenti» perché sono capaci di funzionare come macchine o di articolarsi come un segmento a una macchina producendo algoritmi deterritorializzati (decontestualizzati).

CAPITOLO SETTIMO

LA DELEGA DI FUNZIONI NELLA COEVOLUZIONE Nel capitolo precedente abbiamo visto come funzionano le relazioni tra cervello e artefatto. Questo tipo di funzionamenti misti implica ciò che qui cercheremo di presentare come «meccanismi di ibridazione», che obbediscono a ciò che nella neurofisiologia è noto come «delega di funzioni» e «riciclaggio neuronale». La delega di funzioni è un meccanismo fondamentale e generale proprio dell’insieme dell’evoluzione della vita sulla Terra che dovrebbe essere compreso, allora, come un meccanismo di coevoluzione delle specie e dell’ambiente. Così, nella evoluzione delle specie, da una specie all’altra, si osservano questi funzionamenti attraverso i quali una funzione viene delegata a un’altra specie che deve occuparsi di un determinato «compito», dispensando la prima dal compiere tale funzione e permettendole quindi di «occuparsi di qualcos’altro», ciò che ci è noto in modo un po’ semplificato come «riciclaggio neuronale». Un esempio chiaro ci è offerto dal fenomeno della coevoluzione fra i progenitori dei cani, che erano al tempo stesso gli antenati dei futuri lupi — prima che si producesse tale biforcazione — e, dall’altro lato, gli umani.

Una parte di questi canidi sviluppò un comportamento non aggressivo nei confronti degli uomini, il che permise un avvicinamento e una coabitazione in un territorio condiviso. Ciò diede ai canidi il vantaggio di poter mangiare gli alimenti che venivano scartati dagli uomini. In effetti, gli umani si sono sempre caratterizzati per la produzione di rifiuti che potevano essere messi a frutto da altre specie. In questo modo, alcuni ricercatori sostengono che, nei gruppi formati dagli umani e dai (futuri) cani, questi ultimi si siano specializzati nel compito di seguire delle piste e orientare la marcia, in funzione della superiorità delle loro capacità olfattive. In cambio della specializzazione dei cani in questa attività, gli uomini furono liberati da tale funzione e svilupparono una trasformazione nella struttura facciale — in particolare il naso e la bocca — che poté adattarsi liberamente ad altre esigenze. Concretamente, le esigenze che resero possibile la selezione o lo sviluppo di organi che permettessero suoni vocali più elaborati, fino ad arrivare alla parola articolata. Le zone corticali e subcorticali che vennero così liberate dalle loro funzioni primitive, approfittando al tempo stesso di una morfologia più favorevole, si svilupparono e si riciclarono in relazione alle nuove funzioni. Ma il futuro cane, a sua volta, sperimentò un’evoluzione e un riciclaggio: i suoi sensi olfattivi e uditivi si svilupparono in modo significativo, colonizzando le regioni che prima occupavano le funzioni delegate agli uomini. D’altra parte, anche la morfologia anatomica ebbe uno sviluppo che accompagnò tale evoluzione. In sintesi, quando oggi vediamo un uomo, vediamo anche il cane, e quando vediamo un cane, vediamo l’uomo. Ben lungi dalle interpretazioni soggettive secondo cui i cani «amano» gli umani per ragioni misteriose, comprendiamo che cane e uomo sono quel che sono perché hanno costruito e fatto evolvere una stretta relazione funzionale. In realtà, dobbiamo comprendere tale doppio meccanismo di delega e riciclaggio pensando che l’evoluzione non crea le sue novità a partire dal niente, ma lavora sempre su ciò che già esiste e che si modifica per costrizioni e selezioni successive. La selezione naturale non lavora come un ingegnere serio ed esatto, bensì come un artigiano che avanza per prove ed errori, senza sapere esattamente che cosa produrrà, ma che recupera tutto quello che gli avanza.

Come spiega il grande biologo americano Stephen Jay Gould (1991): Una struttura biologica che abbia avuto un’evoluzione in relazione con una funzione precisa, si trova molto spesso in questo brancolamento assolvendo un’altra funzione per riciclaggio neuronale. Ad esempio, le piume degli uccelli, che sembrano a prima vista un dispositivo di termoregolazione, o gli ossicini dell’orecchio interno, che in un primo momento adempiono la funzione delle ossa della mandibola.

Lasciamoci alle spalle i cani e le altre simpatiche coppie animaleuomo per passare a un esempio di coevoluzione uomo-artefatto. Ricordiamo ciò di cui abbiamo già parlato nella prima parte di quest’opera. Non esiste un uomo «puro», extrastorico, che nel corso del tempo sia rimasto sempre uguale a se stesso e possieda diverse tecnologie al suo servizio. Come scrisse Marx (1977) in Per la critica della filosofia del diritto di Hegel: «Nella produzione sociale della sua esistenza, l’uomo produce se stesso». Ovvero, l’uomo che produce utensili tecnologici è, al tempo stesso, modificato dalla tecnologia che egli stesso ha creato. La questione sarà allora di analizzare se la digitalizzazione delle nostre vite implichi una rottura, una vera novità rispetto a tale invariante antropologico, di sviluppo fra la tecnologia e l’uomo, o se semplicemente sia un cambiamento di forma che non modifica l’essenza antropologica. Molti dei nostri contemporanei sono convinti che la prima ipotesi sia quella certa. È così come per Gutenberg e la stampa. In effetti, è molto interessante leggere gli scritti e le testimonianze delle reazioni che provocò questa invenzione. Si diceva che la stampa, volgarizzando i testi senza controllo, con la sua moltiplicazione e diffusione, sarebbe stata uno strumento di ignoranza dato che, senza una possibilità di controllo dell’interpretazione del testo, avrebbe comportato una perdita importante di intelligenza nelle persone. Va detto però che fino alla rivoluzione culturale che significò l’invenzione della stampa, quasi tutte le grandi invenzioni dell’uomo che avevano modificato profondamente la cultura e le pratiche sociali avevano incontrato le stesse critiche, le stesse paure che oggi incontra internet al pari di altre macchine e artefatti digitali. È per questo che la domanda seria che si pone è: che cosa sta cambiando adesso e quali potrebbero esserne le conseguenze? Nel mio lavoro mi focalizzo, è palese, sulle modificazioni che

concernono il sistema nervoso centrale e le sue funzioni principali, nonché sulle sue incidenze sociali e antropologiche; per questo motivo cercheremo di riflettere e comprendere a partire da qualche esempio. Prendiamo allora un esempio recente. Un giovane paziente che sta facendo un’analisi manca a due sedute senza preavvertire la sua analista. Poi, la chiama per scusarsi e le dice che da molto tempo il suo cellulare è dotato dell’app agenda e orario, ma che funziona male. È stata questa la causa delle sue due assenze. Ora, data la giovane età del paziente, questa assenza assume un carattere particolare; in una psicoanalisi un’assenza dettata dalla «dimenticanza» viene abitualmente interpretata come un messaggio: vuol dire qualcosa, significa qualcosa. In questo caso, però, l’assenza del paziente non riveste alcun significato: da sempre per questo giovane la funzione orologio, l’uso del tempo e l’agenda erano state delegate alla macchina (il telefono portatile), così come nel caso dei cani: se un cane non annusava bene una preda, ad esempio, la responsabilità non era del suo padrone, che poteva addurre a sua discolpa il fatto che «da molti millenni sono i cani a occuparsi dell’olfatto». Forse la differenza risiede in quello che potremmo chiamare «tipo di interscambio». Come abbiamo visto quando abbiamo parlato dei conducenti di taxi, nel caso della delega di cose alla macchina questa si occupa di sempre più funzioni, ma al tempo stesso trasmette al tassista il suo funzionamento di obbedienza, on-off, o in altri casi «è l’ora della tua seduta», ecc. Una volta che la funzione sia stata «delegata», il cervello ricicla così le zone che sono state liberate per altre funzioni, oppure quelle zone vengono colonizzate a poco a poco da altre funzioni. Ma nell’interscambio macchina-uomo avviene un processo in una sorta di playback di trasformazione del cervello in «applicazioni» pratiche, là dove in modo integrato esistevano funzioni complesse che partecipavano nel substrato da cui emergeva un significato possibile. Ovvero, l’interscambio con la macchina «macchinizza» l’uomo, che a poco a poco struttura la sua relazione con il mezzo — il suo essere nel mondo — non come un organismo, ma come un artefatto che funziona. Cerchiamo di pensare questo fenomeno tanto complesso senza cadere in una deriva tecnofoba inquietante. Benché vi sia sempre stata una produzione sociale dell’esistenza, ovvero una modificazione dell’uomo attraverso la sua tecnologia e la sua produzione di nuove

tecnologie, il confronto con la digitalizzazione è veramente difficile. In effetti, prendiamo un po’ a caso invenzioni e produzioni che hanno cambiato radicalmente la vita e la forma dell’umano nella sua storia. Per cominciare, senza dubbio, con l’aratro una parte degli umani scopre di poter modificare il ciclo della natura in cui vive: non ha più bisogno di vagabondare come un cacciatore-raccoglitore che, una volta prosciugato un territorio delle sue risorse, debba cercarsene un altro, obbedendo al ciclo di riproduzione delle piante e degli animali. D’ora in poi può influire su questo ciclo. Il potere conseguito è enorme; l’uomo sperimenta un salto evolutivo molto importante che gli permette di conquistare un luogo centrale nel suo ambiente. L’allevamento e l’addomesticamento degli animali accompagna questo cambiamento di sedentarizzazione. Più o meno nello stesso periodo, l’uomo addomestica il fuoco: ancora una volta, non deve più aspettare che un fulmine incendi un albero per poterlo usare. Ciò significa che anche questo, come gli altri cambiamenti, dà all’uomo un nuovo potere di azione. La scrittura è indubbiamente ciò che segnò il momento più importante di trasformazione, forse l’unico comparabile con la digitalizzazione attuale. In effetti, i lavori di Longo (1986) sull’alfabeto mostrano che questa invenzione, che conferì alla nostra umanità un potere immenso, funziona in base a un processo dualista che, ad esempio, nella scrittura cinese, non è dato. La scrittura alfabetica si basa su unità discrete (le lettere) che non possiedono alcun significato. La scrittura cinese, invece, è una scrittura del continuo, non alfabetica, non dualistica. Ma in entrambi i casi la scrittura segnò una rottura «deterritorializzante» di grande importanza nella storia dell’umanità e, certamente, modificò in modo radicale la fisiologia e l’anatomia dei cervelli umani. Ricordiamo in ordine sparso: la ruota, la stampa, la polvere da sparo, gli antibiotici, ecc. Tutti hanno in comune il fatto di offrire all’umanità nuove possibilità, che le permettono di conquistare nuovi territori. Perché dunque i territori virtuali dell’informazione digitalizzata non agirebbero nello stesso modo? A differenza di tutte queste pietre miliari dell’umanità — a eccezione della scrittura — la digitalizzazione non cessa di produrre — per lo meno non finora, in ogni caso — un nuovo modo di essere nel

mondo per l’uomo, anzi allontana l’uomo dal mondo e dal suo potere di agire, nonostante lo scatenarsi di un potere molto forte nella tecnologia. È questo il paradosso attuale a cui accennavo all’inizio del libro: sperimentiamo nuove e numerose possibilità tecnologiche che ci sono accessibili e ci offrono molte facilitazioni ma, al tempo stesso, rispetto alle sfide vitali per la cultura e l’esistenza, ci sentiamo ogni volta più impotenti, annegati nella complessità. La domanda riformulata sarebbe: la potenza tecnologica, nel suo interscambio con il biologico, non sta colonizzando il mondo della vita imponendo la sua logica e le sue dinamiche? Se è questo il caso, la «deterritorializzazione» imposta dalla digitalizzazione sta creando una vera e propria distanza fra l’uomo e il mondo, e fra l’uomo e se stesso, che si declina in un’alterazione del cervello e del biologico organico in generale. Ricordiamo che nella digitalizzazione l’unica cosa che è possibile modellare sono le dimensioni logico-formali emergenti. Tutto quanto attiene al substrato profondo, presimbolico, preindividuale e non rappresentabile, resta eclissato. Ciò significa che tutto quanto costituisce il fondamento stesso della vita nel caso del cervello, tutto quanto è necessario per il suo funzionamento, viene eclissato in questo monopolio dell’informazione codificata. Senz’ombra di dubbio, un elemento centrale che fa la differenza rispetto agli altri grandi balzi e mutazioni provocate dalle nuove potenze conquistate dall’umanità, è dovuto al fatto che, nella cartografia e nella modellizzazione del mondo da parte delle Macchine di Turing, un punto centrale dell’evoluzione — non già dell’umano, ma della vita sulla Terra — è negato o eclissato. Nella fattispecie, la parte fondamentale che l’alea ha sempre occupato nell’evoluzione della specie, delle specie. Il ritaglio del mondo produce modelli, che siano naturali o artificiali, ma non è affatto certo che il digitale sia meramente quantitativo e, perciò, puramente oggettivo. Al contrario, come scrive il matematico francese René Thom (1980a): «Ogni modello quantitativo presuppone un ritaglio qualitativo della realtà. Nel caso dei modelli delle Macchine di Turing, ciò che rimane in ombra, il non detto, è appunto a quale mondo qualitativo, a quale forma corrisponda questa idea di un tutto quantitativo reale.

I modi biologico e organico possiedono un tipo di evoluzione molto particolare che si basa sulla diversità — calcolo, errore, correzione dell’errore — cioè, in sintesi, nell’esplorazione di tutti i possibili che si presentano. In questo modo possiamo constatare che, di tutte le specie che hanno abitato la Terra, il 99 per cento è scomparso, allo stesso modo in cui il 99 per cento degli spermatozoi non arriva all’ovulo e il 99 per cento delle nostre cellule muore affinché una viva. La vita non ha gli stessi principi «economici» della fisica che struttura gli artefatti. Nella fisica ogni movimento e ogni meccanismo possono assimilarsi all’evoluzione di una geodesica in uno spazio di fasi, il mondo fisico cerca sempre «il percorso più corto», l’economia maggiore di energia, ecc. Nonostante alcune apparenze, questo non è affatto il principio che regge il mondo biologico e organico. La vita «dilapida» e questa è apparentemente la sua forza più grande: la produzione di un’immensa diversità e variabilità permanenti. Forse in tutti gli interscambi della lunga coevoluzione fra le specie e le tecnologie, questo funzionamento di base della natura ha prevalso su ogni cambiamento: l’esplorazione, lo «sperpero» — vale a dire, la diversità e la variabilità —, una temporalità non lineare, una territorializzazione nella lunga durata che non funziona in termini di performance sempre abbarbicata all’attuale. Forse questi nuovi possibili tecnologici presentano una grande differenza rispetto a tutti gli altri meccanismi di riciclaggio e di delega. Un’altra logica, distinta dalla logica di ciò che è vivo, sta oggi spandendo la sua potenza; per il momento, appare problematica per la vita. I nostri cervelli non fanno tabula rasa per incorporare un’informazione di cui possono poi liberarsi. Come abbiamo visto parlando della scultura del cervello, i segni rendono possibili alcuni comportamenti e impossibili altri. Il «tutto è possibile» è un problema fondamentale per il cervello. L’altro punto di differenza del modo del funzionamento del cervello e della biologia rispetto a quello dell’artefatto ha a che fare con il modo di ritagliare, «discretizzare» il mondo degli esseri viventi e del cervello in particolare: ciò che propriamente si chiama «discretizzazione artefattuale», attraverso l’arrotondamento digitale, che svilupperemo più avanti.

CAPITOLO OTTAVO

POSSIBILI E COMPOSSIBILI Diciamo che i possibili possono essere pensati come tutto quel che funziona in teoria ovvero ciò che, in linea di principio, appare come possibile. Ad esempio, è possibile che lanciamo un paio di dadi dieci volte e che tutt’e dieci le volte otteniamo una coppia di sei. Oppure: in teoria, è possibile che la pace regni eternamente sulla Terra (prima della scomparsa dell’umanità)? Come possiamo rilevare, questi possibili presentano un problema: il loro modo di essere è teorico, o astratto, ma in realtà sono irrealizzabili. Non a causa di un’impossibilità concreta e evidente — non, per lo meno, nel caso del lancio dei dadi — bensì perché, pur essendo possibili, non possono realizzarsi, non giungono all’esistenza. Di tutti questi possibili che non implicano una contraddizione apparente, ma che non possono giungere all’esistenza, Leibniz dirà che sono «possibili ma non compossibili». Che cosa significa questo neologismo del filosofo? «Compossibilità implica un «con», una composizione con l’altro che esiste. Vale a dire che i possibili teorici possono convivere in una specie di limbo ma non possono assurgere all’esistenza perché, nelle loro interazioni conflittuali, si limitano reciprocamente. Come non ricordare qui il grande Eraclito, il quale diceva che il conflitto è il padre di tutte le cose... Il conflitto è questa «base di tutte

le cose» che fa sì che qualcosa sia o non sia compossibile, che possa o non possa esistere. In realtà, nell’evoluzione e nella coevoluzione delle specie, tutto può essere letto in questa dialettica di possibili e compossibili. La visione meramente sincronica, che eclissa la storia e la lunga durata, cade molto spesso nell’incomprensione di alcuni fenomeni, appunto perché considera i «possibili attuali», i possibili attualmente visibili e rappresentabili. Prendiamo ad esempio la favola ben nota dello scorpione che desidera attraversare un fiume. Lo scorpione non sa nuotare, così va dalla rana e le dice: «Ranuccia, per favore, mi aiuti ad attraversare il fiume, lasciandomi salire sul tuo dorso?». La rana, realista, gli risponde di no, perché la pungerebbe e la ucciderebbe. Lo scorpione, dal canto suo, che è iniziato alle tecniche del coaching e consimili, replica: «Ma no, ranuccia, come potrei pungerti? Se lo facessi, morirei anch’io annegato». La rana si lascia convincere da questa logica lineare e accetta di attraversare il fiume con lui sulla schiena. A metà del percorso, lo scorpione punge la rana, che prima di morire gli dice: «Che cos’hai fatto? Adesso anche tu morirai». Al che lo scorpione le ribatte: «Non posso farci nulla, è questa la mia natura». Per un osservatore postmoderno, o anche moderno, una cosa del genere è problematica. Dirà: «Povero scorpione, non può liberarsi della sua natura; al contrario noi, gli uomini, siamo coloro che lottano contro ogni natura, ed è per questo che siamo liberi». Nel caso dello scorpione, la visione sincronica ci impedisce di vedere che questo «possibile», non pungere la rana, in realtà per lo scorpione non è compossibile. La stessa storia dell’Occidente si basa su questo desiderio e su questa pratica di deterritorializzazione. L’uomo, rispetto alla natura, desidera essere lo scorpione che, in virtù del suo interesse, «non pungerà». Basta ricordare le interminabili discussioni che opponevano reazionari e progressisti sull’importanza per l’umanità dell’innato e dell’acquisito. L’uomo moderno — e ancor di più quello postmoderno — è colui che pretende di autocostruirsi. È il creatore e la creatura, senza che nulla di ciò che è innato venga a disturbarlo, facendogli pungere delle rane indebitamente. È chiaro che l’ideale di emanciparsi dalla natura è intrinseco

all’Occidente, e questo da molto tempo prima che la modernità occidentale vedesse la luce. Ma il sogno di Cartesio, che l’uomo diventasse signore e padrone della natura per mezzo della tecnologia, ha avuto negli ultimi quarant’anni un’evoluzione importante. L’uomo e il cervello aumentati — aumentati da e grazie alla tecnologia — desiderano la propria deterritorializzazione. Come nella storia dell’asino di Buridano, l’umanità aspira a liberarsi dai vincoli e dalle costrizioni della propria natura e perciò si serve ogni volta di più delle nuove tecnologie. Ma è qui che si affaccia il problema maggiore. La tecnologia sviluppa, come ho già detto, una serie di possibili, e gli umani adottano a poco a poco tali possibili. Ma i possibili della tecnologia ignorano assolutamente la geografia, le forme dei compossibili della vita e del cervello. In questo senso, anche la scrittura conobbe e conosce un divenire analogo: la scrittura può, in assoluta logica e buona sintassi, scrivere possibili che, nel e per il mondo della vita, non sono compossibili. Le grandi narrazioni ideologiche ne sono un buon (cattivo) esempio: ciò che il teorico scrive è scritto correttamente e logicamente, ma il secolo XX ci ha mostrato con dolore e sangue che, quando i possibili teorici vengono imposti alla vita, c’è qualcosa che funziona male. Senza ricorrere a esempi così tristi, posso scrivere: «In questo preciso momento, attraverso il piccolo buco della serratura sta cercando di entrare un enorme elefante», ma realizzare una cosa del genere a teatro è per lo meno complicato. Con la tecnologia digitale avviene qualcosa di analogo. Tutto ciò che la tecnologia rende possibile si trasforma, nelle nostre società e nelle nostre vite, rapidamente in qualcosa di obbligatorio. E non perché un perfido dittatore ci obblighi; al contrario, semplicemente perché questi possibili che in linea di principio ci facilitano la vita, scolpiscono il mondo secondo modi e caratteristiche propri. Ma c’è di più: i compossibili non sono — come potremmo credere — un sottoinsieme dei possibili. I compossibili limitano i possibili, li colonizzano. La loro frontiera è permeabile e conflittuale ma, per giunta, i compossibili della vita superano finanche i possibili teorici e rappresentabili. Lo abbiamo visto quando abbiamo studiato il cervello e il movimento: il cervello non utilizza solamente le vie logico-formali di pensiero. La possibilità medesima di pensare è condizionata da una

serie di meccanismi corporei, concatenati con il loro ambiente. I corpi permettono ai cervelli di realizzare una serie di compiti che sono compossibili, ma che non sono né rappresentabili né comprensibili da ciò che è meramente «possibile». Detto altrimenti, i compossibili di un cervello territorializzato non solo «limitano» i possibili ma addirittura «superano» tali possibili teorici, permettendo che la vita vada sempre oltre i possibili. Qualcosa di simile all’idea espressa dall’adagio «la realtà supera la fantasia» ma, in questo caso, supera la teoria. I compossibili dell’esistenza, limitando i possibili, proteggono la vita. È un po’ quel che vuole dire la frase «il corpo ha ragioni che la ragione non conosce». Ciò non significa che i compossibili siano irrazionali, bensì che vi è sempre una dimensione di compossibili che sfida la ragione esistita fin qui, obbligandoci a metterla in discussione e progredire. Potremmo, allora, domandarci: perché i compossibili proteggono la vita con la loro attività di limitazione dei possibili? La risposta è semplice: la dinamica di compossibilità, autoregolando i possibili esteriori al cervello, protegge l’omeostasi, il funzionamento del cervello, la sua temporalità, la sua singolarità. Torniamo al nostro povero scorpione. In realtà, se lo scorpione potesse non pungere la rana per sopravvivere, la domanda sarebbe: che cos’è che sopravvive? Dato che, se ciò accadesse, la cosa più probabile è che ci troveremmo di fronte a un fenomeno di esemplare transgenico, mutante, che potrebbe non essere più uno scorpione. Pungendo la rana, lo scorpione protegge ciò che è essenziale, il suo «essere scorpione», giacché ogni scorpione singolo è un modo di attualizzazione di una specie, non un individuo deterritorializzato che agisce in pura sincronia. La tecnologia ci offre un orizzonte e la prospettiva di trasformarci a poco a poco in scorpioni che non pungono, in sordi che sentono, in paralitici che camminano... in mortali che non muoiono. La domanda, ancora una volta, è: che cosa sarà questo ente che non corrisponde a nessun invariante, a nessuna territorializzazione? Lo vediamo nel mito moderno del cyborg (uomo-macchina), un essere postumano con capacità aumentate e, soprattutto, infinitamente aumentabili, che non possiede alcuna storia, né interiore né anteriore, una creatura sempre

sincronica, un «Lego» senza invarianti di specie, che appare ai nostri contemporanei come un ideale di emancipazione. «Lo schiavo», ha scritto Aristotele (1967), «è colui che può cambiare Paese, lavoro, condizione […] L’uomo libero è colui che assume i suoi legami»; potremmo riformulare così: «Colui che è territorializzato nei suoi invarianti». L’ideale del cyborg è un mondo di schiavi «utili». Gli invarianti organici dell’umano includono, è chiaro, le possibilità del cambiamento, contrariamente al simpatico scorpione; ma le condizioni di qualunque cambiamento consistono nel fatto che qualcosa non cambi dato che, se tutto cambia, non vi sarà cambiamento perché chi o che cosa cambierebbe senza stabilità? I possibili della tecnologia funzionano in linea con i possibili del mondo della fisica; il riduzionismo fisicalista pensa appunto i possibili per la vita riducendo la vita ai suoi meccanismi di base smontati. Così, ad esempio, a differenza dei computer, i cervelli sono dispositivi dinamici che devono la loro imprevedibilità alla loro sensibilità agli stati iniziali e agli «effetti di frontiera». Ciò vuol dire che, poiché i cervelli sono nel mondo, il caso per i cervelli non è una semplice predicibilità nel senso che «mancano dei dati», ma qualcosa che è inerente alla natura stessa del cervello. Le Macchine di Turing (MdT), al contrario, sono fatte per iterare. Certo, i possibili delle MdT e la modellizzazione digitale del mondo stanno cambiando la vita, le forme della conoscenza e le pratiche. Come scrive Giuseppe Longo (1999) nel suo articolo El modelo como mirada organizadora (Il modello come sguardo organizzatore): In effetti, le determinazioni matematiche, le equazioni in particolare, così come le imitazioni computazionali, forzano un’omogeneità che è estranea ai differenti livelli di organizzazione propri degli organismi biologici e, aggiungerei, del buon funzionamento del cervello.

Il cervello produce senso e per ciò stesso intenzionalità propria, ma né questo senso né questa intenzionalità emergono da calcoli e algoritmi aggregativi, costruiti come uno strumento per un dato compito: vivere non è un «compito assegnato»: un organismo è il suo proprio fine, non è mai un mezzo. Il cervello non è «utile per qualcosa»; è la sua stessa finalità: esistere, esistere come cervello. È per questo che i nuovi possibili di un

cervello «aumentato» non sono molto evidenti né compatibili con esso. La tendenza e i tropismi propri di ogni specie che si manifestano nei cervelli provengono dalla durata molto lunga, dalla selezione e dalla coevoluzione; ciò che è proprio del cervello non è, allora, reagire in modo lineare all’ambiente ma, al contrario, agire secondo la sua geografia interiore di compatibilità. Il cervello non funziona come un cyborg: agisce e permette l’atto in linea con la propria storia e con la propria struttura. I principi di integrazione complessa del cervello come unità dinamica e aperta è esattamente quel che esamineremo nel dettaglio nei capitoli che seguono. I possibili tecnologici e il loro divenire obbligatorio Le tecnologie attuali applicate al funzionamento del cervello si propongono, molto generosamente, di migliorare le sue capacità. Vedremo come i progetti di memoria artificiale, da un lato, e dello sviluppo di possibilità «intelligenti», sembrino fatti apposta per sedurci. Per questo è interessante vedere che cosa succede in generale quando i nuovi possibili della tecnologia vengono messi a disposizione del grande pubblico, come se il nostro cervello fosse un telefono cellulare e ci venissero offerte nuove app. Diciamolo chiaramente, al di là di quanto dice la narrazione: cioè che quel che le tecnologie producono come nuovi artefatti o applicazioni sia a disposizione del grande pubblico e che nessuno ci obblighi a comprarli o a utilizzarli, non è affatto certo. Prendiamo alcuni esempi recenti. Lavorando a un libro su medicina e biopotere, mi interessai a un fenomeno che in quel momento mi apparve un po’ strano: a Parigi, così come in altre grandi città del cosiddetto «primo mondo», è ogni giorno più raro vedere bambini trisomici (con un cromosoma in più). Volli conoscerne la ragione, se ve ne fosse stata una. L’enigma non rimase tale a lungo: la risposta era molto semplice e aveva a che fare con le nuove tecniche di analisi prenatali. Questi processi hanno colonizzato a poco a poco la gravidanza, facendo della futura mamma una malata su cui occorre

vigilare e che va orientata e consigliata, e si è riusciti a far sì che, quando si constata la possibilità che l’embrione sia caratterizzato dalla modificazione genetica che dà la trisomia, si proceda — nella maggior parte dei casi — a un aborto terapeutico. Ora, tale possibilità di moltiplicare gli aborti terapeutici è frutto del progresso tecnologico e, allora, potremmo dire che, dopotutto, dato un certo progresso, tocca a ogni coppia scegliere quel che desidera con cognizione di causa. Ma le cose non vanno così nel mondo reale. In realtà, allorché la coppia si trovi di fronte alla probabilità della nascita di un bambino trisomico, il personale medico la informa che è possibile un aborto terapeutico. Se la madre si oppone, alla buona volontà dell’ostetrica si affiancherà il sorriso materno e comprensivo di una psicologa che vorrà «aiutarla a comprendere la situazione». Se, nonostante tutta questa buona volontà, la madre decide di portare avanti la gravidanza, lo farà a suo rischio e pericolo, dovrà cioè vedersela con il suo senso di colpa e con lo sguardo di un medico che non sarà molto tollerante. Mi viene in mente il caso di un giovane francese che vinse una causa contro i suoi genitori per averlo fatto nascere; il giovane soffriva di un handicap pronosticato ai suoi genitori durante la gravidanza. Nel percorso del cervello e dell’uomo aumentati, questa sentenza del tribunale segnò una svolta: vi fu da quel momento una forma di vita che era un guasto, un’imperfezione. Certamente uno può fare come crede ma, ad esempio, negli Stati Uniti, le compagnie di assicurazione della salute non pagheranno assolutamente nulla delle spese necessarie per l’istruzione e le cure di un bambino trisomico visto che, pur essendone stati avvertiti, i genitori non hanno abortito. Possiamo continuare la litania riferendo il fatto che, poiché ci saranno sempre meno bambini trisomici, vi saranno sempre meno istituzioni adattate allo scopo, professionisti che se ne occupino, ecc. La tecnologia ha reso possibili le analisi prenatali; nessuno obbliga nessuno, ma se una coppia «decide» (e vedremo che cosa questo significhi) di mettere al mondo il bambino, la loro vita sarà molto difficile. Nessuno li reprimerà, ma serviranno come esempio da non imitare per qualunque altra coppia che decida «liberamente» di non utilizzare le tecniche a sua disposizione. Ma pensiamo anche a esempi quotidiani e comuni. Chi può permettersi di non utilizzare la tecnologia della carta di credito, di

internet, dei telefoni cellulari? Si può, chiunque può, semplicemente la disciplina della tecnologia è imposta per adesione alla «vita facile». La tecnologia ci facilita la vita, è un regalo, ma... c’è chi non accetta regali! È giustamente — e, diremmo, tristemente — per la facilità e il piacere che derivano dall’adesione alle pratiche che la tecnologia rende possibili che diventa obbligatoria. Non dimentichiamo che le promesse tecnologiche di piacere, facilità e divertimento esistono in un mondo disincantato in cui le grandi promesse sono venute meno. La tecnologia e i suoi artefatti si propongono — e di fatto si impongono — come ciò che occupa il nostro tempo e il nostro cervello. Per guadagnare tempo, passiamo tutto il giorno pendendo dalle lusinghe di una tecnologia che in realtà ci diverte nel senso più militare del termine: vale a dire, ci fa occupare di qualcos’altro. I possibili tecnologici si impongono sui limiti dei compossibili biologici, culturali, psicologici. Ricordiamo semplicemente qualcuna delle differenze di questi due modi di funzionamento così diversi. I possibili tecnologici «discretizzano» il mondo: raccolgono dati dal mondo reale che modellano per quello che abbiamo già presentato come «arrotondamento digitale». Quel che i modelli digitali misurano come punti, nella realtà esiste solo in termini di intervalli, vale a dire come un’unità continua, infinita in una certa misura. Questo ha a che fare per certo con una delle differenze fondamentali che «fisicalizzano» il mondo della vita e della cultura, vale a dire che lo riducono alle sue dimensioni meramente fisicochimiche. Da un punto di vista fisico riduzionista, per comprendere un fenomeno bisogna scomporlo fino ad arrivare alle sue parti principali, ovvero non più scomponibili. Ma se facciamo una cosa del genere nel mondo biologico o culturale, non possiamo comprendere nessuno dei due mondi. Se per comprendere il cervello è necessario vederlo come un «oggetto» per poter spiegare così il suo comportamento secondo le cosiddette «leggi della fisica», che non corrispondono al funzionamento e alle leggi della natura, questo implica un riduzionismo. Abbiamo già visto i meccanismi attraverso cui la tecnologia «seduce» e cattura l’uomo, in ogni caso come uomo e cervello smontati; vale a dire, la tecnologia cattura l’attenzione e funziona

entrando in relazione con parti del cervello, non con il cervello come un tutto integrato; in ciò risiede la sua forza. Quel che ora è importante comprendere è che non ci sono solo seduzione, dipendenza, facilità, ma anche obbligo. Torniamo un momento all’esempio dell’aborto. Nessuno, di nessun partito politico, può affermare oggigiorno che desidera un progetto eugenetico che elimini dalla faccia della Terra alcuni tipi di umani — vale a dire, che ritagli l’umanità in un certo modo —, ad esempio, i trisomici, i nani, ecc. Dopo la Seconda guerra mondiale le politiche eugenetiche sono state contrassegnate dal sigillo dell’infamia. In realtà, però, in Paesi come gli Stati Uniti, la Danimarca, la Svezia, le politiche eugenetiche hanno continuato a essere praticate in una zona grigia, non visibile. Così, in questi Paesi, sono stati sterilizzati sordi, matti, «devianti» di ogni tipo, ma la pratica eugenetica ha finito per essere considerata come indifendibile finanche dai partiti fascisti, come nel caso del partito di Le Pen in Francia. Comunque, sparita la pratica politica dell’eugenetica, i possibili tecnologici, senza «nessuna ideologia sullo sfondo» (ciò è discutibile poiché molti filosofi considerano che la stessa tecnologia funzioni come un’ideologia), determinano una realtà eugenetica di fronte alla quale nessuno reagisce, che non è neppure percepita: sembra semplicemente un’evidenza dovuta al «progresso» e nessuno può fermare il progresso... come ripetono i pappagalli. Si rifletta sui moltissimi cambiamenti che avvengono in questo modo nella vita civile, cioè nelle norme, nella produzione di valori delle nostre società postmoderne, e ci si accorgerà che in verità la tecnologia si è trasformata in un autentico focolaio di produzione di valori, in una morale automatica, in un certo senso. Si parla in questi casi di un presunto «progresso della scienza», ma anche questo è dubbio. In realtà, «la scienza», semplicemente, non esiste come unità; quel che esiste a rigore sono le pratiche scientifiche, cioè pratiche che si portano avanti con determinate regole piuttosto rigorose; ad esempio, la ripetitività dell’esperienza, il carattere non assoluto, falsificabile, di qualunque principio scientifico, il non saltare alle conclusioni, ecc. In sintesi, non vi è «scienza», vi sono processi e pratiche giunti a compimento in una cornice di matematizzazione e

trasmissione, così come l’esigenza della prova di ciò che si sta facendo. In questo senso, non c’è un vero progresso nella scienza; vi sono, se si vuole, dei «progressi», dato che un progresso vuol dire un significato, una direzione determinata e un avanzamento verso un punto di arrivo predeterminato: niente di tutto questo esiste nella scienza. Invece, da un punto di vista tecnologico — o tecnologicoscientifico, espressione che si applica a queste pratiche in cui l’economia e la tecnologia colonizzano il campo semantico della scienza —, c’è senz’altro un progresso, e si tratta del progresso della tecnologia sull’insieme dell’esistente, della sua conquista, della contaminazione di tutti gli altri modi dell’esistenza, catturati dal modo tecnologico dell’esistenza. Per la tecnica, gli esistenti sono «artefatti», ovvero strumenti, intermediari al servizio di un altro obiettivo. Tutto dev’essere misurabile, pensabile, comparabile in accordo con unità discrete che possono essere identificate solo quantitativamente; nessuna considerazione qualitativa ha diritto di cittadinanza. La tecnologia procede attraverso una serie di sintesi computazionali e queste ultime hanno inizio non già da analisi concettuali di oggetti, bensì da altre sintesi e modelli computazionali. Non è possibile (almeno per il momento, in ogni caso) procedere a sintesi computazionali che rendano conto di sistemi continui, di forme dinamiche evolutive e aperte, o di funzionamenti sensibili ai dati iniziali e agli «effetti di frontiera». Torneremo su questo punto dell’indipendenza della tecnologia e sulla sua tendenza a svilupparsi prendendo tutto lo spazio. Non si tratta assolutamente di trarre conclusioni di tipo tecnofobo, ma di cercare di comprendere la possibilità di un’ibridazione tecnologiaessere vivente-cultura che non ignori le barriere irreversibili che ordinano i compossibili di qualunque livello e dimensione di organizzazione della materia, che non possono piegarsi impunemente ai possibili tecnologici.

CAPITOLO NONO

I TRE MODI DI ESSERE Ciò che soltanto ieri era pura fantascienza, oggi è una realtà: è difficile distinguere fra artefatti, organismi e misti. Forse è necessario, non solo per comprendere ma anche per agire, definire un po’ meglio ciò che in linea di principio determina le particolarità di questi tre modi di essere, questi tre modi dell’organizzazione della materia. Distinguiamo, come abbiamo visto, tre modi: organismi, aggregati e misti. Questi modi di essere possono differenziarsi per vari elementi che sono fondamentali; il primo sarà ciò che a ciascuno di essi dà un’unità, vale a dire che rende possibile che siano distinguibili e identificabili. Con ciò mi riferisco alla qualità che consente a un ente di essere «lo stesso» al di là dei cambiamenti. Ciò che unifica ciascun modo è ciò che gli dà il carattere di «esistente»; è, allora, la sua «condizione di esistenza». Gli aggregati Gli aggregati sono gli oggetti e gli enti che devono la loro unità, il loro essere, al fatto di mantenere sempre unite le parti che li compongono. Queste parti sono chiamate «estensive»; così, ad esempio, perché una pietra sia una pietra in particolare, è necessario che possa mantenere le sue molecole e le sue parti unite. Se, dopo un

periodo di erosione o a causa di un’esplosione, la pietra si disperde, perde la sua unità: non è più una pietra ma parti sparse. In questo modo possiamo dire che l’aggregato che costituisce la pietra (aggregato di parti) può cambiare luogo, può muoversi o restare dov’era, e continuerà a essere la stessa; se però perde le parti che lo compongono, ciò che resterà non sarà lo stesso. Ciò vuol dire che un aggregato è il modo di essere che deve la sua unità al mantenimento delle sue parti estensive. In questo gruppo troviamo un tipo di aggregati che sono gli artefatti: anche gli artefatti tecnologici sono quel che sono fino a che non perdano le loro parti chiamate «estensive». Per «parte estensiva» si intendono qui gli elementi che foggiano un corpo e che sono misurabili, pesabili, presenti e rappresentabili: le molecole per una pietra, le parti di un artefatto, ecc. Immaginiamo, a fini esplicativi, un esempio: se si porta l’auto dal meccanico perché le vengano effettuate alcune riparazioni, e quando si va a ritirarla il meccanico dice: «Non si preoccupi, le ho cambiato la carrozzeria», si pensa: «Ah, bene, è la mia auto, ma modificata». Ma se il meccanico aggiunge: «Le ho cambiato anche il telaio... e già che c’ero ne ho approfittato per cambiare il motore e i sedili», verrà spontaneo rispondere: «Ma lei mi ha cambiato la macchina!». Ed è proprio così. Un’auto concreta è quella che conserva le sue parti estensive; altrimenti non è quell’auto. Gli organismi Quando mi riferisco agli organismi, non parlo soltanto di organismi biologici. Come vedremo, la forma organica di strutturazione e funzionamento va al di là del biologico; quindi, possiamo dire che tutto il biologico è organico ma che non tutto ciò che si struttura in modo organico è biologico. Un organismo è ciò che Kant (1978) definisce nella sua terza critica, la Critica della facoltà del giudizio, come un dispositivo autoorganizzato in cui ogni parte esiste e funziona per e attraverso l’altra. Afferma anche che un organismo non è un mezzo, ma il suo proprio fine. Vediamo che cosa significa questo.

Un organismo, contrariamente a un artefatto, deve la sua unità, la sua condizione di essere, a una parte che non è estensiva — che non possiamo identificare con una porzione di materia pesabile o misurabile — ma che chiamiamo «parte intensiva». Ciò significa che deve la sua condizione di essere a una parte implicante una dinamica, un modo di funzionare, e che non si può «vedere» come si «vedono» e si misurano le parti estensive. In questo modo, constatiamo che le parti estensive evolvono ed esistono ordinate dal funzionamento che detta loro questa parte intensiva. Definiamo quindi «parte intensiva» la dinamica e il divenire che muovono e ordinano le parti estensive. In sintesi, la parte intensiva implica questa parte della materia che consiste nel suo movimento, nelle sue tensioni, nella sua autoorganizzazione. In effetti, al di là della visione semplice della materia come «un insieme di elementi identificabili», il concetto di «materia» deve includere non soltanto le cosiddette «parti» (estensive) ma anche la sua propria dinamica interna (intensiva). Nel caso degli organismi, questa parte intensiva è fondamentale. Prendiamo l’esempio di un organismo concreto, un neonato. Un papà vede il suo Pierino appena nato, è fuori di sé dalla gioia, lo «riconosce». Il papà di Pierino deve partire per un viaggio che durerà un mese; quando torna, lo prende in braccio, lo bacia e dice: «È il mio Pierino!». Ha ragione, è il suo Pierino, lo ha riconosciuto, è chiaro, salvo che... Per un organismo vivente, essere lo stesso — potremmo dire, la stessità — si deve al fatto che abbia perso le sue parti estensive mentre ne cattura altre dall’ambiente (Pierino mangia, respira) che l’organismo trasforma per farle diventare parti estensive proprie. Detto altrimenti, nel giro di un mese Pierino non ha quasi più nessuna delle molecole che aveva al momento della sua nascita. Un organismo deve così la sua unità, la sua identità, al fatto di perdere le sue parti estensive e di catturarne altre. Il papà di Pierino ha in braccio un Pierino che è lo stesso perché ha cambiato, ha perso, tutte le sue molecole. E meno male che è così, perché invecchiare, essere malati, morire significa, per un organismo, appunto cominciare a conservare, a mantenere le sue parti estensive. Allora, per un aggregato (artefatto, pietra, automobile, ecc.), essere lo stesso, la stessità e l’identità, si basa sul fatto di poter custodire, conservare le sue parti estensive; al contrario, per un organismo, la

stessità e l’identità potranno essere conservate solo a condizione di perdere le proprie parti e produrne altre. Questo costituisce una differenza di essenza molto importante fra oggetti tecnologici ed esseri viventi. In effetti, l’aumento del cervello, ad esempio, a partire da aggregati tecnologici, tende a trattare l’organismo come se fosse un aggregato (più avanti esamineremo in dettaglio questo aspetto). Senza dubbio, però, vi è un’altra differenza fra gli organismi e gli aggregati, che dobbiamo considerare prima di parlare dei misti o ibridi. Un organismo è al tempo stesso un modo di organizzazione della materia la cui propria unità interna include un infinito. Ciò significa che un organismo reca in sé un livello tale di complessità che contiene quel che chiamiamo «infinito intensivo», integrato e articolato. Le parti elementari dell’organismo sono fin dall’inizio «complesse», perché un organismo è sempre l’attualizzazione di una linea organica di sviluppo attraverso la storia. Possiamo allora dire che l’intensivo unisce il plurale in una determinazione semplice, contrariamente alla quantificazione estensiva che effettuano gli aggregati, producendo unità. Pensiamo, ad esempio, a ciò che chiamiamo «la vita». La vita non è la somma di tutte le vite, in ogni caso non è così che la concepiamo. La vita è un insieme di processi complessi che proviene dalla lunga durata, che ha una storia, che si attualizza e si trasmette. In questo modo, possiamo dire che questa vita che è un «tutto» esiste in ciascuna delle sue manifestazioni. Quando guardo la mosca che sta davanti alla finestra nella stanza in cui scrivo, so che questa mosca, poiché è viva, possiede la «vita». Vale a dire che la vita si trova in ciascuna delle forme in cui si riattualizza e si trasmette. Lo stato critico organico C’è qualcosa di non divisibile, che non si può neppure costruire, in queste unità dove si trova il «tutto» della vita in ciascuno degli organismi viventi: il tutto esiste in ciascuna delle parti senza che esista un «tutto» di altro tipo che conglobi le parti.

Ciò segna, allora, una differenza enorme rispetto agli aggregati e agli artefatti perché questi sono parti, parti semplici che possono essere organizzate in artefatti complessi ma restano sempre parti. Non c’è un «tutto» che si trovi avvolto in ciascuno degli aggregati. Per dirlo in un altro modo, negli organismi c’è qualcosa che è molto di più della somma delle loro parti; questo «qualcosa di più» non solo emerge dall’organismo, ma lo precede. Per contro, un aggregato o un artefatto è ciò che esiste semplicemente come la somma delle sue parti. Qui possiamo evocare il concetto filosofico di «singolarità»: una singolarità è in un certo modo il comune in atto. Vale a dire che qui il comune in senso filosofico è un «tutto», sostanza, materia, dinamica, mondo. Allo stesso modo, allora, possiamo dire che il comune è la singolarità in potenza. Vediamo che, secondo tale definizione, un organismo è una singolarità mentre un aggregato o un artefatto non lo è mai. Che qualcosa funzioni come una singolarità vuol dire, fra le altre cose, che è il suo proprio fine, che è un tutto articolato ad altri tutti. La dinamica e il funzionamento delle parti e del tutto in un organismo sono, senza dubbio, un fattore principale. Ogni parte di un organismo è in relazione dinamica con l’insieme delle sue parti. Questo tipo di relazione locale-globale è comprensibile nella forma che in termodinamica si chiama «struttura dissipativa». Tale struttura ha come particolarità fisica il fatto che funziona diminuendo localmente l’entropia. Come è noto, l’entropia è sempre «positiva», aumenta. Questo è anche il caso di una struttura a partire dal disordine — cioè l’ordine a partire da un disordine o ordine minore — ma in ogni caso questo fenomeno non nega la seconda legge della termodinamica, visto che l’entropia globale del sistema aumenta. Questa produzione di ordine locale è conosciuta come «stato critico di transizione di fasi». Si tratta dell’esempio già citato dell’acqua che bolle o di altri processi di questo tipo, in cui l’acqua cambia stato: solido, gassoso, liquido. A ciascuna di queste transizioni di fase corrisponde un ordinamento delle molecole che compongono il sistema; è per questo che parliamo di «entropia negativa» (produzione di ordine). In questi momenti di transizione esiste una relazione globale-locale molto particolare che si chiama «stato critico», in cui le molecole che compongono il sistema sono in correlazione con tutte le

altre molecole. Il globale non è né un centro né la somma delle parti: c’è un’unità generalizzata nel dispositivo o, detto altrimenti, il globale è nel locale. Per definire ciò che è proprio degli organismi viventi, dato che essi si trovano in una relazione in cui ogni parte è «per e attraverso l’altra», Francis Bailly e Giuseppe Longo (2006) hanno avanzato il concetto di «stato critico esteso». Ciò vuol dire che, nel caso degli organismi viventi, tutto avviene come in una trasmissione di fasi. Tutte le parti sono intimamente collegate. Nel caso del vivente — contrariamente al fisico, in cui questi stati critici sono puntuali -, la criticità che genera l’unità dinamica è «estesa» nel tempo: il tempo della vita di un organismo, il tempo di una specie. Lo stato critico esteso è l’ordine dinamico interno che caratterizza ogni organismo. Come possiamo vedere, è ciò che spiega al tempo stesso questo modo di continuità organico di cui ho già parlato, in cui la continuità non è data da una semplice contiguità. Le altre caratteristiche che definiscono un organismo sono i comportamenti caratteristici. Un organismo non «reagisce» con la modalità di un feedback adattivo all’ambiente, un organismo agisce in linea con i suoi comportamenti e i suoi propri tropismi. Un’altra caratteristica che pure ho già menzionato è il fatto che ogni organismo possiede ciò che Francisco Varela chiamava «cerchio operazionale», è cioè finito, limitato e autoregolato. I limiti e l’autoregolazione sono fondamentali per ogni organismo, ma non è così per un aggregato o un artefatto che può sempre incorporare nuove parti, moduli o applicazioni. Un’altra grande parte fra questi due modi di essere è data dalla riproduzione e dalla riattualizzazione degli organismi. In effetti, la trasmissione fa sì che ogni organismo sia parte di una linea, di una specie, di un insieme evolutivo. Un organismo non nasce mai da una tabula rasa o dal nulla. L’autoregolazione organica Forse il fatto che un organismo sia sempre autoregolato è ciò che gli permette di integrare quel che, da un punto di vista aggregativo o razionalista, appare come «negativo». In effetti, la morte, le malattie, i

cicli evolutivi, con le loro fasi anaboliche e cataboliche, sono parte integrante del suo funzionamento. Dal punto di vista organico non ci sono guasti o imperfezioni; esistono — come ho detto — faglie strutturali e strutturanti della sua singolarità. Ciò che da un unto di vista artefattuale o economico può apparire come «negativo» o che può sembrare «inutile», in un organismo è assolutamente necessario per la sua omeostasi e per il suo sviluppo. Tutte le tendenze attuali di ricerca orientate al significato dell’uomo, del cervello e della vita aumentati ignorano questa differenza di regime e funzionamento organico, con le conseguenze che ne derivano. Un organismo possiede un ordine gerarchico fra le parti che lo compongono. Non possiede organi o una parte centrale, ma non per questo manca di organi e parti vitali. Un chiarimento: «vitale» non significa «centrale». Fra le diverse parti e strutture che costituiscono un organismo, le relazioni non sono di ordini e di traduzione di ordini. Ad esempio, quel che succede nel fegato e le sue influenze sul cervello non saranno una «traduzione» del fenomeno dal corpo al cervello; la relazione fra le diverse parti del corpo e il cervello è di tipo «trasduttivo». «Trasduzione» vuol dire che, quando gli arriva uno stimolo corporeo, il cervello non «traduce» lo stimolo nel suo linguaggio proprio; al contrario, la trasduzione implica che uno stimolo x provoca nel cervello una reazione y, autoreferenziale, vale a dire in relazione con il funzionamento specifico del cervello e non in continuità con lo stimolo. Pensiamo alle mille interpretazioni della psicoanalisi e della psicosomatica che ci avevano abituati a «tradurre» i processi corporei in «messaggi psicologici». Fra il corpo e il funzionamento psicologico la barriera trasduttiva può forse provocare interpretazioni quali «Mi sento così o cosà a causa del mio stato fisico», ma uno stato fisico non può, da un punto di vista scientifico o anche solo razionale, essere interpretato come un messaggio che si debba tradurre e leggere. La non coincidenza fra parti organiche, come corpo, cervello o psiche, si spinge ancora più lontano dato che gli stimoli non solo non sono messaggi codificati, ma neppure trovano il cervello sempre nello stesso stato di funzionamento. Lo stesso stimolo avrà una trasduzione in mille modi diversi; questa è la componente del caso, stocastica,

della barriera trasduttiva, che in realtà si chiama «barriera stocastica trasduttiva». Ogni organismo funziona, così, in una condizione di costante cambiamento e impredicibilità; la stessa stabilità di un organismo dipende dal fatto che funzioni lontano dall’equilibrio: l’equilibrio è o patologico o fatale per l’organismo. I misti Il terzo modo di essere corrisponde a quelli che presenteremo come «misti». Un misto è qualcosa che funziona come un organismo, con un ordine interno e propri comportamenti caratteristici, il suo allontanamento dall’equilibrio, la sua cattura di parti estensive che esso trasforma, ma al tempo stesso non è un organismo perché non può riprodursi in maniera autonoma. Detto altrimenti, un organismo è autopoietico mentre un misto dipende dagli organismi che con esso si articolano per poter esistere. Possono esserci utili vari esempi. Il primo misto che possiamo menzionare è la lingua: una lingua possiede una «vita propria», un ordine interno; al tempo stesso, però, se non viene parlata, se non perde e non guadagna, se le sue parole e i suoi modismi non si modificano, se non si trasforma e non adotta nuove parti estensive, sarà una «lingua morta», una lingua in uno stato di equilibrio finale. I misti hanno una relazione di cattura e partecipazione: cattura perché, non essendo autopoietici — ovvero, non essendo in grado di conservare e riprodurre da soli la vita —, dipendono dalla possibilità di catturare esseri viventi per la propria esistenza (la lingua cattura le persone); e partecipazione, perché gli umani partecipano attraverso la cattura di questa combinazione che è la lingua. Altri misti sono la tecnologia, la macroeconomia, l’urbanesimo, ecc., cioè tutte queste strutture dinamiche che esistono, si sviluppano e muoiono seguendo strategie e linee di forza che sono loro caratteristiche. In tal modo, la lingua, ad esempio, è un misto con proprie esigenze e un proprio modo di funzionamento. Così, non possiamo far dire alla lingua ciò che vogliamo; al contrario, è un’esperienza ordinaria quella

di rendersi conto che la lingua possiede un proprio funzionamento il quale rende possibile esprimere alcune cose e impossibile esprimerne altre, e che non riusciamo a manifestare realmente e totalmente ciò che desideriamo in forma strutturata. La lingua, come gli altri misti, non è un utensile al servizio degli uomini. Nel caso della lingua, il punto di vista ingenuo consiste nel pensarla come uno strumento per la comunicazione che ha permesso all’essere umano uno sviluppo particolare e molto potente. In realtà, la lingua non è utile per la comunicazione. Se vogliamo pensare la lingua come «mezzo di comunicazione», dobbiamo prendere atto al tempo stesso di come la stessa lingua sia tanto «mezzo di comunicazione» quanto «mezzo di equivoci» e malintesi, insomma un «mezzo di incomunicazione». La lingua emerge in un dato momento della storia dell’evoluzione delle specie; è, in effetti, una struttura che si articola direttamente con il cervello degli umani. Al tempo stesso, la comparsa della lingua significò, nello sviluppo della vita sulla Terra, l’apparizione di un modo e di un tipo di organizzazione della materia e della vita particolari, con la loro propria organizzazione interna. I misti funzionano come vere e proprie strutture dinamiche, dipendenti dalla forza e dall’energia che gli organismi viventi e in particolare gli umani le forniscono. Producono vere e proprie strategie proprie, che devono essere comprese come strategie senza strateghi. Nell’interazione uomini-ambiente-lingua (o tecnologia, o urbanesimo), si sprigionano ed emergono risultanti, linee di forza che non devono essere intese come il prolungamento della volontà degli uomini che partecipano, bensì come le risultanti di forze congiunte conflittuali ma convergenti. Fra la lingua come macrostruttura autoorganizzata e ciascun essere umano parlante si crea uno spazio in questa interfaccia, uno spazio di interscambio ma al tempo stesso di conflitto. Possiamo dire che dai due lati esiste una reciproca tendenza a colonizzarsi. Questi spazi fra due strutture di natura tanto differente costituiscono la singolarità di ogni essere umano; l’appropriazione e l’integrazione organica di elementi della lingua si accompagna con la separazione dell’uomo da se stesso poiché è catturato dalla logica della lingua che cerca di «colonizzarlo». Per questo possiamo dire che, più che parlare una

lingua, noi esseri umani siamo parlati da una lingua. Forse la migliore immagine per pensare questa relazione fra la lingua e ogni essere umano è quella della «piega». Fra ogni essere umano e la lingua si crea una piega allo stesso modo in cui ogni lingua implica una piega con il popolo che la parla e ogni piega contiene altre pieghe. Non c’è fra il misto e ciascun organismo una coincidenza né ancor meno una traduzione bensì, come abbiamo visto, una trasduzione stocastica. Al tempo stesso, però, la lingua non si limita a esistere come un codice per esprimere ciò che gli uomini desiderano esprimere, come uno strumento, ma è anche una struttura emergente dell’insieme di ciò che esiste. Nella lingua, attraverso la lingua, si esprimono gli alberi, le montagne, gli animali, la storia, la geografia; è l’uomo il parlante, ma la lingua non parla solo dell’uomo o attraverso l’uomo. Con la tecnologia il fenomeno di partecipazione e cattura è analogo. La tecnologia non è semplicemente una serie di utensili al servizio dell’essere umano, ma veramente una serie di potenze che si sviluppano in modo sufficientemente autonomo da poter dire che ha una coevoluzione con l’essere umano e l’insieme del vivente, per il momento senza che a sua volta si lasci scolpire dal biologico o dal culturale. I modi di ibridazione Questa è forse una delle questioni e delle sfide più importanti della nostra epoca: il modo o i modi di ibridazione fra cultura, biologia e tecnologia. Per il momento, i misti come la tecnologia e la macroeconomia sembrano avanzare nella loro colonizzazione e nel dominio della vita in modo brutale e smisurato. Se confrontiamo quel che è successo nella storia in rapporto al misto simbolico (la lingua) e i misti tecnologici e macroeconomici, vediamo una differenza che non cessa di essere inquietante. In effetti, in relazione a questo desiderio/inganno che ha sempre attratto gli umani — la trascendenza nel senso di sfuggire ai propri limiti, sognare altre vite al di là del corpo e della morte — la lingua e i

discorsi teorici hanno sempre prodotto trappole terribili in cui gli uomini, avidi di superare la condizione di viventi, sono sprofondati di peso. Le guerre di religione, le grandi narrazioni, il nazismo, il fascismo, ma anche il comunismo mondiale, offrirono agli uomini timorosi della propria condizione la possibilità di essere coraggiosi a condizione della promessa di un «al di là». Sappiamo che milioni e milioni di esseri umani sono morti, hanno sofferto in onore di tali promesse fabbricate a partire da possibili teorici (il misto della lingua e del simbolico) che lasciavano sperare un «al di là» il quale permetteva agli umani di dimenticare l’al di qua. (Con Riccardo Mazzeo ho scritto un libro intitolato, appunto, C’è una vita prima della morte?).1 In generale sappiamo come la vita, i corpi, i cicli dolorosamente frenano questi deliri teorici a un prezzo molto, molto alto, ma a poco a poco questi sogni/incubi si arrestano, si stancano e finiscono per mollare la presa. Nel caso dell’ibridazione cultura-essere vivente-tecnica (con l’aiuto della macroeconomia), la cosa sembra essere molto più preoccupante. Forse il fatto di essere così avvezzi ai cambiamenti ci rende difficile la comprensione del fenomeno; forse dipende dal fatto che questi cambiamenti avvengono con una velocità che non permette di metabolizzarli, di integrarli organicamente (non possiamo saperlo per il momento). Ma la questione è che l’ibridazione con la tecnica digitalizzata non sembra possa essere addomesticata da e attraverso i cicli della vita. Una cosa è chiara e certa: l’ibridazione con i misti — e con la tecnologia in particolare — è un fatto in sé. Questa ibridazione non ha affatto bisogno di essere caricaturalmente anatomica per essere potente e reale. Al contrario, dagli esempi più semplici fino ai più complessi, l’ibridazione produce uno stato e un funzionamento di dipendenza in cui l’umano si trova acciuffato in due modi: la facilità e il divertimento. Riflettiamo sull’esempio banale del cellulare: quando vediamo tutta quella gente, in tutti i luoghi possibili, che parla e parla... e parla, ci risulta evidente che la tecnologia ha costruito una modalità di comunicazione da cui gli umani sono diventati dipendenti, che non ha nulla a che vedere con la necessità di dire qualcosa a

qualcuno. La prova della dipendenza in questi casi semplici di ibridazione è abbastanza facile da ottenere: si impedisca a una persona totalmente normale (il fatto che appaia normale è ciò che prova che è stata ibridata passivamente, senza nessuna resistenza) di usare il suo cellulare per una giornata e si constaterà che la dipendenza rispetto alla connessione con la rete comunicativa la fa soffrire enormemente per la privazione del congegno. Non c’è bisogno di parlare del fatto che il 99 per cento delle pratiche umane in tutte le loro dimensioni, dipendenti da tecnologie generalmente molto più sofisticate, è molto più vasto di questo minuscolo esempio sull’ibridazione. La resistenza a questo mondo ibridato, in una ibridazione in favore della tecnologia, esiste in due forme molto diverse e opposte: la prima è negativa; la seconda, positiva. La prima forma di «resistenza» all’ibridazione massiva risiede nel fatto che i corpi, i quali possiedono un funzionamento proprio, assolutamente diverso dal modo in cui funziona la tecnologia, resistono manifestando che questo mondo ibridato, dominato dalla tecnologia, non è vivibile, non è compatibile con gli organismi. Si tratta quindi di un modo di resistenza negativa perché si manifesta in una proliferazione di malattie nuove, emergenti o riemergenti, che testimoniano l’incompatibilità del nostro congegno con gli organismi. Senza dubbio, l’espressione più forte e inquietante di questa resistenza è data dallo sviluppo esponenziale di vari tipi di cancro. Il cancro «dice» che, in questo ambiente infettato da molecole di sintesi, onde, velocità, tecniche, ecc., la vita non può svilupparsi in modo sano. Malauguratamente si tenta di rispondere a questa inquietudine mondiale attraverso un’accelerazione della tecnologia. La seconda forma di resistenza, che annunciavo come positiva, si manifesta con la ricerca dei compossibili organici: l’esplorazione di nuovi tipi di ibridazione possibili che proteggano la vita e la cultura. È la resistenza-creazione che viene portata avanti da una buona parte degli artisti e dai creatori i quali, nelle loro opere e produzioni, cercano di immaginare e dare forma a nuovi tipi e modi possibili di organicità ibridata dove la vita colonizza la tecnologia permettendo all’umanità un’integrazione positiva di quest’ultima. L’arte è, così, un’attività da

cui è interessante cercare di comprendere i nuovi modi organici. Un’altra forma di resistenza positiva è offerta dalle esperienze sociali in cui si trovano nuovi modi di socievolezza e di solidarietà. I misti possono dar vita a meccanismi di ibridazione positiva che, senza ombra di dubbio, produrranno i nuovi tipi di organicità futuri i quali, in forme che non è ancora possibile identificare, potranno proteggere e sviluppare la vita e la cultura. Questo tipo di misti ibridati possono essere pensati come ciò che in antropologia viene definito «modi analogici» di organizzazione sociale e di vita. In questi modi, elementi di natura molto differente si articolano, si integrano per permettere nuove forme di organicità. Questo tipo di riflessione è al tempo stesso necessario e urgente, ma è importante anche non cadere nel catastrofismo del tipo «transumanismo» o «postumanismo», come succede talvolta quando si affrontano questi temi. Un organismo può articolarsi in modi molto diversi. Pensiamo all’esempio già citato delle formiche: chi è l’insetto? La formica o il formicaio? In realtà, nel caso delle formiche vediamo come nessuna delle due risposte possibili sia definitiva o corretta. Quel che succede è che nelle formiche, come nei sifonofori (certe creature marine), ad esempio, possiamo constatare che un funzionamento organico si può articolare in modi differenti. Così, in un dato momento, l’unità organica sarà data da una formica in particolare in una determinata situazione in cui debba risolvere un problema, ma al tempo stesso in altri processi sarà corretto prendere il formicaio come unità organica, mentre in altri casi la risposta sarà il formicaio/la formica e l’ambiente. Nel caso dei sifonofori, assistiamo anche a un funzionamento di organicità e cervello collettivo che può funzionare in modi differenti. I sifonofori possono agire come animali indipendenti oppure associarsi per creare quelli che bisognerà chiamare «organi collettivi». Così, in alcune occasioni i sifonofori si industriano per formare un intestino comune, per digerire una preda molto grande, o anche per difendersi o attaccare. Questo tipo di «entità doppie» o miste sono un esempio di come possano esistere — e di fatto esistano — per l’uomo e la cultura differenti modi e dimensioni dell’organicità. In alcuni momenti, uomo, tecnologia e ambiente possono essere, e certo saranno, un’unità

organica mista e ibrida, capace di articolarsi rispettando i compossibili propri della vita. La differenza fra questi organismi possibili ibridi e gli artefatti attuali risiede nel fatto che, per il momento, l’ibridazione sta creando aggregati artefattuali, mentre gli ibridi desiderabili devono funzionare in base a principi intensivi organici e non come artefatti aggregativi. 1

Miguel Benasayag e Riccardo Mazzeo, C’è una vita prima della morte?, Trento, Erickson, 2015.

CAPITOLO DECIMO

IL CERVELLO SENZA ORGANI, GLI ORGANI SENZA CERVELLO Lo studio del cervello implica due movimenti paralleli e, in una certa misura, contraddittori. Da un lato, risultano molto positivi i progressi rispetto al funzionamento del cervello sviluppati grazie alle nuove tecnologie, che hanno permesso immensi passi avanti nelle conoscenze neurofisiologiche mettendo così in discussione molti principi relativi alla costellazione pensiero-libertà-affettività-identità. Ma, dall’altro lato, lo studio del cervello è stato, in gran parte, catturato dall’ipotesi iniziale: il cervello funziona come una Macchina di Turing (MdT), ciò che è stato chiamato «l’uomo neuronale». Questo ci ha portati non solo a eccessi interpretativi, ma finanche — e soprattutto — a sviluppare tecnologie molto potenti che modificano la nostra vita a partire dalla credenza secondo cui il cervello e il biologico funzionerebbero sul serio come lo mostra il modello digitale, come una MdT. Molte «conoscenze» sul cervello possono trovare applicazione solo se consideriamo che il cervello sia una MdT naturale, il che è ben lungi dall’essere un’evidenza. Per progredire nella comprensione della differenza tra artefatto e cervello, dobbiamo valerci di un concetto artistico: quello di «corpo senza organi», creato dal poeta francese

Antonin Artaud per esprimere qualcosa di molto forte legato alla sua vita. Avendo sofferto fin dall’infanzia di problemi psichici gravi, Artaud fu vittima della peggiore psichiatria restrittiva della sua epoca. Fu sottoposto più volte a elettroshock. Racconta che, una volta, durante uno di questi trattamenti, un infermiere gli premeva un cuscino sulla faccia mentre gli trasmettevano la corrente elettrica. Il poeta non riusciva a respirare né ad avvertire i suoi «amabili clinici» che stava per morire. Allora, dice Artaud, la sua mano si mise a respirare. La mano respirò e lo salvò. Poiché tutto ciò è complesso, giacché c’è una componente filosofica oltre a quella poetica, sarebbe più decisivo e chiaro citare Artaud spiegandolo con le sue stesse parole. La conclusione artistica fu che in realtà gli organi del corpo non sono tanto differenziati e specializzati come ci insegna la medicina. Quel che Artaud creò con il concetto poetico di «corpo senza organi» fu l’idea che il corpo potesse riordinarsi perfettamente per ridistribuire le funzioni in risposta alle necessità vitali dell’organismo. Gli organi appaiono in questa finzione poetica come il frutto di una visione disciplinare più che come una realtà anatomica fissa. Naturalmente vi sono molto poche probabilità che la mano di Artaud abbia respirato; benché i miei studi di medicina risalgano a un’altra epoca, non credo che fosse possibile. Per contro, quel che il poeta esprime, con i suoi strumenti, è che la definizione troppo differenziata di funzioni, organi e parti del corpo costituisce un errore, anche dal punto di vista medico. Poco più tardi, il dottor Georges Canguilhem, grande filosofo e medico francese, padre della nuova epistemologia, sviluppa la stessa ipotesi dal punto di vista scientifico. Nel suo saggio molto noto Il normale e il patologico (1970), spiega come qualunque identificazione chiusa di un organo o una funzione sia un errore. In questo modo, se penso che il cuore, ad esempio, serva per pompare il sangue, sono, senza dubbio, nel giusto. Il problema ha inizio quando penso che il cuore non serva a nient’altro. Ogni definizione rigida di una funzione implica un certo grado di finzione. Gli organi non si possono comprendere come moduli isolati, come un artefatto; l’integrazione dell’organismo è tale per cui qualunque visione modulare è erronea. Pensiamo, ad esempio, alle ipotesi così radicali in biologia

molecolare che pretendevano di trovare un’equazione possibile in cui a ogni gene corrispondesse un carattere definito. Questa ipotesi, che tanto sedusse i ricercatori — e ancor di più le banche e i laboratori — si rivelò un’enorme esagerazione. Nessuno nega che vi sia una relazione fra geni e caratteri, ma spesso c’è fra un gene e vari caratteri, o fra vari geni e un carattere, senza dimenticare tutti gli altri fattori richiesti per la manifestazione del gene: quelli epigenetici, la variabilità, i geni di regolazione, ecc. È quanto induce il biologo francese Henri Atlan (1972) ad affermare, non senza una certa provocazione: «Il codice dell’ereditarietà si trova dappertutto... salvo che nei geni». Bisogna però riconoscere che la medicina attuale — al pari della biologia — ha sviluppato un punto di vista che potremmo identificare con «gli organi senza corpo», vale a dire la visione aggregativa della medicina e della biologia pensano e studiano i corpi come un insieme di organi articolati, ma senza un «corpo» che conferisca loro significato e integrazione. Ad esempio, quando si va dal medico per un determinato dolore o per quel che sia, in genere, si va direttamente dallo specialista (tipo: ho le palpitazioni, vado dal cardiologo) e questo specialista a sua volta manda da un superspecialista (mi duole la mano, vado dal traumatologo che mi manda dallo specialista della mano), e così avviene per vari sintomi che nessuno interpreta nel suo complesso. In questo modo, curiamo qualunque cosa abbiamo, ma non la totalità di ciò che abbiamo, in modo che spesso si equivoca sia la diagnosi sia il trattamento perché ci si dimentica che si tratta dello stesso corpo, di una persona integrale (che ha anche una psiche!). E di tutto questo non si tiene alcun conto. Non è strano, allora, che succeda lo stesso con il cervello. Le conoscenze attuali del cervello si superspecializzano sulla descrizione dei suoi diversi organi e funzioni, fino ad arrivare al punto attuale in cui in realtà ci troviamo di fronte a una modellizzazione che può essere chiamata: «gli organi e le funzioni senza cervello». Allora, nel caso del cervello, la sua unità organica implica — al contrario di quanto abbiamo appena scritto — un principio forte di integrazione che fa sì che quest’organo debba essere studiato, in termini ottimali, come un cervello senza organi. Ciò è così da due punti di vista: per cominciare, perché il grado molto alto di complessità fa sì che, ad esempio, a una lesione molto grande

corrisponda un effetto piccolo, e viceversa. In realtà, la non localizzazione funzionale biologica è un concetto fondamentale, così come lo è la non simmetria che ho menzionato. Questa non localizzazione implica una specializzazione topografica (geometrica) delle funzioni, che è la caratteristica essenziale di ogni essere vivente e del cervello in particolare. Come ho già detto, la chimica è locale mentre la fisiologia non lo è, il che implica in certi casi conseguenze cliniche abbastanza incredibili. Ad esempio, il neurologo canadese Maurice Ptito afferma di avere fra i suoi pazienti almeno dieci persone che vivono con metà cervello, e ciò è assolutamente esatto. Per curare le loro crisi violente di epilessia, subirono un’operazione chiamata «emisferectomia» che, come lo indica il nome, implica l’ablazione di metà del cervello, ovvero di un emisfero cerebrale. Si penserebbe che queste povere persone che hanno dovuto subire una simile operazione debbano vivere molto male, ed è logico pensarlo. Ma in realtà le cose sono andate diversamente. Se incrociamo per strada una persona che sia passata attraverso questa esperienza, non c’è nulla nel suo comportamento che attiri la nostra attenzione. Il professor Ptito ha seguito questi pazienti per più di quindici anni; il suo lavoro è consistito nel cercare di comprendere i meccanismi di integrazione che hanno permesso a questi pazienti di compensare una simile perdita cerebrale e — non è un dettaglio — di vivere una vita normale. In realtà, questi pazienti hanno vissuto l’operazione come un vero e proprio miracolo. È stato così per una donna che non poteva uscire dall’ospedale a causa della gravità delle sue crisi e che venne operata a 23 anni. Dopo l’operazione la donna poté sposarsi e avere tre figli. Cervello senza organi? Se il cervello fosse come lo presentano le modellizzazioni modulari, una persona che avesse subito questo tipo di operazione sarebbe ridotta allo stato vegetativo. Certo, il lavoro di riadattamento che permette questa integrazione cerebrale spettacolare è lento e dipende molto dall’atteggiamento del paziente ma, come sognava Artaud, è possibile che un «corpo senza organi» salvi l’organismo. Questa integrazione si deve ai meccanismi che abbiamo già visto di plasticità e riciclaggio neuronali. I pazienti di cui stiamo parlando

poterono recuperare una funzionalità intellettiva prossima ai cento punti di quoziente intellettivo nei test consueti di misurazione dell’intelligenza. Non bisogna però confondere questa ablazione di un emisfero con la tristemente nota lobotomia frontale degli anni Cinquanta.1 Uno dei casi studiati dal professor Ptito è forse il più significativo in assoluto. È quello di una bambina di sette anni a cui fu asportato un emisfero quando ne aveva tre. Benché a livello motorio soffrisse di una certa rigidità nel braccio e nella gamba del lato opposto all’emisfero asportato, quel che è interessante è che si trattava dell’emisfero dominante nell’uso del linguaggio e ciò nonostante la bambina a sette anni cominciò a essere bilingue (parlava turco e olandese). Naturalmente in questa piccola paziente la plasticità neuronale deve molto alla sua giovane età. In realtà però esistono altri casi, come quello di un paziente di 44 anni il cui cervello era stato completamente schiacciato a causa di una grande sacca di liquido cefalorachideo nei suoi ventricoli cerebrali. La scansione mostrò che un enorme ventricolo cerebrale occupava quasi tutto lo spazio della cavità cranica, lasciando solo poco più che uno strato fine di tessuto cerebrale. Quest’uomo era sposato, aveva due figli e aveva un impiego pubblico, e si era rivolto all’ospedale lamentando un problema alla gamba sinistra. Quando i medici esaminarono la sua storia clinica si resero conto che durante l’infanzia aveva avuto un drenaggio per curare un’idrocefalia, ovvero un accumulo di liquido nel cervello. Il drenaggio era stato rimosso a 14 anni. Ciò nonostante, il quoziente intellettivo risultò di 75, vale a dire che non esibiva un vero ritardo mentale. La conclusione fu che il fatto che la compressione del cervello obbedisse a un processo di avanzamento molto lungo e lento aveva consentito al cervello di riciclare il suo funzionamento per permettere all’uomo di vivere una vita normale. Mi sono soffermato un po’ nella presentazione di questi esempi che in realtà non sono che una piccola parte dei numerosi casi che possiamo trovare nella letteratura medica. L’obiettivo è spiegare come «un cervello senza organi» corrisponda non già a una visione romantica ingenua ma a una realtà propria del funzionamento e della struttura del cervello; mentre gli organi e le funzioni senza cervello, ovvero qualcosa di simile a una Macchina di Turing, non riescono mai

a funzionare come un cervello che possa proporre soluzioni, prevedere, dare senso al proprio mondo e al mondo in generale. È chiaro che i progressi tecnologici ci affascinano. Ad esempio, il progresso che ci permette di vedere direttamente qual è il neurone che si attiva ogni volta che il cervello pensa il numero 5. Sarebbe, allora, evidente che se questo neurone si rovina per una causa qualunque, la persona non potrebbe mai più — o forse quasi mai più — evocare il numero 5, ma tale conclusione è dubbia perché in realtà quel che serve come base materiale cerebrale per pensare il numero 5 non è il numero 5. Al di là del numero 5, quel che serve per pensare, quel che partecipa al pensiero, è il cervello come unità, come cervello senza organi che — articolato con la funzione simbolica — produce questa «nicchia», questa «piega» che costituisce una singolarità mista uomocombinazione simbolica, a partire dalla quale noi umani condividiamo il pensiero. Dall’individuo al profilo. Il cervello smontato Questo divenire che chiamiamo «artefattualizzazione» della vita passa attraverso meccanismi e processi molto concreti e quotidiani. La forma che esso assume nell’esistenza dei nostri contemporanei si manifesta in un cambiamento antropologico e sociale molto forte, che per certo ha come asse centrale la colonizzazione e lo smembramento del cervello. Questa vera e propria mutazione è collegata a un passo ulteriore, molto grande, che possiamo definire una «desostanzializzazione» dell’umano. Fino a qualche decennio fa il lavoro di analisi sociale e antropologica si focalizzava sullo studio della trasformazione dell’umano, come una realtà di legami di appartenenze e territori, nella direzione della sua forma individuo isolato-società serializzata. In Occidente questa trasformazione venne teorizzata come un punto culminante dell’evoluzione, cioè la separazione dell’individuo dai diversi legami che lo territorializzavano (famiglia, Paese, ecc.). Questo processo storico fu pensato da alcuni storici e sociologi occidentali come un superamento delle catene e delle determinazioni che ancora vincolavano gli individui.

Personalmente, ho lavorato molto sulla serializzazione individualista — e ho pubblicato, fra gli altri libri, Il mito dell’individuo (2013). La produzione lenta ma sicura dell’uomo, dei suoi legami e delle sue appartenenze (vale a dire che appartiene a strutture e storie) in un individuo che si sperimenta come solo e isolato implica, come possiamo immaginare, un modellamento cerebrale particolare che ha accompagnato e ha dato impulso a questa nuova realtà: l’umano era un «individuo» circondato da altri individui. L’individuo appariva così come questa istanza di separazione che rompeva alcune dimensioni organiche di appartenenza sociale, storica, familiare, ecc. L’individuo viveva se stesso come il personaggio principale del «suo» film; gli altri erano, nel migliore dei casi, personaggi secondari o semplici comparse; l’ambiente, uno scenario. La realtà attuale però è mutata al punto che in un tempo molto breve l’«individuo», che vedevamo come la manifestazione di questa rottura di dimensioni e legami organici, è diventato l’ultimo bastione dell’organicità, vale a dire, dopo di lui... il nulla. Non stiamo pensando a un «nulla» di vuoto, bensì a un «nulla» di soggetto. Se l’uomo serializzato della modernità si sentiva solo di fronte a un mondo e a una natura scatenati, oggi la figura che rimpiazza l’individuo non si sente «sola» perché direttamente «non sente», vale a dire non possiede più un’unità che gli sia fondamentale e fondante. È arrivato l’uomo postmoderno, è arrivato il «profilo»: niente di più che un’enumerazione di caratteristiche. La modellizzazione del mondo ha creato una specie di «governabilità algoritmica», un modo di gestione della vita e della società che non passa più per il prisma della coscienza umana né tanto meno presuppone l’esistenza di individui capaci di comprensione e di volontà. Lo smembramento produce appunto questo tipo di costellazione in cui l’assenza trova l’assenza. Così, i gestori di qualunque rubrica non parlano più di individui, bensì di «profili». Che cos’è un profilo? È un «ente», per denominarlo in qualche modo, che non si riferisce in nessun caso a una persona determinata, identificata come tale, vale a dire, nella sua soggettività. Il profilo definisce e identifica comportamenti, forme di vita, modalità di consumo, abitudini sessuali e consimili. Naturalmente serve affinché i diversi poteri e controlli possano identificare «profili

pericolosi», dove la pericolosità della cosa, è chiaro, dipende dai poteri medesimi. Nel profilo tutto è preventivo e predittivo ma, soprattutto, è quantitativo (mai qualitativo). Il profilo permette di fare predizioni sul futuro di una persona. Non si tratta di metodi statistici che utilizzino formule probabilistiche. Ad esempio, se dico che da ora fino alla fine dell’anno si verificheranno tre incidenti aerei, non parlo di alcun aereo in particolare. Per contro, nel caso del profilo si tratta di predire con esattezza che cosa farà una persona che, soprattutto, nessuno di coloro che elaborano il profilo conosce. È questo l’incredibile del profilo che, sia detto di passata, costituisce indubbiamente la realizzazione di quel che Michel Foucault (1969) immaginava quando parlava di «biopotere»; vale a dire che il profilo di una persona, che permette di sapere quel che farà, si basa sul disconoscimento totale della persona in questione. Tutto si fonda sulla raccolta puramente quantitativa di informazioni attraverso internet o la carta di credito o qualunque altro mezzo usato dalla persona in grado di fornire una serie di dati. Tali dati non hanno nulla da spartire con la persona in sé, ma con i comportamenti, catturati da una griglia esterna, i comportamenti in relazione con le macchine. Con i dati raccolti dalle banche dati, le macchine costruiscono un modello del comportamento di una persona che permette di sapere come questa persona si comporterà in futuro — poi esamineremo qualche esempio interessante. Per comprendere questo mondo di profili — in cui già ci troviamo tutti —, bisogna capire che si tratta di un livello infraindividuale: si raccolgono dati totalmente scollegati senza una relazione diretta con l’individuo. Su questa base di dati numerici e quantitativi — che sono frammenti, parti della nostra esistenza quotidiana (non tutti i dati servono per fare un profilo: solo alcuni di essi verranno selezionati e registrati) —, il risultato è, per dirla così, «sovraindividuale» poiché in questo «profilo» si tratta di una ricomposizione che ci riguarda, che riguarda un profilo, ma al tempo stesso riguarda molti individui che corrispondono a quel profilo. Prendiamo, dunque, un esempio concreto che è stato illustrato al nostro laboratorio di ricerca in epistemologia e biologia da un collega, l’italiano Giuseppe Longo. Risulta che Google ha approntato un

programma che, grazie all’utilizzazione della carta di credito per un anno, permette di predire con l’85 per cento di certezza se una persona divorzierà nell’arco dei tre anni successivi... e funziona. È difficile immaginare che una cosa del genere sia possibile, considerato che il divorzio è appunto uno di quei momenti di estrema soggettività in cui finanche gli amici più intimi o i familiari faticano a comprendere che cosa stia accadendo, quale sia il motivo di una simile decisione. Oltretutto, il divorzio è, nella maggior parte dei casi, un evento nella vita di una persona che sorprende anche la persona medesima. La persona medesima, pare, ma non Google. Ciò che più colpisce in questo programma è che appunto Google vuole mostrare la propria efficacia nella capacità predittiva dei comportamenti umani. Dice: «Guardate, soltanto con un elenco di dati, la carta di credito e un tempo limitato, posso prevedere cose molto importanti senza conoscere la persona in questione». Dal canto nostro dobbiamo aggiungere che il fatto di non conoscere la persona in questione è, senza dubbio, una delle condizioni affinché una predizione di questo tipo possa avvenire. Un altro piccolo esempio dello stesso tipo lo dà un altro «servizio» di Google. Si tratta del «regalo a sorpresa» che ricevono gli abbonati nel giorno del loro compleanno. La sorpresa non consiste nel ricevere un regalo, visto che siamo abbonati, bensì nel fatto che, grazie al lavoro predittivo del nostro profilo, la compagnia riesce a regalarci qualcosa che ci sorprenderà piacevolmente. Pensiamo a quanti regali riceviamo dai nostri partner, figli, madri, padri, amici; quanti regali che ci inducono a chiederci: «Ma a che cosa stava pensando quando mi ha comprato questo?». (Dal canto mio, sono arrivato a desiderare che i regali fossero piccoli, per avere il posto in cui metterli.) Al contrario, il profilo non conosce, sa... È un po’ come le applicazioni pubblicitarie «intelligenti» (?) dei cellulari, le quali ci segnalano che stiamo passando vicino a un negozio o un luogo che ci interessa molto. Il profilo funziona, dunque, con dati quantitativi che gli permettono di «non sbagliare»: ogni errore sarebbe un difetto nel programma, ed è lì che si pone la questione. Quando per amore, amicizia o simpatia qualcuno ci fa un regalo, l’«errore» non è solo una «deplorevole imperfezione», ma ciò che fonda la relazione, è la condizione stessa di ogni relazione, anche con se stessi.

L’errore, l’impredicibile, il caso, sono quel che permette alla vita di svilupparsi in tutta la sua diversità e profondità. È il libro che non coincide affatto con i miei interessi, che può non essere una bella sorpresa, che al contrario è l’incontro con una via differente dalla mia, un nuovo percorso, il regalo sbagliato è quel che permette che un amore esista. L’amore si dà appunto nella condizione della non coincidenza: le affinità elettive funzionano sempre in un al di là o in un al di qua del buon funzionamento della persona. La scomposizione dei comportamenti, questa cartografia cerebrale che permette non vi siano errori, è proprio ciò che impedisce che degli organismi autonomi, con una storia, con delle contraddizioni, possano — attraverso e grazie ai loro errori — sviluppare e dispiegare le loro vite. La produzione di profili, «i profili degli umani», avviene per mezzo della produzione di un mondo e di una realtà esclusivamente quantitativi che si realizza, come abbiamo visto, attraverso il cosiddetto «arrotondamento digitale» che «discretizza il continuo complesso e profondo in unità quantitative modellabili in zeri e uni. Una volta in possesso di modelli quantitativi che ci permettono di rendere (immaginare) trasparente il reale del mondo, possiamo applicare a questo «nuovo mondo» (il mondo virtuale dei modelli che evitano meticolosamente di «strofinarsi» con il mondo reale) metodi che corrispondono al mondo della fisica. Questo è, forse, il punto di arrivo dell’attuale riduzionismo: fare del mondo organico e complesso un mondo di particelle fisiche con traiettorie prevedibili e «matematizzabili», vale a dire un puro «fisicalismo». Se alludiamo alla «matematizzazione», risulta necessario fare una precisazione: stiamo parlando qui di aritmetica, ovvero matematica del discreto, e non di una geometria del continuo che ci consentirebbe modelli complessi non fisicalisti. A partire da tale divenire, il profilo dell’individuo si sviluppa in un mondo del comportamento assimilato al consumo, un mondo ipernormalizzato in cui permanentemente — e in modo vivido, ludico e gradevole — si valutano e si misurano le tendenze e i comportamenti delle persone che, a loro volta, partecipando a tale mondo del quantificabile che facilita la vita, tendono a corrispondere al profilo della griglia di valutazione. Uno dei modi dell’esistenza di questo vero e proprio circolo vizioso

è il marketing. Essendo di tipo antropologico e sociale, il circolo è stato in buona parte manipolato prima di tutto dagli esperti di marketing che hanno utilizzato i saperi delle cosiddette «neuroscienze». Adesso ci troviamo nel tempo (nel mondo?) del marketing basato sulla tecnica delle correlazioni. Per molto tempo gli esperti di economia hanno cercato di comprendere le motivazioni, il perché dei comportamenti delle persone. In questo senso, i grandi guru delle finanze condividevano il credo progressista secondo cui gli umani si comportano in linea con ragioni comprensibili o, anche, credenze a loro volta però comprensibili razionalmente. Per gli esperti di marketing, comprendere le ragioni che motivano i comportamenti delle persone significava la possibilità di anticipare la concorrenza, la possibilità di creare sempre un mercato adattato al divenire dei capricci e delle voglie del consumatore, senza dimenticare che, fra le altre cose, il marketing è, da molto tempo, lo strumento politico principale di tutti i partiti politici, di sinistra e di destra, che trattano gli elettori come consumatori di cui è importante prevedere le tendenze. L’emergenza delle cosiddette «scienze cognitive» o «neuroscienze» ha messo radicalmente in questione questo modo di fare. L’homo oeconomicus, come lo si è definito, così come il cittadino elettore, che basava le sue preferenze su comportamenti razionali, ha lasciato il posto a un profilo che presenta comportamenti analizzabili e valutabili dall’esterno lasciando da parte qualunque pretesa di interesse a comprendere le ragioni interne o le motivazioni. L’unica cosa che conti, d’ora in poi, è la quantità e la modalità di comportamenti valutati quantitativamente dagli algoritmi che se ne occupano. Nel tempo del neuromarketing di quel che si chiama big data — una banca di dati macro che raccoglie e ordina quantitativamente l’informazione, trae conclusioni e produce i profili —, lo studio lascia da parte la ricerca di causalità (ed eventuali significati) in favore dello studio delle correlazioni quantitative. Una correlazione stabilisce un parallelo fra due combinazioni, due serie differenti, senza stabilire alcun tipo di relazione causale o di interazioni fra esse; si constata una correlazione: se in A succede questo, constatiamo empiricamente che in B succede quest’altro. Perché? Non importa a nessuno. Così, Viktor Mayer-Schönberger — professore dell’Oxford Internet

Institute — e Kenneth Cukier — editor dell’«Economist» — (2013) affermano che «big data è una rivoluzione che trasformerà il nostro modo di vivere, di lavorare, di pensare» (come vedremo più avanti questa rivoluzione, che non è altro che la produzione del profilo, riguarda a sua volta i sentimenti e gli affetti). Il big data permette di trovare correlazioni che non avevamo neppure sospettato, basando le sue banche dati non su grandi tendenze e tropismi, bensì al contrario sul fatto di raccogliere un’immensa quantità di dati irrilevanti, impercettibili, ai quali di norma non si presta attenzione: è lì che risiede la forza del big data. Gli autori mostrano come questo tipo di analisi dei comportamenti senza soggettività né causalità non è soltanto più potente delle analisi che cercano di identificare le cause, ma addirittura è destinato per certo a rimpiazzare qualunque altro tipo di studio o lavoro mirante a conoscere il divenire di una persona o di una popolazione. Per cercare di comprendere questo tipo di funzionamento, prendiamo un esempio banale: se desidero conoscere l’aumento del prezzo di un biglietto aereo Parigi-Buenos Aires, quel che devo fare è dimenticare qualunque tipo di analisi che tenda a comprendere il perché dell’aumento; mi basta analizzare attraverso un’enorme quantità di piccoli dati il tipo di aumento: saprò così come cambia il prezzo senza saperne il perché. Le correlazioni non possono dirci perché avvenga qualcosa; possono, però, dirci quando qualcosa accadrà. Nel mondo dell’informazione permanente, nel mondo della cosiddetta «globalizzazione», questo tipo di ragionamento si trasforma immediatamente in un’arma di sopravvivenza. Siamo di fronte a programmi capaci di analizzare in un tempo molto breve una quantità enorme di miniinformazioni, il che permette a sua volta una certa tolleranza delle inesattezze. È per questo che, in virtù dell’immensa quantità dei dati raccolti, questi sistemi non possono essere governati dagli umani, troppo lenti. Bisogna quindi dire che questi sistemi e modelli di previsione, decisione e normalizzazione sono gestiti interamente da macchine, e qui ci troviamo di fronte a modi di funzionamento in cui gli umani sono un segmento della combinazione al servizio del funzionamento dell’artefatto. Pensiamo ai grandi colpi finanziari, alle grandi tendenze in epidemiologia o a qualunque altro tipo di macrofunzionamento delle

nostre società: tutti questi livelli e dimensioni della nostra vita sono decisi e orientati da macchine «intelligenti» che prendono decisioni e orientano le nostre vite. Le neuroscienze appaiono in questa trasformazione antropologica maggiore come la spiegazione — un po’ ideologica — di tale ibridazione fra funzionamenti «meccanici» del cervello e la meccanica delle macchine. I due autori del libro citato concludono — con un’allegria molto americana, certamente — che in fondo non abbiamo bisogno di studiare le cause se la correlazione è abbastanza buona... (amen). Il lettore avrà compreso che il big data sostituisce quello che avevamo descritto come la scultura del cervello — come la condizione di qualunque conoscenza e trasmissione — ottenendo un mondo di pura informazione di superficie. Siamo informati... Il cervello umano si trasforma, in questo modo, in una specie di piattaforma di circolazione e gestione dell’informazione articolata con le macchine che funzionano in questo modo. Già in medicina vediamo all’opera questa tendenza in cui un intervento può essere deciso non da un diagnosta «soggettivo in presenza» ma unicamente dall’incrocio di dati, senza tenere in alcun conto lo scomodo paziente. Prendiamo il caso della famosa attrice Angelina Jolie a cui il professor Picovski, basandosi su una diagnosi di predicibilità frutto di una correlazione fra il risultato di uno studio che stabilisce la sequenza genetica del DNA e la morte della madre dell’attrice, ha prospettato una probabilità di ammalarsi di cancro dell’80 per cento. L’attrice si è fatta asportare i seni senza alcun sintomo clinico — «in assenza del paziente» — per la semplice ragione che il suo profilo si prestava ad ammalarsi di cancro. Mi sia consentita una digressione non da oncologo ma da biologo: in realtà, la tendenza a studiare il cancro soltanto a partire dalle minimutazioni genetiche ignora assolutamente tutti i fattori epigenetici, le abitudini e gli altri tratti della persona. Ignora cioè che una persona non è un profilo, che è qualcuno che insiste sul suo diritto di vivere, ovvero di essere un organismo che possiede una grande quota di imprevedibilità. Ancora una volta, dobbiamo comprendere che questo tipo di «profilo-previsione», che sostituisce l’individuo, corrisponde a un cambiamento nella relazione degli umani con l’ambiente e con se stessi. Il riciclaggio neuronale e la plasticità cerebrale permettono che

questo tipo di cambiamento si effettui e che, pertanto, lo specialista di biga data trovi nella popolazione reale (riscolpita) ciò che hanno elaborato i suoi algoritmi. Il cervello umano non può fare alcuna distinzione fra ciò che sarebbe «serio», la realtà esterna, e un meccanismo di divertimento; per contro, riconosce molto bene la differenza fra ciò che gli interessa e lo soddisfa e quel che non gli interessa. Uno dei motori che facilitano a livello cerebrale questo tipo di evoluzione è, indubbiamente, il fatto che i meccanismi del tipo big data funzionano tutti in base all’attivazione dei circuiti neuronali di ricompensa, il che significa che a livello cerebrale tutti questi comportamenti normalizzati trovano una ricompensa, ovvero i circuiti dopaminici del piacere, che funzionano come circuiti e loop di dipendenza. Vi sono un contenuto e una forma ludici che, «derealizzando» il mondo, presentando da allora in poi la realtà come un gioco virtuale, permettono che il futuro profilo desideri adattarsi a quel mondo: i due motori sono la diversione e la facilità. Da questo punto di vista, senza un Pinochet o un Videla che spaventino la popolazione, il biga data li diverte, dà loro piacere e conferma che tutto questo è un gioco senza alcuna ragione o significato. Il nichilismo digitale è arrivato, divertiamoci senza sensi di colpa. Dopotutto, il senso di colpa è un processo senza alcun significato che avviene nel cervello modulare. Piccola digressione politicamente scorretta Una piccola storia potrebbe produrre un «effetto eco», ossia risuonare un po’ con quello che stiamo vivendo. Si tratta di un’abitudine che esiste in alcuni popoli dell’Africa orientale. Di fronte all’invasione di formiche di cui questi popoli soffrono regolarmente, esiste un metodo che, seppure non risolve il problema, per lo meno ne riduce le conseguenze. Gli abitanti di queste regioni, stanchi di dover frenare l’avanzata delle formiche, hanno trovato un modo che consiste nel sistemare regolarmente, di fianco agli enormi formicai, una montagna di zucchero. Come si può immaginare, le formiche, trovando una fonte

alimentare tanto fantastica quanto insperata, interrompono le esplorazioni nelle case degli abitanti. Tuttavia (ed è qui il punto), anche se dopo qualche tempo il circuito di facilitazione dell’alimento si interrompe, dopo un po’ le formiche esploratrici si allontanano dal formicaio per cercare nuove fonti di alimentazione. Le formiche non accettano, quindi, la trappola di una «facilitazione della vita», che implica una diminuzione delle loro potenzialità in movimento, l’occupazione del territorio, la previsione di nuove fonti di alimentazione. Forse ciò spiega in parte perché, quando sulla superficie devastata della Terra non resterà neppure il ricordo dell’esistenza dell’uomo, le formiche continueranno a vivere e l’uomo, con la sua «grandezza», risulterà essere stato, dopo tutto, un episodio minore nella vita delle formiche. Le società umane, di fronte alle loro «tecnologie-zucchero», commettono il grave errore di non esplorare altre vie, altri modi di sviluppo, distinti da quelli che una tecnologia unidimensionale ha delineato per loro, credendo, al contrario, che questa tecnologia che ci «facilita» la vita — e intorpidisce il corpo e il cervello — possa finalmente liberarci da questo errore della Creazione: che l’umano abbia un corpo e che il suo cervello non possa esistere senza un corpo fra i corpi. Sembra che il divertimento e i circuiti dopaminici del piacere possano saturare l’insieme degli interessi umani. Come dicono gli alunni delle scuole superiori di commercio nei Paesi «centrali»: il mondo è il nostro campo da gioco. Seconda storia politicamente scorretta: i meccanismi semplici dello smontaggio In linea di principio sembra un po’ strano che si stia vivendo questo passaggio che cerco di descrivere come «dall’individuo al profilo». Sembra strano perché in modo totalmente irriflessivo abbiamo l’impressione di possedere un’identità propria e permanente, per non parlare della nostra credenza, così occidentale, nel libero arbitrio che dovrebbe guidare le nostre vite. Come comprendere, allora, che un essere tanto «padrone di sé» possa trasformarsi a poco a

poco in una superficie piana e, per di più, trasparente e prevedibile da chi manovra le leve del potere politico ed economico? Forse una vecchia storia può aiutarci a chiarire questo funzionamento che, dopotutto, è abbastanza semplice e, soprattutto, banale e comune. Si tratta di un romanzo di Pierre Boulle del 1952, che poco dopo la pubblicazione fu trasposto sul grande schermo in cui si trasformò in una pietra miliare della settima arte: Il ponte sul fiume Kwai (diretto da David Lean, 1957). La storia racconta che durante la seconda guerra mondiale un gruppo di inglesi cade nelle mani dei giapponesi e viene rinchiuso in un campo di prigionia. A un certo punto, il capo del campo va a trovare il colonnello inglese, responsabile dei prigionieri, per ordinargli di far costruire un ponte sul fiume vicino al campo dei prigionieri. L’idea è che sul ponte possano passare le forze giapponesi che si occupano della controffensiva. Il colonnello inglese, che da civile faceva l’ingegnere, si rifiuta di obbedire, per cui si verificano sofferenze e difficoltà fino a che non viene raggiunto un accordo. Le truppe prigioniere iniziano a costruire il ponte e, una volta che è stato ultimato, le truppe giapponesi cominciano a farvi passare i treni. Poi, una notte, arrivano al campo dei prigionieri due agenti dei servizi segreti inglesi i quali ordinano al colonnello di distruggere il ponte nel momento in cui passerà una truppa speciale, evento che dovrebbe verificarsi a breve. Ed ecco che succede quel che ci interessa: di fronte allo sbalordimento dei suoi stessi uomini, il colonnello si rifiuta di distruggere quello che considera il «suo» ponte. Poco importa quel che avviene in seguito (non raccontiamo il finale per chi non abbia letto il romanzo né visto il film); quel che ci interessa è qui. Il colonnello, nel momento in cui si rifiuta di obbedire, è per dir così un «colonnello-ponte-ingegnere», ossia quello che potremmo chiamare il suo «asse gravitazionale», quel che costituisce il centro della sua identità, si è spostato su quest’opera con cui si identifica: lui è il ponte, il ponte è lui; quando gli viene ordinato di distruggerlo è come se gli si ordinasse di distruggere se stesso. Nessuno è una volta per sempre qualcuno in un modo fisso; l’identità esita fra le diverse componenti che ci conformano. Succede la stessa cosa quando qualcuno parla in modo innocente dei grandi finanzieri del pianeta e si

chiede: «Ma, come essere umano, non si rende conto che quel che fa distrugge la vita?». Per l’appunto, il grande finanziere non sta pensando da un’identità del tipo «essere umano in generale» bensì, come nel caso del colonnello, da un’identità finanziere-uomo. Gli stessi meccanismi entrano in gioco quando i dipendenti si identificano con l’azienda per la quale lavorano. Per non parlare del sentimento di appartenenza totale del tifoso con la «sua» squadra. In entrambi i casi si parla di «mettersi la casacca»: quella dell’azienda o quella della squadra. E, in entrambi i casi, alcune parti di noi sono catturate e iniziano a interagire con parti esterne definendo nuovi assi gravitazionali per le nostre identità: il tifoso non agisce come vicino, cittadino o amateur del calcio, ma come tifoso integrale. Quel che cerco di dire è che, in questi meccanismi di «unidimensionalizzazione» della vita, una sola dimensione della persona appare come l’unica dimensione. Il tifoso sarà solo un tifoso, il manager sarà solo un manager, poiché esiste nella dislocazione una cattura della parte del funzionamento che satura l’insieme delle dimensioni. Satura ed eclissa. L’uomo si sente, si pensa, si percepisce e percepisce il mondo soltanto da quella unica dimensione. Non esiste uno zoccolo comune inamovibile che si possa considerare per comprendere o immaginare una coerenza soggiacente; le pratiche umane procedono per associazioni di parti e circuiti cerebrali con loop ibridati con l’esterno che non si riconnettono necessariamente a un’unità pura iniziale, bensì a un’unità immaginaria. Non c’è un’unità primordiale, pura, immacolata dietro le dimensioni saturate. Dietro il tifoso, il manager, il colonnello non c’è un uomo multidimensionale che è addormentato o anestetizzato in attesa di essere liberato ma il contrario: la «unidimensionalizzazione», la saturazione della molteplicità in una sola delle sue linee, finisce per abolire la molteplicità. Se volessimo considerare la questione in modo un po’ grossolano, potremmo pensare che, se si dicesse al finanziere: «Ma se è un essere umano», o al colonnello inglese: «Ma se è un colonnello inglese», si otterrebbe più o meno lo stesso effetto che se si dicesse a una tigre che sta per mangiare un cervo: «Però, guardi, signora tigre, che siete due mammiferi». Il diventare «profilo dell’umano» non segue vie differenti; quel che

cambia sono la profondità e la potenza del meccanismo che lo cattura, sviandolo dai suoi assi consueti per farlo funzionare in linea con altri assi, in questo caso il dissenso consumista del big data. I meccanismi di deterritorializzazione sono i meccanismi di alienazione e sottomissione attraverso i quali la potenza della persona può essere deviata da quello che in un modo o nell’altro potremmo chiamare «il suo destino» senza mettere qui alcun peso metafisico, ma intendendo con «destino» «ciò che è dato a ciascuno». Probabilmente, l’unica possibilità di non cadere permanentemente nel flusso costante delle catture della molteplicità sarebbe l’attività filosofica, considerandola però non come la storia della filosofia — come avviene spesso — ma realmente come amore per il sapere. Ciò implicherebbe, appunto, di non avere un’identità di acciaio, poiché per pensare oggettivamente in una situazione che ci include dobbiamo prendere le distanze da noi stessi. Questa esperienza di disidentificazione da noi stessi è quello che Spinoza chiama «secondo o terzo genere di conoscenza» o ciò a cui la saggezza taoista allude quando parla dell’ineffabile Tao. 1

L’ablazione dei due lobi frontali: questo tipo di operazione, che veniva eseguita nei peggiori anni della repressione psichiatrica, lasciava invariabilmente il paziente in uno stato vegetativo.

CAPITOLO UNDICESIMO

IL CERVELLO NON PENSA, PENSA TUTTO IL CORPO Se desidero affrontare adesso il tema centrale dell’articolazione «pensiero-cervello», forse dovrei farlo proponendo al lettore un paio di ipotesi ben più radicali per poter poi sviluppare questo tema che oggigiorno è davvero fondamentale nelle nostre società e culture. Queste ipotesi sono: 1. 2.

Il cervello non pensa. Il corpo partecipa al pensiero come condizione indispensabile per i processi di ragionamento. 3. Esistono almeno due processi che possiamo identificare come modi di pensiero o due tipi di produzione del pensiero: uno, logico-formale; l’altro, geometrico-topologico, corporeo. 4. Il pensiero logico-formale esiste come una combinazione mista che ha leggi proprie, capace di sviluppare quelle che possiamo riconoscere come «strategie proprie» che sono, come in tutti i misti, «strategie senza strateghi», vale a dire tendenze emergenti nel sistema che lo orientano senza che per questo vi sia bisogno di un «orientatore». 5. Gli umani interagiscono con il pensiero logico-formale sotto forma non solo della partecipazione ma anche della cattura, in

una vera e propria catena di produzione. 6. Il cervello non pensa, ma non vi è pensiero senza cervello, e neppure senza corpo o senza situazioni concrete; questi presupposti sono di estrema importanza tenendo presente l’attuale assimilazione fra pensiero e computo digitale. Cominciamo con il precisare un punto rispetto alla identificazione che oggi sembra «evidente» fra le Macchine di Turing (MdT) e il processo di produzione del pensiero umano. Le MdT producono un modo di ragionamento logico-formale a partire dalla trasformazione dei dati in informazione, con la perdita e la formattazione che abbiamo già affrontato (l’arrotondamento digitale). Si tratta, nel modo di produzione di ragionamento delle MdT, della modellizzazione che ha come obiettivo la ricostruzione dei fenomeni di una dimensione della realtà a partire dai concetti costitutivi propri del computer. Ovvero, non si tratta di inglobare o sintetizzare per astrazioni successive quel che esiste nella forma di una diversità empirica. Si tratta, nella digitalizzazione, della trasformazione di qualunque concetto in algoritmi di ricostruzione della diversità fenomenica a partire dai dati informatici. Detto altrimenti, si tratta di convertire la diversità empirica in una sintesi computazionale, ovvero in un modello applicabile alla realtà che soppianta tale realtà. Fra organismo e pensiero esiste un conflitto permanente che non si risolve mai né da un lato né dall’altro, dato che è questa tensione ciò che costituisce la sua condizione di esistenza medesima. Consideriamo quindi queste ipotesi. Se cominciamo dicendo che «il cervello non pensa», ci ritroviamo subito al cuore di una controversia storica molto importante. Gli idealisti di ogni tipo approveranno senza problemi poiché un’affermazione del genere parrebbe asserire che il cervello, fatto di materia, non pensa, poiché il pensiero dipende da meccanismi spirituali che non hanno niente a che vedere con la materialità del corpo. L’anima sta sopra la cosa... Certo io non sarei d’accordo, poiché il pensiero logico-formale, in quanto combinazione mista è, dalla posizione che sostengo, un modo di esistenza che dipende direttamente dalla vita dei corpi, dall’ecosistema e dal fatto che coloro che producono il pensiero — e al tempo stesso vi partecipano — sono organismi viventi autoregolati.

Ovvero, anche se il cervello non «pensa», dato che quello che chiamiamo «pensiero» — logico-formale — dipende dal fatto che corpi e cervelli situati possano produrlo, ciò non implica in alcun caso che il pensiero possa esistere al di là degli umani che vi partecipano. La seconda ipotesi che formulavo è che i cervelli non producono il pensiero allo stesso modo in cui la vescicola biliare produce la bile: il pensiero è un processo multiplo con un alto grado di autonomia che in nessun caso può essere prodotto da un cervello ma quel che avviene è che i cervelli articolati partecipano alla catena di montaggio da cui sorge il pensiero. «I corpi pensano.» Questa affermazione va compresa in due sensi: da un lato, come ho già detto, i corpi pensano nella produzione di una vera e propria «intelligenza» delle loro vite, situazioni e traiettorie, che si realizzano in termini geometrici e che soltanto in un secondo momento — e solo per gli umani — si articolano per trasduzione con il pensiero logico-formale della combinazione mista: il linguaggio, le basi della logica e le aritmetiche potrebbero esserne un esempio. Questo pensiero geometrico era quello che permetteva che i corpi agissero in situazione quando vedevamo l’esempio del martin pescatore che esegue calcoli sui riflessi dell’acqua per poter determinare l’angolo in cui deve tuffarsi per catturare la sua preda. Un altro esempio può essere quello del giocatore di ping-pong che esegue in modo non simbolico calcoli di geometria e di fisica. O quello del pilota del cacciabombardiere che deve poter rispondere alla macchina senza passare per le dimensioni logico-formali: se il pilota si mette a pensare a ciò che deve fare, l’aereo cade; egli deve realmente integrare il suo corpo al corpo dell’aereo e offrire risposte riflesse agli stimoli della macchina. Queste risposte si attivano attraverso atti riflessi quando i nuclei dei neuroni che si trovano ai lati della colonna vertebrale rispondono agli stimoli senza che questi passino per il cervello, come succede nell’atto riflesso di sollevare la gamba quando ci colpiscono il ginocchio. Tutti questi problemi e risoluzioni si effettuano attraverso calcoli geometrici che dipendono dalla muscolatura, dalla propriocezione, dalle proiezioni spaziali del cervello senza che si passi mai a una formalizzazione simbolica di esso. È chiaro che se il pilota del caccia o il giocatore di ping-pong dovessero pensare in termini simbolici, a uno cadrebbe l’aereo (che,

dopotutto, non sarebbe un dramma) e l’altro perderebbe la partita. Il pensiero che chiamiamo «geometrico» o «topologico» è quel che la tradizione occidentale chiama «istinto», per negargli la sua categoria di pensiero e cercando così di identificare i processi corporei di memoria e pensiero con semplici meccanismi fisici predeterminati. Non scordiamo che nel fondamento cartesiano dell’Occidente la natura deve essere vista come un meccanismo privo di finalità propria, comprendendo in essa la natura che Cartesio chiama «apparentemente animata» per negare finanche la minima autonomia all’animale e ai corpi. In realtà, i processi di quel che chiamiamo «pensiero geometrico» corrispondono alle forme esistenti, tenendo conto che, seguendo la definizione dell’epistemologo francese Jean Petitot (1980), «la forma è il fenomeno dell’organizzazione della materia in generale». Ciò significa che qui prendiamo la realtà delle forme non come ciò che è esterno, in una relazione forme-contenuto, ma nel senso di ciò che si manifesta come forme in rapporto ad altre forme. Se dicevo prima che gli idealisti di ogni tipo credono di essere d’accordo con l’ipotesi secondo cui i cervelli non pensano, una volta chiarita la mia differenza radicale da qualunque idealismo è necessario vedere che cosa succede dal lato del materialismo semplicistico di tipo positivista dato che, se sto affermando che i cervelli partecipano alla produzione del pensiero, si potrebbe credere che io aderisca all’ipotesi positivista secondo cui il cervello sarebbe l’hardware su cui circola il pensiero che sarebbe il software. Sono lontano mille miglia da questa posizione. In realtà l’interfaccia fra umano e pensiero deve essere compresa come un’interfaccia di coevoluzione in cui i cervelli umani, partecipando al pensiero — o all’essere catturati al servizio del pensiero — si modificano in permanenza attraverso il riciclaggio e la plasticità. Il pensiero (logico-formale) scolpisce i cervelli e i corpi, così come gli ecosistemi e il mondo. Il carattere performativo del pensiero è fondamentale nello sviluppo e nella trasformazione del cervello umano. Ma tale coevoluzione e coformazione non implica che il cervello si trasformi in una «macchina per pensare». In questo modo, a mano a mano che si sviluppano nuove capacità logico-formali, il cervello si modifica, come abbiamo già visto, e al tempo stesso questi processi altamente integrati modificano i corpi

mentre i corpi modificano il pensiero. Questa articolazione, questa interfaccia fra umani e pensiero (lingua), costituisce senz’ombra di dubbio il centro del fenomeno umano, che esiste a condizione di questa tensione permanente senza alcuna risoluzione possibile. Come possiamo comprendere, così come succede con la tecnologia (un misto), la lingua, il pensiero formale producono «possibili» che non sono compossibili con gli organismi umani i quali, pertanto, partecipano alla sua produzione. Vale a dire, esattamente come avviene con la tecnologia, gli uomini producono tecnologie che partecipano alla produzione di possibili i quali, spesso, non sono compossibili per la vita di questi umani. Con la lingua e il pensiero logico-formale accade, da moltissimo tempo, certamente lo stesso. Vale a dire che il pensiero produce senza sosta teorie e ipotesi che non sono compatibili, compossibili con la vita nel senso organico dei corpi concreti degli umani e del loro ambiente. Forse, appunto, la relazione complicata e conflittuale della tecnologia con l’organico ci permetterà in questo momento storico delle nostre culture di comprendere tale relazione «umani-lingua» che nel passato, soprattutto in Occidente, è stata considerata troppo rapidamente come un’unità sostanziale senza conflitti. Quando dico che la lingua e le teorie venivano concepite, soprattutto in Occidente, come se non dovessero avere conflitti con il vivente, è chiaro che la conflittualità, compresa l’opposizione, è stata ed è permanente (il corpo avrebbe dovuto essere vinto grazie alle mille e una teorie che gli umani producevano), ma si pensava che alla fine «la buona teoria» o credenza avrebbe potuto risolvere questo conflitto, sempre a favore della teoria e contro i corpi. Indubbiamente è strano constatare che oggigiorno esiste una convergenza di obiettivi fra l’evanescente idealismo e il più duro dei materialismi positivisti. Entrambi trovano un punto d’incontro nell’obiettivo comune di andare al di là dei corpi per liberare il loro spirito. La tecnica articolata con le neuroscienze si propone oggi di emancipare finalmente il pensiero logico-formale, visto come una serie di algoritmi e informazione, dalla base materiale del cervello, per trasferire tale «nobile» funzione alle macchine che, secondo il suo

punto di vista, non sbaglierebbero tanto quanto gli umani. Così la cartografia del cervello sembra permettere, innanzitutto, di comprendere le differenti funzioni che possiede, e poi di riprodurle in macchine digitali che, a parere degli esperti, si situano al di là delle illusioni che produce il cervello umano. Ad esempio, quella che ci fa credere che esistiamo come singolarità o soggetti visto che, per alcuni esperti, le macchine sono superiori visto che non cadono nell’illusione di «esistere» come unità, illusione di cui siamo vittime noi umani biologicamente organizzati... La relazione fra cervello — dovremmo dire «cervelli» — da un lato, e lingua e cultura dall’altro, è così, fortemente segnata da questa ricerca incessante e ripetuta di trascendenza, dall’immenso desiderio umano di riuscire ad arrivare a «qualcosa di definitivo», a questo atto irreversibile che ci liberi finalmente dalla nostra condizione di organismi per riuscire a funzionare e a esistere in accordo con quel che la lingua e le narrazioni della «salvezza» ci propongono. Non è strano, allora, che in questa convergenza di interessi e obiettivi fra idealismo e neuroscienze Michel Foucault abbia spiegato che nella nostra epoca abbiamo barattato la salvezza con la salute. In questo modo, la preoccupazione pressoché permanente per la salute, per il controllo dei corpi, che caratterizza quello che il filosofo francese chiamava «biopotere», riassume la forma della trascendenza: sottrarsi, smettere di essere mortali, smettere di essere limitati. Così, se in altre culture e in altre epoche la trascendenza dipendeva dall’obbedienza e dall’adempimento di valori morali o religiosi nel corso della vita per arrivare all’altra vita eterna (oppure, nelle escatologie marxiste, dall’essere parte di una storia con una redenzione alla fine, in cui nessuna perdita sarebbe stata definitiva: l’idea di una società della fine della storia, in cui tutto sarebbe stato perfetto e senza perdite), oggigiorno questo desiderio di trascendenza si desacralizza interamente e, attraverso le promesse laiche della tecnologia, si aspira a organi rifatti dalla cellula madre, a cervelli aumentati dai computer. In questo senso pensiamo a scritti come quelli del poeta Mallarmé, che aspira a scrivere «il libro totale», in cui tutto il suo essere potrebbe tramutarsi in un testo e, allora, essere la via della salvezza. L’odio dei corpi ha milioni di volti e di forme, tutti con il medesimo obiettivo:

sfuggire alla nostra condizione di esseri viventi e, quindi, limitati. Poco tempo fa, in Francia, in un’intervista venne chiesto a un filosofo di sinistra, Alain Badiou (2008), perché avesse sostenuto Stalin, Mao e infine Pol Pot, il tiranno cambogiano che fece ammazzare due milioni di suoi cittadini. Badiou assunse un’aria offesa e rispose che questi non erano argomenti razionali, che contare i morti non significava nulla, e per corroborare la sua argomentazione citò l’Inquisizione. Voleva dire che, se è in gioco la liberazione del popolo, due milioni di persone assassinate non devono trovare posto nei calcoli. Il suo ragionamento era paragonabile a quello di Heidegger, che non ritenne mai necessario commentare il «dettaglio» della Seconda guerra mondiale. I sei milioni di ebrei massacrati. Il denominatore comune di tutte queste teorie e ideologie, nelle loro infinite differenze inconciliabili, è quest’odio per la vita. Ciò che conta si situa sempre al di là della vita concreta. I corpi sono mezzi per un fine. Notiamo questa radice insospettata nelle tecnoscienze che, cercando di «migliorare» la vita, la trattano però come un mezzo, come uno strumento per qualcos’altro, denaro, potere, Dio o quel che sia. Quando si parla del rapporto cervelli-pensiero, queste riflessioni sono necessarie poiché in gioco c’è proprio questo dietro la motivazione e gli orientamenti dell’indagine scientifica. Ovvero questo desiderio brutale e permanente di non essere quel che siamo, ovvero l’odio per la vita. I cervelli, da parte loro, funzionano sempre in rete: non si può nemmeno immaginare un cervello che pensi da solo. L’esempio di questo tipo di dipendenza da una rete che nella sua molteplicità dà esistenza a ciascuna parte — un principio organico — è quello degli ulivi. La riproduzione di questi alberi non avviene come è consueto per il mondo vegetale, attraverso gli insetti, bensì attraverso il vento. Cioè, gli ulivi esistono; ciascuno di essi possiede un’unità organica, un’autonomia e, possiamo dire senza tema di smentita, una storia; ma è impossibile che un ulivo viva da solo, isolato. Anche i cervelli umani per esistere dipendono da un’infinità di relazioni e articolazioni sottili con gli altri cervelli e con i corpi in cui si trovano, così come con gli ambienti in cui evolvono questi corpi. Il cervello, come ho detto, non vede, non sente, non parla, non

pensa: si accontenta di prendere parte a questi processi che esistono solo negli intervalli a cui partecipa. Le combinazioni miste ci permettono di dire, allora, che «qualcosa parla», «qualcosa pensa», «qualcosa vede», ecc.; questo qualcosa possiede, per certo, nicchie e pieghe di singolarità in ciascuna persona, in ogni gruppo umano, in ogni popolo con le sue storie individuali e collettive, senza dimenticare la partecipazione dei diversi ambienti a queste produzioni. Questa interazione fra i livelli organici e le combinazioni multiple — che, dicevo, sono sempre conflittuali e multiple — fa sì che di fronte a ciascuna situazione vi siano molteplici significati in gioco. In questo modo, per il cervello, una situazione x provocherà per trasduzione un’azione y che esiste come risultante di forze attuali e storiche dell’organismo. Al tempo stesso, però, ciò che ne risulta entra in relazione con le dimensioni miste — lingua, cultura, ecc. — per le quali la situazione y produce un altro tipo di azione. Prendiamo un esempio dei più comuni: quando il mio cane è in sala d’attesa dal veterinario, l’unica cosa che desidera è uscire di corsa da lì; fin dal momento in cui può rendersi conto che ce lo stiamo portando, è necessario legarlo perché altrimenti si darebbe alla fuga immediatamente. Invece, quando io vado dal dentista, non c’è nessuno che mi leghi, nemmeno quando sento il rumore del trapano o i lamenti di un altro paziente. In linea generale, resto seduto aspettando il mio turno. Da questo semplice esempio ci rendiamo conto che il cervello umano, a differenza del cervello del mio cane, funziona permanentemente gestendo contraddizioni che implicano e testimoniano i diversi livelli di organizzazione dai quali sono attraversato. Sono almeno due i tipi di informazione contraddittori che ci inquietano: da un lato, sappiamo che qualcosa che può farci del male ci minaccia; dall’altro, sappiamo che si tratta di un male necessario. Un animale può, ad esempio, rimandare la reazione di fuga e in questo modo vive un’esperienza nuova. Ad esempio, due gattini che osservavo avevano un comportamento differente di fronte al rumore che produceva nell’aprirsi il portello del frigorifero: uno fuggiva spaventato; l’altro riusciva a differire un po’ questa reazione e in tal modo si rese conto che non era un rumore pericoloso e anzi, al contrario, il fatto di poter restare senza l’altro gattino gli permetteva di

mangiare più tranquillamente. Ma questo simpatico gattino coraggioso non poteva spiegare tutto questo grazie a una teoria che gli trasmettesse una trasmissione indiretta dell’esperienza. Poteva, questo sì, mostrare ai suoi cuccioli quel che avrebbero potuto fare in una circostanza analoga, con una trasmissione diretta, ma ciò non significa, come per gli umani, vivere un’esistenza conflittuale con un altro modo di essere: i misti. Quando la coscienza si confonde... Certo è che a queste storielle di gatti, frigoriferi, dentisti e veterinari la risposta classica che pretenderebbe di risolvere tutto in rapporto con il pensiero e l’identità dell’io pensante dice: «Tutto avviene grazie alla coscienza». Come affermava Cartesio, «Penso, dunque sono»: è la mia coscienza la condizione della mia esistenza. Come vedremo, non è molto chiaro che cosa voglia dire questa risposta banale. Come ho già detto nella prima parte di quest’opera, la coscienza fa la sua comparsa in Occidente come la garanzia di una singolarità propria, non determinata dalle contraddizioni materiali, ovvero in quanto luogo di confluenza della libertà e dell’identità. In linea con quanto possiamo comprendere del funzionamento del cervello, siamo in condizione di affermare che quel che la filosofia non cartesiana ha sostenuto, vale a dire la mancata identificazione coscienza-soggetto, è certa. L’«io» si forma ed esiste, emerge, in una relazione permanente con la situazione, con gli altri, con la storia. Non è un’istanza che esista al di là delle relazioni dinamiche che la compongono e che, a loro volta, sono la condizione medesima della sua emergenza. Per dirlo altrimenti, non siamo mai già entrati: stiamo entrando, stiamo esistendo, in una relazione organica e dinamica permanente grazie — fra le altre cose — alla plasticità cerebrale. Nei passaggi in cui abbiamo esaminato il dispositivo percezioneappercezione-coscienza, osservavamo che i fenomeni di coscienza — e in particolare di coscienza riflessiva — non si verificano mai con una vera istantaneità poiché al contrario la coscienza interviene sempre con un certo ritardo rispetto ai processi e ai meccanismi di percezione

e appercezione. Se il cervello è un organo che agisce essenzialmente connesso a sé medesimo, le immagini che produce, illusorie o in rapporto a una realtà esterna, sono valutate dal cervello nella stessa maniera. In questo senso possiamo dire che le funzioni della coscienza sono essenzialmente due: da un lato, svolgono un lavoro di monitoring (monitoraggio) constatando il funzionamento del cervello, gli stimoli che riceve e le risposte che produce; dall’altro, rappresentano l’articolazione con la catena simbolica, la lingua e la cultura. Ma la coscienza non decide da un belvedere, come la rappresenta la concezione occidentale di un omino dentro la testa, un omino che guarda, valuta e decide dalla sua postazione privilegiata. Il cervello e il corpo sono sempre già in movimento, stanno sempre già proiettando possibilità e sperimentando dimensioni; in questo senso la coscienza riflessiva crea l’illusione della decisione: la coscienza ci fa credere di aver deciso quel che in ogni modo è già iniziato. È grazie a questa funzione di «montaggio» della realtà e di produzione dell’illusione della decisione che la coscienza è così legata all’intima sensazione di essere un «io». In realtà, da un punto di vista biologico e neurologico non esiste un livello privilegiato in ciò che determina la causalità: l’azione può prendere le mosse da vari livelli e dimensioni differenti. Per questo la coscienza deve unificare in un’intenzionalità centrale ciò che in realtà esiste come una serie e una molteplicità di livelli e intenzionalità. Possiamo, allora, chiederci se il carattere illusorio della coscienza implichi l’impossibilità di qualunque cambiamento, di qualunque evoluzione in ciascuna persona. La risposta è che il cambiamento, la possibilità di cambiare, di apprendere, di correggere dei movimenti è permanente. Ma questi cambiamenti e queste correzioni di traiettoria, tanto in senso meccanico quanto in quello simbolico e astratto, non dipendono da un lavoro svolto liberamente dalla coscienza, bensì da un lavoro che coinvolge il corpo e il cervello nella possibilità di una vera conoscenza di sé, della propria «geografia interiore». Ciò vuol dire che la coscienza non solo non è colui che guida la barca ma che essa è assolutamente impotente a effettuare qualunque tipo di cambiamento importante. Ogni cambiamento dipende dalla possibilità di esplorare corporalmente, integralmente, gli altri possibili in un modo pratico; in

sintesi, non c’è niente, quasi niente, che cambi solo a causa di un impulso cosciente. Come dicevo quando illustravo il dispositivo di Buridano, l’asino stupido, i corpi non sono mai in una simmetria perfetta dato che, anche se un corpo può trovarsi materialmente in posizione simmetrica, la storia che ha prodotto quel corpo crea in continuazione delle asimmetrie. Vale a dire che i corpi (finché sono vivi) si trovano sempre in posizioni e stati lontani dall’equilibrio che provocano movimento e intenzionalità, per cui qualunque desiderio di cambiamento deve partire dalla comprensione e dalla conoscenza di ciò che ci struttura in questa condizione stabilmente remota dall’equilibrio per renderci eventualmente conto che esistono altri possibili. Voglio dire che ogni cambiamento è sempre un cambiamento che si effettua in rapporto a quel che io sono già; nella molteplicità dei miei compossibili posso esplorare vie non conosciute, ma non posso diventare «un altro». La coscienza è il dispositivo di funzionamento che più facilmente cade nella trappola di considerare che tutta l’informazione, tutti gli stimoli dell’organismo possano essere trattati come informazione codificata. È proprio a causa della credenza della coscienza che il pensiero cade tanto spesso in errore. Per giunta, quando si studia il cervello umano non si riesce a smettere di sorprendersi della meraviglia di questo organo e, al tempo stesso, ci si chiede: «Come è possibile che noi umani pensiamo così male?». La risposta, in buona parte, è: «A causa della coscienza». La coscienza che così facilmente cade nell’illusione di tenere in conto solo i possibili teorici, senza accorgersi dei compossibili organici, ci induce a credere che qualunque cambiamento sia possibile, che possiamo essere «altri» e che per riuscirvi basti desiderarlo. I positivisti delle neuroscienze considerano che la coscienza sia semplicemente un dispositivo di esclusivo monitoraggio e, mentre noi diciamo che la coscienza non è ciò che dà unità al cervello bensì ciò che condivide tale unità, i tecnologi positivisti affermano che la coscienza, in quanto meccanismo di monitoraggio, non ha niente a che vedere con alcuna unità organica. Sostengono che qualunque senso di sé sia semplicemente un comportamento e un funzionamento selezionati, una scelta del modo più efficace, che si attiva grazie a una connessione

fra la corteccia prefrontale del cervello e l’insula, fra il lobo frontale e il lobo temporale, ma che non esista unità organica. Questa idea consente loro di impegnarsi allo spasimo nella ricerca di una coscienza artificiale, separata sia dal corpo sia dal cervello. Il senso di sé Quel che viene definito abitualmente «senso di sé» viene identificato in Occidente, come ho già detto, con la coscienza riflessiva, fino al punto che, quando in presenza di malattie neurodegenerative il paziente non riesce a evocare ricordi e conoscenze del mondo cosciente, si considera che vi sia un’assenza della persona che spesso viene fatta coincidere con una morte prima della morte. Da un punto di vista organico, preferisco parlare di «esperienza di sé». La nostra singolarità deriva da una serie di pieghe che si avviluppano le une nelle altre dove, come succede nel nastro di Möbius,1 l’interno è tessuto di esterno e viceversa. Esiste un solo lato e un solo bordo. L’esperienza di esistere come un’unità dipende paradossalmente dal vivere come unità la molteplicità mutevole del nostro essere. Tutto quel che sperimentiamo come «più intimo» è tale nell’esatta misura in cui riusciamo a vedere e sentire che è assolutamente «comune», vale a dire, esterno e condiviso. I nostri sentimenti e pensieri più segreti sono segmenti di esteriorità albergati momentaneamente nelle pieghe che avvolgendosi ci coinvolgono esistenzialmente. Di fronte a ciascuno dei nostri pensieri e affetti possiamo chiederci: «Cos’è questa cosa che si sente? Cos’è questa cosa che ci fa pensare?». Per dirlo altrimenti, ciò che «mi succede» ciò che più personalmente «mi» succede, è al tempo stesso fondamentalmente «ciò che succede». «Io sono vivo» implica sperimentare un «me» di questa vita, perché la vita succede, esiste, e passa per le parti che la vivono. I ricercatori e gli esperti della vita e della coscienza artificiale dimenticano semplicemente il fatto fondamentale che concerne qualunque fenomeno organico: la partecipazione, vale a dire che la singolarità esiste come una manifestazione del comune, mentre il comune deve essere concepito come la singolarità in potenza. Ciò che

avvolge la mia singolarità implica la storia, l’evoluzione della vita, la cultura, la geografia, ecc. Nessun organismo vivente può emergere da un’aggregazione «intelligente» di parti, poiché la vita è sempre manifestazione singolare di ciò che è più universale e profondamente comune. Il senso dell’identità va sempre legato alla situazione in cui ci troviamo: diremmo anzi alle situazioni. Non esiste un’unità-identità prodotta dal cervello o dall’attività della coscienza che possa essere indipendente dalla situazione concreta in cui l’organismo si trova implicato. Esiste, in tal modo, una specie di autoriconoscimento attraverso le diverse situazioni, ma il senso emerge sempre dalla situazione che ci include. I cervelli non possono produrre questa identità in maniera autonoma; esiste, per dir così, una sorta di scommessa rinnovata in ogni situazione che determina, a sua volta, i ruoli e le identità degli elementi e degli organismi che la compongono come substrato. In questo modo, il significato di quello che «sono» non dipende in nessun caso da un’identità precedente e permanente; al contrario, agire nello stesso modo in situazioni differenti assume significati che possono essere contraddittori. I cervelli si trovano, così, in questa doppia costrizione, in questa doppia dimensione conflittuale in cui in ogni situazione attuale (asse sincronico) agiranno, da un lato, in linea con le proprie componenti storiche (la scultura del loro organismo) e, dall’altro, tenendo conto delle esigenze della situazione attuale che è data. I tecnologi che prospettano la possibilità dell’aumento del cervello e della vita tengono conto soltanto dell’asse sincronico della situazione, giacché ipotizzano la «creazione» di artefatti capaci di esistere in un adattamento permanente con quel che esiste adesso. Per i cervelli, però, la dipendenza dalla storia, dalla scultura, può essere una trappola se questa dimensione si basa sulle diverse situazioni presenti. È ciò che è caratteristico dei malati di mente che, a causa di diversi fattori, non riescono a essere «presenti nel presente» e agiscono solo in linea con elementi diacronici della loro storia. (Comprendere la malattia mentale a partire dall’impossibilità della persona di «essere presente nel presente» — il che naturalmente non significa «nell’immediatezza» — è una parte del lavoro che sto

portando avanti con il dottor Fabián Apel nella nostra ricerca teorica e pratica di una clinica adattata alla situazione storica attuale, sulla psicopatologia e la sofferenza psichica contemporanea, a Madrid.) Possiamo quindi dire che agiscono soltanto i cervelli e gli organismi (situati). Solo un organismo limitato e autoregolato può «agire», ma il significato di questo agire non dipende dall’organismo o dal cervello, bensì dalla situazione che li coinvolge. È per questo che dicevo che nei misti, artefatti-organismi, la capacità di agire dipende dalla parte organica così come l’esistenza di un significato è possibile soltanto per gli organismi che vi partecipano. Un artefatto non agisce, un artefatto non produce né condivide significati; è la ragione per cui, anche se il cervello «non pensa», la sua partecipazione alla produzione di pensiero è fondamentale affinché tale pensiero possieda un significato. Forse possiamo comprendere perché l’«artefattualizzazione» della vita e del cervello, che tende ad «aumentarlo», in realtà gli sottrae la potenza di agire in linea con questa equazione da cui emerge che, quanto più un organismo viene aumentato, tanto meno agisce e condivide il significato. L’intelligenza è sempre delle situazioni, vale a dire che nessun organismo «è» intelligente in sé, in maniera isolata da un ambiente e dalle situazioni a cui partecipa. È per questo che le macchine possono articolarsi (o meglio, essere articolate) al pensiero se sono associate agli organismi. Non dimentichiamo però che è proprio del funzionamento organico legato all’intelligenza il fatto di includere una forte dose di variazione, una componente aleatoria, non prevedibile. Kant (1976) ha spiegato che l’intelligenza di un individuo si misura sulla base della quantità di incertezza che riesce a sopportare; in questo senso, le macchine sono «idiote». I ricercatori di intelligenza artificiale spiegano che i loro robot non hanno bisogno di comprendere per essere intelligenti, poiché le loro risposte e i loro movimenti non necessitano e non producono alcuna comprensione. Gli algoritmi di ultima generazione possono, a quanto si dice, apprendere dall’esperienza della macchina, ovvero incorporare dati senza che sia necessario programmarli, perché la macchina li raccoglie attraverso il suo stesso funzionamento. Nulla di tutto questo ha la minima relazione con il movimento aleatorio e di variazione permanente che fonda i fenomeni biologici e del pensiero organico.

La comprensione dipende, come sottolinea il matematico francese René Thom (1980b), dalla possibilità di essere coinvolto dall’ambiente. «Coinvolto», in questo senso, significa molto concretamente che gli stimoli che si ricevono devono avere un significato per e dall’organismo; non vuol dire, come per un artefatto, essere semplicemente attivato: on-off. Essere coinvolto è l’opposto del subire passivamente uno stimolo esterno reagirvi meccanicamente. In questo senso possiamo affermare che nessun artefatto può «agire» dato che l’»atto» dipende dalla capacità di un organismo, il quale per il fatto di essere limitato e scolpito possiede una batteria di comportamenti propri. L’artefatto «è agito» dal dispositivo meccanico che lo include e lo utilizza; è per questo che prima abbiamo parlato del fatto che un artefatto può funzionare male o avere un guasto. Questo guasto può far sì, ad esempio, che l’artefatto non funzioni in maniera prevedibile e meccanica; al contrario, per gli organismi, la faglia o il difetto che li fonda è la condizione stessa della loro esistenza, come scrive il poeta Paul Valéry (1974) in Schizzo d’un serpente: «L’universo non è più d’una faglia nella purezza del non essere». Se l’identità di un organismo gli è conferita dalla sua storia messa in gioco in ogni situazione, ciò è fondamentale perché un organismo deve la sua identità al fatto di essere «il suo proprio fine». Contrariamente a un artefatto, un organismo non è mai un mezzo per qualcos’altro, per un obiettivo che gli sia esteriore. Da questo punto di vista, i progetti «aumentativi» tendono ad «artefattualizzare» ciò che è vivo, dato che questo «aumento» è sempre pensato in accordo con criteri di valutazione esteriori all’organismo in questione. Un esempio di questa «inutilità» propria di qualunque organismo ci è fornito da una piccola esperienza di etologia che consiste nel cercare di educare il cane affinché non faccia i famosi giri in tondo che ogni cane effettua prima di ritirarsi nella sua cuccia. L’idea è quella di poter modellizzare o modellare comportamenti e funzioni in termini di utilità ed efficacia. I cagnolini imparano a non fare giri in tondo e a ritirarsi direttamente, ma in breve tempo sviluppano diverse patologie, più o meno gravi, di comportamento, con conseguenze somatiche come perdita dell’appetito, aggressività, depressione, ecc. L’idea può sembrare stupida e in un certo senso lo è, sennonché

questa idea è proprio quella alla base di qualunque possibilità di modellizzare i funzionamenti organici e biologici di animali, piante ed ecosistemi. Vale a dire, non è possibile modellare un comportamento se non possiamo dargli al tempo stesso una funzione (utile) che gli corrisponda. In questo modo, più dell’80 per cento del DNA, non essendo DNA codificato, e non essendo quindi possibile assegnargli una funzione, viene definito «DNA spazzatura». Come stupirsi, allora, che i giri in tondo del cane prima di ritirarsi nella cuccia vengano considerati «inutili» e li si debba quindi correggere? Quel che avviene, appunto, è che l’inutile è caratteristico di ogni comportamento organico; in ogni caso, come dice il saggio taoista Chang En-tse (1976): «Tutti conoscono l’utilità dell’utile. Poche persone conoscono l’utilità dell’inutile». L’utilità dell’inutile potrebbe essere il nome dei funzionamenti organici. Qual è il problema di modellare i giri in tondo del cane? Molto semplice: il fatto che ogni modellizzazione, per quanto raffinata possa essere, non è mai veramente analogica. Digitalizzando quel che in realtà esiste in forme continue e complesse, ci troviamo di fronte a un’impossibilità strutturale: non sappiamo «a cosa servano i giri in tondo del cane» allo stesso modo in cui ignoriamo quale sia l’utilità del DNA non codificato. Forse l’aporia è nella domanda: «A che cosa serve?», ovvero, suddividere un organismo in parti e domandarsi a che cosa serva ciascuna parte ci conduce a un vero e proprio vicolo cieco. I giri in tondo del cane non sono in sé «i giri in tondo del cane»; è lo sguardo del ricercatore che separa arbitrariamente un momento nella giornata del cane e si chiede a cosa serva rispetto agli altri momenti etichettati come funzioni, comportamenti, condotte efficaci, «con un significato», ecc. Ma «i giri in tondo» non esistono mai in forma separata o isolabile. È per questo che per modellizzare il mondo è necessario preventivamente disciplinarlo. 1

Il nastro di Möbius è un «ente» topologico geometrico che si presenta come un nastro piegato su se stesso e unito da due bordi. Una volta unito la particolarità che appare è che, se seguiamo una delle facce della striscia, ci rendiamo conto che quella esterna e quella interna sono la stessa. Dopo aver percorso un giro, ci si trova dalla parte opposta. Solo dopo averne percorsi due ci ritroviamo sul lato iniziale. Quindi si potrebbe passare da una superficie a quella «dietro» senza attraversare il nastro e senza saltare il bordo ma semplicemente camminando a lungo.

CAPITOLO DODICESIMO

LA MEMORIA E L’IDENTITÀ Per studiare la relazione fra il cervello e la memoria sarebbe opportuno ricordare un testo di Jorge Luis Borges, Funes, o della memoria. Che cosa succede a Funes? Il poveretto soffre un martirio perché non riesce a dimenticare. Funes si ricorda tutto, tutti i dettagli, tutto quel che ha vissuto, che ha visto, che ha conosciuto, senza neppure poter stabilire una gerarchia fra tutti questi ricordi che lo soffocano. Non poter dimenticare, trattenere in memoria tutti i fatti, tutti i dati e le informazioni che nel corso della sua vita si sono affastellati: è in questo l’orrore, la tortura insopportabile per il personaggio di Borges. Perché cominciare da qui? Per una cosa fondamentale: la condizione fondamentale per il funzionamento della memoria è proprio l’oblio. La memoria è stata ed è identificata come l’elemento centrale e basilare per determinare la singolarità di un essere umano e forse di qualunque organismo vivente se non parliamo soltanto della memoria simbolica e cosciente ma di quel che scolpisce e costruisce la nostra vita, corpo e cervello compresi. Il fenomeno della vita si comprende come una scultura scolpita a poco a poco dalle esperienze che producono in noi segni e incisioni (contrariamente all’informazione ricevuta in modo passivo, conoscere è agire). Ma tale scultura non comincia mai da zero, è la prosecuzione

di una scultura di base che a sua volta si trasmette al di là di noi stessi e attraverso di noi. Gli elementi multipli che compongono la nostra singolarità non solo non cominciano con noi, ma per la gran parte non ci sono accessibili consciamente. Detto altrimenti, non sappiamo che cosa trasmettiamo, o comunque sappiamo molto poco di questa scultura che ci abbraccia e ci costituisce, e della quale siamo un tramite. Gli antichi sapienti indù ritenevano che per sapere se un individuo era stato un santo bastasse trovarlo. Per farlo bisognava prendere una persona, a caso, con cui il santo avesse avuto un contatto non molto importate e talvolta banale. Gli antichi indù ritenevano che, se si fosse trattato di un vero santo, parlando con l’intermediario — non importa di cosa — qualcosa sarebbe dovuto apparire. Vale a dire che l’intermediario avrebbe dovuto portare con sé, suo malgrado e senza esserne cosciente, qualcosa del santo che si potesse percepire. Al di là di qualunque santità e in modo più banale e pedestre, noi tutti ci troviamo in permanenza in tre situazioni: segniamo le persone con cui abbiamo un qualunque interscambio, siamo segnati e ce ne dimentichiamo, senza rendercene conto, percependo qualcun altro nella persona che ci parla. Questi sono i meccanismi fenomenologici della memoria. Non si può parlare di memoria se non cominciamo ad aver chiaro che stiamo parlando non di una capacità o competenza individuale, bensì di un processo multiplo e concatenato a cui partecipano le singole persone. I meccanismi neuronali della memoria, quelli che si occupano della base materiale del fenomeno che stiamo trattando, sono oggigiorno più o meno identificati, per lo meno in ciò che riguarda la parte cerebrale della memoria. Grazie a tale conoscenza, sappiamo che esiste una grande differenza fra i circuiti della memoria a breve termine e quelli di lungo termine, o come lo stress influisca negativamente sulle capacità di memorizzazione. La memoria a breve termine, chiamata anche «memoria di lavoro», dipende soprattutto dalla corteccia prefrontale dorsolaterale. Sono le reti neuronali che sollecitiamo quando in un compito concreto dobbiamo fare una scelta tenendo conto dei dati di cui disponiamo in una situazione concreta. Si tratta, in questi casi, di un immagazzinamento temporaneo: ci ricordiamo per un momento dei

dati necessari a portare a termine quel che stavamo facendo. Il passaggio a una memoria a lungo termine coinvolge il cosiddetto «sistema limbico» e l’ippocampo. L’ippocampo faciliterebbe l’associazione fra diverse regioni corticali articolando, ad esempio, una melodia, una musica ascoltata a una festa, con l’immagine delle persone che vi erano presenti. Ma, appunto, dopo un certo tempo, per non infastidire la memoria con ricordi «inutili», questa articolazione o si perde, o si modifica, dando luogo a processi di sintesi e di ricostruzione che riguardano in questo caso la storia soggettiva e familiare della persona. Il carico emotivo legato al ricordo o alla ricostruzione del ricordo è certamente fondamentale e altrettanto o finanche più importante nella costruzione del ricordo del fatto in sé. In questa costruzione del ricordo entrano in gioco gli elementi non personali, quelli che trasmettiamo attraverso noi stessi, che conferiscono ai ricordi caratteri non totalmente comprensibili finanche per noi stessi: siamo, insomma, portatori di messaggi che non ci sono accessibili. Fra tali elementi «ereditati» c’è, ad esempio, la memoria della specie o la memoria di un villaggio o di una famiglia che formano parte del substrato dal quale emergerà un ricordo. Nella costruzione-trasmissione della memoria e dei ricordi, tutto avviene come se si trattasse di una seduta permanente di spiritismo, ma senza spiriti. In effetti, quando parliamo con una persona che ha conosciuto qualcuno che è morto, se siamo sufficientemente sensibili possiamo senza grandi difficoltà renderci conto che stiamo parlando al tempo stesso con la persona morta la quale, per il fatto di aver segnato e scolpito il nostro interlocutore, continua, in un certo modo, la sua esistenza. La memoria è dunque questo lavoro permanente di costruzione, di ricostruzione, che tesse un paesaggio e molti destini e che, come vedremo, non implica soltanto cervello e coscienza. Ma allora possiamo vedere immediatamente che i progetti che cercano di pensare e costruire un cervello aumentato attraverso, fra le altre cose, una memoria aumentata, cadono nell’errore di chiamare «memoria» un dispositivo di immagazzinamento di dati che non ha niente a che vedere con i meccanismi biologici, sociali e culturali della memoria.

La memoria artefattuale dei computer, come è noto, immagazzina dati e, soprattutto, non li perde né li trasforma come fa invece una memoria viva. Una Macchina di Turing (MdT) può articolare dati memorizzati come avviene nel caso della costruzione di profili e pubblicità «personalizzate»: attraverso il raggruppamento quantitativo può vedere quale parola, quale immagine sia presente nella memoria della macchina in modo ricorrente e procedere così a un raggruppamento basato unicamente sul quantitativo, togliendo assolutamente qualunque significato a tali elementi quantitativi che la macchina identifica come ricorrenti. Da questo punto di vista, è certo che una MdT non si limita a immagazzinare dati: può elaborarli, ma il modo di elaborazione della macchina è radicalmente diverso da quello della scultura del cervello vivo. La MdT rimpiazza, in questo modo, l’ordine gerarchico di qualunque memoria, ordine dovuto e prodotto dalla singolarità di ogni organismo, con un repertorio di elementi ricorrenti maggioritari (quantitativamente). D’altro canto, non dimentichiamo che la modalità di raccolta di dati e informazioni propria della MdT si basa sulla possibilità di «discretizzare» in unità ben differenziate gli elementi che saranno memorizzati. Ciò, come abbiamo visto, implica che tutto ciò che si trova sotto la misura stabilita dalla macchina, vale a dire quel che l’arrotondamento digitale non può captare, si perde direttamente. In questo modo, i desideri attuali della ricerca in neuroscienze di costruire cervelli aumentati per quanto attiene alla memoria inducono due aporie di tipo opposto. Da un lato, non poter dimenticare nulla implica l’impossibilità di creare una gerarchizzazione di ricordi che vada nella direzione della singolarità della persona; ci trasformeremmo nella persona aumentata di Funes, o della memoria di Borges. Dall’altro, però, la «discretizzazione» digitale perde una quantità infinita di dati poiché, nel recuperarli in questa maniera frammentaria, perde tutti i chiaroscuri, tutte le tangenti infinite che fanno della memoria un dispositivo dinamico, in uno stato di produzione e cambiamento permanenti. Allo stesso modo, vorrei chiarire che le possibili ricerche sulla modificazione della memoria e dei suoi meccanismi non sono in nessun modo qualcosa di apparentabile alla fantascienza, come nel

caso del film Se mi lasci ti cancello del 2004, di Michel Gondry. In Argentina, ormai da molti anni, il professor César Antonio Izquierdo, biologo di fama, fa ricerca sul senso del modificare i contenuti della memoria umana come se si trattasse di una macchina da cui sarebbe possibile cancellare alcuni contenuti perché non ne abbiamo bisogno o perché ci disturbano. Izquierdo usa una molecola che chimicamente si comporta come un betabloccante che dovrebbe poter cancellare alcuni ricordi dolorosi o traumatici. Si chiede al paziente di evocare il ricordo e gli si somministra la molecola che deve bloccare la possibilità che il ricordo «risalga alla coscienza». Al di là del dato biologico, ciò che mi sembra importante sottolineare qui è lo stesso desiderio di trasformare gli umani in artefatti fino al punto di modificare a volontà la loro memoria. È vero che, da un punto di vista cerebrale, i ricordi sono semplici ricostruzioni e possiamo vedere che ciascuno di essi è fatto a partire da elementi distribuiti in diverse parti del cervello. Ma, chiaramente, non si tratta del solo cervello, è il corpo intero che interviene. Se la memoria fosse soltanto un dispositivo cerebrale, diremmo che questo — ben al di là di quel che significa sotto il profilo antropologico come modificazione della specie — sia tecnicamente possibile. Ma in realtà (e, aggiungerei io, fortunatamente) i meccanismi della memoria non funzionano come quelli di un computer ed è così perché noi non siamo computer. Poiché la memoria umana e biologica è un processo globale che integra tutto al corpo, le «modificazioni dei ricordi» potrebbero unicamente riuscire, se funzionassero, a creare realtà schizofreniche dove, da un lato, il vissuto e la percezione di una persona — vale a dire, la sua relazione con il mondo e con se stessa — diranno una cosa, mentre la sua memoria cosciente, modificata, ne dirà un’altra. In ogni caso Izquierdo non è l’unico a seguire questa strada; al contrario, in questa visione postmoderna dell’uomo modulare la tentazione di modificare la memoria — cioè modificare in profondità quel che ci conferisce la nostra unità e la nostra identità — è una tentazione in cui cadono molti ricercatori e, naturalmente, riveste un grande interesse per le aziende farmaceutiche. In questo senso, poco tempo fa due scienziati statunitensi hanno annunciato, nella rispettabilissima rivista «Nature», di essere riusciti ad «accendere e

spegnere» a volontà i ricordi in un topo. Hanno definito questa tecnica «optogenetica» ed essa consiste nella serie di manipolazioni che permettono ai nostri neuroni di liberarsi di tratti visibili della nostra memoria, ovvero di leggere la memoria... Possiamo comprendere che in questo desiderio di modificare modularmente la memoria stiamo assistendo a un passo ulteriore — e gigantesco — verso la costruzione dell’uomo aggregato: l’uomo modulare. Ma, ancora una volta, quest’uomo modulare è più un progetto di tecnologia che una realtà compossibile con il mondo organico. La memoria come processo integrato funziona sempre con il corpo e con l’ambiente. È quindi importante segnalare come, ad esempio, lo stress prolungato che vive un corpo provochi modificazioni nella possibilità e nella modalità della costruzione della memoria. Ciò che interviene in questa costruzione comprende circuiti corporei come le ghiandole surrenali. In effetti, delle complicazioni nella produzione dell’ormone cortisolo, a carico delle ghiandole surrenali, possono provocare, fra le altre cose, problemi di memorizzazione e difficoltà associate a sintomi depressivi. La perdita della memoria è legata molto più allo stress che all’età. La dottoressa in biologia Sonia Lumplen, dell’università di Montreal, lavora su questo aspetto da tempo e le sue pubblicazioni spiegano, inoltre, come nel caso di persone anziane sia lo stress della loro condizione quel che costituisce un fattore importante nei problemi di memoria tipici dell’età. Una delle conseguenze — e non la meno importante — dello stress è, ad esempio, il rimpicciolimento dell’ippocampo. Lo stress comincia con il farci perdere la capacità di discriminare e codificare i ricordi, vale a dire che impedisce di gerarchizzare la memoria. È proprio l’ippocampo che si occupa di coordinare i ricordi «archiviati» che circolano nel lobo prefrontale e della localizzazione della memoria a breve termine. Tanto più grande è l’ippocampo, tanto più sarà efficace il compito di selezionare le informazioni e incanalarle verso i dispositivi che si occupano della memoria a lungo termine, cioè la scultura. Orbene, lo stress di una persona è anche parte della sua vita; è il suo intero corpo che vive in questo modo. Lo stress non è un elemento che le si appiccichi, bensì parte della sua relazione con il mondo e con la vita. L’idea di lavorare sulla possibilità di aumentare unidimensionalmente le sue capacità mnemoniche passa direttamente

attraverso la negazione della persona come organismo integrato. Il corpo registra la storia personale, la registra attraverso la sua modificazione permanente, e in questo modo possiamo dire che una serie molto importante di ricordi sarà registrata dal corpo senza mai passare per la coscienza. Il corpo funziona con una serie di dati e informazioni che al tempo stesso non hanno bisogno di passare per la coscienza per ordinare il nostro comportamento. Prendiamo un esempio: è facile immaginare che nell’organizzazione e nella costituzione dei nostri corpi il fatto che la Terra sia rotonda sia un elemento fondamentale e determinante. Ora, però, le coscienze degli uomini non hanno sempre saputo che la Terra fosse rotonda o, come è noto, in certi periodi lo si sapeva (Platone parla della Terra rotonda, e anche gli Egizi) e in altri «lo si era dimenticato». Per i corpi, questo sapere cosciente e teorico non ha alcuna incidenza. I corpi esistono così come esistono perché la Terra è rotonda. Questi «dati», queste informazioni che più che informazioni sono «formazioni», dato che scolpiscono i nostri corpi in un certo modo, non dipendono né possono essere modificati né dalla coscienza né dalla memoria evocabile. Questo mondo, il mondo degli organismi, è quello che viene totalmente dimenticato quando si cerca di riassumere e ridurre la vita degli organismi a memorie simbolicamente evocabili di tipo codificato. D’altro canto, poiché il corpo nel suo agire modifica permanentemente il cervello e i suoi dispositivi di memoria, il fatto che «grazie» alle macchine i corpi siano disciplinati da vite sedentarie fa sì che il cervello non possa fare a meno di diminuire. Pensiamo all’esempio dell’abbandono, da parte di dieci degli Stati Uniti, della scrittura manoscritta. Il gesto di scrivere sviluppa un tipo di memoria, la memoria del gesto, che non può essere rimpiazzata dal semplice fatto di poter scrivere senza gesti o con gesti privi di significato, come lo scrivere su una tastiera. Forse un’esperienza fatta con malati di Alzheimer può illustrare ancora meglio quello che stiamo dicendo. L’esperienza in questione, condotta da neurologi statunitensi, consiste nel mostrare a una persona malata una serie di foto che raffigurano persone della sua famiglia, foto di persone totalmente sconosciute e altre foto di persone

pubblicamente conosciute. Nel caso dei pazienti la cui malattia generativa era molto avanzata, il paziente non riconobbe nessuno dei volti. In questi casi, i ricercatori sistemarono sulla pelle dei pazienti dei semplici sensori di traspirazione e ripetettero l’esperienza con la serie di foto. Il risultato fu che quando venivano mostrate foto di familiari o di personalità pubbliche il paziente traspirava, ovvero reagiva, mentre non lo faceva di fronte a volti di sconosciuti. Questa esperienza comporta varie considerazioni. La prima, indubbiamente, va nel senso del riconoscimento di quel che chiamo «memoria del corpo» (Benasayag e Del Rey, 2011). Quantunque il livello cosciente non venga raggiunto dal ricordo evocato, il corpo reagisce per altre vie riconoscendo ciò che nel suo passato non è stato una semplice «informazione», ma una conoscenza nel senso profondo del termine, ovvero ha scolpito e lasciato un segno nel corpo stesso. Se nel terzo livello, quello della coscienza (percezione, appercezione, coscienza), la malattia non permette di accedere a questo ricordo, al livello della percezione il corpo (in questa interfaccia ambiente-io-non io) reagisce e interagisce provocando gli stessi processi che si scatenavano prima della malattia. L’appercezione implica una reazione dell’«io corporeo», che come unità riconosce e reagisce di fronte allo stimolo perché, ancora una volta, il corpo medesimo è scolpito dai segni e dai tratti delle sue esperienze passate. Se, di fronte a un’esperienza conosciuta, le vie corporee si attivano in maniera dissociata (ad esempio, il sudore), in un secondo momento ciò può essere accompagnato a uno stato corporeo globale dovuto a tale riconoscimento. In entrambi i casi vediamo come un organismo non si trova mai in un «puro presente», giacché è il funzionamento basato sulla sua storia passata ciò che è all’origine dei suoi atti percettivi. Allo stesso modo, saranno i tropismi della persona quelli che saranno all’origine della sua modalità di reazione. Il passato trattiene e il futuro spinge in avanti: in questa coordinata complessa di tendenze l’esistenza della persona è sempre molto al di là della sola esperienza cosciente. Dobbiamo comprendere l’inscrizione corporea (neuronale o no) della storia della persona come una serie di segni, di tacche, come nell’esempio del piccolo cilindro di metallo che mette in moto un carillon. Vediamo che le puntine più o meno salienti

del cilindro, entrando in interazione con i tasti di metallo del carillon, producono un certo suono. La memoria inscrive nel cervello questi segni, questa cosa che chiamavo «scultura cerebrale», ma al tempo stesso questa scultura si trova anche nel corpo. La differenza rispetto al carillon è che questi segni, così come le concavità, non trovano nel mondo qualcosa che possa essere assimilato alla seconda parte del carillon, dove si trovano i tasti che, quando entrano in contatto con punte e vuoti, producono la musica desiderata. Al contrario di quanto avviene nel caso dei segni nel cilindro del carillon, gli esseri e gli organismi viventi vengono a contatto con un esterno che non è stato prodotto apposta per loro. Ciò significa che il contatto è variabile, produce effetti sempre diversi, e in questo contatto dell’organismo e dei suoi segni con l’ambiente si effettuano la selezione e la coevoluzione naturale.

CAPITOLO TREDICESIMO

MORALE E CERVELLO Benché il titolo del capitolo, «Morale e cervello», possa sembrare strano, se lo analizziamo accuratamente ci accorgiamo che rappresenta un punto centrale rispetto al cervello e alle sue possibili manipolazioni o «aumenti». In effetti, come ci mostrano l’imaging medico (la diagnostica per immagini) e la biochimica del cervello, oggigiorno siamo in condizione di identificare delle zone cerebrali e di porle in relazione con funzionamenti personali e sociali. Vale a dire che, ad esempio, possiamo vedere quali siano le regioni del cervello che si attivano quando si fa esperienza di determinati sentimenti, processi di comprensione, ecc. Possiamo anche vedere quali zone del cervello siano disfunzionali, per eccesso o per difetto, nelle persone che presentano gravi disturbi considerati come alterazioni «morali» della condotta, legati cioè ai valori morali di ciascuna società. Prendiamo il caso dei famosi bambini iperattivi, quelli che fino a ieri venivano chiamati semplicemente bambini «insopportabili». Che cosa vuol dire «iperattivo»? Anche accettando che in realtà esista un deficit di dopamina e che per trasduzione ciò provochi un certo funzionamento identificato come eccessivo, non dobbiamo dimenticare che questa «diagnosi» osserva non il bambino isolato, bensì il bambino articolato socialmente, cioè il bambino visto in società e rispetto ai parametri di una società determinata. Questo

funzionamento non è obiettivo e univoco, come può esserlo la constatazione di un deficit di dopamina (è, in linea di principio, la causa che si ritiene alla base di questo disturbo di iperattività, per il quale i laboratori, nella loro immensa bontà, ci propongono come soluzione il metilfenidato). Che esista un deficit nella produzione di un neurotrasmettitore, di un ormone, può essere un certo obiettivo; la valorizzazione del comportamento del bambino, invece, non è mai un dato univoco o oggettivo, bensì una valutazione che tiene conto di un’enorme quantità di variabili e componenti sociali, storiche, culturali e di diversa specie. La cosiddetta «iperattività» o disturbo da deficit di attenzione (ADHD) — o il suo contrappunto, l’ipoattività — è già un’interpretazione, culturale, sociale, che significa diverse cose, che non si può intendere come un segno univoco ma, al contrario — così come i livelli base di tolleranza di una società rispetto al comportamento dei bambini -, è un registro culturale simbolico non riducibile a una delle sue possibili cause, il deficit di dopamina. Questa riduzione costituisce un errore in sé. Si prende una variabile, si fanno calcoli statistici e si tratta questa variabile come se fosse in maniera lineare una causa identificata scientificamente di un effetto che, come ho detto, è multiplo e polisemico. L’intolleranza sociale nei confronti dell’infanzia è uno dei più rilevanti fatti sociali e storici delle nostre società postmoderne; intolleranza che, come ho spiegato più diffusamente in altre opere (Benasayag e Schmit, 2010), va collegata, ad esempio, alla paura del futuro che domina le nostre società attuali, paura che ha preso brutalmente il posto della fiducia in quello stesso futuro. In sintesi, l’intolleranza nei confronti dell’infanzia è un elemento da tenere presente come almeno altrettanto importante di un eventuale deficit di dopamina. Nel circolo vizioso intolleranza-resistenza, i risultati che otterrò saranno diversi se tratto un bambino iperattivo come se fosse un malato o un trasgressore oppure no, al di là di qualunque deficit di dopamina che possa effettivamente esistere. Dobbiamo capire che esiste un pericoloso circolo vizioso poiché il fatto di trattare con intolleranza l’agitazione provoca un’agitazione ancora maggiore. Facendo questo dimentichiamo che il mondo intero si è trasformato in un luogo dove non c’è tempo per l’attesa, dove tutto

sembra urgente. Sembra che il tempo dei computer abbia sostituito il ritmo lento. In questo mondo di iperagitati, i pedagogisti scoprono che vi sono — ma è incredibile! — dei bambini iperattivi. La verità è invece che l’unica cosa strana è che vi siano così pochi bambini che, di fronte a una simile realtà sociale e culturale, reagiscono con l’iperattività. La barriera trasduttiva stocastica fa sì che un comportamento sia sempre attirato, in entrata, in una rete simbolica, dai significati multipli, che fa in modo che lo stimolo neuronale non esista mai come un dato o un elemento oggettivo o univoco. In entrata, lo stimolo del deficit di una regione del cervello (che, ad esempio, possiamo constatare in certe perversioni) non può essere pensato in una relazione lineare di causa-effetto, dato che lo stimolo o l’insieme degli stimoli (a causa del deficit, dell’eccesso o del disfunzionamento) esiste nel mondo dei significati in maniera sempre ambigua, polisemica e simbolica, non riducibile agli elementi che lo compongono. Questi elementi (i deficit neuronali, ad esempio) non sono la «causa» del comportamento, i deficit possono essere parte del comportamento emergente ma non lo definiscono, sono necessari ma non sufficienti. Da questo punto di vista, ciò che possiamo dire è che la componente neurologica — o anche genetica — è un elemento o fattore necessario ma non sufficiente a determinare un problema. Se si escludono alcuni casi gravissimi, i miei trent’anni di pratica clinica e psicoterapeutica con bambini e adolescenti mi hanno insegnato che l’iperattività, l’incapacità di tollerare la minima frustrazione e la tendenza al passaggio all’atto possono esistere senza che sia stato rilevato alcun deficit biochimico. È per questo che, rispetto all’imaging medico, possiamo affermare che le cosiddette «neuroscienze» sono la loro interpretazione ideologica. Nell’esempio dell’iperattività non si deve dimenticare che tale interpretazione di un sintomo ci parla molto più di un divenire della pedagogia che della psicologia reale dei bambini. Se la sindrome di ADHD ci parla di una patologia, va compreso che tale patologia è stata creata dal nostro sistema educativo. Soffermiamoci un momento su una delle possibilità che questo tipo di tendenze implica, ad esempio, quando possiamo stabilire certe correlazioni fra deficit cerebrali e comportamenti trasgressivi o perversi.

Il perverso può presentare o no quello che potremmo chiamare «segno fisiologico», nel senso che è possibile identificare alcune correlazioni del tipo di reti neuronali legate a un comportamento che intervengono nei casi di certi atteggiamenti o comportamenti chiamati «perversi» o «trasgressivi». Ma il perverso, il trasgressore, vive ed esiste in una comunità in cui i suoi comportamenti hanno un significato, non sono sintomi o indizi, ma possiedono un significato storico, culturale, sociale. Da questo punto di vista non si può isolare il perverso come se se si trattasse di una diagnosi, ad esempio, di deficit di insulina, giacché il perverso implica una faglia sociale, una sfida. La società dovrebbe interrogarsi su quale debba essere la sua maniera di farsi carico dell’esistenza, inevitabile e permanente, di una parte dei suoi membri che, fra l’altro, per ragioni fisiologiche legate al cervello non possono assoggettarsi ad aderire alle sue leggi e alle sue regole. La tendenza al trattamento medico di queste sfide culturali, ben lungi dal rappresentare una semplice conseguenza delle conoscenze del cervello che adesso (con gran fortuna del progresso!) ci permettono di trattarlo da una prospettiva medica, implica una tendenza e una svolta storica troppo importanti per potersi limitare a pensarle in termini ingenui come un progresso della medicina. Al contrario, questa tendenza medicalizzante e disciplinare costituisce e implica una decisione sociale e storica legata alla società del biopotere, della perdita di significato, della tecnicizzazione della vita. È un esempio (grave) ulteriore di quel che spiegavo prima: ciò che la tecnologia rende possibile si trasforma nel breve termine in qualcosa di obbligatorio socialmente. Vale a dire, la tecnologia trasformata in fonte di produzione di valori sociali in modo anonimo e desoggettivizzato. È una grande debolezza intellettuale quella che rende possibile si possa pensare oggi che i comportamenti sociali, interpretati all’interno delle regole e delle leggi morali di una società, possano avere come origine e modo di affrontarli metodi e tecniche mediche che oggettivano e reificano la vita. Non dobbiamo dimenticare che questo tipo di tendenze, di biopotere, non sono soltanto un nuovo modo di gestire la vita, ma si basano anche su statistica e profili, cioè sulla predizione e la prevenzione. Un tipo di governo sostenuto dalla valutazione quantitativa permanente che non si applica a — né si

occupa di — soggetti bensì a — di — corpi. Previsione e predizione al posto di qualunque possibilità simbolica o culturale di comprensione. Ciò significa molto concretamente che ci si deve occupare ogni volta di più di settori interi della popolazione sulla base dei loro «rischi probabilistici». Vale a dire che si considererà «perversa» una persona prima di qualunque suo atto di trasgressione, dato che ce ne saremo accorti grazie ai geni, alle reti neuronali, ai deficit dei neurotrasmettitori, ecc. Non c’è dubbio che il cervello aumentato corrisponde, in questo caso, all’uomo e alla società diminuiti. Il mondo del biopotere, quello che cominciò a descrivere Foucault (1969), è il luogo in cui si passa a poco a poco dal mondo della legge — spazio conflittuale, contraddittorio, privo di un significato unico e fondato sul nonsenso, la metafora e la metonimia, vale a dire il mondo della cultura e, in definitiva, dei «soggetti responsabili» — al mondo dei segni univoci, dove il fumo vuol dire fuoco, senza mai sviste o equivoci significativi, e dove non c’è nessuno che sia soggetto o responsabile di checchessia: tutto è fatto di processi tecnologici senza significato né intenzione. La vita degli uomini, la vita della cultura, si è sempre basata sulla cultura, sul nonsenso. La lingua non è un insieme di codici univoci, non è neppure uno strumento di comunicazione, oppure lo è solo come un dettaglio di ciò che la lingua implica. Anche grazie all’invenzione della scrittura, soprattutto quella alfabetica, la letteratura custodisce e sviluppa nel suo ambito, nel suo modo di essere, le proprie forme e modi delle metafore, metonimie, ambiguità, nonsensi, soggettività. Al contrario, il mondo della tecnica trionfante ci pone in uno spazio privo di ambiguità, da cui sono assenti la metafora, la metonimia, le cadute, il significato. Ci basta immaginare per un secondo quel che sarebbe un computer che si divertisse a cambiare il significato di un testo, a indugiare nei nonsensi, a evocare l’indicibile. Sarebbe un computer guasto. Forse è questo il problema centrale che ci pongono le tecnologie digitali. Speriamo che, a poco a poco, l’umanità possa sviluppare le nuove forme di difetti culturali e organici nel mondo ibridato dai computer, come lo ha fatto con la scrittura, ma per il momento la tecnologia univoca oggettualizzante sta vincendo la partita.

La tecnologizzazione della vita sociale implica l’allontanamento dal conflitto proprio della legge, della contraddizione. Il trattamento organico della legge si basa costantemente su questo spazio di conflitto fra ciò che è «legale» e ciò che è «legittimo». Nel mondo tecnologico della regola non c’è una categoria equivalente a quella di «legittimo illegale»; lì ci si trova nel mondo in cui gli artefatti funzionano oppure no, nel mondo della norma e della devianza. Ora, il «legittimo illegale» implica, nel funzionamento e nella vita di una società, l’esistenza di frontiere interiori a partire dalle quali la società vive, si sviluppa, si autoregola. Immaginiamo tale dialettica in varie dimensioni della vita sociale. Ad esempio, se lo schiavismo fu legale, fortunatamente alcune pratiche illegali permisero la sua abolizione, attraverso la rivendicazione di uno spazio di legittimità non legale. La stessa cosa avvenne in Francia con la pratica dell’aborto: vennero praticati aborti illegali che per la maggior parte della società erano legittimi come modo per farla progredire. Sempre in Francia, succede qualcosa di simile con gli aiuti forniti agli immigrati privi di documenti: molti francesi condividono reti di solidarietà che sono legittime ancorché illegali. Possiamo dire lo stesso di quasi tutti i movimenti di emancipazione: femministi, omosessuali, ecc. Inoltre, pensiamo a ciò che sarebbe della ricerca scientifica se l’insieme legale (quel che è ammesso ufficialmente) non permettesse un conflitto permanente con ciò che è palesemente legittimo anche se non è legale. Sarebbe la fine di qualunque ricerca scientifica, proprio perché qualunque ipotesi che faccia avanzare la scienza si basa su una proposta o intuizione che può apparire legittima benché non sia legale secondo lo stato attuale della scienza. Certo è che la stessa dinamica è l’unica che garantisca l’esistenza stessa dell’arte: un artista che si accontentasse dei segni legali della sua arte, l’arte ufficiale (realismo socialista, arte nazista, ecc., o arte commerciale), vale a dire l’arte dominante e accettata, non è un artista. Questa dinamica può essere applicata ad altri aspetti — o a quasi tutti — della vita nella società. Il mondo ben ordinato e modellizzato delle macchine non permette assolutamente questo livello e questa dimensione del conflitto. Per una Macchina di Turing (MdT), l’unica cosa che esista è la regola del funzionamento; al di là di essa — quand’anche la MdT possa

«apprendere» dalla sua esperienza — un conflitto equivale a un difetto chiaro e tondo. Qualunque straripamento dal suo programma — programma che deve permanere nell’unidimensionalità della logica formale — farà sì che si blocchi, poiché la macchina deve restare sempre entro gli steccati della regola stabilita. Nel mondo della vita «reale», posso dire e agire con un concetto flou (logica diffusa) del tipo: «Questa stanza è molto grande» perché per me, per la mia cultura, questa stanza è molto grande. Immaginiamo un giapponese di Tokyo che dica: «Ogni stanza in Occidente è molto grande». Un simile tipo di categoria non esiste in una MdT: che cos’è molto grande? Molto grande non è codificabile nei termini del necessario arrotondamento digitale. Questo semplice esempio ci parla della vita in generale, ma non solo di quella umana: i criteri delle situazioni degli animali (così come, in modo più complesso, degli umani) funzionano sempre in queste frontiere e dimensioni non esatte. Ciò che sfugge ai computer e alle strutture discrete sono le fluttuazioni che avvengono nella misura, non identificabili con la misura. In questo continuo flou si sviluppa la vita degli organismi e della cultura. Questo è senz’altro uno dei problemi principali nei pretesi aumenti della vita e del cervello, poiché tali aumenti dipendono dall’ibridazione con macchine che — come non smettiamo di constatare — funzionano in modo strutturalmente diverso da ciò che un organismo fa e da ciò di cui ha bisogno. Torniamo un momento ai tre livelli di organizzazione della materia che avevamo presentato: l’organico biologico (nel mezzo del dispositivo); sotto questo livello, i funzionamenti fisico-chimici; e, sopra il livello organico biologico, la dimensione dei misti. Fra ciascuno di questi livelli e dimensioni esistono barriere strutturali che fanno sì che le logiche e i modi di funzionamento di ciascuna dimensione non siano gli stessi degli altri. Così, allo stesso modo in cui i possibili morali non sono compossibili organici, il modo di funzionamento fisico-chimico del cervello non determina i compossibili simbolico-culturali. Possiamo dire che, fra i tre livelli di organizzazione della materia — fisico, biologico e misto — ognuno di essi determina livelli di tolleranza e compatibilità dell’uno rispetto all’altro: è quel che definiremo una «armonia conflittuale», senza

risoluzione possibile. Possiamo verificare che esiste una differenza fra quella che potremmo chiamare «codifica» e quella che appare una «supercodifica». In questo modo, una regola morale, una legge, può essere in una certa consonanza con il funzionamento organico della società e degli individui che la compongono, oppure una legge o una norma può funzionare come ciò che chiameremmo «supercodifica» o codifica eccessiva rispetto ai funzionamenti organici. Nel caso della supercodifica, indefettibilmente dopo un certo tempo l’insieme — società, norma, organismi — entra in un processo di distruzione e violenza. Una storia buffa può illustrare la differenza fra codifica e supercodifica: i francesi, che si burlano dei belgi così come gli argentini si burlano degli spagnoli, raccontano che un giorno un camionista belga arriva di fronte a una galleria; all’ingresso della galleria c’è un cartello che recita: «Proibito ai veicoli di oltre due metri d’altezza». Il camion del belga è alto due metri e mezzo; allora, il copilota scende e guarda bene a destra e a sinistra; risale e dice al camionista: «Dai, a tutta birra, non ci sono poliziotti!». Abbiamo qui un buon esempio di codifica: possiamo considerare il cartello in questione come in sintonia con la realtà organica del paesaggio. Per contro, immaginiamo lo stesso cartello in mezzo alla pampa: perché la regola sia rispettata bisogna che ci siano appunto poliziotti e uomini armati, poiché nella pampa un simile cartello sarebbe una supercodifica in dissonanza con il paesaggio organico del luogo. Le leggi e le regole totalitarie sono generalmente supercodifiche le quali, oggettivamente e non solo ideologicamente, entrano in opposizione con il funzionamento organico delle società e delle persone. Succede lo stesso con i corpi: le norme e le regole devono poter adattarsi ai livelli organici che pretenderebbero di normativizzare, senza che, al tempo stesso, una regola possa corrispondere alla traduzione di un funzionamento organico. Il riduzionismo attuale, chiamato appunto «fisicalismo», consiste nel fatto di unificare e ridurre ogni tipo di funzionamento alla dimensione fisico-chimica. Le regioni cerebrali che si attivano in caso di simpatia, amore, pensiero complesso, senso di giustizia, capacità di empatia, ecc., tutte

queste zone cerebrali sono state cartografate e i deficit delle persone in questi ambiti sono stati, per lo meno, studiati effettuando correlazioni molto concrete fra, ad esempio, la mancanza di empatia e le lesioni cerebrali, allo stesso modo in cui i deficit della condotta morale e sociale sono stati e vengono studiati — come abbiamo visto con l’esempio del disturbo da deficit di attenzione — in relazione a possibili lesioni o mancanza di ormoni. Immaginiamo per un istante le conseguenze di quel che sto dicendo. Ignorare la non reversibilità fra i diversi livelli e dimensioni della vita sociale ci fa precipitare in un incubo, un incubo che si è già manifestato nel passato e conosce oggi nuove modalità di rappresentazione. Ricordiamo come esempio i deliri repressivi della psichiatria sovietica, con il particolare tipo di schizofrenia che era la diagnosi posta per i dissidenti. In effetti, in Unione Sovietica si riteneva che, dato che lo Stato era buono e desiderava il bene dei suoi cittadini, i contestatori non potevano che essere pazzi. Si venne a creare in tal modo una correlazione fra comportamento sociale contestatario e malattia psichiatrica. Questa «psicosi», pertanto, presentava la particolarità di essere asintomatica: l’unica cosa che permettesse di stabilire che ci si trovava di fronte a un malato era il suo comportamento antistatale. (Bisogna chiarire che la malattia e la diagnosi di schizofrenia vennero inventate non solo con la complicità di quasi tutti gli psichiatri sovietici, ma anche con quella di molti professionisti occidentali che suffragarono questa posizione.) Ciò non avvenne, ma possiamo immaginare che, se la biochimica del cervello fosse stata sufficientemente avanzata, si sarebbe trovata senza grandi difficoltà una correlazione molecolare ormonale che spiegasse lo stato di dissidenza. Qui la questione non può essere affrontata solo in maniera tecnica, perché dobbiamo domandarci se l’idea soggiacente nei ricercatori non vada nel senso di credere, allora, che un cervello che — secondo i loro termini — «funziona bene» produca un individuo moralmente corretto, affettivamente equilibrato e che sia governato unicamente dalla ragione. La tecnica ci propone l’uomo nuovo. Forse ciò significa, per caso, che il buon funzionamento del cervello implichi una «buona condotta morale»? O, inoltre, che la morale sia una produzione neuronale?

Certo il cervello si trasforma con il trasformarsi del mondo. Attraverso il riciclaggio e la plasticità cerebrale, attraverso la selezione naturale e la coevoluzione possiamo constatare che i diversi modi di vita, i codici e gli ideali morali ed etici sviluppano reti neuronali che costituiscono il substrato di questo tipo di realtà sociali: è quel che Spinoza (1956) definisce come i due attributi della sostanza: il pensiero e la res extensa, due facce, due fasi della stessa cosa. Quindi, il fatto che esista una rete o un insieme di reti concatenate che costituiscono la parte neuronale di un processo che nel simbolico (trasduttivo) va legato a un sentimento o a un atteggiamento morale non ci permette di giungere a credere a una natura neuronale di tali sentimenti. Ciò significa che non è una qualità in sé del cervello il possedere una «funzione sociale»; al contrario, è nello sviluppo medesimo delle società e dei suoi individui che certe zone del cervello si riciclano a poco a poco e si sviluppano per occuparsi di questi nuovi processi. Ricordiamo quel che abbiamo visto parlando dell’esempio della scrittura nel riciclaggio neuronale: le regioni cerebrali che si sono specializzate nella lettura e nella scrittura non erano, per così dire, pronte al posto e in attesa (magari, annoiate) che la scrittura venisse inventata dagli umani. Così come avvenne con l’invenzione della lettura e della scrittura — cioè che regioni e reti neuronali che fino ad allora si erano occupate di altre cose furono riciclate e sviluppate per passare a occuparsi della nuova dimensione umana —, lo sviluppo di codici morali o l’apparizione o l’aumento di un certo tipo di sentimento o di comportamento si insediano in alcune regioni e reti già esistenti per poter sviluppare le nuove tendenze. Dal punto di vista del funzionamento del cervello, dall’apparizione del codice di Hammurabi (1750 a.C., primo codice scritto) in Mesopotamia, la cosiddetta «legge del taglione» modificò il modo di vivere della gente: a poco a poco si cominciò a vivere sotto la protezione dei nuovi codici di condotta e a interagire sulla base di tali codici. Un codice condiviso, rispettato e poi trasgredito da una popolazione, inaugura un vero e proprio cambiamento che può essere considerato come una mutazione per la specie in questione e certamente, di rimbalzo, per l’ambiente in cui essa evolve. Basta

immaginare che una buona parte della popolazione può dedicarsi d’ora in poi ad attività diverse da quelle militari o violente e sviluppare così altre potenzialità; ciò vuol dire che i codici scritti aprono a una popolazione grandi potenzialità di agire che fino a quel momento erano dedicate alla sopravvivenza di individui e piccoli gruppi in lotta permanente. In questo senso possiamo dire che, nella coevoluzione della specie, il codice modifica i cervelli così come i cervelli modificano e sviluppano il codice. Bisogna quindi comprendere questa fase dell’evoluzione uomocultura, in cui vi è davvero una doppia scultura del codice, dei codici e degli organismi. Codici differenti sono scolpiti da, e scolpiscono, gruppi umani differenti. Ciò potrebbe indurci a cadere nella pericolosa idea del cosiddetto «relativismo culturale», ma non è questo il caso. (In realtà, il relativismo culturale, che più che una teoria è una debolezza del pensiero, eleggendo come legge universale che tutto è relativo, enuncia lo stupido paradosso che «tutto è relativo, salvo quel che ho appena detto: che tutto è relativo».) Le reali differenze fra culture e gruppi umani diversi corrispondono tutte a principi antropologici e organici comuni. I rami evolutivi, nell’organico come nel culturale, obbediscono alle stesse leggi e principi di organicità, di autoregolazione, di divenire storico, ecc. Vale a dire che esiste ciò che dovremmo chiamare «universale della matrice», che funziona come ciò che costituisce le condizioni fondamentali per lo sviluppo di tutte le culture e le civiltà. Affinché possano essere differenti, devono obbedire a una combinazione ristretta di invarianti comuni. Per questo non possiamo dire che, ad esempio, l’empatia sarebbe una questione di neuromediatori o di reti neuronali. Una cosa è constatare un certo tipo di sentimenti e di affetti che corrispondono nei codici sociali a una certa organizzazione dei cervelli; ben altra cosa è cadere nell’errore di pensare che l’empatia o il senso di giustizia sociale — per dare un esempio — siano il prodotto di determinati neuroni o, come credono alcuni ricercatori, la manifestazione di certi geni. È per questo che, in realtà, se possiamo constatare che alcuni stati patologici degenerativi o alcune conseguenze post-traumatiche del cervello sono accompagnati dall’esibizione di comportamenti morali determinati — ad esempio, la mancanza di autocensura nei traumi

cranici —, ciò non deve indurci alla conclusione che la zona interessata sia quella che «si occupa dell’autocensura». L’autocensura è, senza dubbio, un comportamento sociale che in forme differenti esiste in ogni società; ora, chi ha subito un trauma cranico, a causa del suo stato fisico, trova difficoltà nel porre in essere tale comportamento, ma tali difficoltà non ci consentono di affermare, in maniera reversibile, il contrario, cioè che il comportamento di autocensura sia prodotto da una zona del cervello. Per guardare un quadro servono gli occhi e il nervo ottico, è palese, ma il quadro non è il prodotto né dell’occhio né del nervo ottico. La non reversibilità fra comportamento e reti neuronali è fondamentale. C’è bisogno della rete neuronale perché si possa porre in essere il comportamento, ma il comportamento non si riduce, reversibilmente, alla rete. Detto altrimenti, per scrivere il Don Chisciotte è stato necessario l’alfabeto, ma la cosa non è reversibile: il Don Chisciotte non si riduce all’alfabeto e non si spiega con esso. La questione della negatività Tutto quel che abbiamo appena visto rispetto al rapporto fra morale e cervello converge in un punto centrale della questione dell’uomo e del cervello aumentati, come mostrano i nostri ricercatori e forse buona parte della nostra società. Tale punto di convergenza è quel che potremmo chiamare «la questione organica e antropologica della negatività». Per affrontare tale questione, enunciamo un’ipotesi che prende le distanze dalle tendenze attuali nella ricerca in neuroscienze: possiamo affermare che un cervello che funziona bene o che è aumentato dall’ibridazione con qualche dispositivo che ne garantisce il buon funzionamento sarebbe allora un cervello morale, psichicamente sano e adattato, socialmente efficace, affettivamente equilibrato? Certo, se rispondiamo affermativamente a questa domanda entriamo in pieno nell’incubo totalitario di un mondo di morte e di orrore; e, nondimeno, è questo l’orizzonte della ricerca attuale dal punto di vista di clinici e specialisti che cercano in ogni modo di identificare le cause dei «difetti» dell’umano fino ad arrivare

all’abominio dei campi di concentramento. Ecco perché, per affrontare questa questione così importante, possiamo cominciare da ciò che in filosofia potremmo chiamare «la questione della negatività», intendendo per «negatività» un vasto insieme che comprende la malattia, la sofferenza, l’oppressione, la violenza, il dolore, l’eccentricità, l’ingiustizia, l’ignoranza, ecc. L’elenco è infinito e varia moltissimo da una cultura all’altra. Possiamo affermare subito che tutte le differenti culture umane hanno sempre avuto un modo di assumere e affrontare la questione della negatività. Questo modo varia e può trovare attuazione, ad esempio, nella sua incorporazione organica in ciò che appare come positivo, come nel caso delle culture non moderne di tipo buddista, taoista o induista o nelle visioni del mondo originarie del continente americano, culture che, per dirlo in modo semplicistico, considerano che il male è parte del bene e che entrambe sono sia inseparabili sia reciprocamente necessarie. Altre culture premoderne o paramoderne (ovvero, che si sviluppano parallelamente alla modernità) fanno il contrario: applicano il manicheismo, che separa in modo categorico il negativo dal positivo. Nei monoteismi farà la sua comparsa l’idea che nell’altro mondo la negatività possa sparire. Anche nelle sue radici greche la domanda sul negativo e la divinità occupò continuamente i filosofi che si domandavano come fosse potuto accadere che la divinità perfetta e buona avesse creato il male. Oppure, in termini platonici, la domanda che si poneva era: esiste nel cielo degli archetipi un archetipo del male? Ma è solo con l’affermazione storica della modernità che apparirà l’idea di «progresso» da un punto di vista profondo: l’insieme della Creazione si trova in un processo massivo, e al tempo stesso contraddittorio, di progresso verso una perfezione finale. Il mondo apparirà ai moderni come incompiuto; l’uomo emerge da questa breccia come il profeta e il messia di se stesso: è lui il soggetto della Storia, con la S maiuscola, e realizzerà la sua autoprofezia. Il male, in tutte le sue forme, sarebbe dovuto sparire, per Hegel nell’«epoca dello spirito», la fine della storia; per Marx, nel cosiddetto «comunismo scientifico». Questa sparizione futura del male fa sì che anche la modernità, con la sua concezione particolare, abbia convissuto con il male, ovvero

abbia sviluppato il suo specifico modo di convivenza con il male. Fu questa l’idea che orientò ogni pratica umana: domani sarà meglio, la vita è un progetto verso qualcosa di meglio. Il male, in senso dialettico, mostrava il percorso verso il bene. La postmodernità, con la clamorosa caduta della promessa, diventa così l’unica civiltà che si ritrova apparentemente priva di qualunque modo di metabolizzare il male. Non siamo para o premoderni, ovvero non sappiamo come convivere con il male (nonostante molti contemporanei siano incantati dalla magia, ma solo nei fine settimana: da lunedì a venerdì continuano a obbedire al banchiere); e, per giunta, questo male si manifesta in modo diffuso, trasformandosi in un’atmosfera di timore e minaccia. In realtà però questo ruolo antropologico della negatività, molto legato alle pratiche sacrificali — che sono le pratiche che cercano di moderare e limitare il male — ricompare in forme insospettate nella nostra civiltà postmoderna. In effetti, e molto al di là delle apparenze desacralizzate di qualunque tecnologia, è proprio la tecnoscienza, nella sua versione scientista della cosa, a occuparsi di questo immaginario magico nelle nostre società attuali e in ossequio alla quale ci viene richiesto un nuovo tipo di sacrificio. La promessa si è rafforzata, si è riformata: non siamo una civiltà che sappia convivere con il male, e non siamo neppure la civiltà in cui un personaggio molto particolare, chiamato «l’uomo», debba liberarci dal male della Terra; no, noi siamo la nuova civiltà in cui un nuovo personaggio si occupa del male e ci promette di sradicarlo in tutte le sue forme: la tecnoscienza si prende cura di noi, possiamo dormire tranquilli. La promessa della tecnoscienza si basa su un principio metafisico e magico che esige come sacrificio, come dono per adempiere la missione richiesta, che le società, la vita, le piante e gli animali accettino che il loro mondo, i loro possibili e i loro modi di essere siano i suoi. Il primo di questi «possibili» che formano il dogma scientista è appunto l’idea che tutto è possibile; la deregolazione di qualunque ciclo, di qualunque processo, di qualunque organismo è il prezzo che si deve pagare. In questo senso intendiamo chiaramente il matrimonio perfetto che è stato celebrato fra tecnoscienze e macroeconomia: «Deregolatevi e il mondo si regolerà». Quel che non viene chiarito né

dalla macroeconomia né dallo scientismo è: si regolerà, sì, ma per chi? Quel che si chiama «negativo», da un punto di vista organico, comprende in generale i meccanismi di autoregolazione dei processi, meccanismi che sono indispensabili per questi processi organici. Non avere corpi significa non essere situati, non esistere, non essere sessuati, non morire. Queste sono alcune delle promesse della nuova sacra entità: la macroeconomia e le tecnoscienze. Il desiderio profondo e ancestrale dell’assenza di limiti cade in questa forma ipermoderna; sarà la scienza che si occuperà di portarlo avanti. Ma nel mondo della vita biologica, come nella cultura e in tutte le dimensioni della vita, i limiti del non possibile sono appunto ciò che permette l’esistenza dei possibili componibili: se tutto è possibile, niente è reale. È proprio questo processo di «derealizzazione» della vita e del mondo quello che si verifica seguendo la promessa irrazionale dello scientismo. Il problema è che agli occhi dei nostri contemporanei questo progetto appare come razionale, scientifico, reale e desiderabile. È necessario un grande sforzo per comprendere che la razionalità ha abbandonato da molto tempo lo scientismo. Prendiamo ad esempio la presunta lotta dello scientismo tecnologico contro la morte. La morte, come immagine forse massima del limite ontologico, è un comportamento emergente che è stato selezionato dall’evoluzione delle specie, poiché in un primo periodo della vita sulla Terra gli organismi viventi non morivano. La morte, ovvero il fatto che gli individui delle diverse specie muoiano, è un meccanismo molto efficace di autoregolazione, di controllo, che appunto protegge e permette lo sviluppo della vita. Il biologico e l’organico non sono «economisti»: quasi il 100 per cento delle specie che sono esistite sono scomparse. Quasi il 100 per cento delle nostre cellule sparisce affinché noi possiamo continuare a vivere. La tecnologia, con i suoi calcoli «razionali», non comprende questo funzionamento proprio della variazione e della diversità che fondano la vita stessa. Trattare gli invarianti della vita come «elementi negativi da eliminare» è, come si comprenderà, un pericolo per la vita. Quando gli attuali ricercatori in biologia ci promettono una vita che potrà durare mille anni, non ci rendiamo conto dell’orrore che una simile promessa comporta. Immaginiamo che una parte privilegiata della popolazione mondiale possa vivere mille anni; quale disastro

ecologico causerebbe questa popolazione mostro, che per la propria vita utilizzerebbe una quantità infinita di risorse... Per non dire che nella metafisica scientista, quando si parla della vita, si fa sempre riferimento alla vita individuale e non si pensa alla vita come a un processo di trasmissione, come a ciò che si dovrebbe difendere proprio «levando le tende» per lasciare posto agli altri e con la preoccupazione solidale per coloro che verranno. I cervelli o la vita aumentati sono sempre, deplorevolmente, progetti che hanno in mente la vita di una parte degli individui e che, a causa di un ragionamento catturato dalla modellizzazione digitale, si trovano nell’impossibilità strutturale di pensare i meccanismi di autoregolazione come meccanismi fondamentali non per la tecnologia bensì, fondamentalmente, per la vita.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

IL CERVELLO MODULARE (SORDI E COMPETENZE) Come abbiamo visto, il cervello aumentato implica lo sviluppo di un nuovo cervello, di un altro cervello. Ciò vuol dire abbandonare la speranza innocente di un aumento che sia puro beneficio; non per questo bisogna demonizzare tutte le manipolazioni e le modificazioni che le neuroprotesi sono capaci di realizzare, ma bisogna tenere presente che non si tratta dello stesso cervello di sempre però aumentato, bensì di un vero e proprio processo di mutazione attraverso l’ibridazione artefatto-organismo. Come sappiamo, l’ibridazione — la produzione di misti cervelloartefatto — non deve essere necessariamente una neuroprotesi, vale a dire una modificazione anatomica (del fenotipo) del cervello o del corpo in cui si effettui l’ibridazione e la produzione di un misto. Molte ibridazioni funzionano semplicemente attraverso una delega di funzioni senza protesi, ma con la formazione di veri e propri circuiti e loop neurofisiologici che producono il misto senza che l’artefatto sia anatomicamente impiantato. In questo capitolo cercherò di mostrare due esempi di tale ibridazione: il primo, con impianto; il secondo, con funzionamento soft: l’educazione. Entrambi gli esempi si basano sui lavori della

filosofa francese Angélique del Rey: uno ha dato luogo a un libro (Del Rey, 2008) e l’altro al documentario Ces sourds qui ne veulent pas entendre (Quei sordi che non vogliono sentire) (Angélique del Rey e Sarah Massiah, 2012). Il caso dei sordi è un buon esempio per studiare da vicino la relazione fra progresso tecnologico e cultura. Come è noto, da una ventina d’anni si è sviluppata per i sordi una tecnica che consiste in un impianto cocleare: si impianta nella zona uditiva del cervello un chip che stimola le regioni incaricate di produrre le immagini uditive. Questa tecnica si basa sul fatto che non sono gli stimoli provenienti dal nervo uditivo a trasmettere l’immagine uditiva, giacché è a partire dagli stimoli elettrici che il nervo uditivo trasmette alla regione uditiva del cervello e questa produce l’immagine uditiva. Gli stimoli elettrici delle sinapsi sono una sorta di materia prima con cui il cervello può creare le immagini uditive. Nel caso dei sordi, il nervo uditivo può essere, ad esempio, assolutamente atrofizzato. La tecnica consiste allora nel creare una specie di «ponte» con un sensore di suoni digitale, esterno, che digitalizza i suoni e li trasmette alla parte intracranica dell’impianto. Nell’interfaccia macchina-cervello, gli stimoli che il nervo uditivo non può produrre sono poi prodotti dall’impianto, il che permette — in linea di principio — che l’immagine uditiva si produca come se la persona udisse sul serio. Questa tecnica, che è stata migliorata moltissimo negli ultimi dieci anni, viene adesso — e sempre di più — applicata precocemente nei bambini sordi dalla nascita perché la plasticità cerebrale del bambino è molto elevata e consente un adattamento migliore dell’impianto. Fin qui, tutto sembra andare a meraviglia: i sordi odono, le nonne fanno torte di mele... Ma i sordi non sono come altri tipi di disabili, come i ciechi o i paralitici; i sordi hanno sviluppato da tempo immemorabile e in tutte le culture del pianeta una lingua che non è semplicemente una stampella. Non si può comparare, ad esempio, la tecnica Braille dei ciechi con il linguaggio dei sordi, perché quest’ultimo si è sviluppato, al tempo stesso, come una cultura. Nel senso in cui una persona appartiene a una cultura, la lingua dei segni non è uno «strumento» che appartiene ai sordi, ma sarebbe molto più corretto — e concreto — dire che i sordi appartengono alla cultura sorda.

In realtà, una parte dei sordi rivendica il fatto di possedere una differenza, non una disabilità, e in effetti molti anni di lavoro in questo campo mi hanno convinto che a una singolarità percettiva si è articolata (e sviluppata) una soggettività differente: una concettualizzazione e una relazione con il mondo che sono semplicemente differenti. Potremmo anche dire che un cieco o un paralitico possiedono una soggettività percettiva differente e saremmo nel giusto, ma questa «soggettività» non si articola con altri individui attraverso una cultura particolare come avviene nel caso dei sordi. In sintesi, mentre ogni progresso tecnologico medico viene sempre accolto dalla popolazione interessata come una buona notizia o quasi come un miracolo, questo suscita scontro e rifiuto in una buona parte dei sordi. Perché alcuni dei sordi parlano di «comunità»? Perché rifiutano il regalo della scienza? Sarebbe forse strano, per qualcuno che non conosce affatto l’argomento, che un cieco si rifiutasse di subire un impianto per tornare a vedere o che un paralitico guardasse con sfiducia la neuroprotesi che gli permetterebbe di riprendere a camminare. Nel caso dei sordi, però, a livello internazionale si è manifestato questo rifiuto nei confronti della nuova tecnica che permetterebbe loro di udire poiché i sordi affermano di avere una cultura differente e di non considerarsi disabili bensì una forma differente dell’umanità: dicono che questo «progresso» tecnologico non è, allora, neutro o inoffensivo perché minaccia di eliminare tale cultura. In realtà, i lavori condotti in neurofisiologia mostrano che il linguaggio dei segni, proprio della cultura sorda, corrisponde al tipo di produzione della percezione dei suoi membri. Vale a dire che il linguaggio dei segni corrisponde alla «informazione non codificata» propria del mondo del silenzio. Detto altrimenti, i corpi dei sordi, nella loro relazione con il mondo e con se stessi, hanno nel linguaggio dei segni il modo proprio e appropriato per esprimere il proprio pensiero in accordo con la propria percezione. Nel caso di un sordo a cui sia stato praticato un impianto, lui o lei si troverà fra due mondi: il suo corpo percepirà e abiterà il mondo in un modo, ma il suo cervello riceverà l’informazione codificata dal

mondo dei suoni. Questo capitolo non ha lo scopo di prendere posizione nel dibattito in corso ma quello di commentare come il progresso tecnologico, che si presenta come un’evidenza incontestabile, possa trovarsi di fronte a serie resistenze nella pratica e come la tecnologia non sia così inoffensiva come si crede. La tecnologia dell’impianto normalizza e disciplina una parte della popolazione dei sordi che non aveva chiesto niente a nessuno poiché sono i genitori dei bambini sordi a essere messi sotto pressione con l’argomentazione che il loro bambino è «sbagliato» e che lo si può aggiustare, una correzione che passa per un’assimilazione alla norma e mai per la ricerca di una via diversa. La reazione innocente e un po’ sempliciotta di fronte a questo dibattito è che non si può fermare il progresso. Per cominciare, è necessario precisare che in realtà la tecnologia non produce davvero «progressi»; il progresso, quello che tanto abbiamo amato, corrisponde a un mondo, a una Weltanschauung molto particolare, quella moderna, che credeva che la storia avesse un significato e un progresso fino a un punto di arrivo. Al di là di questo mito, le tecnologie possono produrre cambiamenti, possono produrre e di fatto producono «novità», ma non progressi, perché un progresso implica un punto di arrivo, un obiettivo, un orizzonte, che è proprio quel che le nostre società postmoderne non possiedono. Non si devono confondere le novità tecnologiche e i nuovi possibili con il «progresso», dato che i nuovi possibili non si ordinano come si crede nella Weltanschauung moderna, in una linea ascendente e unidirezionale. La questione è allora forse un po’ più aperta e, perché no, democratica: sono desiderabili questi cambiamenti che introducono le novità? che società delinea questo o quel cambiamento? Nel caso dei sordi vediamo come l’impensabile diversità, caratteristica del biopotere, fa sì che non si sia tenuto in nessun conto che, in realtà, la tecnologia — che, come ho detto, non ha una linea storica unica per la quale passi il progresso, ma varie possibilità — potrebbe benissimo aiutare i sordi in altri modi. La tecnica della telefonia mobile rende già possibile che i sordi che desiderino abbandonare la loro cultura possano comunicare con questi mezzi; inoltre, i telefoni cellulari permettono che uno scritto sia

pronunciato a voce alta, vale a dire, una persona scrive e una voce riproduce lo scritto il che, da un lato, facilita il fatto che i sordi possano disporre delle nuove tecniche della comunicazione e, dall’altro, che siano in contatto con gli udenti nella loro vita quotidiana. Diciamolo chiaramente: quel che la tecnologia può fare per i sordi che difendono la loro singolarità è enorme, solo che non è questa la strada che prende abitualmente la tecnologia. In realtà, tutte le difficoltà che può incontrare un sordo nella vita quotidiana possono essere eliminate dalle varie tecniche oggi disponibili, senza che con questo sia necessario eliminare un modo di essere singolare o una cultura. Ma questa ricerca molteplice e diversa da parte della tecnologia — che appare così semplice ed evidente — è uno degli obiettivi del biopotere. Possiamo dire: «Viva la tecnologia!»; sì, viva la tecnologia che permette che modelli e progetti di vita differenti — che siano conflittuali o contrapposti — si sviluppino. La cultura sorda — come qualunque altra cultura minoritaria (il caso del linguaggio dei segni disturba ancora di più visto che è una lingua vicina al corpo — si vede, ogni volta di più e per diverse ragioni, attaccata dal medesimo progetto unificatore e disciplinare di un mondo unico, un mondo semplificato: il mondo della tecnoscienza, del biopotere e della macroeconomia. Forse grazie all’esempio dei sordi è più facile comprendere che l’uomo aumentato è un uomo semplificato, nel peggiore dei significati. Il secondo esempio che desideravo citare in questo capitolo fa riferimento alle nuove tendenze mondiali nell’ambito della pedagogia. Si tratta di quel che è stato definito «pedagogia delle competenze» che consiste — per essere diretti — nell’abbandono puro e semplice della trasmissione e dello sviluppo del bambino come obiettivo della scuola, e la sua sostituzione con una pedagogia che vende competenze utili agli alunni, utili per il mercato, utili per la macroeconomia, utili — in senso sacrificale — alle nuove immagini sacre di Nostra Signora dell’Uniformazione e dell’Unidimensionalizzazione. Noi sappiamo (o forse sapevamo) che, affinché un bambino possa formarsi e svilupparsi, ciò che conta risiede nella possibilità che gli adulti gli porgano una specie di «invito al sapere e alla vita». Questo invito consiste nel fatto che il bambino possa, a poco a poco, scoprire al tempo stesso il mondo e il suo mondo. Vale a dire, che il bambino

possa scoprire le affinità elettive, i tropismi e i desideri che lo fondano e gli conferiscono una struttura singolare, e che poi, attraverso la sua singolarità, il suo modo di essere nel mondo, possa — anche a poco a poco — incorporare il mondo nella sua vita. Ovvero, il principio «classico» dell’educazione implica sempre questa integrazione di due strutture dinamiche in un incontro singolare, quello che struttura per un verso ciascun bambino e per l’altro la struttura del mondo. Ciò vuol dire che si considera il bambino non una tabula rasa su cui si possano incollare competenze, capacità, togliendone quanto ci sembri «non utile» o indesiderabile. La pedagogia delle competenze prende le mosse dal punto di vista diametralmente opposto a questo. Per la pedagogia delle competenze un bambino deve «acquisire» competenze utili, in un programma che sia chiaro fin dall’inizio: si deve imparare a imparare, e imparare a dimenticare quel che abbiamo imparato, per poter imparare altre cose, e questo — come se fosse poco — nel corso di tutta la vita delle persone. Questo programma educativo, che si presenta palesemente come una risposta alle necessità della macroeconomia e del mercato, si basa sulla deterritorializzazione totale della persona e del bambino in particolare. Nulla deve alludere a una radice, a un’affinità, a una tendenza: nessuna cosa che possa non essere utile, non essere al tempo stesso dimenticabile e trasformabile in qualcos’altro, vi ha diritto di cittadinanza. La flessibilità postmoderna esige che possiamo vivere permanentemente nell’oblio di noi stessi, perché tutto quanto possa provenire dalla nostra singolarità comporta il rischio di ostacolare il meccanismo di massima flessibilizzazione che la macroeconomia esige. Questa «fluidità» radicale e fanatica che pretende di creare un uomo senza interiorità, senza soggettività, senza affinità elettive è — per chi se lo ricordi — l’uomo da incubo che descrive Robert Musil nel suo magnifico romanzo L’uomo senza qualità (2004). Musil scrive la sua opera nel 1905 e non poteva evidentemente immaginare che il suo incubo si sarebbe trasformato in un mondo reale grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie che — come abbiamo visto — rendono possibile la produzione di un uomo senza alcuna scultura interna, un uomo che semplicemente si accontenta di essere un anello in più nella distribuzione e nella circolazione

dell’informazione in maniera unicamente quantitativa. Potremmo dire — secondo quanto stiamo sviluppando — che questo «uomo senza qualità» sarà un uomo solo di «quantità». Il cervello aumentato si avvicinerebbe così a un «cervello liscio, piano». La trasmissione come base della pedagogia considera, al contrario, che si debba opporre al concetto puramente fisico di «informazione» — che sembra un semplice avatar dell’energia proteiforme (senza una forma precisa o che può assumere qualunque forma) — il concetto di «segno» e di «significato»: ciò che in biologia esiste come «salienze» o stimoli, vale a dire quel che produce significato per un organismo recettore, come quando un insetto va a caccia del suo cibo o effettua qualunque altra azione nel suo ambiente. L’educazione tramite le competenze si presenta come la risposta necessaria per rafforzare l’economia di un Paese o di una regione, ma qui ci troviamo di fronte a un caso ulteriore in cui ciò che fortifica l’economia indebolisce la vita dell’uomo. Il lettore si rammenti degli esempi che ho fornito di come il cervello, a causa della sua plasticità, perde i suoi poteri quando, a poco a poco, delega le sue funzioni complesse agli artefatti. Esaminiamo tutto questo attraverso un semplice esempio di psicologia infantile. Quando un bambino scopre se stesso e le sue affinità, quando impara, ad esempio, a suonare uno strumento, o una lingua, un lavoro artigianale o checchessia, quel che realmente importa è che sviluppando tale attività sviluppa la propria struttura cerebrale, quella che chiamiamo qui «scultura cerebrale». Orbene, questo bambino, che si è strutturato sviluppando quel che lo singolarizza, quel che lo territorializza e quel che ha acquisito dalla trasmissione, è un essere che può, a partire da questa struttura, imparare altre cose. Di fatto, è un essere che può apprendere molte cose, visto che per apprendere è appunto necessario che gli apprendimenti nuovi si articolino e si strutturino con qualcosa che già esiste, che è già lì. Ma queste nuove acquisizioni al tempo stesso scolpiscono il cervello e modificano la struttura, non si concatenano: rimangono per un tempo determinato nella memoria a breve termine — soltanto nella memoria di lavoro — e, in seguito, a poco a poco si integrano ai meccanismi profondi della memoria a lungo termine e per questa via alla stessa memoria corporea.

Detto altrimenti, un bambino strutturato è un bambino che può cambiare e diversificare i suoi centri di attenzione, ma sempre a partire dalla sua propria singolarità. È solo a partire dalla nostra singolarità — questo insieme che ci territorializza — che possiamo svilupparci. Per contro, i bambini che vengono permanentemente destrutturati attraverso il metodo e lo stesso obiettivo della pedagogia delle competenze, sono bambini tremendamente indeboliti. La consegna implicita della pedagogia delle competenze può enunciarsi allora come: «Disintegrati e la società ti integrerà» o «Smetti di essere te stesso e la società ti accetterà». La pedagogia delle competenze è, in tal modo, un esempio di questa alterazione delle capacità cerebrali che, sviluppando una forma che nega l’integrazione organica, diminuisce la potenza degli umani. Quel che forse non viene detto è che nel caso del dogma centrale della pedagogia delle competenze si nasconde la premessa: imparare, dimenticare quel che si è imparato, imparare un’altra cosa (sempre seguendo i capricci del mercato, va da sé). In questa descrizione del suo obiettivo l’unica cosa che possiamo riconoscere è la descrizione implicita del disco rigido di un computer. E, ancora una volta, constatiamo che un cervello non funziona mai in questo modo. L’unica resistenza organica che esprime l’incompatibilità di tale obiettivo con l’essere umano è lo sviluppo di una serie di malattie, sintomi e dolori: l’organico non riducibile al modello digitale si manifesta rendendo disfunzionale il modello. Il bambino iperattivo, l’epidemia di depressione, i sintomi ricorrenti di stanchezza e di sconforto, ecc., per non parlare della violenza sempre più presente nelle nostre società. Tutto questo è diventato, forse solo per il momento, la risposta più chiara, l’unica via di resistenza a questi progetti di pensare il cervello e la vita come se fossero un artefatto. Un’altra via di resistenza è quella che, scelta da un minor numero di persone, afferma che resistere è creare e si butta nell’arte. La domanda — e la sfida — è, ancora una volta, da un lato, evitare il conformismo che si presenta come ludico e neutro, e dall’altro non cadere in un retrogrado atteggiamento tecnofobo. Senza dubbio, la risposta risiede nella possibilità di problematizzare e «conflittualizzare» l’ibridazione, l’articolazione uomo-cervello-artefatto, in modi più molteplici e diversi che mettano

in discussione quel che la tecnologia e la macroeconomia ci presentano come inevitabile.

CAPITOLO QUINDICESIMO

GLI AFFETTI E I MODULI, IL CERVELLO DEGLI AFFETTI Forse la dimensione più spettacolare nella problematica del cervello aumentato è quella che riguarda gli affetti. Ci preoccupa poco, per lo meno la maggior parte di noi, che le macchine si occupino di compiti considerati «intelligenti»; non doversi occupare di questo sembra essere un desiderio molto condiviso e generalizzato fra i nostri contemporanei. Ma quando le questioni relative al cervello aumentato arrivano a coinvolgere gli affetti, c’è una specie di allarme che si sveglia in noi. «Cosa? Gli affetti non erano quel che di più puro e di profondo esiste in noi?», si chiedono i piccoli umani scandalizzati. Finora è sempre stata ammessa — e considerata come evidente — l’esistenza di quelli che potremmo chiamare «stati mentali» o «affetti», vale a dire desideri, credenze, intenzioni, gusti, ecc. Ma le tendenze prevalenti nella ricerca in neuroscienze affermano che questi concetti popolari sono semplicemente falsi, anche se a noi sembrano possedere una realtà estrema. Per molti ricercatori i sentimenti e le tendenze, così come gli affetti, devono intendersi come un’illusione, un’illusione comprensibile che può essere paragonata all’illusione che ci faceva credere che il Sole girasse intorno alla Terra. In questo modo, sentiamo e addirittura

vediamo il Sole girare intorno alla Terra ma in realtà, al di là di tale percezione, quel che avviene come meccanismo reale è che la Terra gira attorno al proprio asse. Ciò vuol dire che non è che ci sbagliamo, è che la nostra posizione, essendo limitata, ci fa credere — o crea l’illusione — di essere, in quanto soggetti, gli autori dei nostri sentimenti e delle nostre credenze. Gli stati mentali coscienti sarebbero, così, un’illusione che il progresso delle neuroscienze ha finito per scoprire. Allora le neuroscienze si pongono l’obiettivo di mostrarci i veri meccanismi in atto al di là dell’illusione persistente di «credere che esistiamo». Per ricercatori statunitensi come Paul e Patricia Churchland, la presunta complessità degli stati coscienti e degli affetti deve essere scartata ed essi sono in realtà riducibili a proprietà fisiche, per spiegare le quali sarebbero sufficienti alcune leggi già note della fisica e della chimica. Si tratterebbe, così, di abbandonare le spiegazioni psicologiche di tali realtà rimpiazzandole con modelli neurobiologici. Il lettore forse comprenderà perché nella prima parte di questo libro si afferma che alla solitudine del soggetto moderno — che si trova da solo di fronte all’universo disincantato e desolato — segue la solitudine postmoderna dove non vi è — neppure — un soggetto da solo: vi sono appena delle solitudini. O, come dice Mallarmé (1943) nella poesia Un coup de jamais n’abolira le hasard (Un tiro di dadi mai abolirà il caso), «niente avrà avuto luogo tranne il luogo». Procediamo dunque per tappe. Possiamo identificarne tre molto differenti per ciò che si riferisce alla delicata questione del cervello — e del cervello aumentato — con gli affetti. In primo luogo, possiamo identificare una tappa di studio e comprensione; vale la pena dire che, grazie alle nuove tecniche di esplorazione del cervello, si può cominciare a comprendere, per lo meno, le correlazioni che esistono fra alcuni eventi legati agli affetti e, dall’altro lato, il loro correlativo neuronale nel cervello. Il secondo momento, o seconda tappa, che oggi è già una realtà, consiste nella ponderazione degli affetti, nella loro gestione artificiale, nella loro eccitazione o inibizione per mezzo della chimica; ci troviamo qui in una dimensione terapeutica — benché non solo nel neuromarketing —; le nuove dipendenze scaturiscono anche da queste regolamentazioni grazie alle conoscenze esistenti. La terza tappa è quella della modificazione, mutazione di questi funzionamenti,

non solo con la ponderazione dei flussi, ma con la stessa modificazione dei meccanismi; è questa la situazione attuale — quella del cervello aumentato — e, fra le altre cose, è la realtà delle neuroprotesi di cui abbiamo già parlato. Per definire il desiderio e l’amore gli pseudoscienziati parlano di due cause, una prossimale (prossima) e l’altra distale (distante) o ultima. Così il piacere sessuale sarebbe una causa prossimale e la causa distale, naturalmente, la riproduzione della specie. Da questo punto di vista, il desiderio, l’amore, e perfino il romanticismo vengono studiati come anelli di questa catena e si cerca di identificare, al di là dell’«illusione amorosa», i processi che la fondano. Per Helen Fisher (2007), specialista di antropologia e biologia, esistono quindi tre grandi sistemi che si attivano in modo permanente nel nostro cervello per queste tappe della riproduzione umana e ciascuno occupa una via neuronale differente e particolare. Il primo sistema è quello che si occupa del desiderio sessuale, ovvero della libido. Questa pulsione ha origine dal meccanismo che nell’uomo si basa sul testosterone: questo ormone, in entrambi i sessi, attiva il desiderio sessuale e lo fa attraverso il dispiegarsi delle condotte di seduzione. Il secondo sistema è quello che popolarmente, dice la ricercatrice, viene identificato con l’amore romantico; questo «meccanismo» — mi perdonino i poeti — si basa sulle secrezioni più o meno abbondanti di adrenalina, dopamina e serotonina. Il terzo sistema è quello dell’«attaccamento», ovvero quello su cui si basa la fedeltà; questo sentimento di unione, calma e serenità, spiega la ricercatrice, è causato dalla secrezione di ossitocina e vasopressina. Dunque, siamo brevi. Per il lettore interessato in questa che potremmo chiamare «chimica dell’amore» esiste una serie sconfinata di pubblicazioni che affascinano i nostri contemporanei, in cui si spiega in maniera semplice, semplicistica e riduzionistica la verità ultima dell’amore. Dopo tali spiegazioni, ci impegoliamo a chiederci: «Quel che sento per Elisa è pura chimica?». Ma anche: Se c’è un difetto, potrei amare i miei figli?» o, anche: «Se l’amore per la patria o

per la mia squadra di calcio dipende dalla quantità di neurotrasmettitori, se si verificasse un cambiamento chimico nel mio cervello, potrei tifare per un’altra squadra?». Come fare a vivere, allora, con simili dubbi non già esistenziali bensì molecolari? Sappiamo che il cervello umano non fa differenza fra ciò che proviene da una realtà esterna e quel che produce autonomamente. Ciò ha aperto le porte a una serie di pratiche che, forti delle conoscenze della neurofisiologia degli stati affettivi e amorosi, sviluppano nuovi tipi di realtà affettive, artificiali. Non è però così chiaro che cosa possiamo chiamare «affetti artificiali». Forse il lettore ricorda un film che affrontava in modo geniale questo tema: si tratta di Her, di Spike Jonze (2013), in cui il protagonista vive una «storia d’amore» con una centrale automatica per mezzo di internet. La sfida di questo film è che il personaggio a poco a poco trova nella sua partner digitale una «comprensione», un ascolto, che va molto al di là di quanto qualunque donna reale gli abbia dato. Vale la pena ricordare che in un primo momento il personaggio utilizza una centrale telefonica, entrando in contatto con una persona reale, per masturbarsi. Che cosa possiamo pensare, allora, sulla scorta di questo esempio? Per cominciare, è importante fare una differenza fra sentire degli «affetti», essere colpiti da qualcosa, positivo o negativo, e quel che possiamo chiamare «dimensioni affettive» che, quantunque la nostra epoca sembri dimenticarlo, non sono la stessa cosa. Sentire un affetto, essere colpiti, vuol dire che possiamo sentire una cosa particolare, concreta: allegria, tristezza, eccitazione. Le dimensioni affettive, l’amore, l’allegria, il dolore, il lutto, sono in realtà dimensioni situazionali già catturate dalle reti di interrelazione: vale a dire, esistono già nella molteplicità, hanno un significato, emergono; le persone che partecipano, i luoghi, i paesaggi (Deleuze e Guattari, 1974) e finanche — appunto — gli affetti sentiti dalle persone, le sensazioni, sono parte del substrato situazionale da cui sorge l’amore come dimensione di, per e dalla situazione. Ad esempio, Gilles Deleuze (1985) dice che non ci innamoriamo mai di una donna o di un uomo come un fatto isolato che unisce due enti separati: desideriamo un paesaggio, vale a dire un insieme articolato e integrato. È per questo che, ad esempio, gli incontri reali nati da internet sono piuttosto rari:

perché uniscono due isolati ma senza paesaggi, senza troppo «significato» dato che il senso, i legami che possono realizzarsi dipendono dalla molteplicità situazionale integrata «organicamente». La macchina può farmi sentire le sensazioni, gli «affetti» che provo quando partecipo a una situazione amorosa o sessuale, ma è una riduzione in cui svanisce, non esiste più, il paesaggio per il quale e dal quale ciò ha significato. «L’amore è un’allegria accompagnata da una causa esterna», spiega Spinoza (1956) nella sua Etica. È certo che l’«allegria» — o quel che sperimentiamo quando viviamo una situazione di amore o di desiderio — ha una parte che è interna alla persona. Vale a dire, quel che sento quando sento un’allegria, un desiderio, un amore, un piacere, lo sento attraverso una serie di ormoni, neurotrasmettitori, scariche elettriche che al tempo stesso si potenziano e si retroalimentano con l’attivazione di tracce mnestiche (ricordi) legate a questa emozione. Ciò vuol dire che non c’è niente di strano nel fatto che sia possibile provocare le reazioni fisico-psichiche legate alle relazioni di amore o di desiderio, senza che tali sensazioni accompagnino una situazione «reale» di amore o di desiderio. Ciò significa che, da un certo punto di vista e al di là della sorpresa o la curiosità di qualcuno che è irretito o eccitato da una macchina, non è molto diverso da una simulazione di volo o dai mondi prodotti dai funghi allucinogeni. Allora, perché tanto baccano? Quel che succede è strano. Da un lato, non si tratta di niente di più di un fatto banale che sia possibile «simulare» situazioni di godimento, di desiderio, di affetto, senza che vengano vissute esattamente — o proprio per nulla — situazioni reali di questo tipo. A me basta ricordare le sensazioni che risveglia e attiva nella mia figliolina Amanda il fatto di giocare con le sue bambole e i suoi orsacchiotti. Al limite, possiamo dire che nel caso del gioco con oggetti di questo tipo si aggiunge alla situazione un elemento «protoanimista» che è tipico dei bambini di qualunque cultura. Torniamo all’esempio del film Her. Un amico, l’investigatore Paul Baquiaste, che dirige in Francia una rivista web sulla robotica e l’intelligenza artificiale, «Automates intelligents», scandalizza regolarmente i suoi lettori quando afferma che fra poco avrà un

«amico» robot. Forse qualcuno si meraviglia che mi emozioni quando leggo Guerra e pace di Tolstoj? «Questo qua sta seduto da solo su una sedia con in mano un oggetto derivato da un albero — la carta — e si emoziona», dirà qualcuno. Ma è il caso di spingersi un poco al di là. Ciò che ci dice, forse suo malgrado, il film in questione è come l’alterazione delle funzioni cerebrali sia giunta a tal punto che non è più possibile fare la differenza tra finzione-simulacro e realtà concreta. La finzione risponde, se vogliamo, a una «realtà concreta»; è quel che ci mostra che è possibile provocare godimento, affetti, emozioni in modo artificiale, dato che ogni giorno di più si conoscono i meccanismi di queste realtà e che è possibile, allora, attivarli a volontà, dissociati dalle situazioni reali. D’altro canto, però, tutto avviene come se non potessimo accedere alle dimensioni che questi simulacri lasciano da parte o, appunto, alle dimensioni che questi simulacri simulano. Nel caso degli artifici di internet, con un partner digitale, assistiamo alla realtà in cui un uomo isolato affettivamente si procura le emozioni dell’amore e dell’affetto senza che questa «allegria» sia «accompagnata da una causa esterna», come dicevo, oppure la causa esterna non è quella che corrisponde a tali emozioni. Ma quando affermo che questa causa esterna, l’amante digitale, non è quella che corrisponde a tali emozioni, sto supponendo che non esista una vera e propria crisi nella nostra cultura la quale fa sì che per molte persone sia sul serio difficile fare la differenza fra il simulacro e la realtà. Nella mia attività di clinico ho incontrato moltissime volte pazienti, generalmente di sesso maschile, fra i 25 e i 30 anni, che mi hanno detto di masturbarsi con materiale pornografico (film, riviste, hot line telefoniche). Quel che affermano questi pazienti è che ricavano maggior piacere in questi modi che con donne reali, «complicate e frustranti» (sic). Ed è questa la base, e il centro, della questione fra cervello aumentato e affetti: che i nostri contemporanei sembrano incontrare enormi difficoltà a comprendere che ci sarebbe qualcosa al di là del piacere. Il cervello, come ho già ripetuto più volte, non fa la differenza fra il simulacro e la realtà; ciò vuol dire che, in quanto organo, reagisce allo stesso modo in entrambi i casi. Ma, appunto, il cervello, poiché non è una Macchina di Turing (MdT), non esiste isolato; il cervello

esiste sempre situato, contestualizzato e determinato da una serie di meccanismi di regolazione e correzione che hanno a che fare con il mondo, con il fatto di «strofinarsi» con il mondo. Vale a dire, se parliamo del cervello come lo fanno gli ammiratori, un po’ ingenui, del cervello aumentato, vale a dire come una MdT, è chiaro che l’unico obiettivo, l’unico orizzonte possibile è il piacere o quel che chiamiamo «meccanismi di ricompensa», che implicano una serie di loop e cascate di neurotrasmettitori che producono a loro volta un’abitudine e una dipendenza. Ma questo è pensabile solo nell’alterazione artefattuale del cervello e della vita delle persone, dato che in realtà gli atti delle persone non sono, fondamentalmente, orientati da una semplice ricerca del piacere. La domanda dei miei pazienti è sempre la stessa: «Ma se mi dà piacere, più piacere di un’altra cosa (come stare con una donna, ad esempio), perché dovrei smettere?». C’è qualcosa in quel che mi dicono i miei pazienti che è assolutamente in linea con quel che appare in modo spettacolare nel film Her. Mi dicono che con una donna non c’è mai la stessa sintonia, la stessa soddisfazione che si prova in una masturbazione, compresi eventuali dispositivi e molecole. Ed è qui il nodo della riflessione. È assolutamente certo che fra un uomo e una donna — poco importa che siano in alternativa due donne o due uomini: parliamo in ogni caso di due persone differenti — la «cosa» non coincide mai. La non coincidenza è appunto una prova che c’è qualcosa che si verifica al livello delle affinità elettive, al livello che si potrebbe definire dell’amore. Poter separare la possibilità di «sentire» cose che si sentono nel desiderio e nell’amore, da quel che è culturalmente — e anche biologicamente — l’amore è fondamentale. Da un lato, possiamo dire che ciò che si situa al di là del piacere immediato — il piacere che coincide come un buon «profilo» di Facebook può far coincidere — implica che si esca dall’imperio della macchina, che non si sia catturati dai tempi rapidi della macchina, quelli in cui la soddisfazione delle sensazioni satura ed eclissa i processi che generalmente accompagnano queste sensazioni. La risposta alla domanda «In nome di cosa potrei abbandonare una pratica di piacere?» è, in generale, «In nome di una pratica che mi dia ancora più piacere». Nessuno si sbagli: in questa risposta, in

questo orizzonte saturato dall’immediato e dal piacere, si cela una vera e propria problematica epocale. La mia risposta alla domanda può essere suddivisa in due parti. La prima è che, forse deplorevolmente, ogni ricerca del piacere e della felicità come obiettivi invariabilmente massimi provoca tristezza e frustrazione; è una specie di «legge dell’esistenza». La felicità e il piacere non esistono, non arrivano «gratis», come si dice volgarmente o, detto in altro modo, come una gratifica alla fine di un certo cammino. La seconda ragione o risposta è che, in realtà, a livello organico o biologico è certo che il piacere non può essere l’obiettivo, poiché non è un comportamento adottato dall’evoluzione perché la specie si affermi e cada nella trappola dell’individuo. Al contrario, il piacere è lo stratagemma che consente alla specie di perdurare e svilupparsi attraverso gli individui. Ma per la specie umana, ibridata irreversibilmente con la lingua e la cultura, l’amore, il desiderio, le tendenze, ecc., non sono realtà che possano esistere per l’individuo isolato. «Amore», «amicizia», «desiderio» sono i nomi di una dimensione emergente di una situazione concreta — non sono quel che una persona sente nel proprio intimo —, sono sempre una possibilità emergente in una situazione condivisa, in un paesaggio. Nella descrizione del filosofo Gilles Deleuze: «Non desideriamo mai una donna, desideriamo un paesaggio che comprenda quella donna». Non possiamo comprendere quel che si chiama «amore» se non pensiamo in termini di un vero e proprio paesaggio in cui, a partire da un substrato che comprende persone, luoghi, storie, pietre, animali, piante, teorie, ormoni, ecc., si costituisce una situazione concreta e può emergere una dimensione condivisa che chiamiamo «amore». Siamo allora in condizione di affermare che all’amore, al desiderio, all’amicizia si «partecipa». Siamo catturati da queste dimensioni, da queste realtà. Esse non sono di origine endogena all’individuo, e non sono tantomeno riducibili alle sensazioni che questo tipo di realtà emergenti provocano nella persona che partecipa all’emergenza. Da un punto di vista che forse è un po’ freddo, chiamiamo «amore» l’emergenza situazionale di un legame organico che ingloba e cattura gli elementi del suo substrato; questo vuol dire che, affinché due

persone si sentano «in amore», non deve esserci una situazione intersoggettiva, governata da interessi o piaceri, bensì due persone che condividono un paesaggio, una situazione che è governata da questo legame che ristruttura, al tempo stesso, gli elementi che la compongono. Tali legami organici non sono né immaginari né discorsivi, corrispondono a veri e propri cambiamenti nelle persone che vengono «catturate» dalla dimensione emergente dell’amore. Questi legami sottili e potenti creano funzionamenti propri che modificano l’organicità degli «innamorati». Tutto avviene in modo tale che le persone catturate in una dimensione e in un legame amoroso sperimentano che la loro superficie di coinvolgimento, vale a dire la superficie propria in cui uno è colpito (coinvolto) dal mondo, si vede moltiplicata ed estesa: quando «ci innamoriamo» percepiamo e appercepiamo non solo a partire dai nostri organismi, ma da questa superficie comune che emerge e che crea questo legame sottile e organico. I legami e i processi amorosi implicano nella loro esistenza diverse dimensioni, fra cui quella ormonale; ma se possiamo dire che in effetti una parte della base materiale di questa dimensione è costituita da una serie di processi ormonali, non possiamo però, in modo riduzionistico, identificare la dimensione emergente con una delle componenti del suo substrato, ad esempio gli ormoni. Si tratta dello stesso dispositivo per il quale dicevo che, quantunque il Don Chisciotte non possa esistere senza l’alfabeto, l’alfabeto non spiega il Don Chisciotte. Ecco perché in un capitolo in cui cerco di affrontare la questione del cervello e dell’amore è importante, più che menzionare le basi ormonali del sentimento amoroso, tornare a cercare di comprendere che negli annunci spettacolari del tipo «la chimica dell’amore» si manifesta un oblio radicale di ciò di cui si sta parlando. Può darsi che nell’immagine classica di Cupido, l’angelo dell’amore che scaglia le frecce, vi sia qualcosa di certo: l’amore ci cade addosso e bisogna assumerlo oppure no. È certo che un deficit nei cosiddetti «circuiti cerebrali degli affetti» possa intervenire in questo substrato dal quale emergono le realtà a cui diamo il nome di «amore», «amicizia», «desiderio», ma ciò non vuol dire che l’emergenza, che la somma delle parti, non si determini né si definisca con la somma delle

parti. Inoltre, come abbiamo visto, ciò che è proprio di questi circuiti così complessi è che grandi carenze possono non avere influenza nell’emergenza della dimensione globale — pensiero o affetto —, allo stesso modo in cui piccoli deficit possono avere una grande influenza. In ogni caso, qualunque interpretazione lineare di tali fenomeni è non solo erronea ma anche profondamente reazionaria, nel senso più filosofico della cosa. Tale aspetto reazionario della cosa consiste nell’illusione pericolosa e triste che si possano regolare e disciplinare questi affetti mediante controlli chimici neurologici esterni alla situazione concreta. Vi sarebbe in tal modo un «buon modo di amare», una «buona regolazione chimica dell’amicizia», ecc. Affetti, topi e pornografia Esiste un esperimento di etologia molto noto nell’ambito della ricerca in biologia. L’esperimento consiste nel mettere un topo maschio in una gabbia in cui si trova già un topo femmina in calore; il topo maschio «la serve» (si accoppia con lei) ripetutamente, ma a un certo punto interrompe la sua azione e non mostra più alcun interesse per la femmina, come se non provasse più attrazione per lei. Se in questo momento si introduce nella gabbia un altro topo femmina, il maschio riprenderà immediatamente la sua attività sessuale. Pertanto, non è che il topo maschio interrompa le copule per stanchezza, come si sarebbe potuto pensare, bensì per «mancanza di interesse». È quello che i ricercatori hanno chiamato «effetto Coolidge» o «effetto C», da una barzelletta su un presidente degli Stati Uniti. L’«effetto C» si osserva in tutti i mammiferi maschi e, in grado inferiore, nelle femmine. La spiegazione è che, almeno in parte, esiste un calo del regime di funzionamento dei circuiti chiamati «di ricompensa» che utilizzano neurotrasmettitori come la dopamina. Naturalmente i ricercatori non tardarono a interrogarsi sull’influenza di questo «effetto C» sulle coppie monogame dei mammiferi umani, tenendo presente che tutte le relazioni extramatrimoniali sembrerebbero cercare di porre rimedio all’esistenza dell’«effetto C». Orbene, nel mezzo di queste sagaci riflessioni è arrivata la

pornografia, alla portata degli occhi di tutti attraverso internet. È noto che di tutte le connessioni quotidiane via internet, a livello mondiale, i siti pornografici sono di gran lunga i più consultati (il lettore sarà sorpreso dalla notizia, convinto che il sito più visitato fosse quello che spiega la teoria della relatività). La pornografia via internet coinvolge (attiva) i circuiti di ricompensa e, come sappiamo, attraverso i neuroni specchio, nel pornografo internettiano si attivano gli stessi circuiti dell’attore che sta vedendo. Questo spiega perché la pornografia via internet sviluppi in modo molto rapido una dipendenza fisiologica così potente. L’«effetto C», nel caso del pornodipendente, è assolutamente risolto dato che in pochi minuti può vedere una galleria immensa di donne differenti. Ciò provoca quello che viene chiamato «superstimolo», vale a dire una quantità e una varietà di stimoli sessuali a cui il cervello umano non è mai stato esposto prima nel corso della sua evoluzione. Avviene la stessa cosa, e il lettore perdoni la comparazione, con il consumo eccessivo di zuccheri o di alimenti ricchi e grassi. Questi alimenti erano rari e scarsi nella maggior parte del tempo dell’evoluzione e il cervello dei nostri antenati, cacciatori-raccoglitori, si sviluppò associando a essi una sensazione di piacere, il che ha motivato la loro ricerca quotidiana. Sennonché, ai giorni nostri, i nostri cervelli, che non si sono modificati tanto né tanto rapidamente da quelle epoche remote, sviluppano comportamenti patologici di dipendenza in cui la ricerca del piacere si scinde totalmente dalla funzione alimentare. La dipendenza dalla pornografia via internet funziona nella stessa maniera. Gli stimoli sessuali sono troppo accessibili, facili da attivare dai circuiti del piacere che sono stati calibrati durante l’evoluzione in misura molto più parsimoniosa. In questo modo, una persona dipendente dalla pornografia via internet può vedere in una sola seduta più corpi nudi di quanti ne potesse vedere uno dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori nel corso di tutta la sua vita (o di più vite). Immaginiamo quindi fino a che punto l’«effetto C» possa essere esacerbato.

A MO’ DI INCONCLUSIONE Poco tempo fa un ministro francese fu obbligato a dare le dimissioni allorché ci si rese conto, una settimana dopo la sua nomina, che da tre anni non pagava le tasse, ma in seguito emerse anche che da quattro anni non pagava l’affitto. Il fatto venne spiegato sostenendo che il ministro soffriva di una «fobia amministrativa». Il ministro non è un malfattore, non è un ladro, soffre di una fobia; Giovannino non è insopportabile, soffre di un disturbo da deficit di attenzione; Anna non è una moglie infedele, soffre di un grave deficit di ossitocina, ecc. L’elenco è lungo, ma opportunamente il mondo in cui la conoscenza del cervello è possibile grazie alle magnifiche tecniche di diagnostica per immagini ha prodotto un immenso «effetto collaterale» molto poco pensato o identificato. Nessun «io», nessuna istanza singolare sembra avere più alcuna attualità: nessuno decide o desidera niente in modo singolare. La realtà della vita umana sarebbe data da una serie di reti e processi fisico-chimici in cui le antiche categorie di responsabilità, libertà, soggettività sembrano obsolete. Il cervello studiato sembra aver prodotto un cervello alterato, in funzioni e moduli. Grazie alla tecnologia, queste funzioni e questi moduli potranno essere migliorati fino a dar luogo a un cervello aumentato. Benvenuto al migliore dei mondi possibili. Questo mondo «utopico» che ci delineano i diversi loop di retroazione, veramente infiniti, è anche il mondo della possibile regolazione algoritmica per mezzo dell’ibridazione uomo-artefatto. Questo mondo dei cervelli disvelati e dei cervelli «aumentati» coincide esattamente con quel che Michel Foucault (1969) definiva come «biopotere» o «biopolitica», in cui la gestione dei corpi e della vita rimpiazza, nella sua tecnicità trionfante, qualunque dimensione deliberativa conflittuale delle singolarità. Tutto avviene come se la cultura e la vita non avessero avuto il tempo per metabolizzare, comprendere e integrare la potenza delle nuove tecnologie digitali associate alla conoscenza del cervello. Neuromarketing è uno dei nomi che in modo un po’ abusivo si sono

associati troppo rapidamente alle conoscenze attuali. L’attuale regolazione algoritmica della vita in tutte le sue dimensioni, da quella più pubblica a quella più privata, è figlia della cosiddetta «economia comportamentale» in cui le conoscenze sui diversi circuiti cerebrali vengono usate per migliorare all’infinito le performance (risultati?) dell’economia. All’economia comportamentale, che studia l’essere umano come se si trattasse di un insieme alterato di comportamenti e funzioni cerebrali, si accompagna una vera e propria burocrazia governativa che usa questi metodi, il che significa che governa con «profili» e quantità. Ci troviamo di fronte a una vera e propria «rivoluzione della misura» che punta a «migliorare» (aumentare?) le capacità del cervello umano a vantaggio dell’efficacia economica. Tutto dev’essere valutabile. L’imperativo di mostrare i risultati, gli effetti delle azioni, ottimizzare l’azione degli individui, è questo il paesaggio che ci presenta oggigiorno il nostro mondo al ritmo della macroeconomia e della tecnologia. Ma è certo che l’unica via possibile di una coabitazione e di una coevoluzione fra la vita, la cultura e la tecnica sarebbe questa vera e propria artefattualizzazione del mondo? Io sono convinto di no, perché è necessario resistere, come ho già detto, alla tentazione integralista tecnofoba; si tratta di capire che fra ciò che a poco a poco conosciamo del cervello e della biologia, e gli immensi progressi della tecnologia, non esiste un’unità di sostanza né un’unità del modo di essere o di funzionare. I desideri utopistici di uomini, vite e cervelli aumentati patiscono un serio deficit di riflessione rispetto a questa problematica e il libro che state leggendo è un umile sforzo in questo senso. Ho cercato di dare un minimo di contestualizzazione alle forze di conoscenza e di azione che oggi si dispiegano affinché la famosa «questione del senso», che non è niente di più e niente di meno che il mondo della vita e della cultura, non sia annientata dalla fascinazione infantile e spesso nichilista dei tecnofili irriflessivi. Per parlare di cervello aumentato, ma anche di vita aumentata — transgenici, manipolazioni genetiche, ibridazioni di ogni genere — è necessario fermarsi un momento a riflettere su tale «aumento». L’aumento consiste in una ibridazione, la produzione di misti e di nuove dimensioni della vita e del mondo, e non semplicemente del

potenziamento di ciò che già esiste. Come dice il filosofo Jean Michel Besnier (2010), «l’uomo aumentato è un uomo semplificato». E qui dobbiamo intendere, per «semplificato», «che ha perduto delle dimensioni e la profondità». Affinché «ciò che esiste» sia più potente, è necessario, anche oggi — in maniera urgente —, comprendere la radicale differenza di natura e sostanza fra i meccanismi biologici e le tecniche che ci vengono offerte per aumentarli. Organismi e artefatti esistono in due universi totalmente differenti, così come i diversi organismi occupano e vivono in temporalità e spazialità molto differenti. I ritmi dei cosiddetti «orologi biologici» sono di una grande complessità e varietà nel mondo della biologia e il cervello umano possiede, esso solo, una grande serie di dimensioni spaziali e temporali in sé differenti. Non ci sono in biologia — né, quindi, nel cervello — un tempo e uno spazio di tipo kantiano (trascendentale). Questo tempo di Kant e di Newton è quello che sembra essere il tempo e lo spazio della fisica, della chimica e dei vari artefatti digitali. L’ignoranza di questa differenza di «universi» fa sì che, per il momento, l’ibridazione che si pretende in modo semplicistico e riduzionistico (aumento) implichi un pericolo per la vita stessa. La stessa vita che vorremmo aumentare. I tempi e le dimensioni spaziali della vita non possono essere impunemente modellati in funzione delle dimensioni della fisica. Il fisicalismo oggi dominante pretenderebbe, come abbiamo visto, che l’insieme dei processi biologici e psicologici potessero essere spiegati con le leggi che spiegano la fisica e la chimica. Questa posizione viene considerata come una specie di materialismo serio e radicale, ma in realtà l’ignorare che l’unità sostanziale della materia non impedisce che essa sia autoorganizzata in dimensioni e registri differenti, e non riducibili al livello fisico, non solo non smette di essere «materialista», ma sviluppa una posizione materialista più complessa e potente. Come scrive l’antropologo francese Lévi-Strauss (1996): «Il giorno in cui riuscissimo a comprendere la vita come una funzione della materia inerte, scopriremo al tempo stesso che la materia possiede proprietà molto diverse da quelle che le vengono attribuite attualmente».

Aumentare la potenza delle funzioni prende avvio dalla visione utilitaristica e lineare in cui io voglio che il mio dispositivo possieda il massimo delle funzioni e applicazioni possibili, ma la vita non evolve in questo modo, come un aggregato di funzioni. Al contrario, il fenomeno della vita si basa sull’integrazione di funzioni, mezzi, storia, ecc. per determinare tendenze, tropismi, «destini» che non sono né aumentabili né separabili, per il semplice fatto che non esistono in questo mondo in un modo quantitativo, trasparente e utilitaristico. Come scrive l’epistemologo e medico francese Georges Canguilhem (1970) nella sua famosa opera Il normale e il patologico: «Un organismo sano non cerca tanto di mantenersi in modo stabile, nel suo stato e nel suo ambiente presenti, quanto di realizzare la propria natura, quand’anche ciò esiga che l’organismo si esponga a rischi e accetti perfino l’eventualità di reazioni catastrofiche». E aggiunge: «L’uomo sano non elude i problemi che talvolta gli procurano grandi cambiamenti nelle sue abitudini, anche sotto il profilo fisiologico; egli misura la sua salute sulla base della sua capacità di sopportare le crisi organiche per instaurare un nuovo ordine». Come dice Canguilhem, ciò che è proprio della vita non è cercare agio e stabilità, bensì seguire ciò che si evidenzia come «la nostra vera natura». Per «natura» dobbiamo intendere qui l’insieme complesso e contraddittorio di desideri, tropismi e storie che compongono in permanenza una specie di «risultante dinamica» che, al di là di ogni metafisica, possiamo chiamare «un destino». Per un periodo ho lavorato con la biologia del comportamento animale o meglio, data la sua complessità, con quella che dovremmo riconoscere come una vera e propria psicologia animale. Queste ricerche hanno confermato le affermazioni di Canguilhem: nessun animale preferisce, finché è sano, i suoi agi alla sua «natura». Forse un buon esempio è quello degli uccelli migratori. Le diverse specie di uccelli migratori (e non solo di essi — anche la migrazione dei granchi è spettacolare) hanno un elemento in comune che non si smentisce: non è la ricerca di cibo o la sopravvivenza la causa che spiegherebbe in modo lineare (causa-effetto) la migrazione. L’azione dunque possiede in realtà un’ampia autonomia in relazione alle necessità puramente biologiche. L’Occidente ha costruito, per necessità di coerenza storica, questo mito di

un’animalità determinata meccanicamente dalle necessità biologiche di base, base che gli uomini determinarono in modo da confermare il mito. Ma nessuna animalità, compresa quella umana, esiste nella forma semplicistica e meccanica della sopravvivenza. Un uccello migratore che si trovi, nel momento della chiamata, in un ambiente propizio con cibo abbondante e in condizioni di sicurezza, migrerà in ogni modo, perché migrare è inscritto nel suo modo di relazionarsi con il mondo, con quello che è. La «chiamata» alla migrazione continua a essere un mistero, anche quando l’uno o l’altro dei componenti sono noti. Un uccello migratore deve migrare, è questo che costituisce il suo «destino», giacché non si tratta di una determinazione che sarebbe data una volta per tutte; quel che chiamiamo «natura» o «destino» implica una dinamica complessa, integrata ed evolutiva, in cui l’uccello è forse in una tassonomia migratoria, ma deve migrare: è nell’azione, nel rischio e nel divenire che sarà «quel che doveva essere» (come scrisse un grande argentino che non era biologo). Nelle tentazioni del cervello e dell’uomo aumentati, ogni riflessione che verta su queste dimensioni complesse che ordinano e dirigono la vita viene sistematicamente dimenticata, poiché si lavora quasi esclusivamente con modelli di realtà cerebrale e biologica che tengono conto soltanto, nel loro modo di «discretizzazione» — ritaglio della realtà modellizzata —, dei criteri biologici e culturali propri: non della vita, ma della macchina digitale. Nel mondo della vita, le funzioni e i moduli non esistono come circuiti indipendenti, esistono in, da e per questo tipo di integrazioni organiche che ho cercato di presentare in questo libro. La sfida della nostra epoca si concentra sulla possibilità di articolare le nostre fantastiche conoscenze e la potenza della tecnologia con la conoscenza e il rispetto dei circuiti della vita. Il punto di vista tecnologico tiene conto, come abbiamo visto, della dimensione dei possibili teorici senza comprendere le dimensioni compossibili della vita e della cultura, che non sono identiche a essi. La regolazione dei «possibili», la considerazione delle dimensioni storiche e diacroniche, la ricerca nei termini di un’organicità complessa sono alcune delle piste che ho cercato di presentare da e per la scienza, come modi per produrre un’ibridazione in cui la vita e la

cultura colonizzino la tecnologia e non avvenga il contrario come succede oggi. In sintesi, lungi da qualunque effetto melodrammatico, possiamo affermare che ci troviamo in un momento in cui gli esseri viventi — e gli umani in particolare — devono «aiutare la vita» affinché un preteso aumento quantitativo non finisca, per ignoranza, per schiacciare le dimensioni qualitative, quelle del senso e della complessità proprie della vita. La tentazione di una potenza illimitata, la promessa di una deregolazione totale si oppongono all’essenza stessa della vita in tutte le sue dimensioni: la fragilità. E fragilità non vuol dire debolezza: è appunto in questa differenza in cui il desiderio di non essere deboli non deve restare intrappolato in una pratica che annienti la fragilità propria dell’essenza della vita.

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Si è scelto di lasciare in bibliografia le versioni in lingua consultate dall’autore, oltre a fornirne la traduzione italiana laddove disponibile.

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Frontespizio L’autore Prefazione Introduzione 1. Il cervello aumentato, un uomo alterato? 2. Quando il cervello costruisce un mondo 3. La temporalità del cervello: la macchina del tempo 4. La scultura del cervello 5. Il cervello sradicato 6. Informazione, comprensione e significato 7. La delega di funzioni nella coevoluzione 8. Possibili e compossibili 9. I tre modi di essere 10. Il cervello senza organi, gli organi senza cervello 11. Il cervello non pensa, pensa tutto il corpo 12. La memoria e l’identità 13. Morale e cervello 14. Il cervello modulare (sordi e competenze) 15. Gli affetti e i moduli, il cervello degli affetti A mo’ di inconclusione Bibliografia

3 4 9 12 17 44 53 57 66 73 78 85 95 109 127 143 152 168 177 188 194