Il cervello di Carné. Letterario 1941-1943 8893951045, 9788893951043

“Il cervello di Carné” rende omaggio a una cultura del cinema che prende forma negli anni più duri della Seconda guerra

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Il cervello di Carné. Letterario 1941-1943
 8893951045, 9788893951043

Table of contents :
Sommario
Prefazione
Il cervello di Carné
Nota dei curatori
Letterario 1941-1943
Postfazione – Ricordando Jusik

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La nave di Teseo +

Ugo Casiraghi e Glauco Viazzi

Il cervello di Carné. Letterario 1941-1943 a cura di Simone Dotto e Andrea Mariani Prefazione di Paolo Mereghetti Postfazione di Cristina Bragaglia

© 2021 La nave di Teseo editore, Milano ISBN 978-88-9395-600-0 Prima edizione La nave di Teseo giugno 2021

Sommario Prefazione Il cervello di Carné Nota dei curatori Letterario 1941-1943 Postfazione – Ricordando Jusik

Prefazione di Paolo Mereghetti Mentre leggi queste corrispondenze – specie per chi ha avuto il piacere di conoscere e frequentare Ugo Casiraghi – torna immediatamente davanti agli occhi la figura di quell’uomo straordinario, fraterno e autorevole insieme, con cui avevi voglia di parlare ma di cui temevi sempre la precisione e l’acutezza di giudizio. Proprio come leggi in queste lettere dove la giovane età non fa certo velo alla determinazione: “in materia di critica voglio sempre essere sicuro” scrive in una delle sue primissime missive all’amico Jusik, cioè a quel Glauco Viazzi che anche dopo la morte Casiraghi conserverà nella memoria e ricorderà agli amici come il suo più fraterno sodale e maestro. Non era una persona facile Ugo. Era sempre pronto a prenderti in castagna, a ricordarti un film che avevi dimenticato, a farti notare una confusione. Della precisione aveva fatto una specie di immagine di marca, attento a ogni sfumatura e a ogni virgola. E quando nelle sue lettere fa notare a Viazzi gli errori che trova negli articoli altrui (Hitchcock scritto nelle maniere più fantasiose) o in quelli suoi (dove si chiede se il lettore saprà capire), mi torna in mente quello che mi disse, quando iniziavo la carriera giornalistica: che Licia (sua moglie), la mattina, non gli preparava il caffè se prima non aveva trovato almeno due errori di stampa sul Corriere. Una battuta, certo, ma anche la dimostrazione di un abito mentale, di un’attitudine che l’ha accompagnato per tutta la vita. Quell’“essere sempre sicuro” che aveva inseguito fin da giovane. Me lo ricordo a Cannes, quando gli articoli si scrivevano ancora a macchina e si dettavano al telefono. Dopo la proiezione mattutina lui si dirigeva con passo svelto al suo albergo, sempre quello da anni, con la facciata giallina e i bordi delle finestre azzurri (si chiamava Regine, era vicino al Carlton. Chissà se c’è ancora) e si chiudeva in camera a riflettere e poi a scrivere. Alcuni colleghi più vacanzieri

usavano il tempo del pranzo per prendere un po’ di sole in spiaggia e mangiare un’insalata di avocado (mi univo anch’io a loro, alla plage des Dunes). Lui no, non voleva farsi distrarre da niente, un po’ preoccupato di non aver potuto vedere il film una seconda volta, come era abituato da sempre (“Ho visto ancora due volte”, “Ho letto e ho riletto, ho visto e ho rivisto” sono frasi che tornano spessissimo nelle sue lettere), timoroso che la memoria gli giocasse qualche brutto scherzo, lo facesse incorrere in uno di quegli errori che detestava negli altri. E poi, prima della proiezione serale o a cena, tirava fuori i suoi fogli dattiloscritti per rileggere a mente fresca e caso mai telefonare all’ultimo momento qualche minima variazione. Casiraghi non smetteva mai di essere un critico, viveva ventiquattr’ore al giorno con quell’impegno e quella missione e quando in una lettera leggi che “non ho la nomea di critico” capisci che in questo modo vuole sottolineare la differenza tra quello che si sforzava di diventare e quelli che invece leggeva e non lo convincevano. Certo, Ugo non parlava solo di cinema. Gli piaceva la buona cucina e a volte si lasciava andare al ricordo di piatti che la sua Licia gli aveva fatto conoscere, sloveni, dalmati, istriani (anche se allora era ancora tutta Jugoslavia conosceva benissimo le differenze regionali, quelle che poi sarebbero diventate nazionali). Quello di cui parlava poco era il Partito comunista. Non aveva mai pensato di mettere in discussione la sua appartenenza di campo, ma l’ostracismo che aveva subìto quando era iniziata la sua storia con Licia (perché ancora sposata: il moralismo del Pci allora rivaleggiava con quello della Chiesa) doveva aver lasciato un segno profondo, un dolore che aveva superato solo con l’amore fortissimo che l’ha legato a lei per tutta la vita. Preferiva ricordare altri episodi, dove si era divertito a infrangere le regole non scritte della diplomazia comunista, come quando a metà della proiezione di un film mongolo, aveva deciso che non sopportava più quella noia ed era uscito dalla sala, costringendo tutta la delegazione ufficiale arrivata dalla Mongolia ad alzarsi per farlo passare,

lui che era stato fatto sedere al loro fianco in nome della comune fede politica. Che critico era e sarebbe diventato, Simone Dotto e Andrea Mariani (che hanno curato con amore e dedizione questo carteggio) lo spiegano con tutta la loro scienza accademica nell’introduzione. Io voglio solo ricordare un’altra delle caratteristiche del Casiraghi critico (e uomo) e che già si intravvede nelle sue lettere, quella della passione che non gli era mai venuta meno sull’importanza del cinema e sulla necessità della funzione critica. Certo, erano altri anni, quelli in cui la cultura aveva ancora un peso centrale nel dibattito sociale e politico. Ma leggere l’entusiasmo con cui “dopo due mesi di astinenza” ha potuto vedere un mediocre film americano o sottolineare come sarà costretto per via degli obblighi militari a fare “altri quattro mesi di astinenza”, da quelle parole capisci come il cinema fosse già per l’allievo ufficiale Casiraghi qualcosa di fondamentale, di prezioso, quella cosa che lui stesso definiva in una lettera “la mia disastrosa mania cinematografica” e che lo porterà, nel dopoguerra, a diventare non solo una firma lettissima dell’Unità, ma un organizzatore instancabile di rassegne e dibattiti (al Ritz di via Torino, oggi trasformato in un anonimo store che cambia faccia quasi ogni mese), per far conoscere cinematografie nascoste – chi non si è formato sul suo aureo libretto sul cinema cinese? – e in ultima istanza per spiegare a tutti che il cinema era una componente insostituibile della vita. Grazie Ugo!

Il cervello di Carné1 di Simone Dotto e Andrea Mariani Un lungo sodalizio È alla rubrica di posta “Capo di Buona Speranza”, curata per Cinema da Francesco Pasinetti sotto l’alias di Nostromo, che Ugo Casiraghi e Glauco Viazzi, affidano i loro esordi nell’agone critico nazionale nei tardi anni trenta, qualche tempo prima di divenire autori pubblicati della stessa testata.2 È una lettera, ricevuta dall’amico internato nel campo di prigionia tedesco di Wietzensdorf, a convincere Viazzi a far uscire Umanità di Stroheim e altri saggi, volume inaugurale della biblioteca cinematografica edita da Il Poligono accreditato a Ugo Casiraghi ancor prima che questi potesse far ritorno in patria – per il timore che col tempo quelle divenissero davvero “frasi cristallizzate […] legate a un passato che non può ritornare”.3 E, quasi a restituire il favore, è a un’altra lettera a lui indirizzata che lo stesso Casiraghi affiderà il proprio commiato a Viazzi pubblicato su L’Unità il 12 marzo 1980, due giorni dopo la sua prematura scomparsa, ricordando come i vivaci disaccordi sulle visioni in sala avessero sempre “movimentato” un’amicizia altrimenti cementata da idee e passioni comuni.4 Già queste sporadiche ma significative occasioni in cui la corrispondenza privata fa capolino della produzione pubblicistica degli autori legittimano a pensare al loro pluridecennale carteggio come a un filo rosso che percorre sottotraccia due vicende biografiche strettamente intrecciate, attraverso diverse stagioni della critica e della cultura cinematografiche italiane. Nati rispettivamente a Krasnodar il 17 febbraio 19205 da famiglia armena e a Milano il 25 febbraio 1922, Glauco Viazzi (all’anagrafe Jusik Hovrep Achrafian) e Ugo Casiraghi si conoscono dopo il trasferimento del primo nel capoluogo lombardo: malgrado la diversità di provenienza e istruzione,6 entrambi rientrano nelle fila elitarie di quegli studenti universitari di ceto medio che il potere fascista alleva come futura classe dirigente, ponendoli fin dalla

più tenera età al centro del proprio progetto formativo e delle politiche culturali di regime.7 La “fatale” attrazione verso il cinema quale arte giovane ed espressione diretta della modernità tecnologica trova ad accoglierla (e a irreggimentarla) un sistema in fase di “istituzionalizzazione” avanzata, dove non soltanto la produzione professionale di pellicole ma anche l’attività culturale e dilettantistica sono soggette al controllo diretto da parte del governo. Un’organizzazione centralizzata e capillare entro la quale muove i primi passi un’intera generazione di futuri cineasti, critici, scrittori e intellettuali: con lo sguardo rivolto alla divulgazione elevata proposta dal Cinema di Vittorio Mussolini e ai quaderni del Centro Sperimentale di Cinematografia di Bianco e Nero diretti da Luigi Chiarini, Viazzi e Casiraghi incontrano i primi banchi di prova nei fogli di partito8 e, soprattutto, nelle attività allestite dalla sezione cinematografica del Gruppo Universitario Fascista di Milano. Intorno alle mattinate al cinema Odeon, alle rassegne della triennale, alle redazioni dei giornali Guf e alle proiezioni organizzate nella sala della Gioventù italiana del Littorio prende corpo un programma di formazione al cinema quale “pratica critica” e “pratica produttiva”9 destinato però a dare i suoi frutti in uno scenario assai diverso da quello originariamente prospettato per “l’uomo nuovo” fascista. Già a metà anni quaranta, Viazzi stringe conoscenze con la Milano dell’arte e dell’editoria che si riveleranno strategiche a guerra finita: in particolare la collaborazione con il gruppo di Editoriale Domus e il breve ma intenso rapporto stretto con il critico d’arte e d’architettura Raffaello Giolli (deportato e ucciso a Mauthausen nel gennaio 1945 per aver preso parte alla resistenza antifascista) permettono da un lato al venticinquenne Glauco di allargare i propri interessi anche alla critica artistica, dall’altro di porre le basi per le pionieristiche iniziative editoriali del dopoguerra quali la collana Cineteca Domus e Biblioteca cinematografica de Il Poligono.10 Da parte sua Casiraghi, tornato a Milano nell’agosto di quello stesso anno, riprende immediatamente l’attività giornalistica per le

nuove testate sorte nella redazione di via Solferino, La Lettura e Cinetempo, grazie all’interessamento del vecchio mentore Filippo Sacchi e dall’amico Guido Guerrasio; parallelamente completa i suoi studi universitari fino a discutere nel 1947, una tesi di laurea su “Il realismo nell’arte cinematografica”, già dedita a ridiscutere l’eredità idealista sotto gli orientamenti del materialismo dialettico – redatta, non a caso, sotto la supervisione Antonio Banfi, allora docente di Storia e Filosofia a Milano, alla vigilia della sua elezione in Senato con il Partito comunista.11 Le coordinate entro le quali i due critici rinnovano il proprio sodalizio a guerra finita mostrano un’editoria “in ricostruzione” che, se da un lato accoglie sempre più numerose le nuove testate specializzate fondate per mano di ex cinegufini,12 dall’altro si riconosce in una nuova ragion politica. Il tesseramento al PCI13 è una scelta che Casiraghi e Viazzi condividono con la gran parte di critici e cineasti della propria generazione, compiuta poco prima che la settima arte si trasformi in un “luogo simbolico, l’unico punto di riferimento positivo per ogni momento della successiva lotta politica ormai perduta su tutto il fronte”.14 L’estetica di ascendenza idealista appresa e coltivata in gioventù cede gradualmente il passo a una critica normativa d’ispirazione ideologica, sensibile alla chiamata del Partito ad avvicinare le masse: dalle colonne de L’Unità (che nel febbraio del 1948 li vede tra i cofirmatari del manifesto “Difendiamo il nostro cinema”) e da quelle di altre riviste di partito quali la pedagogica Il Calendario del Popolo e la più erudita Il Contemporaneo15 le due firme riprendono la propria ricerca della “via nazionale al realismo” nell’auspicio che alla fioritura del neorealismo segua la formazione di un vero realismo “sociale”, sul modello di quello di scuola sovietica. La promulgazione delle cinematografie dell’Est Europa costituisce, d’altra parte, il secondo filone più significativo della fase “matura” dei due critici, che tra la seconda metà degli anni quaranta e la prima dei cinquanta organizzano rassegne divulgative sul cinema sovietico,16 si spartiscono le

corrispondenze dai festival di Mariánské Lázneˇ, Karlovy Vary e Mosca, e, in aperta polemica con il “mercantilismo” dei film d’importazione statunitense dedicano ampio spazio alle pellicole dell’URSS. Proprio l’entusiastica accoglienza riservata a queste ultime da parte della critica di sinistra sarà bersaglio della nota polemica “Sciolti dal Giuramento”, inaugurata da Renzo Renzi sulle pagine di Cinema Nuovo nel 1956, all’indomani dei fatti di Cecoslovacchia. L’accusa di aver asservito il libero giudizio alla ragione propagandistica e l’obiettivo di abbracciare la destalinizzazione, sbarazzandosi finalmente della dottrina zdanovista, finiscono con l’implicare uno scomodo ritorno sui luoghi, i tempi e i modi che avevano formato la generazione del decennale. Dopotutto, la pretesa di un realismo filmico e finanche la fascinazione per un cinema sovietico (sia pure visto ancora da lontano), erano questioni che affondano le proprie radici nella stampa cinematografica del Ventennio. Non stupisce pertanto che gli strali del dibattito finiscano per riesumare qualche “peccato di gioventù”, anche da parte degli stessi Casiraghi e Viazzi, allorquando, sul vecchio Cinema diretto da Vittorio Mussolini, credevano di individuare la via salvifica del realismo filmico non già nel suo carattere “critico” o “sociale”, bensì in quello nazionalista “difeso a spada tratta dalle gerarchie fasciste che, in nome dell’autarchia, impongono, con le veline, di parlarne bene”.17 La polemica è rivolta soprattutto all’indirizzo di Viazzi che, in quanto collaboratore di Cinema Nuovo, era intervenuto direttamente nel dibattito: sarà lui a pagare il prezzo più caro delle fratture consumatesi in seno alla critica di sinistra, con un allontanamento dal cinema che diviene definitivo dopo il 1958. Almeno in quest’ambito, la sua strada diverge quindi da quella del vecchio sodale, per altri vent’anni in forze come critico de L’Unità. Quanto alla revisione degli anni del regime, anche a fronte della discreta quantità di letteratura memorialistica prodotta dai loro coetanei nel corso degli anni successivi,18 le voci di Casiraghi e Viazzi rimarranno se non proprio assenti, quantomeno reticenti. Mentre il primo evita di

tornare sui propri esordi, al secondo viene attribuita perlomeno una manifestazione di intenti autobiografici – affidata, ancora una volta, a una lettera. La legge Gian Piero Brunetta intervenendo al convegno su Giuseppe De Santis e la critica cinematografica organizzato dallo stesso Renzi insieme a Marcella Furnero Bologna nel maggio 1982: “[…] devo avere in qualche cassa, lettere di Pasinetti, di Puccini, di Casiraghi […] Se le trovo te le passo… perché ho pensato di fare una cosa, una specie, come dire, di memoriale: ti racconto chi eravamo, cosa facevamo…”19 Un intento destinato a sfumare presto per sopraggiunta morte del critico, senza però distogliere Brunetta dalla convinzione che, per avvicinare un periodo complesso e soggetto più di altri a revisionismi di comodo come quello tra gli anni venti e quaranta, sia necessario un approccio storiografico “totale” come da lezione degli Annales, attento tanto ai documenti istituzionali e ai testi pubblicati quanto alle testimonianze dei sopravvissuti e alle carte private. Un’altra fonte possibile su cui lavorare è quella degli epistolari. È una fonte di straordinaria importanza se non che, anche qui, ci si muove su un terreno di materiali evanescenti […] Penso che un lavoro di raccolta degli epistolari di Viazzi, Casiraghi, Puccini, Pietrangeli, Aristarco, ecc. potrebbe fornirci non poche illuminanti informazioni sulle caratteristiche di una cultura cinematografica in formazione che aveva steso una rete di portata nazionale.20 Rispetto agli anni in cui venivano formulate queste lungimiranti considerazioni, l’accessibilità delle carte appartenute ai nomi più autorevoli della critica cinematografica del Novecento italiano è significativamente accresciuta. Tra gli altri, i fondi donati dagli eredi di Guido Aristarco, Fernaldo Di Giammatteo, Mino Doletti, Massimo Mida, Renzo Renzi, Walter Ronchi, Corrado Terzi e Mario Verdone in favore di istituzioni pubbliche, cineteche e

biblioteche universitarie21 permettono da un lato una dettagliata ricomposizione del detto contesto storico, dall’altro avvicinano anche gli studi sulla critica (e sul cinema tout court) a quei frangenti della ricerca sul contemporaneo che sempre più frequentemente vanno attingendo agli archivi di persona.22 Proprio in ragione di questa nuova disponibilità documentale e della conseguente attenzione dedicata ai carteggi fra i protagonisti della cultura cinematografica degli anni trenta e quaranta23 vale la pena di compiere qualche osservazione preliminare sull’ambiguo statuto dello scritto epistolare quale fonte storica. Per porci al riparo da quell’intento “processuale” sul quale già Brunetta metteva lucidamente in guardia, eviteremo di valutare le missive raccolte di seguito soltanto in virtù di un’adesione o di una dissidenza di chi le ha scritte rispetto al dettato ideologico vigente, o di una coerenza con i giudizi espressi in sede di recensione. L’ipotesi di una storia della critica cinematografica che riconosca alle comunicazioni private un ruolo al contempo cardinale e scardinante delle dinamiche pubbliche24, incoraggia piuttosto a interrogare le lettere non come sole espressioni personali, ma come luoghi nei quali la soggettività del critico stesso va costruendosi attivamente. Lungi dall’essere semplici elementi di sfondo alle vicende degli scriventi, le contingenze storiche e le inferenze dal contesto socioculturale di riferimento fungono qui da veri e propri agenti “pubblici” che regolano, delimitano e, in definitiva, formano la sfera “privata” dei due critici, a cominciare dalla sua “messa per iscritto”.

Tra pubblico e privato. La lettera come luogo di costruzione della soggettività critica Parte del fondo di materiali bibliografici, pubblicistici, fotografici e delle carte autografe donate nel 2009 all’Associazione Palazzo del Cinema-Hiša Filma e ora preservate a Gorizia presso la Mediateca provinciale e la Biblioteca Statale Isontina, le circa cento lettere che

documentano lo scambio intercorso fra Casiraghi e Viazzi tra il 1940 e il 1943 appartengono senza dubbio a un “archivio personale”, vale a dire a un complesso di documenti conservati e ordinati dal loro stesso possessore – Casiraghi – e passato ai suoi eredi, in questo caso la donatrice Margherita Verzegnassi, figlia della moglie di Casiraghi, Licia Trevisan. Ciò su cui vale la pena di interrogarsi è piuttosto la loro afferenza rispetto a una sfera “personale” soggetta a continue ridefinizioni nel corso del tempo.25 Adottando una prospettiva di lungo corso, il nostro “letterario” può essere visto come il combinato di due dei fattori che, a cavallo tra XIX e XX secolo, più hanno agevolato l’incremento e la riconfigurazione della pratica epistolare: il succedersi delle guerre su scala mondiale, con il suo correlato di dislocazioni “forzate” di massa, e il progressivo consolidarsi di una produzione editoriale gestita da intellettuali dall’altra, “il bisogno non solo e non tanto di scrivere, quanto di ‘scriversi’” per l’intera società alfabetizzata e l’abitudine a “scrivere di sé” quale componente distintiva dalla lettera borghese.26 Tali eventi e processi che, sul piano macro-storico, hanno collaborato a eleggere la scrittura di lettere come repositorio di racconti e informazioni autobiografiche, sono nella fattispecie anche esperienze cruciali che segnano il vissuto dei due giovani critici nel momento stesso in cui (si) scrivono. Tanto la guerra che li allontana l’uno dall’altro, quanto lo status sociale di giovani intellettuali e la cerchia relazionale della cultura cinematografica cui appartengono, non smettono di registrare ricadute e di produrre rifrazioni sulle forme, sui contenuti e sulla continuità della loro corrispondenza. Già dagli incartamenti e dalle intestazioni delle lettere è possibile ricostruire una dettagliata cronistoria delle peregrinazioni di Ugo Casiraghi: oltre alle tappe ufficialmente registrate dai documenti del Regio Esercito, esse rendono conto infatti anche dei momenti morti, di passaggio o di latenza, come la lunga attesa consumatasi fra Bari e Monopoli da marzo a maggio 1942 in attesa di un reimbarco per il fronte albanese che, scrive ai genitori, “può esser domani, dopo, o si può aspettare ancora diversi giorni”.27 Il fatto, poi, che le

lettere indirizzate a Viazzi fossero quasi sempre intestate al suo vero nome, Jusik Achrafian, e che alternassero con naturalezza il recapito della sua abitazione milanese in via Ampère 96 a quello di via Broggi 26, dove invece vivevano i genitori di Casiraghi, restituisce la natura di un rapporto abbastanza intimo da estendersi alla sfera degli affetti famigliari. Sono esempi del carattere personale delle informazioni che circolavano via posta che dovevano costituire il terreno d’intervento privilegiato del censore: gli estremi cronologici dello scambio in nostro possesso coincidono infatti con quelli entro i quali, a partire dal giugno del 1940 fino al settembre del 1943, il regime istituisce le commissioni provinciali per la censura di guerra e concentra sotto il potere dei prefetti e del ministero dell’Interno un “controllo totalitario […] della corrispondenza in partenza da o per militari mobilitati per le forze operanti”.28 Il carattere particolarmente “delicato” di uno scambio tra fronte interno e fronte esterno viene avvertito a più riprese lungo il carteggio: il 10 luglio del 1942 Casiraghi riferisce di essere venuto a conoscenza dei meccanismi che regolano lo smistamento di posta in entrata e in uscita dagli avamposti di Tirana, e consiglia quindi all’amico di regolarsi e “di non parlare di me, non pensare di me, più male di quanto io meriti”. Soltanto due mesi dopo, è Viazzi a lamentare la ricezione di due buste vuote e ricordare all’amico “di non scrivere mai su carta quadrettata: la censura toglie di corso, ci sono precise disposizioni ministeriali in merito” – facendo riferimento alle normative decretate dal duce il 23 agosto all’articolo 2 della circolare n. 563. Lo “sguardo del potere” evocato da Loris Rizzi nel suo saggio sulla censura postale fascista è una prima forma di intrusione “pubblica” sulla quale Casiraghi e Viazzi devono misurare la propria scrittura: anche quando non svolge un’azione propriamente repressiva, andando brutalmente a interrompere il carteggio, l’occhio del censore resta comunque vigile e presente, attento a sondare gli stati d’animo di militari e civili durante il conflitto in atto, nell’adempimento dei suoi uffici statistico-conoscitivi. Ne appare consapevole soprattutto

Viazzi, attento a farsi percepire distante da ogni tentazione disfattista quando, all’indomani l’offensiva del Comando Bombardieri britannico che tra il 24 e il 25 ottobre 1942 aveva sorpreso Milano in pieno giorno, denuncia “la miseria della natura umana all’approssimarsi del benché minimo pericolo; la delinquenza mentale di certi traditori; […] deve esserci, per permettere al mondo di progredire, una categoria di uomini che superino la loro inferiorità, che siano all’avanguardia”.29 Tanta è l’enfasi “avanguardista” del racconto da farlo apparire “montato” persino al corrispondente, che dal fronte albanese andava cercando notizie attendibili su quanto accaduto nella sua città natale (“Allora le cose son state più gravi di quanto io mi fossi figurato”, risponderà preoccupato in una lettera di quel dicembre). Oltre alle prudenze autocensorie, sulla scelta di estetizzare la vita in tempo di guerra pesa anche la volontà di rimarcare uno status sociale e intellettuale. Già per le sue caratteristiche formali, ovvero “la lunghezza spropositata e inusuale di ciascuna lettera, l’articolazione morbosamente particolareggiata del discorso, le recriminazioni per la mancanza di spazio e di tempo per potersi esprimere compiutamente” la corrispondenza Casiraghi-Viazzi si ascrive appieno a quella che Armando Petrucci definisce “una comunicazione scritta fra colti professionali”, con l’obiettivo inconfessato di lasciare “testimonianze di sé, di intenzioni e argomenti biografici”.30 E sono del resto numerose le occasioni in cui i firmatari delle lettere tornano esplicitamente a insistere sulla propria condizione di uomini di lettere (temporaneamente) strappati alla loro vocazione dal conflitto in atto. Da St. Thanas, Casiraghi spiega quanto i suoi obblighi del servizio alle armi gli precludano il tempo della creazione intellettuale: “e mi manca, ecco, mi manca il ‘tempo continuato’, senza il quale non posso assolutamente lavorare. Faccio già una fatica immensa a unire i pezzettini d’una lettera!” (19 luglio 1942). Dal canto suo, Viazzi, in un altro resoconto dalla Milano sotto attacco areo datato alla prime ore

del 15 febbraio 1943, sottolinea come persino il pericolo dei bombardamenti fatichi a distoglierlo dalle proprie carte: “Quand’ecco ad una certa ora, sirena d’allarme. Il Viazzi dice ‘ci siamo’. Si secca, si scoccia. Niente da fare, continua a scrivere: quand’ecco esplode la girandola della contraerea. Un concerto egregio, combinato d’egregi rumori. Il Viazzi si dice: andiamocene in cantina. Prende un numero della rivista Spettacolo, prende l’unico libro che possiede, Ed è subito sera, intasca un poco di preziosissime lettere, intasca un arancio, e scende in rifugio”. Il ritratto di sé, qui offerto addirittura in terza persona, va di pari passo con le annotazioni estetizzanti sulla dimensione acustica della guerra, nel segno di una manifesta ambizione letteraria. Entro questa attenzione all’autorappresentazione si assottigliano le distinzioni tra il registro stilistico impiegato per il racconto del vissuto personale e quello nel quale vengono espressi i giudizi propriamente critici in campo cinematografico, artistico, letterario: ciascuno stralcio di queste lettere, d’altra parte, può segretamente ambire a trovare pubblicazione, come dimostrano le scherzose minacce che sempre Glauco Viazzi rivolge a Casiraghi, quando gli scrive “le tue ultime lettere sono ormai brani da pubblicare. Un giorno daremo alle stampe il tuo epistolario; io ora son già tentato di rendere di pubblica ragione certe tue pagine”.31 Un’eventualità non di rado destinata a verificarsi: alcune missive recapitate all’amico o ai famigliari durante il servizio da sergente di Fanteria appaiono effettivamente a stretto giro sulle colonne di Libro e moschetto, il giornale del Guf di Milano, nel quale lo stesso Viazzi è a capo della pagina culturale, come racconti “esemplari” di vita militare.32 Accanto a quello del censore vige quindi un altro sguardo, altrettanto “terzo” e immanente ma assai meno intrusivo, quello di un lettore potenziale cui tramandare dimostrazioni di sensibilità critica ma anche ritratti della propria persona: “Dunque caro Ugo, così – scrive, con lucida consapevolezza, Viazzi il 24 marzo del 1943 – mi sto accorgendo che un giorno, quando pubblicheremo, per ironia; o pubblicheremo, per stima, i nostri epistolari, ci si troverà una assai esatta storia

degli umori, e delle tendenze spirituali degli individui della nostra epoca”.

Le infrastrutture culturali: spazi, geografie, ambienti L’immanente possibilità che gli scritti privati incontrassero un lettore “altro” vale a maggior ragione per quelli a tema cinematografico, fin dal principio finalizzati alla pubblicazione. Con la guerra in corso, la lettera diventa l’unico mezzo per far transitare vere e proprie “bozze” nel corpo della missiva. Il “letterario” è quindi anche l’ambiente dove prendono corpo porzioni di articoli o capitoli di libro. Si pensi a titolo d’esempio alle pagine dedicate a Il traditore (The Informer, John Ford, 1935) nella lettera di Viazzi del luglio 1942; o ai continui abbozzi di Dodici Testi, la raccolta di saggi a lungo progettata come un volume a quattro mani destinato a raccogliere le prime prove critiche dei due autori, la cui unica testimonianza d’esistenza resta tuttavia proprio in questo epistolario.33 L’incessante scambio di idee, prime stesure e note a margine che intercorre per mezzo posta ci porta su un piano ulteriore, quello che ci permette di inquadrare la lettera come rimanenza e funzione materiale di un’infrastruttura intellettuale, culturale, comunicativa. Quando parliamo di infrastruttura non facciamo riferimento esclusivamente ad una formazione tecnologica – cui pure il mezzo fisico della lettera prende parte – ma ad un misto di istanze intellettuali e istituzionali che riflettono gli spazi, la rete sociale e le logiche di trasmissione che interessano il film e i suoi discorsi. In prima battuta le lettere portano in luce una spazialità che è definita dalla dialettica tra una provincia che vive fortissime spinte di rinnovamento e il centro. Come si è recentemente ricordato, a emergere dalle lettere è “l’arcipelago dei fogli dei Guf e l’attivismo dei giovani universitari nelle rubriche cinematografiche delle testate di provincia”,34 dove si coglie in particolare uno scenario in cui i “minori” – secondi anagraficamente e geograficamente – reclamano con sempre maggior incisione un loro riconoscimento istituzionale ed

esercitano una pressione nuova, espressione di una diversa progettualità per la provincia e il suo umanesimo.35 Chiamiamo “provincia” in questo frangente non solo i margini geografici del paese (nel nostro caso il nord e l’area milanese) ma anche i campi della pubblicistica locale e regionale, frequentemente animata da leve di intellettuali anagraficamente più giovani della classe colta delle testate nazionali. Dunque, in questo caso, la provincia coincide anche con una cultura giovanile e più aperta alla sperimentazione o alla frequentazione i temi e contenuti meno ortodossi. Dai carteggi passano i rapporti e le alleanze stretti con le frange giovanili dei Guf, talvolta conosciuti solamente per corrispondenza, come nel caso del Guido Aristarco che cura lo storico numero di “Invito alle immagini” di Pattuglia,36 o di Corrado Terzi, il quale contatta Casiraghi per la prima volta nel 1939, dopo aver letto i suoi interventi sotto lo pseudonimo di “Studente di Milano” nella rubrica di posta “Capo di Buona Speranza”37 sulla rivista Cinema. Terzi sarà, accanto a Baldo Bandini, Guido Guerrasio, Osvaldo Campassi, uno dei corrispondenti più assidui di Casiraghi negli anni albanesi. Insieme sono autori di oltre cinquanta missive conservate dal fondo e comprese nel periodo fra l’estate del 1941 e quella dell’anno successivo,38 alcune delle quali irrompono anche nella corrispondenza con Viazzi, con la trascrizione di lunghi stralci, riportati talvolta per recuperare informazioni su film “mancati”, talaltra a mo’ di franco conforto intellettuale e mutuo riconoscimento generazionale.39 I nomi di Terzi, Guerrasio, Campassi (e di Viazzi, naturalmente) verranno inclusi in quello che, in una sorta di chiamata alla coalizione cinefila, Casiraghi definirà un “circolo cinematografico” dei “settentrionali”.40 In realtà i “settentrionali” sono anche una legione folta e assai articolata, che assume via via, nel corso delle lettere, l’identità di soggetti che ritmavano le pulsazioni del cuore culturale della città milanese, nell’ultimo scorcio degli anni trenta: bisogna almeno ricordare quel nucleo che dà vita, nel 1936, alla Cineteca Milanese – Mario Ferrari, Luigi Comencini, Alberto Lattuada,

Luigi Rognoni – ovvero la prima informale formazione di quella che nel 1947 verrà istituzionalizzata come Cineteca Italiana. Si può ricordare poi la figura di Luigi Veronesi – emblema di quel clima d’avanguardia e sperimentazione che la città e la provincia lombarda hanno continuato a respirare, anche nei primi anni quaranta: è cineasta astratto (nelle lettere si cita la proiezione del suo Film n. 8 al Cineguf), teorico del cinema (sua, tra le altre, la firma del libercolo teorico Note di cinema, pubblicato nel 1941 a spese del Cineguf di Milano), e grafico molto spesso impiegato per i layout delle pubblicazioni del Guf; tra le donne nelle lettere emergono Anna Gobbi (figura di notevole interesse: assistente e co-sceneggiatrice di Luigi Veronesi, artista sperimentale autrice del film “surrealista” dal titolo Tre più due, poetessa per Libro e moschetto e, nel dopoguerra, costumista di pregio), Giulia Veronesi (che significa anche la galassia della rivista Corrente41: la pubblicazione di Note di cinema, ad esempio, coinvolge collaboratori di Corrente, come Attilio Giovannini) e soprattutto Marisa Vallini, terzo polo del triangolo privato Casiraghi-Viazzi-Vallini, nonché prima compagna di Glauco Viazzi e firma della pagina culturale di Libro e moschetto. La Vallini è una figura che si porta dietro anche gli echi di un mondo editoriale che in provincia alimenta la cultura d’avanguardia: francesista di formazione, laureanda in filosofia all’Università di Milano, è infatti collaboratrice della nascente casa editrice Rosa e Ballo42 per cui avrebbe tradotto Dostoevskij (con illustrazioni di Franco Rognoni),43 Apollinaire (con illustrazioni di Luigi Veronesi)44 e Cocteau45. Le ultime due imprese sono in particolare epigoni di una cultura francese (e francofila) che acquista grandissima importanza tra i giovani già nel periodo bellico.46 L’ambiente milanese e della provincia metropolitana47 è certamente l’ambiente giovanile che si stringe attorno alla redazione de Libro e moschetto, ma è soprattutto uno spazio irrorato da una circolazione di film che pulsava grazie al duo Comencini-Lattuada (Viazzi in qualche caso si riferisce ad alcuni spettacoli come “Serate Lattuada-Comencini”) e

naturalmente ai Cineguf, con i quali Viazzi può concordare addirittura proiezioni di “recupero” per il reduce Casiraghi, come leggiamo in questo passaggio del 25 giugno 1943: “Dunque qui io mi sono messo quasi d’accordo col Cineguf. Tu vedrai Crisi, Milione, Il traditore, Quarant’anni di cinema,48 Entr’acte, Ballet mécanique, Étoile de mer. Oltre alla Giovanna, che vedrai tutte le volte che vorrai”. Tra le carte di Casiraghi inoltre è possibile rintracciare le cartoline informative del Cineguf di Milano, negli anni di stesura delle lettere che qui pubblichiamo, inviate all’indirizzo milanese di casa Casiraghi, via Broggi 23: sono materiali effimeri di grande utilità che ci permettono di ricostruire come i film circolassero e in che modo fossero fruiti. Ad esempio, le serate retrospettive milanesi – che includevano quasi sempre film di epoca muta – venivano organizzate servendosi della collezione di film di Mario Ferrari, con la curatela di Luigi Comencini e Alberto Lattuada e soprattutto l’accompagnamento musicale (su disco) selezionato e preparato da Luigi Rognoni, anch’egli allievo di Antonio Banfi all’Università di Milano nonché futuro musicologo.49 Attraverso le lettere si ha l’occasione di tracciare le pratiche di proiezione e la circolazione dei film nella città di Milano – ed in particolare nell’ambiente del Guf – ma anche la varietà delle forme di “sopravvivenza” del film, che non viene semplicemente visto, ma tradotto, trascritto, raccontato, traslato, disseminato in fotogrammi: ne è prova un passaggio piuttosto eloquente del 21 aprile 1943, dalla voce di Viazzi: “…ho visto tre sequenze di Tutto il mondo ride. Innanzitutto, non sono affatto convinto che il titolo originale fosse L’allegro pastore: ho trovato anche Mania del Jazz. Poi, ho molto, moltissimo da dire sulle tre sequenze che ho visto e rivisto al Cineguf, e delle quali Anna Gobbi mi darà molti fotogrammi inediti (dopo Note di cinema, probabilmente il Cineguf pubblicherà un libriccino dal titolo Tre pezzi di montaggio, sceneggiatura, con molte foto): una sequenza dell’Albergo rosso di Epstein (mi son fatto raccontare Caduta della casa Usher: pazzesco!), una di Tutto il mondo ride, una di Tragedia della miniera”.

Lo stile di scrittura di questo paragrafo, quasi jazzistico, riflette la densità di discorsi dove i film sono onnipresenti, ma in forme assai varie, assai spesso più in forme di “detrito” che di testi completi. La cultura del film dei giovani milanesi – ma è un discorso che vale per un’intera generazione di giovani intellettuali – non è una cultura fondata sic et simpliciter sulla visione del film, al contrario è una cultura alimentata instancabilmente da discorsi sul film dove il film è presente e vivo – tenuto in vita! – in tutte le forme possibili: quando Viazzi scrive che Anna Gobbi gli darà molti fotogrammi inediti, sta parlando di una pratica diffusa, soprattutto tra giovani critici cinematografici, per cui tra le carte di Casiraghi può capitare di ritrovare una busta contenente, ad esempio, cinque pezzi di pellicola imbibita dal film Carmen di Jacques Feyder (1926).50 I film circolano letteralmente a pezzi (e non si tratta di foto di scena, ma di veri e propri fotogrammi su pellicola fotografica) e diventano l’emblema – e l’evocazione metonimica in senso letterale e figurato – di una fruizione molto spesso frammentaria e di una cultura critica che si alimenta certamente di colte serate cinematografiche, “col taccuino in mano”, ma anche di visioni più evocate e raccontate che non realmente vissute: “mi son fatto raccontare Caduta della casa Usher: pazzesco!” è una battuta più che eloquente. Nel dar spazio a questa dimensione di spettatorialità indiretta, le lettere di Casiraghi e Viazzi testimoniano una fame di cinema che va oltre i limiti materiali tragicamente imposti dal tempo di guerra, che spesso interrompeva bruscamente occasioni di fruizione cinematografica – sebbene, come si legge, le sale continuassero a proiettare tra un bombardamento e l’altro. Sopperire a una “mancata visione” ricorrendo a materiali effimeri o a racconti e informazioni riferite da terzi è allora una pratica che dalla contingenza diviene essenziale, rivelando un’ulteriore funzione della “comunità interpretativa” critico-cinefila,51 quella della condivisione di sapere tramite residui materiali e conoscenze “orali”. Al contempo, l’esperienza di questo “stato di scarsità” non manca di accrescere nei protagonisti una chiara coscienza

della parzialità dei mezzi e delle risorse a loro disposizione.52 Con poche, fortunose occasioni di vedere un film, ragionerà infatti Casiraghi, il critico corre costantemente il pericolo “di falsare a distanza, quasi ricreando; raccontando a qualcuno d’un film visto parecchio tempo prima, magari una sola volta, quasi di sfuggita, io mi eccito mi riscaldo, mischio particolari, caratteri ecc.: alla fine non è più ‘quel film’ che ne risulta, almeno nei particolari […] è un nuovo film”.53 Anche da questo rischio discende lo scrupolo filologico verso l’unitarietà del “testo” filmico54 e per l’attenzione per l’opera di recupero delle pellicole fuoriuscite dai circuiti di sala, come quella svolta da Ferrari, Lattuada e Comencini nel capoluogo lombardo: una consapevolezza che, in verità, segna tutta la generazione del Ventennio, e della quale Casiraghi e Viazzi si fanno forieri in diverse delle loro uscite pubbliche.55 Se l’ambiente milanese e della provincia è il primo spazio di elezione del dialogo tra i due corrispondenti, il centro (Roma) è il secondo spazio – più spesso evocato che non fisicamente abitato – di questo letterario. Quella tra centro e provincia è tuttavia una dialettica che non si traduce semplicemente in un “andare al centro”, bensì in forme di maturazione e sviluppo della modernità in provincia, dove si alimenta una diversità che si rifletteva anche nei temi dei fogli e delle testate provinciali dove si poteva investire con maggior elasticità su settori di ricerca non coperti dalle riviste “metropolitane”. Roma naturalmente c’è, così come il centro delle istituzioni: dalle lettere a Purificato di cui si riportano stralci trascritti, alle telefonate alla redazione di Cinema o Bianco e nero, fino a brevi reportage di missioni dei “settentrionali” al centro, come quella di Guido Guerrasio del 24 luglio 1941: “Guerrasio mi scrive ora, informandoci di esser stato a Roma e di avervi frequentato qualche ambiente cinematografico, forse anche la redazione di Cinema. Dice che nel prossimo numero uscirà un suo articolo”. Tra il centro e la periferia della cultura cinematografica si misura una tensione mai veramente risolta tra spinte centripete e spinte centrifughe nella cultura fascista,

cui si somma la crisi del regime in seno alla cultura giovanile nell’ultimo scorcio degli anni trenta e i primi anni quaranta. La seconda metà degli anni trenta vede lo stato fascista intervenire direttamente e massicciamente nel campo della cultura e dell’industria cinematografica, assecondando però due direttrici poco conciliabili se non apertamente contraddittorie: una centralista con “il patrocinio e il controllo cinematografico entro la giurisdizione di un solo ufficio”56 di cui la Direzione generale della cinematografia, in seno a Sottosegretariato e poi ministero della Stampa e Propaganda, è il simbolo consacrato nel settembre 1934;57 l’altra “diffusa”, irradiata, animata più dall’immagine di un corpo bulimico che tutto ingloba e fagocita, un totalitarismo dal carattere composito ed eterogeneo dove convivono “iniziativa privata e l’intervento statale, il corporativismo e il liberalismo, il nazionalismo e l’avanguardia, la programmazione americana e la pianificazione sovietica, la tolleranza l’irreggimentazione, il partito unico e il pluralismo, la cultura autonoma e l’arte di Stato e così via”.58 Una tale dialettica tra centro e periferie si aggrava con la crisi che investe soprattutto le frange giovanili alla fine degli anni trenta, quando una parte di loro accoglie con entusiasmo anche la svolta “razziale” dell’alleanza con la Germania – un riferimento anche per le tendenze culturali – un’altra parte invece comincia a interrogarsi sull’orientamento ideologico del fascismo e sul loro ruolo nel regime59. È una fase complessa e cruciale per la cultura italiana giovanile dove la “delusione non si tradusse in antifascismo, ma condusse a un processo di distacco o di estraniamento dalla politica che non fu né lineare né costante nella sua traiettoria psicologica e politica”:60 il rapporto tra la provincia “giovane” e il centro – sempre più lontano “spiritualmente” più che geograficamente – si porta dietro tutta la complessità di questa congiuntura. Vanno lette in questo senso le profondità e densità filosofiche e spirituali cui giunge a volte Glauco Viazzi, così come le contraddizioni spesso palesi tra prese di posizione

esplicitamente antisemite e difese di intellettuali ebrei vocati alla causa armena, come per lo scrittore Franz Werfel, autore de I quaranta giorni del Mussa Dagh (Die vierzig Tage des Musa Dagh, 1933), opera celebrativa dell’eroica resistenza armena nei mesi del genocidio. Se il romanzo di Franz Werfel riflette e rinsalda il senso del suo passato più prossimo (il romanzo passerà poi dalle mani di Viazzi a quelle di Casiraghi e Campassi, alimentando un confronto abbastanza ricco), Journal d’un curé de campagne (1936) di Georges Bernanos – letto in francese e discusso tra le lettere, abbozzando traduzioni estemporanee – rappresenta l’appassionata immersione nella crisi esistenziale in cui affonda l’irrequietezza intellettuale del giovane Viazzi, nonché l’inquieto cattolicesimo che affiora tra le righe. Il turbamento spirituale di Viazzi/Achrafian si innerva infatti nella sua cultura di espatriato armeno – dunque tecnicamente “non italiano” e non arruolabile nelle fila dell’esercito. La sua è una dimensione apolide che accentua i conflitti interiori, mette in discussione la sua identità sociale – e la sua solitudine (significativa, probabilmente, l’identificazione con il giovane curato del romanzo di Bernanos) –, porta in superficie nodi e tensioni legati a un cattolicesimo probabilmente più influenzato dalla frequentazione di Marisa Vallini (di cui si accenna alla cultura cattolica di famiglia), che non costruito personalmente e a una cultura e un orgoglio armeni molto forti, che attraversano come un fiume carsico le pagine di questo letterario e che possono spiegare,61 talvolta, un antisemitismo di maniera, sebben estremo e velenoso, probabilmente meno legato al diktat razzista di regime che alle radici etniche e a un cattolicesimo grezzo e giacobino.62 La dimensione apolide di Viazzi ci porta all’emersione di una terza spazialità fondamentale, oltre a quella della provincia e del centro. Lo spazio eccentrico del fronte – di cui è voce principalmente Casiraghi – si configura come uno spazio eterotopo, polifonico, apolide dove circolano letturature e racconti di film la cui varietà è segnata dalla geopolitica

complessa dell’ambiente del fronte e dai percorsi plurali dei soldati che lo attraversavano. È il caso, ad esempio di racconti di film visti all’estero ed entrati in circolo nei discorsi attraverso le lettere: lo dimostra proprio Casiraghi in questo passaggio del 28 agosto 1941: “Un mio compagno di qui ha voluto per forza prestarmi dei libri: m’ha dato Quattro Fanti di Ernst Johannsen, che ho trovato mediocre (siccome il libro è quasi celebre), e in Francia ha dato origine a un film tendenzioso Quatre de l’infanterie63 che un soldato di qui ha visto, assieme a Nulla di nuovo sul fronte occidentale, a La grande illusion, a La Marsigliese di Renoir etc. (ti accludo il mio giudizio, che ho schizzato per farlo leggere al responsabile di questa mia lettura)”. Lo spunto dei racconti è sufficiente a ispirare alla penna di Casiraghi una bozza di articolo (“ti accludo il mio giudizio”), persino su La Marsigliese, un film di ascendenza comunista assai difficilmente visibile in Italia. Su quest’ultimo film, poi, Viazzi in una lettera del 9 novembre 1942 si espone a ulteriori giudizi, palesando – apparentemente – una conoscenza profonda: “Renoir si contraddice. O almeno, La marsigliese e La grande illusione sono in contraddizione con I bassifondi”. Fermo restando l’improbabile circolazione di questi titoli in Italia, alla fine del 1942, questa raccolta di lettere evoca – attraverso la voce “nomade” di Ugo Casiraghi – la realtà complessa di un mondo in guerra, dove la migrazione tra frontiere lascia risuonare anche il viaggio tra culture diverse e conoscenze diverse, che si incontrano nel non-luogo del fronte e che accentuano, talvolta, un’esterofilia già molto spiccata nella cultura giovanile italiana.

Quale critica? Le lettere qui raccolte disegnano il percorso ondivago e frammentario di una formazione critica in divenire. Ugo Casiraghi e Glauco Viazzi pubblicano i loro primi articoli all’inizio di questi scambi epistolari. Seguiamo lo sviluppo delle loro tecniche analitiche, così come la definizione dei loro modelli: modelli perlopiù letterari. Li accomuna, infatti, nelle lettere “il tentativo di raggiungere anche in campo

cinematografico certi risultati e di adottare metodologie dell’estetica letteraria”.64 Alcuni di essi sono stati discussi esplicitamente dagli interessati: è il caso di Paul Valéry, a cui Viazzi dedica un articolo sulla rivista Cinema, intitolato “L’estetica di Paul Valéry come poetica cinematografica”. Valéry trova facile applicabilità in virtù di un fattore che Viazzi chiarisce immediatamente: “diremo che l’estetica di Valéry ci pare ampia di possibilità nei riguardi del cinema, dato che alla sua base si trova il concetto di costruzione, che pensiamo sia il migliore applicabile alla creazione del film”.65 In questa prospettiva il regista “non fa che rielaborare costruttivamente un materiale informe e caotico, artistico solo potenzialmente e non effettivamente”.66 Nel modello valéryiano si riflette, in verità, una teoria del cinema che discute e inquadra il tema della “costruzione” in varie forme: è già al centro della posizione di Umberto Barbaro, che insisterà sulla logica “collaborativa” attorno al momento della costruzione del film,67 ma è un tema discusso anche in una grammatica filmica di notevole successo tra i giovani: A Grammar of the Film di Raymond Spottiswoode (tradotto su Bianco e nero nel 1938), che Viazzi conosce e cita nella lettera del 20 giugno 1942. L’opzione valéryiana permette a Viazzi di prendere le distanze dalla posizione di Barbaro (e indirettamente dal collettivismo di Pudovkin), ribadendo la centralità dell’autore e della sua ispirazione. Tuttavia il tema costruttivo segna indubbiamente una generazione di giovani intellettuali, che approccia la teoria filmica senza obliterare la centralità della tecnica o le implicazioni del mezzo tecnologico: in questo l’ambiente dei Cineguf, che praticavano il cinema sperimentale oltre ad organizzare rassegne retrospettive, avrebbe favorito una “tendenza” alla teoria sensibilmente condizionata dalle necessità pragmatiche legate alla produzione cinematografica, seppur amatoriale o sperimentale.68 Sia detto questo indipendentemente dal fatto che non vi sia prova di attività cine-sperimentale per Casiraghi o Viazzi.69

Se da una parte il tema della costruzione è uno degli assi della teoria del film, dall’altra anche la pratica critica implica essa stessa un esercizio “costruttivo” – la critica, cioè, come esercizio di creazione letteraria, oltre che di analisi. Su questo aspetto, in particolare, si misura un confronto schietto su aderenza al testo e rischi di “eccessi costruttivi”, a partire da due modelli. Così Viazzi in una lunga lettera del settembre 1942: “Vuoi un modello? Te lo diedi già: Ruskin. Ne vuoi uno nuovo? Il Bontempelli dei Discorsi.70 La critica dev’essere non solo analitica, ma anche costruttiva”. L’accento caduto sull’ultimo aggettivo in questa battuta può essere fuorviante e indurre ad una lettura semplicistica delle implicazioni del tema della costruzione. A chiarirne l’esatta accezione sarà lo stesso Viazzi sulla rivista Spettacolo, nel gennaio 1943, dove scrive: “Oggi alla letteratura filmica necessita un Ruskin: un critico che cioè proceda all’indagine sia procedendo dai singoli ingredienti formativi […] che prendendo le mosse dal complesso del fatto artistico […] che costruisca per saggi; che creda nella missione del ‘critico come artista’”.71 A questi consigli Casiraghi ribatte, punto per punto, in una lettera fluviale inviata nel mese di ottobre: “Tu mi dai per modello Ruskin e Bontempelli: d’accordo, quella è la via: e SainteBeuve, non Janin: e De Sanctis, non D’Ovidio; ma bada bene che Ruskin, spesso, costruisce a vanvera, su se stesso non sul testo (soprattutto Mornings in Florence e, credo, anche The Stones of Venice); e che Bontempelli, per amore del nuovo, falsa tutto un personaggio e tutta un’opera – l’Aretino –, e del Verga, se dà alcuni osservazioni esatte (ma non sufficienti) sui Malavoglia, se la sbriga in un modo troppo impreciso e frettoloso con Mastro don Gesualdo: sì da dar l’impressione, dopo tutte le se prediche, ch’egli a sua volta non conosca l’opera!” La costruzione “a vanvera” diventa lo spunto per articolare una polemica sugli eccessi retorici del critico, che si allontana dall’aderenza al testo e dunque sacrifica per lo stile lo scrupolo filologico. La preoccupazione filologica è viva anche in Viazzi, come ha già sottolineato Cristina Bragaglia, tuttavia nel letterario emerge come argomento dirimente in una polemica attorno ad

un altro modello letterario: quello di Benedetto Croce. Per Viazzi lo spunto dell’adesione filologica al testo è funzionale ad un posizionamento anticrociano contro il “frammentismo filmico”,72 come emergerà in un articolo del febbraio 1943, a riprova dell’“inefficienza dell’estetica crociana”73 che lo spingono – in uno degli eccessi parossistici tipici del suo temperamento – a definire il filosofo “un meridionale venditore di cravatte: ‘venghino, signori!’” Casiraghi ha una posizione ben più sfumata sul filosofo napoletano, cui riconosce il merito di innovazioni critiche fondamentali, proprio sul piano del rigore filologico: “E non dire che nell’Ariosto di Croce, l’Ariosto non c’è: anche a me piacciono le esagerazioni […], ma… non esageriamo troppo: senza il saggio, la messa-a-punto, di Croce, non erano concepibili […] né il brillante e simpaticissimo libro di Raniòlo,74 né il sottile lavoro interpretativo di Attilio Momigliano (Saggio su L’Orlando Furioso, ed. Laterza) […] Sia il Croce che, poi, il Raniòlo e il Momigliano, hanno davvero, stavolta, dapprima corretto e, poi, integrato il capitolo desanctisiano della Storia della letteratura e, soprattutto, delle ‘lezioni’ sull’Ariosto”. Su Croce l’atteggiamento dei due critici è inconciliabile e in una lettera del 22 agosto 1942 Viazzi è lapidario: “Dal nostro punto di vista, un’estetica crociana per il cinema non si può ammettere. Come infatti cercare una coincidenza tra intuizione e creazione basata sul sentimento?” La mediazione tra momento intuitivo e costruzione dell’opera è ancora centrale e non può portare – per Viazzi – che al modello di Valéry.75 Altre volte i modelli letterari sono funzionali a fulminee intuizioni o ispirazioni, più che a vere e proprie risorse strutturali e metodologiche. È il caso di Carlo Bo, spesso apprezzato da entrambi: “La lettura del volume di Carlo Bo, Saggi di letteratura francese, m’à spinto a scrivere un articolo che voleva essere un breve saggio su Senza domani76, mentre invece alla fine mi sono accorto che ne era risultato un conclusivo giudizio sul cinema francese, al quale riconoscevo un valore di ‘messaggio umano’ ma non di ‘messaggio

poetico’. Per cui ho deciso di rileggerlo, dopo gli esami, e farne qualcosa di discreto. Il titolo è ‘I confini e la poesia’”.77 O ancora il libro di Massimo Bontempelli, Sette discorsi (Bompiani, Milano 1942), che vanterebbe più di un credito rispetto al modello strutturale del già ricordato volume Dodici testi, di Casiraghi e Viazzi. La scelta del titolo di questa raccolta di lettere – Il cervello di Carné – rende omaggio a una cultura francofila che trova ispirazione nella letteratura quanto nel cinema d’oltralpe, a cui i giovani aspiranti critici dedicano le parole e le pagine più appassionate. Il cervello è l’organo celebrato per la regolazione della costruzione filmica, quando per esempio leggiamo che “Carné si attiene ad un controllo continuo che è di cervello, e solo di cervello, in favore però al tentativo di umanizzare i personaggi”78 – eppure il cervello, per questi giovani critici, è anche la metafora della macchina razionale che costruisce il pensiero critico, la partitura letteraria e il senso delle parole nelle loro pagine: una costruzione a volte complessa e involuta, come è quella di intelligenze e culture in evoluzione che leggerete tra queste pagine. È quell’intelligenza che la riflessione di Casiraghi è capace di cogliere in un acuto esercizio autoriflessivo, cui lasciamo l’epilogo di questa introduzione: “Queste continue parentesi, e questa prosa saltellante ed equivoca, vi possono dare un’idea della varietà, della vastità e della prepotenza che assume in me la espressione dei pensieri quando molte cose ed esperienze son, nel cervello, costruite. In fondo, è solo su questi dubbi, incertezze, decisioni e lampi che si può basare una vera vita dell’uomo”.79

1 Il presente saggio introduttivo è stato concepito e completato dai due autori in regime di stretta collaborazione. In fase di prima stesura Simone Dotto ha elaborato i due paragrafi inaugurali (Un lungo sodalizio e Tra pubblico e privato. La lettera come luogo di costruzione della soggettività critica) mentre Andrea Mariani si è

concentrato su quelli conclusivi (Le infrastrutture culturali: spazi, geografie, ambienti e Quale critica?) 2 Dal 1939 in poi Casiraghi e Viazzi intervengono regolarmente nella rubrica con gli pseudonimi di Studente di Milano e Josephus Asiaticus. Cfr. Andrea Mariani Paolo Noto, Critica e potere nella cultura cinematografica italiana: processi e cicli di consolidamento, in Culture del film. La critica cinematografica e la società italiana, Bologna, Il Mulino, 2020, pp. 21-44; vedi anche Alfonso Venturini, Lettere a Nostromo. La corrispondenza con i lettori della rivista Cinema dal 1937 al 1943, in “L’Avventura”, 1, gennaio-giugno 2018, pp. 93-108. 3 Glauco Viazzi, Prefazione in Ugo Casiraghi, Umanità di Stroheim e altri saggi, Milano, Poligono, 1945, p. 6. 4 Ugo Casiraghi, Con lui imparammo a capire il cinema, in “L’Unità”, 12 marzo 1980, p. 3. 5 Secondo la ricostruzione compiuta da Pierfranco Bianchetti per il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani della Lombardia, Glauco Viazzi, l’armeno intellettuale enciclopedico, https://www.facebook.com/sncci.lombardia/posts/1780845588871438/ (ultima consultazione 08/03/2021). Si ringrazia Silvio Celli per la gentile segnalazione. 6 Viazzi conclude gli studi dai Padri Mechitaristi presso il Collegio armeno Moorat Raphael di Venezia per frequentare la facoltà di chimica industriale del Politecnico, mentre, da ex studente del Liceo classico “Alessandro Manzoni”, Casiraghi prosegue il proprio percorso umanistico frequentando Lettere e Filosofia all’Università Statale di Milano. 7 Vedi Luca La Rovere, Gli intellettuali italiani e il problema delle generazioni nella transizione al postfascismo, in “Laboratoire Italien”, 12, novembre 2012, pp. 97-110. 8 Il settimanale del fascismo milanese “Il Popolo di Lombardia”, poi ribattezzato “Il Fascio”, alla cui pagina cinematografica Viazzi e Casiraghi si alternano proprio negli anni della corrispondenza. 9 Vedi Elena Banfi, Attività del Cine-guf Milano, in “Comunicazioni Sociali”, 4, dicembre-luglio 1988, pp. 305-330. 10 Sul ricordo di Giolli e del suo ruolo per le iniziative editoriali citate, Viazzi tornerà più volte. Nell’introduzione del volume da lui curato (René Clair, Milano, Il Poligono, 1945, p. 12) e, molti anni dopo, a proposito del direttore editoriale Silvio Tanziani: Poligono editrice e ripresa mancata del “Politecnico”, in “Belfagor”, 3, marzo 1978, pp. 211-214. 11 La tesi, conservata nello stesso Fondo Casiraghi-Verzegnassi da cui sono state tratte le lettere trascritte in questo volume, ha trovato pubblicazione di recente su questi tipi grazie al lavoro di curatela di Silvio Celli. Come ricorda Gian Piero Brunetta nella postfazione al volume, quella di Casiraghi è la quarta tesi sul cinema mai discussa in Italia dopo quelle conseguite da Francesco Pasinetti nel 1933 e da Antonio Covi nel 1940 alla facoltà di Storia dell’Arte di Padova e da Guido Guerrasio nel 1946, alla stessa Facoltà di Lettere e Filosofia di Milano (Postfazione. Paesaggio cinematografico con figure all’alba di una nuova era in Ugo Casiraghi,

Il realismo nell’arte cinematografica, a cura di Silvio Celli, Milano, La nave di Teseo, 2019, p. 128). 12 Oltre alla già citata “Cinetempo” di Guido Guerrasio, si pensi a “Cinema Nuovo” fondata da Guido Aristarco dopo l’estromissione da “Cinema” e a “La critica cinematografica” di Dario Marchi. 13 Secondo il ricordo di Casiraghi, il suo tesseramento al partito dal 1946 fu incoraggiato dallo stesso Viazzi (“Con lui imparammo a capire il Cinema”, cit.). 14 Gian Piero Brunetta, Il cinema neorealista italiano. Storia economica, politica e culturale, Bari, Laterza, 2009, p. 136. 15 “L’Unità” del quale Casiraghi diverrà “critico ufficiale” ospita i più sporadici interventi di Viazzi solo nella sua edizione lombarda. Di contro, dal 1957 in avanti, quest’ultimo prenderà il posto di Luigi Chiarini in “Il contemporaneo”. 16 Quella organizzata nel 1946 al Cinema Anteo di Milano insieme a Rossana Rossanda diverrà l’occasione per un’accusa contro la critica “borghese” dei quotidiani, lanciata da “Nuovo cinema”, temporanea reincarnazione milanese dello storico quindicinale a cura di Casiraghi, Viazzi e Guerrasio (Critici e buoi dei paesi tuoi, 2-3, maggio giugno 1946, poi ripubblicata in Il cinema del Calendario del Popolo, a cura di Lorenzo Pellizzari, Gorizia, Sandro Teti Editore, 2018, p. 78). 17 Renzo Renzi, Un mito. Epifania e Quaresima, in “Cinema Nuovo”, 159, 15 aprile 1958, p. 235. L’articolo risponde all’intervento di Glauco Viazzi nella serie “Sciolti dal giuramento”, pubblicato dal n. 125 della stessa rivista il 15 febbraio 1958 (pp. 117-119). Gli interventi verranno raccolti da Guido Aristarco nel volume Sciolti dal giuramento. Il dibattito critico-ideologico sul cinema negli anni Cinquanta, Bari, Dedalo, 1981. 18 Si vedano, oltre alla raccolta di scritti di Renzi Da Starace ad Antonioni. Diario critico di un ex balilla, Venezia, Marsilio, 1964: Carlo Lizzani, De Santis e il gruppo cinema, in Il neorealismo nel fascismo. Giuseppe De Santis e la critica cinematografica 1941-1943, a cura di Marcella Furnaro - Renzo Renzi, Bologna, Edizioni della Tipografia 1984; Massimo Mida, Cinema e antifascismo: testimonianza su una genesi, in Dai telefoni bianchi al neorealismo, a cura di Massimo Mida Puccini - Lorenzo Quaglietti, Roma-Bari, Laterza, 1980; Mario Verdone, Per una storia dei Teatriguf e dei Cineguf, in “Carte di Cinema”, 11, 2003, pp. 43-46. 19 Glauco Viazzi cit. in Gian Piero Brunetta, La critica e il cinema negli anni ’40, in Il neorealismo nel fascismo. Giuseppe De Santis e la critica cinematografica 1941-1943, op. cit., p. 40. 20 Ivi, p. 43. Negli stessi anni un invito simile viene, nel settore della critica letteraria, da Giancarlo Vigorelli, “Invito per l’epistolario di Viazzi”, in Nuova rivista europea, 25-26, 1981, pp. 162-165. 21 Più precisamente: i fondi relativi all’eredità di Corrado Terzi e Walter Ronchi sono preservati rispettivamente presso le strutture di Cesena Cultura e la biblioteca “Aurelio Saffi” di Forlì, mentre le carte personali di Di Giammatteo sono state donate dalla moglie del titolare e storica della critica Cristina Bragaglia alla biblioteca di Scienze Umanistiche dell’Università di Bologna. Il fondo di Mario Verdone appartiene al patrimonio archivistico della biblioteca “Luigi Chiarini” del

Centro Sperimentale di Cinematografia; presso la biblioteca “Renzo Renzi” di Bologna si preservano i fondi personali di Renzi medesimo, accanto a quelli di Massimo Mida. Le carte appartenute a Guido Aristarco e Mino Doletti sono divise in due sezioni, distribuite rispettivamente fra CSC e la biblioteca “Renzo Renzi” per il primo, e tra la stessa istituzione bolognese e la biblioteca teatrale SIAE di Roma. 22 Si veda: Gabriele Rigola, I fondi archivistici personali, la corrispondenza e la ricerca sul cinema. Il caso del carteggio tra Elio Petri e Leonardo Sciascia, in Scrivere la storia, costruire l’archivio, a cura di Diego Cavallotti, Andrea Mariani, Denis Lotti, Milano, Meltemi, 2021, pp. 53-65. 23 Rimandiamo a titolo d’esempio alle raccolte che hanno preceduto la nostra: “Caro Duccio, dal tuo Jusik.” Lettere sul cinema e altro di Glauco Viazzi a Corrado Terzi, a cura di Lorenzo Pellizzari, Cesena, Il ponte vecchio, 2004; Francesco Pasinetti - Pier Maria Pasinetti, “Attraversiamo un momento nel quale scrivere non è facile”. Lettere scelte 1940-42, a cura di Nicola Scarpelli, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari 2017; per un profilo analitico sulla produzione epistolare dei singoli autori si vedano: Paolo Noto, Quale “mestiere del critico”? Un’intrusione nella corrispondenza di Guido Aristarco, in “Cinergie. Il Cinema e le altre arti”, 15, luglio 2019, pp. 56-67; Mario Verdone. Futurismo, Film Culture, Radio, Archivio, Istituzioni, Media Literacy, a cura di Andrea Mariani - Simone Venturini, in “Bianco e nero”, 588-589, ottobre 2017. 24 Ci rifacciamo qui alle ipotesi avanzate da Michele Guerra e Sara Martin in “La cultura della lettera. La corrispondenza come forma e pratica di critica cinematografica” (numero monografico di “Cinergie. Il cinema e le altre arti”, 15, luglio 2019) e alle premesse del progetto di ricerca PRIN 2017 “Per una storia privata della critica cinematografica italiana. Ruoli pubblici e relazioni private: l’istituzionalizzazione della critica cinematografica in Italia tra anni Trenta e Settanta” condotto dalle Università di Parma, Bologna e Udine. 25 Sulla ridefinizione della sfera personale attraverso i documenti d’archivio si vedano: Giulia Barrera, Gli archivi di persone, Storia d’Italia nel secolo ventesimo. Strumenti e fonti III: Le fonti documentarie, a cura di Claudio Pavone, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, Dipartimento per i beni archivistici e librari - Direzione generale per gli archivi, 2006, pp. 617-657; Ersilia Alessandrone Perona, Gli archivi personali come fonte della storia contemporanea, in “Contemporanea”, 2, ottobre 1999, pp. 325-330. 26 Armando Petrucci, Scrivere lettere. Una storia plurimillenaria, Editori Laterza, Bari 2009, pp. 147-148; 171. 27 Lettera di Ugo Casiraghi, Bari 27 giugno 1942. 28 Loris Rizzi, Lo sguardo del potere. La censura militare in Italia nella seconda guerra mondiale 1940-45, Milano, Rizzoli, 1984, p. 16; si veda anche Elena Cortesi, “La verità è verità e non si cancella”. Gli italiani e la censura postale, 1940-43, in “Contemporanea”, 1, gennaio 2002, pp. 117-129. 29 Lettera di Glauco Viazzi, Milano, 10 novembre 1942. 30 Armando Petrucci, Scrivere lettere, op. cit., pp. 160-161. 31 Lettera di Glauco Viazzi, Milano, 25 febbraio 1943.

32 Il Fondo Casiraghi-Verzegnassi ne conserva quattro fra i ritagli degli articoli giovanili: Lettera dopo l’escursione (n.d.); Lettera dalla frontiera (3 gennaio 1942); Senso di un’esperienza (28 febbraio 1942); Lettera dalla frontiera (20 marzo 1943). 33 Lungo la corrispondenza il volume conosce diverse evoluzioni e altrettante denominazioni (12 testi rari; 12 testi: fulgurazioni; 12 testi. Saggi di estetica del cinema; 12 testi. Saggi di storia ed estetica del cinema; 12 testi: dodici film indimenticabili; 12 testi. Contributi alla storia del cinema). La destinazione editoriale più concreta pare essere quella della collana di studi di Bianco e nero, vagliata anche dalla disponibilità di Luigi Chiarini a firmarne la prefazione, a patto però che tutti i saggi fossero preventivamente pubblicati sulla rivista del CSC. Vengono tuttavia considerati anche altri editori, da Einaudi a Vallecchi e Le Edizioni di Italia. In quello che resta forse il suo prospetto più avanzato, formulato da Casiraghi nel dicembre 1942, il libro avrebbe dovuto comprendere: “1. ‘Il Vampiro’ 2. ‘Notti Bianche di San Pietroburgo’ 3. ‘Alba Tragica’ 4. ‘Permesso su parola d’onore’ [Sei ore di permesso] 5. ‘Il traditore’ 6. ‘Delitto e Castigo’ 7. ‘Mademoiselle Docteur’ 8. ‘Il milione’ 9. … 10. … 11. ‘Un carnet di ballo’ 12. ‘Uomini sul fondo’”. Già da questa bozza di struttura emerge la tendenza a “canonizzare” una serie di pellicole da poco uscite di circolazione o rappresentative di nuove tendenze realiste (Uomini sul Fondo di De Robertis, più volte preso a modello di un cinema realista “schiettamente italiano” e associato alla produzione documentaria coeva), con una significativa attenzione a coprire diverse cinematografie nazionali, dalla nuova commedia sovietica al film “nordico”, passando inevitabilmente per gli autori francesi. Malgrado l’opera sia destinata a rimanere inedita, è plausibile che venisse proprio da qui la struttura che articolerà Umanità di Stroheim e altri saggi, preparato da Viazzi per conto di un Casiraghi ancora prigioniero in Germania, attingendo peraltro ai suoi articoli già pubblicati su “Bianco e nero” e “Cinema”. 34 Andrea Mariani - Paolo Noto, Critica e potere nella cultura cinematografica italiana, op. cit., p. 27. 35 Giovanni Tassani - Fabrizio Pompei - Umberto Dante, Una generazione in fermento. Arte e vita a fine ventennio, Roma, Palombi editore, 2010, pp. 129-134. Anche in Andrea Mariani - Paolo Noto, Critica e potere nella cultura cinematografica italiana, op. cit., p. 27. 36 Ivi, pp. 148-154. 37 Capo di Buona Speranza – Risposta a Corrado Terzi, in “Cinema”, 80, 25 ottobre 1939, p. 265. 38 Busta 77: Lettere del primo anno albanese. Giugno ’42-43, Fondo CasiraghiVerzegnassi, Biblioteca Statale Isontina di Gorizia. 39 Accade nella lettera di Bandini a Casiraghi, spedita da Torino il 1° settembre del 1942 e trascritta a Viazzi da Tirana il 12 dello stesso mese. Parlando di Uomini sul fondo e di “Presentazione postuma di un classico” (“Bianco e nero”, 4, aprile 1942, pp. 32-49) il torinese riconosce al lavoro dei due colleghi una valenza di manifesto per la nuova critica: “Voi due avete fatto l’articolo, ma dietro a voi avete trascinati e ‘rappresentati’ inconsapevolmente tutti quelli tra noi che talvolta si arrabbiano, imprecano nel silenzio e s’arrovellano per il cinema, per il nostro cinema perbacco!”

40 Lettera di Ugo Casiraghi a Glauco Viazzi del 24 luglio 1941. 41 Elena Mosconi, Corrente e il cinema, in Estetica e cinema a Milano. Atti del convegno, a cura di Elena Dagrada - Raffaele De Berti - Gabriele Scaramuzza, Milano CUEM, 2006, pp. 87-101. 42 Marco Fumagalli, Il progetto culturale della casa editrice Rosa e Ballo, Tesi di laurea discussa presso l’Università degli Studi di Milano, rel. Prof. Alberto Cadioli, a.a. 2005-2006. 43 Fëdor Michajlovicˇ Dostoevskij, Il borghese, trad. Marisa Vallini, Milano, Rosa e Ballo, 1945. 44 Guillaume Apollinaire, Re Luna, trad. it. di Marisa Vallini, Rosa e Ballo, Milano 1946. 45 J. Cocteau, I parenti terribili, trad. it. di Marisa Vallini, Rosa e Ballo, Milano 1947. 46 Questo è soprattutto vero per Ugo Casiraghi e Glauco Viazzi che, in occasione della pubblicazione del doppio volume Dieci anni di cinema francese di Osvaldo Campassi, nel 1948, hanno redatto una bibliografia italiana sul cinema francese (con qualche sparuta concessione ad articoli stranieri), interamente fondata su un censimento di quasi trecento articoli pubblicati in Italia nel decennio precedente e dedicati al cinema francese: Osvaldo Campassi, Dieci anni di cinema francese, 2 voll., Milano, Il Poligono, 1948. 47 Per una ricostruzione più approfondita dell’ambiente milanese degli anni trenta si rimanda almeno al numero curato da Francesco Casetti - Raffaele De Berti, Il cinema a Milano tra le due guerre, “Comunicazioni sociali”, III. 3-4, lugliodicembre 1988 (poi parzialmente in: Un secolo di cinema a Milano, a cura di Raffaele De Berti, Milano, Il Castoro, 1996); e Estetica e cinema a Milano. Atti del convegno, cit. 48 Si tratta con tutta probabilità di un assemblaggio di spezzoni di cinema muto curato da esponenti del Cineguf in occasione delle celebrazioni romane del quarantennale del cinema nel 1935: Elena Mosconi, L’impressione del film: contributi per una storia culturale del cinema 1895-1945, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 209-225. 49 Busta 36: Corrispondenza tra Casiraghi ed altri – Schede di presentazione film (anno 1939-1940-1941), Fondo Casiraghi-Verzegnassi, Biblioteca Statale Isontina di Gorizia. Si veda su Rognoni: Elena Dagrada, La poetica dell’autore. Luigi Rognoni e il cinema, in Estetica e cinema a Milano, op. cit., pp. 43-56; l’importante lavoro di Rognoni come curatore dell’accompagnamento musicale delle retrospettive di cinema muto al Cineguf andrebbe rivalutato anche in relazione alla sua pubblicazione Cinema muto dalle origini al 1930, Roma, Edizioni di Bianco e nero, 1951. 50 Busta 80, Fondo Casiraghi-Verzegnassi, Biblioteca Statale Isontina di Gorizia. 51 Andrea Mariani - Paolo Noto, Critica e potere nella cultura cinematografica italiana, op. cit., p. 25; si fa riferimento in particolare a Barbie Zielizer, Journalists as Interpretative Communities, in “Critical Studies in Mass Communication”, 3, 1993, p. 224. Op.

52 Rimando al capitolo Il cinefilo, il fotogramma e la storia del cinema, in Mariapia Comand - Andrea Mariani, Effemeridi del film. Episodi di storia materiale del cinema italiano, Milano, Meltemi 2021, pp. 123-137. 53 Lettera di Ugo Casiraghi, 5 novembre 1942. 54 Sulla tensione filologica nella produzione di Viazzi si rimanda all’importante lavoro di approfondimento condotto da Cristina Bragaglia (Presentazione, in Glauco Viazzi, Scritti di cinema 1940-1958, a cura di Cristina Bragaglia, Milano, Longanesi 1979, pp. V-XXXI). 55 Rappresentativo in questo l’articolo Il problema dei testi rari (in “Libro e moschetto”, 17 luglio 1943, p. 3), dove Casiraghi riporta molte delle considerazioni già espresse nel letterario sulla faticosa reperibilità delle pellicole uscite dalle sale e sulla frammentaria opera di “ricostruzione” cui è costretto il critico. 56 Ruth Ben Ghiat, La cultura fascista, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 120. 57 È la linea cui possono ascriversi la centralizzazione della fondazione del Centro sperimentale di cinematografica, Cinecittà, ma anche la rivista “Bianco e nero” come organo nazionale e istituzionale della cultura cinematografica in seno al regime: Francesco Pitassio - Simone Venturini, Building the Institution. Luigi Chiarini and Italian Film Culture in the 1930s, in The Emergence of Film Culture, a cura di Malte Hagener, New York-Oxford, Berghahn, 2014, pp. 249-267. 58 Vito Zagarrio, Cinema e fascismo. Film, modelli, immaginari, Marsilio, Venezia 2004, p. 42. 59 Ruth Ben Ghiat, La cultura fascista, op. cit., p. 206. 60 Ivi, p. 207. 61 L’ipotesi ci viene suggerita da Nubar Achrafian, figlio di Jusik: conversazione telefonica con Andrea Mariani, 8 gennaio 2021. 62 Marisa Vallini firma una critica a sfondo razzista sul volume – già in parte fondato su presupposti misogini e antisemiti – di Otto Weininger (filosofo di origine ebraica e poi convertito al cattolicesimo), Sesso e carattere, ristampato nel 1943 da F.lli Bocca con introduzione e traduzione di Giulio Fenoglio: Marisa Vallini, Otto Weininger e l’ebraismo, “Libro e moschetto”, 15 maggio 1943, p. 4. Glauco Viazzi ne anticipa i temi e gli argomenti a Casiraghi in una lettera del settembre 1942 (lasciandoci così intendere una probabile partecipazione all’articolo successivo della Vallini). Nello stesso scambio epistolare Casiraghi di dimostra distaccato ed evasivo (e sul tema razziale si espone generalmente poco), tanto che su questo punto rischia di incrinare l’amicizia con Viazzi, il quale lo mette in guardia esplicitamente: “Ora io ti concedo al massimo di dichiararti ignorante riguardo al problema ebraico ma ti rendo noto che se per caso tu dovessi propendere dall’altra parte, io proprio non saprei come risolvere l’incrinatura che aprirebbe un abisso tra noi”. 63 Il titolo francese di Westfront di Pabst. (N.d.C.) 64 Cristina Bragaglia, Presentazione, op. cit., p. VII. 65 Glauco Viazzi, L’estetica di Paul Valéry come poetica cinematografica, in “Cinema”, 169, luglio 1943, p. 8. Enfasi originale. Su questo punto si veda anche

Cristina Bragaglia, Presentazione, op. cit., p. VIII. 66 Ibidem. 67 Gian Piero Brunetta, Umberto Barbaro e l’idea di neorealismo (1930-1943), Padova, Liviana, 1969, p. 63. 68 Cfr. il recente Antonio Simon Mossa, Prassi e cinema - Praxis und Kino, ed. critica di Andrea Mariani, Roma, Edizioni di Bianco e nero-Rubettino, 2020. 69 In diversi momenti del letterario quest’ultimo si dice impegnato nella scrittura del soggetto di un documentario scientifico, Vita dell’energia elettrica, prodotto dall’Istituto Luce e diretto da Giovanni Paolucci, sul quale però non si sono trovati riscontri. 70 Massimo Bontempelli, Sette discorsi: Pirandello, Leopardi, D’Annunzio, Verga, L’Aretino, Scarlatti, Verdi, Milano, Bompiani, 1942. 71 Glauco Viazzi, Poetica e critica, in “Spettacolo”, 2, gennaio 1943, poi in G. Viazzi, Scritti di cinema 1940-1958, op. cit., p. 35. 72 In palese contraddizione con l’evidenza di una pratica culturale che faceva del frammento e del fotogramma l’elemento determinate per la “sopravvivenza” se non proprio per l’“esistenza” stessa del film nel campo discorsivo dei giovani intellettuali. 73 Glauco Viazzi, Poesia e poeticità delle immagini, in “Pattuglia-Invito alle immagini”, 3-4, gennaio-febbraio 1943, p. 6. 74 Giuseppe Raniòlo, Lo spirito e l’arte dell’Orlando Furioso, Mondadori, Milano 1929. 75 Cristina Bragaglia, Presentazione, op. cit., p. VIII. 76 Senza domani (1921) diretto da Arnaldo Fratelli. 77 Il passaggio è tratto da una lettera di Viazzi del 20 giugno 1942. I confini e la poesia rimarrà inedito fino alla pubblicazione nella raccolta curata da Cristina Bragaglia: G. Viazzi, Scritti di cinema 1940-1958, op. cit., pp. 41-48. 78 Lettera di Ugo Casiraghi, Tirana, 14 settembre 1942. 79 Lettera di Ugo Casiraghi, Bari, 27 giugno 1942.

Nota dei curatori Le lettere raccolte in questo volume rappresentano una selezione delle carte appartenute a Ugo Casiraghi preservata nel Fondo Casiraghi-Verzegnassi, donato nell’aprile 2009 da Margherita Verzegnassi alla Biblioteca Statale Isontina di Gorizia e attualmente preservato tra la Mediateca Provinciale “Ugo Casiraghi” di Gorizia e la stessa biblioteca, secondo gli accordi intercorsi tra l’erede, l’istituzione bibliotecaria e l’Associazione Palazzo del Cinema-Hiša Filma. Rispetto all’arco cronologico coperto dal fondo – 1927-2004 – e alle 144 buste inventariate, si è provveduto al regesto, alla selezione e alla trascrizione degli scritti epistolari indirizzati a o ricevuti da Jusik Achrafian (Glauco Viazzi) tra il 1940 e il 1943, contenuti nelle buste nn. 25, 38, 41, 42, 43, 44, 45, 92. Nella selezione qui presentata si sono privilegiate le missive di carattere eminentemente cinematografico o culturale, scegliendo di tralasciare invece gli scritti a carattere più squisitamente personale. La disposizione delle lettere nel volume segue un criterio cronologico: gli scritti con datazione incompleta o assente sono stati ordinati secondo i richiami contenuti dal testo alle missive precedenti o, laddove segnalato, in base al luogo di spedizione. La trascrizione dei testi, a opera dei curatori, ha mantenuto le formulazioni dei titoli di film, saggi, opere artistiche e letterarie così come adottate degli scriventi, riservandosi di specificare in nota la dicitura riconosciuta in lingua originale (ove il titolo è riportato in italiano), in italiano (ove il titolo è riportato in lingua originale) o ufficiale (ove il titolo rappresenti una deviazione o, come spesso accade, una traduzione letterale da quello lingua originale). Le traslitterazioni di nomi propri di lingua straniera sono invece state uniformate alla forma attualmente riconosciuta per semplicità di lettura. Il nome “Shanghai” è al centro di una discussione sulla corretta forma ortografica: si è deciso in

questo caso, per chiarezza, di mantenere anche le forme erronee battute dai due scriventi. Per ragioni di uniformità redazionale, le differenti forme di enfasi conferite dagli autori ad alcuni passaggi del testo (sottolineature, stampatelli ecc.) sono state portate al corsivo; il luogo e la data di spedizione sono stati riportati sempre in apertura. Tutti i titoli di opere sono stati riportati al corsivo eccetto quelli dei saggi critici comparsi in rivista, in virgolettato. Nelle note a piè pagina – da imputare esclusivamente ai curatori – è stato seguito un criterio diverso: qui il corsivo è stato adottato per titoli di opere filmiche e letterarie nonché i saggi critici in rivista, viceversa i titoli di rivista sono stati virgolettati. Le note autografe, invece, sono state uniformate in chiusura dei testi delle singole lettere. Le parole o le frasi che non è stato possibile trascrivere sono segnalate con la dicitura “[illeggibile]”. Altre e più specifiche forme di intervento o integrazione da parte dei curatori sono state segnalate tra parentesi quadra. Il lavoro di regesto, spoglio, selezione e trascrizione delle lettere si è svolto tra l’aprile 2019 e l’aprile 2020 nell’ambito del progetto di ricerca “L’archivio Casiraghi. La critica cinematografica fra Fascismo e repubblica”, cofinanziato dal Dipartimento di Studi Umanistici e del Patrimonio Culturale dell’Università di Udine e dalla Regione autonoma Friuli Venezia Giulia. Il volume che ne risulta ha contato sul sostegno dell’Associazione Palazzo del Cinema-Hiša Filma, dell’organizzazione del Festival cinematografico “Sergio Amidei”, dell’Università degli Studi di Parma e del Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale PRIN 2017 “Per una storia privata della critica cinematografica italiana” condotto dall’Università degli Studi di Parma, dall’Università di Bologna e dall’Università degli Studi di Udine. I curatori ringraziano sentitamente Margherita Verzegnassi e Nubar Achrafian per aver generosamente acconsentito e

accompagnato il progetto; Chiara Canesin, Silvio Celli e l’intero personale della Mediateca Casiraghi, Antonella Gallarotti, Marco Menato e Martina Stekar della Biblioteca Statale Isontina per l’impagabile aiuto in fase di spoglio dei materiali; Giuseppe Longo, l’Associazione Palazzo del Cinema, Sara Martin e Michele Guerra dell’Università degli Studi di Parma per aver entusiasticamente sostenuto la pubblicazione; Cristina Bragaglia per il prezioso confronto offerto ancora in fase di ricerca, per il grande aiuto in fase di redazione ultima del testo nonché per la postfazione conclusiva e Paolo Mereghetti per aver voluto introdurre il volume con le sue parole.

Letterario 1941-1943

Almese, 5 giugno [19]41– XIX Caro Jusik, rispondo un pochino più diffusamente alla tua cartolina postale. Mi secca terribilmente di non aver ricevuto quelle due lettere; e se lo scritto di Chiarini era diretto a me, mi dispiace di averlo perduto. Ad ogni modo mi puoi ripetere con precisione quello che diceva? Chissà quali saranno state le impressioni tue su “Motivi di rinascita”?80 Io non sono d’accordo su alcuni tagli fatti da Puccini, e su alcune frasi che, qua e là, egli ha voluto inserire: come quella su Piccolo Mondo Antico, dove sarebbe stato più opportuno lasciare l’accenno su Paolella. Ma nel complesso sono stato contento; anche dell’accenno fatto in principio. A giudizio di Campassi, e anche mio, l’articolo è più che altro un insieme di notevoli osservazioni particolari e difetta di coerenza e di stile unitario: si vedono le due mani. Campassi dice che certe cose sono più accennate che approfondite, ma che ad ogni modo gli sono piaciuto perché sono nuove e originali e giuste. Osvaldo Campassi ha 27 anni: è, fra le persone che conosco, quella che ha le idee più chiare sul cinema come espressione d’arte. È ragioniere. Sabel è anche lui ragioniere, ha gli occhiali, è più che altro uno sperimentatore pratico. Realizza da sei-sette anni in formato ridotto. Ha 22 anni. Ho letto anch’io qualche loro articolo sul Lambello:81 in particolare quello di Sabel sulla protagonista di Promessi Sposi, e quello di Campassi su Capra, Clair e il danaro. Ma guarda che anche tu hai scoperto quegli scritti: ma a furia di scrivere appunti sul Vampiro82 (o per il Vampiro) sei proprio diventato uno

stregone! Ti parlerò con più calma dei due ragionieri “anziani”: specialmente Campassi mi piace, è un grande intenditore. A proposito di problemi generali e particolari (giudizio su film: Postmeister, Fiamme in Oriente,83 ecc.) ho trovato affinità spaventevoli fra lui e me: identità assoluta di vedute su cose e su opinioni dove non avrei mai creduto di scoprire qualcuno consenziente, e in modo così preciso. Leggo sempre, quando mi giungono, i pezzi tuoi su Moschetto e sul Popolo di Lombardia: era certamente tuo anche un brano sul cinema nostro firmato “X”. La critica al film di Forzano dev’essere decisiva. Chissà quante cose mi avrai pure comunicato a proposito del Vampiro! Una cosa mi ha fatto veramente dispiacere nella tua cartolina: l’affermazione che il saggio sul (o per il) Vampiro sarà il tuo canto del cigno. Pensaci un po’, e guarda se sulla copiosissima lettera che aspetto da te fra qualche giorno puoi darmi una smentita, o temperare un pochino la crudezza di quella frase. Ne sarei contento, per te, per me, e soprattutto per il Cinema. Bianco e nero di aprile è uscito? Che cosa aveva? Avrai notato con piacere nell’ultimo Cinema un articolo di Rosario Assunto, e guarda un po’ che proprio un giorno prima della mia partenza si parlava della scarsità degli articoli di Campassi ed ecco un bel pezzo proprio dietro al nostro. Tutto il mondo ride, diretto da Aleksandrov, manca di coerenza stilistica, è a volte puerile, si distingue per ottimismo, speranza qua e là, è nel complesso nettamente inferiore a Notti Bianche di San Pietroburgo. La Kermesse eroica di Feyder, rivisto a distanza d’anni, m’è parso molto meno essenziale, se pur notevolissimo come ambientazione e come recitazione di alcuni interpreti (Jouvet nella parte del frate). Ed ecco qualche mia notizia. Spero di tornare a Milano per il 15-16, non si può sapere nulla di preciso sui miei doveri nei mesi intercorrenti tra la fine del corso e l’inizio della scuola ufficiali (1 settembre – fino al 30 novembre). A giorni sosterrò gli esami da sergente: non mi pare che siano molto difficili. Qui al campo mi trovo bene: bellissimo posto, istruzione non faticosa, poi solo dieci giorni alla fine.

Tanti saluti affettuosi e mi raccomando l’assicurata, se puoi! Tuo Ugo (v. retro) P.S.

Ricevo proprio in questo momento una lettera di Campassi e quindi aggiungo qualcosa. Campassi mi parla di Tutto il mondo ride e della Kermesse eroica:84 manco a dirlo, ha in proposito idee perfettamente analoghe alle mie. Ma l’importante è questo: egli m’invia gentilmente un vecchio numero dell’Illustrazione del Popolo, con un paginone tutto dedicato al Vampiro o, meglio, alla Strana avventura di David Gray.85 Penso che t’interesserà vederlo: e credendo anche con questo di conservare meglio il giornale, che nello zaino andrebbe certo rovinato, te lo rispedisco subito, nella speranza che non vada perduto. In questi giorni serve più a te che a me: credo che potrai cavarne delle osservazioni, in ogni modo. Di nuovo Tuo affettuoso Ugo

Almese, 10 giugno 1941 – XIX No, questa volta, se Dio vuole, la tua lettera l’ho ricevuta; ma naturalmente non poteva andare completamente bene, perché il giornale, quella pagina col Vampiro a cui tenevo tanto e chissà quanta fatica sarà costata a Campassi, è, per quanto tristemente mi rammarichi, andato perduto. E ne avevo un presentimento, purtroppo! La tua lettera è stata molto diffusa: ti ringrazio. Anche ti ringrazio dell’aiuto finanziario: posso dire che sei stato tu a salvarmi: ero completamente agli estremi… Però per quanto la tua lettera sia stata diffusa, restano sempre per me misteri da specificare, da svelare: la lettera di Chiarini era indirizzata a me, e come mai è giunta nelle tue mani? Ma ne parleremo insieme, fra qualche giorno. Avremo tante cose di cui parlare assieme! Poco tempo a disposizione, però. Alcuni tuoi appunti sul Vampiro sono eccellenti e meritano lunga discussione ed esemplificazioni. Ai pittori si potrebbe aggiungere qualcosa di Turner, credi? Ma vedremo, vedremo – Bene per l’articolo rimandato da Chiarini. Leggo oggi il tuo pezzo su Ohm Kruger86 de Il Popolo di Lombardia. Colgo qui l’occasione per ringraziarti nuovamente di quanto hai fatto in questi mesi per sostituirmi nelle mie funzioni. Solo la serie dei pezzi da te scritti per Il Popolo di Lombardia basterebbe a dimostrare ampiamente la fallacia piena della tua osservazione riguardo a un tuo presunto “dilettantismo”.

Ho inviato a Calvi alcune mie impressioni sulla vita militare e il cinema: una specie di traccia d’un articolo molto ampio che avrei intenzione di scrivere e di approfondire sempre più sul futuro, crescendo le esperienze mie.87 A una cosa sola seriamente penso: che non sarà difficile, se riprenderò le mie funzioni sul giornale (anche per far riposare te un pochino, in previsione dei tuoi gravi esami), mi sarà difficile molto conservare il tuo stile critico e la tua profondità! Naturalmente tu dirai: questo scherza – lo so come sei –; ma io non scherzo affatto. Soltanto su alcune tue critiche non ero d’accordo (Orizzonte dipinto, La volpe insanguinata;88 e aspetto di vedere Ohm Kruger). Credo che esageri chiamando un classico L’esiliato89, mediocre film che vanta una sola sequenza buona, quella appunto da te citata, che si spende nel complesso poco fuso e poco drammatico. Sarà difficile ch’io rivedrò Sabel (scusami se continuo in matita, ma sono gl’inconvenienti – giustificati – della vita militare), ad ogni modo tengo presente la tua proposta. Arrivederci a Milano. Appena avrò tempo, ti telefonerò e combineremo una bella chiacchierata. Affettuosamente Tuo Ugo

Novara, 7 luglio 1941 – XIX Caro Jusik, sono stato a Milano ieri, ma solo per due ore, e non ho avuto perciò la possibilità materiale di trovarmi con te. Ti scrivo solo ora, ma anche ora non ho la sicurezza della mia destinazione. Penso che, avendo tu bisogno di comunicarmi qualcosa, e piacere di discorrere con me, potresti indirizzare così: Sergente Universitario U.C., 68 Regg.to Fanteria, Novara. Me la passo bene: dormo e leggo, leggo e dormo. Ho assaporato un solo libro: Saroyan: è un libro che merita di essere brutalmente assaporato. Gustato a lenti sorsi. Non c’è un solo raccontino-poema brutto. Hai fatto bene a prestarmelo. Hai avuto ragione. Nelle mie prossime lettere è probabile ti parli a lungo di questo scrittore. In quanto a film, qui a Novara siamo molto arretrati, d’altronde è vero che c’è poco da scegliere. Ho visto solo, l’unica sera passata a Torino, Amanti di Raymond Bernard, con Blanchar, Michel Simon, Florelle e Arletty. Ne parlerò su Il Popolo di Lombardia.90 Non ho visto nulla di nuovo su giornali e riviste: dall’ultimo numero di Film l’articolo di Consiglio sul cinema russo.91 Idee chiare, ma semplici. Di nuovo, nulla. Ho notato che Consiglio cita, come l’unico presentato sui nostri schermi, il grottesco di Aleksandrov. Sbaglia naturalmente: se verrà pubblicato (a giorni) Notti di Pietroburgo, se ne renderà conto. Non può non vederlo: è lungo!

Se ti recherai qualche giorno a casa mia, chiedi a mia mamma che ti mostri l’articolo di Campassi “Critica e critici” che tengo racchiuso nel cassetto della scrivania. Vedi poi se non ti senti stimolato dalla conclusione estrema dello scritto (Campassi è elementare nella sua esposizione, lineare e durissimo, e dice cose giuste, che era giusto dire). E tu, butti giù ancora essenziali note sul Vampiro? e l’articolo sulla scenografia? Ho discusso lungamente con Campassi il concetto di “materiale plastico”, che rappresentava gran parte delle tue preoccupazioni. Siamo giunti di buon accordo a queste conclusioni: doversi intendere per “materiale plastico” tutto ciò che ha in sé potenza d’esser visivamente trasportato in arte (filmica). Tutto può essere materiale plastico: scenografia, trama, musica, persino l’attore. L’articolo pubblicato su Cinema (credo di Mazzini) sul materiale visivo92, con numerosi esempi tratti da Alba tragica, L’angelo azzurro è errato. Ben più ampio è il valore dell’espressione in causa. Non è affatto materiale plastico quel che può esser posto in primo piano – come si prospettava anche noi – differenziandosi in tal senso dalla scenografia. Qui il primo piano o il dettaglio non c’entrano. Materiale plastico è il cinema.93 Tuo Ugo

SENZA DATA

Carissimo Jusik, mi trovo a Genova da qualche giorno, e vi sto molto bene, sia come salute, sia come lavoro, ch’è tutt’altro che eccessivo. Il mio indirizzo è: Sergente Universitario U.C., 68° Regg.to Fanteria, 7° Compagnia, Genova Sturla. Non ti dico come si passa la giornata perché, dal momento che non si fa assolutamente niente o quasi, c’è ben poco da dire. Quando sei di servizio – di giornata – puoi avere qualche grattacapo, e devi impegnarti, ma poi basta, almeno per una settimana. Tutte le sere, durante la libera uscita, trovandosi la caserma nelle prossimità del mare, bagno e gita in barca. Insomma, sto passando al mare le mie vacanze… E leggo, ed essendo sempre a contatto con dei miei soldati – rudi uomini appena tornati dall’Albania, e già anziani – mangiando in gavetta e dormendo su pagliericci assieme a loro ed esattamente come loro (l’unica differenza consiste sul soldo: prendo circa quindici lire al giorno), imparo a conoscere da vicino questi scassati soldati d’Italia, ad ammirarne talvolta gl’impulsi improvvisi e sinceri, ma a non benedirne l’ignoranza. E di cinema ho poco da dire. Qui a Genova non si trova Bianco e nero; ma ho l’impressione che non sia ancora uscito. Ad ogni modo, nella tua prossima lettera, nel caso l’articolo mio fosse uscito, mi comunicherai le tue impressioni. E se vuoi, potrai mandarmi, debitamente raccomandato, l’articolo tuo sulla scenografia, ma con un titolo più semplice e più comprensivo, con una minore quantità di citazioni e di nomi (a mio parere), con un finale

decisivo e un più organico sviluppo di opinioni specie al centro. Appunto perché è un notevole lavoro, che a me è particolarmente piaciuta per la sua serietà e specie per la sua originalità, merita senz’altro che tu lo affini sempre più, lo riveda e lo modifichi in qualche parte, e trovi il finale una conclusione ragionata che si possa allacciare all’inizio. Poi tu sei già noto per il tuo precedente “Poetica ambientale o della scenografia”: quindi un titolo come, non so, “Altri motivi di scenografia” potrebbe render bene: essere più sintetico e più comprensivo (e più afferrabile).94 Ma ne discuteremo ancora. Ho letto, con grande lentezza e attenzione, il libro di Cronin E le stelle stanno a guardare.95 Libro enorme, addirittura un classico del romanzo: libro vitalissimo in quasi tutti i suoi capitoli, con una costruzione logica interiore, e una continua messa a fuoco di caratteri e di personaggi, seriamente superbe. Cronin – a questo punto dalla mia spettacolare ignoranza di scrittori contemporanei – mi fa l’effetto d’uno Zola più raffinato, meno gigante in costruzioni particolari, e che ha visto del cinema. Pag. 360 – Davide la guardò impietrito. (Furiosa la folla acclamava un manipolo di reduci. Una locomotiva fischiò derisoriamente.) Non trovò una sola parola da dire. Lo stile è una delle cose migliori di Cronin: uno stile agganciante, mediante il quale l’autore riesce a presentarti con immediata spontaneità, anche in poche righe, un personaggio (“Jack fissava nel vuoto con occhi vitrei. Non era brillo, non s’ubriacava, il labbro inferiore pareva che volesse mordere nel vivo della propria amarezza. La vita lo aveva forgiato dentro un[o] stampo di dolore; dolorosa in tutte le fibre, e i suoi occhi dolorosi guardavano su un mondo di dolore. Lo avevano forgiato così il disastro, e la guerra e la pace, la degradazione e la miseria, il sussidio, la brutalità dell’indigenza, e finalmente la desolazione dell’anima che è peggio della fame.” – Notare, per inciso, la somiglianza di uno stile come questo con alcune frasi di Oceano e, specialmente, di Sabbia di Vittorio G. Rossi);96 oppure riesce a definirti nelle sue linee essenziali tutt’un mondo e tutta una situazione psicologica. Il

personaggio di Jenny è forse il migliore: ha una vita interiore fortissima; però la sua morte, per quanto drammaticamente bellissima, esce un poco, a mio parere, dei limiti di misura imposti in precedenza al personaggio. Viceversa La morte di Barra è un quadro di allucinante desolazione.97 Come vedi, niente critica: t’ho dato solamente delle mie impressioni personali, magari anche sbagliate. Qualcos’altro poi t’avevo detto anche a voce, dopo una prima scorsa al romanzo. Non ti do critica, perché in materia di critica voglio sempre essere sicuro, e qui bisognerebbe aver letto, non solo Caleidoscopio e questo, ma anche gli altri libri di Cronin – per di più qualcosa di letteratura contemporanea. Fra poco comincerò Tuono a sinistra98 l’ho prestato a un mio compagno di qui, l’ha letto, gli è piaciuto, ma mi ha detto in confidenza d’averci capito poco. Non so io. – Ti prego di ricordarti della lettera mia con appunti su Milione.99 Ugo

Sturla – 24 luglio 1941 [– XIX] È una parola, caro Jusik, scrivere a lungo come hai fatto tu. Due o tre anni fa, nel periodo estivo, mandavo a Guerrasio da Milano letterari di dieci, quindici pagine: e anche adesso vorrei ma, ecco, proprio non posso. E poi, c’è anche il fatto che di cose da dire non ne ho molte, perché film ne vedo pochissimi, quiete e tempo di meditare sono molto relativi, i libri ci metto un sacco di tempo a leggerli, e infine ti annoierei ripetendoti sempre le solite considerazioni, più o meno interessanti per me che le vivo, ma per te insipide ed assurde la gran parte, data la forza comunicativa dei miei scritti. Ho rivisto ancora due volte La tragedia di Jegor.100 Ci sarebbe da allungare e da migliorare notevolmente l’articolo con le considerazioni nuove che ci ho fatto sopra. La prima volta ho tentato di vedere il film nella sua unità, nelle sue linee generalissime, cercando, se possibile, di rivivere le impressioni e le emozioni d’una “prima”. Ho scoperto così che (come del resto ti avevo già fatto osservare) dell’opera complessiva ho detto poco, o per lo meno potevo insistere di più certi motivi: per quanto mi sia rafforzato nell’opinione che parlare in modo critico definitivo del film sia impossibile, dato soprattutto lo stato in cui il film stesso è giunto sino a noi; e quindi posso anche avere la coscienza a posto. Non così per alcuni episodi, analizzati da me a sufficienza nella seconda visione di ieri sera: avendo trovato altre cose che sarebbe stato più che mai interessante mettere in rilievo ma che d’altra parte io non mi propongo di fare cadere, bensì di conservare affinché si possano inserire qua e là in altri nostri lavori (nella

tua ultima lettera, caro Jusik, tu mi dici di non avermela a male se hai voluto concludere l’articolo con un’idea alquanto simile ad un’altra un giorno manifestata da me: ma non dirlo neanche per ischerzo! Ti prego anzi di non voler più insistere, almeno con me, su queste stupidaggini. Noi siamo ormai – almeno io spero – tanto amici da non curarci più di simili piccolezze). Qui si tratta di fare un’ottima società e di diffondere quanto più sia possibile idee, idee, idee sul cinema: questo è ciò che importa. In una mia recente lettera a Campassi io gli proponevo una specie di “circolo cinematografico”, dentro inclusivi tu, io, Campassi, Guerrasio, Terzi ecc.: i “settentrionali”. L’idea è piaciuta assai a Campassi: temo però molto il tuo giudizio, per quanto così soddisfatto che il saggio sul Vampiro non sia stato per niente il tuo canto del cigno. Le mie congratulazioni, le congratulazioni più sincere d’un amico e di un amante – come pochi – del cinema! Per gli episodi di Jegor, dunque, sono però contento molto di aver potuto riconsiderare la giustezza e la precisione di parecchie osservazioni, la buona memoria specialmente tua nel rammentare il dialogo italiano di quelle sequenze delle quali abbiamo dato lo scenario (sebbene qualche leggerissima inversione ci sia), e infine la concordanza di qualche paragone da me fatto con le altre opere di Dostoevskij, con le riflessioni di un compagno mio di qui, molto colto e di una intelligenza troppo emotiva ma molto spiccata, che ha voluto venire con me e vedere il film (esempi: anche lui ha giudicato nel senso che conosci il gioco d’ombre sulla parete mentre Jegor suona a Valemirov: anche lui poi – cosa se non altro sorprendente – ha voluto farmi notare l’esatta aderenza degli interni della casa di Natascha, “con quella corda e quei panni ad asciugare”, agl’interni della stamberga di Marmeladov in Delitto e castigo; eccetera, eccetera). C’era da insistere maggiormente, nell’articolo, sulla potenza della mimica facciale di tutti gli interpreti; e per qualche brano non bisognava lasciarsi sfuggire una nota come la seguente. Ritornando alla sequenza di Jegor che suona nella oscura stanza per il padrone, è notevolissimo l’uso del sonoro alla fine, ossia quando l’ombra del musicista sulla bianca parete è enorme: perché allora non è lui solo che

suona, ma tutta un’orchestra – un’orchestra degna di un celebre direttore quale, nella sua eccitata commozione fantastica, Valemirov immagina – lo accompagna. Ho rivisto anche Uomini sul fondo. Lo vuoi fare un articoletto su questo film? Mandami, se hai tempo, tutte le considerazioni che ti riesce di cavar fuori, compresi i pezzi mio e tuo del Popolo e il Moschetto (al tuo soprattutto tengo, ricordati!); poi io qui vedrò di fare la mia parte e di aggiustare il tutto, in attesa del tuo giudizio definitivo.101 Si dovrebbe fare una cosetta semplice, ma ben ribattendo sull’importanza del film, sullo stile, e sull’opera magistrale di certi collaboratori. Tu vedi di raggruppare più notizie che puoi su Giorgio Bianchi, sul comandante De Robertis, sulla lavorazione del film, ecc. Sono cose molto importanti: mi sento poi di ricamarci sopra. Per il titolo vedremo in ultimo, ma vedrai che sarà un bel titolo. E un bell’articolo. Guerrasio mi scrive ora, informandoci di esser stato a Roma e di avervi frequentato qualche ambiente cinematografico, forse anche la redazione di Cinema. Dice che nel prossimo numero uscirà un suo articolo. Insieme, verrà pubblicato pure un articolo mio, ma – mi dice Guerrasio che, non so come, ne ha corretto le bozze – notevolmente mutilate, specie nell’ultima parte. Si ricevono certe notizie, a volte! E sull’ultimo numero di Film – giornale che acquisto da tre settimane con la speranza di trovare qualcosa di buono nell’articolo di Consiglio sul cinema russo – ho letto una certa nota! Io ho l’impressione che abbia scritto a Marotta102 molto tempo fa; ma cosa gli avevi detto? Ma che cribbio di mentalità ha, Marotta? Dimmi ciò che pensi. (Anche Campassi se ne mostra sorpreso. Dice che sarà quanto mai lieto di fare la tua conoscenza, che attende le tue critiche de Il Popolo di Lombardia, e che è curioso di interrogarti su questa faccenda di Marotta.) Ho letto Morley. Non chiedermi un giudizio. Ho immediatamente iniziata la seconda, definitiva lettura. Credo che pochi libri, oltre a questo, richiedano, anzi esigano una

seconda lettura. Morley è strano. Dev’essere davvero sul tipo di Bontempelli. Un Bontempelli anche più raffinato, se pure non così lieve e mezzo scrittore: e che ha buona conoscenza di tutta la scuola inglese del secolo scorso, Wilde specialmente inclusovi. È Tuono a sinistra un libro che si gusta a brani, direi a frammenti: forse quelli che tu mi leggesti sono in definitiva i migliori. Poteva esser più chiaro, come nota nella prefazione dell’edizione inglese Walpole (eh sì, Hugh, sempre Hugh); dà sempre l’impressione, lo scrittore, di voler presumere troppo dalle proprie forze. È poeta, sì: ma poeta di tipo critico, troppo riflessivo per essere poeta grande: immagino qualcosa come Wilde. Ma, immagino pure, che c’entro io con questo scrittore: perché pretendo di parlarne, mentre non ho per niente la cultura necessaria per comprenderlo? Comprenderlo, afferrarlo in tutto il suo spirito, dico: capir la trama è il meno. Io la trama l’ho capita. Tanto per mettere, vero?, le cose a posto. (Accanto alle tue segnate, mi piace citarti due frasettine: la prima, per un confronto con Wilde: “La vita è una lingua straniera, tutti gli uomini la parlano male”; la seconda, per la sua indubitabile originalità, o meglio, forza di originalità “Il Pendolo, il pendolo, il pendolo si batteva contro i gialli miscredenti”.) Molto contribuisce alla comprensione di Morley, il badare alle sue citazioni prima d’iniziare il libro. La tua ultima lettera è stata molto bella. Te ne ringrazio vivamente. Il tuo pezzo sul cinema sovietico103 sarà pubblicato, te lo posso assicurare sin d’ora. Anche se tu lo chiami “una porcheria” – Hai visto che hai fatto bene a vedere Maria Chapdelaine?104 Ormai conosco a perfezione i tuoi gusti – le osservazioni di quella donna dell’Abruzzi sono impressionanti. Non mancheremo di ficcarle nell’articolo sul Vampiro, e in qualche altro. Meritano. (Dietro a me, alla visione di Jegor c’era una donna che leggeva il russo. Così a titolo d’informazione.) Io ti credo, perché talvolta ho provato anch’io. – Molto incisiva la tua frase di chiusura su Morley e Cronin: peccato che le espressioni più belle non si possano mai condividere!

Tuo Ugo

San Fedele d’Albenga, 14 agosto [1942] – XX Mio caro Jusik, ho ricevuto ieri la tua lettera, e il ritaglio del giornale che hai fatto bene ad accludermi, perché dal giornale stesso non m’era stato inviato. Molto probabilmente non risponderò a Pistoni ulteriormente, perché vedo l’inutilità della discussione.105 Sono contento per la notizia che mi dai a proposito dei tuoi articoli. Mi avviserai tu stesso quando la rivista uscirà, dandomi inoltre un sommario della stessa. Qui dove mi trovo non ho la possibilità di acquistarla. Non credo possibile, per quanto riguarda “Notti bianche”, che Chiarini intenda pubblicarlo assieme al suo, perché finora non ha risposto alla mia lettera. (Nulla pure da Puccini.) Leggerò Bianco e nero a Milano, dove può darsi che giunga verso la fine del mese. Non ho ancora iniziato la lettura di Huxley, perché solo da poco m’è stato riconsegnato lo zainetto nel quale era conservato durante la marcia di trasferimento. Ho letto invece l’unico libro che m’è riuscito di trovare presso un soldato, alcune novelle di Pitigrilli106 raccolte sotto il titolo La cintura di castità. Scrittore a volte brillante e più spesso superficiale, d’una prosa ebraicamente analitica e a volte senza ragione concisa: di cui credo sufficiente leggere un solo libro, perché gli altri non devono differire molto, né progredire. Tanti auguri per il tuo lavoro. Meno male che hai già steso il soggetto: nella sceneggiatura forse ti potrei aiutare un poco, per quanto sia difficile date le attuali condizioni, ma proprio nel soggetto non

me la sarei davvero sentita. Ma è un utile esercizio, e ti auguro che sia fruttuoso (non sono pessimista, ma assai difficilmente lo sarà: bisognerebbe che tu compissi opera di travolgente e commerciale stupidità, oppure – cosa certo più probabile – opera di eccezionale sensibilità cinematica). Ad ogni modo, leggo con grande piacere che parli di soldi investiti in macchine da presa, di filmetti da realizzare ecc. Nell’ultimo numero di Cinema è veramente ottimo l’articolo “Invenzione del montaggio” anche per il partito preso di signorilmente non polemizzare107. Lo Duca da un po’ di tempo scrive delle cose troppo eterogenee, di valore solo occasionalmente cinematografico. Nel tuo articolo108 noto mancanza di precisione nelle premesse generali, anche in relazione all’effettivo svolgimento dell’argomento. Però anche un semplice excursus in un campo che tu conosci più da vicino, ha dato origine alla riproduzione di tre buone fotografie. Osservo che Cinema da un po’ di tempo è in rialzo fotograficamente. Osservo da ultimo il perfetto stile M.lle Docteur dell’ultimo film di Pabst, che balza agli occhi di chiunque. Lo specchio, i riccioli della Romance, il fez di Lodge analogo al fez di Blanchar, il “colore” degli ambienti, ecc, osservazione che può dar luogo a interessanti spunti, anche in un’analisi delle opere di Pabst, in ispecie dell’ultimo Pabst109. La documentazione fotografica non inganna, tuttavia staremo a vedere il film. Contento anche per la relazione amichevole stabilita con Campassi: e parleremo sempre più in seguito di “manifesto” e di “cenacolo”, di “antologia”. Tuo Ugo P.S.

Mi raccomando ancora per Libro e moschetto, beninteso quando scrivi tu. Mi basterebbe il tuo pezzetto.

Passo della Ginestra – 28 agosto [1941] [– XIX] Carissimo Jusik, malgrado il mio interessamento, per ragioni del tutto impreviste e speciali (che nel nostro linguaggio si chiamano “colpi di naia”) può darsi che non mi sia concesso passare neppure un giorno a Milano; ma prima d’iniziare il corso, io tenterò di tutto, oppure chiederò una licenza per esami a metà settembre… Ad ogni modo, aspetta a spedire “Uomini sul fondo”: molta premura non c’è, e se riesci a rivedere il film è meglio, e poi anch’io desidero rivederlo minutamente (dico l’articolo). Mi ha scritto Puccini una cartolina: è appena arrivato alle armi (a Bracciano), non segue più Cinema, da luglio, al posto suo c’è Purificato. Altro non dice oltre il suo indirizzo che ti comunicherò110. Un mio compagno di qui ha voluto per forza prestarmi dei libri: m’ha dato Quattro Fanti di Ernst Johannsen111, che ho trovato mediocre (siccome il libro è quasi celebre, e in Francia ha dato origine a un film tendenzioso Quatre de l’infanterie112 che un soldato di qui ha visto), assieme a Nulla di nuovo sul fronte occidentale, a La grande illusion, a La Marsigliese diRenoir etc. (ti accludo il mio giudizio, che ho schizzato per farlo leggere al responsabile di questa mia lettura), e Tre operai di Carlo Bernari, molto brutto. Adesso, ti dico io, ho una gran paura che quel tale mi voglia prestare i Due sergenti!113

Meno male che Huxley, riletto tutto una seconda volta, m’ha tenuto su di giro. E La corona di cristallo, storia ingenua di Marco Ramperti, che a me non è eccessivamente piaciuta per quanto la sua mancanza di profondità sia forse il suo unico pregio, m’ha fatto capire sempre di più che certa lievità huxleriana non era superficiale. Affettuosamente Ugo

[3 settembre 1941 – XIX] A Jusik Achrafian via Ampère 46, Milano Scuola allievi ufficiali di compl. Fanteria – Arezzo Un’altra breve cartolina per dirti, e del resto te ne sarai già accorto, che i due foglietti dell’articolo riguardante le didascalie sono nel cassetto, assieme alla lettera di quella ragazza. Spero che manterrai i contatti con Ascani, e spero pure che tu quella sera ti sia recato al Venezia a vedere Notti di principi, eccellente per quanto riguarda René Lefèvre.114 Dà a Calvi, ti prego, il mio indirizzo, affinché provveda a farmi spedire il giornale.115 Auguri, per l’articolo e per eventuali articoli e per la sceneggiatura. Affettuosamente tuo, Ugo

Arezzo, 10 settembre [1941] – XIX Carissimo Jusik, ricevo ora la tua lettera e come al solito ti rispondo immediatamente. Avrei giurato che nessuna risposta si sarebbe fatta sentire da parte di Chiarini: non importa, sperando però che Cinema pubblichi l’articolo. Se Cinema lo pubblica come vogliamo noi, son più contento che se lo pubblicasse Bianco e nero. Avrai ricordato a Purificato tutto: l’eventuale carattere piccolo nella stampa, l’assoluta necessità di non tagliare neppure un pezzetto pubblicando magari a puntate, ecc.; e avrai pure parlato per gli articoli, per i tuoi che giacciono tuttora in redazione e per il mio “Vampyr”. Se no, ti prego di farmelo sapere che gli scriverò io stesso. Anche Campassi, come sai, si lamenta della mancata pubblicazione dei suoi lavori: in una lettera mi riferisce che a Sàbel Rosario Leone116 ha scritto che Cinema non pubblica molta roba vecchia, ma preferisce roba attuale. Allora il nostro “U.s.f.” [“Uomini sul fondo”] dovrebb’essere attualissimo; ma ti pare poi – come mi chiede giustamente Campassi – che Cinema pubblichi sempre o quasi roba recente? (Nell’ultimo numero della rivista, trovai buono l’articolo sul film storico: molto chiaro e comprensivo, e scritto con calore.)117 Io negl’intervalli tra un’istruzione e l’altra, leggo un pochino. Ho di nuovo finito Nanà. La mania realistica conduce a volte l’autore in una mediocrità riproduttiva di ritmo e di essenzialità. Se a volte è sfiorata da lui con una certa insistenza la soglia dello sforzato; ma alcune intuizioni intime di sentimento e di atteggiamento di certi personaggi, alcune profondità psicologiche accennate e tenute al punto giusto

senza grosse insistenze, alcune descrizioni brevi ed e incisive, sono grandi e indimenticabili cose. Io trovo che uno dei suoi difetti capitali, almeno in questo libro, difetto che sbilancia notevolmente l’attenzione urtando la sensibilità estetica di chi legge, è il fatto di insistere lungamente su certi particolari che poi non hanno una successione logicamente artistica adeguata. Zola, scrittore del secolo scorso, cade ingenuamente parecchie volte in questa mancanza; mentre invece uno Steinbeck, ad esempio, scrittore attualissimo che potrebbe trovare, in altro campo, riscontri notevoli con un artista del tipo di Duvivier, si serve quasi di un tale procedimento per stupire il lettore di Uomini e topi sul punto culminante (dove in tre righe risolve una fortissima, essenziale situazione drammatica preparata da lunghe pagine); e portarlo poi ad altezze vertiginose in un finale che esplode d’improvviso. Procedimento che, ancora in quell’altro campo, potrebbe ricordare il film Ombre rosse di John Ford e Dudley Nichols118. Per tornare al nostro Zola, sottopongo alla tua attenzione tre pezzi appositamente ritagliati che a prima vista non presentano nulla di particolarmente interessante. Il primo (1°) è una situazione da rendersi filmicamente; il secondo (2°) rappresenta bene il difetto del realismo Zoliano, che accentra veristicamente certe frasi – quella sottolineata, qui – che invece potrebbero essere mantenute in una condizione indefinita, e non definita, di irrealtà (nel caso particolare dell’esempio citato, è evidente che la situazione di Giorgio che fugge dalla camera è già dapprincipio “negata” da quel “fu preso”); il terzo (3°) presenta alla fine una efficace interruzione emotiva tipica del montaggio filmico, specialmente russo. (P.S. Noto la traduzione buonissima di C. Baseggio; l’attore?)119 Ho iniziato anche la lettura del lunghissimo romanzo di Werfel. Ti darò il mio giudizio generale a lettura finita (per ora sono giunto soltanto a metà del primo volume); e per ora ti comunico le cose che mi sono piaciute di più. La prima, diremo, “battuta”, che in questo romanzo m’ha prodotto di trovarmi di fronte a un autore-artista, è la parentesi di pag. 84: “I suoi occhi grandi (gli occhi degli Armeni sono quasi sempre grandi, ingranditi dallo spavento di dolorose visioni

millenarie)…”: motivo indubbiamente importante per l’autore, perch’egli lo riprende a p. 139: “…E tosto vede alcuni dei loro volti. E tutti guardano con gl’immensi occhi armeni. Occhi simili appartengono solo a chi deve vuotare il calice fino all’ultima goccia. Gesù sulla croce doveva avere occhi come i loro. E forse per questo Lepsins ama tanto il popolo armeno”. Oltre al giuoco delle “zampe brune” nel bestiale assalitore sul corpo denudato di Jokuhì (p. 119), mi è piaciuta moltissimo questa descrizione: “La svolta della strada riluceva nel fioco chiarore lunare come una pericolosa lama di sciabola. Essi quindi se ne allontanarono e si coricarono sopra una zona di terra nuda. Ma anche la madre terra si dimostrava ostile agli stranieri. Di sotto le coperte penetrava l’umidità e ronzava sopra di loro l’aria palustre, in cui le zanzare cantavano la loro velenosa canzone” (p. 127). Un poema nel poema – poema sì, perché ho l’impressione che questo sia un romanzo straordinariamente serio e, come si dice, compiuto – mi parve tutto il quinto capitolo, di cui parla anche l’autore nella sua breve prefazione, quello intitolato “Intermezzo degli dei”, sul colloquio di Giovanni Lepsins con Enser Pascià per una risoluzione della questione armena. Qui mi pare di sentire, nella accuratissima introspezione psicologica dei personaggi, uno stile addirittura manzoniano (il colloquio può forse essere accostato, per diverse somiglianze, anche di contenuto, al colloquio di Fra’ Cristoforo con Don Rodrigo ne I Promessi Sposi). Uno dei caratteri più strazianti di questo libro è, come dire?, la sua obiettività fine e celata. Notare con quale senso di obiettiva realtà, ad esempio, sia presentato il tumulto e il discordar dei pareri all’annuncio di Brajadiàn, di ritirarsi e difendersi, sul Mussa Dagh. E la naturalezza del personaggio di Gabriele stesso, così lontano da ogni facile romanticismo ma per ciò appunto così precisamente, scavato in una durissima realtà di sommossa, di massacro e di guerra. Insieme agli Scomparsi di S. Agil, un buonissimo film di ChristianJaque era Fiamme in Oriente, con Stroheim – Cerca, se puoi, di conservare e di far riprodurre qualcuna di quelle foto di Golem:120 servirà, ora che deve uscire Il carro fantasma,121 per un eventuale articolo su Duvivier, o forse anche per la

nostra antologia di scritti critici – Non ho ricevuto Il Popolo di Lombardia, con la tua critica, che certo avrai fatta, di sabato scorso; né l’assegno mensile di agosto. Provvedi per favore presso Calvi. – Sono contento che ti tenga in contatto con Ascani, ma dirgli di scrivermi un po’, perché finora non ho ancora avuto niente. Ed è brutto star qui con niente. Affetti, tuo Ugo

Arezzo, 8 ott[obre] Sera [1941] [– XIX] Carissimo Jusik, ho trovato la tua lettera molto, molto ingiusta. E te ne spiegherò gradualmente le ragioni. Per ora ti ringrazio e della lunghezza di essa (contrariamente alla tua premessa è venuta quasi uno dei tuoi famosi “letterari”), e della sincera immediatezza onde tu usi comunicarmi i tuoi giudizi e le tue impressioni. Nella mia ultima, ti davo dei giudizi – molto, molto generali e incompleti – sulle mie recenti letture; e ti pregavo di dire come li trovavi. Ebbene, tu mi hai risposto, abbastanza diffusamente anche (più di quanto meritassero quegli elementari giudizi stessi), ma in genere sorvolando sulle cose che a me più sarebbero interessate. (Ti rivolgevo anche delle domande, cui tu ora non mi dai risposte.) Mi spiego: solo a proposito di Pietro di Donato122 tu contrapponi un similare giudizio tuo, di molto temperando la mia acerbità; ma non mi dici, ad es., se sei d’accordo su Bennett (cosa essenzialissima, nei riguardi di tutto un genere di letteratura, alta, signorile, ma superficiale, “ipocrita”), su quel libro di Sholokhov,123 eccetera. Può darsi che tu non conosca Bennett, ma per Sholokhov hai voluto rivolgermi quel vecchio rimprovero, nonostante i miei ammonimenti. Io, quando ti cito un brano d’uno scrittore, non intendo far notare una possibile ispirazione filmica, ma una “possibilità” di filmica riduzione: senza contare che talvolta, come in Steinbeck, in Dos Passos, questa “ispirazione”, e cosciente, manifestamente c’è. E poi vorrei temperare quel tuo “Tutto ciò che è visivo non è

filmico” in “Non tutto ciò che è visivo è filmico”: una piccola transposizione, che critica anche più sottilmente la mia disastrosa mania cinematografica nei riguardi della letteratura, non solo contemporanea (Dante: episodio di Farinata). Sì, che io attribuisca “molta” importanza ai dati formali di ritmo, di progressione e taglio delle frasi e dei capitali, è purtroppo vero; ma “troppa”, proprio, spererei di no. Tu mi riporti a caso dei brani di Furore: no, non a caso, come dici tu: pensaci bene, se vai a prendere quei capitali “descrittivi” cui soltanto mi pare almeno, volevo alludere io, ci trovi proprio quel “saltellante” stile, e “strano” lo leverei, visto che l’ho paragonato, e torno a paragonarlo a quello di Dos Passos in Nuova York (scritto nel ’25). Non credo di aver detto che Steinbeck s’è ispirato a Dos Passos: se sì, perdonami: è stato un peccato di presunzione in me, che conosco così poco di letteratura americana! Voglio dire soltanto che, ecco, più lo leggo e più trovo affinità con Dos Passos: affinità esclusivamente stilistiche, formali, beninteso. Ho riletto Uomini e topi: un dramma, nel vero senso della parola, dalla tensione mai allentata, rigoroso e spoglio. Trovo in Candy, il vecchio scopino, una troppo evidente assimilazione di alcuni motivi di Lennie, senza squilibri però; e ad una seconda lettura modifico leggermente il mio parere riguardo all’episodio saliente di Lennie e della moglie di Curley, abilmente scavalcato nei particolari. Vedo – scusami – movimento cinematografico, non semplicemente “cinematico”, nella zuffa di Lennie e di Curley, quando Lennie sta lì disperato a prenderle e quando, riavutosi, per imposizione di George, gliele “mena”; vedo una filmica messa a punto d’ambiente, straordinariamente intima, kammerspeliana, in tutta la “sequenza” di Candy che attende il colpo di pistola e la morte del cane; e vedo soprattutto un magnifico uso di dissolvenza e sovrimpressioni nei fantasmi e nella realtà di Lennie meditabondo nel bosco, all’ombra del sicomoro, alla fine (la scia, il coniglio gigantesco, George). Infine, nella tua lettera mi attacchi a proposito di D’Annunzio (dico per scherzo “mi attacchi”, naturalmente!).

D’Annunzio non è un romanziere, più che d’accordo: e riconosco che ho sbagliato affermando che la poesia sua è “troppo preoccupata talvolta di cerebrali limiti prosastici”. Ma bada bene: “talvolta” ho detto: e di D’Annunzio confessavo d’aver letto fino al Piacere, e basta, e poi quei due tre squarci d’antologia ginnasiale, ai quali non s’addicono certo quelle parole! (Alle quali, noterò ora, post-facinus, criticamente, sono stato anche tratto dal contrasto e dalle connessioni con quelle precedenti.) Perché dunque m’hai preso tanto sul serio e m’hai abbattuto sotto una sequela di citazioni che, perdio!, dimostrano tutto il tuo eccezionale buon gusto? (E due appuntini, sottilissimi: dici “D’Annunzio oltre Dante”, e quanto di dantesco han certi versi che mi citi!; e poi in quella parentesi “(se non la tua, se non la tua, presente)”, anche se, come credo, a guisa di ritornello ripetuta più innanzi, vedo la riflessione, perdonami.) Di D’Annunzio ho letto, ho riletto qualcosa in questi giorni: specie le Primavere della mala pianta, Giovanni Episcopo (oh quanto dostoevskiano!) e i quadretti di Terra vergine (ottimi il primo – Terra vergine – e l’ultimo – Ecloga Fluviale). Ora ritornerò su Primavere, prima di passare a cose più sostanziali; se le troverò. Ho letto Il disertore di Zilahy,124 e m’è parso – come ti ho detto – a un livello assai basso. Uniche cose interessanti: l’ultimo periodo del libro e un accenno (sempre il cinema, perdio!!) agli attori Psilander e Max Linder. Ho trovata ingiusta la tua lettera anche perché ti lamenti del compenso inviatoti da Bianco e nero, nel mentre dovresti essere esclusivamente contento delle bellissime fotografie che mi dici! Quanto al fascicolo di Dramma, col lavoro di O’Neil, va’ a casa mia e prendilo (chè lo spedii tempo fa); e approfittane per farmi avere Bianco e nero (il mio, il tuo, fa lo stesso: basta ch’io legga il tuo mammouth perdio!: o non vorrai mica lasciarmi senza?): Rimanderò il fascicolo subito. Spero molto su Cinema di dopodomani: il mio giudizio è in bilico! – Ho visto su Moschetto una recensione del libro di Lauro Mainardi, L’Armenia: m’è venuta la nostalgia del

Mussa Dough, il Mussa Dough che adesso è nelle mani di Campassi. Avevi ragione quando dicevi che quel libro si gusta molto di più dopo parecchie letture! – E Feuchtwanger,125 l’hai letto? Immagino qualcosa di simile ad Heinrich Mann (Professor Unrat)126: piuttosto sul mediocre. – Su Moschetto pure vidi la recensione di Polillo a Intermezzo: mi fido più di te, perché il giudizio che davi di Schiavo d’amore127 era forse, in fondo, maggiormente vicino alla verità (se una verità esiste!) del mio. Manifesti, nel finale della tua lettera, la speranza di vedermi presto a Milano, per parlare con me di quante mai cose… Anch’io molto volentieri discorrerei con te, con te più volentieri che con qualsiasi altra persona, perché mi sei estremamente vicino; ma la musichetta moderna ha pure le sue esigenze, e c’è una canzone che, su un certo tono…, comincia: Illusione…128 Tanti cari saluti, attendo la rivista e le tue nuove relative agli esami che supererai certo ottimamente tuo Ugo

Arezzo, 6 dic[embre] [1942] [– XX] A Jusik Achrafian, via Ampère 46 Milano Carissimo Jusik, sono tornato ieri sera dall’escursione (“campo mobile” per dirla con un termine un po’ più militare) con 120 km nelle gambe. Ora abbiamo tre giorni di riposo; e le cose che avrei da dire sul campo e sulle marce fatte, le potrai leggere fra quattro-cinque giorni, credo, in una lettera che scriverò ai miei – se ti recherai a casa mia, talvolta. Ho letto sabato scorso il tuo “Rebecca”;129 non condivido, come sai, tutto il tuo atteggiamento contrario al lavoro. Mi meraviglia poi il fatto che tu stavolta sembri sminuire cinematograficamente l’interpretazione di Olivier in Wuthering Heights. Ricordi quel che dicevi quel giorno, che vedemmo insieme con mio papà il film all’Impero? (Il nome di Hitchcock vedo che lo scrivi male, come l’ho scritto anch’io male sul Popolo di Lomb.: né Hithcock, né Hitchckock, sibbene Hitchcock… ecco ci siamo.) Ascani ha presentato giorni fa la domanda di volontario, e forse fra qualche tempo partirà, e parteciperà attivamente alla battaglia per l’Egitto. Ragazzo in gamba, molto; mi vengono in mente i giorni, lontanissimi, in cui s’andava insieme, in bicicletta, a rubar le carote a S. Siro – parlo di dodici, tredici

anni fa, a vedere le prove dei cavalli da corsa, e a provare i nostri garetti (Continua) Invece La bella addormentata130 merita un lungo studio, secondo il mio parere. Tutte le cose belle del film sono state accuratamente annotate da Pasinetti131 (il quale ha dimenticato soltanto il primo piano di Valenti – del barone Valenti – col quadro limitato nella regione superiore e nella inferiore), ma da lui è stata bellamente tralasciata la tessitura di sforzo, di tentativi, di impedimenti, di inespressione, onde il “novello” regista Chiarini viene nettamente avvolto. La Teresa Franchini, se è eccessiva lo è certo meno della Catherine Fonteney di Pel di carota.132 Nazzari è ottimo nei movimenti, ma quando parla rovina tutto e rappresenta la negazione in persona. (Che Valenti sia barone l’ho saputo dal libretto di Arnaldo Beccaria su Usellini.)133 Affettuosamente tuo Ugo S. Ten. Ugo Casiraghi Reparto: 53° Btg. Mortai da 81 Div. Arezzo Posta Militare: A Jusik Achrafian, via Ampère 46 Milano

Arezzo, 10 dic[embre] [1941] [– XX] Mittente Cognome: Casiraghi Nome: Ugo Grado: Serg. All[ievo] Uff[iciale] Reparto: Sc[uola] All[ievi] Uff[iciali] Arezzo Jusik Achrafian, via Ampère 46 - Milano Caro Jusik, ancora non ho ricevuto nulla da te. So da mia mamma che sei stato a casa mia, ma solo un attimo. La prossima volta, leggi la mia lettera, perché era indirizzata anche a te. Ricevo da Purificato: “Caro C., ti prego scusare me e tutti qui. C’è stata gran confusione negli articoli: i cassetti sono ancora stracolmi. Abbi pazienza! Il ‘Vampyr’ andrà. ‘La presentazione postuma ecc.’ è troppo lunga, a meno che non si voglia pubblicarla in due volte. Ti dirò qualcosa di preciso più in là. Molti cordiali saluti, P.”134 Altro da dirti non ho. Ho letto il tuo “Teresa Venerdì”135 – e Chateaubriand (Atala, Renato, L’ultimo Abencerage) e Steinbeck (I Pascoli del cielo). Attendo da te qualcosa presto. Tuo Ugo

[SENZA DATA] [Arezzo, 11 dicembre 1941] [– XX] A Jusik Achrafian via Ampère 46 Milano Caro Jusik, ricevuta la tua lettera, nella quale m’informi della tua indisposizione, della comunicazione a mio riguardo sulla S.A. Edizioni Italiane e delle tue idee a proposito del “nostro” libro. Spero che tu abbia, a quest’ora, ricevuta la mia lettera speditati tre o quattro giorni orsono. – Ricordati, la prossima volta che mi scrivi, di specificare, nell’indirizzo, 6° Compagnia; tralascia magari anche A. N. C., tralascia Arezzo, tralascia il mio nome magari, ma assolutamente metti 6° Compagnia! – Oggi stesso ordino a Palermo, presso la casa Editrice Flaccovio, il libro di Lorenzo Marinese Andiamo a cinema, una specie di antologia sul tipo della nostra, ma credo molto meno “critica”. È facile che troviamo citati i nostri nomi, perciò la prendo! – Dopo due mesi di astinenza, ho visto La gloriosa avventura con Gary Cooper.136 Farò altri quattro mesi di astinenza. Ho letto Gran Canaria di Cronin, romanzetto perfetto. Ho letto Il disertore di Lajos Zilahy, perfetta castroneria – Quanto al libro d’accordo: ma sarà pronto fra un anno o due. Sarà però un bel libro, non una cosa raffazzonata, ma essenziale a tutti gli studiosi e le persone colte, e comunque interessate – Risponderò dettagliatamente alla tua

prossima: ho letto il tuo “Ebreo Suss”,137 bravo, molto bravo! Per ora àbbiti i miei affettuosi saluti, e vivi auguri tuo, Ugo

Arezzo, 12 [dicembre] sera [1941] [– XX] Cariss. Jusik, non ho ancora scritto a Purificato, perché avevo detto a te di scrivergli; se tu d’altra parte ritieni che debba fare io, avvisami. – Ho ricevuto la rivista e il libro: sono stato molto contento della dedica, ti ringrazio. In Bianco e nero, notevoli la nota iniz., l’articolo di Galvano della Volpe138 – non certo originale, per noi almeno, ma giusto –, quello di De Franciscis sulle strade139 – tipico articolo da Cinema – la risposta di Marcello Gallian (c’è una certa somiglianza, è vero, coi dovuti limiti e rispetti, tra Gallian e me nei riguardi del Cinema)140 e soprattutto il tuo.141 È una nota perfetta, che condivido, ormai, in tutti i suoi punti. L’ultimo n. di Cinema, non è altrettanto interessante. Meritano di essere citati soltanto L. per il suo deciso coraggio, Montesanti che ha risposto con piena consapevolezza ad Alicata e De Santis, e l’analisi di 1860142. Un po’ poco, veramente. (Certo più interessante il fascicolo, edito dalla Tipografia Failli, v. Tuscolana 128, Roma 1941, intitolato: Documenti sulle macchinazioni politiche della Russia: il proclama del Fuhrer ed altri documenti ufficiali relativi alla guerra contro la Russia sovietica, che col cinema non ha proprio nulla a che vedere. A proposito di Russia, cfr. su Cinema la notizia relativa all’ultimo Pudovkin. Pudovkin ha seguito la strada di Chaplin, ha fatto la stessa fine?) Per quella discussione sulla scenografia, tutto sta a delimitare bene il significato del vocabolo “Scenografia”. – È dunque Andrejeff,143 lo scenografo di Golem:144 in una tua lettera precedente ricordo che mi citasti come probabili

Traunen o Lourié – Quanto alla scala di Ragazze in uniforme,145 anch’io avevo pensato per un attimo che fosse la “tromba della scala” veramente, a produrre il brivido estetico della sequenza. Dovevo citare altri film per convalidare la mia tesi. – “Forse il fatto che la scenog. di Winkerset non fosse determinata ambientalmente, giovava? non credo”, tu dici. Determinata ambientalmente è, secondo me, ma non determinata, per così dire, in un ambiente “concreto”. E non so se mi sono spiegato. Ad ogni modo, più l’altra tua osservaz., che in un film che condanna un regime preciso e ben definito, quelle scenografie sembrano e sono, campate in aria. Nella Cittadella trovai molto cinema: non ho il libro alla mano, e non avrei d’altronde il tempo di far citazioni. Ti citerò invece un brano della Spada di fuoco146, che ho terminato. (Tu bene hai detto, in una tua lettera precedente, “putrido mondo” a proposito della Spada di fuoco: e “putrido”, “putredine” son termini che ricorrono piuttosto di frequente in questo romanzo). Il periodo è, a pag. 338: Un altro silenzio, poi: “E credi che ti ami sempre?” riprese Silvia. “Chi, mio marito?” domandò Maddalena violenta. “No, mio…” Non osò pronunciare la parola “padre”. A mio parere qui (e in diversi altri punti, ecco perché ho ritenuta opportuna la citaz.) si poteva utilmente, e artisticamente, evitare la precisazione, sorvolare sulla critica soggettiva dell’azione, basarsi maggiormente sulla dose intuitiva che deve avere il buon lettore (e per i buoni lettori soltanto il libro dev’essere scritto, come per chi lo sa intendere dev’essere girato il film), permettere alla sua fantasia di lavorare, sbilanciandosi. Ma non chiedermi un giudizio su La spada di fuoco: son troppo immaturo! Dopo le violente requisitorie di Steinbeck, o di Dos Passos, ecc., mi sembra poco energico questo autore: come ad uno che abbia appena

visto Alba tragica147 potrebbe parere troppo lineare, semplice, ingenuo il tuo Esiliato. Ma il capitolo, piuttosto ardito, su quella congrega di giovanotti espressionisti, letterati e sporcaccioni è forse anche più incisivo perché solitario; quell’Albin Gréa è una figura degna di J. L. Barrault, in pieno: ghigno satanico, capelli neri e trovo efficacissimo, ad esprimere solitudine, dire che al crocifisso non pendeva neppure più Gesù, o frasi come: “Disprezzo la vita, e insieme la amo come il cane ama il proprio vomito”. A Carné, Renoir non avrei pensato se tu non mi avessi posto sull’avviso; ma ora vedo che un po’ di quel mondo spirituale c’è. Complessivamente, La spada di fuoco è un libro che non ho letto invano; e il merito è, naturalmente, tuo – Vorrei ancora rileggere questi libri che tu m’hai prestato: in particolare Arlen, Daniel-Rops e Alvaro; ma assolutamente non posso: prossimamente dunque confezionerò un pacco, lo spedirò a casa mia, e mia mamma penserà a farti avere i tuoi libri (l’ultimo B. e n. con la dedica lo tengo io: tu avrai il mio). Malgrado la copertura, è stato un po’ conciato Panzini;148 però con un po’ di gomma (gomma da cancellare e gomma arabica) si può agevolmente rimediare. Mi dispiace di non poterlo fare io stesso. Adesso mi metterò a leggere attentamente Il volto del cinema149 e qualche altro libro ogni tanto (Chateaubriand, Amiel, se possibile). Intanto, considerando che dovrò sostenere parecchie marce – ma non ne ho fatti abbastanza di Km. a piedi, quest’anno? – ed escursioni con campeggi (invernali), giungerò a Natale. E dopo, dovrò pensare seriamente ad Armi a tiro, all’Addestramento trittico i Combattimenti, eccetera eccetera, se no col cavolo che farò il servizio di prima nomina, come tu dici! Per il P. di L. (o ex P. di L.) 150 aspetterei, se ti è possibile farmeli avere, da Calvi, quei numeri che t’ho detto: sono impazientissimo di leggere le tue critiche, a La straniera, a La nave bianca,151 e la mia a Marinese (nel pacco aggiungo anche il libro di M., così potrai dargli un’occhiata) – perché

non me la ricordo più – quando uscirà. Fammi sapere qualcosa, dunque, sulla tua pross. Contentissimo che tu legga Kafka: e più contento ancor che tu dica ch’è la “chiave del Vampiro”, perché più o meno l’avevo immaginato dalla descrizione che di Kafka faceva il prof. Barigli nelle tesi di Estetica su Wilde etc, studiate da me l’anno scorso. Appena arrivato a casa, se avrò tempo, prima di ripartire per compiere la parte più importante, sostanziale del mio dovere, darò uno sguardo a quella Storia della pazzia.152 Io, da quella persona equilibratissima che sono (o che mi dicono essere), io provo pel mondo della follia, dell’alogicismo o del nebuloso una irresistibile attrazione. Tanti auguri per la tua sceneggiatura e per i tuoi importanti studi di Chimica Ugo

Monopoli, 6 aprile [1942] [– XX] Cara mamma, un bel regalo per il tuo santo! Ricevo oggi, lunedì dopo Pasqua, il tuo espresso raccomandata, e ne sono superlativamente contento. È una grande soddisfazione la lettera di Chiarini,153 e sono contento anche per l’articolo inviato a Libro e moschetto che, per ora, è meglio non venga pubblicato.154 Sarete felici anche voi! Tanti tanti baci, vostro Ugo Per Viazzi: Caro Jusik, ricevo la bella notizia. Scrivimi sùbito quel che ne pensi. E provvedi per le foto di Duvivier, e per tutto quello che credi opportuno. Fruga pure nei miei cassetti: qualche buona foto di Duvivier, ad esempio, ci dev’essere. O prova da Guido.155 Eccetera. Infòrmami. Un affettuoso abbraccio Ugo

Alla Signora Angela Casiraghi via Broggi 23 Milano

Monopoli, aprile 1942 – XX Carissimo Jusik, anche Esercitazione di guastatori, oltre Il ponte n. 3, è un cortometraggio in gamba. Ed era degno di essere citato con uguali onori. C’è, in Esercitazione di guastatori, una fotografia che fa pensare al Caracciolo156 di Uomini sul fondo; ove il filmetto riproduce un getto di lanciafiamme. A proposito de Il ponte n. 3 ho scritto: placide dissolvenze; ma in verità di dissolvenze ce n’è due o tre; per il resto si tratta di un accurato montaggio per taglio netto, ma così connaturati questi tagli gli uni cogli altri, così calmo, disteso questo “rapsodico lavorare”, che l’impressione di calma, placida, tranquilla consapevolezza, è quella dominante a prima vista, e non solo a prima vista. Paion film primitivi, questi dello Stato Maggiore, sembrano avere anni e anni, e storia dietro di sé, polvere sopra di sé: effetto certamente dell’apparato tecnico un po’ primitivo, un po’ povero, ma effetto ch’è ben lontano dal nuocere, e dall’urtare; che dona, anzi, ai piccoli lavori, un suo particolare crisma. Ripensandoci bene, forse l’Esercitazione di guastatori è anche più degna di lode e di attenzione, in quanto maggiormente notevoli sono i singoli e curati fotogrammi, qualcuno di bellezza immediata; com’era bella quell’ultima immagine, in un recente giornale Luce, della sentinella italiana sul fronte russo. Viceversa, Il ponte n. 3 che, perdio, non ha proprio nulla, ed è cosa povera, misera, senz’attrattive, si ricorda molto lucidamente nella sua interezza: c’è qualcosa che fa pensare persino al primissimo Clair: ma è cosa da pazzi!157

Ad ogni modo, siccome ho visto che, ad esempio, il Racconto da un affresco158 viene regolarmente proiettato al pubblico, mentre tu certamente non potrai forse vedere mai questi due cortimetraggi dell’Ufficio Addestramento, mi premerebbe sapere il tuo giudizio, tenendo presente che il mio articolo vuol valere più come indirizzo generale, come bontà di certe idee informatrici – all’inizio, alla fine –, che neanche conta citazioni, come pratica e concreta esemplificazione. Su un giornale, Vedetta mediterranea,159 oggi ho visto che la critica dei film è fatta da E[nrico] Morovich: un pezzo sul comico Arturo Bragaglia. Ho visto citato Il Fascio, con ironia, a proposito dell’opinione di Trestelle (Pistoni? Io credo) sull’“arianità spirituale” dei film presentati, che i cinematografari dovrebbero intuire e controllare. In genere ho notato che su tutti i giornali, quotidiani, settimanali, e sulle riviste, sempre più spazio viene concesso al cinema: problemi del cinema che naturalmente son sempre trattati da un lato superficiale e transeunte. Vedi anche, ad esempio, su Libro e moschetto. Ho letto l’ultimo numero di Film: penso che il giornale è migliorato. I nomi sono un po’ sempre gli stessi – D. Palmieri, Giovannetti, Marotta, Savinio, Càllari, Calcagno, Paola Ojetti moglie di Doletti ecc. – ma qualcosa di buono si può trovare, specialmente per merito del simpatico Giovannetti, un Palmieri più preparato e culturale: un Palmieri assai più serio. Mi fa sperare qualcosa, da alcune primizie fotografiche, Redenzione, da Farinacci, specie per il Tamberlani.160 Interessante la notizia, che non ti sarà sfuggita, sul prossimo film, a soggetto sceneggiatura regìa sua, del Comandante De Robertis: Marinaretti. E Roberto Rossellini che dirige Macario. E la condirezione Antonioni-Marcel Carné.161 E (su Cinema) la notizia del Nostromo – piuttosto parca la risposta a me – a proposito de La Bête humaine (ma credi che, nel caso favorevole di presentazione, gli lascerebbero questo titolo?) e di Remorques.162

Su Cinema, oltre al mio, di cinematografico c’è soltanto il bel pezzo di De Santis su De Sica.163 L’articolo “Ragioni ereditarie” è spiccatamente assuntiano164; talvolta quelle preziosità di stile ottocentesco guastano. Si vedrà la continuazione: e fra – l’altro – speriamo che continui… (cfr. Puccini - De Santis). Allucinante addirittura la notizia dell’ultimo periodo dell’articolo di Lo Duca: del solito Lo Duca.165 A proposito del giornale, come mai – a quanto mi comunicano i miei – ancora un numero senza cinema? Io qui ho visto Non me lo dire!, per la sequenza del pazzo e rivisto, ancora una volta, Delirio. Forse beccherò il Salvator Rosa166 prima di partire per il campo, o più probabilmente uscirà la sera stessa della partenza. Le “alcune scene” viste m’han fatto favorevole impressione per ora. Il film di Macario è molto brutto. Quanto a Delirio, ho fatto fatica a portarlo a termine. Questo film, come sai, non m’è mai piaciuto, fin dalla prima volta. Ed urta ancora di più di un film brutto e completamente mancato, in quanto qui alcune cose son serenamente belle. Citerò: Gilberto, il cognato cretino che corre dietro al treno gridando “mi ucciderò”!; l’incontro Andrea-Francesca con quella illuminazione intermittente, dove spesso la illuminazione sottolinea i visi nei momenti importanti rispetto al dialogo; qualche visione di fari nella notte, tipicamente allegretiana (cfr. “Entrata degli artisti”); la macchina ferma, e il treno che passa: sequenza nuova rispetto a molt’altre analoghe d’altri film francesi (Carné, Valentin etc.); la camera d’albergo dopo l’amore reiterato, paragonabile – ancora – con Entrata degli artisti; lo scoppio di Barrault e tutto il personaggio suo in genere; l’incrocio – alla Pabst – delle due nere figure in cima alla scala: Michèle Morgan ch’esce dalla cabina telefonica, e l’uomo che vi si dirige: un attimo; l’illuminazione nella scena d’addio di Francesca e Andrea: chiarore e croce, la donna v’è incorniciata come un Gesù. Altro non c’è.

Ho letto: Katrina di Sally Salminen, che resta sul piano – non sublime – della Lagerlöf;167 Eresie letterarie di Papini; Vita sessuale, un manuale di buona divulgazione scientifica del dott. Franceschini, edito da Hoepli, pericolosamente oscillante su un filo di rasoio di idee solide e buono e di ingenuità catartiche. Affettuosamente tuo, Ugo

30 apr[ile] [19]42 – XX Carissimo, mi trovo ancora, per qualche giorno, a Monopoli. Ho perciò un po’ di tempo per rispondere alla tua lettera che ho già letto e riletto diverse volte. A me sembra che gran parte delle tue impressioni su Alba tragica si dovranno riportare tali e quali, per non spezzarne la calda immediatezza. L’approfondimento e la discussione e la precisazione si faranno in un secondo tempo. E poi mi sembra che, se io ho imparato molto dal tuo esempio, così anche tu ti accosti, forse inavvertitamente, ma sensibilmente, al mio modus stilistico (rileggi, per favore, il tuo pezzo di critica su Un pilota ritorna che, non so come, m’è arrivato).168 “Appunti e problemi”169 è il tuo lavoro più impegnativo, e certe pagine (è il caso di parlare di pagine) sono, come già avvertii a suo tempo, insuperabili. Ma non ti faccio complimenti se ti confesso che, l’architettonicità non essendo stata raffinata, io preferisco ancora “Il canto del cigno”170; tolto il piccolissimo neo che già ti feci, a suo tempo, notare. La favola che mi mandasti te la farò avere, tra qualche tempo, “riveduta e corretta”. Essa è bella, e bellissima, in qualche squarcio lirico; tuttavia mi parve, per questioni di ritmo temporale, inferiore sulle altre che conosco. (E continuerò a interessarmi di Zartarian171 a un solo patto: che tu tolga quel grottesco “traduz. di J. A. e U. C.”: io non c’entro per niente: al massimo, se sarò capace, scriverò invece una prefazione obbiettiva. Ci mancherebbe altro! Dunque, intesi?)

Invece, collaboreremo, s’intende, assieme, per “Profili di registi”; ma direi, soltanto dopo la pubblicazione e il successo (o l’insuccesso) di 12 testi. Non dobbiamo, dico, avere scrupoli per 12 testi: quello che rimane andrà a fare “Profili di registi”. Ma se, diciamo, a proposito di Un carnet di ballo (testo n. …) vogliamo immettere “un profilo di Julien Duvivier”, facciamolo pure, senza pensarci due volte. Vorrà dire che in “Profili di registi” faremo un profilo tutto diverso, o non metteremo affatto Duvivier (sibbene Jean Renoir, ad es.). – Mi fido completamente di Marisa per le foto. – “Cher-Bibi” è “Cheri-Bibi”, di Léon Mathot172. – Il tuo “carrettofantasmiano” “laurelhardiano”.

supera

il

mio

– Approvo quanto hai scritto a Chiarini. – “Cortometraggi”, o “cortimetraggi”: è indifferente. Io avevo scritto proprio cortimetraggi. – Leggi, per informazione di Frisia, il pezzo di Piovene. Oltre quel “a quanto leggo”; copiò, all’inizio, “Enrico Gras, Carpignano, Luciano Emmer e Tatiana Grauding” e, alla fine, il fatto di Adamo ed Eva che s’allontanano. – Leggo, sull’ultimo Cinema, interessanti nomi a proposito di prossimi articoli. Arnaldo Beccaria è l’uomo che presentò a Gianni “Umanità di Stroheim” e me. – Allora, con Garzanti, tenta per Uomini sul fondo, anche. E come no? Può afferire anche in due posti. Bianco e nero può concedere il permesso di riproduzione (in fondo al saggio: B. e n.: è una specie di pubblicità anche per loro). – Notevole la diversità di pareri tra te e De Santis a proposito di Un pilota ritorna per quanto entrambi vi rifacciate a Renoir173. Tu, forse troppo formalista (nelle tue lettere, molto contenutista). Lui, troppo contenutista. Io propendo per te. De Santis certamente non darà il valore che noi diamo a

Uomini sul fondo e La nave bianca (per quanto, stavolta, non potrebbe mai fare spiacevoli paragoni coi giornali Luce!). – Guido, sempre poco studioso, troppo intelligente. E poi, non mi scrive mai (andiamo, trovo io il tempo di scrivergli!). – Risentii il disco di Polvere di stelle, sotto la tenda, al campo, e mi piacque meno dell’altra volta: mi piacque decisamente poco. – …“e esasperarci dentro ogni energia”: frase che si farà notare in 12 testi. – Mi scrive Fausto Salvatori174 una bella lettera. Ti ringrazia e ti ringrazio. Terzi (hai notato che progressi?), Frisia, Salvatori… vengon su, questi rampolli. – “Signore che un tempo scriveva ‘De Sica, zero in regia’ a chiusa d’una critica!”175 Non hai torto: tuttavia, secondo me, il torto mio sta esclusivamente nel non aver intuito possibilità extracommerciali in De Sica (se avessi visto Rose scarlatte, ne convieni?, sarebbe stato più facile). Io non credo che l’“io” rovini una critica, forse perché non tendo a vestir abiti critici! Mi piace far notare che qualcuno crede di esser più obiettivo di noi mettendo, giustappunto, il “noi”. Vero De Santis?: “noi gli siamo riconoscenti”, “noi ci rallegriamo”. E vero, Mario Casalino? E vero, talvolta, De Micheli? – D’altronde, non è funzione della critica l’obiettività di forma; se mai, quella di pensiero. Ma sempre a patto di non distruggere chi la fa. – “Sentirci russi sul leggere Dostoevskij, ed esser Browning quand’egli dice: etc.”: fino a un certo punto, giusto. Preferibile: togliere da Dostoevskij, da Browning etc., quello che può formare la personalità, ad es., e l’originalità di U. C., italiano. Solo quello. Non esser mai capaci di ripetere un libro, di scrivere delle monografie complete. Ma far sangue proprio di quel che s’accetta, e questo sangue non riconoscere più come altrui. Mescolarlo col nostro derivante da esperienza umana e di cosa: farne tutt’uno, che ci guidi, che ci faccia “vivere”. Farne, e non per scherzo, “pascolo e tormento all’anima nostra”.

– Sentirmi dare del “letterato”, credi, mi confonde. E mi umilia! – Chissà se anch’io riuscirò a infonderti un po’ di classicismo. Chissà se potrai comprendere che Pitigrilli è un volgare manipolatore, un masturbatore raffinato, e non di se stesso (“masturbatore spirituale di se stesso” = Leopardi), ma di estranee sensazioni esclusivamente ipodermiche. Per altro c’è Giovanni Boccaccio. È vero, però, che le novelle – diciamo così – sconce, son le sue più belle. – In Carné non c’è Breton, non ci son “vasi comunicanti”: è vero? Duvivier: il colorista. Carné: il chirurgo. Un abisso fra di loro. Come su Pabst, leggo qui frasi molto importanti, molto suggestive, di una precisa, documentata e coerente suggestività: “Non slancio ma intrappolamento, non passionalità ma rassegnazione”: aggiungerei: “non interesse, ma la lucidità del tempo che passo e non comprende e non persona”. – “La divinità, assente, né amata ma neppur odiata: ignorata in un apatico fluire alla foce”. (Le note su Pabst introduttive a M.lle docteur? Ottimamente. “Il canto del cigno” introduttivo ad Alba tragica? Un po’ meno. Semmai, conclusivo. L’apatico fluire alla foce del film francese. Ora esso, nel migliore, la causa d’una rinuncia, d’una decadenza, d’una infinita desolazione.) – “Venire da non si sa dove, attraversare un mondo che non si conosce, di cui non si può conoscere nulla, andare non si sa dove.” – “Uccidere… per disincantata sensazione.” – “Personaggi vivi, non tipi… ma uomini…”: posso approvarti, forse. “La loro profonda verità umana dell’anti-umano.” – “Il linearismo di Pabst, il ritornare su se stesso di Carné” – (Parlare si potrebbe, è vero?, dei “compartimenti stagni” di Carné.) Fondamentale distinzione tra Duvivier pessimista (ma il suo pessimismo, ho notato, è al centro della sua arte) e Carné a-pessimista: dici. Carné “che non è neppur capace di essere pessimista”. O personaggi “senza una fede, senza credere a nulla né in sé né fuori di sé, colano a picco” (ricordo di Morley). – “In Carné non vi sono cause ma solo effetti; in Duvivier, le une e gli altri.”

Adesso ti dico perché la tua lettera mi è piaciuta anche più di altre. Perché ho visto che “andiamo d’accordo”. Perché, come questi tuoi brandelli, i nostri “testi” non debbono essere completi saggi, ma introspezioni liriche. Ci potrebbe essere, anche, un testo brevissimo, accanto a “Notti bianche”. – Che importa! – Anche non come Carné: noi non tendiamo né a stupire con la nostra cultura, né a far colpo con le creature (leggi “testi”) degli altri. Noi vogliamo che da cose altrui esca schietta, lucida, profonda, rigogliosa, la nostra personalità. Noi vogliamo che alla base, come substrato, ci sia il cinema, non tre testi, né sei, né dodici. E allora i veri protagonisti saremo, com’è giusto, noi. E allora potremo dire d’“aver scritto un libro”. (P.S. Ti accludo la favola, che ho fatto in tempo a rivedere.) Affettuosamente tuo, Ugo Nella lettera che mi scriverai mi darai notizie tue e di cinema: com’è Si gira, che n’è di Bianco e nero, che n’è di quella famosa foto di Pabst e Renoir (quelle di Pabst dovrebbero essere inviate al Nostromo, la cui risposta è favorevole). Ma io ti riporto il pezzo, dalla lettera di quel mio compagno, riguardante il “testo raro” Un viaggio immaginario di René Clair.176 La trama è questa: Un impiegato, innamorato di una sua compagna d’ufficio, sogna a un certo momento d’incontrare una “vecchierella-che-sta-per-cadere-nelle-grinfie-di-duemanigoldi”. La salva, e lei gliene è tanto grata che lo conduce verso un albero (a questo punto appare una strana e tremolante didascalia, annunciante “Il segreto dell’albero cavo”), che dà adito (dopo un movimentatissimo passaggio in un curioso fardello, in cui i due strusciano velocissimamente a

pancia in giù, come in un toboga – oh, la sportivissima vecchietta! –) ad una meravigliosa caverna, festosamente addobbata. Arriva a questo punto una schiera di vecchie, che la vecchietta “n. 1” spiega essere sue compagne una volta, come lei giovani e bellissime, così ridotte per il maleficio di uno stregone. Se un bel giovanotto le bacerà, esse torneranno ad essere le belle fanciulle d’un tempo. Il “bel giovanotto” esegue, ed ecco una bellissima accolita di giovanette, elegantemente vestite (quel “bellissima” e quell’“elegantemente” li devi naturalmente riferire all’epoca del film!) fra le quali spicca radiosamente la ex “vecchierella n. 1”. La quale, per compensare il giovanotto, fa apparire nella caserma la sua compagna d’ufficio. Baci, abbracci, carezze, ammiccamenti furbeschi dinanzi all’obbiettivo, e danza delle “ex vecchierelle”. Ma ad un certo punto, una di queste (didascalia: “Silvana, la fata del male”) fa apparire (se ben mi ricordo) i compagni d’ufficio del giovane. Zuffa, botte da orbi, e dono da parte della “Ex v. n. 1” al giovanotto di un anello, strofinando il quale potrà appagare ogni suo desiderio. Poi si assiste al risveglio del giovane, nel suo ufficio, e si vede che, per caso, una tenda, strappandosi, ha lasciato cadere sul tavolo un anello, in tutto simile a quello del sogno. Il giovanotto allora, sentendosi forte del possesso di quel magico talismano, fa quello che diversamente non si sarebbe mai sognato di fare, e cioè prende ferocemente a pugni i suoi compagni d’ufficio (quelli che insidiano la sua bella), conquistandosi così la riconoscenza e l’amore di questa. Bacio finale, abbraccio, due teste accostate e sorridenti (come sulle cartoline dei paesucoli), e poi “tac”. Luce. Movimento, Chaplin, Ridolini (Stile, immagini) qualche trovata surrealista “nell’arredamento, nella corsa giù per il tunnel, negli stessi congegni che azionano le porte della cascina magica”. E questo è tutto. Cercheremo di completare noi. Tuo, Ugo

Milano, 13 giugno [1942 – XXI] Caro Ugo, non ho potuto scriverti prima, malgrado le mie intenzioni, perché piuttosto indaffarato a prepararmi per alcune prove scritte che dovevo superare per giungere ai corrispettivi esami orali. Roba, per intenderci, zeppa di matematica; difficile. Ma tutto è andato bene. Penso che l’[illeggibile] sia un libro inutile e banale; molto in gamba – all’altezza, come al solito – il restante programma. Ma non scordare il nostro libro. Se rimanipolerai il “Vampyr” per Chiarini, citerai Rachmaninov? Io ho scoperto in una libreria un meraviglioso album di riproduzioni di Bosch; quel porco costa però 260 lire. Al cinema, stagione morta. Si gira ha, nel secondo numero, due belle foto di Giacomo l’idealista di Lattuada: è percepibile l’influenza di Griffith, Giglio infranto, Agonia nei ghiacci, però. Le tue belle lettere ci rendono molto lieti, quaggiù: e anche orgogliosi di te. Caro Ugo, non sarà mica il caso ch’io ti ripeta quel che penso di te, specie quanto “uomo”, oltre che cineasta, vero? E tu almeno ài la soddisfazione d’un dovere compiuto, maggiore perché maggiormente duro il dovere. E in questo, ad esserti vicini, siamo in non pochi, lo sai. Ed ora passo a concederci una “vacanza lirica”, a parlarti del Traditore, mettere giù materiale pel testo n. 4.

Sarà indispensabile una premessa sul Ford maggiore e sul Ford minore. Il parallelo impostato per Vidor e Pabst (importanza dei contenuti “vissuti”, legati ad impulsive e fermentanti direzioni polemiche, Allelujah! e Kameradschaft in rapporto a Stella Dallas e Ragazze in pericolo) può estendersi anche sul discorso su Ford (ma di Vidor ignoriamo E le stelle stanno a guardare, cioè no, La cittadella, E le stelle non è di Vidor, ma nella Cittadella177 ci sono i minatori, mica saran quelli di Pabst?), in quanto anche a Ford necessitano le vive premesse d’un impegno puro ed “aderente” per estrinsecare un particolare modo di vedere la vita, porre in un piano d’arte una storia che rifletta una concezione di vita non subordinata alle limitazioni contingenti. Come spiegare altrimenti opere come Pattuglia sperduta, Traditore, Ombre rosse, Furore, accanto a Uragano, Maria di Scozia? Certo è che anche nei confini del commercialismo, Ford cerca di imporre un certo senso di rigore formalistico, d’uso di elementi di alto stile, ma sarà certo inconscio riverbero del Ford maggiore, non sicura e controllata immissione di valori positivi. In Maria di Scozia, l’uso del sonoro (i pifferi), il ritmo doppio (nel quadro e nel montaggio) nella morte di Rizzio, il taglio delle scene finali non si devon considerare “pezzi di bravura” inseriti a sostenere logore vicende puntate sulla personalità divistica degl’interpreti, sulla commercialità della trama. Forse invece dinnanzi a certe situazioni, Ford “sente l’impostazione”, e inconsciamente trasporta quei pochi metri di pellicola in un piano superiore. Ora, se si volesse individuare con esattezza il “perché” di questo processo, credo si sarebbe centrata in pieno la cifra del regista, quella cioè che altrove lo conduce a tener tutto un film intero sul piano dell’arte. Compiacimento formalistico non dell’essere; altrimenti qualsiasi storia, qualsiasi situazione gli si presterebbe a venir trattata “così”: contrariamente a Pabst, Ford non possiede la padronanza, completa del mezzo, quella totale padronanza che fa sì che l’artista si riveli nel linguaggio, anche laddove la trama è esile, le possibilità poche. Dal punto di vista dell’espressione, il linguaggio di Ford è “raggiunto” e “realizzato” solo nell’incontro con una determinata materia,

con dei determinati personaggi. Laddove Pabst impone al contenuto il suo “senso” del cinema, e la sua concezione di vita impone a qualsiasi situazione (gli basta l’angolazione, o la geometria determinata dagli oggetti in ripresa, a dare l’inequivocabile significato alla materia; cioè, d’un soggetto Pabst prima sfronda gli elementi umani intrinseci, riduce tutto a pura forma, e nell’attimo stesso della realizzazione, “nella forma” ripropone il tema umano, ma in scarnificata, purificata, astrattizzata maniera), Ford non ha la forza sufficiente a fare dell’arte da qualsiasi materia, e neppure del buon cinema: in lui, Ford, tutto deve coincidere: il suo mondo con quello intuito, le cose espresse e il senso a priori esistente nelle cose, le possibilità della materia e le sue intrinseche possibilità considerate nei riguardi della materia. Per cui egli crea quando questo contesto è assimilato in pieno: ed è, credo, tale punto, identificato nel “senso del destino umano”. (In Lang invece, questo senso sussisterà solo in rapporto a raccordi esteriori: non storia dell’uomo, ma di “certi” uomini, e in “certi” ambienti, in “certe” condizioni; almeno, questo, nel Lang che conosco, Furia, Sono innocente: a proposito, che ne dici d’un testo sul Lang d’America, invece dell’Angelo azzurro che mi dicevi essere per lui poco gradita, o un poco lontana materia?) Tornando a Ford, credo egli crei solo quando “si trova a suo agio” nei rapporti suoi con la materia; se no, quel tanto di stilisticamente positivo che in lui resiste, è riflesso inconscio, intuizione frammentaria. Carradine in Uragano rispetto al Carradine di Ombre rosse è in proposito significativo: lì uno schema, che non riesce a vanificarsi neppure sotto l’ausilio d’una tipica illuminazione fordiana, qui uno sviluppo dello schema nella direzione d’una “commercializzazione”. Così, nel Ford minore, il raggiungimento d’uno stile in varie forme e in vari frammenti, quando un qualcosa del personaggio si trova ad essere legato ad un senso particolare del destino, della condizione umana. In Pabst, questa condizione vivrà in funzione della polemica delle situazioni (primo periodo) o della polemica formale degli ambienti (secondo periodo); in Lang sarà funzione di elementi sociali (Metropolis, M, Furia) e solo in Nibelunghi risulterà

collegata ad un mito; in Ford sarà la “condizione umana” nell’accezione maggiormente estesa del termine: un umanitarismo – non l’umanitaria aderenza del Duvivier sentimentale –, non sentimentalismo: ma qualcosa da collegare, credo, a Broken Blossoms. Infatti, nel Ford minore (ripeto, Maria di Scozia, Uragano, Il mondo va avanti) il polso è assente quando i personaggi giungono ad un punto naturale della loro esistenza, ad un modo quando lo svolgimento si impone su un piano di utilità superiore (Ford dev’essere cattolico: ad ogni modo crede nella Redenzione), anche se fino ad allora il personaggio era inconsistente, o labile, o posticcio ci deve (per inconscia determinazione voluta dal regista) “dire qualcosa”, portare seco un significato ch’è ben più largo di quello fino ad allora concesso dalle limitazioni del soggetto in sé, del carattere in sé, ed abbiamo, appunto, la morte di Rizzio e il finale di Maria di Scozia). Questa “condizione umana”, questo “destino” per Ford è valido solo al di fuori dei tracciati dell’analisi psicologica, lui non analizza un personaggio, non lo pone come Pabst, in un certo ambiente onde saggiare le reazioni e dalle reazioni trarre considerazioni di sviluppo o conclusioni: il personaggio preesiste a Ford (o in Ford), egli si limita ad esprimerlo. Nel far ciò, il suo stile è narrazione e null’altro: l’uomo esiste, per lui e vive ed agisce e segue altre leggi o agendo in questa o quell’altra maniera è riportato alle leggi; le cause sono nell’intimo della natura umana, nel mondo spirituale, etico degli uomini: ecco perché Ford non polemizza, ecco perché crea Gypo senza cercar di discolparlo per un attimo solo (Gypo compie azioni immorali su azioni immorali, eppure noi parteggiamo sempre per lui; anche quando è giusto egli venga giustiziato, vorremmo si salvasse; anche quando tradisce, quando accusa il sarto, siamo per lui, eppure senza sentirci turbati nel mondo della nostra coscienza, senza pensare alle cause sociali o individuali che han fatto di Gypo quel che Gypo è, senza accusare nessuno, neppure lui, neppure la nostra indulgenza: perché Gypo è su un piano di “umanità”, e questa

invariabilmente, “necessariamente” lo porterà alla purificazione, alla Redenzione); ecco, dunque, perché Ford non differenzia nell’espressione il “bene” dal male: perché entrambi elementi di “condizione umana” (vedi la fine del baro in Ombre rosse). Questo destino, i personaggi di Ford se lo portano seco fin dall’inizio della loro vita (è pacifico ch’io ormai parlo del Ford maggiore), non è determinato da cause ambientali, non da influenze o rapporti individuali; egli mai avrebbe potuto fare L’angelo azzurro. Per cui tutto il mondo psicologico dei rapporti psicologici gli è estraneo, e non conosce azioni determinanti, se non poetiche: la polemica, ripeto, gli è estranea. Così Gypo sentirà viva, anche nella miseria morale, anche nell’errore, la coscienza sua d’uomo: nel locale notturno vedrà la “sua” donna nella bionda donna ch’è in balia di tutti: e la condanna della “condizione d’umanità” lo spingerà a donare del denaro, e tradirà non per fame o per vizio, ma per amore, e per la legge di questo disperato amore sfuggirà alla giustizia, si ribellerà fino all’ultimo, fino alla conquista della pace e della serenità nella morte. Mi preme soprattutto notare quest’umanità di Ford; non egocentrica come quella di Stroheim, non mezzo d’espressione per dire la propria parola come in Pabst, non supina accettazione come in Carné, come in Renoir (in rapporto a quest’ultimo, quant’è lontano dalle suggestioni letterarie, Ford), ma posizione attiva, determinante; anche nella tragedia, anche nel tormento più vivo. In lui una qualsivoglia imprecazione, o accusa, non è avvertibile: è il cuore umano che va laddove lo spinge una superiore legge: nessuno ne ha colpa, al di fuori: esistono invece zone interne, in cui gli errori vanno risolti, riscattati; ma sempre sotto l’influsso d’un qualcosa che trascende le forze umane, le leggi umane, la giustizia umana. Importante, dunque, l’aderire di Ford ai suoi personaggi: per cui quando in quest’ultimi l’umanità è poco palesata, o essi

non sono nella situazione atta a rivelarla, gli sfuggono (caso del Ford minore). Così nel Traditore l’assunto morale, etico, è fulcro del dramma (notare la serenità di questo dramma): Gypo non è un bruto, un incosciente, un puro fascio di muscoli che in apparenza: obbedisce a leggi profonde, d’indole spirituale appunto; la sua donna, la prostituta, porta nella depravazione tutte le malinconie e tutti i rimpianti di quello che Vittorini nel suo Conversazioni in Sicilia chiamava “il genere umano offeso ed umiliato”; e la madre, la madre di Freud (quel suo strozzato mugolio lamentoso, accucciata a terra, quando le macellano il figlio); e la umana verità della coppia che traccia la second-story (quella scena controluce, oasi nel dramma); e il sarto; e il cieco: tutto un esatto movimento di attimi di umanità colti nell’istante più espressivo, a conglobarsi e confluire verso la purificazione in finale dell’eroe. Nelle mani di Renoir, Gypo sarebbe divenuto un Jacques Lautier178, in quelle di Duvivier, un Pépé le Moko (confrontare i finali di Traditore e di Bandito della Casbah) per Ford invece, Gypo è l’“uomo”, l’uomo che sarà generoso inconsciamente e coscientemente, che avrà delle spontaneità di primitivo (come si avvicinerà al fuoco, quando si rifugerà nella camera della sua donna; come affiderà il capo stanco in grembo a lei; come si commoverà a sentire quella canzone irlandese semplice e genuina, nel locale notturno) e delle complicazioni di animale preso in trappola (la storia che inventa per discolparsi, l’accusa al sarto) e delle bontà sincere (l’elemosina fatta al cieco) e delle irruenze di bestia (dinnanzi alla friggitoria, abbatterà a pugni due uomini, altri colpirà nella disperata fuga). Ma centralizzarsi su Gypo non basta. Tutti gli altri elementi sono di vasta importanza: dai personaggi di contorno, che servono il dramma all’eroe alle comparse (la scelta dei tipi, in quelle due panoramiche semicircolari nella cantina). (Tra parentesi: “alla ricerca del cinema perduto”, se lo scriverò, sarà quasi una prefazione ai 12 testi.) E l’ambiente, la scenografia, la fotografia d’una coerenza assoluta; e il

combaciare del realismo con l’espressionismo del finale, di certi primissimi piani; e la musica, nell’alternarsi dei due temi; e soprattutto lo stile, il linguaggio: materiale plastico e montaggio (del potere espressivo dell’angolazione Ford non fa grande uso, non è né Dreyer né Pabst: alla sua verità semplicità umanità bastano mezzi relativamente semplici; come Vidor.) Il mondo morale di Ford? L’espressione della “condizione umana”, e la purificazione nello spirito, tanto nella morte (Pattuglia sperduta, Traditore) quanto nella vita (Ombre rosse), nella giustizia. Ma si tratta di un mondo non freddamente dogmatico, ma pervaso di poesia, di lirismo: la poesia, appunto, della vita dell’uomo. Affettuosamente, Jusik

Milano, 20 giugno 1942 [– XX] Caro Ugo Bianco e nero n. 3 è uscito. Contiene, nell’ordine “Il movimento e il ritmo cinematografico” di Emilio Villa, “Incombenza degli avvenimenti” di Piero Bigongiari, “Contributo alla conoscenza del cinema fantastico” di Glauco Viazzi, “Contributo alla storia del cinema: cinema italiano 1909” di Roberto Paolella, “Nota su Sjöström e Duvivier” di Ugo Casiraghi, un articolo di Calzini sugli stabilimenti di sviluppo e stampa.179 Il primo articolo è ottimo, veramente ottimo: un saggio tipo Spottiswoode, di teoria e pratica assieme, molto vasto concettualmente (vi si parla di psicologia sperimentale, parecchio), seppur poco nutrito sui testi – così ad es. parlando di configurazione ritmica è dimenticata la teoria dei “punti salienti”, sebbene l’esemplificazione sia netta: “La configurazione ritmica può essere ascendente, se il motivo è incentrato verso la fine (Hallelujah!), o discendente, se collocato al principio (Fortunale sulla scogliera), o a parabola, se il motivo è al centro (Atlantide) o a configurazione lineare, se il motivo è intensamente diffuso per tutto il film (14 juillet); e quest’ultima situazione è da rapportare ad una osservazione di Camerini sui carrelli di Clair, citata poche pagine più avanti dal Viazzi”. Il secondo articolo è dovuto a un letterato, ma centra a sufficienza i problemi essenziali dell’arte filmica su un piano di estetica universale (infatti finora si dimostrava che il film è

arte basandosi sull’autonomia del linguaggio: Bigongiari va oltre). L’articolo è buono. Il terzo saggio è nettamente inferiore alla portata del titolo, e riesce solo a stabilire le premesse che differiscono il film surrealista dal film fantastico; è tutt’al più una breve introduzione al vasto soggetto, un’iniziale precisazione di limiti. L’articolo termina con una lista di otto nomi che l’autore ritiene degni di studio, ritenendoli validi non solo come esperimento, ed è accompagnato da otto fotografie, di cui quattro dal Vampyr, una da La strega,180 una da Nosferatu e una da Liliom di Lang.181 Il quarto saggio contiene pregevoli apporti all’eliminazione di certi luoghi comuni ancora frequenti alle storie del cinema; considera non anticinematografica l’immissione degli elementi teatrali avvenuta col celebre Assassinio del Duca di Guisa,182 notando come solo dopo questa data si sia avuta una recitazione verista, mentre prima del 1909 il cinema era solo pantomima e la recitazione simbolica ed allusiva. La notazione è certo fondamentale, ma non tale da investire tutto il problema. Si può ritenere una positività degli inizi di tale stile recitativo, ma le conseguenze furono deleterie, e una recitazione al tempo stesso verista e plausibile – cioè cinematografica – apparve solo molto più tardi (scandinavi, primi americani). Il quinto scritto costituisce nelle grandi linee un ragionamento estremo su Duvivier. Efficace è l’apporto storico dato con l’analisi del film di Sjöström; per Duvivier, esemplare è la suddivisione in “primo periodo” e “secondo periodo”, spiccatamente originale. La vigoria esemplificativa introduce bene nella vera e valida conclusione sul merito reale dell’opera del regista francese. L’articolo di Calzini è un progetto per la costruzione di uno stabilimento di sviluppo e stampa. Nella rubrica “Gli intellettuali e il cinema” è riportata una estesa pagina di Ugo Spirito dal testo “La vita come arte”. Indi solito notiziario del CSC183.

Io ho fatto fin’ora un esame, altri due m’attendono alla fine del mese. La lettura del volume di Carlo Bo, Saggi di letteratura francese, m’à spinto a scrivere un articolo che voleva essere un breve saggio su Senza domani184, mentre invece alla fine mi sono accorto che ne era risultato un conclusivo giudizio sul cinema francese, al quale riconoscevo un valore di “messaggio umano” ma non di “messaggio poetico”. Per cui ho deciso di rileggerlo, dopo gli esami, e farne qualcosa di discreto. Il titolo è “I confini e la poesia”. Ti riporto qualche frase. “Così riesce a qualche testo d’assumere, nella memoria, il ruolo specifico e pulito di messaggio al confine, con tutte le incertezze e le ritrosie ed i timori che implicano tali raggiungimenti netti e precisi di luoghi invalicabili: di momenti che danno chiaramente la misura delle possibilità di tutta una civiltà, o di tutto un complesso creativo, o molto più spesso, d’una stampigliata [racchiusa] completa personalità inavvertitamente giunga in rarefatte atmosfere, senza sospetto alcune dell’avventura così incautamente intrapresa.” […] “i film francesi di questo periodo (i maggiormente rappresentativi) sono invece senza dubbio – ad un certo momento però – i rappresentanti delegati d’un costume sociale (lungo la trafila delle predilezioni), d’una mentalità palesata e scoperta con immediata franchezza, d’una denunciata tendenza, ma costituiscono anche la trasposizione d’un linguaggio espressivo, d’un umore di scrittura, d’una misura affettiva ch’erano elementi già interamente raggruppati nelle pagine di Gide, di Giraudoux, di Céline, Bernanos, Dabit, Malraux, Troyat, Daniel-Rops (e altri nomi ancora, fino a Simenon, nel ricordo delle residue e filtrate, [degradate] chiazze di Zola capostipite), e da questi testi di prosa derivavano in capillarità non solo interpretative ma anche di speciosa elaborazione.” “in genere questi film raggiungono i confini del messaggio: quì [sic] risultando imposto loro l’arresto da una mancanza

interiore, da un’incapacità a costruire serenamente nel troppo vorace desiderio di esprimere scavando (‘saisir’ proprio in un significato supervielliano): per cui il ‘messaggio’ pare glorificato dalle impurezze temporali del ‘documento’, rimane ‘umano’ e non riesce a divenire ‘poetico’.” (Ben dissimilmente la prima scuola scandinava, la cui prova formalisticamente era tuttavia sviluppata su una similare traccia: contenuto avvertito in tutte le pieghe, agili mezzi stilistici coerenti alle necessità espressive.) “Quest’immobilità improvvisa alla soglia della poesia non è però solo specifica ai testi indicati: vige nel Cinema francese del giorno in cui Clair vi ha esaurito il suo mondo.” “Le ragioni di questo fenomeno s’intrecciano singolarmente alle radici stesse della civiltà francese, della cultura non la troppa coesione forse, il troppo individuale senso di monologo, di variazione sul tema all’infinito senza possibilità d’approdo, senza desiderio d’ancoramento.” E il finale: “per cui l’ammissione del testo in una regione superiore non è giustificato dalle possibili incidentali coincidenze di stato d’animo e sensazione, in quanto la condizione di poesia ridotta a sola umanità (cioè inquinata da estranei elementi contenuti in soluzione e non assimilati e trasposti non autorizza la degradazione del modello di poesia pura che sussiste nei classici, da Allelujah, al Vampyr, da Tabù a Broken Blossoms:185 salvo Clair, il cinema francese è tale: sul confine: porta chiusa).” [sic] Sono stato eccessivo? Non so: non credo. Ad ogni modo, dimmi. Ho riconosciuto, all’infuori di Clair, solo poesia a frammenti: dico, “poesia pura”, “grande arte”. Ti abbraccio, Jusik

Bari, 27 giugno 1942 – XX Carissimi genitori e carissimo Jusik, vi scrivo oggi perché è una giornata in cui sono moderatamente contento, in quanto è uscito l’articolo su Cinema186. Mi trovo ancora a Bari, come vedete, e sulla partenza, come sapete, vi posso dire le istesse medesime cose di due, di tre e di otto giorni orsono: può esser domani, dopo, o si può aspettare ancora diversi giorni. Qui, la solita vita molle da papi, da canonici; mancanza di preoccupazioni che non siano spirituali. Mie letture: Montale (Ossi di seppia e Le occasioni), le poesie di Cardarelli (così inferiori, a parer mio, a quelle di Montale); rilettura di libri di Pierre Louÿs – Psiche, smagliante, il suo capolavoro; Le avventure di Re Pausole –; il formidabile libretto di Luigi Russo Vita e morale militare; e, sopra tutto, riviste d’ogni genere. Dell’ultimo Primato mi piacque il pezzo di Sinisgalli (colui che mi presentò a Calvi: l’autore lontano, perciò, della nostra rubrica); e la moderata risposta a Ojetti, pure, mi parse eccellente. Eccellentissima, la poesia di Ada Negri (eh, se avessi qui i tre vv. di poesie sue, da te donatimi, Jusik!). Su Spettacolo – numero doppio –, un profondo pezzo di Rosario Assunto sui De Filippo, e un abile e meditabile, seppur involuto, ragionamento di Jacobbi sul cinema187. Di Cinema, finalmente, ho da notare la chiara, evidente tendenza stroncatoria della sua critica (“Vice” stavolta: chi sarà? Credo De Santis)188; e oh quanto, quanto mi dispiace, Jusik, che tu non abbia stroncato Giarabub!189 Giurami di non abbassarti più, per nessuna cosa al mondo!

Quanto al mio articolo, son contento di come è stato stampato (certo che fra baraccone e baraccume una certa differenza esiste; ma che dici, Jusik: non sta mica tanto male, no? e anche il “profanata” di sopra; qualche altro erroraccio qua e là) e delle fotografie; contento di trovarmi assieme, sulla copertina, a Osvaldo e Pasinetti; un po’ meno, della compagnia di Orio Vergani! Il pezzo di Campassi è innegabilmente onorevole190 (per lui, per noi), così dicasi di Gianni Trapani, al quale tu Jusik farai, ti prego, i miei elogi ed auguri (il titolo – con qualcosa di paradossale – dell’articolo, andava, a parer mio, stampato sulla copertina).191 Queste continue parentesi, e questa prosa saltellante ed equivoca, vi possono dare un’idea della varietà, della vastità e della prepotenza che assume in me la espressione dei pensieri quando molte cose ed esperienze son nel cervello, costruite. In fondo, è solo su questi dubbi, incertezze, decisioni e lampi che si può basare una vera vita dell’uomo. Carissimi genitori, e carissimo amico, avete con questa lettera l’assicurazione della mia perfetta salute e, in fondo, della mia tranquillità di spirito; certo, il non ricever posta da tempo non è cosa piacevole, per quanto io mille volte preferisca che voi non mi scriviate, piuttosto che veder perduta una lettera così importante come quella che Jusik m’indirizzò a Monopoli. Affettuosità e vivi abbracci Vostro, Ugo P.S.

Certo, se avessi saputo di trattenermi così tanto a Bari vi avrei inviato subito il mio indirizzo; ma come si fa a saperlo? Ora che siamo in gioco, giuochiamo.

27 giugno [19]42 – XX Carissimo Jusik, sapessi come mi dispiace, in questi giorni, ricevere da te lettere così sostanziose, così impegnative, così sature di osservazioni fondamentali anche per la stesura definitiva del nostro libro, e sentirmi, alla lettura, formicolar dentro una quantità di idee, di proposte, di approfondimenti o limitazioni o discussioni; e non poter fermarle su una carta, non avere nel modo più assoluto la possibilità di scriverle e fartele avere, queste mie precisazioni e, specialmente, queste mie discussioni. Mai ho sofferto come in questi momenti, in cui mi vedo precluse la facoltà di lavorare e di “servire” come intendo io; mai ho inteso come in questi giorni la necessità che uno sia lasciato libero, liberissimo, in certi determinati, fuggevoli forse (ma in me non credo), stati d’animo e “attimi ispirati”. Tu credo mi capirai bene (e tu mi dici: e tu non leggere! e tu pensa di più al nostro libro! – Già, come se non ci pensassi abbastanza; eppoi: credi, Jusik, ch’io legga molto? per l’amor di Dio, solo il giornale e qualche pagina, talvolta, per necessità di conforto); e credo capirai anche quello che ora ti dirò. Con tutte le arie che ci diamo, né io né te possiamo ambire giustamente alla nomea, che tuttavia abbiamo, di “critici”. Non so se a te questa mia osservazione possa dispiacere, io, al contrario, me ne sento lusingato: e fui felice il giorno che scoprii questo in me, e poi in te. E questo si vede a sufficienza, credo, dalle tue lettere (ci fu un tempo in cui ti potevo scrivere cose più o meno esatte di cinema; e allora si vedeva anche

dalle mie). Ed “esatte”, che ho usato, non era, tu sei con me, l’aggettivo da adoperare: dovevo dire “sincere”, “sottili”, persino “fiduciose” – professioni di fede – esatte mai. Perché noi non tendiamo a geometriche classificazioni; né ci preme un intero ragionamento teorico che non faccia una grinza; ma è dall’appassionata discussione di un argomento, che vengono fuori le ragioni essenziali; è da un avventurarsi amoroso e confidente, che nasce il ritratto ideale. E si dica: errò nel tal punto, quest’altra affermazione non era giustificata, ciò non si rivelò profetico; ma si dica. Noi leggendo abbiamo l’impressione dell’artista a noi presente, noi intuiamo i moventi di quell’opera, noi comprendiamo il travaglio di quella coscienza (e quella coscienza fu travagliata “in quel senso”, se pur “per diverse vie”, per contrastanti capillarità). Solo così è possibile far partecipare chi dovrà leggere – perché le cose si scrivono persino per essere lette –, facendo lavorare la di lui fantasia: chè non con precisione assurda di formule constrette, ma per disincantata sensazione intuitiva e fantastica, è possibile avvicinarsi per fulgurazione alla immensa opera d’arte. Solo così noi faremo un libro e non un insieme di note sparse. Ordunque: due cose. Prima: noi dovremo mantenere, per quanto sarà possibile, nel nostro libro, il senso di quel radio interiore e di quell’ansia che sempre ci prenderà e ci condurrà anche a libro ultimato (perché il libro non è una mèta raffinata, ma un punto di partenza: non esistono mete nella vita dello spirito). Seconda: io m’incaricherò particolarmente di “costruire” il libro stesso; a distanza, ricorderò le sensazioni mie migliori, e nello stesso tempo metterò tutta la mia “umanità” e la mia serietà obiettiva (non fraintendere questo termine); per cui è unica ragione di soddisfazione, ora, pensare che quello che faccio ora – tutto – servirà al libro, e fingere nella mia mente ottimista e anticipatrice il durissimo e bellissimo mese intero durante il quale mi seppellirò, mi isolerò completamente con me stesso, e “folleggerò”. Carissimo, prenditi questa confessione con quel garbo e quella simpatia ch’essa si merita e vuole.

*** Proposta d’un titolo (sempre in relazione a quanto detto di sopra): 12 testi: fulgurazioni. *** Rispondo ora particolarmente alle tue ultime lettere, quella su Ford e Il traditore192 e quella sul Cinema Francese e di nuovo Pabst. Anzitutto: aspetto da te, prossimamente, e secondo che ti permetteranno i tuoi esami ch’io ti auguro non brillanti ma soddisfacenti, in quanto so benissimo che da essi può dipendere gran parte del tuo avvenire; aspetto dunque da te e altre note più spiccatamente intorno al testo Traditore, e una approssimativa ma fedele reintegrazione delle tue note andate – come sai perdute, sull’uso del sonoro e delle canzoni in Schanghai e in Pabst in genere.* Rimanipolando il Vampiro (nessuna risposta, finora, daLeone), citerei Rachmaninoff; ma come, e quando? Il mio scritto del 9, abbondantemente censurato? Mi stupisce. ***

St. Th[anas], 28 [giugno 1942 XX] Quassù, al caposaldo di St. Thanas193 che incombe su Korça, il lavoro è immenso. Non potrò per diversi giorni terminare questa lettera, e perciò ritengo opportuno inviarti intanto quello che ho scritto. Credimi, tuo affez.mo Ugo * Né Shangai, né Schangai; ma Schanghai. Marc Sorkin (è scritto sulla pellicola), come Marc Allégret [sic]; Chagall è russo – come sai –; chi m’assicura che Sorkin sia intimamente russo? Non De Santis: Francesco De Sanctis. Basilio Puoti (irreducibile)194

Milano, giugno 1942 [– XX] Ugo Carissimo, ho rivisto Notti bianche di S. Pietroburgo.195 Esteticamente mi è parso film di continuo ondeggiante tra il teatro puro e il cinema puro. Mi spiego: quando gli autori scompongon una situazione, un ambiente, e fanno uso del montaggio, variando l’angolazione, sono in un campo di ottimo, bellissimo cinema (va studiato a lungo l’espressionismo della lentezza del ritmo), quando invece inquadrano in L.T. un interno, si riducono, per composizione a belle figure e staticità. Sei movimenti tutti potenziali, al teatro. Tipico il L.T. di Shults che chiede a Natasha d’andare con lui al concerto. Ma oltre il linguaggio, che ormai credo sia in esauriente maniera definito, conta lo spirito del film, sul quale un tempo eravamo in calda discussione. Credo di dover, dopo erudite riflessioni, non cambiar che certi unici punti di vista formali. Sì, nel film i fatti non ànno indole politica, non sono politicamente rappresentati, ma le cause remote, celate, sottintese e quasi svagatamente offerte, sono ben politiche, almeno certe situazioni. In altre c’è il dramma dell’artista misconosciuto, ma la causa prima, forte e centro, è la condizione ambientale sociale, e il primo aspetto di tale causa, il dualismo popolo-nobiltà. La recitazione è un compromesso tra le opposte teorie di Pudovkin e Stanislavskij. Quanto gli attori devono “recitare” una scena subordinano alla loro presenza la necessità dell’inquadratura (sebbene ciò avvenga molto di rado), allora palese è lo stile di teatro, estrinsecantesi in certi gesti troppo magniloquenti e stilizzati, in giochi

mimici facciali esuberanti, quando invece sono null’altro che materiale plastico docile all’espressione; aggiungono notevole valore (certi P.P.P. sull’attrice di cui s’innamora Jegot prima di giungere a Pietroburgo). Ricordi la “macchia di colore” del Veronese? Ebbene, in Süss l’ebreo di Veit Harlan, quando il Granduca [muore] c’è un’inq. in cui due personaggi solo spiccano, la favorita del Granduca, bianchissima, e accanto a lei, nerissimo, un servo negro. Cercherò di procurarmi il fotogramma. Ho rivisto Senza domani. Sul linguaggio, notai che la presa è quasi costantemente in moto. Sul contenuto, c’è un profumo d’umanità che prende anche a riveder il film per l’ennesima volta, sviluppato dai tagli e dai folli balzi d’un proiettore cam. Ho visto Musica, maestro di [Shamyl Bauman], svedese.196 Un lavoro esemplare, gustoso, ottimamente condotto, guidato, recitato. A me, almeno, non ha ricordato nessuno degli altri infiniti film di simile colore e tono già visti, tanto scandinava era la sostanza e l’espressione (c’è una sequenza, quella della riunione del circolo studentesco, fantastica in tale proposito). C’è poi I figli del divorzio di Christensen, quello, sai di cui parlava Gianni sul finale della sua “cronistoria”197. Non ancora l’ho visto, ma in qualche foto dall’illuminazione bruciante ed allucinata, par d’intuire il Christensen della Strega, di The Haunted House. Ho letto alcuni libricini di Hoepli su Prampolini, Scipione, Matisse, Morandi, Modigliani, sai quell’edizione piccina. Su Morandi, prefazione di Arnaldo Beccaria; buona. Rammenti l’accoltellatore di Shangai198, dal collo storto? E rammenti i colli lunghi e storti dei ritratti di Modigliani? Credi ci sia rapporto? A me piacerebbe che sì. Vedrò, tra breve spero, Commedianti199. Ho letto Proust di Casnati, Baudelaire di Casnati, Rimbaud di Daniel-Rops. Libri che ti farebbero andare su tutte le furie, ma a me sono molto piaciuti. Mi sono viepiù provato ad ampliare “I confini e la poesia”. Sto intensamente meditando

nel pessimismo cristiano di Duvivier, sul mondo submorale di Carné, nella “civiltà” del cinema francese. Chissà che cosa ne salterà fuori. Ho proposto a Sanminiatelli200 un’antologia di poesie armene, per la collezione “Stelle dell’orsa” da lui diretta per i tipi di Garzanti. Vediamo che ne salterà fuori. Sul Corriere Piovene à scritto cose sul cinema lubriche e spaventose: all’incirca, che il cinema è teatro, e la sua sola forza è la parola. Diam sotto con un bel fiume di parole, ragazzi, propone quello scimunito. Le ultime, bellissime, care notizie del bollettino, Tobruck e Sidi Barrani, ti saran state amiche e consolatrici alle dure fatiche, come a noi quaggiù più intenti a meditare rinnovellato rigore sulla moralità e verità della guerra201. Io sì, credo io pure di star ritornando quell’intransigente di punto che ero sui vent’anni, e con esperienza di più, spirituale e morale, più intransigente ancora. Caro Ugo, la tua lettera (ho ricevuto fin’ora una sola da te a me) non si riferiva molto a certe domande da me formulate. O almeno, mi par di ricordare di averti chiesto parecchie cose. Io sono ancora in doglie d’esame. Ma tra breve, bene o male, tutto terminerà, per questa sessione. Caro Ugo, guarda di starmi molto bene. Se puoi, ricupera le foto del Vampyr da Leone. Credo che anche per te, “star bene” voglia dire riavere quelle preziose foto che adornano il nostro libro. Molto affettuosamente ti abbraccio Jusik P.S.

Caro Ugo,

esce ora Cinema 144. Contiene “Perfino l’ingegno rende” di P.M. Pasinetti, “Gli inglesi denunziati dallo schermo” di M. Ramperti, “L’orlando furioso e Blasetti ariostesco” di D. Purificato, vecchi film in museo: “Metropolis” di Campani e Sabel, “Cinematografia svedese” di Tomaso Tomba. L’articolo di Purificato contiene la seguente frase: “Da questi cinematografici motivi, da quella sapienza dell’Ariosto di spezzettare e riprendere la favola, da quel narrare episodico il cui legame magistralmente gioca una vena che sembra perdersi nella terra per rafforzare più in là, dopo un viaggio sotterraneo, da tutto ciò taluno ha creduto ‘intuire e rilevare qualcosa del montaggio cinematografico’. Non osiamo dargli torto; ma è proprio questa eccezionale qualità di narratore dal lungo fiato, occorrente al regista che affronti il Furioso, che lascia in trepida e dubbiosa attesa”. Forse con un po’ di buona volontà riuscirai ad individuare questo misterioso conoscitore del montaggio ariostesco, vero? 202

Aff. Jusik

St. Th[anas], 4 luglio [1942 XX] Carissimo, è stata una buona giornata ieri: ho ricevuto una lettera tua e una, importante, di Marisa. Alla tua posso rispondere sùbito; a quella di Marisa risponderò a giorni. – Anzitutto: Notti bianche di S. Pietroburgo è liquidato. Se avessi qui tutto il materiale, sarebbe ora per me di stendere il testo definitivo, invariabile. Dopo le tue estreme osservazioni, acute, siamo perfettamente a posto, in regola e d’accordo. “Esteticamente, è film di continuo ondeggiante tra il teatro puro e il cinema puro” mi pare frase ben trovata, e che manterrò; sebbene il primo termine – teatro puro – sia per lo meno discutibile. Anche sulla “politicità” del film, d’accordo. “La recitazione è un compromesso tra le opposte teorie di Pudovkin e di Stanislavskij” è un’altra ottima frase. – Conosco i libriccini di Hoepli su Prampolini, Matisse, Morandi, Modigliani e altri, per averli letti negli studi d’Ascani e di Usellini; non molto mi piacque la prefazione di Beccaria a Morandi. – Non posso ammettere, purtroppo, rapporto tra il collo storto dell’accoltellatore di Pabst e i famosi colli di Modigliani; il primo, drammatico; i secondi, squisitamente, e formalisticamente, pittorici. Ad ogni modo, si possono paragonare; ma con conclusioni discordanti, come ho fatto – Vedi presto Commedianti: dalle varie risposte del Nostromo di Cinema, 144, noto che il film ha sollevato grande interesse. – Vuoi fare una antologia di poesie armene: ottimo! Ma, Zartarian? ***

Quando mi dài notizia come quella di Piovene che scrive quello che scrive sul Corriere, oh come mi sento contento e soddisfatto d’esser lontano da tutto! (ma purtroppo non sono lontano da nulla; questo è il disastro, e la pena). – Se è vero, e duraturo, quanto tu dici su un tuo ritorno deciso e intransigente alla fede politica di qualche anno fa, io sono felice, ed è dir poco “felice”; felice per te e anche per me; forse per me sta accadendo il contrario: io mi sento in questi giorni, di fronte alle vittorie fulminee, come leggermente scosso e abbattuto, mi sento improvvisamente “nichilizzato” e malinconico. D’una malinconia sottilissima e, temo, negativa. Avrai ricevuto, ormai, ben più d’una sola lettera da me. Da me a te. Solus, ad solum (ma non ho segreti per nessuno; e questo è indice di debolezza). Mi dici: “la tua lettera non si riferiva molto a certo domande, da me formulate. O almeno, mi par di ricordare ti chiedevo parecchie cose”. Ecco, ricordi male. Io rispondo sempre a tutte le minime domande (non sempre tu, piuttosto, fai questo). Forse ad una non ho risposto finora; ma ad essa, ad essa sola (“Va bene chiuso così l’argomento?”), non posso e non debbo rispondere; e l’argomento non è chiuso. Ma in me ben tristemente attuale. Visto l’ultimo Cinema (oh, quando riceverai la presente, forse non sarà più l’“ultimo”), e notato con grande piacere i “Vecchi film in museo” reintegrati, spero per Il Vampiro e quindi per le foto; e spero anche per il tuo Lulù.203 *** Hanno pubblicato anche il mio “Del montaggio ariostesco e di altre due cose”: io non ne sapevo nulla. Son contento della citazione, indiretta, di Purificato, perché si trova a conclusione, quasi, d’un articolo che non è male. – Bene il ritorno di P. M. Pasinetti; e buono perfino Ramperti, stavolta, che in questi argomenti lucidi e poco profondi è a suo agio. Desolante l’articolo sul cinema svedese. “Vice” credo sia proprio De Santis: cfr. le frequenti citazioni di Renoir, La Bête humaine, La grande illusion; e nota che lui pone costui accanto a Clair; io dico: se Renoir, anche Carné allora, anche Duvivier; se no nessuno – Campassi – Sabel piuttosto

miserello stavolta, sebbene utile il riassunto e all’altezza il paragone finale con Clair; errato il profilo generale di Lang. Su Film del 27 giugno vedo una straordinaria foto di Ninchi in Luisa Sanfelice. E, dopo la lettura di “Auditor. Non è un’altra cosa”, rammento che nel libro dovremmo parlare molto ma molto male, con termini taglienti, del Margrave204 (e di libri come Margrave: che, naturalmente, ottengono il massimo successo). Con le ottime foto che ci ammanniscono in continuazione, dovrebbe uscire qualcosa di eccellente da Redenzione. Ti mando due piccole distrazioni umoristiche e una notizia utile. Non sapevo che fosse Bianconi; dovevo venire in Albania e leggere il Tomori205… La rubrica “Ottovolante”, di cui fa parte questo “Colpo in testa” che… ti do per saggio, c’è tutti i giorni, e ci rallegra, sovente. Ma il Tomori è un ottimo giornale: mi sto affezionando più che di altri fogli (Il Popolo, tra parentesi, non l’ho mai capito). Per la parte politica, credo superi tutti i giornali nazionali. Io ho letto una grande opera in questi giorni – e non una volta sola: Il ponte di San Luis Rey di Wilder. Non ne sono entusiasta, perché alcuni elementi, che m’interesserebbero, mi sfuggono; ma non credo si possa trovare, nella narrativa contemporanea, un’opera che gli stia a fronte (“a pari” non dico, perché Wilder non si lascia imporre paragoni e confronti diretti da nessuno; e non l’arte, wildianamente, è inutile, ma tutti i confronti, a paragone di arte, sono inutili). Dicono, mi sembra, ch’è fuori di Wilder, inspiegabile in Wilder questo romanzo; ma è un errore, posto che l’errore non sia invece, mio. Nel Ponte di San Luis Rey c’è molto di teatrale e molto intensamente lirico; come nella Piccola città206 che, deliziosamente, non conosco. “Creatura mia, ebbe una creatura; figlia mia, aveva una figlia.” “Molti che hanno passato la vita nell’amore, lo conoscono meno del bambino che ha perduto ieri il suo cane.” E questa pagina degna dei più grandi scrittori: “Don Andrès, sotto i colori e le insegne piumate della sua carica, stava in ginocchio, malato e scosso. Si sentiva

bersagliato dalle occhiate furtive della folla, che voleva vederlo rappresentare la parte del padre orbato dell’unico figlio. Si domandava se la Perichole fosse presente. Non era mai stato costretto a rimanere tanto tempo senza fumare. Il capitano Albaredo (senti il ‘montaggio letterario’, qui?) si affacciò un momento dalla piazza assolata. Guardò, oltre il campo dei capelli neri e di merletti, la teoria delle candele, le spirali d’incenso. ‘Come è falso, come è irreale’, osservò, e uscì dalla calca. Scese al mare e si sedette sull’orlo della sua barca, guardando giù nell’acqua chiara. ‘Felici gli annegati, Esteban’ – mormorò”. Quello ch’è notevolissimo in questo romanzo, e che mi pare il fulcro intimo intorno al quale debba ruotare una critica avveduta e sostanziale, è il fatto che la “galleria di tipi” si leghi indissolubilmente, e si unifichi e si concentri, in un problema di afflato universale che forma nel contempo l’unità spirituale ed estetica, fortissima, del libro. Ossia: il teatrale – diciamo: il drammatico – e il descrittivo, non appaiono che “metodi”: il libro è lirico: ed è il lirico che dissolve, e valorizza, e serio e comico, e tragico e satirico, e spregiudicato e “rispettabile” (in un senso inglese: come l’Howard di Ramperti). Son riuscito a beccare, l’ultima sera, il secondo tempo (solo il secondo tempo) di Un pilota ritorna. Dal poco che ho visto, credo di poterne dare un giudizio definitivo (so che t’interessa; perciò l’ho molto meditato). È un film buono, verso il quale le due stellette di De Sanctis [sic]207 furono un’umiliazione troppo forte e troppo inutile; ma, a parte qualcosa di veramente superiore, soprattutto come fotografia e come montaggio (una dolcissima panoramica circolare; “circolare”, o a mo’ delle panoramiche di Schiavo d’amore?),208 un film “legato”, poco spontaneo, niente unitario, maledettamente documento in infiniti punti, gradasso e burlevole in tutto il finale; insomma, su una linea nobile e inconsueta di serietà e di “tentativi”, ma indegno anche nel semplice confronto con Uomini sul fondo e con La nave bianca.

E ti lascio con questo amaro; spero di essermi sbagliato, ma non lo credo. Affettuosamente, il tuo Ugo P.S.

Torna alla sana usanza della data precisa, nella tua lettera; qui m’interessa assai.

Milano, luglio 1942 – XX Ugo carissimo, so che di tutte le tue sensazioni idee proposte approfondimenti eccetera nulla va perduto né oggi né domani, e che quando avrai raggiunto le indicazioni di saturazione scriverai il libro nella più calda e viva delle forme. So anche che la forma del libro porterà palese la tua impronta, e che di mio non ci sarà che la comunanza di affetti e convincimenti. Noi due, caro Ugo, vediamo un fenomeno quasi sempre nell’identica maniera e nell’uguale intensità, ma poi ci esprimiamo con differenti linguaggi. Rileggevo dianzi il mio “I confini e la poesia” (Marisa m’è di valido aiuto per la conoscenza della lett. francese) ancora inedito, e il tuo “Nota per S[jöström] e D[uvivier]”: tutto quel che io dicevo forse l’avresti approvato nell’uguale misura con la quale io l’approvavo. E mi compiacevo a vedere come nel tuo articolo i pochi contributi delle mie osservazioni fossero alla perfezione diluiti nella tua prosa così dissimile dalla mia. Io il libro lo vedo, meglio che fosse già bell’e stampato: ma sarà anche, in certo senso, libro di critica. Non mancheranno i giudizi estetici; si stabiliranno dei rapporti gerarchici, si parlerà d’arte e non arte (io credo la critica consista solo nel poter affermare, per intuito o processo deduttivo, se un’espressione estetica è opera d’arte o no), perché sennò cadremmo nell’eccesso della forma affettiva: diremmo “ci piace” e non “è bello”. Il nostro amore per i testi deriverà proprio dalla scelta dei medesimi: e si localizzerà in questo e in quello, con maggiore o minore entusiasmo: ma non

mancheranno le riserve. Per esempio, ho quasi terminato “I confini e la poesia”: e più non potrò ammettere Carné su un elevato piano d’arte, perché “umano” e non “poetico” (il che non esclude che il mondo di Carné sia coerente esteticamente, che il suo linguaggio sia corretto ecc.). Io dunque ti fornirò tutto quel che mi sarà possibile sui testi, e dopo la tua prima stesura costruttiva, ti dirò tagli ed aggiunte, sviluppi e precisazioni. Se in effetti pensi di dedicare il tuo mese di licenza a “costruire” il libro, ne sarei felicissimo. Mio Basilio Puoti, per quelle note, io scherzavo. Io, competere con te, Basilio Puoti? Oibò! Qui, film, zero: salvo il documentario La città bianca di Pasinetti209, assai bello. E veniamo a Ford, e al Traditore. Nel T l’elemento più importante è il rapporto umano esistente tra i protagonisti, non le diverse giunture sui diversi piani che competono ai singoli drammi posti in collegamento nello svolgersi della narrazione, il dramma (o destino umano) di Gypo non scorre isolato, né attorno a lui si raggruppano quelli di Frankie, della madre, della sorella, in diramazione, né costituiscono deviazioni (come invece accadeva nell’Albergo Nord,210 dove ad un certo momento tutto l’interesse si spostava dalla coppia Annabella-Aumont a quella JouvetArletty, per poi passare ad una Annabella-Jouvet e tornare alla iniziale Annabella-Aumont) ma s’intrecciano nell’identico climax interiore. Il precipitare degli avvenimenti, le stasi dell’azione, i punti cruciali non provengono dagli uomini, ma da una ipotetica fatalità di cose: sono espressioni dirette d’un qualcosa che è già “dentro” ai protagonisti (il loro senso umano): e dalla loro fusione deriva l’instaurazione di quell’ordine di rapporti cui accennavo dinanzi. Nel T Ford non cede alla talvolta facile selezione dei motivi nei due opposti campi del bene e del male (non scade cioè alla costruzione di “tipi”, impegnato com’è ad esprimere l’uomo nella sua interezza) ma coagula e condensa gli opposti elementi etici nell’ambito ristretto delle persone viste magari

nella loro limitazione; onde il conflitto risulta interiore, e nell’interno si svolga e risolva, e le azioni ed i fatti esteriori altro non siano che i riflessi di questo processo spirituale. In Gypo, l’interezza totale dell’umanità è raggiunta in questo coesistere intimamente frammisto del bene e del male: la bontà innata dell’individuo è controbilanciata dal suo svolgersi, scatenarsi in azioni fisiche; le cause del tradimento risiedono in una zona spirituale; lo svolgersi della storia porterà poi Gypo alla redenzione, alla pacifica purificazione totale. In Frankie211 e negli altri, la coerenza assoluta dei caratteri; d’un lato un individuo in divenire, in evoluzione (Gypo), dall’altro una serie di fissi concreti inamovibili caratteri compresi e scontati nel loro destino e nel loro dovere: sul contrasto tra questa parte fluida e quest’altra raggrumata nasce il conflitto. (Questi naturalmente si svolge “dentro”: T è Ausdruckskunst, cioè arte d’espressione: ecco l’inizio: Gypo che cammina, solo. Vede il cartellone. Gli nasce dentro un’insofferenza. Continua a camminare. Il vento gli sospinge tra le gambe il manifesto, quasi fosse un simbolo delle forze inconsce – il vento, l’istinto – che in Gypo agiscono a disgregarlo vieppiù. E dico vieppiù dato che Gypo, prima, era stato espulso dalla “società” perché non era riuscito, “non aveva potuto”, preso da pietà, giustificare un individuo nemico: iniziale deviazione dall’individuo completo, che Ford ci propone a modello ideale.) Passiamo all’espressione del conflitto, cioè alla storia, alle situazioni. Anche qui la drammaticità non è isolata, a sé stante, ma in osmosi intima con la giustificazione interiore (in questo scambio intimo tra valori esteriori e valori interiori consisterà l’interesse del film: nel finale le due linee coincideranno, le azioni esteriori combaceranno con i movimenti interiori: l’individuo dalla disgregazione sarà tornato “uno” ed integro; potrà morire): non c’è un peso esteriore, fatale; non c’è una “necessità” nemica che gravi angosciosamente in questo mondo: tutte le cose esteriori sono funzioni di cose interiori:

Frankie deve morire non perché “deve” morire, ma perché il suo sacrificio porterà alla redenzione di Gypo. In T il caso non esiste, la fatalità non esiste: siamo in pieno idealismo. La trama segue, dall’inizio alla fine, questo cammino: il connubio tra dramma esterno e dramma interno; nel far ciò, si appoggia una continuità psicologica di grande rigore. Lo sviluppo dei fatti procede con un rigore geometrico, cristallino, purissimo (un’etica dimostrata geometricamente?): concatenazione, perfetta saldatura tra le parti. Abbiamo già notato come i drammi dei singoli combacino e coesistano in un’unica atmosfera. La tesi dunque del T è la redenzione dell’uomo, ed è la tesi di Ford; pensa ai minori Uragano e Maria di Scozia:212 nel finale del secondo, la Hepburn che sale quella scala, quasi ad espiare anche interiormente, in quel clima d’apoteosi, di redenzione, con quelle luci e quel montaggio! E in Ombre rosse, la redenzione della prostituta, del bandito, del bardo, dell’altera donnetta che diviene più umana: qui, la peppa!, si redimono un po’ tutti: il che è coerentissimo a Ford, è implicito in quel suo tendere continuo verso una condizione totale d’umanità (affratellamento, eccetera: e qui bisognerebbe buttarsi ad indagare sulla sua teoria religiosa: a me pare più cattolico che protestante o luterano: più partecipe, più commosso; se, come tu dici, è irlandese, Ford, è per me cattolico senz’altro). Son questi (quasi tutti) caratteri riguardanti il significato dell’opera, e non il linguaggio stilistico adoperato. Ch’io abbia parlato in questa maniera vuol dire dunque che i problemi del mezzo espressivo sono tutti “compiuti” e “realizzati”, che cioè il T è valido anche su un piano di buon cinema prima che in quello della buona arte: il che è logico, che se può esistere buon cinema senza arte, arte non può sussistere senza l’appiglio basilare del buon cinema. Diamo dunque per dimostrata la fusione perfetta tra forma e contenuto, tra materia e significato della materia, espressione e grado di valore dell’espressione. E passiamo all’analisi degli elementi che tale forma compongono.

Innanzitutto, è o non è T del buon cinema, del puro cinema, del “vero” cinema? A me pare di sì, anche se talvolta l’interesse umano è soverchiante, e sgorga fuori dai confini dell’inquadratura, l’immagine è il primo piano veicolo cui è affidata la forza espressiva della narrazione. L’angolazione non è mai preziosa o ricercata, ma quasi sempre semplicemente adeguantesi al momento da esprimere; quando poi sarà necessario, essa angolazione giungerà all’espressionismo (nel finale, Gypo inquadrato dall’alto presso i cancelli della chiesa, in un altro punto, dal basso, o quando egli freneticamente corre verso l’obiettivo, fino ad ingigantire in P.P.P., come un incubo, come un mostro). Il materiale plastico è diluito in ogni parte del film: non vi sono linee di demarcazione tra materiale plastico e materiale visivo cioè. Né è da confondere l’uso dei dettagli (le monete che cadono di tasca a Gypo nella veglia; fiammiferi che servono per decidere nell’estrazione a chi toccherà uccidere il traditore) col concetto di materiale plastico. Il ritmo complessivo è dato dal ritmo del commento musicale, o almeno concorda con quest’ultimo. Illuminazione, recitazione e scenografia: qui tutto quel che potrei dire lo conosci di già alla perfezione. Per la musica, nel recente Il cinema e le arti S. A. Luciani scrive: “La musica di questo film (T) pervade tutta l’azione da capo a fondo e non si arresta che ai dialoghi, quando non continua sotto i dialoghi stessi. La maggior parte dei rumori realistici inutili ed inespressivi è bandita e sostituita dalla musica di carattere emotivo più che imitativo. Restano solo i rumori che possono avere un valore drammatico e suggestivo: il tic-tac di un pendolo, grida di terrore, colpi di fucile. E i silenzi hanno valore di pause musicali e, per conseguenza, acquistano un potere emotivo enorme. La musica in una parola è diventata l’essenza del film e ne regge tutta la compagine”. (Appunti sparsi: la Hepburn davanti al fuoco del caminetto in Maria di Scozia, Gypo davanti al fuoco del caminetto in Traditore. E il tic-tac del pendolo nella formidabile sequenza

che prelude allo scioglimento del dramma in L’imboscata di Siodmak.213 Io però accennerei anche all’alternarsi di due temi fondamentali: il “tema d’amore” e quello che direi “del destino”. Forse a lungo andare la schematizzazione è troppo evidente, ma intrinsecamente i singoli temi musicali sono emotivi ed efficaci ad esprimere le diverse situazioni. Resta la fondamentale questione della sovrimpressione. Bisognerà riguardare quell’articolo apparso in uno dei primi numeri di Cinema dal titolo mi pare “Gli spettri di Carolina Invernizio”,214 errato quanto mai. Io non chiamerei quelle “sovrimpressioni”, ma “sostituzioni”. A proposito, ho visto A tempo di Valzer. Orribile. Mancata fusione tra gli elementi operettistici e quelli intimisti, drammatici. Spaventosa la sovrimpressione del finale.) Per T poi, parlare dell’atmosfera, la suggestione della nebbia, il violino e il cantante, la cantina, il corpo di guardia inglese, e tutto il resto. Mi pare che, alla fin fine, parlare del T sia assolutamente inutile, dato che il film è del tutto compiuto: non c’è nulla da aggiungere. Una critica wildiana sarebbe impossibile. Inutile giudicare sulla carta T ma renderlo “in parole” sì. Difficile compito. Ma ho ragioni sufficienti per credere sortirà ottimi effetti. È, figliolo caro, un vero piacere seguire giorno per giorno gli sviluppi della tua prosa; le preziose iridescenze; gli amati ritmi. Ho qui sottomano due volumetti di Plon, Brueghel215 e Bosch216, con testo di Marcel Brion. Sono il minimo indispensabile alla conoscenza di questi due grandissimi artisti che poi di continuo s’ignora dato il loro essere radicalmente fuori dalla Rinascenza delle leggi d’un nordismo gotico severo. A me piace di più Bosch, ch’è più coerente e rassodato lungo tutta l’opera sua. Nella Passion du Christ ch’è al museo di Berlino c’è qualcosa che tu chiameresti cinematografico: il calvario, ai piedi quasi due regioni staccate di Via Crucis, e nel

bel mezzo del monte, un circoletto rotondo che spicca chiarissimo sulla scena del monte, con dentro un’isoletta che sorge dall’acqua: una vera e propria “sovrimpressione”, diresti. Poi ci sono i quadri di soggetto religioso ma così gelidi, astratti, lontani. Il fervore della Rinascenza quasi non esiste, per Bosch. La tentation de Saint Antoine formicola di demoniache allucinazioni, ma non c’è nulla di carnale, nulla di sensibile: un’intellettualizzazione astratta porta questo Bosch nelle regioni della più svincolata metafisica; d’un problema morale non c’è traccia. L’adoration des bergers, L’adoration des mages, l’Ecce homo (forse il secondo un poco italianizzante nella composizione, nel complessivo ritmo spaziale). Poi, i miei preferiti: Le jardin des plaisirs terrestres, L’enfer musical. Qui c’è tutto Dalí, tutto il surrealismo, ci son tutti i misteri e tutte le fantasie, i pesci volanti, le coppie imprigionate, i globi di cristallo, i mostri di ogni sorta (mostri “corretti”, “distinti”, “educati”: non spaventano mica). Son quadri che a parole non si posson descrivere, tanto son formicolanti di fatti e figure. Ogni centimetro quadrato avrebbe ore e pagine d’analisi e commento. Les Gueux li ritroveremo più tardi nella poesia di Richepin, di Verhaeren. E il prodigioso dittico La tentation de saint’Antoine del museo di Lisbona? Con navi-cicogna volanti, pesci-uomini-barche, pesci-carritorri, e in un angolino, la ruota, la famosa ruota che si troverà poi nel Brueghel discepolo di Bosch, nel Dreyer discepolo di tutta l’arte nordica. Brueghel è già diverso, Brueghel annuncia la scuola xilografica olandese, ti fa capire la fonte dei van Eyck, dei Vermeer. È paesano quanto Bosch era invece di continuo “aperto” nel suo terrestre inferno colmo zeppo di mostri, il Les Jeux d’enfants e Le combat entre carême et carnaval217 [sic]

ànno sapor di kermesse, di danza paesana. Fortissima l’influenza di Bosch nel disegno La Luxure, che è quasi un’esercitazione sul tema boschiano del Jardin des plaisirs terrestres, e nella Chute des anges rebelles, in Dulle Griet. Il Triomphe de la mort mi pare invece Brueghel interamente. Ma dove la personalità del pittore è estrinseca nella massima originalità, è nei quadri d’inverno, di stasi, silenzio, sospensione. Rammenti l’inizio del Vampyr? Ecco, qualcosa di simile. (Poi, quell’impressionismo – l’uso del velatino – mi pare una deviazione, un influsso francese: il fondersi con la natura in un multiplo variare di sensazioni non mi pare rigorosamente nordico; quel Nord in cui la natura vive “a fianco” degli uomini, non assieme – almeno d’inverno.) Qui i temi sacri sono fiamminghizzati in maniera tale da risultare [in] immagini agli antipodi addirittura. Il titolo Le Dénombrement de Bethléem nulla à a che vedere col quadro; e così è per Le massacre des innocents. Stupendi invece La journée sombre, La rentrée des troupeaux, Les chasseurs dans la neige: un’immobilità compresa, interiorizzata nel rigore della composizione; e i colori che s’intuiscono smorti, lividi, strozzati nel freddo. Tutto questo mondo così lontano dalla mia ormai mediterraneizzata natura m’à procurato non poca angoscia, e mi son dovuto rinfrescare in un limpido bagno nel chiarore di De Chirico, di Carrà, dei futuristi italiani, e purificare nel sereno equilibrio dell’Angelico, di Simone Martini. Dovrei passare ora a parlar di Pabst, ma lo farò domani, in altra lettera. Per intanto, questa a portarti la mia più viva e fraterna vicinalità, un mio caldo abbraccio Jusik

R., 10 luglio 1942 – XX Carissimo, ier l’altro ti scrissi una cartolina militare in franchigia – sulla quale mi dimenticai d’applicare il francobollo di posta aerea, onde l’avrai, se l’avrai, con notevole ritardo – informandoti d’aver saputo, per vie sufficientemente sicure, essere molto difficile che tutta la posta inviata dai militari in patria, cioè dall’Albania all’Italia, arrivi a destinazione, mentre è invece probabile che si verifichi il contrario, cioè che gli uomini che compiono il loro dovere abbiano l’indispensabile conforto da parte delle loro famiglie – o dei loro fondamentali amici. Perciò sappiti regolare: non parlare di me, non pensare di me, più male di quanto io meriti. *** Il corso ginnico-sportivo che frequento da qualche giorno, e che si protrarrà sin quasi alla fine del mese, s’era annunciato forse sotto favorevoli auspicii, ma in realtà si sta rivelando, ogni giorno più, durissimo e richiedente da parte nostra (ufficiali-allievi, di nuovo) un impegno ed un lavoro diabolico e senza respiro. Non aggiungo altro, anche perché non ne avrei il tempo; ti basti dire che la tua lettera sul Traditore, ricevuta ieri, l’ho dovuta leggere a quattro o cinque tappe, riepilogandola poi, e commentandola, in sede di riposo notturno. *** 11 luglio

Le tue pagine sul Traditore non sono così chiare e immediate e definitive come quelle precedenti su John Ford; alcune “fulgurazioni” sono, come al solito, molto acute, ci sono molti particolari da sviluppare con grande profitto, però non mancano qua e là i concettini “creati” soltanto dal tono generale del discorso, e forse non da un’effettiva rispondenza al testo, e le distinzioni troppo sottili. O fors’anche è colpa mia che non ci sono arrivato: tuttavia due o tre precisazioni o rilievi sono indubbiamente poco chiari. Vedremo poi assieme: nel complesso credo che, se potessi rivedere una sola volta il film, saprei trarne, per esclusivo tuo merito, il più bello – drammaticamente – dei nostri “testi”. Anche Bandini,218 in una sua recente lettera, si è sfogato nei tuoi riguardi: scherzosamente, a proposito del “Contributo [alla conoscenza del cinema fantastico]”, dice: “ho visto tra le righe la barbetta caprina di Viazzi e la sua fredda razionalità di composizione e struttura”. E questo vuol significare: “il leggere tra le righe la minuziosa stesura, l’introduzione all’argomento sempre studiatissima, le parole ‘difficili’ bene usate, l’intelligenza laboriosa ed applicata”; egli, d’altronde, conserva naturalmente “il massimo interesse e il più grande rispetto al valore innegabile dei tuoi scritti”. Quando dici “una critica wildiana sarebbe impossibile”, raggiungi il punto più elevato della tua critica, e qui sei davvero immediato e lineare. *** Scrivo a Fausto Salvatori che ti mandi la mia lettera sul soggetto: vedrai come mi confondo io quando affronto un “ragionamento” teorico; o meglio, non lo affronto: lo evito, lo scavalco con intuizioni sparse. *** Mi è piaciuta immensamente l’ultima lettera di Marisa (quella dov’ella parla di se stessa e della sua Romagna, e di Moravia): è l’unica ragazza intelligente ch’io abbia conosciuta in vita

mia (è vero che non ne ho mai frequentate molte, ma non credevo ad ogni modo ne esistessero); mi piace tuttavia aggiungere immediatamente che non si tratta d’una intelligenza frigida intellettualoide e antifemminile, sibbene d’una calda e vivace sensibilità umana nel senso elevato e “simpatico”. (E a proposito di sensibilità: mi ha scritto essa, avendo io bollato me stesso, con tutta sincerità, di “semplicità debole”, che non voleva credere a questo: essa però non ha forse inteso il mio pensiero, che si riferiva non a una sensibilità debole per se stessa come sensibilità – ch’è anzi, purtroppo, acutissima –, sibbene a quel tipo di sensibilità “che rende deboli”; una sensibilità del tipo Foscoliano, così per intenderci.) *** Ho visto ieri sera Una romantica avventura219, e mi sento completamente a posto, finalmente, per “Motivi di rinascita”.220 Ti ringrazio di avermi fatto scrivere delle cose che a distanza di tempo si rivelano esatte. Non credevo questo film fosse così bello; o, meglio, non pensavo fosse d’una bellezza simile; a tal proposito, infatti, ti dirò ch’io ho molto preferito, alle scene ariose in esterno, le sequenze iniziali e finali nella camera, accanto al focolare, tra Cervi e la Noris vecchi – o semplicemente anziani –. (Così, come attrice, Assia manca da giovane, e da vecchia è d’una umanità forse un po’ statica ma cordialissima.) Il particolare dei musicisti che suonano il dolcissimo Valzer dietro un velo, rivela un Camerini inedito, un Camerini – la dico la parola grossa – quasi “duvivieriano” (riferendomi alla “versatilità” di Duvivier e, qui, al testo Un carnet di ballo). Presente all’inizio del film, soprattutto, il regista di Rotaie: “Nel complesso, nonostante qualche screzio dovuto al lieve sovrabbondare del contenuto favolistico e romantico, un film compiuto come modesta ma vitale opera d’arte”.

St. Th[anas], 19 luglio [19]42 – XX Carissimo, rispondo alla tua del 13, in cui parlavi del Fascio, delle tue letture francesi e di quelle di Marisa, della Straniera – ancora – e di Shangai, e poi del tuo articolo “I confini e la poesia” ultimato. Da tempo debbo ricevere: il numero di Bianco e nero con l’articolo su Duvivier e quello sul cinema fantastico;221 il numero di Si gira con l’articolo di Campassi, quello di Lizzani e il resto;222 il numero della Voce di Bergamo con la citazione del mio articolo sui cortimetraggi; l’ultimo numero del Lambello con un articolo di Campassi… E nulla di tutto questo; ed è avvilente attendere, dover sempre attendere. Quest’ultimi giorni non sono stato affatto bene di salute; solo adesso pare che mi stia rimettendo. A lungo andare questa dura vita produce un logorìo notevole ai nervi e alla carne; e gli effetti si faranno sentire a suo tempo, in modo assai più grave e più preoccupante. Dimenticavo, fra i giornali da ricevere, Il Fascio: leggerò con interesse la tua recensione di Il cinema e le arti di Luciani, son curioso di sapere cosa ne dirai perché l’articolo pubblicato da Cinema è preoccupante anch’esso…223 Qui a Korça ci sono librerie fornitissime, quali – per certi rispetti – nemmeno in Italia non trovi; ma quanto a giornali e riviste, posso acquistare soltanto Cinema, Film, Tempo, Settegiorni e basta. Sul secondo e il terzo, poi, sono indeciso nel comprarli ancora, ma faccio proponimenti poi ci casco sempre un giorno o l’altro. Quell’inizio di romanzo di Bernanos è musicalmente buono, e il significato delle parole, capisco, conta fino a un certo

punto; però, quel “paroisse”, con tanta gente qui, che sa il francese non ho trovato uno che mi sapesse dire il significato.224 Rammentavo (eh che credi?!) il particolare della mano di Dalio che apre il cassetto sulla Straniera;225 come ricordo l’enorme importanza che avevano le mani del medesimo attore in quel discontinuo film con Harry Baum, Capitan Mollenard.226 Per la Straniera siamo finalmente intesi così: io debbo vedere il film ancora una o due volte (credo che basteranno); io vidi il film una volta sola, con qualche prevenzione da parte tua, che me lo definivi orribile, e mi piacque (non un grandissimo Pabst, tuttavia qualcosa di decente, specie se paragonato a Ragazze in pericolo); ora, a questo tuo improvviso e fortissimo mutamento di prospettiva, mi trovai un po’ impacciato, e forse caricai un po’ la mano chiamandolo “mediocrissimo”; finalmente, sto nel mezzo, ritornato come sono alla mia primitiva impressione. Non escludo che con successive visioni possa portare il mio giudizio su un piano più condiscendente e, direi, “rilassato”; non voglio escluderlo; ma non lo credo possibile, almeno di molto, giacché ho del lavoro un’idea molto chiara anche nei particolari. (Nella sequenza, che tu dici “fondamentale”, e ch’è soltanto, per me, uno di questi particolari molto notevoli e belli, della installazione della luce elettrica, c’è, non so se te l’ho già detto, un sapore di Renoir in Nanà, del decorativo, frigido, ma espertissimo Renoir di Nanà.) Un altro autore italiano da aggiungere a quelli che, nonostante gli anni, permangono attuali, resta Francesco De Sanctis, giustamente chiamato uno dei massimi prosatori dell’800. Bene per la tua risoluzione di non parlar di linguaggio, mezzi espressivi et similia, nel libro; anche qui, da parte tua, notevole cambiamento, no? (Avvertiamo, però, che non tutti i 12 testi sono arte completa, identificazione profonda di contenuto e forma; quindi, attenzione: “i problemi formali – come ti dissi – si debbono considerare risolti sul piano dell’arte”: giusto, ma non proprio sempre; mai in qualche

testo, sarà bello e istruttivo, magari, vedere drammaticamente la lotta di questo contenuto che non riesce in ogni punto a “formalizzarsi”, di questa forma non perfettamente “a vita” – desanctisianamente – nel contenuto sofferto.) Col nuovo esempio di Inkijinoff227 biancovestito che mi porti, da Shanghai penso che la lista dei particolari che indicano una continuità stilistica di Pabst, risulterà imponente. Una volta tanto, li seppelliremo anche sotto il peso dell’erudizione pura; talvolta, molta serietà non guasta. Mi pare che intuire, come tu fai, un motivo sociale “sotterraneo e calato” del personaggio di Natascha in cerca di lavoro, o del dialogo tra Dorville e la ballerina, sia eccessivo. È un po’ la discussione che si faceva per Notti bianche (dato che il nome Natascha mi ci ha involontariamente portato); per Notti bianche abbiamo ceduto un poco entrambi. E questo, sia detto per incidenza, è bello. Ultimamente ti scrissi, in breve, di Wilder, di Un pilota ritorna etc.; lettera che dovresti aver ricevuto da tempo, ma alla quale accenni, seppure implicitamente, nella tua ultima; anche te prego, quando mi scrivi, come ho pregato i miei, e dato il dubbio che tu manifestai sull’arrivo della posta, di darmi “ricevuta” dei miei scritti, ma non con la data (la lettera del…), bensì come ho fatto io stavolta (la lettera in cui parli di…). “Ti dirò che stavolta (alla visione di Shanghai) sono perfino riuscito ad emozionarmi alle varie situazioni.” Non lo credo, sul serio; ad ogni modo questo non si ripeterà, e non si deve ripetere, più (altrimenti, dove vanno a finire tutti i nostri ragionamenti su Pabst?). Squilibri d’impressioni, utili talvolta, per vedere il lato sfaccettato della questione; talvolta mi spaventano, in te, e in me. E anche dire che Notti bianche ti sembra più “articolato” degli altri film russi, con l’edizione che c’è pervenuta, e con la conoscenza che abbiamo della così detta “prima scuola”, mi sembra per lo meno troppo ardito.

Bellissimo, per quanto molto difficile da intuire, il giudizio che hai dato di Albergo Nord nel tuo ultimo saggio228; soprattutto per il “modo” in cui l’hai espresso. È chiaro: il che non guasta. (Insisto sempre su quest’ultimo requisito; anche per il libro.) Invece la troppo violenta scissione che tu mi fai tra scrittori francesi e cineasti francesi, non la posso (e, credo, non la potrò) accettare. Com’era nelle mie previsioni: attento a non esagerare nell’altro senso!, t’avevo detto. Ti sei lasciato prendere dall’amore – dal tutto artistico, forse: e questa è la tua scusa – per il bel contrasto. Con molto ritardo, ma tuttavia sempre ben accolto, mi giunge Cinema, n. 145. Tu, credo, non puoi immaginare come queste piccole cose (una tua lettera, Cinema etc.) mi facciano istantaneamente ritornare al mio stato migliore, più tormentato e più arso, dalla scabra e dolorosa privazione in cui mi trovo immerso. Può darsi che dopo una giornata di lavoro intenso e senza scopo apparente (per me egoisticamente, forse senza scopo mai), come quella di ieri, può darsi che la notte vengan dati due o tre allarmi, a scopo di esercitazione, come quelli di stanotte, in cui ho cominciato questa lettera (perché le mie letture sono terribilmente “a spizzico”, te ne sarai accorto). Tuttavia, una lettura, e un numero di rivista anche non troppo [equilibrato] con quest’ultimo Cinema, bastano a rimettermi un po’ in sesto: e l’ingranaggio continua; come diceva Blanchar229 in un momento enfaticamente sublime di Mademoiselle Docteur. Scorriamo Cinema insieme. La figura del Papa in copertina mi ha fatto sperare che non ci fosse il mio Vampyr. Non so perché: ha un che di “leccato” il fatto, di falso; l’articolo poi dell’interno, è di R. Leone:230 Dio me ne scampi e liberi! Ultimo pezzo di corrispondenza quello della Spagna, su film d’ambiente marocchino (le dieci righe sulla Bandera m’han quasi entusiasmato, per “colore” di quei nomi: Mac Orlan, Alcubilla, Dar Riffin, Tetuan e Xauen – e qui collaborano, Rafael Medina, Pitonto, José Casado e Castro Blanco!). La

serie di articoli che la “donna” M. L. Rossi Longhi dovrà scrivere mi spaventa (a te non fa lo stesso effetto?).231 Di Marzo dice: “…senza pretendere di voler risolvere il problema che, nel campo dell’arte, è già bello e risolto, ma che nel settore delle realizzazioni pratiche non lo è affatto…”232 Ecco, questo è appunto lo scopo fondamentale, la mira che dev’esser segnata non sbandierata del nostro libro? Ci riusciremo? Io ho fiducia. “Datemi un mese di tempo e vi solleverò il mondo!” “Misure e suoni”, nota prima, non l’ho capita, se vuol essere profonda. La nota seconda è giusta, ma niente di straordinario. La terza ripropone il vecchio non risolto problema. “La fine dell’800 etc.” si legge. I “Ragionamenti sul Cinema”:233 vedi quello detto sopra. (La frase: “Nel film vi sono troppi elementi meccanici che sfuggono al controllo del regista, e che danno risultati spesso aleatori, anche se soddisfacenti”, mi sembra degna di nota, di molta attenzione.) Nel complesso ritengo che dovrebbe fare ciò un libro come 12 testi – se riuscirà conforme ai nostri non ambiziosi ma coscienti propositi – che non tutti i ragionamenti teorici, anche ben imbastiti, dietro i quali la mia mente si perde (e continua a parlare del libro! dirai [ma più fine e meglio]. Farebbe meglio a scrivere qualche paginetta. Vorrei, come vorrei – e lo sai – ma mi manca, ecco, mi manca il “tempo continuato”, senza il quale non posso assolutamente lavorare. Faccio già una fatica immensa a unire i pezzettini d’una lettera!). “Le meravigliose rivelazioni del Microcinematografo”234 è il classico tipo di articoli che non riuscirò mai a leggere fino in fondo, per quanti sforzi faccia. Nell’indice non mi piace la disposizione degli argomenti. Perché “Cortometraggi artistici” in: Documentario sportivo, etc.? Pabst in: Regìa, registi – mentre “Viennismo di Forst”, di Aristarco, in: Estetica?235 (Ma guarda in quali piccolezze, banalità, sono andato a finire.) (E vorrei che il libro fosse non come, ma sul tipo della Nascita della tragedia di Nietzsche: l’impalcatura teorica in esso può essere discutibile, eterna è la vivificazione schietta,

profonda, passionale della materia! Il libro nostro: – 12 testi – saggi di estetica del Cinema – o forse, niente sottotitolo – prefazione di… – preambolo – 1-2-3 etc. – Testi rari – Conclusione. Un libro, nel complesso quasi senza capitoli troppo intervallati, senza soluzione di continuità: per questo eviterei il sottotitolo: saggi…; è un solo continuo “saggio”: saggio, e polemica, e atto di fede.) La foto dei due gendarmi pontifici è eccellente, sapore di Rošal’236, di Hanns Schwarz237. “Parlatorio” ottimo, come al solito. Contento per quella citazione di Uom. sul fondo: mi piace che un tipo come Pasinetti ci dia ragione (quando uscirà l’articolo? Sul prossimo B. e n. speriamo. E perché Duvivier, invece di Rebecca, come promesso, e perché senza foto?)238. “Ottima idea”, sì, quella della cattedra. Ma, oh, non l’ha fregata a me, Guido Aristarco, l’idea?239 Forse su Lucio d’Ambra (a proposito di: “Inediti di L-d’A”. – brillante ma scorrente in superficie; come d’Ambra forse) era buona la mia parentesi nella recensione a Vecchio cinema italiano di Palmieri, sul giornale240 (Pensando a quello che ho scritto fino ad oggi, sono contento di essermi mantenuto su una linea di serietà costante: mai fuori dal seminato: Cinema, o B. e n.; sul giornale, tre debolezze extracinematografiche, che mi perdonerai). Continuo a ritenere che “Vice” sia “Peppe” De Santis. E veniamo al Nostromo. La rivista di cui parla Terzi è Inquadrature?241 Credo. (Scrivi ancora a Terzi? E a Campassi, Bandini, Fausto Salvatori?) La frase su Metropolis e poi: Altri articoli del genere sono apparsi e appariranno, mi fa ben sperare per “Vecchi film in museo”: Vampyr; Lulù etc. Ho letto libri importanti: il Sartor resartus di Carlyle, il Nietzsche citato, Poesie e Il cielo sulla città, di Cardarelli, riletto il Satyricon, col testo a fronte; qualcosa di Dos Passos (42° parallelo) e di Omero (Iliade); et. cetera.

Un forte abbraccio Tuo Ugo

Torre S. Maria, Inizio d’agosto [1942 – XX] Ugo carissimo, non so se questa mia risulterà, alla tua lettura, quella fondamentale lettera che mi vado rimuginando dentro da un pezzo, e su un argomento che mi sta molto a cuore. Fin d’ora perciò ti prego di non arrestarti a quella che può essere la resa della mia scrittura contorta e così poco latina, ma di giungere – con la volontà, laddove i miei mezzi poveri metteranno barriere – a quel che voglio dirti, che è quanto di più esatto, sereno (e per molto ancora, anche severo) e fraterno io senta per te. Sì, noi due s’è sempre discusso assai di argomenti che molto ci stanno a cuore. E che certe zone dell’anima sian rimaste non svelate (ma l’essenziale conosciamo, tu di me ed io di te), non vuol dire che una manifestazione, io credo, di pudore contingente, o di carenza di necessità assoluta ed imperiosa: ma ora credo mio dovere, ed è mio primo istinto e bisogno, parlarti un poco di te. Sai ch’io non t’ho solo tenuto in grande stima intellettuale: ti ho subito amato e apprezzato più d’un amico in tutta la tua interezza d’uomo, in quelle che sono le tue doti e in quelli che possono essere tuoi difetti, e che io non ho riscontrati ancora viventi ed operanti in te. Senza esagerazioni ti dirò (ed è confessione che già, per vie traverse conosci) che t’ho un poco considerato (e cosa io intenda dire “un poco” lo sai: è l’ultimo gradino prima del compimento totale) come un ragazzo ideale. Per un infinito complesso di ragioni un individuo ch’io mi son preso a modello per raggiungimento. Dovrei, per giustificarti questo, darti un saggio d’analisi psicologica sulla tua

individualità: preferisco tu senta ciò in quella che è in una espressione d’affetto e d’amore contemporaneamente al moto razionale e di pensiero. Se mai mi sono nei miei discorsi e nelle mie argomentazioni tra me e me, riferito ad un individuo integro sotto tutti gli aspetti (“un dritto” come si dice da noi a Milano: eh sì, anch’io, come Stendhal, sono milanese) quest’individuo sei stato tu. La prova, se prove vuoi, è che sei l’unica persona ch’io abbia, nel cerchio di tutte le mie conoscenze, reputato degno di essere amico oltreché mio, anche della persona che più d’ogni altra cosa al mondo amo e venero. L’averti pregato d’esser un buon amico per mia moglie è un’entratura nel più vivo della mia vita intima che a nessun’altri è stato concesso né credo sarà mai. Per cui vedi bene che non è solo una coincidenza di destino, d’ideali e di aspirazioni che ci unisce, ma un qualcosa di più profondo: quello stesso sentimento che ti faceva scrivere a me e ai tuoi genitori simultaneamente, portandomi al livello della tua famiglia. Per tutte codeste cause dunque io ritengo legittimo il preoccuparmi vivamente per te, per quello che è il tuo stato d’animo attuale; e il desiderare di far tutto quello ch’è in mio potere fare per esserti utile e vicino. No, non ti paiano fredde e drammatiche le mie osservazioni che seguiranno. Sono state, tutte, intensamente meditate e vissute. Io ritengo d’avere una sensibilità tanto ampia da poter “vivere” il tuo stato d’animo attuale; e che io non ne sia il soggetto diretto mi permette d’essere anche imparziale ed oggettivo analizzatore. È su questo punto che ti prego di pensare: alla necessità che ognuno di noi deve sentire di vivere dualisticamente, con una zona dell’anima vivente e con l’altra vedendo vivere se stessa, e l’altra. Quel selfcontrol ch’io vorrei fosse legge spirituale d’autoconoscenza e d’auto-guida (noi siamo i padroni del nostro destino, noi e nessun’altri) – “avvoltoio di sé stesso”? È il punto più alto al quale credo possa giungere tempra d’uomo: quell’aspro raggiungimento di un’assoluta padronanza di sé, aquila – e non avvoltoio – ferma immota nell’infinito ciclo

della propria interiorità, a contemplazione di sé e, per riflesso, dell’universo tutto: quel raggiungimento della solitudine cui Marisa accennava, e che è sempre ravvivata da amore, amore per sé stessi specchio ed immagine delle cose belle ed eterne. E qui potrei citarti Pascal, ma non voglio inquinare il mio discorso con intellettualismi, neppure se privi d’ogni veste intellettuale. Tu parli della tua solitudine. Non hai spesso pensato (io lo so, anche se mai me ne hai fatto parola) che è questa la più bella, la maggiore giustificazione della tua esistenza? Vivere è cosa miracolosa, e certo qualcosa si deve fare per giustificare questo miracolo, dinnanzi all’ordine supremo delle cose. E tu sai quanto hai fatto, e come ogni tua dura lotta, e ogni tuo logorante sforzo, ogni tuo sacrificio abbia avuto valore dal senso di cosciente cammino ad una meta che ti impartivi ad ogni tuo atto, ad ogni tua azione. L’“eroica solitudine” di cui scriveva Gianni non era la tua realtà migliore, fatta di nobiltà e alto valore? Tu di questa solitudine non devi rattristarti, non devi rinnegare questa purezza interiore dalla quale ti vengono le soddisfazioni maggiori, a colloquio con le cose immortali ed eterne della bellezza e dell’arte. Una ragione di vita? Ce l’hai già, carissimo Ugo, e connaturata al tuo destino, al tuo sangue ed alle tue ossa: la realizzazione d’una vita, la tua. Cioè, dico, la tua vita è ragione di vita per te: scopo tuo dev’essere la tua vita, e le “naturali” espressioni di questa vita. Che quest’estrinsecazione sia l’arte, e meglio, il cinema, bene lo sai: “ogni forma d’arte è inutile?” Bel paradosso. Egualmente si può dire che ogni forma di vita è inutile. Non ci dovrebbe restare aperta che la via dell’annullamento? Ma un ideale è necessario, e se no – è libero e spontaneo in noi, lo dobbiamo costruire; e tu lo possiedi, quest’ideale, schietto ed immediato in te, e lo sai irrobustire e completare cammin facendo. La tua grandezza è nell’accettazione di te stesso, e nell’esaltazione dei suoi valori. Così è, e se non fosse, dovrebbe essere. Ti ripeto, “noi dobbiamo costruire”. Noi, siamo i padroni del nostro destino. Null’altro, nessun’altri. Noi dobbiamo costruire il nostro destino, e laddove è necessaria, la

nostra solitudine. È bada bene che ti parla uno che in solitudine visse per vent’anni, perché per vent’anni altro non conobbe che dolore e sofferenza. Ecco perché ti dico che tutto è in mano tua, ogni tuo attimo ed ogni tuo pensiero, quel selfcontrol che ci dà visione netta di noi stessi, e che proprio per questo ci permette di affrontare i nostri problemi, e di risolverli. Vedi, io ritengo che sia proprio questo il punto centrale della faccenda. Lo arguisco dal tuo quasi identificarsi con Thovez242. Perché non ci si deve mai riconoscere in un testo che a noi sia estraneo in quanto realtà di sangue ed a anima. In un libro potremo trovare un qualcosa che a noi si riferisca, uno stato d’animo che noi pure provammo o proviamo, in quanto retaggio di tutta l’umanità, dell’essere umano, ma mai trovarci noi stessi, perché vorrebbe dire subire la realtà del libro, cioè d’una cosa ch’è al di fuori di noi: conseguenza, l’annullamento della propria personalità. E questo ti dico con piena conoscenza di causa, perché in passato di volta in volta mi identificai nel Roberto di Le disciple di Bourget, nel Martin Eden londoniano, e nel Gerardo di Troyat.243 Tutte identificazioni che ora so sbagliate, e che so non esser state, allora, che un agganciamento d’un mio certo “momento” alla coincidenza d’un eguale momento proposto ed offerto dal libro. Solo più tardi mi sono accorto d’essere io, e non un personaggio dei libri da leggere. Nel tuo caso, io credo proprio tu ti faccia influenzare dal peso delle contingenze. Il duro periodo che stai attraversando (ma quando, di grazia, non vivesti duramente? Quando, di grazia, il maggior merito tuo non ti venne dal superare di continuo te stesso e le avversità?), non è che un periodo. Non potrà intaccare il tuo vero fondo, il filone centrale della tua natura. La prova è dura, ti potrà logorare “nervi” e “muscoli”, ma la “fantasia” non logorerà mai, né l’intelletto, né la struttura interna del carattere e dell’anima. Un Ugo cinico, pirroniano, indifferente, non impegnato, non può sussistere: e non giungerà mai ad un simile punto, perché non puoi, perché devi non volere. Da questa prova uscirai non intatto, ma

arricchito di nuove esperienze, anche se dure e dolorose, cioè “integrato”. Di questo io porto dentro convinzione assoluta; convinzione che mi viene dalla conoscenza che ho di te, e dall’affetto che ti porto. “Inconsiderato cinismo”, “indifferenza neppur meditata”, tu non avrai mai. Gli agenti esteriori potranno scheggiarti, ma alterarti mai. Le tue ferite ti saranno domani care, testimoni di una prova dura superata e vinta. Dici di “non nutrire illusioni”. È questo che ammiro in te. La realtà presente si deve guardare, e la realtà futura costruire con le proprie mani: per questo ti dico che fai bene a non avere illusioni, perché non è in te l’adagiarsi sui soffici materassi della fantasticheria, sibbene il lottare con le cose concrete, e negli occhi guardarle. Io tanto vorrei che tu vivessi questa tua prova, e nel contempo l’analizzassi, la vedessi (qui, scusa, non so se si deve dire “vedessi” o “vedesti”: l’italiano non lo so), con serenità (la serenità che ti può venire dalle cose che ami, “dalla cosa che ami” cioè, e anche dal contributo d’amore che ti portano i tuoi genitori da quello d’affetto che ti portano gli amici). È una cosa che farai domani: quanto tutto questo vivo fermento sarà placato, e tu dirai: io in quei giorni sentivo e pensavo così e così, per queste e quest’altre cause. Ecco, di questo vorrei tu avessi coscienza assoluta: delle cause del tuo stato d’animo. Io sono convinto ch’esse sono belle al di fuori di te, contingenti, passeggere. Mi ripeto, ti potranno dare nuove tonalità e sfumature, ma non potranno mutare mai. E scusa se cito ancora me stesso, ma mi pare di avere in proposito un poco d’esperienza in più: io ho passato crisi spirituali e travagliate sofferenze, tali da ritenere doverne uscire totalmente alterato. La cosa è durata un mese, un anno al massimo: poi con l’integrazione degli opposti della prova, mi sono ritrovato l’uguale. Migliorato o peggiorato (in genere migliorato, perché così io volevo che fosse) ma l’identico. La natura non si vince, e può deformare la nostra immagine essenziale. Su questo principio vorrei tu avessi fede assoluta. Ecco, la fede. Tu dici di disprezzare “profondamente ogni submissione di ordine religioso”. Ciò a mio parere deriva dal fatto che tu non conosci la religione, In essa non c’è submissione, ma accettazione cosciente ed amorosa. Per la

quale ultima ci vuole la Grazia. È cosa che non si può costruire o volere. “Che vale misurare le nostre probabilità?” Non si gioca contro “Dio”, diceva Bernanos.244 È come la possibilità artistica o creativa (si può anche giungere alla religione attraverso le “Confessioni”, o il “de civitate dei”, o l’“Apologia”, ma è cammino gravoso). Ma una fede, religiosa o laica, di Patria o di Partito, si ha sempre, sempre si deve avere. Io scrivo molti “si deve”, te ne sei accorto, vero? Proprio perché io credo sia necessario giustificare la nostra esistenza attraverso un attivismo esatto e centrato. Che tu non possieda fede religiosa, profondamente mi addolora ed angustia, proprio per te, perché di grande aiuto e consolazione è la fede, specie nei momenti duri. Ma vorrei tu fossi imparziale, e di tale argomento non discorressi con astio e livore. Anche perché questo potrebbe portare a dolore in persone che invece a tal cose credono, o almeno rispettano. “mi cade inesorabilmente l’adorazione che ho vissuta caldissima fin da fanciullo per un patriottismo almeno inteso nell’accezione più diffusa e costante”, dici. A mio parere, ciò è bene. Non fai che integrare, così, quello che è un impulsivo ed irrazionale moto con una concertazione di realtà conosciute e sviscerate. È una prova ch’io pure ho passato e superato. Caro Ugo, gli scoramenti e i pessimismi possono anche esser tratto distintivo del nostro carattere: non sono la condanna e la dissoluzione di esso. Vedi, io non vorrei tu volessi, di cosciente proposito, falsare i tuoi ideali. Un Ugo imborghesito, che ripartisce le sue energie tra il divertimento fine a se stesso, tra il lavoro, e, poniamo, il piacere, io non lo vedo sussistere. Questo è, piuttosto (questa equipartizione) destino dei mediocri, delle persone normali. E tu sei oltre, molto oltre codesta normalità: a quel livello vorrei tu restassi: dedito con totale amore e sacrificio del tuo ideale. I termini della tua vita li conosci. Sono quelli che da piccolo ti spinsero imperiosamente ad amare con totale dedizione certe

cose, e tralasciare tutte le altre. Quello è il tuo campo, il tuo destino, e ad esso devi restare fedele. Carissimo, son tutte, queste, cose che sai, delle quali ho conoscenza. Non credo che io abbia voluto farti predichette o sermoni, non ne hai bisogno. Ho solo voluto farti sapere quale è il mio punto di vista, che credo essere, scusa la superbia, nel vero, circa la tua vita attuale ed i problemi che te ne nascono, che essendo tuoi sono anche miei. Se un consiglio voglio darti, è quello di nutrirti della convinzione della temporaneità, agli effetti della tua “vera” vita, di questa prova. Io ne ho sicurezza incondizionata. Io ti sono vicino, e forse più di quanto tu supponga. Ripeto, non solo perché amiamo le stesse cose, abbiamo avuto un quasi uguale destino, perché stiamo scrivendo un libro e altri ne scriveremo (tu sai che di questi il merito maggiore sarà tuo): ma perché tu sei per me non solo un camerata ed un amico, ma un ideale modello di personalità d’“uomo” che non vorrei alterato per nessuna ragione al mondo. Con impazienza attendo la tua licenza autunnale: molte cose faremo, molte progetteremo, molte realizzeremo. Abbiti sempre accanto il pensiero, con quello dell’amore dei tuoi genitori, del mio affetto assoluto. Tu sei chiamato a realizzare grandi cose: rammentalo sempre, e in te nutri incondizionata fiducia. Ti abbraccio forte, tuo Jusik

St. Th[anas], 18 agosto [1942 – XX] Carissimo Jusik, ho deciso, fermamente deciso, di adottare “Io parlo di ciò che mi aiuta a vivere di ciò che è bene…” (Paul Éluard su Picasso) come motto del nostro libro: mi batterò moltissimo qualora tu avessi cambiato idea. Pongo come condizione, soltanto, di leggere e di conoscere perfettamente quella pagina di Éluard, perché, fra l’altro, essa mi ha incuriosito fino all’ansia. (Nel libretto della collez. Hoepli dedicato a Picasso, nella diffusa e importante nota bibliografica sul pittore, vedo ch’è dato molto rilievo e spazio a diversi articoli di Paul Éluard, in diverse lingue. Un articolo appunto, in francese e in ispagnolo, è intitolato: “Io parlo di ciò che è bene”.)245 Ottimo anche quell’Io parlo: gli autori del libro sono due, ma unica è la mentalità, uno il fine, lo spirito: una dunque, quasi, anche la persona. *** È uscito dunque, finalmente, il nostro “Uom[ini] s[ul] f[ondo]”; ma, pare (chè né mamma, né Guido me ne parlano) senza la famosa “nota redazionale”. Si sono ravveduti in tempo, allora!246 Io spero di poter leggere la rivista acquistandola da una certa Libreria Argus di Tirana; così per il numero precedente. ***

Recenti mie letture: La storia di un’anima (Il figlio d’una serva) di Strindberg; Il cavallo di Troia di Morley; Gente nel tempo di Bontempelli; I Malavoglia di Verga; e il vecchio Nostra signora di Parigi. Per Morley debbo dire ch’egli non mi ha assolutamente deluso in questo secondo libro che leggo, anche in confronto diretto con un Tuono a sinistra; anzi. Mosca, poveretto, si dissolve e scompare di fronte a queste sbellicanti fantasie dell’americano; lo stile malizioso, rutilante, scintillante di Morley gli permette di passare, con la massima indifferenza e americana spregiudicatezza, dal tono comico al beffardo, dal puramente lirico al chiaroscurato drammatico, dalla forza alla rievocazione appassionata. Fenomeno unico, e questo è il segreto intimo della sua arte. A lui s’addice, come mai, credo, a nessuno (l’irlandese escluso), l’aforisma di Wilde: “Il vero artista non è quello che procede dal sentimento alla forma, ma bensì dalla forma al pensiero e al sentimento”. *** Un altro, importante aforisma di Wilde bollerebbe a fuoco tutta l’opera “estetica” di Dos Passos, ad esempio, autore che, pur essendo americano e suo contemporaneo, è tuttavia l’opposto di Morley (almeno nella narrazione, diciamo così, normale di 42° parallelo e di Manhattan Transfer; ché negli “orchi fotografici”, e tentativi consimili paroliberai e sregolati, c’è comune il fatto della forma che impressiona e che domina!). E l’aforisma è: “La pura modernità di forma è sempre un elemento di volgarizzazione”. Ed è vero: la verità bisogna vederla camminare su una corda tesa: e sono affatto vere quelle affermazioni di Wilde che a prima vista parrebbero le più squilibrate, assurde, irreali. “Il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile.” “Appunto perché un uomo non può fare una cosa, egli è di questa il giudice più perfetto” (vedi il critico). “Colui che vede l’uno e l’altro lato di un problema, è un uomo che non vede assolutamente nulla.” “L’azione è l’ultimo rifugio di chi non sa sognare. Quando noi avremo pienamente scoperte le leggi scientifiche” (nota: scientifiche)

“che governano la vita troveremo che la sola persona, la quale ha più illusioni del sognatore, è l’uomo d’azione”. E via di questo passo, per tutte le opere; per tutta la vita. *** Stasera a Korça247 c’è La straniera; ma è un sogno, poter andare. Affettuosamente tuo Ugo

Da Torre S. Maria, 22 agosto [1942 – XX] Quando in montagna all’improvviso il cielo muta, e cangia la luce, e i vapori che prima fumigavano bassi a navigare tra i costoni e le sporgenze della valle dissolvono sotto il sole; quando dal nero lividore di nubi placide si passa a terso cielo, e da pioggia a sole, l’animo proprio non può fare a meno d’aprire i suoi recessi secreti alla meditazione essenziale, unica; quella che supera il confine della fisica morte. Torna allora alla mente la particolarità dello stato di sogno, del sogno cotidiana prova della morte, liberazione dai fisici confini per una riduzione alla pura essenza, incorporea, della coscienza e dell’anima fuse nella pienezza della loro reciprocità; torna alla mente il pensiero del ricordo: del come in sogno l’uomo si svincola dal corpo, permanendo totalità spirituale ed astratta, senza sopportazione di gravami e vincoli materiali. Come sostenere allora che lo spirito, e il pensiero dell’immortalità dell’anima, e l’al di là stesso son creazioni dell’umano pensiero, quando proprio si manifestano nell’attimo in cui volontà e ragionamento tacciono, assopiti nella breve stasi del sonno, per lasciar libero campo alla presenza dell’anima. Nel sonno infatti noi più non avvertiamo vincoli di tempo, di spazio, di forza di gravità, di forza, d’attrazione newtoniana: siamo liberi e puri, voliamo, ci compenetriamo coi corpi, li traversiamo; col pensiero oltrepassiamo enormi distanze di spazio temporale nella durata di pochi attimi fisici (si esperimentò, una volta, in Francia credo: nello spazio di due minuti un uomo aveva sognato anni ed anni di Rivoluzione

francese): e dal corso non conserviamo più memoria (dunque anche senza di esso noi sussistiamo): ci affacciamo all’eternità. Non solo dunque formidabili ragionamenti a dimostrazione dell’esistenza dell’anima, della sua immortalità: ma anche questa, psicologica, a tutti comune. A notevole conforto mio, lessi ieri un articolo su Croce, che mi confermava, sostenendo L’Estetica opera mancata perché nata da una curiosità filosofica e non da una sofferta esigenza dello spirito. L’articolo proseguiva dimostrando la nascita dello storicismo crociano dal suo estetismo, e la vanità di tutto il sistema filosofico del meridionale. Dal nostro punto di vista, un’estetica crociana per il cinema non si può ammettere. Come infatti cercare una coincidenza tra intuizione e creazione basata sul sentimento? Dziga Vertov e l’avanguardia ci danno ottime cognizioni in proposito (il male, però, peggiore dell’avanguardia risiedeva non nella sua possibilità, ma nelle non-possibilità degli uomini che vi si esercitarono); anche se si basavano sul subcosciente, sull’inconscio, sull’automatismo. La limitatezza di Croce è poi enorme quando afferma l’identità esistenziale delle singole realtà senza possibilità alcuna di collegamento, di raccordo: mi pare, il suo, universo tutto fatto di pezzettini scompigliati: un mosaico intentato. Nel discorso pronunciato ad Oxford nel 1938 sulla poesia248, Croce aveva ancora le sue famose frasi hegeliane “a pendolo”, che tanto sollazzavano Papini trent’anni fa e più: e questa fossilizzazione mi pare sintomatica, definitiva sull’uomo (mentre Papini ha seguito evoluzione, pur nell’unitarietà interiore del temperamento – vedi i primi capitoli del “Sant’Agostino”, certe parti di “Dante vivo”). L’unico pregio del volume La pittura del Novecento di Ugo Nebbia è racchiuso nella gran copia di riproduzioni riportate. Ma ci sono delle manchevolezze enormi: ad esempio tutto il surrealismo francese è ignorato, citato a malapena: nulla, neanche un quadro di Dalí, di Picabia; e nulla dei maggiori espressionisti tedeschi del dopoguerra; e nulla dell’arte hitleriana; e nulla dei filocomunisti francesi (“Il

bombardamento di Guernica” di Picasso è una delle opere più significative di tutta la pittura moderna, d’un tragico impressionante; Goya superato). C’è un quadro di Maccari dal titolo “Ricordo di cinema”,249 dove c’è una deformata reminiscenza di Stroheim e Fay Wray in Wedding March.250 E altra roba c’è: dei delicatissimi Utrillo251 (una periferia parigina molto più poetica ed abbandonata a sottili contemplazioni di quelle di Clair); dei Chagall che m’invogliano a un lungo ragionamento, forse ad un articolo, sulla pittura ebraica (sarebbe interessante confrontare la deformazione in Grosz, Maccari, Chagall); i quadri di Léger parlano dell’Inhumaine;252 il Paesaggio del Céret di Soutine253 richiama in maniera impressionante le scenografie di Caligari (nel testo “Delitto e castigo” dedicheremo un lunghissimo discorso a Raskol’nikov);254 una notevole analogia sussiste tra le composizioni astratte Kandinsky e le pitture cosmiche del Prampolini del periodo parigino; un’analisi piuttosto buona è scritta attorno al futurismo italiano; sul Novecento italiano idee piuttosto confuse, e poco aggiornamento sugli ultimi nomi – Birolli, Guttuso, eccetera; Il pane di Gaudenzi (Premio Cremona)255 ha un troppo – forse – nullo richiamo a Masaccio; Dramma umano di Laermans256 è nello spirito dei poemi sociali di Verhaeren; L’annunciazione di Van de Woestyne257 pare un Memling redivivo; (mi piace molto Ensor);258 Wiegersma259 esprime in densa forma moderna le Tentazioni di Sant’Antonio: ma quanto lontani siamo da Bosch, da quel Bosch ch’io mi vo facendo uno dei più grandi pittori dell’umanità; Hynckes260 fa del realismo usando i medesimi mezzi che permettevano l’introduzione metafisica di Tozzi; il Toorop261 dell’Uomo abbandonato dalla fede è un Bosch ridotto al millesimo; (insufficienti le pagine dedicate alla pittura tedesca); Kokoschka262 dice una volta di più che l’accostamento alle scenografie del Caligari è infondato: proprio perché in lui ogni elemento è diluito nel nervosismo della pennellata, mentre nel Caligari c’era una geometrizzazione cubista alla Braque, alla Le Corbusier; Uomini di Josef Cˇapek mi ricorda un’inq. identica di Piccolo

mondo antico263 (tre ombre su un muro); Hammerschoj264 è detto “pittore dei silenzi” – quegli spazi vuoti di suono che Dreyer creava attorno al tormento della natura umana e della natura inumana nel Giovanna –, e di lui c’è un “ritratto della moglie”, scuro su sfondo chiaro; di Philpot265 c’è un Angelo dell’annunciazione tremendamente rossettiano, floreale, Browning; le Danzatrici di Grant266 ricalcano Matisse; nel Ratto di Persepone di Armstrong267 vedo un particolare – materia rotta e plasticizzata nelle slabbrature – che sin qui ritenevo caratteristiche alla sola scultura di Ferruccio Vecchi; degli americani il migliore è Benton268; Aba Novák conferma la sua vasta fama; Molnár269 ha un’Annunciazione d’un grünewaldismo stilizzato su moduli metafisici; l’argentino Pettoruti270 è una fusione di Picasso e Braque; il Ritratto di Trockij di Annenkov271 dimostra l’estensione della pittura di Umberto Boccioni fin nelle convulsioni della retorica sovietica; Nikonov272 ha un quadro di guerra molto sapientemente illuminato. Manchevole nel complesso la cronistoria (nel complesso, il Nebbia, un sufficiente testo di cultura, indispensabile talvolta per certe particolari informazioni). Ungaretti è poeta inquietante, irritante. Alterna l’ottimo col pessimo. Pone questa delicata sintesi “Sorpresa – dopo tanto – d’un amore. – credevo di averlo sparpagliato – per il mondo” accanto a questa tirata di parossismo fisiologico “Ma le mie urla – feriscono – come fulmini – la campana fioca – del cielo. Sprofondano – impaurite” vuol dire tendere una corda (in senso geometrico) tra due punti estremi. Lungo il cammino, ecco un’altra condensazione efficace, bella “Si sta – come d’autunno – sugli alberi – le foglie” (il titolo è Soldati). Il cosmismo d’Ungaretti è un qualcosa di addirittura fisico: la sua poesia assomiglia a quelle condensazioni subatomiche, nucleari, che in certe zone dell’universo, sotto pressioni estreme, accentrano in quantità impercettibili di materia, astronomici (tanto per intenderci nell’approssimazione di peso) valori di consistenza, per noi inconcepibili; come in certe regioni cosmiche c’è una tal rarefazione da aversi una o

due molecole nello spazio di centinaia di metri quadrati, così in Ungaretti la lontananza dei riferimenti iniziali isola due o tre parole a racchiudere l’universo; altrove la pressione estrema (il peso del mondo: “sono un grumo di sogni”) lo conduce a magnetizzare nel cerchio di poche parole un enorme gravame di tormenti (“Confuso – in quest’oscuro – colle mani – gelate – mi distinguo – il viso. Mi vedo – abbandonato – nell’infinito”): e non dissimilmente dipinge Prampolini cosmiche astrazioni, essenza dell’universo intero; in Ungaretti, l’uomo ferito è sempre legato, sia pur impercettibilmente, alla carne – in Prampolini l’uomo svincolato e libero nell’immensità dello spiritualismo del tutto. Nell’affermazione del Gargiulo,273 “immediatezza in quanto essenzialità”, mi pare dover riscontrare una manchevolezza di analisi nei riguardi del processo genetico: perché questa essenzialità non si può raggiungere se non dopo una concentrazione spirituale estrema, per cui si palesa come mezzo d’espressione ma non come valore d’espressione. Ben diversa è l’immediatezza dei frammenti di Soffici, che si consolidano direttamente in pittura, nel Giornale di bordo, nell’Arlecchino, nella Giostra dei sensi (i titoli rivelatori: tutta la poesia italiana, dopo i crepuscolari e prima degli ermetici, con Chiesa, Cena, Thovez, Saba è una vera e propria “giostra dei sensi”: e il vertice è L’esperienza di un bacio di Gian Pietro Lucini): ed è interessante notare come la pittura (i quadri) di Soffici sia andata via via distinguendosi in equilibrati volumi, anche lo stile letterario sia rimasto nella forma tal quale (Il taccuino d’Arno Borghi) anche se i preannunci coloristici c’erano già nella prosa aerea e vibrante del Lemmonio Boreo. Quando poi mi chiedo perché abbia la lirica moderna da essere “una suprema illusione di canto che miracolosamente si sostiene dopo la distruzione di tutte le illusioni” (Solmi),274 sento compromessa vivacemente la mia posizione d’uomo moderno. Penso a quella poesia armena che dice “Terra mia dolce di sole – dove nascono tanti bambini” (è un poeta di scuola sovietica, questa), e che le inquietudini di questo

mondo sono estremamente malate. Se l’antitesi di questo cancro non è in noi, ce la dobbiamo creare, per vivere, per poter un giorno morire. Sennò, che senso [ha] morire dopo morti, dopo un prolungarsi di stato di morte lungo gli anni interi della parvenza di vita? È strano, ma vitalità maggiore trovo in certi testi di poesia surrealista francese, dove nell’assenza di vita c’è anche assenza d’angoscia, c’è puro distendersi nel cosmo, dimenticarsi placato. Noi, carissimo Ugo, tra due o tre giorni si torna a Milano. Si è in attesa della nuova stagione filmica (pare ci doneranno, oltre alla Bestia umana – titolo italiano, ah! ah!, L’angelo del male – anche Quai des brumes): intanto a Milano rivedremo – circolano nei cinema – Carnet di ballo, Alba tragica, La bandera, Il bandito della Casbah.275 Dopo un’altra visione di questi film, non so, o ti scrivo in proposito lunghissime epistole, o due parole: film bello o film brutto. Non riesco affatto a prevedere le mie reazioni alla visione di questi testi: in altre parole, non so se ti ho già detto tutto quel che in proposito avevo da dire, se qualch’altra cosa c’è ancora. Non ho visto l’ultimo Cinema, ma l’immagino brutto. Guido mi comunica il mutamento estremo (“estrema prostituzione”, la definisce) di Si gira:276 un numero, forse, orribile; io non so, riporto. Forse il giudizio di Guido proviene dal fatto che Mida non gli ha pubblicato il suo articolo sul paesaggio italiano nel cinema. (Vedi, come sono maligno! Ti giuro che un poco me ne vergogno. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra.” Hai mai letto il Vangelo? Ci potresti trovare della buona arte, per ora.) Sui giornali ho letto che i militari sotto le armi, oltre all’iscrizione diretta all’anno di corso successivo, godranno d’una speciale licenza per esami a partire dall’1 dicembre per la sessione autunnale. E tu, oltre a questa, hai ancora da fruire di quella di giugno, che non hai avuto. Caro Ugo, fai pure il diavolo a quattro, ma vieni giù. Di abbracciarti ho proprio gran voglia; e di chiacchierare con te.

Appena a Milano, farò le tue commissioni (quei numeri del Fascio, i Bianco e nero); e ti scriverò delle novità cittadine e di tutto il resto. Per ora ciao, arrivederci a presto. Affettuosamente tuo Jusik Ho, nel cervello le belle regole sulla pressione osmotica e la teoria delle soluzioni diluite: sul naso mi sta spuntando un meraviglioso foruncoletto. Pensa un poco come sono allegra: e, per di più, Jusik mi aspetta al varco con limiti e derivate. Io ti scriverò appena giunta a Milano: tutti i miei guai presenti (piccoli dirai: ma le donne non sono forse delle terribili piaghette) saranno, spero, scomparsi. Saluti da mamma. Da me, molto affettuosamente Marisa

Milano, 25 agosto [1942] – XX Ugo carissimo, no, io non ho fatto tutto, come tu dici a malapena un anno più di te, e con disegni più ampi, con più variegati panorami. Ora del resto tu stai trottando di gran leva e di già mi proponi qualche nome che ignoro. E per sapere chi è Block,277 basta aver letto un paio di libri, in prima approssimazione; ti confesso che ho Block nell’originale, e tento di decifrarlo, ma quanto so di lui la mia memoria lo ha attinto dall’antologia – appunto – di scrittori sovietici di Mondadori, da un panorama di lett[eratura]Russa che lessi molti anni fa in lingua francese, e dal volumetto Poemetti e liriche di Alessandro Block, trad. [Renato] Poggioli, Editore Guanda, Modena (sulla stessa collana ci sono George, García Lorca, la Mansfield, Eliot). Per cui ti dirò che Block è uno dei più grandi poeti simbolisti russi, assieme a Ivanova e Baly, quest’ultimo, tuttavia, noto maggiormente per i suoi romanzi sinfonici alla Joyce; e di Joyce è bene conoscere i Dubliners – Marisa lo possiede nella traduzione francese – Portrait of the Artist as a Young Man – Marisa lo possiede nella sua edizione italiana, Dedalus, Ed. Frassinelli – l’Ulisse e il Work in progress del quale una parte è Anna Livia Plurabelle e l’altra The Finnegans Wake, ma che non credeva affatto nel comunismo, lui raffinato preziosissimo decadente, dandy racchiuso in fialette di cristallo, sottile cacciatore di versi teneri (“sovente mi trovai in rosee catene femminili”): si trovò però preso nel vortice della rivoluzione, ne sentì poeticamente il tumulto (I dodici), morì di stenti a Pietroburgo (Esenin e Majakovskij furono suicidi, Block no),

siccome era d’origine ebrea cantò anche Gli sciiti, l’epopea delle orde ebraiche che irrompevano a frantumare l’Occidente. E scrisse I versi per la bellissima dama, La maschera di neve, eccetera. A me Block richiama molto Laforgue, Rodenbach e Palazzeschi. (Ma io sono cattivo: “penso che mi dirai, chi è, ma chi è, Rodenbach, per dio”; ed io potrò così parlarti d’un poeta che amo assai): non è un simbolista nell’uso diretto di simboli ed analogie, non proviene cioè da Mallarmé ma è invece figlio di Verlaine, di Samain, di Paul Fort (di questa tendenza, Henri de Régnier e Moréas sono i rappresentanti classici, ellenizzanti, latinizzanti, Rodenbach, Laforgue, Guérin gli allusivi, belgi e fiamminghi, vaporosi di chine e colori). Con quel suo sognare costante, quel vagare da miraggio a miraggio; col suo amore fine fine per le cose piccole, per certe grottesche cose (come, in Palazzeschi, Le beghine), per certi soavi colori (“intorno girava un sentiero – fra le bianco verdi penombre – verso il sonno, il languore ed il sogno…”). E su Block ti formulo giudizi, che è poeta che io ho letto ma non studiato. Ti cito qualcosa, da quel che in lui mi piace. Ecco: “Io discorro col lago, vespertino – con una nota alta di canto”. “o tenere parole… La scrittura – è starna e lunga, come un lungo strascico. – I caratteri sprizzano fatue vampe – come una gemma in una chioma nera”. “Lividi rami d’allori spogliati – bagliori paonazzi all’orizzonte – (al patibolo vanno i condannati nell’aureole di simili tramonti)”. “Un malinconico riflesso – strada lampione farmacia – è, fu, sarà sempre lo stesso – non c’è più scampo: così sia” (qui, pensare a Corazzini è indispensabile). Fatto, caro Ugo. Il nome di Block non ti sarà mai più estraneo. La frase di Éluard è appunto la prima del saggio su Picasso “Io parlo di ciò che è bene”. Tale scritto è apparso in una traduzione italiana in Prospettive;278 Marisa possedendolo, lo potrai leggere. Non sono affatto d’accordo su Tuono a sinistra rispetto a Cavallo di Troia. Tuono a sinistra è uno dei più sensibili e fini libri ch’io conosca. Cavallo di Troia è una scemenzuola buttata lì tanto per divertire un poco. Lo stile vi è pessimo,

anzi inesistente. Pare più che un libro, un abbozzo; o uno schema per film tipo Un americano alla corte di Re Artù o Francesco I.279 Non reca una pagina compiuta, sigillata. Sì, ci sono le “sbellicanti fantasie” e la “malizia” ma arte non c’è (neanche c’era in Tuono a sinistra), e neppure letteratura. Salverei solo alcune poesie. Il resto mi sembra un guazzabuglio insopportabile. (Se quel libro di Huxley non è Il sorriso della Gioconda, che è pure Medusa, Mondadori – è Dopo i fuochi d’artificio. Di entrambi i volumi il titolo è anche quello del primo racconto.) Ahimè, sei proprio arrivato a pescare uno dei pochi Bontempelli che non conosco. Di Gente nel tempo non so nulla. Forse è inferiore a Wilder. Ma di Bontempelli il resto non è né inferiore né superiore a Wilder (idem per Morley): è diverso. Ti propongo Eva ultima, La scacchiera davanti allo specchio (che ti introdurrà alla pittura metafisica di Carrà, Penelope, Solitudine, L’amante dell’ingegnere e di De Chirico) e soprattutto Giro del sole. Sono contento per i saggi di Bontempelli, ti piaceranno molto. Non credo Dos Passos valga molto. È interessante la sua maniera di vedere le cose, la tecnica d’osservazione e selezione cioè: la resa poi è incongruente senza raccordo di termini. Quella commedia di Rateieff non è colpa mia, scusami. La conosco, ma sulla scena reggeva poco (un poco come reggon poco sul palcoscenico i paradossi di Wilde: mentre quelli di [Shaw] sortono tutt’altro effetto). Per La straniera tutto è a posto. Dalla fusione delle tue e mie parole, credo il film sia collocato nella giusta posizione, nell’esatta luce. Ottimamente. Terzi mi ha scritto una insopportabile lettera, nella quale si dà un sacco di arie. Si è messo a fare il tutore filmico del giovane veneziano Mario Orsoni (“io sono per lui quel che Casiraghi era per me” dice, nientepopodimeno), e mi

contraddice bellamente in fatto di estetica, e su Pabst. Per ora non ho insomma voglia di rispondergli. A Chiarini “I confini e la poesia” non è sembrato adatto. Son tornato però alla carica. Ci tengo. Mi scrisse Pietrangeli, Si gira è “finito nelle mani di uno dei soliti direttori di fogli pubblicitari e ricattatori che escono in gran copia oggi in Italia”; egli cerca ora di fare una nuova rivista, mi invita a collaborare. Tanto per il tuo Duvivier che per U[omini] s[ul] f[ondo] dice che le foto non sono apparse perché non hanno fatto in tempo a riprodurle. Mi scrive: “Vi sarei grato se voleste comunicare a Casiraghi da parte mia che gradirei una sua ulteriore nota – magari più specifica – in modo da poter utilizzare il cliché di tutte le foto che lui iniziò a suo tempo e che – altrimenti – rimarrebbero impubblicate”. Io ora ti consiglio di scrivere un paio di pagine (pagine di B[ianco] e N[ero]) sulle foto che sono: una del Golem, una di Chéri Bibi e una dei Musicisti del cielo;280 un poco di ulteriore commento al tuo articolo e un altro poco a tutto commento alle foto: lo strano Duvivier del Golem, i punti di contatto con quel Lacombe, con quel Mathot. Di Chéri Bibi la fot. è quella del Fresnay galeotto, dei Musicisti del cielo quella della morte di Michèle Morgan, inq. obliqua. Alfa Tau aprirà la mostra.281 Beato Guido che si papperà questa primizia. Egli un pochino mi aiuta a rivedere la forma delle mie tradotte poesie armene, per le quali sono in attesa del giudizio di Sanminiatelli, che dirige la collana “Stelle dell’Orsa” di Garzanti. Molto più di lui però mi aiuta Marisa, tanto che non esiterei ad affermare che la forma italiana definitiva apparterrà molto di più a lei che a me. Io ignoravo che Marisa avesse così vivo il senso della poesia, della costruzione dei versi, la aiuta molto la conoscenza musicale. Laddove io fatico a costruire, lei risolve per intuito melodico. Nella sua ultima lettera ti cita una poesia di Tehecian282: la traduzione è sua, io mi son limitato ad offrirle la materia bruta volta in lingua italiana.

Ho scorso di recente il D’Annunzio di Flora.283 È piuttosto buono, sebbene unilaterale. Ho visto tua madre, che si è un poco lamentata della brevità delle tue cartoline. Se tu le scriverai qualche riga di più, faresti un vero piacere anche a me: essa si preoccupa oltremodo per te. Cerca di essere, scrivendole, il più sereno possibile. A gran passi mi s’avvicina la turbolenta epoca degli esami. Carissimo Ugo, le tue ultime lettere, così diverse da quelle immediatamente precedenti, mi hanno allietato oltremodo. Io di esse ti ringrazio come del miglior dono che potessi farmi. Il programma di lavoro, universitario ed extra, è ardito e vasto, spero di cavarmela. La laurea si avvicina e con essa la “vera” vita di lavoro. Ho molte mete da conquistare, molte aspirazioni da sviluppare, spero Dio mi darà la forza di giungere al complimento, sì da permettermi di fare la felicità delle persone che amo. Io ad altro non penso che alla famiglia che formerò, tutte le mie energie non sono tese che a riscattarmi delle manchevolezze del mio carattere e della mia personalità. Quando rileggerò Kant, so che ci ritroverò molta della mia vecchia vita: vita fatta di sereno compimento di dovere. A questo io credo, al supremo dovere di cercar sempre d’essere migliore, e migliore non tanto per me quanto per gli altri, del resto il giro dei miei rapporti col mondo delle persone è presto fatto: l’amore per Marisa, l’amicizia per te, l’affetto per mia madre. In questo mondo si può scavare in profondità, tanto nelle zone sensibili del cuore quanto in quelle coscienti e chiare del pensiero. Ti abbraccio, Jusik

Da Torre S. Maria, agosto [1942] – XX Ugo caro, di questo paesino di Val Malenco e della vita che ci facciamo, ti sta scrivendo Marisa qui accanto a me, adoperando a mo’ di tavolino il Weininger. Io adopero, a questo scopo, un quaderno d’appunti dove Marisa va raccogliendo note libresche e spunti d’impressioni. Ti dirò che sono ammirato dalle tue letture. Si tratta di roba assai buona. Lessi a suo tempo Ariosto, Shakespeare e Corneille, e trovai, fin d’allora, che Croce era l’unico critico non francese che fosse riuscito a penetrare in Corneille, autore non agevole agli avvicinamenti per la sua qualità di “classico” francese (il classicismo in Francia, da Racine, Boileau, Molière fino a Valéry, è un fenomeno di gravosa conoscenza, d’un rigore estremo, quasi incomprensibile talvolta a noi abituati alla libertà dell’estro ariostesco, alle discontinuità del Tasso, all’alternanza dei temi in Dante, dalla metafisica alla matematica all’invettiva politica: un linguaggio di precisi e “totali” numeri, senza il minimo accordo all’adagiare, al riposare). Delle tragedie di puro linguaggio poetico – Dérieux parla d’una sintesi Racine-Valéry, nel suo libro284 – immense e costruite, nel più fermo ordine delle unità aristoteliche. C[orneille] è scrittore lontanissimo dagli altri due termini del testo, anche se certa sua passionalità (subito trattenuta, dosata, misurata), per esempio ne Il Cid, lo poteva portare a dei punti di contatto285 (e rammento chiarissime certe pagine in Shakespeare e affini, che si basavan tutte su un’analogia figurativa iniziale: Alfiere nuda torre in un paesaggio sassoso

ed aspro, Shakespeare aggrovigliata foresta. Non ricordo né il libro né l’autore. Rammenti tu qualcosa a proposito?). E, in argomento, quell’Huxley era Il sorriso della Gioconda, The Gioconda Smile. Ma il cognome di Mildred non lo so, vidi il film una volta sola, sai che per i nomi al cinema ho poca memoria, è forse buon segno: metodo di percezione visiva innanzitutto – più capace di vedere un film sino alla fine senza far caso al nome di protagonisti del tutto. Pel Fascio, mi farò premura di farti avere quel numero “Del montaggio ariostesco e di due altre cose” mi pare risultò un “Del montaggio ariostesco e di un’altra cosa”, se non nel titolo nella sostanza. Le ragioni dell’amputazione erano del tutto di spazio redazionale suppongo. Nel medesimo numero io parlavo della scultura di Ferruccio Vecchi. Calvi è partito in Russia credo. C’è un nuovo direttore, che non ho fatto in tempo a conoscere.286 Il giornale ora esce a quattro pagine e, Udite! Udite!, mi ha passato una tessera biposto per l’Odeon, l’università e il Corso. Mi sta maturando dentro un articolo per Bianco e nero sui due caratteri polari del cinema (il muto come musica-pittura, il sonoro come teatro-letteratura): ma consideravo questi casi come posizioni-limite, esempi estremi, poli contrapposti: frammezzo vi è tutto un no man’s land di innovi, contaminazioni, fusioni, ibridi – così Varieté287 è musica in quanto purezza del ritmo di montaggio ma anche è narrativa – sebbene non letteratura, alla maniera stessa con cui si può parlare di narrativa in pittura, o in musica, per es. il Till Eulenspiegel di Strauss;288 sebbene non descrittiva, come in musica il 1812 di Cˇajkovskij289 – e Les bas fonds290 è teatro – in quanto concezione scenografica – di attori prevalendo sullo spazio, la macchina da presa essendo subordinata alla recitazione molto spesso almeno – e letteratura in quanto propensioni dei termini nel senso e nell’ordinamento psicologico ma anche pittura per certo gesto compositivo delle figure, per quel quadretto alla Renoir padre del concerto domenicale, ma anche musica nel ritmo visivo, sebbene molto meno.

Quando, poi, abbiamo Tabù o il Vampiro, c’è dentro tutto e dalla fusione deriva l’arte, il raggiungimento. E a ponte delle due posizioni mi pare possa stare Eisenstein con i suoi poemi visivi – sorta di grandi elogie o di grandi odi alla maniera di Block – sviluppati anche in quanto narrazione (della narrazione devono avere, i film di Eisenstein. Le premesse, lo svolgimento, la conclusione: non devono avere la magnifica libertà dei termini immaginifici di Ivens), narrazione ma non ancora letteratura; mentre alla letteratura arrivano Rochel e Shoeva291 (Notti bianche è romanzo, concatenazione di fatti, aggrovigliarsi e distendere di situazioni: il tutto in termini di prosa, ritmo espositivo; e così pure romanzo è tutto quel cinema americano degli anonimi hollywoodiani, quel cinema regno dei Gable e Loy, Tracy e Powell, che della narrativa aveva tutte le caratteristiche di fluidità: e bada bene che dico narrativa, letteratura, musica, ecc. intendendo questi termini nell’ambito del linguaggio filmico, del mezzo filmico; c’è narrativa visiva, musica visiva e via discorrendo). Alla maturazione di questo scritto (spero almeno la concezione basilare sia originale, mia) contribuisce grandemente la lettura di Valéry. Più che in Pascal trovo di quest’autore un rigore di costruzione sbalorditivo. Una geometria tersa e di rigore assoluto, quasi un Bach: quasi, in filosofia, un San Tommaso, un Sant’Agostino, un candore puro e smagliante di termini. Poesia, in lui, in quanto sintesi di musica e architettura: materia liberata dal peso e dal colore, ridotta all’essenza – una poetica della parola sul tiro di quella di Macrì per Quasimodo per Valéry non è possibile come pure non si può parlare di limiti sensori – la parola dannunziana, che è prolungamento d’un fisiologico piacere – la parola carducciana che è oratoria – la parola di Samain che è colore (“Il neige lentamente d’adorable pâleur”: “con lentamente adorabili pallori”; non so se si possa dire “pallore”, “pallidezza” non va). E identica prosa, in Valéry, l’Eupalinos, sull’architettura;292 i dialoghi sulla danza (dialoghi socratici, nel più esteso senso del termine), il discorso sul “motore di Leonardo Da Vinci”:

una sequenza armonica di esatti e calibrati equilibrii, di cupole sorrette da rigorose spinte e controspinte, di mura terse e cristalline (non è affettata coerenza usar termini architettonici parlando di Valéry, sai: viene spontaneo, immediato). Ti cito. “Dato che la conoscenza non si riconosce dalle estremità e dato che nessuna idea non esaurisce la responsabilità della coscienza, bisogna bene ch’essa perisca in un avvenimento incomprensibile che gli è predetto e preparato dalle sensazioni straordinarie di cui parlavo; mondi inumani, mondi infermi e confrontabili a quei mondi che il geometra sbozza giocando sugli assiomi, il fisico supponendo delle altre costanti oltre a quelle ammesse. Tra il nitore della vita e la semplicità della morte, i sogni, i malesseri, le estasi, tutti questi stati impossibili a metà che introducono dei valori approssimati, delle soluzioni irrazionali o […] nell’equazione della conoscenza…” Questo, dall’Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci. Ma di Valéry e anche di Corneille, assai a lungo ti parlerò a giorni. Ti abbraccio, Jusik

Da Torre S. Maria, agosto 1942 XX Ugo carissimo, forse non sarà, in maniera totale ameno, inutile una breve esplorazione della questione del “classico”. 12 testi non avrà la pretesa di rappresentare quelli che si possono definire i “capolavori” del cinema. Opere di troppo vasta portata, da Stroheim a Vidor, ne restano fuori; certe altre (Vampyr. E terminati i testi iniziali, mi sarà concesso scriverti lunghissimamente su quello che sarà il nostro testo fondamentale) vi rientrano. A più d’una l’attribuzione di “classico” è da postillare, ribadire se trattasi d’opinione non nuova, affermare (in Uomini sul fondo altri di De Robertis) se nuova. Per cui mi riesce (da giorni ci medito intorno, elicoidalmente) necessario continuare una confessione già iniziata, quella attorno al classicismo francese, a Paul Valéry. Io ritengo che, se in Italia il concetto di classicismo è radicalmente connaturato alle arti figurative (a certe poche, almeno, in assoluto modo impegnato), e all’architettura talvolta, tale non sia, all’opposto, la condizione letteraria. Anche perché, in tema di classicismo, si può non solo partire dai testi per raggiungere le definizione – i testi esprimendola in nuce –, ma dalla formula (sulla parola tornerò più avanti) derivare ai lavori, riscontrare un’aderenza o meno, dato che classicismo non è dominio di pura estetica, ma anello di congiunzione al cui punto di saldatura combaciano l’estetica considerata come derivazione filosofica (concetto del Bello) e come derivazione scientifica (scienza del Bello) e la Filosofia in un senso esteso del termine comprendente una sublimazione

d’una teorica e di una prassi di vita fisica riflessa nei valori intellettivi e intellettuale. Essendo perciò un “universale”, il concetto di classicismo può ritenersi un archetipo, un ideale posto al di fuori, da raggiungere (avendone coscienza o meno). Sulla falsariga d’una simile impostazione, mi pare (mi è sempre distintamente sembrato) che il classicismo italiano esuli da una simile ideale repubblica. Nelle lettere italiane, classico vuol dire non un complesso aderente a un ideale unitariamente inteso (ad es. unicità del linguaggio, cioè coerenza dello strumento espressivo) ma un singolo e personale culmine. I classici italiani (Dante, Petrarca, Leopardi, Foscolo, Ariosto, Tasso – a bella posta mescolo i nomi, inverto le progressioni cronostoriche –; mai commetterei l’errore di accomunare la lett. italiana con la lett. latina, di affratellare i classici italiani con quelli latini), sono delle individualità in senso assoluto, collegate dagli aspetti più esteriori dell’uso d’una medesima lingua (lato negativo), dalle identità sub estetiche d’un’identica sensitività e concezion di vita (lato positivo). Ognuno fa gruppo a sé, è un mondo a parte: linee di raccordo così si possono tracciare. Non si può stabilire parentele, se non nell’ambito ristretto di un’identità, di ambiente storico, filologico, relativistico (ciò non meno ma affatto la loro vitalità rispetto alle esigenze della lettura: anche se ciò però proviene dalla duttilità del nostro avvicinamento). In Francia c’è una linea (o tendenza), Villon-Verlaine, che riaffiora anche in recenti nomi (Apollinaire, Simon, perfino l’ultimo Paul Éluard), una linea Racine-Valéry: le fonti del simbolismo si rintracciano non, come comunemente si ritiene, in Baudelaire (resta intatta la portata della formula Suares), ma in Chateaubriand, in Rousseau. Certi nomi poi (Pascal, Bossuet) sono delle chiavi di volta, che stanno ad organ[izz]are tutto l’edificio. C’è, insomma, continuità, e non solo nella sostanza del linguaggio (Boileau, Balzac, Voltaire reggono ancor oggi; La Fontaine potrebbe essere scrittore francese d’ieri – ieri immediato – o di domani), e non solo nella identità degli opposti spirituali, interioristici (la conciliazione sulla tendenza mistica gotica, con quella cartesiana, ellenica – aiuta qui il nome di Moréas, di Anna de

Noailles, di Louis Le Cardonnel293 (1) – latina): ma nell’ideale prefisso, o spontaneamente raggiunto, per esistenza dello stato di grazia. Nella lett[eratura] italiana, invece, Dante è un fenomeno tanto isolato che Ezra Pound affermava “la poesia italiana nasce con Dante e con Dante finisce” – paradosso contenente un grado non indifferente di verità, come tutti i paradossi –; e di tutto il dolce stil novo (per brevità, lo possiamo racchiudere, sintetizzare nella cadenza petrarchesca) non rimane, lungo tutto il fluire del secolo, quasi nulla: solo oggi troveremo qualche accento riconvertibile a quel significato nel futurista (è strano, davvero) Fra’ Ginepro,294 in Quasimodo (– “Mai ti vinse notte così chiara – se t’apri al riso e par che tutta tocchi d’astri una scala” –; Era beata stanotte la tua voce – a me discesa per nova innocenza – nel tempo che patisco un nascimento – d’accorate letizie –”).295 E non si tratta di un riaffiorare, quanto d’una coincidenza casuale, ipoteticamente, spinta al procedere di esperienze nate da Mallarmé, Poe (il “dolcestilnovismo” di Annabel Lee dove “dolce stilnovismo” è un’indicazione orientativa, beninteso, punto già perfino dato da una latitudine e una longitudine). Da allora in poi, non si udì più, nelle lettere italiane, misticismo. Di più, non mai senso di vita individuale, di momento vissuto – proprio nell’individualismo complessivo risultante –: l’uomo da un lato e l’artista dall’altro. Bisognerà attendere i crepuscolari, per trovare una parola “diretta”: Corazzini, Palazzeschi, il primo Govoni, e tutte sulle orme di Laforgue, Rodenbach, dei mistici fiamminghi. E quel che stacca Alfieri da Monti, Foscolo da Alfieri non è una diversità di clima, ma di raggiungimento di più elevati gradini: per noi Leopardi è “classico” non perché muove nel mondo ideale del classicismo italiano (che legame tra il suo verso e il verso ariostesco e il verso di Chiabrera?). Già oggi, del resto, certi suoi vocaboli appaion consunti, legati al tempo in cui nacquero a vita; certi suoi ritratti sono di una monotonia onomatopeica, cantilenanti, quella stessa cantilena che un tempo [annullò] Manzoni poeta – quelle orribili canzonette che son gli “Inni sacri”, ritmate come un girotondo – che poi

“sopraffece” Pascoli poeta), ma perché vale di più degli altri, per vastità di mondo, “traducibilità”. Può forse, codesta mancanza d’unitarietà, di legami di unione intima, derivare dalla carenza d’una effettiva e duratura civiltà italiana (civiltà nel senso del coincidere assoluti di valori umani, storici, politici), condizione raggiunta invece in Francia al tempo di Molière, Boileau, Corneille, Racine, o in Armenia nel V secolo (traduzione del Vecchio e Nuovo Testamento, Yeznik296, Yeghishe: io ti insegnerò, caro Ugo, l’armeno magari durante vent’anni, è uno degli strumenti letterari più agili all’espressione ch’io conosca, lingua pura, cristallina), o in Germania (Sturm und Drang, Klinger, Grillanzer e gli altri); per cui in Italia, in letteratura dei valori sopradetti c’è solo coincidenza tra i valori umani e quelli letterari (Petrarca) e quelli letterari ed etici (Manzoni), storici e politici (Machiavelli); ma mai, se non in Dante, consistenza assoluta o compiuta del tutto indivisibile (la critica crociana a Dante è un punto capovolto di accostamento, il polo diametralmente negativo). Ora, dico. Mi pare d’aver sostenuto un’ipotesi non molto orecchiabile: è, ad ogni buon conto, idea che amerei discussa e sottoposta a vaglio severo. Se però non ritenessi di essere, almeno un poco, nel vero, non avrei scritto. Ora, una definizione completa del classicismo e del “classico” non sono ancora in grado di formularla. Quelle che possono essere intuizioni di metodo e considerazione non hanno ancora la possibilità di rassodarsi in me in teoria (né io, per ora, vorrei ché revisioni enormi ed incalcolabili quantitativamente mi verrebbero imposte da mia almeno minima probità di concetto, da Cézanne in più ad esempio, e in musica, complicazioni ancora maggiori); ma mi aggancio, in questo momento di forse, in maniera definitiva, ulteriormente, nell’estetica di Paul Valéry, autore alle cui suggestioni incalcolabili ed incalcolate non sono assolutamente capace di non cedere. Alla base dell’estetica di Valéry sta il concetto di “coscienza” inteso nel senso di sublimazione astratta e

proiezione di tutte le virtù implicite e di tutti i moti naturali espliciti legati all’essenza più genuina e fondamentale dell’Io. E cito: “È impossibile che l’attività dello spirito non lo costringa a questa considerazione estrema ed elementare. I suoi movimenti moltiplicati, le sue intime contestazioni, le sue perturbazioni, i ritorni analitici che lascian mai d’alterato? Cos’è che resisto all’invito dei sensi alla dissipazione delle idee, all’indebolimento dei ricordi, alla variazione lenta dell’agonismo, all’azione incessante e multiforme dell’universo? Non è che questa coscienza sola, allo stato il più astratto. La nostra personalità medesima, che consideriamo grossolanamente la nostra più intima e più profonda ‘proprietà’, nostro bene sovrano, non è che una ‘casa’, è mutabile, e accidentale, in confronto a quest’Io il più nuovo, visto che possiamo pensare ad essa, calcolarne gli interessi e anche perderli di vista un poco: essa non è dunque che una divinità psicologica d’ordine secondario, che abilita il nostro specchio e obbedisce al nostro nome”. Giunto a questo stato di purezza isolata, Valéry controlla ogni movimento possibile in lui e fuori di lui. Questa coscienza fredda, sovrannaturale, astratta, gelida, s’attaglia a perfezione alla formula “contemplazione disinteressata” e genera la celebre frase: “Gli dei, graziosamente, ci donano senza alcun prezzo il primo verso, ma sta a noi costruire il secondo che col primo dev’essere in consonanza e non risultare indegno del fratello maggiore sovrannaturale”. In questi termini di rigida “costruzione” (in Valéry coincide l’asserzione nota di Walter Pater con la identità sussistente tra musica [e] architettura),297 combacia col significato “classico” nel senso ellenico latino e la cosa più immediata. E a proposito dell’Adonis di La Fontaine, dice Valéry: “Ho solamente voluto far concepire che i numeri obbligatori, le rime, le forme fisse, tutto questo arbitrio, adottate una volta per tutte, e opposte a noi stessi, possiedono una sorta di lealtà propria e filosofica. Le catene che ad ogni movimento legano i nostri movimenti ci ricordano, al momento, tutto il disprezzo che, senz’alcun dubbio, merita quel caos che l’uom volgare chiama ‘pensiero’ e del quale ignora che le condizioni ‘naturali’ non sono meno

fortuite, meno futili, che le condizioni d’una sciagura. È, la poesia ‘sapiente’, un’arte da scettico profondo. Essa suppone una libertà straordinaria riguardo all’assieme delle nostre idee e delle nostre sensazioni”.298 E nel “Discours de reception [a l’Academie Française]”:299 “Ma come assicurare le opere contro i ritorni della riflessione, e come fortificarle contro il sentimento dell’arbitrario? Con l’arbitrario stesso, con l’arbitrario organizzato e decretato. Contro gli scarti personali, contro la sovrabbondanza e la confessione, e, insomma contro la fantasia assoluta degli scettici creatori, creatori alla loro maniera, ànno istituito il sistema delle convenzioni”, e più innanzi: “L’arte classica dice al poeta: non sacrificherai agli idoli, che non le bellezze del dettaglio. Non ti servirai di tutte le parole, tra le quali ve ne son di rare e barocche che attirano sovra di sé tutta l’attenzione e vanamente brillano a spese del tuo pensiero(2). Non meraviglierai a poco prezzo e non speculerai sull’insolito. Non cercherai di fulminare, perché non sei un dio, qualunque sia la tua opinione in proposito; ma, solamente, cammina agli uomini, se poi l’idea d’una perfezione d’uomo”. Proficuo può essere questo lavoro di citazione, più d’ogni tentativo di volgarizzazione parafrasatrice. “Un poema dev’essere una festa dell’Intelletto. Festa è un gioco, ma solenne, una regolata ma significativa immagine di tutto quel che non è ordinario, immagine dello stato ove gli sforzi sono ritmi riacquistati.” E poi l’importante “definizione”: “La poesia non è che la letteratura ridotta all’essenziale del suo principio ‘attivo’” (da qui deriveranno, credo, tutti i miei ragionamenti sulla prosa e poesia del cinema, di cui ti ho parlato di già in precedenza). (Per te) a proposito del soggetto “Il soggetto di un poema è al poema altrettanto estremo e altrettanto importante quanto il nome d’un uomo all’uomo”. “Poeta è anche colui che cerca il sistema intellegibile e immaginabile dell’espressione della quale farà parte o nell’‘incidente’ di linguaggio: la tal parola, il tale accordo di parole, questo movimento sintattico – la tale entratura –

ch’egli ha incontrato, risvegliato, urtato per caso, e rimarcato – in vista della sua natura di poeta.” (In un articolo di Casnati su Mallarmé leggo: “Un poeta ‘canta’ qualche cosa, la poesia di Mallarmé non canta nulla non dice che di se stessa, non è e non si regge che per la virtù delle parole. Flaubert sognava un libro senza soggetto, che si reggesse per il solo prestigio di uno stile”…) Il punto fondamentale in cui Valéry affronta la questione del classico è quand’egli nota come agli antichi il mondo celeste apparisse molto più “ordinato” che a noi, e il terrestre estremamente disordinato, per cui mettere dell’ordine in quest’ultimo a loro apparisse “cosa divina”. E forse questa constatazione ci chiude il mondo classico, nell’accezione completa del termine per cui parlare di classici nel cinema ci risulterebbe cosa estremamente difficile. Ora, nel senso d’un estetica sifatta, parlare di classici del cinema forse non si può. Tu ben dicevi quando affermavi essere il problema formale il più importante d’un arte ai suoi inizi e cominciamenti (nel cinema infatti, quel che anche nei testi maggiori maggiormente ci colpisce è il fatto “del linguaggio” – vedi dimostrazione dell’artisticità del cinema. Sulla sua autonomia dei mezzi – e non il mondo, l’espressione del mondo salvò Clair, Stroheim e gli altri non ancora: ma qui c’è da indagare. Non è per caso, Stroheim un prodotto esclusivamente in funzione della dissoluzione dell’asburgismo? Raggiunge la sua “umanità” – domanda, codesta, rivolta a un competente – i segni del confine unitario, mondo a sé, universo a sé stante, differenziato, “citabile”? Si può considerare Stroheim l’espressione massima – o una delle massime del dopoguerra? E in questa direzione, che rapporto ha egli con Pirandello, coll’Esistenzialismo, con l’aspirazione mistica, che avvolge per parte il mondo odierno? Mette, Stroheim, dell’“ordine divino”, nel senso di Valéry, in un mondo disordinato e convulso umanamente? E se non Stroheim, Clair? O Vidor? O Murnau? O il Griffith di Giglio infranto?).

Io ritengo si debba sottoporre a severa revisione il concetto di “classico del film”; che fors’anche da codesta revisione può scaturire l’identificazione esatta del vero “classico del film”. Perché “un’arte è classica se è adattata non tanto agli individui quanto ad una società organizzata e non definita (riguardo al costume)” (Valéry). Proprio in rapporto a quanto dicevo prima sulla arte Italiana vista sotto una luce di analisi di delimitazione classicista. E questo, nel mondo contemporaneo, è difficilmente contestabile Poi, “classico” non vuol dire solo “migliore” non vuol significare (in quest’ordine di idee) più universale. Saffo è universale, ma sul “classicismo” di Saffo non giurerei proprio per quell’esistere fuor dai vincoli del tempo in virtù d’una natura umana. Il linguaggio di Clair è migliore di quello di Renoir o di Carné: basta a farne un “classico” (anche questo – la determinazione gerarchica cioè – è discutibile secondo l’ultima visione: di Un cappello di paglia – contenuti risolti con agilità sorprendente – di Sotto i tetti di Parigi – quest’ultimo, una povertà di linguaggio che non mi aspettavo: l’inizio sì di quella scuola francese da noi di recente ammirata, ma sempre la sapienza estrema – o la contaminazione estrema – di Carné, ad esempio). O è l’unitarietà del mondo a bastare? Ma allora, un Dreyer? Un Dreyer passante attraverso esperienze molteplici per finezze, ai punti di lirismo, quote in cui delle esperienze precedenti non vi è più traccia? (Risolvere si deve, caro Ugo, questi problemi. Sennò dove va 12 testi? E dove le nostre condizioni? Io non rinnego queste ultime, ma le voglio “complete” sì che noi si possa parlare dei “nostri” classici come si parla dei “classici” della pittura, o della musica, o della letteratura.) Ecco, nel significato che Valéry dà a classico, io ammetto solo Vampyr: proprio perché “l’espressione” integra d’un’incontrovertibile linea di civiltà non solo artistica, ma in sé assolutamente tutti gli altri valori possibili in gioco (ricordi quelle mie note attraverso le quali, confusamente, già dall’anno scorso individuavo questo fatto dell’“asocialità” dell’“apoliticità” di Dreyer? Su questo senso, solo Murnau gli

è accostabile: gente fuori dal tempo, impegnata nella creazione dei miti. Lo studio di un Pabst, sotto questa visuale, rivela difficoltà enormi, imprevedibili, impreviste) non solo espressione di Dreyer, ma espressione di tutto il mondo nordico. Se tutta l’arte nordica degli ultimi quattrocent’anni sparisse e ci rimanesse all’indagine il Vampyr noi ne sapremmo a sufficienza. Questa condizione di puro classico (quando su Bianco e nero mesi fa dicevo “forse il capolavoro”, intendevo “forse il capolavoro in senso assoluto”) deriva – è almeno probabile derivi – sulla fine stessa dell’opera. Classicismo è pura costruzione, cosciente, già scontata: non più problema immanente, derivazione d’una prassi di vita (condizione di umanità e non poesia del cinema francese: “I confini e la poesia”) ma espressione libera, autonoma: il mondo risolto in tutti i suoi problemi contenutistici o nell’intuizione o elaborazione dell’artista inizialmente, tradotto in “forma assoluta”, nella risoluzione dei problemi formali poi. Ecco perché incondizionatamente approvo Valéry, quando afferma che classicismo vuol dire porre “la distanza maggiore che sia possibile tra il ‘pensiero’ iniziale e l’‘espressione finale’” dato che “un lavoro si pone tra l‘emozione’ ricevuta e l’intenzione concepita, e il concepimento della ‘macchina’ le restituirà detta ‘emozione’ o ‘intenzione’, o restituirà un’‘affezione’ analoga”300: distanza che qui si può identificare con la “formula” di cui parlavo all’inizio di questa mia, e che implica in sé tanto scontamento dal mondo interiore, vissuto, conosciuto, assaporato, sofferto nell’estensione di tempo maggiore possibile, quanto nello scontamento – attraverso il possesso totale del mezzo espressivo – del problema formale, derivante (quest’ultimo) appunto dalla pratica molteplice e eseguita in varie direzioni, con sondaggi di profondità praticati nelle regioni esplorate. Ora, questa “distanza” io la trovo solo nel Vampyr, o in Tabù, anche temporalmente, cronologicamente: il capolavoro, com’è il “classico”, si raggiunge solo come vetta impervia dopo tutta una vita (Proust, Mallarmé): dopo si tace volontariamente – Dreyer involontariamente – Murnau; o si cambia direzione – Pabst

dopo Kameradschaft, Stravinskij dopo la Sagra della primavera, dopo Le nozze e prima della Storia d’un soldato. In questo senso, altri classici non riesco ad individuare. A Milano, proprio prima di partire, nel doppio fondo di un cassetto, trovai “Uomini sul fondo”. Mi apparve cosa vuota, molto (troppo) elementare, scarsa e superficiale; legata, nella stesura dell’esemplificazione in cui si parla di Ohm Kruger e Mutterliebe come di cose recenti301 – al suo tempo di scrittura. Oggi un articolo così non lo scriveremmo più, né io né tu, né tutti e due messi insieme. Allora per noi “classico” voleva dire “di puro linguaggio filmico”, oggi [si] intende qualcosa di più, e la parola e il concetto. Ma resta per sempre una precisazione necessaria, almeno per dissolvere le nuvolette dei vari superficiali che credevano un “documentario” il film (e, a proposito, a me non posso neppure lontanamente, neppure ischerzo, credere che Loverso sia, in una “sfera superiore”, come dicevi: Loverso è un buffone, che al massimo riesce a scrivere delle belle novelle, ma per il resto è un incompetente fenomenale). Quando andai da lui per “Bosch” (“Bosch, i demoni, la magia” su Settegiorni non uscirà; uscirà forse sulla rivista Arte!) disse di non capir nulla di pittura. Su Bertoldo disse brutta la Storia d’un soldato di Stravinskij, disse morta la Salome wildiana. Quando uno non capisce nulla di cinema, di letteratura, di pittura, di musica, e fa il redattore dell’unico foglio letterario di divulgazione che ci sia, più di buffone non posso dirgli. Loverso deve sudare quattro camicie per riempire la sua pagina su Settegiorni e giustificare così le svariate migliaia di lire al mese che percepisce come redattore. Del mestiere che fa, non gli deve interessare nulla, proprio un fico secco. Sbaglierò, a me pare così. Preferisco a Loverso il nostro Guido intransigente e dissoluto, che almeno qualcosa capisce (e per chiarire il “punto” del cinema italiano, infatti Una storia d’amore di Camerini non supererà Rotaie, L’Orlando furioso di Blasetti non supererà Ettore Fieramosca o Salvatore Rosa; Malombra di Soldati non supererà Piccolo mondo antico che molto difficilmente; eccetera). E di Ossessione di Luchino

Visconti (ex Palude, tratto da Il postino suona sempre due volte di James Cain, edizione n. 2 dopo Tournant dangereux di Chenal)302 forse sul Fascio uscirà un breve accenno (ma le foto di Film ti avranno detto a sufficienza essere quello CarnéRenoir e non Luchino Visconti), di cui proprio “motivi di rinascita” si dovrebbe intitolare “l’annata felice” oggi.303 Spero avere presto tue nuove sulle mie lettere scritte da San Pellegrino. Ancora nulla mi ài detto circa la mia intenzione di mutare certi testi, fare un Capra, un Lang, o un nordico. Dico questo perché gli argomenti mi bollono dentro, mi preme concretizzarli sulla carta. Ed io, se non so che parole vive esprimono il mio pensiero vivo ad una vivente persona, non scrivo, non posso scrivere (anche gli articoli, lo sai, li scrivo un po’ per me e un po’ per gli amici, dell’ipotetico lettore proprio non me ne curo). Le mie letture, per mole e profondità, sono molto inferiori alle tue, condite come sono da estenuanti ore aggrappate alla dinamica industriale. Penso talvolta alla poesia armena, dato che ho, assieme a Guido, proposto a Garzanti un’antologia di poeti armeni (sul come anche Guido ci sia entrato, ti dirò poi). Se la cosa viene accettata, l’introduzione avrà per titolo “La poetica dell’immagine e la poetica armena” e vi dirò tutto quel che ho da dire sulla poesia in generale e su quella armena in particolare, e Dio sa se è poca roba. E infatti atti scenici che s’intrecciano l’un l’altro e vivono in osmosi continua tra la mia vita pratica e quella meditativa: e il desiderio di riscrivere i miei giovanili romanzi; e il desiderio di leggere e leggere, ma leggere come lo intendo io, un buon libro trenta volte, come trenta volte lessi Le disciple di Bourget o Il cappello verde di Arlen all’incirca. *** Noi ci potremo intellettualizzare finché vivremo, ma lo scrosciare d’una cascata o l’incedere d’un torrente provocherà sempre in noi fresche reazioni creatrici, senso di liberazione e “fusione” coll’universo. Mi colgo talvolta in delitto d’intellettualismo, vedere un paesaggio velato di nebbia dorata

e dire “Turner” o uno sfondo di monti oppressi in contrasto con altri vecchi in primo piano e dire “Brueghel”, sentir piovere e mormorare “Sulle soglie del bosco non odo – parole che dici umane ma odo parole più nuove – che parlano gocciole e foglie lontane”,304 e risentirmi turbamento, temere di cristallizzarmi in un ordine astratto di idee, morire alla vita universale. Poi interviene un mutamento di luce, nuvole passano e piccoli fori sbucan tra l’erba, per ricordarmi, nel fluire perpetuo della vita umana, vegetale e minerale. *** Un pensiero da Bernanos: “Non si perde mai la fede, essa cessa d’informare la vita, ecco tutto. Ed è per questo che i vecchi direttori non hanno torto nel mostrarsi scettici riguardo a queste crisi intellettuali più rare di quanto non si pretenda. Quando un uomo colto è a poco a poco giunto, e in insensibile maniera, a ricacciare la sua fede in qualche angolo del cervello, dove la ritrova con uno sforzo di riflessione, di memoria, se ancora ha della tenerezza per quel che non è più, che avrebbe potuto essere, non si saprebbe dare il nome di fede a un segno astratto che non assomiglia alla fede, per riprendere un paragone celebre ‘più che la costellazione del cigno ad un cigno’”. (Non so se traduco agevolmente, il testo è un poco oscuro, un poco difficile in due punti.) *** Ancora Bernanos: “I monaci soffrono per le anime. Noi, attraverso esse. Questo pensiero che mi è venuto iersera ha vegliato vicino a me tutta notte, come un angelo” (è un curato che parla)305. *** La più bella definizione della religione: “Dio sensibile al cuore”. È di Pascal. Il pensiero più profondo sulla religione: “Gesù Cristo è in agonia fino alla fine del mondo, non dobbiamo dormire durante tutto questo tempo”. È ancora Pascal.306 ***

Il punto più scabroso, più difficile, più duro per una coscienza politica è quando i suoi mezzi conoscitivi cominciano a percepire una dissonanza tra la teoria del suo partito (sua fede) e la prassi del suo partito (sua azione). *** Un pensiero di Céline, dal Voyage au bout de la nuit. “È forse questo che cerchiamo attraverso la vita, null’altro; la più grande sofferenza possibile per divenire veramente noi stessi prima di morire”. In lontani tempi questo concetto mi ha, nei momenti, difficili, aiutato. Te lo comunico, se tu dovessi averne bisogno (ma spero che no, so che no). *** È strano il destino letterario di Bontempelli. Il suo primo libro che sia incondizionatamente sul piano dell’arte, è quel che viene ultimo in termini di tempo, Giro del sole. Tutto il resto è avventura dello spirito. *** Nella poetica moderna (Ungaretti no, ma Quasimodo talvolta, Montale spesso, Luzi quasi sempre, Gatto totalmente) vedo talvolta un “refoulement” dalla vita esteriore del nostro mondo contemporaneo. Quasi come i surrealisti in Francia. Gente che si rannicchia in sé stessa, non trovando nulla che le si confaccia nel mondo esteriore. In quei momenti preferisco la poesia popolare, Sulla vetta dell’Ortigara, Monte Nero, La canzone del capitano307 o i recenti lirici russi – pastosi, contadini – che in purità primordiale cantano l’alba e il tramonto, la vita e la morte, la poesia e il dolore. E penso che forse siamo alle soglie d’un mondo nuovo, del ritrovamento d’un mondo antico che l’umanità sta per entrare nella vita. E mi dico che grande è il nostro merito nel far da ponte, con le nostre sofferenze, tra questi due mondi: il vecchio e il nuovo. *** Talvolta mi piace proiettarmi integralmente fuori dai miei usuale confini. Nell’universo ritrovo tutto quello che ho momentaneamente lasciato dietro di me.

*** Questo verso di Quasimodo: “La mia tristezza – d’albero malnato”.308 *** Dammi presto tue nuove caro amico. Ti abbraccio, molto affettuosi saluti. Tuo Jusik (1) Ecco demolito, in gran parte, D’Annunzio. (2) Del quale Dérieux diceva, se leggi sacramento: “è un ‘latino’, ne ha il numero, la cadenza, la sicurezza”.

K[orça], 2 settembre [1942 – XX] (oh, il tempo passa! Non siamo più in agosto!!) Carissimi, ieri a Tirana, alla Libreria Argus Kartolerid indicatami prontamente da voi, da te Jusik, poi anche da Bandini, etc., ho acquistato il Cinema del 25 scorso col mio articolo sul Vampiro. È il caso di dire, con un grosso respiro: Finalmente! Ho aspettato ben… 18 mesi; tutta la mia vita militare! Adesso sono, come si dice, soddisfatto. Nel giro di pochi giorni ho visto: “Nota su S[jöström e Duvivier]”, “Presentaz[ione] Postuma” e “Il Vampiro”. Che si vuole di più? (Manca “Interpretazione di Rebecca”: forse uscirà, anche presto: ma non penso ad esso col calore che mettevo per il “Vampiro”, l’articolo che indubbiamente m’è più caro d’ogni altro). C’è poi un’intera pagina di Cinema tutta dedicata a me – come su Stroheim, come per il tuo “Canto del cigno”, che invece è stato l’inizio di tutt’una nuova èra, Jusik – senza istruzioni estranee. Per le foto, come dice il Nostromo, se ne sono trovate delle altre309, e notevoli anche (specie la testata mi pare formidabile): quindi – a parte la inopportuna eliminazione di quella “architettonica” delle scale, che chiederò mi sia restituita – si deve essere più che contenti. L’articolo stesso è stato stampato benissimo, meglio d’ogni altro: gli inevitabili errori di stampa sono pochi e lievi. (Il più grave potrebbe apparire nella celebre frase sulla recitazione: “E sono interpreti creatori nell’attimo, etc.”, quel “piena” invece di “prima”; ma, come per quel “profanata” invece di

“profumata” nell’“Ult[ima] Tril[ogia] di Pabst”, è vero Jusik?, non è neanche del tutto fuori posto!) Anche l’altra nota di risposta del Nostromo a Carlo Barsotti, è simpatica: simpatica non per la citazione in sé, quanto per il valore – riconosciuto – delle persone che l’hanno scritta (Nostromo) e provocata (il lucchese). Anche quei riferimenti pubblici, diciamo così, a riviste “che si ha in animo di fare”, etc., non sono mai inopportuni.310 Per concludere sul numero di Cinema: è nel complesso buono. Foto di Alfa Tau; articolo di Valerio Mariani; foto di Ossessione e, sebbene inferiore a questa, articolo di Scagnetti311; ottimo Antonioni col paginone: parte di Rossellini312 dedicata ad Albergo Nord; spiritoso il critico dei film; il solito Svatopluk Jezek coi suoi nomi strani, che mi trovo assieme dal num[ero] di B. e n. con “A proposito di un f[ilm] di D[uvivier]”;313 eccetera. Superficiale come al solito, sebbene un po’ più preciso, quel Bartoccioni specializzato in “panorami” della cinem[atografia] Tedesca (v. in B. e n.);314 e godibilissimo il Mariano Sánchez de Palacios (di cui son da notare le prime 15 parole dell’articolo, per gli stessi sensi che ne posson derivare).315 Su Alfa Tau, a proposito del quale, caro Jusik, ho proprio l’impressione che non ci siamo sbagliati, accludo un eccellente pezzo informativo del Tomori. Attendo, per la pace completa dell’animo, quel pezzettino del Fascio promessomi da tempo. Di altro non ho bisogno. La lettera indirizzatavi ieri (che Jusik può naturalmente leggere) vi ha precisato miei fondamentali punti di vista. Vi lascio, per oggi, con molti affettuosi abbracci (la corrispondenza la faccio quasi sempre partire dall’aeroporto di Tirana, così penso vi debba giungere prima). Vostro Ugo

Tirana, 12 sett[embre] [19]42 – XX Carissimo Jusik, credo sarà per te di qualche soddisfazione leggere questa attenta, sincera, ragionata analisi che Bandini m’ha inviato del nostro articolo su U[omini]. s[ul]. F[ondo]. Perderò del tempo utile alla nostra conversazione, ma te la voglio ricopiare per intero. Innanzi tutto una nota di carattere istintivo e passionale (ma sì, diciamo pure passionale come quando si è innamorati, che ci si batta interamente in certi ripicchi, in certe soddisfazioni personali, che, obiettivamente piccine, diventano, alimentate dal sentimento, le cose più importanti del mondo!): il vostro articolo rappresenta la piccola ma importante vendetta, anzi rivendicazione, di quanti come noi appassionati al cinema come cosa seria, tanto seria da assorbirci ed interessarci interamente e non consistente solo in un puro divertimento critico come tanti vecchi di spirito ancora lo intendono, avevamo esultato e gioito alla visione di Uomini sul fondo, senza essere per il mezzo di convincere anche gli altri di questa nostra scoperta, di imporla come valutazione critica, di additarla come tappa raggiunta, come via maestra da seguire. Voi due avete fatto l’articolo, ma dietro a voi avete trascinati e “rappresentati” inconsapevolmente tutti quelli tra noi che talvolta si arrabbiano, imprecano nel silenzio e s’arrovellano per il cinema, per il nostro cinema perbacco!, facendo poi sempre la figura degli estranei, degli isolati, dei puri (e dei poveri!) di spirito, in questo mondo cinematografico ancora troppo rozzo e volgare, troppo superficiale ed arretrato,

assolutamente inconscio della delicatezza ed incisione del latente vigore potenziale della materia da trattare (simile ad un fabbroferraio o ad uno scaricatore di porto che debba creare dei fragili oggetti di vetro soffiato e delle lievi trame di merletto). E dopo questo primo “sfogo” necessario passo un po’ più obiettivamente all’articolo. Ancora giusta, direi rinfacciata, l’affermazione nell’impostazione dell’articolo dei migliori film italiani 194041, e tra questi particolarmente Una romantica avventura come il miglior film di Camerini e Un’avventura di Salvator Rosa come il migliore di Blasetti: queste nette affermazioni, qualitative di giudizio ci volevano e noi tutti, grazie a Dio, siamo stati sempre perfettamente d’accordo sulle opere da scegliere e da classificare. Dapprima l’attribuzione di “classico” ad un film, cioè a un’opera d’arte nata in un ambiente nettamente attuale o preattuale dopo un romanticismo che dichiariamo tanto scontato e superato da ricaderci poi magari di nuovo in altre sembianze, dopo tanti ritorni “classicistici” o meglio “archeologici”, dopo l’impressionismo dai tanti sussulti conseguenti ed il suo antipodo il cubismo, ecc., ecc., mi faceva storcere un po’ il naso, lo dico francamente: una grande sfiducia poi nutro verso i termini, come romanticismo e classicismo, i quali mi riportano sempre, non so se sia solo una mia mania soggettiva, ad una generalizzazione troppo forte, ad un primordio di contrasto tipo “Adamo ed Eva”, maschio e femmina, spirito e materia, forma e contenuto ecc. e altre balle del genere. In fondo basterebbe metterci d’accordo sul significato della parola nella sua attribuzione tecnica, quale la vogliamo usare e poi basta, senza star lì a fare altre sottigliezze. C’è solo un fatto, ecco: io oggigiorno non mi sarei mai lasciato scappare di bocca davanti a una pittura o scultura o architettura attuali, ed anche sentendo una musica di recente composizione, il vocabolo “classico”. Sarà solo questione d’intimi gusti, od altro? Siete voi che avete

impostato per primi la questione dei “classici” del film, o forse Pasinetti, o altri (Assunto).316 Ad ogni modo per i lettori, per i cinematografari italiani, la denominazione di “classico” a Uomini sul fondo va benissimo: almeno servisse ad impressionarli e a convincerli un po’! Non fraintendermi, caro Ugo, comprendo benissimo l’uso che voi fate della parola “classico”, come in letteratura specialmente si usa, ed anche, perché no?, nel linguaggio sportivo (certe “classiche” parate!). Il senso è proprio questo. Ma vedi a me usare classico in questo modo non garba, perché classico riporta a classicismo, classicismo mi porta al suo opposto, il romanticismo, mi ricorda il grecismo. Lo stile impero, l’aspirazione dei nordici, la moderna statale architettura tedesca, ecc. ecc. Insomma intendere “classica” un’opera solo perché ha raggiunto uno stile non mi va, non lo stimo esatto ecco! Soprattutto poi in noi giovani che abbiamo in parte vissuto e altrimenti molto sentito come conseguenze e come tendenze le rivoluzioni, le evoluzioni, le parabole, le iperboli artistiche, da mezzo secolo in qua. Ad ogni modo su questo, che non è un particolare vero e proprio, avremo poi tempo di metterci d’accordo e di convincerci tutti su un piano comune. Ora l’ho detto perché mi è venuto naturale. Proseguendo nella lettura dell’articolo la nota sul documentario è molto convincente specie in due punti principali: 1) il colpo che mi date al vecchio luogo comune del “documentario” che moltissimi usano ancora come contrasto all’altro termine del “film spettacolare” all’abolizione quindi di qualsiasi valore di significato specifico all’aggettivo “documentario” ad un film come Uomini sul fondo; 2) l’affermazione l’intima vostra certa in intuizione che…”il cinema è l’arte che più di ogni altra appare impregnata di realtà documentaristica”; cosa questa che anch’io intuisco perfettamente, assolutamente poi sul campo che più sento: quello della scenografia cinematografica (non dovrebbe chiamarsi scenografia ma non fa nulla).

Dimmi un po’, caro Ugo, quand’è che riusciremo nella nostra missione per il Cinema a convincere il colto o l’incolto ad eliminare addirittura il vocabolo “documentario” dal campo cinematografico, facendolo tutt’alpiù valere come un appunto indicativo d’una tendenza, di una particolare scuola magari; e nulla più! E non certo come indicatore di una categoria del film! Non ti pare? Sarei proprio d’accordissimo se si riuscisse a demolire questo vocabolo, ad annullarlo, volatilizzarlo nel senso che tutto e nulla sono documentari nel cinema. È una parola infida, a doppio senso, finora non han creato che confusione. Esattissima e ben individuata la caratteristica di tempo uniforme del ritmo di Uomini sul fondo che è quella forse che contribuisce a rendere più compatto ed unitario questo film unico. Un leggero sincero appunto ad un’altra piccola questione che, se proprio non s’identifica, è molto vicina a quella del classicismo: perché tirare in ballo di nuovo altri principi così generali e così mal indicativi come quelli di “forma” e “contenuto”? Ma si capisce che ogni arte ha la sua forma, e che specie dal lato distintivo e di delimitazione di conflitti e d’effetti la forma è tutto! Ma insomma non vorrei proprio che nella critica e nella teoretica cinematografica di noi giovani s’insinuassero simili questioni che portano poi sempre alla dimostrazione, più o meno confusa, della propria appartenenza ed approvazione ad una scuola filosofica piuttosto che ad un’altra, e di qui discussioni (da incompetenti) a non finire. Grazie a Dio non trattiamo una materia da risolvere filosoficamente, proprio no!, parliamo e discutiamo attorno ad un’arte che ci appassiona, mettiamoci il nostro cuore dentro, ma lasciamo stare certi campi. È proprio necessario immergerci sempre nel dualismo iniziale ed eterno, che appunto per la sua insolubilità sentita come una condanna o come un’esaltazione della natura umana, ha dato esca a tutti i più grandi tentativi di liberazione ed innalzamento della nostra autocoscienza? Parlare di forma e contenuto in campo cinematografico in maniera diversa rispetto alle altre manifestazioni artistiche è secondo me un errore: “…arte che

alla massima evidenza formale affida i suoi eventuali, molteplici aspetti di contenuto…” (come: eventuali?), “…ma infallibilmente cadrà qualora non abbia trovato la sua unica forma possibile d’espressione…”, “…quello che conta è soprattutto la risoluzione visiva dei problemi del contenuto…”: affermazioni tutte apodittiche ed assolutamente comuni a tutte le arti (E poi io non sono per la “pura visibilità”!) Vedi, da queste insinuazioni ed affermazioni quasi si rivelerebbe insistente un vostro desiderio di dare una definizione dialettica del fenomeno “cinema”: ora comprendi che questo desiderio fin che rimarrà tale non rappresenta altro che l’interna molla, l’intima dinamica di tutte le ricerche, di tutti gli studi, di tutti i sondaggi, e quindi va benone; ma se s’incorre in affermazioni tali da darlo quasi per appagato e risolto allora è finita! Non credere nemmeno che io voglia gettarmi in una specie d’agnosticismo da creatore, da artista, da costruttore; anzi, tutt’altro: sono sempre in cerca di un benedetto complicato equilibrio tra le mie facoltà razionali ed il mio interiore istintivo ed intellettivo. Posso anche dirti che in un tempo passato davo un’importanza formidabile a simili problemi dialettici-filosofici (come anche al problema religioso, al problema della vita e della morte, ecc.); no, vedi, mi pare di essermi accorto che tali questioni non contano nulla specialmente poi se affrontate di fatto, dapprima come un’informazione e subito dopo come disperata ed immatura ricerca. Ci si è in mezzo, ci si vive dentro in questi problemi: basta non ignorarli, ma seguitare a vivere perbacco!, cioè ad avanzare, senza riportarci sempre ad essi in ogni occasione, e se pare di non avere abbastanza le spalle al sicuro, pazienza! Dopo tante ricerche appassionate, talvolta affannose, di qualche “certezza”, di qualche “soluzione”, ora mi piace quasi e ci prendo gusto a dondolare un po’, a rilasciare le redini troppo tese e cullarmi in una certa incoscienza, in una certa irresponsabilità, nel senso delle cose, che, porca

miseria, sono sempre più grandi di me! E di questo ne ho una nozione ben esatta! Quando passate agli “elementi specifici” allora vi dimostrate in pieno dei “cannoni” e la vostra frase – …forse il paziente lavoro di citazione è quello che riuscirà più utile ed incisivo ai fini di una completa analisi critica dell’opera… – bisognerebbe inquadrarla come un’insegna! Giusto: l’insegna che distingue la vera critica giovane italiana, della quale se non siete forse proprio i pionieri e gli iniziatori, siete certamente i più validi esponenti e sarete quelli che senz’altro riusciranno ad imprimergli un carattere, cioè una “formazione” adulta a quello che da principio non era altro che il balbettio, un po’ incerto e confuso per forza, di tanti giovani coscienti. Del vostro contributo, poi, strettamente tecnico e giornalistico ad una rivista come Bianco e nero, che è certo molto forte, avrò occasione di parlarti prossimamente, ora continuo con l’articolo su Uomini sul fondo. Ancora in “Particolari effetti”, “Film senza attori”, “Le didascalie”, “La tesi” continua il susseguirsi di osservazioni, spiegazioni e ragionamenti chiarissimi nettissimi compiuti, e non posso che riconfermare pienamente quel che ho detto poco sopra. Potrei sottolineare magari tutto il finale conclusivo sulla “tesi” con quell’accenno al militarismo, quel confronto serrato con le altre cinematografie, quel chiudere sulla preponderanza dei valori umani ed etici. Avete poi fatto benissimo, e qui mi ricollego a quel che ti ho detto in principio di questa mia lunga chiacchierata (che non so perché mi fa un effetto benefico, forse perché da molto tempo non ho più avuto occasione di parlare o di scrivere di cinema), ad aggiungere la nota “Il film e la critica”: essa inquadra e valorizza la vostra “presentazione postuma” facendola risalire dal piano sempre utile di una semplice e perfetta critica ad un livello più vasto, diciamo pure un po’ polemico, ma molto costruttivo, che investe e sostiene tutti i problemi “nostri” contro tutti coloro che non sono del nostro parere e che hanno dimostrato di non comprendere e di non

volere un nostro cinema come noi l’intendiamo, come noi cerchiamo con tutte le nostre attuali possibilità. E concludendo anch’io non posso dirti altro che questo: considero senza esitazione il vostro articolo tra i più importanti, i più utili e necessari che io abbia letto sinora sulla stampa italiana, ed anche uno dei migliori, se non il migliore, tra i vostri. Però a vostro stretto riguardo, non posso ancora dire di avere ben compreso se una collaborazione così stretta tra te e Viazzi sia utile o no: ma in seguito ti saprò certamente anche dire la mia netta sensazione a questo proposito. Questo non è né un “soffietto” né una “superrevisione”: le disapprovazioni che ho esposte nel corso di questa mia, sono idee contro idee e non toccano l’articolo in sé inteso giornalisticamente e tecnicamente. Qui termina, caro Jusik, l’analisi dell’articolo: Bandini continua poi esprimendo alcune sue riserve a proposito di articoli dello stesso numero di aprile della rivista, osservando che l’hanno fatto sorridere e “mosso a compassione” due cose: la nota dell’arch. Fiorini317 e la lettera al direttore “di un ignoto (quand’è che Chiarini cesserà di farsi adulare sulla rivista da lui diretta?)”. Altra osservazione: “pare che Alfa Tau sia riuscito… ancora nettamente inferiore a Uomini sul fondo. Certo non credo che per gli stessi difetti sostanziali della Nave bianca. Certo sarà curiosissimo e fruttuoso metterli a confronto tutti e tre questi film”. Dunque, sulla lettera di Bandini, in attesa anche del tuo parere ho qualche osservazione da fare. Anzitutto, il suo giudizio è molto importante. Difficilmente noi potremo in seguito avere da altri una tale analisi “centrata”, una così acuta identificazione dei punti duraturi e dei punti caduchi del nostro ragionamento. Io davvero, conoscendo personalmente Bandini (specie quella sera della Casa dello Studente, e poi di via Vesuvio, e poi della sua camera d’Albergo in piazza della Stazione), m’ero reso perfettamente conto della straordinaria [affinità] non solo di vedute ma anche – credo – di carattere, di passionalità, esistente tra lui e me. Qui, in questa sua analisi, a volte ho l’impressione ch’egli abbia letto proprio nell’intimo

di certe mie convinzioni, tanto che certe considerazioni ch’io ho sempre fatto nel segreto di me stesso, egli me le spiattella con la massima indifferenza: ad es. “Cinema come cosa seria, tanto seria da assorbirci ed interessarci interamente e non consistente solo in un puro divertimento critico”, oppure la precisazione sul termine “classico” (così d’accordo con una mia lettera scritta a te qualche settimana fa, dove quasi “rigettavo” i ragionamenti – che tu ora chiami “giusti” – di Valéry, non per incomprensione, o per atteggiamento contrario, ma per semplice insoddisfazione, noia e spavento di classificazione, di metodo, di teoria (1)); il paragone di “classico” come intendevamo, nell’intimo, usarlo noi, con la terminologia sportiva; la necessità d’insistere oltre sulla eliminazione del termine “documentario”, almeno in certe errate e diffuse eccezioni; la distinzione di forma e contenuto come superata, o “da superare” anche in materia di critica, e vacua, inefficace, perché appunto primordiale e stereotipata; l’affermazione “grazie a Dio, non trattiamo una materia da risolvere filosoficamente”; l’acuto avvertimento “da queste insinuazioni ed affermazioni quasi si rivelerebbe inesistente un vostro desiderio di dare una definizione dialettica del fenomeno ‘cinema’”; il confortevole annuncio che l’ultimo capitoletto, “Il Film e la critica”, inquadra e valorizza la ‘presentazione postuma’ facendola risalire dal piano sempre utile di una semplice e perfetta critica ad un livello più vasto…; e così via. Io so bene che non tutte le osservazioni di Bandini saranno da te accettate con la mia comprensione e, direi, serenità: forse a qualcuna tu ti ribellerai (come del resto fra noi due sono all’ordine del giorno lotte e accapigliamenti): forse, quell’affermazione iniziale – aver noi interpretato un diffuso punto di vista, diffuso sulla corrente dei più sani giovani, ti riuscirà nuova (ma io ti ricordo, fin da quella sera, la passione con cui Bandini sosteneva il film: non c’era possibilità di copiarci) è ostica: fors’anche, riterrai quasi “velenosa” l’insinuazione sulla nostra collaborazione (ma io giustificata la ritengo: infatti lui è tutto dalla parte mia, per istinto: come non sentire repulsione, ma nello stesso tempo – aggiungerei io –

vivace e fruttuosissima attrazione, con un temperamento così diverso come Viazzi?); tuttavia son sicuro che dovrai riconoscere la fondamentale esattezza del chiamarci “cannoni” per l’analisi paziente, documentata e “attiva” del film: qui, anch’egli con finezza riconosce, sta la nostra vera e profonda originalità, qui è la nostra insegna, su questa via dovremmo costruire (e costruiremo: l’augurio e i preziosi elogi di Bandini trovano persone, io credo, degne e decise) la nuova critica estetica italiana al cinema. E sul libro, come tu nella tua ultima lettera consigli, a modifica d’un mio desiderio, metteremo, con chiarezza, con ordine, stando nel testo, tutto: tutto il materiale che abbiamo a disposizione e che scopriremo man mano, e tutto il nostro cuore di “rivelatori di bellezza a povere persone ignare”. *** Ho ecceduto forse un poco, sono stato un po’ “superbo” nelle parole anzi dette, ma non è stato, credimi, per cattiveria, soltanto è colpa d’una specie di esaltazione del resto giustificata: d’altronde tu stesso mi parli d’un “CasiraghiViazzi” come d’un Rotha, d’un Balá[s]z, etc.! Ed io ti comprendo e, quel ch’è bello, ti approvo! Sarebbe il caso di dire a Marisa (le ho scritto in questi giorni: lettere un po’ strane, un po’ “crudeli” forse, ma le ho scritto) di dire a Loverso318 che è forse perché facciamo tanto sul serio che lui, appunto, ritiene “serie” le nostre opinioni e le raccoglie e le corrobora: e si veda, a edificazione generale, la sua prima corrispondenza da Venezia, quel ch’egli scrive di Alfa Tau e di Uomini s[ul] fondo: eh caro, Loverso, vecchio collaboratore di Bianco e nero, la leggi ancora la rivista?! E ti piace!? Dì, ci trovi ancora qualcosa di “serio”? (E abbiamo il tempo di leggere anche le loro cose noi, persone serie: ecco, quel “corrobora” che io ho usato l’ho preso da un sottotitolo del compagno Guareschi, dal libro Il destino si chiama Clotilde!) Ma non sono arrabbiato con Loverso, carissimo, tutt’altro: non si può essere arrabbiati con un uomo che ti ha deliziato, sul Corriere, per settimane intere, con eccellenti novelle; e poi, anche in Settegiorni, riconosciamolo, è…

bonino; ecco, diffonde qualche buona idea, magari appresa, e non “sentita” lo concedo – non ha la indifferente “superiorità” di Piovene I. Sull’ultimo Settegiorni (ultimo per me), quello del 5 sett. u.s.p., il solito eccellente – ma profondo, ecco; immedesimato; eh, se uno non lo conosce a perfezione, lo scrittore, non se la cava! – Rusconi, col ritratto di Bacchelli da collegare all’ultimo “Rimato” (Ferrata è già più chiaro); i due giovani Guerrieri e Vasile, che devono trovarsi un po’, nei riguardi del teatro, nel nostro medesimo stato d’animo (ed hanno anche praticato, non sono pivelli, come si dice); e nient’altro. Grazioso era, sul penultimo numero, il pezzo di Guido: che ne dici? eh, bisogna dire che si legge assai volentieri, che “sa scrivere”, che “scrive bene”! Su Settegiorni mi piacciono – tipicamente moschiani, loversiani etc. – i commenti a certe fotografie: quando pubblicarono, ad es., la fotografia di Campanile, con sotto la scritta: l’umorista a cui tutti gli umoristi italiani debbono…, fu un’idea graziosa, eccellente; e così quel tipo di fornaio muscoloso, i problemi dell’arte etc., per lui, che sono? E così via. (Talvolta, anche, falliscono.) Caro Jusik, aspetto, ritagliato e messo in una grande busta, il pezzo di Guido sul cinema giapponese (ma, scusa, che ne sa lui del cinema giapponese?); e, se Dio vorrà, anche il mio tormentatissimo “Del montaggio ariostesco…” etc. (non ho il coraggio di continuare…). E di Arte Mediterranea,319 e delle critiche di Guido che mi dici? io non conosco per niente “A.m.” (dev’essere qualcosa che “puzza”). Allora, sul Fascio, t’han pubblicato due Ossessioni?!320 E ti sta bene: imparerai a mutare d’opinione come un epilettico! (guarda cosa m’hai scritto di Croce – e, quel che è peggio, di Carlyle, di Parente – nella tua ultima lettera; dico che Carlyle, Parente è peggio perché certo tu non li conosci. Ma Croce già l’hai assimilato, o direttamente o indirettamente, e per quello, fifone, che adesso lo rigetti!) Notizie da Primato:321 ho deciso di leggere sempre questa rivista: la ritengo ben fatta, e credo mio dovere il leggerla, il

“frequentarla”. (Del resto, fu tuo consiglio di qualche tempo fa: ricordi? Io seguo sempre, quando posso, i tuoi consigli, magari, come ora, a distanza di tempo; ma Dedalus di Joyce, come trovarlo? che edizione è?): Non so se hai letto il numero 2° sett. u.s.: ti do un rapido consuntivo. Giorgio Pasquali è un grand’uomo, credimi (leggerai la sua traduzione, con commento, ai Caratteri di Teofrasto!). Un uomo di valore, come Manacorda, come Lo Gatto, come Concetto Marchesi, come Paolo Monelli, eccetera. – Guzzi ha ragione e Piacentini ha torto: si sente lontano un chilometro. – La prima poesia di Bacchelli mi piacque – nell’“orecchio” di Dioniso leggo che Bianchi somiglia a Pierre Blanchar: notizia assai importante, un tempo (è vero, Guido Guerrasio?). La critica a Stifter è semplice semplice, buona buona. – Eccellente – a quanto mi par di capire – Ferrara su Montale. Leggerò “tutto Zavattini” e, forse, anche il libro su Pascal, di Paolo Serini (prima Pascal, però). (Spiritoso l’ultimo paragrafo di “Rolandino”.) Esco – e si sente – dagli artigli poderosi dei “Demoni” dostoevskiani, ne esco appena: ecco perché sono così disorientato nella mia esposizione! Ho letto anche (ti farò piacere) Proust di Casnati: e l’ho trovato – allibisci! – un buon libro, solido e… simpatico. Ho letto anche, e riletto, tutte le “Poesie” di Palazzeschi (quinta ediz. definitiva). *** Replico ora in particolare alla tua lettera del 31 agosto, ricevuta solo oggi, 12 settembre. Noi faremo il testo À nous la liberté (e lo intitoleremo, senza paura: A noi la libertà).322 Anch’io ho molto da dire su Clair. Una pagina su Un cappello di paglia è già pronta, la scrissi tempo fa a Terzi. Se Campassi lancerà il suo “Clair”, tra Campassi, Pietrangeli, C. e V., Clair si potrà dire, credo, liquidato per l’eternità (ottima base di partenza resta quell’articolo “Scomposizione di René Clair” con un vecchio numero dello Schermo,323 ch’io possiedo e che tu ben conosci). Una distinzione così violenta fra il Clair satirico e il Clair poetico, o meglio fra il Clair che tu chiami satirico e il Clair che tu chiami poetico, io non la farei. (Che sarebbe, Mosca, un piccolo Clair: poetico nei “Ricordi di

scuola”, satirico nel resto?) E sul 14 luglio, prima di parlarne – è l’unico film ch’io non conosca: il Cappello di paglia, i 2 timidi, il Milione soprattutto, Sotto i tetti di Parigi, Entr’acte etc.,324 oltre a À nous la liberté s’intende, li conosco tutti benissimo – dovremo documentarci ben bene, possibilmente vedere il film. E anche il testo À nous la liberté riuscirà saggio su un regista: parleremo molto di tutto Clair e molto della questione della sceneggiatura, credo. “Presentazione postuma” fu riletto da me con molta attenzione, anche stamane; subito dopo, quasi per premio, mi arrivava la lettera di Bandini. Sì, veramente in qualche punto, come stile, m’è scappato il “viazzismo”: ma prometto che sarò più previdente e attento nel libro! Nel complesso, l’articolo è eccellente: semplice, lineare, “fluido”: “montato”, e quanto mai deciso e conseguente delle sue idee: drammatico perfino, in questo calmo appassionato tagliare il velo a un importante capolavoro quasi sepolto, certo misconosciuto. Per il libro, il saggio, come abbiamo promesso, migliorerà di parecchio. Sì, per il Vampiro (testo n. 1) citeremo Green, e Rodenbach – versi su un acquario:325 soprattutto (datti da fare, im-me-diata-men-te!) è essenziale interessare Comencini, procurarsi l’articolo di “Corrente” – di Lattuada – su Griffith e Dreyer.326 (Interessati anche, se sei in tempo, sul nome SelimanSlimane:327 vedi che nella didascalia iniziale è scritto; questo è personaggio da citare nel libro, e non una volta sola: specialmente poi data la tua ultima, importante osservazione – una cosa simile mi par d’averla scritta a Terzi tempo fa, molto tempo fa – sull’influenza esercitata da certi climi e [perorazioni] ambientali e coloristiche francesi sull’ultimo Pabst: analogia Slimane – Condoyan etc.).328 In genere, nella tua ultima lettera, proprio allorché l’argomento sembrava esaurito, hai trovato il modo di ammansirmi altre sette o otto osservazioni capitali su Duvivier: le distinzioni per il parlato di Pépé le Moko, analisi della “sequenza della discesa”, note sul ritmo del film (ritmo veloce, ritmo lento), l’osservazione – controcorrente, se vogliamo, ma esattissima, acutissima – che “in Duvivier non

c’è intellettualismo, non c’è letteratura” (almeno, in gran parte di Duvivier); eccetera. E la bella espressione: ogni suo fotogramma gronda colore e calore. E le distinzioni dal pianino di Pépé le Moko, dal pianino di Clair in 14 luglio. E i “punti salienti”: non, propriamente, la Kasbah che opprime Pépé: costui, piuttosto, che si lamenta, urla. Non c’è monotonia in Duvivier, come nei russi sembra esserci (vedi anche in letteratura: naturalmente si tratta d’una “stupenda monotonia”, come De Micheli riconosceva per l’influenzato Alvaro del suo eccellente romanzo russo); Duvivier, eh sì, è impaziente, vuol farsi sentire; tende a stupire, persino. C’è dialettica profonda in lui, dialettica sentita e fruttuosa: egli è esuberante e sincero e dolorante (e vorrei scrivere proprio così: “Kashbah”). *** Per ottemperare alle promesse fatte (avrai ricevuto le mie lettere, dedicate, l’una a L’affaire est dans le sac, l’altra a M di Fritz Lang), ti parlerò di altri “testi rari”, in modo, se possibile, da esaurire, almeno da parte mia, l’argomento. Naturalmente l’argomento richiederà un preciso ed eloquente “cappello” iniziale. Su esso si dovrà, per lo meno, promuovere un movimento di cultura che contribuisca urgentemente, e con diffusione, con elasticità, alla conoscenza di questi film rari, magari di grande valore, che rischiamo – altrimenti – di affogare nell’oblìo. Devono essere parole energiche, ma, naturalmente, saranno suffragate da tutto quello che dovrà precedere: cioè, in sostanza, il libro. E, naturalmente, non potranno che molto, molto difficilmente, essere, non dico ascoltate, ma attuate. Perché, ora, sono soprattutto i giovani che [aspettano], da noi: ed i giovani son… giovani. (A proposito, hai notato che una certa qual linea-diserietà c’è in Mario Orsoni, su Film Quotidiano?: tanto ch’è forse l’articolo più serio di tutto il giornale!) E i vecchi possono ancora troppo: da noi. (Ho visto Si gira: Dio, che fine. Rabbrividisco pensando che poteva capitare così anche del Nostro Inquadrature: anzi, sarebbe certamente finito così.)

Dunque, per i testi rari, un articolo vero e proprio d’appendice, un articolo “costruito”: molto discorsivo, in un senso elevato, molto cordiale e, soprattutto, che non risulti un malinconico elenco di film “difficili”, con le loro caratteristiche. Ma passaggi ben trovati: nessuna distruzione d’anni, di nazionalità ma salti di palo in frasca, fresco scorrere e ricamare e sottolineare… Perciò bisogna avere sottomano materiale copioso, lungamente studiato, ottimamente conosciuto, e scegliere una giornata di vena: a “testi” finiti ad esempio, quando molta contentezza è in cuore, molta intima soddisfazione, è simpatico lanciare, frizzando, uno sguardo ai poveri derelitti. E cominciamo da Tutto il mondo ride.329 Questo “russo” è il più squilibrato di tutti i film da me visti. A volte sembra ci sia alla camera un grande regista, a volte – e più spesso – il più spaesato e impotente dei mestieranti. In sostanza il film non è che un enorme aggrovigliarsi e affannare di situazioni o strambe o confuse o semplicemente anemiche, intramezzate e vivificate da improvvisi, folli, impressionanti slanci d’obiettivo, d’azione, di fantasia. Pare un rinoceronte percorso – ogni tanto – da scosse elettriche; che so? la più banale delle botteghe con tre, quattro (trovarli!) oggetti preziosi. Comincia vivacissimo, ricco di fantasia, colmo (pare) di buoni propositi, di ardimenti, capace di forti contrasti, di violente illuminazioni ambientali, Aleksandrov: e subito non si capisce come si banalizzi, come scada da tutte le previsioni. E non si vorrebbe credere ai propri occhi: fino all’ultimo, fin quasi alla fine del primo tempo (se ben ricordo: siamo alle solite!), si spera in qualcosa, in qualche improvvisa, attesissima ventata: gli attori hanno facce interessanti, l’attrice è nuova e il suo personaggio parrebbe pregno di possibilità, di molto “gas”, di molto “buffo”; e non succede mai niente, malinconicamente, inspiegabilmente, inesorabilmente niente! Al contrario: molto parlato, scene fisse, attori statici. Tutto il mondo ride è, in sintesi, il film che strappa molte bestemmie e qualche ammirazione. Forse fu fatto per quelle tre, quattro perle preziose. Tant’è vero che, appunto, quelle i

russi presentano a Venezia; e sembran dire: questo come anticipo!; naturalmente noi restammo sbalorditi. Invece, niente paura: il film non è nulla di eccezionale, è anzi qualcosa di particolarmente ributtante e stantìo. Fra l’altro di una povertà tecnica, una miseria di fotografia e di costumi, per lo meno sorprendenti in una cinematografia come la sovietica, ricca d’esperienze, e che forse tiene il primato di quest’arte. Tutta la magia sta nella camera. Quando Aleksandrov muove la camera, vivifica e rialza la materia. Soprattutto ha dei “carrelli” lunghissimi e descrittivi con una continuità rigorosa e potente. Al forte calore satirico che si sprigiona dal lento, spietato o compiaciuto?, indugiare sui corpi umani sdraiati sulla spiaggia – gambe ventri poppe culi – è indice, bisogna riconoscerlo, della funzionalità perfetta di quel moto, e della costante e sicura e convinta pazienza dell’autore. Così è da dire del celebre carrello iniziale, in cui tuttavia la mancanza d’un motivo interiore piomba la materia in un limitato, se pur splendente, senso decorativo, illustrativo e coloristico. (Ma mi par d’aver già accennato a queste cose, nella mia lettera da Torino: disseppellirla, riesumarla come documento di valore storico!) Nella sequenza del banchetto, grassi borghesi in attesa, irrompere di “animali” estranei (porci ad esempio, porci veri), maialino che va ad accoccolarsi in un piatto, così tranquillo tranquillo, e convitato che s’apposta a tagliuzzarlo e trangugiarlo, etc. etc., è la trovata come trovata, una certa abilità di montaggio, e soprattutto un acre senso di grottesco sinceramente russo (cfr. Cˇechov), a risolvere la situazione. Si ride all’inizio; ma infine anche il ritmo complessivo è sbagliato, e per una questione temporale l’effetto si raffredda come certamente le vivande di quel surrealistico banchetto. Nello spettacolo finale, invece, la macchina impazza da un personaggio all’altro, ma pare che in questi movimenti sia accuratamente registrata la funzionalità dell’espressione: e nel complesso c’è un ritmo veloce e frenetico perfettamente adatto ai costumi sfarzosi e alla musica jazzistica, alle costruzioni esagerate e pazzesche. Anche il motivo della carrozza

parrebbe elegantemente inserito in montaggio. (Ad ogni modo, un formalismo sovrincombente: uno spettacolare saggio, come a platee curiose di apprendere, di alcuni elementi fondamentali del linguaggio cinematografico: taglio, panoramica, carrello.) *** Per Ombre ammonitrici (Le montreur d’ombres:330 questione dei titoli tradotti, da toccare: perché nei titoli italiani sentiamo il bisogno di spiegare? Ombre ammonitrici, Alba tragica etc.; perché non basta la semplicità scultoria del “montatore” d’ombre, del giorno che comincia? No, “che” ombre monta? Che ammoniscono; “che” alba sorge? Un’alba tragica – Bel titolo, tra parentesi, un’alba sorge.)…; per Ombre ammonitrici, dunque, ricordo l’avvertimento del presentatore alle serate Lattuada-Comencini, che precisava trattarsi d’un lavoro con visibili compiacenze sensuali e, quasi, licenziose: d’una licenza sotterranea, settecentesca, ma evidente. Fece un breve cenno sul regista, appartenente alla scuola tedesca del tempo di Wiene, Oswald, Wegener, Galeen, Krauss, Veidt, il primo Jennings, il Lubitsch tragico, il primo Lang, il primo Murnau, gli scenari di Thea von Harbou; regista dall’interiore vena raccolta e scavata. Nella storia del cinema, Arthur Robison è appena citato, per Ombre ammonitrici; generalmente si parla della sua edizione della Manon Lescaut – altro film in costume –; recentemente rifece, in un’edizione che parve ad alcuno assai notevole, ma che passò generalmente sotto silenzio, lo Student von Prag [galieniano] e, soprattutto, della tradizione.331 Ombre ammonitrici, che è del ’21 credo, è una perfetta e compiuta anticipazione del Kammerspiel. Il film giuoca molto sulla illuminazione. Non so chi fosse alla camera, ma certamente un grande operatore, un operatore di fantasia (certo guidata, stimolata dal regista) e di preziosa sapienza tecnica. La trama stessa del film, il titolo stesso quasi ne è indice, richiedeva questo accennato stendersi e ritirarsi di ombre e di luci, questo raffinato insistere in giuochi di controluce, mediante i quali i libertini aguzzino gli sguardi ad iscoprire, di tra il morbido vanescere di veli, le ghiotte rivelazioni d’un

corpo femminile. Perché specie all’inizio, nella sequenza d’una minuziosa toeletta della protagonista, toeletta più che sorvegliata, spinta dai numerosi corteggiatori invitati (altrimenti, e più precisamente, si chiamavano a que’ tempi), la vena boccacievole e libertina dell’autore insiste su eccitanti “rivelazioni nascoste”. Per il film, pur non smettendo di prezioseggiare, di decorativeggiare, si serra in un crudo alternarsi di contrasti e di sospetti e studia alla fine una manifestazione vera e propria – e quasi violenta – di gelosia, e d’una gelosia nata dai futili, evanescenti, falsi arabeschi d’un innocente “montreur d’ombres”. Ma di questo film ho l’impressione d’averti già parlato altra volta: quindi bastino questi elementari cenni. *** In poche parole – ancora una volta – me la sbrigai col film polacco Il verdetto della vita332 (interpretato da Edvige Andrzjeska; oh, ricordo di Stanislao Przbyszevski!) facendoti certamente il nome di Machatý, per l’inizio, la seduzione – gli alberi di Estasi – e accennandoti a un certo sapor russo (Il villaggio del peccato,333 forse) nella sequenza delle doglie e del parto. Il monello è sufficientemente, io credo, sintetizzato in una mia lettera, che possiedo, a Terzi. Si tratta di studiare ulteriormente l’argomento Chaplin, per poter buttare, quasi a casaccio, ma con competenza di causa e con dimostrata evidenza, un giudizio sull’arte del grande ‘pagliaccio’. Ad ogni modo, al Kid dev’essere assegnata un’importanza capitale nello svolgimento di Chaplin. (O tu ritieni bene non accostare i due argomenti pericolosi, Chaplin e Disney? – Forse nel contesto, a un punto qualunque, è consigliabile lanciare giudizi recisi e folgoranti!). Il primo Nina Petrowna, di Schwartz:334 le lungaggini e i difetti, evidentissimi, d’un Kammerspiel stanco, annoiato, ridotto alla miseria estrema. Il primo Atlantide, di Feyder: decorativismo sovrabbondante, senso dell’avventura, ma

inesistente, anche se talvolta – didascalicamente – insistente, psicologismo. Ma son “testi rari” poi, questi?: non troppo, a dire il vero. Il circo di Aleksandrov335 è raro, e tu un cenno ne desti in Cinema già; anche il Potemkin è raro e tu un rapido, succoso cenno ne darai al momento opportuno; non so, La nascita di una nazione può esser raro, e qui c’è da dire soltanto che si tratta d’un semplice, grosso film in costume americano, che allo splendore costumistico e scenografico e spettacolare italiano – Cabiria, Quo vadis [?] prima – accoppia già un’evidente vena western sbrigliata e avventurosa e libera. Del resto, su questi film visti (2) alla Biennale, o alle Serate Retrospettive, importanti cenni e più sicuri, che magari integrerò e approfondirò ulteriormente, posso rintracciare nella mia vecchia corrispondenza con Terzi; (ecco un’utilità di Terzi!). *** Esaurito dunque, almeno per il momento, l’argomento “testi rari”? Credo. Se avrò fatto qualche importante omissione fammelo sapere; domanda da rivolgere, dubbi da manifestare, coraggio! Che cercheremo di risolverli una volta per sempre. Soprattutto intendersi bene sul termine; “testi rari” per me sono: M, L’affaire est dans le sac, Genuin,336 Le montreur d’ombres ecc.: sarebbero rari e preziosi qualche primo Sternberg americano, come I docks di New york; qualche russo, come Dovjenko ad es. o Room; non so, il Greed337 o Estasi anche (forse); ma rari ad esempio non sono più, affatto, né Entr’acte né Un chien andalou dopo la presentazione di Bianco e nero, né un Angelo azzurro ad esempio, e neppure un vecchio italiano come Histoire d’un Pierrot, o Sperduti nel buio338. (Cenni su questi film, d’altronde, che noi avessimo eventualmente visti e ricordassimo chiaramente, potrebbero entrare in qualsiasi punto del libro: quindi si pecca, se mai, per eccesso, non certo per difetto: sarà un disastro ordinare la immensa congerie di note, appunti, impressioni e critiche qualora contrastanti!)

A proposito della frase del libro di Chevalier riportatami, essa è certo assai comune; ma di queste frasi assai chiare, assai semplici, e assai – dopotutto – “serie”, ci sarebbe un gran bisogno in un libro come il nostro; ed anche di immagini ardite, quasi, paradossali; ed anche di frasi ad effetto, come la tua, citata, su Duvivier. Dobbiamo picchiare, insistere e picchiare, picchiare: fin che le nostre idee entrino anche nei cervelli più restii (e qui non dico ‘restii’ nel senso d’un’ignoranza congenita, dico nel senso d’un’ostinazione radicata). Non dobbiamo far svanire uno spunto fondamentale in un paragone tra parentesi. (Questo è il mio principale difetto, ma cercherò di correggermi; anche col tuo aiuto di revisore critico finale.) Non voglio fare opera né di propaganda né di divulgazione: ma sì di appassionata discussione e di calmo e sicuro approfondimento. Ragione per cui non dovrà guastare un “paziente lavoro di citazione” e di commento. Dobbiamo sempre aver presente lo scopo essenziale del libro: che rappresenta, per chi legge, un aiuto concreto ad entrare, o a persistere – perché no? – o ad approfondire – perché no? anzi –, nel mondo del cinema. Seguiamo in fondo l’avvertimento di Assunto, sempre: è quella la via migliore, la nostra via. Per questa via, rigorosamente, nobilmente insistendo noi probabilmente realizzeremo tutte le speranze nostre e dei nostri migliori amici. Ed ecco che le parole di Bandini ci s’impongono come un ammonimento e come un dovere. Dovere al quale, da parte mia, m’assoggetto volentieri e, sempre più nel futuro, con tutte le mie forze. Ti abbraccio e ti faccio molti auguri per gli esami (forse già superati, a quest’ora). Tuo Ugo

(1) Sai come ce la potremmo cavare, nel libro? Così: a un certo punto, raffinatamente, quasi piacevolmente, portare il discorso sul fatto che molti studiosi seri d’altre arti vorrebbero delucidazioni sui termini, sulle scuole etc.: e allora, ecco idee accettabili, espresse per loro uso e consumo. (2) La piccola fiammiferaia ad es., visto ben due volte, La chienne di Renoir; il documentario di Brunius; etc. etc.

Milano, settembre 1942 [– XX] Caro Ugo, non solamente impietoso, ma senz’altro feroce sei quando scrivi: “non sempre un linguaggio duro, involuto, caricato alla Kant, alla Aristotele, o alla critica ermetica è indice di profondità: di riflessione, concentrazione, forse; di risoluzione non sempre; di appassionato calore non mai”. S’io fossi influenzabile, dovrei accusare il colpo, prendermi per buona la lezione e dare al vento carta e penna. Ma sono così “cocciuto”. Una postilla agli ottimi ragionamenti su Carné: a me pare ci sia un Carné che non riesce ad esprimersi, e un Carné subumano che livella e domina tutta la sua materia. Le opere maggiori del primo o incrinano l’unità submorale dell’opera (l’unità in senso spirituale; moralità non in senso etico) o si capovolgono deviando nel grottesco; in ogni caso questa presenza non concreta sbilancia i rapporti di carattere, di viabilità alle opere. Sì che difficilmente è raggiunta l’arte, il classico mai. Sì, Duvivier e Victor [H]ugo assieme, va bene. Ma grandi progressi fai, o mio ingenuo Ugo che un tempo scrivevi articoli dal titolo “Due poeti della verità: Zola e Duvivier”! Sai, scusami, perdonami ma l’idea di Zola “poeta della verità” è strabiliante. Ma certo questo concetto ora ti apparirà appartenere a un’esistenza trascorsa. Perdona, oggi siamo in giornata brutta. Weininger? Caro Ugo, di Weininger non hai detto che sciocchezze. È un libro che si può agevolmente demolire riga per riga, fallito in pieno.

Fallito sul piano scientifico perché le sue teorie biologiche non sono tali, ma son le proiezioni psicologiche d’una concezione filosofica: e sì che non hanno nessun fondamento sperimentale, ma sono “costruite” nel campo della fantasia. Fallito nel piano psicologico, perché su cento affermazioni, due son giuste e le altre sbagliate: e tutte son viste da un unico punto di vista, con un impegno soggettivo che ha del sadico. Fallito sul piano filosofico, perché il Kantismo sbandierato non si concretizza mai in una affermazione, ma si vesta di constatazioni e decisioni materialiste (ed è perfino ridicolo, questo materialismo idealista). Fallito sul piano concettuale, di “creazione”, di “romanzo”, perché è un testo che non implica che disgregazione, dissolvimento, negazione. Sesso e carattere non è che un triste documento dell’abbiezione della razza ebraica: il capitolo sugli Ebrei basta a demolirlo. Weininger non è che un autolesionista spirituale, a lui si possono applicare tutte le parole ch’egli dice sugli ebrei: ne risulta disperso e schiacciato. È un libro grottesco, il Weininger: vuol esser spiritualista, blatera di Kant e di dovere e di [illeggibile] e di genio, e non sa che fissarsi libidinosamente sul sesso. La tesi del libro è Sesso è carattere. Una bella umanità davvero: noi non siamo così, le donne ch’io conosco non sono così. C’è tutto un mondo dello spirito nel quale Weininger, ebreo, non riesce a giungere. “Limpidità conseguente e dimostrata di ragionamento e di esperienze”? Oh mio povero Ugo. Io vorrei tu potessi leggere un testo scientifico, per vedere cos’è limpidità e cosa “consequenzialità”. Io non ho mai letto un libro più confusionario del Weininger: Sesso e Carattere non fa che ramificare e disperdersi, non ha scheletro, non ossatura. È un gran farneticare a vuoto. “Armonia interiore equilibrato e senza grinze”? Vedo, vedo. Mai visto un ebreo che avesse armonia interiore, che avesse equilibrio: da Montaigne a Nostradamo a Zangwill, Marx, Rolland, [illeggibile], Zweig, Moravia e tutto il resto. L’unica cosa ch’io riconosco al libro è ch’egli è un tragico documento umano. Un caso patologico, una mostruosa

elefantiasi di pensiero. Non lo si può leggere senza provarne pietà. Quando poi mi dici che sul Weininger “i più importanti problemi dell’umanità sono trattati e risolti”, mi vien da piangere di desolazione e confessarmi che talvolta sei di una ingenuità e cecità spaventosa. Ma Ugo quel libro non risolve nulla, neanche se stesso. Tant’è vero che l’autore, da buon intellettualoide ebreo, si uccise subito. Sì, Dante mi pare poeta non privo di qualità. *** No, su Valéry sei in errore. Prima di tutto, credi, è superiore a Foscolo. E in quanto a forma, anche a Leopardi (oh, le canzoncine di Leopardi, candide filastrocche da Corriere dei piccoli, “La donzelletta vien dalla campagna”). *** Se l’antologia di poeti armeni sarà accettata, le favole di Zartarian ne costituiranno appendice. *** Sì, facciamo triplice il Pabst Delitto e castigo. Era d’altronde nelle intenzioni. Guido ora scrive su Film quotidiano, anche. Quel diavolo d’un ragazzo è riuscito a citare perfino Il Vampiro. Io ho ancora circa otto o nove esami indietro. Se tutto va bene, mi laureerò nel giugno del ’43. Alla meno peggio nell’ottobre del ’43. Ma forti correnti di pensatori e filosofi sostengono ch’io non riuscirò mai a laurearmi. Tali coreuti, ti dirò, son capeggiati da un certo Glauco Viazzi, mio acerrimo nemico. *** Mi dispiace di averti dovuto scrivere una lettera poco simpatica, ma mi ci ài tirato. E io son troppo sincero e buon amico per non darti del cretino apertamente, quando spesso te lo meriti. ***

Appena potrò, rimanipolerò i nostri appunti sul Vampyr e te li comunicherò. Così un altro testo assumerà un poco di consistenza e sostanza. *** A Milano ci sono solo atroci film. E cupo è l’orizzonte. *** Ciao Ugo, stammi bene. E non volerne al tuo irruento amico. Jusik

Tirana, 14 sett[embre] [19]42 – XX

“…aver le morte dentro di sé come vita può essere causa di serenità senza fine.” MARISA

“Ed io, se non so che parole vive esprimono il mio pensiero vivo, ad una vivente persona, non scrivo, non posso scrivere…” JUSIK ACHRAFIAN

Stasera molta roba, rispedita da Korça (perché per qualche giorno son qui stabile a Tirana). Ho avuto dunque due lunghe lettere, una di Marisa l’altra tua, e otto, dico ben otto, Fasci, arrivati tutti in una volta. Ti dirò perciò qualche impressione sulle belle terze pagine del nostro giornale – a cui non avrei mai creduto di affezionarmi così – prima di cominciare a rispondere a quelle vostre lettere. Ho avuto finalmente il mio ultimo pezzo del Fascio: il ciclo perciò è chiuso (ti attende soltanto “Rebecca”) ed io mi dichiaro soddisfatto. Siccome credo che tu non abbia la buona abitudine di osservare neppure la terza pagina del giornale, mi

affiderò alla tua ottima memoria, per le varie citazioni. Nel pezzo “Del montaggio ariostesco e di due altre cose”, cui han tolto veramente l’ultima parte, su Si gira (e han fatto inconsciamente bene, perché come sembrerebbero sfasati, ora, quei miei auguri!), è rimarchevole l’espressione: quell’anima Benedetta di Croce. – il racconto Neve del Tormori di Piero Mascheroni è molto buono, anche per un lettore che, ormai, conosce bene Tormori e Albania. De Micheli si rivela fornito di cultura solida quando tratta con competenza l’argomento di letteratura portoghese: e c’era da aspettarselo (e le follie dei quattrocento, cinquecento film dell’anno dove le mettete? Prima di bollare e stroncare il cinema americano, eh quanto l’abbiamo percorso e gustato e anche amato!) – la tua “Posizione di Ferruccio Vecchio” mi è stata estranea. – Per Pasinetti, vorrei aver già visto il film (un documentario su Leopardi? ohibò)339 e darti pienamente ragione! – Ottimo il numero del 4 luglio: a sinistra, Durkheim, nome inquietante (il pezzo di Siro Coritri, filosofo assai preparato, è ottimo; un finale, soprattutto, molto forte); a destra, “Ardenza” e “Commedianti”. Tu hai scritto: di certo crede Pabst, con Hebbel, che “la forma è il sommo contenuto”. Ohibò: chissà se lo crede davvero? Si direbbe ma, chissà – La tua stroncatura del libro di Luciani è senz’altro uno dei tuoi migliori pezzi: e guarda come lo stile, qui, è chiaro, come scorre fluido e lineare! E nel freddo, cattedratico Viazzi, si sente ribollire la passione! – “Il rapporto Pavolini”, informativo; e in linea, soprattutto, con la rubrica. – Un anno di letteratura di Contini è un libro che dovrò leggere, a suo tempo. – Per Alfa Tau, utile confermare certi punti di vista, ma sarei stato più temperato:340 è tuo difetto, spesso, di eccedere. Sotto questo riguardo, il “romantico Ugo” è molto più freddo! – Meravigliosa, da strappare gli applausi, la critica di De Micheli al Libro dei sogni di Vicari. – Un altro bel racconto: Incontro notturno, di Giuseppe Guarino: vissuto, sofferto, come Neve del Tormori. – E da ultimo una piacevole sorpresa: il pezzo di Marisa su “I concerti di primavera” (eh, l’ho capito

subito ch’era lei!). Debbo assicurare da parte mia, che si tratta d’una vera e propria “critica”, altro che balle, perfettamente in carattere con “Esterni” (con De Micheli, p. es.: stessa limpidità sintetica). Io non posso che riprendere e sottolineare le mie convinzioni espresse nell’ultima lettera a lei indirizzata… *** Le tue parole su Weininger, caro Jusik, sono sante, ma derivano dalla medesima posizione concettuale che ha suggerito a Coritri la bella stroncatura di Durkheim. Mi sei sembrato un po’ il furioso Papini di 24 cervelli!341 Intendo ritornare, con più calma, sull’argomento. (Certo che quella mia lettera era proprio disgraziata: tutto sballato! Se Weininger, Valéry, e ricordo di Zola, ecc. ecc. Un macello.) Una piccola appendice, m’è rimasta nella penna, alle tre lettere spedite ieri. Quando tu parlavi del verbo “cassare” come prezioso esempio di linguistica, ricòrdati che io ho avuto il coraggio di terminare un lungo articolo per B. e n. con la parola “cassato”! Quindi, carissimo, sgombra l’arena! – Quando poi mi vai, acutamente è vero, a tirar fuori il simbolismo in quell’episodio di Pépé le Moko dell’incontro inaspettato di Pépé con Gaby, non ti posso seguire. Io non nego, bada, che esista potenzialmente relazione tra l’acqua fresca dopo l’arsura e l’apparire ormai insperato della donna: nego, come per quella battuta famosa di Schangai che il regista abbia voluto o – sennò – saputo, far balzare filmicamente vivo l’accostamento. A questa lettera, che dovrebbe pure (se mi sarà dato il tempo) risultare abbastanza lunga, ho voluto porre come “epigrafi” quelle due frasi vostre, perché esse mi dipingono, sento che mi scolpiscono quasi, con una verità impressionante. Voi parlate di tutt’altro, è vero, ma io in esse mi riconosco in pieno, come m’era capitato di riconoscermi in parole scritte da altri. E forse sono, per diversi rispetti, due frasi molto, molto tristi *** I tuoi ragionamenti su Carné, anche questa volta, sono molto profondi. Ho l’impressione che usciranno dei testi d’una

lunghezza e d’una densità eccezionali. Su Ford poi, su Carné, sarà oltremodo difficile ch’io possa aggiungere qualcosa di mio, a meno di rivedere, a suo tempo, i testi in questione. E sarà anche, credo, molto arduo mettere ordine nella materia. Tu scrivi sempre con passione, sotto la spinta d’impressioni esterne del momento: cosicché, nonostante le linee generali indubbiamente coincidenti, spesso nei particolari esiste o diversità di vedute o addirittura contraddizione. I tuoi periodi poi, così lunghi, densi e talvolta anche così fascinosi, richiedono d’essere primariamente in scheletriti e [notomizzati], indi ricostruiti completamente sotto altro polo. Lavoro per lo più improbo; ma credo che, in certi casi, mi riuscirà mantenere anche un po’ del tuo “stile” (quella prima lettera su Alba tragica ad es., come già ti dissi altre volte; che ha un movimento insostituibile). Non ricordo se il Prévert “scenarist” di Le Jour se lève sia uno dei fratelli di L’affaire est dans le sac: mi piacerebbe che sì, però.342 E poi, nel libro, c’è la questione dei titoli. Quando il titolo italiano rispecchia esattamente l’originale, allora tutto va bene – con piccole variazioni, magari: Un carnet di ballo –; ma quando l’italiano falsa o diminuisce l’originale, allora come regolarsi? Sei ore di permesso o Permesso su parola d’onore? (quest’ultimo tuttavia mi par da accettarsi in pieno, senza discussioni). O manteniamo, in alcuni casi, il titolo originale? The Informer è senz’altro diverso da Traditore; così Alba tragica non rende Le Jour se lève (mettere: “Il delatore”? “Un’alba sorge”? – No, non mi pare legittimo). Per altri, invece, nessun dubbio: Notti bianche di San Pietroburgo, e non La tragedia di Jegor. Eccetera, eccetera. Sto rileggendo, attentamente, il Breviario di Estetica, la classica opera di Croce, di “quell’anima benedetta”. Sempre più acutamente m’investe la nausea d’ogni teoria, d’ogni classificazione. Ne faremo nel libro, sì, ma in un certo modo signorile, leggero; come di sfuggita. Idee che restino però, non dubitare. È tutta questione di “colpire” il momento opportuno: l’“unico” momento. E cercheremo, il più possibile, e il meglio possibile, di evitare il dilagante scrivere a virgolette: perché il

continuo, incessante desiderio di sottolineare il concetto? Esclusivamente per la poca chiarezza, e la non sufficiente diffusione, ond’è stato manifestato. Non dobbiamo fare i Rusconi, i Mastrostefano, i De Micheli (sebbene quest’ultimo tenda a chiarificarsi giorno per giorno); ma i Campassi, i Giovannetti, gli Ugo Spirito.343 (Mi basterebbe di poter fare l’Ugo Casiraghi come vorrei, come penserei io.) Di per sé Alba tragica è una critica acuta e profonda a Albergo Nord: molto bene. Mancava essenzialmente, Albergo Nord, di prospettiva interna: esatto e chiaro. Ma parlare di sadismo cerebrale per Carné, almeno per il Carné di Albergo Nord mi sembra eccessivo: hai visto un’altra opera minore, Jenny?344 Ed eccessivo il dire che in quest’opera Carné “beffeggi” le altre: il concetto è giusto, ma il termine è un po’ forte. Si potrà usare, se mai, per il Pabst di Ragazze in pericolo.345 E sì, quell’affermazione di “I confini e la poesia” su Albergo Nord è, come già mi pare d’averti detto altra volta, indovinatissima. Nella tua lettera ultima, c’è la parentesi più lunga mai vista nella scrittura d’un “essere umano” – e neppur limitata da due vere e proprie solide graffe, ma due striminzite lineette! Però il confronto tra i due film è reso. Effettivamente Albergo Nord è mancatissimo: si riconosce bensì l’impronta d’uno stile ben conosciuto, ma è ispirazione svagata, non impegnata. Quelle tre sequenze che si salvano le hai ben individuate. Io salverei qualcos’altro, qua e là – specie nei personaggi; – ma poca roba. Espressioni come: Alba tragica è un bell’esemplare di stile rassodato sulle proprie origini ed esaurito nella portata implicita delle possibilità dei propri valori iniziali, sono da evitare come il diavolo. Siccome il concetto è chiaro, chiarifichiamolo ulteriormente. Di solito poi, nelle chiarificazioni, nascono e s’impongon nuove idee e constatazioni. (E per la questione dei titoli, è da tener presente che noi, fatte poche eccezioni – come sarebbe Il Vampiro: una preziosità d’oltr’alpe! – giudichiamo e discutiamo in base a documenti e a materiale critico italiani, e per un pubblico

italiano soprattutto – perché il libro sarà, oltre tutto, professione di fede: come è noto. Quindi, credo che il titolo Alba tragica, troppo noto, finirà per imporsi. Si permetterà magari un avvertimento non in forma di nota – perché cercheremo di evitare le note, nel libro definitivo – ma nel contesto. Per la rivista, invece, non lesinerò note, riferimenti, e talvolta, per ogni saggio, una piccola nota bibliografica finale.) Lunga ed estrema discussione orale chiederà questo tuo giudizio fondamentale su Carné, che investe problemi di estetica generale: “…questa misura però (ecco individuato il punto più vivo di Carné) è colmata non ‘spontaneamente’ (nel qual caso s’avrebbe poesia: il che accade solo a Clair in Francia) ma per via d’una ‘sorveglianza’ accurata e rigorosa eseguita sul linguaggio, sull’espressione, su ogni elemento entrante in gioco”. Questa constatazione ha qualcosa di paradossale, quindi anche una base di verità: come tutti i paradossi, è troppo recisa; su Clair, poi, rovesciato ne risulterebbe il giudizio comune (il che a me, d’altronde, importa ben poco); insomma il tutto darà luogo a dispute accese. Bada, io non ti contraddico: soltanto, non ho ancora preso posizione: e sono troppo esperto per non apprezzare il movente ma, nel contempo, per non capire, anticipandoli, i pericoli cui si corre incontro con queste troppo nette scissioni. Bellissime, a parte tutto, quelle precisazioni: (per Clair) “dono naturale di contemplazione ‘immessa’ eppur serena, imparziale, priva di patetismi predilettivi” (per Pabst) “dono naturale di contemplazione ‘disinteressata’, epperciò serena, imparziale”; (per Duvivier) “condizione di ‘immissione’ scevra di contemplazione, epperciò non serena, non imparziale”. Ma su una frase, che tu hai messo tra parentesi, ma che è importante (e che vuol dire quel “ma”? Forse che tra parentesi non posson darsi frasi importanti?), intendo fermarmi particolarmente: ecco, per inciso, la ragione per cui Pabst è più grande artista di Clair, anche se meno poeta e lirico. Ecco è qui che non ti seguo più, che non “voglio” seguirti più. Bada che non si tratta di una piccola frase sobillata o

sofisticizzata, presa qui per caso, ma in genere di un tuo complessivo atteggiamento creativo, fatto a caselle a piccole, cervellotiche (non in senso brutto, quest’aggettivo) scansìe, a tabelle cliniche e morfologiche e fisiologiche e psicologiche e umanistiche, atteggiamento che rappresenta il nemico più sotterraneo ma più profondo della nostra collaborazione (cosa intravista, intuita più che altro, anche da Bandini – la cui lettera m’ha dato una scossa decisiva, e messo definitivamente in guardia, pronto a lottare con te per il miglior valorizzamento della nostra opera comune! – ma da noi conosciuta, e bene, da moltissimo tempo). Che gran parte della critica moderna ritorni inavvertitamente, dopo tutti i mostruosi tentativi – e raggiungimenti anche – d’indipendenza e di auto creazione, sui falsi passi contro i quali essa stessa era stata messa in guardia fin dagl’inizi, non vuol significare affatto (è quasi una tautologia!) che queste posizioni non fossero state definitivamente annegate e stroncate fin dai tempi del De Sanctis. Io vorrei pregarti di rileggere qualche saggio suo; tu vedresti che, coi suoi limiti – ammessi –, coi suoi difetti – riconosciuti –, con la sua povertà – benedetta –, e viceversa con tutti gli enormi, imponderabili progressi di questo secolo di criticismo, ecco – la critica profondamente intesa non ha ancor fatto un solo passo avanti: almeno quella letteraria. Il Momigliano stesso, uno dei più fini, dei più aerei, uno anche dei più frigidi, dei più “vuoti”, critici contemporanei doveva riconoscere che, a parte qualche “progresso” lieve sul Guicciardini, sull’Ariosto (ma motivati quasi esclusivamente dai nuovi studi, dalle nuove scoperte scientifiche, appena, meglio, dell’evidente passione risorgimentale d’un individuouomo come il napoletano, che gli faceva combattere un Guicciardini, e perfino un Ariosto, in nome d’un Machiavelli p[er] es., senza per questo fallire il giudizio sui “minorati”, ma semplicemente “limitandolo”); il Momigliano doveva dunque riconoscere che i giudizi su tutta la nostra letteratura, sulle figure singole, sui periodi in ispecie – ampie, genialissime ricostruzioni –, non avevano fatto “un solo passo avanti”. Quando poi io leggo frasi del genere di quella che tu mi hai mandato su Leopardi, ed io so bene che c’è della forza, del

paradosso – come sempre – , ma che in fondo in fondo tu sei così sconclusionatamente contemporaneo da non controllare più i tuoi giudizi sulle epoche passate – d’altronde siamo giusti, da te non conoscitore per niente, o peggio superficialmente scorse con prevenzione iniziale –, mi viene addirittura da “cacare”, come dicono i miei brillanti soldati fiorentini. E voglio anch’io gettarmi in un sofisma – oh, ricordi del triangolo di Psello!346 – una volta tanto: e mi piace dirti che basterebbe una piccola inversione, se vuoi. Non la “donzelletta” è roba da Corrierino dei Piccoli, ma Il Corrierino dei Piccoli è roba da donzelletta. (E forse se essa vien dalla campagna, è ancora men peggio che se si pompeggia del suo Pirandello, del suo profondissimo Ibsen e – perché no? – del raffinato, sublime, e tanto “carino” André Gide, nel cortile e nei corridoi della Regia Università di Milano!). Ma torniamo in più spirabil aere. Dunque: si era a Pabst, a Clair. Noto dapprima (così tra parentesi: non ch’io gli annetta importanza alcuna; io, poi!) che dire che Pabst è più artista che poeta, mentre Clair giustappunto il contrario è per lo meno sconcertante: confrontare, per informazione, un pezzo qualunque del Kameradschaft con un pezzo qualunque del Million: oppure una foto di René Clair con una foto di Georg Wilhelm Pabst. Ma dice: che c’entra? No, c’entra anche questo: se c’è entrata la scissione – ancora adesso: nel 1942; ma tra parentesi, come è passato presto, quasi, anche quest’anno! – tra “artista” e “poeta” (o “lirico”). Mi ricordo sai, di Pietro Lombardo – dopo di Psello –, di Abelardo (e, perché no?, anche di Eloisa), e di Guglielmo di Champeaux: i flatus vocis, le contradizioni (con una “d” sola) in termini. Ecco: flati, giuochi e ricami e rovesciabili nominalità in cui si confonde, carissimo Jusik, la tua acutissima intelligenza. Qui la predica sarebbe finita; ma è interessante aggiungere, da parte mia, che io ho capito benissimo il tuo concetto: esso è discutibile, ma in sé non c’è dubbio, esiste: soltanto quell’uso sfacciato di termini storici è grottesco ed è pericoloso. Talvolta, sotto la tua scrittura fine, nervosa, magnetica, avverto

le ombre inquietanti – come dissi – d’un enorme diavolo: e siccome da gran tempo sono abituato a combattere e a stroncare me stesso, perché non dovrei difendermi contro i suoi assalti sinistri e dannosi? Me lo dici: perché? *** Continuiamo: Scrivi: “Carné invece si attiene ad un controllo continuo che è di cervello, e solo di cervello, in favore però al tentativo di umanizzare i personaggi”. Esatto, in parte (quando Gabin grida sul “piccolo topo” non serve più: un esempio. Quando Gabin dice: un “piccolo albero”, non serve più). Ma in altro modo è da esprimere il concetto: sennò, vedi che succede?: “in favore però al tentativo di…” Così è la deteriore critica attuale: noi dobbiamo avere la forza di purificarci e di superarla. Ecco perché ho scritto quelle su Marisa: perché mi è parso, e ne sono convinto, che in essa, cresciuta sui testi, non sui secondi testi, ci sia per istinto quella cristallina indifferenza (intendimi bene: dico “indifferenza” nel senso di non essere – per forza d’impulsi – tratti a vagolare, soffrendo, nelle branche dei problemi) che è davvero consigliabile se si vuole rinnovare la critica dei tempi nostri tanto critici da non capire, spesso, più nulla, nemmeno – anzi specialmente – in riguardo a se stessa, in riguardo ai problemi e agli intenti ed ai propositi della critica stessa. Io ritengo che di questa sfera ci sia soprattutto necessità, urgenza anzi, nei riguardi del cinema: la “via media”, la via buona, feconda, in critica cinematografica non è stata ancora trovata. E questo è dipeso anche dalla mancanza di un sovracontrollo soggettivo: per cui uno è tratto a costruire sopra gli spiragli che un linguaggio raffinato e “crudele” apre alla fantasia, alle possibilità del critico, ma non ha la forza di verificare alla fine sia la rigorosa linea delle sue induzioni o deduzioni, sia, soprattutto la effettiva corrispondenza generale al testo esaminato. Vuoi una riprova della fragilità della tua frase di sopra? Ecco, proseguiamo nella lettura prima di arrivarci – Pabst: “egli controlla per senso estetico, per virtù formalistica, figurativa ritmica: ‘espressiva’, in una parola”. Hai capito tu la differenza? Io, in coscienza, no. Che relazione può esistere tra

quel “cervello” e, qui, “senso estetico, virtù formalistica, etc.”: non capisco, né posso comprendere: tu hai mutato prospettiva, tu hai parlato due linguaggi inconciliabili. (Ciò può derivare, senza dubbio, dalla fretta, dal calore, ecc., con cui tu componi; ma ciò deriva anche dalla tua forma mentis, di cui sopra.) “La sua è l’arte maggiore, perché la sua opera – questa opera – può anche ignorare l’autore.” Non esiste arte maggiore o arte minore: esiste arte, e non-arte: oppure al massimo, arte più complessa, più finita e profonda (“finita” nel senso di un intero giro d’orizzonte, in sé e fuori di sé): la Divina Commedia, e il verso fuggente di Ungaretti: l’illuminazione di Montale, e la continua, stupenda eccitabilità di Foscolo. E poi: può anche ignorare l’autore (tu avevi presente quella frase di Chevalier); ma tutte le opere d’arte, nella loro luminosa e “calata” – magnifico termine desanctisiano – forma (“forma” nel senso d’intuizione controllata e realizzata), debbono per forza ignorare l’autore. E guarda l’esempio nostro, poveri criticuzzi e saggisti, ignoranti ancor più che il De Sanctis nei riguardi di certi testi molto spinti e poco controllati, che pure riusciamo, dalle semplici visioni d’un film, a ricostruire tutta una “personalità”, una “individualità” creatrice! E non dirmi che nel Vampiro tu puoi ignorare l’autore più che nel Milione o più che in Tabù o più che in Uomini sul fondo: nel Vampiro c’è il Vampiro e nient’altro che il Vampiro: per forza tua ricreativa puoi risalire all’autore; non al Demiurgo dico: all’Autore. Forse la poca conoscenza delle opere di Dreyer, in relazione alla quasi perfetta conoscenza che abbiamo di Pabst, ad es., o di Duvivier, o di Clair, ti può avere traviato. Io ho capito fin nelle basi il tuo pensiero: tu hai parlato di una “magnetizzazione”; è per questo ch’io ho usato il termine demiurgo-intemediario, “ione” di Plotino: – son stato chiaro? [Donde gli è provenuta la magia, l’accesa visione, il sogno magnifico del Vampyr? Ma da se stesso, da nient’altri che dal proprio allucinato, vacillante, spiritualissimo radìo interiore; dalla propria malattia creata con le proprie mani, scontata con il proprio cervello.] Tu stesso riconosci: Noi infatti di Dreyer sappiamo poco. Ma io cosa sapevo di Clair prima del Cappello di paglia di Firenze? E credi che non l’abbia guardato, o che

non l’abbia capito? No, ti assicuro che la prima visione assoluta è stata la più efficace: tant’è vero che ieri ho rigettato l’argomento e t’ho pregato di rivolgerti alla mia vecchia lettera a Terzi; ora ti parlerei forse, in maniera metodica, culturale, cattedratica, quasi odiosa, dei veri Clair, delle varie facce di Clair (solo tu dici: esistono mille Clair) in quella lettera ti davo un’idea schietta del film. Questa schiettezza, questa purezza interiore, questa immediata “soggezione” all’opera, è il tesoro più imponderabile e più preciso, che sul nostro libro dovrà brillare sempre, al di sopra di ogni profilo comparato, al di fuori di ogni pedantesca informazione. Abbiamo fatto molti paragoni, ma chi mai può dirci donde abbia tratto ispirazione quest’artista prodigioso? Ecco spiegato l’arcano, così semplice, e che tutti i paragoni di questo mondo non t’avrebbero mai svelato. Non c’interessa la preparazione culturale di Dreyer, come non c’interessano i mille fatti cotidiani della vita d’un uomo: altrimenti uno che gli fosse vissuto accanto dovrebbe essere troppo privilegiato, dovrebbe scrivere per forza il miglior saggio su Dreyer. E perché? Privilegiato, sì, agl’inizi; ma niente di più. A noi interessa la esplicazione di questo travaglio, esterno ed interno: e quale miglior documento del Vampiro, in cui pare ch’egli si sia calato “tutto”? Ed ecco la ragione. Profonda del nostro titolo: 12 testi; dodici documenti poetici (come vedi, cose d’una semplicità spaventosa, ti scrivo; ma è utile, sai, ogni tanto, quando si dubita di tutti i ragionamenti, e quando tutte le ingegnose costruzioni paion castelli e cavilli di mente estranea! Estranea, dico, all’opera esaminata, e alla mentalità lirica che ne traspare). Clair poeta in 14 luglio, in Sotto i tetti di Parigi, nel Milione? Non-poeta nel Cappello di paglia, nei Due timidi? E perché? Ma tra 14 luglio e il Cappello di paglia c’è un’enorme differenza; prendiamo due opere affini, Il milione o I due timidi: perché? ma perché? – Tu dirai: te lo spiegherò; no caro, Jusik, tu non mi spiegherai mai una cosa simile; mi regalerai pagine bellissime su Clair, ma se le tue analisi saranno veramente profonde, dalle tue analisi stesse balzerà evidente la

falsità di queste crudelissime scissioni… Laddove non lo inquini il piacere parigino e letterario di motteggiare: oh dici, ma che piacevolissimi “inquinamenti”! Tutti allora vorrebbero essere inquinati: tutto il mondo immenso in una foja di contagio! Un’idea dello scombussolamento e dell’evidente sbilancio che ti deriva dalla insistenza continua in questa specie di critica che in questa lettera ho voluto combattere più che in te, nelle sue manifestazioni d’indole generale e invadente, la puoi avere confrontando le tue misuratissime parole su Duvivier dell’altro giorno, e queste – derivate, forse, dal medesimo intuito incontrollato –: Duvivier, che si affida alla sua buona ventura di cineasta intuitivo, che vede tutto attraverso gli “effetti” possibili, le “spettacolarità” probabili: salvo appunto salvarsi in qualche oasi di poesia… Qui, dopo l’affermazione recente e, secondo me, pienamente individuata, della teoria dei punti salienti, n’esce un Duvivier rovesciato, sconvolto, e le parole scattano a vuoto: “Salvo a salvarsi in qualche oasi di poesia…” (guarda, scrivi perfino male!): ma che vuol dire? Forse tu ti fai vincere dalla “semplicità”, che so? dalla immediatezza di Pel di carota, mentre sai perfettamente che il ritratto di Duvivier è il ritratto d’un acceso colorista, che qui è la sua anima, qui la sua vera ragion d’essere? Esiste Pel di carota, ma esiste anche Pépé le Moko. Si può al massimo – sulla scorta di quello che a me pare di intuire come tuo ragionamento essenziale – osservare che, mentre in Duvivier noi possiamo scindere due stili, il Duvivier semplice, immediato, spontaneo e puro di Pel di carota,347 di Maria Chapdelaine, di Bandera e il Duvivier dei più complessi problemi, dai più funicolanti mondi e dai suoi caldi personaggi di Pépé, di Un carnet di ballo, di La fin du jour, e del Carro Fantasma; così in Clair capita quasi il processo contrario, dalle complicanze dialettiche e movimentate del Cappello di paglia, dei Due timidi, del Milione, di À nous la liberté (qui c’è già contaminazione; storia principale, satirica e il problemino amoroso: ecco perché il Sacchi vedeva scissione bollava, in parte, l’opera), alla spontanea vita di Sotto i tetti e

di Per le vie (lo vedi anche dai titoli: nei primi, una “tesi”, un “centro” evidente: million, chapeau de paille, deux timides, à nous la liberté!; nei secondi, andare dove il vento porta: Sous les touts, Per le vie di Parigi): tu hai detto, per 14 luglio: abbandono, abbandono; ma non che questo sia il Clair poetico, l’altro no. Sono due Clair diversi, uno svolgimento – se preferiamo – d’un medesimo Clair, ecco tutto. Fin che dici che Dreyer pare un “medium”, un artista dotato d’una sensibilità nervosa eccezionale, te lo concedo, siamo più che d’accordo; ma quando esclami che egli concepisce magneticamente, non ti seguo più. Capisco l’idea, ma tu non puoi dire che il primo (Pabst) è un poeta – o un artista? – che concepisce esteticamente, il secondo (Clair) è un poeta che concepisce spontaneamente, il terzo (Dreyer) è un poeta che concepisce magneticamente. Flatus vocio, flatus vocio, flatus vocio. Queste opposizioni così nette, poi; così precise, definite, categoriche; ma tu ti vuoi far stroncare proprio con premeditazione tua, con voluttà! – Continuiamo: “Duvivier non è vigile affatto, inconsciamente egli crea delle cose belle: per caso: c’è da giurare egli non se ne accorga” …Ehi, non esageriamo! Lasciamo, magari, esagerare, lui, Duvivier – chè questo è il suo mondo, la sua vitalità e anche la sua condanna – ma siamo obbiettivi e calmi noi stessi! Tuttavia qui, è chiaro, pur sovrabbondando, pur lasciandoti trascinare, sei giù su una strada giusta: infatti continuiamo a leggere, ed ecco che l’idea si giustifica per sé, e il problema è centrato, se non in modo nuovo, originale, in modo però molto evidente e lineare: “… tutto è realizzato da lui con l’istesso fervore, con la stessa fede: poi una parte ‘riesce’ ed è quella tal sequenza di Pépé le Moko, quel tale episodio di Carnet di ballo, e tutto il resto non riesce…” (spieghi: “proprio perché Duvivier non vigila, non ha coscienza riflessa…”: e qui sei già più temperato, sebbene non ancora completamente pacificato, ma già più condivisibile e accettabile.) Tuttavia quando ho scritto che il problema non è centrato in modo nuovo e originale, forse, ho esagerato anch’io; volevo dire: nei miei riguardi, perché nel libro, viceversa, questa “illuminazione” passerà, oh se passerà! Ma, soprattutto, questa è la parola d’ordine: non “cassare” bensì

attenuare, attenuare! Così Duvivier non sarebbe affatto vigile, Carné di certo vigile col cervello: ma è troppo forte, tanto da confinare col grottesco. Tu stesso te ne accorgi, è vero? Infine, se pur lontani, se pur non comunicanti che esteriormente (questioni di tempo, di clima, di attori, di costume ecc.). Se tu vuoi finger nella tua mente un regista che ti possa dare un’idea del mondo di Carné, ecco che tu devi ricorrere proprio a Duvivier, il quale sarebbe invece per te addirittura agli antipodi; se vuoi un’opera che tu possa collegare, per viepiù illuminarla, a Le Jour se lève, ecco che tu puoi ricorrere, devi ricorrere a Pépé le Moko, p. es., o a La fin du jour. E Renoir, allora? In che condizione sarebb’egli mai? Forse è un “vigile”, soltanto vigile: un “sorvegliante”, allora, un “pizzardone”?! (Scusa la forma, un po’ cruda, un po’ vivace. Pensa che sia lì a discorrere con te, a controbatterti frase per frase, parola per parola! Ma tu sei troppo intelligente, perché ti debba dire ancora certe cose, perdio!). “…Ma la sua assenza di tragedia – tu dici sempre parlando di Carné – non è tragedia, la sua carenza di moralità non è condizione umana…”: espressioni così poco chiare, che tu stesso le hai, con somma facilità capovolte del momento che quei “non” sono visibilmente postaggiunti! Mi fai venire in mente quella frase famosa di pag. 70 in Croce, in un libro che, come il Breviario di Estetica, si propone (e lo è effettivamente, siamo giusti, in gran parte; come del resto tutto Croce) di essere “sommamente artistico e sommamente preciso: …il Foscolo, poeta giunto a compimento, e perciò non più poeta (salvo a risorgere poeta”) …eccetera, eccetera. E non sei per niente conseguente: leggi qui, per esempio: a esser buono dirò che mancano dei passaggi: “egli lavorando di cervello, vuole umanizzare i propri personaggi. (E fin qui ci siamo: già visto in precedenza. Ma proseguiamo:) È sorvegliatissimo il suo stile, il suo linguaggio, il suo narrare. Eppure non raggiunge il Dramma, non crea la tragedia”. Che cosa vuol dire quell’“eppure” e il resto. Come lo spieghi, come lo colleghi? Io dichiaro che “non ci arrivi” (come quel giorno ti parlai di concettini, leziosità, ecc. a proposito di quella

lettera di Ford: ecco, “non ci arrivavo” e ancora adesso “non ci arrivo”). Proseguendo, i soliti terribili “compartimenti stagni” – non quelli di Carné, che quelli sono nella tua profonda, brillantissima scoperta: i tuoi! – “Il cervello (e dài: ma t’ha proprio colpito! Vedo adesso in Carné un terribile ragionatore curvo su scartoffie e alambicchi: proprio come te) del cineasta Carné non comunica col cuore dell’artista Carné (eventuale), dell’eventuale poeta Carné”. Sarebbe come dire che le gambe, provocanti, che l’attrice Arletty348 mostra tanto volentieri, non comunicano col sedere della stessa che invece non mostra mai. Eh quasi quasi ci siamo!… Tutto quello che segue mi sembra errato: sia il Carné che “resta sempre a metà via, né impegnato né disimpegnato”, né il suo cuore che “non gli permette di staccarsi, affrancarsi, contemplarsi” (invece la parentesi è molto, molto buona: “non c’è neppure l’accettazione di un sovrincombente Destino, Fato oppur Dominio in lui: c’è il vuoto, il vuoto tra i personaggi e dentro i personaggi: la vita trasfusa altrove”; oh Jusik Jusik, perché sei così paurosamente incoerente?); sia anche l’interpretazione che dài del bellissimo apparire di Francesca che, dolcemente smarrita, appare con un vaso di fiori in braccio nella rumoreggiante officina di verniciatura a fuoco, assomigliando ad un piccolo albero (“sei graziosa così? Sembri un piccolo albero”). No, qui Carné non cerca niente: qui Carné risolve, e risolve in un modo superiore, degno d’un grandissimo artista. Tu dirai che il fatto di essere artista non c’entra niente, qui, col suo “cercare di commuoversi”; ma io ti replico che, allora, possiamo lasciar stare i “tentativi” del suo cuore (diresti tu) se poi la risoluzione è così immediata, folgorante. Il suo subito ostinato cervello “non gli permette di immettersi, scaldarsi, accalorarsi, e lo spinge alla ‘sorveglianza’, al controllo: e allora abbiamo l’estrema misura – roba difficilmente superabile” – etc., etc. Ma dunque, qual è sto Carné, inafferrabile, poliziesco? se era così chiaro nell’altra tua lettera, se è sempre stato chiaro nelle nostre discussioni

orali? – Se tu hai cambiato idea, e intendi dimostrarmi che Carné non è artista grande come noi si credeva, devi battere, io credo, tutt’altra strada. Questi contrasti interiori di cervelli, di cuori e, magari, d’intestini, io non li capisco: per me esiste il “testo”, e nel testo noto che è tanto bella l’apparizione di Francesca all’officina, come sono belle le immagini di Francesco asserragliato che tu citi; e medesima è l’ispirazione: un verismo esagerato mediante una forte messa a fuoco di particolari “fantastici”. Il problema fondamentale della critica cinematografica attuale è questo: specialmente parlando di un “artista” (e quelli da noi scelti per il libro, artisti sono, magari con limiti, difetti intrusioni ecc., ma “artisti”) superare l’iniziale prevenzione contenuto-forma, tenersi così strettamente legati al testo, anche nella ricreazione critica, da folgorare direttamente la umanità e la sua immediata attuazione, l’artista e la sua estrinsecazione nel film: non giustificare psicologicamente o fisiologicamente un poeta: poeta-uomo forma unità inscindibile, tu non puoi isolare l’uomo che a patto di perdere per istrada il poeta [nel mio articolo “Umanità di Stroheim”349 io ho visto – a parte le poche notizie storiche che davo, del resto secondarie – l’estrinsecazione dell’uomo esclusivamente nei film: un’ombra umana!, per usare un aforisma chiaro, banale. Ma talvolta mi sono sperduto perché quando il testo mi sfuggiva, lo creavo io stesso!]. L’artista, il vero artista, si “prende in castagna” soltanto in un caso: quando si vede, si sente che è falso. E allora lo si accusa di falso, in tribunale, al tribunale dei posteri: e allora si cominciano a pesare le azioni. Nel cinema fino ai nostri giorni, forse senza alcuna eccezione, è sempre possibile scoprire il “falso”: quando tu assisti a un’opera, e per un attimo, ti accorgi che “Stai assistendo” a un film, che sullo schermo c’è un’ombra e non un’ombra umana – come dicevo, dianzi – che nella poltrona accanto, e davanti, e di dietro, è seduta altra gente, che o sbadiglia, o sorride, o si fa cenni, o si abbraccia, o si bacia, o… (ma questi ultimi particolari non interessano la critica estetica).

Quando andrò al cinema di nuovo, e vedrò Arletty, dirò – o diremo –: non “ecco la famosa Arletty, dal profumo pornografico, l’Arletty che fa sempre vedere le gambe, coperte di calze nere, perciò più provocanti” (cfr. Freud, Mezio ecc.), ecc. ecc., bensì – t’immagini? con tutta calma, alla presenza di estranei – “Ecco la Arletty dal temperamento implicito!” Ottimo, Jusik! A parte gli scherzi: sulla tua guida, lo spiegamento degli agenti per catturare Francesco lo spiegherei così: origine lontana, quasi certamente, di critica e satira comunista, sovvertitrice, ecc.; nella realizzazione, invece, purificazione nella forma: nessuna insistenza ideologica, ma sfruttamento della “trovata” da punti di vista correttamente, esclusivamente filmici. Va bene? (Tu dirai, forse: ma allora, la logica? – No, scusami, tu certo non lo dirai, e se lo penserai, ti pentirai poi subito. Non esiste in poesia la logica: il sol calava dietro il Resegone non intacca il Carducci della Canzone di Legnano: come là sole e Resegone servivano al poeta, e quell’impossibile momento, così qui la folla di Carné. Carné mette la folla perché Francesco possa urlare alla finestra: perché guardi? Che hai? – come un immenso, gigantesco occhio si solleva dalla piazza – Solo una folla, e una folla come la milanese – ecco due folle a contatto: un disastro! –, poteva stupirsi per la “poca credibilità” del fatto. Si è assurdo. Ma lasciatemi dire che siete più assordi voi con la vostra povertà di spirito, con i vostri impellenti desideri fisici, con il vostro strisciare e ledere e vegetare!) *** Un Carné umano che non riesce ad esprimersi? Un Carné subumano che livella e domina la materia? – Ma non è, questa, che tu chiami sub-umanità, la “umanità estetica” di Carné? E che vai cercando allora? Ricorda che anche la passeggiata in bicicletta, vagliata, è vista in sogno, in potenza. Secondo me Carné non tende a questa umanità (lo dimostrano anche gli altri suoi film), semplicemente non la ignora: la mette se mai come lieve, abile contrappeso a quella che tu hai, con felice vocabolo, chiamato “Sub-umanità”. Questo in Alba tragica;

per Hôtel du Nord, invece, son d’accordo pienamente con te (ecco che mi dài ragione anche tu, nel postscriptum: dualismo latente, si potrebbe dire, e non scatenato). E l’incidente. Carné è chiuso, almeno da parte mia. Ora vedo il testo con molta chiarezza: sarà uno dei primi che scriveremo: bisognerà trovare un titolo sorprendente, per la rivista. Eh sì, era questa l’idea di Chiarini di pubblicare anticipatamente, saggio per saggio. Nei vari saggi metteremo tutto: alla fine poi, costruendo il libro, si farebbero assai meglio regolare: e avremo gli apparati già stampati. Ogni tanto riesco a leggere qualche Film-quotidiano: tu alla fine, però, mi dovrai fare una specie di consuntivo generale, raccogliendo le notizie di tutti i giornali (qualche pezzo interessante – di Guido ad esempio su Film – me lo potrai inviare in busta). Raffaele Calzini mi soddisfa: mi pare un intelletto elevato e di coscienza; ma frasi come questa, a proposito del film La clinica gialla, non gli fanno onore: “L’arte è ancora una volta purificatrice, sia pure l’arte cinematografica”. Già non ne intendo l’ultimo movente. Ironia? Tristezza? Spiritosaggine? Ti ringrazio ancora una volta della corrispondenza abbondante e succosa: io da parte mia, quando posso, faccio ogni sforzo per tenerti dietro ed accontentarti. Molto affettuosamente, un abbraccio. Tuo Ugo

Milano, settembre [1942 – XX] Caro Ugo, innanzitutto, ti prego non scrivere mai su carta quadrettata: la censura toglie di corso, ci son precise disposizioni ministeriali in merito. È per questa ragione che due tue lettere piuttosto preziose (M e L’affare è nel sacco) sono andate perdute e a me son giunte solo le buste vuote. Le ultime tue lettere, specie l’ultimissima triade, sono molto accese, molto aggressive. Ebbene, io son qui e mi batto. 1. Su Weininger, io non so da qual parte potresti tornare sull’argomento. La mia stroncatura derivava da una posizione concettuale? No, mio caro. Perché una posizione concettuale può essere sbagliata, e la mia è l’espressione d’una verità che è confermata da tutti i più grandi uomini dell’umanità e da tutti i grandi fatti dell’umanità. Non è che le mie parole abbiano un valore intrinseco enorme: ma riflettono abbastanza quel che si pensa e si deve pensare degli ebrei e dell’ebraismo. La questione è proprio entro questi termini: gli ebrei rappresentano la non-civiltà. Ogni loro azione, anche la minima, è intesa a distruggere la nostra civiltà. Vanno messi al bando dall’umanità. Ora io ti concedo al massimo di dichiararti ignorante riguardo al problema ebraico ma ti rendo noto che se per caso tu dovessi propendere dall’altra parte, io proprio non saprei come risolvere l’incrinatura che aprirebbe un abisso tra noi.

2. Tu neghi l’intenzionalità dell’accostamento tra “l’acqua fresca dopo l’arsura e l’apparire assai insperato della donna”. Sei in duplice errore: a) errore estetico, b) errore pratico. è risaputo fin dai tempi primordiali che in arte intenzionalità o meno è questione controversa. In genere l’artista quando crea non ha coscienza esatta e razionale della sua stessa creazione. Molte volte crea spinto da forze incontrollabili, ariane. Talvolta, sotto l’influsso del suo subcosciente (vedi Breton, Dalí, Harp, Aragon, Éluard, Joyce). Diceva Picasso “come volete voi capire un mio quadro? Neppure io so donde mi proviene”. Molte volte le parole, gli accostamenti, all’artista vengono alla penna per miracolo, all’improvviso, frutto di un lavorio, enorme cui contribuisce non solo la sua personalità, ma anche tutto l’universo. Si vede che tu non hai mai creato, scritto poesie, composto romanzi. Sapresti che lo stato creativo è una ragione della vita umana nella quale le attività riflesse dell’uomo (ragionamento, meditazione, riflessione, giudizio) son poste in secondo piano rispetto alla fantasia (conosci il testo di psicologia del Redano?350 C’è un’ottima definizione dei rapporti intercorrenti tra fantasia e arte). Ora il più delle volte, l’artista è incapace di spiegare la sua opera. Ci riesce solo se ha pure delle doti critiche. Se è un vero artista, egli canterà, e non si preoccuperà del resto. Intendo “spiegare” per dare una spiegazione razionale, “logica” e dico logica per “comprensibile”. È qui, alla fine, anche il problema della responsabilità dell’artista (molti artisti rimasero spesso stupiti dalle cose che i critici andavano scoprendo nelle loro opere), e quello della legittimità di una critica in senso non-wildiano. L’artista ha il suo linguaggio, svagato, ultraterreno (lo sai che l’arte si collega con la divinità, anche?): l’estraneo, il lettore, il critico ci può penetrare, e può anche non penetrare. Ma la sostanza delle arti è diversa. In poesia Mallarmé può scrivere “Dalle valanghe d’oro del vecchio cielo azzurro”,351 il Quasimodo può scrivere “l’acqua tramonta – sulle mie mani erbose”.352 La poesia ha una sua logica che non è

quella della filosofia. Chiamiamola, se vuoi, una logica fantastica e fantasiosa (cioè di fantasia). Ma in altra sede, laddove altra materia è trattata, ci deve essere “coerenza con i mezzi usati”. Se Balzac [scrive] un romanzo psicologico, dovrà metterci della psicologia: e ogni difetto che vi si potesse riscontrare nel campo psicologico si ripercuoterebbe in quello estetico, perché mancherebbe l’unità e non può esistere un complesso perfetto composto di parti imperfette. La perfezione cioè, non può risultare dal coesistere di molte imperfezioni. Su questo, credo, sarai d’accordo. Ora in poesia un poeta può non aver saputo o voluto dire quella nota cosa che il lettore (o il critico) vi scorge. E questo per la natura stessa della poesia, affidata (ohè! Mettiamoci d’accordo, che mi viene un dubbio. Concedi che l’arte possa essere suddivisa in varie espressioni autonome? Cioè prosa, poesia, teatro, cinema, pittura, eccetera?) non è al magico, al fantastico, al surreale, all’ultraterreno (infatti pochi critici capiscono di poesia). In prosa invece, i caratteri stessi della sostanza adoperata rientrano nel campo della comprensione “logica” ed “universale”. Si deve sempre capire cosa sia, in un romanzo, il tale e tal’altro personaggio, e come faccia e perché lo faccia (ciò può esser detto ma può anche esser smentito). E quando dico “capire” rientro anche sulla questione della poesia: perché si deve “capire” anche la poesia cioè penetrarla. Se né cervello, né anima, né sensibilità mi permetteranno di entrare nello spirito di una poesia, vuol dire che c’è qualcosa che non va, o in me, o nella poesia. Ora, in genere il poeta non vuol dire niente, se non il proprio canto, la propria espressione. Ma il prosatore, vuol dire, di solito, molte cose. Cioè, la poesia è irrazionale, la prosa è razionale (se proprio devo dimostrarti anche questo siamo fritti. Mi dirai tutt’al più che c’è della prosa irrazionale: ma appunto trattasi di un genere contaminato, spurio, prosa poetica o poesia prosastica: né carne né pesce – non nego che il prodotto risultante non possa esser buono, dico che non può esser “puro”, “intoccabile”, “non suscettibile di

variazioni”) nel senso che hanno entrambe due logiche loro particolari, che si differenziano da quella filosofica (lo sai che la filosofia si divide in: etica, logica, metafisica?). Due logiche, cioè due modi, due linguaggi, due peculiarità. La differenza tra prosa e poesia non consiste mica solo nella diversità della cadenza, del ritmo! Ora la logica poetica è meno vicina alla nostra usuale di quella prosastica. Tu dinnanzi ad un verso puoi restare attratto dall’ignoto, dall’inconoscibile. Come in fisica, ti arresti dinnanzi all’impossibilità di esprimere graficamente lo spazio a quattro dimensioni – vuoi che ti dimostri che anche la scienza è arte, è materia estetica? Ecco, pensa solo a questo: che la scienza è ordine e che l’ordine è geometria e che la geometria è armonia. Armonia, e così arte. (E se vuoi, ti posso accoppare sotto una valanga di dimostrazioni: che c’è identità assoluta tra musica e matematica, tra matematica e architettura; che i più grandi artisti furono anche grandi scienziati – vedi Leonardo, vedi Dante: i grandi dell’umanità, eccetera. Invece, un capitolo di romanzo deve permanere nel conoscibile, nel razionale, nel logico: altrimenti non è più romanzo.) Ora, veniamo alla nostra questione: l’intenzionalità. Nella poesia non vi può essere, a mio parere, intenzionalità diretta, nella prosa sì. Basta confrontare Verlaine con Zola, Puškin con Turgenev.353 Non può esistere poesia sociale, può esistere prosa sociale. Un poema in soggetto economico difficilmente sarà poesia, un romanzo potrà essere buona prosa, non arte. Così, il poeta che pensa “ora scrivo la tal cosa” non è poeta. Ma in genere, il prosatore sa quel che scrive. Ora il cinema è prevalentemente arte narrativa, ci sono personaggi, situazioni, nodi, scioglimenti, sviluppi psicologici. Un di più o un di meno può guastar tutto. Fa che un personaggio faccia un’azione falsa, in un certo punto, e vedrai che tutto va a gambe all’aria. Supponi che Raskol’nikov appena sceso all’ufficio di polizia, invece di tornar su a costituirsi, avesse detto a Sonia,354 con aria

allegra: lo facciamo un bel valzer? E che il libro fosse terminato col valzer. Sarebbe stato illogico per un romanzo (per una poesia invece, sarebbe stata una bellissima trovata surrealista, accettabile). Naturalmente, costruire un personaggio, una trama e una storia, non è “lavoro di confezione”. Io, come sai bene, non sono un positivista, non sono il signor Peirce. Ma anche nell’imponente intuizione ci dev’essere il sostegno dell’intelaiatura logica. Ora, se in arte c’è qualcosa di superfluo, la condizione d’arte viene a mancare. Vuoi l’esempio massimo? Il Manzoni. Esso manca del senso di economia creativa. In una parola, è troppo lungo. Mentre nessuno potrebbe sostenere sia troppo lungo Dante, anche lungo è Guerra e Pace, lunghi sono I miserabili. Veniamo al caso nostro: Pépé cerca la donna, beve dell’acqua, la vede (la Gaby). È quest’azione dell’acqua superflua o spreco? È necessaria al racconto? Perché è stata scelta? Se una ragione non c’è, d’esistenza, è cosa inutile e un dettaglio inutile è un difetto. Laddove esiste difetto non c’è opera d’arte (secondo me, tutto, nell’opera d’arte deve essere in armonia, dev’essere assegnabile, irreprensibilmente, al suo posto. Puoi tu cambiare un verso di Leopardi, cambiare una virgola di Flaubert? Sì in un film ogni cosa, ogni dettaglio dev’essere fissato per sempre nell’immutabilità dell’opera d’arte; se dell’arte c’è, beninteso!) I casi sono due. O la cosa è nata per caso, e allora ci sono due sottocasi, o è intenzionale. Se è nata per caso (cioè: né l’attore pensava al significato del suo gesto, né il regista) o è un caso di immensa manifestazione poetica (è il caso di “poetica divina”). Come gli dei ci donano il primo verso d’una poesia, così in quell’attimo hanno donato a Gabin e a Duvivier un bel “particolare”, o è un “puro” caso, rientrante nell’indeterminazione della teoria delle probabilità – dell’ipotesi di Heisenberg; e allora non ha nessun significato estetico, il significato estetico l’ho creato io, vedendolo dove

non c’era. E ne esce sminuita l’opera d’arte. Se invece è intenzionale, com’io credo, si tratta d’un accostamento simbolico o previsto dalla sceneggiatura inventata dal regista in sede di ripresa. In entrambi i casi, c’è legittimità estetica. (E credo che da qui non puoi scappare. Devi accettare una delle soluzioni che ti propongo.) b) E veniamo all’errore di prassi. Tu credi troppo che l’arte sia tutta intuitiva, di getto, mai meditata, mai pensata. Pensa a Dante e vienimi a dire che lì non c’è “costruzione” (proprio nel senso di Valéry, di Mallarmé, di Racine). È costruzione poetica, d’accordo, e in quanto tale, subordinata alle particolari ed autonome leggi della poesia, ma pur sempre costruzione! Ci sono le analogie, i simboli, i riferimenti estratti il pieno potenziale delle entità numeriche e geometriche. Tutta roba che l’artista à intuito in sé, e costruito poi, fuori di sé, sulla carta. E se il poeta può, dinanzi al foglio bianco, creare subito, data la duttilità del mezzo espressivo (penna, carta, parole), col cinema le cose son diverse. Deve posar bene la scenografia, le luci devono essere a posto, e a posto devono essere i costumi, le truccature. Si deve studiare l’inquadratura. E il fotografo deve riprender bene, e così pure il fonico. Dov’è l’immediatezza assoluta, totale, del poeta? Qui c’è l’immediatezza del musicista, piuttosto, che deve coordinare la sua ispirazione con la resa strumentale e fisica dello strumento; c’è l’immunologia dell’architetto che deve coordinare i materiali, le spinte e le controspinte, i carichi di rottura, gli equilibri statico-dinamici, eccetera. Intuizione diretta, nel cinema? Sì ma allora: Dziga Vertov, Dalí, Léger. Cioè, non-cinema. Nel cinema, in sede di ripresa, il registra deve costruire valendosi degli apporti che gli recano i suoi collaboratori, la

sua visione, che deve però avere scontata in antecedenza. È questa costruzione che è “creazione”, nel cinema. Ora, nella ripresa cose per caso non succedono mai. Se tu avessi provato a sceneggiare un soggetto, sapresti cosa vuol dire identificare il materiale plastico, come i simboli (ripeto, se c’è qualcosa di gratuito, di inutile, in un film, magari solo di superfluo, addio arte). Perché accetti l’intenzionalità nei simboli di Mamoulian, o di quelli di Machatý,355 e non l’intenzionalità di quella battuta di “Shangai”, di quel parallelismo acqua-donna di Pépé? Ohimè, probabilmente perché non ti convince, perché non vuoi darmi ragione. Sennò, come sarebbero andate le cose secondo te? (A parte il fatto che la cosa si potrebbe risolvere più semplicemente: consultando la sceneggiatura iniziale. Nelle sceneggiature apriori, c’è anche commentata l’azione.) Te lo dico subito. Si sta girando la scena. Duvivier spiega definitivamente l’azione a Gabin. Lui deve aspettare la donna, senza speranza più, fa qualcosa tanto per farlo. Beve dell’acqua… In quello vede la donna. Eh no, caro Ugo. Se le cose sono andate così, Duvivier sarebbe un cretino a non aver intuito l’accostamento, che è così elementare! Io invece credo che il simbolo fosse previsto, o in sceneggiatura o in sede di ripresa. Oppure, una coincidenza estrema: passa una comparsa con dell’acqua. Gabin ha sete per davvero, beve. Ma quest’ultima idea è ridicola, non te ne accorgi? Quel che ha di ottimo, questo accostamento simbolico, è che è mitigato, espresso sobriamente, nella realizzazione formale. “Il simbolo è valido quando nessuno s’accorge ch’esso è simbolo” (Nichols). Qui la natura della trovata è quasi elementare ma la resa in sordina è efficacissima. Tant’è vero che ci vuole una certa sensibilità per accorgersene, in proiezione. E ti dirò subito che il simbolo del cielo, in Traditore, era invece troppo manifesto. Laglen356 si passava addirittura, sgomento, una mano sugli occhi.

(Tutto quel che ho detto sin qui, vale anche per l’interpretazione ch’io diedi a suo tempo della sequenza del funerale di Vampyr; in sede teorica. Perché non basta dire, d’un opera d’arte, questo è bello e questo no. Bisogna anche spiegare il perché. Sennò tutti sarebbero capaci. “È bello, ma non saprei dire perché” è la frase di tutti i nuovi ricchi dello spirito.) Chiarito un poco questo dettaglio, veniamo a Carné. 3. Laddove c’è contraddizione nelle mie note, non può forse darsi che la cosa rispecchi una contraddizione implicita alla natura del testo? Non può darsi che non io, ma Carné si contraddica? Certo, avrò sbagliato anch’io. Io ti scrivo sempre, te lo ripeto, delle impressioni o delle meditazioni: mai la costruzione di un testo. A distanza di tempo, una cosa può apparire sotto una luce nuova, financo diversa. Ieri trovavo certe cose in Musset, oggi delle altre, nuove, o le vecchie, ma diversamente conformate. Quel che non cambia, è il principio totale, complessivo. E si può brancolare a lungo tra: tentativi, fino a che si individua la formula giusta, il centro vivo delle questione. 4. Io sono dell’idea che del mio “stile” esterno, nel libro, non ce ne deve essere. Il mio apporto dev’essere puramente mentale, spirituale, concettuale. Le parole devono esser tutte tue. 5. Il traditore lo lascerei per ora. Ma ci ripenserò. Per Le Jour se lève ti propongo “Nasce il giorno”. 6. “Non dobbiamo fare i Rusconi; i Mastrostefano, i De Micheli; ma i Campassi, i Giovannetti gli Ugo Spirito?” Eh no. Dobbiamo fare i Casiraghi-Viazzi. Ma io ti dirò che, pur non avendo preferenze assolute in materia, del buono c’è dappertutto, ho più simpatia per i primi tre che per i secondi tre. Rusconi mi dà il poeta, il prosatore; De Micheli mi rende il poeta, il prosatore. Campassi molte volte non è semplice, ma povero, poco colto, poco intelligente, poco penetrante (ciò non toglie che non sia un competente, a

modo suo. Ma se scrive “Sigari e sigarette”!)357. Di Giovannetti conosco solo le cose ch’egli settimanalmente scrive in Cine-illustrato, in Rundella e simili fogli. Ignoro Spirito (sei contento?). Insomma, in critica si deve dire qualcosa. Chiarire, spiegare, approfondire, esprimere. Non fare come Croce, che blatera come una donnetta e non dice niente (nel suo Ariosto, l’Ariosto non c’è: manco una briciola. Sarà un erudito, Croce, ma un buon critico no. Mi sembra un meridionale venditore di cravatte: “Venghino, signori!”) Vuoi un modello? Te lo diedi già: Ruskin. Ne vuoi uno nuovo? Il Bontempelli dei Discorsi358. La critica dev’essere non solo analitica, ma anche costruttiva. 7. Tu hai la mania di vedere troppe “nette scissioni” anche laddove non ce ne sono. Quando parlo della sorveglianza di Carné, mi pare di aver definito il suo processo creativo (il processo che lo conduce alla creazione, alla realizzazione, cioè. Il suo stile, il suo “modo”). Ora, mi pare che definizioni se ne possano fare, vero? Tabù non è epico, ma Alcazar359 è epico, Crisi è psicologico, ma Una romantica avventura è romantico. Così lo stile, il modo, la maniera di Carné è nella “sorveglianza”, nel non aver abbandono poetico, slanci lirici, nell’esser arido, cerebrale, calcolato (poi egli vestirà questo scheletro con tanti straccetti più o meno vistosi, più o meno appiccicati, di umanità “tentata”, di patetismo – secca sulla serra, ma la sua durezza è pur quella: non la durezza del primo Pabst, non quella che gli viene dalle esperienze spirituali della sua guarigione). Non vedo assolutamente come investa problemi di estetica generale quella mia frase (“questa misura però ecco individuato…”), per me è la descrizione, o meglio la constatazione, di quel ch’è lo “stile” di Carné, null’altro. “Pabst è più grande artista di Clair, anche se meno poeta e lirico.” Ecco la frase incriminata. Ma mi spiego. Io voglio dire che Pabst ha delle possibilità espressive più sicure, più conscie, più mature. Le sue angolazioni sono “più belle” di quelle di Clair, la composizione pittorica dei suoi fotogrammi è “più bella” di quella dei fotogrammi di Clair. Cioè, Pabst è più esteta di Clair. Ho adoperato male la parola “artista”, dovevo dire

“esteta”. Cioè Pabst è più raffinato, usa più riccamente l’illuminazione, i P.P.P., è insomma, formalmente più ricco, più maturo, più complesso. Per me, più grande (gusti, no? Lo preferisco, dal punto di vista estetico formale). Proprio come è più grande artista Flaubert di Zola o Ariosto di Tasso. Non c’è solo l’arte e la non-arte. C’è Dante che è più grande di Ungaretti, c’è Euripide ch’è più grande di Dos Passos, di Wilder. Mi cadi qui, sostenendo il cordaio, sulla più perniciosa utopia crociana. E Pabst è meno poeta di Clair, perché è meno sensitivo, meno sentimentale, meno sognatore (per niente sognatore!), meno fantasticante, meno commovibile. È meno lirico perché non si rivolge al cuore, alle umane passioni (amore, morte, [marciume], dopolavoro, eccetera). È diverso da Clair (questo lo ammetti?) ed è diverso perché è più attento alla forma (come in poesia D’Annunzio è più attento alla forma – cioè più interessato alla forma – di Corazzini, di Campana, di Lucini); perché portato in un mondo che non è quello di Clair (è poetico il mondo di Pabst nella misura e nella maniera in cui lo è quello di Clair? No, io spero lo ammetterai. Sono poeti entrambi talvolta, artisti entrambi sempre; ma quel che interessa fisicamente Clair nel 14 luglio è più poetico di quel che interessa Pabst in Atlantide, proprio come quel che interessa Melville è diverso da quel che interessa Dickens – dico, il Melville di Pierre –. Vuoi la frase trasportata in letteratura? Eccola “Flaubert è più grande artista di Loti, anche se meno poeta e lirico”. O ancora: “Maupassant è più grande artista di Louÿs, anche se meno poeta e lirico”). Insomma, la poesia è sogno, e Pabst non sogna ma Clair sì. Pabst non è sentimentale ma Clair sì e la poesia è anche sentimento. Tu confondi l’arte con la poesia: son cose diverse. Balzac era un artista, e un poeta; Rimbaud era un poeta ma non un artista (aveva cioè un mondo poetico, ma non riusciva ad esprimerlo bene: aveva il contenuto poetico, gli mancava la forma). Così Pabst è un artista e non un poeta, non un rimatore; non le comporrà mai le sottili elegie di Clair. Che poi la sua arte faccia nascere in

noi delle sensazioni poetiche è cosa che riguarda noi, non lui, la nostra complessità spirituale e psicologica, non la sua. Intermezzo: quando dissi Leopardi e Corriere dei piccoli ti facevo una assai seria osservazione – per niente affetta di pose o paradossi – sulla musicalità ch’è particolare a certe poesie di Leopardi: così cantabile, puerile, facile, noiosa. Un ritocco privo di bellezza. Vuoi mettere con i Sepolcri? O con altre cose del Leopardi stesso, col perfetto Infinito per esempio? E ti dirò che lo stesso ritmo lezioso rovina tutto Pascoli. Ora questa puerilità da canzonetta del verso leopardiano – di certi versi leopardiani – a me fa ridere, che vuoi. Offende il mio gusto musicale. È estranea alle leggi dell’armonia. È brutta. È antiestetica. E se la mia osservazione ti fa “cacare” fai pure. Ti risparmi il purgante. È bene avere lo stomaco pulito della cattiva letteratura. E non dire “raffinato sublime e carino”, Gide. Di Gide credo tu non sappia proprio niente. Gide è brutto, nient’altro. Che pessimo letterato, che ha però un grosso ingegno e una interessantissima personalità. (Chiuso l’intermezzo) *** Io non mi ricordo di Pietro Lombardo e di Guglielmo di Champeaux. Dov’è che me li presentasti? Li vidi io qualche volta? Ah! ah! Io non so cosa voglia dire “flatus vocis”. *** Cadi, nella tua lettera, in contraddizione continua. Prima ammetti che Carné sorveglia col cervello, poi lo neghi, come va questa faccenda? La relazione che passa tra il cervello di Carné e il suo senso estetico, virtù formalistica, di Pabst? Ma perdiana, questa: che Carné si preoccupa “delle cose” che deve esprimere, Pabst del come esprimerle. Ecco perché sono diversi. ***

Poi subito, ti contraddici ancora. Prima capisci cosa voglio dire dicendo “magnetizzazione” per Dreyer, due pagine dopo non capisci più. Eppure “magnetizzazione” vuol dire sempre “magnetizzazione”. *** Tu giochi abilmente sulla parola “cervello”. Io con “cervello” voglio dire “attività intellettiva, riflessiva, mentale”. A me pare che questa predomini, in Carné, anche più del gusto della bellezza (in lui infatti non ci sono gli estetismi che ha talvolta Pabst, le raffinatezze formali – confrontare ad es. l’uso diverso dell’illuminazione), o della poesia pura: tant’è vero che lavora su materiale umano, sociale; insomma, se Pabst è un cerebrale esteta (cum grano salis, eh, mi spiego: Pabst è prevalentemente un temperamento portato non alla fantasticazione, al segno d’un polo opposto di Dreyer – ma all’attività costruttiva, di pensiero; ed esprime ciò – che è il suo “carattere artistico” – con un maggior amore per la risultante estetica). Carné è un cerebrale, contenutista, drammatico (dramma “tentato”). E ora non mi venir a dire che non si devono dare definizioni. Se non dai una definizione alla conclusione totale del testo, come fai a esprimere l’artista che hai preso in esame? Come fai a differenziarlo dagli altri? Sennò, basta dire: sul tal film questo è tutto, e questo e questo. Senza dire né perché, né come, né quanto. Bella roba da bambini. Comoda. Tipo Loverso “Questo mi piace e questo no”. E perché? “Perché sì.” E perché perché sì? “Perché sì.” No, caro Ugo: la magia, l’accesa visione, il sogno magnifico del Vampyr, non è roba nata solo da Dreyer. Tu dici: “Da nessun altro che da sé”. Ma se Dreyer non avesse avuto nel sangue il sangue che porta, se non avesse letto i libri che à letto, udito i canti che ha udito, non sarebbe mai diventato Dreyer. Un uomo, sai, è la somma di mille cose: influenze esteriori, eredità, messaggi arcani, comunicazioni divine. Se Dreyer fosse sempre vissuto solo sotto una campana pneumatica non avrebbe mai creato nulla. È solo entrando in relazione con l’universo che si può creare. Non scordiamo mai l’uomo e donde l’uomo proviene, e dove è avviato! Ma lo so il

tuo è il solito errore crociano (maledetto Croce! potessi mordicchiarlo vivo, pezzetto per pezzetto!), il solito differenziare la “persona pratica” dalla “persone poetica”. Che bestialità! C’è l’autore e c’è l’opera. L’una cosa spiega l’altra. (Che l’opera poi viva di per sé, una volta portata a compimento, è altra cosa.) 8. No, io non dico: Clair satirico di qua, Clair poetico di là. Ma dico che la satira e la poesia sono i due poli opposti tra i quali oscilla il temperamento di Clair. Quando tende di più alla satira, ti fa Cappello di paglia (che poesia c’è, sul Cappello? dico poesia per poeticità) quando tende di più alla poeticità ti fa 14 luglio (cosa c’è di comico, di ridicolo in 14 luglio?); per il resto oscilla a metà, e lì fa le opere che tu chiami affini tra loro: Il milione, I due timidi. Opere mediane, in cui c’è dell’uno e dell’altro ingrediente. E, al centro, fusione dei termini. E quando citi Sacchi per A noi la libertà e ammetti la “contaminazione” (“storia principale, satirica, e il problemino amoroso”) ecco che ti dai la zappa sui piedi, e mi dai implicitamente ragione su tutta la linea, tuo malgrado. E dici “ma non che questo sia il Clair poetico, l’altro no. Sono due Clair diversi”. Ottimo. Un Clair dunque è poetico. E l’altro, che tu ammetti esistere, cos’è? Dimmi, Ugo, cos’è? Dici “uno svolgimento di un medesimo Clair”: svolgimento cioè evoluzione, cambiamento, mutazione. Partiamo da un dato Clair e arriviamo a un Clair che non è quello di prima, dunque è un altro. E quest’altro Clair, dimmi Ugo, qual è? È bellissimo. (Poi, in un altro punto, ammetti che “ci sono mille Clair”. E poi sono io che mi contraddico!) Ti ripeto non due volti immoti ed opposti, ma due stati-limite. Un implicito dualismo. Io non creo (toglitelo dalla mente, ti prego) delle suddivisioni metodologiche. Tendo a definire la natura dell’argomento (umana, concettuale ed estetica), e ad esprimerle. Nient’altro. A metter ordine nel disordine. Se non capisci la frase “laddove non lo inquini il piacere parigino e letterario

di motteggiare”, vuol dire che non capisci. Clair, e specialmente il cosiddetto intellettualismo parigino di Clair. Qualche volta egli gioca per giocare, per divertirsi, e per divertire. Cioè, immette elementi estranei. Ora inquinare vuol dire immettere elementi estranei e “nocivi”. E che gli elementi immessi da Clair siano nocivi, te lo dice il fatto ch’essi sono arbitrari, e quindi non indispensabili all’economia dell’opera d’arte. 9. Son più che mai convinto che Duvivier “vede tutto attraverso gli ‘effetti’ possibili le ‘spettacolarità’ probabili”. È il suo stile. E questi effetti, queste spettacolarità, esprimono proprio i “punti salienti”. Infatti non ci sono punti salienti in sordina presso Duvivier, come ce ne sono invece in Ford. Duvivier deve esprimersi per punti salienti. Siccome è un temperamento acceso e sovrabbondante, poco dotato del senso della sobrietà, della misura – vuoi dirmi che in Duvivier c’è la severa scelta di elementi che c’è in Carné? Caro mio, me ne dispiace per te. Ma Carné studia, elabora, dosa, non è mai eccessivo, non è mai invadente, mentreDuvivier intuisce a colori, cose senza decisi contorni ma pregne di dramma, di umanità, di patetismo. “Trasmoda”, “gigioneggia”, Duvivier! Cioè, non è vigile. Mentre Carné, che è misurato, che è sobrio, è vigile. Dell’uno è caratteristico l’acceso temperamento (il colorista), dell’altro la facoltà intellettiva (il chirurgo). Son cose che mi ammettevi esatte da Monopoli. (Ora ridi sul “cervello” di Carné?) Egli si esprime attraverso “effetti” e “spettacolarità”. Ma dove diamine è la contraddizione in cui sono incorso? Caro Ugo, non basta formulare delle accuse. Bisogna documentarle e dimostrarle. O che la tua bella testa longobarda sta diventando barese? 10. Sì, Pabst, concepisce esteticamente, Clair spontaneamente, Dreyer magneticamente (“opposizioni così

nette, precise, definite, categoriche”. Ti fa paura la chiarezza, allora? Tu che vorresti esser chiaro? Ma se riesco a definire con precisione, io son più chiaro di tutti i bambinetti che sillabano “il ci-ne-ma-è- un’-ar-te-per -chiha-un-lin-guag-gio-espres-si-vo au-to-no-mo” e sbagliano anche a sillabare). Cioè, ma bisogna spiegarti proprio tutto!: in Pabst il processo realizzativo è polivalentemente formalistico – vedi prima, paragrafo 7; in Clair è intimo, diretto immediato: egli cioè vuol dire quelle date cose e non si preoccupa troppo del come le dice – e malgrado la sua abilità, i suoi trucchi, le sue trovate non ha una bella forma. Dirai: “interessante quell’inquadratura”, ma mai “bella” per Clair; mentre una inq. secondaria di Pabst sarà sempre “bella” cioè “estetizzante”, ricca di pregi pittorici. è la cosa che ti dissi su Clair e Utrillo, pertanto pure in mio favore, io credo. Clair figurativamente è scialbo: è la visività che lo eleva, e il suo ritmo. È Clair uno ch’è interessato alle cose che vuole e deve esprimere, come Carné. Ed eccoti spiegato come Carné ricalchi Clair, spesso (Cfr. Puccini – cfr. Vice in Cinema a proposito di Albergo Nord).360 Dreyer invece crea “magneticamente”. Egli è assorbito dalla propria visione: non si preoccupa più del contenuto, della forma, dell’equilibrio: con una forza fantastica di visionario eccezionale, egli realizza il suo sogno tormentato. Direttamente, e per “fusione”. Ripeto: esteticamente Pabst, spontaneamente Clair, magneticamente Dreyer. Sono i tre tratti che differenziano i tre autori. Se non accetti, una volta riconosciutole per buone, queste individuazioni precisative, che razza di libro vuoi fare? Clair = Pabst = Dreyer = Ford = Capra? Tutti artisti, dici tu. Ma non basta, che questo lo sappiamo tutti. Sono diversi e noi dobbiamo dire come lo siano, e perché, e quanto. Son tre stili, capisci? Tre maniere. Tre processi creativi. I tre “quid” interni che differenziano i tre autori, le tre fisionomie. E se ancora non m’hai capito, dovrò prender l’aereo e venire a Roma e convincerti a parole. 11. Ti concedo d’aver esagerato dicendo che Duvivier crea cose belle “per caso”. Ma son convinto che quel che di

Duvivier non riesce deriva dalla famosa mancanza di vigilanza, di “coscienza riflessa”. Ed è questo, il limite di Duvivier (nel senso di limitazione). E lo sapevano tutti da un pezzo. Anche tu. E ora invece ti sei esaltato (tutto frutto della lettera di Bandini) e mi hai dato addosso. Ma c’è un particolare di cui non hai tenuto conto: che i miei sono appunti, note e nient’altro. Che la velocità di una mia constatazione sul libro andrà espressa in mezza pagina, che una mia frase dovrebbe generarne venti, a chiarificazione ed estensione. Io dico “Duvivier non è ‘vigile’, Carné lo è col ‘cervello’”. Tu dici che questo è grottesco, e lo so anch’io. Ma è l’intuizione sintetizzata della cosa intravista, che conta, non la maniera affrettata con la quale io sono costretto a scrivere. Se vuoi, io posso sviluppare il mio concetto: ma allora farei più di quanto mi impongano i limiti delle nostre convenzioni, dato che il libro lo vuoi “costruire” tu. 12. “Corneille non dà mai la pienezza della vita, ma solo le estreme punte degli affetti in collisione, e alla tragicità preferisce l’eloquenza.” Lo vedi com’è cretino Croce? Sbaglia sempre. Perché questo non è Corneille, ma Duvivier! E lui non se ne accorge neanche. (Scherzo, sai?) Ma la frase va bene, per Duvivier. 13. No, poca roba in comune tra Duvivier e Carné. Quasi nessuna. Molta invece tra Carné e Clair (ancora cfr. Puccini, cfr. Vice, in Cinema, cfr. l’identità delle scenografie di Meerson e Trauner).361 E poi, Carné è una derivazione del Kammerspiel, lontano e tardo epigono, va bene, ma già legato al Kammerspiel. Mentre Duvivier non ha queste originalità (e ha, ma certo!, influito un poco anche su Carné. Ma non molto). 14. Renoir non so se sia “pizzardone”, o “policeman” o “sergent de ville” (uh, che ironia!). Lo conosco troppo poco. Un’opera secondaria come Les bas fonds e una sola visione della Grande illusione. Non mi basta. 15. “La sua assenza di tragedia non è tragedia.” No, io non ho capovolto la espressione. Nella prima stesura avevo

scritto male, poi corressi. Mi par chiaro cosa voglia dire la frase. Ma mi spiegherò per esempi (e tra poco comincerò ad esprimermi per segni).(1) Prendi un individuo che uccida la madre. Egli dovrebbe provare rimorso. Invece non lo prova, perché non può, perché gli è negato dalla sua aridità interiore. Se ha un’intelligenza sensibile, la coscienza del suo stato, della sua normalità, lo tormenterà. Egli non potendo soffrire per quanto ha fatto, soffrirà del suo non poter soffrire. È chiaro? Questo è il caso in cui l’assenza di tragedia è una tragedia, genera una tragedia. E invece, pur non provando rimorso, l’assassino se ne infischia del fatto di non provar rimorso, allora “la sua assenza di tragedia non genera tragedia, non è, per lui, tragedia”. E se non hai capito mi sparo. Trasporta l’esempio nel pieno di Carné. Sull’assenza di dramma, tragedia, ecc. vedi un articolo su Cinema, tempo fa, di Antonioni credo. E ti aiuterà una frase di Marisa su Giraudoux: “in G. non c’è catastrofe, o tragedia perché l’uomo v’è considerato elemento secondario rispetto all’azione dell’uomo” (infatti i personaggi di G. son quasi dei simboli). Non è così anche per Carné? Infatti, tragedia nasce quando gli esseri umani comunicano l’uno con l’altro. Ciò in Carné non avviene. Quindi non c’è tragedia (ci siamo, fino a qui? e allora avanti). Quell’assenza di tragedia, che deriva dall’assenza di umanità e dall’assenza d’una concezione cristiana, provoca in Carné un problema riflesso, un dubbio di coscienza? Per niente. Imperterrito egli esprime la sua assenza di tragedia senza minimamente preoccuparsi. Dunque per lui l’assenza di tragedia non è tragedia. Che poi una carenza di moralità non sia condizione umana è logico. Mancano di morale solo i selvaggi, i pazzi, le bestie: cioè tutta roba che non possiede una condizione umana. Ma io volevo dire di più, volevo dire che in Carné la carenza di moralità non costituisce una condizione umana “sofferta”. Estendere cioè al campo psicologico la osservazione sulla tragedia, che appartiene al campo spirituale. Chiaro?

E non mi paragonare, ti prego, a Croce. “Poeta giunto a compimento e perciò non più poeta”? Ma lui è pazzo! Andiamo avanti a spiegare, carissimo Ugo. “Egli lavorando di cervello, vuole umanizzare i propri personaggi. Eppure non raggiunge il dramma, non crea la tragedia.” Infatti. Ciò vuol dire: egli non riesce ad umanizzare i suoi personaggi. Di conseguenza (“eppure”, cioè malgrado tutti i tentativi) non riesce a dare dramma o tragedia, proprio per il ragionamento che ho fatto all’inizio. È chiaro questo? Io lo spero (2). Che il cuore di Carné non comunichi col cervello (non vuoi ch’io dica cervello? Dirò “intelletto”, “mente”) è dimostrato dal fatto che Carné non si “immette”, non si “scalda”, non si “accalora” (e questo è un bene), ma anche dal fatto ch’egli non si affranca mai dalla sua materia, non la contempla mai (Carné non è Dreyer. Tu di Dreyer non puoi mutare nulla, di Carné puoi togliere e aggiungere – tant’è vero che noi abbiamo visto un’edizione amputata, e quasi quasi ci abbiamo guadagnato. E del taglio non ci siamo accorti. Prova invece a leggere un romanzo di cui manchino venti pagine!). E Carné “resta a metà via”, sì, lo credo fermamente: “né impegnato né disimpegnato”. Lo dimostra Albergo Nord, dove i termini sono già contaminati oltremodo, sono già corrotti. In Alba tragica la cosa si verifica di meno: la “sorveglianza” rende. Albergo Nord invece è fatto così e così, su due piedi: e ci sono cose orribili vicino alle bellissime, gli errori grossolani accanto alle gemme. Mancanza di ispirazione? Ma il mondo era il precedente, era quello di Quai des brumes, di Le Jour se lève; e identici gli ingredienti. Mancanza di polso? Fiacchezza? Sì, mancanza di controllo e prevalere del Carné sentimentaloide (i famosi dialoghi della prigione, il personaggio di Annabella).

(Ti sarai accorto, io spero, che faccio della critica, ora, psicologica. Non mi dire che sono in arretrato! Semmai, credo che la critica psicologica integri quella puramente estetizzante – tipo Marangoni –362 vedi infatti, il Casnati e tutti gli scrittori della “Morcelliana”.363 E [gl]i psicoanalisti.) 16. No, io non dico che Carné sia artista minore di quello che credevamo. Le cose ch’io trovo in lui non sono difetti, pecche, manchevolezze: sono le sue caratteristiche, i limiti, i caratteri del suo mondo sono. La risultante è la sua fisonomia complessiva. 17. Bisogna essere anche severi, caro Ugo. Amare il cinema non vuol dire essere ciechi. Non facciamo come il bambino Terzi, che ogni volta che vede un bel carrello va in brodo di Giuggiole. Dobbiamo fare della critica sì o no su un piano estetico? E allora accetta, non c’è scampo. Perché l’estetica è una branchia della filosofia, io non ci posso far nulla (naturalmente, intendimi cum grano salis. Noi diremo le cose che ci interessano, che ci urgono. Le altre le lasceremo graziosamente cadere. Chi ti dice di teorizzare? La teoria deve scaturire dalla scrittura stessa del testo. Dici di non giustificare psicologicamente un poeta, poeta-uomo “forma unità inscindibile”. È appunto per via di quell’unità che non puoi ignorare la parte psicologica, sennò lavoreresti solo sull’opera, e allora dove diavolo va a farsi friggere l’“unità inscindibile”? 18. Altra frase incriminata: “In questo dualismo tra cuore e cervello…:” Termini gratuiti? Eh no, caro mio. Gratuiti gli accostamenti che fai tu. Ecco, ti riporto tutta la mia frase: “In questo dualismo tra cuore e cervello, tra pensiero e sentimento, tra ragionamento e poesia, tra costruzione e abbandono, mi pare consister il principale problema…” E tu: “Ma qui sussiste anche, è chiaro, una mancanza critica, evidente, derivante appunto dall’uso gratuito dei termini: infatti: cervello e poesia? Abbandono?” Ma scusa Ugo, cerca di capire la disposizione dei termini nella mia frase.

Non vedi che si tratta di paia di termini che esprimono tutti il medesimo dualismo? Che cuore = sentimento = abbandono = poesia e che cervello = pensiero = ragionamento = costruzione? Lo vedi che figura hai fatto? Arrossire giovane Ugo! Arrossire in fretta! Ma sei già perdonato. Ti ho detto: io vedo due tendenze, in Carné, opposte l’una all’altra. E qui le ho semplificate un poco, anche se banalmente. 19. “Arletty s’avvantaggia del suo temperamento implicito?” Eh sì. Questa frase vuol dire: Arletty ha una sola natura, non può che far quelle date parti, rispondenti, infatti, alla sua natura (cioè al temperamento che è “implicito”, cioè “fin dall’inizio connaturale” alla sua esistenza di donna e attrice). Tant’è vero che non ha mai sostenuto altri ruoli (conosci l’Arletty di quel film minore che è Circostanze attenuanti?).364 Per cui, quando le danno il suo ruolo ella non fa altro che esprimersi, cioè, non le occorre studiare atteggiamenti, mimiche o gesti. Essa esprime se stessa, spontaneamente; cioè si avvantaggia del suo temperamento implicito. Per cui essa è più materiale plastico che attrice recitante, cioè è attrice cinematografica e non attrice teatrale. Hai capito? E adesso ridi, che mi sembri Loverso. 20. Dici che non esiste in poesia la logica? Eh sì, che esiste, e formidabile: “la logica poetica”. Sennò, cos’è che lega assieme le varie parti componenti di una poesia? 21. E mettiamoci d’accordo sui termini. “Poeta” vuol dire che scrive poesie. Gli altri avranno della poeticità, ma non saranno poeti. (Questa è una convenzione, d’accordo. Ma almeno è comoda, almeno è chiara.) 22. Sì, la sub-umanità di Carné, condizione all’“umanità estetica” di Carné; ma non è tutta la umanità di Carné, cioè, non è la sola umanità estetica del regista. C’è anche la questione dell’espressione, dell’uso del mezzo. La subumanità di Carné è il carattere interno dell’opera di Carné, che si estrinseca con quello che tu definisci “un verismo

superato mediante una forte messa a fuoco di particolari ‘fantastici’ (3)”. Chiaro, vero? Anche il mezzo usato, e lo stile adoperato, fanno parte dell’umanità estetica e dell’artista. 23. Dici “Carné non tende a questa umanità! Lo dimostrano anche gli altri suoi film! Semplicemente non la ignora”. Un momento, spieghiamo: prima di tutto, quali altri film? Albergo Nord dà ragione a me. Anzi, in Albergo Nord è proprio il tendere incontrollato all’umanità, alla redenzione dei personaggi, alla purificazione eccetera che guasta tutto. Che? Carné mette l’umanità in “lieve, abile contrappeso” alla sub-umanità? O allora Albergo Nord cos’è? S’è rotta la bilancia? Ma in Alba tragica non c’è umanità, c’è desiderio di umanità, ma non nei protagonisti, nel regista! C’è volontà di umanità, ma nell’intelletto del regista. Per fortuna, questa tendenza è mitigata. In Albergo Nord si scatena, e allora addio baracca e burattini. (A meno che in A. del Nord Carné non abbia fatto ciò volutamente. Non abbia voluto dare una parvenza di moralità e di umanità ad una storia che non ne possedeva per nulla, nell’originale – dico, nel libro – onde non esagerare in pessimismo. In quell’epoca, ricordiamolo, anche in Francia protestarono contro il cinema pessimista. C’è dunque anche l’ipotesi che A. del Nord sia una falsificazione, un’ipocrisia. E anche allora si spiegherebbe il poco impegno, la beffarda vena di certi momenti, il fatto che Carné raccontasse senza credere a quel che raccontava. C’è da pensarci.) 24. Caro Ugo, bisogna avere il coraggio di andare fino in fondo, appena s’intravede una luce buttarsi giù a capofitto. A forza di tirare a galla scarpe rotte e scatole di sardine, verrà la volta buona che porteremo alla luce la perla. 25. Sulla critica, le tue idee sono molto poco chiare. Innanzitutto, parli con poca competenza. Dimostri di ignorare la critica psicologica, quella psicoanalitica, e tutta quella recentissima (Bo, Solmi, Macrì). Io non capisco. Contro quale critica tu ti scagli? Contro la cosiddetta “ermetica”? E perché? Perché ti è poco chiara, perché non ci

hai ancora fatto l’abitudine? O per ragioni estetiche? Ma se c’è una critica nuova, oggi, è proprio quella. Essa dà l’uomo e l’opera nella unione intera e inscindibile dei termini. (Puoi mettere il Gargiulo tra i precorritori.) Ed è valida anche se la fanno dei vecchi, come Pancrazi, ad es. E ha tutta una schiera di gente in gamba: oltre a Bo, Solmi e Macrì c’è Fenata, c’è Vigorelli, c’è De Micheli, c’è Luzi, c’è Vittorini, c’è Dal Fabbro (e in prima, Birolli, Guttuso). È sciocco dire che si deve fare una nuova critica cinematografica. Si deve semplicemente fare la critica cinematografica. E per far questo ci vuole una estetica. Sennò, ci fermiamo a delle questioni di linguaggio, di mezzo espressivo, dicendo: questo lo può dire solo il cinema! Questo è cinema e null’altro! Bisogna anche dire, Vampyr equivale a Poe, Murnau equivale a Gauguin, Pabst equivale a Fattori.365 Portare il cinema sul piano dell’estetica universale. Parlare tranquillamente di Clair come si parlerebbe di Petrarca o di Byron (nessun rapporto tra questi nomi! Li pongo per indicare la statura delle varie figure). E così via. 26. E veniamo alle tue lettere precedenti: a) Bandini va bene. Ma è molto discutibile. Cioè, dobbiamo spiegarci più chiaramente. b) Loverso non legge B. e n. Considera chi si occupa di cinema “seriamente”, un pazzo o un deficiente. Secondo lui, Guido ed io e tutti gli altri siamo dei poveri cretini illusi. c) Rusconi non ti fa capire cosa io voglia? Pensa ai suoi titoli, sono delle definizioni. Ti fanno paura? Una definizione, quand’è giusta, è la cosa più chiara, netta ed incontrovertibile di questo mondo. “Poe, o l’uomo assolto”, “Tozzi, o l’uomo con gli occhi chiusi”366 dicono già tutto. Io vorrei trovare i termini equivalenti per i nostri autori (dico, equivalenti. Magari la stessa roba (4), ma diversamente espressa. Mai copiare!) d) Conosco Palazzeschi. Lo leggevo a quindici anni, l’edizione che hai letto tu è rimaneggiata e sofisticata. E sì, ha perduto, e di molto.

e) No, no, no, no. Io non faccio “distinzioni violente”. Vuoi cercare di capire la mia maniera di esprimere le cose? Non sono un automa. Lo sai. f) “Montreur d’ombres” non vuol dire “montatore d’ombre” ma invece: “Quello che fa vedere delle ombre”, “l’individuo che fa vedere delle ombre”. “Montrer” vuol dire mostrare, far vedere (il “mostratore d’ombre”?) g) Ottimi quei testi rari. Dovrei, e me ne dispiace, riscrivere quelli che andaron perduti. E direi, né Disney né Chaplin. Ma “giudizi recisi e folgoranti”, sì. h) Scusa il tono di certi punti della mia lettera. Ma so che mi capisci. E se hai da controbattere, ti prego, fallo con ordine, e dimostrando quanto asserisci. Intanto, stammi bene scrivi presto. Ti abbraccio, Jusik (1) “Come sei cattivo, Jusik!” “Sì sono cattivo.” “Se lo merita Ugo?” “Forse sì.” “Allora vai avanti.” (2) “Jusik, sii più gentile.” “Sono forse ineducato?” “Quasi.” “Va bene, sarò più gentile. Ma solo perché si tratta di Ugo.” (3) Ohè, fantastici? Fantastico vuol dire irreale, surreale appartenente al mondo dei fantasmi, dell’impalpabile. Spiegarsi, Ugo. (4) La stessa roba, cioè, lo stesso procedimento.

K. e T., ottobre [1942] Carissimo Jusik: 1 “Tutto si annulla nella nostra sensibilità in favore dell’opera di domani.” CARRÀ E SOFFICI

La tua lettera merita davvero una risposta diffusa, e te la darò, appena avrò sgombrato il [cam]po dalle notizie più recenti che mi preme di comunicarti. Anzitutto: “I tre [illeggibile]”: ancora una volta, come avete appreso dalla notizia apparsa su Film, vi siete lasciati fregare (ammenocchè… ma no, è impossibile). Io ho visto, per forza di cose, non di mia elezione, Concerto a richiesta, tedesco, con Ilse Werner, Raddatz ecc. (regista von Borsody):367 una cosa assai brutta e, come tu dicevi, sarebbe anche assai errato, oltreché pretenzioso, sprecare criteri estetici elevati per un lavoro che non ha nessuna pretesa di questo genere. Perciò a proposito di quel Venere Bianca da te recensito per il giornale, ti dirò che evidentemente appare che Bernard (o chi per lui) abbia avuto nette pretese di stile. Osservo che le critiche del Fascio tue e di De Micheli sono ogni volta più belle ed è per me un gran piacere poter tornare una volta alla settimana, a tempi che eran brutti, scarsi e privi di luce, e che non so perché mi sembrano beati. – Anche su Moschetto ho visto qualcosa: un “Renato, o dell’ottimismo” di Guido. Vorrei avere i suoi due articoletti su

Film Quotidiano: Campassi mi dice che preferirebbe non averli letti: perché? di che cosa trattavano? (Dì a Guido se me li può mandare, ed anche, ma con discrezione…, se può scrivere). A proposito di Concerto a richiesta dovetti, mio malgrado (ti assicuro: mio malgrado; ma c’è della gente che sembra godere nel fare la spia); dovetti sostenere discussioni di vario genere con diversi colleghi miei ed anche non miei: ne esco nauseato. Nel tuo “La correttezza e la mediocrità” non capisco perché la correttezza non sia, per lo più, indice di mediocrità.368 2 “Maggior quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire dentro il dolore, più egli sarà un uomo profondo.” PALAZZESCHI,

Manifesto del Controdolore

Ho riletto le Facezie di Bracciolini, cioè Poggio Fiorentino.369 È affascinante talvolta quel suo raccontare, con egual misura, eguale forza, eguale spirito, le barzellette più comiche accanto a quelle senza via e senza nessuna probabilità di buffo o di leggiero, o di significato. C’è pura follia: par d’essere di fronte a un tale, che senza averne l’aria, ti prenda continuamente in giro. O c’è riso schietto – troppo lunghe sarebbero le citazioni. O c’è pietà, pietà scarna e primordiale di chi manca all’affetto, e forse neppur se ne accorge. Mai visto nulla, tu Jusik, di più allegro e, insieme, triste, d’un tipo che, dopoché, in accesa brillante compagnia, un altro ha continuato a raccontare spiritosissime facezie – ed ha anch’egli partecipato, via via, agli incredibili, puntuali scoppi d’approvazione e di ilarità – vuole a un certo momento narrare anche lui qualcosa di suo, di spiritoso, di sorprendente, e narra ma narra male, più male ancora sembra dal confronto con l’altro, e la sua barzelletta è fiacchissima, alla battuta finale ride soltanto lui; e si guarda attorno, e blatereggia in falsetto qualche parola di estremo communto (ed è un estremo vale per sé); e tutti fan finta

d’altro, e c’è pietà, immensa pietà nell’atmosfera; e soltanto si attende, a squarciare la squilibrata pena, che il dominatore della serata riprenda il giro dei suoi rutilanti aneddoti. – Ho letto La mascherata, di Moravia. Abbiamo anche noi i cosiddetti narratori di razza: il mestiere di Moravia è qui, veloce, continuo, ma assai fine. Dopo le prime cinquanta pagine vorresti abbandonare il libro, e se ci fossero i capitoli, alla fine del primo o del secondo “lasceresti la magnissima tua impresa”: viceversa i capitoli non ci sono, e una volta preso nell’ingranaggio tu devi arrivare a resistere (anzi, con godimento intimo, ora) fino al termine dell’avventura. La quale qui è leggere e, nonostante le morti e le uccisioni e lo scatenarsi delle passione, quasi aerea: contrariamente, pare, al carattere solito di questo scrittore; ma, anche se nell’intimo questa “mascherata” è forze scherzevole e fumigante e falsa, nel ritmo violento e instancabile impresso alla trama e nella insistenza compiaciuta su alcuni particolari, specialmente erotici, è chiaramente avvertibile e resistente l’abito sicuramente ebraico di una posizione concettuale e di costume. Perciò questo Moravia di Mascherata preluderebbe e s’attaccherebbe al Moravia di Marisa, quello delle Ambizioni Sbagliate. La stima che De Micheli ha di questo scrittore è, a parer mio diretto (almeno su un testo), giustificata. Giustificata invece non è né la presenza, né la premessa, né la promessa, né la realizzazione di un’opera come Italia mia di Papini: mantenendo l’autore in alcuni punti (ed era impossibile farlo sparire) quel certo suo forte e sano sapore villoso e quasi bertucciante, in altri io sento, sotto sotto, la vena d’una propaganda fluida e concentrata alla Bertaccini deteriore370. L’opera è fallita, nonostante la moralità, l’altissimo scopo e, sopra tutto, i precedenti dello scrittore. 3 “…un uomo non comincia a vivere se non comincia a morire.” WILLIAM SAROYAN

Oh, guarda bene da questi preamboli, non hanno niente a che fare col contenuto dei diversi capitoletti in cui divido questa lettera per tua maggiore comodità: li ho messi qui solamente perché (come diceva Lessing di alcune sue note a margine e in calce al Laocoonte) non trovavo per loro altro posto e perché molto mi piacciono, tanto si “interpretano” e con tale sottile verità, ai miei stati d’animo di un momento, la triste, continua, lancinante mediocrità d’un lunghissimo periodo. Saroyan l’ho riletto tutto – il Che ne resta dell’America? – ultimamente, o attentissimamente compulsato. Così il Satyricon: lo sto facendo sul testo latino. Così ho quasi terminato di leggere il difficile trattato di Hermet sulle riviste letterarie nostre371 ed ho imparato molte e molto belle utili cose (fra l’altro Arte mediterranea vi è citata come rivista così lussuosa, anche adesso è così! Non già di La Ronda, purtroppo). Nel numero di Film concludono sulla Mostra, ho trovato ottimo e coraggioso l’articolo attento e preciso di quel giramondo di Pasinetti di ritorno da Venezia. L’inverno dunque lo passerò a Korça: sarà il primo inverno d’Albania. Uscitone, potrò parlare di inverosimili pupazzi di neve, di congelamenti e di studi. Il buon Osvaldo, l’ottimo Osvaldo, mi chiede: “La neve come è lì, è fredda o calda?” E scrive: “Il tempo ormai minaccia di fare neve e quindi è quasi ora di ritirarsi in luoghi più riparati. Alla sera da noi fa già freschino al punto giusto che ora fa tanto più piacere mettersi un pochino in casa ciò che si preferisce”. Io so che fu bello. Ma c’è ancora qualche rimasuglio di borghesismo in me? Io credo non potrò mai più tornare a godere di quelle settimane, di quelle bellissime, di quelle ottocentesche, conigliesche, piacevolmente brividenti cose. Mai più. 4 “Non amare giammai, per non esporre…

anima viva all’atroce supplizio di essere amata.” RILKE

È questa la frase più profonda che abbia mai trovato in un libro stampato. Rileggila, ti prego, e dammi perfettamente, inesorabilmente ragione. 5 “A furia di tirare a galla scarpe rotte e scatole di sardine, verrà la volta buona che porteremo alla luce la perla.” JUSIK ACHRAFIAN

Ora posso cominciare a rispondere alla tua “triade”. Ho premesso la tua bellissima frase (certo tu non la giudichi bella. Ma credi, al punto in cui l’hai messa, pel calore onde l’hai scritta, per la comprensione che trova in me, essa è più che bella), perché essa sintetizza perfettamente, la nostra dura, tortuosa, sgradevole polemica. Io, carissimo, ti chiedo sinceramente perdono se la irruenza – determinata da calore e mai da irriverenza – e la foga sconsigliata con cui debbo aver scritto certe frasi, han contribuito a urtarti un poco insieme al tono generale acceso della questione, cosicché alla tua volta tu ti sei lasciato sfuggire un’espressione – una sola! – che mi è davvero, profondamente dispiaciuta. E ti dico subito che si tratta della frase: “Ahimè, probabilmente perché non ti conviene, perché non vuoi darmi ragione”. Ma Jusik! Conviene?! Non so sai che metto, e metterò, tutta la mia passione e tutto me stesso (forse), nel libro; che io scrivo e ragiono (quando m’è possibile), e discuto, a volte, con te, solo in funzione del libro, solo per “lui” ch’è cosa vivente, che nasce giorno per giorno nelle tue mani (e nelle mie), e si concreterà in un tempo futuro come qualcosa di veramente solido, di veramente originale? No credimi, Jusik, credimi tu

che in fin dei conti in certe questioni sei l’unica persona al mondo che possa capirmi interamente (come io mi spiego e mi giustifico a volte ogni tuo minimo, ogni tuo sotterraneo, sfuggente atteggiamento); credi che è stupido, inconcepibile, delittuoso litigare fra di noi per cose del genere, che poi ci fan male alla lunga (io, ch’ero preoccupatissimo perché non ricevevo da un po’ di tempo!), e che, insomma, non debbono ripetersi più, ecco, perché mi fanno arrossire. Siccome mi ritengo in errore perché indubbiamente quelle tre lettere e in istato non troppo tranquillo e, ti dico subito, non troppo equilibrato, dovevano contenere (ti ripeto: dovevano; alcune frasi che tu mi riporti non le riconosco più, non le ho scritte io!) qualcosa di troppo acceso e di stupido, ecco che sono qui a battermi il petto e a implorare altamente e a chiederti, in tutta umiltà e sincerità, perdono. Abbracciamoci dunque e ritorniamo calmi, fiduciosi e contenti come prima, e come sempre! 6 “Pochi compagni avrai per l’altra via: tanto ti prego più, gentile spirto, non lassar la magnanima tua impresa.” PETRARCA

La lettera su M è stata rimandata a me, io l’ho ricopiata e, come hai visto, te l’ho rimandata, tale e quale. Lo stesso non m’è capitato di L’affaire est dans le sac, lettera più preziosa poiché scritta in un particolare momento di allegria consono al temperamento agile e buffonesco del film e dei suoi autori. Se andrà perduta (e ormai è quasi sicuro, anche se sarai in grado di illuminarmi sull’ufficio di censura) è, credo, una buona pagina perduta per il libro, perché è impossibile che quell’euforia ritorni e ritorni quello stato di comprensione per quei cappelli, quell’auto, quei pagliacci.

Sono del parere, anzi, rimango del parere che Loverso legga Bianco e nero anche se non lo dà ad intendere (ricordati che Loverso scrisse sulla rivista, anni fa, due articoli di economia cinematografica). Ma dopotutto la faccenda è di nessuna importanza: hai visto, litighiamo fra noi, e ci occupiamo di Loverso! A proposito di definizioni, la definizione di “fluviale” per l’uomo, e per l’artista Bacchelli, non è certo nuova e originale. Cose di dieci, vent’anni orsono: della Ronda forse (si vede che ho letto Hermet!). In un punto preciso di Saroyan, e in molti punti di Dos Passos (specie in New York), si nota un montaggio per tagli di maniera nettamente cinematografica: l’autore interrompe e, con la massima, indifferenza, passa ad altro bruscamente, salvo tornare, di lì a poco, al punto di partenza. Ma in Dos Passos c’è quasi sempre un meccanicismo a freddo: quel punto di Saroyan era invece perfettamente giustificato e naturale (a proposito di quest’ultimo, dirò che la prefazione di Elio Vittorini al libro è bella ma non è sufficiente). Una lettura che si fa esclusivamente per cultura o per curiosità, è quella dei famosi cinque canti che l’Ariosto avrebbe avuto in animo di aggiungere all’ultima edizione del Furioso. Io ho l’edizione curata da Baldini per gli “Scrittori nostri” di Carabba, collezione diretta da Giovanni Papini (1915)372. Non c’è più nulla del grande poeta: tutto è annegato in una mediocrità senza sprazzi; Baldini dice che è pazzesca l’ipotesi, da alcuno avanzata, che questa – diciamo così – appendice non sia dovuta all’Ariosto stesso: ma veramente c’è da pensare che, se anche è storicamente e filologicamente provato che questi canti son di pugno di Ludovico vecchio, quest’uomo che scrive questi canti sembra sul serio un “altro” uomo, un “altro” poeta: quasi un poeta che ricalchi e prenda in giro se stesso. 7 “Come si arrota e non ritrova loco

né in ciel né in terra un’agitata polve, come nel vase acqua che bolle al foco di qua di là, di su di giù si volve: così il pensier gira…, è poco in questa parte e quella si risolse.” I cinque canti di Ludovico Ariosto fatti pubblicare da Virginio Ariosto nel 1545: III, 54 Appunto: il mio pensiero adesso, replicando punto per punto alle obiezioni e delucidazioni della tua lettera, minaccia di girare a vuoto e di non risolversi e non fissarsi. Ma io mi costringerò sempre ad una chiara e semplice brevità. Quanto al caso Wieininger, mi sono spiegato anche meglio in un’altra lettera. Cioè: che ci posso fare, s’io ci vedo un grand’uomo? (né sono solo: Papini, Borgese etc.). Tu forse ignori e deprezzi il buono che c’è in Heine, e in Medelssohn, Dupont, Chagall, Modigliani, Jouvet? No certo. Oh, io non sono “dall’altra parte” come tu dici (non aver paura!); sebbene sia, come tu anche dici, perfettamente ignorante del problema ebraico, li sento ai miei antipodi per istinto materiale. Ma, credi pure, non è il “bando dall’umanità” la via giusta per combattere questi nemici: sarebbe, da parte nostra, un atto di paura di viltà e, manifestamente (sorridi!) di inferiorità. Il libro di Céline manca di consistenza dialettica: è al massimo un brillante saggio di grottesco esasperato (alla maniera ebraica, appunto: v[edi] Chagall, von Sternberg). Non è, io credo, la maniera forte quella opportuna, almeno ora: essi dovrebbero esser vinti con le loro stesse armi, devono morire impiccati dai loro stessi istinti. – E per far la pace, almeno su quest’argomento, ti offro questa delirante pagina di Céline: rileggiamola insieme, e assieme godiamocela: “Dine! Paradine! Crèvent! Boursouflent! Ventre dieu!… 487 millions! d’empalafiés cosacologues! Quid? Quid? Quod? Dans tous les chancres de Slavie! Quid? de Baltique slavigote en Blanche Altramer noire? Quam? Balkans! Visqueux!

Ratagan! de concombres!… mornes! roteux! de ratamerde! Je m’en pourfentre… Je m’en pourfoutre! Gigantement! Je m’envole! coloquinte!… Barbatoliers? immensément! Volgaronoff!… mongomoleux Tartaronesques!… Stakhanoviciants!… Culodovitch!… Quatre cent mille verstes myriamètres… de steppes de condachiures, de peaux de ZébisLaridon!… Ventre Poultre! Je m’en gratte tous les Vésuves!… Déluges!… fongueux de margachiante!… Pour vos tout sales pots fiottés d’entzarinavés!… Stabiline! Vorokchiots! Surplus Déconfits!… Transbérie!…”373 (Noti in Céline, io credo, la controprova della verità manifestata più sopra.) 8 “…esige, il mio temperamento, che io conduca un lavoro ininterrottamente, come preso da febbre.” PAUL GAUGUIN

E opere condotte ininterrottamente, come in febbre preziosa di creazione spontanea e, nello stesso tempo, da lungo preparata e perciò riflessa, mi sembrano le due maggiori di Verga, Mastro don Gesualdo, rappresentando non una diminuzione o, peggio, una ripetizione nei riguardi dei Malavoglia, sibbene una integrazione condotta e sofferta su un medesimo, altissimo piano d’arte. Lo stile agile e filtrante dello scrittore – da cui deriva in linea diretta la prosa del suo “compaesano”, il Pirandello – dipinge caratteri, rileva impressioni, riscalda un ambiente e passa dal grottesco al comico al pittoresco al lirico con la medesima vena interiore raccolta ma dominante, senza concessioni folcloristiche e senza bisogno né d’un verismo eccessivo, né di lunghe, estenuanti analisi psicologiche. Io non conosco, ripeto, in nessuna letteratura, romanzi che come questi due italiani, ancor troppo poco conosciuti – anche dopo l’edizione mondadoriana e l’invito di Bontempelli374 –, riescano a drammatizzare e a coordinare il tutto sotto il peso

d’una ispirazione così rapida, così scarna e così continua. Si noti come – eccezion fatta per le Novelle – tutti gli altri lavori del Verga non possano neppur lontanamente reggere il confronto coi Malavoglia e con Mastro don Gesualdo: il che è un’altra palese e convincente riprova della ispirazione ininterrotta “bloccata” – diciamo così – dall’autore per quei due capolavori. Ma lasciamo il Verga sul suo piedistallo intoccabile (ti vorrei parlare a lungo dello “stile” di Verga, delle sue accensioni, della sua sobrietà; ma niente di originale e di necessario proporrebbe il mio discorso), e torniamo ai nostri interessi, alla nostra importante polemica. C’è dunque, ora, il capitolo sull’“intenzionalità” a proposito del particolare dell’acqua e della donna in Duvivier. È da notare, anzitutto, che tu in tutta la lettera ti poni volutamente su un piano didascalico troppo acceso, avendo tu interpretato le mie obiezioni come incomprensioni col risultato o di scrivere pagine utili come questa “dell’intenzionabilità in arte”, o di falsare completamente i termini della discussione; come spero di dimostrarti in seguito. Qui, ad esempio, come mai tu ritratti nuovamente a proposito di quella battuta di Schangai, mentre pur mi davi ragione qualche tempo fa? Eppure la questione, ecco, dev’essere affrontata nei medesimi riflessi logici e interpretativi (ti vengon perfino certi dubbi, e mi poni certi quesiti! Per esempio: “concedi – mi domandi, dopo tanto tempo che mi conosci – che l’arte possa essere suddivisa in varie espressioni autonome? Cioè prosa, poesia, teatro, cinema, pittura, eccetera?” Eh sì, concedo). Alle corte: la mia convinzione era ed è questa, e tu in caso dovevi controbatterla direttamente invece di dilungarti – seppure, come ho osservato, utilmente – su una inopportuna esplicazione della intenzionalità: nonostante la inquadratura visibilmente studiata nella angolazione e nella illuminazione – in rilievo il gesto dell’attore e improvviso l’apparire, nel quadro, della donna ormai inattesa –, nonostante – dico – la evidente cura offerta dall’autore per il quale la “intenzionalità”

potrebbe essere pienamente affermata; nonostante lo sforzo interpretativo di Gabin, il pregnante silenzio della colonna musicale, eccetera; io ritengo che l’accostamento simbolico non sia per niente raggiunto: pensato forse, ma è sapienza nostra che accenna a quel senno di cui “son piene le fosse”. Forse, qui, era indispensabile un montaggio alla Ocep del Cadavere vivente375 (vedi il tuo articolo “Simboli e analogie” dove pure, io ben ricordo sai, quel troppo insistente ed elementare simbolismo era bollato); forse qui si potevano inserire paragoni tra un primissimo piano di Gabin e il Rutten di Acque Morte376 (uomo che beve), eccetera, eccetera. Le possibili intenzioni, in fondo, non interessano, quello che interessa è quello che l’autore ha voluto ma, soprattutto, ha saputo darci: e qui dimmi tutto quello che vuoi, citami pure Dante e Balzac e Tolstoj e i rami della filosofia, ma secondo me il significato dell’accostamento è tutt’altro che centrato, specialmente per un intenditore. E non è “centrato” per una ragione, appunto, psicologica (ecco la tua psicologia, ch’io non ributto!): l’impressione dell’esasperato apparire della donna, dell’uomo che si disseta e quindi – data anche l’angolazione – sullo spettatore, è tale da cancellare sul momento, da bruciare addirittura (e non dirmi che l’accostamento sarebbe preesistente) ogni possibilità di comparazione e di raccordo. Ράπτειν (ràptein) vuol dire “cucire”, in greco classico: e rapsodi, “cucitori di epos”, erano i predecessori tutti di Omero e poi anche, in un senso assai nobile, Omero stesso: ed è appunto per questo, intenso, diffuso ράπτειν, che in Omero – non ve lo siete mai domandato? – mancano i culturali, i raffinati “colpi di scena” (…volevo scriverlo in francese ma non ne fui capace!). Il contrario eccede in Duvivier, e non solo in una particolare sequenza: a colpi d’emozione viene ucciso il calmo e paziente raccordare. Tu dici: “io credo che da qui non puoi scappare. Devi accettare una delle soluzioni che ti espongo”. Vedi invece ch’io son scappato, e ben lontano anche. Ma ne valeva (e ne vale tuttora, se tu nuovamente controbatterai) la pena: perché

da un piccolo particolare s’è aperta una notevole questione di estetica, che tra l’altro t’ha fatto scrivere tre o quattro pagine significative, che possono entrare nel libro (e prima, eventualmente, in un articolo per rivista). Soprattutto l’identità “costruzione = creazione”, tipica del cinema, m’è piaciuta. Tu chiedi: “Perché accetti l’intenzionalità dei simboli di Mamoulian, o di quelli di Machatý, e non l’intenzionalità di quella battuta di Schanghai, di quel parallelismo acque-donna di Pépé?” L’ho detto a sufficienza, credo: in Duvivier non c’è simbolo ma – forse – tentativo; in Pabst la battuta è gratuita e “non vuol dire niente”; in Machatý e in Mamoulian c’è simbolismo, o lirico – come spesso nel primo –, o a guisa di leitmotiv – come sempre nel secondo –. Tu osservi: “a parte il fatto che la cosa si potrebbe risolvere più semplicemente consultando la sceneggiatura iniziale”. Ecco uno dei tipici casi in cui la sceneggiatura non ti dice tutto: il film esiste solo sullo schermo. L’ultima tua obiezione, con Nichols: “Il simbolo è valido quando nessuno s’accorge ch’esso è un simbolo”. Esatto, anche se paradossale: ma qui, in Pépé, non solo manca il simbolo, manca anche l’effetto del simbolo. Se non vale completamente la spiegazione psicologica che ho tentato, vale – almeno per me – la mia intuizione, di cui mi fido, ma che posso anche rinnegare qualora un convincente ragionamento altrui mi dimostri l’errore sopportato. 9 “La Vita è tremenda, spesso. Viva la Vita!” Introibo n. 9 di Lacerba, anno I, n. 1, 1 genn[aio] ’13 Dal momento che ho citato Lacerba, che fu creatura di Papini soprattutto, mi piace ripetere con Papini che io apprezzo molto le persone che, per amore dell’arte e per necessità di approfondimento, cadono continuamente, oppur raramente (quest’ultimo è il caso tuo – anche mio! – del resto), in

contraddizione con le proprie opinioni: perché la contraddizione, come – wildianamente – la discussione su un’opera nuova, è indizio di vitalità, di serietà, e di passione. Tu stesso sei d’accordo, scrivi: “E si può brancolare a lungo tra i tentativi, fino a che si individua la formula giusta, il centro vivo della questione”. Id est, la perla. Dimmi Jusik: quante mai perle abbiam trovato assieme? Non dirmi che di Giovannetti conosci solo le cose ch’egli settimanalmente scrive su Cine-illustrato, su Annabella, e simili fogli (ma eri proprio arrabbiato con me?!?). E il G. di Film, di Il Cinema e le arti meccaniche – almeno qualche pezzo. Di Ugo Spirito, introdotto da Barbaro, c’era un convincente – dal mio punto di vista – pezzo su Bianco e nero. E non dire che nell’Ariosto di Croce, l’Ariosto non c’è: anche a me piacciono le esagerazioni (io trovo antipaticissima questa affermazione di Cartesio: “prendendo la via di mezzo nel caso che avessi sbagliato mi sarei trovato sempre meno lontano dal retto cammino che se avessi preso uno dei partiti estremi”),377 ma… non esageriamo troppo: senza il saggio, la messa-apunto, di Croce, non erano concepibili (e gli autori stessi lo riconobbero) né il brillante e simpaticissimo libro di Raniòlo,378 né il sottile lavoro interpretativo di Attilio Momigliano (Saggio su L’Orlando Furioso, ed. Laterza): che sono quanto di più esatto la critica ariostesca abbia dato accanto a un troppo breve profilo di Formiggini, scritto da Giulio Bertoni non ancora accademico.379 Sia il Croce che, poi, il Raniòlo e il Momigliano, hanno davvero, stavolta, dapprima corretto e, poi, integrato il capitolo desanctisiano della Storia della letteratura e, soprattutto, delle “lezioni” sull’Ariosto. Croce fu, ed è, sì un erudito; ma è notevolissima la vena che lo mantiene intelligente anche in mezzo a tanta erudizione. Tu mi dai per modello Ruskin e Bontempelli: d’accordo, quella è la via: e Sainte-Beuve, non Janin: e De Sanctis, non D’Ovidio; ma bada bene che Ruskin, spesso, costruisce a vanvera, su se stesso non sul testo (soprattutto Mornings in Florence e, credo, anche The Stones of Venice); e che

Bontempelli, per amore del nuovo, falsa tutto un personaggio e tutta un’opera – l’Aretino –, e del Verga, se dà alcuni osservazioni esatte (ma non sufficienti) sui Malavoglia, se la sbriga in un modo troppo impreciso e frettoloso con Mastro don Gesualdo: sì da dar l’impressione, dopo tutte le sue prediche, ch’egli a sua volta non conosca l’opera! Ora siamo arrivati a Carné, ed è questo, in fondo, il piatto forte della nostra discussione. Io ti premetto che, non avendo innanzi la mia “trilogia” di lettere, tante volte non sono in grado di ricordare tutto e di capire tutti i tuoi ragionamenti. Ho però l’impressione generale, che il tuo sforzo esplicativo sia, in sostanza, del tutto gratuito e, se non altro, eccessivo! Accidenti: l’Albania e le preoccupazioni, va bene (adesso come avrai letto, viene un altro generale, e speriamo che tutto si metta a posto); ma fino a questo punto d’intorpidimento, no! Anche sul fatto del “temperamento implicito” di Arletty, ti sei ingannato: hai fatto d’una mia battuta, che voleva essere esclusivamente scherzosa, un esempio di paralisi mentale. Eh sì, avevo capito quel che volevi dire! 10 “…non ho quasi mai incontrato un censore delle mie opinioni che non mi sembrasse o meno rigoroso o meno equo di me medesimo.”380 CARTESIO

In osservanza a questo “principio” di Cartesio, riconosco che in diverse cose ho avuto torto, in quanto le mie precisazioni erano troppo negativamente impostate. Alla stessa stregua, si potrebbe distruggere la massima parte della critica moderna (e, ti assicuro, non soltanto cinematografica). E che si costruirebbe, al suo posto? Talvolta, ho scritto delle vere, importanti stupidaggini: tu dici ch’io ho detto: “non giustificare psicologicamente un poeta: poeta-uomo forma

unità inscindibile”. No Jusik, io non ho scritto questo! ma quando, dopo lunghe e dolorose peregrinazioni, dopo altre letture e altre lettere, e – magari – altre stupidaggini, dopo affannosi atti di rimorso e di pentimento da parte dei miei superiori, io, ottenuta una “breve” licenza, giungerò alla stazione di Milano, e tu sarai sulla pensilina ad aspettarmi (eh sì: dovrei aver donne, e invece ho un uomo con barbetta; ma non mi dispiace), appena sceso dal treno, prima ancora di abbracciarci o di dire una sola parola, tu mi dovrai mostrare la mia lettera con questa frase sottolineata in rosso! Mi soffermerò sui punti più importanti, quelli che implicano discussioni feconde. Dante più grande di Ungaretti? Euripide più grande di Dos Passos o di Wilder? Tu scrivi: “Mi cadi qui, sostenendo il contrario, della più perniciosa utopia crociana”. Ammettiamo pure che si tratti di utopia: in tal caso, però, che vengano tante e tante “utopie” di questo genere, a scalzare, per lo meno, altre utopie secolari e assai, assai più perniciose; ma quel che vorrei, è che tu mi spiegassi – e davvero chiaramente stavolta – la ragione intima e profonda di quelle tue asserzioni. Io da solo non ci arrivo. (Vorrei soltanto che tu levassi Ungaretti: Ungaretti non lo conosco. Metti Montale, magari: è vero, tu puoi mettere Montale?) 11 “I vasti avvenimenti sono veduti solo da quelli che si trovano a grande altezza.” OSCAR WILDE

Bisogna che, un giorno, ci mettiamo definitivamente d’accordo coi termini: altrimenti, rischiamo di parlare due linguaggi non-comunicanti! Poeta è, per te, chi scrive poesia: e allora perché chiami “poeta” Clair? Io, viceversa, interpretavo “poeta” come ποιήτηεσ (già te lo dissi: poiètes: colui che fa, id est colui che “crea”). Tu, troppo ristretto; io, troppo ampio. Bisogna – ripeto – conciliare: oppure – che è anche meglio –

limitare l’uso di questo e di simili termini a un senso, dirò così, assoluto, e non come contrapposto ad altri, e come elastico vaneggiare di concetti (ossia: nel libro, invece di: “Pabst è meno poeta di Clair, perché è meno sensitivo, meno sentimentale, meno sognatore… etc.”, scriverei: “Pabst è meno sensitivo, meno sentimentale, meno sognatore… ecc., ecc… di Clair”). La tua parola “porta” alla fin fine, questa bellissima parola, applicata a Loti o a Pierre Louÿs, oh è caduta assai in basso! Ed io che andavo a credere al ποιήτησ: che salto! Tu parli spesso di un Clair poeta (nel tuo senso), di un Clair sentimentale, di un Clair che compone “sottili elegie”. Quasi tutto il Clair che conosco (e ti assicuro, è il migliore) non è così. Quel che tu sembri definire posa parigina, è la sostanza indistruttibile della sua arte: non è il suo rivestimento, è la sua carne. Dov’è che il cosiddetto “spirito” di Clair va a freddo? Quasi mai; tolte, s’intende, le prime esperienze. E questo, credi, è il vero Clair, l’inimitabile, il resistente: tant’è vero che Camerini s’è gettato (ed – anche – ha potuto sviluppare) sui barlumi dell’altro, del “tuo” Clair. Tu mi chiedi, a proposito di 14 luglio qualcosa che ti dia torto: io, come sai, non conosco il film; ma il Pasinetti, se non erro, parla fin troppo a lungo della sequenza del vecchio ubriaco che non desiste dal suo tentativo di uccidersi, e di altre: e, sarai d’accordo con me, è ancora il “mio” Clair: il Clair che salverà quasi tutto il Fantasma Galante e un brano di Break the News! A proposito di Leopardi, non saremo mai d’accordo: ma pazienza, non parliamone più (se però in Leopardi tu cerchi Quasimodo, ti consiglio Il Canto del pastore errante). Non ricordo perfettamente, ma io non ho detto “raffinato, sublime e ‘carino’” Gide: non lo conosco neppure. Ho sentito dire: questo sì.

Posso sbagliare, ma mi pare che di Pabst tu conosca solo il secondo Pabst, quello nuovo: da Atlantide in avanti. Paragonandolo con Pabst, dici che Carné lavora su materiale umano, sociale: dici “tant’è vero che…”; ma non posso accettare questo “tant’è vero”. Di questi tempi, lo riconoscerai tu stesso, soffri un po’ di mania – come dire? – “secondaria”: il secondo Clair, il secondo Pabst, il secondo Duvivier (la “teoria dei punti salienti”, ch’io ho accolta in pieno per Carnet di ballo, ad esempio, non sempre serve per Poil de carotte, per Maria Chapdelaine). Poco male, in quanto noi dovremo lavorare soprattutto su testi ultimi. Mi fai un lungo discorso per dimostrarmi che Dreyer non ha preso “da sé”. Tu osservi: se non avesse fatto questo, letto questo e quest’altro, passate tali esperienze ecc., egli “non sarebbe mai diventato Dreyer”. Appunto: Dreyer: il Dreyer che “prende da sé”. Io non parlavo di Carl Th. – feto: parlavo di Dreyer arrivato – addirittura dell’autore del Vampiro. Perché, ci son molti che “arrivano”; ma quando creano, creano con altrui teste. “C’è l’autore” – dici – e c’è l’opera. L’una cosa spiega l’altra. (Che l’opera poi viva di per sé – aggiungi – una volta portata a compimento, è altra cosa.) Altra cosa, sì: ma era quella, appunto, da cui io ero partito per la mia precisazione: e tu me la limiti in parentesi. Spesso tu fai questo, nella tua lettera, anche senza accorgerti, anche senza porre – materialmente – la parentesi. Ma perché tu segui il filo del tuo nuovo ragionamento, e non ti curi di ribattere me (tant’è vero, che anche di domande estranee ch’io mi ricordo d’averti rivolte, non mi dai soddisfazione). D’altra parte, non credere (anche tu non avrai il testo sottomano, immagino) ch’io in questa mia vada a prendere con le pinze le frasi che mi convengono. Anzi, te lo giuro, è proprio il contrario: tante volte sorvolo sui tuoi evidenti errori. 12 “Noi non possiamo ritornare ai santi,

perché c’è assai più da imparare dai peccatori.” OSCAR WILDE

Le tue domande angosciate “quest’altro Clair, dimmi Ugo, qual è?”, non sono giustificate. Evidentemente ci siamo capiti malissimo. Ma io vorrei invece che tu mi rappresentassi un po’ il tuo Clair, il Clair poeta sentimentale ecc.: per 14 luglio non so, ma credo che saresti molto imbarazzato col pallido esempio di Sotto i tetti di Parigi. “Non ci sono punti salienti in sordina presso Duvivier, come ce ne sono invece in Ford”: con la limitazione espressa più sopra, è frase assai acuta. Una perla. L’osservazione sulla mia testa longobarda che “diventa barese”, non mi soddisfa completamente. Perché proprio “barese”? Perché non, addirittura, “albanese”? Saresti più esatto. Oh infatti, quando ritornerò, non sarò più l’Ugo ch’è partito. Su Pabst esteta, Clair contenutista, Dreyer magnetico, m’hai convinto. Vorrei tu avesse presente, tuttavia, che le mie riserve su queste distinzioni non erano da prendersi assolutamente, ma inquadrate col ragionamento (o sragionamento) precedente. Son stato “portato”, ecco: tuttavia ho sbagliato, sebbene – e te lo dimostrerò a voce, perché il fatto coinvolge un po’ il problema dell’arte, e perciò del libro – la mia posizione non fosse sbagliata in pieno. (Soprattutto, questo “problema” dell’arte, non è in me ancora ben fissato – e credo, neppure in te: sarebbe un disastro! –: perciò non ritengo utile insistere per iscritto sull’eterna questione contenuto-forma. Do ragione a Baldini: meglio evitare.) Con quest’ultimi tuoi ragionamenti, Carné si può considerare definitivamente esaurito. E Alba tragica (no, metteremo Alba tragica; ma non mancheremo di accennare, di sfuggita, ad altri titolo: “Nasce il giorno”, “Un’alba sorge”) riuscirà uno dei testi più completi. Tu dici che, quasi t’esprimi con segni: né io m’offendo, se tali “segni” mi dànno la conclusione su un autore con chiarezza non solo di parole ma anche di concetto. (Definizione: Carné, o l’uomo arido?)

In sostanza, riconosco il mio errore nell’essermi soprattutto accanito contro le definizioni. Eh sì, talvolta le definizioni sono utili, anche in arte. Ma attenzione: è la definizione che deve sgorgare dal ragionamento e dal cumulo delle impressioni, e non viceversa! E tu scagliami la pietra se non ti ritieni, in passato, colpevole di questo “viceversa”! – Tuttavia ho, anche, questa gradita impressione (che ti manifesto ora che son quasi giunto alla fine): che nella nostra discussione ci teniamo su piani differenti, noi in sostanza non ci elidiamo a vicenda. Rileggi alcune mie frasi su Clair e, specialmente, su Carné, e te ne renderai conto. E questo è bene. (Una piccola parentesi: avevo promesso di sorvolare su qualche tuo errore evidente, che sfugge nel complesso della lettera; ma siccome qui mi dài addosso troppo forte, mi difendo. È a proposito di quella somma di eguaglianze cuore = sentimento = abbandono = poesia e cervello = pensiero = ragionamento = costruzione; ricordi? Prendi la mia lettera: d’accordo che la colpa d’avermi fatto sbagliare è tutta tua, avendo tu scritto cuore e cervello, e non cervello e cuore? – Allora siamo a posto.) Difendo anche la mia definizione: “un verismo superato mediante una forte messa a fuoco di particolari fantastici”. Ho sottolineato l’aggettivo, appunto perché volevo che tu lo interpretassi in un senso un po’ speciale; nel senso di “fantasiosi”, quasi. Infatti il verismo non dà arte quando la riproduzione della realtà è banale e continua, è, diciamo così, regolare; ma quando gli elementi degni di “messa-a-fuoco” e di sviluppo son prescelti dalla “fantasia” dell’artista (e a proposito di Carné tu dirai: cervello; e io direi: fantasia controllata, costretta e perciò “arida”). Termino in sordina…: son talmente basso da abbandonare Carné per un bel pezzo di carne, che da tempo, oh da tempo! – mi attende.

Ti abbraccio affettuosamente. Ugo

Milano, ottobre [1942 – XX] Caro Ugo 1. Per Venere cieca, io naturalmente sono incorso in errore. Non di Bernard, ma di Gance è il film. Mi consolo al pensiero che avevo notato esserci influenza di Gance. Guido mi ha reiteratamente assicurato di averti scritto. Costringerlo alla carta e penna a mano armata è idea che, dopotutto, non mi va. Io ritengo che possa sussistere e sopravvivere; senza le terse prose del buon Guido. 2. Ti ringrazio per Poggio Fiorentino. Ora so, mentre prima ignoravo. Ciò è assai bene. No io non ammetto Moravia. Proprio perché non riesco a scindere l’opera d’arte dal suo significato di “messaggio” intimo, spirituale, morale. Moravia può scrivere benissimo (e io so che egli usa gli elementi stilistici adeguati al suo mondo: è “funzionale”), ma io non ammetto il suo mondo, se non come “testimonianza”, “documento”. L’arte è amore, è affermazione; affermare una negazione è fare un buco nell’acqua. Poi, mi dissero che La mascherata offende a vivo le nostre (o almeno, la mia) più care convinzioni politiche.381 Eh no, io non mi farei mai imbrogliare da un bel luccichìo stilistico! Per me contano di più le cose spirituali che quelle materiali: per cui dò più importanza alle cose dette che al come son dette (questa dovrebbe essere la mia unica fede.

Naturalmente, io mi contraddico. Troppo. Dipende dal fatto che sono un individuo malfatto). (Ma chi, porca miseria, osa sostenere che io valga qualcosa? Che io mi elevi dalla mediocrità? Se non per tentativi, per aspirazioni, per intenzioni). Insomma: io aspiro alla civiltà, e al superamento di quel che c’è in noi di basso, di bestiale, di deteriore. Moravia invece demolisce la civiltà, esalta quel che abbiamo di basso, di bestiale, di deteriore. Perciò mi è insopportabile. È come l’immagine della bestia che è in me, che voglio uccidere. L’ultimo libro di Papini ch’io riesco a sopportare è il Dante vivo. Di Italia mia, penso assai male cose. 3. Saroyan è per me costantemente in pericolo. Un passo di più e cade nel sentimentalismo, nel meccanico, nel manierato. Ho l’impressione che talvolta gli pesi a fare “il Saroyan”. Ma quando si salva, quando trova la sua esatta misura, è insuperabile. Il gatto è un piccolo gioiello. Il più bello, anche se luccica meno degli altri. Il Satyricon? Porta seco un’umanità così diversa dalla nostra, che mi pare cosa d’altri mondi. Una mitica preistoria perduta. Solo la “cena” è universale: cioè esprime cose che nell’animo dell’uomo sono indistruttibili. 4. L’atroce supplizio d’essere amati? Sarà vero per Rilke. Per me no. Per me, invece, è morte il non essere amato. Io non posso vivere solo. 5. Ma no, perché dobbiamo scusarci? Caro Ugo, io potrei anche tirarti una sedia in testa, ma non per questo t’amerei di meno. Tu mi trattasti male, io ti ripagai con egual moneta. Siamo pari. E non contano le parole, ma la risultante. Il fatto è che ora ci siamo capiti, e andiamo d’accordo, grosso modo. O almeno, enormemente più di prima. Dico, su questa questione. 6. Ma si, ritroverai la vena buona per L’affaire est dans le sac. Sennò? Non credo che la critica sia un qualcosa che è

saldamente dentro di noi? Non solo l’euforia del momento. La simpatia? Ma questo è romanticismo! 7. Gli ebrei? Eccoti il mio pensiero. Io penso che l’umanità debba tendere all’assoluto, alla perfezione. Ora, a queste cose gli ebrei non possono giungere. Essi sono il “nonessere”. Per cui ci sarà del buono in Heine, in Dupont, Modigliani, eccetera. Ma mai tanto da giustificare il male che c’è. E l’intenzionalità del male. Gli ebrei van messi al bando perché son dei delinquenti, dal punto di vista intellettuale e spirituale. I negatori. I distruttori. Tu credi sia “viltà”, o “paura”, o “interiorità” quella della legge che incarcera i ladri, gli assassini? Per il male che gli ebrei hanno fatto al mondo e fanno tuttora, ci vuole proprio il “bando dall’umanità”: metterli in condizione di non nuocere. Perché chi ha l’animo sano, resiste: ma chi è debole, indifeso, scoperto, come à da fare? No, negli ebrei non c’è del “grottesco esagerato”. In Chagall, non ce n’è. C’è un’enorme putrida malinconia. E Céline è pazzo, è esaltato, è nevrastenico, ma è in linea con Rabelais (subito m’è balzato il confronto, sai?). Conosci la Crocifissione382 di Guttuso? Ebbene, ebreo è Guttuso. Vedi, alla fine. Non è questione di pura diversità biologica. I giapponesi ci sono agli antipodi: ma la loro civiltà è una civiltà. Così i cinesi, così gli indiani. Ma gli ebrei non ànno civiltà, e tendono unicamente a distruggere l’altrui: per stabilire l’impero della loro negatività. Ciò accade non solo nell’arte, o in politica, ma anche nella vita pratica. Sempre. Bada bene, io non la cerco la causa del fenomeno. Non mi domando perché sian destinati gli ebrei ad essere la feccia dell’umanità (il vangelo mi direbbe, però, perché). Io contesto. E prendo posizione. Che si fa del ladro? Lo s’imprigiona. O della piaga verminosa? Si taglia. Così l’ebreo va segregato, rinchiuso, allontanato. Questo fanno in Germania. E io dico che se la civiltà europea sussisterà, sarà solo merito della Germania. Proprio per questo. 8. Non ho mai letto una riga di Verga. Salvo la Cavalleria rusticana a scuola. Sei anni fa. Per quel simbolo di

Duvivier: dunque, l’intenzione del simbolo c’era, è marcata la realizzazione del simbolo. Idem per quella battuta di Shangai: l’intenzione polemica c’era, ma non è stata concretata, non ha assunto il risalto necessario (infatti, la scena è di continuo ripresa in C. T.). Per Shangai, Marisa è d’accordo meco. Ti va l’identità “costruzione: creazione”? Trasportata sul piano generale, a tutte le arti comune: avrai l’estetica di Valéry. Va bene che il film esiste solo sullo schermo. Ma se nella sceneggiatura di Pépé le Moko fosse scritto: “Pépé beve dell’acqua, e come una sorsata d’acqua fresca gli appare Gaby, all’angolo della strada”, non sarebbe tutto molto chiaro? 9. Dante è più grande di Montale perché è più vasto. In Dante c’è dramma, tragedia, epos, filosofia, architettura, teologia, matematica, poesia, polemica, odio, amore, e mille altre cose. In Dante c’è “tutta l’umanità”, di ieri, di oggi, di domani. Tutto quel che l’uomo può pensare, sentire, vivere, c’è in Dante. In Montale invece c’è un uomo solo, che dice i fatti suoi, che racconta le sue sensazioni, le sue cose. In Dante tutti gli uomini possono riconoscersi, riconoscersi in Montale vuol dire cercar di essere come Montale, subìrlo. Dante è il tutto, Montale è una parte. Dante è l’eternità, e Montale è il giorno. Così Leonardo in confronto a Picasso. Beethoven in confronto a Schumann. (So di non averti convinto. Eppure non avrei mai creduto una tua obiezione in quest’argomento. È così logico! La Comedia e Ossi di seppia? L’aquila e il pollastro! – se vuoi, il “pùlaster”.) Un verso di Montale può valere un verso di Dante. Ma Ossi di seppia non può valere la Comedia. 10. D’accordo sulla definizione di “poeta”. D’ora in avanti useremo sempre la parola nel suo significato. Il Clair sentimentale, che compone elegie, è quello di Sotto i tetti di Parigi, in cui non c’è una sola nota comica o satirica. Tale

dev’essere 14 luglio (sequenza della morte della madre di Annabella; il funerale). Il Clair che va “a freddo” c’è, secondo Pasinetti, nella sequenza del “balletto” di A noi la libertà. Così pure nel Milione, pare ci sia dello “humor” a freddo. 11. In questo periodo non penso al libro, non provo per lui interesse forte. Ma forse sarebbe bene tu cominciassi a redigere: saggi parziali per la rivista. Su Pabst, per esempio. O “Ford”; il Carné. Se ti occorre materiale, te lo copierò, te lo invierò. Però, fai questo se hai possibilità di farlo. Certo è che nel libro si darà aspetto compiuto e definitivo agli appunti previamente pubblicati su Bianco e nero. 12. Pietrangeli mi scrive che pubblicherà “I confini e la poesia” ma con una stesura emendata. 13. La bella addormentata non mi è piaciuto affatto. Alfa tau è bellissimo, ricchissimo di cose meravigliose. È diverso da Uomini sul fondo, ha un altro ritmo. Ma è più evoluto, più colto, più raffinato. Meno primitivo, meno essenzialista. 14. Pare ci faran vedere La bestia umana. E un E le stelle stanno a guardare ch’io so di produzione inglese.383 15. Col che, caro Ugo, ti saluto, debbo studiare elettrotecnica, e Fisica tecnica, e Impianti industriali chimici. La radio suona il valzer di Romantica avventura.384 Stammi bene. Ti abbraccio Jusik P.S.

È cosa estremamente probabile ch’io non possa scriverti più, e per un periodo lungo di tempo. Non so; può accadere. Ti prego, non interpretare male il mio silenzio, e non scordarti del tuo vecchio amico.

5 novembre 1942 – XXI Carissimo Jusik, iersera fu per me una sera felice, perché ricevetti un’importante lettera di Bandini su Tutto il mondo ride, La bestia umana, Alfa Tau e, rimandatami espressamente – copiata a macchina –, la lettera mia su L’affaire est dans le sac! Quest’ultima, rileggendola a distanza, mi appare assai più scialba che non credessi, ma alla fine è mio dovere portarla a tua conoscenza. La ricopio perciò tale e quale. *** Settegiorni è un giornale-rivista che mi piace per alcune ragioni, per altre mi ripugna. Cosicché non lo leggo mai tutto; ma per quello che leggo, lo faccio con molta attenzione. Le critiche pittoriche, letterarie, artistiche in genere ad es.: qualche rara novella; qualche ritratto storico. L’ultimo numero portava un ottimo, al solito, ritratto artistico-letterario di Edilio Rusconi (sulla Manzini; un po’ chiuso, ultrasensibile e variegato Rusconi, forse; alla fine tuttavia convincente); uno spiritoso pezzo di Mosca385 su una commedia di Niccodemi (di fronte a opera scialbe, o sorpassate, piacevoli conversatori come Mosca e Loverso – sì, l’asse Moscaloverso – rappresentano l’ideale; vedi come si fa scorrere quest’ultimo specie quando divaga, quando insomma non parla di cinema; e qui, in questa brillante recensione alla commedia ottocentesca e polverosa, Mosca è di vena, unendo anche alle sue consuete stoccate surreali qualcosa del fascinoso stile di Ferdinando Palmieri, acerrimo nemico); alcune nettissime copiature di Loverso dal nostro articolo su Bianco e nero (vedi due

osservazioni sulla “fluidità” delle inquadrature) trattando d’un buon film di Rabenalt (sarà buono? e chi si può fidare?). Adesso sono alle prese col Mercante di Venezia shakespeariano, con un saggio sull’Estetica dell’Architettura, col solito Petrarca. Qualcosa ti saprò dire, come di consueto. È forte e convinta questa mia ostinazione di lettura, impegnativo questo mio programma, sincero questo più che desiderio, bisogno di apprendere e di mettermi al corrente; così come completamente sereno, anche se più che mai battagliero nell’intimo, è il mio carattere: fiducioso, sicuro, ardito contro il futuro (un po’ debole soltanto verso il passato; ma sul passato è opportuno porre talvolta una pietra). Credo che per un pezzo non scriverò più nulla, prima del libro ma anche dopo il libro – l’ho escluso insomma –: si vedrebbero troppo gli sforzi dell’interiore polemica, la smania, lo sforzo e lo sfarzo; penso che non vorrò, né potrò fare la “pagina d’occasione” su Duvivier, per Pietrangeli (potresti farla tu, ma davvero non ne vale la pena, credo); perché nei saggi di cinema noi non dobbiamo essere bassamente legati ad occasioni, a contingenze, tantomeno ora: siamo sempre stati elevati, non abbiamo mai ammesso la polemica perché l’abbiamo superata d’un colpo, ponendoci ad un’altezza assai superiore. Alla quale altezza sarà più facile colpirci, o almeno potremmo rovinare con maggior impeto; ma questa è un’altra questione; il nostro destino però, sia detto con decisione, presuppone lotta, sacrificio, poca pubblicità, molta nobiltà interiore. E i gazzettieri non prevarranno. Oh, per il libro… un nuovo cambiamento d’umore. Appena in licenza (fra una decina di mesi) comincerò a “licenziare” – appunto –, uno dopo l’altro, “a tutta birra”, come diciamo tra noi, articoli per Bianco e nero (visto il favore della redazione); saggi completi, appassionati, firmati – possibilmente assieme – assieme; con titoli del seguente tenore: TESTI RARI (oppure: A[p]pendice di testi rari); Un Carnet di ballo e il giudizio estremo su Julien Duvivier (ecco che saranno impiegati i cliscè di Pietrangeli: glielo puoi dire se hai occasione di scrivergli), un testo definitivamente proposto, Il Vampiro, un Alfa Tau con

introduzione su La nave bianca, Il traditore di John Ford, un breve saggio Dostoevskij e il cinema ecc. ecc. Tutti articoli scritti, però, tenendo ben presente la linea unitaria del volume. (Mi pare che questa sia una risoluzione ottima, in quanto mi permetterebbe, anche bibliograficamente, di concentrarmi, alcun tempo, e tempo per tempo su un determinato argomento, raccogliendo le energie e scavando con calore.) *** I fratelli Pierre e Jacques386 che hanno lavorato con limitazioni di tempo, con materiale scadente, sbracciandosi a più potere – è credibile – anche nel campo della pura fatica fisica; con attori appassionati ma, tranne qualcuno, perfettamente d’occasione; tanto che essi stessi hanno dovuto impegnarsi a rappresentare di persona le sbellicanti azioni che la loro fantasia – via per via – inventava, senza bisogno certamente d’indossare maschere tanto è connaturata, in questo film (è il suo marchio individuale di stile, la sua intima ragione d’esistenza), la sbrigliata, paradossale, “dolorosamente comica” evidenza dei personaggi con la impegnata “serietà umanistica” dei creatori; i fratelli Prévert il cui unico lavoro si presenta come una girandola d’imprevisto e d’impossibile, di acceso e di fantasmagorico; con un coraggio da non temere smentite, con una evidenza e una “faccia tosta” da sorprendere un americano (alle pazze, funambolesche avventure di Frank Capra, di La Cava, di Hawks registi, e di Arnold, di Jean Arthur, Powell, Grant, Stewart, la Hepburn attori, mai ci eravamo sentiti “soffocare” senza concessioni, si direbbe, alla morale e al buonsenso correnti); creature che sembrano folleggiare sui tesi fili d’una logica a-razionale, essi si presentano con un lampeggiamento distinto e folgorante sul cammino del cinema artistico ma con nessuna possibilità d’influenza o di sviluppo, dato anche il limitato numero di proiezioni (L’affaire est dans le sac non è citato nella storia del cinema, né se n’è mai sentito parlare da alcuno; fu presentato in unica visione alla Triennale di Milano, come La chienne387 ed altri film ormai rarissimi, con un breve cenno introduttivo a cura di Lattuada e Comencini); ed anche, non con una spiccata

individuabile ordinata essenza di motivazione rigorosamente filmica, piuttosto con una prepotente tesi clownesca e sociale di artisti, ma di artisti falliti nel giro di tutte le arti. Il film è insistentemente statico e parlato, e spaziante liberamente per le vie d’incontrollate “gags”; e personalmente indice d’una miseria notevole di realizzazione di bottega e di stampa; dimentico di tutto nelle poderose griglie d’una fantasia eccezionale, priva di direzione come di conforto. L’ispirazione clairiana è evidente, ma vissuta con forza che la rende nuova (come non ha potuto, forse, Feyder per Les Nouveaux Messieurs)388 soprattutto nella sequenza, linearissima e folle, che potremmo chiamare dei “cappelli” (come fa il brano d’antologia di Break the News). Un’associazione a delinquere – i banditi muscolari, inferrettati e bonaccioni, tipici di Clair – si occupa del furto dei cappelli, esclusivamente di questo. Questa gente ruba cappelli alle persone che si presentano in negozio, scambiandoli magari con altri di minor prezzo e pregio, oppure all’aria aperta, mediante destri ed astuti colpi di mano. Un novizio deve entrare a far parte di questa società di genere innegabilmente speciale, di tipo piuttosto spinto. Su una vetturetta aperta e, si direbbe, smidollata, perfettamente in carattere con le modeste e, in fondo, pacifiche esibizioni quasi dilettantistiche di questi curiosi “delinquenti”, escono alla caccia uno dei capocci della stampa e il novizio. In istrada, un uomo – chissa perché s’intuisce: un pacifico mediocre borghese –. È giorno pieno. Ora, facile è rubare, o scambiare, cappelli entro una calca di persone, relativamente facile; o farli sparire quando l’oscurità è propizia, ma di giorno, in una strada con un solo uomo, d’astuzia, avvicinandosi con un’automobile…, via è per lo meno pazzesco; ma riesce. L’uomo, che l’aveva, non ha più il suo copricapo: v’immaginate la di lui faccia e la sorpresa quando si scoprirà la testa nuda, pelata? Un uomo, addossato a un parapetto, sta sputando giù: avvicinarglisi con leggerezza, con grazia, con eleganza, fingendo di salutarlo, con una larga e maestosa scappellata, operare, con l’altra mano disponibile, una piccola sostituzione… Ma riesce; è impressionante, e al novizio appare addirittura, tanta è la destrezza del maestro,

elementare. Anche lui vuol provare, si avvicina a un grosso tipo di passaggio, con sgraziato atto gli leva il cappello di testa: e quegli – è elementare – si rivolta con un grande, con un maestoso cazzotto d’effetto. Invece l’altro, il maestro, se si butta in un boschetto dove giovanotti e uomini anziani si accompagnano con ragazze, o siano anche a più sostanziose operazioni intenti, allora non è improbabile che tu, dopo un certo tempo, tu spettatore veda, lungo dritti e assolati sentieri, turbe di furiosi a testa nuda agitare pugni o correre invano dietro l’agile e sicura vetturetta del delicato grassatore. (Qui, tra parentesi, la tecnica è l’“unica possibile”, c’è vera evidenza di linguaggio espressivo: dissolvenza e moto della causa funzionali e rivelatori.) *** P.S.

Una cosa molto importante. È opportuno, carissimo Jusik, tu tenga presente che il ricordo può fallire; io già immagino, chissà quanta fretta e quali imprecisioni in quella breve paginetta. Va bene che noi si vuol rendere per sommi capi, dei “testi rari”, lo spirito; ma tu saresti in grado di controllarti le osservazioni tue, che eventualmente potrai scrivere, sul Potemkin e sul Circo di Aleksandrov?389 Io poi, tu lo sai, ho questo difetto: di falsare a distanza, quasi ricreando; raccontando a qualcuno d’un film visto parecchio tempo prima, magari una sola volta, quasi di sfuggita, io mi eccito mi riscaldo, mischio particolari, caratteri, ecc.: alla fine non è più “quel film” che ne risulta, almeno nei particolari (che ognuno potrebbe trovare impropri, falsanti; ma nello spirito no, almeno è da sperare); è un nuovo film, che può dare un’idea, anche molto esatta, del vero film, ma di cui molte cose sarebbe utile controllare. Perciò, sebbene non sia nostro intendimento di diffonderci a lungo sui testi rari, il mio pensiero sarebbe di far leggere i nostri appunti – prima della pubblicazione – a Comencini personalmente: egli ci potrebbe guidare forse, consigliare, eventualmente correggere, potrebbe far molto per noi. L’ideale sarebbe rivedere i film ma in mancanza di questo anche una buona amicizia con Comencini potrebb’essere un ideale (anche per Il Vampiro). Perciò ti prego, cerca di

accostarti a lui, d’informarlo del nostro lavoro: credo che dovrebbe riceverti, ormai sei conosciuto (parlagli anche del Fascio), aprirsi un po’. Ti prego di tenermi al corrente sui tuoi progressi su questa strada: ripeto, io sono convinto (e anche tu, certamente) che sia una cosa quasi indispensabile: altrimenti vivremmo nella continua paura di troppa libertà di ricostruzione, di svanimento di memoria, ecc. Libertà e svanimento che non si possono confessare apertamente nel libro (anche questo avevo pensato): perché se no, t’immagini che edificante risultato sul lettore? *** Al che seguivano affettuosi abbracci: abbracci che non si sono certamente raffreddati anche dopo altri due mesi di “gelo” militare. Tuo Ugo

POST SCRIPTUM: LA LETTERA DI BANDINI

*** …Tu mi chiedi quali sono le mie opinioni circa Tutto il mondo ride ma mi trovo ad averne poche, confuse e poco fondate. Avevo visto il film 5 o 6 anni fa ed allora, mi ricordo, ero quasi entusiasmato: ma quel tempo era il periodo rosa delle “cotte” cinematografiche irragionevoli e incontrollate. Ora l’ho rivisto e con attenzione; ma in uno stato così miserevole da non poter più esternare un giudizio complessivo onesto. Di nomi non me ne ricordo più. Impressione generale di discontinuità e di non omogeneità: le sequenze migliori non sono quelle recitate, quelle narrative, quelle che dovrebbero servire a svelare il puro e meccanico soggetto inteso come trama e sviluppo, a svolgerlo ed a rivolgerlo; ma le altre, quelle libere, le quali purtroppo non sono basate su uno stesso

piano di fantasia, ma molto diseguali tra di loro. Tutto il film dovrebbe essere una fantasia musicale ed allora dovrebbe essere prima di tutto certo e sicuro su una buona ed omogenea “metrica” strettamente musicale, il che non avviene: soprattutto è scadente quando si cade in un genere di jazz di tipo strettamente americano cioè negro (sia strumentale che vocale) che non può essere non dico sentito, ma neppure sufficientemente interpretato dai russi (i quali hanno sì una musica moderna influenzata dal jazz – cosa normale – ma essenzialmente espressionistica – caratteristica orientale e slava di tutto l’espressionismo, specie quello pittorico – di scuola schonberghiana e giù di lì). E quando si capiva come in tutto il finale nel jazz da orchestrina (anzitutto troppo numerosa per la tecnica stessa del jazz); sia quando combinano tutto quel putiferio nella camera d’albergo dove si allenano (che potrebbe essere una satira, ma non lo è, dato che è una caratteristica pacifica del jazz quella di essere degli interpreti soggettivi ed autonomi anzitutto ed invasati e deliranti), sia quando esso poi a teatro senza strumenti ed intonano solo più (1) a bocca ed a rumori, si cade proprio nella moda di allora (10-12 anni fa), nell’infatuazione snobistica da grande albergo internazionale: insomma il jazz qui dovrebbe essere un’arma antiretorica ed antiborghese ed invece casca al polo opposto perché non vale come jazz ed è falsificato. (In altri punti la musica è migliore, ma ora non so ricordarmeli con precisione.) Tra le sequenze migliori quella iniziale: c’è solo una porta in mezzo alla campagna (2) e sull’altro Fattoria del Paradiso. Buona trovata scenografica questa, anche se surreale. Dietro ed attraverso questa porta si compone il corteo col pastore che agita la lunga frusta, due o tre musicanti e poi il gregge – la mandria. Carrello lunghissimo ininterrotto, sebbene spezzettato da tagli irregolari, quasi sempre in ferrovia per seguire il corteo musicale: fin qui va bene, nuvole bianche nel cielo “alla russa”, ragazze che vengono a sedere, senso della campagna e della natura, ecc. ecc. Poi c’è l’appello al gregge, tutte le bestie si chiamano per nome e poi pascolano: il pastore va a

mettersi sotto un albero e suona il flauto. Interviene un tipo di professore che gli dà un violino e tra l’altro gli fa suonare le note composte dai passeri sui fili telegrafici. Poi il pastore fa il bagno e qui inizia la sequenza più forte, più caratteristica, più “russa” in senso comunista ed antiborghese: la sequenza della spiaggia con quell’altro lunghissimo carrello (l’unico esteticamente valido di tutto il film, che ne contiene numerosissimi e tanto lunghi da far impallidire ed incanutire anche un Clair di prima maniera!) su pance, gambe, culi, piedoni, mammelle, facce, ombrelloni, bambini e persino un fornello a spirito dove si cuoce il pesce, spesso sulla spiaggia. (3) Avviene l’incontro tra il pastore e la figlia della ricca signora che ha una ricca villa sulle prime propaggini della montagna, e relativo scambio di persona poiché il pastore è creduto un famoso direttore d’orchestra: invito a cena nella villa dove c’è la cameriera innamorata del pastore (4). La scena degli animali che per seguire il pastore invadono la casa, le camere da letto, la stanza da pranzo, il salotto dove la figlia canta borghesemente al pianoforte: scenografie niente di speciali, solo dei bei tipi di comparse. (Queste scene dell’irruzione degli animali attraverso le finestre, sulla tavola, ecc., sono state prese di peso, controtipate, in quel disgraziato film di Totò Animali pazzi su soggetto di Campanile: bell’esempio di civiltà commerciale cinematografica!) Il secondo tempo, credo, inizia col jazz nella camera d’albergo (5). Il pastore che, arrivato in città, entra per caso trasportando una cesta di fiori nel teatro d’opera: scambio di persone, e finisce per dirigere inconsapevolmente tutta un’orchestra di arpe e pianoforti disposti coreograficamente sul palcoscenico (che orribile gusto da “follia di Hollywood” proprio in un film russo); poi non so bene cosa capita, ma mette su un’orchestra e succede lo scompiglio nella camera d’albergo proprio alla vigilia del concerto al teatro. Intanto arriva dalla campagna la cameriera innamorata, ed incontro sotto la pioggia, sul carro funebre che trasporta tutta la compagnia dei suonatori a teatro, dove arriva al concerto senza strumenti. Di tutti questi uomini stracciati, laceri e bagnati, le contadinotte con i paramenti ed un finale della

carrozza funebre, appare come la prima donna. Finale con un lungo carrello indietro che parte dal primo piano dei “due”, poi comprende tutto il palcoscenico, poi tutta la sala, si esce da una finestra, appare la facciata, la strada, il carro funebre sotto la pioggia che aspetta, ci s’allontana sempre e resta illuminata la finestra del teatro dalla quale si è passati col carrello indietro e dalla quale si scorge piccolissimo il palcoscenico. Fine. Insomma che si può dire di un po’ concluso su questo film? È uno dei pochi film “musicali” russi (o forse l’unico, no?) ed, in quanto tale, per attenersi almeno all’originalità ed all’indipendenza di una scuola russa non doveva ricalcare per nulla i motivi ed i luoghi comuni degli analoghi film europei e americani. Aleksandrov aveva certo queste logiche intenzioni ma non le ha sapute attuare sul complesso del film come opera unitaria: non è che il film non sia abbastanza pazzo, svagato, menefreghista e corrosivo in certo punto (ma è un acido mordente molto diluito per abitudini cinematografiche russe), ma manca addirittura una fantasia (elemento principale in questo film antinarrativo, no?) centrale, unitaria, magari negativa e polemica e più precisamente manca a questa fantasia cinematografica dichiaratamente musicale proprio l’appoggio di una musica adeguata. Non è che si incolpi il musicista, qui si parla sempre del blocco dell’opera compiuta e non interessa se sia la musica falsa a non seguire sequenze di immagini buone o se sia un difetto di materiali visivo e plastico a non ispirare una musica valida. Restano le sequenza migliori, quelle che danno valore all’opera e la rendono degna di ricordo e di commento: possiamo anche dire che un realmente nuovo ed importante lo abbiamo nettamente sentito in quel violento sentimento naturalistico e panico della prima sequenza del pastore, della campagna, degli animali: una opera di esplosiva e salatissima operetta-balletto-capriccio, che se realizzata poteva ben rappresentare un “genere” nuovo russo, ben concordante per intimi legami con il resto della produzione russa che ci ha interessati nella storia o cronaca del cinema (6).

*** Ho visto L’angelo del male, ovverosia La Bête humaine di Renoir: come nell’opera, quadrata, solida, potente; è del 1939 ma nella solidità del suo incompiuto e sul blocco del suo sviluppo ha il sapore e la caratteristica di certi capolavori del muto, tipo Angelo azzurro, tanto per portare un esempio. Tutto l’inizio, un’introduzione perfetta: mi convinco che anche l’aforisma di “Azione, azione, azione”, nei soggetti e nelle sceneggiature, non è che un luogo comune da prendersi con le molle: non occorre proprio nessuna “azione” nel senso narrativo, di sviluppo sia tematico che dinamico, ma nelle mani di un’artista basta la “descrizione”: gente che fa il suo mestiere, va e viene, saluta i colleghi, si lava le mani, sale una scala, beve una ciotola d’acqua, ecc. ecc. Jean Gabin, l’interprete, è perfettamente a posto, in gambissima (hai mai pensato che su questo attore, che non proviene dal teatro, si sono accentrati come su un punto d’appoggio alcuni tra i più grandi creatori attuali come Duvivier, Renoir, Carné? Mi vien in mente il paragone del Campassi: Gabin è al centro. È lo spillo, il compasso è il regista, il cerchio tracciato e chiuso – una figura perfetta – è l’opera risultante. Accidenti al marinismo [trascrizione dubbia] meccanico! Che paragoni mi saltan fuori!) *** Altra impressione forte: ho visto Alfa Tau. La stampa è in contraddizione, alcuni (tra i quali Piovene) lo esaltano come un film di propaganda, come film di guerra, cioè non lo considerano da un punto di vista assoluto, altri come il critico di Cinema gli assegnano una sola stelletta e lo trattano come un tentativo fallito!390 Nulla di tutto questo: siamo nella vecchia, gloriosa traccia di Uomini sul fondo e l’intermezzo de La nave bianca è dimenticato; siamo nello stesso tempo più avanti e più indietro di Uomini sul fondo; più avanti perché c’è uno sforzo sovrumano di una ricerca di stile formidabile, è una strada nuova quella che si sta aprendo ed è dura da conquistare: da quello che si poteva chiamare “documentario”, ci si è lanciati sullo spettacolo vero e

proprio, sul dramma denunciato, sulla costruzione stretta, compatta, stringata, di motivi su motivi, di idee su idee, persino troppe: altro che scarsità di soluzioni, di mezzi visivi, di estrinsecazione di fatti emotivi! Proprio per questo, per questa passione così irruente, per questo andare a stringere e cercare di fiorire, nella cornice ferma, nella linea segnata dal diagramma dell’opera intera, di tante sensazioni, sentimenti, pensieri; che talvolta si sconfina, si sfugge, per poi subito rientrare di colpo ad un taglio netto nell’unità del lavoro, del blocco. Per questo inferiore all’omogeneità di Uomini sul fondo, che rappresentava però l’omogeneità di un corpo semplice, una massa della stessa materia, mentre in Alfa Tau si ricerca una fusione di un materiale più vario e diciamo pure più “ricco” che potrebbe solidificarsi nel capolavoro assoluto, cristallizzazioni su una nuova tappa raggiunta, nuova e prolifica. Difetti come impianto, come andamento generale, secondo me nessuno: nella prima parte piccoli difetti causa della troppa passione, delle troppe idee non tutte tenute a freno, difetti di giovinezza insieme. (E proprio difetti riscontrabili, tali e quali, nel passoridottismo.) Ma un secondo tempo formidabile, rapidissimo, e di rara potenza: un finale che non ha paragoni nel materiale emotivo di tutta la storia del cinema: materiale emotivo ricavato da una realtà vera, viva, ricostruita, e non dovuto ad accostamenti, analogie, e simbolismi. La macchina da presa impazzisce anch’essa liricamente: è lei che inquadra, che trema, sobbalza, è lei che compie il montaggio, è lei che fa tutto il miracolo. Qui forse, in questa frase malfatta e poco chiara, la caratteristica nuova, intima, fondamentale, che mi ha scosso ed attraversato la mente come la rivelazione di un linguaggio filmico rinnovato ed originale. Il cinema ci riserverà delle sorprese tali da ricompensare chi ha creduto: ne sono convinto anch’io, e sì che ero un miscredente. *** Ho visto l’ultimo Film e l’ultimo Cinema. Nella lista per un cinema cinematografico, ripresa a cura di Doletti da Pattuglia, poteva entrare giustappunto, accanto ai nostri, il nome di

Bandini; ma Bandini ha scritto poco, solo un articolo su Meerson, e pel resto pezzi sulla fotografia. Beh, quel numero di Pattuglia te lo sei potuto procurare? che giornale è Pattuglia? E chi sono e dove scrivono le seguenti persone?: Piero [Pietro] Bianchi, Egidio Bonfante, Enrico Camporesi, Antonio Ghirelli, Paolo Grassi, Biri Mazzini, Alberto Pasinetti (un altro fratello?), Miliziade Morelli, Gastone Toschi, Marco Valsecchi (quello di Libro e moschetto?)… Nella lista di Doletti, poi, entrano con visibile sforzo, a mio parere, nomi come Luchino Visconti e Ubaldo Magnaghi (e Margadonna).391

L’ultimo Cinema è buono per noi, con Bandini, Campassi e, poi, Morovich e Pasinetti-Puccini; interessanti poi Pastone, le critiche come al solito e le foto di Barbaro e Chiarini esaminatori. – Ti mando un articolo Et la couleur?, stralciato dall’ediz. francese di un recente Tempo, dove si parla di un “metodo Casiraghi” per il cinema a colori. Interessante, anche questo, a sapersi. Ho riletto ancora Billy Budd, e annovero senz’altro Melville tra i miei scrittori preferiti. Puškin invece è molto schematico, nei suoi racconti, in relazione alle trame filmiche degli stessi (Un colpo di pistola, Mastro di posta, La dama di Picche, ora anche Dubrovski, più che racconto, “romanzo breve”).392 A proposito della tua confessione per cui riconosci esserci pericolo che tu non mi scriva più non per causa degli studi, bensì per il mancato interesse nei riguardi del cinema e d’ogni altra forma consimile, io ti ricordo che tu mi dovresti sempre scrivere, se non come “cineasta” almeno come “amico”. Perché la nostra amicizia supera gl’interessi d’arte dopo essersi in questi riconosciuta. Ti abbraccio con affetto, tuo Ugo (1) “solo più”: caratteristico del linguaggio piemontese in genere. [N.d.r.] (2) Puoi vedere in Pasinetti. [N.d.r.]

(3) Oltre al tono di esposizione analogo, noterai la sorprendente coincidenza nell’uso dei termini aspri, fra me e Bandini. Sono seriamente emozionato! [N.d.r.] (4) L’attrice è Liubosi Orlova393 – l’unico nome che ricordi accanto ad Aleksandrov – ch’era la donna del primo tempo di Notti Bianche. [N.d.r.] (5) Mi par di ricordare qui un uso d’inquadrature vuote, come in “N. B.”. [N.d.r.] (6) Credo che un’analisi così attenta non era facile farla. Io ci credo parola per parola, prima di tutto perché l’esposizione del soggetto mi ha ricordato quasi tutto lo svolgimento del film, e poi anche perché io stesso presumo che avrei potuto scrivere qualcosa di molto molto originale dopo una nuova recente visione dell’opera. Sulla quale anche le conclusioni io accetto in pieno. Il film ottenne uno sbalorditivo successo a Venezia perché furon presentate le sequenze capitali. È un tipico film “da antologia”.

Milano, 7-8 novembre 1942 – XX Caro Ugo, no; dei miei esami è bene non parlare. Mai, parlarne. Sono molto contento, quanto fui al primo giorno e di più, del cambiamento di facoltà della Cicci (perdona, o purista, ma io così chiamo Marisa in minime e particolarmente significative occasioni); perché farà degli studi più vicini alla sua natura e alle sue tendenze; perché farà degli studi ch’io avrei amato fare e che per sempre mi son negati, sì ch’io vivrò un poco, di riflesso, quella bella vita di pensiero ch’io mai possiederò con coerente interezza (e forse non per colpa mia, dopotutto); perché essa in quegli studi riuscirà; infine, perché ci sarà una persona di più a fare una tesi di laurea sul cinema. La qual ultima cosa allieterà anche te, vero? E, alla fine, perché fa un enorme piacere vedere una persona che si ama e di cui si ha massima stima creare la propria vita interiore con ampie vie di appagamento. *** È una notte chiarissima. Molte stelle. Vicina è la luna. I cani ululano, nella notte. Mia nonna dice che gli animali “sentono, sono inquieti prima di noi”. Forse, questo monotono, lamentevole, lamentoso, insistente, esasperante, rauco ululare è il preludio sinfonico ad un’incursione aerea. Non ne so nulla. La cosa mi interessa solo per certe particolarità laterali. ***

Che cosa strana, i presentimenti. La peggiore. Perché in genere, è una così viva realtà in noi, che par difficile svincolarsi da queste assurde ipoteche sul futuro. *** Io proposi La bella addormentata perché non trovavo onesto parlare d’un solo film italiano. Noi al cinema italiano ci siamo addentro, ne vediamo più i difetti che i pregi. Qualche altro testo che indichi l’esistenza del cinema italiano c’è, indubbiamente. Ho esitato, nella proposta, tra i nomi di Salvator Rosa, di Una romantica avventura, di La peccatrice;394 ho concluso con Chiarini, perché su di lui c’è molta più roba da dire che sugli altri. Innanzitutto, per lo stile suo, e solo suo: quella lentezza del ritmo, che non è né tedesca né russa, né tampoco quella di Vacanze in collegio di Pagnol395 (un film strano in maniera sbalorditiva; in cui non mi raccapezzo per nulla) ma solo italiana. *** Sono le otto e mezza, e, ora inusitata per queste cose – le sirene cantano l’allarme. Ho idea che stanotte potrò scrivere poco, che prima dell’una probabilmente non finirà. Peccato, avevo voglia di scriverti a lungo. Spero di farlo domani. *** Ecco di nuovo, dopo un bel po’ di tempo, trascorso in rifugio a lungo a leggere Indra,396 ma con l’occhio attento alle cannonate. *** A noi dev’essere sovranamente indifferente parlare bene o male d’un testo. Potremmo farlo se avessimo un’estetica. Dobbiamo limitarci, nelle condizioni in cui ci troviamo di dire: a) la natura del testo, b) quel che nel testo a noi pare rimarchevole. Ma non possiamo applicare una teoria; un poco perché non saremmo in grado di farlo; e un poco perché l’estetica di Valéry ci aiuterebbe per Carné, ma non per Ford; quella

dell’Einfuhlung397 per Duvivier, ma non per Ritter; quella di Brémond (“la poesia è una preghiera mancata”)398 solo per Dreyer, che questi in effetti più d’ogni altro comunica con l’universo intero. Perché non è da dire che solo la corrente De Robertis sia “cinema italiano”. Formalmente, magari, Blasetti, Camerini ecc., avranno subìto inflessi, ma la loro sostanza è italiana. U[omini] s[ul] fondo rimane sempre l’unico film italiano che sia una opera d’arte in tono maggiore; ma un loro modesto, sia pure, ma fino anche per certe particolarità, valore, l’hanno Salvator Rosa e Una romantica avventura, Piccolo mondo antico e Addio giovinezza e La peccatrice (e aspettiamo Giacomo l’idealista e Ossessione).399 Insomma, quantitativamente non mi va che in 12 testi ci sia solo Uomini sul fondo. Ci vuole un altro italiano: anche per puntualizzare la nostra posizione nei riguardi del cinema italiano, perché U. s. F. potrebbe sembrare un atteggiamento troppo unilaterale. Presentazione postuma andava bene; ma non dobbiamo ignorare la scuola verista, dalla Peccatrice a Fari nella nebbia400 (film fallito per mancanza di ritmo, di montaggio): vedi, l’ultimo articolo di Pietrangeli; e quella lombarda, di Piccolo mondo antico, Malombra e Giacomo l’idealista; e quella di Blasetti, Camerini, Poggioli (il crepuscolarismo degli ultimi due; lo storicismo arrovellato del primo); e Chiarini, che sta a sé. Insomma, io ho proposto un testo. La discussione è aperta. Sul documentario non transigo, però. Dobbiamo. Non un discorso sul documentario, ma un testo: un Pasinetti, o un Paolucci (mi dissero meraviglie del Le cinque terre: un Uomo di Aran in piccolo; con una ripresa di Portalupi, superba). Quanto detto pel cinema italiano, vale per il tedesco. Io vorrei si facesse Serenade (e del materiale c’è già. Nota poi che Guido sta scrivendo un profilo di Forst,401 abbastanza chiarificatore). ***

Paolucci è un tipo assai simpatico. Dice, per De Robertis: “Quel genere di cinema che non è figurativo”. Dice: “Il Potemkin oggi fa l’effetto d’un LUCE”. “U[omini]. S[ul]. F[ondo]. è più bello”. Dice: “Pasinetti ignora il montaggio”. E cento altre cose sbalorditive. Ma è un vero artista; ha fatto egregie cose; e ne farà ancora, ne sono sicuro. *** Lo ignoro Hoffmann. Ma Ibsen è uno dei miei punti cardinali. *** Anche a me spiacque assai per Dirani, e mi offese e addolorò il fatto che né Cinema, né B. e n. avessero dedicato alla sua morte un rigo. Non aveva fatto cose eccezionali, Dirani: ma era “dei nostri”.402 *** Io, di spirito unitario, continuo nella compilazione dell’antologia di poeti armeni, con l’intelligente aiuto della Cicci. È spaventoso quanto io sappia poco l’italiano, e come essa invece lo padroneggi; e com’io manchi di senso musicale. Sì che le mie traduzioni sotto l’impronta sua si van trasformando, e in una forma veramente italiana, finalmente. Traduco anche il Mondo interiore di Indra, sorta di diariopoema lirico filosofico. È impresa disperata però. È come tradurre Joyce, il Joyce di Ulisse, della Veglia di Finnegan. Ma faremo così: io tradurrò e passerò alla Cicci; la Cicci correggerà, e passerà a te, che metterai a posto il tutto, e poi un giorno pubblicheremo il libro. Indra è bellissimo; affascinante. Con dei difetti enormi e delle enormi bellezze. *** Non leggo nulla, impavido resisto alle tentazione di leggere qualcosa. Ho dato un’occhiata al Bontempelli di Bo: è buono. Un’altra al Wagner di Schuré.403 Leggo spesso il saggio Il Vampiro di Ugo Casiraghi. ***

Bengasi è quel che è, Noi vivi – Addio Kira è meno di quel che sono le ammissibilità “umane”. Les dieux s’en vont, addio Genina e addio Alessandrini! Altro che Addio Kira! *** Abbiam deciso, [Marco] Valsecchi, Guido ed io, di formare una cineteca, la “cineteca del gatto verde”, o la “cinetheque [sic] du chateaux [sic] noir”. Siamo in trattativa per comprare Tutto il mondo ride, Marysa, La maschera eterna,404 al solito non ne faremo nulla. Intanto da domani ti scriverò del Million. Sennò scoppio!! Ti abbraccio, Jusik

8 novembre Nella storia del cinema francese, René Clair è l’unico esempio di quella continuità interiore, psicologica e spirituale, che lega assieme e temporaneamente più lontani e distanti nomi di Francia; e di questo ti avevo già parlato, e detto, sulla via tracciata dal Duvivier, come fosse possibile reperire, nelle lettere francesi, l’esistenza di alcuni film fondamentali, la corrente Villon-Verlaine-Apollinaire-Simon-Éluard, la sintesi Racine-Valéry, quella Ronsard-Gautier, ecc. Ora, quel che a me pare la prima condizione creativa di Clair è appunto questo esistere senza contaminazioni nell’atmosfera più genuina del genio – e dell’ingegno – francese: e che ci si può ritrovare la parentela col tale o con tal’altro poeta – magari nomi lontanissimi; e rammento il Margadonna che paragonava il coro d’ammissione alla fabbrica di A noi la libertà alle brevi composizioni poetiche medievali francesi. Per il suo spirito sottile, per la sua arguzia, mai potrebbe essere uomo del medioevo gallico: se non avesse quell’estrema vena di irriverenza (irriverenza nata sotto i segni cabalistici e pervertiti del surrealismo: cfr. la parodia del funerale in Entr’acte) che lo pone al di qua della barriera netta di scissione che l’89 produsse nella coesione della civiltà francese. Non si tratta ora di individuare per Clair una geografia temporale, collocarlo nel XII o nel XVI secolo: si tratta piuttosto di vedere in quale misura egli possa riallinearsi ai nomi grandi della nazione francese. Sapere cioè se possiamo citarlo come citiamo Corneille o Claudel, come citiamo Daudet405 (e qui siamo già più vicini al vero: penso a Daudet delle Lettere dal

mio mulino; al malizioso Daudet del Il sottoprefetto nei campi). Per cui il discorso, da filologico tende a divenire puramente estetico. Alla base rimane la sicurezza dell’integrità di Clair. È il più francese dei cineasti francesi: lo è più di Duvivier, che è già corrotto dall’uso degli ambienti esotici che son la degenerescenza della Francia (Casbah, Bandera: miti piuttosto recenti nello spirito francese) più che la Francia, e che è troppo mediterranea per essere veramente francese, come Pagnol del resto; più di Carné, che è l’esasperazione della tendenza sociale e proletaria creata, volutamente creata, da Zola, in Francia, e che appunto per quest’uso è internazionale e non nazionale (i suoi operai possono anche essere russi o nuovaiorchesi: cfr. Afsporet,406 in cui l’ambiente rigorosamente [viennese] viene confuso per francese, tanto era la suggestione del ricordo delle imposizioni di Carné; cfr. Fari nella nebbia, in cui la sostanza dei personaggi è italiana, ma in cui ondeggia un sovrastante sapore francese tutt’attorno che rende obliqua l’opera) dato che quasi dovunque gli operai s’assomigliano; più di Renoir, che talvolta devia forte (cfr. La grande illusione); più degli altri, che sono francesi sì, ma non artisti. E se per essere veramente francese Duvivier deve andare nel Canadà a ritrovare uno spirito etico e razziale ormai perso nella madrepatria ma ancor vivo nei discendenti dei coloni, o si deve rinserrare nella provincia a creare Pel di carota (e qui vedi la sua maggiore partecipazione all’ambiente, al paesaggio; alla purezza dell’immagine); e Carné non riuscirci per nulla (cfr. i progetti di Macao, di René le Portorico: i titoli son quasi una presa in giro: un prolungamento di quel grottesco ch’io avvertivo in Albergo Nord); se Renoir ricorrere al paesaggio nella Bestia umana; Clair è infinitamente più coerente, non cede a suggestioni estreme e equivoche (salvo il gusto d’esser un parigino troppo intelligente). Anche gli altri sono la Francia, ma non quella di tutti i tempi: sono la decadenza della Francia, l’ebreicizzazione della Francia (cfr.,

in letteratura, Climats, Eglantine, La conspiration, Du Mariage):407 una non-Francia. Clair invece è parente di tutti i grandi artisti francesi (intendi questo, nel suo limite di rapporti, beninteso): le sue opere sono alla fin fine delle “moralità”, come certe rappresentazioni sacre e profane del medioevo francese; ci puoi trovare del Voltaire; e certo suo pessimismo esiste anche, seppure sotto aspetti diversissimi, in certi romantici del suo paese. Che poi Clair prolunghi questa sua posizione iniziale (e del tutto istintiva; per lui far del cinema vuol dire far del cinema francese: perché è francese anche lo spirito de Il fantasma galante, quello di Break the News!) in una resa totale sul piano universale, non fa che testimoniare della sua condizione d’artista: il fatto che Un cappello di paglia o Il milione sia valido sotto tutte le latitudini (cosa che non potremmo dire che per Chaplin, ma nel senso che Chaplin porta seco una completa negazione della civiltà, e che quindi sotto tutte le latitudini si allea alle forze negative che sempre esistono accanto a quelle attive; mentre il Godfrey408 sarà sempre un documento della vita sociale americana; e Capra sarà americano sì, ma null’altro, chè la soluzione di You Can’t Take It ecc.409 è inammissibile fuori dagli Stati Uniti; e il finale di Broadway Bill410, che vorrebbe essere più generale, è un ricalco deformato sul finale di À nous la liberté) lo pone sul piano dei creatori che superano i limiti del loro nazionalismo proprio attraverso l’espressione totale e spontanea di tale nazionalismo. In Clair più che in ogni altro cineasta francese, troviamo la Francia, la Francia che va dalla Chanson de geste a Paul Éluard. Questo appare più chiaramente nel Milione che in ogni altra creazione clairiana. Nel Milione infatti coesistono aspetti lontanissimi e diversissimi del temperamento francese. C’è il sentimentalismo ingenuo del “bon enfant”; c’è la semplicità di Michel, Prosper e della ragazza; c’è la classica mondana

francese; c’è il pessimismo di certe situazioni; e il patetico di certe altre; e il grottesco esagerato, paradossale, “insostenibile” dei due cantanti; e c’è soprattutto l’assoluta indigenza del regista nei riguardi. *** Ore 11 e mezza, allarme aereo. Si tratterà di ricognitori. È consuetudine mattutina. *** Nei riguardi della storia; perché la storia del Milione è assoluta. Dato che Papà La Tulipe altri non è che il capo della banda di ladri. Egli, pur sapendo che il biglietto non è più nella giacca va in teatro, in veste di capobanda, e dirige la caccia all’indumento. Arbitrio, dunque? Licenza poetica? Se non incorro in un madornale errore di individuazione dei personaggi, o la caccia è una burla incrementata da Papà La Tulipe, o il tutto è una burla organizzata e incrementata da Clair: e questa può essere una diramazione della mentalità avanguardista: l’aperta presa in giro del pubblico, a cominciare dalle mostre dadaiste in cui ogni visitatore riceveva all’entrata un martello per fracassare le opere esposte (e similmente gli autori di Un cane andaluso definivano imbecilli tutti coloro che avessero trovato bello il loro film) fino ai giochi della pittura metafisica meno impegnata (cfr. Costantini in De Chirico, in Pittura e scultura it. del ’40)411 e a quelli di Picasso che esponeva rifacimenti come se fossero creazioni sue: estrema propaggine anarchica, sregolata e sgretolata, del romanticismo byroniano e desanctisiano inteso a “épater le bourgeois”. Ma in Clair quest’arbitrio è elevato a forma poetica di fantasia espressiva: egli maneggia il razionale e l’irrazionale, il lecito e l’illecito con la libertà che gli consente la sua caratteristica di uomo non impegnato in un’avventura “umana”, scevro di problematismi (ed uno che qui si stacca da tutto il cinema francese) com’è, egli sta “al di fuori” di quel che narra: lascia che la sua fantasia lo esprima compiutamente, avvalendosi degli elementi che più lo aggradano: e così il suo

mondo non assomiglia a null’altro che a sé stesso, e noi possiamo accettare l’assurdità della storia, il fenomenale giochetto (un qualcosa che è assai più d’una trovata meccanica e umoristica); mentre ad es. in Chaplin predomina il meccanicismo delle trovate cerebrali ed astratte – il gusto ebraico dell’astrazione cerebrale; la sterilità della pittura astratta –, specie nelle opere della decadenza (cfr. Modern Times) del lampadario che crolla al canto dello strabiliante tenore. Così la bottega di Papà La Tulipe è in pieno una mostra dadaista e surrealista (i manichini che puntano le pistole: vedi tutti i manichini dell’arte metafisica, dal Bululù di Bontempelli a quelli di Carrà e De Chirico) con quei richiami a Man Ray, a Giacometti, a Picabia: Meerson412 ci giocò in pieno, come in pieno aveva giocato le scenografie nella casa dei due amici (e giustissime le parole di Bandini413 in proposito, salvo l’eccessiva indipendenza che egli attribuiva alla scenografia; che noi sappiamo essere la scenografia elemento determinante sì, quanto l’inquadratura almeno, ma non suscettibile di avanzamento fino al predominio sugli altri elementi, siano essi determinanti che componenti; cfr. la teoria di G. Viazzi).414 Accanto agli elementi che chiameremo “di derivazione avanguardista”, per intenderci (siamo giustificati dalle pagine del Clair teorico e scrittore) e che però non conglobano la tendenza ironica, satirica, che proviene dallo spirito del “vaudeville” (ecco un altro agganciamento diabolicamente francese), o che a questo spirito è da paragonare, è la tendenza Clairiana al sentimentalismo, a quel sentimentalismo lirico e spirituale che è agli antipodi delle esasperazioni sessuali che in Carné cercano, senza riuscirci, di gettar ponti tra i personaggi, che in Duvivier accendono ricordi e nostalgie (sì che nella carne morbida e ricca di Gaby, Pépé ritrova la sua Parigi, Place Pigalle e le “boites”, le lussurie notturne di Montmartre), che in Renoir gettano la bestialità d’un uomo grasso e [turpe] sulla delicata e fragile bellezza di Natascia (I bassifondi),415 che attirano Dita Parlo nel letto dell’uomo che forse le aveva ucciso il marito e i fratelli (La grande illusione).

Clair no, Clair è un ingenuo, un puro, un sentimentale, un platonico, un poeta. La innata bontà dei suoi personaggi è in essi talmente forte da farne creature unitarie, sì che ogni problema psicologico è evitato, e Prospero non riesce neppure a tradire Michel, e perfino quando lo sconfessa, nella saletta del commissario di polizia, non è l’amicizia che si rompe, non nasce tragedia, ma tutto si svolge nella castità d’una limpida fantasia di moti sentimentali che a lungo andare diventano ritmo d’espressione e non concatenazioni di cause ed effetti. Qui l’uomo è ancora nella misura classica (ma perché Clair può coesistere accanto ai classici francesi), nell’interezza della natura non dissociata: in lui bene e male possono essere vicini, e entrare in antagonismo, caso mai uno d’essi predominerà in maniera assoluta, o morirà. Lo sdoppiamento jekilliano è, nel campo strettamente psicologico, questo a Clair. In Duvivier invece ci sarà aperto dualismo e contrasto, in quel desiderio di redenzione (desiderio di evasione di Pépé; di costruzione idealista nella Belle équipe416; di redenzione raggiunta nello Charrette fantôme) che è, secondo l’esposizione di Marisa, una parentela con Mauriac;417 e in Carné ci sarà premoralità, submoralità, assenza del bene e del male: l’uomo cioè disgregato, spezzettato, frantumato. Mentre in Clair l’uomo è tutt’uno con la sua natura e con la sua coscienza; in un’integrità che vive in pieno in un mondo benevolo, buono. Qui, se consideriamo tilgherianamente418 l’arte come amor vitae, incontriamo uno dei più cospicui aspetti del Clair artista. Perché egli non crea per dimostrare la sua concezione della vita, non per risolverla, ma per esprimerla. Egli è in comunione con le cose e con gli uomini; e non tanto lui, quanto la sua opera; perché egli non è affatto “impegnato” nella creazione, ma lo si sente incessantemente e perpetuamente presente, demiurgo. Infatti, nel Milione Clair c’è tutto. Ma non puoi, momento per momento, dire “ecco Clair”. C’è tanto Clair che ne sei assorbito e conquistato, non ti puoi dissociare in “individuo

spettatore” e in “individuo analizzatore”, data l’unità dell’opera. E anche a posteriori scomporre Clair in sede critica è dura fatica; perché esso è tanto compiuto sullo schermo che ricrearlo e interpretarlo sulla carta può parere perfino inutile. E questo non bisogno di critica (critica vuol dire, si o no?, ricreare l’opera e interpretarla, dopo stabilito ch’essa è arte) dimostra, una volta ancora e una volta di più, l’arte di Clair: l’opera che esiste come esiste il mare, come esiste un tramonto. Logicamente l’ottimismo sentimentale di Clair deve passare per la malinconia e il pessimismo prima di raggiungere la liberazione risolutiva. Così la tristezza di Michel quando non trova il biglietto; così i suoi dissapori con la ragazza (fotografia lacerata; e poi ricomposta); così la sequenza che si svolge sul palcoscenico, e mentre i due amanti si sono riconciliati e si vanno vieppiù immergendo in uno stato di sognante beatitudine, entrano in campo gli operai, e portan via il fondale con le nubi, staccano la luce, il paesaggio di fiaba viene distrutto. Questa scomposizione della illusione ambientale (i finti chiari di luna; le finte nubi; la finta pioggia di petali: il mito della “Parisina” capovolto)419 è una delle cose più malinconiche ch’io conosca: che sfiora quasi il pessimismo. (Per questa sequenza però il ritmo si appesantisce; il regista indugia troppo forse, un montaggio più agile avrebbe sortito un effetto migliore.) Tutti questi elementi sono di Clair e di nessun altro, e quindi del francesismo di Clair: vedi la sua posizione nei riguardi delle storielle inglesi dei film girati in Inghilterra; vedi le diversità intercorrenti tra il suo Cappello di paglia e quello di Liebeneiner.420 A fare un nome di letteratura, non potrei, per Clair, evitare France.421 Anche se “La rosticceria della regina Pie’ d’oca” richiama più Feyder (il Feyder della Kermesse, per intenderci; ch’io rivedrò tra un paio d’ore, dopo la prima visione, ch’io eseguii sei anni fa circa), anche se France è molto più “colto”,

molto più “scettico”, insomma anche se France è “più ricco”. Ma lo spirito è analogo, alla fin fine; insomma, sia pur alla lontana, i due sono parenti. (Non dimentichiamo che Clair era un intellettuale sì, ma un intellettuale limitato – se non fallito, in quanto romanziere e scrittore. Di conseguenza, su un piano iniziale, diminuito.) Se poi passiamo all’uso del mezzo, troviamo il terzo punto del Clair artista: il cineasta puro. Clair è indubbiamente l’unico che abbia, con Cavalcanti, superato l’esperienza avanguardista, di “cinema puro” (conosciamo la fine degli altri: di L’Herbier, di Gance ecc.): ma da questo periodo ha tratto un cinema che è strettamente cinematografico, anche se della vastissima gamma di elementi e di possibilità offerte dal mezzo egli ne trascura molte, anzi quasi tutte. Ignora Clair il pittoricismo, il chiaroscuro, l’emotività della fotografia. Egli non adopera mai l’illuminazione per spiegare, accentuare, esprimere, inquadrare, incorniciare una situazione, uno stato d’animo. In questo, assomiglia a Chaplin: è quasi un primitivo (ma noi sappiamo bene quanto sian complessi gli intellettualismi di questi neo-primitivi: basti pensare al groviglio di problemi che fu connaturale alla formazione del cubismo, sì che laddove si poteva ricondursi, o credere di ricondursi, alla pittura negra e ai feticci polinesiani, c’era fior di filosofia hegeliana). Ignora Clair la “composizione” del quadro: la sua angolazione ricerca solo il punto più favorevole per esprimere il personaggio, d’altro non si cura, né di pittura né di pittoricismo. Sicché il più delle volte la sua inq[uadratura] è frontale, non cerca di creare prospettive e conta di piani in profondità o in superficie. Egli non adopererebbe mai un’inq. obliqua, come Duvivier o come Gance, o come Bernard: i singoli ingredienti compositivi per lui non son pretesto d’accentuamento espressionista. Così, per Clair, conta il “fatto”, “l’azione”, o la “situazione”. Un preziosismo formale gli rimarrà sempre estraneo. È, questo funzionalismo, estremo. Lo stile gli deriva dal movimento, dal ritmo di montaggio, che per lo più è una propaggine diretta del movimento interno dei personaggi, del ritmo interno dei

sentimenti e delle azioni. Così gli accade che esteriormente il montaggio è quasi inavvertibile (e infatti in più punti egli “monta” col carrello, cfr. le interpretazioni di O[svaldo] Campassi) ma che l’interesse, pur essendo tutto puntato sull’azione dei personaggi, non è contenutistico solamente, ma deriva dal senso dell’azione e della maniera con la quale il regista esprime l’azione e la dona allo spettatore. Così nella prima parte del Milione, la duplice caccia è, nella prima immagine, quasi banale: i creditori cercano Michel, i poliziotti cercano Papà La Tulipe, è inevitabile lo scambio di personaggi, l’equivoco. Ma Clair, coadiuvato egregiamente da Meerson, risolve di par suo: intreccia le corse, ne fa un balletto, pone Papà La Tulipe al pianoforte. L’interesse nostro è così di continuo invitato alla tensione; d’un fatto comune Clair fa una creazione di illimitata fantasia. La “nobilitazione della forma” di cui credo parlava Pietrangeli è il motivo dell’arte di Clair, forse. E non è, Clair, un didattico. Anche in questo è profondamente francese. La sua “moralità” originale si limita ad esprimerla, che poi essa generi un effetto o un altro, gli è del tutto indifferente. Questa posizione leggermente anarchica è ben quella di France, per esempio; dell’incredulo e scettico France. Perché se in genere gli umoristi, o i satirici, o gli ironici son proprio didattici, in aperta lotta contro qualcosa (vedi per es. Swift;422 vedi Chaplin), Clair non accusa nulla, non si pone in lotta con nessuno. È capace di far danzare nel più buffo dei modi un poliziotto nel finale del Milione con accanto un uomo vestito solo d’un paio di mutandine e d’una bombetta, ma non spingerà questa irriverenza fanciullesca fino alla satira aperta, fino alla satira comunista del Carné di Nasce il giorno; farà un balletto di poliziotti, se questo gli viene, ma senza creare perturbamenti nelle coscienze nei riguardi dell’ordine pubblico e costituito. Questo può anche servire a dimostrare che, alla fin fine, Clair usa del surrealismo e dell’avanguardia (cfr. ancora Entr’acte) per divertirsi: anche a quelle cose è, dunque, superiore. Un fine creatore di giocattoli raffinatissimi, dunque. Per lui l’avanguardia non è stata nulla di tragico: lo ha, se non altro, spinto sulla strada della libertà più assoluta.

Il problema dell’anarchia intellettuale è in Clair più interessante che mai. Bada, non fraintendere. Clair non si pone questo problema: son le sue opere che lo pongono alla nostra coscienza critica. Io ora intendo l’anarchismo come una liberazione lirica. È una posizione priva di aspetti filosofici, e, quindi, di riflessi sociali: è, piuttosto, una configurazione poetica, un modo d’essere poetico. A noi la libertà non conclude, perché non c’erano tesi da dimostrare; nulla è risolto, perché nulla v’era di impostato: quindi, coerenza raggiunta; e quindi, arte. E così, per il resto di Clair. (Naturalmente il Pabst di Lulù, di Il diario d’una donna perduta sarà agli antipodi. Coerente anche lui alla sua materia d’artista, al suo mondo interiore.) Il milione, e il resto di Clair, è favola è fiaba, è “divertimento”. Un gioco a cui l’intellettuale e la fantasia partecipano in misura uguale. Questa è una posizione in cui si può riconoscere gran parte dell’arte francese, anche se in essa in genere predomina il regionalismo. Il superamento del cartesianesimo è stato certo in Francia compiuto più per motivi esterni, sociali, che interni: più dal crollo della società borghese che dall’avvento d’una nuova forza vitale. A questo superamento, Clair ha posto il suggello estremo col Cappello di paglia: ha così rotto tutti i ponti con la Francia borghese, creazione dell’89, ed è tornato ad un francesismo più puro, più lirico, diciamo pure più maliziosamente medioevale o secentesco. Oppure, più popolare, intendendo per popolo quel tessuto connettivo della nazione francese che non ha fornicato col marxismo. Lo stile di Clair, nella semplicità formale, si manifesta però accorto. Quest’ingenuo ha la grazia del favolista, ma sa quel che fa con una precisione matematica, tant’è vero che conduce in crescendo il Milione, dall’inizio statico e rilassato, in cui si attende accada qualcosa di sbalorditivo, e invece nulla accade, perché l’autore vuole condurre la sua storia per gradazioni lente e concatenate, alla parte più tesa che ruota attorno al biglietto non ritrovato, e dalla quale parte in tromba la fitta

trama veloce degli avvenimenti; la quale ristagna solo nella sequenza del duetto, e da questa stasi sbotta fuori la formidabile partita di rugby. Poi il ritmo decrescerà verso la pacificazione finale: e nel fiorire artificiale della [sala della danza] è l’esatto chiudersi della favola. *** Naturalmente, ci dovevan guastar anche Kermesse eroica. Sul più bello, allarme. La città oscurata, alle sei di sera; tuffata in una nebbiolina che s’accentua in alto e ai bordi; un lividore di madreperla vecchia di secoli. I blocchi delle case han l’aria metafisica dello sfondo o di Bacco in osteria;423 vicino a casa mia una costruzione isolata che s’erge è Trauner,424 è Nasce il giorno. In Feyder c’è Clair, c’è un paesaggio di Brueghel (C.L.L. dell’arrivo degli spagnoli), c’è aria di Fiandre come in nessun altro posto; ci sono la Lancia425 di Velazquez (P. A. della Rosay426 e del Duca, quand’essa offre la chiave della città), c’è una ricca vena pittorica. Meerson, ancora in gamba, ma già preannuncia la decadenza del periodo inglese, insomma, per me, un’opera pregevole. Domenica prossima, è in programma Ho ucciso [!] di Sternberg. Buono per 12 testi, ad ogni modo. *** Di un dialogo spiritoso è certo pieno il Million. Ma chi mi può dare una battuta paragonabile a quella pronunciata dall’autista stanco dopo una giornata di corse, sbattuto e finito: “Ma io non posso andare in giro così tutto il giorno! Ho moglie e famiglia! Potrei anche essere padre!” Quel “potrei anche essere padre” sta alla pari col colpo di tamburo che accompagna uno scontro di due personaggi che corrono, corrono l’uno verso l’altro, e cozzano di fronte. L’uso dei coretti in certi punti dà nel lezioso, nell’operettistico, nel vaudevillesco troppo scoperto: mi riferisco a quando cantando i creditori salgono le scale, ciascuno annunciando la propria professione. Il pezzo mi pare

un poco sforzato. Nel rimanente dei casi, il coro di personaggi nasce spontaneamente, è frutto delle circostanze, se non ci fosse mancherebbe – e lo si sentirebbe, credo – qualcosa d’essenziale (il che accade in un certo punto del Cappello a tre punte, dove un farsesco istante non è condotto alle conseguenze estreme, pur rivelando un tono e un’andatura Clairiani). I canti Michel, Michel, que vas tu faire? e Prosper’y, tu n’est pas un bon ami sono in concordanza con il tono di “favola” e di “moralità” (intendo sempre moralità nel significato medioevale): l’uno è l’angoscia della coscienza, l’altro il rimorso. Forse, una presa in giro del “monologo interiore”. Il francesissimo Clair è lontano dall’ebreissimo Freud. Nel Million la musica è meno appariscente, meno importante che in A noi la libertà, io credo. O la si avverte di meno, sta solo in evidenza in certi punti di culmine. D’altronde la sostanza musicale (intendo: la musicalità visiva) del film non chiedeva molto al movimento, se non ch’esso fosse commento, e ben connaturale e fuso. Il che è raggiunto. Qui Meerson è ancora e in pieno, artista creatore. Ho ritrovato poi la scala che nel Million si avvita strettissima, nella Kermesse (in Clair, la casa di Prospero e Michel; in Feyder, la torre del borgomastro); e così pure un corridoio della Kermesse è da ricondurre ai più importanti lavori di Meerson. Ma sulla scenografia il discorso è aperto da Bandini, e noi dovremo citarlo, come pure citare Campassi, in proposito (come già feci in “Appunti e problemi”).427 L’illuminazione è semplice, primitiva, quasi povera. Salvo certi esterni notturni, è uniforme e morbida. Non credo Clair le abbia attribuito un’importanza eccessiva. Forse, Clair ha giocato sulle possibilità espressioniste dell’illuminazione solo nel Cappello di paglia (cfr. Beria).428 Qui l’uso è elementare, diretto. Clair vuole però un ambiente chiaro, luminoso. Di quel che fanno i suoi personaggi, tutto si può vedere, tutto si deve vedere. Non ci sono zone d’ombra. Quel che è misterioso, celato, si esprimerà attraverso mirabolanti meccanismi (vedi la

stanza del capo modista; il passaggio dalla bottega alla stanza: qui c’è un residuo, forse, del Viaggio immaginario).429 Clair adopra poco, nel Million, il dettaglio; il materiale plastico – nel senso teoretico – è da lui ignorato tuttaffatto, o quasi. Del Million principalmente, conta la favola, il mondo espressivo. Tutto vi è frutto di creazione, di fantasia (il demiurgo; onnipresente, Clair: in ogni briciola del suo film). Non come nelle comiche americane, in cui la fantasia si applicava al reale quotidiano della vita e dell’esperienza (esempio sommo: Un’avventura movimentata;430 e analoga indicazione portano le cose minori: oggi ad esempio ho visto una comica del primo Harold Lloyd, e vi ho ritrovato appunto quello spirito di pazzia applicato alle tranquille cose del mondo che è l’evasione dal puritanesimo, o dalla rigidità della propria conformazione mentale, presso gli americani). *** Sono le venti e trenta. Altro allarme aereo. Questa lettera vien fuori un mosaico. I fischi delle sirene mi fanno pensare all’inizio del Disertore.431 Sono un eccezionale elemento sonoro, questi fischi. Nel silenzio disteso, sono attesi, e riempiono lo spazio. Penetrano dappertutto, ti si insinuano lungo la spina dorsale. Per un attimo, hai l’impressione d’esser l’unico uomo esistente sulla terra. Poi t’alzi, prendi qualcosa da leggere o scendi in rifugio. *** Qui sorgono problemi grossi. Quest’assoluta libertà di fantasia creativa, in Clair, in quale rapporto sta con il surrealismo? Perché la fantasia del mondo di Dalí o di Breton gioca tanto sull’abnorme, sull’esasperazione, sulla tragicità del pervertimento? Sì, le ragioni ci sono; ed è proprio dall’essenza di queste ragioni in Clair, che nasce la diversità. In Clair, la fantasia crea un “surrealismo umano”, poetico e sentimentale pur essendo, nella conformazione esteriore, svincolato dalla tradizione (suo intellettualismo; sua irriverenza) Clair è ancora nell’“umano”. In lui non si è ancora verificata la scissione che

porta gli avanguardisti nelle preziose rarefazioni stratosferiche del Prampolini migliore, nei giochi linearistici di Soldati, lungo la strada che porta alle due famose mete, “geometrical abstract art” e “not geometrical abstract art”, secondo uno schema universalmente noto: non c’è così dissidio tra umano e inumano. Dalí, Man Ray, Buñuel, Léger, la Dulac son dall’altra parte: nel senso integrale della parola. Clair non è surrealista, Entr’acte non è Un chien andalou. Egli è partito dal surrealismo, ma per superarne gli aspetti di congrega o scuola, ne ha subito scontato anche la formula. Certo, il surrealismo gli ha aperto la strada alla libertà. Ma non determina affatto la sua produzione. Già Il cappello di paglia, col suo naturalismo cecoviano, è oltre lo schema surrealista: e l’uso di ritrovati dell’avanguardia non è che un timido passo verso la libertà poetica della fantasia, in mezzo ad un opaco clima borghese d’ambientazione (1). Ora, che certi film di Clair parlino solo della periferia parigina, io comincio a dubitarne. C’è poca parentela tra Utrillo432 e Clair, alla fine. Se Utrillo avesse lavorato con Clair, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma Meerson non era Utrillo. Quest’ultimo era affine al temperamento clairiano, ma solo alla base, alla fondamenta prima. Si può dimostrare che la periferia di Utrillo è lontana assai da quella di Clair. In lett., una periferia clairiana, o che equivalga alla clairiana, non esiste. Da Charles-Louis Philippe, Céline, Dabit deriva Carné e tutti i minori francesi derivano; ma né in Bubù de Montparnasse, né in Voyage au bout de la nuit, né in Hôtel du Nord433 c’è Clair; o almeno, Clair c’è pochissimo, ce lo cacciamo noi per forza, per via d’una consuetudine troppo adoperata. Io mi baso su Sotto i tetti di Parigi e sul Milione, ignoro 14 luglio. Nel primo, la banlieu c’è e non c’è; nel Million la banlieu non c’è affatto; forse c’è in 14 luglio, a quanto testimoniano certe fotografie. Certo è che se in Sotto i tetti di Parigi non ci fossero i personaggi di Clair, quella sarebbe

molto poco banlieu parigina. Da questo punto di vista, è molto più veritiera la periferia di Carné, con veri operai, vere prostitute, veri canali, vere canaglie. In quella di Clair tutto è limpido, sereno. Inutilmente un po’ di sequenze di Sotto i tetti son condotte in un buio esasperante: nel mondo di Clair altri fattori non ne esistono. Nel mondo di Clair, la morte non esiste (lo so, in 14 luglio muore la madre di Annabella; ma dev’essere una così malinconica morte patetica da risultare serena e non angosciosa, Clair e non Carné). Nel Million insomma io trovo troppa fantasia e troppa libertà per accettare in pieno un così deciso riferimento geografico. Quelle scenografie create dal nulla, che non corrispondono a nessuna realtà riconoscibile, saranno la sublimazione dello spirito della periferia parigina, ne saranno la proiezione poeticizzata e liricizzata, ne saranno l’essenza: ma non sono periferia parigina. Quella ch’io vidi non era così linda, così chiara, era una cosa piuttosto sporca, grigia, malinconica. Molto Carné e molto Dabit, ma poco Clair insomma. Quel che è notevole, in Clair, è che l’ambientazione, pur così fantasiosa, non risulta impersonale o anodina. Non è un puro arbitrio: i riferimenti ci sono e sono dentro Clair, nel suo pariginismo. E questa mi pare una più o meno accettabile interpretazione risolutiva del problema ambientale in Clair: egli porta dentro di sé un’essenza di pariginismo, e la ricrea con la più assoluta libertà e fantasia. Insomma, Clair non si ispira mai dalla realtà, non parte mai dalla realtà: ma da un punto ch’egli porta dentro di sé, dal quale contempla le sue creazioni, con imparziale e sereno distacco. In questo senso, io non trovo verismo in Clair, perché in Clair non esiste polemica, mentre il verismo volente o nolente è sempre intriso di polemica. Ma su questo punto sarà bene studiare più a fondo l’opinione di Pietrangeli che sostiene un verismo in Clair.

Nel Million la chiarezza tematica degli svolgimenti, l’esatto compiersi dei valori e degli sviluppi pone il film nella misura “classica”. La semplicità – che non è povertà – qui si diluisce su tutti gli elementi in gioco. Questa simmetria, se ha un parente povero nell’elementare meccanismo dei “vaudeville” (dove tutte le aggrovigliature possibili risultano sempre chiare; le si segue agevolmente passo per passo) ne ha uno ricco di molto in Corneille, in Boileau. Per cui proprio partendo da un riferimento estetico, e non più filologico, si può inserire Clair nell’arte francese. *** Questo avendo visionato il Million una volta sola. Dopo la seconda volta, forse, mi salterà fuori dell’altra roba ancora. E tu conosci il film, sì che anche con questo testo mi son messo il cuore un poco in pace. *** È straordinario il silenzio che c’è durante l’allarme aereo. Non una voce. Il vuoto assoluto. Morto, tutto il mondo dei suoni. Non un rumore, non una parola. Un milione e più di persone in questo silenzio. Strano. *** Nella Kermesse eroica c’è un bel mezzo, ci sono panoramiche, carrelli, montaggio, angolazioni; ma non ci si accorge per nulla dell’esistenza della macchina da presa (questa constatazione mi ha spinto definitivamente a considerare il film come un’opera d’arte; dico questo di Feyder). Lo stesso accade in Clair; con la variante che in Clair ci son pochi espedienti formali; la macchina si muove poco, generalmente. O almeno, non ci si accorge della presa. *** Dunque, testi a buon punto sono: “Il vampiro”, “Il traditore”, “Un carnet di ballo”, “Notti bianche”, “Nasce il giorno”, “Sei ore di permesso”, “Mad. Docteur”, “Il milione”, “Uomini sul fondo”, “Serenade”. Sono dieci. Più un documentario (cioè,

cortometraggio) italiano, sono 11; e resta da scegliere tra un italiano, lo Chenal, Pattuglia e Capra. Per Forst, c’è il tuo “Rebecca”. Quando ne trarrai il testo, io farò le aggiunte. Il mio articolo – esca o no – “Cinema su sfondi germanici” contribuirà a introdurre o a chiudere il testo. *** E ora, mio caro, vado a dormire. Sono le 23, ma chissà… Forse le sirene si risveglieranno. È bene dormire un poco. E sono stanco, e seccatissimo di averti scritto una brutta lettera su un bel film. Ma tant’è. Lo scriviamo in due, questo benedetto libro, e ci metterai tanto di tuo da coprire le mie brutture, vero? 12 testi è una cosa buffa. A volte ci tengo molto, a volte mi sfugge. Il mondo è così pieno d’altre cose ancora! Ti abbraccio Jusik P.S.

Ricevo ora la tua cartolina del 3 nov. Amen, per Un pilota ritorna non ne parliamo più. Un giorno ti prenderò per un orecchio, ti rifarò vedere il film, ti darò colpetti nelle costole a tutte le cose belle che ci sono. Poi, numerando i lividi, mi dirai se il film è bello o brutto. Io non ho mai detto ch’esso era un capolavoro, ma è uno dei migliori film che siano stati fatti in Italia a tutt’oggi. Quando vedrai Bengasi, Addio, Kira, Un colpo di pistola e tutto il resto! Ciao, vecchio balordo. E pensa che alla fin fine, si può anche sbagliare. Io, almeno, penso così. Jusik

(1) Un poco il cammino di Clair si può paragonare a quello di Cocteau. Questi, in Les enfants terribles, superò il surrealismo. Ma non riuscì, non riuscirà, a fingere, come Clair, a “air pur”.

Milano, 9 novembre [1942 – XXI] Caro Ugo, dice Carlo Bo, nel suo saggio di Bontempelli, che B. è “libero di fronte alla pagina”, e che “alla sua libertà di gioco intellettuale sacrifica la tessitura della narrazione”. (Non mi cogliere in errore, che sto citando a memoria.) È una cosa che, per B., avevo sempre pensato, specie per i Miracoli434, per Donna nel sole.435 Più poveramente io dicevo “B. dice delle cose interessanti, ma le dice male; egli scrive male”. E infatti i soli suoi testi ch’io accetti compiutamente sono tutt’ora Eva ultima436 e Giro del sole.437 Questa individuazione di una “libertà di fronte alla pagina” è assai felice, e dice tutto di B. Mi può aiutare a chiarire Clair, perché quello che è il definitivo “messaggio poetico” per Clair (e “umano” per Duvivier, Renoir, Carné e gli altri) deriva appunto da questa libertà posseduta nei riguardi della materia trattata, e dello stile applicato. Neanche D., R., C. e gli altri soffrono di “imposizioni” (imposizioni che derivano dalla loro stessa natura, e dai limiti di quest’ultima: sì che li vedi schiavi dei loro punti di partenza interiori, ed essi sono “costretti” ad esprimersi, e sanamente sciolgono la loro creazione in un puro, disteso, felice, inebriato di sì canto), Clair è privo di riferimenti, di legame: la sua espressione gli deriva dall’interno, non dalle suggestioni esteriori da un ambiente e da certe psicologie (D., C.), o dalle possibilità d’una fusione tra narrativa e pittura (R.). Sotto questa luce, egli è libero poeta; più libero ancora di B., che tende a creare dei miti, epperciò è in certo senso sdoppiato, d’un lato il B. che tende al

mito, dall’altro il B. che realizza il mito: Clair invece è unitario: in lui ispirazione ed espressione sono tutt’uno (che la realizzazione segua, nell’ordine di tempo, deriva dalla particolarità della tecnica dell’arte filmica; non implica dualismo): ecco perché dicevo, a suo riguardo “misura classica”. Avrai arricciato il naso alle mie affermazioni sulla periferia di Clair. Ripeto: in lui la periferia, in quanto mondo, è la sublimazione di quella parigina, ma a quella parigina non s’ispira affatto. A Parigi, la periferia di Clair non esiste, mentre esiste quella di Carné. Dunque, i riferimenti col “reale”, col “vero” sono subordinati al passaggio degli elementi attraverso Clair. Ma mentre la periferia che esce da Carné assomiglia a quella che c’è entrata (perché lei è nella polemica d’ambiente, è nel giro “umano” delle vicende), per Clair accade il contrario: la banlieu resultante è tutta creazione (perché lei non è in polemica, è libero di ricreare come gli pare e piace quel che vede; appunto, agli antipodi di Carné). Io del resto, checché ne dica Vice, trovo assai poco Clair in Carné. Sì, anche Carné inquadra la famigliola borghese che se ne va a spasso la domenica, ma poi panoramica indietro per riprendere degli operai che entrano nel “bistrò” (Albergo Nord). È meravigliosa la felicità con cui Clair gioca le sue carte. Ne è il padrone assoluto. Non ha tentazioni, se non quella di esprimersi integralmente e compiutamente: non è allettato dal pittoricismo come Renoir, dalla polemica come Carné. Tu forse borbotterai ch’io chiami “polemista” Carné. Ma una volta definito il suo mondo (aridità, assenza di tragedia, cervello, poesia mancata) io mi domando perché mai esso esista, in lui. Si tende sempre allo stesso limite, vero? Ora, il mondo di Carné non tende a nulla: è quindi una polemica; Carné nega che gli uomini, e le anime degli uomini, possano comunicare: e questa è polemica, è affermazione d’una filosofia, quindi negazione delle altre filosofie: cioè polemica.

Escludendo il divino, e lo spirituale, dalle sue opere, Carné dice (è inevitabile: si deve riconoscere che le sue opere dicono questo): il divino e lo spirituale non esistono. E questo è ancora polemica. E in tutta la “posizione Carné”, io trovo del marxismo (e altri prima di me vi trovavano del “determinismo marxista”, ricordi? Oggi, per esempio). Renoir è già diverso, Renoir si contraddice. O almeno, La marsigliese e La grande illusione sono in contraddizione con I bassifondi. E così Duvivier, il quale è agli antipodi di Carné; D. col suo cattolicesimo pessimista che cerca disperatamente sé stesso: come cercare l’anima cattolica entro di sé: tormentati personaggi di Maurice. E se Carné è un poeta mancato (pensa alla sua impossibilità di canto sciolto e chiaro, almeno in Nasce il giorno, Albergo Nord: quell’eccesso di interesse “umano” non ancora risolto; per cui un film gli è un problema), Clair è poeta in pieno: ha limpido tutto dentro di sé, nella fantasia, nell’intelligenza, nel sentimento, e si esprime direttamente (bada, dico “intelligenza” per Clair, e invece “cervello” per Carné. Ho fiducia che padroneggerai subito la distinzione, non m’inviterai alle chiose). (Anche questo è un metodo critico che può dare buoni frutti: dire cosa è Clair, dicendo quel che non sono gli altri rispetto a Clair, cioè quel ch’essi sono di diverso da Clair; è come sbucciare Clair. Non so se rendo l’idea.) *** Per il libro, io credo sarà bene fare delle citazioni, quand’esse saranno necessarie a chiarire il nostro pensiero, la nostra posizione. Certune potrebbero entrare nel testo del discorso, altre raggrupparsi nell’appendice, come in Città di pittori, Via Larga.438 *** Sono in un madornale errore quelli che disprezzano il cinema nel ravvicinarlo al “pensare per immagini”. Effettivamente ha ragione Freud quando diceva che pensare o esprimersi per immagini è uno stato inferiore di civiltà: l’espressione del

pensiero puro non può in alcun caso ricorrere ad elementi estranei, se vuole veramente essere sé stesso (vedi, in musica, Bach e Vivaldi, dove l’immagine non esiste; e di converso, Debussy, dove tutto tende all’immagine, alla pittura). Ma non è che il cinema pensi per immagini; egli si esprime non per immagini; ma per immagini narra. Il cinema pensa per pensieri “puri”, o “sente”: poi narra visivamente. È quindi diverso dal poeta simbolista, che pensa per immagini analogiche fondendosi all’oggetto dell’analogia o al simbolo (cfr. Flora in La poesia ermetica;439 libero, sia detto incidentalmente, sballatissimo). *** Su B. e n. ho trovato altre conferme dell’arianesimo di Pabst. E comincia ad interessarmi un fatto: perché le tre versioni filmiche di Delitto e castigo sono state fatte da tre ebrei? (Wiene, Chenal, Sternberg)440 Cosa li ha attratti verso questo soggetto? Forse il tema della redenzione finale; o il tormento del protagonista? Certo l’analisi comparativa di questi tre film, ci dirà cose preziose su questo punto, e non solo nell’ambito delle singole personalità degli autori (la sgretolazione psicologica di cui parlava Pasinetti a proposito di Ho ucciso!), ma anche nei riguardi della posizione degli ebrei riguardo all’arte. Leggendo Heine mi sono convinto, col Weininger, che gli ebrei possono raggiungere l’arte solo se negano il loro ebraismo, se cioè non sono più ebrei. Infatti esiste profondo divario tra l’Heine religioso (e quindi non ebreo) e quello disgregatore (cioè ebreo): il primo è un artista, il secondo un velenoso polemista. *** Dalla tua ultima lettera a Guido pare traspaia che sei furibondo col Chiarini sulla Bella addormentata. Bene; non facciamoci un testo. Facciamo piuttosto Zuiderzee, o Pioggia.441 Mica stupida l’idea: un documentario italiano, e uno straniero. Ma su Chiarini c’è da discutere, e da accapigliarsi a lungo.

*** Per i tre ebrei e Dostoevskij, io credo che quel che li abbia interessati presso il russo sia stato il tormento del protagonista, e non l’alta moralità della redenzione onde il libro è informato. Tant’è vero che il finale di Chenal è fiacco, e che tanto di lui quanto di Wiene, lo spettatore ricorda il tormento dell’uomo e non la purificazione dell’uomo. Sternberg poi, sconfinerà nel patologico addirittura (la scelta di Peter Lorre è chiara, in proposito); come Wiene un tempo, nella sequenza dell’incubo. Lo stesso presso altri cineasti ebrei. Non credo che uscendo dall’Angelo azzurro uno fosse convinto della necessità di non traviarsi per ballerine. Ha letto il romanzo di Mann, e da esso ha tratto a suo tempo l’immagine del film. Il resto è noto. *** Mi vo convincendo che criticare usando un metro solo è pessimo mestiere, come pure è male avere sempre dinnanzi agli occhi un certo modello di cinema. Non un’estetica per tutti, ma una per ciascun autore. Lo stile è l’estetica. *** Ho trovato per caso un mio vecchio articolo in armeno, su Pirandello, pubblicato nel 1938. Allora, io scrivevo così: “in una parola, egli (P.) ha voluto dare un aspetto artistico alla fotografia; sebbene non ci sia riuscito sempre, molte volte quella che appare indagine metafisica, in lui è solamente poesia; quel che sembra concezione nuova e originale o cerebralista, per lui è realtà di dolore e di sofferenza umana”. Oppure: “dando un ritmo lieto ai suoi ragionamenti, Pirandello trasporta questo fenomeno nel campo dello stile, e crea il suo secondo problema artistico: dimostrare logicamente l’illogico”. “Il crollo dell’universo solido è armonioso in Pirandello, proviene dal suo incontro con la filosofia tedesca. Essendo siciliano, cioè mediterraneo, la sua evoluzione avrebbe dovuto essere – come quella di D’Annunzio –, rivolta all’estetica ellenica, mentre col suo andare al nord egli ha perso quel senso lirico solare e semplice dell’interpretazione

della realtà ch’è caratteristica della lett[eratura] dei popoli mediterranei.” Pazzesco. Io, nel 1938, scrivevo queste cose; è così. Oggi invece, 1942: “un’espressione spontaneamente soddisfacente ha bisogno di ‘rinuncia’, di ‘denudamento’, di ‘confessione’ (‘confessione in senso pascoliano’) avvertito da delle inquiete coscienze magari portate ad uno scabroso punto di morto attivismo inerziale e meccanico da un impulso privo di fermi controlli d’una vigilanza spietatamente esercitata contro le proprie limitazioni dagli assunti”. È bestiale. *** Per la periferia di Clair, pensa alla Parigi di Poe: che è una Parigi, ma solo di Poe: e la realtà, non esiste. Mentre la Parigi di Zola è Parigi, la Parigi che tutti conoscono. Come per Carné. Aff. Jusik

10 nov[embre] 1942 [– XXI] Carissimo, ricevo ora il tuo ulteriore foglietto, del 3 nov. Ma no, no di sicuro, noi no. *** Accidenti, il solito allarme dell’una. Deve trattarsi di aerei che transitano dall’Inghilterra in Africa [sic]. Almeno noi così riteniamo, dato che la contraerea non spara, e la nostra [aviazione] circola pacificamente. *** Soffriamo per l’azione dei nemici sopra la nostra città. Non è certo la paura di morire o di perdere i beni che non abbiamo (che io, almeno, non ho), a farci soffrire. Cose terrificanti non si sono verificate. I danni devono essere considerati minimi in rapporto a quelli di cui ebbe a soffrire Genova; grandi devastazioni non ci sono state. Le case integralmente crollate o bruciate saranno una decina; una pleiade di piccoli incendi non ha inciso sul volto della città. Se gl’inglesi credon di coventrizzarci, stan freschi. Quel che ci fa soffrire è la bestiale idiozia di certa gente; la miseria della natura umana all’approssimarsi del benché minimo pericolo; la delinquenza mentale di certi traditori; le debolezze e manchevolezze che, specie in questi momenti, salta fuori da tutte le parti. Oh Dio, io non direi “viviamo in tempi sporchi”. In tempi sporchi tutta l’umanità visse sempre. E la storia ci ha reso brutti servigi, idealizzando e ritraendo

solo la parte migliore ed eroica della vita. L’uomo è sempre una assai compassionevole cosa: ma deve esserci, per permettere al mondo di progredire, una categoria di uomini che superino la loro inferiorità, che siano all’avanguardia. Ora, questa élite è troppo poco numerosa; o almeno noi credevamo, in passato, fosse più nutrita. Grande è la pena, carissimo, di chi crede, e si vede attorniato da masse di deficienti che non credono, e che (almeno tacessero!) bestemmiano! Vien voglia di menar le mani, o di reagire in un qualche modo. Ma siccome noi siamo dentro un ordine gerarchico, non dobbiamo permetterci azioni individuali. Certo è che molte cose che sentiamo come dovere, non ci son richieste in quanto tali. E allora ci isoliamo. Almeno così restiamo coerenti alla nostra coscienza, e tra tanta gente che pensa et agisce male, noi pensiamo diritto, e cerchiamo d’essere un poco migliori di quel che siamo. Evitiamo anche, così, la crescita di problemi che non sapremmo o potremmo risolvere. Non credere che sia un paradosso, ma da quando dobbiamo fare qualche sacrificio di più, ci pare d’essere più degni, di giustificare un poco di più la nostra esistenza, dato che noi costantemente siam riferiti a quello che gli altri fanno per noi sui fronti di guerra, e non crediamo d’essere “combattenti del fronte interno” pel fatto che osserviamo le norme dell’oscuramento. L’unica azione aerea notevole fu quella del 24 del mese scorso; venne all’improvviso, io stavo per entrare al cinema Corso, eran le sei, suonavano le sirene, tutti credevano fosse un errore; quand’ecco dopo cinque minuti, bassissimi volare – tra gli ottocento e i mille metri – i quadrimotori nemici. Io ero sotto il porticato del cinema, come gli altri credevo fosse un’azione dimostrativa, facevamo il tifo per la contraerea, che quei dannati era così bassi che pareva facile l’acchiapparli. Dopo mezz’ora, aerei non ce n’erano più, e noi entrammo nell’atrio del cinema, ad attendere la fine dello stato d’allarme. Uscii alle sette e mezza, il cielo era tutto un rosso velluto d’incendi. Posto contro una cortina rossa, il Duomo era

magnifico, pareva un merletto ricamato su un pizzo pregiato. Dalla parte di Porta Vittoria il riverbero era altissimo. Staccai una corsa disperata. In San Babila c’è un ufficio postale, dinnanzi alla posta un gruppo di persone. In mezzo, una donna che urlava. Era una postina, una povera donna patita. Aveva visto bruciar la sua casa. Per terra, la sua bicicletta – la povera bicicletta di una donna che lavora – era un tragico groviglio gettato lì, dimenticato. Non c’è nulla di peggiore del vedere una persona debole colpita, percossa. Quella povera carne umana. Più in là una vecchia s’era perduta, piangeva con una stridula voce di bimbo. Non si ricordava più di nulla, non sapeva dove andare, che fare. Era in preda ad uno smarrimento indicibile. Attorno a quest’angoscia la gente correva. Mi diressi verso casa. In fondo a viale Piave, piazza Tricolore bruciava. Lo spettacolo del fuoco era dotato d’una profondissima forza. A volte, superava l’essenza umana e sentimentale derivante dalla distensione. A tutto ciò io ero freddissimo, non sentivo in me nulla: non avevo nulla da vivere o da morire. Ero in pena per Marisa, che dovevo vedere alle sei per andare al cinema, e non sapevo dove fosse. Dei miei, triste a dirsi forse, m’importava assai poco. Di me, m’importava nulla. Arrivai da Marisa, era in casa placida e tranquilla. Telefonai dai miei, tutto era in ordine. Da Marisa seppi degli incendi che non avevo veduto. Poi tornai a casa. Bombe cadute in via Gran Sasso avevano provocato un furioso scotimento d’aria, un corto circuito. Mangiammo a lume di candela. I telefoni non funzionavano. Uscii con mia madre per andare al cinema, per telefonare da un bar. Chiusi erano i cinema, scassati tutti i telefoni. Nei bar la gente parlava di aerei abbattuti, di case colpite, l’azione degli aerei era stata intimamente criminale e delittuosa. Con perfetta visibilità, senza ostacolo eccessivo della difesa locale, avevano sganciato a casaccio. Quasi tutti gli obiettivi militari ed industriali indenni, colpiti erano stati obiettivi civili. In più punti gli aerei avevano sganciato su gruppi di persone che si affrettavano ai rifugi, erano aerei a mitragliar la gente.

Una lercia cosa. Mi prese un enorme disgusto pel genere umano. L’indomani andai a trovare tua mamma. Era in pena per te, per quel che avresti potuto pensare all’indomani, dal bollettino, senza notizie precise. Dalle tue parti, case vennero danneggiate in piazza Bacone, in corso Buenos Aires, in via Petrella. La tua casa non ha avuto il minimo danno. Le incursioni successive non sortirono alcun effetto. Abbiamo però un paio d’allarmi al giorno. Cura intensiva, dice Marisa. Ma non soffriamo, almeno nel senso comune della parola. Per altre cose soffriamo, ma senza dubitare, senza venir meno alla nostra fede. Questo, dato che l’ài voluto, per quanto riguarda l’azione aerea nemica sulla nostra città. *** Sono strabiliantemente contento della tua decisione riguardo al libro. Sai, caro Ugo, non sarà certo un libro nato dalla pace dello studio e dalla tranquillità delle ricerche analitiche. Un poco del suo valore verrà anche dal come è stato scritto, tra Milano, Monopoli, Korça, Tirana e, forse (e io spero), P. Va bene, pazienza per il Chiarini. Ma spero approverai, almeno, l’idea dei due documentari. Intorno al Million mi sono espresso in lettere precedenti. Molte cose ovvie, data la limpidità di Clair, i pochi problemi che esso offre all’indagine (pochi, rispetto a Carné, per esempio. È vero, mio polemista?). *** Ho dato un’occhiata ad uno degli ultimi libri entrati a far parte della biblioteca di Marisa, Della spiritualità nell’arte, particolarmente nella pittura di Kandinsky. Io conoscevo bene il Kandinsky pittore, attraverso i suoi quadri; qui ho trovato il senso della pittura astratta. Kandinsky è in pittura quel che Eggeling o Fischinger è in cinematografia: un estremo cerebrale. La sua opera è tutta una costruzione arbitraria. Io la posso ammettere nel cerchio del pittore Kandinsky, ma non in un ordine universale. A me pare

che K. sia ebreo, o assai ebreicizzato (ha vicinato con Klee, con la Bauhaus): e che porti questo carattere nella sterilità astratta e intelligente delle sue teorie e dei suoi quadri. Non si può penetrare in un suo quadro restando quel che si è: si deve diventare K., per capire o amare. È una sorta di visualizzazione pitagorica dell’ordine ultimo delle cose, senza più nulla di umano. Una pittura che è nel contempo matematica, fisica, decorazione, musica. A me dice assai poco; e la teoria mi convince ancor meno. Ci sono però delle buone pagine sul colore. Bello il libro, si sa un poco di più cosa sia la pittura astratta. Ma spiritualmente più ricchi, non se ne esce. Del resto, è uno scritto del 1912, ormai sorpassatissimo quindi e dall’aeropittura e cosmopittura di Prampolini442 e dai surrealisti francesi. Il libro reca, tra l’altro, una prefazione pietosa. È edito da Religio (ma guarda un po’ cosa vanno a combinare certi ambienti cattolici!): nelle medesime edizioni si trova il nome di Buonaiuti, di cui tu ài letto di recente qualcosa.443 E, a proposito, i libri di Marisa, anch’essi ànno bisogno d’essere letti. E anche da te. Ma sei vai avanti di questo passo, va a finire che li conoscerai tutti per averli letti per conto tuo, prima di venire a casa! E ora, attendendo che cessi l’allarme aereo, ed io possa andare all’università a lavorare alla mia tesi, ti traduco qualche pezzetto del Mondo interiore di Indra. “Le luci spumeggiano, infiammate dall’alcool, e nel luogo fumoso e brulicante, l’Ingié-Jaz palpita con rapimento il ritmo della sua cadenza, ronzante e profondo. Nel mio bicchiere di acquavite vi sono delle scintille: bruciano come diamanti, neanch’io m’immergo, con un’adesione colma di rapimento e torbida, nell’atmosfera tiepida e viscida. La mia mente respira l’essenza luminosa e bruciante dell’alcool ove son fuse dal fuoco delle oscenità dolorose. Le gocciole di luce che vi brillano, nella mia mente cadono su delle immagini che malinconicamente dolorano; su dei pensieri che paion ardere. La luce bruciante ch’io bevo, mi s’estende dentro, s’estende

voluttuosamente, e fa brillare delle immagini come una onda che si distende sui ciottoli e sull’alghe d’una spiaggia colorandole con degli amari scintillii. Pauroso come una costa selvaggia, succhio l’onda amara ove con ammucchiamenti torbidi e nebulosi le immagini s’eccitano ed infuriano, e rendono palese quand’esse siano materiale di desiderio. Tendenze, quand’eran luce e senz’ombra; desideri sono e bisogni quando le riempie la vita, quando si colmano della linfa ch’io bevo. Quant’ànno ragione di rattristarsi coloro che son pieni d’immagini che chiedono d’esser realizzate; coloro nei quali una continua creazione vien concepita; e li illumina, con dei sorrisi che son dolori tuttavia: come scintille subito mutate in cenere.” “Ogni cosa è un’immagine di luce, e dalla diversità delle immagini, dal numero, e quindi dalla caratteristica deriva il tormento dell’anima, la quale per sua natura tende ad una sintesi beata e luminosa, dalla quale esse sgorgano, e sulla incontaminata unità della quale l’anima aspira a fonderle. Le immagini, diverse ed innumeri, sono dolori nell’anima perché son difettose nella loro caratteristica individuante, e resistono all’anima che è affettivamente, e desidero assimilare, unire, fondere. Esse sono desideri illusori e mendaci, e la rinuncia buddista dai desideri, e un evitar di solitudine contemplante verso il Nirvana, verso il Bodhi – la fragile creazione dell’anima universale dove cozza la realtà mortale, piccola, impura, incompiuta dalle specificità che ricoprono di seduzioni le immagini; quand’essa è attratta dal loro spetto; quand’essa tende alla immagine-luce del loro spetto.” “Ahimé, l’erbe tremano, fremono: povere erbe! Quale impietosa realtà mi attornia? Qual è questo mio persistere sulla misera terra? Sulla solitudine della terra, isolamento che stringe il mare? Perché io sono il povero fratello di queste nullità tremanti. Cosa può consolare il lutto di vivere, chi laverà l’onta dell’Io? Non necessita forse ch’io mi perda nel cimitero profondo della terra; che con pace io ritorni alla terra?

Invece il suo aspetto muove sulla finestra: si perde, e mi rinasce dentro. Che scompaia pure! Che si seppellisca nei misteri inenarrabili del cuore, come nelle tombe d’una chiesa, lontano dai capovolgimenti della vita. So che quando l’errore per delle lacrime lo resuscita tanto spesso che alla fine esso mi viene incontro; che quando esso si delinea fantasmagoricamente tra le mie azioni e la mia interiorità – inizio folgorante – la mia visita deve evolversi. Perché questo è il suo diritto, e non la sua influenza, la sua ebrietà; perché se i geni possono creare dei punti di vista, egli può ricreare la coscienza; tanto potere è in lui; perché io so che egli è il Signore.” *** Ma onde tu ti convinca… *** Ecco, cessato allarme. Sono le tre e mezza. *** …che la letteratura armena non è tutta così complicata, ti trascrivo una piccola (cioè breve) poesia di Ciarenz.444 “Come la terra mia senza speranza, come il paese mio senza fortuna, triste è il mio cuore, villaggio abbandonato triste è il mio cuore, tutto in rovina e lutto. Questo scintillare di giorni diviene, nel mio cuore profondo, profonda ferita: o cuore mio fremente, cuor senza speranza, terra mia orfana e senza fortuna.” ***

Aspetto tue buone nuove, ti abbraccio affettuosamente. Tuo Jusik

12 nov[embre] 1942 [– XXI] Caro Ugo, ricevo oggi la tua del 4 corr. Quando ti parlavo di un mio disagio, mi riferivo a un caso (che è del resto sempre possibile nella vita di un uomo) a quello in cui non solo mi cadessero gli interessi per il cinema, ma anche quello per tutte le cose di questo mondo, me compreso. Capire che [se] non si è nulla non si può pensare, e di conseguenza, non si può scrivere. Questa è un’eventualità: di essa non so null’altro di preciso. Se tempo fa era piuttosto vicina, oggi per vari fattori, è un po’ più lontana. *** Noi non siamo legati a contingenze? Tu non lo sei. Io troppo spesso, ahimé, lo sono. *** Dell’Affaire est dans le sac io mi ricordo benissimo di certi particolari, che mi vennero a suo tempo raccontati da Aran. Uno è quello dell’attore che viene chiuso in una bottega, e che ne esce dopo moltissimi anni dotato d’una fluente, candida barba. L’altro è quello di un’aggressione in mezzo alla strada. Un uomo viene aggredito – sotto lo sguardo placido di un poliziotto – percosso e derubato. Arriva un pietoso che lo vuole soccorrere, viene arrestato dal poliziotto. L’episodio dei cappelli si svolge così: il ladro ha in testa un cappello vecchio, quando passa vicino ad una persona saluta, si toglie il cappello con una mano, con l’altra toglie di testa il

cappello dell’altr’uomo: si mette sulla testa il cappello nuovo, colloca il suo vecchio su quella del passante. Io credo in questi film ci fosse l’esasperazione estrema e parossista dell’idiozia (idiozia considerata come irrazionalità: come uno stato psichico turbato ed anormale). L’idiozia come stato poetico. *** Comencini non è a Milano, è alle armi. *** Si, sono in grado di controllare le osservazioni su Circo445 (il Potemkin inutile metterlo nei testi rari). All’inizio si assiste ad una scena di tentativo di linciaggio. Una turba di persone imbestialite (l’azione si svolge in America) corre dietro una donna che reca in braccio un neonato, per farne sommaria giustizia. A malapena essa riesce a salire in un treno in partenza. L’azione si trasporta in Russia. La donna, una cantante americana, è giunta in URSS con un circo e con un uomo (quello che l’aveva prima aiutata a salire sul treno in corsa), che la domina e la tiranneggia. Essa ha solo il suo bambino, un meticcio, che cela con gran cura perché affetta da pregiudizi borghesi e razziali. L’uomo la domina perché ritiene che se rivelasse la cosa ne nascerebbe scandalo e la donna ne patirebbe danno. Mary intanto canta, su una specie di aereo (non ricordo bene cosa) che traversa tutto il circo, una canzone che dice “Mary cade nel cielo, Mary cade nei miracoli”. Canta in inglese. Porta, essa bionda, una parrucca nera; pare una donna del 1920 o ’22. Nel circo, essa conosce un acrobata russo, un giovane biondo, che la circuisce. Essa, sebbene attratta da questa attenzione, è sempre legata all’onta del meticcio che ha generato, a questa sua colpa. Nasce una rivalità tra l’acrobata biondo e l’uomo che accompagna la ragazza. Ad un certo momento essi si squadrano il più biecamente e il più ferocemente possibile attraverso un vetro. All’improvviso, sul

vetro cristallizza del ghiaccio, o della neve, che so io: questo vale anche come dissolvenza. Parallelamente, si svolge una “second story”. Un ragazzo e una ragazza che si vogliono sposare e combinano un sacco di guai, si mettono in brutte situazioni. L’acrobata biondo continua a corteggiare la ballerina, viepiù triste e sola. La porta in un ritrovo. Vestita all’Europea (bene erano realizzati certi interni casalinghi), l’attore è goffissimo. Il ritrovo è sulla cima di un grattacielo. È, questo, l’inizio del secondo tempo. Si inquadra un paesaggio di città, poi panoramica a sinistra, una serie di tavoli vuoti, i due che ballano, si fermano, si mettono a parlare. Sulla terrazza non c’è anima viva all’infuori di queste due persone. Alla fine c’è spettacolo di gala, poi il circo partirà. Mary confessa all’acrobata di amarlo, lui si mette seduta stante a far delle capriole. Prima dello spettacolo annuncia al suo persecutore che lo abbandona. Egli allora, nel bel mezzo della presentazione, grida che la donna ha avuto un figlio da un negro. Viene accolto dal pubblico a gran scrosci di risa, e cacciato ignominiosamente. Il negretto viene preso in braccia dal pubblico, che lo passa di mano in mano, cullandolo e cantandogli canzoncine successivamente in russo, ucraino, cosacco, tartaro, georgiano, siberiano, eccet. (tutta la famiglia della URSS). Ha inizio la coreografia finale misera e sciatta quant’altre mai. Tutto è povero, di cartapesta. L’illuminazione è assicurata da festoni di lampadine. Invece di essere grandiosa, la coreografia finale è, per l’ambientazione, pietosa. E non si può paragonare neppur di lontano alle lucide elaborate ricchezze dei film-rivista americani. Mary rimane in Russia; gettata per sempre la parrucca nera che nascondeva i capelli biondi, libera ormai da ogni pregiudizio borghese o razziale (meglio razzista), essa si iscrive al Partito, sfila con un luminoso, felice sorriso assieme alle compagne sulla Piazza Rossa, dinanzi a Stalin. Dell’uso speciale di mezzi filmici non mi ricordo. L’interpretazione era discreta. L’opera era grottescamente e

crudamente tendenziosa, puerilmente propagandista. La produzione (scenografia ecc.) era scadente. Come effetto naturale, si può ricordare il C[ampo] L[ungo] della stazione dove il negretto abbandonato piange fragorosamente. In Circo c’erano tutti i termini della più elementare dialettica comunista; il film era sentitamente antirazzista, l’antirazzismo ne era la tesi centrale. Si dovrà ricordare un buon uso del mezzo, citato da Barbaro su Bianco e nero. In definitiva, un film molto mediocre. *** Dovresti chiedere a Bandini se ci cede la sua analisi di Tutto il mondo ride. È ottima. *** Pattuglia è la rivista del Guf Forlì. Anch’io, forse, collaborerò al numero unico (di cui dà notizia anche Cinema n. 153); che anch’io, come te e gli altri, sono stato invitato446. Pie[t]ro Bianchi è “il timido a palazzo” (io direi il “fesso a palazzo”). Bonfante è un letterato, credo. Camporesi scrive su riviste di Romagna. Paolo Grassi dirigeva a Milano Palcoscenico, è uomo di teatro; Allerta un pittore, è del Cineguf Milano. Ignoro gli altri. *** Bandini è assai giusto su Alfa-Tau. *** Ti abbraccio, Tuo Jusik

Polv[eriera] di Mb[orja], dicembre [1942 – XXI] No, carissimo Jusik, non è certamente per colpa tua che tu non hai potuto seguire gli studi di tuo maggiore gradimento, anzi di tua spettanza, per usare un termine militare: non è per colpa tua, e devo aggiungere molto di più. Devo dire che io non ho mai conosciuto nessuno che esplicasse una tale attività, come la tua: tener dietro all’arte e alla cultura come fai tu, con la profondità che ti distingue, e contemporaneamente ad una facoltà che agli altri individui comuni assorbe tutto il loro tempo e, direi, tutto il loro cervello. Tu non perdi davvero il tuo tempo; credi pure: tu meriti soddisfazione nella vita, perché sei un riservato, ostinato, instancabile lavoratore. Io ti ho sempre apprezzato molto e ti voglio bene, anche per questo. *** I presentimenti cui tu accenni di sfuggita, e che tu chiami “cosa strana”, per me sono una continua ossessione e formano, potrei dire, una ragione di certezza. Certezza che vivo e che sono io a morire la mia vita. *** Di Chiarini, del Chiarini regista, parleremo nel libro, anche senza analizzare compiutamente, come abbiamo deciso, un suo testo. La probabile pubblicazione dello scenario della Bella addormentata447 ci metterà vieppiù al corrente. Non è molto difficile un giudizio sul Chiarini, a meno che noi non si voglia complicare, quasi per forza, la faccenda. Le Cinque Lune è un amplio saggio di ambientazione, visto alla lontana: ed è questa lontananza quasi voluta l’apporto principalmente negativo del

film. Non si crede a quel che succede finché il regista ci ha come spontaneamente levata di torno ogni ragione di fede. Non è freddezza estetica, bensì inesperienza e algidità di osservazione. Il materiale plastico difetta in modo evidente, e i personaggi si muovono a vuoto, senza influenze reciproche. Però, ciononostante, ci sono dei particolari, non difficili da trovare, specialmente con l’aiuto della sceneggiatura, che indicano spiragli di possibilità senz’altro notevoli. Come La bella addormentata ci ha dimostrato a sufficienza. Questo secondo Chiarini non è freddezza (chè la freddezza c’entra poi fino a un certo punto in arte: che sia arte “fredda” non interessa, basta sia arte: anche il cinema “cinematografico” non dovrebbe far eccezione, è espressione che ha significato in un senso di limitata polemica); ma è “posa” in gran parte. Questo, il suo vero limite. Ma parleremo a lungo di questo film. *** No, non solo la corrente De Robertis è, come tu dici, cinema italiano. Ma noi, nel testo “Uomini sul fondo”, comprenderemo tutto – anche “Motivi di rinascita”, anche “Alfa Tau”. – tutto: un panorama completo del cinema italiano. E anche i cortometraggi, se vuoi. Contento? *** Dici: “ma non dobbiamo ignorare la scuola verista, dalla Peccatrice a Fari nella nebbia (film fallito per mancanza di ritmo, di montaggio): vedi l’ultimo articolo di Pietrangeli”. Quale articolo? Dove? *** “Sul documentario non transigo, però” scrivi. Io spero tu venga ai fatti. Tutto deve entrare nell’ultimo testo, come t’ho detto. Pensa alla costruzione del libro: 1, 2, 3, 4 etc.: come rovinerebbe quel documentario! E poi, un testo solo basta al cinema italiano: pensa che gli altri film sono Il Vampiro, Notti Bianche, Il traditore etc.: non esageriamo col documentario, adesso. Conosci il libro La crisi del capitalismo, ediz. Sansoni? Ecco, io vorrei che, editorialmente, il libro fosse

così. Ma perché questo sia possibile occorre soprattutto… scriverlo. E quindi lasciami stare: ho già così poco tempo a disposizione: abbiamo deciso assieme gli aspetti e i fini del libro: perché adesso questi nuovi dubbi, questi problemi oziosi che fanno perder tempo? Se ti preme proprio Paolucci, o Pasinetti, scrivi, scrivi del “documentario”: metterò poi tutto nel testo n. 12. *** Se ti andrà il mio pezzo per Aristarco, anche questo materiale (ampliato, si capisce, discusso) pel libro. *** Serenade non va. Niente testo: 1. “Il Vampiro” 2. “Notti Bianche di San Pietroburgo” 3. “Alba tragica” 4. “Permesso su parola d’onore”448 [parleremo anche di Serenade: il carattere di questo testo sarà analogo a quello del testo n. 12] 5. “Il traditore” 6. “Delitto e Castigo” 7. “Mademoiselle Docteur” 8. “Il milione” 9. 10. 11. “Un carnet di ballo” 12. “Uomini sul fondo” – Mancano ancora il 9. e il 10. (a parte qualche mutamento, che si potrà fare, nell’ordine di presentazione). Qui, io eliminerei il Capra; e se fosse possibile per te vedere, per me rivedere un giorno, metterei senz’altro “Marysa” al n. 9 e per il 10 esiterei tuttora su “La pattuglia”449, “La maschera eterna”, e un “eventuale” che – te l’assicuro – può saltar fuori di giorno in giorno (un nordico in gambissima, magari: il panorama sarebbe completo). Inviami, intanto materiale a strafottere – copiato, s’intende – per un articolo: appendice di testi rari. *** Leggo Céline, Viaggio al termine della notte. Céline è prolisso, maledettamente. I libri di Céline sono lunghi. Oh, C ˇ echov è forse il mio scrittore preferito, oggi. Anzi, è lui senz’altro. *** Andremo in guerra certamente, un giorno. Se io non provassi la guerra, sarei un uomo incompleto. Nel frattempo preparo

una “Rivista a Sh. Thanas”. *** Delio Tessa, “ll’è el dì di mort, aleghér!” Lontani dal Porta, ma più facile leggerlo.450 *** Credo di averti già segnalato l’articolo di Primato sui settimanali tipo il Fascio. È assai giusto. Volevo inviartelo, ma a questo proposito mi son ricordato che potrebbe esser tolto di circolazione. E li hai sempre avuti i pezzi di giornale – rari però, e quasi sempre del Tomori – che tempo fa ti mandavo? Un articoletto di Buzzati, ad esempio? *** Quasimodo, “Ed è subito sera”. Ma forse non è tutto oro quello che luccica (talvolta è Simonide di Ceo, talaltra è Simoonide di Ceo, tal’altra le similitudini di Ibico, quello degli uccelli). *** Finalmente ti sei deciso a mettere la firma sul giornale! Cos’è stato? L’ultimo bombardamento? *** La più bella novella della mia vita, con Poe, è stata La fidanzata di Anton C ˇ echov. (Segue a ruota La Signora del camino di Anton Cˇechov.) Un regalo di natale indicatissimo per persona delicata di gusti e fine di spirito sarebbe il libretto: Romanzi Brevi, di Anton Cˇechov, trad. Erme Cadei, Garzanti. *** Leggerò un libretto sul Cattolicesimo di Bonaiuti,451 il Romanzo della Volpe di Goethe, e finirò, forse, Céline. Chissà se nel frattempo il “Vice” di Mosca avrà finito di salutare i suoi lettori.452 ***

Il senso intimo di Cˇechov sta in quel suo veloce trascendere la trascrizione realistica della vita, per affrontare gli affetti con il tono d’una melanconia necessaria. È più fine di Dostoevskij, e più umano di Tolstoj: gli può essere accostato soltanto il Goncˇarov di Oblomoz.453 Cˇechov è anche più limato. *** Mi scrive Bandini specificando che i bombardamenti han prodotti effetti rovinosi a casa sua, anche Campassi è preoccupato. Immagino. Insomma un brutto periodo per tutti: brutto, molto grave. *** “L’uomo è sempre una assai compassionevole cosa”. Si è così, effettivamente. E Céline potrebbe aggiungere: “È degli uomini, di essi soltanto, che bisogna aver paura, sempre”. *** Molti punti della tua lettera sul bombardamento di Milano mi son parsi “montati” (come mai – in te? Allora le cose son state più gravi di quanto io mi fossi figurato.) Altri, perfino buffi: “ma siccome noi siamo dentro un ordine gerarchico, non dobbiamo permetterci azioni individuali”. (Tieni presente, come ti dissi altra volta, che qui in Albania solo la Milizia si seppe – e si sa – far rispettare: uscendo, appunto, per quello che basta, da quell’“ordine gerarchico”)… “Allora ci isoliamo”: questo è il nostro – anche il mio – dramma, è questa la nostra viltà. Ti ringrazio per Indra. Ma chi è? Già ti chiesi. E la poesia dei lirici armeni, per quanto monocordi, toccano il cuore, la sua parte finale è profonda. *** Bene per L’affaire est dans le sac, bene per Il circo (farà il paio con Tutto il mondo ride). Ti raccomando di inviarmi il massimo possibile del materiale per: APP[ENDICE] DI TES[TI] RARI. Sfoglia vecchie riviste, se hai tempo. Dammi pure

qualche idea introduttiva – o conclusiva –, magari. Per il resto penserò io; se avrò tempo. *** Ti ringrazio per la tua ultima lettera (del 20 nov. scorso!) di “tirata d’orecchie” a proposito di quella che tu chiami la mia “ultima infatuazione”. Evidentemente tu hai esagerato; Marisa è stata assai più controllata e ha sorvolato. Ho l’impressione che tu non abbia capito nulla (o forse hai capito troppo?) di quanto io volevo esprimere, e che tu non conosca per niente il reclutamento dei R. Carabinieri. Perciò mi hai fatto ridere, nonostante le cose innegabilmente serie che hai scritto. Però la sostanza rimane, profonda: di essa ti ringraziavo, e ti ringrazierò sempre, della vostra stima, del vostro affetto. Ugo P.S.

Risponderò altra volta per Clair, per lo Sternberg di Ho ucciso! e per me (a proposito del giudizio di Carlo Alberto, che è un ragazzo in gamba). Spero di ricevere tue notizie al più presto. Di nuovo U.

Milano, dicembre 1942 – XX Carissimo Ugo, finalmente una tua lettera, e bella. Una di quelle ch’io amo, anche perché mi danno una tua immagine serena e forte. Forse non puoi immaginare quanto bene mi facciano le tue parole; specie quelle che non mi concernono direttamente. Per il libro, va bene: niente Chiarini, niente Serenade. Un “nordico” in gambissima non esiste più, ormai: forse si può fare un “nordico-pretesto-per-un-panorama”, come col n. 12 per il cinema italiano, nel 4 per quello tedesco. E ho scritto recentemente un articolo dal titolo “Intorno ad una prova di Christiansen”, articolo detestabile, ma soggetto interessante. Quando uscirà (se) su B. e n. vedrai che è possibile cavarne qualcosa.454 Per il documentario, ancora non so. Ma tu non conosci Città bianca e Venezia minore di Pasinetti, Comacchio di Cerchio, Portofino, Accademia di S. Cecilia, Le cinque terre di Paolucci. Di quest’ultimo, so che verrà bene anche Casa Verdi, che ho visto girare.455 Tra il Paolucci autore di “Attori, ombre e persone”456 (ricordi quanto ti piaceva quello scritto?) e il Paolucci regista, non so quale scegliere. Certo è che Paolucci è uno dei tipi più in gamba che io conosca, lo reputo superiore a Puccini, a Pasinetti. Ma un giorno, vedrai, si parlerà molto di Paolucci. Intanto, Le cinque terre è bellissimo. Io ho letto due e tre volte Viaggio al termine della notte, ma di tutto quel volumone m’è rimasto impresso una sola frase, una, ma indimenticabile: “È questo che si cerca attraverso la

vita, null’altro, la più grande sofferenza possibile per divenire veramente sé stessi prima di morire”. Era per me l’epoca in cui traevo la vita dai libri, annotavo Lamartine e Byron, avevo diciassette anni. Ma oggi ancora, ricordo a memoria quella frase. Avrai trovato in questo Céline molto Carné, molto cinema verista francese. Tu avresti dovuto scrivere, un giorno “I confini e la poesia”. Ecco: io ti cedo l’eredità di tutti i miei articoli: tu dovrai completarli. Io penso che lo farai, vero? Anche a me un C ˇ echov piace. Sono un adoratore di La morte dell’impiegato. Ma piuttosto anche C ˇ echov diviene detestabile quanto tira fuori l’“anima slava” (L’angoscia). Ho letto quell’articolo di Primato, ma non ci ho pensato su. E, a proposito, io ho ricevuto sempre i pezzi di giornale che m’inviasti a suo tempo. Sul giornale la mia firma è apparsa per errore. Marisa nel ricopiare a macchina inserì il mio nome invece delle iniziali. La cosa non si ripeterà, però. Sono molto rattristato da quanto mi dici di Bandini. Di Torino so brutte cose, brutte assai. (Ma so anche che le città muoiono e rinascono.) Per la mia terra sono passate le più violente invasioni barbariche, e nulla ci è morto definitivamente. Se ci sarà concesso di vivere con dignità d’uomini, rivedremo ancora la nobilissima Torino d’una volta, quella Torino ch’io amavo più di Milano e più di Genova, quella città civile nel senso più esteso, assoluto della parola. E mi stupisce che tu abbia trovato “montata” la mia descrizione del bombardamento di Milano. Io non ho esagerato nulla, non ho calcato nulla, ti ho detto un quarto di quel che c’era da dire. Certo, vorrei essere uno scrittore, poterti descrivere quegl’incendi (parecchi incendi, sai); parlarti di gente rimasta sepolta sotto le macerie per più giorni; dirti il desolato, spaventoso aspetto di piazza Tricolore al mattino del 25. Il mattino del 25 io ero in piazzale Bacone, era un giorno grigio, freddo. La villa di [Riva] era totalmente crollata, di

altre case non esistevano più gli ultimi piani. Tutte le saracinesche, le persiane della piazza, per aria, sbilenche, sbalestrate. Per terra, i buchi degli spezzoni incendiari. C’era folla, quel mattino, in piazzale Bacone, una folla grigia, fredda, attonita, sospesa. La folla guardava, cercando forse di capacitarsi, quando suonò l’allarme. Fu allora che capii cosa volesse dire terrore collettivo. Come bestie, tutti urlarono, corsero, si spinsero a vicenda, caddero, si calpestavano, piansero. Era troppo forte l’impressione della sera prima: della sera in cui tutti credevano fosse un allarme precauzionale, quand’ecco bassissimi i quadrimotori a mitragliar la gente che correva verso i rifugi, a buttar giù bombe. Un mese più tardi la medesima folla, a sentir un allarme diurno, passeggerà tranquillamente per le vie, come se nulla fosse. Le ferite di Milano si vanno rimarginando, e assai in fretta. Ma l’aspetto che una incursione imprime a una città non si dimentica. Innanzitutto, quell’aria sospesa, attonita; l’attesa quasi d’una minaccia che incombe. I servizi cittadini scombussolati. Sai che vuol dire non poter telefonare, non poter prendere il tram, non poter andare al cinema; magari non avere luce, come accadde a me? Ti senti isolato, solo, come non mai. Noi abbiamo avuto una sola incursione. Io ti ho detto quel che ho visto e sentito, credimi. E in quanto alle “frasi buffe”, ti dirò. Se noi avessimo voluto uscire dall’ordine gerarchico, dovevamo prendere bastoni, scendere in piazza, gridare “a noi!” come ai bei tempi, e picchiar di matto: tanta era la bestiale cretineria della gente. Ma alla fine, perché prendersela con quegli irresponsabili? Ci sono dei superiori, essi danno ordini. Tutto qui. *** E veniamo a Quasimodo. Tu dici: “ma forse non è tutto oro quello che luccica”. La frase non mi piace. Certamente, non conoscerai i saggi che su Q[uasimodo] ànno scritto Bo, Anceschi, Gargiulo, de Robertis, Vallini.457 Non vorrei però tu dubitassi erroneamente del grande, grandissimo merito di Q.

Egli è, con Ungaretti e Montale e Cardarelli, sul piano dei nostri maggiori. Certo, non è tutto sul medesimo piano. Ma mi sai dire chi è tutto sul medesimo piano? Baudelaire no, Mallarmé no, Carducci no, Pascoli no, D’Annunzio no. In Q[uasimodo] c’è dell’ottimo; ci sono cose meravigliose; certe altre cose sono brutte, magari atrocemente detestabili. Ma o è roba vecchia, o è roba che tradisce la non-spontaneità. La facciamo ora, una bella selezione delle poesie di Q? Ride la gazza, Strada di Agrigentum, La dolce collina, Che vuoi, pastore d’aria?, Davanti al simulacro d’Ilaria del Carretto, Ora che sale il giorno, Già la pioggia è con noi sono bellissime. Una sera, la nave: bellissimi i primi 4 versi. Di Piazza Fontana: “Con umana dolcezza – autunno mi consuma”, e gli ultimi 4 versi. Di Sulle rive del Lambro: “Nel sereno colore – che chi qui risale a morte della luna – e affila i colli di Brianza – tu ancora vaga movendo – hai pause di foglia”: e tutto il resto. Mediocre L’alto veliero; idem Sera nella valle del Màsino. Ma dell’Elegos! “…e torna il tempo in fresche figure: – anche dolore, ma così a quiete – vòlto che per dolcezza arde”. Delfico mi piace poco. Bella invece Imitazione della gioia. (Ora vado avanti citando le pagine, sennò spreco spazio e tempo a citare i titoli per esteso.) pp. 41-43 no. 44-4 sì. 46 no. 49, sì. 50-51-52 no. 54 sì. 55 no. 56 sì. 58 no, 59 sì. 60 no 61 sì (“Dolcezza, mai dentro mi dormi”) 62, sì. 64 no. 65 no, 66 no. 67 sì. 68, 69, sì. 70 no. 73 sì. 74 sì, 75 no. 77 no. 78 no. 79 no. 80 sì, 83 sì, 84 sì, 87 sì, 88, 89, 90 no. 91 no, 92, 93 no. 94 sì (i primi 4 versi!), 95 sì (gli ultimi 2 versi!), 96 sì, 97 sì, 98, 99 sì. 100 sì, 101 no. 102, 103, no. 104 sì. 105 no; 107 no (ma gli ultimi 2 versi, sì), 108 no, eccetera eccetera. Ma ti cito ancora le poesie che assai mi piacciono: Amen per la domenica in Albis,

[INCOMPLETA]

Milano, 9 dicembre 1942 [– XXI] Carissimo, ti scrivo in tempo d’allarme; un ottimo nebbione meneghino per ora mi protegge; ma i vetri della mia stanza tremano tutti; certo, “essi” non riuscendo ad individuare Milano sono andati, come iernotte, a sfogarsi in Torino. Ed è strano in queste circostanze stare a tavolino, mentre la casa vibra, e, cosa inusitata, un pianoforte sgrana, chissà dove, note impalpabili. Oggi sono stato a trovare tua madre e tuo padre, ho visto la tua ultima lettera. Tutti i tuoi libri sono al sicuro, in cantina: ma è assai malinconica cosa codesta. A quest’ora avrai terminato l’articolo per Pattuglia, ma temo sia troppo tardi, ormai. Ad ogni modo, siccome Aristarco è anche di redazione a Spettacolo, il tuo scritto uscirà su quest’ultima rivista (per la quale ho già scritto qualcosa, e forse altre cose ancora, in futuro), io credo. E veniamo al Traditore. Innanzitutto, niente dubbi: il film è centrato in pieno. Io l’ho rivisto poco tempo fa, alla retrospettiva, e ne ho tratto ulteriori annotazioni; le quali confermano tutte le precedenti, e da quest’ultime sono confermate nel testo scritto. La tua fatica è stata meravigliosa, ed io sento per te, se ciò è possibile, una ancor più grande ammirazione. E ti dico che sei “maturo” per scrivere il testo su Pabst, e proprio senza materiale sotto mano, neppure il tuo articolo sulla “trilogia” (Cinema)458 ti serve: devi trarre dal tuo intimo; e puoi. Ma non so se le contingenze

ti permettono il minimo che t’è necessario, tre ore al giorno di scrittura. Chiederò a Chiarini assicurazioni sul libro. Certo, il testo che gli invierò (invierò dopo che avrai approvato le mie varianti, i miei tagli e le mie aggiunte; solo allora invierò) non è quello che entrerà nel libro. Per il quale, se verrà bene, non dovremo esitare, magari rivolgersi a Einaudi, a un Vallecchi, a un qualsiasi editore di buon gusto ed intelligenza. Se Chiarini pubblicherà, tanto meglio; per lui e per noi. Tu hai assai bene interpretato e ampliato le cose che ti avevo scritte. Ma hai adoprato “tutto” il materiale che ti avevo inviato su Ford? Passo ora a rispondere alla tua del 28 novembre. Non condividi il mio giudizio finale su Ho ucciso[!]? Non rammento con troppa precisione quale fosse questo giudizio, ma sono sicuro d’aver visto il film con gli occhi ben aperti, poco mi dev’essere sfuggito. Mi ha fatto, ti ripeto, un’impressione enorme. Indra è armeno, perbacco. Come libri, io? Ho letto La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di [Mario] Praz. M’è piaciuto; anche a te piacerà, vedrai. Al Fascio di comune nostra conoscenza è rimasto solo Lazzari, e la segretaria. Calvi è in Russia, e scrive delle belle corrispondenze sul Popolo d’Italia, Rusconi è sparito, Casalino è richiamato, a Roma. A. P. è un asciutto signore dai capelli bianchi, alto, insoddisfatto, insofferente. È un giornalista rimpatriato dalla Francia, e al quale han dato la gerenza del Fascio in attesa di una “migliore sistemazione”. G. F. G. è un mite e buono vecchietto, che occupa il posto di Casalino, ma non so che faccia di preciso. In redazione c’è un altro vecchietto ancora, col quale non ho mai parlato. De Micheli da diverse settimane è sparito di circolazione. E noi forse gli “soffieremo” il posto; credo che Marisa, dopo la prova su Quasimodo su Moschetto, possa fare “I libri”.

E su Moschetto, hai visto la nostra terza pagina? Marisa su Quasimodo, Guido su Red e Dréville, io su Soldati (mi dirai se ti sei accorto ch’io sono anche Calibano! Su Cinema, non ti sei accorto che sono anche “Asiaticus”). E c’eri anche tu, perché nel far quella pagina, così si pensava “A Ugo farà piacere; sarà contento”. Per Cinema, io ti dirò che considero Lizzani un fesso. La maggioranza di Via delle cinque lune mi ha stupito. Il film è assai diverso, molte cose radicalmente mutate, più, assai più delle varianti annotate in appendice. Ma altro non ti so dire, dovrai vedere il film. Le tue parole sulla Micheletti mi hanno rialzato un po’ il morale, e, lo confesso, mi han ridato sicurezza e fiducia. E veniamo al Traditore. Per B. e n. l’introduzione va bene. Nel libro, dovrà essere mutata assai: primo perché il suo panorama sul cinema americ[ano] è insufficiente (il cinema americano è una cosa assai più complessa. Spesso gli americani sapevano, anche in prodotti inferiori, filmare assai bene: ma all’americano, con uno stile tutto loro, ch’io direi perfino acinematografico tanto era diverso dal nostro, con pulitezza di racconto: cinema narrativo, senza nessun sfogo intellettuale o culturale. Rammento altri piccoli filmetti polizieschi puliti puliti, e assai esemplari. Non arte, ma cinema: un cinema da noi lontano, quale “essi” potevano darci. E penso alla frase di Jung: gli americani sono degli europei con un corpo di negro un’anima d’indiano)459, anche se dice cose “sacrosante” e ch’io sottoscrivo in pieno, poi perché è troppo polemico. Possiamo esser polemici su B. e n.; non dobbiamo esserlo nel libro. Ti ripeto: tutto vero, quello che dici; solo che c’è dell’altro: dell’altro che è buono anche; oltre che cattivo. Eliminerò senza pietà frasi del genere “Vi sentireste voi… eccetera”; cioè le scriverò in una forma meno irritante di famigliarismo. Io odio le confidenze col lettore. E trovo detestabile “quello che Marisa definisce in te” il tono

“querulo”, negli articoli: il tono di discorsetto alla buona, alla spicciolata, alla Campassi. Ti dico: un “Vi sentireste voi…” va benissimo in un tuo articolo, ma vi è elemento così specifico che in un bifirmato stona maledettamente; e io lo cambio. Similmente, non adopererò la parola “fanciullone”. Jouvet non è in U.S.A., ma nell’America del sud con la sua compagnia. Fa del teatro solo, da tre anni.460 Non sono affatto d’accordo con te nel definire Ford un “americano per caso”. Non è certo l’americano tipo Santell o Brown; non è quello tipo regista americano di Eleanor Powell o Charlie Chan; ma non è neppure un tipico europeo. È un irlandese trapiantato, e che ha sentito assai profondamente il western e il pionierismo del western. Ma qui ora non mi dilungo, vedrai più chiare le mie idee nelle varianti che ti sottoporrò. Tolta la frase “di americano in Ford non c’è niente” non va, è americano; è sbagliato, scusami se te lo dico. E credo che il kammerspiel sia del tutto estraneo a Ford. Nel Traditore non ce n’è; secondo me Il traditore è un western umanizzato e “deviato”, nella sua cifra più intima: stile semplice e piatto cambiato di tipi! Non mi sono spiegato chiaro, capisco. C’è un qualcosa che conserva elementi del western, ecco. Di quel western intellettualizzato di cui parla Campassi, escludendolo dal vero western. Così come Ombre rosse non è un “vero” western, ma qualcosa di molto più vero e complesso. E ignoriamo Drums among the Thomahawk,461 che Ford diresse in Technicolor: film di patria. E anche La via del tabacco dev’essere un film arciamericano. Insomma, in Ford non trovo modelli europei, anzi. Quel che formalmente lo caratterizza, l’illuminazione, è roba tutta sua. Assai buono invece il profilo del regista, le distinzioni tra Ford maggiore e Ford minore, certe delucidazioni assai centrate. È un pezzo magistrale. Ma mai quanto il finale, che è ad un’altezza vertiginosa. Quel “e forse si compiranno analisi esaurienti di film come Il traditore”, toglie il respiro. Dopo 31 pagine divorate! ***

Se vuoi, se puoi fare il testo su Pabst, dimmelo ch’io t’invio copia delle tue annotazioni tratte dalle tue lettere. Ti ripeto: sei maturo per Pabst; e forse anch’io sento l’urgenza di dire, su Pabst. *** Spero tu ti sia sistemato bene. Noi qui ti sentiamo assai presente e pensiamo con gran piacere al giorno del tuo ritorno. Vorremo quel giorno esser degno di te e del tuo affetto. Marisa arriverà tra breve, io ti abbraccio molto forte Jusik P.S.

L’indirizzo di G. Aristarco è:

Corso Vitt. Em. 43, Mantova

Milano, dicembre 1942 – XXI A mio parere colui che vuole scrivere un libro fa bene a riflettere parecchio su quell’argomento sul quale sta per scrivere. Egli non farà neanche male a procurarsi, per quanto è possibile, la conoscenza di quello che, prima di allora, è stato scritto sullo stesso argomento. VIGILIUS HAUFNIENSIS462

Caro Ugo, avevo intrapreso la stesura del “Traditore”, ma subito il lavoro mi si annunziò enorme. Per cui lo ricopiai tal quale e lo mandai a Chiarini463. Per B. e n. accetto la forma che dai, e darai, ai singoli saggi, per il libro, vorrò revisioni (ti prego, Ugo: se hai pietà di me, non scrivere articoli in prima persona plurale, non usare vocativi!). Gli unici tagli praticati riguardavano cose di elementare buon gusto, atrocità dalle quali io ti vorrei affrancato: l’uso di parole come “ochetta”, “fanciullone”, “padre Griffith”, regista “illustre sconosciuto”, “andrebbe a puntino”; che fanno comunella con “gigioneggiare” o “testone”, ch’io in tempo riuscii a eliminare da due tuoi scritti.

Per il libro poi, revisioneremo tutto il testo, qui ti copio osservazioni che feci dopo l’ultima visione del film, prima aver ricevuto il tuo scritto. E siccome Paolucci mi disse possedere la sceneggiatura del film, forse faremo una cosa gamba.

le di di in

Paolucci è un tipo in gamba assai. Gira un documentario alla Casa Verdi, operatore è Portaluppi. Verrà una bella cosa, sono sicuro. Io vado sovente a trovarlo: ho per lui sentimenti d’amicizia, e anche lui per me, credo. L’altr’ieri vedemmo assieme alla retrospettiva La bandera. Anche di questo film ti scriverò: credo che il testo su Duvivier verrà fuori assai lungo. “Carnet di Ballo e il giudizio estremo su Duvivier”464 è un bellissimo titolo. Ma per ora, se puoi, fai il Pabst. Ti ripeto: dal T[raditore] si capisce che sei “in forse” con Pabst. E ora passo a copiarti le mie note per Il T[raditore]. Tienile in serbo per il libro: 1. L’unico preziosismo formale si ha quando F[ord] inquadra l’insegna luminosa della “Punboy house” attraverso il braccio ripiegato ad ansa di Gypo, come Machatý in Estasi, Rossellini in La nave bianca. Qui la durata dell’inq[uadratura] è breve; l’attore si sposta quasi subito verso il ristorante. 2. Lo stillicidio di alcune note staccate, isolate, sgranate, sempre uguali, crea un ritmo chiuso, spleenico, quando Gypo è rinchiuso in cella dai ribelli. Il motivo riprende, riappare fugacemente quando il giovane designato a compiere l’esecuzione sta per entrare nella camera di Ketty dove è rifugiato Gypo: sì che il motivo appare quasi esser specifico all’esecuzione della sentenza, al timore del designato esecutore. 3. In un colloquio tra Callaghan e Mary M. Philips, quand’essi parlano in allusione a Gypo, riaffiora per un

momento, nel commento sonoro, il “tema di Gypo”. 4. I temi fondamentali sono due: il motivo di Gypo (o del destino dell’uomo) e quello di Ketty (o dell’amore). A volte essi precedono un’azione cioè ne preparano l’introduzione; a volte sono eseguiti asincronicamente; a volte si adeguano all’azione espressa da un altro elemento sonoro: le preghiere in casa di M. Philips durante la veglia funebre. 5. Nell’inq[uadratura] finale appare appieno la natura cattolica e religiosa di Ford: Gypo, malgrado le molteplici ferite, s’erge a braccia aperte spalancate d’innanzi ad un grande crocifisso e dice “Frankie, tua madre mi ha perdonato”, e il suo atteggiamento è analogo a quello di Gesù Crocifisso. 6. Un ultimo montaggio per stacco sonoro in opposizione: nel locale di zia Betty, Gypo chiede venga cantata la canzone Sono tutte beltà. Dopo un P[iano] M[edio] del pianista e della cantante – una donna sparuta, goffa, ridicola nella sua comparizione vanitosa – quando l’effetto sta per deviare verso il grottesco, indulge, segue un P. M. all’interno della casa M. Philips. La colonna sonora, invece della canzone, reca lo stillicidio delle preghiere che accompagnano la veglia. Cioè: appena proposto un effetto, Ford lo arresta per passare a un altro, di più ricca ed intima sostanza, più umano appunto (colloquio Mary – PrestonFoster). 7. Spesso Ford per porre in rilievo un personaggio gli crea attorno il vuoto, facendo uscire gli altri personaggi dal campo visivo. Le altre osservazioni sono assai poco importanti, perciò evito di scrivertele. Un discorso sulla sovrimpressione sarà necessario: dato che si tratta di un elemento di fantasia in un film realista. Dato che l’unico appunto che si possa muovere al film riguarda l’uso afunzionale di tale mezzo in certi passaggi (dato anche che l’espediente in sé è sospetto: vedi l’orribile uso che ne fa Duvivier nella Bandera) oltre ad un uso dell’asincronismo in un altro momento (questo già più “accettabile”). Ma di queste lievissime incrinature è responsabile Nichols. Marisa,

dopo aver saputo dell’idea di Nichols sul simbolismo, mi ha chiesto se per caso l’entrata di Gypo, nella cantina, non fosse simbolica. Infatti c’è un p[iano] t[otale] della cantina con in campo la scala: Gypo vi rotola, dopo una colluttazione, arriva giù a rotoloni, è anche questo un simbolo? Nella concezione tomista l’inferno è in basso, e vi si arriva cadendo, rotolando, il paradiso è in alto. *** Le tue ultime lettere, carissimo, erano non serene e non liete. Comincia a dispiacermi il fatto che tu non ti sfoghi mai. Specie con Marisa, prima lo facevi. E ora non più. Perché? Io ritengo che ciò sia male. Ricordati di quella frase di Morley che avevi scritto in cima ad una tua lettera a Marisa. Io ti auguro Buon Natale e ti abbraccio molto, sono sempre il tuo fedelissimo vecchio amico Jusik

Milano, 19 dic[embre] 1942 – XX Data della spedizione: 29 marzo 1943 XXI Caro Ugo, un effetto assai strano mi ha fatto leggere su Cinema “Wiene e Dostoevskij”.465 Era un articolo dimenticato, rifiutato, tolto dalle posizioni attuali della mia mente. Il trovarmelo dinnanzi, così, di botto, mi ha scombussolato. Mi ha ricordato i tempi trascorsi; era stato scritto prima del “Vampyr”, prima di “Simboli ed analogie”,466 prima ch’io ti conoscessi. Mi ha riportato al clima dei nostri primi incontri. Oggi sono andato a trovare i tuoi; ho sentita acutissima la tua mancanza; ho provato un vivo senso di nostalgia per le nostre ore trascorse assieme. Ed ora son portato a ragionare sopra di me, della mia vita trascorsa, con una obiettività quasi crudele. “Wiene e Dostoevskij” mi ha dimostrato quanto siano decadenti, degradate le mie possibilità d’esegeta. Chiaro e limpido com’è, m’ha presentato l’immagine d’un Viazzi diverso, ch’io avevo [or]mai scordato. Se lo confronto col Viazzi di “I confini e la poesia”, di “Poesia e poeticità delle immagini”467, il divario è enorme. I miei ultimi scritti sono tortuosi, sforzati, concettosi, arbitrari. Si sente lo sforzo; si avverte la nebulosità. Quel ch’è peggio, è che tale oscenità, disarmonia, non è nelle espressioni: è nelle idee. I miei articoli recenti non si possono tradurre in chiaro e buon italiano. Questo mio stile dipenderà probabilmente dalle mutate condizioni del mio cervello, dalle mutate disposizioni della mia intelligenza. Oggi più che mai constato come le cose esteriori abbiano pesato sul mio sviluppo intellettuale, da continua costrizione derivante dai

miei studi universitari, ad esempio. Lo studio, o il fantasma del dovere, mi ha sempre inquietato, “costretto”. Sì che io non ho avuto mai la libertà interna di pensare, riflettere, adagiarmi nella materia che l’intuizione e la sensibilità mi portavano al cervello. O almeno alcuni anni fa, tale concessione m’era elargita; ma oggi! Oggi quel ch’io produco (e per avventura, produco) è la risultante non di uno studio organico, ma d’un improvvisa “scarica” di elementi repressi, caotici, disorganizzati. La semplicità del “Vampyr” di questo “Wiene e Dostoevskij” oggi m’è negata: io sono incapace di ragionare organicamente, ormai. Di questo m’accorgo dai molti fatti della mia vita. Dalla mia mancanza di coscienza. Dalla mia mancanza di autocoscienza. Dalla mia mancanza di selfcontrol. Dal mio poco o punto senso del dovere. Del mio eccesso di sensibilità (io possiedo molti caratteri femminili; e dei peggiori). In definitiva, dalla debolezza del mio carattere. Non ho mai avuto un carattere unitario e forte, se non nelle intenzioni: lo so. Ma ora mi vo’ consolando nella convinzione che la mia vita è stata quasi tutta un’intenzione non realizzata. Il modello ideale che mi ero imposto (che m’era stato additato) ormai è agli antipodi, né io l’ho minimamente realizzato. Non ho mai saputo armonizzare in impulso e raziocinio, dovere e piacere. Mille volte ho sbagliato, e continuato a sbagliare diecimila volte. In definitiva, io sono un’assai mediocre cosa. Credo che la causa di questo mio stato sia molto appropriata alle sfavorevoli circostanze della mia vita; ma non vorrei che anche questa fosse un’illusione, un imbroglio. Io mi sono troppo illuso delle mie capacità intellettive e volitive, finora. Quel che fin’ora ho fatto, è niente in confronto a quel che volevo fare. Quel che dovevo fare. Io mi credo chissà che cosa, perché ho scritto 15 articoli sul cinematografo editi e sei inediti. Il loro reale valore non è eccessivo, tant’è vero che io non sono mai citato (sola una volta, Scagnetti,468 chissà perché). Naturalmente quando Paolucci dice a Portalupi: “Ti presento Viazzi”, e Portalupi dice “Viazzi di Bianco e nero”, in me l’idiota vanità umana gongola. Ma poi? Riflettere: 3 anni;

15 articoli, molti dei quali “commerciali”. Basta a giustificare tante illusioni. Un tempo facevo il letterato armeno. Scrissi degli articoli, dei saggi critici. La lett[eratura] armena è così povera e ignorante che bastava ch’io citassi Cronin e Capuana469 per passare per coltissimo. Scrissi romanzi e poesie. Oggi ho dimenticato tutto. Dunque, roba di superficie. Un chimico, io? Neppur per idea. Di chimica non so nulla. Quel ch’è mancato sempre, è stata la decisione e la costanza della decisione. Ho sempre vissuto costruendomi giorno per giorno: ma uno non ha mica riserve inesauribili di energia. Oggi son qui, sospeso per aria e scrivere non so più. Leggi “I confini e la poesia”, leggi “Intorno ad una prova di Christiansen”. Roba nauseante. Ed io sto male, letteralmente, nel vedermi scrivere così. Ma non so fare altrimenti; non posso. E non riesco a leggere. Perché quel che leggo mi scivola sopra e se ne va. Chiedimi cosa, io abbia ritenuto leggendo il Praz, cosa leggendo Cˇechov. Ho qui Quasimodo e non oso leggerlo, per tema di non aver più sufficiente sensibilità, per tema di non capire più. (Il bello è che questo non è pessimismo, abbruttimento, scoramento contingente. Ti dico cose che sono frutto di minuziosissime osservazioni; ch’io potrei redigerti sotto forma di studio psicologico con tutte le regole che tale scienza comporta. E con la medesima serenità, anche.) Ora dovrei concludere, ma non oso, perché sono anche un vigliacco, dopotutto. Naturalmente nella vita, io dico: no, non sono così, sono in gamba; voglio; voglio volere; riuscirò; vincerò; avanti! Avanti! Quale bellissimo personaggio per romanzo io sono! Ecco! Ricado nella letteratura. “Il personaggio in cerca d’autore”. Che ridere. Ciao carissimo.

Jusik

Pol[veriera] di M[borja], domenica 25 dicembre 1942 [– XX] Carissimo, ti mando una piccola fotografia nella quale ho cercato di ottenere effetti più o meno da vampiro, e che riproduce la mia camera, con letto, Bianco e nero, Hoffmann, Quasimodo, Cardarelli, S. Dalí e me di profilo; e cerco di rispondere finalmente alle tue famose lettere su Clair e Sternberg. Ti debbo dire, però, che man mano si procede nel tempo e si accumulano i mesi dacché io manco dagli spettacoli cinematografici, e si va complicando il campo dei miei interessi e approfondendo la mia visione della vita, contemporaneamente accade che il mio cervello e la mia memoria (se non il cuore) vadano impercettibilmente svanendo, in modo che essi sono costretti a un notevolissimo sforzo di fantasia qualora io ritorni, con scritti, a quel tempo e a quella “follia”. Voglio dire, per esempio, che se a Korça, una volta ogni due mesi, mi capita di andare al Cinema e vedere (com’è capitato) Patrizia,470 o La straniera,471 allora un nùgolo d’impressioni, di ricordi, di teoria m’assale e una quantità tale di materia, di svolgimenti, d’idee da uscirne fisicamente elettrizzato. Lo stesso mi succede quando leggo una di queste tue lettere fondamentali, se pure con minore approssimazione e maggior lavorìo teorico. Per questa ragione io ritengo il libro potenzialmente già scritto, salvo il tempo per scriverlo, e il momento. Non credere ch’io dica una stupidaggine; ma ti giuro, Jusik, qui m’accorgo, che se anch’io potessi vedere una sola volta Il milione o Ho Ucciso!, Clair e

Sternberg ne uscirebbero, sul libro, definitivamente motivati e illustrati. Alle tue pagine, acutissime, manca un lavoro di sistemazione generale piuttosto difficile (non solo di stili, ma d’idee pure); ma ch’io mi sento di svolgere in senso assai completo, insindacabile. Ma qui, qui, tengo lontane da me le tue lettere, perché se le rileggo, tutte le volte che rifletto, tutte le volte che idealmente le discuto e le completo, mi vien quasi da piangere. Oh, m’avete detto l’ultimo dei sentimentali!: ma pensate alla tristezza di questa definizione. Io non accetto, Jusik, la tua idea, pur nobilissima, di non fare il libro meravigliosamente bene, di fare – semplicemente – il libro: i tempi son questi, ma il libro deve restare oltre questi tempi. Perciò io voglio dare al libro tutto quello che posso dare, e che devo dare. Il libro uscirà molto tempo dopo che tu avrai finito di compiere il tuo dovere. Se io lavoro adesso, faccio dei testi come “Il traditore”, che t’ho mandato, dei testi in cui sono costretto a mettere troppo poco. La tua analisi di Clair è bellissima. Io accetto tutto, come per Ford, anche la tua nuova opinione sulla periferia; ma su Clair, sul Milione, avrò da dire moltissimo anch’io – all’infuori di Campassi, di Mario da Silva (“Scomposizione di René Clair”, su Lo Schermo), di Pietrangeli e di te –. Il “Milione” riuscirà il gioiello dei testi, a mio parere: come documentazione culturale e come profondità di analisi. Per Sternberg, le tue parole saran riportate quasi integralmente, ma con conclusione diversa. Questo ti dico: la tua analisi di Ho ucciso [!] sembra l’analisi della sceneggiatura di Ho ucciso [!], pecca maledettamente di contenutismo, nonostante le affrettate notazioni marginali sulla rivoluzione formalistica del regista. Nel finale del mio articolo, “Funzione della Critica” ho messo un’idea sull’estetica (generale) che può sembrare in contraddizione con queste tue estetiche (particolari), ma non è. Nelle tue lettere ci sono per lo meno sette intuizioni sbalorditive, originali e “classiche” (Benissimo per l’Asino d’oro!).

Quale pagina mia hai sottoposto all’amico C. A.? Egli ha fatto un solo errore: giudicare me come si giudicherebbe un letterato (ma non gli hai detto ch’io con le Lettere non ho niente a che fare?). Perdio, dice: quanti “giovani che si danno alla letteratura”. Eh, un momento: giovane sì, fin che vuole (anzi ho bisogno di sentirmi un po’ “giovane”); ma la letteratura, che c’entra? Nella giacca che passa da una mano all’altra a teatro, nel Milione, c’è il biglietto. Però Papà La Tulipe lo sa (però il tuo ragionamento fila lo stesso, nonostante l’errore). Io ho letto, tra l’altro, l’“Usher” di Poe, da cui trarrò molto per “Il Vampiro”, moltissimo; e, di nuovo, Pirandello, Leopardi, D’Annunzio di Bontempelli, e Ed è subito sera di Quasimodo: di mio gusto il primo, ma non il secondo. Tuo, Ugo

Polv[eriera] di M[borja], 25 dicembre 1942 – XXI Carissimo amico, questa sera di Natale la voglio dedicare a rispondere, se pur brevemente perché domani mi devo alzare molto presto, alla tua cara lettera ricevuta l’altro ieri. Non credo fosse troppo tardi per l’articolo di Pattuglia; infatti Aristarco mi disse che doveva essere consegnato prima del 20, ed io lo mandai verso il 10. Ad ogni modo egli ancora non m’ha risposto, mentr’io l’avevo pregato di farlo: si vede (è possibile) che l’articolo non è piaciuto, e non andava bene come idee.472 – Non vorrei il pezzo uscisse su Spettacolo: preferirei, allora, sempre Cinema. (A proposito, sull’ultimo Cinema, il tuo, redivivo d’oltretomba, “Wiene e Dostoevskij”: molto buono, davvero. Idee espresse chiaramente, un entrare deciso in medias res.473 E una foto di Delitto e castigo pregevole: l’ho già ritagliata, e incollata qui sopra al mio tavolino. Il tuo articolo entrerà nel libro: e il mio lo può integrare in certi punti. Poi c’è il tuo Sternberg cui farò seguire tue precisazioni importanti. Poi farò il Chenal: a tutto questo farò il testo “Delitto e castigo”, con qualche ragionamento di straforo su Dostoevskij. Le cose più notevoli di “D. e il cinema” entreranno invece, come introduzione, in “Notti Bianche”). “La tua fatica – per il T[raditore] – è stata – dici – meravigliosa”: calma ragazzo. Non mi fai coraggio così. So di aver fatto troppo poco! Per Pabst, vedrò. E per Clair; che ho già iniziato.

Per Natale mi son fatto un autoregalo: il Praz da te più volte citato.474 Ecco, vedi: io sarei la persona più felice del mondo se il libro, senza pretendere altrettanto, fosse stampato come questo di Einaudi, con questi caratteri grossi e piccoli e corsivi. Il titolo potrebb’essere: 12 testi con sottotitolo Saggi di storia e di estetica del cinema. Se Chiarini non ti manda una bella lettera in risposta alla tua richiesta di assicurazione, è da pensare ulteriormente. “Per il T[raditore] ho usato tutto il tuo materiale su Ford: e qualcosa di mio ho aggiunto qua e là. – Non ho visto ancora la vostra terza pagina di Moschetto (orrore!, da parte vostra, non spedirmela): soprattutto il pezzo di Marisa m’interessa perché a me Quasimodo non è molto piaciuto. Credo che la traduzione dei lirici greci sia, dirò una stupidaggine, il meglio del poeta.475 Sì, avevo capito che “Uccellini, o del candore” era roba tua. Ma di Aristarco, davvero, non m’ero accorto. Dimmi subito il titolo e l’argomento di quello che hai scritto, così ch’io possa ricordare! Si fa presto a dire che Lizzani è “un fesso”. Inviami pure per Pabst: ricopiato, s’intende, al solito. Accetto le tue correzioni al T[raditore]. Chi è Vigilius Haufniensis (scusa la mia ignoranza)? Un chimico? Benissimo per Paolucci: ma è anche il P. di Bianco e nero, lui, l’insegnante di recitazione?476 Se sì, fatti dire qualcosa sulla rivista: organizzazione, Chiarini, il fatto della poca puntualità, ecc. E riferiscimi. Per me La bandera, come già ti dissi altre volte, almeno come “substantia interior”, è il film migliore di Duvivier. Io che conosco in parte la vita militare (e la vita militare non si conosce in un mese) te lo posso assicurare. Hai notato molto acutamente, per il T[raditore], “lo stillicidio di alcune note, (…), isolate, agognate”: così in un

punto di Notti Bianche. Anche quest’altra osservazione mi pare molto interessante, non solo per Ford ma per tutto il cinema americano (specie per i registi, come Mayo, Santell,477 J. Walter Ruben, di film di gangsters): “per porre in rilievo un personaggio gli crea attorno il vuoto facendo uscire gli altri”. Marisa da Clair e Gogol in avanti mi fa delle osservazioni troppo profonde sul cinema: comincio a temere anche per lei. A sprazzi, abbastanza regolari d’altronde, ricevo cartoline di Campassi: “N.H. S. Ten Casiraghi Sig. Ugo” (ha scritto per Cinellustrato; ma che cosa, che cosa?). Su Tempo l’affettuoso pezzo su Ungaretti (attendo con grande impazienza l’uscita delle sue liriche), e ottime idee a proposito di Ermetismo ed elogio. Sul Fascio vedo che butti già la Bestia umana:478 non me l’aspettavo che in minima, debole parte. Ho sfogliato il Praz: è una miniera ma credo che, prima di cavarla, dovrò imparare la lingua franca, finalmente. Leggo Germinale per il Laucon il miglior libro di Zola, è zoliano al cento per cento; e Cime tempestose; e rileggo Il cappello verde, e C ˇ echov, e Poe. Leggo poco, però, per quanto attentamente. E per farti vedere fino a che punto può giungere la prostituzione umana, ti manderò, forse una scena di Albanaja la rivista a St. Thanos. Tuo, con affetto, Ugo

P[osta] M[ilitare] 70, 28 dicembre 1942 – XXI Non sembra, ma nella dannunziana “Leda senza cigno” un piccolo particolare contribuisce a trascinare tutto in una sorta di paradosso e di grottesco. Un punto rovina, ed è stato capace di rovinare, tutto un libro: quello trascurabilissimo della bicicletta. È un’impressione assurda che non ci si scrolla più di dosso. “Saltai su una bicicletta e presi la via di corsa.” T’immagini D’Annunzio tu, piccolo, un po’ calvo, magari già monocolo, che corre a far qualcosa d’importante, di drammatico, di essenziale, in bicicletta? È come un pugno nell’occhio, un violento anacronismo. È l’impressione dell’uomo menomato, contorto, offeso nella sua dritta nobiltà, nel suo palpabile splendore (ne seppe qualcosa anche Saroyan, il tradizionalista – armeno – Saroyan). Tanto più un racconto che porta passi del genere: “La marea, che è femmina, montava verso la Luna ispida di giunchi. Tutte le acque tremavano e brillavano sommergendo i banchi di sabbia pallidi e dolci come i corpi di naufraghi succhiati dalle sirene. S’udiva un mormorio profondo come dev’esser quello che annunzia la rompente primavera nei paesi di ghiaccio. Il sole declinante lasciava dietro di sé una via splendida per ove pareva dovessero scendere i suoi grandi cavalli bianchi liberati dal gioco. I miti della mia razza venivano a invadere le solitudini senza storia. Il mio spirito era fervido, fertile e fatale come nel principio dell’amore. Il compimento d’una divinazione era prossimo e l’oracolo del sangue era stato bene interpretato”. Oppure:

“In nessuna riva la malinconia del mondo fluttua come in questa dell’estremo Occidente, al principio d’ogni nuovo giorno. Il gallo della Landa ha il canto roco e lugubre, come se si ricordasse di discendere da quello ch’era consacrato a una divinità concepita dalla Notte senza il soccorso d’alcun altro Addio. L’uomo, che quel canto risveglia, si sente ombra, prima di riprendere il peso del mio corpo per ritrascinarlo alla sua terra”. Oppure, ancora (è il finale del racconto): “Il riflesso aveva lasciata scoperta l’immensa spiaggia; e l’acqua bassa non respirava più, ma immota rispecchiava il cielo immoto. I canali, i banchi, le dune, le lunghe lingue sottili, i capi protesi, le macchie basse, tutte le interne linee secondavano quella dell’orizzonte oceanico, per obbedire a un ritmo di perfezione sublime, non consentito agli uomini se non nella sola ora che segue il tramonto. – In un silenzio uguale alla nudità perfetta, la bellezza dell’Occidente trova supina”. Gli unici scrittori di mia conoscenza che si possano accostare a D’Annunzio sono, da un lato (anteriore) Swinburne,479 dall’altro (posteriore) Morley. D’Annunzio sta nel giusto mezzo. Invece Poe non nutre anime gemelle. Hoffmann, Baudelaire, Villiers, Kafka gli son lontani e diversi, quanto più i critici han creduto ravvisare in essi sicure analogie, sicuri raffronti. È Dreyer (il Dreyer del Vampiro) che si può accostare al Poe del Crollo della casa Usher e, forse, del Manoscritto trovato in una bottiglia. Lo scenario che Emilio Frisia ha tratto dal Crollo della casa Usher, per suo particolare piacere, risente alquanto delle mie appassionati rievocazione del Vampiro (quando gli davo lezione), invece di provargli il brano di Virgilio a memoria, o di chiedergli l’aoristo medio di κομίζω. Però c’è questa differenza fondamentale tra Poe e Dreyer, mentre, in Poe, l’allucinato, ch’è preciso, calcolato, geometrico è ragione e motivo di terrore fisico più che di lirismo spirituale; in Dreyer, invece, mi pare avvenga press’a poco il contrario; chè l’allucinato di Dreyer è velato, lontano,

assente quasi: è più una rievocazione, forse, che una realtà. (Su tutt’altra sfera vive l’allucinazione dialettica di Raskol’nikov, ch’è già, sul libro, tormento drammatico.) Voglio dire che in Poe conta più la narrazione (1); in Dreyer, invece, la descrizione (2). I punti di contatto col Vampiro sono, in Poe, innumeri. Il racconto in prima persona (Dreyer nel Vampiro ottiene quest’effetto pur facendo comparire l’attore; nella valutazione del film, è importantissimo insistere sulla “risoluzione visiva”, nel regista, di situazioni psicologiche d’alta letteratura, il pseudo-soggettivismo della “camera”, il finestrino nella bara, l’architettonicità degli ambienti per la scala, pel mulino, ecco); il castello, col suo sotterraneo presente, se pur non vi s’insista; la figura femminile di Lady Madeline, che ha un “risalto di contorno” come quello di Sybille Schmitz480; la prima apparizione del dottore di famiglia – entrambi scendono da una scala con lo sguardo fisso avanti, assente e perduto, ed entrambi impressionano poco favorevolmente il protagonista presso Poe (conformemente a quanto osservato più sopra) riguardo il carattere, presso il danese riguardo il linearismo (dirò così) figurativo ed estetico (insomma Poe ha più vissuto, Dreyer ha più immaginato; Poe è l’uomo col bicchiere in mano e magari in piedi, Dreyer è l’uomo sprofondato in poltrona che costruisce, con la sigaretta oppiata, anelli di fumo; il brano dei suonatori-ombre era possibile in Dreyer, ma in Poe non sarebbe resistito, come non resiste in sostanza il racconto del Re Peste, dello spettro o maschera della Morte Rossa); il giuoco della porta, delle porte (ulteriore esempio in Rebecca); il pacificato lirismo finale, l’allontanarsi del dramma, il superarlo e chiuderlo in una ferrea circolazione d’arte. In Poe, il risalto del “materiale plastico” (la crepa nel muro, lo strumento musicale), opportunamente sfruttato dall’amico Frisia. Al contrario i cineasti francesi non devono aver tratto molto da Céline. Céline è l’uomo perduto, senza pudori, come Carné; ma in un senso del tutto fisiologico, niente imaginifico [sic]. Il

blocco del Viaggio al termine della notte non è compatto: il libro può prolungarsi e finire ad ogni momento. Invece, in Alba tragica, il ciclo completo: le premesse, le soddisfazioni, le conclusioni. Céline è volgarissimo ma è “vero”: è uno Zola (stavolta, oso dire, il paragone non era difficile, ma è ad ogni modo centrato) di mezzo secolo dopo; ma la linea, il programma son “quelli”. Mentre Zola è più artista, più realizzatore, Céline è più uomo, più interiore (questo spiega anche il minor numero delle opere di Céline). L’autocritica personale di Céline è acutizzata e debosciata per una evidentissima brama di generalizzazione. Solo sul suo libro ho letto frammenti della vera guerra, frammenti della vera colonia (Céline è l’uomo con una sola bussola precisa in testa, che non è di genere estetico: il programma, l’idea del crollo, la denuncia; Jusik veda che “polemista inferior” sia Carné al suo riguardo). Céline è il più antiscrittore degli scrittori ch’io conosca: per tutto, non solo per la forma. È vero che Zola scrive male (in tal caso, caro Jusik, Céline scrive “malissimo”); ma Zola non ha ritegni d’indole morale, diciamo così – come Céline non ha pudori d’indole artistica; invece Céline, guardati sul Viaggio, quando parla del coloniale che mantiene una nipotina in Francia: si vede ch’è uno sforzo, un’eccezione, per lui: ci mette instancabilmente le code. Non sa “troncare”, Céline; un finale come Alba tragica sarebbe da lui riprovato per mancanza d’insistenza polemica (il suo libro è noioso a lungo andare). Lo scrittore più interessante, degli “scrittori”, è Poe; accanto a lui C ˇ echov. Infatti la loro forma spirituale è quella del racconto. Poe può scrivere bellissime poesie, come Annabel Lee, C ˇ echov notevoli opere di teatro; ma sempre in loro predomina la condizione, lo stadio, l’impostazione del racconto. (Molti novellisti contemporanei mancano per difetto di interesse e di partecipazione: la freddezza ermetica può dare bozzetti non dà “racconti”.) Da qualche anno ho capito che Ungaretti è poeta superiore a (in ordine): Montale, Cardarelli, Sinisgalli, forse Quasimodo.

Con affettuoso ricordo, tuo Ugo (1) Rappresentazione. (2) Così il grottesco di Gogol è più umano, quello di Clair più “Scientifico”.

P[osta] M[ilitare] 70, 6 gennaio 1943 – XXI Carissimo, press’a poco formidabile è la tua lettera su alcuni problemi d’indole generale, come posizione critica nostra di fronte ai film, metodo da seguire nel libro, l’ebraismo di Sternberg. Dopo una giornata glaciale, questa lettera mi riscalda. Tutto è glaciale quaggiù, ma solo la natura, i tristi campi di neve. Korça sepolta; ma i cuori, gl’interessi son glaciali. Un’incomprensione, un’astensione, una delusione. Io avrei tanto, ma tanto da scriverti su questi uomini e su questo mondo: in fin dei conti, io sono estraneo a tutto, qui, e non mi rodo che per quel che – oh tristizia – mi riguarda direttamente. Io ti sintetizzo tutto quello che sento nel mio cuore con la accesa, fustigatrice frase di Céline, la più bella di Viaggio al termine della notte, forse (accanto alla tua): “A misura che si resta in un posto, le cose e le persone si sbottonano, marciscono e si mettono a puzzare apposta per voi”. *** Da parte mia, il mio lavoro è continuamente in pericolo. Questo è ciò che mi stronca. Ho passato un mese “delizioso” qua alla Polv[eriera] di M[borja], donde sovente t’ho scritto; giorni migliori, e soprattutto serate (intime, silenziose, raccolte: me e i libri), di quelli che avrei potuto passare perfino in L., dato che qui esiste la luce elettrica. Ma, forse, tutto è finito. Dico “forse”, e questa parola è la più decisiva ch’io conosca da due anni a questa parte. Invece di 12 testi avrò e vettovagliamento, e spaccio, e mensa; e cifre, cifre, cifre: io!

Dovrò avere! In tal caso, addio Clair, addio Pabst, addio “Testi rari” (altro che rari!); ma è brutta sai? (se tu però dici che io debbo ringraziare di aver avuto “quel” mese, e di aver fatto un po’ di Ford, un po’ di Clair, il pezzo per Aristarco, e che c’è migliaia di persone che stan peggio di me, io ti approvo, in pieno; questo però ti faccio osservare, cambia ben poco la mia situazione intima. Intanto più che tu stesso Jusik – questo te lo dirò in un orecchio – hai un carattere ch’è troppo simile al mio: saldo nella sostanza, o per lo meno in “certe” sostanze, e nelle impressioni momentanee notevolissime; per cui un giorno mi dici che il libro porterà le impronte di queste difficoltà, di queste ansie – Milano-Korça, 1942-43 –, un giorno mi comunichi le tue idee serissime, pregevolissime in merito allo stesso libro; quel ch’è brutto per me, è che io do’ nel mio animo ragione a questa tua seconda soluzione, mentre alla prima avevo acconsentito giustappunto poiché mi conveniva!). Ti dico in una parola qual è, talvolta, il mio stato d’animo. Tu conosci la teoria della Filosofia…; oh, è inutile che arrossisci, che ti scansi: – io so benissimo che la conosci un po’. Ebbene: pensa alla vita di Francesco Bacone; e pensa che talvolta, di fronte alla mia conoscenza, e alla mia coscienza, io giustifico la vita di Francesco Bacone! *** Ciononostante, io son mica triste stasera, tutt’altro. Tristezza è uno stato d’animo fissato ch’io non posso più avere, quaggiù. Tristezza è come dolore: presuppone d’altra parte, “dall’altra parte della barricata”, gioia, allegria. Parole senza senso; un formulario vuoto, senza realtà, senza basi. Qui si tira avanti. E con una certa costanza, una certa indifferenza, anche. Senza premure, senza angosce. Così. *** Ho sbagliato. Delle forti decisioni, talvolta, ne ho. Adesso, per esempio. Senti: “…passiamo alla tua lettera! Va bene?” Tu sai che Valéry, come Quasimodo, mi “quadra” poco. Ebbene, non per farlo apposta, ma anche quest’ultima definizione del romanzo che rimane quel che è, dopo la lettura

e sulla “poesia che rinasce continuamente, ha sempre presa”, per me, non l’accetto. Sarò ingenuo, ma questa, per me, è una posizione pretenziosa e falsa; oltreché personalissima per partito preso e per giustificazione intima. Valéry è grande come poeta – per quanto possa giudicare io –, anche con assurde pretese ben individuate, per quanto in modo elementare e col solito tono sbruffone, dal Barbaro sul suo ultimo saggio su “La prosa cinematografica” (in Bianco e nero di agosto)481; ma in teoria quelle posizione geometriche e costrette, applicate a casi universali, “puzzano” (ma perché io parlo di cosa che non conosco? Questo, vorrei sapere, una volta l’altra). – Mi pare Valéry stia pensando alla grande poesia – o alla “sua” poesia, ch’è lo stesso – e, contemporaneamente, al pessimo dei romanzi, o a un lardellato romanzo d’appendice (esagero, io? Ma esagera anche lui; e nella teoria non poetica, non platonica, esagerazione non vale). “La resistenza d’un testo alla visione è la prima cosa che importi, in qualsiasi zona d’arte, epperciò anche nel cinema”: sì, questo è vero. Elementare (di un po’ – alla Valéry: – tu sei più col film come romanzo, o col film come poesia? Ho capito: per te Il traditore – così poco lirico, così narrativo – sarebbe il “poema” di Valéry, La bandera invece, ad es., il “romanzo”… – Ma perché hai citato Valéry, Dio mio?). D’accordo sul Traditore e sulla Bandera – a parte Paul Valéry, s’intende. – Tu dici: “come morale è quello di Gide” (cfr. Massis, Du Bos, Rivère su Gide, e Golmi su Gide); “e io – sì, sì – annuisco.” (Tu devi sapere, Jusik, che al Liceo Manzoni di Milano, che esiste ancora – forse –, c’era gente che mi chiamava “ragazzo colto”). A proposito di Duvivier, dici: “è più affascinante la lite di Gabin, con quei figuri che gli han fregato il portafoglio…, o il suo incontro con la Romance, che non il dialogo col Capitano, quando quest’ultimo incita il legionario alla preghiera”. Non è vero. L’intuizione è ottima (Duvivier è così: non ha la misura unitaria, né ha dinnanzi tutto il film), ma l’esempio è mal scelto. Quanto ad “appariscenza”, hai torto se dici male

dell’episodio del Capitano (e un confronto: la lite di Gabin sulla Bandèra, la lite di Fresnay nel Carro fantasma, la lite di Chevalier sull’Uomo del giorno). “Duvivier… ora attrae in una zona, ora sull’altra.” Io direi che attrae sempre in “quelle” zone. *** Testi rari saran saporiti, saranno veloci. Ottima la citazione di quei versi di Valéry per Ombre ammonitrici. Li ricordo benissimo anche sulla traduzione degli Incanti fatta da Dal Fabbro.482 Io avevo scritto: “Per Sternberg, le tue parole severe riportate quasi integralmente, ma con conclusioni diverse”. Tu rispondi: “io mi oppongo”. E io – tanto per la sincerità – ti dirò che hai ragione. Non ci ho messo molto a capirlo; nell’attimo che scrivevo quelle parole, avevo l’idea di dire una sciocchezza, nel mio intimo. Hai ragione. Dici: “io non credo che la foga del primo slancio dica tutto, mai”. Ebbene: talvolta non dice tutto, ma dicendo poco, dice di più, o di “meglio” (questa è una mia convinzione fondamentale: la critica, per me, è sempre più “intuizione” che “ragionamento”. O meglio, è ragionamento quel che inquadra la critica; ma è intuizione quella che, raramente, folgora). (Tra parentesi quadra – e senza offenderti se io darò un giudizio su di te, in queste cose; io che a casa ho sempre parlato in dialetto, e che ancor oggi – credo per sempre – scrivo e parlo malissimo, confuso, impiastricciato – ti debbo dire che da qualche tempo, con grande piacere, sto notando scioltezza e vivacità e linearità sulla tua prosa un giorno così tortuosa; mi riferisco in ispecie, oltre che alle tue ultime lettere, ai tuoi brani su Ford, su Clair.) Per Sternberg e Ho ucciso[!], una delle due: o io ho visto male il film, o tu mi dai un giudizio conforme al tuo sul Postmeister483 – da me inaccettabile pieno. Sarei un po’ in dubbio, perché penso che, in fin dei conti, S[ternberg] un

“brutto” film non l’ha mai fatto, ma poi, d’improvviso, mi sovviene Desiderio di re.484 Sul problema degli ebrei, certo, tu sei informato: non lo metto minimamente in dubbio. Il tuo piangersi fra Sternberg e i francesi è un pezzo magnifico, il pezzo forte di questa tua succosa lettera. Tu concludi: “Vorrei che le tue obiezioni fossero ampie, esplicative, dimostrative”. Certo non lo sono state. Tuo Ugo

Milano, 7 gennaio 1943 – XXI Carissimo, quel numero dello Schermo è impossibile vederlo: è chiuso in casse inchiodate. Ho trovato invece pezzi di tue lettere a Terzi, da cui ti ricopio quel che riguarda Clair: ma da quelle archeologiche osservazioni credo oggi trarrai ben poco. Il titolo “Clair e Papà La Tulipe” è bellissimo. Le lettere che Terzi ti scriveva mi hanno confermato ch’egli non comprendeva il cinema. Dall’articolo inviato a B. e n. io avevo eliminato la frase riguardante il Kammerspiel, avevo lasciato quello dell’“americano per caso”. Capirai: anche è assurdo sostenere che Ford abbia subito influenza del Kammerspiel – escluso il caso del Traditore – è più normale dire, in piena approssimazione, che Ford è “americano per caso”. Cioè, l’idea non è del tutto esatta, perché Ford è un irlandese americanizzato, o meglio un irlandese che ha disposto in un piano di eticità superiore (donde il suo empirismo) gli slanci del western (onore, dignità, lotta, virilità, amore); ma alla fine, non è nemmeno esatto che Ford sia americano, per cui dire ch’egli è “americano per caso” può anche sembrar legittimo. È che, espressa in questi termini, l’idea è poco chiara, e molto grossolanamente espressa. Modificata, allargata, sostanziata nella direzione interpretativa ch’io dò a Ford (e credo tu pure sia d’accordo con me, su questo punto), ma sussisterà nel libro: per cui l’ho passata all’articolo. Capisci, Ford non è Vidor. Vidor corrisponde a Anderson (Riso nero485 in certi punti è come Alleluja) può avere affinità

con la narrativa americana: Ford niente, Ma non è che Ford sia un irlandese di puro stampo: sarebbe Joyce, sarebbe Synge486. Del resto, io credo che B. e n. non risponderà, more solito, che fra un paio di mesi. E aspetterò anche l’affermazione di Chiarini. Del resto il libro lo stamperebbe chiunque, Einaudi, Sansone, Vallecchi. Noi per ora spediamo a B. e n. Essi o pubblicheranno ogni saggio per esteso, volta per volta; o una selezione di passi da più saggi, in una volta sola. Del resto, quel che conta è per ora avere un primo appiglio di carta stampata per il libro. Per il quale libro io, individuo venale, ho ideato la fascetta editoriale: “Dodici film indimenticabili”. Così la gente capirà cosa siano i 12 testi. Niente Clair per Cinema. Su Quasimodo, un’altra volta. *** Da una tua lettera a Terzi: Clair è un grande studioso di particolari, come del resto Duvivier, che pur tanto non differisce; col Cappello di paglia di Firenze questo studio produce effetti irresistibili. Anche I due timidi è un’opera di grande levatura; per alcuni, il suo capolavoro À nous la liberté è già più slegato, sebbene abbia scene indimenticabili, e un commento musicale d’eccezione. Il milione di R[ené] C[lair] Esso è un capolavoro gustosamente clairiano e satirico; con alcune battute d’uno spirito eccezionale; con una scena – quella che si può dire del “rugby – forse la più comica che sia mai apparsa sullo schermo; con una mirabile compattezza unitaria operettistica, vaudevilliana, con caratteri – quelli di René Lefèvre, di Annabella, quasi irriconoscibile, e degli altri – naturalmente scolpiti e indimenticabili, con un abbondante commento musicale indispensabile integrazione dell’azione” – 24 dicembre 1939 – XVII

“Avevo già visto Il capp. di paglia di Fir. l’anno scorso, alla prima serata retrospettiva. Ora, dopo I due timidi, Il milione, A me la libertà mi ha fatto una diversa impressione, non

saprei dire se migliore. La prima volta m’era parsa più insistente la ricerca di molti motivi: probabilmente perché non conoscevo, bene, nulla di R. J. Spottiswoode nella sua Gr[ammatica] del Film487 giudica Il capp. di paglia di Fir. notevolmente superiore ai Due timidi e ha ragione (con una riserva per quel notevolmente), se non conoscessi Il milione – come non lo conoscevo, difatti, un mese fa – sarebbe il capolavoro di Clair. Albert Préjean – lo sposo – è al pranzo di nozze; tutti danzano, sono allegri ma egli ha l’animo in pena. Nella sua casa, c’è un focoso ufficiale che ha minacciato attraverso un biglietto di distruggergli tutto l’appartamento (e già noi avevamo visto qualche… primizia), se per una data ora non gli avrà procurato un nuovo cappello di paglia, onde la sua donna potesse, al sospettoso marito, giustificare la lunga assenza (nota del copiatore. Non è così. La donna vuole il cappello per giustificare la sparizione del prendente: in altri termini, non vuole – perché non può, rincasare senza cappello. Almeno io ricordo così). Un’ambigua espressione del suo cameriere (latore di quel biglietto), ch’egli appena è tra la festevole ridda di ballerini, lo stomaca ancor più. Qui l’obiettivo si fa saltellante, e riprende lo sposo, assorto nei suoi gravi pensieri, e pur esteriormente partecipante alle feste degli altri, con effetti di violento umorismo. Lo sposo immagina… che cosa immagina? Gli par di vedere sedie, cuscini, mobili, tutto volar fuori dalla finestra della propria camera, la casa sfasciata, ma appena il letto è volato dolcemente fuor dalla finestra, nell’attimo in cui tocca terra, ecco una turba fremente e veloce d’uomini in tuba e in massima (gl’invitati al suo sposalizio) sprigionare fuori d’ogni parte, e ciascuno prendendo un pezzo del letto, lì dond’eran venuti dileguarsi con la rapidità del vento. Clair si ricorderà di questo suo colpo di genio in una memorabile sequenza di À nous la liberté. Altra scena. In chiesa (nota: non è così, la sequenza si svolge in prefettura. Almeno, io ricordo così) tutti ascoltano, assorti e composti, il discorso del sindaco: tutti vanno attenti,

tutti vogliono fare bella figura. Senonché uno degli invitati ha la cravatta fuor di posto. La moglie cerca, una, due, tre volte, cinque volte, dieci volte di farglielo capire; ma quello non intende. La donna intanto si agita: e spicca nella general compostezza. L’assistente, diciamo così, del sindaco, in presso il tavolino, vede i gesti della donna, crede siano rivolti a lui: onde muove la mano per aggiustarsi. Il sindaco, a mezzo il discorso, vede con la coda dell’occhio quel gesto, e, interpretandolo male, anch’egli si porta la mano alla cravatta. Tutti gli uomini, allora, rivolti di fronte a lui, attenti ad ogni suo gesto e ad ogni sua battuta, tutti credono ciascuno rivolto a sé quel timido avvertimento, e tutti, silenziosamente, provvedono: meno uno, quel primo responsabile, cui la moglie s’appresta, con una certa violenza, ad aggiustar la cravatta. Impossibile render con le parole le irresistibili sfumature dell’originale. In questo film c’è il vecchio già sordo – e poi, per giunta, anche ubriaco –, c’è la donna che sviene, l’uomo che si lava i piedi, quello che ha perduto un guanto, l’altro cui tolgono le scarpe nuove, la vecchia che s’aggiusta gli occhiali, l’ufficiale irascibile e buffo, il cameriere sempre sorpreso e quasi intimidito dall’irresistibile svilupparsi della trama: insomma, tutta una collezione di tipi e di figure che l’autore analizza con verità e con acutezza, separandoli fino all’acme estremo, alla cronica rivelazione dei loro ticchi e delle loro manie” – 16 gennaio 1940 – XVIII “Con la XIII serata mi sono messo quasi definitivamente a posto coi film di C.: ho visto, infatti, Sotto i tetti di Parigi. Edizione menomata dai rispettivi tagli, specie all’inizio, purtroppo, e alla fine. Mi è piaciuta soprattutto la sequenza del pugilato, con quel treno e quella strada ferrata, che Alba tragica ricorda così da vicino” – 14 marzo 1940 – XVIII “Nella giacca che passa da una mano all’altra [al] teatro, nel Milione c’è il biglietto (e Père La Tulipe lo sa però il suo ragionamento fila lo stesso, nonostante l’errore)” (nota: ehi, giovanotto! Père La Tulipe e il capitano sono la stessa persona. Su questo non ho dubbi. Nel finale, la giacca resta in mano ai

banditi, cioè al capobanda, cioè a Père La Tulipe. Poi Père La Tulipe restituisce il biglietto. E perché lo restituisce? Se ci teneva al denaro, non lo sostituiva; forse diede caccia al biglietto per restituirlo alla ragazza, e sdebitarsi così della cortesia avutane. Sennò siamo nell’irrazionale dunque: perché se Père La Tulipe sapeva che il biglietto era nella giacca, lasciava che se lo riprendesse il giovane Michel, non ingaggiava la partita a rugby e l’assalto a mano arcuata. Del resto, l’aria con cui Papà La Tulipe restituisce il biglietto… – Voi avevate cercato la giacca, non il biglietto…! Come a dire: “Il biglietto l’avevo tolto dalla giacca”. Mah! Forse le cose stanno così: Père le Tulip voleva proprio riavere il biglietto per ridarlo ad Annabella; e s’opponeva a Michel poiché non sapeva che Michel era dalla parte di Annabella. Però, però. Quando la giacca piove nel taxi, Michel la riprende, e appaiono i banditi, e a mano armata la riprendono, con Michel c’è anche Annabella. Mah! Forse la storia della piana non è che un assurdo, illogico e irrazionale gioco di catalisi per abbracciare la fanteria di Clair, il mondo poetico di Clair. Io credo che a Clair non importino le sue storie, quanto il significato di poetica fantasia che le sue storie ànno) – 25 novembre 1940 – XIX “Quanto all’identificazione, suggerita da Marisa, di Gogol con Clair, io la trovo particolarmente acuta. E dev’essere vera, perché prima di leggere quella notizia nella tua lettera, anch’io, in lettura del primo volume delle Anime morte (è questo il più artisticamente riuscito, e il più clairiano), avevo pensato sovente al confronto, che balzava evidentissimo” – 24 settembre 1942 – XX “No, Clair è classico. Anche Poe, allora, giocava ‘sull’insolito, sulla sorpresa’” – fine d’agosto 1942: “Il senso intimo di C ˇ echov sta in quel suo veloce trascendere la descrizione realistica della vita, per affrontare gli affetti con il tono d’una malinconia necessaria. E più fine di Dostoevskij, e più umano di Tolstoj: gli può essere accostato soltanto il Goncˇarov di Oblomov, C ˇ echov è anche più limato” (nota: vedi Cˇechov e Clair in Beria)488 – dic. 1942

“Tu parli spesso di un Clair poeta (nel tuo senso), di un Clair sentimentale, di un Clair che compone ‘sottili elegie’. Quasi tutto il Clair che conosco (e ti assicuro, è il migliore) non è così” (nota: e nel Milione, quando vogliono fotografare Michel che invece è triste perché ha pagato il biglietto! Qui Clair è tanto malinconico da esser quasi tragico, per uno spirito sottile. Del resto un effetto comico, quando degrada la dignità umana, stringe sempre il cuore. Rammenti la sequenza del pranzo in Primo Amore con la Hepburn?489 La gente rideva, ma a me saliva un groppo di pianto in gola. E ancora, nel Milione: quando sul palcoscenico Michel e le ragazze riescono ad immergersi in una stratosfera di fiaba e poesia, non intervengono forse gli operai frusti ed indifferenti a portar via le nubi e la luna, a spezzare l’incanto? Non provvede forse il regista a far vedere il […] che sparge le rose, cosicché l’effetto poetico e delicatissimo di prima è capovolto decisamente? Questo “pezzo” è molto “sentimentale”, molto “elegiaco”. E il pessimismo di Il cappello di paglia di Firenze? cfr. Beria ancora.) “Tu mi chiedi, a proposito di 14 luglio, qualcosa che ti dia torto: io come sai, non conosco il film; ma il Pasinetti, se non erro, parla fin troppo a lungo della sequenza del vecchio ubriaco che non desiste dal suo tentativo di uccidersi, e di altre: e sarai d’accordo con me, è ancora il ‘mio’ Clair, questo: il Clair che salverà quasi tutto il Fantasma galante e un brano di Break the news!” (nota: concesso. Ma, in 14 luglio la morte della madre della ragazza, nell’indifferente strepito di una festa? Il funerale? Pasinetti diceva: “è questo il solo punto in cui Clair esprime una situazione triste”, o giù di lì: già, P. dimenticava tutto il resto. Quel resto ch’io ti ho citato. Dunque in Clair possiamo concludere così: nel suo mondo unitario – nell’ispirazione, nel linguaggio, nello stile, nella resa, unitario – egli o è attratto a volte da un polo satirico e altre volte da un elegiaco, oppure nella sua satira, nella sua fantasia, nella sua giocosità affiora talvolta il sostegno serio: il finale di Break the news è tragico. Tutta la sequenza di Chevalier in prigione, è tragica. Nel finale: egli è condannato, lo vengono a prendere, egli non vuole lasciarsi portar via, vola sul letto della cella,

urlando. Noi effettivamente crediamo ch’egli non si salverà più, perché ignoriamo il ritorno di Buchanan. È un attimo d’angoscia. Poi, c’è il coreografico finale rivistardo, con il snervante invito sensuale della carne di June Knight – Del resto, allora, situazioni quasi drammatiche in B. e n. non sono reperibili. Quando Henry non riesce ad attirare l’attenzione di nessuno, neppure fingendosi assassino: è ancora molto triste. Quando Buchanan viene rapito, arrestato, lo stanno per fucilare, prima lo intontiscono con una granaglia di invettive in una lingua prodigiosamente balcanica. Quando B. fugge, e viene inseguito. Egli crede che lo vogliano uccidere, e noi con lui lo crediamo, perché questo ci fa vedere il regista. […] poi si vedrà, cioè il regista ci rivelerà – ma prima ci avrà tenuti in ansia con un lungo inseguimento in auto – che rincorrevano B. per decorarlo. Insomma, gente che non aveva mai visto film di Clair, ma Clair conosceva solo per sentito dire, si stupì assai a B[rea]k [the] News! disse: “credevo Clair facesse dei film divertenti, ma questo è un film triste e drammatico”.) Caro Ugo, ti prego: medita bene quest’altro apporto che ti reco. Da “Clair, Capra e il denaro” di Campassi, ti riporto questa frase che ti confermerà le virtù schiettamente franche e franco medievali di Clair, quelle che mi hanno indotto a dire: “dalla Chanson de geste a Paul Éluard”. “Il film À Nous la liberté di Clair costituisce l’epopea del denaro, e come un poema epico, termina con la sconfitta e con la distruzione. In esso è racchiusa una parabola completa dell’esperienza umana. Due idee decisamente opposte sono in contrasto (nota: bella forza! Se sono opposte, logico che siano anche in contrasto!). La libera povertà (francescanesimo) e la ricchezza industriale limitatrice di istinti. I personaggi sono due ed ognuno incarna un’idea. L’essere fortunato rappresenta la ricchezza, l’altro la libertà estrosa e vagabonda. Il loro contatto avviene immediato e diretto, e fin dal primo momento la ricchezza subisce una scossa e non vuol riconoscere la libera povertà (il ricco finge di non riconoscere l’amico povero). Poi il

riconoscimento avviene ed il ricco si tiene vicino il povero, sentendone un po’ l’influenza (nostalgia della libertà). Un secondo assalto alla dea ricchezza è dato dal fatto che l’industriale non ricorre ai soldi a comprare l’amore di una ragazza per l’amico povero (i sentimenti non valgono il denaro). A questo punto la sconfitta della ricchezza è già affermata. L’“indugio” dell’industriale verso l’amico povero è più sensibile. In termine ultimo il fatto della politica a determinare la completa sconfitta della ricchezza (nota: qui Campassi dimentica però di come l’industriale si libera dell’amante e della noiosa gente di cui frequentava l’ambiente: la sua frase “Come? Scappata? Davvero?”) Ed è la fuga verso la libertà, neanche la ricchezza (i biglietti di banca) sparpagliata dal vento, va ironicamente a destare il desiderio ad una infinità di altre persone. Da quanto sopra nasce una prima importante considerazione: Clair assale la ricchezza con una polemica radicale e la disperde facendo ritornare i personaggi poveri e liberi”. Per esser scritta da un bambino, quest’analisi è buona e giusta. Oh, ma quando Campassi si sente in dovere di specificare che nel film la ricchezza è rappresentata dai biglietti di banca, c’è da morire! Tutto sommato, io considero quest’articolo del nostro ottimo amico Campassi assai importante, assieme a “Strade di Clair e Campanile”490, “Duello Clair-Lichenein” di Beria, all’articolo sulla scenografia di “Il milione” di Bandini491, a “Scomposizione di R. Clair”, a “Retrospettiva I” di Pietrangeli492, a “Entr’acte” di Puccini493, al capitolo di Margadonna494, a “Clair e Père La Tulipe” di CasiraghiViazzi, uno scritto fondamentale. *** Non dimentichiamo, nel libro, di notare come non solo noi si sia lavorato su materiale italiano per il film (edizione italiana) ma come anche la nostra indagine bibliografica sia rimasta

rinserrata alle pubblicazioni italiane (eccetto la buona storia dello Spottiswoode): noi ignoriamo lo Charensol, il Moussinac, il Rotha, il Bardèche-Brasillach, il [Vincent]495 e tutte le innumerevoli cose che senza dubbio sono state scritte nel mondo sugli argomenti da noi trattati. *** A proposito del franco medievalismo di Clair: cfr. il Margadonna che paragonava il ritornello “O vous qui cherchez un emploi… a nous la liberté” alle canzoncine dei lavoratori medievali. *** Per Vampyr specifichiamo un poco la questione del sonoro. Non è che nel film il dialogo si limiti a poche battute per il fatto che esso fosse concepito muto, e in quanto tale prevalentemente affidato alla mimica degli attori, oltreché alla purezza del racconto visivo (tale fatto accadeva per Rotaie ad es.)496. Nel Vampyr si dicono poche parole perché il silenzio è parte essenziale dell’atmosfera, del tono della vicenda: il silenzio nel Vampyr è personaggio, ha funzione musicale. Senza questo silenzio non si avrebbe la delicata vibrazione del dolce richiamo di Gisèle (“Lionne! Lionne!”), le grida del medico sepolto dalla farina. *** Dopodomani vedrò, e con me Marisa vedrà, Il milione all’ottima retrospettiva di quest’anno. Credo che tanto Marisa quanto io allora ti scriveremo ancora, del Milione. Ti abbraccio Jusik

Polv[eriera] di M[borja], 9 gennaio 1943 – XXI Carissimo Jusik, ti manderò, pezzo per pezzo, giorno per giorno, tutto il testo su Clair. Mi mancava solo il capitolo 9 su “Alcuni elementi del Milione” che terminerò appena ricevuto un po’ di materiale. Per il resto, vedrai, e mi dirai. Ora si apre un discorso importante. Io vorrei che, nel caso, prima di mandare l’articolo a Chiarini, o a Pietrangeli (forse a quest’ultimo direttamente, è meglio), se l’articolo ha subìto il mutamento d’una virgola, questo articolo passasse ancora da me. E ti spiego. In queste cose, come sai, sono pignolissimo. E per quanto “Clair e Père La Tulipe” debba essere firmato esclusivamente da te, io ci tengo che la punteggiatura, la musicalità ch’io do – in me – a ciascuna frase (per cui se tu sostituirai a una parola di quattro sillabe una di tre sillabe, “per me” tutto può cambiare), l’uso dei vocaboli, eccetera, vengano in pieno mantenuti. Per “Il traditore” – ti confesso – mi dispiacque molto; come mi dispiacque quando tu copiasti un’altra volta “Presentazione postuma” (infatti, uscì “sopratutto” invece di “soprattutto”, “sculture” invece di “scolture”, e altre cose). Perché potrebbe sempre accadere che tu scrivessi: “qui” e “qua” a tuo modo, con l’accento, mentre tutti sanno che “sul qui e sul qua l’accento non va”; o uno dei tuoi famosi “deficenza” “chiaccherare” e così via – E pel “Traditore” la cosa fu più grave: tu facesti dei mutamenti, parole intere, frasi forse (rabbrividisco); adesso spero che la copia – a quest’ora – sia nuovamente presso di te perché se tu hai permesso le frasi mie che tu hai criticato con l’idea poi di mutarle nel libro, non ti guardo più in faccia.

(A parte gli scherzi, mi rendi veramente contento se ti vuoi occupare di queste sciocchezze – c’è un bel termine in latino “nugae” e “nugellae”, sciocchezzuole.) Io, ad ogni modo, sono contrarissimo alla pubblicazione preventiva dei testi su Bianco e nero, perché sono sicuro che, così, il libro non verrà mai pubblicato.497 *** Sarà un po’ difficile fare Profili di registi dopo 12 testi, ma io penso che i due libri si dovrebbero magnificamente integrare. Se in 12 testi ci siamo [concentrati su] Rošal’, Capra, Ford e Clair, per Profili di registi ci si potrebbe occupare, ad esempio, di: Stroheim, King Vidor, Renoir, Blasetti, Murnau, Dupont, Sternberg, Fritz Lang, Eisenstein, Pudovkin, Ucicky, Chaplin; e così si darebbe un contributo veramente notevole alla Storia del Cinema. (Non si potrebbe, in cima al libro, come titolo d’un’eventuale collezione, scrivere Contributi alla storia del cinema? – Contributi alla Storia del Cinema: 12 testi, di Ugo Casiraghi e Glauco Viazzi; Einaudi – Contributi alla Storia del Cinema: Profili di registi, di Ugo Casiraghi e Glauco Viazzi, Vallecchi oppure, Le Edizioni d’Italia. – Va bene?) Materiale per il secondo volume ce n’è; su Stroheim, ad es., F. Lang, Renoir, Sternberg, Ucicky, Chaplin – specie sul Monello –, qualcosa di buono c’è. Il resto seguirà, col tempo. D’accordo? *** Vorrei porre, oltre alla formidabile epigrafe iniziale (da porre prima del Preambolo), “io parlo di ciò che mi aiuta a vivere, di ciò che è bene” (Paul Éluard), altre piccole epigrafi in cima a qualche testo. Per es., per “Uomini sul fondo”, ho trovato: “E per quegli uomini la vita somiglierà a un’agonia energica. Le loro facce saranno come i quadranti bianchi dei manometri. Le loro arterie saranno come i tubi dipinti di rosso della camera di manovra” – D’Annunzio.498 Siccome però l’ultimo testo avrà un’introduzione lunghissima, e il testo stesso, perciò, sarà suddiviso in capitoli

senza titolo, all’inizio del capitolo che realmente inizia il discorso su Uomini sul fondo, noi porremo – scritta in caratteri minuti – l’epigrafe. (Anche “fisicamente”: i testi potrebbero differire l’uno dall’altro.) Tuo Ugo

P[osta] M[ilitare] 70, 16 genn[aio] ’43 – XXI Carissimo, in data 13 luglio ’42 tu mi scrivevi, su Le buone intenzioni:499 “uno stranissimo film di ispirazione clairiana, con degli spunti avanguardistici, ignorato da tutti, interpretato da Gravey, Suzy Vernon, Colette Darfeuil, Jules Berry e Palau, un formidabile caratterista: un film ch’è un vinetto frizzante per nulla inacidito”. Io, com’è naturale, non condivido affatto questa opinione. Trovo il film, anzitutto, molto brutto, molto merde; spunti avanguardistici non esistono per nulla, ammenocchè tu non consideri “avanguardismo” quelle sciatte, orrorose, brutali sovrimpressioni di marca in iscatola; il film non è un “vinetto frizzante” che nei primi dieci minuti, veramente di altissima classe – secondo me – sebbene il montaggio sia grammaticamente poco chiaro e, in definitiva, errato; Gravey fa l’Albert Préjean, Suzy Vernon fa Jean Arthur, ma senza scatto, Colette Darfeuil fa Elvira Popescu, Jules Berry – purtroppo – il Jules Berry, Dréville tenta di fare il Clair; ma mentre il Clair è un artista, un poeta, e anche altro – come sappiamo –, Jean Dréville non è, è evidente, che un macellaro. Infine, il film non è nemmeno “stranissimo”; anzi, è quanto mai normale e banale e terra-terra. Invierò presto mie noterelle su Pabst. Avrei escogitato questo titolo: “Pabst uno e due”. Ma sebbene mi piaccia moltissimo, non so se riuscirò a mantenerlo. Ho riterminato Il cappello verde: lettura, per me, fondamentalissima (e, scusami per il termine, ma Ramperti – che ha prefatto – è uno stronzo; affascinante, magari, ma sempre stronzo).500

Aspetto la tua “lettera terza” sul Milione, prima di continuare Clair; i capi[toli] 9 e 10 saranno molto nutriti. Il pezzo di F. C. su il verismo di [Rossini] in Film è ottimo. Mi è piaciuto moltissimo considerandolo in relazione a uomini della levatura di Doletti, De Stefani, D. Javarone, Carlo Maria Petrucci. Un affettuoso abbraccio, tuo Ugo

Milano, 19 gennaio [19]43 [– XXI] Carissimo, oggi nel pomeriggio sono andato nella vostra Università (puah! L’Università di Lettere e Filosofia è un cesso, a mio parere, e sotto tutti i punti di vista) con Marisa a sentire una lezione del Prof. Bosco su Parini.501 Una lezione così scialba, così striminzita, liceale, che ho detto a me stesso: Jusik, dopotutto, meglio l’inferno della chimica che questo limbo inutile. Poi ho riaccompagnato Marisa a casa, ho preso con me due libri di Bontempelli (quest’altra settimana Moschetto fa una terza pagina, Marisa recensirà de Pisis,502 io tratterò di B.), sono andato a trovare i tuoi. Li ho trovati contenti quasi quanto lo sarebbero se tu fossi tornato. Ho appreso da loro le tue novità, e ne sono rimasto contento in maniera decisiva. Carissimo, continua a dare lezioni alla figlia del Colonnello, dalle magari anche alla moglie del Colonnello, anche alla serva del Colonnello magari, ma rimani a Polv[eriera] di Mb[orja], dove puoi star tranquillo, lavorare, fare il tuo dovere. Lascia da parte scrupoli e sentimentalismi, ricordati sempre che tuo dover è di esser coerente alla tua vocazione, al tuo destino. Perciò non ti preoccupare, e scrivi. A parte questo, sai tu quanto erano felici i tuoi genitori stasera? Solo per dar loro questa gioia, io ti invito solennemente anche a danzare davanti al Colonnello e magari danzare interamente dipinto di verde.

Mio Dio, un briciolo di egoismo fa sempre bene. E sono contentissimo che tu abbia cominciato a far di testa tua, piantar grane, metterti a rapporto, andare dal Colonnello a dirgli di lasciarti dov’eri. E non solo io sono contento: forse più di me, anzi, certo di più, è contento tuo padre, questo tuo semplicissimo e intelligentissimo padre, che forse vorrebbe suo figlio fosse un poco più “pratico” nella vita, un poco più “lombardo”. Intanto, insegna pure greco e latino. Vedrai che magari per quella via, verrai anche in licenza! Oh, non mi accusare di corruzione! Io sono attento alla tua integrità morale, non ti spingo verso la disonestà, Dio me ne scampi e liberi. Aspetto il resto di Clair, e spero che possa regalarmi anche Carné, Pabst, Duvivier. Molte affettuosità, Jusik

Milano, febbraio 1943 – XXI Carissimo Ugo, anche le ultime tue varianti meritano discussione ed approfondimento. Per es. affermi che La terra è superiore a L’arsenale.503 Come mai? Lo dice il Pasinetti; va bene. Ma io ho visto delle foto de L’arsenale che dicono che questo film è importantissimo. Queste inq[uadrature] sono elaboratissime, d’una bellezza figurativa estrema. In esse c’è della geometria che diviene pittura e poesia. Io vorrei scrivere un saggio sull’Inq[uadratura] intesa come “invenzione assoluta”: dovrei parlare molto dell’Arsenale allora, e Eisenstein (di quest’ultimo conosco delle formidabili foto mai apparse in Italia pubblicamente). *** Sì, ma però, alla fin fine, molto capitoli del libro sono già a buon punto; quasi cinque o sei. *** Al Cineguf ho visto Tre più due, film surrealista di Anna Gobbi. *** Attendo il resto del saggio su “Clair”. Per il resto, Dio ce la mandi buona! (Cioè Pabst, Duvivier, Carné ecc.) *** Purtroppo, San Lazzaro, ch’era quasi deciso, è stato sospeso perché è subentrata una superiore disposizione che vieta i film

a soggetto religioso: pare che preti, croci, e simili cose, non piacciano ai germanici. Peccato, anche Pasinetti ci teneva a fare San Lazzaro, e a me sarebbe piaciuto lavorare con lui. Ora invece stiamo studiando l’eventualità di alcuni documentari scientifici. Attendo il parere di Pasinetti su due soggetti che gli ho proposto; uno è La luce, l’altro La vipla (la vipla è una gomma sintetica). Intanto, mi sono fatto presentare, sempre da P., a Primato, spero di scriverci. Scriverò anche, per guadagnare, su CineIllustrazione forse. *** Hai letto le corrispondenze dal fronte russo di Calvi? Il nostro vecchio direttore sta facendosi le ossa al mestiere, diventando un buon giornalista.504 *** Vallecchi ha ristampato le poesie di Sereni.505 Sereni è sul fronte russo. *** Marisa ha recensito “more solito”, le Poesie di De Pisis; “more solito”, De Pisis le ha scritto ringraziando. I saggi della nostra amica stanno riscotendo plausi. Quasimodo le scriveva che il suo saggio era “esemplare”; De Pisis dice che quello sulla sua poesia è “ammirevole”. *** Ti spediamo a giorni un pacco di numeri di Moschetto. Ci troverai una terza pagina che è pressoché nostro feudo. *** Qui fa freddo, ma la primavera è vicina. Con molta serenità attendo incursioni. Mi sovvengo di una frase sentita in bocca ad una popolana il 24 ottobre 1942: “non ho paura di morire, ho paura della morte”. *** “Nel giusto tempo umano,

rinasceremo senza dolore”.506 *** Jusik

7 febbraio 1943 – XXI Caro Ugo, la visione di Tre più due, del Film n. 6,507 mi ha riproposto il problema del film cosiddetto surrealista e astratto. Credo che sin qui tutti abbiamo sbagliato, sul condannare questo genere di film. Dicevamo: non c’è contenuto, quindi niente arte. Errore: il contenuto c’è, ma è irrazionale, cioè razionale alla sua maniera (può quindi anche essere poetico). Se il film normale è romanzo (essenza narrativa del lungometraggio, storia, personaggi, eccetera), il film surrealista e astratto è forse non tale, ma semplicemente il film poetico tout court. Su Pattuglia io ho detto che il cinema non può tendere alla poesia (poesia nel senso di versificazione): ora forse direi che il cortometraggio di assoluta fantasia è accostabile alla poesia. Esempio: prendi una poesia di Baudelaire, e descrivila in cinema: avrai un poemetto surrealista. Prendi un romanzo di Stendhal, e trascrivilo in cinema: avrai una narrazione romanzata. Noi sin qui abbiamo parlato di surrealismo o dal punto di vista teorico, estetico-filosofico (e la mia distinzione ti può anzi può dimostrare almeno una parte dell’infondatezza delle nostre argomentazioni), o da quello storico. Non abbiamo considerato la “possibilità” di questa maniera. Le aveva considerate Giovannetti nel suo Il cinema e le arti meccaniche ch’io ho letto integralmente solo di recente. Ci ho ripensato iersera al Cineguf, vedendo Il sogno di Pluto di Walt Disney.508 Eccomi in pieno preoccupato con tale argomento. Disney è importantissimo.

Riguardo al surrealismo, bisognerebbe poter studiare i testi. Noi abbiamo visto solo Entr’acte, Ballet mécanique, L’Étoile de mer, Vormittagsspuk.509 Poco. In quei film stessi analizzare l’intenzionalità, il dato di costume mentale, eccetera…510 *** Di Commedianti non so cosa dire. Escludo però sia sul livello di Ragazze in pericolo. Durante la proiezione C. è insopportabile, ma a ripensarci, lo si trova dannatamente Pabst, nel complesso. Le cose belle ci sono. E sono: il personaggio di Hans Müller; la presentazione del personaggio di Gustav Diessl; qualche punto dell’orgia. Del resto me ne infischio. *** “Non saprò nulla della mia vita, oscuro monotono sangue”.511 Jusik

Milano, 11 febb[raio] [19]43 – XXI Caro Ugo, ho qui dinnanzi molta posta tua. La sera è quieta, serena. I riflettori giocano sul cielo; ad essi affidiamo molto di noi. Posso citare il mio poeta preferito? “Dove gli alberi ancora abbandonata più fanno la sera…”512 Del resto, le poesie di Q[uasimodo] costituiscono l’unico libro che io possegga. Sopra, ci ho scritto: Nunc mihi, mox aliis. *** Ho fatto le correzioni e varianti. Laddove tu dicevi, in un certo punto, “analogie”, ho posto “allegorie” (la poesia medievale francese era allegorica, non analogica: vedi il “Roman de la rose”, gli autori della Pleiade, Ronsard, Giachino di Bellay,513 ecc.), ho corretto “tombeau” in “bout”. Per il resto, ho rispettato a fondo le tue osservazioni, i tuoi desideri. Per una rivista, “Clair e Père La Tulipe” va assai bene. Per il libro resulterà almeno il triplo. Io sono molto contento. La tua individuazione sul passaggio dal meccanicismo al pessimismo, è vitale. E nel libro parleremo di Break the news in questo senso, anche. Il nuovo numero di Spettacolo è uscito, Pattuglia non ancora. Su Spettacolo ci sono diversi articoli di cinema (Aristarco, Luzi, May, Barendson, Viazzi, Guerrasio);514 May inizia a pubblicare a puntate un lungo saggio che s’intitola “Il cinema e la filosofia”. Questo saggio comincia con parole che

suonano così: “questi appunti meditati in zona d’operazioni…” E Sereni dal fronte russo ha dettato una delicata, umanissima prefazione alla ristampa delle sue poesie. “Nell’atto di andare lontano, di affidare la sua sorte di creatura…” Ora collaboro anche a Prima linea di Lubiana: ci scrivo in quanto Josephus, Oratius, Guido ci scrive in quanto Alberto Jeronimo, Marisa ci terrà una rubrica fissa di critica, dal titolo “Bottega di prosa e poesia” in quanto Marisa Vallini (essa è stata molto invitata a scrivere un saggio su Q. da Posizione, e scriverà anche per Pattuglia, per Spettacolo. Certe sue deduzioni da Apollinaire forse arriveranno fino a Prospettive. Io invece tento di scrivere su Primato, su Cine-Illustrato, sul Popolo d’Italia). Non so se già ti ho detto che San Lazzaro per ora non si può fare. Forse invece lo LUCE realizzerà, su mio soggetto e sceneggiatura, un documentario scientifico dal titolo Vita dell’energia elettrica. Ho deciso: mi darò ai documentari scientifici. E Marisa forse diverrà redattrice in pianta stabile (con scrivania, poltrona, stipendio) a Moschetto, in sostituzione di Foscanelli515 che è stato chiamato alla redazione del Corriere padano. Guido intanto, a Moschetto è già redattore (scrivania, poltrona, stipendio) e ha moltissimo lavoro (ci ha incaricato di chiederti di perdonarlo: ma tra breve ti scriverà lui stesso): è una delizia vederlo entrare nella saletta dei critici del “nuovo”, scontrarsi con Simoni,516 dargli un colpetto nella pancia dicendo: “che te ne pare, vecchio mio?” Ti confesso, caro Ugo, che mi commuove lo spettacolo di questi giovani che vanno avanti, che si fan strada, che ricevono inviti, compartecipazioni, ammirazioni. Mi sento vecchio ed esaurito; e sono contento di avere trasmesso in buone mani la fiaccola. Io ho corso finché m’è retto il fiato, ora è bene ch’io raccolga i miei ossicini e mi faccia in là. Sono contento per Guido, che ora sgobba; sono contentissimo (puoi immaginare quanto) per Marisa. È una tanto brava ragazza,

Marisa; tanto. Io quasi piangevo di gioia nel vederla ricevere autorevoli approvazioni, invidiati inviti. Ti ricordi, mio vecchio Ugo, gli anni bui e faticosi dei nostri esordi? Eravamo sospesi ai fili sottili del Nostromo. Marionette al buio, con un prepotente desiderio di umanità. Oggi io voglio ancòra scrivere su Primato o sul Popolo d’Italia, per aprire la strada a Marisa. Immaginati un poco se mi preme erudire Hieronymus Bosch; se sia per me semplice informare sull’immoralità del costume americano. Non ho fatto cose importanti, durature. Forse nessuno citerà il Viazzi. Forse, un giorno il Viazzi sparirà; e spariranno Calibano, Asmodeo, Josephus Asiaticus.517 Ma quel che ho fatto, l’ho fatto in tutta sincerità; non per posa; e non per calcolo; e non per ambizione. Per la mia coscienza, questo mi basta. *** No, il Frisia non è quel che dici. È un debole, un caotico, un fallito a priori. Ha solo una dannata sensibilità ma essere così romantici, idealisti, assolutisti! Egli si riempie di illusioni, vive in un mondo fittizio. A oltre diciott’anni, e nullo sapere della vita. Non ha carattere, non sa cosa vede (vuole diventare un genio. Ma si può essere così esaltati? È lecito? È umano?). Non ha entro di sé il minimo appiglio. Non si conosce, perché conosce solo se stesso: non sa sdoppiarsi, giudicarsi, criticarsi, armonizzarsi. Manca di quella dose di cinismo, o di sofferenza scontata, ch’è indispensabile per vivere, perché lui si limita a viverla, la sua sofferenza. Non sa cosa diventerà. Scrivere, per ora, non sa. Certi suoi dialoghi scritti sono freschi, ingenui, spontanei: ma con valore di puerilità non vive con gli anni. A me fa paura. Sperduto com’è, imberbe com’è, bambino com’è, fuori dalla realtà della vita. Il suo futuro mi è oscuro; perché mi è troppo chiaro il suo presente. Il Frisia mi assomiglia. ***

Guido organizza, dirige le Retrospettive. Guido farà un filmetto al Cineguf; al Cineguf fanno dei filmetti surrealisti; Léger, Man Ray, eccetera. Al Cineguf hanno fatto un bellissimo film: La fanciulla del bosco: mia primissima poesia.518 *** Stasera devo tradurti dell’Indra: “A volte, di notte, accucciato dinnanzi ad un caminetto, sognavo: il vuoto del Nabian abbronzava la solitudine diaccia, scricchiolavano le mie finestre, le tende tremavano leggere, scricchiolava la porta, la mia lampada ammiccava, protendendosi: e le immagini della patria dolcemente commiste alle visioni della malinconia per un poco si diradavano, si dissolvevano, e la mia tempesta si immergeva nel suo regno, le immagini ritorneranno, lente, vibranti, nelle mie meditazioni ondeggianti, cullante dal vuoto che si allontanava: si formavano, si ricomponevano, si componevano, e passavano, interminabili, attraverso la mia visione sognante, concretizzandosi e spegnendosi laddove posavo lo sguardo: nella fiamma della lampada, nei fiori rossi del fumo dove l’immagine con tutta l’anima pareva sì fascinosa ebrietà; una felicità guarnita del mio colore vitale. A volte persistevano, sospese, e quasi animate e parlanti, con una parola conosciuta che all’improvviso udivo, con un accento incancellabile ed insensato che la visione contemplante reiterava, anche le meditazioni, impotenti, slegate, incatenate, composte dal respiro impercettibile dei folli insignificanti, e pudiche, scivolavano sull’anima indifferente, a volte fraseggiate da un serio concetto, e apparendo in contraddizioni perpetue, contrapponendosi… E il vento, che tra le fessure cespicava, fischiava la sua ispirazione sognante alla mia palpitante visione solitaria”. Tutto il Mondo interiore di Indra è tale. Diario d’una prodigiosa contemplazione. Per me, una delle opere maggiori

ch’io conosca. *** “Perduto ho ogni cosa innocente, anche in questa voce, superstite, a imitare la gioia.” *** “Con fatica e con sangue mi faccio una prigione.”519 *** Jusik

Milano, prime ore del giorno 15 febbraio [1943 – XXI] Caro Ugo, che vuoi, la sera del 14 febbraio un povero diavolo qualsiasi, diciamo di nome Glauco Viazzi, si è messo al tavolino per scrivere il soggetto d’un documentario sull’energia elettrica. Fuori la luna spacca le pietre, bagna i muri, cola latte per le vie; il cielo è d’una purezza estrema. Piacerebbe a De Chirico, pensa quel tal Viazzi; stesse ombre secche, muri severi, senso di attesa, di eterno, di metafisico. Quand’ecco ad una certa ora, sirena d’allarme. Il Viazzi dice “ci siamo”. Si secca, si scoccia. Niente da fare, continua a scrivere: quand’ecco esplode la girandola della contraerea. Un concerto egregio, combinato d’egregi rumori. Il Viazzi si dice: andiamocene in cantina. Prende un numero della rivista Spettacolo, prende l’unico libro che possiede Ed è subito sera, intasca un poco di preziosissime lettere, intasca un arancio, e scende in rifugio. Ma si ferma sulla porta del cortile a guardare. I riflettori affettano il cielo, si intersecano, danzano, fan coreografia. La contraerea spara. Si senton fischiare le salve in batteria che partono: fischio iniziale, poi scoppio là in alto. Nel ciclo fioriscono disegni bizzarri, rossi e gialli e bianchi. Poi una mitragliera comincia a seghettare il cielo di traccianti. Tante perle rosse in fila. In rifugio, il Viazzi legge Spettacolo. Mai non ha letto con tanta passione roba di teatro, di cinema. Il Viazzi riesce perfino a leggere un articolo del Viazzi. Ma lo spirito è teso altrove, e la mente è lucida. Si può morire da un momento all’altro. Pazienza: purché non muoiono altre persone, un’altra persona.

Poi all’improvviso, un boato più forte. La luce ammicca, danza un po’, poi riprende. Una ragazza sviene. Gli altri ridono, scherzano: eccitati dicono: non siamo morti. Era da 500 chili. No, 1000. No, 2000. Chissà dov’è caduta. Il Viazzi legge, ma non può controllare la sua mano. Quella porca mano trema. Accidenti, aver lo spirito tranquillo, e il corpo in subbuglio. Maledetto sistema nervoso. Dopo tempo, silenzio. Terminato Spettacolo, si passa a Quasimodo. Ma entra un ragazzotto. La C. brucia. La O. Brucia. Ci sono degli incendi. Miei cari no. Il Viazzi piglia su e se ne va di volata. Fuori. Già, gli incendi. Via di corsa, in piazza M. A.: tutto tranquillo; la casa è saldamente ancorata al suolo, i suoi spigoli giocano di chiaroscuro sul cielo. Allora, via B.: lì intorno c’è una pleiade di piccoli incendi. “Signor Siro”. Il signor Siro sbuca fuori; è serissimo. “Tutto bene?”, “Tutto bene, Viazzi”: ma fila via come una lepre per andare a provvedere al terzo piano della casa vicina che v’è fumo. Per le vie, la quiete. Le biciclette scivolano lente, come in un acquario. Si cammina in una crepitante coltre di vetri rotti. Beh, prima si credeva ci fosse un incendio solo, ma se ne hai voglia ne conti parecchi. Eccone uno. Vedere, perdiana! Nel deposito di falegname: [abbraccio] senza tregua. Stanotte gli incendi sono delicatissimi, sfumati: veri e propri pastelli. Colori tenui, sul camioncino, sul roseo, nella limpidità della notte-giorno. Contro questo cielo e questo assoluto chiaro di luna, le vampe si stemperano, idilliache. Bella roba: passata la oppressione del pericolo, il Viazzi estetizza. E lì, un altro fuoco. La gente guarda, e mugola. S’odono scoppi e rimbombi. Bombole d’ossigeno, dice uno. La gente scappa. Più in là, una casetta a due piani: brucia il pianterreno; un mare di fuoco. Un centinaio di metri più in là: la silhouette d’un pompiere contro una rete di cinta: sullo sfondo, il fuoco. Uno, due, tre, quattro, dieci, quindici. Basta: è già un’ora di cammino; il Viazzi torna a casa. Toh guarda, viale Lombardia. I fili della luce a terra. Tutte le persiane sballate. Il Viazzi guarda e vede una casa tagliata a metà: come una torta. Metà

casa c’è, l’altra metà non c’è. Il Viazzi pensa: duecento metri da casa mia. Si dice: bastava un niente, e potevo essere io. Poi il Viazzi torna a casa, mangia l’arancio, finisce una sigaretta. Scrive una lettera ad un caro amico. Pensa alla gente che ha perso tutto, ed è sul lastrico. Pensa che domani ricomincerà la solita vita, e che domani non potrà accadere la solita morte. Nel silenzio assoluto, ode un boato. Una bomba inesplosa? Chissà. Poi il Viazzi apre un libro, e legge due versi: “e io fingo timore a chi non sa / Che vento profondo m’ha cercato”.520 Poi va a letto, a dormire (dopo aver salutato molto affettuosamente il vecchio amico Ugo, beninteso). Jusik P.S.

Irene Brin, parlando del film di Carné, I visitatori della sera,521 dice ch’esso “sfiora costantemente il ridicolo, pur senza penetrarvi mai”. Aveva dunque ragione il Viazzi, quando avvertiva in più punti di Albergo Nord del grottesco, della parodia mal commisti al dramma? L’ultimo ragionamento di Bergson va bene per Chaplin, come per Clair. Nel libro, “Clair visto da Bergson”, è da rivedere. Shangai522 è Pabst come Pabst era Lulù o il Gianna Ney523. Anche Shangai è una storia di avventurieri, contrabbandieri, malfattori. Il tabarin dove canta Kay Murphy contiene ballerine simili a quelle di una sequenza di Lulù. In Notti bianche la recitazione è spesso teatrale. Ma siccome i russi sono ottimi attori di teatro, e usano una recitazione naturalistica, questo non si avverte molto. Svia poi l’abilità inquadrativa degli autori, le luci, il montaggio. J.

Milano, 25 febbraio [19]43 – XXI Carissimo, da tempo, molta posta tua, e per molte ragioni valide. Tu forse non puoi avvicinare quel moto di intimo compiacimento – quasi un benessere – che a me, a noi proviene dalle tue parole. Esse ci ripropongono cose che forse altrimenti andrebbero perdute in inesorabile maniera. E le tue ultime lettere sono ormai brani da pubblicare. Un giorno daremo alle stampe il tuo epistolario; io ora son già tentato di rendere di pubblica ragione certe tue pagine. Perché, naturalmente, ora anch’io sono redattore di Moschetto. A Marisa vennero alzate opposizioni da parte della famiglia. I bombardamenti, venire a Milano da Canzo tutti i giorni, magari non poter tornare su: le brave bambine devono stare accanto alle mammine e ai paparini. Perciò con alquanto dolore Marisa non entra, per ora, a far parte della redazione del giornale: ma al giornale entro io, il che praticamente è la medesima cosa. Quando io [me] ne andrò, sarà anche per cederle il posto, e in contingenze spero più tranquille, maggiormente atte ad un calmo lavoro. Del resto, Marisa resta uno dei nomi più validi della nostra terza pagina: sempreché le sia agevole darci qualche pezzo, data la vastità della rete delle sue collaborazioni, da Prima linea a Posizione, da Spettacolo a Pattuglia, al vecchio glorioso Fascio. (Di queste riviste non ti parlo, conto di fartele avere via via usciranno con articoli dovuti al nostro gruppetto. Per capirle,

basta un numero. Insomma, Prima linea è il settimanale della Federazione di Lubiana, un qualcosa che oscilla tra Il fascio e Moschetto; Spettacolo è l’ex Via Consolare; Posizione è l’ex Corrente, quasi; Pattuglia è Pattuglia.) Pattuglia cinematografica dopo alterne notizie, pare esca ora.524 L’ultimo Bianco e nero conteneva il tuo “Rebecca”,525 è inutile, tu scrivi così e non c’è nulla da fare, dici cose sante ma in una maniera che mi fa venire i brividi talvolta. Ma sei perdonato, perché era un articolo gettato in una breve licenza, e per me ha avuto il pregio straordinario di farmi rivivere quei giorni: La prima moglie al “Pace”, e il formidabile incontro della risata, L’ombra dell’altro al “D’Annunzio”, indi ritorno a piedi discutendo, poi Ragazzi al “Venezia”, l’articolo infine.526 Gran bei tempi. Anche ora i tempi sono interessanti. Ma qualcosa di derivato dall’ultimo bombardamento di Milano (a te Stendhal però non piaceva, ma io non posso non amare un uomo che proclamava essere Milano la città più bella del mondo. Copiatura? Ma però: Glauco Viazzi, milanese) troverai in Moschetto di questa settimana: è il terzo raccontino di Viazzi, dopo Passeggiata col cuore e Conversazione con marinaio. Roba diversa, questa: ci sono influenze, te lo dico subito, di Emanuelli, di Piovene, di Lisi, di Guerrasio (del Guerrasio di Gerardo, o la vita inutile; libro che Guido dovrà scrivere. Ovvero Guido, o la vita inutile). A Moschetto io curerò la prima e la seconda pagina, e naturalmente metterò un poco lo zampino nella terza, ch’è ora feudo di Guido. Penso che una volta potremo fare, permettendolo il Direttore, una pagina tutta dedicata al cinema, e un articolo del nostro gruppetto settentrionale: Campassi, Bandini, Sabel, Beria, Terzi, Guido, te ed io. Comunicherò quell’idea, che mi è venuta ora, a Guido. Vedremo. Naturalmente, conto di laurearmi, anche. Ci tengo in una feroce maniera. Pel documentario ancora non so. Attendo risposte dallo Luce. A Pasinetti il soggetto è piaciuto, lui mi ha detto

l’avrebbe diretto volentieri. E domani andrò a Busto Arsizio per esaminare certi film da comprare, eventualmente, per Pasinetti. Chissà se troverò qualcosa di buono. Leggere, leggo poco. Ho intravisto i Sette messaggeri di Buzzati, certe “poesie” di Góngora527 di cui parlerà Marisa al giornale; ho trovato Le rire di Bergson, edizioni Alcan.528 Mi sono riconfermato: Bergson spiega molto Chaplin, e poco Clair. Escludo che in Clair esista cattiveria. Tra un poco uscirà Quai des brumes. Ma per carità, mai un titolo come “Carné a freddo”. Che scherziamo? “Carné a caldo”, “Carné in umido”, o “alla cacciatora”: sarebbe tirarsi addosso un nugolo di ridicolo, e a viva forza. Lasciamo pure agli altri il compito di scavare la nostra cinematografica fossa. In Il lettore vagabondo, editore Tuminelli, Trompeo ha inserito anche “Zola e Renoir”.529 Quella collezione mi piace: buona narrativa, e saggi ottimi (un Machiavelli in Inghilterra, ed altri saggi di Praz, prelibato, squisito). Da tenere d’occhio, anche per 12 testi. Altri libri, sempre intravisti? Mi misero, i Dialoghi morali di Giordano Bruno, buon pane fra gli egregi dentini filosofici di Marisa, ma cibo inadatto alle mie molli e biascicanti gengive di vecchietta sdentata. Il 14 febbraio, il bombardamento fece ingenti danni. Di quanto accadde nei dintorni immediati della tua abitazione: già lo disse tua madre, aggiungerò che, in altre zone, il fenomeno fu molto più duro, di quel ch’io ti scrissi la sera medesima e che limitavo alla mia zona: al lato opposto della città, in via M. P., ci son state, ad esempio, tre case di sette piani volatilizzati, ridotte a un mucchietto di macerie alto si è no cinque metri. Le ultime tue lettere mi offrono una immagine tua che amo molto. È sbalorditivo come tu riesca a scrivere di te stesso: io non oserei. Certo tu sei molto giovane. E te la cavi dicendo: io non so far diari, non ci sono tagliato. Eppure! Ogni tua riga è diario, testimonianza di anima, e confessione e, soprattutto, espressione d’arte.

Mi è un poco dispiaciuto tu abbia rimandato, o tu sia stato costretto a rimandare la stesura dei tre capitoli (Duvivier, Carné, Pabst). Mi ero affezionato a ricevere spizzichi di saggio così, due volte la settimana. E gira e rigira, ma “Traditore” era di 32 facciate, e “Clair e Papà La Tulipe” di 37. Vedi, se puoi, se ce la fai a fare anche questi altri tre, cucendo con la tua diabolica abilità i miei appunti, io tiro un sospirone, dico, il libro è in porto. Perché con più di mezzo libro pronto così, ma che veramente in un mese scriveremo tutto il libro, una volta per sempre, e non se ne parlerà più (magari, gli altri, a parlarne. E noi, allora, a ridere sugli altri, “cretini!”, “Imbecilli!” “Non capite niente!”) Pasinetti mi ha promesso da leggere i due Rotha.530 Ma sarà bene fare un libro scrupolosamente dichiarato su del materiale italiano. Hai visto come ti ha risposto il Nostromo? Neanche all’estero.531 Noi saremmo dei primi. Perché ho letto velocemente Cinema di Arnoux,532 ma è una buffonata. E Le cinéma dans la série des arts533 di Tolomei è un libro coglionesco, indegno, detestabile. Vado spesso a trovare i tuoi genitori. Tu vedessi le cure amorose che tua madre porta ai tuoi libri. Ora essi son tutti in casse nel rifugio, nel locale dove restano i tuoi durante gli allarmi. Io ero lì, e aiutai un poco tua madre. Vidi tutti i tuoi bellissimi libri. Se tu non avessi fatto altro nella vita, ti basterebbe quella raccolta di libri, che ti deve essere costata amore e sacrificio. Oh Ugo, quanto volte mai noi rileggeremo i primi capitoli dell’Uomo finito534 per vederci noi stessi, quante volte ci brucerà il desiderio di cominciare a scrivere “Io non ho mai avuto fanciullezza”? Ora i tuoi libri sono là, li sfogliavo, mi rodeva di non poterli leggere. Vidi ritagli di cinema superbi. Uno di Pannunzio su Pabst. Tanta roba ghiotta. Tua madre amoreggiava i libri come se amoreggiasse te, diceva “Viazzi, l’è testimone di dove li metto. Se cade la bomba e noi moriamo tutti, i libri restano.

Venga a prenderli, li tengo per l’Ugo”. E mi veniva voglia di piangere, di abbracciare e baciare tua madre, ch’è una delle più buone e sante donne ch’io abbia mai conosciuto. Ma sarai tu che verrai a togliere di lì i tuoi libri, e io e Marisa, e tua madre ti aiuteremo, e tuo padre la sera vedendoti allegro ti chiederà perché, e tu lo dirai. Ci sarà ancora la guerra, certo, ma magari li affiderai un poco a noi, i libri, li porteremo al sicuro a Canzo, io e Marisa. Ecco, vedi, io ti parlo dei libri. Ma tu capisci, vero? C’è là dentro tutta la tua storia, e io ci vedo come riflessa la mia. I libri resteranno sempre i nostri simboli più belli. Una nostra testimonianza valida. Ricordo. Entrasti in camera di Marisa, quel pomeriggio, la prima volta. Eri vestito di nero, di scuro o che so io. Non dovevi sentirti molto a tuo agio. Come Martin Eden nel primo capitolo di Martin Eden. “He entered the room…”, o che so io. Poi fiutasti l’aria con il tuo enorme naso, acutissimo, e abbassasti la testa sullo scaffale. Toccasti due o tre volumi. “Buona roba”, dicesti. E io fui contento. Ecco, caro Ugo, una lunga chiacchierata con te. Perché oggi è il tuo compleanno, ed io sono anche venuto a farti visita nella tua stanzetta espressionista. Se il tuo pastrano somiglia a un avvoltoio, la mia brutta faccia da satiro è in armonia col luogo. Unità d’azione, di tempo, di luogo. E dire che Boileau ci credeva. Molto, tanto caramente Jusik

Milano 7 marzo 1943 – XXI Caro Ugo Ricevo, riceviamo molte tue lettere; brevi, interessanti, vive. Oh tu N. M. della triste domenica, quando sarai tra noi di fisica presenza per sentire, anche, tra l’altro, Gloomy Sunday535 tra noi? Oggi domenica, sono tornato da una breve visita fatta a Marisa, prigioniera in ceppi a Canzo dei suoi genitori. A Canzo con Marisa abbiamo un poco concertato il prossimo numero di Moschetto (ora sono io, lo sai? al giornale, con Guido. Direttore reggente: F. F. Podestà; redattori, Guido Guerrasio e Jusik Achrafian; legatoria, Liliana Pozzi; addetto, Aldo Martinoli; fattorino: un fattorino. A quest’ora avrai ricevuto il pacco di numeri di Moschetto che ti ho inviato. L’ho fatto apposta, ad aspettare: così te ne son giunti molti in una volta sola), in prima pagina scriverò di politica; la seconda la dedicheremo al problema razziale; la terza conterrà scritti di M. Vallini, G. Guerrasio, G. Viazzi e U. Casiraghi,536 forse; la quarta, collaborazione dei combattenti. Oh tu nobilissimo critico, che dobbiamo invitarti ufficialmente a collaborare al giornale che facciamo, che è feudo nostro? Lunedì Podestà andrà a Roma, proporrà alla segreteria dei Guf un numero unico di Libro e moschetto dedicato al cinema, a cura di G. Guerrasio e G. Viazzi. Intanto la redazione sta cercando affannosamente di procurarsi scritti di Ugo Casiraghi. Ci riusciremo, noi redattori?

Ottime le tue pagine su Dabit. E ottimo su Pattuglia ma perché mi fai il tradimento di citarmi? “Le incisioni spietate e laboriose”;537 e chi se ne accorge? Il giovanotto Bonfante mi copia, in Pattuglia; ma non mi urta. Se da Roma ci lasceranno fare il numero unico, faremo qualcosa di spettacoloso. Oggi ho visto i tuoi. La loro serenità, la loro forza interiore; oh quanto io amo i tuoi genitori così umani, così gentili, cordiali, lombardi, milanesi. Noi parliamo allora di te, la stanza si colora della tua presenza. Io vedo te in tuo padre, parlo di te con tuo madre. La tua gatta sdraiata sul termosifone acceso e tepido, fa le fusa. Io mi sovvengo d’una pagina di Cecchi sui gatti, letta iersera a Canzo, nella mia cameretta sbilenca (ma non sono, no, sfollato. Mi sembrerebbe molto morire, non poter fare quanto ho in mente di fare. Ho nella vita degl’impegni precisi, con gli altri e con me. Io sono a Milano a fare il mio dovere, a lavorare all’università, al giornale, a scrivere e la fin di settimana la trascorro a Canzo. Ecco tutto). Mi piace stare con i tuoi genitori. Non ti so esprimere questo a parole. Sono essi “nobili”? “Dignitosi”? “Umani”? “Intelligenti”? Sì, ma molto di più. Vogliamo intendere? “Sono in gamba”. Stasera vedrò Le cinque terre di Paolucci. Dev’essere molto, molto bello. Io credo in Paolucci più che in ogni altro cineasta nostro. Bandini mi spedirà la Storia del Lo Duca.538 Io attendo da Roma circa Vita dell’energia elettrica. Non so se Primato pubblicherà il mio “Bosch” (farebbe male a pubblicarlo, il pezzo è brutto); il Popolo d’Italia dovrebbe pubblicare un mio articolo sul costume americano e forse un mio racconto (il racconto, sennò, uscirà dalla nostra terza pagina; e non ti piacerà). Ho trovato a una bancarella Cité, nef de Paris di Suarès539 e il terzo volume del “Tristram Shandy”.540

Su Pattuglia, leggere “Estetismo e cinema” di Guido Guerrasio e Lorenzo Sterne. E ti cito due frasi da un libro che non riuscirei mai, forse, a leggere; o che se tu lo leggessi, con strazio e pena; o chissà. Il libro è Biografia a Ebe di Mario Luzi. “Tutto deve maturare da sé, secondo la stessa legge che l’impose e io non posso procedere senza dimenticarmi.” “Tu di là, io di qua, da un confuso mare avvenire singolarmente cerchiamo di riscoprire gli schemi lucenti della nostra vita immaginaria.” Ma tu, mio vecchio amico, credi ch’io possa ormai scriverti senza citarti il mio poeta? “Di te ha sgomento Il cuore secco e dolente Infanzia imposseduta.”541 Ti abbraccio, Jusik

Da Milano, 10 marzo 1943 – XXI Carissimo Ugo, non conosco Paesi tuoi, non lo voglio conoscere; la Histoire del Lo Duca è null’altro che un manualetto economico quale l’avrebbe potuto editare da noi un Sonzogno; rispetterò il tuo desiderio, non pubblicherò tue lettere (questa settimana però la nostra terza pagina contiene: un frammento di lettera di Casiraghi intorno alla lettera d’amore degli scrittori italiani;542 una nota di Del Buono intorno all’ultimo Lisi; recensioni di Marisa Vallini543 sulle poesie di Góngora e di Landi; una critica di Guerrasio su Le cinque terre e Giacomo l’idealista; una nota di Calibano sulla pittura astratta di Mario Radice); la retrospettiva non si fece più, essendo saltata la macchina di proiezione durante l’ultimo bombardamento; a Moschetto il lavoro consiste in: concepire il giornale, dare cioè indirizzo e corpo; esaminare gli articoli pervenuti e sollecitarne presso i collaboratori; scegliere il materiale da pubblicare; correggere le bozze; impaginare; mandare in macchina il giornale; sbrigare la corrispondenza; tenere d’occhio la stampa di tutta Italia. “Proprio ieri sera” è una bellissima lettera. Ma come diavolo non hai ancora ricevuto il pacco di giornali che ti abbiamo spedito? Il Popolo d’Italia di ieri ha pubblicato il mio articolo sul costume americano. Titolo su quattro colonne: “Corruzione e delinquenza”. Ora tutto ti è chiaro.

Il terzo racconto si intitola Rendiconto di un diario, è all’esame alla redazione de Il Popolo d’Italia, ma credo finirà coll’uscire su Moschetto.544 Per disilluderti, e farti capire che è brutto come gli altri due (domani arriva a Milano, in licenza dopo un anno intero di missioni, il sommergibilista Giuseppe, amico della Cicci: che ispirò “Conversazione con marinaio”) eccoti qualche frammento. L’inizio: “Un caso imprevisto, una coincidenza quasi del tutto fortuita (o forse tale da indicare invece il presentimento suggestivo d’un comune destino) ha voluto che mi fosse posto giorni or sono tra le mani uno smilzo libretto di appunti – di disadorna apparenza e semplice rilegatura –, che io ho subito sfogliato, spinto a far questo da una viva curiosità. Dato l’interesse che in genere mi avviene di portare alle cose dell’essere umano, e l’acuto bisogno che quasi sempre mi spinge a conoscere il più possibile a fondo tali complessi o semplici avvenimenti dello spirito e del corpo, ho gustato profondamente la lettura di quella pagina vergata da una sconosciuta grafia, a sola testimonianza di un uomo che forse oggi non è più. E non mi è parso di compiere profanazione o irriverenza alcuna…” Al centro, del diario riportato: “Se Macchiavelli indossava, in certe contingenze per lui dure e gravose, panni sontuosi solo per recarsi a mensa, noi ora ci siamo formulati da tempo la consuetudine di vestire i nostri abiti migliori la sera; quando nel lento trapasso svaporato delle luci ormai ci prende come un’ansia sottile e filtrata dall’incerta sorte che attende i nostri destini, e ci sovrincombe. E mentre crediamo di agire in simil maniera per salvaguardare, in caso di ultima necessità, gli indumenti più costosi e resistenti che possediamo, in verità io credo che avvertiamo l’urgenza di pararci a festa per un eventuale banchetto con la morte. A questa ipotesi, che a mente fredda non manco invero di ritenere grottesca, io dedico ormai, spinto da non so quale impulso, gran numero dei miei pensieri, e anche delle mie inquietudini…”

Dal finale: “‘S’io dovessi lasciare questa dimora terrena senza aver compreso le cause del mio atteggiamento di ieri, e scontato la mancanza d’animo dimostrata in tal frangente…’ Qui in questo punto esatto, ha termine il diario d’ignoto uomo ch’io possedevo, e che ora esiste solo nella trascrizione da me fattane; perché ho ritenuto agir bene, ad un determinato momento della mia vita, distruggendo quella testimonianza che ancora recava il sogno di una mano umana, per rimanere solo con la disincantata e dispersa voce di anima che ne proveniva”. Caro Ugo, come vedi: uno zibaldone in cui sfilano i nomi che ti ho già sgranato in una precedente: Piovene, Emanuelli, Guerrasio… L’“Invito alle immagini” contiene: “Invito alle immagini” di Aristarco: molto mediocre; “Per un ritorno al cinema” di Pasinetti, buono, “Rima per le immagini” di Walter Ronchi, mediocre; “Poesia e poeticità nelle immagini” di Viazzi; “Cinema cinematografico” di May, buono; “Immagini ossia cinema” di Giammatteo: orribile; “Confusioni” di Barbaro e Pietrangeli; “Cinema del tempo perduto” di Paolella, normale; “Guardando le immagini di Sabel”, discreto; “Estetismo e cinema” di Guerrasio, Sterne e Wilde, buono; “Il tappeto magico” di Puccini, mediocre; “Narrare per immagini” di Mid, buono; “Le caratteristiche della narrazione letteraria e cinematografica” di Jezek, ottimo; “Visività del cinema”, di Dulac; “Sulla sostanza del film” di Balàzsc; “Robert Flaherty, dal documentario alle immagini pure” di Campassi: discreto; “Lettera” di Gianni, inutile: “Cinema e teatro” di Campassi, discreto; “La scenografia” di Bonfante, mediocre; “Revisione del sonoro” di Bisi Mazzini, discreto; una nota di Frosini, buona; “Un pseudo dilemma: arte o industria” di Glinelli e Barendson, discreto; “Per un nuovo espressionismo” di Berutti, non buono; “Immorale N. 1” di Tonelli, buono; “Equivoci, ovvero l’arbitrio cinematografico” di Toschi, mediocre; “Film n. 8, da una poesia di Saugault”, sceneggiatura di Gobbi e Veronesi, buono; “Funzione della critica” di Casiraghi, ottimo; “La critica, domani” di

Pellegrini, mediocre; “Di fronte alla realtà” di Barendson, discreto. Caro Ugo, “Glauco Viazzi, milanese” più che mai. Io amo molto Milano e i milanesi. Conosci quella pagina della Vellini che dice: “La Lombardia è bella, molto bella…”? Credo che sì. Ebbene avrei voluto scriverla io. Di Milano io son affascinato, e credo che se io persistessi ad avere una regione dell’anima essa sarà sempre legata al paesaggio lombardo, e alla città di Milano. Gli altri luoghi da me visti sono ormai scoloriti in me, immagini d’una esperienza non definitiva e totale: la raffinatezza estrema di Venezia, molle e sontuosa; la barbarie aspra del Carso, il paesaggio istriano così primitivo, e Trieste, città nuova, giovane, bambina (rileggere Slataper); l’aria assorta dell’arcipelago dalmata, la dolcezza dei colli euganei; la felicità della Svizzera; il mistero di Parigi; l’incanto di Rouen normanna; la serenità tersa di Port-Royal; la bionda opulenza della Normandia; la freschezza dell’Île-deFrance; la severità armoniosa del Tirolo; l’Armenia “sognata”, “cullata” e “mai vista”: ma la terra dove meglio mi riconosco, dove affronto i miei umori più veri, è la Lombardia. Torino troppo aristocratica e “civile”; Genova troppo mediterranea e preafricana; ma Milano, Milano… Io ti prego molto di scrivere, se puoi, per il libro. Per le ragioni che mille volte ti ho esposto… 12 testi mi è necessario; è necessario alla mia coscienza. Se tu sapessi la mia gioia nel ricevere un testo da te; la nostra soddisfazione. Ti abbraccio, Jusik

P[osta] M[ilitare] 70, 11 marzo [1943 – XXI] Carissimo, termino ora il prodigioso saggio di Galvano della Volpe in Cinema, 160.545 Da esso traggo le seguenti conclusioni: 1) Uomini sul fondo dev’essere chiamato due volte “classico”; 2) l’avvenire dell’arte e della cultura del nostro secolo precisamente nel cinema – come affermato in “Funzione della critica”; 3) il cinema rappresenta la fusione del “tecnicismo” del secolo con la “poesia” dei tempi. Marzo ci dona in ritardo alcune giornate di pienissimo inverno. La bufera sballotta uomini e muli a St. Th., a MC. Scoperchia baracche e avvolge – vista dall’alto – la graziosa K[orça] d’un nùgolo di fiocchetti benauguranti. Può servire questa immagine di Flaubert: “Venere, livida dal freddo, batte i denti” (dalla Tentazione di Sant’Antonio). Lo “scherzo” con Podestà non è riuscito. Ugo

Da Milano, 24 marzo 1943 XXI Caro Ugo, io non ammetterò mai che un amico come tu sei nei miei riguardi possa ricevere la delusione di una prosa indegna e prostituita. Perciò, niente articolo su “Design in scarlet”. Il mio articolo sulla critica per Spettacolo non vale nulla, è stato scritto non perché sentivo l’argomento (oh i tempi in cui scrissi i saggi sulla scenografia, dopo aver a lungo inseguito fantasmi ed ispirazioni!) ma per fare un piacere ad Aristarco. Così, articoli ancora appariranno su Spettacolo, uno su “Golem”, uno su Pasinetti, uno su Giovannini, eccetera. Cose che io non conservo, non conserverò; e perché seccar te? Quando verrai a casa, se vorrai, leggerai tutto, se tutto esisterà ancora. O vuoi che t’invii Cine-illustrato con articoli miei? Che scherzi? O Prima linea, con articoli scritti per guadagnar cinquanta lire al mese di più? Ai nostri tempi aurei non eravamo usi a queste cose; ora invece sì. “Work in progress”, direbbe Joyce. Di Pattuglia già ti ho detto. Non condivido gli entusiasmi di Campassi. È un numero appena appena buono, se paragonato a quelli belli di Bianco e nero, di Cinema. La “misura della possibilità” di noi giovani l’abbiamo dimostrata di già, mi pare. Un posticino modesto nella bibliografia filmica italiana credo già lo abbiamo. Lo storico futuro che compulserà le nostre riviste d’oggi, non potrà trascurare i nostri articoli. Campassi parla invece come se noi si fosse al primo articolo. Dio mio, questo, dice, mentre stiamo facendo 12 testi! I tuoi genitori hanno di già Pattuglia.

Bandini parla di Ramouncho.546 Anche io ne parlai un tempo, in “Appunti e problemi”. Non sono quindi rimasto stupefatto. I tuoi genitori, secondo te, sono “le uniche persone” che non ti tradiranno mai. Grazie, mio caro amico! Perché credi esista la possibilità che io tradisca, forse? Che Marisa ti tradisca? Che Osvaldo ti tradisca? Come conosci poco i tuoi amici, amico mio; e l’affetto profondo e la stima enorme che hanno di te. Ripeto: “Rendiconto di un diario”, che forse tra breve distruggerò, è Buzzati, Emanuelli, Piovene, Guerrasio. Niente Viazzi. “Triste domenica” è canzone inglese, per cui va sotto il titolo di Gloomy Sunday. Tra due o tre giorni, Guido andrà a Roma per incarico del Cineguf, porterà in prestito al Centro L’albergo rosso di Epstein547 e riporterà a Milano, sempre in prestito, per il Cineguf, Giovanna d’Arco di Dreyer e Alleluiah di Vidor. A Roma, porterà a Chiarini il nostro “Clair e Papà La Tulipe”. *** “Tu di là, io di qua da un confuso mare avvenire singolarmente cerchiamo di riscoprire gli schemi lucenti della nostra vita immaginaria.” MARIO LUZI,

Biografia a Ebe ***

“Tutto deve maturare da sé, secondo la stessa legge che l’impose ed io non posso procedere senza dimenticarmi.” MARIO LUZI,

Biografia a Ebe ***

“…e dunque io devo subire per intero la sua

Legge, fino al compimento del respiro…” dal diario di JOSEPHUS ASIATICUS *** “Viene! Viene! Viene! Chi viene? Chi viene? Chi viene? Oscar Wilde! Oscar Wilde! Oscar Wilde! Il grande esteta! Il grande esteta! Il grande esteta!” Manifesto americano per una conferenza di Wilde negli Stati Uniti *** Dunque, caro Ugo: così. Mi sto accorgendo che un giorno, quando pubblicheremo, per ironia; o pubblicheremo, per stima, i nostri epistolari, ci si troverà una assai esatta storia degli umori, e delle tendenze spirituali degli individui della nostra epoca. Aveva ragione Alvaro: l’uomo è forte. In chi oggi non sbanda, in chi rimane fedele a se stesso, ai suoi convincimenti più profondi e preziosi, ai suoi impegni più maturi, è proprio da riconoscere vera tempra e dignità umana. E la storia dello spirito si identifica con la stagione d’anima; e noi portiamo il retaggio dei tempi trascorsi, esperienze d’ogni minuto e d’ogni giorno, in una acuta volontà di futuro. Ogni nostra azione è in questa luce: noi non abbiamo più la libera grazia dei fanciulli, degli animali. Se mai l’abbiamo posseduta. Con affetto, Jusik

Da Milano, aprile [1943 – XXI] Caro Ugo, da alcuni giorni abito in via Pascoli 55. Se Dio vorrà, ci starò a lungo; almeno fino alla fine della guerra. Sono al quinto piano: la mia finestra apre su un vasto panorama. C’è molto cielo, quassù. *** Questo Del Buono548 è un ragazzetto sui vent’anni. Do a 10 contro 1 che riuscirà; specie come narratore. *** Ripeto: Bergson spiega tutto Chaplin; e poco Clair. Guido mi ha raccontato 14 luglio (a Roma, al Centro: “ed ora, ragazzi, proietteremo per il camerata Guerrasio, 14 luglio” – così Chiarini. Poi, lezione di storia. Pasinetti a un allievo: domanda, allievo confuso: tace. Guido sottovoce: suggerisce. Pasinetti: “Guido, non suggerire”. Ma guarda un po’ che roba! Chi l’avrebbe mai detto!): è il film più umano di Clair. Secondo Guido, il capolavoro. *** Tu devi venire in Italia, evitarmi un mese di ansie. Non m’avvertire per nulla, non parlarne, non dir niente. Quando sei a Milano, telefonami. Oppure vieni a casa mia, via Pascoli 55 (tu sarai ospite mio per dieci giorni): se ci sono, va bene. Se no, ti sdrai su un divano; preghi mia madre di offrirti il thè, e aspetti ch’io torni.

Ti sarò grato di tutto questo, vecchio mio. Jusik […] Giovanna d’Arco mi ha tolto il fiato per un po’ di settimane. A Parma il film è stato proiettato ad un ristretto gruppo di intellettuali. Alla fine si constatò che gli intellettuali piangevano. Jusik

Milano, 8 aprile [1943 – XXI] Caro Ugo, il numero di nov[embre] dic[embre] di Bianco e nero contiene “Il traditore”. Quello di genn[aio], “Intorno ad una prova di Christiansen”. Ho visto Quai des brumes. Più che mai sono anti-Muss. Jusik

Milano, 21 aprile [1943 – ] XXI Caro Ugo, no, non sono affatto d’accordo sui “due testi rari sovietici”. Innanzitutto, 12 testi uscirà per i tipi di Bianco e nero, quindi tutti i singoli saggi verranno pubblicati da Bianco e nero. Quindi niente Aristarco, niente tappe. Il materiale per il libro resta per il libro, cioè per B. e n. Se non hai la possibilità materiale di lavorare, questa non è una buona ragione per prostituire le nostre firme. Lascia che te lo dica, i “due testi rari sovietici” è una vera boiata. Mandami pure al diavolo, ma devo dirtelo. E poi, io ho visto tre sequenze di Tutto il mondo ride. Innanzitutto, non sono affatto convinto che il titolo originale fosse L’allegro pastore: ho trovato anche Mania del Jazz.549 Poi, ho molto, moltissimo da dire sulle tre sequenze che ho visto e rivisto al Cineguf, e delle quali Anna Gobbi mi darà molti fotogrammi inediti (dopo Note di cinema550, probabilmente il Cineguf pubblicherà un libriccino dal titolo Tre pezzi di montaggio, sceneggiatura, con molte foto): una sequenza dell’Albergo rosso di Epstein (mi son fatto raccontare Caduta della casa Usher: pazzesco!), una di Tutto il mondo ride, una di Tragedia della miniera. Mai e poi mai io ammetterò si metta la mia firma sotto articoli in cui è usata la parola “coglione”, o “molto ‘gas’”, “molto ‘buffo’”. Mi dispiace.

Dunque, carissimo, l’articolo che mi hai mandato, ad Aristarco non lo spedisco: per il bene tuo e per quello mio. E convinciti, non si può parlar di cinema senza i testi sottomano: non si può fare critica. Se lavoriamo senza i testi assolutamente chiari in testa, faremo sempre delle divagazioni di memoria, della moda intellettuale. Ecco perché possiamo parlare di Pabst, Carné (Quai des brumes allarga enormemente il discorso), Duvivier, eccetera. Ma per Aleksandrov, lascia che te lo dica, che ho visto più volte le tre sequenze finali, si deve dire cinema, e formidabile per ritmo visivo e sonoro, e per fantasia (Ti sei mai accorto quanto di Clair ci sia in Aleksandrov? Del Clair di Entr’acte? Del resto su Entr’acte abbiamo ora molto materiale. Guido ha una copia del film, e ne sta traendo la sceneggiatura).551 Se invece vuoi proprio mandare quella roba ad Aristarco, dimmelo: eseguirò. Ma ciò vorrà dire non far più 12 testi. *** Oggi ho rivisto Giovanna d’Arco. La sera del 20, Guido Guerrasio, Carlo Alberti, Domenico Porzio, Glauco Viazzi andarono in via Franchetti 2: da lì Viazzi in segno d’umiltà portò a spalle la valigia contenente il film di Dreyer. Il film venne proiettato in casa Monzeglio, dinnanzi a pochi intimi. Oggi l’ho rivisto; e così farò domani, e poi avanti ancora: fino a che Guido non riporta il film a Pasinetti. E lo studiamo, ne traiamo fotografie: lo sbucciamo in lungo e in largo. Giovanna d’Arco è Giovanna d’Arco. Piccola notizia: Luigi Veronesi, che ha visto Le maître du logis cioè Il padrone di casa552, dice che è un film all’altezza del Vampiro. *** Scusami se sono stato sgarbato, ma sono piuttosto “nero” e faccio una fatica enorme a scrivere. Ti abbraccio

Jusik P.S.

Ma lo sai o non lo sai che i 12 testi non ci dev’essere un briciolo solo di polemica?

Milano, [28] aprile 1943[– XXI] Caro Ugo, sono molto dolente di doverti comunicare il decesso, avvenuto oggi sul pomeriggio, del nostro comune e caro amico Glauco Viazzi. Sebbene in questi ultimi tempi il poveretto conducesse vita molto ritirata, la sua dipartita non mancherà di rattristare i pochi amici che ancora gli rimanevano. Non ci rimane dunque, caro Ugo, che deplorare il destino che ci ha tolto un amico, la cui memoria rimarrà però sempre in noi. Tuo Jusik P.S.

Prima di passare a miglior vita, il nostro povero amico mi fece una confidenza preziosa: disse di aver sentito dire del pittore Veronesi che quest’ultimo aveva visto un film di Dreyer girato dopo il Vampyr. Veronesi vide il film in una saletta privata a Parigi, assieme a Benoît-Lévy553; il film era parlato in danese, con didascalie in olandese. Jaar 1935 (dalla proiezione). Veronesi disse aver capito solo che si trattava di un film di spettri e fantasmi, tratto da una leggenda. Jusik

Milano, 14 maggio 1943 [– XXI] Carissimo Ugo, ti sarei molto grato qualora tu volessi spedirmi, col mezzo più acconcio, le tue lettere dedicate a Pabst, Carné, Duvivier. Se ti è possibile, ricopiale: cioè, beninteso, ricopia brani che ci interessano, e se casomai riesci ad aggiungere qualcosa, tanto di guadagnato per noi. Ho studiato attentamente Carnet di ballo e forse coi soldi del Traditore (li han mandati tutti a me, perché non sanno il tuo indirizzo) comprerò la copia (oppure quella di Ho ucciso!. Cosa mi dici di fare?), ho studiato Carné, dopo Quai des brumes: vorrei fare questi tre testi, prima che mi sfuggano le idee. Ieri abbiamo proiettato, sempre privatamente, Giovanna d’Arco. C’era il poeta Gadda [trascrizione dubbia – N.d.r.] con consorte (che bella figa, avrebbe detto l’elegante mio amico Ugo Casiraghi, se fosse stato presente), e c’era Comencini. Molto affettuosamente, Jusik

11 giugno [1943] Caro Ugo, ho raccolto notizie ed informazioni dalla Storia del Vincent, per 12 testi. Ho appena ora terminato una brevissima nota sul cinema francese per Posizione: una rivendicazione del cinema intimista-naturalista di Delluc, Epstein, Poirier, Baroncelli, Boudrioz, altro che avanguardia! E noi che credevamo Baroncelli554 un mestierante e Poirier autore solo di Verdun!555 A Bonfante per Posizione ho promesso articoli e collaborazioni. Mi faresti un vero piacere se scrivessi per lui qualcosa: magari appunti, fogli di diario, noticine. Nel venire a Milano, dovresti farmi un piacere. Passare per Torviscosa (è vicino a Cervignano). A Torviscosa chiedi dell’Ingegner Babighian, che è mio zio, non so se ci sarà, ma indubbiamente ci sarà mia nonna che conosci. Valla a salutare: così mi porteresti notizie perché dalla mia vecchietta, che da molto non vedo. Tutto ciò, naturalmente, se ne avrai voglia. No, il film di Paolucci non sarà San Lazzaro. Viceversa, ti ho detto si tratterà di un’opera più importante ancora di Uomini sul fondo! Ma non lo posso dire per iscritto, ti dirò a voce (sarebbe troppo lunga, ed ora [di] scrivere son stanco). Ti dico soltanto che Paolucci ha già firmato il contratto, e io ho

l’incarico di scrivere il soggetto, con Guido e con qualche altro collaboratore [che] voglio. Siccome la cosa è formidabile, presumo tralascerai un poco le falene per aiutarmi. Ti dico che non credo e non voglio credere a tue uscite memorabili, traviamenti, e cose del genere, che sciocchezze! Ti conosco bene. Quel che conosco di te morirà appena quando morirai fisicamente tu. Vecchio mio, io ti scrivo poco perché ho molto da lavorare, non avertene a male. Ho riletto “Pabst uno e due”: penso che dopo il Vincent e il Bardèche-Brasillach, il testo Pabst è da scrivere, in quattro o cinque ore di fila, senza togliere una virgola. Ho in lettura la sceneggiatura che Prévert scrisse per Quai des brumes di Carné. Inseriremo pezzi nel testo Carné. Metà di quel che Carné possiede, è merito di Prévert. Sapevi che oltre a L’affaire est dans le sac i Prévert avevano girato, sempre con la medesima truppa (Brunius e gli altri), un altro film, Ciboulette?556 Pare si trattasse di una cosa pazzesca. Come formidabile capolavoro mi hanno testimoniato fosse L’Atalante di Jean Vigo (L’Atalante, ou Le chaland qui passe). Stammi bene, vecchio porco, e in gamba. Spicciati a far passare questi maledetti giorni che ci separano. Ti abbraccio Jusik

Milano, [15] giugno [19]43 – XXI Carissimo, vorrei scriverti molto a lungo, ma stasera sono molto stanco, ho dovuto tradurre un pezzo del Moussinac per il giovinetto Bonfante (avrà vent’anni, Bonfante) per Posizione. Quindi sono stanco, ma non tanto da dover rinunciare a dirti che sono contentissimo che tu sia già in Patria, e specialmente in luoghi che conosco assai bene (non sarebbe improbabile io avessi alloggiato, nella mia infanzia triestina, anche all’albergo Warner; non so, può darsi: certo è che ho frequentato parecchio la spiaggia di Grado). Penso che questo soggiorno convincerà a toglierti di dosso certi elementi, ad approfondirne altri, a crearne di nuovi. Ma di tutto ciò non è d’uopo io parli qui, in questo breve spazio; del resto ne tratteremo a voce, e molto ampiamente. La lietezza dei tuoi genitori, non ti dico. E la mia, non ti dico. La Cicci abita sempre a Canzo, via Orlandi 3, che diamine. L’altro giorno appunto diceva dovremmo io e te, andare a Canzo per qualche giorno. Io infatti in quell’orribile luogo ho un’orribile camera nella quale alloggeremo. Poi a Canzo ci sono tutti i libri, e tra essi il Bardèche e Brasillach, che credo tu leggerai. Dico credo, perché ti potrò dire qualcosa di te solo dopo averti posto d’innanzi ad uno scaffale colmo di libri: se annuserai, e ti curverai in avanti per leggere i titoli sulle coste, sei sempre l’Ugo e sei salvo; sennò, tutto da rifare. Bada, ragazzo, non mi imbrogliare!

Qui da vedere c’è Quai des brumes. E, naturalmente, La passion de Jeanne d’Arc. E poi L’orlando curioso di Totò. Poi c’è anche un tipo chiamato Jusik, che non vede l’ora di riabbracciarti, e sta su fino alle due del mattino a chiaccherare. Domani passerà, o dopodomani, da Milano, Paolucci. Pare che la possibilità di realizzare il film crescano. Spero proprio tu possa conoscere di persona l’autore di “Attori ombre e persone”. Ho altre cose belle da farti vedere: i film astratti… [Continua in Cartolina del 18 giugno 1943, Ugo Casiraghi, Albergo Warner Grado (Trieste)] …a colori di Luigi Veronesi, pittore costruttivista e seguace della “Bauhaus”. Insomma, mi par d’essere un ciambellano di un reale che predispone l’occorrente per l’arrivo del sovrano: programmi, visite. Il giorno tale: viaggio a Canzo. Il tal altro: visita alla redazione di Libro e moschetto; il tal altro, a locali caratteristici della metropoli. E via dicendo. Vecchio mio goditi Grado, e il sole e il mare di Grado. Se ce la fai anche a godere le ragazze di Grado, fallo con slancio: per quel ch’io ricordi, erano femmine buone assai, e vogliose. Ti scriverò domani, tutto di seguito. Intanto ti abbraccio in incondizionata maniera, tuo Jusik [Continua dalla cartolina dello stesso giorno, su carta da lettere:]

[15 giugno 1943 – XXI] P.S.

Caro Ugo, proprio quando questa mia era di partenza, mi è giunto il tuo scritto del 9 corr., abbondantemente esaminato. Io credo fermamente che hai a sufficienza dello spirito moderno per godere della vita che fai e assorbire impressioni e sensazioni di caldo assorbimento d’esistenza. Certo molte cose ti perverranno da esse e possibilità di espressioni nuove e varie e buffe e tragiche ed indispettite saporose esperienze che certo non sarebbero, in altra maniera, penetrate nel tuo ermetico covo di lavoro di via Broggi 23. Non accusarmi di tendenziosità letteraria: so già con quale processo queste avventure ti filtreranno attraverso, per poi un giorno decantare nella memoria e convertirsi in concrescimento conoscitivo e mutare in arte, in prosa (ogni tua riga del resto è già in un piano di raggiunta letteratura: debbo citare? Ebbene ecco: “sulla palma della mano – antico porto dove poter mettere il pasto; a meno di non prenderlo al volo, con la bocca aperta: gettato di lontano”, in virtù di questo formidabile senso ritmico che ti proviene dall’uso della punteggiatura, uno che farebbe impazzire di dolore un Marinetti, ma a un ex futurista si confà gradevolmente al palato). Che tu sia su un piano d’arte mi par evidente dal fatto che nella scrittura le preoccupazioni meramente letterarie siano lontane: frutto genuino. Una cosa però mi permetterai di disapprovarti: la frase “mi vado ogni giorno più tragicamente convincendo di valere assai meno, io stesso, di quanto la mia superbia aveva un po’ stupidamente patteggiato”. Questa è una fiera balla, che in te non ammetto nemmeno dinnanzi alla prova più dura. Quel “tragicamente” è ridicolo, quella “superbia” è inventata, quel “stupidamente” è strano. Tu, Ugo Casiraghi, uomo ch’io ben

sai conosco, superbo e stupido? Sì, stupido solo quando scrivi frasi di questo genere che ti suonano offese e m’addolorano. Dopo tanta vita intellettuale, spirituale e cerebrale, un’esistenza apparentemente ridotta ai suoi limiti di pura fisicità non potrebbe portarti che apporti di netto equilibrio. Questo io credo, in te. Va bene, chiuso così l’argomento? Qui novità rade rade: l’ultimo Cinema magrolino e scarso (Pasinetti “gira” a Venezia, manca la Galleria e il Parlatoio),557 i film roba tampone. Vedi di recuperare da Leone le foto del Vampyr, magari a pagamento, con ogni mezzo. Io ho un esame domani, e altri quasi a breve scadenza, Inshallah! dicono gli arabi. Quando mi avrai detto le mie lettere ti pervengono con regolarità, continuerò a rifilarti note sul nostro libro, va bene? Carissimo stammi in gamba, i miei ti salutano e Marisa pure, io ti abbraccio piuttosto calorosamente Jusik

Venerdì, giugno [19]43 – XXI Caro Ugo, comincio ad avere paura. Maria Rosa? Sonja? Lucia? Spero che arrivato a Milano non cadrai riverso sulla tua scrivania, dopo un ultimo “chicchiricchi” mentre par di udire ancora “polizei, polizei”. Penso sarà bene tu non veda Marisa, sennò sedurrai lei pure, da libertino quale sei diventato. Ti ripeto: ho paura. Ugo e una donna in ogni porto. Altro che il fratello di Simili! Caro Ugo, è inutile, sei negato per la letteratura, per il romanzo. Bilenchi non è viandante, Pratolini non ha nulla da fare con Luzi, Luzi e Pratolini non hanno nulla da fare con Proust, Wilder e Morley hanno molto poco da fare con l’arte. Oggi era [a] Milano Paolucci: farà il film: ma non sul tema precedente: su nuovo tema. Un film formidabile, il più bello del cinema italiano. Paolucci mi ha raccontato il seguente film: al mattino, al di sopra di banchi di nubi, sorge il sole. Salgono palloni frenati, forano le nubi, si sospendono in cielo. Il sole si alza. In basso la città, assolutamente deserta. Alle porte, arriva una macchina. Controllo. L’auto passa, per una via, un drappello di soldati impeccabili. Il sole nascente fa brillare i loro elmetti. Una scena. In un aeroporto, un grande pianista sta suonando, all’aperto. Tutt’attorno, piloti seduti per terra. Un aereo passa sull’esecutore, e il rombo copre la musica. Poi l’aereo s’allontana, si ode ancora la musica. Il pilota è allenato, fa sottovoce rapporto al suo comandante, poi va a sedersi vicino ai suoi camerati per sentire il concerto.

Altra scena. Dei soldati riconquistano un villaggio. Vi trovano un bimbo abbandonato. Gli danno da mangiare e gli insegnano a sorridere. Indovinello per Ugo. Che film mai è? Quasimodo può non piacerti: io scrivo, dalla sua ultima poesia: “…e qui l’ora si quieta al verde dei giovani, e la pietà lontana è quasi gioia”.558 Io non ho né verde, né monti, né pietà, né gioia. Vorrei fare un film sul sadismo. Oppure, in collaborazione con Ugo Casiraghi, un film ciclico come Intolerance o La stregoneria attraverso i secoli: Il sesso attraverso i secoli. Dissolvenza sul seno di Messalina, a Babilonia, Sodoma e Gomorra. Le ingenue domande del Viazzi: Ugo, cosa fai? Ti abbraccio, Glauco

Milano, 25 giugno 1943 [– XXI] Carissimo, perdio, stasera le emozioni sono troppo forti. Oggi ho scritto proprio un articoletto precostituito per Cine-illustrato e tu mi parli di simili cose; ho raccolto materiale per Pabst (noi ignoriamo molto del cinema tedesco! Conosci i film di Phil Jutzi? Conosci Kuhle Wampe di Dudow?)559 e mi pare di averti già scritto sul testo di Pabst, lo scriverei subito; torno a casa portando meco il libro di Nando Giolli Le note,560 poesie dadaiste e prose surrealiste che a te non piacerebbero ma a me piacciono; trovo che Giovanna Moro mi ha ricopiato tutta “I confini e la poesia” (diciannove cartelle!); mi dicono le tue cartoline di Ugo, Ugo amico di Glauco. No, purtroppo quel film non è quello che faremo con Paolucci. Quello è un film russo, che si intitola Un giorno di guerra, ed è recentissimo. Noi, io, tu e Guido, faremo qualcosa di simile, e di più bello. Guido molto probabilmente dirigerà per l’editore Guanda una collana di libri sul cinema. Primo volume, la sceneggiatura di Entr’acte, molte foto, testo di Guido. Il resto verrà. Dunque qui io mi sono messo quasi d’accordo col Cineguf. Tu vedrai Crisi, Milione, Il traditore, Quarant’anni di cinema, Entr’acte, Ballet mécanique, Étoile de mer. Oltre alla Giovanna, che vedrai tutte le volte che vorrai. Nei cinema normali ti permetterò solo la visione di Quai des brumes, Bête humaine, Le cinque lune e La falena.

Vorrei scriverti, ma non posso: se mi ci metto, arrivo alle quattro del mattino. Roba da fare non appena verrai a Milano. A Milano io verrò a prenderti alla stazione. Poi ti accompagnerò a casa. Ma all’angolo dell’isolato, me ne andrò. Il tuo arrivo a casa appartiene ai tuoi, a tua mamma, che Dio la benedica sempre santa donna che è, a tuo padre che è uno dei più degni galantuomini ch’io conosca. Poi, daremo la stura. Ora spoglierò la mia corrispondenza (un pacco enorme) e metterò da parte quanto riguarda i 12 testi. Se Chiarini non lo pubblicherà subito il libro, lo pubblico io a spese mie. Magari in edizioni numerate, di ducentonovantacinque copie. (La Licei fa un libro del genere: traduzione di poesie di Apollinaire. Con disegni di Matisse.) Poi mi rileggerò il Vincent. C’è molta roba da imparare. John Ford si chiama Jean O’Fienne [sic].561 Di lui non conosciamo Plough and the Stars, cioè Rivolta a Dublino (il secondo titolo dice tutto, vero?). Ora ti abbiamo, e ti dico: a domani. Domani, se vuoi, ti scriverò di Dreigroschenoper562 e di Jutzi e di Dudow. Dimenticavo: a Milano vedrai anche i film astratti di Veronesi (lo porrei accanto a Eggeling, Duchamp, Fischinger, eccetera). Ti abbraccio forte forte, tuo Jusik P.S.

Ricordi la critica di Quai des brumes di Bianco e nero? L’aveva scritta Paolucci.563 Nota bene: “I confini e la poesia” è il mio saggio migliore!

A Jusik Achrafian via Ampère 46 Milano

Caro Jusik, ricevo una lettera di Calvi. Egli dice che il pezzo su Marinese564 uscirà in uno dei prossimi numeri, “magari un pochino accorciato!” Ti prego, fattèlo dare da Calvi e, se c’è da tagliare, mettici la mano tu. In questi giorni ho mandato a Calvi un pezzo su Il re si diverte565 e uno sul libro di Scotese.566 Ma lui si lamenta che recensioni di libri non le vuole di frequente… Ed io ne sto per mandare ancora un’altra, su Il volto del Cinema. Che se ne farà? Leggile, e informami. È il caso di unirle tutt’e tre assieme? (Marinese, Scotese, Volto del Cinema.) Ma, soprattutto, il giornale vorrei. Dalla lettera di Calvi parrebbe ch’egli me l’abbia sempre mandato, ma io è più d’un mese e mezzo che non leggo più nulla di tuo… L’hai fatto presente in Redazione? O che altro consigli? Se è il caso m’abbono, perdio! Mia mamma mi scrive continuamente: c’era un pezzo di Marisa, c’era un pezzo di Viazzi; ed io resto sempre a bocca asciutta. Mi ha scritto Guerrasio: sta un po’ meglio. Altro da te non ho ricevuto dopo la prima volta della risposta.

B. e n. col cavolo ch’esce fra una settimana. È già passata. Sono piuttosto sbadati il direttore e i redattori di quella rivista Affettuosamente tuo Ugo

“Tre cose perdurano soltanto: la fede, la speranza e la carità, e la carità è la maggiore.” SAN PAOLO,

Lettera ai Corinzi

“Signore, abbi pietà di noi perché non sappiamo neppure chi siamo.” S. TERESA D’AVILA

Caro Ugo, strano che tu non riceva posta: io ti ho scritto, non molto è vero, ma l’ho fatto. Che diavolo di notizie fresche vuoi che ti dia? Parafrasando un celebre motivo di Prospettive ti direi “Cadaveri squisiti” (celebre frase surrealista: “il cadavere squisito berrà il vino nuovo”). Non ho fatto un esame, non uno. Non ho laurea a giugno, Dio solo sa se ce la farò a ottobre. Sragiono, e non combino più nulla di buono. Oggi telefono a Roma, a Cinema: Purificato mi dice: “Sai, oggi uno aveva tirato fuori ‘Presentazione postuma’, diceva: pubblichiamo questo. Ma io mi sono opposto, credendo di avere letto l’articolo in qualche altro posto”. Questo ti dice come Cinema faccia Cinema. Metodi simpatici, senza dubbio; ma poco lombardi. (Vedrai invece la redazione di Moschetto, tappezzata di terze pagine. Dietro alla

scrivania di Guido, un armadio teca [con] incollate fotografie del Vampyr.) Cosa faccio? Ti aspetto. Ti aspetto, perdio, per vedere come sei, chi sei. A volte ho l’orribile sospetto che tu sia un altro, da tre quattro mesi a questa parte. Lavoro ce ne sarebbe. Cinema vuole articoli, Spettacolo, Posizione, eccetera, vogliono articoli. Dovrei fare lo scenario del Soldato Smatek567 per Pasinetti (forse, Lux Film); e da Paolucci ho ricevuto l’incarico più sbalorditivo: quello di scrivere il soggetto per quello che sarà il più bel film italiano di tutti i tempi, un classico più classico di Uomini sul fondo, se tutto ci va bene. Tu ci aiuterai, naturalmente. Faremo cose meravigliose. Non leggo nulla: eccettuato per Rivière di Carlo Bo,568 e la Storia della lett. inglese di Praz dove ho appreso che c’è un John Ford drammaturgo dell’epoca elisabettiana le cui opere, un poco moraliste possono stare alla pari con le tragedie greche e che il primo movimento socialista cristiano venne denominato dal suo fondatore “cristianesimo muscolare”, cioè “Muscular Christianity”. Queste due osservazioni mi paiono senz’altro interessanti. La Cicci ieri mi disse vivere a Grado un vicino suo di casa, Padre Amodio, cappellano militare reduce della Russia. Cercalo e salutalo anche da parte mia: è un assai simpatico individuo. T’invidio il sole che prendi, il mare che godi. Oh il mare, poter nuotare, libero! Non c’è libertà che nel mare, che dentro il mare! E ora sono vecchio e stanco, Ugo carissimo. Chi mi dirà come e perché io vada avanti? Puro istinto di conservazione, io temo. Le nostre belle battaglie! Le ricominceremo, riprenderemo! E stavolta direttamente interessati.

le

Non credere di cavartela! Se hai lo spirito malato, conosco la medicina che ti guarirà! Vecchio mio, sto contando i giorni che ci separano dal tuo arrivo. Tu a quanto pare non sei interessato. Pazienza. Non sarà certo il nostro affetto che ti mancherà, per questo, specie quello di Jusik

Domenica sera [senza data] Caro Ugo, condizione essenziale per scrivere un libro in collaborazione è che chi scrive sia in perfetta armonia, che vi sia perfetta armonia di vedute e di giudizi sulla materia. Di questo sarai convinto quanto me. Se quindi ritieni di poter portare su un medesimo piano i nostri opposti pareri su Carné, vieni a trovarmi domani all’Università (sai dove). C’è un’altra via. Io potrei abdicare le mie opinioni; ma sarebbe questo un atto di affetto verso di te e verso la nostra amicizia. Ma nei riguardi del cinema, non sarebbe forse disonesto io firmassi uno scritto che non condivido? Scegli tu. Ti abbraccio Jusik

80 Ugo Casiraghi, Glauco Viazzi, Motivi di rinascita, in “Cinema”, VI, 117, 10 maggio 1941, pp. 300-302. 81 Pubblicazione quindicinale degli universitari fascisti del Piemonte. 82 Vampyr – Der Traum des Allan Grey (1932), diretto da Carl Theodor Dreyer. 83 Der Postmeister (1940) diretto da Gustav Ucicky, distribuito in Italia come Il postiglione della steppa; Fiamme in Oriente (Les pirates du rail, 1937) diretto da Christian-Jaque. 84 Весёлые ребята (1937), diretto da Grigorij Aleksandrov; La Kermesse héroïque (1935), diretto da Jacques Feyder. 85 Titolo alternativo dell’edizione italiana. 86 Ohm Kruger l’eroe dei Boeri (Ohm Krüger, 1941) diretto da Hans Steinhoff. Recensito da Viazzi per “Il Popolo di Lombardia”, il 7 giugno 1941 con il titolo Il film del martirio boemo. 87 Poi pubblicato come Motivi cinematografici nella vita militare, in “Il Popolo di Lombardia”, 21 giugno 1941. 88 L’orizzonte dipinto (1941) diretto da Guido Salvini; La volpe insanguinata (Der Fuchs von Glenarvon, 1941) diretto da Maximilian W. Kimmich, recensiti su “Il Popolo di Lombardia”, rispettivamente il 22 marzo e il 12 aprile 1941. 89 Fredlos (1935) diretto da George Schnéevoigt. 90 Amants et Voleurs (1935). La recensione verrà pubblicata in “Il Popolo di Lombardia” il 12 luglio del 1941 con il titolo Amanti e l’attore Blanchar. 91 Alberto Consiglio, Cinematografo Russo. Oltre la Muraglia, in “Film”, IV, 27, 5 luglio 1941, p. 3. Commentando i nuovi orizzonti della cinematografia sovietica oltre gli aspetti propagandistici, Consiglio scrive: “Cosa ne abbiamo visto? Un certo numero di fotogrammi impressionanti. Qualche opera teorica. Un solo film proiettato in Italia, il grottesco di Aleksandrov. Il Gulliver proiettato a Venezia e poche altre cose”. 92 È probabile che si tratti piuttosto dell’articolo di G. V. Marini, La questione del materiale plastico, in “Cinema”, V, 105, 10 novembre 1940, p. 339. 93 Nozione tratta probabilmente dell’elaborazione sulle teorie di Pudovkin da parte di Umberto Barbaro in Film, soggetto e sceneggiatura, Roma, Edizioni Bianco e nero, 1939, p. 27: “Il soggetto ha due requisiti: tema e chiarezza. La necessità di un chiaro e definito contenuto di idee; la necessità di chiari ed evidenti nessi, di

subordinazione degli episodi secondari alla storia principale, la necessità di una unità compositiva. L’idea e, in genere, tutti i sentimenti e concetti astratti, dato che il film è muto, necessitano dell’invenimento di un materiale plastico, cioè di oggetti, ma anche di azioni, che traducono in modo chiaro il loro significato”. 94 Poetica ambientale o della scenografia in “Bianco e nero”, 3, marzo 1941, pp. 16-23. È probabile che le considerazioni cui si accenna in queste righe siano andate a formare il secondo contributo di Viazzi in materia di scenografia (e illuminazione) intitolato Appunti e problemi per un sistema analitico-classificativo, in “Bianco e nero”, 8, agosto 1941, pp. 36-63. 95 E le stelle stanno a guardare (The Stars Look Down) è un romanzo di Archibald Joseph Cronin del 1935. 96 Romanzi di Vittorio Giovanni Rossi pubblicati per l’editore Bompiani, rispettivamente nel 1938 e nel 1940. 97 Si fa riferimento a La morte del giovane Barra (La Mort du jeune Bara, o Joseph Bara o La mort de Bara), una pittura a olio incompiuta di Jacques-Louis David iniziata nel 1794. 98 Romanzo di Christopher Morley del 1935, tradotto in italiano da Mondadori nel 1940 e tra i riferimenti letterari ricorrenti di Viazzi e Casiraghi. 99 Le Million (1931) diretto da René Clair. 100 Il titolo italiano di Peterburgskaja noc ˇ (1933) diretto da Grigorij L’vovic ˇ Rošal’ e Vera Stroeva, distribuito nelle sale nel 1937 nell’edizione curata da Corrado Alvaro. A questa pellicola Casiraghi avrebbe dedicato il suo secondo articolo per la rivista del CSC: Notti bianche a S. Pietroburgo, in “Bianco e nero”, 11, novembre 1941, pp. 47-65. 101 Sul film, codiretto da Giorgio Bianchi e dall’ufficiale Roberto De Robertis per conto del Centro Cinematografico della Marina, Casiraghi si è già espresso qualche mese prima su “Il Popolo di Lombardia” l’8 marzo 1941 (Un film “nostro”: Uomini sul fondo) contemporaneamente all’amico, che ne aveva scritto nelle critiche cinematografiche su “Libro e moschetto”, firmandosi Jusik Achrafian (n. 29, 8 marzo 1941). Qui i due imbastiscono un’analisi a quattro mani destinata a venire pubblicata quasi un anno più tardi come: Presentazione postuma di un classico, in “Bianco e nero”, 4, aprile 1942, pp. 32-49. 102 Giuseppe Marotta curava una rubrica fissa sulla rivista Film. 103 Probabilmente Contatti con il cinema sovietico, in “Cinema”, VI, 123, 10 agosto 1941, pp. 84-85. 104 Il giglio insanguinato (1934) diretto da Julien Duvivier. 105 Il riferimento è a una polemica svoltasi sulle pagine de “Il Popolo di Lombardia” con il titolare della rubrica “Primo Piano”, cui Casiraghi aveva rimproverato alcune posizioni “scettiche” sull’arte cinematografica, tacciandolo di “mancanza di competenza”. Concomitantemente alla sua invettiva (A proposito di un Primo Piano, “Il Popolo di Lombardia”, 9 agosto 1941), era stata pubblicata anche la ribattuta di Pistoni. La scelta di non replicare ulteriormente può essere dovuta, almeno in parte, a un ammonimento ricevuto via cartolina dalla redazione della rivista “Vi prego inoltre di riprendere la discussione in un tono meno

polemico, dato che si tratta di due collaboratori dello stesso giornale” (cartolina postale dattiloscritta, 1 agosto 1941, Busta 94, Fondo Casiraghi-Verzegnassi). 106 Pseudonimo di Dino Segre, giornalista e scrittore torinese fondatore della rivista Grandi Firme. 107 Giorgio Fenin, Invenzione del montaggio, in “Cinema”, VI, 123, 10 agosto 1941, pp. 81-83. 108 Contatti con il cinema sovietico, op. cit. 109 Si tratta de La straniera (L’esclave blanche, 1939) diretto da Pabst e Marc Sorkin, a cui il numero di Cinema in questione dedica la consueta doppia pagina illustrata di anticipazione in “Fiera delle novità” (pp. 96-97). Le stesse osservazioni sul cast e sulle anticipazioni fotografiche sarebbero state riprese ne In attesa dell’ultimo Pabst, ne “Il Popolo di Lombardia”, 30 agosto 1941. 110 Conservata tra la corrispondenza professionale del Fondo CasiraghiVerzegnassi (Busta 94), la cartolina invitava a rivolgersi al suo sostituto, il redattore Domenico Purificato, “per il ‘Vampiro’”, alludendo alla recensione retrospettiva del film di Dreyer, poi pubblicata nella rubrica Vecchi film in museo in “Cinema”, VII, 148, 25 agosto 1942, pp. 458-460. 111 Da questo romanzo, del 1929, è stato tratto il film Westfront (Westfront 1918, 1930) diretto da Georg W. Pabst. 112 Il titolo francese di Westfront 1918. 113 Romanzo di ambientazione napoleonica di Paolo “Collodi” Lorenzini, edito da Nerbini nel 1932 e destinato a conoscere diverse trasposizioni cinematografiche. 114 Nuits de princes (1939) diretto da Wladimir D. Strichewsky. 115 Gianni Calvi, caporedattore de “Il Popolo di Lombardia”. Viazzi firma dal 6 al 30 settembre del 1941, tre corrispondenze dalla Mostra di Venezia per il giornale. 116 Collaboratore di “Cinema” tra il 1939 e il 1941. 117 Umberto Marvardi, Falsità del film storico, in “Cinema”, VI, 124, 24 agosto 1941, pp. 118-120. 118 Stagecoach (1939), diretto da John Ford; Dudley Nichols è sceneggiatore del film. 119 Il P.S. è riferito alla lettura esposta in seguito quella di I quaranta giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel, pubblicato in Italia da Mondadori nel 1941 e tradotto appunto dalla germanista Cristina Baseggio. L’attore a cui si allude è quasi certamente Cesco, interprete teatrale veneziano poi apparso nelle pellicole di Gallone, Simonelli e Alessandrini. 120 Golem (Le Golem, 1936) diretto da Julien Duvivier. 121 Il carro fantasma (La charrette fantôme, 1939) diretto da Julien Duvivier. 122 Autore di Cristo tra i muratori [1939], Bompiani, Milano 1941. 123 Mikhail Aleksandrovich Sholokhov.

124 Romanzo di Lajos Zilahy del 1932, da cui Vsevolod Pudovkin trarrà il film Il disertore (Дезертир, 1933). 125 Lion Feuchtwanger, scrittore tedesco, fondatore della rivista Der Spiegel e autore, ad esempio, della Trilogia di Giuseppe. 126 Dal romanzo di Mann del 1915 fu tratto il soggetto de L’angelo azzurro (Der blaue Engel, 1930) diretto da Josef von Sternberg. 127 Di William Somerset Maugham, 1915. 128 La canzone Signora Illusione scritta da Bixio Cherubini per Luciano Tajoli nel 1940. 129 La prima moglie (Rebecca, 1940) diretto da Alfred Hitchcock e recensito da Viazzi su “Il Popolo di Lombardia” il 29 novembre 1941. Casiraghi ne avrebbe scritto su “Bianco e nero”: Interpretazione di Rebecca, in “Bianco e nero”, 10, ottobre 1942, pp. 24-35. 130 Il film è diretto da Luigi Chiarini, tratto da un dramma teatrale di Rosso San Secondo e sceneggiato da Umberto Barbaro e Vitaliano Brancati: vera e propria produzione “d’apparato” del Centro Sperimentale di Cinematografia vinse la Coppa Mussolini alla X Mostra di Venezia del 1942. 131 Francesco Pasinetti, I film della Mostra di Venezia. Parte seconda, in “Cinema”, 150, 25 settembre 1942, pp. 542-545. 132 Poil de carotte (1932) diretto da Julien Duvivier. 133 Arnaldo Beccaria, Gianfilippo Usellini, Milano, Hoepli, 1942. 134 La cartolina, preservata nel Fondo Casiraghi-Verzegnassi (Busta 93), data al giorno precedente. 135 Opera seconda di Vittorio De Sica (1941), recensita su “Il Popolo di Lombardia” il 6 dicembre 1941. 136 The Real Glory (1939) diretto da Henry Hathaway. 137 Süss l’ebreo (Jud Süß, 1940) diretto da Veit Harlan. La recensione di Viazzi era apparsa su “Il Popolo di Lombardia” il 4 ottobre del 1941. 138 Cinema e “mondo spirituale”, in “Bianco e nero”, 9, settembre 1941, pp. 6-12. 139 Le strade nel cinema, Ivi, pp. 52-57. 140 Arte nel cinema, Ivi, pp. 70-75. Lo scrittore e drammaturgo risponde all’appello rivolto da Chiarini agli intellettuali italiani affinché scegliessero una delle proprie opere da trasporre sullo schermo. 141 Sequenza classica di un film nordico, Ivi, pp. 64-69, analisi ravvicinata della pellicola danese L’esiliato di Schnéevoigt. 142 Si tratterebbe di Massimo Mida Puccini, 1860, in “Cinema”, 129, 10 novembre 1941, pp. 287-289. 143 Andrej Andrejeff, in alcuni casi accreditato come Andrejev. 144 Le Golem (1936), cit.

145 Ragazze in uniforme (Mädchen in Uniform, 1931) diretto da Leontine Sagan. 146 Romanzo di Daniel-Rops del 1939, è tradotto da Mondadori nel 1941. Ringraziamo Cristina Bragaglia per la segnalazione. 147 Alba tragica (Le Jour se lève, 1939) diretto da Marcel Carné. 148 Alfredo Panzini, lessicografo e romanziere romagnolo tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti. 149 Edita da A.V.E., Roma 1941, è una sistematizzazione di contributi sul cinema a più mani firmata dai critici di area cattolica tra i quali il drammaturgo Enrico Basari e Renato May, futuro collaboratore di Viazzi e Casiraghi nelle edizioni del Poligono. 150 “Il Popolo di Lombardia” che nel frattempo aveva cambiato nome ne “Il Fascio”. 151 La straniera (L’esclave blanche, 1939) diretto da Georg W. Pabst e Marc Sorkin e Nave bianca (1941) diretto da Roberto Rossellini, vengono recensiti da Viazzi per “Il Fascio” rispettivamente il 5 aprile e il 1° novembre 1941. 152 Probabilmente il saggio storico del grande penalista Bruno Cassinelli, pubblicato da Corbaccio, Milano 1936, e destinato a essere ristampato a più riprese dopo la guerra. 153 Si fa riferimento a una lettera di Luigi Chiarini datata 25 marzo 1942 (Busta 93, Fondo Casiraghi-Verzegnassi) nella quale il direttore di “Bianco e nero” informava Casiraghi della prossima pubblicazione del suo “Interpretazione di Rebecca” (pubblicato poi a ottobre di quell’anno) e coglieva “l’occasione di rispondere a voi e a Viazzi in merito ai lavori inviatimi tempo fa e alle proposte contenute nella lettera del I.c.m. Quanto ai tre articoli ‘Presentazione postuma di un classico’, ‘Contributo alla conoscenza del film fantastico’, ‘Nota su Sjöström e Duvivier’, mentre mi sembra che i due ultimi siano buoni e possono essere senz’altro pubblicati, non ritengo opportuna la pubblicazione del primo a meno di non farla seguire da una nota redazionale in cui sia specificata la posizione della nostra Rivista rispetto al film Uomini sul fondo. Vi sarei grato se voleste farmi pervenire il maggior numero possibile di fotografie che possono illustrare l’articolo di Duvivier, come mi accennate nella vostra precedente lettera”. Entrambi gli articoli accettati, compariranno nel numero di “Bianco e nero” di quello stesso mese, a firma rispettivamente di Viazzi e di Casiraghi (3, pp. 27-33; pp. 45-53). Quanto all’articolo a quattro mani Presentazione postuma di un classico non è ben chiaro quale fosse la posizione della rivista sulla pellicola di De Robertis, ma è certo che, malgrado le riserve, il pezzo uscirà nel numero immediatamente successivo (4, aprile 1942, pp. 32-49). Dalla stessa lettera emerge un’ipotesi di pubblicazione di 12 testi rari per la collana di Studi Cinematografici di “Bianco e nero”, per la quale Chiarini si dice disposto a firmare la prefazione a patto che “i singoli saggi venissero preventivamente pubblicati – se non nella loro totalità, almeno parzialmente su ‘B. e n.’ per poi essere raccolti su volume”. 154 La nota del 1° aprile 1942 di Filippo Flavio Podestà, caporedattore del giornale guf milanese “Libro e moschetto” cui collaborava da tempo Glauco Viazzi, rifiutava di pubblicare la critica di Casiraghi a un libro “disfattista” (non meglio specificato) per evitare di fare una “pericolosa pubblicità”. Rivolgeva però all’autore l’invito a collaborare in virtù delle sue “ottime possibilità polemiche”. La

missiva viene riportata insieme alla precedente in un’unica lettera, scritta a mano dalla madre di Casiraghi. 155 Guerrasio. 156 Giuseppe Caracciolo, direttore della fotografia per il film di De Robertis. 157 I cortometraggi citati appartengono alla produzione cinematografica dell’Ufficio Addestramenti dello Stato Maggiore e vengono trattati da Casiraghi, insieme ai documentari prodotti dalla Dolomiti Film di Luciano Emmer, nell’articolo Cortimetraggi artistici italiani, in “Cinema”, 139, 10 aprile 1942, pp. 185-186. 158 Diretto da Luciano Emmer ed Enrico Gras (1938) tra le produzioni della Dolomiti Film. 159 Settimanale della federazione dei fasci di combattimento di Otranto. 160 Redenzione (1943) diretto da Marcello Albani, è un film sulla conversione alla causa fascista di un militante comunista, con Carlo Tamberlani nei panni del protagonista. 161 Il numero di Film cui si fa riferimento è il 14 del 4 aprile del 1942, nella “Panoramica” a p. 15. Le pellicole di De Robertis e di Marcel Carné con Antonioni aiuto-regista usciranno rispettivamente nel 1943, con il titolo definitivo Marinai senza stelle e nel 1942, L’amore e il diavolo (Les Visiteurs du soir). 162 La tempesta (Remorques, 1941) diretto da Jean Grémillion; L’angelo del male (La Bête humaine, 1938) diretto da Jean Renoir. La risposta del Nostromo alla lettera firmata con il solito pseudonimo “Studente di Milano”, recita: “Quell’articolo uscirà presto. Ho avuto notizia di quella rivista. Potrà essere interessante” (“Capo di Buona Speranza”, in Cinema, 139, 10 aprile 1942, p. 201). 163 La recensione di Un garibaldino al convento, pp. 198-199 dello stesso numero. 164 Di Rosario Assunto, filosofo e teorico estetico autore dell’articolo citato sempre nel numero 139 di “Cinema” (pp. 138-139). Lo scritto si presenta come primo di una serie, da cui l’accenno successivo di Casiraghi. 165 Firma in calce a “Cent’anni di disegni animati” (Ivi, pp. 187-189) che conclude rivendicando la paternità europea del cinema d’animazione anche in virtù delle presunte origini spagnole di Walt Disney e del suo “cranio allungato – tipicamente iberico”. 166 Nell’ordine: Non me lo dire! (1941) diretto da Mario Mattoli, con Erminio Macario; Delirio (Orage, 1938) diretto da Marc Allégret; Un’avventura di Salvator Rosa (1939) diretto da Alessandro Blasetti. 167 Selma Ottilia Lovisa Lagerlöf, scrittrice svedese, autrice del romanzo Il carretto fantasma, da cui è tratto l’omonimo film (Körkarlen, 1921) diretto da Victor Sjöström. 168 Di Roberto Rossellini, 1942, recensito da Viazzi il 25 aprile del 1942 su “Il Fascio”. 169 “Appunti e problemi per un sistema analitico-classificativo”, cit.

170 Saggio di Viazzi sulla crisi del cinema francese precedente agli anni quaranta, vista in parallelo al cinema tedesco degli anni venti. Su “Cinema”, 131, 10 dicembre 1941, pp. 350-351. 171 Rupen Zartarian, scrittore e poeta armeno, tra le firme alla traduzione di Viazzi. 172 Cheri-Bibi l’evaso (Chéri-Bibi, 1938) diretto da Léon Mathot. 173 La recensione del film di Rossellini a firma Giuseppe De Santis era apparsa su “Cinema”, 140, 28 aprile 1942, pp. 226-228. 174 Omonimo del poeta Fausto Salvatori (1870-1929): si tratta con tutta probabilità di un collaboratore di “Libro e moschetto”. 175 Si allude alla conclusione di una recensione a Maddalena… zero in condotta, esordio di De Sica dietro la macchina da presa benevolmente stroncato da Casiraghi su “Il Popolo di Lombardia” l’11 gennaio 1941. 176 Le voyage imaginaire (1926) diretto da René Clair. 177 The citadel (1938). Il riferimento ai minatori di Pabst è probabilmente un’allusione a La tragedia della miniera (Kameradschaft, 1931) citato più sopra. 178 Il personaggio di Zola, protagonista della trasposizione cinematografica de La bestia umana. 179 Il numero della rivista in questione, con i contributi descritti, data marzo 1942 (n. 3). 180 Traduzione dall’originale Häxan (1922) diretto da Benjamin Christensen, distribuito in Italia come La stregoneria attraverso i secoli. 181 Del 1934, titolo italiano La leggenda di Liliom. 182 L’Assassinat du duc de Guise (1909) diretto da André Calmettes e Charles Le Bargy. 183 Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma. 184 Sans lendemain (1939) di Max Ophuls. 185 Alleluja (Hallelujah, 1929) diretto da King Vidor; Tabù (Tabu: A Story of the South Seas, 1931) diretto da Friedrich W. Murnau; Giglio infranto (Broken Blossoms, 1919) diretto da David W. Griffith. 186 Probabilmente L’ultima trilogia di Pabst, “Cinema”, 142, 25 maggio 1942, pp. 271-273. 187 Il quindicinale di arte e di lettere Primato e il mensile Spettacolo (ex Via Consolare) erano fogli facenti capo agli organi del partito fascista e del Guf forlivese. All’iscritto del Guf milanese Leonardo Sinisgalli, poeta, critico d’arte e futuro direttore di testate industriali come Civiltà delle macchine, viene attribuito il merito del primo contatto con Calvi, redattore de “Il Popolo di Lombardia”. 188 “Vice” è lo pseudonimo che firma la rubrica “Film di questi giorni” con le recensioni delle ultime uscite. Al numero 142 si annovera anche una recensione, piuttosto spietata, del film di propaganda bellica Giarabub (1941) diretto da Goffredo Alessandrini, citato più avanti.

189 Viazzi aveva recensito il film di Alessandrini per “Il Fascio” in data 16 maggio 1942. 190 Ragioni di un successo, nel numero citato a pp. 269-270, sulle prime regie di De Sica. 191 La vera origine del cinema italiano, Ivi, pp. 276-277, a doppia firma con Roberto Persichini. 192 The Informer (1935) diretto da John Ford. 193 Ovvero Shën Athanas (Sant’Atanasio) nei pressi di Moscopoli in Albania. 194 Scherzoso riferimento al grammatico e lessicografo napoletano dell’Ottocento. 195 Il titolo italiano ufficiale La tragedia di Jegor viene qui sostituito con una traduzione più letterale dell’originale. Al film, e con una denominazione simile, Casiraghi aveva già dedicato il suo secondo articolo Notti bianche a S. Pietroburgo, in “Bianco e nero”, 11, novembre 1941, pp. 47-65. 196 Musica maestro (Magistrarna på sommarlov, 1941) diretto da Shamyl Bauman. 197 Skilsmissens børn (1939) diretto da Benjamin Christensen, citato da Puccini nella monumentale rassegna Contributo cronistico alla storia del cinema danese, in “Bianco e nero”, 11, gennaio 1940, pp. 33-77. 198 Il dramma di Shanghai (Le drame de Shanghai, 1938) diretto da Georg W. Pabst. 199 I Commedianti (Komödianten, 1941) diretto da Georg W. Pabst. 200 Bino, scrittore e curatore della collana insieme a Luigi Salvini. 201 Con il bollettino straordinario numero 754 del 21 giugno 1942 si dava l’annuncio dell’avanzamento su Sidi Barrani e della riconquista di Tobruch da parte delle truppe italo-tedesche, roccaforte nel campo da guerra d’Egitto strappata all’Italia dall’esercito britannico l’anno precedente. 202 Si allude a un vecchio scritto dello stesso Casiraghi: Sul montaggio ariostesco e altre due cose. 203 Verranno pubblicati entrambi nella rubrica citata, rispettivamente il 25 agosto del 1942 (148, pp. 458-460) e il 25 luglio 1943 (170, pp. 52-53). 204 Seton Margrave, Come si scrive un film, Bompiani, Milano 1939. 205 Quotidiano del partito fascista d’Albania, edito a Tirana a partire dal 1941 e distribuito alle truppe. 206 Un’altra opera di Thorton Wilder del 1939. 207 La recensione di Giuseppe De Santis, apparsa su “Cinema”, 140, 25 aprile 1942, pp. 226-227. 208 Of Human Bondage (1938) diretto da John Cromwell. 209 Uno dei cortometraggi documentari del 1942 che Pasinetti dedica a Venezia (insieme a I piccioni di Venezia, La gondola e Venezia Minore).

210 Albergo Nord (Hôtel du Nord, 1938) diretto da Marcel Carné. 211 McPhillips, il personaggio ricercato interpretato da Wallace Ford. 212 Hurricane (1937) e Mary of Scotland (1936), entrambi diretti da John Ford. 213 Pièges (1939) diretto da Robert Siodmak. 214 Jacopo Comin, Gli spettri di Carolina Invernizio, “Cinema”, 10, 25 novembre 1936, pp. 380-381. 215 Marcel Brion, Breughel, Plon, Parigi 1936. 216 Marcel Brion, Bosch, Plon, Parigi 1938. 217 Il titolo corretto è Le combat entre Carnaval et Carême. 218 Baldo Bandini è critico proveniente dal Guf e collaboratore di “Cinema”, sarà l’autore di Ragionamenti sulla scenografia (Milano, 1945) nella collana diretta da Casiraghi e Viazzi per le edizioni de Il Poligono. 219 Di Mario Camerini, 1940. 220 Ugo Casiraghi e Glauco Viazzi, Motivi di rinascita, “Cinema”, 117, 10 maggio 1941, pp. 300-302. 221 “Bianco e nero”, 3, marzo 1942: contiene sia Contributo alla conoscenza del Cinema fantastico di Viazzi (pp. 27-33) che Nota su Sjöström e Duvivier (a proposito dell’ultimo Duvivier) (pp. 43-53) di Casiraghi. 222 “Si gira”, 3-4, aprile-maggio 1942: contiene sia Infanzia del cinema italiano di Carlo Lizzani (pp. 6-7) che Sigari e sigarette di Osvaldo Campassi (p. 37). 223 La recensione di Viazzi per “Il Fascio” sarà pubblicata il 25 luglio 1942. Quella comparsa su “Cinema”, 146, 25 luglio 1942, p. 394, porta la firma di Lizzani e il titolo Cinema. Arte o magia?. 224 Visto il riferimento alla parola “paroisse” (parrocchia) ci si riferisce, con tutta probabilità a Journal d’un curé de campagne (Plon, Parigi 1936) tradotto in italiano come Diario di un curato di campagna da Mondadori soltanto nel 1946 e poi portato al cinema da Robert Bresson nell’omonimo film del 1953. 225 Nel film di Sorkin e Pabst Marcel Dalio intepreta il Sultano Solimano. 226 Mollenard (1939) diretto da Robert Siodmak. 227 Valéry Inkijinoff, attore francese interprete di Shanghai. 228 Potrebbe trattarsi del saggio I confini e la poesia. 229 Pierre Blanchar attore francese interprete di Mademoiselle Docteur (1937) diretto da Georg W. Pabst. 230 Rosario Leone, caporedattore della rivista insieme a Domenico Purificato. 231 Autrice di Il cinema e la gioventù, “Cinema”, 145, 10 luglio 1942, p. 349 sui Littoriali di Firenze. 232 Cornelio Di Marzo, Il cinema e le arti, Ivi, p. 351.

233 Di S. A. Luciani, pp. 355-356. 234 Di C. E. Giussani, Ivi, pp. 357-358. 235 Qui ci si riferisce alla ripartizione in sezioni tematiche proposta dalla rivista in genere – Viennismo in Forst di Guido Aristarco era apparso su “Cinema” già nel marzo del 1942 (133, pp. 10-11). 236 Grigorij L’vovicˇ Rošal’, regista cinematografico sovietico. 237 Hanns Schwarz, regista cinematografico tedesco. 238 Contrariamente a quanto comunicato da Chiarini in una lettera indirizzata a Casiraghi in data 24 marzo 1942 (Busta 94, Fondo Casiraghi-Verzegnassi) che prevedeva la pubblicazione di Interpretazione di Rebecca al numero di “Bianco e nero” di aprile, l’articolo uscirà effettivamente solo nell’ottobre di quell’anno. 239 Nel numero di “Cinema” in questione la rubrica di conversazioni “in famiglia” tenuta da Francesco Pasinetti si dilunga sulle sorti del cinema italiano con un occhio di riguardo per la pellicola di De Robertis e sostiene la proposta formulata da Aristarco sulle pagine del “Corriere padano” (Una proposta. L’insegnamento nelle scuole, 30 maggio 1942) con queste parole: “Per l’insegnamento della storia dell’arte si mostrano le diapositive dei monumenti e dei dipinti. Per la storia del cinema che cosa si mostra? I film. Ma dove sono i film? Attendiamo che il Museo del Cinema e la Cineteca siano completamente attrezzati e operanti” (p. 302). 240 “Inediti di L. d’A.” è un altro articolo pubblicato nello stesso numero di “Cinema” a cura di Alberto Vigliani (pp. 363-364). Nella citata recensione a “Vecchio Cinema Italiano” di Ferdinando E. Palmieri (Zanetti, Venezia 1940) apparsa su “Il Popolo di Lombardia” il 21 dicembre 1940 Casiraghi aveva notato a proposito dello scrittore e drammaturgo “prestato al cinema” e scomparso solo l’anno precedente: “il povero Lucio D’Ambra, che faticò tanto per procurarsi un illustre nome in letteratura, finirà piuttosto col essere ricordato in un diverso campo, ch’egli non poteva che considerare secondario”. 241 “Inquadrature” è un progetto di rivista mai realizzato ma rimasto a lungo in cantiere fra i giovani critici “settentrionali”: secondo la ricostruzione proposta da Lorenzo Pellizzari (Poligono e contorni, in Corrado Terzi, Marcel Carné, a cura di Lorenzo Pellizzari, Il Ponte Vecchio, Cesena 1999, pp. 9-37), a fasi alterne il progetto ha coinvolto, oltre a Viazzi e Casiraghi, anche Corrado Terzi, Baldo Bandini e Guido Guerrasio e può essere considerato antesignano di iniziative editoriali sorte poi nel dopoguerra quali le collane Domus e Il Poligono e la testata “Cinetempo”. In Capo di Buona Speranza, in “Cinema”, 145, Pasinetti-Nostromo risponde a Terzi con alcuni consigli sulla qualità della carta per la rivista, ammettendo di non sapere “né il titolo né chi la patrocinasse, la rivista di cui mi parli. Auguri, in ogni modo” (p. 370). 242 Enrico Thovez, critico letterario. 243 Gérard Fonsèque, protagonista del romanzo L’Araigne, Plon, Parigi 1938. L’autore Henri Troyat è di origine russo-armena. 244 Georges Bernanos, autore di Diario di un curato di campagna (1936). 245 Christian Zervos (a cura di), Pablo Picasso, Hoepli, Milano 1937.

246 Il riferimento sembra rivolto a “Presentazione postuma di un classico” – che tuttavia da data di pubblicazione ufficiale risulta però già uscito nel numero di marzo. La “nota redazionale” era stata paventata da Luigi Chiarini in una sua comunicazione dattiloscritta del 25 marzo 1942 (Busta 44, Fondo CasiraghiVerzegnassi), quando aveva informato Casiraghi di non ritenere “opportuna la pubblicazione del primo [articolo] a meno di non farla seguire da una nota redazionale in cui sia specificata la posizione della nostra Rivista rispetto a film come Uomini sul fondo”. 247 Korça, città dell’Albania centro-meridionale prossima ad accampamenti e luoghi di servizio del Regio Esercito Italiano. 248 Pubblicato come The Defence of Poetry. Variations on the Theme of Shelley (Clarendon, Oxford 1933) e successivamente in Italia come Difesa della poesia, Laterza, Bari 1934. 249 Mino Maccari, Ricordo di cinema, 1939: l’opera è presentata da Albino Galvano sulla rivista Emporium: Albino Galvano, Torino: Maccari alla Zecca, in “Emporium”, 3, marzo 1939, pp. 162-163. 250 Sinfonia nuziale (The Wedding March, 1928) diretto da Erich von Stroheim. 251 Maurice Utrillo i Morlius (Parigi, 26 dicembre 1883 – Dax, 5 novembre 1955), pittore paesaggista francese. 252 Fernand Léger collabora alla realizzazione del film L’Inhumaine (1924) diretto da Marcel L’Herbier. 253 Chaim Soutine, Paesaggio a Ceret, 1932. 254 Rodion Romanovic ˇ Raskol’nikov, il protagonista del romanzo Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij. 255 Si fa riferimento al trittico Pietro Gaudenzi, Il grano, 1940. 256 Eugène Laermans, Dramma umano, 1905. 257 Gustave Van de Woestyne. 258 James Ensor. 259 Hendrik Wiegersma. 260 Raoul Hynckes. 261 Jan Toorop. 262 Oskar Kokoschka. 263 La resa cinematografica diretta da Mario Soldati, 1941. 264 Vilhelm Hammershøi. 265 Glyn Warren Philpot. 266 Dancers (1910) di Duncan Grant. 267 John Armstrong, The Rape of Persephone, 1927.

268 Thomas Hart Benton. 269 József Molnár. 270 Emilio Pettoruti. 271 Jurij Pavlovicˇ Annenkov. 272 Nikolai Mitrofanovitch Nikonov. 273 Alfredo, critico letterario. 274 Sergio Solmi in Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera, Milano, Mondadori 1942, pp. 1-15. 275 In aggiunta ai titoli già citati precedentemente vengono qui menzionati Il porto delle nebbie (Quai des brumes, 1938) diretto da Marcel Carné, La Bandera (1935) e Il bandito della Casbah (Pépé le Moko, 1938) diretti da Julien Duvivier. 276 Il commento va probabilmente imputato al deciso cambio di impaginazione e di linea editoriale che interessa la rivista codiretta da Mino Doletti, Mida Puccini e Antonio Pietrangeli, che dal numero 5 in avanti riduce le lunghe dissertazioni critiche che l’avevano contraddistinta in favore di un’impaginazione più generosa di immagini a tutta pagina, ritratti dei divi e inserzioni pubblicitarie per le pellicole in uscita. 277 Poeta e drammaturgo russo di fine Ottocento, più spesso indicato come Aleksandr Aleksandrovicˇ Blok. 278 Rivista artistico-letteraria diretta da Curzio Malaparte dal 1937. 279 A Connecticut Yankee (1931) diretto da David Butler; François Premier (1937) diretto da Christian-Jaque. 280 Chéri-Bibi (1938) diretto da Léon Mathot; Les musiciens du ciel (1941) diretto da Georges Lacombe. 281 Il nuovo film di De Robertis, destinato a vincere la Camera Internazionale del Film alla Mostra del 1942. 282 La scrittura manoscritta di Glauco Viazzi rende a volte, come in questo caso, difficilmente intellegibile il nome di alcune personalità citate, soprattutto quando – e crediamo che questo sia il caso – si tratta di personalità del mondo culturale armeno: presumibilmente si fa qui riferimento al poeta armeno Tovmas Terzian o a Vahan Te’k’eyan poeta più volte citato da Viazzi nei suoi saggi sulla poesia armena (ringraziamo Cristina Bragaglia per la segnalazione). 283 Francesco Flora, D’Annunzio, Edizioni Principato 1935. 284 Probabilmente Henry Dérieux, La poésie française contemporaine 1885-1935, Mercure de France, Parigi 1935. 285 Si torna qui alla triade Ariosto-Shakespeare-Corneille proposta da Croce. Il Cid è opera teatrale scritta dal francese nel 1636. 286 Il giornale in questione è Il Popolo di Lombardia / Il Fascio. 287 Di Ewald André Dupont (1925).

288 I tiri burloni di Till Eulenspiegel (Till Eulenspiegels lustige Streiche) è un poema sinfonico di Richard Strauss, composto tra il 1894 e il 1895. 289 L’Ouverture 1812, composizione per orchestra di Pëtr Il’icˇ Cˇajkovskij. 290 Verso la vita (1936) diretto da Jean Renoir. 291 I registi del già citato adattamento dostoevskiano Grigorij L’vovic ˇ Rošal’ e Vera Stroeva. 292 Eupalinos ou l’architect, dialogo socratico pubblicato da Valéry nel 1923. 293 Poeta simbolista, nato nel 1862 e morto nel 1936, viaggiò a lungo in Italia, dove fu ordinato sacerdote. 294 Al secolo Antonio Conio, fu frate cappuccino vicino al regime fascista e poi repubblichino e autore di una produzione poetica. 295 Salvatore Quasimodo, Mai ti vinse notte così chiara, da Acque e Terre, Solaria, Milano 1930. 296 Yeznik da Koghb (387 circa-405 circa), vescovo di Bagrevand, fu uno dei traduttori delle Sacre scritture e si oppose alla dominazione persiana difendendo l’adesione al cattolicesimo degli armeni. Si ringrazia Cristina Bragaglia per la segnalazione. 297 L’asserzione formulata ne Il Rinascimento (1873) per la quale “Tutte le arti tendono costantemente alla condizione della musica” 298 Il riferimento qui è alle pagine tratte da Paul Valéry, Variété, Nouvelle revue française, Parigi 1924. 299 Il discorso originale è accessibile qui: http://www.academiefrancaise.fr/discours-de-reception-de-paul-valery (ultimo accesso: 27 settembre 2020). 300 Il riferimento è a Paul Valéry, Littérature, Gallimard, Parigi 1930, in part. note sul “classico”. 301 I film di Leinhoff e di Ucicky (in Italia Ohm Kruger l’eroe dei Boeri e L’amore più forte) citati in “Presentazione postuma di un classico” a paragone della “risoluzione visiva” di Uomini sul fondo. 302 Il titolo esatto è in realtà Le Dernier Tournant (1939). 303 I titoli italiani citati qui fanno riferimento a film ancora in via di lavorazione, probabilmente desunti dalle anticipazioni via stampa. Palude è il titolo provvisorio di quello che poi uscirà come Ossessione; una trasposizione de L’Orlando Furioso da parte di Blasetti rimarrà in cantiere fino ai primi anni cinquanta senza tuttavia trovare mai una realizzazione definitiva. 304 Da Alcyone di Gabriele D’Annunzio (1903). 305 Da Diario di un curato di campagna (1936). 306 Da Pensieri (1670). 307 Canti alpini della prima guerra mondiale.

308 Da Parola, in Oboe Sommerso (1932). 309 Nella rubrica “Capo di Buona Speranza” Nostromo risponde a Casiraghi, sotto l’abituale pseudonimo di Studente di Milano, che “Sono state cercate e trovate migliori fotografie di quelle inviate a suo tempo” (“Cinema”, 148, p. 350). 310 Nella stessa rubrica si legge in risposta al lettore, “Anch’io ritengo Ugo Casiraghi, vecchio lettore e corrispondente di questa rubrica, un giovane di talento. Mi consta che egli scriva su Il Fascio. Recentemente Casiraghi e altri due giovani intelligenti di Milano (Glauco Viazzi e Guido Guerrasio) avevano in animo una rivista che poi, per varie ragioni, non è più uscita” (Ivi, p. 351). L’accenno è probabilmente al progetto di “Inquadrature” (vedi nota n. 162). 311 Valerio Mariani, Lettura del barocco (Ivi, pp. 446-447); Aldo Scagnetti, Svolte del cinema verista (Ivi, pp. 450-451). 312 Nella rubrica “Schermi sonori” (p. 461). 313 L’esordio critico di Casiraghi risalente al numero del dicembre 1939 dei quaderni del Centro Sperimentale di Cinematografia (“Bianco e nero”, 12, dicembre 1939, pp. 45-49). 314 Jezek e Vincenzo Bartoccioni sono autori rispettivamente di Un regista boemo (su Vladimir Slavinsky, Ivi, p. 465) e di Un anno di cinematografia tedesca (Ivi, pp. 455-457). 315 Autore de Il cinema spagnolo nel 1942 (Ivi, pp. 448-449). 316 Riferimento in rosso, inserito a mano da Casiraghi per indicare il collaboratore di Cinema Rosario Assunto. 317 Guido Fiorini, Nota, in “Bianco e nero”, 4, aprile 1942, pp. 28-31, in risposta alle critiche rivolte alla scenografia di sua ideazione per Le Cinque Lune, il film del CSC diretto dallo stesso Chiarini. 318 Gilberto Loverso, collaboratore di “Bianco e nero” tra il 1938 e il 1941 e firma del “Corriere della Sera” per una serie di articoli di stampo perlopiù “narrativo”. 319 Rivista bimestrale di arte figurativa. 320 Le recensioni appaiono sotto il titolo Un anticipo sicuro, in “Il Fascio” del 29 agosto del 1942, a commento di alcune immagini che avevano preceduto l’uscita del film, secondo una tendenza – al tempo non infrequente – alla critica preventiva. Cristina Bragaglia riconduce a un esercizio di stile e un divertissement di gusto avanguardistico, la contraddizione tra il giudizio positivo e lungimirante sull’importanza della pellicola di Visconti e quello, espresso nella stessa sede, di segno opposto “che riprende, imitandole, le sbrigative formule di rifiuto della stampa di regime, negando all’opera di Visconti la patente di italianità” (Cristina Bragaglia, Presentazione, in Glauco Viazzi, Scritti di Cinema. 1940-1958, Longanesi, Milano, 1979, p. IX). A giudicare dal motteggio di Casiraghi in queste righe sembrerebbe invece trattarsi di un effettivo cambio di orientamento da parte dell’autore, messo a nudo da una svista redazionale. 321 La testata di cultura e politica voluta da Giuseppe Bottai.

322 Si intuisce qui una punta polemica contro l’edizione italiana doppiata e distribuita dalla Cines-Pittaluga, che aveva convertito l’originale À nous la liberté (1931) diretto da René Clair, in A me la libertà per venire incontro alle disposizioni del censore. 323 Mario De Silva, Scomposizione di René Clair, in “Lo schermo”, aprile 1936, pp. 22-23. 324 Per le vie di Parigi (Quatorze Juillet, 1933); Il cappello di paglia di Firenze (Un chapeau de paille d’Italie, 1928); I due timidi (Les deux timides, 1928); Il milione (Le Million, 1938); Sotto i tetti di Parigi (Sous les toits de Paris, 1930), Entr’acte (1924) diretti da René Clair. 325 Probabilmente da “Aquarium mental”, componimento del poeta belga contenuto nella raccolta di liriche Les Vies Encloses (Charpentier et Fasquelle, Parigi 1896). 326 Alberto Lattuada, Ragionamenti estremi su Griffith e Dreyer, in “Corrente”, 20, 15 novembre 1939. 327 Con tutta probabilità si fa riferimento al personaggio di Slimane interpretato da Lucas Gridoux in Pépé le Moko. 328 Il parallelo è con il protagonista di Salonicco, nido di spie (Mademoiselle Docteur, 1937) diretto da Georg W. Pabst, Grégor Courdane detto Condoyan, interpretato da Pierre Blanchar. 329 Vesëlye rebjata (1934) diretto da Grigorij Aleksandrov, tra i primi esemplari di commedia sovietica. 330 In originale Schatten – Eine nächtliche Halluzination (1923) diretto da Arthur Robison. 331 Mentre Manon Lescaut è del 1925, Lo studente di Praga esce nel 1935 e segue la versione muta di Stellan Rye del 1913. 332 Wyrok zycia (1933) diretto da Julius Gardan, con Jadwiga Andrzejewska, nella parte di Hanna. 333 Baby rjazanskie (1927) diretto da Ol’ga Preobraženskaja. 334 Nina Petrowna (Die wunderbare Lüge der Nina Petrowna, 1929) diretto da Hanns Schwartz. 335 Il circo (Цирк-Cirk, 1936) diretto da Grigorij Vasil’evicˇ Aleksandrov e Isidor Simkov. 336 Genuine (1920) diretto da Robert Wiene. 337 Rapacità (1924) diretto Erich von Stroheim. 338 Rispettivamente di Baldassarre Negroni e Nino Martoglio, entrambi del 1914. 339 Sulle orme di Giacomo Leopardi, 1941. Cortometraggio prodotto dall’Istituto Luce e visibile su: https://patrimonio.archivioluce.com/luceweb/detail/IL3000052380/1/sulle-orme-giacomo-leopardi.html (ultimo accesso: 10 agosto 2020).

340 Casiraghi recupera qui alcuni arretrati degli articoli firmati dall’amico per “Il Fascio” nei mesi precedenti: “Il rapporto Pavolini” (27 giugno 1942); “Il cinema e le arti” (25 luglio 1942); Alfa Tau recensito in occasione della prima a Venezia il 5 settembre 1942 e più compiutamente il 10 ottobre 1942. 341 Raccolta di saggi “non critici” edita da Puccini (Ancona, 1913), dedicati ciascuno alla “recensione” di un intellettuale del passato. 342 Si tratta effettivamente in entrambi i casi di Jacques Prévert. 343 Nell’ordine: Edilio Rusconi, critico letterario per Settegiorni; Raffaele Mastrostefano, teorico attivo sulle pagine di “Bianco e nero”; Mario De Micheli, critico letterario e d’arte, autore di saggi sulle avanguardie artistiche; Eugenio Giovannetti, collaboratore di riviste cinematografiche e autore di Il cinema e le arti meccaniche (Sandron, Palermo 1930); Ugo Spirito discepolo di Gentile e teorico del corporativismo, aveva trovato pubblicazione nel marzo 1942 anche nella serie “Gli intellettuali e il cinema” di “Bianco e nero” con un estratto dal suo La vita come arte (Sansoni, Firenze 1941). Il già citato Osvaldo Campassi è l’unico riferimento tratto dalla cerchia di cinefili e critici coetanei. 344 Jenny, regina della notte (Jenny, 1936) diretto da Marcel Carné. 345 Jeunes Filles en détresse (1939) diretto da Georg W. Pabst. 346 Dovrebbe trattarsi piuttosto del quadrato di Psello, dal nome del filosofo bizantino Michele Psello (1018-1096), che propose un sistema di analisi logica utile per la comprensione dei sillogismi. 347 Poil de carotte (1932), cit. 348 Léonie Bathiat, in arte Arletty, interprete di diverse pellicole di Carné tra le quali anche Albergo Nord e Alba tragica. 349 Umanità di Stroheim, in “Cinema”, 110, 25 gennaio 1941, pp. 56-57. 350 Ugo Redano, Principi di Psicologia, Hoepli, Milano 1942. 351 I fiori, pubblicata nella antologia Versi e Prose, con la traduzione di Filippo Tommasi Marinetti, Istituto editoriale Italiano, Milano 1916. 352 Oboe Sommerso, pubblicata sull’omonima antologia del 1932: Edizioni di Circoli, Genova 1932. 353 Ivan Sergeevicˇ Turgenev, romanziere russo. 354 Personaggi del romanzo Delitto e castigo, di Fëdor Dostoevskij. 355 Robert Mamoulian e Gustav Machatý, registi attivi negli anni trenta, rispettivamente armeno naturalizzato americano e ceco. 356 Victor McLaglen, protagonista del film di Ford. 357 Osvaldo Campassi, Sigari e Sigarette, in “Si gira”, 3-4, aprile-maggio 1942, p. 37. 358 Massimo Bontempelli, Sette discorsi: Pirandello, Leopardi, D’Annunzio, Verga, L’Aretino, Scarlatti, Verdi, Bompiani, Milano 1942.

359 Assedio dell’Alcazar (1940) diretto da Augusto Genina. 360 La recensione a firma “Vice” compare su “Cinema”, 146, 25 luglio 1946, p. 398. 361 Lazare Meerson e Alexandre Trauner, scenografi al lavoro per diverse regie di Carné e Duvivier. 362 Matteo Marangoni, critico d’arte di ascendenza crociana. 363 Francesco Casnati, autore per la casa editrice cattolica bresciana di alcuni volumi di critica letteraria dedicati all’opera di Proust e Baudelaire. 364 Circostanze attenuanti (Circonstances atténuantes, 1938) diretto da Jean Boyer. 365 Giorgio Fattori, pittore. 366 La definizione attribuita a Rusconi parafrasa il titolo del romanzo autobiografico dello stesso Federigo Tozzi, Con gli occhi chiusi, Fratelli Treves, Milano 1919. 367 Wunschkonzert (1940) diretto da Eduard von Borsody. 368 Titolo dell’articolo apparso su “Il Fascio” del 12 settembre 1942. 369 Giovanni Francesco Poggio Bracciolini, Poggius Florentinus, storico e umanista del Quattrocento. La prima pubblicazione della raccolta citata risale al 1470. 370 Italia mia (Vallecchi, Firenze, 1939) segna uno dei picchi di massima adesione di Papini alla retorica nazionalista del regime e al fascismo come “movimento per l’indipendenza spirituale” italiana. 371 Augusto Hermet, La ventura delle riviste, Vallecchi, Firenze 1941. 372 Antonio Baldini, I cinque canti di Ludovico Ariosto fatti pubblicare da Virginio Ariosto nel 1545, Carabba, Lanciano 1915. 373 Dal pamphlet antisemitico di Céline, Bagatelles pour un massacre, Éditions Denoël, Parigi 1937, pp. 353-354. 374 Massimo Bontempelli, Giovanni Verga, La Nuova Antologia, Roma 1940, estratto dalla rivista “La Nuova Antologia”, 18, 16 marzo 1940. 375 Živoj trup (1929) diretto da Fëdor Ocep. 376 Dood water (1934) diretto da Gerard Rutten. 377 Tratta da Discorso sul metodo. 378 Giuseppe Raniòlo, Lo spirito e l’arte dell’Orlando Furioso, Mondadori, Milano 1929. 379 Giulio Bertoni, Ludovico Ariosto, Formiggini, Roma 1926. L’autore sarà poi membro e presidente dell’Accademia d’Italia. 380 Sempre da Discorso sul metodo.

381 Il giudizio di Viazzi è qui in linea con quello diffuso nell’establishment fascista: il breve romanzo La mascherata era, per successiva ammissione dell’autore, una satira rivolta alle dittature totalitarie, ispirata anzitutto al regime nazista ma anche, perlomeno nel personaggio del generale Tereso Arango, alle gesta mussoliniane. Malgrado il tentativo di dissimulare la critica con il “pittoresco involucro di cellophane” dell’ambientazione messicana, il libro sarebbe stato sequestrato dalla censura poco dopo la stampa, nel 1940. L’anno successivo il Minculpop avrebbe proibito alla stampa di occuparsi dell’opera dello scrittore, garantendo di fatto la sopravvivenza della sua carriera di scrittore come collaboratore giornalistico sotto pseudonimo (cfr. Simone Casini, Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e Ciano, in “Studi italiani”, 1, ottobre 2008, pp. 189-237). 382 L’opera, esposta nel 1942 al Premio Bergamo, fu accusata di blasfemia per la raffigurazione della Maddalena nuda. 383 The Stars Look Down (1940) diretto da Carol Reed, tratto dal romanzo di Cronin, più volte commentato nella corrispondenza. 384 Una romantica avventura (Cini e Bistolfi), interpretata da Lina Termini. La canzone che fa da colonna sonora al film di Camerini, pubblicata su 78 giri dalle edizioni CETRA. 385 Giovanni Mosca, critico teatrale e commediografo e collaboratore di diverse testate satiriche, dal “Bertoldo” al “Marc’Aurelio”. Di “Settegiorni” fu direttore fino all’8 settembre del 1943. 386 Prévert, rispettivamente regista accreditato e sceneggiatore di L’affare è fatto (L’affaire est dans le sac, 1939). 387 In italiano La cagna (1931) diretto da Jean Renoir. 388 Del 1929. 389 Il circo (Цирк-Cirk, 1936), cit. 390 Decisa nell’affermare la superiorità delle scene di guerra rispetto a quelle di ambientazione “borghese”, la recensione di Guido Piovene ad Alfa Tau! appare sul “Corriere della Sera” del 4 ottobre 1942, nella rassegna cinematografica a p. 4. La recensione di Cinema a firma Vice appare invece nella rubrica “Film di questi giorni” (151, 10 ottobre 1942, p. 590) e bolla il film come “compromissorio” e “senza regia”. Le stellette assegnate, al contrario di quanto affermato da Bandini, sono due. 391 Dando seguito a una polemica che lo aveva e lo avrebbe visto più volte bersaglio delle invettive di Guido Aristarco come rappresentante delle tendenze deteriori della critica cinematografica “da rotocalco”, Doletti riprende in “Film” l’Invito alle immagini diramato dallo stesso Aristarco e da Walter Ronchi di Pattuglia con l’elenco dei collaboratori annunciati, interrogandosi sui motivi di esclusione di altre e più consolidate firme. La risposta di Aristarco, con fiera rivendicazione generazionale, arriverà il 5 novembre successivo tramite “Il Corriere padano” (“Parole”). 392 Un colpo di pistola (1942) diretto da Renato Castellani; Mastro di posta. Angoscia di padre (Nostalgie, 1937) diretto da Victor Tourjansky; La dama di

Picche (1913) diretto da Baldassarre Negroni oppure La dama di picche (Pikovaja dama, 1916) di Jakov Protazanov; Dubrovsky (1936) diretto da Aleksandr Viktorovic ˇ Ivanovskij condividono l’ispirazione letteraria dalla produzione di Aleksandr Puškin. 393 Lubiov Orlova. 394 Di Amleto Palermi, 1940 – quest’ultimo già recensito da Casiraghi su “Il Popolo di Lombardia” il 20 novembre 1940. 395 Merlusse (1938) diretto da Marcel Pagnol. 396 Diran Chrakian, in arte Indra, poeta armeno vittima del genocidio e tra le prime traduzioni liriche di Viazzi. 397 “Immedesimazione”: concetto base della teoria estetica sviluppata dallo storico dell’arte Wilhelm Worringer, che in Abstraktion und Einfühlung (1908) propone di esaminare l’arte classica e rinascimentale secondo la tendenza all’astrazione geometrica delle forme da un lato e l’empatia/immedesimazioni per le forme organiche e naturali dall’altra, 398 Da Henri Brémond, Prière et poésie, Grasset, Parigi 1926. 399 Gli adattamenti cinematografici diretti da Mario Soldati e Ferdinando Maria Poggioli, La bella addormentata e Addio giovinezza, sono entrambi del 1940. I titoli di Lattuada e Visconti citati tra parentesi sono anticipazioni della stagione cinematografica successiva. 400 Di Gianni Franciolini, 1942. 401 Serenade, del 1937, era circolato in Italia con il titolo di L’ombra dell’altra. Il profilo di Forst potrebbe riferirsi a Guido Guerrasio, Precisazioni su Willy Forst, in “Bianco e nero”, 6, giugno 1943, pp. 10-17. 402 Walter Dirani, collaboratore di Via consolare e componente del gruppo universitari fascisti forlivesi: fu coinvolto in una polemica sulla missione della critica cinematografica con Guido Aristarco (vd. Lettera a Walter Dirani, in “Il Corriere padano”, 16 aprile 1940). Il cordoglio espresso da Viazzi in questa lettera segue probabilmente la lettura di Armando Ravaglioli, In Memoria di Walter Dirani, in “Pattuglia”, 11-12, settembre-ottobre 1942, p. 6. 403 Carlo Bo, Bontempelli, Cedam, Padova 1942; édouard Schuré, Richard Wagner. Son ouvre et son idée, Perrin, Parigi 1895. 404 Oltre al già citato Tutto il mondo ride, Marysa (1935) diretto da Josef Rovenský e Die ewige Maske (1937) diretto da Wiener Hochbaum. 405 Scrittore e drammaturgo dell’Ottocento francese. 406 Sperduta (Afsporet, 1942) diretto da Bodil Ipsen e Lau Lauritzen Jr. 407 Romanzi, rispettivamente, di André Maurois (1928), Jean Giraudoux (1928); Paul Nizan (1938); Léon Blum (1907). 408 L’impareggiabile Godfrey (My Man Godfrey, Gregory La Cava, 1936). 409 You Can’t Take It With You, 1938. In italiano L’Eterna illusione.

410 In Italia Strettamente confidenziale, 1934. 411 Riferimento allo storico contemporaneista Vincenzo Costantini. 412 Lazare Meerson, set designer e assistente di René Clair. 413 Baldo Bandini, Lo scenografo Lazare Meerson, in “Cinema”, 130, 25 novembre 1941, pp. 316-318. 414 Probabile riferimento a Poetica ambientale o della scenografia, in “Bianco e nero”, 3, marzo 1941, pp. 16-23. 415 Verso la vita (1936) diretto da Jean Renoir. 416 La bella brigata (1936). 417 François Mauriac, romanziere e drammaturgo futuro premio Nobel per la letteratura. 418 Da Adriano Tilgher, filosofo e critico teatrale. 419 Si fa riferimento alla vicenda di Parisina Malatesta, cui fu dedicata una versione cinematografica nel 1909 – Parisina. Un amore alla corte di Ferrara del XV sec. diretto da Giuseppe De Liguoro – nonché l’opera omonima del 1913 di Pietro Mascagni, ispirata alla versione byroniana del mito (1816) e con le parole di Gabriele D’Annunzio. 420 Der Florentiner Hut (1939) diretto da Wolfgang Liebeneiner. 421 Anatole France. 422 Jonathan, autore irlandese di poemi e pamphlet satirici. 423 Dipinto di Gregorio Sciltian, artista armeno naturalizzato italiano, esposto alla Biennale di Venezia del 1936. 424 Alexandre Trauner, scenografo di Alba tragica (1939) diretto da Marcel Carné. 425 La rendición de Breda (1634-35) di Diego Velázquez. 426 Françoise Rosay, attrice protagonista de La Kermesse eroica (La Kermesse héroïque, 1935) diretto da Jacques Feyder. 427 Glauco Viazzi, Appunti e problemi per un sistema analitico-classificativo, in “Bianco e nero”, 8, agosto 1941, pp. 36-63. 428 Giancarlo Beria, I due cappelli di paglia, in “Cinema”, 113, 10 marzo 1941, pp. 161-163. 429 Le voyage imaginaire (1926), cit. 430 Un’avventura movimentata (1916) diretto da Mack Sennett. 431 Si fa riferimento alla sequenza iniziale Il disertore (Дезертир-Dezertir, 1933) diretto da Vsevolod Pudovkin. 432 Maurice Utrillo, pittore di Montmartre noto per i suoi paesaggi urbani parigini. 433 In questo caso si parla del romanzo di Eugène Dabit, da cui è tratto il film di Carné.

434 Miracoli 1923-1929. Racconti di Massimo Bontempelli, Mondadori, Milano 1938. 435 Donna nel sole e altri idilli, Mondadori, Milano 1928. 436 Eva ultima, Alberto Stock, Roma 1923. 437 Giro del sole (Viaggio d’Europa, Il viaggio di Colombo e Le ali dell’Ippogrifo), Mondadori, Milano 1941. 438 Piero Bargellini, Città di pittori, Vallecchi, Firenze 1939; Via Larga: 40. Migliaio, Vallecchi, Firenze 1941. 439 Francesco Flora, La poesia ermetica, Laterza, Bari 1942. 440 Rispettivamente: Delitto e castigo (Raskolnikow, 1923); Delitto e castigo (Crime et Châtiment, 1935); Ho ucciso! (Crime and Punishment, 1935). 441 Zuiderzee (1933) e Regen (1929) entrambi diretti da Joris Ivens. 442 Enrico Prampolini, cofirmatario del Manifesto dell’aeropittura futurista del 1929. 443 Si tratta della prima edizione italiana di Kandinsky, curata da Giovanni Antonio Colonna di Cesarò e pubblicata a Roma nel 1940. Ernesto Buonaiuti, sacerdote scomunicato per aver aderito al movimento modernista e docente universitario costretto a lasciare la cattedra di Storia del Cristianesimo all’Università di Roma per aver rifiutato di prestare giuramento al regime fascista, è il direttore della rivista di studi religiosi Religio che dà alle stampe anche i volumi della collana. 444 Elise Ciarenz (Eghishe Çharents) lirista esponente del futurismo armeno. Delle sue Odi Armene a coloro che verranno curerà l’edizione italiana Mario Verdone (Ceschina, Milano 1968). 445 Il circo (Цирк-Cirk, 1936), cit. 446 Per tramite di Viazzi l’invito a partecipare a “Invito alle immagini”, il numero doppio sul cinema cinematografico di Pattuglia giungerà a Casiraghi in data 24 novembre 1942 su carta intestata del giornale e con la firma di Guido Aristarco: “Caro Casiraghi, ho il tuo indirizzo da Guerrasio e da Viazzi. Sarei ben lieto che anche tu collaborassi al nostro numero. Tutti gli invitati hanno aderito […] Il tuo nome non deve mancare”. (Lettera da Guido Aristarco, Mantova 24 novembre 1942, Busta 94, Fondo Casiraghi-Verzegnassi.) 447 Poi sul numero speciale di “Invito alle immagini” in “Pattuglia”. 448 Come in altri casi, qui ci si riferisce al film di Karl Ritter (nell’edizione italiana Sei ore di permesso) con una traduzione letterale del titolo originale Urlaub auf Ehrenwort. 449 Si tratterebbe di La pattuglia (Gonin no sekkohei, 1939) diretto da Tasaka Tomotaka, film giapponese presentato alla sesta edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 1938. 450 Quella citata è l’unica raccolta di liriche pubblicata in vita da Delio Tessa. Il parallelo con Carlo Porta si basa probabilmente, oltre che sull’uso del dialetto

milanese, sul pessimismo di fondo e sull’affezione per il tema della morte condivisi dai due autori. 451 Probabilmente Apologia del cattolicesimo, Formiggini, Roma 1923. 452 Si allude forse al presunto subentrare di Giovanni Mosca nella rubrica di Cinema dedicata alla recensione delle novità di sala e firmata da sempre con lo pseudonimo “Vice”. 453 Oblomov di Ivan Goncˇarov. 454 Verrà poi pubblicato su “Bianco e nero”, 1, gennaio 1943, pp. 33-41. Il nome corretto del regista è in realtà Benjamin Christensen. 455 A eccezione di Città Bianca, di Pasinetti, tutti i documentari citati sono produzioni dell’Istituto Luce attualmente visibili sul sito del relativo archivio: patrimonio.archivioluce.com 456 Comparso su “Bianco e nero”, 11, novembre 1939, pp. 62-70. I titoli citati sono stati diretti da Paolucci per l’Istituto LUCE tra il 1939 e il 1943. Il vero titolo di Accademia S. Cecilia è in realtà Musica a S. Cecilia. 457 Nell’ordine: Condizione di Quasimodo, Società editrice internazionale, Torino 1937; Salvatore Quasimodo, F.lli Parenti, Firenze 1937; Letteratura italiana del Novecento, Le Monnier, Firenze 1940, Scrittori del Novecento, Le Monnier, Firenze 1940. La Vallini in questione è probabilmente Marisa, compagna di Viazzi, che al poeta aveva dedicato più pagine su “Libro e moschetto”. 458 L’ultima trilogia di Pabst, “Cinema”, 142, 25 maggio 1942, pp. 271-273. 459 Con tutta probabilità si parafrasano liberamente le riflessioni pubblicate in Anima e terra (1917/1931) poi in Opere di Carl Gustav Jung, Tomo I: Civiltà in transizione: il periodo fra le due guerre, Bollati Boringhieri, Torino 1998. 460 Louis Jouvet, durante la seconda guerra mondiale emigrò in America Latina per sfuggire all’occupazione nazista. 461 In realtà Drums Along the Mohawk (La più grande avventura, 1939). 462 Lo pseudonimo sotto il quale Søren Kierkegaard pubblica Il concetto dell’angoscia nel 1844. 463 L’articolo a quattro mani uscirà a stretto giro: Il traditore, in “Bianco e nero”, 11-12, novembre-dicembre 1942, pp. 24-35. 464 Proposto da Casiraghi nella lettera del 5 novembre 1942. 465 In “Cinema”, 155, 10 dicembre 1942, pp. 710-711. 466 In “Bianco e nero”, 9, settembre 1940, pp. 61-63. 467 Glauco Viazzi, Poesia e poeticità delle immagini, in “Pattuglia”, 3-4, gennaiofebbraio 1943, p. 6. 468 Aldo, collaboratore di “Cinema”. 469 Luigi Capuana, critico e teorico letterario legato all’esegesi del Verismo. 470 La Fille du puisatier (1940) diretto da Marcel Pagnol.

471 Probabilmente La straniera (L’esclave blanche, 1940) diretto da Marc Sorkin. 472 In realtà il responso verrà spedito solo cinque giorni più avanti e sarà tutt’altro che negativo: “Ho ricevuto l’articolo che va benissimo – scrive Aristarco da Ferrara – Neppure una parola verrà tolta” (Lettera di Guido Aristarco, 30 dicembre 1942, Busta 94, Fondo Casiraghi-Verzegnassi). Funzione della critica apparirà quindi insieme agli altri contributi su “Pattuglia”, “Invito alla immagini”, 2-3, gennaiofebbraio 1943. 473 Glauco Viazzi, Wiene e Dostoevskij, in “Cinema”, 155, 10 dicembre 1942, pp. 710-711. 474 Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Einaudi, Torino 1942. 475 Lirici greci, Edizioni di Corrente, Milano 1940. 476 Giovanni Paolucci è effettivamente stato docente di recitazione al Centro Sperimentale di Cinematografia nella seconda metà degli anni trenta. 477 Archibald Mayo e Alfred Santell, come Ruben prolifici registi attivi nella Hollywood anni trenta. 478 Recensione su Il Fascio il 12 dicembre 1942. 479 Algernon Swinburne, poeta e drammaturgo dell’epoca vittoriana. 480 L’interprete che nel film di Dreyer presta il volto al personaggio di Léone, figlia del castellano. 481 Umberto Barbaro, La prosa cinematografica, in “Bianco e nero”, 8, agosto 1942, pp. 3-13. 482 Per l’edizione Bompiani del 1942 di Charmes (1922). 483 Il postiglione della steppa (Der Postmeister, 1940) diretto da Gustav Ucicky. 484 Desiderio di re (The King Steps Out, 1936) diretto da Josef von Sternberg. 485 Romanzo di Sherwood Anderson del 1925, tradotto da Cesare Pavese per l’edizione italiana di Frassinelli (Torino, 1932). 486 John Millington Synge, drammaturgo irlandese. 487 Una grammatica del film, traduzione dell’originale A Grammar of the Film (1935) a cura di Aldo Paolo Filippino pubblicata da Edizioni di Bianco e nero (Roma 1938). 488 Probabilmente il già citato Giancarlo Beria, I due cappelli di paglia, in “Cinema”, 113, op. cit. 489 Alice Adams (1935) diretto da Alvin Marill. 490 Ancora di Osvaldo Campassi, su “Cinema”, 34, 25 novembre 1937, pp. 338340. 491 Il già citato Lo scenografo Lazare Meerson, in “Cinema”, 130, novembre 1941.

492 Prima parte di un articolo sul ciclo di proiezioni che il Cineguf romano aveva dedicato al cineasta francese (“Bianco e nero”, 4, aprile 1942, pp. 14-27). 493 Nella rubrica “Vecchi film in Museo” di “Cinema”, 60, 25 dicembre 1938, pp. 385-386. 494 Si fa riferimento a Cinema ieri e oggi, Domus, Milano 1932. 495 Autori di storie internazionali del cinema: nell’ordine Georges Charensol (Panorama du Cinema, Kra, Parigi 1930); Léon Moussinac (Panoramique du Cinéma, Au sans pareil, Parigi 1929); Paul Rotha (Celluloid: the Film To-Day, Longmans, Green & Co, Londra 1931); Maurice Bardèche, Robert Brasillach (Histoire du Cinema, Denoël et Steele, Parigi 1935). L’ultimo riferimento è a Carl Vincent, Histoire de l’art cinématographique, Trident, Bruxelles 1939, che verrà tradotta in italiano alla fine degli anni quaranta proprio da Marisa Vallini. 496 Di Mario Camerini (1930) girato “muto” e sonorizzato a posteriori. 497 Quello di pubblicare i contenuti del libro su “Bianco e nero” prima di raccoglierli in un volume per le edizioni della stessa rivista era un suggerimento di Luigi Chiarini in una lettera dattiloscritta del 25 marzo 1942. 498 Da La Leda senza cigno, Treves, Milano 1916. 499 Touche-à-Tout (1935) diretto da Jean Dréville. 500 Di Michael Arlen, pubblicato in Italia da Corbaccio (Milano, 1938) nella traduzione di Mara Fabietti e con la prefazione, appunto, di Marco Ramperti, firma giornalistica e romanziere assai apprezzato negli anni di regime e futuro sostenitore della Repubblica Sociale Italiana. 501 Umberto Bosco, studioso di letteratura rinascimentale e romantica e collaboratore dell’Enciclopedia italiana, fu titolare della cattedra di letteratura italiana all’Università statale di Milano tra il 1942 e il 1945. 502 Filippo de Pisis, pittore e poeta. 503 Zemlja (1930) e Arsenal (1929), entrambi diretti da Aleksandr Petrovic ˇ Dovženko. 504 Gianni Calvi, già redattore a Il Popolo di Lombardia, firma le corrispondenze dal fronte russo per Il Popolo d’Italia tra il 1941 e il 1943 come inviato a seguito della seconda divisione alpina “Tridentina”. 505 Vittorio Sereni, Poesie, Vallecchi, Firenze 1942. 506 Da Salvatore Quasimodo, Nel giusto tempo umano, in Id., Erato e Apollion, Scheiweller, Milano 1936. 507 Film n. 6 / Studio 41 (1940), dalla serie di film astratti di Luigi Veronesi, inaugurata nel 1938 e conclusa con Film n. 13 nel 1980. 508 Pluto’s Judgement Day (1935) diretto da David Hand. 509 Di Clair, Fernand Léger (1924), Man Ray (1928), Hans Richter (1928). 510 È forse da queste revisioni che prende forma più compita quella passione per il surrealismo e per il cinema delle avanguardie che Cristina Bragaglia diagnosticherà

come un’“attrazione sotterranea” anche nella produzione postbellica, quella del Glauco Viazzi fedele al verbo del realismo socialista (Presentazione in Glauco Viazzi, Scritti di cinema 1940-1958, op. cit., p. XIV). 511 Da Salvatore Quasimodo, Già vola il fiore magro, in Id., Nuove poesie, Primi Piani, Milano 1938. 512 Da Imitazione della gioia. 513 Pierre de Ronsard e Joachim du Bellay. Il Roman de la Rose (1200-1240 a.C.) è attribuito a Guillaume de Lorris e Jean de Meung. 514 Oltre ai già noti e a Renato May, futuro autore de Il linguaggio del film (Il Poligono, Milano 1946), vanno annoverati Francesco Luzi e Maurizio Barendson, in quegli anni firme per “Cinema”. 515 Bruno Foscanelli, critico letterario per le riviste del Guf. 516 Probabilmente Renato Simoni, all’epoca critico teatrale per Il Corriere della Sera e già sceneggiatore cinematografico per Alessandrini e Pratelli. 517 Gli pseudonimi utilizzati per firmarsi in diverse occasioni. 518 Codiretto da Guido Guerrasio, Mario Greppi e Attilio Giovannini per il Cineguf di Milano, le cui lavorazioni sono iniziate nel 1938. 519 Ancora da Quasimodo, Imitazione della gioia e Cavalli di luna e di vulcani. 520 Salvatore Quasimodo, Vento a Tindari (1930). 521 Les Visiteurs du soir (1942), distribuito in Italia come L’amore e il diavolo. Un contributo pertinente di Irene Brin risulta pubblicato solo il mese successivo: Irene Brin, Cine Rialto, Cinema, 161, 10 marzo 1943, pp. 137-138. 522 Il dramma di Shanghai (Le drame de Shanghai, 1938), cit. 523 Sta per Jeanne Ney, titolo originale de Il giglio delle tenebre (1927). 524 Probabile riferimento al numero speciale di “Pattuglia”, “Invito alle immagini”, curato da Ronchi e Aristarco, la cui data pubblicazione ufficiale segna effettivamente gennaio-febbraio 1943. 525 Ugo Casiraghi, Interpretazione di Rebecca, in “Bianco e nero”, 10, ottobre 1942, pp. 24-35. 526 Rebecca. La prima moglie, titolo intero del film di Hitchcock; citate tre storiche sale milanesi, ancora attive come cinema “Pace”, cinema “Anteo” e cinema “Tiffany”. 527 Luis de Góngora. 528 Le rire: essai sur la signification du comique, Alcan, Parigi 1913. 529 Di Pietro Paolo Trompeo, critico letterario. 530 Probabilmente il già citato Celluloid. The Film Today e For filmgoers only. The intelligent filmgoer’s guide to the film, Faber&Faber, Londra 1934.

531 Si fa riferimento probabilmente alla risposta a “Studente di Milano” (ovvero Ugo Casiraghi), pubblicata da Nostromo in Capo di Buona Speranza, in “Cinema”, 10 febbraio 1943, p. 94: la richiesta avanzata da Casiraghi era relativa a “una notizia critica sullo stato degli studi e dell’estetica del cinema all’estero”. Nello stesso numero Nostromo risponde anche a “Asiaticus”, alias Glauco Viazzi. 532 Alexandre Arnoux, Cinéma, G. Crès, Parigi 1929. 533 Ugo Tolomei, Le cinéma dans la série des arts, Parenti, Milano 1942. 534 Giovanni Papini, Un uomo finito, Libreria della Voce, Firenze 1913. 535 Probabilmente il riferimento scherzoso è all’omonima canzone di Billie Holiday. 536 Enfasi in originale. 537 “Le incisioni spietate e laboriose di Viazzi” è una frase contenuta in Funzione della Critica, parte della rassegna di “esempi virtuosi” della critica giovane che contempla, fra gli altri, Pasinetti, De Santis, Barbaro, Pasinetti, Puccini, Antonioni, Comencini, Guerrasio, Bandini, Sàbel, Paolella. 538 Joseph-Marie Lo Duca, Histoire du Cinéma, Presses Universitaires de France, Parigi 1942. 539 André Suarès, Cité, nef de Paris, Bernard Grasset, Parigi 1934. 540 Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne, pubblicato in nove volumi tra il 1759 e il 1761; pubblicato per la prima volta in Italia da Formiggini (Milano, 1922). 541 Salvatore Quasimodo, dalla poesia Convalescenza. 542 Pubblicato come Lettera dalla frontiera, in “Libro e moschetto” del 20 marzo 1943. 543 Nel 1949 sarà la traduttrice di Storia del cinema (Garzanti, 1949) di Carl Vincent. 544 Esce effettivamente su “Libro e moschetto” del 17 luglio 1943, in terza pagina a fianco di Il problema dei testi rari firmato da Casiraghi. 545 Galvano della Volpe, Cinema e crisi di civiltà, “Cinema”, 160, 25 febbraio 1943, pp. 104-105, sull’inquadramento del “problema cinema” nell’estetica. 546 La grande prova (Ramuntcho, 1938) diretto da René Barberis. 547 L’auberge rouge (1923) diretto da Jean Epstein. 548 Oreste Del Buono. 549 In realtà l’originale “Vesëlye rebjata” traduce letteralmente come “L’allegra brigata” o “L’allegra compagnia”. 550 Edito dallo stesso Cineguf di Milano nel 1942, è uno degli incunabula dell’editoria cinematografica giovane che costituirà un precedente per collane, biblioteche e altre serie di pubblicazioni specializzate sorte nell’immediato

dopoguerra (cfr. Lorenzo Pellizzari “Poligono e dintorni”, cit.). Dell’altro titolo menzionato da Viazzi non si hanno invece notizie. 551 È interessante notare che la sceneggiatura di Entr’acte sarà oggetto di uno dei primi volumi della Biblioteca cinematografica Il Poligono, pubblicato a Milano nel 1945 a cura dello stesso Viazzi. 552 Il padrone di casa (Du skal ære din hustru), noto anche come L’angelo del focolare, è un film del 1925 diretto da Carl Theodor Dreyer. 553 Jean Benoît-Lévy, regista cinematografico. 554 Jacques de Baroncelli. 555 Verdun, visions d’histoire (1924) diretto da Léon Poirier. 556 Di Claude Autant-Lara, 1933. Pellicola musicale basata sull’adattamento da un’operetta cofirmata da Jacques Prévert. L’attore Jacques Brunius non compare nel cast. 557 Rubriche fotografica e d’attualità, la seconda curata da Pasinetti. 558 Salvatore Quasimodo, dal poema Dalla rocca di Bergamo Alta. 559 In originale Kuhle Wampe oder Wem gehört die Welt (1932) diretto da Slatan Dudow. 560 Pubblicato da Guanda (Modena, 1943). 561 In realtà John Martin Feeney. 562 La brechtiana Opera da tre soldi, trasposta al cinema da Pabst nel 1931. 563 Pubblicata a nome “Vice” nella rubrica “Film di questi giorni”, “Cinema”, 166, 25 maggio 1943, pp. 312-313. 564 Lorenzo Marinese, Andiamo a cinema, Flaccovio, Palermo 1941. 565 Di Mario Bonnard, 1941. 566 Giuseppe Maria Scotese, Introduzione al cinema, Centro Cattolico Cinematografico, Milano 1941. 567 Racconto di Pier Maria Pasinetti pubblicato in Id., L’Ira di Dio, Mondadori, Milano 1942. 568 Carlo Bo, Rivière, Morcelliana, Brescia 1935.

Postfazione – Ricordando Jusik di Cristina Bragaglia Non dimenticherò mai l’incontro con Jusik Achrafian (solo per le lettere Glauco Viazzi), alla fine degli anni settanta. Avevo conosciuto i suoi scritti nei lavori da poco pubblicati sulla cultura cinematografica fascista e dell’immediato dopoguerra, cui mi aveva avviata la collaborazione con Ezio Raimondi. Mi sembrava che non fosse per me uno sconosciuto. Si rivelò invece assai più sfaccettato e interessante di quanto le pagine lette lasciassero intravvedere. Oltre al cinema, di cui era estremamente informato nonostante l’abbandono ufficiale, avevamo il terreno comune della letteratura italiana, dato che io appartenevo al bolognese Dipartimento di Italianistica, dove aveva amici e corrispondenti. Non fu quindi solo l’amicizia con il mio futuro marito (come è stato maliziosamente scritto), ma anche altri gli elementi che lo spinsero a indicarmi all’editore come curatrice del volume dei suoi scritti, non ultimo il fatto che aveva capito che la mia giovinezza e timidezza scientifica avrebbero facilitato il raggiungimento di quella che era la sua proposizione ultima: costruire, lui vivente, una sorta di edizione critica definitiva (l’aggettivo mi venne ripetuto più volte) che racchiudesse la sua esperienza di studioso di cose di cinema. Venni quindi gentilmente e abilmente guidata nella scelta dei brani e la sua biografia (per le parti non scientifiche e non riscontrabili su documenti cartacei) mi venne raccontata, con omissioni che rispondevano alla sua valutazione di quelle esperienze di vita. Aveva ragione Tullio Kezich, nella recensione al volume, a rimproverarmi perché non si parlava di Trieste: ma Jusik non l’aveva citata, quasi fosse stata irrilevante nella sua formazione, al contrario di Milano, come del resto è confermato dalle lettere. Dalle sue parole emergeva invece con forza la sua “armenità”: negli anni settanta l’argomento era ignoto ai più. La storia della fuga dei genitori e l’ampiezza dei massacri mi colpì, al pari dell’introduzione a una cultura che era sopravvissuta a una diaspora secolare e di cui si trovano molte tracce nelle lettere qui raccolte.

L’accoratezza del suo racconto rendeva conto della profondità dell’appartenenza e mi ha portato a interessarmi della cultura armena e del suo cinema, viaggiando in quel paese col pensiero sempre rivolto a Jusik. Tale approfondimento mi ha poi indotto a rileggere diversamente le sue prese di posizioni, indubbiamente dovute al carattere, ma estremizzate dalla coscienza di appartenere a un popolo che inquadra diversamente la dimensione temporale, conscio di appartenere a una storia plurisecolare che intreccia perennemente presente e passato, perché è impossibile dimenticare. Così come è impossibile non prendere posizione: di qui le sue scelte irrevocabili, come l’inesplicabile (per noi) legame tra l’abbandono del Partito comunista, dopo i fatti di Ungheria, e la critica cinematografica. Solo conoscendo l’autentica adesione alla religione degli armeni, trovano spiegazione certi suoi atteggiamenti, sicuramente estranei all’appartenenza al mondo di sinistra degli anni postbellici. C’è una parola che emerge in una delle prime lettere della raccolta: intransigente, posizione che dovrebbe improntare le critiche sue e di Ugo Casiraghi. In realtà a tale atteggiamento si conformerà la sua vita, nel bene e nel male, e spiega forse le parole di Ugo che definisce i suoi giudizi “incisioni spietate e laboriose” (7 marzo 1943). Come spiega i suoi abbandoni: deluso politicamente e al tempo stesso ormai distante da un cinema che cambiava, indifferente a tematiche e stili preferiti. La letteratura stava prevalendo: le lettere rivelano quanto fosse al centro dei suoi interessi già nei primi anni quaranta. Quando uscì Scritti di cinema, i miei colleghi italianisti mi svelarono di quale stima egli godesse da studioso di cose letterarie. Come ogni epistolario, anche questo smaschera aspetti sconosciuti e fa capire quanto diversa era in quegli anni la vita di un giovane: non si può che ammirare la tenacia e l’ardore con cui Ugo e Jusik si dedicano a cinema e letteratura, superando ogni ostacolo, anche quello di vivere ai tempi di una guerra, la cui presenza e drammaticità si avverte solo nel 1943. La passione per il cinema diventa, inconsciamente, una

sorta di ancora di salvezza, in un mondo di certezze apodittiche che si sta sfaldando e sta rivelando la sua fallacia. L’11 febbraio 1943 Jusik, a soli 23 anni, scrive: “Non ho fatto cose importanti, durature. Forse nessuno citerà il Viazzi. Forse, un giorno il Viazzi sparirà… Ma quel che ho fatto, l’ho fatto in tutta sincerità; non per posa; e non per calcolo; e non per ambizione. Per la mia coscienza, questo mi basta”. Non lo si è dimenticato, sia per i saggi, sia per l’umanità e generosità. Conservo ancora la sua lettera di ringraziamento, scritta nel giorno in cui la raccolta dei suoi saggi faceva la sua comparsa in libreria. Me l’aveva spedita assieme a un meraviglioso mazzo di fiori, indirizzata al dottor Bragaglia, omaggio di altri tempi alla mia attività di studiosa. Contraddizioni di un’epoca e di un grande uomo.